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1. Le varietà dell’Italiano
Mioni sostiene invece che le varietà dell’italiano siano l’italiano aulico, l’italiano parlato informale e
l’italiano colloquiale-informale. Inoltre Mioni mette in relazione queste varietà con la stratificazione
sociale dei parlanti assumendo che un borghese padroneggi tutte e tre le varietà, un piccolo
borghese padroneggi solo la seconda e la terza e un contadino solo la terza. Mioni suddivide
dunque le varietà di italiano sulla base della competenza e dello strato sociale dei parlanti,
giungendo dunque alla seguente quadripartizione: italiano standard formale, standard colloquiale
informale, italiano comune regionale e italiano regionale popolare.
Un altro modello è quello di De Mauro che sintetizza le precedenti formulazioni in una
quadripartizione che vede una gerarchia formata da italiano scientifico, italiano standard, italiano
popolare unitario e italiano regionale colloquiale. Questo tipo di schema è ottimo per valorizzare il
lessico ma non per l’importanza della pronuncia la cui considerazione deve promuovere più in alto,
in una gerarchia di differenziazione, la dimensione geografica.
Uno dei modelli più importanti che tenta di cogliere la poliedricità della situazione attraverso la
moltiplicazione delle varietà è il modello di Sanga, che enumera 8 varietà fondamentali per la
sezione italiana di un repertorio della sociolinguistica odierna: italiano anglicizzato, italiano
letterario (standard), italiano regionale, italiano colloquiale, italiano burocratico, italiano popolare
(unitario), italiano dialettale e italiano-dialetto. Le varietà sono ordinate da un massimo ad un
minimo di diversità e ogni varietà è collegata con lo strato sociale che le è proprio. L’italiano
anglicizzato (sia orale che scritto) è caratterizzato dalla presenza di anglicismi ed è utilizzato
dall’alta borghesia con contatti internazionali; l’italiano colloquiale è la realizzazione informale
dell’italiano regionale usato sia dall’alta borghesia che da altri ceti; l’italiano burocratico si basa su
un ideale scritto artificioso ed è usato dai ceti medi del terziario e avrebbe funzione di modello per
l’insegnante nella scuola; l’italiano dialettale (principalmente orale) è invece la realizzazione
dell’italiano popolare da parte di soggetti fortemente dialettofoni ed è un linguaggio usato
prevalentemente dal ceto popolare; l’italiano dialetto è invece caratterizzato dal passaggio di
espressioni italiane ad espressioni dialettali. Il modello di Sanga copre un ampio spazio di
differenziazioni, ma anche numerosi problemi. Innanzitutto vi è un’eterogeneità delle categorie: gli
assi diatopico, diastratico e diafasico sono mescolati con caratteri interni all’aspetto linguistico; in
secondo luogo il tentativo di collocare uno specifico tipo di italiano a una classe sociale porterebbe
soltanto alla schematizzazione delle classi sociali.
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Una novità nella tipologia dei repertori per le varietà dell’italiano è introdotta da Trumper e
Maddalon operando una distinzione tra uso orale e uso scritto. Trumper propone due
sottorepertori diversi per l’uno e per l’altro:
italiano standard - italiano sub-standard - italiano interferito sub-standard (per l’uso scritto)
italiano regionale formale - italiano regionale informale - italiano regionale trascurato
fortemente interferito (per l’uso orale).
Il modello di Trumper presenta numerose innovazioni: oltre alla divisione in due sottorepertori, va
notata l’assenza dell’italiano standard dal repertorio orale, che tiene conto del fatto che è un
eccezione trovare parlanti la cui pronuncia sia del tutto priva di coloriture regionali. Le varietà di
Trumper sono designate in termini di caratteristiche linguistiche in base alla quantità di elementi
sub-standard contenuti e alla maggiore o minore interferenza con il dialetto.
Un’altra proposta in merito alla classificazione delle varietà dell’italiano contemporaneo è quella di
Sabatini, che introduce accanto allo standard un’entità a cui sinora non era stato dato specifico
riconoscimento e cioè l’italiano dell’uso medio. Inoltre lui tiene separate le categorie, senza
mescolarle nella definizione delle varietà. Sabatini individua:
italiano standard
italiano dell’uso medio
italiano regionale delle classi istruite
italiano regionale delle classi popolari.
Le prime due varietà sono entrambe nazionali e si distinguono in diafasia (essendo una tipica
dell’uso formale e l’altra dell’uso informale). Tuttavia il modello di Sabatini pone comunque dei
problemi: il primo è costituito dalla separazione fra italiano regionale e italiano dell’uso medio; il
secondo riguarda l’italiano dell’uso medio che sembra coprire un ampio raggio di variazione
diafasica e che sembra dunque un nuovo standard piuttosto che contrapporsi ad esso.
Sobrero e Romanello, invece, come nel modello iniziale di Pellegrini, distinguono due sole entità:
italiano comune (alto e basso)
l’italiano regionale (alto e basso)
ripartendo però ciascuna in due fasce ulteriori, bassa ed alta. L’italiano comune alto sarebbe come
l’italiano standard presente in altre classificazioni; l’italiano comune basso corrisponderebbe a una
varietà connotata geograficamente a giudizio di puristi e non per i parlanti; l’italiano regionale alto è
una koinè regionale o interregionale, non connotata come dialettale; l’italiano regionale basso è
fortemente connotato come dialettale
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2. L’architettura dell’italiano contemporaneo
1. Occorre evitare di mescolare le dimensioni di variazione e nello stesso tempo tenere e dar
conto del fatto che esse si intersecano
3. Bisogna considerare anche la variazioni in diamesia, ovvero quelle tra scritto e parlato
Nel modello possiamo distinguere un centro, dove sono raccolti i fatti tendenzialmente unitari,
standardizzati normativi e normalizzanti e una periferia, che raccoglie i fatti tendenzialmente non
unitari, denormalizzanti o devianti dalla norma accettata, che costituiscono un’area più instabile e
cioè la sezione non standard e sub-standard delle varietà dell’italiano. Le tendenze in atto sono
dette centripete, se tendono a conguagliare verso il centro avvicinandosi allo standard con
funzione unificante; sono centrifughe se invece tendono ad allontanarsi dal centro aumentando la
differenziazione.
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In pratica un registro molto formale coincide con le caratteristiche tipiche dello scritto, un registro
molto informale con quelle del parlato, ma ci sono anche stadi intermedi. Per cogliere alcune
differenziazioni si distingue infatti tra uso orale e grafico (caratteri dipendenti dalla natura del
mezzo) e codice parlato e scritto (caratteri dipendenti dalla pianificazione, dall’elaborazione
strutturale, dalla formalità, ecc…).
Il centro sociolinguistico dell’architettura non coincide con il suo centro geometrico, ma è
spostato verso il quadrante scritto, formale, alto, data la peculiare storia della lingua italiana, il cui
standard si è tradizionalmente modellato sull’uso scritto, letterario e aulicizzante. Dal centro verso
il basso aumenta il carattere sub-standard delle varietà, invece dal centro verso l’alto aumenta il
carattere non standard. Comunque le varietà poste nello schema sono da intendere come
addensamenti, che rappresentano nodi di articolazione del continuum di varietà dell’italiano
contemporaneo, più che come varietà discrete ben isolabili.
Il centro è costituito dall’attuale porzione di standard dell’italiano, che appare suddivisa in due
varietà per dar conto degli effetti di rinormativizzazione e di ristandardizzazione che recentemente
si stanno verificando, con l’assunzione nello standard di tratti finora sub-standard e con
l’avvicinamento dello scritto e del parlato.
1. Al centro del centro sta l’italiano standard letterario, cioè quella lingua descritta e
regolata nei manuali di grammatica, che in linea di principio non è marcata né
diatopicamente né socialmente. In realtà oltre ad essere scarsamente utilizzata da concreti
parlanti, manifesta un lieve grado di marcatezza diastratica, dato che essere è rintracciabile
solo in piccole elites o gruppi professionali specifici. Inoltre possiamo affermare che
nonostante non tutti i tratti toscani siano recepiti nello standard (che si configura appunto
come un fiorentino emendato), abbia una sfumatura di marcatezza diatopica, dato che
rimanda pur sempre a una base fiorentineggiante.
2. Sempre al centro si colloca poi l’italiano neo-standard, che possiamo considerare come
un tutt’uno con lo standard ma che allo stesso tempo è sensibile a differenziazione
diatopica e corrispondente quindi fondamentalmente nei concreti usi dei parlanti a un
italiano regionale colto medio.
Due varietà assai importanti nella dinamica sociolinguistica sono poi l’italiano parlato colloquiale
e l’italiano popolare regionale. Esse sono vicine al centro perché alcuni tratti precedentemente
marcati per colloquialità per stigma sociale sono stati catturati dalla norma e hanno perso
marcatezza. Il fulcro di questo movimento tra centro e periferia è naturalmente l’italiano neo-
standard, che fa da mediazione tra le tendenze provenienti dal basso e lo standard.
3. L’Italiano parlato colloquiale è una varietà marcata in primo luogo in diamesia, in quanto
è tipicamente parlata e in secondo luogo in diafasia, in quanto tipica degli usi della metà
non formale della scala di formalità. È l’italiano della conversazione ordinaria. Non va
confuso con il registro informale più basso e trascurato, in cui agiscono per lo più fattori di
improvvisazione. Ovviamente è marcato a priori in diatopia
Sul lato dei Registri possiamo collocare l’italiano informale trascurato, dal lato dei Sottocodici
possiamo invece collocare un eventuale italiano gergale o paragergale.
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L’italiano informale trascurato rappresenta la varietà più bassa in diafasia, quella in cui agiscono
in maniera più netta i fattori derivanti dall’improvvisazione, dalla mancanza di attenzione e di
controllo nell’elocuzione.
