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PREMESSA
Problemi della lingua dopo-Bembo: movimenti significativi che hanno interessato le strutture della lingua
italiana nella fase di passaggio da lingua comune improntata sulla scrittura a strumento comunicativo e
espressivo anche di tipo parlato
Seconda-metà del 500 – Inizio 700 → diffusione della lingua scritta unitaria ad opera della chiesa post-
tridentina (Concilio di Trento): si configura sul piano lessicale e
grammaticale un italiano premanzoniano
Dal 600 → il focus si sposta dalla lingua letteraria a quella usata comunemente da scriventi e poi da parlanti
colti
Fatti linguistici nel tempo determinati da interferenze con determinati modelli linguistico-culturali:
1. LATINO MEDIEVALE e FRANCESE ANTICO nei primi prosatori
2. LATINO UMANISTICO e nei trattatisti del Quattrocento
3. FRANCESE MODERNO negli scritti di viaggio, politici del 600 e degli illuministi del 700
4. INGLESE AMERICANO nelle lingue contemporanee
Il francese moderno non agisce solo sul lessico ma anche sulle strutture sintattiche e così i prestiti integrali
dall’inglese e da altre lingue → la lingua ricevente da parte sua assorbe il carico in modi e tempi diversi.
PARTE PRIMA
LA FORMAZIONE DELLA LINGUA MODERNA
VINCENZO BORGHINI
Iniziatore della filologia dei testi antichi → Nuovo rapporto con la lingua dei testi medievali
Annotationi e discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron (1573) → cantiere filologico all’edizione giuntina
del Decameron (Giunti, 1573) detta “Dei Deputati”.
Il Decameron era stato inserito nell'Indice dei libri proibiti (1564) dopo il Concilio di Trento. Dopo l'edizione
del Borghini, si ha quella, ampiamente censurata, di Leonardo Salviati (1582), basata sul testo del Borghini
e che, più volte riedita, sarà l’edizione standard nell'età della Controriforma.
EPOCA PREBORGHINIANA: Le edizioni decameroniane prima del Borghini sono filologicamente
inattendibili, poiché non seguivano criteri scientifici
Il lavoro del Borghini costituì un passo avanti nella filologia e seguiva 4 fasi:
1. ricostruzione della diffusione manoscritta
2. raccolta dei manoscritti superstiti
3. valutazione del grado di attendibilità e scelta di un codice-base autorevole
4. eliminazione sistematica delle interpolazioni dei copisti
Il Borghini fece anche un'edizione del Novellino (1572) dimostrandosi il primo vero studioso in senso
moderno dei testi 200/300 e della loro lingua. Gli va riconosciuta "la lode di aver iniziato lo studio della
lingua trecentesca tutta intiera"
→ studio ampliato a tanti autori dell’epoca, oltre Dante, Petrarca e Boccaccio, includendo anche le scritture
domestiche e familiari e dimostrando che esiste una "lingua antica" con caratteristiche sintattiche e lessicali
diverse dalla "lingua moderna" e quindi per recuperare la vera lingua trecentesca integralmente, occorreva
guardare ai testi antichi come linguisticamente diversi, portatori di alterità piuttosto che di consonanza
con gli usi correnti ai nostri tempi.
Diversità non solo lessicale ma anche sintattica dei testi 300 travisata dai copisti
ES: Lettera intorno a’ manoscritti antichi
Interessanti i rilievi del Borghini sulla sintassi del Decameron: la presenza frequente di anacoluti che
attribuisce a un "vezzo della nostra favella"; alcuni usi particolari della congiunzione CHE ripetuta dopo le
subordinate incidentali o usata per introdurre una completiva all’infinito.
Dalla prima metà del 600 → inizia a percepirsi una chiara distinzione tra lingua antica (medievale) e lingua
moderna (umanistico-rinascimentale) non più per criteri di restauro filologico ma grazia a una nuova
coscienza di stadi diacronici antagonisti.
1. critiche "interne", cioè di letterati, per la mancanza di parole attestate anche in autori di prestigio o per
la presenza di altre non più correnti → fio ad 800 inoltrato rappresentano il dibattito centrale intorno alla
norma nella storia dell’italiano dal 500 in poi (vedi Leopardi)
2. critiche "esterne", cioè di intellettuali, scienziati e altri professionisti, per la mancanza di termini
specialistici o del genere intellettuale entrati nella lingua italiana di conversazione colta e civile post 300 →
idee illuministiche del gruppo del caffè dei fratelli Verri con obiezioni extraletterarie (Rinunzia avanti notaio
al Vocabolario della Crusca, 1764) sancisce il distacco della Crusca dai movimenti evolutivi della società
italiana e il suo isolamento negli orizzonti letterari.
3 EDIZIONI
1. Venezia 1612: volume unico grande formato → seguono polemiche che fanno allargare il canone degli
autori citati e delle definizioni spesso riferite a significati non più correnti (I “citati” erano 289 testi che
costituivano il corpus lemmario: opere di grandi trecentisti toscani e altre opere anonime minori del 300 o
di autori toscani successivi ma trecentisti, come Bembo e Ariosto).
2. Venezia, 1623 → edizione corretta
3. Firenze, 1691 → aggiornata e corretta, contando con la partecipazione di letterati e scienziati che
l'ampliarono inserendo termini tecnici e scientifici e aggiungendo almeno 50 autori di riferimento anche
moderni (Tasso, Galilei, Castiglione, Pallavicino) in assenza degli antichi (con anche false attestazioni).
INNOVAZIONE: la Crusca s’impone per un metodo lessicografico che, pur nelle incoerenze, può essere
considerato un passo avanti (pionieristico) verso le tecniche moderne di registrazione delle parole.
CRITERI INNOVATIVI:
1. si evita di inserire. all'interno della voce trattazioni grammaticali
2. cura nella definizione usando uno o più sinonimi;
3. vengono registrati come voci solo quei participi equivalenti a un nome pieno:
4. si tipizzano con definitori stabili le definizioni di alcuni derivato (es. parole in -mento o -tore)
DIFETTI (prassi cinquecentesca):
1. la genericità di alcune definizioni per termini zoologici o botanici (coccodrillo > animale a con 4 piedi e di
color giallo…)
2. la lemmatizzazione (registrazione di una parola) principale nella forma arcaica mentre la forma corrente
è un semplice rinvio → le forme post-trecentesche sono trattate come fonti secondarie meno valide delle
antiche
MERITO → aver fissato in una forma tendenzialmente stabile-normativa l'aspetto grafico di numerose
parole ancora oscillanti negli usi cinquecenteschi → riduzione drastica delle oscillazioni ortografiche
primoseicentesche → I letterati seguono le norme delle scelte ortografiche del Salviati:
a. Regolarizza l'uso dell' H etimologica
b. grafia zi al posto di ti (vizio, lezione - vitio, letione):
c. doppia Z (razzo, mezzo)
d. EX reso con es. (esempio)
e. grafie stabili nelle doppie (fabbro, commedia, femmina…) o nelle scempie (libro, fumo, dopo..)
→ Vengono scelte varianti grafiche che rappresenteranno la forma standard di alcune parole nell'italiano
premanzoniano (gramatica, comento, proffilo, ommetere, diffinire… in contrasto con gli esiti successivi)
3. MODERNISTI
Critica all’Accademia della Crusca attraverso le postille alla 1° e 2° ed. del vocabolario (in linea con la
critica di Paolo Beni, 1552-1625) → CORRENTE MODERNISTA DEL PRIMO 600 insofferente alle scelte
arcaizzanti e fiorentiniste degli accademici e della tradizione linguistico-letteraria non in sintonia con
l’attualità (nel lessico e nel modello di prosa e di sintassi boccacciana)
→ Antifiorentinismo, antiarcaismo e rifiuto di un modello di lingua non aperto alle innovazioni e non
compatibile con la lingua comune:
3.2 L’ “Anticrusca” di Paolo Beni, trattato del 1612 (pubb. Solo la 1° parte)
Sostenitore del poema moderno del Tasso su quello degli antichi greco-romani, critica il lessico, la sintassi
e la prosa del Boccaccio, punto di riferimento del programma trecentista e arcaizzante della Crusca.
Nel trattato Beni si rivolge a prosatori che vogliano parlar o scrivere in italiano non uno stile dolce e purgato
e si chiede, in forma dialogica, se solo la lingua del Boccaccio sia pura regolata e gentile e quella coeva a
confronto sia rozza e inculta. Poi analizza le voci boccacciane disusate, censurando forme, in accordo col
Tassoni, non più usabili nella prosa moderna.
→ Più che nel lessico si concentra nello stile e nella sintassi (periodi complessi e polifrastici) → mette a
confronto l’oscurità della prosa boccacciana (oscura e confusa) dei “gonfi periodi” con la facilità
comunicativa di un testo del 500 (del Tolomei):
- Il modello di prosa latineggiante, fortemente ipotattica (di cui il Bembo negli Asolani era stato il
maggior interprete), viene rifiutato in favore di uno stile sintattico meno artificioso, lineare.
- Critica ai tratti stilistici-sintattici boccacciani (accusativo con infinito) che “offendono le orecchie”
- È nella sintassi di collegamento interfrasale (rapporti non gerarchizzati tra proposizioni
sovraordinate e subordinate e modi irregolari di coordinare tra loro proposizioni sintatticamente non
paritetiche) che emergono differenze strutturali e fattori di discontinuità tra la lingua medievale e
una nuova maniera di costruire il periodo che si era imposta nella prosa colta umanistico-
rinascimentale → i cortocircuiti del collegamento interfrasale (non razionalizzazione dei legami
interfrasali) si definiscono anacoluti (per esempio uso a sproposito del che o della e in casi non
paritattici, creando dislivelli sintattici)
* ANACOLUTO: tema sospeso: costrutto retorico in cui non è rispettata la coesione tra le parti della
frase. È una rottura della regolarità sintattica della frase presente soprattutto nella lingua parlata.
→ Per ovviare a questi anacoluti, Beni propone di ristrutturare i legami interfrasali attraverso la
cancellazione di elementi funzionali ridondanti (complementatori, congiunzioni copulative, ecc.) o di
ristrutturare la sintassi fino a riscrivere complessivamente il testo trecentesco.
3.3 Riscrivere il " Decameron " in lingua moderna. Osservazioni del Beni.
Il Boccaccio quando imita lo stile ipotattico del latino classico incontra difficoltà:
1. il periodare ampio e complesso appare inadeguato all'argomento di alcune novelle che richiederebbero
una sintassi più lineare
2. lo stile ipotattico latino non può essere riprodotto nell'italiano, che possiede una diversa funzionalità e
distribuzione di elementi morfologici → tipologicamente più "analitico", l’italiano necessita di un
maggior numero di parole e di elementi funzionali per esprimere una stessa unità di significato in un
unico periodo
3. la progettazione della frase deve considerare la quantità degli elementi memorizzabili, perciò un numero
eccessivo di parole o incisi, così come gli improvvisi cambi di progettazione del discorso, diminuiscono il
grado di comprensione, chiarezza e leggibilità del testo.
NE CONSEGUE la necessità di riscrivere alcuni passi decameroniani traducendoli in una sintassi più lineare
e moderna che ne riduca l’estensione del periodo a poche frasi ben saldate e coese, cancellando i segnali
grammaticali ridondanti (congiunzioni e complementatori) e introducendo (anche ex novo) verbi finiti al
posto di gerundi e infiniti, serializzando le sfilze di subordinate circostanziali o gli incisi parentetici
(rendendoli dipendenti dalla reggente)… → SU tali basi, nell’ Anticrusca Beni sottopone molti passi
decameroniani a "test di riscrittura" come vero e proprio esperimento di traduzione dall’italiano all’altro
ESEMPIO della 3° novella della 1° giornata
- Il testo del 300 ha un’unica struttura polifrastica enormemente dilatata: si apre con un soggetto logico
(Il Saladino) che è il centro tematico dell’enunciato “in sospeso”, cioè in disaccordo sintattico col verbo
della reggente. Ad esso seguono proposizioni…
- Beni riformula l’intero periodo e lo scinde in 4 frasi complesse autonome che condividono un soggetto
sintattico identico (Il Saladino) che è il centro tematico dei singoli enunciati; alleggerisce il carico
ipotattico interrompendo la serie di subordinate gerundiali del testo fonte, anche attraverso le pause
della punteggiatura
- Nonostante la punteggiatura e l’aspetto grafico, si tratta di una riscrittura moderna → traduzione
intralinguistica
RISULTATO: crea una NUOVO TESTO con nuove regole grammaticali, dove la sintassi contribuisce a
esplicitare in maniera logica il contenuto enunciato → La segmentazione della sintassi polifrastica in
unità minori coordinate produce un effetto positivo aumentando la comprensione e la leggibilità del
testo.
CAPITOLO II
Tendenze della lingua colta: al di fuori del concetto letterario di "barocco" si possono analizzare le spinte
innovative effettivamente operanti nella lingua scritta del periodo destinate a ripercuotersi sullo sviluppo
dell'italiano successivo.
→ Sarà presa in esame la lingua della trattatistica di vario argomento, mentre gli
esempi più letterari ci verranno dalla prosa narrativa o dall'oratoria sacra o altro.
Tassoni e Beni hanno mostrato che la sintassi superiore costituisce il punto nevralgico per misurare la
differenza fra la prosa antica e la moderna. Nella prima metà del 600 questa distanza si fa più profonda
interessando la sintassi ipotattica e latineggiante della prosa colta umanistico-rinascimentale.
Come esempio di tale prosa argomentativa prendiamo ad l'inizio del Galateo di Giovanni della Casa
→ Impianto sintattico: periodo molto articolato: 92 tra parole piene e vuote o funzionali, una proposizione
reggente attorno a cui ruotano 15 prop. subordinate varie (periodo onnicmprensivo che tiene legate molte
subordinate e le inframezza con molte accidentali che aprono parentesi nella linea principale del discorso)
per cui il canale circostanziale (proposizioni con modi indefiniti) prende il sopravvento su sul canale eventivo
(modi finiti)
→ Strutture periodali del genere entrano in crisi nella prima metà del 600 (anche se ci saranno dei
continuatori – classicisti – fino al primo 800) --- si contrappone ad esse un modo diverso di costruire il periodo,
più sciolto e disinvolto, meno legato dai vincoli grammaticali, costituito da parti mediamente brevi, brevissimi
in generi diversi (prosa, oratoria, lettere private).
Segnalano questo aspetto Traiano Boccalini nei Ragguagli di Parnaso (1612) e Agostino Mascardi nel trattato
Dell'arte istorica (1636) chiamando “dicitura spezzata” (distinta da difetti di legatura, rotta, in cui ad ogni
terza o quarta parola c’è un punto) lo stile sintattico moderno.
ESEMPI della maniera moderna di costruire il periodo comune alla prosa colta delle lingue europee, a partire
da 3 testi della trattatistica maggiore del 600
Grandi autori stranieri (Montaigne, Pascal ecc.) recuperando il modello di stile conciso di autori classici
(Seneca, Tacito) contribuiscono a dare prestigio al periodo breve e a renderlo più adeguato ad esprimere il
pensiero in movimento. Questa tipologia di periodo, dall’andamento lineare e moderno vicino alla
brevilinearità de linguaggio colloquiale, viene chiamata: style coupè, curt period, loose period (periodo
sciolto, slegato).
1. Lancellotti, L’Oggidì, ovvero il mondo non peggiore né più calamitoso del passato. Spunto polemico di u
autore modernista contro i critici dell’hoggidì si articola in frecciate contro chi si lamenta dei mala tempora
del presente. Sintatticamente è costituito da frasi accostate senza subordinazioni profonde mostrando una
disinvolta modernità con l'uso insistito di incisi retorici (" e chi lo crederebbe mai?" "che so io?") anche
ripetuti in serie che chiamano il lettore a partecipare. il filo del discorso rimane costantemente focalizzato
sui centri tematici che si susseguono "a catena". Questo stile esclamativo e un po' enfatico si ritrova in tutta
la prosa colta anche narrativa del 700, con punte massime nell'oratoria sacra di Paolo Ségneri, punto max del
genere omiletico (tipico dell'omelia) → di fatto i predicatori si erano impegnati per primi a fare un uso
pubblico della lingua (linearità della lingua parlata), "a misura di polmone" come definì dal Leopardi
per indicare quest'oratoria sacra e in genere lo stile sintattico del francese moderno, paragonato al parlare
sentenzioso e conciso, a una forma più lineare e brevilinea.
La forma più lineare e brevilinea è in sintonia con la tendenza moderna a disarticolare la sintassi superiore in
moduli più semplici che si consoliderà nel corso del Seicento e soprattutto del 700 anche per la sollecitazione
di modelli stranieri.
Comunque, i due stili (stile periodico a struttura circolare e stile moderno a progressione lineare) possono
ancora coesistere in autori del 600, ne è esempio uno dei maggiori prosatori, Daniello Bartoli.
Sintagma nominale
Il tratto più interessante che riguarda la frase semplice e i rapporti sintattici dei sui costituenti è che: il
nome acquista maggiore autonomia nei confronti del verbo (infatti è stato ipotizzato un legame fra lo stile
nominale della prosa moderna e la produzione scritta dei maggiori scienziati seicenteschi, a partire da
Galileo).
In diverse frasi di Galileo, la funzione di centro della frase è spostata sul nome dell’azione, non sul verbo di
modo finito costituendo un nuovo modulo sintattico (fenomeno che caratterizza tutta la prosa colta non
solo scientifica del 600)
→ In pratica il nome astratto diventa il centro tematico di un enunciato, secondo un costrutto già
presente nel passato, ma che diviene ora corrente e normale nei testi colti. → Esempi dall’epistolario di
Fulvio Testi (1593-1646) che riflettono una nuova mentalità cosmopolitica ed europeizzante del 600
→ Nella lingua scientifica appaiono serie di sintagmi, tipici galileiani, come “il moto generale diurno, la
sfera celeste immobile ecc.” dove al nome si giustappongono 2 aggettivi di cui il 2° specifica il significato del
1°, oppure la giustapposizione di una coppia di sostantivi, dove il secondo sostituisce una frase relativa (il
cerchio estremo terminator per “con cui termina”)
Sintagma verbale
Per esprimere il “futuro nel passato” all’uso tradizionale del condizionale semplice si affianca quello del
condizionale composto (che continua ad essere usato fino ai promessi sposi): “disse che verrebbe - disse
che sarebbe venuto” Nel 600 gli scriventi colti lo usano quando l’avvenimento futuro era annunciato come
certo e probabilmente lo compirà il soggetto stesso, cancellando le sfumature d’incertezza o potenzialità.
