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“LA LINGUISTICA” – BERRUTO, CERRUTI

1 – IL LINGUAGGIO VERBALE

Linguistica, lingue, linguaggio, comunicazione

Linguistica: ramo delle scienze umane che studia la lingua. Questo studio si suddivide in due sottocampi:
 linguistica generale (cosa sono, come sono fatte e come funzionano le lingue)
 linguistica storica (evoluzione delle lingue nel tempo e rapporti tra lingua e cultura)
Contrapposta alla linguistica generale abbiamo la glottologia: copre la linguistica storica e lo studio
comparato delle lingue antiche. La linguistica storica come disciplina nasce verso la fine del '700 come
spiegazione delle affinità che si scoprono legare un numero sorprendentemente ampio di lingue antiche e
moderne parlate in un'area che va dall'Europa atlantica fino al subcontinente indiano, ovvero della famiglia
linguistica indoeuropea.
Oggetto della linguistica sono le lingue storico-naturali: lingue nate spontaneamente usate ora e nel passato
(italiano, francese, svedese, russo, latino, sanscrito…). Tutte queste lingue sono espressione del linguaggio
verbale umano: facoltà innata dell'homo sapiens ed il più raffinato degli strumenti di comunicazione che
questi ha a disposizione.
NB In questo caso nessuna differenza tra lingue e dialetti poiché entrambi sono manifestazione specifica del
linguaggio verbale umano. La differenza è basata unicamente su considerazioni sociali e storico-culturali: è il
campo della sociolinguistica, che studia l'interazione fra lingua e società e come le lingue si articolano in
varietà.
La nozione di segno è importante per inquadrare il linguaggio verbale umano tra i vari modi di
comunicazione. Il segno genericamente è qualcosa che sta per qualcos'altro e serve a comunicare questo
qualcos'altro, con comunicare inteso come mettere in comune. Comunicazione equivale a passaggio di
informazione poiché, con una concezione molto larga della parola comunicazione, tutto può comunicare
qualcosa. In senso più stretto la parola comunicazione incorpora l'elemento fondamentale dell'intenzionalità:
vi è comunicazione quando c'è un comportamento prodotto da un emittente al fine di passare
un'informazione e viene recepito dal ricevente come tale. Altrimenti si parla di un semplice passaggio di
informazioni.
Abbiamo tre categorie all'interno della definizione della comunicazione, a seconda del carattere
dell'emittente, del ricevente (o interpretante) e dell'intenzionalità del loro comportamento.

A. Comunicazione in senso stretto:


a. Emittente intenzionale
b. Ricevente intenzionale (es.: linguaggio verbale umano, gesti, segnalazioni stradali…)
B. Passaggio di informazione:
a. Emittente non intenzionale
b. Ricevente intenzionale (es.: parte della comunicazione non verbale umana: posture del
corpo, orme di animali, sintomi di condizioni fisiche…)
C. Formulazione di inferenze:
a. Nessun emittente (solo presenza di un oggetto culturale che viene interpretato come volto a
fornire un’informazione)
b. Interpretante (es.: modi di vestire: “questa persona segue la moda…”)

Nel passaggio da una all'altra di queste categorie il codice che permette di decodificare correttamente
l'informazione diventa meno forte, più vago e indeterminato, quindi l'associazione fra un fatto segnico (fatto
o comportamento con un qualsiasi valore informativo) e l'informazione da esso veicolata è affidata
all'attività dell'interpretante. In conclusione, la comunicazione è da intendere sempre come trasmissione
intenzionale di informazioni.

Segni, codice
Il segno è l'unità fondamentale della comunicazione. Esistono diversi tipi di segni se ci basiamo sui criteri
di intenzionalità e di motivazione relativa (grado di rapporto naturale tra le due facce del segno ovvero tra il
"qualcosa" e il "qualcos'altro"):
 Indici (sintomi), motivati naturalmente/non intenzionali: basati sul rapporto causa > effetto
(starnuto = avere raffreddore);
 Segnali, motivati naturalmente/usati intenzionalmente: (luce accesa di notte su una montagna =
segnalo la mia presenza);
 Icone, motivati analogicamente/intenzionali: basati sulla similarità di forma o struttura,
riproducono proprietà dell'oggetto designato (carte geografiche e mappe);
 Simboli, motivati culturalmente/intenzionali: (rosso del semaforo = fermarsi);
 Segni in senso stretto, non motivati/intenzionali: (suono al telefono di una linea occupata;
linguaggio dei segni per non udenti).

Nella comunicazione abbiamo così un emittente che produce intenzionalmente un segno per un ricevente.
Passando da una all'altra di queste categorie la motivazione che lega le due facce del segno diventa sempre
più immotivata e meno diretta. Aumenta dunque anche la specificità culturale: così come i segni sono
naturali e per definizione di valore universale, i simboli e i segni sono dipendenti da ogni singola tradizione
culturale. In conclusione, i segni linguistici (la parola "gatto") sono: segni in senso stretto, prodotti
intenzionalmente per comunicare ed essenzialmente arbitrari. Il ricevente attribuisce significato al segno
dell'emittente grazie ad un codice: insieme di corrispondenze (fissatesi per convenzione) tra l'insieme
manifestante (qualcosa) e l'insieme manifestato (qualcos'altro) che fornisce le regole di interpretazione dei
segni. Detto ciò, possiamo dire che i segni linguistici costituiscono il codice lingua.

Le proprietà della lingua


NB Tutti i segni sono costituiti dal piano del significante unito al piano del significato. Possiamo dunque
definire il codice come un insieme di corrispondenze tra significanti e significati, e un segno come
l'associazione di un significante e un significato.

Biplanarità: proprietà che costituisce tutti i segni, quindi anche quelli linguistici. Abbiamo dunque un segno
a due facce compresenti: significante o espressione (parte fisicamente percepibile del segno, il qualcosa a
cui è associato qualcos'altro: la parola gatto pronunciata o scritta) e significato o contenuto (parte non
materialmente percepibile del segno, l'informazione veicolata dalla faccia percepibile, il qualcos'altro: il
concetto o idea di gatto).
NB il significante dei segni linguistici è primariamente di carattere fonico-acustico.

Arbitrarietà: generalmente consiste nel fatto che non c'è alcun legame naturalmente motivato, connesso alla
natura delle cose, derivabile tramite ragionamento logico tra significante e significato: la parola "gatto" non
ha intrinsecamente nulla a che vedere con l'animale, nulla nella natura di una cosa ha qualcosa che rimandi al
suo nome. Questo non vuol dire non esistano legami tra le due facce del segno: questi legami sono posti per
convenzione e sono dunque arbitrari. Se così non fosse, le parole delle diverse lingue dovrebbero essere
tutte molto simili. Allo stesso modo se i segni linguistici non fossero arbitrari parole simili nelle diverse
lingue dovrebbero designare cose/concetti simili. Entrambe le cose sono chiaramente false.

Questa questione è più complessa di ciò: occorre distinguere quattro livelli di arbitrarietà. Per far ciò
bisogna considerare che le entità in gioco nel funzionamento dei segni linguistici sono tre, e non due. Questo
viene spesso presentato sotto la forma del triangolo semiotico. Ai tre vertici di questo triangolo abbiamo le
tre entità: un significante attraverso la mediazione di un significato si riferisce ad un elemento della realtà
esterna, extralinguistica, ovvero ad un referente. Il rapporto tra significante e referente è mediato dal
significato.

Grazie a ciò possiamo definire i quattro livelli di arbitrarietà della lingua:


 Primo livello, è arbitrario (totalmente convenzionale): il rapporto tra segno nel suo complesso e
referente nella realtà esterna non è naturale e concreto;
 Secondo livello, è arbitrario il rapporto tra significante e significato (il significante come
sequenza di lettere o suoni non ha in sé nulla a che vedere con il significato; es. sedia: "oggetto
d'arredamento che serve per sedersi");
 Terzo livello, è arbitrario il rapporto tra forma (struttura, organizzazione interna) e sostanza
(materia, insieme di fatti concettualizzabili) del significato: ogni lingua ritaglia in un suo modo uno
spazio di significato, distinguendo e rendendo pertinenti una o più entità (italiano: bosco/legno/legna
 francese: bois = "bosco/legno/legna");
 Quarto livello, è arbitrario il rapporto tra forma e sostanza del significante: ogni lingua
organizza secondo propri criteri la scelta dei suoni pertinenti distinguendo in una certa maniera
(eventualmente diversa da altre lingue) le entità rilevanti della materia fonica (laddove in italiano
abbiamo una sola "a" senza distinzione di lunghezza, nella parola "casa" se la "a" è pronunciata corta
o lunga non dà vita a due parole diverse, in tedesco o in latino la lunghezza della "a" permette la
realizzazione di due parole diverse (stadt = città, staat= stato).

Al principio dell'arbitrarietà vi sono alcune eccezioni: le onomatopee, che riproducono (o richiamano) nel
significante caratteri fisici di ciò che è designato. Parole o voci onomatopeiche come "tintinnio" o
"chicchirichì" imitano col significante il suono o il rumore che designano e presentano quindi un aspetto più
o meno iconico.
NB le onomatopee possiedono un certo grado di integrazione nella convenzionalità arbitraria di un sistema
linguistico e dunque una loro specificità a seconda della lingua, nonostante il referente rimanga identico (ita
= chicchirichì, eng = cock-a- doodle-doo)

Più strettamente iconici sono gli ideofoni, ovvero espressioni imitative o descrittive che designano fenomeni
naturali o azioni (boom/bum = grande rumore). Che gli ideofoni abbiano però lo statuto di effettive parole
nella lingua italiana è dubbio.
Anche nella grammatica delle lingue esistono meccanismi chiaramente iconici:
 Principio di iconismo: l'idea di pluralità è evocata o riprodotta nella lingua dal fatto che la forma
plurale contiene più materiale fonico, linguistico, che non la forma al singolare. La lingua
riprodurrebbe dunque con mezzi propri la realtà (child - children). NB non è così per l’italiano, che
ha il plurale formato con alternanza di desinenza: (bambino - bambini);
 Fonosimbolismo: certi suoni avrebbero per la loro stessa natura associati a sé certi significati
(denotativi o connotativi). Per esempio, il suono "i", vocale chiusa e foneticamente "piccola"
(apertura minima della bocca) sarebbe connesso a "cose piccole";

Doppia articolazione
La doppia articolazione consiste nel fatto che il significante di un segno linguistico sia articolato a due
livelli nettamente diversi: a un primo livello è organizzato e scomponibile in unità aventi ancora significato,
che vengono utilizzate (con lo stesso significato) per formare altri segni ---> prima articolazione! ("gatto" =
"gatt-" + "-o" dove "gatt-" = felino domestico e "-o" = singolo). Tali pezzi rappresentano le unità minime di
prima articolazione, non sono ulteriormente articolati in elementi minori e prendono il nome di morfemi ed
essendo associazioni di significante e significati sono i segni più piccoli.
Ad un secondo livello queste unità sono scomponibili in unità più piccole ma non portatrici di significato
autonomo (seconda articolazione) e che combinandosi insieme in successione danno luogo alle entità di
prima articolazione. Tali unità prendono il nome di fonemi (gatt- = g, a, t, t) e costituiscono le unità minime
di seconda articolazione.
La doppia articolazione dei segni linguistici (precisamente proprietà del significante) è una proprietà
cardine del linguaggio verbale umano. Non esistono altri codici di comunicazione naturali che possiedano
una doppia articolazione piena e totale come la lingua. Questo consente alla lingua una certa economicità di
funzionamento: con un numero limitato di unità minime di seconda articolazione possiamo creare tante
(teoricamente infinite) unità minime di prima articolazione. Infatti, la lingua funziona combinando queste
unità minime, secondo il principio di combinatorietà, il cui fondamento sta in questa doppia articolazione.

Trasponibilità di mezzo
Il significante di un segno linguistico possiede un'altra proprietà molto importante che caratterizza la lingua:
può essere trasmesso o realizzato sia attraverso il mezzo aria, quindi con il canale fonico-acustico (suoni e
rumori), sia attraverso il mezzo luce, ovvero il canale visivo-grafico (segni). Questa proprietà prende il
nome di trasponibilità di mezzo. Il carattere orale è prioritario rispetto a quello visivo. Il canale fonico-
acustico appare il canale primario poiché una proprietà del linguaggio verbale umano è la fonicità (priorità
del parlato). Il parlato è antropologicamente prioritario rispetto allo scritto. Tutte le lingue che hanno
una forma scritta sono (o sono state) anche parlate, tuttavia non si può dire il contrario. Questo non
contraddice la proprietà generale: eventuali fattori storico-sociali portano alla mancanza di una lingua scritta,
ma nel caso di esigenza si può dotare la lingua in oggetto di un sistema di scrittura. Il parlato ha una
prevalenza statistica: nella vita quotidiana parliamo più di quanto scriviamo e sfruttiamo molto più il canale
orale che quello scritto. C'è una priorità ontogenetica (relativa al singolo) del parlato: ogni individuo
impara prima a parlare ed in un secondo momento a scrivere. Poi vi è una priorità filogenetica (relativa alla
specie umana) del parlato: nella nostra storia la scrittura si è sviluppata molto tempo dopo il parlare.

Per una classificazione dei sistemi di scrittura occorre distinguere sistemi semasiografici (pittografie e
ideografie) e sistemi glottografici. La principale differenza è che i rimi non fanno uso di simboli linguistici, i
secondi sì. I sistemi glottografici si dividono in:
 Sistemi logografici (non fonetici): non hanno basi fonetiche, fanno riferimento a unità di significato
e a unità minime di prima articolazione (morfemi); data una certa lingua, difficilmente può
rappresentarne con completezza l’intero inventario dei morfemi.
 Sistemi fonografici (fonetici): rappresentano i suoni del linguaggio, fanno riferimento a unità di
seconda articolazione; alcuni sono basati su sillabe, altri su consonanti o consonanti e vocali; data
una certa lingua, non potrà rappresentare integralmente l’inventario fonematico della lingua cui si
riferisce.
Qualunque sistema di scrittura non sarà mai puramente logografico o fonografico.

Le origini del linguaggio son ben più antiche di quelle della scrittura. La paleontologia risale molto indietro
nell'albero genealogico degli ominidi per arrivare all'origine del linguaggio verbale, che nacque
evidentemente sotto forma parlata. È ipotizzabile che una sorta di comunicazione orale con segni linguistici
fosse già presente nell'homo habilis e nell'homo erectus (c.ca 3Milioni di anni fa). Sicuramente era presente
nell'homo neandertalensi (100k -50k anni fa). Sembra che nei nostri progenitori esistessero i prerequisiti
biologici necessari per il linguaggio verbale.

Il parlato presenta una serie di vantaggi biologici e funzionali rispetto allo scritto:
 può essere utilizzato in qualsiasi situazione ambientale e consente la trasmissione tra
emittente e ricevente anche in presenza di ostacoli o a relativa distanza;
 Non ostacola altre attività fisiche o intellettive;
 Permette la localizzazione della fonte di emittenza;
 La ricezione del messaggio è contemporanea alla sua produzione;
 l'esecuzione parlata è più rapida di quella scritta;
 Il messaggio può essere trasmesso simultaneamente a gruppi e può essere colto da ogni
direzione;
 Il messaggio è evanescente e non permane a ingombrare il canale di comunicazione. Questo
in alcuni casi può essere anche uno svantaggio (verba volant, scripta manent);
 L'energia richiesta è molto ridotta: parlare può essere considerato un sottoprodotto
specializzato del respirare. Il parlare non assolve nessun altro compito fisio-biologico se non
quello della comunicazione ed è quindi un'attività altamente specializzata.

Nelle società moderne lo scritto ha tuttavia una priorità sociale (priorità dello scritto): una lingua evoluta
richiede una forma scritta poiché questa ha una maggiore importanza a livello sociale e culturale. È
strumento di fissazione e trasmissione della tradizione culturale e letteraria, è il veicolo fondamentale
dell'istruzione scolastica e ha validità giuridica.
Lo scritto è nato come fissazione stabile del parlato ma poi si è sviluppato con aspetti e caratteri propri: non
tutto ciò che fa parte del parlato (tono di voce) può avere un corrispondente nello scritto, né tutto ciò che fa
parte dello scritto (uso di maiuscole) può avere un corrispondente nel parlato.

Linearità e discretezza
Con linearità del segno linguistico si intende che il significante viene prodotto, si realizza e si sviluppa in
successione nel tempo e/o nello spazio, tale che non possiamo decodificare il segno se non dopo che siano
stati attualizzati tutti gli elementi che lo costituiscono. L'ordine in cui si susseguono le parti del segno è
pertinente per il significato del segno stesso. La linearità implica monodimensionalità del segno poiché il
significante si sviluppa in una sola direzione.
Sempre riguardante in primo luogo il significante è la proprietà della discretezza dei segni linguistici: per
discretezza si intende che la differenza tra le unità della lingua è assoluta e non relativa. Ciò vuol dire che le
unità non costituiscono materia continua, ma presentano confini precisi tra un elemento e l'altro. In
particolare, sono ben separate le classi di suoni. Una conseguenza di questa discretezza è che non possiamo
intensificare il significante per intensificare il significato come facciamo con grida o interiezioni. Nella
lingua dunque il significato non varia in proporzione al variare del significante (né viceversa).

Onnipotenza semantica, plurifunzionalità e riflessività


Un'altra proprietà del linguaggio verbale umano è l’onnipotenza semantica, ovvero con la lingua è possibile
dare un'espressione a qualsiasi contenuto. Poiché però risulta difficilmente provabile che con la lingua si
possa veramente dire tutto, è più prudente parlare di plurifunzionalità indicando la possibilità della lingua di
adempiere a una lista di funzioni diverse molto ampia: esprimere un pensiero, trasmettere informazioni,
instaurare e mantenere rapporti sociali, manifestare stati d'animo, risolvere problematiche. Se si parla di
funzioni della lingua è opportuno menzionare lo schema proposto da Jakobson il quale identifica sei classi
di funzioni:
 Funzione emotiva: messaggio linguistico volto specificatamente ad esprimere le sensazioni del
parlante (che bella sorpresa!);
 Funzione metalinguistica: messaggio volto a specificare aspetti del codice o a calibrare il
messaggio sul codice (ho detto pollo con due l, non polo);
 Funzione referenziale: messaggio volto a fornire informazioni sulla realtà esterna (l'intercity per
Milano che è in partenza dal binario due...);
 Funzione conativa: messaggio volto a far agire in qualche modo il ricevente attendendo da lui un
certo comportamento (chiudi la porta);
 Funzione fatica: messaggio volto a verificare il canale di comunicazione e/o il contatto fisico o
psicologico tra i parlanti (pronto? / Ciao, Gianni!);
 Funzione poetica: messaggio volto a mettere in rilievo le potenzialità insite nel messaggio e i
caratteri interni del significante e del significato (la gloria di colui che tutto move...);

Rifacendoci alla funzione metalinguistica nel modello di Jakobson si può inoltre osservare che con la lingua
si può parlare della lingua stessa (gatto è un sostantivo singolare), o più tecnicamente possiamo dire che la
lingua è utilizzata come metalingua o metalinguaggio. La lingua di cui parla la metalingua viene in tal caso
chiamata lingua oggetto in seguito alla proprietà della riflessività.

Produttività e ricorsività
Un'altra proprietà della lingua, connessa da un lato alla doppia articolazione e dall'altro all'onnipotenza
semantica, è la produttività: con questa si allude al fatto che con la lingua da un lato è possibile produrre
messaggi sempre nuovi combinando in una nuova maniera significanti e significati, dall'altro è possibile
associare messaggi già usati a situazioni nuove (anche inesistenti poiché la lingua non è limitata a codificare
il mondo esistente). La produttività prende la forma di quella che è stata chiamata creatività regolare, vale a
dire una produttività infinita basata su un numero limitato di principi e regole.
Un'ulteriore proprietà della lingua è la ricorsività, ovvero la possibilità della riapplicazione di uno stesso
procedimento un numero teoricamente illimitato di volte (da una parola posso ricavarne un'altra mediante
l'aggiunta di un prefisso, e questa regola di suffissazione è ricorsiva  atto > attuale > attualizzare >
attualizzazione...). Il limite della ricorsività sta nell'utente e non nel sistema linguistico!

Il distanziamento
Per distanziamento si intende la possibilità di poter formulare messaggi relativi a cose lontane, distanti nel
tempo e nello spazio o in entrambi da dove viene prodotto il messaggio. Questo consiste nella possibilità di
parlare di un'esperienza in assenza di quest'ultima. La nozione di distanziamento viene a coincidere con la
libertà da stimoli: la lingua è indipendente dalla situazione immediata e dai sui stimoli (gli aspetti esterni
della situazione e le nostre reazioni ad essi non sono causa né necessaria, né sufficiente dell'emissione di un
determinato messaggio in un dato momento).

Trasmissibilità culturale
Dal punto di vista antropologico ogni lingua è trasmessa per tradizione all'interno di una società e cultura. Le
regole, il patrimonio lessicale di una lingua passano da una generazione all'altra per
insegnamento/apprendimento spontaneo non attraverso informazioni genetiche/ereditarie. Noi impariamo la
lingua che è propria dell'ambiente in cui cresciamo e che non è necessariamente quella dei nostri genitori
biologici. Questo non vuol dire tuttavia che il linguaggio verbale umano sia un fatto unicamente culturale, al
contrario nel linguaggio verbale vi è sia una componente culturale-ambientale sia una componente innata
che fornisce la "facoltà del linguaggio", cioè la predisposizione a comunicare mediante una lingua.
L'interazione fra componente innata e culturale fa sì che abbia un ruolo particolare nel processo di
acquisizione della lingua, non solo la prima infanzia ma anche il periodo della " prepubertà linguistica". Se
entro l'età di 11-12 anni un essere umano non è stato esposto a stimoli linguistici provenienti dall'ambiente
culturale in cui vive, lo sviluppo della lingua è bloccato; d'altra parte entro tale età l'apprendimento di una
lingua avviene in maniera sorprendentemente rapida e agevole mentre imparare una seconda lingua più tardi
diventa arduo e faticoso.

Complessità sintattica
Vi sono infine due proprietà della lingua molto interessanti inerenti alla natura interna del sistema
linguistico. Una di queste consiste nel fatto che i messaggi linguistici possono presentare un alto grado di
elaborazione strutturale. Questa proprietà si può definire "complessità sintattica". Fra gli aspetti che hanno
rilevanza nella trama sintattica vi sono:
 L'ordine degli elementi contigui: le posizioni in cui essi si combinano ci permettono di capire chi
compie o chi subisce un'azione (es. Gianni picchia Giorgio);
 Le dipendenze tra gli elementi non contigui: è la capacità degli elementi costitutivi di una struttura
di intrattenere relazioni a distanza ("il libro di Chomsky sulle strutture sintattiche", dove l'elemento
"strutture sintattiche" non dipende dall'elemento che lo procede "Chomsky" ma da "il libro" che è
l'elemento modificato);
 Le incassature: ("il cavallo che corre senza fantino sta vincendo la gara" dove la parte "che corre
senza fantino" è incassata nella parte "il cavallo sta vincendo la gara");
 La ricorsività: conferisce alle strutture linguistiche un particolare carattere di complessità interna;
 Congiunzioni coordinanti (e, ma) e subordinanti (che, perché): la presenza di parti del messaggio
che danno informazioni sulla strutturazione sintattica;
 Possibilità di discontinuità nella strutturazione sintattica: le costruzioni ammesse dalle lingue
possono ammettere o richiedere che elementi o parti sintatticamente unite dal punto di vista sia
semantico che sintattico non siano linearmente adiacenti (verbi separabili in tedesco: Paul macht das
Fenster auf" = "Paolo fa la finestra su" ovvero Paolo apre la finestra, oppure separare ausiliare da
participio);

Equivocità
Un'ultima proprietà del linguaggio verbale umano è l'equivocità. La lingua infatti è un codice tipicamente
equivoco: pone corrispondenze plurivoche fra la lista dei significanti e quella dei significati. A un unico
significante possono infatti corrispondere più significati ("carica" = funzione/mansione - quantitativo di
energia - assalto - piena (un'auto carica) - terza persona singolare del verbo caricare).

PROPRIETÀ DELLA LINGUA – RIEPILOGO: biplanarità, arbitrarietà, doppia articolazione,


transponibilità di mezzo, linearità, discretezza, onnipotenza semantica (plurifunzionalità), riflessività,
produttività, ricorsività, distanziamento e libertà da stimoli, trasmissibilità culturale, complessità sintattica,
equivocità.

Lingua solo umana?


È opportuno chiedersi se un sistema organizzato come la lingua sia caratteristico soltanto degli esseri umani
oppure non sia altro che la manifestazione presso gli uomini di modalità comunicative diffuse in maniere
diverse presso tutti gli esseri animati. Gli studiosi non sono concordanti ma prevale la considerazione che la
facoltà verbale di esprimersi attraverso sistemi comunicativi come le lingue sia specifica dell'uomo e
sia maturata come tale nell'evoluzione.

Solo l'uomo possiede condizioni anatomiche e neurofisiologiche necessarie per l'elaborazione mentale e
fisica del linguaggio verbale:
 Adeguato volume del cervello;
 Conformazione del canale fonatorio "a due canne" (connessa con la stazione eretta): con un
cambiamento di direzione fra il cavo orale (una canna) e la laringe (l’altra), e con la faringe che fa da
cassa di risonanza;
La prima rende possibili la memorizzazione e l’elaborazione di un sistema complesso come il linguaggio; la
seconda unita alla funzionalità delle corde vocali consente sottili distinzioni articolatorie e sfumature nella
produzione fonica necessarie per la comunicazione orale.

La neurolinguistica sperimentale ha mostrato come nell’esecuzione di compiti verbali concernenti la


morfologia e la sintassi vengono attivate aree specifiche della corteccia cerebrale. È noto da tempo che nella
localizzazione delle diverse funzioni nell’uno o nell’altro emisfero cerebrale (“lateralizzazione”), molto
coinvolta quanto all’elaborazione del linguaggio è l’”area di Broca”, zona corticale situata nella terza
circonvoluzione del lobo frontale dell’emisfero sinistro.

Definizione di lingua
La lingua (a) è un codice (b) che organizza un sistema di segni (c) dal significante primariamente fonico-
acustico (d), arbitrari ad ogni loro livello (e) e doppiamente articolati (f), capaci di esprimere ogni
esperienza esprimibile (g), posseduti come conoscenza interiorizzata che permette di produrre frasi a
partire da un numero finito di elementi.

I principi generali per l'analisi della lingua - Sincronia e Diacronia


I termini sincronia e diacronia si impiegano per indicare due diversi approcci alle lingue e ai fatti linguistici
in relazione all'asse del tempo.
Per Diacronia si intende la considerazione delle lingue e degli elementi linguistici lungo lo sviluppo
temporale nella loro evoluzione storica. Per Sincronia s'intende invece la considerazione delle lingue e degli
elementi linguistici facendo un "taglio" sull'asse del tempo e guardando come essi si presentano in un
determinato momento agli occhi dell'osservatore, indipendentemente da quella che è stata la loro evoluzione
temporale e dai mutamenti avuti.
Per ricavare l'etimologia di una parola è necessaria un'operazione linguistica tipicamente diacronica. È la
linguistica diacronica che ci dice che la parola "duomo" per esempio deriva dal latino "domus". Descrivere
il significato che hanno oggi le parole e studiare la struttura sintattica delle frasi in una lingua sono invece
operazioni di linguistica sincronica. La linguistica sincronica spiega com'è fatta e come funziona la lingua;
la linguistica diacronica invece perché le forme di una determinata lingua sono fatte così.