Sotto l’etichetta di italiano gergale possiamo invece raggruppare le varietà colloquiali- espressive
proprie di categorie o gruppi particolari di utenti, che ai tratti dell’informale trascurato aggiungono
tipicamente un lessico peculiare, valido sia per affermare che per rinforzare il senso di
appartenenza al gruppo e (nei casi più estremi) per impedire la partecipazione alla comunicazione
ai membri estranei al gruppo. Si tratta di un polo di varietà molto instabili e mutevoli: esempi
possono essere il linguaggio giovanile, i gerghi studenteschi, ecc… In queste varietà al polo più
basso e sub-standard della variazione diafasica emerge il cosiddetto modo pragmatico, vale a
dire un modo di strutturare il discorso che si affida di più alla semantica che non alla sintassi e
codifica grammaticalmente il meno possibile.
Nel quadrante inferiore destro del nostro schema, a un livello minore di informalità e di sub-
standardità, potremmo collocare una varietà come l’italiano familiare, una varietà di lingua
caratterizzata dal formarsi presso gruppi di amici e famiglie, cioè gruppi in cui la densità della rete
comunicativa finisce per creare inevitabilmente usi linguistici peculiare del gruppo.
Al polo opposto dell’asse diafasico, nel quadrante superiore sinistro dello schema, si troveranno
evidentemente le varietà caratterizzate da una massima elaborazione a livello morfosintattico,
semantico-lessicale e testuale, quali:
7. l’italiano formale aulico, impiegato in situazioni pubbliche e solenni sul lato dei registri
8. l’italiano tecnico-scientifico, impiegato per temi specialistici, sul lato dei sottocodici.
Per continuum si intende un insieme di varietà che sfumano l’una nell’altra, le cui varietà estreme
sono facilmente identificabili. Questa sovrapposizione tra le varietà attraverso un passaggio
graduale fa sì che la differenza sia minima tra varietà contigue e aumenti proporzionalmente
procedendo verso gli estremi opposti del continuum. Generalmente si dà per scontato che le due
varietà agli estremi del continuum siano rispettivamente la varietà alta e la varietà bassa di una
situazione di diglossia, o comunque simile alla diglossia; e che quindi il continuum sia orientato da
una varietà di prestigio o standard a una varietà non di prestigio o sub-standard. Un continuum di
varietà italiane non è lineare, bensí multidimensionale. Possiamo distinguere quattro tipi di
continua:
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Un continuum generico, costituito da un insieme di varietà non discrete (non misurabili)
non orientato
Un continuum con polarizzazioni, costituito da un insieme di varietà non discrete
orientato (che va cioè da un polo alto a un polo basso, con le varietà agli estremi ben
definite e isolabili)
Un continuum con addensamenti, vale a dire costituito da un insieme di varietà non
discrete, orientato ma non polarizzato, in cui le diverse varietà coincidono con
addensamenti dei fasci di tratti lungo il continuum, in maniera che gli addensamenti
principali possono trovarsi anche non agli estremi del continuum.
Un gradatum, costituito da varietà almeno in parte discretizzabili. Il concetto di gradatum in
realtà si oppone a quello di continuum, in quanto abbiamo la successione graduale delle
varietà disposte sullo stesso asse e passando da una varietà all’altra si scende o si sale,
verso uno dei due poli.
Il continuum con addensamenti sembra quello corrispondente alla sezione italiana del repertorio
linguistico del nostro paese. I tratti variabili tendono a disporsi lungo un asse in maniera molto
distribuita, ma tuttavia con addensamenti in punti corrispondenti alle verità principali della gamma.
Le scale di implicazione sono matrici a doppia entrata, che rappresentano dati in maniera tale
che tra loro esista un rapporto di implicazione, vale a dire ordinate in base a una disposizione in
cui né nelle linee orizzontali né in quelle verticali ci siano discontinuità nei valori dei tratti. Esse
permettono di prevedere i rapporti di cooccorrenza tra valori di variabili sociolinguistiche.
Per concludere il discorso sulla natura del continuum delle varietà dell’italiano, bisogna soffermarsi
sui rapporti fra le varietà e i parlanti (o utenti). I parlanti membri di una comunità linguistica hanno
accesso e possiedono in maniera ben differenziata la gamma di varietà. I fattori che intervengono
sono molteplici, ma i principali sono da ricondurre alla stratificazione sociale e in particolare al
grado d’istruzione, al tipo di occupazione e alle aspirazioni sociali. Ma l’assegnazione dei parlanti a
classi o strati sociali e il riconoscimento stesso degli strati, oggi in Italia sono molto problematici.
Il repertorio individuale è sempre una sottosezione del repertorio della comunità, a volte assai
ridotta. La conseguenza di ciò è che la collocazione dei registri può variare parecchio da parlante a
parlante: quello che per un parlante con una gamma di varietà più ristretta è il registro più alto a
disposizione, per un parlante con una gamma di varietà più ampia sarà un registro medio.
Inoltre la grammatica di base del singolo parlante può comprendere tratti o settori di altre varietà,
non pienamente solidali con la varietà di base. Ogni parlante, insomma, ha la sua varietà, che
spazia fra i tratti del continuum globale.
Un problema non di poco conto è che i confini tra le varietà del continuum non sono netti
nemmeno riguardo ai tipi di parlanti con cui corrispondono. È esperienza comune che individui
medio-colti a volte usano un italiano quasi popolare o addirittura del tutto popolare. Ovviamente
questo accade nel loro caso soltanto quando la lingua verrà impiegata nell’uso orale, mostrando
dunque una competenza scritta e orale.
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4. Varietà marginali e semplificazione linguistica
Quando parliamo di varietà marginali ci si riferisce a quelle varietà di lingua sviluppate ed usate da
parlanti poco competenti dell’italiano perché aventi come repertorio nativo un repertorio non
italiano. In primo luogo ci riferiamo in particolare alle cosiddette interlingue o varietà di
apprendimento; in secondo luogo, anche alle varietà impoverite e ridotte conservate presso la
seconda e spesso terza generazione di emigrati italiani all’estero. A questo proposito bisogna
delineare il concetto di semplificazione linguistica.
Semplificazione linguistica è un rapporto fra due forme o strutture linguistiche definibile come il
processo secondo cui a una forma o struttura X di una lingua si contrappone o si sostituisce una
corrispondente forma o struttura Y della stessa lingua (o di un’altra lingua) più semplice, dove più
semplice significa “di più immediata comprensibilità”. Da questo si ricava che: porta al
mantenimento di quanto essenziale, si basa sulla facilità produttiva per il mittente, quella percettiva
per il ricevente e quella di apprendimento.
Tra i tratti che caratterizzano la semplificazione abbiamo: un vocabolario più ridotto con termini
generici, scarsità di subordinate, mancanza di flessione, costruzione attiva, ordine delle parole
invariante, no copula e pronomi, strutture CVCV o CV rispetto a nessi consonantici o polisillabi,
lessico comune, contiguità sintagmatica tra elementi legati,
Fenomeni di riduzione della grammatica e di restringimento delle funzioni si hanno anche nei
registri semplificati, rivolti da parlanti competente a riceventi ritenuti poco competenti, come il
baby talk, il foreigner talk (usato con gli stranieri) e simili; oltreché in varietà di registro particolari
come il linguaggio telegrafico, degli appunti, ecc…
Singoli fenomeni di semplificazione/complicazione appaiono agire anche nelle varietà a pieno titolo
di una lingua. Il parametro della relativa semplificazione/complicazione sembra infatti costituire
un’ulteriore dimensione significativa che agisce nel continuum di varietà di lingua. Semplificazione
non deve però essere confusa con impoverimento, perché quest’ultimo si riferisce ad una perdita di
potere referenziale e non referenziale o ad una diminuzione del potenziale espressivo.
Nello schema che rappresenta un continuum di semplificazione delle varietà di una lingua (pag.
48) sono distinte tre fasce di varietà, che vanno da un massimo di semplificazione a un massimo
di complicazione. In situazioni di diglossia la varietà bassa ha una morfofonemica più semplice
regolare, paradigmi più simmetrici, accordo e reggenza più rigidi:
1° fascia: comprende le varietà in cui la semplificazione o la complicazione è operata
volutamente, in relazione a specifiche circostanze della situazione comunicativa,
rivolgendosi a parlanti nativi poco competenti o a parlanti non nativi. All’estremo di
massima semplificazione abbiamo il foreigner talk, usato a volte in situazioni in cui è
necessario comunicare in maniera basilare con stranieri che sanno poco la lingua. Una
sottocategoria del foreigner talk è il teacher talk, la varietà talvolta usata da insegnanti che
insegnano la propria lingua a stranieri per spiegare o per interagire con gli allievi. Aspetti
particolari di semplificazione presentano i cosiddetti stili per scopi speciali, vale a dire
registri impiegati in condizioni in cui siano importanti l’economia e la riduzione essenziale
del contenuto e della forma del messaggio: un caso specifico è il linguaggio telegrafico,
lo stile da appunti, lo stile di comunicazione radio. Caratteri di semplificazione si hanno
evidenti nel baby talk. Un certo grado di semplificazione voluta manifestano anche alcune
lingue speciali, come linguaggi di mestiere o di tecnica, e alcune lingue di servizio
(comunicazione radio, inserzioni…). All’estremo di massima complicazione abbiamo invece
le varietà più complicate, ovvero la gran parte delle lingue speciali e in primo luogo i
sottocodici delle scienze, arti, tecniche moderne.