Gli storiografi ne fanno uso frequente (vedi Istoria tridentina di Paolo Sarpi 1619)
Anche nel lessico si conferma il carattere moderno e innovativo dell’italiano seicentesco, in contrasto con
la fama di secolo di decadenza e crisi culturale. Già nel Tassoni ma poi sempre di più si usano parole non
presenti negli autori classici.
Anche in questo periodo le trasformazioni linguistiche più significative sono strettamente legate a
fenomeni culturali, sociali o antropologici.
NUOVA SENSIBILITÀ COSMOPOLITA: L’uomo di lettere non è più esclusivamente tale, a differenza del
secolo precedente → la circolazione delle idee investe ogni campo del sapere (scienza, diritto, economia) e
trova interesse per ciò che è diverso, esotico, non convenzionale, come l’uso di termini stranieri (prima
presenti in pochi relatori di viaggio) nella forma originale - prestito integrale – soprattutto francesi
(egemonia culturale francese) ma anche inglesi o spagnoli: framboise, canot, avances, boutades,
charmant…
Sempre dal francese provengono prestiti lessicali integrati tramite adattamento e calco semantico (non
integrale) --- Es: giornale-giornalista, che prima indicava un registro contabile sinonimo di diario, sul
modello francese a partire da metà 600, su modello francese (“journal”) indica il titolo di pubblicazioni
periodiche letterarie; moda, parola assunta ex novo dal francese poiché prima non esisteva (e annesse: alla
moda, ultima moda); parrucca, che passa da “capigliatura naturale” a “capigliatura posticcia”;
libertino/libertinaggio/libertinismo, che non riguarda aspetti esteriori ma attitudine mentale moderna e
anticonvenzionale: in Francia erano liberi pensatori, anticonvenzionali, contestatori delle credenze del
passato → in Italia prima significava schiavo affrancato o fautore di libere istituzioni e poi, nel 600, assume
significato negativo, da liberi pensatori ad atei, licenziosi, dissoluti che dura tutt’oggi.
Le innovazioni più significative del lessico seicentesco non si limitano ai prestiti stranieri → Anche
all’interno della lingua avviene un ricambio e un aumento di vocaboli attraverso i meccanismi di
formazione delle parole, prefissi, suffissi, composizioni (tra morfologia e lessico).
→ Aumentano gli alterati, in parte inventati da scrittori e letterati di successo in parte come possibilità
e “ricchezza della lingua”.
→ Francesco Redi nel suo “Bacco in Toscana” (1685) osserva che a differenza del francese, l’italiano fa
un uso “smodato” dei diminutivi (in senso neutro o denigratorio come “dottorello”, “cavalierotto”,
“poetuccio”, “omaccino”)
Sono procedimenti neoformativi ereditati dalla lingua tre-cinquecentesca, che ora si intensificano ma che
si diraderanno progressivamente e nettamente durante l’800.
Tutto il settore della suffissazione e prefissazione è molto attivo con formazioni iperboliche (arci -
freddissimo) che richiamano al gusto del secolo per la sottolineatura enfatica riflessa nei frequenti i
superlativi nei sostantivi (padronissimo) e negli aggettivi (ottimissimo), avverbi (a propositissimo), pronomi
(luissimo).
- Suffissi importanti e duraturi; -ista, -ismo (dal francese).
- Nella composizione di termini scientifici diventano produttivi i prefissoidi o suffissoidi, -proto, -
pseudo, -semi, -logia, -grafia che progressivamente estendono il loro ambito anche fuori dal
contesto scientifico.
Il latino per tutto il 600 e oltre rimane la lingua del diritto. Nonostante i primi documenti dei volgari antichi
riguardavano atti notarili o testimonianze davanti a un giudice o in tribunale (oppure i bandi, le “gride” dei
banditori ecc. le leggi continuano ad avere come modelli i testi della cultura giuridica occidentale: il Corpus
iuris civilis (raccolta di tutto il diritto civile romano (528-533) del giurista Triboniano voluta dal l’imperatore
bizantino Giustiniano) e il Corpus iuris canonici (Complesso delle norme del diritto canonico della Chiesa
cattolica dal 1582 al 1918)
→ nel campo del diritto la scelta del latino permetteva di usare una specie di lingua standardizzata
internazionale molto utile per una scienza normativa come la giurisprudenza che richiedeva codici certi e non
oscillanti --- si trattava di un modello di lingua fortemente elitario, quasi del tutto incomprensibile alle
persone comuni, anche se discretamente colte. Alla figura del maestro umanista di grammatica
corrispondeva quella del “leguleio” = (uomo di legge cavilloso e sofisticato, dottor Azzeccagarbugli
manzoniano) parola coniata nel 600
→ Imbarazzante che Emanuele Filiberto di Savoia, principe di Piemonte, nel 1560 prescrisse nello stato
sabaudo l’uso del volgare nei settori dell’amministrazione, della giustizia e degli atti notarili, sull’esempio
del re di Francia Francesco I che l’aveva sostituito il latino col francese (1539), ma rimase un fatto eccezionale
in Italia (fino a Napoleone, 1806).
→ Un’importante novità di De Luca (che aveva sempre scritto in latino, raccogliendo la sua vasta
produzione in un trattato di ben 15 libri, Theatrum veritas et iustitiae), nella quale realizzò il progetto
di redigere in italiano una raccolta di “tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale, nelle cose
più ricevute in pratica”. Tale scelta fu rivoluzionaria e innovativa (più di quanto lo fu l’opera fisica e
matematica in volgare di Galileo)
→ Italianizzazione del diritto rinunciando al latino come lingua universale (nonostante tale
tradizione si manterrà fino all’800, con il francese del codice napoleonico) che rispondeva a un ideale
di chiarezza e già illuministico di mettere sullo stesso piano chi legifera e chi è sottoposto alle leggi,
almeno in teoria. Al fine di produrre una lingua chiara e comprensibile, l’opera si basa su un italiano
moderato e avverso al toscano letterario e alla Crusca (senza badare se i vocaboli sono usati o no da
Dante, Petrarca o Boccaccio… che si basi sull’uso corrente e non a quello antico)
→ opera che fonda il lessico tecnico del diritto dell’italiano moderno: molte voci di ambito giuridico
o di settori connessi (economia, burocrazia, amministrazione statale ecc.) → i termini giuridici hanno
forte impatto sulla collettività (successione di beni, eredità) e i termini italiano risultano quasi sempre
una traduzione molto fedele della base greca o latina, spesso ecclesiastica. Altre parole designano
rami della professione poi entrati nell’uso specifico.
→ Molto importanti sono i vocaboli di eredità feudale, oggi sopravvissuti come termini storici:
allodiale (possesso non vincolato del feudo).
Anche se fino a inizi 800 il latino rimarrà la lingua del diritto, un numero sempre maggiore di opere giuridiche
scelgono l’italiano (forse sollecitate da quest’opera eccezionale).
Scipione Maffei critica come la Crusca nelle prime 4 edizioni abbia ignorato il lessico giuridico di De Luca fino
a metà 700 → solo nel corso dell’800 finalmente in due dizionari della lingua italiana e l’ultima edizione del
V. della Crusca (5° ed.) incorporano numerose voci tratte da Il dottor volgare.
CAPITOLO III
La chiesa postconciliare è stata il principale vettore di italografia: dopo il Concilio di Trento (1546-1563)
attraverso il sistema scolastico per la formazione del clero, la Chiesa è stata il principale diffusore di alcuni
standard ortografici e grammaticali del modello toscano-letterario cinquecentesco valido per l’uso scritto
generale, marginalizzando progressivamente le tradizioni locali delle scritture non letterarie o private
(difficile stabilire se ha avuto anche influenza nell’italiano parlato).
La controffensiva della Controriforma si ripercuote in tutti i campi della società, mettendo in moto una
macchina propagandistica (il termine propaganda deriva da una delle congregazioni, De propaganda
fide)per cui alcuni nuovi ordini religiosi (cappuccini, gesuiti, carmelitani, barnabiti...) operano nella società
dal basso (predicazione) e dall’alto (scolarizzazione del clero e delle classi agiate)
Si istituiscono delle consuetudini come i registri parrocchiali, prototipo dei moderni uffici anagrafe
(battesimi, cresime, matrimoni, morti, con conseguente stabilizzazione dei cognomi), stabilizzando per
esempio i cognomi
Il controllo delle coscienze che parte dall’insegnamento scolastico prevede indicazioni precise sulla lettura
della bibbia: la lettura delle Sacre scritture è affidata solo a chi sa il latino (ecclesiastici), il Sant’Uffizio
controlla e autorizza la stampa delle bibbie in volgare, l’Indice dei libri proibiti (immorali) controlla e
censura il mercato librario.
→ L’italiano scritto di matrice bembiana inizia a espandersi oltre l’ambito strettamente letterario
attraverso la predicazione e l’insegnamento diretto nelle scuole seminariali.
Oltre al V. della Crusca come per la forma grafica delle parole, si diffondono le grammatiche, che però
rimangono piuttosto chiuse alle innovazioni → Famose le Regole ed osservazioni della lingua toscana
ridotte a metodo di Salvatore Corticelli (1745) considerata la 1° specificamente rivolta alla scuola, destinata
ai seminaristi di Bologna.
1. Il predicatore di F. Panigarola
“Il Predicatore” (1609) è un trattato di oratoria sacra del francescano Francesco Panigarola (controriformista)
che vuole adattare i precetti dell’oratoria classica alla predicazione in volgare. Dentro un mirato programma
di cristianizzazione della retorica, analizziamo qui la parte dedicata alla “lingua che ha da adoperare il
predicatore italiano”
→ Nel trattare la questione della lingua si respinge la posizione italianista e cortigiana per accogliere il
modello arcaizzante del Bembo, ma nella sua variante moderata (posizione del Varchi) in cui si accoglie la
richiesta di conciliare il fiorentino “vivo” con quello “letterario” del 300.
Ma per realizzare il suo programma, più che le posizioni teoriche, Panigarola suggerisce modalità operative
per la scelta di uno specifico strumento comunicativo da usare nella pratica della predicazione religiosa
→ Il fiorentino per i suoi modelli letterari è la lingua “più pura, corretta e bella” per questo è la scelta giusta
per adattarsi alla predicazione
→ Interessante il fatto che contenga la testimonianza dei primi usi di toscano di chi toscano non è
(testimonianza di una suora fiorentina che sente la lingua di un francescano milanese, che è tipo un toscano
lingua franca, linguaggio mercantile o itinerante che sta alla base degli italiani regionali parlati)
Nel suo programma di toscanizzazione, Panigarola dà consigli pratici su come usare la lingua toscana nel
modo più efficace: per farsi facilmente comprendere dall’uditori il predicatore dovrà evitare
Dunque, nonostante si adotti il modello toscano, esso viene “spogliato di quei vocaboli o modi di dire che
non ne hanno varcato i confini; la scelta non è indicata dai buoni scrittori o grammatici ma in base all’uso
che ne fanno i buoni predicatori e i buoni parlanti delle varie regioni in cui il predicatore va a parlare.
ES: L’uomo apostolico istruito nella sua vocazione al pulpito per il ministero della sacra eloquenza, 1729del
cappuccino Gaetano Maria da Bergamo (non ci importa se una parola sia stata detta da Dante, Petrarca o
Boccaccio, noi dobbiamo preoccuparci che sia capita da qualunque persona del popolo. Per quanto bello se
un vocabolo è incomprensibile non ci serve. Oltre ad esser comprensibili, poi, devono esser consuetudinari
dei buoni oratori e dei colti)
→ DUNQUE si sovrappone al toscano del Bembo, progressivamente, nelle forme retoricamente controllate
di sermo cotidianus (latino parlato dal popolo e quindi parlata popolare) l’italiano della chiesa.
→ Importanza dei testi su questioni lessicali e grammaticali di Federico Borromeo (1564-1631) arcivescovo
(Promessi Sposi) di Milano, coltissimo umanista e nelle scienze ed arti: fondò la Biblioteca ambrosiana,
impegnato nelle opere di carità assistenziale (peste) e della Controriforma, si dedicò alla formazione
scolastica dei religiosi: istituì un collegio trilingue (greco, latino e toscano) per i sacerdoti che insegnavano
nei seminari applicando anche al toscano il rigoroso metodo grammaticale dello studio in e del latino dei
gesuiti (Ratio atque institutio studiorum).
Scrive Osservazioni sopra le novelle (Decameron) e Avertimenti per la lingua toscana dove commenta con
note vocaboli, forme e costrutti caduti in disuso e segnala accanto alla forma tradizionale, quella più corrente
– cioè le variazioni diacroniche dell’uso (attenzione professionale) finalizzate al bisogno pratico di risolvere
molte incertezze di chi faceva un uso professionale della lingua - (come i modernisti Beni e Tassoni),
nonostante ammiri la lingua dei trecentisti toscani modello di lingua elegante → quindi dà testimonianze
diverse per i livelli di lingua d’uso per l’uso corretto negli impieghi pubblici, con indicazioni sulla grafia delle
parole e sulla morfologia dove si censurano forme in uso in scriventi non toscani (articoli: il e non el, del e
non dil, nello e non ne lo…; verbi: possiamo e non potiamo, dovremmo e non dovressimo, bere e non bevere;
clitici: me lo e non lo mi)
Fin dal medioevo la predicazione religiosa ha rappresentato un importante canale di diffusione del volgare
come strumento comunicativo, in quanto “lingua pubblica” non strettamente letteraria → funzione di
tramite tra lingua colta toscano-letteraria e masse analfabete svolta istituzionalmente dalla Chiesa che si
rafforza in epoca postconciliare, soprattutto con l’intensificarsi della pratica missionaria e dell’istruzione di
base dei sacerdoti.
Sant’Alfonso de’ Liguori → Autore prolifico in italiano e in latino, fonda la Congregazione dei Redentoristi
(Salerno, 1732) detti “liguorini” per le modalità del piano pedagogico segnando uno dei tentativi più
importanti della Chiesa postconciliare nel campo dell’istruzione e della predicazione rivolta ai ceti più
bassi.
Adozione di un registro non troppo aulico, piuttosto familiare, dallo stile e lingua più comuni e comunicativi
per comunicare con la popolazione analfabeta o poco istruita con una lingua dai tratti sovraregionali nel
deciso rifiuto del dialetto → rispetto alla pedagogia dall’alto di Borromeo o Panigarola, Sant’Alfonso
predilige uno stile comune e comunicativo (uso di parole popolari ed usuali)
- Selva di materie predicabili ed istruttive: “le parole debbon essere popolari ed usuali, i periodi corti e
sciolti imitando il modo di ragionare delle persone” e “nelle prediche non si parla solo ai dotti ma anche ai
rozzi”. Si promuove una lingua dai tratti sovraregionali con rifiuto del dialetto.
- Lettera del 1773: Liguori fornisce indicazioni per la stesura di un sermone che filtri il lessico di tradizione
toscanista e letteraria in favore di parole popolari ed usali, redigendo regole chiare e precise intorno ai
dubbi che potevano nascere nel settore dell’ortografia e della grammatica
→ I brevi avvertimenti di grammatica e aritmetica (breviario grammaticale essenziale a cui seguono regole
aritmetiche) destinato a un clero poco alfabetizzato delle campagne sulla base di una pedagogia
controriformistica di base umanistica capace di fare a meno della lingua letteraria quando ci si rivolge a
utenti bisognosi di assimilare le basi dell’italiano.
Parte grammaticale basata su varie fonti (testi normativi) e divisa in 10 capitoli per argomenti:
1. pronomi
2. articoli
3. verbi
4. nomi e avverbi
5. accenti
6. apostrofo
7. Lettere maiuscole
8. punti e virgole
9. divisione sillabica
10. grafia delle parole latine
Probabilmente si rifà ai nuovi metodi di insegnamento della grammatica sperimentati in Francia della
Grammaire generale et raisonné di Port-Royal, nei metodi didattici: schema nitido della trattazione, il
partire dalla citazione per poi spiegare la regola grammaticale, usare esempi non tratti dagli autori ma dalla
competenza sincronica dello scrivente → diventa la prima grammatica pensata per la scuola.
Dai documenti dell’epoca emerge che ai primi del 600 l’italiano dappertutto era la lingua di comunicazione
scritta nei diversi livelli (pubblici, privati, formali, informali) della società e uno motore importante del
processo di italianizzazione è la Chiesa postconciliare, attraverso la predicazione, le scuole di dottrina
cristiana, le scuole parrocchiali e i collegi degli ordini religiosi.
1. Lettera di una religiosa di media cultura indirizzata al Cardinale Borromeo sulle emozioni suscitate
dall’arrivo di un mazzo di rose da lui inviate al convento milanese (ricchezza di dettagli tutta femminile)
2. Lettera di suore al Cardinale Borromeo sulle visite inopportune del vicario al convento
→ Più che il modello grafico latineggiante intervengono consuetudini scrittorie alternative alla
codificazione toscano-letteraria
CAPITOLO IV
Il grande sviluppo delle scienze tra 600 e 700 interessa tutta l’Europa e riguarda sia il rinnovamento delle
terminologie specialistiche sia un nuovo modo di “guardare” il mondo che investe le strutture della lingua.
Il latino scientifico è una “lingua moderna” che funge da strumento comunicativo più idoneo alla comunità
scientifica internazionale: lingua precisa e ricca di termini adatta a esporre le leggi della matematica e
descrivere i polmoni (ben diversa dal latino medievale e dal raffinato latino umanistico).
→ Cartesio (francese), Bacone (inglese), Keplero (tedesco) e Galileo usano indifferentemente il latino e la
lingua materna e questo bilinguismo della nuova scienza durerà fino al 700 inoltrato, quando l’inglese ma
soprattutto il francese diventeranno le lingue internazionali della cultura.
Galileo usa il volgare nei primi scritti di meccanica applicata, il latino nel Sidereus Nuncius (Avviso
astronomico) che contiene le sue osservazioni sui satelliti di Giove condotte col telescopio, poi torna al
volgare e al latino in altre opere, e infine ancora al volgare nelle due ultime opere, Il dialogo sopra i massimi
sistemi e i Discorsi intorno a due nuove scienze a cui affidava la divulgazione e la sintesi delle sue ricerche.