Langue e Parole
Un'importante distinzione è quella tra sistema astratto e realizzazione concreta a cui ci si riferisce
generalmente in termini di linguistica con la coppia oppositiva langue e parole (uno dei cardini del pensiero
di Saussure), sistema e uso (per usare i termini di Hjelmslev) o competenza ed esecuzione (nella
linguistica generativa che fa capo a Chomsky).
Col termine langue s'intende l'insieme delle conoscenze mentali, di regole interiorizzate che costituiscono la
nostra capacità di produrre messaggi in una certa lingua, e sono possedute in egual misura come sapere
astratto da tutti i membri di una comunità linguistica idealmente omogenea.
Con parole s'intende invece l'atto linguistico individuale, vale a dire la realizzazione di un messaggio verbale
in una certa lingua.
In particolare, la coppia langue-parole comprende una triplice opposizione tra "astratto, sociale e costante"
(langue) e "concreto, individuale e mutevole" (parole).
Alcuni linguisti pongono una terza entità intermedia: la norma, che costituirebbe una sorta di filtro tra
langue e parole. In italiano si ha per esempio la formazione di nomi a partire da verbi (con il valore di
indicare l'azione significato del verbo) mediante il suffisso -azion(e) o -ament(o). Il sistema prevede e
ammette entrambe le forme, ma nella norma vengono realizzate certe combinazioni e se ne escludono altre
(affidare > affidamento, non affidazione, conservare > conservazione, non conservamento).
In linea di principio ciò che interessa al linguista è la langue, per studiarla però deve partire dalle parole che
gli forniscono i dati osservabili da cui ricavare le leggi del sistema. Porre al centro dell'attenzione del
linguista la langue significa porre l'astrazione e l'idealizzazione: partendo dalla loro manifestazione
concreta il linguista opera su oggetti d'indagine astratti ed ideali.
Paradigmatico e Sintagmatico
La terza distinzione è quella tra asse paradigmatico e asse sintagmatico: ogni attuazione di un elemento del
sistema di segni in una certa posizione nel messaggio, implica una scelta in un paradigma (o insieme) di
elementi selezionati in quelle posizioni: l'elemento che compare esclude tutti gli altri che però potrebbero
comparire in quella posizione e con i quali quel dato elemento ha rapporti sull'asse paradigmatico (detto
anche asse delle scelte o in absentia). Contemporaneamente l'attuazione di quell'elemento in una certa
posizione implica la presa in conto degli elementi che compaiono nelle posizioni precedenti e seguenti con i
quali ha rapporti, in questo caso, sull' asse sintagmatico (detto anche asso delle combinazioni o in presentia)
e coi quali deve esserci una coerenza sintagmatica.

Il primo aspetto fornisce per così dire i serbatoi da cui attingere le singole unità linguistiche, il secondo
assicura che le combinazioni di unità siano formate in base alle restrizioni adeguate a ogni lingua (il mangia
gatto è mal formata come frase poiché non rispetta la coerenza sintagmatica e le scelte paradigmatiche
dell'italiano). L'organizzazione secondo i due principi è molto importante in quanto dà luogo alla diversa
distribuzione degli elementi della lingua, permettendo di riconoscere classi di elementi che condividono le
stesse proprietà distribuzionali in opposizione a quelli che hanno distribuzione diversa.

Si può dire che l'asse paradigmatico riguarda le relazioni a livello del sistema, mentre l'asse sintagmatico
riguarda le relazioni a livello delle strutture che realizzano le potenzialità del sistema.

Livelli d'analisi
Fondamentalmente esistono nelle lingue quattro livelli d'analisi stabiliti in base alle proprietà della
biplanarità e della doppia articolazione, che identificano tre strati diversi del segno linguistico: lo strato
del significante inteso come mero significante; lo strato del significante in quanto portatore di significato e lo
strato del significato.
Tre livelli d'analisi sono relativi al piano del significante: uno per la seconda articolazione che consiste
nella fonetica e fonologia, due per la prima articolazione che riguardano l'organizzazione del significante in
quanto portatore di significato e che consistono nella morfologia e nella sintassi; un altro livello è relativo
solo al piano del significato e consiste nella semantica.

Di questi livelli d'analisi la fonetica/fonologia e la semantica rappresentano i livelli più esterni in quanto sono
le interfacce del sistema linguistico con la realtà esterna. Morfologia e sintassi rappresentano invece i livelli
interiori.

Il rapporto fra i livelli di analisi e la loro posizione nel sistema linguistico possono essere schematizzati come
segue: REALTÀ FISICA: fonetica e fonologia – morfologia e sintassi – lessico e semantica (mondo esterno
cognitivamente codificato, significato)

FARE ESERCIZI 4, 5, 6, 12, 15, 16, 21, 26, 29, 34, 39, 41, 45, 48, 53

2 – FONETICA E FONOLOGIA

Fonetica
La fonetica è la branca della linguistica che studia la componente fisica e materiale dei suoni. La fonetica si
articola in tre campi principali:
 La fonetica articolatoria: studia i suini del linguaggio in base al modo in cui sono prodotti
dall'apparato fonatorio umano;
 La fonetica acustica: studia i suoni del linguaggio in base alla loro consistenza fisica e modalità di
trasmissione in quanto onde sonore che si propagano in un mezzo;
 La fonetica uditiva: che studia i suoni del linguaggio in base al modo in cui vengono ricevuti,
percepiti dall'apparato uditivo umano e dal cervello;

Apparato fonatorio e meccanismo di fonazione


L'apparato fonatorio è l'insieme degli organi e delle strutture anatomiche che la specie umana usa per
parlare. I suoni del linguaggio vengono generalmente prodotti mediante l'espirazione, quindi con un flusso
d'aria "egressivo". Esistono poi suoni che sono prodotti mediante inspirazione, quindi con un flusso d'aria
"ingressivo", o senza la partecipazione dei polmoni (lingue dell'Africa centrale e meridionale).
Nella laringe l'aria incontra le corde vocali che nella fonazione possono contrarsi e tendersi. Cicli
rapidissimi di chiusure ed aperture delle corde vocali costituiscono le vibrazioni delle corde vocali. Il flusso
d'aria passa poi nella faringe e da questa nella cavità orale. Nella cavità orale svolgono una funzione
importante alcuni organi mobili o fissi: la lingua, il palato, i denti, le labbra (anche la cavità nasale può
partecipare al meccanismo di fonazione).
Il luogo in cui viene articolato il suono costituisce un primo parametro fondamentale per la classificazione
e l'identificazione dei suoni. Un secondo parametro fondamentale è dato dal modo di articolazione, ed un
terzo è dato dal contributo della mobilità di singoli organi all'articolazione dei suoni.

In base al modo di articolazione abbiamo una prima opposizione tra suoni prodotti senza la frapposizione
di ostacoli (le vocali) e suoni prodotti mediante la frapposizione di un ostacolo parziale o totale al
passaggio dell'aria, sia in presenza che in assenza di vibrazioni delle corde vocali (le consonanti).

I suoni prodotti con vibrazione delle corde vocali (accostate e tese) sono detti sonori, i suoni prodotti senza
vibrazione delle corde vocali (discoste) sono detti sordi. Le vocali sono normalmente tutte sonore, le
consonanti possono essere sia sonore che sorde.

Consonanti
A seconda che l’ostacolo al passaggio d’aria sia completo o parziale (restringimento cavità ma senza un vero
blocco), si riconoscono due classi di consonanti:
 Le occlusive (c’è una rapidissima occlusione del canale);
 Le fricative (restringimento del canale e l’avvicinamento degli organi articolatori provoca un
rumore di frizione).
Dalle fricative si distinguono le approssimanti, in cui l’avvicinamento degli organi non arriva a provare una
frizione. Un esempio di approssimanti sono le semiconsonanti e le semivocali.
Esistono anche le consonanti affricate: l’articolazione inizia come un’occlusiva e termina come una
fricativa.

Per alcune consonanti intervengono anche i movimenti o atteggiamenti della lingua o la partecipazione della
cavità nasale alla produzione del suono:
 Le laterali: l’aria passa solo ai due lati della lingua o attraverso solo uno di essi;
 Le vibranti: si hanno rapidi contatti intermittenti tra la lingua e un altro organo articolatorio;
 Le nasali: quando vi è passaggio dell’aria anche attraverso la cavità nasale;

Le consonanti sono caratterizzate anche in base all’energia articolatoria (tensione muscolare) con cui
vengono prodotte: si va dalle più forti (occlusive sorde) alle più leni (approssimanti). In generale, le
occlusive sono più forti delle fricative, e le sorde sono più forti delle sonore.

Un altro parametro è la presenza di “aspirazione”: intervallo di tempo fra il rilascio dell’occlusione e l’inizio
della vibrazione delle corde vocali, che produce una specie di soffio laringale. Le consonanti così prodotte
sono dette aspirate.

Le consonanti vengono classificate anche in base al punto dell’apparato fonatorio in cui sono articolate.
Partendo dal tratto terminale del canale abbiamo le consonanti (bi)labiali (prodotte tra o dalle labbra), le
consonanti labiodentali (prodotte fra l’arcata dentaria superiore e il labbro inferiore), le consonanti dentali
(prodotte a livello dei denti, comprendono le alveolari che sono prodotte dalla lingua contro gli alveoli), le
consonanti palatali (prodotte dalla lingua contro il palato duro), le consonanti velari (prodotte dalla lingua
vicino al velo, che è la parte più in fondo del palato), le consonanti uvulari (prodotte dalla lingua vicino
all’ugola), le consonanti faringali (prodotte fra la base della radice della lingua e la parte posteriore della
faringe) e le consonanti glottidali/laringali (prodotte nella glottide a livello delle corde vocali).

In una classificazione più precisa si può prendere in considerazione anche la parte della lingua che
interviene nell’articolazione: consonanti coronali (prodotte con la parte anteriore della lingua), consonanti
apico-dentali (prodotte dall’apice della lingua vicino ai denti), consonanti apico-alveolari (prodotte
dall’apice della lingua vicino agli alveoli), consonanti dorso-palatali (prodotte dal dorso della lingua vicino
al palato), consonanti radico-velari (prodotte dalla radice della lingua vicino al velo), ecc.

Abbiamo anche le consonanti retroflesse, che vengono prodotte flettendo all’indietro la punta della lingua
verso la parte anteriore del palato.
Esempi: occlusiva velare sorda (k) o sonora (g) – fricativa alveolare sorda (s) o sonora (z) – nasale bilabiale
(m) – affricata dentale sorda (ts) o sonora (dz) – approssimante anteriore (j)

Le labiovelari (“qu” e “gu”)

Sono articolazioni consonantiche complesse. Chiusura completa dell’apparato fonatorio da parte della lingua
che va a schiacciarsi sul velo palatino, il tutto arricciando le labbra. È l’unione dell’occlusiva velare [k, g]
con l’appendice semivocalica [w].
[kw] = “qu” cinque
[gw] = “gu” lingua

Le labiovelari sono state attribuite alle lingue indoeuropee sia perché sono presenti in alcune lingue
indoeuropee antiche, sia perché, laddove si sono semplificate, sono diventate o velari o labiali e ciò è
possibile solo se alla base abbiamo un elemento fonico formato da una velare e una labiale. Ritroviamo le
labiovelari in latino, ma anche in ittita, in greco miceno e nelle fasi più antiche delle lingue celtiche; esistono
anche nelle lingue germaniche ma sono scisse nei suoi elementi (velare – labiale)

[kw] (lat) = [kw], [k]: [kw] latina tende a conservarsi, ma ci sono casi in cui si riduce a [k]: - se seguito da
un’altra consonante (linquo > lictus); - per dissimilazione davanti a [j] (socius < * sokwjos).

[gw] (lat) = [gw], [gwh]: [gw] tende a conservarsi se preceduta da nasale (inguen) altrimenti di semplifica in
[w] (u, v = venio < gwenjo).
[gwh] (labiovelare sonora aspirata) si ritrova nei suoi esiti:
- [f] a inizio parola (formus < *gwhormus);
- [w] intervocalica all’interno di parola (nivem < *nigwhem);
- [gw] all’interno di parola, dopo nasale (pingui <*ningwhjt).
In latino gli esiti della labiovelare sonora e della labiovelare sonora aspirata coincidono all’interno di parola,
ma sono diversi ad inizio parola: la sonora di semplifica in [w], mentre la sonora aspirata si semplifica in [f].

Gli esiti delle labiovelari

Ad eccezione del greco, le labiovelari nell’indoeuropeo si sono semplificate o come elemento velare o come
elemento labiale.
- Labiovelare > velare (lingue baltiche, slave, armene, indoiraniche); la velare ottenuta coincide con gli esiti
della velare pura. Panca (sans) < *pence < *penke < *penkwe
-Labiovelare > labiale (lingue P del celtico = gallico)
Petorritum (carro a 4 ruote) < petor; petor < quattuor kw > P
Si aveva l’elemento labiale anche nelle lingue italiche. Essendo, poi, il latino e le lingue italiche in stretto
contatto, si sono influenzate a vicenda. (osco > lat) pis > quis, bius > vivi

- Greco: per quanto riguarda il greco va fatta una distinzione tra:


* greco miceneo (1500 – 1200 a.c.): definito anche greco del II millennio, scritto nell’alfabeto chiamato
“lineare b”. Nel greco miceneo le labiovelari risultano conservate:
qasireus (= basileus) < gwasileus
Va sottolineato che la grafia del greco miceneo non distingueva tra sorde e sonore per cui “l” o “r” diventava
“r”.
La labiovelare, però, perde la sua appendice [w] e si semplifica in velare, se nelle vicinanze c’è una “u”:
quokoro (boukolos) < gwoukolos.

* greco (VIII sec a.c – oggi): scritto nell’alfabeto tradizionale. La labiovelare ha 3 esiti:
a) esito labiale davanti a “a, o”;
b) esito dentale davanti a “e, i”;
c) esito velare nelle vicinanze di “u”.

Sviluppi dialettali divergenti: bisogna tenere di conto che il greco antico corrispondeva ad un’enorme
varietà di dialetti differenti fra loro. I dialetti eolici, ad esempio, risolvevano le labiovelari, ereditare
dall’indoeuropeo, sempre in labiali: si aveva “pempe” al posto di “pente”.

L'interazione tra velari palatalizzate, pure, e labiovelari.

Nella ricostruzione dell'indoeuropeo si è solito attribuire:


- le occlusive labiali (sorda, sonora, sonora aspirata);
- le occlusive dentali (sorda, sonora, sonora aspirata);
- le occlusive velari "palatalizzate" (sorda, sonora, sonora aspirata);
- le occlusive velari "pure" (sorda, sonora, sonora aspirata);
- le occlusive labiovelari (sorda, sonora, sonora aspirata).

Qui ci limitiamo alla serie delle occlusive sorde: *p *t *k’ *k *k dove k’ indica la velare palatalizzata e k la
velare pura.
Possiamo notare che vi sono tre articolazioni nella zona posteriore dell'apparato fonatorio contro due nella
zona anteriore. Nelle lingue satem le labiovelari compaiono di solito delabializzate (prive dell’elemento
labiale) e si comportano come le velari pure; nelle lingue centum le labiovelari arrivano di solito fino a epoca
storica e quando si modificano non coincidono con le velari pure.
Supponiamo infatti che l’indoeuropeo abbia avuto solo le velari e le labiovelari. Queste ultime, essendo
molto complesse, tendono alla semplificazione, come abbiamo visto in parecchie lingue (anche se non è
detto che ciò avvenga sempre).

A queste condizioni è possibile supporre che:


- in un periodo abbastanza antico, certe lingue indoeuropee abbiano manifestato la tendenza a ridurre le
labiovelari a semplici velari;
- nello stesso momento, secondo un tipico esempio di mutamento a catena, il passaggio delle labiovelari a
semplici velari abbia spinto le "vecchie" velari (quelle ereditarie) a mutare luogo di articolazione e ad
anteriorizzarsi.

labiovelari > velari semplici


("nuove" velari)

velari originarie
("vecchie" velari) > articolazioni anteriori o anteriorizzate

Questo sarebbe avvenuto nelle lingue satem.

Viceversa, nelle lingue centum le labiovelari si sono conservate assai più a lungo, evitando alle velari
originarie di doversi spostare. E anche quando più avanti si sono semplificate, non hanno seguito l'esito delle
lingue satem, ma si sono labializzate, passando ad articolazioni dentali o labiali, scindendosi nei due
elementi (labiale+velare).

E le velari che valgono come velari tanto nelle lingue centum che nelle satem? Nelle centum le velari danno
gli stessi esiti sia che derivino da velari supposte "palatalizzate", sia che derivino da velari supposte "pure".
Per le satem, possiamo immaginare un periodo di transizione durante il quale tutte o quasi le labiovelari si
erano già semplificate in (nuove) velari, ma nello stesso tempo non tutte le nuove velari (quelle originarie) si
erano modificate in consonanti anteriori: con la conseguenza che alcune velari originarie potevano trovarsi a
confluire con le nuove velari (cioè quelle ottenute per delabializzazione delle antiche labiovelari).

Quindi possiamo supporre due tipi di velari nell'indoeuropeo:


- nelle lingue centum, le labiovelari e le velari originarie sarebbero rimaste in linea di massima distinte
- nelle lingue satem, le labiovelari, semplificandosi in velari, avrebbero spinto le velari originarie ad
anteriorizzarsi per distinguersi dalle nuove velari
- sempre nelle lingue satem e nella fase del "cambio della casella" singole velari originarie potrebbero essere
state aggregate alle nuove velari seguendone la sorte.

labiovelari > "nuove velari"


"vecchie velari" > palatali/dentali

Di qui l'impressione finale di:


1) velari indoeuropee che, in proseguo del tempo, nelle lingue satem si sarebbero anteriorizzate (cioè le
velari palatalizzate della spiegazione tradizionale);
2) velari indoeuropee che, in proseguo del tempo, nelle lingue satem non si sarebbero anteriorizzate ma
sarebbero rimaste velari;
3) labiovelari: destinate a delabializzarsi, nelle lingue satem, in semplici velari.

Naturalmente vi sono le eccezioni per cui in una lingua satem abbiamo esiti centum e viceversa. Per le velari
abbiamo così l'alternativa che segue:
- ammettere che, in fase i.e. non solo esistessero velari pure e velari palatalizzate ma, anche, che le velari
pure potessero, in certi casi, alternare liberamente con le velari palatalizzate
- ammettere, per l'i.e. un solo tipo di velari che mantenutesi tali nelle lingue centum, nelle lingue satem si
sarebbero viceversa palatalizzate, ma non tutte indistintamente e neppure tutte allo stesso modo, sì
lasciandosi dietro una scia di casi sfuggiti al processo di anteriorizzazione.

Occlusive sorde, sonore e sonore aspirate

La ricostruzione tradizionale attribuisce all'indoeuropeo occlusive sorde, sonore e sonore aspirate. Il


sanscrito presenta tutte e tre le occlusive e anche la serie sorda aspirata. Le sorde aspirate non sono presenti
in abbastanza esiti di svariate lingue per poter dire che discendano dall'i.e.; esse potrebbero essere state
un'innovazione dell'indiano, così come altre lingue i.e. hanno eliminato, in vari modi, le occlusive sonore
aspirate.

Gli esiti delle occlusive sonore aspirate

Passando ora ai modi con cui le varie lingue i.e. si sono sbarazzate delle sonore aspirate, semplice e piuttosto
frequente è il sistema di de-aspirarle e farle confluire con le corrispettive sonore non aspirate.

La legge di Grassman

Se due aspirate ricorrono in sillabe contigue, per dissimulazione la prima delle 2 si deaspira (perde
l'aspirazione). In caso in cui l'elemento soggetto a deaspirazione sia semplicemente [h], la soppressione
dell'aspirazione non può che comportare la soppressione di [h]. Le occlusive sonore aspirate di gr. e sscr.
sono soggette a questa legge.
Il fenomeno si coglie soprattutto nelle forme verbali dette a raddoppiamento: composte con un prefisso
formato da una copia della consonante iniziale della radice, seguita da una vocale specifica (forme del
perfetto e del presente). Se la consonante iniziale della radice è una non aspirata, il raddoppiamento non pone
problemi. Se invece la consonante iniziale della radice è un’aspirata, allora nel raddoppiamento la sua copia
si manifesta come non-aspirata.

In assenza di forme a raddoppiamento, gli effetti della legge di Grassman sono meno evidenti in quanto, per
essere apprezzati, hanno bisogno del confronto interlinguistico.

La teoria delle consonanti glottali (o eiettive = detto di suono la cui articolazione è egressiva, ovvero
provoca uscita di aria). Venne avanzata dai linguisti sovietici Gamkrelidze e Ivanov (ma anche
dall'americano Hopper) negli anni 70 del '900. Osservando le lingue del mondo il sistema di occlusive
normalmente attribuito all'i.e. si configura come notevolmente raro, dal momento che avrebbe compreso le
serie sorda, sonora, e sonora aspirata, ma non la serie sorda aspirata. Sulla base di questo dato Gamkrelidze e
Ivanov si sono chiesti se il sistema tripartito abitualmente ammesso per l'i.e. non nasca invece dalla
trasformazione di un sistema diverso, meglio attestato nelle lingue del mondo.
La trafila proposta è la seguente:
• le occlusive sorde tradizionalmente attribuite all'i.e. continuerebbero delle occlusive sorde originarie;
• al contrario, le occlusive sonore tradizionalmente attribuite all'i.e. continuerebbero delle occlusive sorde
glottali, notate con un apice in alto a destra
• infine, le occlusive sonore aspirate tradizionalmente attribuite all'i.e. continuerebbero delle originali
occlusive sonore.

Quello che viene postulato pertanto da Gamkrelidze e Ivanov è un sistema originario del tipo:
- sorde semplici
- sorde eiettive (o glottidali, uguali alle sorde semplici ma contraddistinte in più dalla contrazione della
laringe)
- sonore semplici (uguali anch'esse alle sorde semplici ma in più la vibrazione delle corde vocali, che danno
la sonorità)

Tuttavia, la teoria di G e I non spiega come mai, tolti armeno e germ. tutte le altre lingue i.e. fanno evolvere
le supposte sorde glottidali non in sorde semplici come sarebbe più ovvio, ma in sonore.

Vocali
Suoni prodotti senza che si frapponga alcun ostacolo al flusso dell’aria nel canale orale. Le diverse vocali
sono caratterizzate dalle diverse conformazioni che assume la cavità orale a seconda delle posizioni che
prendono gli organi mobili (soprattutto la lingua) al passaggio dell’aria proveniente dalla glottide.
Per classificarle si fa riferimento alla posizione della lingua, al suo grado di avanzamento o arretramento,
e al suo grado di innalzamento o abbassamento.

In base alla posizione della lingua, le vocali possono essere anteriori (o palatali, articolate con la lingua in
posizione avanzata), posteriori (o velari, articolate con la lingua in posizione arretrata) e centrali.
In base al suo grado di avanzamento/arretramento e di innalzamento/abbassamento, le vocali possono essere
alte (o chiuse), medie (divise in medio-alte o semichiuse e medio-basse o semiaperte), e basse (o aperte).
La posizione in cui vengono articolate le vocali può essere rappresenta da uno schema chiamato “trapezio
vocalico” per la sua forma.

Un altro parametro è la posizione delle labbra, che possono trovarsi distese, formanti una fessura o tese
(vocali arrotondate, spingono in avanti e danno luogo a una rotondità). Le anteriori tendono ad essere non
arrotondate, le posteriori arrotondate.
Le vocali nasali vengono prodotte con passaggio contemporaneo dell’aria nella cavità nasale.

Approssimanti
Vi sono suoni prodotti con un inizio di restringimento del canale orale, cioè con la frapposizione di un
ostacolo, detti “approssimanti”. Fra le approssimanti ci sono suoni vicini alle vocali di cui condividono la
localizzazione articolatoria, chiamati “semivocali” o “semiconsonanti”.

Le sonanti

Esistono articolazioni intermedie che non sono classificabili né consonanti né vocali e sono dette legamenti,
essi sono:
• semivocale palatale j (come in italiano “jeri” ieri)
• semivocale velare w (come in italiano “womo” uomo)
• fricativa laringale [h] (come in inglese “to have”)
• occlusiva laringale [?] (maltese).

Parliamo ora di nasali (m e n) e liquide (l e r): esse hanno un'apertura dell'apparato fonatorio inferiore a
quella delle vocali, ma superiore a quella di tutte le altre consonanti; le nasali e le liquide possono trovarsi a
fungere da elemento più aperto della sillaba quando in essa non vi sono vocali vere e proprie. In quel caso le
nasali e liquide vengono dette sonanti e sono contraddistinte, in alfabeto scientifico, da un cerchietto
sottoscritto.
Ai fini della ricostruzione dell'ipotetico punto di partenza le possibilità sono:
1.un elemento originariamente solo vocalico, cui certe lingue avrebbero aggiunto un elemento nasale (ma ciò
non spiega quale fosse l'elemento vocalico di partenza, né perché alcune lingue dovrebbero sviluppare questo
elemento accessorio nasale);
2. una sequenza originaria vocale + nasale, che poi in alcune lingue, si sarebbe ridotta alla sola vocale (non
chiarisce perché in certe lingue la nasale sia sparita solo in certe sequenze di vocale + nasale e non in altre);
3. un elemento esclusivamente nasale, cui certe lingue avrebbero aggiunto una vocale, in alcune di esse
destinata a svilupparsi tanto da prendere il sopravvento sulla vocale (questa soluzione pone di fronte ad una
domanda: è giustificabile, e se sì, in quale modo che un elemento nasale sviluppi una vocale d'appoggio?).

Quindi potremmo ipotizzare che:


- l'i.e. abbia posseduto delle sonanti;
- dopo la frammentazione dell'unità dell'i.e., nelle varie lingue le sonanti abbiano preso a sviluppare delle
vocali d'appoggio, diverse da lingua a lingua o da gruppo a gruppo;
- in certe lingue o in certi casi, le vocali d'appoggio possano essersi sviluppate fino al punto d'assorbire le
sonanti che le avevano originate.

Il meccanismo apofonico

Per apofonia intendiamo un complesso gioco di alternanze vocaliche, che possono coinvolgere tanto i
lessemi quanto i morfemi e nelle quali la vocale “e” può scambiarsi con la vocale “o” oppure con zero, così
originando l’apofonia qualitativa. Può scambiarsi con “e” lunga oppure con “o” lunga, originando l’apofonia
quantitativa.

È preferibile considerare il meccanismo apofonico come non condizionato, in linea di massa, dal contesto.
Alternanze vocaliche dipendenti dal contesto si trovano facilmente nelle lingue del mondo, alternanze come
quelle apofoniche, e svolgono ruolo morfologico o morfosemantico.
Il meccanismo apofonico che attribuiamo all'i.e., è plausibile fosse per lo più manifestazione di morfologia
non concatenativa. Ci viene difficile stabilire quale potesse essere il valore morfologico e più in generale la
funzione delle alternanze apofoniche a livello di i.e. Tuttavia, possiamo notare che una stessa radice lessicale
può ricorrere, in due o più lingue i.e., con uguale significato ma con vocalismo apofonico diverso: e così per
indicare 'ginocchio' lat. utilizza grado 'e': genuculum, mentre il greco parte dalla stessa base ma utilizza il
grado 'o': gony. In base a questi elementi potremmo dire che a livello i.e. la scelta delle alternanze
apofoniche doveva dipendere unicamente dalla libera iniziativa del parlante, che per dire 'ginocchio' poteva
optare per *gen o *gon. Solo dopo che le varietà dell'i.e. si erano create si optò per una selezione.

La teoria degli "švà", la teoria delle laringali

Sia ă che ĭ sono originarie ma derivino entrambe da una terza vocale, una vocale dalla quale si possa
giungere ad entrambi gli esiti, ed essa è col termine di origine ebraico lo š(e)và che è l'elemento vocalico che
può evolvere nei modi più disparati. Tuttavia, il greco a volte esibisce una ě e a volte una ŏ laddove il latino
e le altre lingue indoarie continua a presentare ă e il gruppo indoiranico presenta ĭ.
I dati del greco ci inducono a pensare che in i.e. esistessero ben tre vocali "sva", una tendente alla 'a', una alla
'e' e una alla 'o'. Tutte le altre lingue invece avrebbero confuso le tre vocali in un unico svà, a sua volta
continuatosi in ă in certe lingue (latino e lingue germaniche) e come in ĭ in altre (gruppo indoiranico).