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2° fascia: comprende le varietà, sempre tipiche di parlanti nativi, in cui si manifesta
semplificazione non voluta espressamente dall’utente. Nel polo della semplificazione
abbiamo le lingue in via di estinzione o decadenza. Si tratta di varietà che sono parlate
da parlanti terminale o preterminali, cioè dalle ultime generazioni che ancora hanno una
competenza ridotta della lingua. È questo il caso delle varietà alloglotte, parlate presso
comunità che fanno parte di una più ampia comunità di un’altra lingua; o di varietà della
lingua originaria di emigranti rimaste presso la seconda, la terza o ultima generazione nel
paese ospite. Possono verificarsi in questo caso anche fenomeni di logorio linguistico,
come il language attrition, che comprende una netta semplificazione della morfologia.
Nella stessa fascia abbiamo il settore centrale del continuum, costituito dalle varietà
diastratiche e diafasiche dell’italiano. Qui abbiamo un graduale incremento di
complicazione. L’italiano standard va già considerato una varietà con fenomeni di
complicazione e non può quindi rappresentare l’ideale centro del continuum, punto di
equilibrio tra tratti semplificanti e tratti complicanti. Lo standard è stato infatti posto a destra,
nella metà complicata del continuum, rispetto ad un ipotetico punto neutro vuoto,
rappresentante un equilibrio teorico fra tendenze semplificatrici e tendenze complicanti.
All’estremo di massima complicazione abbiamo le varietà diafasiche e diastratiche alte.
3° fascia: le varietà frutto di una semplificazione non voluta, ma forzosa, presso parlanti
non nativi che si ricostruiscono il sistema imparando la lingua. In primo luogo vanno
menzionate qui le interlingue o varietà di apprendimento di chi sta imparando l’italiano.
Sempre verso l’estremo di alta semplificazione abbiamo anche le varietà pidginizzate di
una lingua. Nelle varietà pidgin: vi è una grande distanza linguistica e culturale tra la lingua
nativa e le lingue non native in contatto; è una maggioranza dominata ospitante a trovarsi
ad imparare la lingua della minoranza dominante ospitata, di solito straniera; lo sviluppo
delle varietà è autonomo, secondo meccanismi propri, e non avviene verso il target della
varietà standard o della varietà della lingua seconda con cui si è in contatto, ma crea una
propria grammatica che in genere non dipende da quella della lingua che fa da input.
Spesso ciò accade in situazioni coloniali.
La semplificazione quindi è una dinamica del tutto normale in situazioni di sistemi di contatto.
Inoltre bisogna tener conto dell’opposizione fra modo pragmatico e modo sintattico, quali due poli
opposti della strategia di strutturazione linguistica dell’enunciazione verbale. Il modo pragmatico,
caratterizzato dal prevalere della semantica sulla sintassi, è tipico delle varietà a sinistra dello
schema ed è direttamente proporzionale al grado di semplificazione. Il modo sintattico,
caratterizzato invece da morfosintassi elaborata, è tipico delle varietà sulla destra.
Nel complesso, la dinamica più rilevante nell’attuale architettura dell’italiano sembra sia legata,
secondo Sobrero, a una risalita di tratti dal basso verso l’alto. Sembra che il parlato cambi e si
rinnovi sempre più dal basso. Sembra in effetti aumentata la portata della diafasia (specialmente
con la gamma di nuove situazioni d’uso create dalla comunicazione digitale). Sembra invece
diminuita la portata della diastratia (si parla infatti sempre più spesso di un indebolimento
dell’italiano popolare) e della diatopia. Una dinamica del genere è intrinseca nella
ristandardizzazione recente dell’italiano, che si rinnova sulla base di tratti già esistenti.
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La diamesia ha subito svariati cambiamenti e questo è accaduto soprattutto grazie
all’affermazione delle nuove tecnologie comunicative. Si è cosí presto creata e consolidata una
nuova serie di usi della lingua basati su supporto elettronico, che hanno dato luogo a un insieme di
sottovarietà denominabili nel loro insieme lingua della comunicazione elettronica. Tali usi della
lingua sono stati studiati sotto l’etichetta di comunicazione mediata dal computer e hanno
incluso anche la comunicazione digitata sul telefono cellulare che rappresenta una forma di
scrittura che condivide con la normale conversazione parlata la natura di dialogicità immediata,
sincrona. La CMC viene quindi ad occupare una posizione particolare sull’asse diamesico,
mettendo in crisi la tradizionale distinzione tra parlato e scritto: si tratta infatti di una comunicazione
linguistica che si avvale del mezzo grafico, ma che al tempo stesso ha caratteristiche strutturali
tipiche del parlato spontaneo. La lingua della CMC ha dunque una collocazione diamesica
speciale (pag.56). Le combinazioni tra le caratteristiche parlato/scritto e fonico/grafico danno luogo
a quattro possibili tipi generali di realizzazioni. La CMC va ovviamente ad occupare la casella
“parlato grafico”. Ma ciò non basta perché la CMC è una produzione autentica spontanea mentre
la trascrizione di parlato è una riproduzione post factum. Inoltre la CMC si contraddistingue per
interattività ed espressività, che sono tipiche del parlato fonico.
La dimensione distopica, a differenza delle altre tre dimensioni, non è rappresentabile come un
continuum polarizzato e orientato, con un asse che vada da un polo al polo opposto ed entro cui si
situino gradazioni e addensamenti intermedi, ma costituisce un continuum lineare orizzontale.
Ogni località geografica del territorio dove si parla tradizionalmente italiano ha in una certa misura
una sua varietà di italiano, con alcune differenze rispetto alle località limitrofe. Le diverse varietà
diatopiche sono in genere raggruppate sotto la nozione di italiano regionale. Gli italiani regionali
sono il risultato dell’influenza del dialetto retrostante sull’italiano come si è venuto consolidando
nelle varie regioni.
I livelli di analisi delle varietà geografiche sono stati la fonetica-fonologia e il lessico, cioè quelli più
evidenti.
Il rapporto fra tratti diatopicamente marcati e le dimensioni diastratica e diafasica è molto
significativo. Due dinamiche molto evidenti nell’ultimo ventennio, come effetto combinato di vari
fattori, sono infatti la fusione, presso le nuove generazioni di parlanti che hanno l’italiano come
unica lingua di socializzazione primaria, di tratti regionali diversi e la progressiva perdita di
marcatezza diatopica di molto italiano parlato.
1. Fusione di tratti regionali diversi: Cortinovis e Miola hanno studiato la diffusione nel
linguaggio giovanile di Torino e Milano di un suffisso siciliano come -uso (incazzuso, stiluso
…). Insomma, presso le nuove generazioni di parlanti c’è stato un progressivo scemare
della marcatura regionale e si è andata configurando la formazione di un italiano
composito, molto poco marcato diatopicamente e/o con tratti di varia provenienza
regionale.
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5.3. Varietà e semplificazione
Un contributo rilevante alle implicazioni pratiche dello studio della semplificazione linguistica viene
dai lavori sulla semplificazione pianificata volta a rendere accessibile l’informazione a utenti
socioculturalmente svantaggiati o a rendere più semplice e comprensibile il linguaggio burocratico
e amministrativo. La riformulazione di un testo si basa su vari principi: semplificazione lessicale,
semplificazione mediante cancellazione o parafrasi, ecc…
CAPITOLO 2
TENDENZE DI RISTANDARDIZZAZIONE
1. Lo standard
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Ammon sostiene che una delle caratteristiche che sicuramente definiscono la nozione di standard
è il criterio della Codificazione, ovvero il riferimento a un corpus di regole che definiscano le
prescrizioni d’uso.
Una caratterizzazione linguistica dello standard può invece prendere due direzioni:
1. Normativa, nel senso di insieme di tratti ed elementi che possano fungere da modello o
punto di riferimento uniforme e corretto
2. Descrittiva, nel senso di insieme di tratti comuni, non marcati, o meno marcati, lungo tutti gli
assi di variazione linguistica e relativa marcatezza.
Ovviamente una definizione linguistica è collegata con la definizione sociale- funzionale.
Oggi è improprio identificare la varietà standard dell’italiano con il fiorentino colto. Piuttosto
dovrebbe essere definito un fiorentino emendato, epurato, privato di quei tratti riconosciuti come
tipicamente caratteristici dell’area di provenienza e come tali stigmatizzati e cioè l’intonazione, la
gorgia toscana, ecc. Di conseguenza in Italia nessuno possiede l’italiano standard come lingua
materna, perché la pronuncia standard è di solito il frutto artificiale di apposito addestramento e
come tale è riservata a determinati gruppi socio-professionali (doppiatori o attori ad esempio).
L’allontanamento fra italiano standard e italiano tosco-fiorentino sembra particolarmente evidente
nell’ultimo secolo. Alcuni studiosi non sono però molto d’accordo. Forse l’italiano dell’ultimo secolo
non si è mosso in senso antitoscano, anzi in alcune occasioni ne ha seguito il modello. Secondo
Serianni la riforma manzoniana e la standardizzazione che ne seguì ha avuto un forte influsso
sulla nostra lingua.
Il problema dello standard è comunque legato al concetto di norma. Parlando di norma linguistica
si possono intendere tre cose:
2. Norma descrittiva, dove “norma” significa ciò che è meno marcato e a cui il parlante si
conforma
3. Norma statistica, vale a dire ciò che è più frequente, il comportamento esibito di fatto dalla
maggior parte delle persone (per certi aspetti può essere considerata una sottocategoria
della precedente)
Secondo la norma prescrittiva, una varietà (lo standard) è migliore delle altre, superiore alle altre.
Parlando invece di norma descrittiva, si intende ovviamente che ogni varietà di lingua ha una sua
norma e che quindi nella lingua non esiste una norma assoluta, bensì si danno diverse norme
coesistenti, ciascuna delle quali più o meno congruente o adeguata a un determinato insieme di
fatti contestuali. In realtà lo standard è costituito da ciò che è comune all diverse varietà più ciò che
appunto è definito standard.