In una prospettiva allargata della cultura scientifica moderna, la forma del saggio sperimentale, sintesi delle
proprie ricerche al fine di una loro validazione presso la comunità scientifica, parte da uno scritto di Isaac
Newton (1672) che diviene modello di quello che oggi è un “articolo scientifico”.
L’italiano prende piede ma il latino resta la lingua scientifica più usata ed efficace per dare risonanza alle
ricerche fuori dal proprio contesto linguistico, almeno fino alla fine del ‘600.
→ Nella lingua di Galileo confluiscono 2 filoni, fino ad allora paralleli: tecnico-scientifico e letterario.
→ Comuni i casi di numerose proposizioni subordinate che precedono la reggente (costruzione a sinistra) o
di periodi sgretolati in sequenze non autosufficienti che si completano nell’ultimo (o ultimi) anello della
catena (loose period) --- come mostrato dagli esempi tratti da “Dialogo sopra i massimi sistemi”
L’uso di modi diversi di periodare si spiega col fatto che G. si trova nel divario che separa lo stile periodico
della prosa colta rinascimentale e le innovazioni sintattiche seicentesche.
La presenza di uno stile sintattico complesso (conforme a un criterio tradizionale di eleganza formale)
comporta che la prosa del fondatore del moderno metodo sperimentale non sia sempre facile da intendere
ad un lettore di oggi → per facilitare la comprensione della sua prosa ci sono i verbi operativi che non
designano solo l’azione ma la eseguono secondo un modulo tipico della dimostrazione scientifica (leghisi...
facciasi andare... si metteranno... si farà…) → il carattere operativo (sulla logica dell’esperimento) riflette la
finalità fattuale della lingua (intervento sulla realtà esterna)
→ gli indicatori temporali scandiscono le varie fasi dell’osservazione naturalistica, seguendo la logica
dell’esperimento (es. del brano di Spallanzani, grande scienziato del ‘700: dopo mezzo quarto d’ora... il
giorno appresso… e nel terzo…)
Negli scienziati del 600 e 700 tale “caratteristica operazionale” è associata alla prevalenza di sintassi
sempre meno complesse (che ancora caratterizzano la prosa di Galileo) anche se la tendenza a costruire il
periodo “a sinistra” della principale non scompare del tutto nel corso del 700 (si veda ad es. di un testo di
Manfredi, Instituzioni Astronomiche)
→ il ritardo della reggente che chiude (a dx) la sequenza delle argomentali prolettiche
(modulo sintattico diffusissimo fin dal medioevo) viene tuttavia equilibrato dalla disposizione
seriale delle subordinate (a sx) che non tollera ulteriori interruzioni o deviazioni dalla linea
principale del discorso (ovvero: il modo tradizionale di costruire il periodo è solo esteriore, in
realtà la scelta verte su una modalità lineare che dia conto di descrivere il fenomeno --- es di
un brando di Maria Gaetana Agnesi su Instituzioni analitiche, sul calcolo infinitesimale)
QUINDI, nel campo della sintassi, pur restando viva la suggestione della prosa galielana, man mano che ci si
inoltra nel 700 avviene una istituzionalizzazione di scelte formali (limitazioni delle strutture circolari o chiuse,
linearità sintattica, progressione tematica a catena): modalità sintattiche moderne che saranno condivise in
linea generale dai vari sottocodici specialistici rispondendo all’esigenza di “ commutare” subito e
reciprocamente in un’altra lingua europea i contenuti delle ricerche più importanti, evitando il filtro del
latino scientifico.
→ SPINTA: il greco è riscoperto e ristudiato nelle maggiori università europee formando una tendenza –
coniare nuove parole con elementi greci – che prenderà il sopravvento nel 700, imponendosi nelle
terminologie scientifiche internazionali → interprete di tale tendenza è Anton Maria Salvini, col grecismo
telescopio (che soppiantava occhiale, cannone, cannocchiale…)
A stabilizzare la nuova terminologia sono determinanti i paradigmi terminologici che si instaurano dopo
l’accoglimento da parte della comunità scientifica di opere fondanti come quelle di Linneo, in botanica e
zoologia, in latino (Sistema Naturae) per farsi conoscere in tutta Europa e di Lavoisier in chimica, in
francese (Méthode de nomenclature chimique) poiché nel frattempo è divenuta il “secondo latino” della
comunità internazionale.
Alla base dei nuovi protocolli terminologici c’è il riconoscimento immediato e la trasparenza etimologica
delle parole e dei composti con basi greco-latine → la decodifica del significato dei termini è automatica,
spingendo anche alla proliferazione neologica (creatività lessicale) di un numero potenzialmente infinito di
termini
Il greco delle parole scientifiche non si modella sul greco classico se non superficialmente → il contatto
con la lingua greca si limita quasi sempre alla forma esteriore della parola (termini apparentemente antichi
assumono significati moderni)→ NEOLOGISMI TECNICO-SCIENTIFICI GRECIZZANTI basati sul
“restringimento semantico” che la base greca assume nel nuovo uso: si
sceglie uno dei possibili significati e da esso se ne fanno derivare altri
termini moderni.
2.1. Stereotipi
Dalla seconda metà del 600, la lingua e la cultura francese esercitano un’influenza crescente sull’italiano:
penetrano nuove parole o nuovi significati di parole, moduli sintattici brevilinei e lineari, in linea con la cultura
illuministica e la sua rappresentazione del mondo moderno.
→ sebbene non si abbandoni la difesa della tradizione letteraria illustre, la questione si sposta decisamente
sui problemi ben più concreti e urgenti nel tentativo di rifondare su nuove basi una tradizione meno
particolaristica e più aperta alle correnti culturali diffuse in Europa che ridisegnavano nuovi equilibri
A Napoli Antonio Genovesi per la prima volta fa lezione di economia politica in italiano (1764) rompendo la
consuetudine accademica del latino!
I centri di irradiazione sono i giornali e le gazzette che trattano temi letterari e scientifici: si formano la prosa
giornalistica (diversa da quella odierna) – che risente ancora della lingua letteraria come del resto le opere di
divulgazione scientifica (unendo prosa tradizionale a modalità sintattiche moderne come il loose period) – e
anche la “letteratura di consumo”, un genere moderno meno vincolato alla lingua tradizionale, dovuto a
traduttori e romanzieri.
1. la facoltà di accrescere il vocabolario al di fuori di ogni canone legato agli autori (avendo diritto
come Dante e Boccaccia, di inventar parole nuove)
2. ne consegue che la lingua italiana non è “giunta all’ultima sua perfezione” e quindi va arricchita e
migliorata (non esiste un secolo d’oro della lingua)
3. il Voc. della Crusca non può racchiudere tutta la lingua scritta e parlata (nessuna legge ci obbliga
a venerarla e a usare solo quei vocaboli)
4. è necessario adottare i forestierismi per arricchire e migliorare la lingua di nozioni che non ha (se
italianizzare parole straniere rende meglio le nostre idee non ci asterremo dal farlo)
5. e questi prestiti lessicali arricchiscono non solo il vocabolario ma anche le idee (quando
esprimono meglio che i vocaboli italiani certe idee)
6. il pedantismo grammaticale, il culto della “bella favella”, il purismo ecc. non si addicono ad una
moderna letteratura
7. l’impegno di usare “quella lingua che s’intende dagli uomini colti” da sud a nord per diffondere i
concetti dei philosophes
Ovviamente molti punti rimangono spunti polemici o intenzioni solo teoriche (il non conformarsi alle regole
della Crusca), senza riflettere effettivamente la prassi linguistica dei periodici illuministi, rinviando
teoricamente ad una lingua comune (comunque sempre colta ed elitaria) non più toscaneggiante, e che
potesse unire gli italiani di ogni regione → l’italiano come strumento vivo e corrente di una comunità di
scriventi-parlanti è un problema che verrà affrontato con decisione solo col Manzoni e con la politica
linguistica dello stato unitario.
Gli illuministi del Caffè → richiamo polemico all’arretratezza della cultura italiana in confronto a quella
francese o inglese da prendere a modello per rinnovare anche la lingua (gli
oscurissimi scrittori su cui si basa il codice della Crusca devono essere sostituiti dai
filosofi francesi e inglesi) tipico di un atteggiamento cosmopolitico e
anticonformista, che però si fonde con un nuovo sentimento patriottico (di
appartenenza ad una patria comune) e all’esigenza di rifondare una tradizione allo
stesso tempo italiana e europea: era decisivo che gli italiani si riconoscessero in
una serie di valori collettivi su cui fondare i presupposti che avrebbero fatto
dell’Italia una nazione colta e civile alla pari delle altre importanti nazioni europee.
Gian Rinaldo Carli scrive a riguardo Della patria degli italiani in cui si analizza l’uso particolare (diverso da
quello di altre lingue) di “forestiere” in Italia per chi sia originario di altre regioni o città, definendo i vicini
come persone di nazione diversa → Le parole - italiano, patria, nazione - acquistano alla fine del 700 un
nuovo significato dal valore politico (organizzazione politica).
2.3 Rinnovamento linguistico
700: Francese come lingua delle élite intellettuali d’Europa (nuovo latino) influenzando le strutture
sintattiche e lessicali dell’italiano e facendo da lingua-filtro di altre opere inglesi o tedesche (gli intellettuali
e gli scienziati che vogliono far conoscere le loro idee, scoperte e invenzioni devono scriverle in francese) →
processo d’interferenza culturale e linguistica.
L’interferenza della lingua francese a fine 700 investe anche gli ambiti del diritto e del linguaggio politico
La pubblicazione del Codice civile napoleonico per il Regno d’Italia 1806, con testo trilingue (francese,
italiano - e latino in fondo alla pagina), svolge un ruolo fondamentale nel rinnovamento legislativo anche
dopo la caduta di Napoleone anche sul lessico giuridico italiano.
Entrano moltissimi neologismi (modellati sul francese) o nuove accezioni di parole italiane conosciute
formando il lessico politico moderno: aristocrazia, cittadino, eguaglianza, federazione, popolo, nazione ecc.
L’uso intensivo di parole afferenti al campo della politica interessa il lessico ma anche la facoltà di
esprimere le nuove nozioni per mezzo di locuzioni e raggruppamenti sintagmatici del tutto inediti,
riconducibili alle nuove forme di democratizzazione ed espansione della politica: associazione, battaglia,
diritto di coscienza, pubblica istruzione, libertà di culto, potere esecutivo, opinione pubblica, libertà di
pensiero, giudiziario, legislativo…
Esemplari le parole:
democrazia non rimanda più a realtà astratte o classiche, ma assume un valore concreto
e ne derivano: democratico, democratizzazione ecc.
governo: non più solo “guida politica” ma “organo dal potere esecutivo”
burocrazia viene sempre più usata per indicare il potere amministrativo.
Laicizzazione del linguaggio religioso: altro fenomeno che si sviluppa arricchendo la lingua politica con
espressioni attinte dalla religione (carattere sacrale della politica che poi si svilupperà nella pubblicistica
dell’800 e 900 sia di socialisti che fascisti): fede politica, martire della patria, altare della patria…
3. Grammatici e linguisti
La Grammaire generale et raisonnèe di Port- Royal 1660 aveva dato il via allo studio del linguaggio secondo
principi razionalistici che coniugavano una visione teorica (analisi delle caratteristiche della lingua) con
metodologie innovative e semplificate idonee alla didattica della lingua (grammatica empirica), con lo
scopo di istruire i figli della nobiltà con un metodo rigoroso e razionalista che sfoltisse le categorie inutili
della tradizione grammaticale e facilitasse l’apprendimento di una lingua → la linguistica degli illuministi
francesi svilupperà i presupposti della grammatica ragionata di Port- Royal insistendo sul concreto uso della
lingua facendo confluire la grammatica empirica e la spiegazione razionale, per configurarsi come modello
descrittivo valido per ogni lingua particolare.
“Gramatica Ragionata” di Francesco Soave 1771: rinnovamento metodologico di tipo speculativo basata sul
modello della Grammaire generale et raisonnèe. Soave, insegnante (religioso) introduce i metodi
pedagogici del 700 francese.
Opera decisamente innovativa rispetto alle grammatiche “prescrittive” del tempo, divisa in 5 parti (3 per la
morfologia, 1 per la sintassi, 1 per l’ortografia) non descrive solo l’italiano, ma confronta lingue diverse
(greco, latino, ebraico, inglese e francese) individuando i tratti più funzionali di ognuna di esse.
MOTIVO: Era un’opera pedagogica destinata ai giovanissimi dell’aristocrazia e alta borghesia del ducato di
Parma, per cui interessa il canone dello scrivere e del parlare in pubblico nelle occasioni formali
(importanza dell’uso sociale della lingua)
3.2 Il “Saggio sulla filosofia delle lingue applicato alla lingua italiana” di Melchiorre Cesarotti (sacerdote e
insegnante nel seminario di Padova) 1785
Pubblicata con titolo più breve, Saggio sopra la lingua italiana, è l’opera più importante nel dibattito
linguistico del 700 → Il Saggio si propone di analizzare, sulla base dei più aggiornati studi del tempo, la
situazione della lingua italiana alla luce della “filosofia delle lingue” ricavando dal caso italiano una serie
di considerazioni di ordine generale valide, nella prospettiva universalistica dell’Illuminismo, per qualsiasi
lingua di cultura.
5. Distinzione fondamentale tra “LINGUA” (materiali linguistici: grammatica e lessico) E “STILE” (arte,
modalità di farne uso) a partire dalla qual riformula alcune questioni illuministiche:
b. il “genio delle lingue” (genio=indole, individualità) era un’espressione chiave del 700, coniata dai
Francesi per indicare quell’insieme di proprietà, specificità di ciascuna lingua non riducibili alle
categorie della grammatica generale. Cesarotti distingue nettamente fra “genio grammaticale” –
rigido – (grammatica, fonetica, morfologia) e “genio rettorico” – elastico – (idee e sentimenti che
configurano lo stile di una lingua che riflette il modo di sentire di una nazione).
CAPITOLO V
1. Italografia e italofonia
L’unità linguistica ha preceduto l’unificazione politica e si è realizzata tramite la codificazione dei
comportamenti linguistici dominanti → nato come un’ “invenzione” di filologi e letterati umanisti ,
l’italiano lingua comune ha i tratti della normalizzazione tipici di ogni mezzo scritto.
La diffusione del modello bembiano anche a più regioni e strati più estesi che ai letterati e intellettuali ha
trovato un valido sostegno nella Chiesa postconciliare che con la sua azione capillare di pedagogia
linguistica e alfabetizzazione del clero, lo ha adattato in pochi punti e lo ha fissato a uno standard di
scelte fonomorfologiche e morfosintattiche detto italiano premanzoniano.
Contemporaneamente al suo estendersi nelle regioni e tra strati sempre più ampi, lentamente si è
trasformato da strumento neutro e costruito a tavolino dagli umanisti, a mezzo comunicativo molto
potente, ma trovava un ostacolo nel fatto di non essere la lingua materna di una collettività, che usava i
dialetti (volgari) come lingua primaria nella comunicazione orale.
Il doppio codice o diglossia assoluta (lingua scritta=toscano letterario vs lingua parlata=dialetto locale o
volgare) tipico di umanesimo e rinascimento, si incrina progressivamente quando la “nuova lingua”
comincia a essere usata in versione orale, anche se in ambiti formali e limitati.
La scelta cade sul dialetto dominante, il toscano fiorentino che per ragioni storiche e culturali era il più
vicino al modello artificiale di lingua comune scritta (modello di L2 per gli stranieri) → pronuncia fiorentina
considerata la più prestigiosa e italiana fin dal 500 → poche testimonianze dei primi tentativi di una lingua
comune parlata limitati a un gruppo ristretto (predicatori, mercanti, diplomatici…) che continuavano a
avere il dialetto come lingua madre.
Una spinta maggiore verso l’italofonia si ha nel corso del 700, diventando la “normale aspirazione nel ceto
borghese e nelle professioni intellettuali (non nei ceti inferiori e nell’aristocrazia legate al dialetto). Napoli
per prima testimonia (da fine 600) che il parlar toscano era ritenuto segno di prestigio facendone una
tradizione, e ai primi dell’800 anche la borghesia milanese con il suo parlar finito (anche se marcato dalle
pronunce locali). Ricordiamo la prima lezione di economia di Genovesi a Napoli in italiano.
In generale un italiano marcato da pronunce locali inizia ad essere praticato con assiduità dalla borghesia
di 600-700, soprattutto in occasioni pubbliche ed istituzionali (alla lingua comune parlata sono preclusi
ancora gli usi più spontanei). L’uso parlato dialettale si cercava di confinarlo negli ambiti della vita
domestica.
Indicatore prezioso dell’uso “normale” dell’italiano scritto è il genere epistolare: la lettera privata scritta
senza fini artistici documenta lo stato effettivo della norma e, libera da censure e coercizioni di stampa, ci
dà un quadro attendibile del comportamento linguistico.
Un campione di lettere private scritte da letterati e non da vari luoghi d’Italia nel primo 800 confermano la
quasi raggiunta stabilità della lingua comune di livello colto, anche in contesti di uso spontaneo, in linea e
anche più avanti della revisione manzoniana del 1840 (edizione quarantana dei PS) → ne emerge che nel
primo 800 era in atto un avvicinamento della norma agli usi più correnti e moderni, di cui la revisione
manzoniana del 40 rappresentava un punto di arrivo.
Alcune normalizzazioni/stabilizzazioni:
- FONETICA: normalizzazione dei dittonghi nuovo, buono, suono, giuoco, figliuolo, ecc.
mentre scompaiono cuopro, niego, sieguo ecc.
- -arol, -aio per notaro, carbonaro, libraio, bottegaio
- GRAFIE scempie o doppie che risente dell’influenza di altri dialetti e senza avere
necessariamente un riflesso di pronuncia più o meno intensa
Morfologia prenominale e verbale:
- uso dei pronomi personali soggetto egli, ella, esso, essa (ma anche ei preconsonante)
- tra i clitici: gli (a loro), nonostante le censure dei grammatici
- prevale nell’imperfetto io ero su io era (scelta manzoniana), anche se i due allomorfi
continuano a essere usati → vedi Leopardi che usa io era preferenzialmente nelle poesie
e io ero nelle lettere familiari, dimostrando un caso di DIMORFIA CONTROLLATA tra uso
autorizzato e norma spontanea che verranno poi fatte coincidere dal Manzoni
- aveva su avea
- le prime persone plurali del passato remoto e del condizionale presentano ancora
diverse desinenze a seconda degli usi spontanei in linea con le varietà regionali comuni
(fossimo, avressimo, fummo, avremmo) → forme in -essimo e fossimo restano molto
diffuse anche se censurate dalle grammatiche, fino a fine 800.