Trascrizione fonetica
Nei sistemi alfabetici tipi delle lingue europee, ogni singolo suono viene reso in linea di principio da un
particolare simbolo grafico. Le grafie alfabetiche si sono formate storicamente per convenzione e non hanno
un rapporto biunivoco tra suoni e unità grafiche. Allo stesso singolo suono si possono corrispondere nella
stessa lingua o in lingue diverse grafemi differenti (es. in italiano la C di QUADRO e la C di CI).
L’ortografia italiana si può definire abbastanza fedelmente fonografica. Siamo abituati ad associare a ogni
suono una lettera, quindi siamo abituati a leggere e pronunciare come si scrive, a differenza delle grafie del
francese e dell’inglese.
La realtà della lingua è però primariamente fonica, e quel che conta è la fonia, non la grafia.

Fonia e grafia. Suoni e grafemi dell’italiano


Il sistema di scrittura dell’italiano appartiene ai sistemi di scrittura che si basano fondamentalmente
sull’inventario fonematico della lingua. L’ortografia dell’italiano è piuttosto fonografica, riproduce cioè le
unità fonologiche con una certa fedeltà. Ciononostante, non mancano casi in cui il rapporto biunivoco tra i
suoni e i grafemi viene a mancare. Di conseguenza, a uno stesso grafema possono corrispondere fonemi
diversi, es. “fuso” rappresenta sia [fuso] (l’arnese), sia [fuzo] (part. pass. fondere]. Ci sono anche
combinazioni di grafemi; è il caso di “ch” e “gh” davanti a e, i [ghiro] contro [giro]. Accade anche che a uno
o più grafemi di una parola non venga a corrispondere alcun suono [l’h in ho, hai], o che a uno stesso suono
corrispondano grafemi differenti [quinto – kwinto, cane – kane].

Per avere uno strumento di rappresentazione grafica dei suoni del linguaggio, valido per tutte le lingue, che
riproduca la realtà fonica, i linguisti hanno elaborato sistemi di trascrizione fonetica in cui c’è
corrispondenza fra suoni rappresentati e segni grafici che li rappresentano. Il più diffuso è l’IPA, l’Alfabeto
Fonetico Internazionale (1888), chiamato anche API dalla sigla francese. Una parte dei grafemi IPA
corrisponde a quelli dell’alfabeto latino, usati nella grafia normale dell’italiano, ma molti altri grafemi hanno
una forma speciale. L’IPA permette di riprodurre qualunque suono di qualunque lingua, quindi ci permette di
pronunciare parole anche di lingue che non conosciamo.

CONSONANTI:
BILABIALE OCCLUSIVA SORDA “p”, SONORA “b”  pollo, bocca
BILABIALE FRICATIVA SORDA “ø”, SONORA “ß”  tipo (pronuncia fiorentina), cabeza
BILABIALE NASALE SONORA “m”  mano

LABIO-DENTALE FRICATIVA SORDA “f”, SONORA “v”  filo, vino


LABIO-DENTALE AFFRICATA SORDA “pf”  apfel
LABIO-DENTALE NASALE SONORA “m” (con gamba lunga)  invito

DENTALE ALVEOLARE OCCLUSIVA SORDA “t”, SONORA “d”  topo, dito


DENTALE ALVEOLARE FRICATIVA SORDA “s, θ”, SONORA “z”  think, sano, sbaglio
DENTALE ALVEOLARE AFFRICATA SORDA “ts”, SONORA “dz”  pazzo, zona
DENTALE ALVEOLARE NASALE SONORA “n”  nave
DENTALE ALVEOLARE LATERALE SONORA “l”  lana
DENTALE ALVEOLARE VIBRANTE SONORA “r”  riva

PALATALE FRICATIVA SORDA “ʃ”, SONORA “ʒ”  sci, jour


PALATALE AFFRICATA SORDA “tʃ”, SONORA “dʒ”
PALATALE NASALE SONORA “ɳ”  gnocco
PALATALE LATERALE SONORA “ʎ”  gli

VELARE OCCLUSIVA SORDA “k”, SONORA “g”  cane, gatto


VELARE FRICATIVA SORDA “x”  hijo

UVULARE OCCLUSIVA SORDA “q”  Iraq


UVULARE VIBRANTE SONORA “R”  r francese

GLOTTIDALE FRICATIVA SORDA “h”  have

VOCALI:

SEMIVOCALE ANTERIORE (PALATALE) “j”, POSTERIORE (VELARE) “w”  piano, uomo


ALTE (CHIUSE) ANTERIORI (PALATALI) “i, y”, POSTERIORI (VELARI) “u”  vino, mur in francese,
muro
SEMIALTE ANTERIORI “I”, POSTERIORI “ʊ”  bit, full
MEDIOALTE ANTERIORI “e, ø”, CENTRALI “ə”, “POSTERIORI “o”  meno, peu in francese, je in
francese, bocca
MEDIOBASSE ANTERIORI “ɛ, œ”, POSTERIORI “ʌ”  bene, peur in francese, but in inglese
BASSE (APERTE) ANTERIORI “æ”, CENTRALE “a”  bad, mano

Fonologia
Ogni suono producibile dall'apparato fonatorio umano rappresenta un potenziale suono del linguaggio che
chiamiamo fono. Un fono è la realizzazione concreta di un qualunque suono del linguaggio. Quando i foni
hanno valore distintivo e dunque si oppongono sistematicamente ad altri foni nel distinguere e formare le
parole, si dice che funzionano come fonemi. I foni sono le unità minime in fonetica, i fonemi sono invece
le unità minime in fonologia. La fonologia studia l'organizzazione e il funzionamento dei suoni nel sistema
linguistico. Mentre la trascrizione fonetica può essere "larga" o "stretta" nella misura in cui si cerca di
riprodurre i caratteri della pronuncia, la trascrizione fonematica riproduce solo le caratteristiche pertinenti
alla realizzazione fonica, trascurando le particolarità e le differenze che non hanno valore distintivo (è
sempre quindi una trascrizione "larga"). Ciascuno dei fonemi è identificato per opposizione. Tale
procedimento si chiama prova di commutazione.
Va notato che vocali e consonanti non sono mai in opposizione fra loro, ma le vocali si oppongono a vocali
e le consonanti a consonanti. Più precisamente vocali e consonanti sono in opposizione sintagmatica mentre
all'interno delle due rispettive classi vi è un'opposizione paradigmatica.
Fonema è dunque l'unità minima di seconda articolazione del sistema linguistico. Più precisamente è una
classe astratta di foni dotata di valore distintivo, cioè tale da opporre una parola ad un'altra in una data
lingua.
Foni diversi che costituiscono realizzazioni foneticamente diverse di uno stesso fonema ma prive di valore
distintivo si chiamano allofoni di un fonema. Varianti contestuali (o combinatorie o allofoni contestuali o
combinatori): diversi modi, determinati dal contesto, di realizzare uno stesso fonema. Es. [n] si realizza con
nasale dentale come in [vino]; nasale velare [ŋ] quando è condizionato dall'articolazione consonantica velare
che viene dopo, come in [vinco].
Quando le varianti di fonema (combinatorie) sono determinate dal contesto si dice che presentano
distribuzione complementare.
Una coppia di parole che siano uguali in tutto tranne che per la presenza di un fonema al posto di un altro in
una certa posizione forma una coppia minima ([mare]/[pare]). Coppie minime: coppie di parole che si
distinguono perché differiscono in un unico punto di una sequenza. Differenziandosi in un solo punto della
catena di elementi fonici che le compongono, risultano due parole semanticamente diverse. Es. mare, care;
pazzo, pizzo; cupo, cubo; giusto, fusto; fusto, gusto; giusto, gusto.

Se gli allofoni che si riscontrano più frequentemente sono quelli contestuali, non mancano neppure i
cosiddetti allofoni liberi (o varianti libere), ossia indipendenti dal contesto. Come per esempio la [R] uvulare
francese.

ESERCIZIO: i fonemi sono le unità minime distintive, non significative; e allora, come si potrà spiegare che,
in italiano, ad es. /E/ vuol dire “è”, /a/ vuol dire “ha”, ecc? RISPOSTA: negli esempi citati, le parole
vengono del tutto casualmente a essere costituite da un singolo fonema. Ciò non significa che in italiano il
fonema /E/ abbia di per sé il significato “egli è”, o che il fonema /a/ abbia di per sé il significato di “egli ha”.
Ciò significa semplicemente che per dire “3 singolare del presente indicativo del verbo essere” si utilizza il
solo fonema /E/.

ESERCIZIO 2: in spagnolo, nessuna parola può cominciare per sC-, cioè per s- seguita da consonante.
Qualunque voce etimologicamente caratterizzata da una sequenza sC- iniziale presenta obbligatoriamente
un’iniziale e-. Es. escribir (lat. SCRIBERE), espejo (SPECULU), estar (STARE), estrecho (STRICTUM),
ecc. Questa e- che compare davanti alla sequenza etimologica sC- a inizio di parola non può avere alcun
valore fonologico, ma deve intendersi come facente parte della *s- iniziale anteconsonantica che viene subito
dopo. In altre parole, in spagnolo il fonema /s/ ha almeno due realizzazioni diverse: una [s] in qualunque
posizione eccetto quella a inizio di parola e seguita da consonante; e una, [es], limitata alla posizione iniziale
di parola seguita da consonante.
Livello fonetico: riguarda la produzione concreta dei nomi o foni, vale a dire, in che modo i suoni vengono
articolati, in quale punto dell'apparato fonatorio, con l'intervento di quali organi articolatori (labbra, denti,
ecc...).

Fonemi e tratti distintivi


I fonemi sono dunque unità minime di seconda articolazione e non sono ulteriormente scomponibili. I
fonemi si possono però analizzare sulla base delle caratteristiche articolatorie che li contrassegnano:
potremmo identificare /t/ come occlusiva dentale sorda e /d/ come occlusiva dentale sonora. Un fonema si
può quindi ulteriormente definire come costituito da un fascio di proprietà articolatorie che si realizzano in
simultaneità. Due fonemi sono differenziati da almeno un tratto fonetico pertinente binario (= due valori: +
(si; presenza) e - (no; assenza)). (/t/+(sonoro); /d/-(sordo)). Partendo da queste considerazioni è stata
sviluppata in fonologia la teoria dei tratti distintivi, che consente di rappresentare economicamente tutti i
fonemi come un fascio di alcuni tratti distintivi con un determinato valore +o-. In pratica permetterebbero di
dar conto di tutti i fonemi attestati e possibili nelle lingue del mondo. Questo insieme di tratti distintivi
rappresenterebbe il complesso degli atteggiamenti articolatori che in tutte le lingue del mondo possono avere
valore distintivo. "Cara" e "gara" in questa prospettiva non risulterebbero distinte dall'opposizione
fonematica /k~g/, perché opposte per sonorità. I tratti permettono anche di rappresentare economicamente
fenomeni fonologici che avvengono di frequente nelle lingue. Per esempio, le assimilazioni, cioè due foni
che vengono a trovarsi in posizione contigua tendono facilmente ad assumere l'uno qualche tratto dell'altro.
In italiano per esempio una fricativa dentale o alveolare viene realizzata sempre sonora davanti ad una
consonante sonora. Se volessimo rappresentare questo con una regola che operi con foni e fonemi
dovremmo elencare tutti i fonemi consonantici che possono trovarsi in un nesso preceduti da una fricativa
dentale/alveolare. Utilizzando invece i tratti e chiamando sibilanti le consonanti fricative dentali o alveolari
soggette al fenomeno, possiamo formulare la semplice regola fonologica: [sibilante]  [+son]/______
[+cons] [+son]  una sibilante diventa sempre sonora davanti a una consonante sonora.

Tratti necessari a distinguere i fonemi dell’italiano:


 Sillabico: fonemi che possono costituire nucleo di sillaba; in it. soltanto le vocali, in altre lingue
anche nasali, laterali e vibranti
 Consonantico: fonemi prodotti con frapposizione di un ostacolo al flusso dell’aria; tutte le
consonanti
 Sonorante: fonemi prodotti con passaggio d’aria relativamente libero, senza turbolenza nel flusso
d’aria, e con vibrazione delle corde vocali; sono le vocali, le approssimanti, le consonanti nasali,
laterali e vibranti
 Sonoro: fonemi prodotti con vibrazione delle corde vocali
 Continuo: fonemi prodotti con una costrizione nella cavità orale, che consente al flusso dell’aria che
esce dalla bocca di poter essere protratto nel tempo, finché c’è aria respiratoria a disposizione; sono
le fricative, le laterali, le vibranti, le approssimanti
 Nasale: fonemi prodotti con abbassamento del velo e conseguente passaggio del flusso d’aria
attraverso il canale nasale; sono le consonanti nasali
 Rilascio ritardato: fonemi realizzati in due momenti, un primo in cui l’aria è trattenuta nella cavità
orale e un secondo in cui è rilasciata; tipicamente le consonanti affricate
 Laterale: fonemi prodotti con passaggio del flusso d’aria ai lati della cavità orale; le consonanti
laterali
 Arretrato: fonemi prodotti con il corpo della lingua ritratto rispetto alla posizione neutra; le
consonanti velari e l’approssimante posteriore;
 Anteriore: fonemi prodotti con una costrizione nella zona alveolare o in un luogo anteriore:
bilabiali, labiodentali, dentali;
 Coronale: fonemi prodotti con la parte anteriore della lingua sollevata rispetto alla posizione neutra;
dentali, alveolari e alcune palatali;
 Arrotondato: fonemi prodotti con le labbra protese in avanti; o, u
 Alto: fonemi prodotti con la lingua sollevata rispetto alla posizione neutra; i, u
 Basso: fonemi prodotti con la lingua abbassata rispetto alla posizione neutra; a, E
Una nasale dentale diventa bilabiale quando è seguita da una consonante bilabiale. Una nasale dentale
diventa labiodentale quando è seguita da una consonante labiodentale.

Livello fonologico o fonematico: riguarda quei foni che ciascuna lingua si sceglie per farne i "mattoni" con
cui costruire le sequenze dei significati, cioè le sequenze foniche in grado di veicolare i significati: it mare,
sequenza fonica costituita dagli elementi > /m/+/a/+/r/+/e/: distesa di acqua salata, ecc... Con termine più
tecnico, quelli che abbiamo chiamato "mattoni" si dicono fonemi.
I foni sono segnati convenzionalmente tra parentesi graffe e si collocano al livello della concretezza
articolatoria. I fonemi segnati tra sbarre oblique si collocano invece a livello soprattutto mentale: sono gli
elementi che un parlante di una data lingua sa di dover utilizzare se, in quella lingua, vuole costruire un certo
significante (stringa fonica). Così per costituire la stringa fonica che veicoli la nozione di “distesa di acqua
salata…”, il parlante italiano "sa" che in prima posizione deve mettere una /m/, ecc...

I fonemi dell'Italiano
Fonema: l'unità fonica più piccola, che pur non avendo di per sé un significato permette di distinguere tra
significati diversi.
Non tutte le lingue hanno gli stessi fonemi, né tutte hanno lo stesso numero di fonemi. l'Italiano standard ha
30 fonemi o 28 secondo alcuni autori che non considerano fonemi a sé le semivocali. Si arriva peraltro a 45
se calcoliamo come fonemi a se le vocali lunghe. Veniamo ai problemi generali della fonologia italiana:

 Anzitutto è problematico lo statuto delle consonanti lunghe o doppie o geminate. Se accettiamo per
esempio che [kane] e [kanne] costituiscano una coppia minima lo è se prendiamo [kanne] come
formata non da 5 fonemi ma da 4 (/k//a//n://e/), dobbiamo aumentare di 15 il numero dei fonemi
italiani essendo 15 le consonanti che possono dar luogo a coppie minime basate sulle lunghezze:
cioè tutte le consonanti tranne le 5 che in posizione intervocalica sono sempre lunghe e /z/ che non
compare mai lunga. Le affricate dentali, la fricativa palatale, la nasale e la laterale palatali ([ts] [dz]
[ʃ] [ɲ] [ʎ]) sono in italiano standard sempre lunghe o doppie se si trovano tra 2 vocali;

 In genere ci sono poi nelle pronunce dell'Italiano molte differenze regionali: le opposizioni tra /s/
e /z/, /ts/ e /dz/, tra /j/ e /i/ e tra /u/ e /w/ partecipano a formare un numero non alto di coppie minime,
si dice quindi che hanno un basso rendimento funzionale;

 L'opposizione tra vocali medio-alte e medio-basse (/e~Ɛ/ e /o~ɔ/) che però in molte pronunce
regionali non rappresenta un'opposizione. (/peska/ = azione di pescare /pƐska/ = frutto);

 La consonante nasale ha nello standard realizzazione velare solo davanti a consonante velare ma
nell'italiano del settentrione tende ad essere realizzata velare ogni nasale che si trovi in fine di
sillaba: pronuncia standard [kon] [kampo] pronuncia settentrionale [koŋ] [kaŋpo];

Infine, un fenomeno da considerare è il cosiddetto raddoppiamento (fono)sintattico che consiste


nell'allungamento della consonante iniziale di una parola, quando questa è preceduta da una delle parole di
una serie che appunto provoca questo fenomeno (tutte le parole con accento sull'ultima sillaba) ([ar'roma]. Il
fenomeno è arrivato ad essere perfino rappresentato nell'ortografia.

Sillabe
Le minime combinazioni di fonemi che funzionano come unità pronunciabili e che possono essere utilizzate
come "mattoni preconfezionati" per costruire la forma fonica delle parole sono le sillabe. In italiano, così
come nella maggior parte delle lingue, una sillaba è sempre costruita attorno a una vocale che contribuisce al
picco sonoro detto nucleo della sillaba. La struttura fonica delle parole è comunque data da un'alternanza
continua tra foni chiusi con minore sonorità (consonanti) e foni aperti con maggiore sonorità (vocali).
Ogni sillaba è formata da almeno (e non più) una vocale e da un certo numero di consonanti (o semivocali)
che possono essere anche zero. (a-)
Esistono ovviamente delle restrizioni fonetiche che agiscono sulla combinabilità dei fonemi. In ogni
lingua ci sono delle strutture sillabiche canoniche o preferenziali. In italiano la struttura sillabica canonica
è CV come in "mano".
Con terminologia tecnica in una sillaba la parte che eventualmente precede la vocale è detta attacco, la
vocale stessa è il nucleo e la parte che eventualmente segue la vocale è detta coda. Secondo recenti teorie
fonologiche nucleo e coda assieme costituiscono la cosiddetta rima. Le sillabe con code son chiamate chiuse
mentre quelle senza coda vengono chiamate aperte. Una combinazione interessante di fonemi (che può
costituire sia una sillaba a sé stante, sia far parte di una sillaba più ampia) è il dittongo. Il dittongo è la
combinazione di una semivocale e una vocale. Se la sequenza è V+semiV avremo un dittongo
discendente; al contrario quando abbiamo una sequenza semiV+V avremo un dittongo crescente. ([aw]+
[to]; [pjƐ:]+[no])
Si possono avere anche combinazioni di due semivocali e una vocale e avremo dunque un trittongo ([a]+
[jwo]+[la]; [mjej]).

Fatti prosodici (o soprasegmentali)


Vi è una serie di fenomeni fonici e fonologici rilevanti che riguardano non i singoli segmenti, bensì̀ i rapporti
tra i foni che si susseguono. All'insieme di tali fenomeni si dà il nome di fatti soprasegmentali o prosodici.
I principali sono: l'accento, il tono, l'intonazione e la lunghezza o durata relativa.

L'accento
L'accento è la particolare intensità di pronuncia di una sillaba che fa sì che tendenzialmente in ogni parola
una sillaba (detta fonica) presenti una prominenza fonica rispetto alle altre (dette atone). In italiano
l'accento è fondamentalmente dinamico o intensivo, dipendente dalla forza con cui sono pronunciate le
sillabe: la sillaba tonica è tale grazie soprattutto a un aumento del volume della voce. L'accento come fatto
prosodico non va confuso con quello grafico impiegato nella grafia per segnalare la posizione dell'accento
fonico nelle parole ossitone, o distinguere monosillabi omofoni (da/dà). La posizione dell'accento (cioè la
posizione della sillaba tonica) può essere libera o fissa. In certe lingue è tendenzialmente fissa, in altre
invece è libera. In questo caso la posizione dell'accento può distinguere due o più parole segmentalmente del
tutto uguali fra loro. Si parla dunque, un po' impropriamente, di valore fonematico dell'accento intendendo
appunto che l'accento ha valore distintivo oppositivo.
In italiano l'accento è tipicamente libero e può trovarsi: sull'ultima sillaba di una parola (qualità) rendendola
tronca, sulla penultima sillaba (piacere) rendendola piana, sulla terzultima (camera) rendendola
sdrucciola e più raramente sulla quartultima (càpitano) rendendola bisdrucciola o addirittura sulla
quintultima solo in parole composte con pronomi clitici (fabbricamelo) rendendola trisdrucciola.
Si chiamano clitici quegli elementi che non possono rappresentare la sillaba tonica e recare quindi accento
proprio e devono perciò appoggiarsi ad un'altra parola.

Tono e intonazione
I fenomeni di tonalità e intonazione riguardano l'altezza musicale (pitch) con cui le sillabe sono
pronunciate e la curva melodica a cui la loro successione dà luogo.
Il tono è precisamente l'altezza relativa di pronuncia di una sillaba dipendente fondamentalmente dalla
velocità e frequenza delle vibrazioni delle corde vocali. In molte lingue dette lingue tonali il tono può avere
valore distintivo e può cioè distinguere parole diverse ma foneticamente del tutto uguali. Si parla in questo
caso anche di tonemi. Si parla di lingue tonali per lo svedese, il cinese, il thailandese e molte lingue africane.
L'intonazione è invece l'andamento melodico con cui è pronunciata una frase o un intero gruppo
tonale/ritmico (catena di parole pronunciare con la stessa emissione di voce). L'intonazione è in sostanza una
sequenza di toni che conferisce all'emissione fonica nel suo complesso una certa curva melodica. In gran
parte delle lingue l'intonazione di frase distingue il valore pragmatico permettendo di capire dunque se si
tratta di un'affermazione, di un'esclamazione o di una domanda. Il valore interrogativo di un enunciato sarà
quindi associato a un'intonazione ascendente, sarà costante nel caso di una dichiarativa e discendente nel
caso di un'esclamativa.

Lunghezza
La lunghezza riguarda l'estensione temporale relativa con cui i foni e le sillabe sono prodotti. Ogni fono può
essere relativamente breve o lungo. La quantità̀ delle vocali o delle consonanti può avere valore distintivo.
In italiano la durata delle consonanti non ha valore distintivo a meno che non si supponga che le consonanti
(che possono essere sia semplici che doppie) realizzino un'opposizione di durata. Per le vocali la durata in
italiano non è pertinente. Una parola pronunciata con una vocale lunga individua un'accentuazione enfatica
della stessa parola e non un'altra parola. In molte lingue la durata vocalica funziona invece da tratto
pertinente mentre normalmente non ha rilevanza la lunghezza consonantica. In Latino classico per esempio
"malum" con la "a" breve è "male/malanno" mentre con la "a" lunga è "mela".

FARE ESERCIZI 2, 5, 8, 10, 13, 19, 23, 25, 27, 30, 34, 38, 40, 45, 46

3 – MORFOLOGIA

Parole e morfemi
Il termine morfologia deriva dal Greco "morphé" = "forma" + "logía" = "studio", ed è appunto lo studio
della forma delle parole, della loro struttura.
Definiamo parola la minima combinazione di elementi minori dotati di significato, ovvero i morfemi; è
costituita spesso attorno ad una base lessicale (morfema recante significato referenziale) che funziona come
entità autonoma della lingua e può quindi rappresentare isolatamente un segno linguistico compiuto. Fra i
criteri che ne permettono una definizione più precisa possiamo menzionare:
 i morfemi che costituiscono una parola hanno un ordine rigido: non possono essere invertiti o
cambiati di posizione (gatt-o e non o-gatt);
 I confini di parola sono punti di pausa potenziale nel discorso;
 La parola è separabile nella scrittura (nel passato potevamo trovare sequenze di parole tutte
attaccate);
 Foneticamente la pronuncia di una parola non è interrotta ed è caratterizzata da un unico
accento primario.

Se proviamo a scomporre parole in pezzi più piccoli di prima articolazione troviamo dunque i morfemi.
Morfema dunque è l'unità minima di prima articolazione, il più piccolo pezzo di significante di una lingua
portatore di un significato proprio, di un valore e una funzione precisi ed individuabili. Possiamo anche dire
che il morfema è la minima associazione di un significante ed un significato.
La parola "dentale" per esempio è scomponibile in 3 morfemi: "dent-" (base lessicale), "-al" (morfema che
serve a ricavare aggettivi partendo da nomi) ed "-e" (morfema che in italiano esprime il numero ed
eventualmente il genere).
Un termine sinonimo di morfema utilizzato spesso nella linguistica europea è monema. Gli autori che usano
questo termine distinguono solitamente due grandi classi di monemi: semantemi (quando sono elementi
lessicali) e morfemi (quando sono elementi grammaticali).
Un altro sinonimo è formativo, anche se non è del tutto equivalente dato che qui interviene anche il
significato. Infatti, in morfologia abbiamo la distinzione tra morfema, morfo e allomorfo.
Il morfema è l'unità pertinente a livello di sistema, il morfo è un morfema inteso come forma dal punto di
vista del significante, indipendente dalla sua analisi funzionale e strutturale. L'allomorfo è invece la variante
formale di un morfema, ovvero è ciascuna delle forme diverse in cui si può presentare un dato morfema. Il
verbo "venire" appare per esempio in 5 forme: "ven-" (venire, veniamo), "venn-" (venni, vennero), "veng-"
(vengo, vengono), "vien-" (vieni, viene), "ver-" (verrò, verrà). Ciascuna di esse è un allofono dello stesso
morfema "ven-".
Perché si possa parlare di allofonia occorre comunque ci sia sempre una certa affinità fonetica tra i diversi
morfi che realizzano lo stesso morfema (vicinanza fonica). Tale vicinanza fonica è normalmente dovuta alla
stessa origine, da un punto di vista diacronico o sincronico, a modificazioni fonetiche derivanti dall'incontro
di determinati foni: "in" in "inutile" e "il" in "illecito" sono allomorfi dello stesso morfema: il prefisso con
valore di negazione "in-". Davanti a consonanti laterali, vibranti e nasali però la /n/ assimila tratti della
consonante seguente alla quale si attacca.
Ci sono anche casi in cui un morfema lessicale in certe parole derivate viene sostituito da un morfema dalla
forma totalmente diversa: il morfema lessicale per “acqua”, per esempio, si manifesta in due forme
completamente diverse, ovvero "acqu-" e "idro-", l'una proveniente dal latino l'altra dal greco. A tale
fenomeno si dà il nome di suppletivismo.