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2. Il neo-standard
Nello sviluppo dell’italiano dopo gli anni 60 si sono affermati come standard costrutti, forme e
realizzazioni che non erano presentati nel canone delle grammatiche e che erano identificati nel
linguaggio popolare o familiare, o regionale, cioè da evitare. A tali fatti viene dato il nome di neo-
standard. Creato dalla mutata interazione sociale il N-S è strutturalmente + semplice (+ vicino alla
parlata colloquiale) e + variato (in diatopia e in diafasia). Nonostante sia difficile prevedere il futuro
dell’evoluzione dell’italiano sembra che il N-S si stia consolidando, sulla base di una lingua in
continuo movimento che aggiunge nuovo al vecchio. Serianni, sostiene, però, che la norma scritta
tradizionale sia ancora molto efficace. Vediamo ora i tratti del neostandard.
3. Morfosintassi
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3.2. Il che polivalente
Un interessante insieme di fenomeni appare in atto nel complesso sistema verbale dell’italiano che
riguardano sia l’uso dei tempi, sia l’uso dei modi. Le cose stanno cambiando rapidamente: accanto
ad alcuni tempi andati in disuso, come il trapassato remoto, altri sembrano in espansione.
Si può notare innanzitutto l’estensione di impieghi dell’imperfetto: sono del tutto normali gli
impieghi di cortesia (volevo un chilo di pere), di creazione di mondi possibili (correvo su
una pianura lunare) e nel periodo ipotetico della realtà (se venivi prima, trovavi ancora
posto), nel discorso indiretto per indicare il futuro nel passato (mi ha detto che veniva). Nel
primo e nell’ultimo caso l’imperfetto viene dunque sostituito al condizionale, che appare in
ribasso.
Anche il passato prossimo appare in forte espansione, a discapito stavolta del passato
remoto. Addirittura il passato prossimo tende ad essere usato in luogo del futuro anteriore
(fra un mese ho fatto gli esami e sono a posto).
Il futuro perde ambiti d’impiego anche nei confronti del presente, che ha preso piede per
designare il futuro prossimo (vengo domani). Il futuro rimane vivo negli usi cosiddetti
epistemici (sarà vero?).
Il congiuntivo è invece in regressione. La sostituzione dell’indicativo al congiuntivo è
marcata come centro-meridionale, anche se è in espansione al Nord. Il neo-standard,
infatti, sembra sulla via della progressiva estensione dell’indicativo.
Nel parlato colloquiale e in molti italiani regionali si sono sviluppate numerose perifrasi che
hanno la funzione di rendere categorie dell’aspetto del verbo. Nell’italiano contemporaneo
ha preso maggiormente piede la forma stare+gerundio. Prima questa forma si usava
soltanto per indicare la duratività di uno stato, mentre oggi viene usata anche per indicare
un processo trasformativo (sto vedendo, sto andando, sta piovendo). Questa costruzione
esprime infatti sia l’aspetto progressivo che quello continuo. In conclusione, nell’italiano
neo-standard paiono in netta estensione sia la frequenza che l’ambito d’impiego della
perifrasi progressiva. Probabilmente questo è dovuto all’influenza dell’inglese, dove la
forma progressiva ha una larga gamma di impieghi.
L’uso del si+terza persona singolare del verbo è un tratto in forte espansione di
derivazione toscana, marcato in diatopia (si va), che sembra si stia diffondendo fuori dalla
regione.
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3.4. Pronomi
È nel settore dei pronomi che stanno forse avvenendo i fenomeni di ristandardizzazione e
ristrutturazione più ampi dell’italiano contemporaneo.
Pronomi personali soggetto: la triplice serie egli, ella/esso, essa/essi, esse/lui, lei, loro è
stata risolta nell’italiano medio con lui, lei, loro, la cui standardizzazione ha relegato quasi
tutte le altre forme allo scritto sorvegliato.
Clitici dativali: da tempo si tende ad usare gli in tutte le occasioni. Addirittura è ormai una
consuetudine usare il maschile gli per il femminile le, oltre che gli per loro o gli per ci. Gli,
dunque, sta espandendo i suoi ambiti di impiego (mi può mandare quella pagina? Vorrei
dargli un’occhiata).
Ci, invece, nonostante stia perdendo ambiti d’impiego, è in espansione in molti altri.
Pensiamo per esempio ad averci, di uso costante. Nel parlato rimane legata all’origine
romana (ci abbiamo un gatto/ciabbiamo un gatto) ma è ormai del tutto standard nello scritto
(hai il biglietto? Si, ce l’ho). Abbiamo poi verbi ormai comunemente usati come starci,
volerci, entrarci, contarci, crederci che hanno una specializzazione semantica rispetto al
corrispondente non pronominale.
Ne viene usato spesso con verbi come parlare, dando luogo a delle dislocazioni a sinistra o
a destra o a delle frasi relative con ripresa clitica (Ma di questo ne parleremo in seguito)
A me mi è un costrutto ormai ridondante. Va interpretato come una dislocazione a sinistra,
in cui il clitico funziona da morfema casuale legato al verbo.
Un ultimo clitico interessante e il lo neutro, usato per riprendere anaforicamente o
cataforicamente una proposizione o un predicato (lo credo bene che hai fame; Paolo si
crede intelligente, ma non lo è).
Pronomi dimostrativi: ciò è ormai quasi soppiantato da questo/quello. Inoltre un’ulteriore
novità sta nel fatto che quello sta cominciando ad essere sempre di più impiegato come
aggettivo desemantizzato, come semplice sostituto dell’articolo determinativo (nei confronti
di quelle organizzazioni che fanno ricorso al terrorismo).
Pronomi interrogativi: la forma cosa si usa ormai in sostituzione dello standard che cosa
e a che, come pronome interrogativo neutro. Quest’uso sembra essere più esteso al nord e
ciò rimanda a un uso particolare dei dialetti settentrionali.
Pronomi relativi: il quale tende sempre più spesso ad essere sostituito dal che e nei casi
obliqui da cui. Il quale rimane vivo nell’uso scritto e il che prevale decisamente anche negli
usi esclamativi e interrogativi.
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3.5. Altri fenomeni
Congiunzioni subordinanti:
perché usato con valore finale
Siccome e dato che prevalgono come causali
Cosí usato con valore consecutivo-finale-esplicativo (giriamo di qua, così imbuco)
Per + infinito con valore causale (mio nipote si è rotto un braccio, per andare a sciare)
Forme interrogative
Come mai al posto di perché
Com’è che al posto di come mai
Concordanze
Concordanza ad sensum del predicato verbale quando il soggetto è un nome
collettivo seguito dal suo complemento partitivo (una serie di prove mostrano che)
Mancata concordanza del predicato verbale con un soggetto al plurale quando il soggetto
è postposto (ce n’è di misteri in questa storia)
Nomi giustapposti
Sono quei nomi dove la norma richiederebbe l’inserzione di di o di un’altra espressione, ma
ciò non accade. Indagine pilota, donna poliziotto, scuola guida, sala parto, ecc…
Elativo
Per il superlativo sono ormai frequenti forme analitiche come estremamente, assai o
prefissi con -stra, -extra
Si sono diffuse formule di elativizzazione o intensificazione anche per i nomi, utilizzando il
suffisso -issimo, la ripetizione del nome e la prefissazione con super- (partitissima,
vacanza vacanza, supermulta)
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4. Lessico e formazione delle parole
Negli ultimi decenni c’è stata una larga accettazione nel neo-standard di termini in origine molto
marcati socialmente, geograficamente, espressivamente, che hanno perso la loro marcatezza e
sono oggi utilizzati nel parlato non enfatico. Si va dalla standardizzazione di termini di registro
basso alla desemantizzazione di termini mediamente marcati. Alcuni termini cominciano a
sostituire degli altri (arrabbiarsi per adirarsi).
Nell’italiano del dopoguerra sono entrati moltissimi forestierismi, considerati fattori critici per il
rinnovamento linguistico. Nonostante ciò sembra che non siano pericolosi nell’ambito
dell’evoluzione della lingua. Questo accade soprattutto perché sono parole che generalmente
vengono usate nello scritto e in alcuni linguaggi settoriali (come il giornalismo) e quindi non
turbano poi così tanto la natura dell’italiano. Sono concentrati nello scritto, in certi linguaggi
settoriali, numerosi calchi. Non raramente seguono sviluppi autonomi dal punto di vista semantico
o formale, spesso sono anche prestiti di ritorno dalla tradizione greco-latina.
Bisogna osservare anche le dinamiche dei meccanismi di formazione delle parole. Le tendenze in
espansione a livello dei suffissi sono:
Suffissati nominali in -ista (chi aderisce a qualcosa, nomi di mestiere, caratteristica di
qualcuno)
Suffissati nominali in -ismo
Suffissati nominali in -zione e -mento (regolazione, regolamento)
Suffissati verbali in -izzare (scannerizzare)
Suffissati aggettivali in -ale (medicale)
Prefissi:
Inter-, tele-, post-, euro-, pluri-
Composti:
Parole complesse per cumulo di suffissi (nazionalizzabilità)
Composti plurimembri (teleradiocomunicazioni)
Termini con pseudosuffisso -màtica (telematica,
informatica) Sigle e abbreviazioni
Le sigle danno luogo a parola di struttura assai strana e non scomponibili in morfemi
(efbiai, ibiemme, cìa)
Le abbreviazioni, invece, sono costruite o per accorciamento di parole lunghe o per ellissi
di un membri di una parola composta. (Prof, frigo, Juve, zoo)
Nel complesso, per quello che riguarda il lessico e la formazione delle parole, la norma e il sistema
dell’italiano paiono orientarsi secondo tre tendenze fondamentali:
1. La preferenza per espressioni sintetiche invece che analitiche (prefissi, suffissi, sigle)
2. L’azione di fatti semplificanti ed economici (abbreviazioni, sigle)
3. La spinta a conformarsi a uno Standard Average European
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5. Testualità, pragmatica e “costume” linguistico
Gli storici della lingua sono concordi nel ritenere che in italiano moderno vi sia una progressiva
tendenza a semplificare la struttura del periodo nel senso paradigmatico (costrutti ricorrenti) e
sintagmatico (preferenza di costruzioni paratattiche elaborate). Da questo punto di vista sono
interessanti gli impieghi delle congiunzioni. Vi è una tendenza a un periodare ipotatticamente
elaborato e di conseguenza a un incremento della nominalizzazione. Diminuisce dunque la
lunghezza e la complessità media del periodo, anche se in alcuni settori accade il contrario,
facendo uso di perifrasi (dare lettura per leggere, dare comunicazione per comunicare). Stessa
cosa accade con le formule riempitive, che diluiscono il discorso (viene ad essere/quello che è
per è). Alcune formule riempitive costituiscono una sorta di pausa nel fluire del discorso tanto che
vengono utilizzate nel discorso espositivo. Tra queste possiamo annoverare anche cioè, ma
soprattutto i due anglismi ochei e esatto, ormai entrati quasi del tutto nello standard.