- tu abbi ancora convive con tu abbia
- faccio prevale su fo, e vado su vo (in controtendenza al Manzoni che preferisce fo e vo)
anche negli scriventi toscani che iniziano a reprimere il proprio uso spontaneo sentito
come tratto regionale → inizia una progressiva marginalizzazione del modello toscano
corrente non sostenuto da usi pan-italiani che si compierà pienamente nel 900
CAPITOLO 3
REAZIONI
A inizio 800 il dibattito linguistico si fa acceso innestandosi sul motivo patriottico e risorgimentale che
anima sia i classicisti/tradizionalisti (rivista filo-austriaca “Biblioteca italiana”) e sia i romantici (“il
conciliatore” sulla scia del “caffè”) → si consolida il culto di Dante per la sua importanza culturale di
fondatore dell’identità italiana
CLASSICISTI → forte polemica antifrancese (Monti, Giordani, Leopardi) e contro chi ferma al 300 toscano lo
sviluppo della lingua scritta → Leopardi (nello Zibaldone) contrappone al francese, lingua
inelegante e geometrica, l’italiano presettecentesco, lingua difficile, varia, ricca, immensa,
pieghevole e subordinata allo scrittore.
→ contro il purismo trecentista, rifiutano l’autorità della Crusca (Leopardi e Monti lamentano
molte parole italiane che non sono entrate nel vocabolario della Crusca e che sono usate da
scrittori e scienziati)
PURISTI → Antonio Cesari che si fa promotore di un ritorno integrale alla lingua del trecento toscano, con
una lingua anacronistica e desueta, chiuso alla modernità.
→ il napoletano Basilio Puoti, un po’ più aperto al moderno, alla cui scuola si studiavano i classici
del 300, si controllavano le forme sintattiche, si censuravano i costrutti innovativi e si
sostituivano i neologismi di origine francese --- in pieno sentimento patriottico, la
rivendicazione della lingua italiana nel suo fondamento storico favoriva l’integrazione della
cultura napoletana nella cultura italiana
→ il lessicografo Tommaso Azzocchi che nel suo “Vocabolario domestico della lingua italiana”
condanna 3 tipi di “barbarismi”
- francesismi
- tecnicismi colti
- lessico burocratico o giuridico (rinnovato dal francese)
Pratica dell’indicare sostituti lessicali l’alternativa autoctona anche multipla. Es: gilè=corpetto,
farsetto, ragù=intingolo, amnistia=perdono, addizionale=spesa aggiunta, atmosfera=aria,
anedoto=tratto particolare della storia, ecc.
3.2 Prosa letteraria: “moderni che scrivono all’antica” (=giudizio negativo del Leopardi)
Nella prosa letteraria immediatamente precedente o coeva a Manzoni il peso della tradizione si fa sentire
più che in altri campi nel rifiuto dello stile sciolto e disinvolto del linguaggio giornalistico e della letteratura
di consumo modellati sullo stile europeizzante di matrice francese → i classicisti e i tradizionalisti cercano
di riprodurre la struttura periodale dei cinquecentisti, con esiti non sempre felici.
Per Leopardi i moderni puristi scrivono all’antica, senza la grazia e la spontaneità antica ma con
artificiosità di periodi estremamente lunghi e contorti che affaticano il lettore nel tenere il filo del
discorso (rimprovera l’amico Giordani) → critica alla prosa eccessivamente ipotattica
Dal 500 la lingua poetica si distacca nettamente alla lingua comune scritta (nelle Prose del Bembo c’è una
netta differenza tra poesia e prosa), ritagliandosi uno spazio particolare, non solo nel lessico, ma anche nei
morfemi funzionali (articoli, pronomi, desinenze verbali ecc.) → dopo il filtraggio petrarchesco codificato
nel primo 500 dal Bembo, il repertorio poetico ha instaurato una propria grammatica selettiva
indifferente alle sollecitazioni dall’esterno
I poeti di 600-700 inseriscono i neologismi delle nuove scienze in una lingua grammaticalmente tradizionale
in una situazione di apparente staticità che si protrae fino alla seconda metà dell’800 quando iniziano segni
di cedimento che condurranno alla dissoluzione del linguaggio poetico tradizionale che si compierà a inizio
900.
Fenomeni reattivi nella poesia classicheggiante nell’arco cronologico dalle Poesie di Riapno <eupilino di
Parini (1752) all’Odissea tradotta dal Pindemnote (1822) passando per l’Iliade tradotta da Monti (1810) →
carattere aulico dalla patina arcaizzante (colorito anticheggiante) che però è sconosciuto nell’italiano
antico, come:
- L’uso dell’ “imperativo tragico” nell’Alfieri (T’arresta per arrestati)
- l’ordine arcaico accusativo+dativo in Monti (lo ti rechi per te lo rechi)
- uso di aggettivi esornativi collocati prima del sostantivo (alta strage, risonanti lidi) tipici
nelle poesie dei classicisti
- scompaginazione sintattica con inversioni e iperbati (incisi)
4. MANZONI
Gli indicatori socioculturali (ora riscontrabili storiograficamente) potranno essere usati dal Manzoni in poi
per analizzare la lingua
Nei primi decenni dell’800 si affaccia l’idea di una nazione italiana politicamente unificata e il motivo della
patria comune attira i migliori intellettuali → la lingua mantenuta apparentemente intatta rappresenta
una linea di continuità e il collante della tradizione intellettuale italiana. E’ questa l’ideologia sostenuta
dal Foscolo nei suoi discorsi e nelle sue lezioni che trovava consenso nel ceto borghese e nell’opinione
pubblica.
Un’indagine su memorie e epistolari di persone nate fra il 1783 e il 1843 che condividevano gli stessi ideali
patriottici (ma con diversi orientamenti politici) mostrano gli orientamenti culturali dominanti → i
riferimenti nelle memorie mostrano un elenco dei testi più citati, che vengono a formare il canone
risorgimentale: varie opere poetiche (Berchet, Giusti, Leopardi, Foscolo, Mameli, Manzoni, Giannone,
Poerio), tragedie (Manzoni, Pellico), romanzi (Foscolo, Cuoco, Guerrazzi), memorialistica (Pellico, Pepe),
saggistica storico-politica ()Mazzini, Cuoco, Colletta, Botta, Amari, Gioberti, Balbo), musica (Verdi, Rossini,
Bellini, Donizetti).
Considerazioni sull’elenco:
- Molte scelte puntavano su opere scritte in una lingua di tono aulico e letterario (lessico e
costrutti arcaici non in linea con la lingua corrente)
- Sorprendentemente non era incluso il romanzo dei Promessi sposi, che fu il primo vero best
seller della narrativa, forse perché ambientato nel 600, un secolo considerato di decadenza
politica e morale.
- Amor di patria e rigore classico come si trovavano in Leopardi, Giordani, Botta e Colletta
- Nel primo 800 dunque le scritture pubbliche, saggistiche, letterarie sembrano ancora legate a
un modello tradizionale che preferisce forme, costrutti e parole ormai destinati a tramontare
nella lingua d’uso corrente degli scriventi colti (contrasto messo in luce dalle lettere private e
la revisione dei PS del 1840)
→SFASAMENTO: Rispetto a questa lingua letteraria, le scelte fonomorfologiche e l’uso di lessico non aulico
o arcaizzante del Manzoni nei PS dimostrano una sensibilità linguistica largamente in anticipo sul proprio
tempo (in linea con le scritture private che anticipano le soluzioni dell’uso scritto di Manzoni).
L’interesse teorico del Manzoni per i problemi linguistici riguardo l’italiano inizia subito dopo la
pubblicazione del romanzo (nel 1830 inizia il trattato “Della lingua italiana” incompiuto) → scrive a Fauriel
che: l’Itlaia frammentata, la pigrizia e l’ignoranza generale hanno portato a tale distanza tra lingua parlata e
scritta che questa può dirsi lingua morta”.
1827: dopo l’edizione ventisettana dei PS matura l’idea di rivedere la lingua sulla consulenza dei parlanti
fiorentini colti e coevi che gli indichino le sole forme e parole di uso vivo e corrente sul principio di una
lingua sincronica che funga da riferimento normativo
Manzoni scrive il trattato-lettera “Sulla lingua italiana” a Giacinto Carena autore del Vocabolario domestico
criticandolo per aver accolto voci estranee alla lingua-modello senza indicare sinonimi italiani.
La soluzione manzoniana al dibattito plurisecolare sulla questione della lingua si articola in 3 punti
(Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla: relazione al Ministero della Pubblica Istruzione del 1868):
1. concetto di “uso” e di “autorità d’uso”, cioè l’uso effettivo, “intero” di un idioma storico-
naturale in un luogo e in un momento particolare; non c‘è differenza funzionale fra lingua e
dialetto perché sono entrambi strumenti comunicativi dominati e regolati dall’uso.
2. la lingua viva e il suo uso (lingua-modello da proporre agli italiani) rappresentano una lingua
intera, omogenea e sincronica in sé conclusa: ne consegue che il vocabolario dovrà essere
sincronico
3. ogni idioma è un semplice e neutro strumento di comunicazione
Da questi presupposti si può arrivare al principio di sostituzione su cui fondare una politica d’intervento e
una pianificazione linguistica: sostituire un idioma all’altro non è qualcosa di astratto ma è alla base del
fiorentinismo sincronico dell’ultimo Manzoni.
Il processo di unificazione linguistica poteva essere affrontato tramite un programma di sostituzione
integrale: l’idioma-fiorentino sostituendo i vari idiomi-dialetto secondo il principio che ogni lingua è intera
e autosufficiente potendo colmare tutte le esigenze della comunità di parlanti e scriventi
La sua scelta del fiorentino coevo come lingua-modello (tra i vari idiomi-dialetto) non dipende dai suoi
requisiti intrinsechi (ogni lingua è un sistema in sé funzionante e idonea al principio di sostituzione) ma dal
riconoscimento di prestigio storico-culturale da parte degli italiani delle altre regioni: cioè dall’essere il
dialetto dominante accettato e proclamato come lingua comune tra le varietà linguistiche italiane,
coniugando criteri funzionali a fattori extra-linguistici (storico-culturali).
Sulla scelta di questo dialetto su cui gli stessi scriventi colti del primo 800 cominciavano a reprimere gli esiti
regionali, si concentreranno le critiche maggiori a Manzoni.
Dall’edizione del 27 a quella del 40 dei PS c’è l’azzeramento delle oscillazioni dell’uso scritto di primo 800
(dimorfia)
Nel riscrivere il romanzo Manzoni adotta un criterio selettivo di tipo sincronico basato sull’adozione di
forme correnti normalmente e spontaneamente usate da parlanti fiorentini colti o borghesi.
Lessico:
- eliminazione di forme dialettali o regionali lombarde (tosa > ragazza)
- eliminazione di forme letterarie (aere > aria, pargolo > bambino)
- introduzione di fiorentinismi (guancia > gota, spedito > lesto, mica > punto)
Fonologia:
- il dittongo -uo diventa -o (giuoco > gioco, muove > move) –-- mentre è conservato in: buono, cuore,
fuoco, uomo, nuovo… oscillazione che rispecchia il fiorentino colto coevo.
l fiorentino colto di metà 800 probabilmente aveva già messo da parte alcuni tratti sentiti come
regionali (come l’uso di prendere per pigliare) era in linea con questa censura di spiccati
fiorentinismi → quindi dimostrando certe scelte manzioniane già defiorentinizzate
Morfologia pronominale:
- Eliminazione dei pronomi pers egli, ella, in favore di lui, lei.
Morfologia verbale:
- io era > io ero; io aveva > io avevo
Pronomi interrogativi:
- Che cosa > cosa?
- Ordine dei clitici attuale (gli si): non+clitico+gerundio (non mi veggendo) > non+gerundio+clitico
(non vedendomi)
IN SINTESI, negli assetti fonomorfologici il movimento correttorio del romanzo coincide con le tendenze
della lingua d’uso coeva (primo 800) anticipando la lingua letteraria, tranne i casi in cui il fiorentino non
coincideva con la lingua degli scriventi colti di altre regioni (vado / vo)
QUINDI la spinta ristandardizzante della lingua manzoniana produce i maggiori effetti sull’uso scritto
generale quando si accorda con gli usi meno regionalmente marcati dell’italiano coevo.
Il minor intervento nella sintassi dimostra che Manzoni utilizza una lingua che ha già raggiunto (nella 10
ed) una notevole stabilità nella sintassi: la frase semplice e complessa già nel Fermo e Lucia si presenta
aderente alla linearità sintattica e allo “stile europeo” di influenza illuministica, in sintonia con le scelte
della prosa letteraria moderna di fine 700 → il periodo può essere leggermente polifrastico, ma la
subordinazione si realizza in forme moderne.
- Stessa direzione per accusativo+infinito nelle completive oggettive (vide quel gran corpo essere
> vide che quel gran corpo era)
- Coordinare in forme più lineari può anche trasformare una frase esplicita in implicita pur di non
interporre segmenti frastici nel flusso del discorso (e guardava > guardando)
Trattamento e commenti alla lingua di un autore moderno (Leopardi) ritenuto esemplare nello stile e per
questo inserito nei programmi scolastici del nuovo stato unitario → tali osservazioni che spesso sono
censure linguistiche al Leopardi mettono in luce il rapido processo di antichizzazione della lingua
letteraria immediatamente precedente alla svolta manzoniana del 1840
Critiche grammaticali al Leopardi (giudizi calibrati sul metro della prosa manzonianae quindi
favorevoli ad azzerare la storicità di una lingua, la prosa leopardiana, che rifletteva le scelte
fonomorfologiche degli scrittori di primo 800):
- mancanza di disinvoltura, agilità e uso sicuro della lingua parlata che lo fa procedere in modo
impacciata con un uso spropositato di congiunzioni e relativi
- periodi faticosi
- forme antiche e pesanti
- forme disusate e grammaticalmente scorrette (possi, provenghi, vogli, vada)
- forme regionali (saria, potria, dovria)
- costrutti bimembri (siccome…così)
- sintassi polifrastica (ipotassi) che affatica i lettori volgari avvezzi ai periodi brevi alla francese
CAPITOLO VI
1871 → popolazione italiana di 26.800.000 abitanti con percentuale di analfabeti del 73% ma non si può
dedurre che gli italofoni corrispondessero al 27% poiché l’istruzione elementare divenuta obbligatoria
(legge Casati 1859) aveva raggiunto solo scarsi obiettivi (semi-analfabetismo)
ITALOFONI X ISTRUZIONE: solo l’1% che frequentava studi medi tra gli 11 e 18 anni aveva conoscenza
anche parlata della lingua nazionale + 1,5% costituito da toscani e romani
(italofoni per natura) + il clero istruito: in tutto non più del 3% della
popolazione era italofona attiva.
→ gli esclusivamente dialettofoni (97%) rappresentavano dunque la realtà oggettiva sulla quale doveva
concentrarsi tutta la forza d’intervento della politica linguistica dello stato unitario: una politica che
trovava nel programma manzoniano risposte concrete e attuabili rapidamente.
Ma che italiano si parlava dopo l’unità? La classe dirigente sabauda (dei Savoia) parla dialetto (piemontese)
e nei contesti più formali il francese. Con lo spostamento della capitale da Torino (1861-65) a Firenze
(1865-70) a Roma (1870) l’italofonia è imposta per esigenze di lavoro o di servizio agli impiegati, politici,
militari e uomini d’affari che li si spostano → koinè (lingua comune) burocratica postunitaria che
impulsiona la diffusione della nuova lingua su tutto il territorio, attraverso l’opera dei “servitori dello stato”
(giuristi, deputati, insegnanti…).
La pronuncia della nuova lingua unitaria risultava instabile, perché il passaggio dal dialetto all’italiano
parlato produceva molti fenomeni di interferenza fonologica e sovrapposizione dei tratti fonologici
dialettali (es. chi è abruzzese pronuncia: aldo per alto, calge pe calce, ecc.).
Sul parlare in lingua italiana influisce, più che il ceto sociale, il luogo di nascita. Le grandi città impongono
più autocontrollo linguistico rispetto ai centri minori (per questo due persone dello stesso ceto e
professione possono parlare in modo molto diverso a causa della provenienza geografica). Si moltiplicano le
raccolte di voci di italiano regionale ritenute sbagliate e si imita la pronuncia fiorentina fino ad arrivare
anche ai toscanismi marcati che si avvertono come eleganti (come: bacio, jornale, la gorgia=aspirazione
toscana, l’uso del pronome te invece di tu). MA QUESTO CAMBIA IN POCHI ANNI
De Amicis, sebbene manzoniano, nell’Idioma gentile, rimprovera i toscanismi troppo accentuati e esagerati
e testimonia il passaggio a varietà substandard del fiorentino basso (esagerando i tratti fiorentini + dialettali
e aspirando le c anche dove i fiorentini non lo fanno) → evoca il mito risorgimentale del toscano “pronuncia
+ corretta” dell’Alfieri ma come stereotipo romantico che inizia ad essere in crisi.
2. Il trentennio manzoniano: periodo in cui si fa maggiormente sentire l’impatto del modello fiorentino
vivo sulle scelte linguistiche della comunità nazionale
“TRENTENNIO MANZONIANO”
1870: pubblicazione del 1 vol. del Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze,
commissionato dal ministro della Pubblica Istruzione (E.Broglio), che attuava il progetto manzoniano di un
vocabolario di tipo sincronico e
1905: L’idioma gentile di Edmondo De Amicis, che riaffermava le idee manzoniane sulla lingua modello, il
fiorentino civile o colto del tempo,
In questo trentennio si collocano alcune opere di letteratura “popolare” che diffondono la lingua-modello a
strati più ampi della popolazione a livello di istruzione elementare o poco più: Pinocchio del toscano Carlo
Collodi (capolavoro letterario per l’infanzia) e Cuore di E. De Amicis (il più rappresentativo dell’ideologia
patriottica postrisorgimentale).