Tipi di morfemi
Esistono due criteri principali per individuare differenti tipi di morfemi: il primo riguarda una classificazione
funzionale che classifica i morfemi in base alla funzione svolta; il secondo riguarda una classificazione
posizionale che è basata sulla posizione che i morfemi assumono all'interno della parola.
Nella classificazione funzionale la prima distinzione da fare è tra morfemi lessicali e morfemi grammaticali.
I morfemi grammaticali si suddividono a loro volta in derivazionali e flessionali. I morfemi lessicali
stanno nel lessico di una lingua e costituiscono una classe aperta, continuamente arricchibile, mentre i
morfemi grammaticali stanno nella grammatica e costituiscono una classe chiusa.
I morfemi flessivi (grammaticali) passano con estrema difficoltà da una lingua A a una lingua B
perché: da una parte, il parlante la lingua B, che ignori la lingua A, non sarà in grado di riconoscere (e quindi
segmentare ed eventualmente prenderli in prestito) i morfemi flessivi della lingua A. Dall’altra, se un
morfema si giustifica come morfema dotato d’un certo significato in quanto si oppone a tutti gli altri
morfemi della lingua a cui appartiene, ne consegue che prendere un dato morfema proprio della lingua A e
trasportarlo così com’è nella lingua B equivale a prendere un dato ingranaggio dal motore di un’auto per
utilizzarlo nel motore di un aereo, o viceversa. Se due o più lingue hanno un certo numero di morfemi
flessivi in comune, vuol dire in preferenza che i morfemi flessivi condivisi costituiscono l’eredità di un
antenato linguistico comune.
Non sempre la distinzione tra morfemi grammaticali e lessicali è del tutto chiara: in italiano è il caso di molte
parole funzionali (come articoli, pronomi, preposizioni e congiunzioni) che formano classi grammaticali
chiuse ma che difficilmente si possono definire morfemi grammaticali a pieno titolo. Alcuni degli elementi
di queste classi di parole sono anzi scomponibili in morfemi (l'articolo "lo" --> "l-o" per commutazione con
la, le...).
Una distinzione che può essere utile in questo contesto è quella tra morfemi liberi (lessicali) e morfemi
legati (grammaticali): i due non possono mai comparire in isolamento ma solo legati ad altri morfemi. Tale
distinzione peraltro mal si adatta alla struttura morfologica dell'italiano in cui anche i morfemi lessicali sono
morfemi legati (gatt-o, uman-o). Sulla base di ciò possiamo designare le parole funzionali come morfemi
semiliberi.
La derivazione che dà luogo a parole regolandone i processi di formazione, e la flessione che dà luogo alle
forme di una parola, costituiscono i due grandi ambiti della morfologia. Mentre la derivazione non è
obbligatoria (non tutti i morfemi lessicali suscettibili a combinazione con un morfema derivazionale si
combinano infatti con esso), la flessione è obbligatoria. In lingue come l'italiano infatti la radice lessicale
nuda (gatt-) non esiste.

Tipi posizionali di morfemi


Dal punto di vista della posizione i morfemi grammaticali si suddividono in classi diverse a seconda della
posizione che occupano rispetto al morfema lessicale, il quale rappresenta la testa della parola. Una parola è
detta piena solo se contiene un morfema lessicale. Le parole funzionali, spesso costituite da un solo
morfema, sono invece parole vuote. Quando sono considerati dal punto di vista posizionale i morfemi
grammaticali possono essere chiamati affissi. Un affisso è ogni morfema che si combini con una radice, è
sempre un morfema legato. Esistono diversi tipi di affissi: quelli che nella struttura della parola stanno prima
della radice si chiamano prefissi, quelli che la seguono suffissi. I suffissi con valore lessicale, che in lingue
come l'italiano stanno sempre in ultima posizione, si chiamano desinenze. I prefissi in italiano sono solo
derivazionali.
Vi sono poi altri tipi di affissi: gli infissi, che sono inseriti all'interno della radice (in italiano non esistono
veri e propri processi di infissazione, anche se alcuni autori trattano come tali casi come quello di "-ic-in-" in
"cuoricino"), i circonfissi, che sono formati da due parti: una che si situa davanti alla radice e un'altra che la
segue, e quindi contengono al loro interno la radice (esempio in tedesco al participio passato: "sagen" >
"gesagt"). In alcune lingue esistono poi degli affissi che si incastrano alternativamente dentro la radice: si
tratta dei transfissi (o confissi) su cui è basata per esempio la morfologia dell'arabo.

La parentela linguistica "verticale"

È quella che lega diacronicamente una o più lingue a una lingua-madre comune. Come per risalire alla
parentela tra lingue "sorelle" (in senso "orizzontale", quando le lingue coinvolte sono filiazioni a partire da
un antenato linguistico comune) si constata se vi è lessico condiviso, morfologia condivisa e corrispondenze
fonetiche-fonologiche, così per il verso "verticale" (cioè la lingua madre, il latino per il caso di italiano e
francese). Tra italiano e latino le corrispondenze lessicali sono abbondanti ed evidenti, così come la
sistematicità delle corrispondenze: PLUMA > piuma, PLUS > più, VULPE > volpe, TURRE > torre,
CRUCE > croce. Ma non sempre la sistematicità delle corrispondenze rende risultati quali noi ci aspettiamo:
la parola 'pluvia', significato 'pioggia'. A dispetto delle apparenze insomma 'pioggia' non è in rapporto di
filiazione con PLUVIA, dal quale ci saremmo aspettati un *piòbbia. 'Pioggia' presuppone un non attestato
latino *PLOJIA, forma che sarà stata popolare mentre PLUBIA è la forma del registro elevato. Prendiamo
ora un confronto tra alcune parole che rappresentano, nel loro tentativo di spiegare il loro mutamento
diacronico dal latino all'italiano, uno dei più spinosi problemi di fonologia diacronica dell'italiano. PATRE >
padre, MATRE > madre, PETRA > pietra, VITA > vita, CATENA > catena. Problema: a latino -tr l'italiano
risponde con [d(r)] o con [t(r)]. E ancora: CAPRA > capra, CAPUT > capo, PR latino dà in ita [p(r)] o [v(r)].
Inoltre: FOCU > fuoco, LOCU > luogo, ACRU > agro, -C- seguito da -r o da voc nom palatale dà in ita
[k(r)] o [g(r)].

Possiamo aiutarci con la morfologia flessiva: alcune desinenze verbali dell'italiano sono caratterizzate dalla
presenza di un [-t-] intervocalica, che continua l’articolazione del latino: es. participio passato -ATU > -ato,
ITU > -ito, UTU > -uto, oppure pres indicativo - ATIS > -ate, ETIS > -ete, ITIS > -ite.
Da ciò deduciamo che, se all'interno dei morfemi a lat. -t- corrisponde invariabilmente italiano -t-, la
prosecuzione italiana delle occlusive sorde intervocaliche del latino è l'esito sordo; quello sonoro andrà
spiegato in altro modo.

Altri tipi di morfemi


Esistono anche morfemi i cui morfi non sono isolabili segmentalmente. Di questo genere sono detti i
morfemi sostitutivi, poiché si manifestano con la sostituzione di un fono ad un altro. Tali morfemi, detti
anche modulari, consistono in mutamenti fonici della radice e quindi sono praticamente inseparabili da essa.
(esempio il plurale "feet/foot").
Vi sono morfemi discontinui, costituiti da una parte "sostitutiva" nella radice e da una parte "suffissale" (per
esempio in tedesco "buch"--> "bücher").
Si parla in certi casi anche di morfema zero (o più correttamente morfo zero) laddove una distinzione
obbligatoriamente marcata nella grammatica di una lingua non è rappresentata in alcun modo nel significante
(esempio è quello dei plurali invariabili in lingue come l'inglese dove "sheep = pecora/pecore"). L'Italiano
"città" è un po' diverso poiché in italiano il plurale non è aggiuntivo, ma è dato dall'alternanza delle
desinenze.
Esistono anche morfemi soprasegmentali chiamati superfissi o sopraffissi in cui un determinato valore
morfologico si manifesta attraverso un tratto soprasegmentale, come la posizione dell'accento o il fono (in
Inglese ['rƐkɔ:d] = registrazione, [rɪ'kɔ:d] = registrare).
Certi valori morfologici in certe lingue vengono affidati a processi come la reduplicazione, che consiste
nella ripetizione della radice lessicale per creare il plurale. Spesso morfemi grammaticali recano
contemporaneamente più di un significato o valore. La desinenza "-e" in "belle" per esempio indica insieme
il femminile ed il plurale. In questo caso si parla di morfemi cumulativi. Un caso particolare di morfema
cumulativo è il cosiddetto amalgama, dato dalla fusione di due morfemi in maniera tale che nel morfema
risultante non è più possibile distinguere i due morfemi all'origine della fusione (esempio la preposizione
francese "au" che viene da "à + le"; in italiano può essere "i" articolo determinativo plurale nel quale si
trovano fusi il morfo dell'articolo determinativo "l-" e quello del plurale "-i").

Derivazione e formazione delle parole


I morfemi derivazionali svolgono una funzione importante: mutano il significato della base alla quale si
applicano aggiungendo nuove informazioni rilevanti, integrandola, modificandone la classe di appartenenza
e la sua funzione semantica, o ancora sfumandone il senso. Nella parola "dormitorio" derivata da "dormire",
per esempio, viene aggiunto al significato della radice lessicale "dormire" il significato "luogo in cui si fa (la
cosa designata dalla radice lessicale)".
I morfemi derivazionali permettono, attraverso processi di prefissazione e suffissazione, la formazione di un
numero teoricamente infinito di parole a partire da una certa base lessicale. In ogni lingua esiste una lista
finita di moduli di derivazione che danno luogo a famiglie di parole. Una famiglia di parole è formata da
tutte le parole derivate da una stessa radice lessicale.
Nella grande maggioranza delle forme verbali e derivabili (cioè parole derivate da verbi) si pone in italiano il
problema della cosiddetta vocale tematica: la vocale iniziale della desinenza dell'infinito dei verbi. Poiché si
può ritenere che la vocale tematica abbia un suo significato (in quanto indica l'appartenenza della forma ad
una determinata classe di forme della lingua) potremmo scomporre ulteriormente il suffisso "-abil-" della
parola "socializzabilità" che contiene la vocale tematica del verbo da cui deriva (socializzare) in "-a-" e "-
bil-". Possiamo dunque considerare contemporaneamente "-abil-" come: un allomorfo del suffisso "-bil-" che
crea aggettivi derivabili, o come formato da due morfemi. Vi è anche una terza possibilità, ovvero quella di
considerare la vocale tematica come facente parte della radice lessicale. Tale è la preferita delle teorie
morfologiche recenti.
Meritano attenzione parole come "sociologia" o "nazionalsocialismo". Qual è la natura dei morfemi che
costituiscono la parola "sociologia"? A prima vista sembra che sia formata da 2 morfemi lessicali: "soci-" e
"-logia". Ma in questo caso qual è la base? Occorre notare che "sociologia" non vuol dire "studio dei soci"
ma della società: "socio-" e non "soci-" è in realtà il morfema in gioco, che sta per società e rappresenta
quindi la radice lessicale che si comporta come prefisso attaccandosi davanti ad un'altra radice lessicale per
modificarne il significato. Possiamo chiamare i morfemi di questa natura (che sono contemporaneamente
lessicali e derivazionali, radice e prefisso) prefissoidi. Esistono anche suffissoidi, cioè morfemi con
significato lessicale, come le radici, ma che si comportano come suffissi nella formazione delle parole ("-
logia" può essere considerato un suffissoide). Prefissoidi e suffissoidi vengono anche chiamati semiparole.
I formativi provenienti dalle lingue classiche ("bio-", "eco-", "pseudo-", "mono-", "semi-") danno luogo a
parole che vengono per questo chiamate composti neoclassici.
In "nazionalsocialismo" abbiamo invece un caso che sembra simile a quello di "sociologia" in cui però le due
radici lessicali contengono entrambe il valore che avrebbero se utilizzate come parole autonome. Si tratta in
questo caso di parole composte (portacenere, asciugamano). Il procedimento di composizione in italiano
segue principalmente l'odine modificando – modificatore, cioè la seconda parola modifica la prima
(portacenere), ma non mancano parole composte con l'ordine inverso (bagnoschiuma).
Le unità lessicali plurilessematiche (o plurilessicali), che non vanno confuse con le parole composte in
senso stretto, sono costituite da sintagmi fissi che rappresentano un'unica entità il cui significato non
corrisponde alla semplice somma dei significati delle parole (come "gatto selvatico" che è una specie felina a
sé). Spesso queste formazioni hanno un valore idiomatico ("essere al verde", "partire in quarta").
Le unità lessicali plurilessematiche costituiscono una categoria molto ampia e variegata che può
comprendere classi diverse di elementi (fra cui anche i cosiddetti verbi sintagmatici come "andare via" o
"buttare giù"; o addirittura quelli che vengono chiamati binomi coordinati come "sale e pepe", "anima e
corpo" o "usa e getta").
Una posizione intermedia tra le parole composte e le unità plurilessematiche è rappresentata dalle unità
lessicali bimembri (come "scuola guida" o "parola chiave") in cui il rapporto tra le due parole costitutive
giustapposte non ha raggiunto il grado di funzione tipico delle vere parole composte e i due elementi
vengono rappresentati separatamente nello scritto.

Altri meccanismi simili alla composizione sono: la lessicalizzazione delle sigle e l'unione di parole diverse
che si fondono con accorciamento degli elementi costitutivi. Quando la sequenza delle iniziali che
formano le sigle è compatibile con la struttura fonologica delle parole in italiano diventa essa stessa una
parola autonoma (NATO, IVA). L'unione con accorciamento dà luogo invece alle cosiddette parole
macedonia (cantautore, ristobar, mapo, smog).

In italiano il più importante e produttivo dei procedimenti di formazione di parole è la suffissazione (fra i
suffissi derivazionali più comuni ricordiamo "-zion-" = spedizione, "-ment-" = spegnimento, "- ier-" =
barbiere, "-tor-" = giocatore, "-abil-", "-os-", "-al-", "-ist-"). In italiano è inoltre molto produttiva la
prefissazione che al contrario di quello che generalmente accade con la suffissazione non muta la classe
grammaticale di appartenenza delle parole (noi-os-o; in-utile) (fra i prefissi più comuni abbiamo "in-", "ad-",
"ri-", "anti-").
Nella grande categoria della derivazione suffissale può essere fatto rientrare un altro procedimento molto
produttivo, l'alterazione. Con i suffissi alterativi si possono creare parole che aggiungono al significato
base un valore valutativo che può essere diminutivo, accrescitivo, peggiorativo.

Nell'inventario dei morfemi derivazionali dell'Italiano non sono rari i casi di omonimia. Per esempio "-in-"
come prefisso può avere tanto valore di negazione quanto di avvicinamento, ingresso o direzione (immigrare
= trasferirsi in un paese). Come suffisso può avere valore diminutivo (gattino) o di nome d'agente (postino o
imbianchino) - (imbianchino è un nome deverbale poiché viene dal verbo imbiancare). Verbi formati da
basi aggettivali con prefissazione e suffissazione (consistenti nelle desinenze di coniugazione) sono chiamati
parasintetici (abbellire, inaridire).

Le parole derivate si possono definire tenendo conto di:


 Processo di derivazione;
 Classe lessicale della base da cui derivano;
 Classe lessicale a cui appartiene il risultato;

Nei meccanismi della formazione di parole risulta anche il fenomeno della conversione (o
derivazione/suffissazione zero). Vale a dire essere in presenza di coppie di parole, un verbo e un nome o un
aggettivo aventi la stessa radice lessicale ed entrambi privi di suffisso fra i quali in termini di derivazione
non è possibile stabilire quale sia la parola primitiva e quale quella derivata: lavoro, lavorare, stanco,
stancare.
Tuttavia, quando la coppia è costituita da un verbo e da un nome è da assumere che la base sia il verbo (in
quanto il nome designa l'atto indicato dal verbo). Da qui la definizione di derivazione zero.
Quando invece la coppia è costituita da un verbo e da un aggettivo si può intendere che il termine primitivo
sia l'aggettivo in quanto il verbo indica l'azione di assumere lo stato denotato dall'aggettivo (calmo >
calmare).

Le parole composte in italiano


In italiano la larga maggioranza delle parole composte appartiene alla classe di parola dei nomi. La
composizione di due parole di qualsiasi classe che possa partecipare alla composizione dà un nome, es. pesce
spada, camera oscura, scolapasta, bassorilievo, sottopassaggio…
Si ha invece un aggettivo quando entrambe le parole della composizione sono aggettivi, es. agrodolce,
sordomuto…
È centrale la nozione di testa di un composto. Il costituente che funziona da testa assegna al composto la
propria classe di parola (es. “camera” in “camera oscura”). Per identificare la testa di un composto si può
applicare il test “è un”, che deve valere sia per la classe di parola sia per le proprietà di significato (es.
bassorilievo, rilievo è testa, basso per le sue forme poco rialzate, oppure pesce spada).
Sono anche possibili composti senza testa, es. buttafuori e scolapasta. Per nessuno dei nomi di questi
composti è possibile riconoscere una testa categoriale (entrambi nomi formati da costituenti non nominali) né
semantica (buttafuori è un addetto ai servizi di controllo, e in scolapasta non funziona fare il test perché non
è una pasta).
I composti che presentano una testa sono chiamati endocentrici, quelli senza esocentrici.
Composti come “tragicomico” e “biancazzurro” sono detti composti stretti per cancellazione di sillaba
identica (“co”) o di vocale (“o”). Si definiscono larghi quando ciascuno dei due componenti mantiene la
propria individualità fonologica.
Se consideriamo il rapporto interno tra i costituenti, i composti possono classificarsi in subordinativi e
coordinativi. Subordinativi se i costituenti sono legati tra loro da relazione di tipo modificato/modificatore
(es. pesce spada, spada modifica e determina la testa del pesce); coordinativi se la relazione è copulativa,
come in sordomuto (sordo e muto).

LISTA PREFISSI DELL’ITALIANO


 A: negativo, privazione (amorale)
 AD: ingressivo, acquisizione di uno stato (accoppiare)
 ANTI: locativo, movimento in senso contrario (antiorario); negativo, opposizione (antifascismo);
locativo, prima/davanti (anteporre); temporale, prima (antipasto)
 CON: unione, uguaglianza, partecipazione (cofondatore, compatire)
 DIS: negativo (disumano), separazione (disgiungere)
 IN: ingressivo (innervosire), negativo (incapace)
 PRE: temporale, prima (prevedere), locativo, davanti/prima (precedere), intensivo (preoccupare)
 RE/RI: locativo, movimento in senso contrario (respingere), iterativo, ripetizione (rifare)
 S: ingressivo (scaldare), negativo (scomodo)

LISTA SUFFISSI DELL’ITALIANO


 AGGI: nominale deverbale (V  N) (pattinaggio), nominale denominale (N  N) (tendaggio),
aggettivale denominale (N  Agg) (selvaggio)
 A(R)I: nominale denominale (N  N) (orologiaio)
 AL / AR: aggettivale denominale (N  Agg) (grammaticale, solare)
 (I)AN: aggettivale denominale (N  Agg) (africano)
 ANZ / ENZ: nominale deverbale (V  N) (obbedienza), nominale deaggettivale (Agg  N)
(lontananza)
 AT: nominale denominale (N  N) (commissariato), aggettivale denominale (N  Agg) (fortunato)
 (A/I/U)BIL: aggettivale deverbale (V  Agg) (percorribile), aggettivale denominale (N  Agg)
(tascabile)
 EGGI: verbale denominale (N  V) (danneggiare)
 ERÌ: nominale denominale (N  N) (salumeria)
 ES: aggettivale denominale (N  Agg) (pugliese)
 EVOL: aggettivale deverbale (V  Agg) (ingannevole), aggettivale denominale (N  Agg)
(confortevole)
 EZZ: nominale deaggettivale (Agg  N) (tristezza)
 IC: aggettivale denominale (N  Agg) (nordico)
 IER: nominale denominale (N  N) (doganiere)
 IFIC: verbale denominale (N  V) (cornificare)
 IN: nominale denominale (N  N) (postino)
 ISM: nominale deaggettivale (Agg  N), nominale denominale (N  N), nominale deverbale (V 
N) (giornalismo, futurismo)
 IST: nominale denominale (N  N), aggettivale denominale (N  Agg) (giornalista)
 ITÀ: nominale deaggettivale (Agg  N) (sanità)
 IZZ: verbale denominale (N  V) (categorizzare), verbale deaggettivale (Agg  V) (normalizzare)
 MENTE: avverbiale deaggettivale (Agg  Avv) (chiaramente)
 ON: nominale denominale (N  N) (mammone), nominale deverbale (V  N) (mangione)
 OS: aggettivale denominale (N  Agg) (muscoloso)

Flessione e categorie grammaticali


I morfemi flessionali non modificano il significato della radice lessicale su cui operano: ne specificano la
concretizzazione in quel particolare contesto. Essi intervengono solo nelle parole che possono assumere
diverse forme, operano cioè sulle classi variabili di parole, suscettibili ad accogliere la flessione. I morfemi
flessionali realizzano valori di una determinata categoria grammaticale e rappresentano la marca di quel
valore. Fra le categorie grammaticali vi sono anzitutto quelle propriamente flessionali che riguardano il
livello dei morfemi stessi. In generale si distinguono due grandi classi di categorie flessionali: quelle che
operano sui nomi e quelle che operano sui verbi. In lingue come l'italiano la morfologia nominale ha come
categorie fondamentali il genere e il numero.
In italiano la categoria del genere si esprime coi due morfemi del maschile e del femminile che sono i due
valori che può assumere tale categoria (in altre lingue, come latino e tedesco, abbiamo anche un terzo genere
che è il neutro). I morfemi che segnalano il genere sono detti classificatori nominali.

La categoria del numero è marcata, in italiano, con i due morfemi del singolare e del plurale (altre lingue
possono avere anche più valori come duale, triale...).
Un'altra categoria flessionale rilevante è il caso, che svolge l'importante funzione di mettere in rilevanza la
forma delle parole con la funzione sintattica che esse ricoprono sulla frase. Il processo attraverso il quale un
verbo assegna il caso al suo complemento è detto reggenza. La nozione di quest'ultima si estende anche al
rapporto tra verbi e preposizioni quando appunto ci sono verbi che richiedono determinate preposizioni.
In molte lingue gli aggettivi possono essere marcati per grado (comparativo, superlativo). L’italiano affida
alla flessione solo l'espressione del superlativo (se accettiamo che "bellissimo" sia una delle forme della
parola "bello" e non una sorta di parola derivata/diversa).
Altre lingue marcano poi con morfemi la definitezza o il possesso che vanno anch'esse considerate categorie
grammaticali.

La morfologia verbale ha cinque categorie flessionali principali: modo, tempo, aspetto, diatesi e persona.
Il modo (indicativo, condizionale..) esprime la modalità con la quale il parlante si pone nei confronti del
contenuto; il tempo (presente, futuro…) colloca nel tempo relativo o assoluto quanto viene detto; l'aspetto
riguarda il modo in cui vengono osservati e presentati i fatti in relazione al loro svolgimento; la diatesi (sogg
attivo o passivo) esprime il rapporto in cui viene rappresentata l'azione rispetto ai partecipanti e al soggetto
soprattutto; la persona indica chi compie l'azione e si manifesta con morfemi deittici o di accordo.
Categorie grammaticali a livello di parola sono invece le parti del discorso o categorie lessicali. Nella
grammatica tradizionale le parti del discorso sono nove: sostantivo, aggettivo, verbo, pronome, articolo,
preposizione, congiunzione, avverbio e interiezione (uffa, accidenti). Distinguiamo ancora: la distinzione
tra sintagmatico e paradigmatico è rilevante anche per distinguere due diversi modi di funzionamento della
morfologia lessicale: la flessione inerente e quella contestuale.
La flessione inerente riguarda la marcatura a cui viene assoggettata una parola in isolamento. In italiano per
esempio un nome viene attualizzato come singolare o plurale e la forma sotto la quale compare deve
presentare uno dei rispettivi morfemi flessionali previsti dalla lingua (gatt-o/-i).
La flessione contestuale è invece quella che dipende dal contesto: specifica una forma in relazione al
contesto in cui la parola viene usata, marca i rapporti di natura sintattica (unA bellA tortA).
Più in generale un meccanismo che opera in molte lingue è quello della marcatura di accordo che prevede
che tutti o alcuni degli elementi suscettibili a flessione all'interno di un certo costrutto prendano marche
(morfemi congruenti) delle categorie flessionali per le quali è marcato l'elemento a cui si riferiscono (in
italiano è obbligatorio l'accordo tra verbo e soggetto). Nella morfologia contestuale può anche convenire
distinguere tra accordo e concordanza, riservando il primo termine ai fenomeni d'accordo fra gli elementi
del sintagma nominale e il secondo all'accordo delle forme verbali con quelle nominali, in particolare con il
soggetto.

FARE ESERCIZI 3, 7, 9, 11, 17, 19, 23, 24, 33, 36, 37, 41, 42, 44, 46

CORRISPONDENZE FONOLOGICHE TRA LE LINGUE EUROPEE

Per conoscere una lingua nulla può sostituire il contatto diretto coi parlanti o coi documenti linguistici
superstiti; perché di una lingua di cui non abbiamo documentazione, la ricostruzione di essa tramite lo studio
delle sole lingue-figlie non ci restituisce la lingua nella sua interezza e ci mostrerà solo quegli elementi che e
lingue-figlie hanno ereditato, tralasciando quelli che non hanno ereditato.
Latino – lingue romanze: se per qualche motivo non conoscessimo il latino e andassimo a cercare di
ricostruire il verbo latino per “parlare” analizzando come esso risulta nelle lingue-figlie (“parlare”, “parler”,
“hablar” e “falar”) si ipotizzerebbe una forma latina “*parlare” o “*faulare” e non si arriverebbe mai al vero
verbo latino “loqui” perché non si è trasmesso in nessuna delle lingue figlie.

Un esempio di corrispondenze nella ricostruzione sono i numerali:


 3: in latino “tria”, in greco “tria”, in sanscrito “tri”, in gotico “brija”
 6: in latino “sex”, in greco “heks”, in sanscrito “sas”, in gotico “sehs”
 8: in latino “octo”, in greco “okto”, in sanscrito “astau”, in gotico “ahtau”
 100: in latino “centum”, in greco “ekaton”, in sanscrito “satàm”, in gotico “hund”

Corrispondenze:
LATINO a/e/o, GRECO a/e/o, SANSCRITO a, GOTICO, e/o
LATINO k, GRECO k, SANSCRITO s, GOTICO x (=h)
LATINO t, GRECO t, SANSCRITO t, GOTICO b
LATINO p, GRECO p, SANSCRITO p, GOTICO f

*Il gotico è utilizzato in rappresentanza delle lingue germaniche perché fra queste è la lingua di attestazione
di gran lunga più antica (IV sec d.C.)

Se in sanscrito abbiamo sempre “a”, in latino e greco talvolta troviamo “a” talvolta “e, o”; la situazione
originaria è quella rappresentata dal latino e greco; il sanscrito ha subito un mutamento che ha portato
“a, e, o” > “a”. Se prendiamo in considerazione la “k” greca e latina, vediamo che in gotico essa è sostituita
con “x” (velare fricativa), mentre in sanscrito troviamo una sibilante che può essere palatale o retroflessa
(nella pronuncia la punta della lingua [corona] si rovescia contro il palato duro).

Cosa succede se abbiamo elementi diversi? Qual era quello dell’indoeuropeo?


LATINO septem, SANSCRITO saptà, GOTICO sibun, GRECO hepta
LATINO sex, SANSCRITO sas, GOTICO sehs, GRECO heks
Latino, sanscrito, gotico  S, greco  H

Come vediamo, laddove le altre tre lingue presentano “s”, in greco abbiamo “h”; questa corrispondenza si
ritrova in altre voci come “sale” (“hals” [grec], “sal” [lat] e “salt” [got]) o “mezzo” (“hemi” [grec], “semi”
[lat] e “sami” [sansc]). Ci viene da chiederci, allora, quale delle due sia la variante presente in indoeuropeo;
la domanda da farsi in queste situazioni è: nelle lingue che conosciamo è più probabile trovare “s” o “h”? La
risposta in questo caso è “s”, per cui è maggiormente probabile che nell’indoeuropeo si avesse “s”.

4 – SINTASSI

Analisi dei costituenti


La sintassi è la branca della linguistica che si occupa della struttura delle frasi: l'oggetto di studio della
sintassi è come si combinano fra loro le parole e come sono organizzare in frasi. La frase è il costrutto che fa
da unità di misura per la sintassi. Una frase è identificata dal contenere una predicazione, ovvero
un'affermazione riguardo a qualcosa. Poiché normalmente il valore di predicare qualcosa è affidato ai verbi,
in genere ogni verbo autonomo coincide con una frase. Vi possono essere però frasi senza verbo, dette frasi
nominali, (buona questa pasta) che funzionano da messaggi autosufficienti e contengono pur sempre una
predicazione. Con frase si designano anche costrutti dall'estensione più ampia che prendono il nome di
proposizioni. Il principio generale impiegato per l'analisi delle frasi è basato sulla scomposizione o
segmentazione in pezzi più piccoli che sono detti costituenti di frase. Tale analisi, introdotta dallo
strutturalismo americano degli anni '30/'40 del 900, prende il nome di analisi in costituenti immediati.