Dal punto di vista pragmatico due fenomeni evidenti sono il mutamento nel sistema
dell’allocuzione e la detabuizzazione di sfere semantiche e lessicali tradizionalmente
interdette. Si tende oggi sempre più ad usare l’allocutivo confidenziale tu anche in situazione
formali e con interlocutori non conosciuti. Inoltre lessemi ordinariamente osceni o disfemistici si
diffondono nell’uso perdendo la loro marcatezza. Cazzo e casino sono forse i due elementi
lessicali emblematici di questa trasgressione verbale ormai regolarizzata. Una seconda sfera di
discorso prima tabuizzata e venuta in primo piano è il parlare di sé. Si parla molto più di fatti
personali, sessuali e psicologici, anche grazie ai nuovi strumenti di comunicazione e questo muta il
livello di ciò che è considerato volgare.
È da notare che per la loro natura i fatti di costume linguistico danno l’impressione di un ricambio
accelerato della lingua, ma in realtà la loro incidenza nel mutare la norma è minima. Le mode
cambiano, ma la lingua resta. Altro fenomeno che si è sviluppato è l’uso delle virgolette senza
che ci sia effettivamente un discorso diretto, usate per sottolineare il tono particolare della parola.
Un altro ancora è l’uso della lettera maiuscola per enfatizzare i termini.
6. Fonologia
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Quanto ai rapporti tra gli standard regionali, gli influssi reciproci sembrano scarsi, proprio perché i
vari accenti regionali colti sono giudicati stabili e consolidati.
È arduo e azzardato in linguistica fare previsioni. Rientra però nell’ovvio prevedere che continuerà
la tendenza all’avvicinamento tra parlato e scritto e che i fenomeni di ristandardizzazione
diverranno sempre più manifesti. Alcuni si preoccupano del decadimento dell’italiano, ma non
sembrano esserci cambiamenti consistenti che possano portare a questo. Da più autori è stata
sottolineata l’importanza dell’italiano popolare, che viene visto come un italiano avanzato,
quell’italiano che rappresenta l’evoluzione naturale della lingua. Le opinioni discordano invece
circa gli italiani regionali: alcuni sostengano che essi si rinforzino tramite i dialetti; altri li
considerano delle varietà transitorie verso l’italiano nazionale. Ciò che è indiscutibilmente mutato è
tuttavia il rapporto fra gli insiemi di tratti linguistici in gioco. Tratti chiaramente sub-standard sono
stati promossi a tratti standard e l’inventario di tratti sub-standard sembra essere destinato ad
arricchirsi di nuovi tratti provenienti dal dialetto. È curioso infatti constatare come molti termini oggi
utilizzati erano già attestati nella storia dell’italiano, come tratti sub-standard.
8.2. Morfosintassi
difusione di tratti regionali come i verbi sintagmatici (mettere su, mandare giù)
Ci attualizzante è diventato un complemento del verbo avere (ci ho-averci)
Ne clitico genitivale e partitivo (è una cosa di cui se ne discute)
Sovraestensione di gli per le/loro
Decadenza del congiuntivo
Che polivalente
Influenza morfosintattica dell’inglese (interrogativa a doppio fuoco come chi governa
chi)
Superlativo relativo ordinale (la terza persona più simpatica)
Avverbi in mente (maggiormente, leggermente)
L’uso di piuttosto che
L’uso di quant’altro
L’uso di forme attenuative come un attimino
L’uso della formula negativa non esiste! Col significato di non è possibile
L’uso di nuove routines fatiche come cari tutti, preso dall’inglese you all
Affermarsi generalizzato di buona giornata al posto di buon giorno e cosí via, e salve
o ciao ciao
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8.3. Lessico
Aumento di suffissazioni e prefissazioni
Aumento dei prefissoidi elativi come mega-, maxi-, iper-
Aumento di suffissi produttivi come -bile, -ese, -eria, -ata,
Nuovi formativi di parola come -poli, mal-, nome + nome
Estensioni semantiche delle parole come importante, criticità, intrigante,
Aumento degli anglismi e prestiti integrali come mission
Ibridismi tra italiano ed inglese come e-commercio, killeraggio, performante
CAPITOLO 3
L’ITALIANO POPOLARE
1. Problemi di definizione
La nozione di italiano popolare emerge con chiarezza nella linguistica italiana negli anni
Sessanta. Da sempre è stato però confuso con l’italiano parlato colloquiale. Nonostante tutte le
definizioni che durante la storia sono state date, l’italiano popolare deve essere definito come una
varietà sociale dell’italiano, caratterizzata in diastratia, tipica di strati sociali bassi, incolti e
semincolti.
2. Problemi di sostanza
Per quanto riguarda le caratteristiche dell’italiano popolare, esse hanno posto svariati problemi.
Un primo argomento dibattuto è dato dalla caratteristica di unitarietà, dato dal fatto che
alcuni tratti che contraddistinguono l’italiano popolare sembrano diffusi indipendentemente
dalla provenienza regionale dei parlanti. Ma se si pensa all’italiano popolare come varietà
in primo luogo parlata, allora ci possiamo rendere conto che un italiano popolare
veramente unitario non esiste. Questo perché la marcatezza diatopica è preliminare a
tutte le altre dimensioni di variazione. In realtà il concetto di unitarietà dell’italiano popolare
ha a che fare con la sua caratterizzazione sociale, cioè al fatto che le masse di parlanti,
influenzate molto limitatamente dalla scuola, danno vita a una realtà linguistica che richiede
tratti morfosintattici comuni. Pertanto l’italiano popolare è unitario perché è pur sempre
italiano e si focalizza sui tratti linguistici non standard e sub-standard dalla gamma di
possibilità ammesse dall’italiano.
Un altro problema riguarda il rapporto dell’italiano popolare con l’italiano parlato
colloquiale e l’italiano regionale. Più di un autore tende infatti ad indentificare l’italiano
popolare col registro informale colloquiale. In realtà l’italiano colloquiale è un registro, nel
senso che è una varietà diafasica di lingua in relazione alla formalità della situazione.
Questo non vale per l’italiano popolare, perché quest’ultimo non può essere considerato
(come erroneamente si fa) il registro basso e trascurato di tutti i parlanti, perché in realtà è
una varietà diastratica. Nonostante ciò esso funziona però da varietà diafasica, accanto
al dialetto, nei repertori di quei parlanti che hanno il dialetto come varietà normale comune
e l’italiano popolare come registro alto
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Minore difficoltà vi è invece nel rapporto tra italiano popolare e italiano regionale. Un
italiano popolare specifico sarà sempre un italiano regionale.
Generalmente si può pensare che l’italiano popolare sia la lingua scritta delle persone non
istruite. In realtà è una lingua in primo luogo parlata e solo secondariamente scritta. Si
tratta infatti di una varietà di lingua tendenzialmente indipendente rispetto alla dicotomia
scritto/parlato. Ovviamente i fenomeni “devianti” dalla norma standard risultano assai più
appariscenti nella scrittura.
Alcuni, come De Mauro, sostengono che l’italiano popolare sia una varietà di lingua formatasi nei
primi decenni del Novecento, in occasione della Grande Guerra, e quindi nata in seguito ai
mutamenti culturali, sociali ed economici succeduti alla formazione dello stato unitario e alla prima
industrializzazione. Probabilmente però prima del Novecento, anche se in casi rari, i parlanti si
saranno di certo trovati a dover parlare italiano e avranno di certo parlato un italiano regionale
popolare, molto marcato, che poteva può essere considerato assai simile all’italiano popolare
novecentesco.
Alcuni concepiscono invece l’italiano popolare come una varietà di apprendimento di una lingua
seconda da parte di parlanti dialettofoni. Viene dunque vista come una varietà di transizione,
instabile e soggetta ad alta variabilità. Solo per gli adolescenti generalmente può essere
considerata una varietà di transizione, perché per tutti gli altri parlanti poco competenti rappresenta
la varietà più alta che si può raggiungere.
Dal punto do vista sincronico, l’italiano popolare è caratterizzato da una variabilità e una
differenziazione interna, e deve quindi essere considerato come una gamma di sottovarietà.
Bisognerebbe distinguere un italiano popolare basso, molto marcato e deviante, fortemente
interferito dal sostrato e adstrato dialettale; e un italiano popolare medio, meno marcato. Dal punto
di vista diacronico, si può invece notare la differenze fra gli scritti dei primi anni del Novecento e
gli scritti degli anni Settanta. Nel primo caso la varietà d’italiano è fortemente deviante, nel
secondo caso invece l’italiano popolare risulta meno marcatamente eteroclito. Questo è dovuto ad
una standardizzazione .