Il programma di pedagogia linguistica (intensa attività di rifondazione della norma su base sincronica) è
rafforzato da una serie di grammatiche e dizionari:
a) Grammatica della lingua italiana (1887) e Novo dizionario della lingua italiana (1887-1891) di
Petrocchi
b) Grammatica della lingua italiana (1894) di Morandi e Cappuccini che dichiarano di attenersi all’uso
civile del fiorentino anche in dissenso con l’uso vivo generale dell’italiano
c) Grammatica (1879) e Sintassi italiana dell’uso moderno di Fornaciari (anche se “moderno” non si
riferisce sempre all’uso vivo ma attinge anche da autori + o meno antichi)
→ Nonostante le condizioni favorevoli, non si verifica uno spostamento in direzione fiorentina dell’uso
generale. Il maggior effetto del programma di ristandardizzazione si ebbe quando il fiorentino
coincideva, x grammatica e lessico, con gli studi colti e civili della comunità
Il fiorentino manzoniano doveva fare i conti con gli usi colti e civili della comunità che preferivano la
variante italiana più diffusa: come guancia su gota, faccio e vado su fo e vo.
Nella sua relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla (1868) Manzoni presenta:
1. Una parte teorica dove esplicita l’ideologia linguistica: “lingua modello” e “principio di sostituzione” e
indica l’urgenza di un nuovo vocabolario secondo l’uso di Firenze.
2. Una parte applicativa, dove elenca cosa occorreva fare per realizzare “il principio di sostituzione” su
tutto il territorio nazionale:
a. inviare nelle varie zone italiane maestri toscani
b. rivedere i documenti scritti ufficiali destinati al pubblico o ai giornalisti
c. controllo e revisione da parte di madrelingua toscana degli strumenti educativi popolari:
testi scolastici elementari e libri di catechismo
d. diffusione di una nomenclatura scientifica “unificata”
e. diffusione del nuovo vocabolario secondo l’uso vivo di Firenze in tutte le scuole pubbliche
f. compilazione di vocabolari elementari relativi alle arti e mestieri.
A parte (e) e (f) questi provvedimenti erano di difficile applicazione.
Il “Novo vocabolario...” di Giorgini-Broglio (ministro educazione), anche se richiese quasi 30 anni per
essere ultimato ed ebbe poco successo di vendite, fondò in modo rivoluzionario la lessicografia italiana
contemporanea di orientamento sincronico.
→ Innovazione + importante del dizionario: IMPIANTO SINCRONICO senza esempi d’autore e con
fraseologia attinta dalla lingua d’uso (competenza viva dei
parlanti), esclusione del lessico arcaico, indicazione dell’ambito
d’uso, della frequenza d’uso, del significato dei quasi-sinonimi.
In pratica un dizionario dei nostri giorni in cui si distingue bene
l’uso dalla storia del lessico (distinzione incerta nelle opere
dell’epoca come il Diz. Della Crusca e il grande Dizionario della
Lingua italiana di Tommaseo-Bellini).
La progressiva e totale eliminazione delle scorie del passato sarà conclusa nel primo decennio del 900 per
l’azione concomitante della lingua parlata unitaria (di matrice fiorentina) e della prosa giornalistica.
BENEDETTO CROCE, l’intellettuale più influente nella prima metà del 900, nell’Estetica (1902), riaffermava
le idee dell’Ascoli, ritenendo inutile richiamare una particolare lingua modello se essa non era l’espressione
di una società culturalmente progredita e aperta a far transitare il sapere e gli scambi intellettuali (ribadisce
il concetto ascoliano del ruolo della “densità della cultura”).
La lingua non si studia sul vocabolario (cimitero di cadaveri…imbalsamati) ma appartiene alla sfera
dell’espressione estetica: “ciò che è continua attività non può ridursi a regola grammaticale o a lemma del
dizionario” → la ricerca di una lingua-modello è pura astrazione (critica fortemente l’Idioma gentile di De
Amicis).
Croce, come storico della lingua vuole valutare indicatori culturali: portavoce dell’orientamento della classe
dirigente liberale, predilige al criterio della lingua-modello, quello soggettivo-intuitivo (estetico) del gusto
→ l’abitudine di toscaneggiare risulta ormai fuori dal tempo, innaturale e canzonatorio, per chi proviene da
altre regioni.
Ai primi del 900 la lingua si era stabilizzata e la forza propulsiva del modello fiorentino si era ormai
esaurita completamente all’estremo del trentennio manzoniano.
4. Koinè postunitaria
I lessici puristi di fine 800 sono indicativi per scoprire parole e fraseologismi, spesso francesismi penetrati
nel triennio rivoluzionario e neologismi, che si diffondono velocemente nel nuovo italiano postunitario, non
solo scritto ma anche parlato!
Il programma accelerato di italianizzazione messo in atto dal Manzoni e dal Ministro della pubblica
istruzione (dopo la sua relazione del 1868) prevede di confinare il dialetto agli usi familiari e sostenere
l’unificazione linguistica su base fiorentina. Lo favorisce lo spostamento della capitale da Torino a Firenze
(1865-1871) e le case editrici fiorentine che pubblicano molti testi scolastici e classici linguisticamente
“normalizzati” destinati alle scuole (grammatiche, antologie, vocabolari, libri di lettura).
I numerosi funzionari dello stato appartenenti alla burocrazia statale (deputati, segretari, avvocati,
professionisti) involontariamente apprendono il fiorentino e concorrono all’incremento demografico della
città oltre il 70% (80.000 abitanti in più - 194.000 in tutto), che subirà un calo con il deflusso verso Roma.
Alle poesie di Giuseppe Giusti e al best seller Pinocchio di Carlo Collodi, oltreché altri autori, risale la
diffusione di molti toscanismi e frasi idiomatiche toscane nella lingua comune: perbene, bevero, quel coso,
mandare a quel paese, ferragosto, baluginare, non infilarne mai una, a perdita d’occhio, contento come una
pasqua, giornalaio, per filo e per segno, parlare come un libro stampato, sprecare fiato, riprender fiato, da
che pulpito viene la predica, basta e avanza, non saper dove metter le mani, scaramanzia, finocchio come
omossessuale, far cascar le braccia, si fa presto a…
MANCA però un censimento completo dell’impatto del fiorentino postunitario sulla lingua nazionale
sicuramente cospicuo nell’introduzione di parole e espressioni idiomatiche (modi di dirte), grazie
all’impiego scritto e parlato del fiorentino postunitario attraverso gli scambi tra parlanti nativi e non, che,
inizialmente ostici o antipatici a chi non parlava fiorentino, in realtà erano innovativi (De Amicis stabilitosi a
Firenze capitale testimonia direttamente tali trasformazioni linguistiche: un capitolo dell’Idioma gentile
difende quei fiorentinismi vivi che tanto infastidivano i parlanti non fiorentini come Benedetto Croce, ostici
a tali innovazioni. Secondo De Amicis, se tutti fossero stati ostici, i settentrionali parlerebbero la lingua di 40
anni fa, ora invece li si sente usare espressioni nuove e che inizialmente apparivano strane ma che ora
fanno parte di una progressiva fiorentinizzazione del suo italiano regionale piemontese: come quei genitori
che sentivano dai figli introdurre parole nuove, che prima ne ridono poi le apprezzano e le usano lor stessi)
Si creano a partire da Firenze capitale (1865-71) e poi Roma e poi Napoli, Palermo, Messina, Catania a sud,
Torino, Milano a nord, delle situazioni di mescolanza linguistica (sprachmischung), dovuta alla presenza di
numerose persone provenienti da regioni diverse, che adottano l’italiano regionale del posto o varietà più
neutre, favorendo scambi linguistici.
La koinè postunitaria si trova a operare su:
a) una buona stabilità delle strutture fonomorfologiche basata sul toscano-letterario reso “italiano
unitario” dal Manzoni
b) una forte instabilità della morfosintassi (posizione dei clitici, uso dei tempi e modi verbali) ma una
sicura stabilità delle strutture sintattiche superiori (frasi e periodi) dalla seconda metà 700
c) una grande disponibilità ad accogliere lessico e fraseologismi da tutte le regioni rimodellando
significati locali in direzione italiana
Non c’è ancora una coesione x la mancanza dell’uso spontaneo e sicuro della lingua nazionale parlata,
differenziata nei vari italiani regionali più o meno dialettizzati e le pronunce più o meno marcate in senso
locale continueranno a contraddistinguere la lingua comune parlata.
Dopo l’unità l’italiano burocratico rappresentò una varietà di lingua nazionale particolarmente prestigiosa e
diffusa a strati di popolazioni sempre più vasti, anche x la crescita dell’alfabetizzazione. Questo particolare
italiano stereotipizzato, lontano dai canoni tradizionali, venne adottato come lingua franca della
comunicazione giornalistica e più dissimulatamente dalla letteratura.
Nelle pagine della cronaca cittadina si registrava la maggiore influenza del linguaggio burocratico: si filtrano
termini e frasi dei verbali della questura, dei comunicati dell’amministrazione locale, ecc.
Ad essi si affiancavano tratti di italiano vivo e parlato, regionale, frasi idiomatiche, colloquialismi: da questo
miscuglio prende consistenza il primo vero italiano unitario: a partire da caratteri anche opposti (forme
scritte vs mudi parlati= cementa progressivamente un repertorio usuale che man mano entra nel parlato
di professionisti del ceto medio-borghese.
Il linguaggio burocratico-amministrativo è la nuova voce dello stato unitario, che immette nell’uso
corrente parole fraseologismi opposti a quelli idiomatici di matrice fiorentina.
Questo modismo burocratico apre la strada al dinamismo della vita moderna e le sue nuove forme di
aggregazione. Esso esercita la sua forte azione standardizzante attraverso il servizio militare obbligatorio.
Attraverso le accademie militari, le riviste, i bollettini, la lingua stereotipizzate si diffonde sui militari
semplici scarsamente alfabetizzati e dialettofoni. A partire da questa lingua ibrida in cui si mescolano forme
regionali e gergali, nasce quello che qualcuno definisce un italiano popolare d’uso di livello basso, aperta
alla contaminazione di tratti spontanei e non. Certamente veniva a confermare la spinta modellizzante del
linguaggio burocratico presso strati più estesi della popolazione, indebolendo i tratti dialettali e
diffondendo modelli serializzati.
ES. DEL RIMODELLAMENTO DEL FRASARIO CORRENTE X INFLUSSO DEL LINGUAGGIO BUROCRATICO NEL
MOMENTO DI MAX PRESSIONE DELLA KOINè BUROCRATICA SULLA LINGUA COMUNE (1878-1894):
- cronaca cittadina di 4 quotidiani di Messina: importante città, sede universitaria e borghesia urbana
attiva: attendibile rappresentazione della vita quotidiana dei ceti medio-borghesi di una città-tipo italiana a
fine 800, che ha bisogno di un linguaggio nuovo, adeguato alle rapide trasformazioni sociali e culturali della
vita moderna → emerge la manifesta tendenza a fotografare i luoghi della nuova realtà sociale attraverso
modismi e stereotipi fraseologici presi di peso dal linguaggio burocratico.
L’articolo cronistico preferisce una collocazione particolare degli elementi frastici, in controtendenza alla
lingua letteraria manzoniana per venire incontro alle aspettative del lettore che vuole rappresentati i
momenti della vita sociale in una cornice linguistica appropriata, aderente alla moderna:
a. anteposizione dell’aggettivo di relazione (pubblico danaro, accidentale caduta)
b. impiego di deittici anaforici sempre in ordine invertito (seguente telegramma)
c. legamenti stereotipici con elementi funzionali serializzati (congiunzioni, avverbi,
preposizioni): in guisa che, in virtù di, onde evitare…
d. uso del grafema j per la i semiconsonantica (gajo, guajo)
e. impiego di modismi fraseologici e neologismi provenienti dal linguaggio burocratico
(confermati in quanto tali poiché assenti dai dizionari dell’uso moderno dal 1870 al
1905)
L’opera di filtraggio del canale giornalistico è fondamentale per lo slittamento nell’italiano corrente.
Modismi con aggettivo stereotipico: animata discussione, fonte attendibile, brillante carriera, caloroso
applauso, dolorosa circostanza, misura disciplinare, futili motivi,
irreparabile perdita, lieta novella, soliti ignoti, tempo utile…
Modismi fraseologici con sostantivo giustapposto: cogliere in flagrante, deludere le aspettative, destare
interesse, dissipare un dubbio, indire un concorso, mettersi a
disposizione, muovere querela, opporre resistenza, prendere
provvedimenti, rassegnare le dimissioni, scongiurare il pericolo,
sottoporre all’esame, tutelare gli interessi, stipulare un contratto…
Tra il 1870 e il 1920 si consolida la borghesia e la koinè giornalistico-burocratica che agisce profondamente
sugli usi correnti arrivando a incidere sulla lingua letteraria. Il modello manzoniano è ritenuto
linguisticamente inadeguato a rappresentare le nuove forme di modernità in rapida trasformazione.
Sulla fine dell’800 la lingua nazionale comincia a essere usata da una comunità sempre più allargata,
comprensiva dei ceti medi e ampi strati della popolazione alfabetizzata. Stabili le strutture sintattiche e
grammaticali ma entra un contingente ampio di modismi che colmano la lacuna funzionale del sistema
spingendo alla ristandardizzazione della lingua
La koinè borghese è formata da avvocati, procuratori, notai, magistrati, medici e, sotto, da funzionari,
insegnanti e impiegati. Tale ceto borghese piccolo o medio-alto predilige servirsi di una lingua
stereotipizzata, piena di modismi fraseologici tipici del giornalismo.
La classe agiata si forma nel liceo classico, frequenta l’università, non ha necessità di esercitare la
professione, può vivere di rendita. Ama gli studi umanistici mantenendo una lingua un passo indietro ai
modelli attuali, disprezzando i modelli giornalistici e ricercando una toscanità moderata, priva di
neologismi, arroccata nel conservare grafemi, allotropi e lessico scelto.
Al contrario gli scrittori più sensibili alle innovazioni tendono a impersonare nelle loro opere il gusto medio-
borghese, proteso verso la modernità, libera da schemi tradizionali.
Le testimonianze più interessanti sono quelle degli scrittori meridionali più sensibili al problema di una
lingua media adeguata alle nuove esigenze del romanzo o del teatro moderno: Giovanni Verga, Luigi
Capuana, Luigi Pirandello, che si spostano, soggiornando a lungo fuori regione e collaborano coi principali
giornali.
1. Capuana, da Per l’arte (1885): “...abbiamo imbastito una lingua pur che sia, mezza francese,
mezza regionale, mezza confusionale, come tutte le cose messe su in fretta…”
2. Pirandello, da Prosa Moderna (1890): Il giornalismo ha fatto un gran bene, più di quanto
non si creda… La sintassi è più snella. Io, per me, lo dico senza ipocrisia di frasi, io leggendo la
prosa dei nostri classici ho sempre finito col cascarci sopra con tutto il peso del più pesante
sonno... Se letteratura ...o tradizione letteraria ha mai fatto impedimento al libero sviluppo
d’una lingua, questa più d’ogni altra è l’italiana...Da un pezzo molti tra i novellieri e i romanzieri
moderni, in cerca d’una prosa viva e spontanea, non scrivono diversamente l’italiano.
3. Matilde Serao (intervista): Ma un’altra ragione nega la formazione di un romanzo italiano,
ed è la lingua. Guardate qui a Napoli: abbiamo tre lingue, una letteraria, aulica...non reale; una
dialettale viva, chiara, pittorica, sgrammatica, asintattica; una media che dirò borghese, che è
scritta dai giornali, che ripulisce il dialetto sperdendone la vivacità e tenta imitare la lingua
aulica senza ottenerne la limpidezza. Io preferisco scrivere in una lingua impura e calda che
non con un linguaggio aulico e freddo. Quale lingua della due poi vivrà? Noi 4 (io, Capuana,
Verga e De Roberto) accusati di scorrettezza abbiamo un pubblico che ci leffe, quindi perché
dovremmo morire?
Caratteristiche della “lingua confusionale” (sprachmischung) impiegata nella prosa borghese (Serao) o
moderna (Pirandello):
a. impasto linguistico eterogeneo
b. Verga e Capuana usano ancora numerosi fiorentinismi fonomorfologici (vo, fo, omo),
aggettivi (punto…), moduli interrogativi tipici (ma che tu vuoi da me? O perché non…?)
c. parole e modi di dire presi dal siciliano (pappa=impasto, mascalzone=ragazzo, uomini di
mare=facchini)
Pirandello: evita i regionalismi più marcati (o li spiega con la glossa esplicativa), fa uso moderato di
fraseologismi calcati sul dialetto usa una lingua media che è stata fortemente intaccata dalla
koinè burocratica nella sua variante giornalistica (e accademica) distaccandosi dalla lingua dei
grandi siciliani precedenti (come in Capuana e Verga che usano: doppi condizionali, vari passati
remoti di 1PP, regionalismi privi e correnti considerati ora errori di lingua, non più concepibili
nella generazione di Pirandello)
Lo “scrivere male” che gli scrittori siciliani dichiarano sulla loro lingua riflette diverse opinioni:
- Per Serao: una miscela sperimentale di dialetto della borghesia napoletana regionalizzato e di
francesismo sintattico
- Per Capuana: una lingua mezza francese, mezza regionale, mezza confusionale, cioè una lingua che ha
per base una toscanità letteraria manzoniana su cui si inseriscono 3 strati distinti: il modello
sintattico francese, la lingua regionale siciliana e la lingua della koinè burocratica-giornalistica
- Per Pirandello: la “prosa moderna” deve protendere ad una lingua media accettabile dai suoi
lettori e non vuole più incorrere in sicilianismi ma anche evitando l’austerità formale e
l’imprinting manzoniano dei vari Capuana, Verga e De Roberto, una lingua unitaria, valido
strumento di comunicazione orale fra cittadini di diverse regioni → soluzione equilibrata che
metterà in atto fin dalle prime opere narrative, sperimentando la formazione di una lingua
unitaria come strumento di comunicazione orale tra cittadini di diverse regioni.
→ Adotta un registro narrativo dal “grigiore linguistico” e dalla “monotonia del fraseggiare”
aderente al suo ambiente un esempio famoso di koinè italiana di irradiazione romana, che
rappresentava l’orizzonte linguistico consueto della borghesia del tempo.