Esistono modi diversi per rappresentare schematicamente l'analisi di una frase nei suoi costituenti:
diagrammi o grafici ad albero, parentesi ecc... Il metodo più diffuso è quello degli alberi etichettati. Un
albero è un grafo costituito da nodi da cui si dipartono i rami; ogni nodo rappresenta un sottolivello di
analisi della sintassi e reca il simbolo della categoria a cui appartiene il costituente. Ecco l'indicatore
sintagmatico di "mio cugino ha comprato una macchina nuova":

La distribuzione, ossia l'insieme dei contesti in cui gli elementi possono comparire nelle frasi, è un criterio
importante per distinguere diverse classi di elementi rilevanti per la sintassi. I determinanti sono tutti gli
elementi che occorrono davanti ad un nome e determinano il referente da esso indicato. In "il cugino" o
"questo cugino" il primo elemento del sintagma nominale ha questo ruolo di identificazione.
Per rappresentare la struttura interna dei costrutti non molto complessi è in genere sufficiente la
parentesizzazione in cui ogni parentesi corrisponde ad un sottolivello di analisi. Per esempio "una macchina
nuova"  (((una)) ((macchina)(nuova))).
Questo può in molti casi disambiguare frasi che apparentemente sembrano identiche, ma che hanno una
duplice interpretazione semantica come "le ragazze e le signore col cappellino".

Sintagmi
Abbiamo visto come l'analisi in costituenti immediati individui tre diversi sottolivelli di analisi sintattica:
sottolivello delle frasi, dei sintagmi e delle parole. Il più importante di questi per il funzionamento della
sintassi è quello dei sintagmi.
Un sintagma è la minima combinazione di parole che funzioni come unità della struttura frasale. I sintagmi
sono costruiti attorno a una testa, che è la parola che da sola può costituire il sintagma. Se si elimina
l'elemento che fa da testa, e che quindi determina il tipo di sintagma, il gruppo di parole viene a perdere la
natura di tale sintagma.
Se per esempio nel SN (sintagma nominale) "la copertina blu" eliminiamo "la" o "blu" o tutti e due, abbiamo
pur sempre un SN. Ma se eliminiamo "copertina" otteniamo "la blu", che non può essere un sintagma. Un
sintagma nominale è un sintagma costituito attorno a un nome (o a un pronome). Il SN minimo è un N o un
PRO, mentre il SN massimo (o massimale) può avere una struttura più complessa.
I sotto costituenti dei vari tipi di sintagmi, cioè gli elementi che possono attaccarsi alle teste, possono dare
luogo a sintagmi anche complessi dotati di una struttura interna a vari sottolivelli.
Nel quadro della grammatica generativa il tema della struttura interna dei sintagmi è stato approfondito
sotto il nome di teoria X-barra, che individua i diversi ranghi di complessità di un sintagma (x', x''...). Ogni
lineetta o apice indica un sottolivello di crescente complessità interna del sintagma.

Alcuni criteri per il riconoscimento dei sintagmi

MOBILITÀ: un gruppo di parole rappresenta un sintagma se le parole che lo costituiscono si muovono


congiuntamente all’interno di una frase (es. “la scorsa settimana” possiamo spostarlo all’inizio o alla fine
della frase, sappiamo quindi che è un sintagma).

SCISSIONE: un gruppo di parole rappresenta un sintagma se può essere separato dal resto della
proposizione, costruendo una struttura chiamata frase scissa (es. “ho guardato dentro la scatola” – “è dentro
la scatola che ho guardato”). È anche il fenomeno di mutamento fonico per cui un elemento fonico si scinde
in due elementi distinti. Un esempio è la dittongazione italiana: [ε] e [ͻ] se sotto accento e in sillaba aperta,
diventano rispettivamente [jε] e [wͻ]: lat. leve > lieve. lat bonu > buono.

Frequente è la scissione come mezzo col quale la lingua ricevente adatta suoni, che le sono estranei, di
un'altra lingua. Es: la [y] francese, vocale alta, anteriore arrotondata assente in it., in questa lingua viene
scissa nelle sue due componenti (vocale alta anteriore (i) e vocale alta arrotondata (u) e vengono articolate
non simultaneamente ma in successione: men['ju] > men[y] in fr.

ENUNCIABILITÀ IN ISOLAMENTO: un gruppo di parole rappresenta un sintagma se da solo può


costituire un enunciato (es. “A: chi ha comprato una macchina nuova? B: mio cugino”).

COORDINABILITÀ: sintagmi diversi sono dello stesso tipo se possono essere coordinati (es. “ho visto un
uomo stanco e terribilmente disilluso”).

Funzioni sintattiche, strutturazione delle frasi e ordine dei costituenti


Le funzioni sintattiche riguardano il ruolo che i sintagmi assumono nella struttura sintattica della frase.
Soggetto, predicato verbale e oggetto sono le tre funzioni sintattiche principali, a queste si aggiungono
numerosi complementi definibili sulla base del loro valore semantico: specificazione, termine,
mezzo/strumento, modo, argomento, tempo, stato in luogo… In una lingua come l’italiano che non ha
morfologia di caso (categoria grammaticale che consiste nella modificazione di un nome a seconda della sua
funzione logica), i complementi sono in genere introdotti da una preposizione e sono quindi espressi da
sintagmi preposizionali (SP).
Le funzioni sintattiche vengono assegnate a partire da schemi valenziali, che costituiscono l'embrione
iniziale della strutturazione delle frasi. Quando dobbiamo esprimere qualcosa sotto forma di frase è
ragionevole pensare che si parta dalla selezione di un verbo. Questo verbo è associato a delle valenze
(numero di elementi necessari a completare il significato del verbo). Ogni verbo ha dunque uno schema
valenziale (o struttura argomentale). I verbi sono nella grande maggioranza dei casi monovalenti,
bivalenti o trivalenti. "Camminare" o "piangere" sono monovalenti, "lodare" o "interrogare" bivalenti e
"dare" o "spedire" trivalenti. Esistono anche dei verbi zerovalenti o avalenti come quelli metereologici o
atmosferici, e verbi tetravalenti (spostare qualcosa da un posto ad un altro).
In una frase si possono trovare anche costituenti che realizzano altri elementi circostanziali o
avverbiali/aggiunti che, non essendo direttamente implicati dal significato del verbo, non fanno parte delle
funzioni sintattiche fondamentali, ma svolgono comunque una funzione semantica importante perché
aggiungono informazioni, funzionano da modificatori a livello o della frase o del sintagma.

Parlare di ruoli semantici presuppone un approccio alla frase dalla prospettiva del significato. I principali
ruoli semantici sono: agente = ruolo dell'entità animata che provoca ciò che accade (Gianni mangia una
mela); paziente = entità coinvolta senza intervento attivo (Gianni mangia una mela); sperimentatore =
entità che prova un certo stato (a Luisa piacciono i gelati); beneficiario = entità che trae beneficio
dall'azione (Gianni regala un libro a Luisa); strumento = entità inanimata mediante la quale avviene l'azione
(Gianni taglia la mela col coltello); destinazione = entità verso la quale si dirige l'attività espressa dal
predicato (Luisa parte per le vacanze).
Anche per i predicati possono essere distinti diversi ruoli semantici come processo (trasformare,
invecchiare), azione (correre, picchiare), stato (esistere) ecc.
Non c'è corrispondenza biunivoca tra ruoli semantici e funzioni semantiche dato che sono nozioni che
operano su piani diversi. In una frase passiva (Paolo è picchiato da Gianni) rispetto alla corrispondente
attiva (Gianni picchia Paolo) l'agente che normalmente fa da soggetto diventa complemento d'agente,
mentre il paziente che normalmente è oggetto diventa soggetto. La possibilità di avere una trasformazione
passiva è un criterio importante per distinguere verbi transitivi (gli unici passivizzabili) e quelli intransitivi.
Tra i verbi intransitivi si distinguono, in base all'ausiliare che ammettono o richiedono, i verbi inaccusativi
che richiedono come ausiliare essere (arrivare, cadere) e i verbi inergativi che richiedono avere
(camminare, lavorare).

Struttura pragmatico-informativa
A seconda dell'evento che vogliamo predicare scegliamo un predicato che reca con sé uno schema valenziale
(A). A questo schema viene fornita un'interpretazione semantica attraverso l'assegnazione di ruoli semantici
ai diversi elementi che esso contiene (B). I ruoli semantici vengono poi tradotti in funzioni sintattiche (C).
Tutto questo viene infine espresso in una struttura (in costituenti retta dai principi della teoria x-barra) che è
il prodotto ultimo, cioè la frase come viene scritta/pronunciata, mentre le fasi A, B e C sono astratte e
avvengono ad un livello più profondo. Da qui abbiamo la distinzione tra struttura profonda e struttura
superficiale.
C'è un ulteriore piano del quale tenere conto: quello dell'organizzazione pragmatico-informativa. Dal
punto di vista del valore con cui le frasi possono essere usate, si distinguono solitamente quattro tipi di frase:
dichiarativa, interrogativa, esclamativa, imperativa.
Dal punto di vista della strutturazione dell'informazione distinguiamo tema e rema. Il tema è ciò su cui si
fa un’affermazione, il rema è la predicazione che viene fatta. Sinonimi di tema e rema sono topic e
comment (in "Luisa va a Milano" --> "Luisa" = tema/topic mentre "va a Milano" = rema/comment).
Un'opposizione che spesso viene considerata sinonimica a tema/rema è dato/nuovo. Dato è l'elemento della
frase da considerare noto o perché precedentemente introdotto nel discorso o perché facente parte delle
conoscenze condivise; nuovo è l'elemento portato come informazione non nota. Il dato spesso coincide con il
tema e il nuovo con il rema, ma non necessariamente: in "un gatto sta giocando nel tuo giardino"  "un
gatto" = tema ma anche nuovo, "il tuo giardino" = è il dato che però fa parte del rema.
La distinzione tra tema/rema e dato/nuovo riflette due aspetti diversi del processo che porta alla produzione
di una frase: da un lato si sceglie ciò di cui si vuol parlare (tema) e si afferma qualcosa a proposito di questo
(rema), dall'altro si tiene conto della differenza tra informazione già conosciuta (dato) e informazione che si
ritiene non nota (nuovo).
Normalmente nelle frasi si verifica l'ordine SVO (un gatto insegue il topo), le lingue però possiedono
dispositivi per separare le tre funzioni e mutare/invertire l'ordine dei costituenti. In italiano per esempio
svolgono tale compito le dislocazioni a sinistra che spostano davanti alla frase uno degli elementi che la
compongono. Con la dislocazione a sinistra si può quindi mandare nella posizione di tema l'oggetto e nella
posizione di rema il soggetto ([il topo] (Oggetto/tema)-[lo insegue(verbo) un gatto(soggetto)](rema)).
La dislocazione a sinistra dunque anticipa all'inizio della frase un costituente riprendendolo con un pronome
clitico sul verbo che ne rappresenta la funzione sintattica.
Due altri tipi di frase marcata per spostamento di costituenti sono: la dislocazione a destra che consiste
nell'isolare sulla destra un costituente, riprendendo anche qua con un clitico sul verbo (lo vuole un caffè?), e
la frase scissa, che consiste nello spezzare una frase in due parti portando all'inizio della frase, introdotto dal
verbo essere, un costituente, facendolo seguire da una frase pseudo relativa (è il gatto che insegue il topo).
Un'altra funzione rilevante in termini di struttura informativa della frase è quella di focus. Con focus si
intende il punto della frase che fornisce la massima quantità di informazione nuova. In genere il focus fa
parte del rema ed è contrassegnato da una particolare curva intonativa enfatica. In "Carla al mattino prende
il caffè", "il caffè" è il focus (elemento della frase che può essere contrastato, ed in questo caso può essere
contrastato da ", non la cioccolata").
Le lingue possiedono inoltre mezzi particolari per evidenziare il focus come la frase scissa o avverbi o
particelle deputati a introdurre il focus, e chiamati per ciò focalizzatori (anche, solo, addirittura).

Elementi minimi di grammatica generativa


Nella linguistica degli ultimi 40 anni ha acquistato più importanza un'impostazione teorica particolare dello
studio della sintassi noto come grammatica generativa, legata al nome del grande linguista americano
Noam Chomsky. La grammatica generativa è una grammatica che intende predire in maniera esplicita e
formale le frasi possibili di una lingua; "generativa" si rifà al senso logico-matematico del verbo "generare" =
definire ed enumerare esplicitamente. Il ruolo centrale per la generazione è svolto dalla sintassi, la parte
interna della lingua, che ha il compito di accoppiare e interpretare significanti e significati e che è basata su
un sostrato comune a tutte le lingue (una grammatica universale).
Nella prospettiva del generativismo il linguaggio verbale è concepito innanzitutto come un sistema
cognitivo, è specifico del genere umano ed è costituito dall'insieme di conoscenze mentali interiorizzate che
consentono a un parlante nativo ideali di produrre messaggi nella propria lingua. L'insieme di tali conoscenze
è chiamato competenza ed è:
 entità interna alla mente umana;
 inconscia, implicita: un PN (parlante nativo) è sempre in grado di giudicare se una data produzione
linguistica sia accettabile o meno nella propria lingua basandosi solo su intuizioni;
 individuale: va intesa non come l'insieme delle conoscenze linguistiche socialmente condivise
(langue), ma come l'insieme delle conoscenze linguistiche interiorizzate da un singolo parlante;
 innata: appartiene al corredo genetico della specie umana. Si ritiene che la mente umana sia
geneticamente predisposta all'acquisizione del linguaggio.

Scopo della grammatica generativa è quindi costruire una teoria delle competenze. A partire dalle
competenze dei singoli PN di lingue specifiche, la teoria generativa mira a costruire una grammatica
universale, ossia a definire esplicitamente l'insieme delle capacità linguistiche innate degli esseri umani.
Negli sviluppi del generativismo è venuta assumendo un ruolo via via più centrale la teoria dei principi e
dei parametri. Secondo questa teoria le lingue del mondo condividono alcuni principi universali, mentre
differiscono tra loro per via di alcuni parametri. Per esempio, turco ed italiano condividono il principio
universale "tutti i sintagmi hanno una testa" ma optano per valori diversi del parametro "testa in prima/ultima
posizione del sintagma". Un altro parametro è il cosiddetto soggetto nullo relativo all'omissibilità/non
omissibilità del soggetto (Italiano vs Francese).

Si è già menzionato che per la teoria generativa l'acquisizione del linguaggio ha luogo per effetto di una
capacità innata. Questa è una concezione mentalista che si contrappone decisamente a quella propria del
comportamentismo. Per il modello comportamentista l'acquisizione di qualsiasi tipo di conoscenza,
compresa quella del linguaggio, avviene unicamente in risposta agli stimoli prodotti dall'ambiente, per
mezzo di procedimenti di analisi dell'esperienza. Alla nascita la mente umana si presenterebbe come una
tabula rasa provvista solo di una generica propensione ad apprendere dalle esperienze.
I principali argomenti adottati a sostegno dell'ipotesi mentalista sono riconducibili alla questione della
povertà dello stimolo. Si ritiene che l'esperienza linguistica non possa essere sufficiente da sola a costruire
la competenza di un PN, poiché sussiste un'evidente discrepanza fra i dati linguistici a cui si è esposti e la
competenza che si acquisisce come PN di una certa lingua. Il bambino poi è esposto non solo a frasi
grammaticali ma anche a frasi che contengono errori, interiezioni ed è oltretutto limitato. Ciononostante,
acquisita la propria lingua materna, è in grado di produrre e comprendere un numero infinito di frasi.
Una grammatica universale definisce quindi qual è lo stato iniziale delle facoltà di linguaggio umano.
Una grammatica generativa è costituita da un lessico e da regole che generano i diversi aspetti della
grammatica e descrivono formalmente il meccanismo di formazione delle frasi. Le regole sono di solito
regole di riscrittura a struttura sintagmatica, cioè hanno la forma generale X --> Y + Z dove X, Y e Z sono
simboli di categoria, Y e Z sono i costituenti immediati di X in un indicatore sintagmatico (diagramma ad
albero), e la freccia orientata a destra vale come "è da riscrivere come". In altre parole: unire le due categorie
Y e Z in una categoria di livello superiore X (all'operazione, così formulata, viene dato il nome di merge,
che con la connessa operazione, detta move, costituisce il binomio dei principi o regole fondamentali della
struttura in costituenti.

In sintassi è utile vedere le regole come corrispondenti alle successive ramificazioni di un indicatore
sintagmatico. La prima ramificazione di un nodo F è quella in SN e SV, e dà luogo alla regola F --> SN +
SV, che si legge "riscrivere frase come sintagma nominale più sintagma verbale".

Le regole possono essere ricorsive; una regola è ricorsiva quando nell'uscita della regola è contenuto di
nuovo il simbolo di categoria, che rappresenta l'entrata nella regola (SN --> SN + prep). Per la lettura e la
comprensione delle regole occorre tener presente alcune convenzioni: le regole che contengono una barra
obliqua (/) sono regole contestuali, che si possono applicare solo nei contesti specificati da quanto viene
formalizzato dopo la barra; le specificazioni contenute prima e/o dopo la linea orizzontale (che indica la
posizione in cui sta la categoria interessata dalle regole) indicano le caratteristiche che devono avere gli
elementi che stanno prima e/o dopo tale posizione perché la regola si possa applicare. Una regola come V -->
legge/[+Um.] è dunque una regola contestuale e si legge "riscrivere V come legge nel contesto in cui V sia
preceduto da un elemento contenente la proprietà [+Umano]".
Nelle regole possono dunque essere espressi anche i tratti, che vengono indicati tra parentesi quadre. Tali
tratti costituiscono le sotto categorizzazioni che specificano quali elementi siano combinabili con un
determinato altro elemento.
Le regole generano una frase, ogni frase ha quindi assegnato un indicatore sintagmatico che ne rappresenta la
struttura e ne determina il significato globale, l'interpretazione.

Assunto centrale della linguistica cognitiva è che nella lingua e nella produzione verbale agiscono gli stessi
principi e gli stessi meccanismi generali della mente umana in azione negli altri comportamenti e capacità
dell’homo sapiens sapiens, come nella visione, nel movimento…).

È stata sviluppata l’idea che l’unità primaria della grammatica sia la “costruzione”, invece del sintagma.
Costruzione sarebbe ogni schema sintattico costituito da una combinazione di parole che reca un particolare
valore semantico. È depositata come tale nella memoria dell’utente e spesso le viene assegnata una funzione
convenzionale non strettamente ricavabile dalla composizione degli aspetti semantici dei suoi componenti.
Una tipica costruzione in questo senso è: “per poco non cadevo”.

Frasi complesse
Spesso le frasi si combinano in sequenze strutturate lunghe, frasi complesse o periodi: la sintassi del
periodo (o macrosintassi) è un ulteriore importante sottolivello di analisi del sistema linguistico. Vi sono
principi che regolano il modo in cui il sistema linguistico organizza le combinazioni di frasi e parole. È
fondamentale la distinzione classica tra coordinazione e subordinazione.
La coordinazione si ha quando le diverse proposizioni vengono accostate senza che si ponga tra esse un
rapporto di dipendenza, mentre si ha la subordinazione quando vi è un rapporto di dipendenza tra le
proposizioni. Gli elementi che eventualmente realizzano rapporti di coordinazione o subordinazione tra due
frasi sono chiamati connettivi o connettori. La coordinazione è realizzata tramite congiunzioni coordinanti
come "e, o, ma..." o tramite giustapposizione di proposizioni (Luisa legge, Gianna scrive); la subordinazione
è realizzata tramite congiunzioni subordinanti come "perché, quando, mentre, benché, affinché..." o
mediante infinito preceduto o meno da preposizione, gerundio e participio passato.
Le subordinate si possono distinguere in tre principali categorie: avverbiali, completive e relative.

Sono avverbiali (dette anche circostanziali) le subordinate causali, temporali, concessive, ipotetiche che
modificano l'intera frase da cui dipendono.
Le completive sono subordinate che riempiono una valenza del predicato verbale e sono le subordinanti
oggettive, soggettive, interrogative indirette (riconosco che ho sbagliato, che tu sia partito intristisce gli
amici).

Le relative sono subordinate che modificano un costituente nominale della frase e hanno sempre un
nome/pronome come testa (non ho più visto lo studente a cui ho dato il libro).

L'unione di una frase principale con una frase subordinata dà luogo ad una frase complessa: "la zia di
Marisa ha detto che sarebbe partita per Parigi col treno notturno". "La zia di Marisa ha detto" è la frase
principale, mentre "che sarebbe partita per Parigi col treno notturno" è la dipendente.

Si definisce complessa una frase composta da almeno due predicati uniti da congiunzioni coordinanti o
subordinanti.
Testi
Dal punto di vista linguistico un testo è definibile come una combinazione di frasi più il contesto in cui esse
funzionano da unità comunicativa. Per contesto si deve intendere sia il contesto linguistico (la parte di
comunicazione verbale che precede ed eventualmente segue il testo in oggetto), sia il contesto
extralinguistico (la situazione specifica in cui la combinazione di frasi è prodotta - è chiamato anche
cotesto).

Entriamo quindi nell'ambito della linguistica testuale e della pragmatica linguistica. Converrà notare che
ci sono elementi della struttura sintattica il cui comportamento non è spiegabile se non facendo riferimento al
cotesto. Un caso di questo genere è solitamente la pronominalizzazione, cioè l'impiego e il comportamento
dei pronomi. "Il cane abbaia, Maria si affaccia alla finestra. Lo vede tutto infuriato" - l'interpretazione di
"lo" è strettamente legata al cotesto precedente che ci permette di capire il riferimento al cane.
Fenomeni di questo genere (presenza di elementi per la cui interpretazione è necessario far riferimento al
contesto linguistico precedente) si chiamano anafore.
I fenomeni contrari per cui occorre far riferimento al contesto linguistico seguente si chiamano catafore.
I pronomi hanno o valore anaforico/cataforico, o valore deittico, quando per la loro corretta interpretazione
occorre far riferimento al contesto situazionale (con deissi si designa infatti la proprietà di far riferimento ad
elementi presenti nelle situazioni extralinguistiche). Non possiamo identificare, per esempio, chi sia "tu" o a
che giorno si riferisce "ieri", o quale luogo indichi "li" se non facendo riferimento ad uno specifico contesto
situazionale.
Vi sono tre tipi principali di deissi: personale, spaziale e temporale. La deissi personale codifica il
riferimento al parlante, all'interlocutore e alle terze persone e ha come centro il parlante stesso (chi dice "io"
in una determinata situazione). Esprimono deissi personale i pronomi personali, le persone verbali e i
possessivi.
La deissi spaziale codifica le posizioni delle entità chiamate in causa rispetto al luogo in cui si trovano i
partecipanti all'interazione. Esprimono deissi spaziale i dimostrativi, gli avverbi di luogo, i verbi (come
andare e venire) ed espressioni come "a destra, a sinistra...". Fra i deittici spaziali si possono distinguere due
sottoclassi: i deittici prossimali che indicano prossimità rispetto a chi sta parlando, e i deittici distali che
indicano invece la distanza.
La deissi temporale codifica il momento dell'enunciazione e specifica la localizzazione degli eventi nel
tempo rispetto ad esso.
Un altro fenomeno che può essere tipicamente spiegato solo separando i confini sintattici è la cosiddetta
ellissi, consistente nella mancanza/ammissione di elementi deducibili dal contesto (dove vai? (vado) a casa!).

Dal punto di vista tipologico si dice che l'Italiano è una lingua a soggetto nullo o lingua pro-drop dato che
il soggetto non deve essere necessariamente espresso perché la frase risulti corretta. Altri elementi esterni
alla strutturazione sintattica sono i segnali discorsivi che svolgono il compito di esplicitare l'articolazione
interna del discorso (allora, senti, guardi, così, no?!, insomma). Meccanismi anaforici e segnali discorsivi
contribuiscono a conferire coerenza al testo.

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5 – SEMANTICA, LESSICO E PRAGMATICA

Il significato
La parte della linguistica che si occupa del piano del significato è la semantica. Dare una definizione di
significato è estremamente difficile e problematico. Possiamo comunque dire che esistono due modi
fondamentali di concepirlo: una concezione referenziale o concettuale, dove il significato è visto come un
concetto, un'immagine creata dalla nostra mente corrispondente a qualcosa che esiste al di fuori della lingua;
c’è poi una concezione operazionale, secondo la quale il significato è l'informazione veicolata da un segno
o elemento linguistico.
In linguistica è molto corrente la distinzione tra significato denotativo e connotativo.
Il significato denotativo è quello inteso in senso oggettivo, corrisponde al valore di identificazione di un
elemento della realtà esterna, un referente; il significato connotativo è invece il significato "indotto",
soggettivo, connesso alle sensazioni suscitate e alle associazioni a cui esso dà luogo, non ha valore di
identificazione di referenti. "Gatto" ha come significato denotativo "felino domestico di piccole dimensioni"
e come significato connotativo ad esempio "animale grazioso, furbo, pigro, indipendente…".
Un'altra distinzione è quella tra significato linguistico e sociale: il significato linguistico è il significato che
un termine ha in quanto elemento di un sistema linguistico codificante una realtà mentale; il significato
sociale è il significato che un segno può avere in relazione ai rapporti fra parlanti, ciò che esso rappresenta in
termini di dimensione sociale. Il significato linguistico di "tu" è "pronome di seconda persona singolare", il
significato sociale è di "allocutivo di confidenza, vicinanza sociale".
Un'ulteriore distinzione interna al significato denotativo è quella tra significato lessicale e grammaticale.
Hanno significato lessicale i termini che rappresentano oggetti concreti o astratti, entità o concetti della
realtà esterna; hanno significato grammaticale i termini che rappresentano concetti o rapporti interni al
sistema linguistico (di = relativo a; il = introduttore di un nome definito; benché = coniugazione concessiva;
io = prima persona singolare).
I termini dal significato lessicale vengono anche chiamate parole piene, mentre quelle dal significato
lessicale parole vuote (o grammaticali).
Infine, è opportuno distinguere il significato vero e proprio da quella che si usa chiamare enciclopedia (o
conoscenze enciclopediche): il significato fa parte della lingua e non va confuso con la conoscenza del
mondo esterno filtrato dallo sguardo dell'individuo.
Un'altra distinzione che si fa spesso è quella fra significato e senso, dove per senso s'intende il significato
contestuale. "Finestra" per esempio ha come significato "apertura in una parete" ma viene usato, a seconda
dei contesti, sia per designare le aperture verso l'interno sulle pareti di un edificio, sia i riquadri che si aprono
in un computer.
A un significato dunque possono corrispondere diversi sensi (la questione è dunque connessa alla
polisemia).
Antonio e Milano sono nomi: i nomi (in semantica nomi propri) sono etichette, termini a referente unico
che designano un individuo e non una classe, e che nei termini della logica hanno solo estensione e non
intensione.
Il ché significa che possiamo avere conoscenze enciclopediche su un certo Antonio e sulla città di Milano,
ma non è possibile dire da cosa sia costituito il significato concettuale dei due termini. Intensione ed
estensione valgono rispettivamente come "l'insieme delle proprietà che costituiscono il concetto designato
da un termine" e "l'insieme degli individui a cui il termine si può applicare". L'intensione di "cane" è dunque
l'insieme di proprietà che costituiscono la "caninità", l'estensione è data da tutti i membri della classe dei cani
cioè, tutte le entità a cui è possibile riferirsi. "Antonio" ammette si più referenti, ciascuno dei quali però
unico, nel senso che quando dico "Antonio" mi riferisco solo ad un Antonio determinato e non a tutti i
potenziali esseri umani di nome Antonio.