Le questioni sulla definizione dei tratti dell’italiano popolare sono ancora aperte. Bisognerà
distinguere tra tratti obbligatori, facoltativi e variabili. I meccanismi linguistici che quasi sicuramente
agiscono sono l’interferenza con il sostrato e l’adstrato dialettale, l’ipercorrettismo e la
semplificazione. Agiscono, quindi, sia fenomeni di contatto che di evoluzione interna. Risulta
difficile, al momento, capire quali siano le caratteristiche e i meccanismi di questo italiano
popolare.
Nonostante la mancanza di studi di appoggio a questo problema si può tentare, relativamente alla
morfosintassi, di affrontare il problema della collocazione dell’italiano popolare nei confronti
dell’italiano parlato colloquiale (registro informale anche dei parlanti colti) in base ad una serie di
tratti tipici.
L’italiano colloquiale e l’italiano popolare sembrano condividere gran parte dei tratti, ma con
modalità diverse.
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Italiano popolare: tratti tendenzialmente diagnostici dell’italiano popolare sono:
Il tema libero senza clitico di ripresa, che dà luogo ad anacoluto (la nostra compagnia non
hanno mai portato il rancio)
La costruzione del periodo ipotetico dell’irrealtà con il congiuntivo imperfetto, ovvero con il
condizionale sia nella protasi che nell’apodosi (se io potrei avere tanti soldi aiuterei tanta
gente)
Gli scambi di ausiliare (io per questa volta ho venuta, i Russi sono passato il don)
Sovraestensioni e scambi di preposizioni (hai sentito a sparare?, brava di scrivere, scrivo
da sul campo di Battaglia)
Generalizzazioni delle desinenza nominali (nessuni amici, qualche fumate). Accade per
semplificazione.
Analogie e regolarizzazioni nel paradigma dell’articolo (i Svizzeri, un sbaglio). Anche qui
accade per semplificazione.
Altri tratti diagnostici, relativi alla morfosintassi, tali da contrassegnare una varietà come italiano
popolare, sono:
Sovraestensione di ci (e in certi casi di le) a clitico dativale di terza persona (e più in
generale obliquo) in tutti i contesti, quindi anche al posto di gli/le/loro. Questa caratteristica
si riflette anche sulla struttura della frase relativa analitica, dando luogo a costrutti tipici
dell’italiano popolare come mio fratello, quello lì che non ci ho portato quella roba.
5. La frase relativa nell’italiano popolare (da vedere sul libro assieme a par 6)
Un altro dei tratti quasi caricaturali dell’italiano popolare è la costruzione della relativa del tipo
l’uomo che Maria gli ha dato un libro. Analizzando svariati tipi di testo in cui viene utilizzato
l’italiano popolare si può notare che:
Il quale e a cui sono del tutto assenti
Vi è una grande quantità di realizzazioni del locativo, con una lieve tendenza a
sovraestensioni di dove in casi in cui il valore locativo non è più diretto (lesse la lettura dove
io domandavo). Nei valori chiaramente locativi il che tende a invadere parecchio il dominio
di dove, soprattutto quando il verbo della relativa è esserci locativo (un’azione che cera
stato il mio reggimento).
Tutti i casi ammettono realizzazioni neutralizzate col solo che polivalente
Bassa frequenza di ripresa col clitico nell’Ogg., rispetto all’Obl.
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6. Il continuum della frase relativa in italiano
Possiamo osservare come lo schema sia aperto sia sulla destra che sulla sinistra, proprio perché
si può ipotizzare a sinistra un paradigma aulico e letterario con il quale in tutti i casi, e a destra i
casi in cui che è privo di antecedente nominale. Nasce dal latino volgare, e si mantiene sinora in
italiano, la coesistenza di due modelli basilari: analitico (con il connettivo generico che e ripresa
con un clitico) e sintetico (con un pronome relativo declinabile che cumula funzione e caso).
Alcuni sostengono che a prevalere sarà decisamente il modello analitico, perché più semplice e
funzionale. Sulla base dei fatti accertati, però, sembrerebbe sia possibile una tendenza alla
generalizzazione del “che” polivalente, senza pronomi di ripresa, anche se non ci sono indizi
che farebbero pensare che questo accada. Molti infatti ritengono che il che delle frasi relative non
sia affatto un pronome (relativo), bensì un indicatore generico di subordinazione, un
complementatore generale.
Per quanto riguarda la fonologia, essa è regionalmente molto marcata, quindi non si possono
definire. In ogni caso alcune costanti sono:
Semplificazioni di nessi consonantici difficili, attraverso assimilazione o epentesi (pisicologo)
Aferesi di sillabe, con pronuncia trascurata e concomitante rianalisi (zonero per esonero)
Per quanto riguarda la grafia, essa è fortemente influenzata dalla pronuncia. Alcuni fenomeni
sono:
Itaglia, gniente, senpre, banbini oppure raddoppiamenti nel caso del meridione come
subbito oppure casi dovuti a carenze grammaticali di base come a/ha o anno/hanno, dove
la “h” è una mera convenzione grafica non rappresentabile nella pronuncia
Conglutinazioni e deglutinazioni dell’articolo e di altre particelle, per evidente rianalisi come
linverno, l’aradio, in fermeria…
Analogie o ipercorrettismi laddove non vi è corrispondenza tra alfabeto e fonemi (cuello e
luogho) e problemi nel rispetto dei confini di parola (cimbarcammo)
Per quanto riguarda la testualità dell’italiano popolare essa non è pianificata, pertanto abbiamo:
Netta prevalenza del discorso diretto, frequenti ripetizioni
Tendenza a scrivere come si parla
Bruschi cambiamenti di topic
Alcuni sostengono che l’italiano popolare sia la nuova forza innovativa della nostra lingua e che
potrà essere proprio questa varietà la nuova lingua standard. In realtà bisogna vedere le cose in
maniera diversa: è l’italiano standard che è particolarmente innovativo e rigido.
Alcuni si sono chiesti se nel Duemila esista ancora l’italiano popolare. Alcuni sostengono che si sia
indebolito. Dalle analisi sembra comunque necessario riconoscere la sua esistenza attuale come
varietà diastratica bassa nell’architettura della lingua. Infatti l’italiano popolare è diventato soltanto
meno visibile. L’italiano popolare è sempre più ristretto a soggetti dialettofoni anziani di basso
livello di istruzione, ma esiste ancora. Deve essere inoltre tenuto in conto anche la persistenza
dell’italiano popolare in contesti di emigrazione. Il principale tratto diagnostico, per quanto
concerne la relativa, rimane la totale assenza di il quale/cui e l’estensione di che in tutti i casi. E
ovviamente, appare confermato, anche in usi non incolti, l’estensione del dove come marcatore
generico di relativa.
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CAPITOLO 4
LA DIMENSIONE DIAFASICA
1. L’italiano colloquiale
L’italiano colloquiale può essere adoperato in maniera indipendente dalla classe sociale di
appartenenza, da parlanti di ogni ceto e grado di istruzione. L’averlo a disposizione dipende in
parte dalla stratificazione sociale, nella misura in cui i parlanti culturalmente sfavoriti hanno
accesso solo all’italiano popolare, ma i tratti che lo caratterizzano non correlano con fattori
diastratici.
La sua manifestazione tipica è nel canale orale, ma non lo è in modo esclusivo, perché l’italiano
colloquiale emerge anche in usi scritti non formali (diari, appunti, ecc…). Si tratta di una varietà
situazionale, che per principio alterna nello stesso parlante con altre varietà situazionali a
seconda del grado di formalità, degli interlocutori, e così via richiesti dalla situazione comunicativa.
Inoltre l’italiano colloquiale può essere considerato un superregistro, poiché copre una gamma
ampia e poco marcata di registri possibili fra un estremo solo lievemente informale e un estremo
marcatamente informale e trascurato.
b. Un altro aspetto interessante dell’italiano colloquiale è che in esso troviamo due occasioni
ed esigenze della lingua che nelle altre varietà hanno un valore solo secondario. Queste
sono l’usualità (la banalità quotidiana, il parlare di fatti insignificanti della vita quotidiana) e
dall’altro l’espressività.
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Tra i colloquialismi lessicali si possono attenzionare:
Andare (concludersi)
Attaccare (contagiare)
Balla (bugia)
Bazzicare (aggirarsiBeccare (cogliere in fatto)
Cesso (cosa brutta)
Cotta (innamoramento)
Culo (colpo di fortuna)
Vari fraseologismi con dare, come Darsi arie (essere presuntuoso)
Vari fraseologismi con fare, come Fare benzina (rifornirsi di carburante), fare il letto, farsi
(drogarsi)
Serie di verbi costruiti con il prefisso descrittivo-espressivo s- come sbafare (mangiare
scompostamente), scassare (rompere), sfottere (prendere in giro)
A parte meritano di essere segnalati genericismi riferiti a persone, a cose e ad eventi come che
elemento, coso e storia. Un carattere comune di questo genere di lessico è infatti il riferirsi
prevalentemente ai banali rapporti sociali quotidiani e alle esperienze elementari di vita di ogni
giorno. Per quanto riguarda la formazione delle parole ricordiamo che sono tipici dell’italiano
colloquiale derivati nominali in -ata come stupidata, stronzata.
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2. Registri
I registri formale e medio coincidono grosso modo con l’italiano standard e l’italiano neo-standard;
ma i registri più interessanti sono quello formale ed elevato e quello del tutto informale e
trascurato. La variazione di registro in italiano presenta caratteri peculiari: per quanto riguarda la
pronuncia sembra meno ampia e meno marcata rispetto alle altre lingue.