→ DEFINITO il più proverbiale esempio di koinè italiana di irradiazione romana: una lingua
grigia e monotona che però rappresentava l’orizzonte linguistico consueto della media
borghesia italiana dei primi decenni del secolo, confermando la coincidenza tra prosa narrativa o
saggistica e gli stereotipi del linguaggio giornalistico coevo: usando aggettivi di sapore
avvocatesco (futilissimo) e molti legamenti (in guisa che..., per virtù di..., onde..., ecc.) o
fenomeni di anti-parlato --- tratti assenti negli altri scrittori affini (come Capuana)
6. Questioni di metodo
6. Filtro ideologico
Esisteva alla fine dell’800 una lingua parlata che rispecchiasse le abitudini linguistiche del ceto medio?
Si può solo verificarlo tramite l’analisi critica dei testi e delle testimonianze, evitando l’uso incontrollato della
testimonianza diretta. Il filtro ideologico può condizionare fortemente il giudizio sulla lingua (vedi Ascoli).
Le affermazioni di Pirandello (che non esiste una lingua parlata che sia il dialetto) nel 1890 contrasta con i
dati storici e quelle di De Amicis (esistenza di modi di dire fiorentini nella lingua di non fiorentini) può nascere
anche dalle sue convinzioni ideologiche (il ceto piccolo e medio borghese è il perno della società e spetta a
lui il compito di assimilare e unificare la lingua parlata su base fiorentina).
→ lo storico deve controllare il principio di falsicabilità stabilendo se esiste o no una corrispondenza fra le
dichiarazioni (filtro ideologico) e le reali condizioni (stato effettivo) della lingua mediante prove e
controprove.
Es: se la parola fiorentina “giornalaio” risulta non usata nei dialetti prima del 1865 la sua provenienza dal
fiorentino parlato nell’800 è altamente probabile e si conferma nella sua diffusione fuori Firenze sostituendo
sinonimi regionali.
Esemplare è Pinocchio (1883) che presenta un concentrato di fraseologismi di larga diffusione italiana, ben
350 locuzioni e frasi idiomatiche (240 delle quali tuttora comprensibili) essendo scritto in una lingua
totalmente aderente all’uso vivo e spontaneo fiorentino dell’800 (e non simulato) e le frasi idiomatiche sono
la trascrizione obiettiva di numerosi usi spontanei di racconti o fiabe ascoltate da bambino, appartenenti a
una o due generazioni precedenti la pubblicazione del libro, quindi comprensibili anche se già in regresso o
fortemente popolari
→ La lingua di Pinocchio quindi non è il fiorentino delle classi colte, ma quello spontaneo e popolare delle
zone extraurbane, in cui si riflette la “lingua materna” o meglio la patina antiquata del linguaggio
bambinesco, il “linguaggio bambinesco” (baby talk) delle bambinaie semianalfabete o delle vecchie
istitutrici dell’800, che Collodi usa per caratterizzare la sua narrazione: un linguaggio molto diverso da
quello moderno e dinamico usato dall’autore nei suoi articoli giornalistici.
→ Caratterizzazione idiomatica di Pinocchio “unica” e diversa da quella degli altri libri di Collodi ma la
maggior parte delle frasi idiomatiche si trova anche in autori non toscani e si deve notare che il libro non
ebbe successo nell’immediato ma solo nel 900
Se questi elementi sembrano ridimensionare l’influenza dell’opera sugli usi parlati, tale libro è comunque la
quintessenza di fraseologismi di grande diffusione italiana che il modello manzoniano daceva emergere
nella variante fiorentina nella lingua comune.
Il Manzoni aveva come obiettivo la normalizzazione linguistica degli usi morfosintattici e fraseologici più
che la diffusione di tratti idiosincratici, e per questo occorreva inviare maestri toscani (parlanti nativi) nelle
diverse regioni, perché solo così il tessuto connettivo primario della lingua si sarebbe diffuso
sovrapponendosi al sostrato dialettale di parlanti non toscani (principio di sovrapposizione).
Verga, autore del dramma verista Cavalleria Rusticana, sostiene che il teatro è una forma d’arte inferiore
rispetto al romanzo per 2 ragioni:
1. intermediazione tra autore e pubblico (attore)
2. lo scrivere non per un lettore ideale ma per un pubblico adunato a folla che condivide
un gusto e un’intelligenza medi (una media che ha tutto fuorché gusto e intelligenza ed
è variabile nei luoghi e tempi)
Capuana e Pirandello scrissero in dialetto le loro opere teatrali, che solo così ebbero successo (alcune
tradotte in dialetto, altre scritte direttamente in dialetto).
Per Pirandello la scelta fra lingua e dialetto non era un problema linguistico ma di maggiore o minore
espressività e il dialetto offriva potenzialità espressive maggiori e l’opportunità di esplorare la realtà
istintuale, sotto la soglia delle convenzioni borghesi. → sotto la soglia dello strumento comunicativo
neutro che era la koinè italiana d’irradiazione romana che lui stesso aveva usato nei romanzi e nei saggi
(e questo avviene proprio quando l’italiano parlato si era stabilizzato nelle classi piccolo-medio borghesi)
Verifichiamo la correttezza del problema posto da Capuana sull’assenza dell’arte del dialogo
Sintassi del dialogato di Verga nelle sue opere teatrali siciliane e milanesi: riconducibili alla lingua parlata
(dislocazioni, frasi scisse, ridondanze prenominali) su serie standardizzata del
“parlato-scritto” senza variarli a seconda dei 2 diversissimi contesti geografici
e culturali in cui li colloca (come sarebbe da poetica naturalista). L’espediente
su cui punta è la riproduzione del pettegolezzo, del chiacchiericcio litigioso
che avrebbe riprodotto l’ambiente popolare milanese, mediante un dialogato
mosso, con battute sviluppate tra uno scambio e l’altro, ma con risultati
deludenti, perché è un ricalco stereotipato e anacronistico del modello
goldoniano (le baruffe chiozzotte)
Diversa cosa accade nel dramma borghese di fine 800, dove gli stereotipi della vita privata borghese (il
triangolo amoroso) escono dallo standard del parlato inflazionato e usato da secoli. Due gli autori
apprezzati:
1. il napoletano Achille Torelli, in cui coesistono forme meridionali e fiorentinismi
spontanei in una fedele rappresentazione della sprachmischung postunitaria, ma
soprattutto il gusto della battuta, espressioni colloquiali sottolineate da interpunzione
mista che suggerisce la tonalità agli attori, ecc.
2. Il piemontese Giuseppe Giacosa che fa acquisire stabilmente al teatro la sua lingua e
un dialogato davvero credibile; il suo dramma borghese Tristi amori (1887) è una pietra
miliare nella storia della drammaturgia italiana: ricostruzione realistica di un ambiente
borghese, i tic dei personaggi, analisi psicologica graffiante delle convenzioni borghesi.
La sua originalità sta nel ritrarre con un linguaggio colloquiale e domestico, sempre
corrente e misurato la verità del vivere quotidiano, la vita che scorre tra i conti della
spesa e un adulterio per nulla romantico o trasgressivo → uso di parole smitizzanti
inserite in situazioni iperrealistiche (tinello).
→ TRISTI AMORI: 3 SCENE INIZIALI DEL I ATTO
Nei momenti in cui deve catturare l’attenzione, la sintassi del dialogo non accentra
l’attenzione sugli elementi linguistici tradizionali (frasi scisse, dislocazioni, tema
sospeso…) ma giocando la carta del parlato più istintuale, vuoto di segni tangibili ma
fortemente empatico e stilizzato. Aboliti gli “a parte” goldoniani (commenti diretti al
pubblico) la frase è asfittica, ridotta a semplici predicati verbali o nominali, battute
concise e brevi su cui si scarica la tensione dei personaggi, attraverso:
a. Contatti (catene anaforiche): - non mi aspettavi? - Ti aspetto sempre!
b. Slegamenti (cambi del focus tematico): - Come sei bella! – Mi vuoi bene?
c. Riepiloghi (incapsulatori): - ti ricordi prima………. – anche ora
6.4 Dalla sprachmischung postunitaria al “tipo unico”
Le componenti grammaticali si erano assestate, l’uso sicuro di una sola forma standard era prevalsa sulle
oscillazioni di doppioni fonetici o morfologici (resistono pochi casi contrari: ad es. devo/debbo,
quistione/questione) secondo scelte che iniziano a privilegiare varianti romane o settentrionali a quelle
fiorentine
Renato Serra cesenate, grande critico di inizio 900, osserva che “romanzi e novelle ormai in Italia hanno
realizzato il tipo unico….
Le lettere (1914): inchiesta di Serra di taglio sociologico sulle condizioni della letteratura contemporanea a
partire dall’analisi del mercato letterario come indicatore dei gusti dei lettori, del rapporto tra letteratura e
lingua, ecc. → secondo lui, in paragone di pochi anni fa si scrive meglio e le differenze fra lingua letteraria
e lingua d’uso corrente (la differenza tra un Manzoni e quel tipo ibrido tra la pratica burocratica e la
traduzione dal francese dei giornali e della politica) sono scomparse quasi del tutto:
- “esiste un miglioramento innegabile e notevole ...nel materiale letterario”
- “l’unità della lingua e del tipo letterario oggi comincia a essere un fatto compiuto e
pacifico...non si sente più oggi a leggere se l’autore sia lombardo o siciliano…”
Tra 800 e 900 le innovazioni del linguaggio poetico hanno a che fare con una crisi della lingua e della
metrica più che del linguaggio: si dissolvono modalità metriche, grammatica e vocabolario ma si
ricostruisce un nuovo linguaggio più imitativo o contrapposto nei confronti del presente.
CRISI METRICA
La crisi metrica colpisce gli istituti principale della versificazione: la sillabazione e la rima. Già nel 500
c’erano stati tentativi di poesia ritmica e
1. Leopardi aveva mostrato di non usare più come un tempo la facile cantabilità delle rime scontate
Le strutture isòcrone (che hanno la stessa durata), riconoscibili da un buon orecchio metrico, sono ora
scompaginate dalla presenza numerosa di parole straniere (prima isocronizzate, cioè italianizzate,
adattandole ai gruppi fonetici italiani) onomatopee (Pascoli), nomi esotici, tecnicismi, dialettismi e l’uso
esagerato di parole sdrucciole in rima (D’Annunzio) che premono sulla struttura sillabica alterandone gli
equilibri e l’isocronia attraverso versi metricamente precisi, ma fatti “a tavolino” non seguendo il
computo “a orecchio”.
Rima e versi tradizionali sono sostituiti dai versi liberi, in modo esagerato dai futuristi (le parole in libertà di
Marinetti) e degli sperimentatori del “poema in prosa” (Soffici), ma anche dalla polimetria
Di D’Annunzio o Pascoli (alternanza di versi di metro diverso in una stessa poesia) in Pascoli e D’Annunzio,
riformulando il chiave moderna, metri assonanze e rime.
Già a inizio dell’800 vi è un allargamento del vocabolario poetico tradizionale con parole realistiche
(Leopardi) in un lento deflusso delle forme poetiche normali (augello, veglio, speme, aura, pria, reo)
mantenute in vita dai siciliani e dal Carducci, verso varianti più vicine alla lingua corrente (il poeta Betelloni
incarna questo passaggio in cui antico e nuovo coesistono).
Il rapporto di Svevo con la lingua italiana è uno dei capitoli più interessanti che riguardano la diffusione in
un’area marginale (Trieste e la Venezia Giulia) di un tipo ormai standardizzato (tipo unico) di italiano scritto
adatto anche alla letteratura.
Il lessico di Svevo è già apparentemente ripulito di parole locali e regionali tranne casi isolati di regionalismo
LA MORFOSINTASSI
Il numero maggiore di interventi correttori è nelle morfosintassi (sovrapposizione tra triestino, italiano e
tedesco):
a. precessione del clitico (da voler vederla a volerla vedere)
b. passato prossimo invece del passato remoto
c. adeguamento dell’uso delle preposizioni di, da ecc. (da lui > in lui), (diminuisce l’uso
spropositato di di: riuscire di fare > riuscire a fare) in quanto tratti idiosincratici appoggiati sul
dialetto o a volte sul tedesco
→ la lingua della Coscienza rappresenta il massimo contatto con gli impieghi più spontanei
modellati ora sul dialetto ora sul tedesco → ultimo romanzo che testimonia un maggior
avvicinamento agli usi morfosintattici che Svevo sentiva più vicini e che ricorrono
maggiormente nell’epistolario → oltre ad aver cambiato la propria concezione del romanzo ha
cambiato il suo rapporto con la lingua
d. Abbassa la patina antiquata di eredità manzoniana: io voleva > io volevo, dicevasi > si diceva,
anche nel lessico: giammai >mai , dimane > domani, ecc.
→ Non rinuncia invece all’uso degli stereotipi sintattici del linguaggio burocratico o
commerciale, con cui aveva confronto giornaliero sul lavoro e che era l’unico italiano non
appreso sui libri: legamenti quali “dacchè, acciocchè, ad onta che, ecc. che aumentano
progressivamente nei romanzi → territorio di confine tra lingua letteraria e usi correnti di un
linguaggio invasivo e parassitario, difficile da eliminare.
8.2 Uno scrittore toscano cerca di riacquistare la sua toscanità (Federigo Tozzi)
Nelle opere del senese Federigo Tozzi (1883-1920) si può valutare la crisi dell’italiano manzoniano e viene
portato a conclusione un lento e graduale processo di marginalizzazione della matrice toscana che sarà
confermato dagli sviluppi della lingua letteraria del 900.
Tozzi pubblica 2 romanzi in vita Con gli occhi chiusi (1919), Tre croci (1920), e la raccolta Bestie (1917) e 2
romanzi postumi: Il podere (1921) e Gli egoisti (1923)
Minima attenzione ai fatti linguistici: oscilla spesso tra forme senesi e non, preferendo le prime e le grafie
staccate (in fatti), tipiche della componente idiosincratica del senese, che risente delle influenze
antimanzoniane del tardo 800 (Carducci e D’Annunzio) → lieve patina autoctona sul fondo comune che
muta man mano che lo scrittore cerca di riprendersi la sua toscanità.
Tra il 1913 e 1918 un’intensa attività di studio e recupero di testi della tradizione tre-cinquecentesca senese
lo porta ad accentuare il recupero della tradizione linguistica in una direzione “primitiva”, antimoderna e
controtendenza (comune a alcune tendenze della cultura toscana di primo 900), cercando di rendere la sua
lingua più aderente agli amati autori senesi → rifiutando le correzioni suggerite dagli editori milanesi che
non capivano le sue espressioni più toscane.
“Programma di ritoscanizzazione” → Cerca usi toscani tipici, espressivi e ancora vivi nell’uso e aumenta
quindi la presenza di toscanismi rari.
Progressiva standardizzazione → nella morfologia e nella morfosintassi aumentano le forme non toscane
per i contatti con la koinè italiana d‘irradiazione romana che lo scrittore forma a Roma e per un suo
progressivo avvicinamento ai modelli linguistici dominanti → il quoziente di toscanità strutturale della
lingua va riducendosi progressivamente (come per esempio l’alternanza del devo, devono toscano al
debbo, debbono non toscano e fissato nell’italiano e la risalita del clitico come da sequenza non toscana:
non dovevo vederlo, può vederlo…)
PARTE SECONDA
CAPITOLO VII
1.Antefatti
Il problema della norma linguistica risolto tra fine 800 e inizio 900 si riaffaccia durante il regime fascista.
Durante il ventennio fascista (1922-1943) la politica linguistica interviene a modificare il rapporto fra gli usi
linguistici della collettività e il loro stabilizzarsi come modelli dominanti di comportamento linguistico. Le
linee guida della “pianificazione linguistica” hanno i seguenti obiettivi primari:
1. controllo degli usi linguistici spontanei (come i dialetti) attraverso la scolarizzazione e la lotta
all’analfabetismo e imposizione di un modello normativo unitario per gli usi pubblici e istituzionali
(sì al dialetto in famiglia, ma non a scuola, sui giornali o alla radio) e nessun diritto (statuto) alle
minoranze linguistiche (francesi, ladini, slavi, tedeschi, ecc.)
2. regolamentazione dell’uso di parole straniere sulla stampa, nelle insegne pubbliche, nelle
terminologie settoriali e specialistiche
3. controllo e pianificazione dei modelli normativi attraverso i mass media: giornali, radio, cinema e
l’istruzione, mirando a diffondere una pronuncia basata sul fiorentino e romano colti.
FASE 1 (1920-30): prevale l’impostazione al problema dell’unificazione linguistica della precedente politica
liberale
PROBLEMA URGENTE: mancanza di una lingua unitaria parlata e scritta che fosse largamente diffusa tra la
popolazione, soprattutto fra i ceti popolari.
Alte le percentuali di analfabeti sia nel 1921 (27 %) che nel 1931 (21,1 %) arrivando ad un massimo del 50 %
in alcune regioni del sud e ad un minimo in quelle del nord (Trentino-A.Adige in testa 2,5 %) → dislivello
Nord-CentroSud → per rimediare si puntò sul potenziamento dell’istruzione scolastica.
RIFORMA GENTILE (Giovanni Gentile filosofo e ministro dell’istruzione) nel 1923 l’obbligo scolastico
diventò più rigido, impiegando un metodo rapido ed efficace per la didattica dell’italiano tra studenti per la
maggior parte dialettofoni → nei programmi scolastici ufficiali, la grammatica e il lessico della lingua
comune sono innestati sul dialetto
Il fallimentare metodo d’insegnamento “dal dialetto alla lingua” abbandonato a fine 800 è ripreso dalla
riforma Gentile nelle tre ultime classi elementari (attraverso un approccio anti-normativo sostenuto da
intellettuali di allora come B. Croce e G. Lombardo Radice, direttore dell’Istruzione primaria che pubblica a
tal fine Grammatica Italiana semplificata e liberata dai consueti schemi pseudorazionali), ma con risultati
non valutabili sull’efficacia di tale metodo nell’alfabetizzazione. Certo è che invece contribuì indirettamente
a mantenere il dialetto, per cui fu abbandonato a inizio anni ‘30 (e Gramsci nei Quaderni dal Carcere
critica tale modello che non consentì l’appropriazione dello strumento - la lingua comune - che avrebbe
favorito una più rapida integrazione alla vita sociale).
FASE 2 (1930-40): controllo maggiore sullo strumento linguistico come anello debole della politica
totalitaria
PROVVEDIMENTI ANTIDIALETTALI: dal 1930 al 1934 fu vietato l’uso di espressioni dialettali nei giornali e nei
titoli dei film (che vengono italianizzati o cambiati) e il dialetto fu escluso definitivamente dai programmi
scolastici, aumentando le ore d’insegnamento dell’italiano rispetto alle altre materie.