Lessico
L'unità d'analisi minima fondamentale per il livello semantico è il lessema. Lessema (in opposizione a
morfema) è l’unità più piccola che veicola il significato lessicale, es. cant-are, cant-icchiare, cant-o, cant-ante
ecc. Anche se in certi casi può esserci coincidenza tra parola e lessema (es. città, virtù o re, non ulteriormente
scomponibili), in una lingua come l’italiano la parola nella sua forma “normale” è costituita da un lessema
che viene “completato” da informazioni morfologiche. Così, “cantare” è scomponibile in “cant” (lessema)
più “are” (morfema di infinito).
L'insieme dei lessemi di una lingua costituisce il suo lessico, il cui studio dei vari aspetti è compito della
lessicologia. La lessicografia è invece lo studio dei metodi e della tecnica di composizione dei vocabolari e
dizionari.
Dal punto di vista del linguista il lessico presenta aspetti contrastanti: da un lato è uno dei due componenti
essenziali di una lingua poiché senza lessico non esisterebbe una lingua, allo stesso tempo è lo strato più
esterno e superficiale di un sistema linguistico (più esposto alle varie circostanze extralinguistiche). Nel
lessico si fondono mondo esterno e lingua.
Il lessico è lo strato delle lingue più ampio e meno strutturato, la parte aperta del sistema, suscettibile ad
essere incrementato con nuove unità. Si stima che il lessico di lingue come l'italiano, l'inglese o il tedesco
ecc.… ammonti ad alcune centinaia di migliaia di lessemi.
Il lessico posseduto da un parlante colto si aggira attorno alle cinquantamila unità, tra cui un tot costituiscono
il cosiddetto vocabolario fondamentale.

Rapporto di significato tra lessemi


Si definiscono omonimi lessemi che hanno lo stesso significante ma diverso significato (riso = cereale/atto
di ridere); si parla di polisemia se i significanti associati a uno stesso significante sono imparentati tra loro e
derivati l'uno dall'altro (corno = strumento/corno animale). Un caso speciale di polisemia è dato dall'
enantiosemia, che si ha quando ad uno stesso significante sono associati significati diversi, tra loro in
rapporto di opposizione (tirare = lanciare/tirare verso di sé).
Si chiamano sinonimi lessemi diversi aventi lo stesso significato (urlare/gridare, iniziare/cominciare). Sono
definibili sinonimi tutti quei termini che sono intercambiabili in ogni contesto in cui possono apparire,
altrimenti se si caricano di sfumature di significato particolari (gatto/micio= affettivo) si parla di quasi
sinonimia.
L'iponimia è una relazione di inclusione semantica: il significato di un lessema rientra in un significato più
ampio e generico rappresentato da un altro lessema (mela è iponimo di frutto). I rapporti iponimici possono
costituire delle serie dette catene iponimiche. È importante allora introdurre la nozione di iponimia diretta:
"gatto" è iponimo di "animale", ma non è iponimo diretto in quanto c'è tra i due termini almeno un altro
termine, che è a sua volta iperonimo di "gatto" e iponimo di "animale", ovvero "felino" (la catena può
ancora essere espansa con siamese -gatto-felino- mammifero-animale).
La meronimia è invece la relazione semantica basata sul rapporto tra i termini che designano una parte
specifica di un tutto unico e il termine che designa il tutto (braccio, testa, anca sono meronimi di corpo).

Parlando di sinonimia ed iponimia si parla di rapporti di carattere paradigmatico, esistono però anche dei
rapporti di compatibilità semantica sull'asse sintagmatico. Uno di questi è la solidarietà semantica, nel
senso che la selezione di un termine è dipendente dall'altro e la possibilità di esser usato in combinazione con
altri lessemi è fortemente ridotta se non assente (miagolare/gatto, leccare/lingua). I rapporti tra lessemi
fondati su occorrenze regolari nel discorso, ma meno semanticamente determinate, si hanno nelle cosiddette
collocazioni (bandire/concorso, porta/scorrevole, saluti/cordiali) e sono combinazioni di parole frequenti.
Questo rapporto di collocazione riflette convenzioni tipiche dell'uso della singola lingua e del costume
linguistico di una certa comunità parlante.

Si parla di antonimia quando due lessemi indicano i poli opposti di una scala (buono/cattivo, lungo/corto).
Due altre relazioni di incompatibilità o opposizione semantica sono la complementarietà e l'inversione:
sono complementari due lessemi di cui uno è la negazione dell'altro (X implica non-Y e non-Y implica X,
per esempio vivo/morto, maschio/femmina); sono inversi due lessemi di significato relazionale che
esprimono la stessa relazione semantica vista da due direzioni opposte (vendere/comprare, marito/moglie,
sotto/sopra).

Insiemi lessicali
Gli insiemi lessicali sono insiemi complessi organizzati in cui ogni elemento è unito agli altri da rapporti di
significato. Il concetto più usato e noto in questo ambito è quello di campo semantico (o campo lessicale),
un termine usato per indicare l'insieme dei significati che un certo lessema può assumere (area semantica) o
l'insieme dei lessemi che costituiscono le diverse sezioni di un determinato spazio semantico. Costituiscono
per esempio campi semantici gli aggettivi d'età (giovane, vecchio, anziano), i termini di colore, di
parentela…
Una nozione più generica rispetto a quella di campo semantico è quella di sfera semantica, con cui si
designa ogni insieme di lessemi che abbiamo in comune in riferimento a un certo ambito semantico
(l'insieme delle parole della moda, della musica ecc.…).
Meritano un cenno anche le nozioni di famiglia semantica e di gerarchia semantica. Una famiglia
semantica è un insieme di lessemi derivati da una stessa radice lessicale (stessa base etimologica). Una
gerarchia semantica è costituita invece da un insieme in cui ogni termine è una parte determinata di un
termine che nell'insieme lo segue (in una certa scala di misura), per esempio i nomi delle unità di misura di
tempo (secondo, minuto, ora). Il rapporto semantico tra i termini è di meronimia ed è strutturato mediante
criteri di gerarchizzazione.
Molti lessemi tendono ad assumere significati traslati, che si allontanano più o meno dal normale significato
primitivo. I processi fondamentali su cui si basano tali spostamenti di significato sono: la metafora, fondata
sulle somiglianze concettuali (coniglio = persona paurosa) e la metonimia, fondata sulla contiguità
concettuale (bottiglia  per indicare il liquido contenuto = ho bevuto due bottiglie di whisky).

L'analisi del significato: semantica componenziale


Uno dei metodi basilari per l'analisi del significato è quello dell'analisi componenziale (o semantica
componenziale). Si tratta di scomporre il significato dei lessemi comparandoli e cercando così di cogliere in
cosa differisce il loro significato rispettivo. Ad esempio, "uomo" e "donna" sono differenziati dal fatto che un
uomo è di sesso maschile e una donna di sesso opposto, tutto il resto è denotativamente uguale. Ripetendo
per ogni coppia lo stesso ragionamento arriviamo ad una metrica come nel seguente schema:

In maiuscolo fra barre sono indicate le proprietà di significato, proprietà semantiche elementari che
combinandosi danno luogo al significato dei lessemi. Il loro nome tecnico è componenti semantici o tratti
semantici. Fra i tratti semantici possono esistere rapporti implicativi:

I tratti di carattere più generale sono quelli a sinistra; di essi sono specificazioni i tratti a destra, secondo i
rapporti di implicazione indicati dalla freccia: /+UMANO/ implica /+ANIMALE/ il quale a sua volta
implica /+ANIMATO/ fino ad arrivare a /+ENUMERABILE/ che è il tratto semantico che accomuna tutti i
lessemi. I nomi col tratto / -ENUMERABILE/ sono anche chiamati nomi massa. /+CONCRETO/ accomuna
tutti i lessemi che indicano cose dotate di una loro realtà fisica. Le parentesi graffe indicano fasci di tratti
sullo stesso livello gerarchico che possono intrattenere rapporti implicativi con ciascuno dei tratti racchiusi
nelle graffe contigue.
I tratti semantici sono solitamente binari, cioè ammettono i due valori + e - (si e no), ma si possono usare
anche tratti non binari a più valori come nel caso di /PENETRABILE/ dove 1, 2 e 3 rappresentano tre diversi
gradi di penetrabilità, corrispondenti a sostanze solide, liquide e gassose. È possibile estender l'analisi anche
ad altre classi di lessemi, per esempio ai verbi: uccidere =/(X CAUSA)((Y DIVENTA) (-VIVENTE))/ --->
qualcuno fa sì che qualcun altro diventi non vivente; X e Y sono i due ruoli semantici implicati da un verbo
transitivo come "uccidere", X = agente e Y = paziente, per cui l'ordine non è invertibile.

Cenni di semantica prototipica


La semantica componenziale concepisce il significato di un lessema come costituito da un insieme di tratti
semantici categorici, tutti necessari e sufficienti a descriverlo. Il ché presuppone una concezione di matrice
aristotelica: presuppone che una data categoria sia a intendersi come un'entità:
 Definita da proprietà necessarie e sufficienti;
 Delimitata da confini netti;
 Costituita da membri ugualmente rappresentativi di quella categoria.

In contrapposizione a tale visione si è andata affermando anche in linguistica una concezione delle categorie
fondata su presupposti diversi: secondo alcuni studiosi una categoria andrebbe intesa come un'entità:
 Definita sia da un nucleo di proprietà di carattere categorico, necessario e sufficiente, sia da un
nucleo di proprietà di carattere graduale, non essenziale;
 Delimitata da confini sfumati, in sovrapposizione con quelli di altre categorie;
 Costituita da membri più tipici e meno rappresentativi.

Questa concezione è nota come teoria dei prototipi. Il significato di un lessema in semantica prototipica è
concepito appunto come prototipo. Il prototipo rappresenta l'immagine mentale immediata a cui si pensa se
non vengono fornite ulteriori indicazioni per l'identificazione. Di un concetto, il prototipo occupa il punto
focale. I membri non prototipici si allontanano dal punto focale avvicinandosi invece alla periferia del
concetto, quante meno caratteristiche del prototipo possiedono. In un'analisi prototipica il significato di
"uccello" è dato dal concetto di volatile, che è il più tipico e coincide dunque con l'immagine di passero o
piccione. In questa prospettiva i tratti semantici in gioco vengono visti non come tutti necessari e sufficienti e
di uguale importanza nel determinare il significato del lessema, bensì come dotati di un diverso potere
identificativo e disposti in gerarchia di importanza. Alcuni tratti rappresentano criteri necessari a definire
l'appartenenza ad una data categoria, altri sono posseduti in numero diverso dai vari membri non prototipici.
I primi nel caso di "uccello" saranno / - MAMMIFERO/ /+ALATO/ /+CON PIUME/; tra i secondi ci
saranno /+CHE VOLA/ /+DI PICCOLE DIMENSIONI/.
I componenti semantici dunque non sono più una lista fissa di proprietà tutte necessarie per definire il
significato di un lessema, ma diventano un insieme di criteri più o meno importanti nell'identificare
una categoria. Alcuni tratti sono tipici, altri no. I concetti in questa prospettiva hanno una struttura interna
prototipica, basata sulla gradualità, sulla scalarità (+ e -) e non sulla categoricità (sì e no).
Altrettanto graduale è la rappresentatività dei diversi membri di una categoria nei confronti della stessa.
Un concetto importante nella semantica prototipica è anche quello di grado di esemplarità. A titolo di
esempio si pensi alla graduatoria di un'indagine americana circa la categoria "frutta”: ne risulta che "mela" è
visto come il frutto più tipico e "oliva" il meno tipico, in particolare "oliva" sarà in sovrapposizione col
concetto di "verdura". Una conseguenza importante della semantica prototipica è rendere sfumati e in
sovrapposizione i confini delle categorie giacché i termini possono rappresentare tratti che giustificano
l'appartenenza sia a una che all'altra.
L'analisi prototipica ha introdotto utili correttivi ad una concezione troppo rigida dell'analisi
composizionale, ma si scontra con problemi analoghi quando la si deve applicare a concetti astratti:
esiste/qual è il prototipo di buono? O di amore? Nel complesso la semantica lessicale rimane il settore più
astratto e problematico dell'intera linguistica semantica.

Elementi di semantica frasale


Il significato di una frase è la somma e combinazione dei significati dei lessemi che la compongono. Una
prima distinzione terminologica da operare è quella tra frase ed enunciato. Chiameremo enunciato una
frase considerata dal punto di vista del suo concreto impiego in una situazione comunicativa. Elementi
cruciali per l'interpretazione del valore dell'enunciato sono anzitutto i connettivi (o connettori) come
congiunzioni coordinanti e subordinanti che hanno spesso anche il valore di operatori logici. Funzionano
da operatori logici i qualificatori (tutti, nessuno, ogni, qualche...) e la negazione (non).

Un altro aspetto importante del significato degli elementi è quello pragmatico che riguarda l'intenzionalità
del parlante. In questa visuale la lingua è studiata come "modo di agire" e non più come sistema di
comunicazione (o come riflessione verbale del pensiero). Gli elementi costituiscono comunque degli atti
linguistici: un atto linguistico è l'unità base dell'analisi pragmatica e consta di tre distinti livelli. Produrre
un elemento equivale infatti a compiere tre atti in uno:
 Un atto locutivo consiste nel formare una frase in una data lingua con la sua struttura fonetica,
grammaticale, lessicale;
 Un atto illocutivo consiste nell'intenzione con la quale e per la quale si produce la frase, dare
un'informazione, fare un'affermazione;
 Un atto perlocutivo consiste nell'effetto che si vuole provocare nel destinatario del messaggio.
Per esempio: "chiuderesti la finestra" ha la struttura fonetica e grammaticale di una frase interrogativa (atto
locutivo), il valore di una richiesta/ordine (atto illocutivo) e l'effetto se si raggiunge l'obbiettivo (atto
perlocutivo).
È l'atto illocutivo che definisce la natura e il tipo di atto linguistico messo in opera. Sono atti illocutivi:
l'affermazione, la richiesta, la promessa, la minaccia, l'ordine, l'invito, il rifiuto, il divieto ecc.... Vi sono
verbi particolari come "prometto, battezzo, autorizzo, condanno, proibisco ecc.…" che se usati alla prima
persona del presente indicativo ammettono la distinzione tra contenuto referenziale e atto illocutivo
compiuto: tali verbi sono detti performativi.
Il valore illocutivo di divieto/proibizione di fare qualcosa coincide con la realizzazione di "(ti) proibisco (di
uscire)", mentre normalmente i verbi hanno un valore constatativo o descrittivo di un'azione, non
costituiscono essi stessi l'azione.
Usati invece non alla prima persona o non nel presente indicativo, i verbi performativi hanno anch'essi valore
constatativo/descrittivo: "Luisa proibì a Gianni di uscire" non costituisce un atto di proibizione, ma descrive
la situazione in cui viene compiuto un atto di proibizione. Possono avere valore performativo anche
espressioni come "vietato fumare", "divieto di accesso" ecc....
I verbi performativi usati per "fare" qualcosa e non per "dire" qualcosa non sono per norma assoggettabili a
giudizi di verità. Esistono atti locutivi diversi per realizzare uno stesso atto illocutivo: "chiuderesti la
finestra" è più indiretta e cortese (se sei d'accordo...); "chiudi la finestra!" è più diretto; "potresti chiudere la
finestra" ancora più indiretta e cortese; "la finestra!" è un modo particolarmente brusco dove l'atto illocutivo
è costituito da una frase nominale.
Quando un certo atto illocutivo è realizzato mediante atti locutivi che solitamente sono la forma tipica di
realizzazione di un altro atto illocutivo, o mediante indicatori propri di atti illocutivi di altro tipo si parla di
atti linguistici indiretti. È molto importante qui la manifestazione della politeness. D’altra parte, se l'atto
linguistico è formulato con troppa cortesia e diventa molto indiretto, tende ad assumere valori ironici.

La teoria degli atti linguistici ha descritto le condizioni di carattere linguistico e semantico, pragmatico e
sociale che devono essere soddisfatte perché un atto illocutivo valga come tale. Nel caso di un ordine (atto
direttivo) come "chiudi la finestra", una di tali condizioni è per esempio che il destinatario sia in grado di
compiere l'azione richiesta. Si può in tal modo elaborare una specie di grammatica degli atti linguistici
analizzando quelle che vengono chiamate le condizioni di felicità di un atto linguistico. Un atto linguistico
"promessa" (X promette Z a Y), realizzato come atto locutivo con l'enunciazione del verbo performativo
"prometto" reggente un complemento che rappresenta il contenuto della promessa, è valido come tale se:
 Z è gradito al destinatario Y;
 Il parlante X è oggettivamente in grado di compiere Z;
 Z si riferisce a qualcosa nel futuro;
 X è sinceramente intenzionato a fare Z.

Un'altra nozione importante per la semantica frasale è quella di presupposizione: vale a dire tutto ciò che
non fa parte del significato letterale espresso dagli enunciati, ma che è ricavabile da ciò che viene detto e da
come lo si dice. ("Andiamo al cinema? Ho un po' di mal di testa" B vuole implicitare che non intende andare
al cinema).
Esistono regole della conversazione note come massime di Grice, basate sull'assunzione che fra i
partecipanti ad un'interazione comunicativa vige un principio di cooperazione e sono riunibili in quattro
categorie dette: della quantità (dare un contributo tanto informativo quanto è richiesto, che non rechi né
troppe né poche informazioni); della qualità (dare un contributo che sia vero, o il più possibile verificabile);
della relazione (essere pertinenti); e del modo (esprimersi chiaramente).
La violazione di una o più massime genera implicature conversazionali che trasmettono comunque il
significato voluto. Un tipo particolare di significato implicito è la presupposizione. Possiamo definire
presupposizione la parte del significato di una frase che resta vera negando la frase. "Gianni legge"
presuppone "Gianni esiste" a prescindere dal fatto che stia leggendo o meno. "Il gatto insegue un topo" ha
come presupposizione "esiste un gatto noto al parlante", mentre la presupposizione "esiste un topo" è più
problematica da stabilire in quanto dipende dal dominio su cui agisce la negazione. La frase "il gatto non
insegue un topo" infatti può essere intesa nel senso che il gatto non insegue un topo ma fa altro, quindi come
negante l'intero SV compreso il complemento oggetto, oppure può essere inteso nel senso che il gatto non
insegue un topo ma gli fa altro, quindi come negante solo il predicato verbale (allora è valida la
presupposizione che "esiste un topo qualsiasi").

Le presupposizioni sono ancorate alla forma linguistica mentre le inferenze sono per lo più fondate sulla
nostra conoscenza del mondo (enciclopedica). "Finire" è uno di quei verbi detti fattivi come "sapere,
confessare, rimpiangere" che veicolano automaticamente la presupposizione di verità delle proposizioni che
reggono. "Sapevo che eri partito" e " non sapevo che eri partito" lasciano entrambe come valido il fatto che
tu eri partito.
Le presupposizioni si configurano in conclusione come ciò che in un enunciato il parlante assume come vero
o noto all'ascoltatore, e quindi assodato, indissolubile al momento di produrre tale enunciato.

FARE ESERCIZI 6, 9, 11, 12, 13, 17, 21, 22, 24, 30, 32, 33, 35, 44, 48

6 – LE LINGUE DEL MONDO

Numero delle lingue parlate oggi nel mondo, alcuni dicono 2200 altri dicono 12000. È difficile riuscire a
enumerarle tutte.
In Italia per esempio bisogna tenere conto non solo dell’italiano, lingua nazionale, ma anche delle lingue
delle minoranze parlate da piccoli gruppi (tedesco, francese, sloveno, ladino dolomitico, neogreco, albanese,
parlate zingare ecc. Secondo alcuni vi appartengono anche sardo e ladino friulano. In più bisogna tenere
conto dei vari dialetti italiani che potrebbero essere considerati sistemi linguistici a sé stanti, autonomi
rispetto all’italiano, e non solo semplici varietà.
Le lingue del mondo sono alcune migliaia. Vengono quindi classificate in famiglie: parlare di famiglia
linguistica presuppone che ci sia linguisticamente una parentela, uno dei criteri genealogici secondo i quali le
lingue possono essere classificate. I sottolivelli di classificazione sono ramo, gruppo e sottogruppo.
Nel caso delle lingue indoeuropee parlate oggi in Europa, lingue figlie di "ultima generazione", sono le
lingue derivate dal latino dette neolatine o romanze: portoghese, spagnolo, catalano, francese, ecc...

Come esempio di lingue imparentate consideriamo l'italiano e il francese. Tra le due la somiglianza è
presente a livello grafico (ciel – cielo; pied – piede; mari – marito) più che a livello fonetico. Questo perché
l'attuale grafia del francese è attardata di alcuni secoli rispetto alla pronuncia effettiva. La somiglianza tra le
due lingue è data da quello che possiamo chiamare lessico condiviso, ossia quella percentuale di lessico che
due o più lingue-figlie condividono per averlo ereditato dalla comune lingua madre (es. it. Occhio e fr. Oeil
derivano dalla comune base lat. Oculum). Prendiamo alcune parole come esempi selezionando le parole
italiane che contengono l'occlusiva velare sorda [k] e confrontandole con le corrispettive francesi: chanter
cantare, chasse caccia, collection collezione, court corto. Tutte le volte che in italiano abbiamo una sequenza
[k] + [a], in francese abbiamo la sequenza [š] + [a]; se invece la sequenza è di tipo [k] + [o] oppure [k] + [u]
allora anche in francese abbiamo [k]. Quindi entrambe le lingue hanno avuto un medesimo punto di partenza,
rispetto al quale una delle 2 ha preso a divergere.
È chiaro che in qualche lontana fase della sua storia, il francese deve aver conosciuto una struttura sillabica
assai simile a quella che ancora oggi si riscontra in italiano.
Il francese ha imboccato la deriva che lo ha portato ad allontanarsi dall'italiano con un forte indebolimento
delle vocali di fine parola, e ha sovvertito la struttura sillabica che condivideva con l'italiano. Così oggi
vache 'vacca', esibisce ['a] benché oggi la vocale accentata sia in sillaba libera, mentre mer 'mare' mostra
palatalizzata (palatale: suono articolato con il dorso della lingua appoggiato al palato duro; in ita. le vocali
palatali sono 'i', 'e') benché oggi compaia in sillaba chiusa. Prendiamo ora alcuni altri esempi di it. [-t-] e fr.
zero: marito, catena, ruota, vita  mari, chaine, roue, vie. Dove in italiano vediamo [-t-], il francese non
mostra più alcun tipo di articolazione consonantica in generale. Riscontriamo ancora una sistematicità che
possiamo applicare alla parola 'mercato'  latino italiano francese -ATU -ato -é, MERCATU mercato
marché.
Altre corrispondenze tra le due lingue che ci portano a sospettare una medesima forma di partenza sono: la
[y] francese che corrisponde alla [u] italiana [lune, luna]. Possiamo intendere la [y] fr come il corrispettivo
italiano di -uto (participio passato), e la [-'i] fr. come -ito italiano: voulu voluto, battu battuto, lu letto, dormi
dormito, fini finito, réussi riuscito, ecc...
Una conferma di quanto argomentato viene dalla morfologia:
1) fr. -é = it. -ato
2) fr. -u = it. –uto
3) fr. -i = -ito
Lungo l'arco diacronico delle lingue, i morfemi sono fra gli elementi meno soggetti a cambiamenti. Invece il
lessico può mutare con facilità, si modifica a seconda dell'orientamento culturale dei parlanti, per motivi
politici, sociali, ecc.
Il fatto che all'interno della medesima lingua i morfemi tendono a conservarsi su lunghissimi periodi e da una
lingua all'altra non migrano affatto, o se migrano lo fanno in misura ridotta, fa sì che le concordanze
morfologiche bastino a indiziare la comune origine di due lingue, anche quando esse non presentino più
lessico in comune. Così l'assunzione che in qualche sua lontana fase, il francese debba aver conosciuto una
struttura sillabica simile o uguale a quella dell'italiano è giustificabile dalla struttura sillabica della lingua
madre latina ereditata e conservata sino a oggi dall'italiano, ereditata ma abbandonata dal francese.

[ !!! ] La protolingua o lingua ricostruita è la ricostruzione della lingua originaria di un gruppo di lingue, un


ramo o una famiglia linguistica, sulla base di radici comuni che non costituiscano innovazioni o prestiti.

1 - Lo spazio euro-asiatico e la definizione dei confini dell’Europa

L’Europa: parte più occidentale dello spazio geografico dell’Eurasia; per individuare le linee di separazione
interne a questo spazio si deve ricorrere a considerazioni di ordine socioculturale e storico-politico.
Nell’attuale dibattito sull’Europa sono punti di discussione l’ex Unione Sovietica e l’odierna Russia, oggi
interpretate come periferie d’Europa e distinte dall’Asia, e la Turchia, a cavallo tra Europa e Asia. Per
Braudel (1985), le frontiere dell’Europa dovrebbero coincidere con quelle della diffusione del cristianesimo
dopo la scissione tra Impero Romano d’Oriente e d’Occidente (476). La frattura tra Occidente e Oriente
ripercorre la separazione tra mondo greco-bizantino, latino-romano e romano-germanico, che vede
contrapporsi due forme di scrittura, l’alfabeto latino e gli alfabeti cirillici.
L’analisi di una carta geolinguistica dell’Europa rileva tre dati fondamentali:
1. la frammentazione linguistica del continente; si parlano più di 60 lingue statutarie (riconosciute
dalle Costituzioni dei singoli Stati) + quelle non statutarie;
2. l’omogeneità del quadro europeo: nella maggioranza dei casi le lingue europee appartengono alla
famiglia linguistica indoeuropea e solo in misura ridotta a lingue non indoeuropee, come ad esempio
il basco, le lingue uraliche o ugro finniche (ungherese, finnico, lappone), il maltese, il turco di
Turchia, il calmucco;
3. il quadro linguistico europeo risultava ben definito alla fine del I millennio, quando si erano
concluse le ondate migratorie;

Vi sono tre principali teorie che illustrano il processo di formazione del quadro linguistico europeo:
1. La teoria tradizionale che colloca il primo processo di indo europeizzazione dell’area europea tra il
V-VI millennio a.C., quando, nell’età del bronzo, le popolazioni provenienti dalle steppe centro-
asiatiche sarebbero migrate verso occidente;
2. La teoria della dispersione neolitica indoeuropea tende a mostrare che non sono stati guerrieri-
invasori provenienti dalle zone centro-asiatiche, ma gruppi di medio-orientali dediti all’agricoltura
che si spostarono in Europa durante l’età del rame e del bronzo, diffondendo tecniche agricole,
cultura e lingua;
3. La teoria della continuità uralica è elaborata da studiosi dell’area ugro finnica e samoieda e dice
che le genti uraliche e samoiede avrebbero occupato nel paleolitico l’Europa medio-orientale e si
sarebbero poi spostate; sarebbero quindi stanziate in Europa dall’antichità;

Europa linguistica
Per comprendere il quadro linguistico dell’Europa attuale dobbiamo prendere in considerazione un
importante evento, maturato tra III e IV sec. d. C. e concluso nel 395: la separazione dell’Impero Romano
in Impero Romano d’Oriente e Impero Romano d’Occidente. Questa scissione dà vita a un profondo
dualismo economico-linguistico e culturale-religioso.

Occidente: cattolici, lingua religiosa latina, alfabeto latino, durata 395-476, Roma mai conquistata da
“infedeli”, ingloba lingue germaniche.

Oriente: ortodossi, lingua religiosa greca, alfabeto greco/cirillico, durata 395-1453, Costantinopoli cadde in
mano Islamica (1453), ingloba lingue slave.

Non tutto naturalmente si è svolto in completo parallelismo, anzi i due imperi dimostrano di avere forti
differenze, non solo religiose.