I registri bassi sono solamente orali . Si usano generalmente per il parlato improvvisato, con
assenza totale o grado minimo di pianificazione. Le occasioni contestuali che vedono l’emergere
dei registri più bassi saranno pertanto di due generi opposti: da un lato il parlare disattento,
svogliato, con scarso interesse per l’enunciazione e i contenuti; dall’altro il parlare con un
fortissimo coinvolgimento emotivo. Cosí la variazione di registro si articola attorno a due parametri
essenziali:
l’attenzione o controllo relativi all’elocuzione
La formalità relativa del contesto istituzionale
Venendo ai tratti linguistici dei registri bassi, possiamo osservare per il lessico:
Scarsa gamma di variazione lessicale, con un alto tasso di ripetività
Preferenza per termini generici
Epiteti, commenti e imprecazioni disfemiche come merda, cazzo, porca puttana
Uso frequente di parole abbreviate
Termini fortemente connotati spesso sinonimici con termini colloquiale o standard (crepare/
morire)
Per la morfosintassi:
Scarsa o nulla utilizzazione di connettivi semanticamente ricchi
Frasi brevi, spesso ellittiche, che danno luogo a una sintassi molto spezzata
Struttura del discorso molto incentrata sull’io parlante
Prevalenza statistica di verbi rispetto a sostantivi, aggettivi e avverbi
Per la testualità:
Forte appoggio della produzione verbale alla prosodia, alla paralinguistica e alla cinesica
Caratteri opposti si ritrovano invece nei registri alti. Come tratti generali dei registri alti possiamo
infatti menzionare i seguenti.
A livello lessicale:
Ampia variazione lessicale
Preferenza per termini ed espressioni specifici, ad alta intensione semantica
Alta frequenza di significati astratti
Ricorrente impiego di parole dalla struttura interna complessa
Scelte lessicali auliche (alcuno/nessuno)
Tendenza alla verbosità
Al livello fonologico:
Velocita di elocuzione minore
Accuratezza nella pronuncia dei fonemi
Lo studio dei registri formali è comunque assai complesso perché essi tendono spesso a
manifestarsi insieme si sottocodici alti.
3. Lingue speciali
Una seconda basilare classe di varietà lungo la dimensione diafasica è costituita dai sottocodici. I
sottocodici sono varietà diafasiche caratterizzate da un lessico speciale, in relazione a particolari
domini extralinguistici. La loro funzione e il loro compito sono quelli di mettere a disposizione un
inventario di segni per la comunicazione circa determinati argomenti e ambiti di esperienza e
attività, in modo che questa sia il più possibile univoca, precisa ed economica e quindi più efficace
e funzionale.
Il vocabolario tecnico dei sottocodici nella sua forma più netta è una nomenclatura in senso
proprio, vale a dire una terminologia la cui struttura è determinata dai campi extralinguistici di
riferimento: il sottocodice lingua della medicina, per es., costituisce con il suffisso -ite i nomi di
malattia che designa un’infiammazione acuta di un organo o di un apparato (artrite, faringite) e con
il suffisso -osi i nomi di malattia che designano una condizione morbosa o cronica (artrosi,
nevrosi).
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Il lessico speciale dei sottocodici si costituisce secondo tre modalità:
Associando un significante nuovo e specifico a un significato nuovo e specifico
Associando un significante già esistente nella lingua a un significato nuovo
Associando un significante nuovo a uno significato già esistente
I tecnicismi possono poi essere o la specializzazione di termini già esistenti nella lingua,
neoformazioni assolute o prestiti da lingue straniere.
Nel repertorio delle varietà della lingua i sottocodici coincidono fondamentalmente con le lingue
speciali. Oltre che di lingue speciali si può parlare anche di linguaggi settoriali, linguaggi tecnici,
microlingue, ecc… Ciò che è fondamentale è però distinguere tre poli fondamentali:
Le lingue speciali in senso stretto, cioè i sottocodici veri e propri, contrassegnati da un
proprio lessico
Le lingue speciali in senso lato, che non hanno propriamente un lessico specialistico ma
sono comunque strettamente legate a determinate aree di impiego
I gerghi, che hanno un lessico particolare con propri meccanismi semantici e di formazione
delle parole ma senza il carattere di nomenclatura e sono legati a gruppi o cerchie di utenti
(i gerghi sono in effetti allo stesso tempo varietà diafasiche e diastratiche)
Fra le varietà di gruppo che meritano un cenno vi sono “linguaggi” tipici di un certo ambiente o di
una certa fascia di persone che, pur senza assumere i caratteri veri e proprio di un gergo,
presentano aspetti paragergali interessanti. Si tratta tipicamente di varietà poco stabili che con il
mutare o lo scomparire del gruppo di conseguenza mutua o scompare anche il linguaggio stesso.
Un esempio di varietà paragergale è il linguaggio giovanile. Gerghi e simili sono a volte definiti
come sistemi subalterni o parassitari perchè dipendono dalla lingua comune stravolgendone il
lessico.
Possiamo costruire un continuum diafasico per capire meglio di cosa si tratta, fornendo un
esempio per ciascuno dei quattro settori graduabili nel continuum.
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La lingua della pubblicità non può essere definita una varietà speciale, neppure in senso lato.
Chiamiamo entità di questo genere Modalità d’uso. Esse comprendono solitamente elementi di
più sottocodici e varietà diafasiche e si caratterizzano linguisticamente per certi tipi di testo o
generi che sono loro propri.
Vedi schema e descrizione tabella pag 183 per classificazione delle lingue speciali.
Fra le lingue speciali meritano una considerazione particolare due varietà riportate nello schema
dell’architettura dell’italiano: l’italiano burocratico e l’italiano tecnico-scientifico.
L’italiano burocratico è una varietà complessa, che unisce il carattere di sottocodice a quello di
registro formale. Ma dal momento che non vi è un nucleo ampio di termini tecnici solo della
burocrazia, il carattere di sottocodice del linguaggio burocratico risulta poco marcato. Esso
adopera però parti di altri sottocodici (lingua giuridica ed economico-finanziaria) e a differenza dei
sottocodici in senso stretto, che vengono usati solo per parlare di argomenti relativi ad una
determinata sfera, è impiegato per parlare di argomenti diversi. Possiamo segnalare
Per il lessico:
Tecnicismi di varia natura
Connettivi e deittici aulico-letterarizzanti (codesto, ove, pertanto)
Spiccata tendenza alla nominalità (l’ammontare del salario)
Repertorio di frasi fatte con locuzioni verbali (dare diffusione, premesso che, ai sensi di)
L’italiano tecnico-scientifico condivide alcuni tratti evidenti nel linguaggio burocratico, specie per
quanto riguarda la sintassi e la testualità. Anche l’italiano tecnico scientifico, come quello
burocratico, sta a meta tra le Modalità d’uso e le lingue speciali in senso lato, essendo
rappresentato da più sottocodici in unione a registri anche molto formali. Tra i caratteri del
linguaggio tecnico-scientifico che meritano maggiore attenzione possiamo segnalare
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Per quanto riguarda il lessico:
Un vocabolario astratto, con semantica denotativa, volta alla monosemia referenziale
Carattere nomenclatorio, con particolare importanza prima ai sostantivi e poi agli aggettivi,
mettendo in secondo piano i verbi
Largo impiego di denominazioni eponime (principio di Archimede)
Notevole produttività di formazioni prefissali con prefissoidi (neo-, micro-) e formazioni
suffissali con -anza/-enza (induttanza, impedenza)
Un tratto stilistico del linguaggio tecnico-scientifico che merita di essere segnalato è l’uso di
citazioni dalla lingue straniere e classiche. Inoltre anche il linguaggio tecnico-scientifico gode di
prestigio e ha una certa influenza sulle altre varietà di lingua.
I mutamenti più sensibili dell’ultimo ventennio nel panorama delle varietà dell’italiano sembrano
interessare l’asse diafasico. Con il diffondersi delle nuove tecnologie e della globalizzazioni si sono
venuti a moltiplicare impieghi differenti sui sottoassi dei sottocodici e dei registri.
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CAPITOLO 5
AI MARGINI DELL’ITALIANO
1. Italiano e dialetti
Le varietà marginali dell’architettura della lingua meritano, quelle con marcati fenomeni di contatto
e fortemente devianti, meritano un approfondimento a parte. Una prima serie di fenomeni
pertinenti in questo contesto avviene all’interno del repertorio linguistico della comunità italofona,
nella fascia dove il contatto fra l’italiano e il dialetto è più stretto e continuo, e si manifesta nelle
due forme dell’alternanza di una varietà di italiano e una varietà dialettale all’interno del discorso
del parlante e della formazione di ibridismi derivanti dalla parziale fusione dell’italiano e del
dialetto. Questi due meccanismi di contatto e parziale fusione fra sistemi si ritrovano facilmente nel
discorso di parlanti che padroneggiano l’italiano e il dialetto (e li usano alternativamente), così
come nel discorso di dialettofoni che abbiano una scarsa competenza dell’italiano, o meglio
competenza solo di varietà basse dell’italiano.
Per ibridismi possiamo in questa circostanza definire quelle voci lessicali alla cui forma
contribuiscono assieme materiali e regole del dialetto e materiali e regole dell’italiano. Questo non
vuol dire che però bisogna parlare di varietà linguistiche ibride italiano-dialetto, ma anzi si deve
parlare di una specifica varietà di italiano, cioè l’italiano fortemente interferito. Ma la presenza di
materiali e regole di due sistemi diversi nella stessa parola non implica di per sé l’esistenza di una
varietà che sia il prodotto della fusione dei due sistemi.