Nell’era della radio e della voce circolare, l’italofonia di base era un traguardo da raggiungere rapidamente
anche per aumentare l’area del consenso → la politica linguistica fascista diviene più rigida eliminando le
interferenze del dialetto e delle lingue straniere diffondendo un tipo linguistico più uniformato.
Atteggiamento esterofobo del fascismo che ha radici nell’800: il regime dapprima mostrò un atteggiamento
tollerante verso parole e espressioni straniere, poi sempre + aggressivo e censorio.
1° provvedimento legislativo contro l’uso dei forestierismi nel 1874: tassa su avvisi e insegne commerciali
che usavano parole straniere (hotel, restaurant) soprattutto per benefici fiscali, basati sull’uso
promozionale di tali parole.
A inizio 900 l’ostilità fascista per i forestierismi è sfruttata in chiave politica: nazionalismo, irredentismo,
culto dell’italianità da difendere come valore culturale
Il decreto legge del 1923 stabilisce un’imposta sulle parole straniere nelle insegne purché alla lingua
nazionale fosse dato risalto con caratteri più appariscenti
ANNI 30: Mussolini, cogliendo l’umore dell’opinione pubblica, si fa promotore di sostituti lessicali che
diffonde attraverso le veline del suo ufficio stampa: vernice al posto di vernissage, lista invece che menu.
1932: Paolo Monelli pubblica su un quotidiano torinese la rubrica con proposte lessicali sostitutive una
parola al giorno per ripulire la lingua dalle parole straniere che invadono e guastano ogni campo (tendenza
di quasi tutti i giornali dell’epoca ove compaiono rubriche con proposte di sostituzione)
1934: Divieto assoluto di usare parole straniere sui giornali
FINE ’30: interventi antiforestierismi intensificati
Bruno Migliorini scinde il purismo tradizionale ottocentesco dal neopurismo che accetta i neologismi
italianizzati (rifiutando i termini non adattati).
Importanti Istituzioni ricreative e culturali cambiano il proprio nome (Touring Club Italiano, Club Alpino
Italiano...)
1938: divieto di denominazione straniera per teatri, cinema, alberghi
1940: Divieto per legge a parole straniere nella pubblicità e nei nomi delle ditte commerciali
Alla Commissione “per l’italianità della lingua” dell’Accademia d’Italia, viene dato il compito di trovare
corrispondenti italiani che sostituiscano le parole censurate, con carattere ufficiale e normativo che vincola
le lingue settoriali dello sport, commercio, tecnologia, industria, economia. Tra i sostituti che riguardano le
terminologie d’uso quotidiano c’è l’uso del voi invece del lei (ritenuto un ispanismo).
L’individuazione del canale di trasmissione scritto attraverso cui i forestierismi arrivavano all’italiano
avrebbe dovuto sconsigliare il ricorso a meccanismi di adattamento contrari alla pagina scritta resistente a
riformulare il prestito secondo parametri diversi dalla lingua originale → il risultato è che i neoforestierismi
adattati venivano avvertiti come errori e censurati dalle classi colte.
Quindi le censure fasciste non hanno impedito che un numero consistente di parole straniere non
adattate facessero parte del lessico italiano. D’altra parte, le parole sostituite dai censori che hanno
avuto successo fino ad oggi, sono attestate nella loro circolazione anche al di fuori di schemi puristici o
vincoli normativi confermando che le proposte di sostituzione di giornalisti, politici, intellettuali furono
accettate nell’uso comune quando queste avevano già una circolazione autonoma.
Dal 1934 il regime ne capisce finalmente le potenzialità che utilizza per la diffusione di contenuti politici ma
anche pedagogico-linguistici:
a. Mussolini, pur facendo discorsi alla radio, preferisce il contatto diretto con la folla e le sue
interviste sono come i comizi, sul modello della sua oratoria
b. La radio sostituisce i tradizionali luoghi d’aggregazione (piazza, chiesa, osteria)
c. La radio viene usata anche nell’educazione scolastica elementare e media
d. Il regime cerca di diffonderne l’ascolto attraverso una campagna per promuovere l’acquisto di
radio (la radiobalilla al prezzo di 420 lire!) e abbassa il costo dell’abbonamento.
1936: Aumentano le ore di trasmissione e si intraprende una campagna a favore di una “corretta
pronuncia” dell’italiano parlato, limitando l’uso del dialetto almeno fino alla guerra (quando il dialetto è
usato per far sentire i soldati vicini ai luoghi familiari).
Due regole erano alla base dell’uso della radio nell’ultimo periodo fascista:
1. scelta di una sintassi breve e lineare, di parole comuni, di facile comprensione nelle rubriche
d’informazione culturale e nei notiziari quotidiani (giornale radio)
2. uso di una pronuncia radiofonica unitaria → attenzione principale che riflette il problema
legato alla distribuzione geografica dei centri diffusori di pronunce alternative a quelle della
capitale o di Firenze, che si irradiavano dalle potenti sedi di Torino e Milano (raddoppiate nel
1932) → Corsi di fonetica e dizione radiofonica furono istituiti per la preparazione
professionale degli annunciatori e una pronuncia quanto più standardizzata (timbri vocalici
chiusi/aperti, opposizioni consonanti scempie/doppie, sorde/sonore sul modello fiorentino
colto), fu ufficializzata attraverso la lettura dei notiziari o la recita dei drammi radiofonici
C’erano anche trasmissioni ad hoc per risolvere i dubbi linguistici dei radioascoltatori e a volte
questi quesiti potevano essere pilotati. Comunque, i dubbi più ricorrenti riguardavano:
- i doppioni grafici (provincie/province) o fonetici (rùbrica/rubrìca)
- incertezze morfologiche (ebbimo/avemmo)
- il plurale dei composti (caposaldi/capisaldi)
- i forestierismi da evitare, da sostituire o da usare
Un Prontuario di pronunzia e ortografia del 1939 di Bertoni-Ugolini, propose con poco successo di adottare
la pronuncia romana colta se in discordanza con la toscana → risultato di questa piccola riforma finalizzata
a trovare un compromesso tra fiorentino e lingua del resto d’Italia, nel 1941in radio esistevano 2 pronunce
“ufficiali”: romana colta degli annunciatori e fiorentina degli attori drammatici.
Ma in realtà la lotta non era tra Roma e Firenze: c’era la pronuncia del Nord come alternativa autonoma al
modello fiorentino-romano. Per questo le pronunce settentrionali venivano censurate in favore di quelle
dell’Italia centrale: questa ortofonia pubblica controllata si manterrà fino agli anni 60 quando le grandi città
del nord (Milano) e Roma diventeranno i principali centri diffusori di pronunce e modelli linguistici
prestigiosi.
Per interpretare i fatti linguistici del ventennio fascista ci serviamo delle osservazioni contenute ne I
quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Per lui “i linguisti sono essenzialmente storici” in quanto le lingue
sono un “prodotto sociale, espressione culturale di un dato popolo”. La grammatica non è solo un sistema
didattico-pedagogico per imparare una lingua, ma è “documento storico” e fotografa una fase determinata
di un linguaggio collettivo formatosi storicamente e in continuo sviluppo → “nelle lingue, dunque, c’è
innovazione per interferenze di culture diverse”.
L’analisi dei comportamenti linguistici dominanti coincide con l’osservazione delle regole e tecniche di
controllo di una comunità linguistica.
Se la società totalitaria opera una politica linguistica esplicita del controllo dei centri diffusori, nella società
liberale opera un libero mercato dell’offerta linguistica senza un dirigismo esplicito.
Gramsci individua nella grammatica di tipo 3 una serie di “focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche”:
la scuola, i giornali, gli scrittori, il teatro e il cinema sonoro, la radio, le riunioni pubbliche di ogni tipo, gli
scambi di “conversazione” tra diversi strati della popolazione, i dialetti (localizzati e regionali) → questi
centri hanno diverso volume linguistico nell’irradiare i comportamenti linguistici dominanti ma dal carcere
Gramsci non coglie il potente mezzo di comunicazione nel conformismo grammaticale: la radio irradiata
dai grandi centri urbani.
Il modello americano non controlla solo le classi medie ma agisce dal e sul basso: attirando le classi
subalterne e operaie nel mercato.
Il predominio statunitense dell’industria cinematografica concorre a esportare stili di vita attrattivi (30.000
ragazze italiane si propongono ad un concorso cinematografico e Pirandello dirà che “l’americano ci
sommerge. Credo che un nuovo faro di civiltà si sia acceso laggiù”).
I contatti e i reciproci influssi fra le due culture dà vita al “decennio delle traduzioni” (Pavese, Vittorini ecc.),
la stagione dell’americanismo letterario. Gramsci notava che il problema era rappresentato non dalla
trasmissione di modelli culturali alternativi, ma dai tempi brevissimi nei quali si innescavano i meccanismi
che stavano trasformando le basi materiali della civiltà europea.
Applichiamo questa lettura sociologica alla lingua: l’insorgere di questioni grammaticali o lessicali è il
sintomo di una nuova situazione d’interferenza culturale → la battaglia primo900 contro i forestierismi è
risultato del contatto col modello culturale statunitense che proprio negli anni 20 fa avvertire la sua forte
spinta esportando in tempi rapidissimi oltre a merci e tecnologia, numerosissime parole che però non
trovano modo di essere assimilate (anche per la politica contraria ai forestierismi) e quindi vengono
sostituite o tradotte (neopurismo).
ANNI 50: per effetto della scolarizzazione e degli ambienti pubblici italofoni, gli adulti giovani cominciano a
parlare in italiano coi figli e le nuove generazioni (mantenendo il dialetto con parenti più vecchi e della
stessa generazione).
Gli ultimi sondaggi (fino al 2000) hanno rilevato la tendenza progressiva a usare esclusivamente l’italiano
in ogni contesto e i livelli minimi dell’uso esclusivo del dialetto. L’uso esclusivo del dialetto è usato solo da
anziani in zone economicamente depresse, diglossici sono ancora gli adulti, italofoni i giovanissimi.
Negli anni 60 il dialetto locale ormai è in deciso regresso, mentre risultano attivi le altre due variazioni
linguistiche: il dialetto provinciale o regionale e l’italiano regionale.
Nel 1951 quasi metà della popolazione lavorativa era occupata nel settore “agricoltura, caccia e pesca” e
solo il 7,4% delle case disponeva di acqua potabile, servizi igienici, elettricità e tra il 1946 e il 1957 ci fu
un’imponente emigrazione dal sud verso l’America e l’Australia, che diminuì il numero dei dialettofoni.
Nei 5 anni seguenti (1958-63) il miracolo economico trasformò rapidamente l’Italia da semisviluppata a
nazione tra le più industrializzate, accentuando traumi e dislivelli nel tessuto sociale. Fordismo e
consumismo “divennero le divinità gemelle” dell’epoca.
Le grandi città del Nord si confermano come i centri diffusori modellizzanti di comportamento linguistico,
essendo anche sedi delle industrie produttrici degli oggetti di consumismo (TV, elettrodomestici, auto) e i
flussi migratori da sud a nord riempiono le città settentrionali e svuotano le campagne. Torino ha il primato
d’immigrazione meridionale dal 951 al 1967 passa da 700.000 a 1200.000 abitanti (è la terza città
“meridionale” dopo Napoli e Palermo) e così accade a Milano.
Dal contatto tra parlanti dialetti diversi nascono fenomeni di integrazione linguistica che fortificano
l’egemonia dei modelli settentrionali e situazioni di mistilinguismo.
Tra il 1951 e il 1974 un quarto della popolazione meridionale si sposta verso le zone industrializzate del
nord ovest, ma ancora di più il flusso interessa Roma subisce un flusso massiccio di persone del centro-sud
(lazio, sardegna, abruzzo, campania, puglia), dopo essere stata toscanizzata/italianizzata dai flussi di
popolazione toscana/settentrionale tra 400-500, si rimeridionalizza influenzando la varietà d’italiano
irradiata a livello nazionale dalla koinè di politici e burocrati, con diversi meridionalismi che entrano nel
linguaggio colto:
a. nel lessico: ammanicarsi, fetecchia.
b. l’uso del congiuntivo imperfetto con valore esortativo al posto del congiuntivo presente:
questo tale è il ministro della bella vita… Pensasse a ciò che fa in finanza…
c. l’uso della preposizione a davanti al complemento oggetto: l’hai riconosciuto a quel ragazzo!
Tra il 1951 e il 1971 - anni del miracolo economico e del consumismo – la lingua non subisce un controllo
dall’alto ma si basa sulle abitudini consolidate delle classi medie → il ceto impiegatizio aumenta quasi del
doppio ed è sul ceto medio che opera la società neocapitalistica e si costruisce l’offerta di informazione e
lancio pubblicitario celle merci.
LA TV non impone un modello coercitivo di pronuncia unitaria (come fece la radio fascista) ma favorisce
l’aggregazione sociale mediante un minimo di cultura generale che diventa standard e incide sulle scelte
linguistiche, nel lessico e negli usi. Cult: nel 1965 metà delle famiglie italiane possedeva un televisore
Dopo un primo periodo di rodaggio, nei telegiornali i giornalisti professionisti sostituiscono i lettori ufficiali,
ma non si devono adeguare a una pronuncia unificata e il nuovo potente mezzo di comunicazione
contribuisce a istituzionalizzare una situazione di instabilità spontaneamente regolata.
La lingua dei giornali si adegua ancor di più a un tipo di italiano sintatticamente e lessicalmente
ultrasemplificato (vocabolario di base di 1000-1500 parole) in linea col repertorio del giornalismo televisivo.
Più difficile il rapporto fra società neocapitalista e cultura letteraria. La lingua letteraria non ha il tempo di
elaborare soluzioni linguistiche nuove, con nuovi criteri rappresentativi del presente.
Nel suo romanzo La vita agra, forse il più rappresentativo del periodo, Luciano Branciardi sperimenta
l’inserimento di parole e citazioni straniere, toscanismi, settentrionalismi ecc. in una prosa di tipo
iperrealistico, un taglio mistilingue da lingua di consumo (koinè neocapitalistica) che risente dello stile dei
brevi articoli giornalistici (registra il parlato delle segretarie milanesi degli anni 60 con pronunce aziendali o
transitorie).
E’ il cinema che trova una chiave di lettura del presente, con la “commedia all’italiana” per es. rappresenta
l’evoluzione dei gusti collettivi dell’Italia del “miracolo economico”.
Al di fuori di queste linee, autori ritenuti esemplari per lingua e rigore formale (Bassani, Pratolini, Cassola) o
per soluzioni sperimentali di parlato libero e irrazionale (Vittorini) o fortemente penetrato di stili sintattici
regionali (Pavese, Fenoglio) agli inizi degli anni 70 scompaiono e non attraggono i più giovani.
Ancora, una serie di tendenze perseguite per allontanare il testo da contaminazioni con forme ritenute
inadatte e poco prestigiose, sostituiscono i toscanismi inerziali con varianti di diffusione nazionale meno
marcate regionalmente → secondo Calvino i burocratismi fanno parte di un’antilingua → uso depurato
dell’italiano letterario post-calviniano ridotto alle misure di una lingua tecnico-scientifica provilegia gli
apporti dei vari linguaggi specialistici usati in modo allusivo più che denotativo.
Nella lingua non letteraria la tendenza verso modalità prestigiose della lingua della scienza ha prodotto una
retroazione operante sullo stesso linguaggio burocratico: un’azione di “pulizia” che censura i burocraticismi
in favore di parole o costrutti misurati sull’uso comune colto.
Nel 1964 Pasolini osservava che la sua stessa prosa argomentativa conteneva molti tecnicismi, ma tale
fenomeno investiva non solo la lingua della critica, ma i vari linguaggi (giornalistico, televisivo, politico). La
lingua tecnico-scientifica non era più un serbatoio di parole da travasare nell’italiano ma era essa stessa
un modello di riferimento (modellizzante) di una nuova norma opposta a quella che aveva origine nella
cultura umanistico-letteraria: “alla guida della lingua non sarà più la letteratura, ma la tecnica”.
Già nell’età illuministica i linguaggi specialistici (lessico) cominciano a entrare nell’italiano scritto colto, ma
erano censurati dalla comunità e ancor di più nell’epoca manzoniana, mentre a fine 800 modelli letterari
alternativi (verismo, naturalismo) erano attratti dal prestigio del metodo scientifico.
Con il cambiamento del sistema produttivo italiano (industrializzazione post guerra) l’allargato mercato
degli utenti sentì il linguaggio tecnico-scientifico come il più moderno e adatto alle esigenze odierne,
filtrando i nuovi linguaggi della modernità nella sfera della lingua quotidiana.
La lingua dei giornali opera da filtro tra il linguaggio tecnico-scientifico e il grande pubblico e dagli anni 60
nella cronaca politica e cittadina pullulano espressioni metaforiche di base tecnica o scientifica:
ingranaggio, banco di prova, messa a punto; cerniera, coordinate, saturazione, quoziente, dalla medicina:
trapiantare, rigetto; epicentro, immunizzare, saturazione, e poi dall’astronautica: orbita, impatto, ecc.
Nel lessico quotidiano certi tecnicismi informatici si traducono con regolarità senza accademie o
commissioni regolatrici, entrando nell’uso corrente attraverso intermediazioni anonime e affrettate dei
manuali d’uso (file=documento, Hard disk=disco rigido, disk=dischetto…)
Anche il settore della psicanalisi è vitale nel linguaggio colloquiale anche tra persone di ceto medio-basso:
inconscio, nevrotico, isterico, complessato, crisi di panico ecc. → il tramite non sono sempre i giornali o la
TV (centri più potenti di diffusione di parole anche se semanticamente perdono densità); un canale
alternativo sono i foglietti illustrativi dei farmaci che finiscono a pazienti di vari strati socioculturali → così i
tecnicismi crudi sono usati nella descrizione della composizione del farmaco, mentre nelle altre
informazioni “più lette” da tutti (dosi, somministrazione, effetti collaterali...) si ricorre a termini a debole
tasso di tecnicità (sindrome influenzale, antisettico, assumere, cavità orale, ecc.) per venire incontro a
pazienti non familiarizzati ai tecnicismi (assumere>prendere, indurre>causare, cavità orale>bocca) →
espressioni tecniche che slittano nella lingua corrente dei parlanti e degli scriventi colti a conferma del
grande prestigio della lingua scientifica.