Oggi le aree del continente sono monolingui: ciò potrebbe far pensare che sia una scelta naturale (che
l’homo sapiens sia programmato per parlare una lingua soltanto); in realtà, la scelta europea di essere
monolingui è puramente politica (prova dovuta al fatto che nel modo extraeuropeo ci sono più stati
plurilingui che monolingui): si usa la lingua come collante nazionale. Questo uso politico della lingua
spianerà la strada al processo romantico che comporta l’identificazione spirituale di lingua – nazione –
patria.

Le famiglie linguistiche sono:

1. Lingue indoeuropee: circa 140; lingue romanze (ita, fra, spa, port, romeno…), lingue germaniche
(divise in orientale, es. svedese, norvegese, danese, e occidentale, es. tedesco, inglese…), le lingue
slave (slavo occidentale come polacco, ceco e slovacco; slavo orientale come russo, bielorusso e
ucraino; slavo meridionale come sloveno, serbo, croato, bulgaro e macedone), le lingue baltiche
(lituano, lettone, estinto il prussiano), le lingue celtiche (celtico continentale, es. gallico, e celtico
insulare, es. gallese; divise in gruppo gaelico e gruppo britannico…), le lingue indoarie (hindi,
bengali, romanì, singalese, nepali…), lingue iraniche (persiano, curdo…), tre lingue isolate
(neogreco, albanese, armeno).
C’erano anche le lingue anatoliche, diffuse in Anatolia (oggi Turchia asiatica), e le lingue tocarie,
distinte in tocario A e tocario B, parlate nel Turkestan cinese: entrambi i gruppi sono oggi estinti.
Tocario A era la più orientale delle lingue indoeuropee, una lingua centum. Tocario B è metà e fine I
millennio a.C.
Le lingue italiche sono le lingue indoeuropee nell’Italia antica; le più importanti furono il latino,
l’osco-umbro, il venetico, il retico, il messapico. Soltanto il latino ha continuato nel tempo dando
origine alle lingue romanze o neolatine. Il latino divenne la lingua della cultura e delle istituzioni di
Roma e, dal I secolo d.C., fu lingua dell’evangelizzazione cristiana nell’Occidente europeo.
Le lingue romanze sono divise in lingue statutarie e non statutarie: le lingue romanze statutarie
sono il portoghese, il gallego, il castigliano, il catalano, il francese, l’italiano, il romeno; le lingue
romanze non statutarie sono, nella penisola iberica, l’asturiano e l’aragonese, in Francia il provenzale
e il franco-provenzale, in Italia il sardo e il friulano, in Svizzera il romancio, e infine il ladino-
dolomitico.

2. Lingue uraliche: ugrofinniche (ungherese, finlandese, estone…)


Sono distribuite in un territorio che va dalle regioni settentrionali della Norvegia fino alla Siberia,
ma la presenza dei parlanti non è uniforme poiché si limita all’Ungheria, alla Finlandia, ad alcuni
territori della Russia europea e ad alcune colonie samoiede in Siberia.
Le lingue uraliche si dividono in lingue ugro-finniche (tra cui ungherese, finnico, estone, lappone) e
lingue samoiede (tra cui yurak, ostiaco…). L’ungherese è la lingua ugro-finnica più parlata e più
antica: il primo testo ungherese è un sermone del XIII secolo. Il finnico possiede una tradizione
scritta risalente al XVI secolo. L’estone è più antico rispetto al finnico; alcune parole compaiono già
in un documento del 1220. Il lappone si distingue in due varietà: il lappone occidentale, diffuso in
Norvegia e Svezia, e il lappone orientale, diffuso nella regione finlandese di Enare e nelle regioni
russe di Koltta e Kola. Le lingue samoiede sono parlate da poche decine di migliaia di persone tra
Europa e Asia; per quanto riguarda le lingue uraliche un ruolo significativo lo ha avuto soltanto la
componente ungherese

3. Lingue altaiche: turco, uzbeco, giapponese, coreano…


La famiglia delle lingue turche comprende circa 30 sistemi linguistici distribuiti in una vasta area
che va dall’Europa orientale e balcanica all’Asia centrale: la più nota è il turco di Turchia, mentre la
seconda lingua turca è l’usbeco, parlato in Uzbekistan. La vasta distribuzione territoriale si spiega
col nomadismo delle antiche popolazioni turche che si spostavano verso l’Europa.

4. Lingue caucasiche: georgiano…

5. Lingue dravidiche: tamil…

6. Lingue sinotibetane: cinese (e il suo gruppo di lingue), tibetano…

7. Lingue paleosiberiane

8. Lingue austroasiatiche: vietnamita…

9. Lingue kam-thai: thai…

10. Lingue austronesiane: malese-indonesiano, tagalog, hawaiano…

11. Lingue australiane: molte in via d’estinzione, parlate da poche centinaia o decine

12. Lingue indo-pacifiche: lingue della Nuova Guinea e isole vicine

13. Lingue afro-asiatiche: arabo, ebraico, maltese, somalo…

14. Lingue nilo-sahariane

15. Lingue niger-cordofaniane: swahili, ruanda…

16. Lingue khoisan

17. Lingue amerindiane: lingue eschimesi, apache, nahuatl/azteco, lingue caribiche…

18. Lingue isolate: basco…


Il basco, parlato nella regione pirenaica settentrionale prima delle ondate migratorie sul territorio
europeo, è la lingua più antica dell’Europa occidentale; è una lingua non indoeuropea e isolata. La
sopravvivenza del basco è un evento straordinario: è sopravvissuto alla romanizzazione (l’influenza
del latino è limitata al lessico) e alle proibizioni avvenute durante il regime di Franco. I conflitti
interni alla comunità hanno ritardato la definizione di uno standard comune, che ha avuto luogo nel
1968 con la creazione dell’euskara batua (basco unificato), un compromesso tra i dialetti.

A queste lingue andrebbero aggiunte alcune decine di lingue pidgin e creole, nate dall’incontro e
mescolanza di lingue (assai diverse) in situazioni particolari (come migrazioni, colonizzazioni). Sono
spesso difficili da collocare in una famiglia linguistica, anche se di solito vengono assegnate alla famiglia
della lingua che ha fornito la maggior parte del lessico. Un pidgin, sistema linguistico semplificato che non
ha parlanti nativi, si sviluppa in un creolo quando diventa lingua nativa di una comunità. Es. di pidgin:
chininglish (cinese + inglese), es. di creolo: giamaicano (inglese + africano).

Lingue "centum" e lingue "satem"

Le lingue indoeuropee sono divise in due blocchi:


- Lingue centum: chiamate così perché in latino “centum” si pronuncia con la velare [k]; lingue
caratterizzate da articolazioni velari. [K] o [x] (= “h”) entrambe velari.
- Lingue satem: alle articolazioni velari delle lingue centum corrispondono articolazioni anteriorizzate
(affricate palatali) o nettamente anteriori (sibilanti, interdentali). [S]
Dal punto di vista geografico la scissione è lineare: le lingue centum si trovano ad ovest (lingue germaniche,
celtiche, italiche, greco e latino), quelle satem si trovano ad est, tra Europa occidentale e Asia (lingue
baltiche, slave, indoiraniche, albanese e rumeno).
All’inizio si riteneva che questa bipartizione fosse già presente nell’indoeuropeo, poi nel ‘900 sono stati
trovati in Cina testi in due lingue sconosciute, chiamate “tocario a” e “tocario b”, che appartengono al ramo
delle lingue centum:

8: TOCARIO A “okat”, TOCARIO B “okt”, CENTUM “k/x”, SATEM “s”


100: TOCARIO A “kant”, TOCARIO B “kante”, CENTUM “k/x”, SATEM “s”

Ciò fa arrivare alla conclusione che inizialmente le lingue fossero tutte lingue centum e che, ad un certo
punto, le lingue indoeuropee centro-orientali abbiano anteriorizzato in vario modo le occlusive velari, da
lingue centum divenendo lingue satem. Quest’innovazione però non si è estesa anche alle lingue dell’estremo
oriente e dell’occidente.

4 – Il ruolo del greco e del latino nella “modellizzazione” culturale e linguistica dell’Europa

Il greco e il latino hanno avuto la funzione di trasmissione del patrimonio culturale nell’Europa medievale e
moderna e di “modellizzazione” delle strutture linguistiche. L’espansione romana nel continente europeo e la
diffusione del latino va collocata tra la fine del III secolo a.C. e l’inizio del II secolo d.C.
Questa koinè greco-romana fu infranta tra il VI e VII secolo quando con l’imperatore bizantino Michele VIII
venne inventato un nuovo alfabeto (glagolitico) e crearono una lingua basata sul dialetto slavo-macedone e
greco-bizantino, il paleo-slavo.
Si ebbero così in Europa, a partire dal X secolo, tre grandi lingue: il latino, il greco, il paleo-slavo.

L’opposizione tra Roma e Costantinopoli, tra la Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente e la definitiva frattura
nel 1054 determinò la diminuzione del ruolo del greco in Occidente, a vantaggio del latino che funzionò
come lingua ecclesiastica, amministrativa e di insegnamento per molti secoli fino al XX secolo quando il
Concilio Vaticano II decretò la sostituzione del latino con i volgari.

5 – Le prime testimonianze dei gruppi linguistici romanzo, germanico e slavo in età medievale

Il Concilio di Tours dell’813 sancì il permesso della predicazione nei singoli volgari, romanzi e germanici;
nell’842 nei Giuramenti di Strasburgo, stipulati tra Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, i due sovrani
prestarono giuramento in proto-francese e in alto-tedesco antico.
Il primo esempio di lingua letteraria romanza si ebbe nel XIII secolo con le Chansons de geste di Chretien de
Troyes e, successivamente, col Cantar de mio Cid e con Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni
Boccaccio.

6 – La posizione dell’arabo, lingua di adstrato nell’Europa medievale

Nel 634 iniziò l’espansione territoriale degli arabi dalla penisola arabica verso Oriente e Occidente:
arrivarono in Persia, Egitto, costa mediterranea, Marocco e quasi tutta la penisola iberica e giunsero fino alla
Provenza dove furono sconfitti. Tra l’827 e l’878 si svolse il processo di conquista araba della Sicilia. I
sovrani cristiani della Spagna e del Portogallo organizzarono spedizioni militari finalizzate a liberare le
regioni iberiche (Reconquista).
Il dominio arabo comportò un processo di islamizzazione e di diffusione della lingua araba. Nell’Oriente
bizantino l’arabo fece retrocedere il greco mentre nell’Occidente latino l’arabo interagì con i sistemi
romanzi.
Nella Spagna arabizzata nacquero comunità multiculturali; tra queste vi furono i mozarabes, popolazione
ibero-romanza che rimase cristiana. Tramite il mozarabico molti elementi arabi sono passati nelle lingue
romanze e in altre lingue europee, ad es. alcade (giudice), azucar (zucchero).
Velari "palatalizzate" e velari "pure"

Abbiamo detto che le velari delle lingue centum corrispondono alle sibilanti delle lingue satem, allora perché
ci sono casi in cui si hanno velari sia in lingue centum che in lingue satem?

LINGUE CENTUM: latino “cruor”, greco “krévas”, gotico “hro”


LINGUE SATEM: lituano “kraujas”, russo “krov”, sanscrito “kravis”

Si è ipotizzato che l’indoeuropeo avesse in realtà due tipi di velari:


- velari palatalizzate, che si sono conservate nelle lingue centum e anteriorizzate nelle lingue satem;
- velari pure, che si sono conservate sia nelle lingue centum che in quelle satem;

Delle migliaia di lingue esistenti soltanto alcune decine possono considerarsi “grandi lingue”, con un
numero sostanzioso di parlanti e appoggiate a una tradizione culturale di ampio prestigio. Altri criteri per
valutare l’importanza delle lingue sono numero di paesi in cui una lingua è ufficiale o parlata;
l’importanza della lingua a livello internazionale, scientifico, economico, politico, culturale;
l’insegnamento nella scuola come lingua straniera; numero dei parlanti non nativi (che la parlano come
seconda lingua o straniera).

Delle 18 famiglie linguistiche, le famiglie linguistiche in Europa sono: lingue indoeuropee, lingue uraliche,
altaiche, caucasiche, afro-asiatiche (semitiche) + il basco.

La tipologia linguistica si occupa di individuare analogie e differenze nell’organizzazione e struttura delle


lingue attraverso lo studio degli universali linguistici, proprietà ricorrenti nella struttura delle lingue (es. di
universale linguistico: tutte le lingue hanno sia consonanti che vocali).
Gli universali linguistici si classificano in:
 Universali assoluti: generalizzazioni che non conoscono eccezioni
 Universali implicazionali: se A, allora B (se una lingua ha flessione, ha sempre derivazione)
 Gerarchie implicazionali: se A allora B, se B allora C, se C allora D…

Le lingue si classificano in un tipo linguistico: raggruppamento di sistemi linguistici aventi tratti strutturali
comuni. I modi per individuare tipi linguistici diversi sono basati sulla morfologia, più precisamente sulla
struttura della parola (tipologia morfologica). Ci sono quattro tipi morfologici fondamentali di lingua:

1. Lingue isolanti: lingua in cui la struttura della parola è la più semplice possibile, tendenzialmente
una parola è costituita da un morfema, quindi il rapporto morfemi:parole (indice di sintesi) è di
solito 1:1, è una lingua analitica perché l’indice è basso; non presentano morfologia flessionale e
poca morfologia derivazionale. I significati sono affidati al lessico o alla sintassi. Esempi sono
vietnamita, cinese, thailandese, hawaiano… Anche l’inglese ha caratteristiche isolanti
(morfologia flessionale ridotta): i morfemi flessionali sono solo suffisso plurale sostantivi, suffisso
comparativo e superlativo, 3 persona presente, marcature participio passato…

2. Lingue agglutinanti: lingua in cui la struttura della parola è complessa, parola costituita da più
morfemi facilmente individuabili e separabili, quindi l’indice di sintesi è 3:1, lingua sintetica
perché l’indice è alto. Esempi sono turco, ungherese, finlandese, basco, giapponese, swahili… Le
parole possono essere anche molto lunghe e sono costituite da una radice lessicale a cui sono
attaccati più affissi. Di solito sono i prefissi che segnalano se il morfo lessicale appartiene alla classe
degli oggetti, persone, luoghi…

3. Lingue flessive o fusive: lingue che presentano parole internamente complesse, costituite da base
lessicale (radice) semplice o derivata e da uno o più affissi flessionali. Indice di sintesi è intorno a
2:1 e 3:1. Ci sono fenomeni di allomorfia, fusione, omonimia, sinonimia e polisemia. Esempi: in
genere le lingue indoeuropee (italiano, greco, latino, russo) + anche inglese. Troviamo in italiano
anche fenomeni isolanti (auto civetta), agglutinanti (suffissi e prefissi), polisintetici (capostazione,
retrocederemmo…).

a. Si distingue un sottotipo introflessivo: i fenomeni di flessione avvengono dentro la radice


lessicale attraverso transfissi. Esempio: arabo.

4. Lingue polisintetiche: hanno la struttura della parola più complessa, parola formata da più morfemi
attaccati insieme, ma in una stessa parola compaiono due o più radici lessicali. Parole che tendono a
corrispondere a frasi intere in altre lingue: opposto delle lingue isolanti. L’indice di sintesi è 4:1
o superiore. Presentano fenomeni di fusione che rendono poco trasparente la struttura della parola.
Esempi: groenlandese, eschimese, lingue australiane…

a. Sono chiamate anche lingue incorporanti, caratterizzate dalla sistematicità con cui il
complemento oggetto (radice nominale) è incorporato dalle radici verbali

La tipologia sintattica è la classificazione delle lingue in base all’ordine dei costituenti principali della
frase. È nata nel ’63 in seguito alla presentazione di un saggio di Grimberg, che cercava di trovare una
correlazione su un campione di lingue non imparentate genealogicamente. Permetteva di individuare
correlazioni che si presentavano con una frequenza casuale.

Nelle lingue del mondo, una frase dichiarativa positiva ha il seguente ordine di frequenza a decrescere:
1. SOV  ordine più frequente; latino, turco…
2. SVO  italiano, francese, inglese…
3. VSO  arabo, ebraico…
4. VOS  malgascio…
5. OVS
6. OSV

Perché gli ordini predominanti sono SOV e SVO, e poi VSO? Una prima spiegazione è che generalmente
il soggetto di una frase coincide con il tema, e il tema nell’ordine dei costituenti informativi sta in prima
posizione (prima il tema di cui si parla, poi il rema, ciò che si dice a proposito). In più, agiscono due
principi:
 Il principio di precedenza: fra i costituenti nominali il soggetto deve precedere l’oggetto per la sua
priorità logica
 Il principio di adiacenza: verbo e oggetto devono essere contigui per la loro stretta relazione
sintattico-semantica e per la dipendenza diretta dell’oggetto dal verbo

Sono stati elaborati gli universali implicazionali, ovvero principi generalmente validi che collegano fra loro
le posizioni di diversi elementi nella frase e nei sintagmi.
Un esempio è: SOV > (AN > GN), ovvero se in una lingua ho l’ordine SOV e se l’AGG precede il NOME,
allora il GEN (c. specificazione) precederà il NOME che gli fa da testa.
Altro esempio è: VSO > (NA > NG), ovvero se in una lingua ho l’ordine VSO e se l’AGG segue il NOME,
allora il GEN seguirà il NOME che gli fa da testa.

Sono quindi stati riconosciuti due tipi fondamentali:


 Lingue VO: costruiscono a destra, con l’ordine testa-modificatore (es. gaelico)
 Lingue OV: costruiscono a sinistra, con l’ordine modificatore-testa (es. turco)

In ogni lingua c’è sempre un’incoerenza tipologica: l’italiano, ad esempio, è una lingua con ordine SVO,
ma che può presentare caratteri sia VO (come nome e poi genitivo) che OV (come avverbio e poi aggettivo).

L’ergatività è una particolarità che crea un altro parametro tipologico e che coinvolge morfologia,
sintassi e semantica. Esistono lingue che assegnano una marcatura diversa al soggetto a seconda che esso
sia soggetto di un verbo transitivo o di un verbo intransitivo. Sono le lingue ergative: attribuiscono una
rilevanza particolare alla funzione o ruolo semantico di “agente”. Vedono il complemento oggetto di frasi
transitive come il soggetto di frasi intransitive. I primi vanno al caso “assolutivo”, i secondi vanno al caso
“ergativo”, si dice quindi che contrappongono un sistema di casi assolutivo-ergativo a un sistema più
comune, quello nominativo-accusativo. Esempi sono: basco, eschimese, le lingue indigene di Australia…

Certe lingue strutturano la frase in base:


 alle funzioni sintattiche: lingue subject-prominent (lingue indoeuropee come turco e arabo)
 alla sintassi e alla struttura informativa: lingue subject e topic-prominent (giapponese, un
costituente marcato come tema e un altro diverso come soggetto)
 alla struttura informativa: lingue topic-prominent (cinese, semplice accostamento tema-rema, no
predicazione)

FARE ESERCIZI 7, 9, 10, 15, 19, 20, 22, 24, 25, 27, 28, 31, 35, 38

Problemi storico-linguistici: divergenze e convergenze

Le lingue europee adottano alfabeti differenti: l’alfabeto latino, cirillico e greco. I sistemi di scrittura
alfabetici non coprono l’intera gamma delle possibili forme di scrittura.
L’affermarsi della fonografia, circa nel I millennio a.C., costituisce una svolta: nei sistemi logografici
precedenti (es. geroglifici egizi) veniva raffigurato il significato del segno mentre nei sistemi fonografici si
riproduce il significante. Il cinese, però, si serve tuttora di un sistema logografico.

Tra i tre alfabeti oggi in uso sul suolo europeo, il più antico è quello greco che aveva una fisionomia simile a
quello attuale già nel XI secolo a.C. L’alfabeto fu inizialmente introdotto dai fenici in Grecia e
successivamente i greci apportarono alcuni cambiamenti come l’introduzione delle vocali.
L’alfabeto cirillico è una derivazione dell’alfabeto glagolitico utilizzato dai fratelli Cirillo e Metodio.

Un’altra innovazione fu l’introduzione dell’articolo, determinativo e indeterminativo, che portò alla perdita
della declinazione nominale. Nel mondo antico l’articolo costituiva una strategia piuttosto insolita ma, dato
che una lingua cambia non solo nel tempo e nello spazio ma anche all’interno della comunità che la adotta,
non è detto che un uso, come l’articolo, non registrato dalla scrittura sia assente dal repertorio della lingua.
Nel miceneo del XIV-XIII-XII secolo a.C. non è attestato l’articolo, nei successivi poemi omerici del VIII
secolo a.C. invece l’articolo ha uso stabile; la prima occorrenza certa di un articolo definito (la) appare nella
parodia della Lex Salica (751-768) ma si potrebbe supporre che l’articolo abbia compiuto i passi decisivi
verso una sistemazione già tra IV e VI secolo a.C.
L’articolo si forma in tre fasi: la prima è la trasformazione del dimostrativo, che diviene la marca
obbligatoria della definitezza estendendosi anche ai nomi; la seconda fase vede l’alternanza del valore
definito al valore non definito specifico; la terza fase, infine, consiste nel fatto che l’articolo accompagna il
nome in tutte le occorrenze e quindi non è più in grado di esprimere definitezza o specificità.

Un fenomeno della morfologia nominale è la progressiva semplificazione della declinazione nominale.


Secondo Watkins, 1997, il nome indoeuropeo era flesso per il numero, il caso e, negli aggettivi, per il genere.
Il singolare distingueva almeno otto, forse nove, casi. Questo inventario desinenziale si ritrova parzialmente
nelle lingue indoeuropee antiche, dove le suddivisioni degli elementi in base al loro segmento finale
determinarono le declinazioni.
In area romanza la declinazione nominale latina è azzerata e si conserva solo la distinzione tra singolare e
plurale, mentre in romeno si conserva, a causa del proprio carattere balcanico, la distinzione tra nominativo-
accusativo e genitivo-dativo.

La scomparsa delle desinenze comportò l’adozione di una strategia linguistica che permettesse di veicolare le
relazioni sintattiche all’interno delle frasi: l’ordine dei costituenti, prima libero, si stabilizzò e si fissò in
sequenze predefinite (ad es. in latino SVO=Soggetto Verbo Oggetto).

Nella morfologia verbale, in tutte le principali lingue indoeuropee si è verificata una ristrutturazione del
sistema delle coniugazioni verbali e l’emergere di modi e tempi nuovi come il condizionale o numerose
costruzioni linguistiche note col nome di forme perifrastiche (futuro, condizionale, perfetto).
Il futuro latino si avviò al declino lasciando il posto a forme alternative come “infinitivo+presente di habere”
che si ritrova in tutte le principali lingue romanze. Il condizionale, assente in latino, fece la sua comparsa in
seguito al successo dei futuri perifrastici; le forme che in seguito divennero condizionali si caratterizzavano
come futuri anteriori.

Problemi di tipologia linguistica


Le lingue possono essere classificate con due diversi procedimenti:
1. il primo è genealogico e colloca nella stessa famiglia le lingue caratterizzate da una comune
filiazione genetica (= dallo stesso ramo); inoltre non può prescindere dalla dimensione storica e
diacronica (= nel tempo);
2. il secondo è tipologico e si colloca su un piano sincronico (= contemporaneamente), dividendo e
analizzando le lingue in base al “tipo linguistico”. Il tipo linguistico si riferisce a un insieme di
proprietà unite gerarchicamente (+ o – importanti) e un insieme di strategie linguistiche che vengono
utilizzate per risolvere i problemi relativi alla comunicazione” (Ramat, 1980);

I grandi fenomeni comuni:

Tipologia dell’ordine dei costituenti maggiori nella frase dichiarativa assertiva:


con i tre costituenti Soggetto S, Oggetto O e Verbo V le combinazioni possibili sono sei: SOV (lingue indo-
arie, ugro-finniche tranne estone e finnico, basco, lingue turche, calmucco), SVO (lingue romanze, albanese,
neogreco, lingue germaniche, lingue slave, lingue baltiche, bretone, finnico, estone, maltese), VSO (lingue
celtiche tranne il bretone), VOS, OVS, OSV (nessuna attestazione nelle lingue europee).

Tipologia dell’ordine dei costituenti nei sintagmi nominale e ad posizionale:


con gli Universali individuati da Greenberg nel 1966 si nota che: le lingue con l’ordine dominante VSO sono
sempre preposizionali (l’oggetto del verbo segue il verbo); le lingue con l’ordine SOV sono posposizionali
(l’oggetto del verbo precede il verbo; es. in tedesco “lungo il fiume” sarebbe “il fiume lungo”, o in latino
“mecum”); nelle lingue con preposizioni, il genitivo segue quasi sempre il nome reggente (es. il cane di
Monica), mentre nelle lingue con posposizioni esso lo precede quasi sempre (es. Monica’s dog); se una
lingua ha l’ordine SOV e il genitivo segue il nome reggente, allora allo stesso modo l’aggettivo segue il
nome.

Tipologia morfologica: questa classificazione era proposta già all’inizio dell’Ottocento ma i grandi studiosi
sono stati Comrie (1981) e Sapir (1921). Tradizionalmente la tipologia morfologica individua quattro tipi
possibili: isolante, agglutinante, flessivo-fusivo, polisintetico-incorporante. La quasi totalità delle lingue
europee si divide tra i tipi agglutinante e flessivo-fusivo.

Lingue isolanti: non vi sono nello scenario linguistico europeo ma un esempio è il cinese. Queste lingue non
hanno una struttura morfologica, la parola non ha una struttura interna e non è analizzabile in costituenti o
morfemi. Morfema: il più piccolo elemento dotato di significato in una parola (es. “lupi” o “lupo”). Le
informazioni grammaticali vengono quindi portate da altre parole mono-morfemiche; un aspetto peculiare è
quindi la corrispondenza biunivoca tra morfema/parola e funzione semantica.

Lingue agglutinanti: lingue turche, il basco, il calmucco, l’ungherese, in parte estone e finnico. In queste
lingue la parola è formata da più morfemi e consente un’analisi dei costituenti; ogni morfema ha una sola e
ben definita funzione. Come dice Nocentini (1938) una parola agglutinante è trasparente e prevede
l’aggiunta, in successione lineare, di tanti suffissi quante sono le categorie obbligatorie espresse. Es.:
nell’esperanto: “patro” significa padre, “patrino” significa madre, “patrinoj” significa madri

Lingue flessivo-fusive: lingue celtiche, lingue romanze, lingue slave, lingue germaniche, lingue baltiche,
l’albanese, il neogreco e parzialmente anche il finnico, l’estone e il maltese. In queste lingue si nota la
fusione di più categorie semantico-funzionali in un unico morfema; i confini tra un morfema e l’altro
perdono visibilità, la segmentazione diviene particolarmente ostica e le eccezioni prolificano.

Lingue polisintetiche (e incorporanti): non vi sono nello scenario linguistico europeo ma un esempio è
l’eschimese siberiano. In queste lingue si concentrano all’interno della stessa unità moltissimi morfemi,
lessicali o grammaticali, giungendo a condensare in una sola parola informazioni che in italiano
richiederebbero la costruzione di un’intera frase.
La questione della lingua inglese: dovremmo sempre avere l’accortezza di parlare di lingue
tendenzialmente o prevalentemente isolanti, agglutinanti etc. Ad esempio, a quale tipo morfologico
appartiene l’inglese? Potrebbe sembrare una lingua di tipo isolante, ad es. gli aggettivi sono invariabili nel
numero e nel genere, l’assenza di marche di genere è diffusa in molti nomi; il superlativo relativo o il
comparativo degli aggettivi o il futuro dei verbi richiedono il ricorso ad altre parole monomorfemiche e
invariabili (most, more, will). Tuttavia, il comparativo degli aggettivi può realizzarsi anche attraverso
l’aggiunta del morfema –er, come nei tipi agglutinanti; lo stesso accade nella pluralizzazione dei nomi con
l’aggiunta di –s o nel passato con l’aggiunta di –ed. Sono inoltre flessivo-fusive le forme pronominali di
terza persona singolare, le uniche in cui permangono tracce residuali di un antico sistema di genere tripartito
(he, she, it).
Quindi in inglese troviamo numerosissime strutture di tipo isolante, molte formazioni di matrice agglutinante
e una quantità non indifferente di elementi flessivo-fusivi rendendo di fatto impossibile ascrivere l’inglese ad
un tipo morfologico, anche ragionando in termini tendenziali.