La presenza di materiali e regole dell’italiano non impedisce la riconoscibilità di una parola come
dialettale, appartenente a una varietà italianizzata di dialetto. Ma ci sono anche casi in cui ibridismi
non possono essere assegnati né all’uno né all’altro sistema. In questo caso potremmo pensare
alla formazione di un sistema fuso, in cui si mescolano e coesistono regole e materiali del dialetto
e dell’italiano nel dare forma alla parola. Ma l’emergenza degli ibridismi sembra piuttosto essere
connessa alla frequenza delle enunciazioni mistilingui ed essere sintomo di un facile passaggio
dall’una all’altra grammatica, che sembrano non separate nella competenza di molti parlanti. Pare
tuttavia poco probabile che tale compenetrazione tra grammatica dell’italiano e del dialetto porti al
formarsi di una vera e propria lingua mista italiano-dialetto. Si tratterebbe piuttosto di un tessuto
linguistico italiano, con inserzioni dialettali ed enunciazioni mistilingui italiano-dialetto, e
non di una varietà ibrida.
2. Varietà di apprendimento
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Di speciale interesse per la sociolinguistica sono le varietà iniziali di interlingua. Parecchi
studiosi hanno sottolineato i parallelismi che esistono fra lo sviluppo di varietà successive di
apprendimento di una lingua seconda e l’acquisizione della lingua materna. Andersen fra gli altri
considera sia l’acquisizione della prima lingua, sia la formazione di interlingue nell’apprendimento
spontaneo di lingue seconde, sia la pidginizzazione come sottocasi si un unico processo generale,
la nativizzazione, vale a dire la creazione di un sistema autonomo individuale sulla base di un
certo input di partenza (il materiale linguistico presente nell’ambiente in cui si vive), attraverso
l’applicazione di principi linguistici e cognitivi generali, tendenzialmente universali. Non si può in
genere parlare di lingue pidgin perché manca la fossilizzazione della lingua, in quanto le varietà di
apprendimento sono soggette a modifica.
Un campo privilegiato di osservazione per questo problema è costituito, nel caso dell’italiano, dalle
varietà dei numerosi gruppi di stranieri immigrati a partire dagli anni Ottanta nel nostro paese.
Oltre a vari fenomeni di interferenza fonologica e sintattica, nell’italiano degli immigrati spiccano
fatti di semplificazione e ricostruzione di una grammatica basilare assai significativi per capire
le strategie principali dello sviluppo delle lingue seconde ma anche i fenomeni che avvengono
nelle varietà diastratiche e diafasiche dell’italiano. Possiamo individuare alcuni tratti, rintracciabili
soprattutto nelle interlingue iniziali e anche intermedie di parlanti di diverse lingue materne.
Per la morfosintassi, per cui vige il principio fondamentale di avere per ogni parola una sola
forma base, senza morfemi flessionali:
Omissione dell’articolo o generalizzazione su un’unica forma sovraestesa (il orario, il lingua)
Aggettivi di ogni classe invariabili (facili lingua)
Generalizzazioni e scambi di preposizioni (clima di imberno, lui America)
Sistema verbale ridotto ad alcune forme basilari (quando io incontrato un uomo)
Impiego dei soli pronomi tonici (io sì venuto)
Costruzioni frasali brevi, con ellissi della copula e degli ausiliari (non cabito)
Predominio della paratassi e impiego di connettivi interfrasali elementari (trovo un amisci
arabo, barla arabo)
Quanto al lessico e alla formazione delle parole:
Lessico molto ridotto, con uso di frequenti perifrasi analitiche per compensare la mancanza
di termini specifici (quando ciai una cosa male/quando hai una malattia)
Tendenze generalizzanti e regolarizzanti nella formazione di parole derivate (buonità da
buono)
Per la fonologia:
Neutralizzazione di /p/ in /b/ (cabito, imberno) (perchè la variante sorda è meno basica di
quella sonora)
Tra le altre varietà di apprendimento vanno citati l’italiano degli stranieri della Svizzera Tedesca
(usato come lingua franca di comunicazione tra lavoratori di origine diversa), l’italiano
semplificato d’Etiopia (detto simplified Italian, formatosi durante il dominio in AOI, i tratti sono
omissione dell’articolo, mancanza di flessione, omissioni e scambi delle proposizioni, sistema
verbale formato su infinito e participio passato) e il cocoliche (tipico dei parlanti di origine italiana
in Argentina).
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3. L’italiano all’estero
Molto importi sono anche le varietà d’italiano degli emigrati. Una conseguenza generale dei
fenomeni di emigrazione è spesso il rinforzo dell’italiano nel repertorio linguistico degli emigrati
di prima generazione: parlanti principalmente dialettofoni trovano nell’emigrazione le condizioni per
passare ad un uso molto più frequente dell’italiano, così come parlanti che già alternano
abitualmente l’italiano al dialetto sono portati da vari motivi a ridurre gli ambiti e le occasioni
d’impiego del dialetto.
L’italiano dei parlanti nativi tende ad assumere una stratificazione diversa rispetto alla situazione
d’origine. Per vari motivi, si viene ad avere fuori dall’Italia una situazione in cui l’effettiva e
fondamentale varietà d’italiano è rappresentata per lo più dall’italiano popolare. L’italiano popolare
è impiegato all’estero anche presso fasce sociali più alte che non in Italia, mentre l’italiano
standard è patrimonio di una piccola élite intellettuale. Di conseguenza, l’italiano all’estero è
spesso in ritardo rispetto agli sviluppi che la lingua subisce nella madre patria (ad esempio
l’italiano in Svizzera).
Gonzo e Saltarelli hanno proposto un continuum della lingua degli emigrati che comprende 4 stadi:
Lo standard, proprio della prima generazione e lingua prima
Il fading (sistema oscillante, in dissolvenza), proprio ancora della prima generazione
Il pidgin, proprio della seconda generazione
Il fragment, proprio della terza generazione
Ogni fase fa da input alla successiva. Ci troviamo dunque di fronte a una vera e propria erosione
linguistica. Anche se questo schema tende a lasciare irrisolti svariati problemi, rappresenta in
fondo un primo tentativo di discutere la questione relativa all’italiano degli emigrati.
Un effetto evidente che ha a che fare con l’italiano degli emigrati è costituito da fenomeni di
interferenza e di ibridazione con la lingua (nazionale) del paese ospite, parlata nell’ambiente
d’arrivo, per cui sono coniate etichette quali italo-americano. Si crea, insomma, tutta una serie di
varietà di italiano interferito che possono essere usati già dalla prima generazione, ma più
frequentemente nella seconda e nella terza.
L’italo americano e varietà consimili sono soprattutto caratterizzate per il lessico. In sostanza,
potrebbero essere considerati come italiani parzialmente ri-lessicalizzati. Le sole interferenze
morfosintattiche si possono ridurre ad un uso più frequente del pronome tonico soggetto e della
forma progressiva (io lavoro molto perché io voglio fare soldi; stavo lavorando lì da cinque anni).
Nel lessico invece abbondano prestiti, calchi semantici e calchi strutturali.
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Il caso classico di mescidazione dell’italiano con un'altra lingua per contatto prolungato all’estero è
comunque costituito dal cocoliche, una varietà mista degli immigrati italiani nel Rio de la Plata. Si
tratta di un sistema interferito, la cui formazione è assai favorita dalle affinità tra italiano e spagnolo
argentino. Possiamo individuare tre frasi di contaminazione fra lo spagnolo e l’italiano:
Nella prima, frequenti elementi lessicali spagnoli vengono inseriti su una struttura
morfosintattica italiana
Nella seconda, cominciano ad avvenire trasferenze nella pronuncia
Nella terza, si ha il trasferimento di morfemi e particelle spagnole in italiano, spesso con
casuali sovraestensioni.
I margini della gamma di varietà dell’italiano nell’ultimo ventennio si sono molto estesi, in
particolare per quel che riguarda le varietà connesse con i fenomeni migratori. Le recenti e
cospicue ondate migratorie hanno creato una situazione molto variegata, portando a contatto con
l’italiano parlanti delle più svariate provenienze. L’apprendimento in contesto naturale
dell’italiano con L2 è stato schematizzato in precisi stadi:
Varietà prebasica, l’enunciato è strutturato in base a principi grammatici, non sono
differenziate le parti del discorso
Varietà basica, dove una prima differenziazione fra nomi e verbi consente una
strutturazione in base al principio che mette in prima posizione il “controllore” (vale a dire
l’entità che controlla un evento), seguito dall’evento stesso, con eventuali riferimenti
temporali affidati ad avverbiali (il governo de etiopia vuole io militari).
Varietà postbasica, in cui il nascere delle prime opposizioni morfologiche consente una
strutturazione sintattica fondata sul rapporto fra soggetto e verbo, con un intervento di
operatori avverbiali più ampio (però io penso donne di più vanno in chiesa come uomini).
Negli stadi successivi avviene un processo di complessificazione verso le varietà native,
con introduzione della subordinazione frasale, di pronomi tonici anaforici, ecc… la fonetica
rimane di solito chiaramente interferita, tendendo a fossilizzarsi presto senza avanzare
ulteriormente verso il modello dei nativi.
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Quanto al rapporto fra L1 e l’italiano L2, l’influenza del sistema primario e il trasporto di materiali
da questo all’interlingua assumono peso e caratteri molto diversi in relazione alla distanza
strutturale e tipologica tra le lingue. Vietti parla di varietà etniche dell’italiano, per indicare quelle
varietà che caratterizzano chi parla come membro di un gruppo con una particolare provenienza e
che sono contrassegnate da tratti quali: trasposizione di realizzazioni fonematiche, allofoniche e
fonosintattiche tipiche della L1 nei settori del sistema divergenti con L2 (jorni/giorni, l’anno
escorso); larga variabilità e interscambiabilità di forma nelle parole funzionali simili in italiano e per
esempio in spagnolo, ecc…
In ambiente di emigrazione si può affermare che emerge il mantenimento del dialetto, piuttosto che
dell’italiano, presso le comunità emigrate da molto tempo. Non si escludono, inoltre, nelle seconde
generazioni, casi di mistilinguismo.
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