Dopo esser stata legata a una grammatica particolare diversa dalla prosa, la lingua poetica tra 800 e 900
riorganizza il vocabolario e la fonomorfologia nella direzione di un adeguamento totale all’uso coevo.
Tra gli anni 50 e 60 accade qualcosa di diverso: la poesia della neo-avanguardia cerca di trovare all’interno
del codice grammaticale del presente un nuovo linguaggio che interpreti immediatamente la
contemporaneità: si tende ad azzerare la distanza tra lingua della prosa e lingua poetica mediante un
lavoro di livellamento che riguarda soprattutto la sintassi e il ridimensionamento del verso a un semplice
mezzo grafico-visivo (per capire la poesia contemporanea va capito il mondo contemporaneo).
Al verso-riga standard si sostituisce quello più lungo della strofa-lassa (di numero variabile di versi, anche di
misura diseguale e non necessariamente legati da rima) più adatta ad inglobare il flusso inarticolato della
contemporaneità → il rumore di fondo della lingua di consumo è il suo uso logorante della cultura di
massa, come stimolo per un linguaggio che rispecchi l’alienazione del presente.
La poesia della neo-avanguardia fa così tabula rasa della tradizione, anche più recente. “Non soltanto è
arcaico il voler usare un linguaggio contemplativo...bensì è storicamente fuori uso anche quel linguaggio
argomentante che è stato, nella lirica italiana, una delle grandi invenzioni di Leopardi”.
L’obiettivo è dissolvere il residuo di cantabilità o contemplazione per puntare sulla goffaggine sintattica
delle situazioni, nelle soluzioni parlate del discorso.
Al sorriso ironico dei crepuscolari si sostituisce la rappresentazione di un dramma senza drammaticità
(epica del quotidiano); l’attenzione è data alle frasi fatte alla base del linguaggio comune parlato delle
quotidiane conversazioni (amorfo, banale). Come nell’ultimo Montale, la manifestazione del quotidiano
non ha più il tono della chiusura in modo fulmineo (fulmen in clausula), ma si dissolve in frasi banali, difficili
quasi da capire, spesso collocate alla fine.
2 ESEMPI sulla sperimentazione non limitata al linguaggio poetico che ha rappresentato un punto di non
ritorno per la poesia di oggi
1. Montale (intervista alla radio): “la mia voce (poesia) di un tempo era ore rotundo, era
necessario avere un linguaggio che si discostasse da quello tradizionale”.
2. Andrea de Carlo (romanziere post-calviniano dalla lingua iperrealistica di Uccelli da gabbia e
da voliera): p.228
4. Stabilità e instabilità
Occorre distinguere tra norma prescrittiva (delle grammatiche e vocabolari) e (alla Gramsci) grammatica
normativa non scritta che è l’unica norma che nelle lingue contemporanee regola i comportamenti
linguistici dominanti.
La tendenza costante della sintassi post-settecentesca mostra un progressivo orientamento verso forme più
lineari e leggere di subordinazione, organizzate da una distribuzione controllata dei legami sintattici e una
spiccata serializzazione in una configurazione isotattica in cui la lunghezza del periodo varia da massimi a
minimi (periodi mono-proposizionali) ma mantenendo una minore profondità di subordinazione
(incassatura).
Un’analisi condotta su testi diversi, dalla saggistica colta (B. Croce, U. Eco) alla cronaca locale o ai commenti
politici dei quotidiani (Il Messaggero 1879 -1986) dà questi risultati: il periodo di Croce è caratterizzato da
un rapporto periodo/proposizione quasi doppio rispetto a quello di Eco (senza essere un parametro di > o <
modernità)
ECO vs CROCE
Rispetto al livello di incassatura del periodo – cioè il grado di “profondità della subordinazione” – Eco ha
mediamente un periodo con profondità ridotta di un punto rispetto a Croce:
a. il periodo di Croce ha +subordinate di L2 mentre in Eco il livello + usato è il L1 e c’è > uso del L0.
b. Croce inoltre usa + congiuntivi (altro indicatore di subordinazione) rispetto ad Eco.
CONCLUSIONI
➔ Croce ha un´organizzazione sintattica di 2 punti superiore alla media della lingua giornalistica di fine
800 mentre Eco avvicina tale divario, con una prosa molto più vicina al testo giornalistico più recente.
➔ Da sondaggi basati su scritture informali (messaggi SMS) e su parlanti colti emerge che l’italiano
contemporaneo, in condizioni normali, non scende sotto il 2° grado di subordinazione, se non in casi
molto rari (il 3° grado di subordinazione è praticamente escluso)
➔ Anche nella prosa letteraria contemporanea il grado di complessità sintattica anche di periodi
pluripreposizionali (esempio di Guido Morselli) è basso (tranne alcuni autori che presentano picchi di
incassatura fino all’8° grado) → la media del livello di incassatura ha un grado di subordinazione fino
al 2°, prediligendo la linearità della struttura e la coordinazione. Ha minore importanza la qualità della
subordinazione: in genere più frequenti sono le argomentali o nucleari (soggettive o oggettive) poi le
relative, un po’ più distanti le altre circostanziali (temporali, consecutive, finali, ecc.).
Esempi di prosa di Gesualdo Bufalino (aulica su modello 500-600)→ estensione orizzontale e verticale del
periodo con interruzione della linearità sintattica per l’avvio di inarcature di preposizioni sintattiche di varia
profondità ma nel complesso la sintassi si allinea alla consuetudine, con livelli d’incassatura più frequenti di
10 o 2° grado.
4.2 Morfologia in movimento : regole di formazione delle parole composte ( morfologia lessicale )
RISSESTAMENTO MORFOLOGICO dell’italiano contemporaneo: dai dati del più esteso dizionario dell’italiano
contemporaneo (Grande dizionario italiano dell’uso - GRADIT) emerge che negli ultimi due secoli (tra 800 e
900) sono entrate nel lessico il maggior numero di parole composte – e sono composte da elementi
formativi colti non autonomi (quasi-prefissi, semiparole) che si uniscono a formare nuovi composti. La gran
parte di esse è formata dall’unione:
- di elementi colti non autonomi: fotografia, cardiologia, omofobia, ecc.( soprattutto nel linguaggio
tecnico-scientifico )
- di un formativo greco o latino non autonomo con funzione specificativa (determinante) e di una
parola comune che funge da elemento-guida (determinato) – sintassi determinante+determinato
(tangentopoli, elettrodomestico, pornofilm) è inversa rispetto al tipo autoctono
determinato+determinante (pettirosso) riflettendo un influsso delle lingue germaniche moderne
con determinanti a sx (railway) dimostrativo di un riassestamento di morfologia lessicale (regole di
formazione delle parole) causato anche da spinte esterne, l’ingresso dei numerosi prestiti stranieri.
I nomi italiani hanno nella desinenza un’informazione condensata (pacchetto morfemico): le classi maggiori
sono -o/-i, -a/-e, -e/-i che indicano genere e numero, di importanza fondamentale per la costruzione di
raggruppamenti generali. Ci sono poi gruppi minoritari (2%): nomi maschili in -a (poeta,-i), qualche
femminile col plurale in -i (arma,-i), ecc.
Esiste, poi una serie di nomi invariabili, con medesima terminazione (virtù, città, re, ecc.) risultati spesso
dell’accorciamento di nomi toscani) → è proprio su questi nomi che è iniziato un movimento di deriva
(allontanamento dalle regole) a seguito dell’afflusso di parole straniere.
CONSEGUENZE
> Allentamento del pacchetto morfemico tradiz. (desinenza indicativa di genere e numero)
> La perdita del morfema plurale si inquadra nelle tendenze delle lingue contemporanee a utilizzare un
significante standard, determinato dal contesto grammaticale (tutti i sabato, gli Aristotele, i Platone…).
Dopo la scrematura ottocentesca la morfologia verbale rimane uno dei settori più stabili dell’italiano di
oggi.
Oscillano ancora “seggo, seggono/siedo, siedono; posseggo, posseggono/possiedo, possiedono; debbo,
debbono/devo, devono.
Molto limitate le varianti grafiche nel lessico. Nonostante la regola coesistono: province/provincie;
valigie/valige, con preferenza per -ce e -ge.
Tra i monosillabi pò sta per po’, e sono accentati quà, quì,stà, fà, và (x es in svizzera) e comunque i
programmi di videoscrittura correggono automaticamente la forma meno autorizzata.
Nelle parole composte da monosillabo finale accentato si preferisce la forma ripulita dal segno grafico:
rossoblu non rossoblù, doposci non doposcì; invece coesistono se stesso e sé stesso; soprattutto e tuttora
hanno prevalso sulle forme staccate (sopra tutto, tutt’ora), ecc.
Le lingue contemporanee di cultura cercano di stabilizzare una sola forma grafica per gli elementi
funzionali nello scritto (articoli, preposizioni, clitici) → standard grafico
Esempi: ci ho, ci ha (non ciò, cià, oppure c’ho, c’ha); le preposizioni per e con sono usate ormai staccate
dall’articolo (pel, col, in disuso); l’articolo determinativo “gli” e indeterminativo “una” e la particella
pronominale “si” non sono più elisi: gli italiani (non gl’italiani), una eventualità (non un’eventualità) si
amano (non s’amano).
4.4 La pronuncia
Connaturata a un mezzo che rappresenta una comunità linguistica così eterogenea come l’italiana rimane
la forte instabilità della pronuncia. L’uso comune sembra reggere alle forze centrifughe ma se le differenti
pronunce sono poco rilevanti, una pronuncia standard unitaria rimane un modello astratto.
D’altra parte, chi utilizza in pubblico pronunce troppo difformi dallo standard subisce una immediata
censura che funge così da forma efficace di controllo.
Esiste uno o + centri modellizzanti diffusori di pronunce? La radio e poi la televisione hanno contribuito
all’affermazione di un italiano parlato pubblico sempre più lontano dalle pronunce marcatamente locali.
Già con fascismo la radio aveva puntato a una pronuncia unitaria. Diverso è il caso della TV: nel corso degli
anni l’attenzione della Rai sulla pronuncia è diminuita; dai primi annunciatori assunti in base alla loro
dizione si passò ai giornalisti professionisti per i quali furono istituiti corsi di dizione.
Fu pubblicato il DOP (Dizionario d’ortografia e di pronunzia) come riferimento normativo destinato ai
professionisti del microfono (1969), però troppo costruiti a tavolino e poco moderno nella fonologia e
linguistica applicata (impostazione prescrittiva rigida che doveva riflettere la pronuncia “standard” in realtà
basata su centinaia di parlanti e scriventi fiorentini colti).
Più aggiornato sotto ogni aspetto è il MaPI (Manuale di pronuncia italiana di L. Canepàri, 2004) con meno
parole ma un’impostazione + descrittiva e meno prescrittiva, attento alle pronunce non toscane
(macroregionali) e alle ultime tendenze.
La situazione attuale è caratterizzata da due grandi poli geografico-culturali da cui si irradiano non solo
modelli di pronuncia ma anche di comportamenti transitori (moda, giochi, gestione del tempo libero):
1. MILANO: maggiori centri di produzione TV (Mediaset) e industria
2. ROMA: koinè di politici e burocrati che controlla la TV (RAI).
IN TV c’è multicentrismo nei telegiornali serali ma ci sono più voci centro-meridionali nei programmi
culturali o politici.
Questa situazione bicentrica non permette una tendenza compatta che possa far cambiare o neutralizzare
le opposizioni fonologiche dell’italiano, ma le nuove forme di comunicazione, attratte da una lingua sempre
più ripulita da venature regionali, appiattiranno le differenze.
5. Prestiti internazionali
Nella lingua di oggi i prestiti lessicali più evidenti sono i forestierismi o prestiti non adattati.
Fino al 500: la lingua scritta riceveva la parola straniera e la adattava al sistema fonomorfologico nativo
Da fine 500: le relazioni di viaggiatori cominciano a riportare parole esotiche nella forma originale (spesso
in trascrizioni approssimative o sperimentali).
600/700: aveva preso piede l’uso di trascrivere integralmente le parole straniere indebolendosi la capacità
assimilativa dell’italiano, raggiungendo livelli minimi o azzerati tra 800 e 900
Nelle lingue moderne l’uso di parole straniere nello scritto si rifà a un tipo di riproduzione per via oculare
che predilige il mantenimento della forma di partenza - un eventuale adattamento è percepito come
errore e censurato – anche se non corrisponde una pronuncia fedele → i prestiti integrali rappresentano
un’importante caratteristica delle lingue odierne (soprattutto a livello scritto) e sono anglicismi i più diffusi,
raddoppianti dagli anni 70 a gli anni 90, soprattutto nelle riviste che riflettono stili di vita moderni (62 %
delle parole straniere e 1% del totale).
Nel decennio 80/90 gli anglicismi integrali sono quasi raddoppiati, ma se prendiamo in esame i loro
derivati e composti vediamo che sono questi che vanno ad aumentare in maniera considerevole la
percentuale di parole straniere nel lessico italiano.
Infatti se le unità lessicali sono numericamente trascurabili, sono nettamente più importanti i derivati e i
composti da basi straniere:(film>filmare>filmografia>film-verità>filmetto> filmoteca…fino a + di 20).
Usando un morfema verbale o suffissale italiano (-tura, -ico, -ino, ecc.) o un formativo classico (-fago, -
grafia, -geno, -logia ecc.) il prestito viene sentito come una parola perfettamente italiana → questa nuova
struttura morfolessicale “base straniera + morfema/elemento libero o legato” è il modo più proficuo per
far assimilare le interferenze lessicali (tale procedimento moderno si affianca a quello tradizionale della
sostituzione sinonimica o del calco strutturale delle parole).
Il risultato è la riduzione del tempo di reazione verso i prestiti integrali che contraddistingue l’italiano
contemporaneo, soprattutto il linguaggio informatico ed economico (formattare, bypassare, uploadare…)
→ la serie derivativa (desinenza) non più tollerati nelle parole stesse (trascritte in lingua originale)
producono forme derivate adattate e totalmente plausibili (clown>claunesco, baudelaire>bodleriano,
download>daunlodare)
6. Tempi brevi
Per descrivere l’evoluzione storica di una lingua, l’antropologo Edward Sapir ricorreva a una similitudine
geologica: la lingua nel corso del tempo si muoverebbe con movimenti di deriva (drift) che la
allontanerebbero impercettibilmente ma costantemente dal punto di partenza, producendo alla fine una
nuova lingua.
A loro volta gli storici francesi hanno elaborato un modello di successione a strati dove le strutture nei
lunghi periodi storici si sovrappongono e si incastrano come le tegole di un tetto.
Più difficile è tentare una descrizione dei fenomeni nel periodo breve, cioè gli impercettibili movimenti di
deriva della lingua contemporanea, non basterebbe la vita di un uomo → per arrivare a cogliere la
differenza tra due stadi di lingua in diacronia occorre un tempo maggiore.
Per descrivere i cambiamenti di una lingua moderna occorre un modello diacronico coerente, che inquadri
il singolo fenomeno di deriva in un contesto culturale globale e che metta in relazione la misura temporale
con il suo effettivo tempo interno, variabile in epoche diverse.
> L’avvento della stampa e della cultura tipografica (primo segno moderno dato dalla serializzazione) ha
prodotto cambiamenti rapidi in tempi brevi: nella seconda metà del 500 i filologi fiorentini prendono
coscienza di una “fase antica” della lingua;
> le trasformazioni dell’epoca illuministica hanno reso più veloce la circolazione delle novità;
> tra il 1880 e il 1915 l’applicazione della tecnologia ai più diversi campi della produzione industriale ha
prodotto un’accelerazione esponenziale in tutti i settori della vita sociale. Le distanze fra un punto e l’altro
della terra si sono accorciate e il tempo ha cominciato ad essere sentito come una simultaneità
→ nel passaggio dal medioevo alla modernità anche una lingua di cultura come l’italiano abbrevia i suoi
tempi interni e dal 1800 inizia a muoversi con movimenti di deriva più rapidi.
La percezione nitida del cambiamento (autodiacronia) nel caso di una persona anziana può arrivare a
descrivere in cambiamento radicale da una fase all’altra di una lingua → se nel passato erano casi
eccezionali ora diviene più facile.
Il periodo 1958- 1963 è uno dei momenti critici in cui i fenomeni di deriva sono ulteriormente accelerati
dalle condizioni materiali in cui avviene la trasformazione (tanto che le analisi scientifiche sono in ritardo)
Nel 1964 Pasolini stesso si accorge che la “sua” lingua è cambiata: nei decenni successivi si stabilirà che il
tessuto connettivo dell’italiano lingua comune è costituito da uno strato superficiale di locuzioni tecnico-
scientifiche e di anglicismi diffusi a rete che hanno sostituito i modismi burocratici.
Il salto antropologico ha marginalizzato radicalmente i fraseologismi idiomatici e le locuzioni localizzate,
tipico di una cultura preindustriale.
I linguisti più scettici difendono la struttura portante dell’italiano e la sua unità storica ma la verità è che
l’italiano ha subito un livellamento delle sue strutture profonde che lo ha fatto diventare a partire dal
700 una lingua europea al pari delle altre.
Il fenomeno dell’“antichizzazione” della tradizione letteraria italiana ha raggiunto gli autori su cui si era
rifondata la stessa tradizione linguistica più recente (secondo don Milani, nei primi anni 60 molte parole dei
Promessi sposi non erano capite dai suoi scolari toscani). E oltre al lessico anche la grammatica dei PS
hanno subito movimenti di deriva (il trapassato remoto nelle reggenti, il condizionale per il futuro nel
passato, l’estensione media del periodo, la profondità delle subordinate, ecc).
L’azione della scuola ha mantenuto fino a ieri un contatto con la tradizione, ma la sostituzione di un tipo
di cultura a impianto retorico-umanistico con un nuovo tipo di cultura visivo-reticolare modellato sulla
simultaneità del “tempo reale” probabilmente accelererà ulteriormente questo distacco (ancor di +
perché si tratta di una lingua non + solo letteraria) e i “tempi brevi” del presente sono sempre più elastici
nell’accogliere l’innovazione.
Gli esiti non sono previsibili, ma le strutture a strati lunghi sono soggette ad accorciarsi fino a far perdere il
contatto col passato.