Altri tratti tipologici a livello morfologico:


Sistemi di caso nominativo-accusativo: sono tuttora conservati nelle lingue slave, nel romeno, nelle lingue
germaniche occidentali ad eccezione dell’inglese, l’albanese, il neogreco, le lingue celtiche, le lingue ugro-
finniche, le lingue turche, il calmucco e il basco. Vi è una prevalenza dei sistemi nominativi-accusativi ma il
basco utilizza il sistema ergativo-assolutivo.

Flessione: suffissazione vs prefissazione: tutte le lingue d’Europa, tranne il maltese, usano maggiormente la
flessione suffissale rispetto a quella prefissale. Il turco è quasi totalmente suffissale in quanto impiega un
solo processo di prefissazione, la reduplicazione della prima sillaba nell’intensificazione di aggettivi e
avverbi (cabuk=veloce, carcabuk=molto veloce).

Armonia vocalica: è un processo di assimilazione a seguito del quale i tratti della vocale di una sillaba
iniziale si estendono alle vocali delle sillabe seguenti, indipendentemente dalla loro collocazione nel
morfema o in eventuali suffissi. Tra le lingue d’Europa, l’armonia è assente dalla famiglia indoeuropea e
caratterizza invece le lingue turche, le lingue uraliche, le lingue mongole (calmucco).

Il quadro linguistico europeo è caratterizzato dalla presenza di molti sistemi linguistici diversi,
geneticamente e tipologicamente; vi è quindi un’elevata frammentazione causata dalla conformazione del
territorio e dalle vicende storiche. In Europa si evidenzia la presenza di due aree linguistiche esemplari:
l’area balcanica e l’area di Carlo Magno.

Un’area è definita tale per tre elementi: la presenza di più lingue, non tutte imparentate; la loro
collocazione in zone geograficamente contigue; la condivisione, da parte di esse, di alcuni tratti linguistici
significativi che non siano dovuti a tendenze generali o a familiarità genetiche.

Nell’area balcanica si concentra il maggior numero di lingue appartenenti a gruppi linguistici diversi ed è a
sua volta divisa in due sub aree segnate dall’influsso greco- bizantino e da quello latino-romano e romano-
germanico. I fenomeni che si notano sono detti “balcanismi primari” e “balcanismi secondari”: sul piano
fonologico, la presenza di un sistema vocalico comune (detto neogreco) articolato su cinque fonemi vocalici;
morfologicamente, si ha la coincidenza tra genitivo e dativo, il parziale mantenimento del vocativo, la
formazione di un futuro analitico, la formazione di comparativo e superlativo analitici e un particolare tipo di
numerazione per i numerali da 11 a 19. Nel lessico i fenomeni di coincidenza tra le lingue balcaniche sono
frequenti e si tratta maggiormente di elementi di tradizione greca (bizantina, medievale e neogreca) e di
tradizione turca.

Nell’area di Carlo Magno convergono invece quelle lingue del suolo europeo che tendono a somigliarsi
sempre più; l’insieme di questi tratti linguistici costituisce il cosiddetto Standard Average European (SAE)
(Benjamin Lee Whorf, 1956) di cui sono illustrati i dieci tratti più rappresentativi:
1) somiglianze lessicali con la presenza di un comune lessico di matrice greca e/o latina e la presenza di
strategie nella formazione di parole complesse, ad es. l’uso di affissoidi quali filo, antropo, logo,
biblio, grafo, bio etc;
2) ordine dei costituenti maggiori della frase dichiarativa assertiva relativamente rigido SVO
3) presenza di preposizioni e di genitivi postnominali
4) uso di “avere” ed “essere” come ausiliari, cioè nella formazione di alcuni tempi verbali complessi;
questo tratto non caratterizza le lingue non indoeuropee d’Europa che, con eccezione del basco, non
hanno il verbo “avere”
5) presenza simultanea di articoli definiti e indefiniti; lingue come il finnico e il turco sono totalmente
prive di articoli definiti;
6) carattere non pro-drop; le lingue pro-drop (come italiano e spagnolo) tollerano l’omissione del
pronome personale in posizione di soggetto nella frase dichiarativa, nelle lingue non pro-drop (come
inglese, francese e tedesco) la mancata espressione del soggetto produce stringhe agrammaticali;
7) agente e soggetto possono divergere;
8) la forma passiva consente l’espressione dell’agente;
9) accordo delle forme finite del verbo con il soggetto (in inglese l’accordo è realizzato
morfologicamente solo alla terza persona singolare);
10) paradigmi di caso fortemente semplificati e di tipo nominativo-accusativo, esemplare in questo caso
l’italiano che ha eliminato tutto il sistema casuale.

7 – MUTAMENTO E VARIAZIONE NELLE LINGUE

La lingua lungo l’asse del tempo


Le lingue cambiano nel tempo, generando altre lingue o morendo (es. del LATINO). Le cause esterne che
contribuiscono a mutare una lingua possono essere rappresentate, ad esempio, dal contatto (avvenuto per
un’invasione) fra due lingue differenti (Es. siciliano: spagnolo, arabo, latino, greco). Le cause interne si
devono, invece, a tendenze regolarizzare, ottimizzare e semplificare, sia dal punto di vista articolatorio che
da quello percettivo (Es. “noctem” “notte”, assimilazione regressiva che semplifica la pronuncia) le strutture
linguistiche.

Le lingue che cambiano con lo scorrere del tempo, cambiano in diacronia; studiarne l'evolversi diacronico è
ciò che la linguistica storica (o diacronica) fa, differenziandosi dalla linguistica sincronica (che studia un
fenomeno all'interno del momento cronologico selezionato).
Il cambiamento può essere studiato anche secondo il parametro diatopico o geografico (l'italiano parlato a
Torino oggi è diverso da quello parlato a Palermo oggi). Es. parole in suffisso "-aro" (come paninaro,
metallaro...), di provenienza centromeridionale, sono entrate nell'italiano degli ultimi anni del Novecento.
Ma possiamo risalire diacronicamente ad individuare parole con questi suffissi sia nel Novecento (come
magliaro, venditore ambulante di maglie), sia nel Cinquecento (notaio presenta la forma notaro, sino a
risalire al suffisso latino - ARIUS che serviva in questa lingua a formare nomi di mestiere).

Le mutazioni di una lingua sono visibili lungo l’asse del tempo, nella DIACRONIA. Ogni lingua riconosce
cambiamenti nel suo lessico e nelle sue strutture in relazione al passare del tempo e alle modificazioni che
parallelamente avvengono nella storia della cultura e della società.
All’insieme dei cambiamenti di una lingua si dà il nome di “mutamento linguistico”, e il settore che se ne
occupa è la linguistica storica. Una lingua è di fatto continuamente in movimento. Il mutamento linguistico
è più lento dei mutamenti socioculturali.
Cambiamenti locali multipli possono sommarsi e ingrandire via via le differenze fra uno stato di lingua e
l’altro, al punto tale che ad un certo momento, quando uno stato di lingua risulta cambiato rispetto ai
precedenti da non essere più riconoscibile dai parlanti, si è in presenza di una nuova lingua. Le cause del
mutamento sono molteplici: motivazioni interne alla lingua e fatti ambientali, storici, demografici,
economici, socioculturali. I cambiamenti portano anche alla morte di lingue: una lingua muore quando non
ha più parlanti e viene sostituita totalmente da un’altra lingua. Spesso la lingua che si estingue lascia tracce
sulla lingua che le subentra, nella fonetica, lessico… Sono fenomeni di sostrato. Sostrato: influenza di una
lingua precedente sulla lingua successiva in una comunità parlante (es. dialetti Italia nord-ovest, sostrato
celtico, lingue tribù galliche prima dell’invasione romana e diffusione latino).

Simbolo > in linguistica: diventa / dà luogo a


Simbolo < in linguistica: proviene da
La forma che sta dal lato aperto della freccia si chiama “etimo”, ovvero forma originaria più antica da cui la
forma più recente proviene

Linguistica storica e linguistica romanza

La geografia linguistica può essere usata solo con le lingue vive, osservabili grazie a contatto diretto coi
parlanti (che ci permette di stabilire se accanto a forme “normali”, non esistano anche forme alternative).
Con le lingue morte questo non è possibile; anche quelle documentate da più testi si basano comunque su
elementi costruiti con forme standardizzate che escludono le variabili più colloquiali o popolari e non
tengono conto della complessa stratificazione linguistica su base geografica e sociale.
Analizzando il latino dai testi che abbiamo, notiamo che non sappiamo nulla della variabilità diatopica
(vari tipi di latino parlati nelle varie località) e della variabilità diastratica (vari tipi di latino parlati nella
stessa località, diversi a seconda dello status sociale di appartenenza); non sapremmo nemmeno affermare se
il latino era l’unica lingua usata in un dato luogo, in un dato momento storico.

Quello che sappiamo (ed è poco) delle due variabilità, ci è arrivato:

- per puro caso: perché quel dato elemento geo/sociolinguistico occorre a quel dato autore per quella data
opera. Cicerone usa “nobiscum” per dire “con noi” perché “cum nobis” gli suona sconcio. Questo ci fa
capire che molto probabilmente, nel I sec. a. C. si tendeva a pronunciare “cum nobis” senza pause,
generando assimilazione che porta ad avere “cunnobis” e che questa pronuncia ricordasse qualcosa di
malizioso per assonanza con “cunnus” (termine latino per l’organo femminile).
- in modo frammentario: sappiamo da Sant’Agostino che nel IV-V sec d.C. i contadini delle zone rurali di
Cartagine non parlavano latino, ma solo punico. Non sappiamo però com’era la situazione linguistica del
sud-Italia, dov’era fiorita la civiltà magno greca.
- con distribuzione lungo un arco di mezzo millennio: non usabili per avere un quadro sincronico degli usi
del latino.

Le lingue vive si mostrano a noi nel loro continuo variare; le lingue morte come fisse, senza irregolarità.

Linguistica spaziale (le norme areali)

possiamo affermare che, fino alla metà del ‘900, ogni novità/variazione linguistica partiva dal centro delle
città per poi espandersi a onda nelle periferie. È possibile quindi collegare la conservazione/innovazione al
come si dispongono le forme linguistiche nello spazio geografico. È quello che ha fatto Matteo Bartoli con
la formulazione delle 4 norme areali; dei 4 principi che, in presenza di 2 o più forme concorrenti,
permettono di stabilire in linea di massima quale delle due forme è più arcaica:
1. la forma conservata nell’area meno esposta alle comunicazioni. Se è vero che le novità si
diffondono seguendo le grandi vie di comunicazione, è anche logico che nelle aree escluse dalla
comunicazione queste novità faticheranno ad arrivare
2. la forma conservata nelle aree laterali (periferiche rispetto al centro del territorio). Se in due aree
laterali, periferiche e distanti, troviamo la stessa variante linguistica in contrapposizione con quella
sviluppatasi nella zona centrale, allora sarà ovvio che quella delle zone periferiche rappresenta la
variazione più arcaica
3. la forma conservata nell’area maggiore (nella gran parte del territorio preso in esame)
4. la forma conservata nell’area seriore (laddove la data varietà linguistica è arrivata più tardi
rispetto al momento in cui è arrivata nel territorio a cui è collegata). Se un gruppo di coloni si
spostano in un altro territorio, le innovazioni della lingua madre arriveranno a loro più tardi o mai.

Le norme si applicano nell’ordine in cui sono state inserite sopra, se la prima norma non è quella giusta, si
passa la seconda (e così via) finché non troviamo quella applicabile.

Fenomeni di mutamento fonetico (sfuggono alla consapevolezza del parlante):


 ASSIMILAZIONE: prevede che due elementi fonici contigui si avvicinino dal punto di vista
articolatorio o in parte (assimilazione parziale) o completamente (assimilazione totale). Es. rispetto
al latino CREPARE, nello spagnolo QUEBRAR riscontriamo la sonorizzazione e fricativizzazione
di -P- che passa a -B-. fenomeno di assimilazione perché una consonante occlusiva e sorda come -P-,
passa a fricativa e sonora poiché si viene a trovare fra due vocali. Abbiamo anche la metatesi di R
dalla prima nella seconda sillaba.
 METAFONIA: è un fenomeno fonologico assimilatorio a distanza che riguarda solo una parte dei
dialetti italiani. Consiste nella modificazione del suono di una parola per l’influenza della vocale
finale sulla vocale tonica, in un processo di assimilazione. Es. dialetto napoletano
 DISSIMILAZIONE: fenomeno contrario all’assimilazione. Differenziazione tra foni quando due
foni simili non contigui in una parola diventano diversi, es. LAT. venenum > IT. Veleno. La gamma
dei fenomeni assimilatori è vastissima:
o assimilazione regressiva: il secondo elemento condiziona il primo: lat factu > ita fatto
o assimilazione progressiva: il primo elemento che condiziona il secondo: lat mundu > nap
múnn
o assimilazione bidirezionale: lat amicu> spa amigo per azione congiunta di due vocali,
quella prima e quella dopo l'elemento modificato
 METATESI: spostamento dell’ordine dei foni di una parola (LAT. fabula > IT. fiaba, che
presuppone forma latina flaba)

Fenomeni di caduta:
 AFERESI: caduta vocali in posizione iniziale, es. LAT. apotheca > IT. bottega
 SINCOPE: caduta vocali in posizione interna, es. LAT. domina > IT. donna (assimilazione mn >
nn)
 APOCOPE: caduta vocali posizione finale, es. LAT. civitate (> civtate > cittate > cittade) > IT. città

Fenomeni di aggiunta:
 EPENTESI: aggiunta di foni nel corpo di una parola, es. LAT. baptismum > IT. battesimo
 PROTESI: aggiunta di foni all’inizio di una parola, es. LAT. statu > SPAGN. estado
 EPITESI: aggiunta di foni alla fine di una parola, es. LAT. cōr > IT. cuore (+ dittongazione)

I neogrammatici: l'ineccepibilità̀ delle leggi fonetiche

I neogrammatici sono un gruppo di studiosi creato da Osthoff e Brugmann. Sono strettamente collegati con
il concetto di “ineccepibilità delle leggi fonetiche” se in una data lingua, “a” diventa “b” in un contesto “x”,
ogni altra “a” che troviamo nel contesto “x” dovrà dare “b”, senza eccezioni, in ogni parlante di quella
lingua. Si giustifica l’ineccepibilità con le abitudini articolatorie e con la conformazione della glottide, per
cui apparati fonatori abituati per generazioni a certe produzioni fonetiche tenderanno intrinsecamente a
perpetuarle.
Una particolare applicazione del “principio di abitudine articolatoria” porta alla formulazione della teoria
del sostrato: ogni rappresentazione fonetica, che va contro le abitudini articolatorie, è spiegata come frutto
del condizionamento articolatorio da lingue precedenti (sostrato).
Il concetto di “legge fonetica” serve a prendere atto dell’uniformità e della regolarità che i fenomeni
dell’evoluzione fonetica presentano; il rendere queste leggi ineccepibili è problematico perché esistono delle
eccezioni e vanno spiegate.

Leggi fonetiche: mutamenti fonetici regolari che nell’evoluzione delle lingue toccano intere serie di parole,
nelle quali un fono si trasforma sistematicamente in un altro fono. Aiutano a classificare le lingue in
famiglie, rami, gruppi. Ammettono però numerose eccezioni dovute a fenomeni di contatto linguistico.
Un esempio è la legge di Grimm (prima delle rotazioni consonantiche) : passaggio dal fono dentale sonoro
(d) indoeuropeo originario al fono sordo (t) tipico delle lingue germaniche (es. forme latine – inglesi,
duo/two).

- Legge di Grassman: se due aspirate ricorrono in sillabe contigue, per dissimilazione, la prima delle due si
deaspira (perde l’aspirazione). Le occlusive sonore aspirate di greco e sanscrito sono sottoposte a questa
legge.
raddoppiamento con consonante con radice non aspirata: didomi (d = radice)
raddoppiamento con consonante con radice aspirata: tithesi < dhidheti (la seconda resta “th”, ma la prima
diventa “t”).
Kh + s = K In condizioni sfavorevoli (posizione anticonsonantica o fine parola) si ha la Ph + s = P
semplificazione del suono marcato in suono non marcato.

- Legge di Verner: si presenta come eccezione alla legge di Grimm. * Un’occlusiva sorda, preceduta da
fricativa, resta occlusiva: (i.e) esti > ist (germ) invece di isth. “s” è fricativa.
* occlusiva sorda (i.e) diventa, non una fricativa sorda, ma una fricativa sonora: fater > fadar invece di
fathar. Questa anomalia fu spiegata da Verner stesso nella seconda metà dell’800; Verner evidenziò che per
diversificare gli esiti (sorda/sonora) devo guardare la posizione in cui in origine le antiche occlusive si
trovavano e l’accento mobile (accento che non si trova nella stessa posizione in ogni termine, ma varia di
parola in parola. La sede dell’accento i.e., se dubbia, è data dalla posizione dell’accento comune in greco e
sanscrito). L’occlusiva sorda si evolve in fricativa sonora se:
a) in origine, l’occlusiva sorda si trovava tra 2 elementi sonori (vocali, nasali/liquida + vocale).
B) le occlusive sorde non erano immediatamente precedute dall’accento i.e.

- Legge di Collitz – de Saussure: dimostrano, separatamente, l’esistenza nel sanscrito e nell’indoeuropeo


del sistema vocalico a 3 timbri (e, a, o), rimasti più o meno conservati in latino e greco. Timbri posseduti
anche dal sanscrito arcaico e che, in una sua versione più recente, sono stati fusi in un unico timbro “a”, ma
solo dopo che “e” aveva palatalizzato la labiovelare e la velare pura. kw > k + e > ce.
Per spiegare le eccezioni i neogrammatici usano il:
- prestito: parola di una lingua che entra a far parte del patrimonio lessicale di un’altra lingua, mantenendo le
caratteristiche fonetiche della lingua di partenza.
- analogia: processo di regolarizzazione per cui, al posto della forma attesa, ne troviamo un’altra che può
essere:
a) modellata su forme concorrenti all’interno dello stesso paradigma.
b) ottenute tramite allineamento a moduli, inizialmente estranei, che hanno riscontrato il favore dei parlanti.
“Pono, ponunt” (lat) > “pongo, pongono” (ita) = La “g” viene spiegata, allineando il paradigma di
“pono” a quello di vb con “venio”. Per cui se “viene, veniamo” equivale a “pone, poniamo”, “vengo,
vengono” darà “pongo, pongono”.

Oggi sappiamo che il mutamento fonetico non è né ineccepibile (senza eccezioni, nel senso che in una data
lingua, se x passa a y allora virtualmente ogni x deve fare la stessa cosa), né istantaneo (nel momento in cui
la lingua si rivolge al passaggio da x a y virtualmente ogni x di quella lingua può considerarsi divenuto y in
quel momento). Il mutamento può sorgere in un punto qualunque della lingua e di qui diffondersi
progressivamente nel resto del sistema, di solito generalizzandosi (arrivando a coinvolgere ogni punto
suscettibile d'essere coinvolto), ma a volte interrompendo la sua espansione e dunque mancando di
raggiungere la totalità dei casi.

Fenomeni di mutamento fonologico (mutamenti rilevanti per quel che attiene al sistema di opposizioni
secondo cui, in ogni lingua, si organizzano le unità distintive minime):
 FONOLOGIZZAZIONE: allofoni di un fonema acquisiscono valore distintivo e diventano fonemi
autonomi, es. le affricate palatali italiane (tʃ e dʒ) sono l’evoluzione dei fonemi latini /k/ e /g/
 DEFONOLOGIZZAZIONE: fonemi perdono il loro valore distintivo e diventano allofoni di un
altro fonema; a volte porta a una fusione di fonemi, come vocali lunga e breve latine che in italiano
si fondono in un solo fonema
 PERDITA DI FONEMI: l’approssimante laringale del latino “H” è scomparsa in italiano, dove la
lettera H non è associata alcuna realtà fonica

I mutamenti fonetici-fonologici possono anche consistere in spostamenti a catena che coinvolgono intere
serie di foni o fonemi. Esempio di mutamento a catena sono le rotazioni consonantiche, di cui la prima è
la legge di Grimm. La seconda rotazione caratterizza l’evoluzione del tedesco: le occlusive sorde p, t, k
diventano affricate in inizio di parola e in posizione postconsonantica.

Fenomeni di mutamento morfologico:


 PERDITA DEL CASO: nel passaggio dal latino all’italiano viene a perdersi la categoria flessionale
del caso. Mentre in latino si distingue LUPUS nominativo e LUPUM accusativo, in italiano LUPO è
indifferenziato per caso
 ANALOGIA: estensione di forme a contesti in cui esse non sono appropriate, es. IT. “volere” non
può provenire dall’infinito LAT. “velle”, ma risulta dall’applicazione (a un caso che non la
prevedeva) della desinenza regolare comune ai verbi della seconda coniugazione -ere. L’analogia
elimina le eccezioni e serve a regolarizzare
 RIANALISI: formazione nelle lingue romanze del passato prossimo, inesistente in latino (nuova
analisi del verbo habere)
 GRAMMATICALIZZAZIONE: mutamento per cui un elemento del lessico diventa un elemento
della grammatica, lessema che perde valore semantico lessicale e viene assorbito dalla grammatica.
Es. verbo “habere”, passaggio da parola piena con significato lessicale autonomo a parola vuota
ovvero verbo ausiliare

Mutamento sintattico: concerne di solito l’ordine dei costituenti (SOV…)

Mutamento lessicale e semantico:


 Arricchimento del lessico (attraverso meccanismi di formazione di una parola)
 Perdita di lessemi

Mutamenti semantici: un diverso significante è riferito a un significato esistente, o viene attribuito un


nuovo significato a un significante esistente
 Per somiglianza: LAT. “testa” vaso di terracotta > IT. “testa” capo
 Per contiguità: LAT. “volumen” rotolo di pergamena > IT. “volume” libro, tomo
 Paretimologia: risemantizzazione di una parola mediante la rimotivazione del suo significato che la
rende più trasparente. Processo per cui il parlante linguisticamente incolto avvicina una parola per lui
“nuova” a una parola con cui ha maggiore familiarità.
Es: l'it. vedetta: luogo elevato dal quale si può vigilare; chi sorveglia essendo alla vedetta. Questa
parola verrebbe istintivo collegare al verbo "vedere" ma essa in realtà nasce dalla modificazione
dell'antica parola "veletta": 'vela più piccola dell'albero di maestra', alla cui altezza si issava, per
vigilare, il marinaio durante il suo turno di guardia. Poiché in ambito non marinaresco, l'espressione
essere alla / di veletta risultava poco perspicua, il parlante di "terra" ha pensato di correggere 'veletta'
in un chiaro 'vedetta' più comprensibile ai parlanti comuni. Ad essere coinvolti nella paretimologia
sono in prima istanza quei significati coi quali il parlante medio ha scarsa, se non nulla,
dimestichezza sia perché sono prestiti da altre lingue o perché sono usciti dall'uso normale o
provengono da settori specialistici.
 Tabuizzazione: interdizione di parole relative a determinate sfere semantiche che vengono sostituite
da altre parole di significato non diretto, dette eufemismi.

Mutamenti pragmatici: sistema dell’allocuzione passato dal latino “tu” singolare e “vos” plurale alla
bipartizione italiana fra “tu”, allocutivo confidenziale, e “voi”, allocutivo di rispetto. Poi si è passati a “tu” di
confidenza, “voi” di cortesia e “lei” di formalità, finché in italiano moderno si è fisata l’opposizione fra “tu”
informale e “lei” formale.

Le mutazioni di una lingua sono visibili anche in un dato periodo temporale, nella SINCRONIA.
La variazione interna della lingua è il campo specifico di azione della sociolinguistica, che studia cosa
accade quando un sistema linguistico è calato nella realtà concreta degli usi che ne fanno i parlanti.
La variabile sociolinguistica è un’unità del sistema linguistico (una pronuncia, un costrutto, ...) che ammette
realizzazioni diverse EQUIPOLLENTI (hanno lo stesso valore e non cambia il significato), ciascuna delle
quali è in correlazione con qualche fatto extralinguistico.

DIMENSIONI DELLA VARIAZIONE SINCRONICA: le varianti possono correlare con diversi fattori
sociali, extralinguistici, della società nel suo insieme o del contesto situazionale e pragmatico; e le varietà di
lingua si caratterizzano secondo 4 dimensioni di variazione, a seconda del tipo generale di fattore sociale
con cui correlano.
 DIATOPIA: variazione nello spazio geografico (attraverso luoghi in cui la lingua è parlata)
 Fenomeni della variazione diatopica:
 Italiani regionali: varietà diatopiche dell’italiano, es. fiorentino: occlusiva velare sorda
K, in posizione intervocalica, diventa la glottide H
 Geosinonimi: termini differenti usati in diverse regioni d’Italia per designare lo stesso
oggetto/concetto, es. “anguria” (NORD) = “cocomero” (CENTRO) = “melone d’acqua”
(SUD)
 Regionalismi semantici: significati particolari assunti da un lessema in una determinata
area, es. “salire” in Campania ha anche valore transitivo, col significato di “portare su”

 DIASTRATIA: variazione nello spazio sociale (attraverso classi o strati sociali)


 Fenomeni della variazione diastratica (variazioni frequenti in parlanti con scarso grado di
istruzione):
 Fonetica: pronunce italiane influenzate dal dialetto, es. birra” a Roma viene pronunciata
BIRA (scempiamento della r intervocalica)
 Morfologia: generalizzazione di forme, es. regolarizzazioni analogiche di paradigmi
verbali “venghino” per “vengano”
 Sintassi: costruzione del periodo ipotetico dell’irrealtà con doppio condizionale, es. “se
potrei, farei ...”

 DIAFASIA: variazione attraverso le diverse situazioni comunicative


 Fenomeni della variazione diafasica (prevede i vari registri e sottocodici):
 Variazione di registro: registri = varietà diafasiche dipendenti dal carattere FORMALE
o INFORMALE dell’interazione comunicativa. I registri si dispongono su una scala che
va appunto da un estremo ALTO, quello delle situazioni formali, ad un estremo BASSO,
quello delle situazioni informali. Es. nel lessico: “andare” informale / “recarsi” formale
 Variazione di sottocodice: sottocodici = detti LINGUAGGI SETTORIALI, sono invece
le varietà diafasiche dipendenti dall’argomento di cui si parla. I sottocodici sono
caratterizzati prevalentemente da termini scientifici o tecnici (TECNICISMI). Es.
sottocodici della linguistica: “fonema, morfema, coppia minima...”

 DIAMESIA: riguarda la variazione attraverso il mezzo o canale della comunicazione, con opposizione
fra orale e scritto. La lingua parlata tende a coincidere con il registro informale, mentre la lingua scritta
con il registro formale.
 Nella diamesia vi sono due sottodimensioni fra loro incrociate:
 Una connessa al carattere fisico del mezzo o canale (FONICO – GRAFICO)
 Una connessa all’organizzazione linguistica interna del messaggio (PARLATO –
SCRITTO)

Ogni dimensione rappresenta un asse di variazione della lingua su cui si possono collocare le diverse varietà
di lingua. L’insieme delle varietà di lingua lungo cui si articola una lingua in un dato periodo temporale e la
loro collocazione lungo i diversi assi di variazione può essere chiamato “architettura” di quella lingua.
L’insieme di varietà linguistiche presenti in una comunità costituisce il repertorio linguistico. Le varietà che
formano il repertorio possono essere della stessa lingua o di più lingue diverse. Si hanno quindi repertori
monolingui e repertori plurilingui (bilingui se ci sono due lingue o multilingui). Es. BOLZANO (tedesco –
italiano).
Una lingua standard è una lingua codificata, dotata di una norma prescrittiva, con un repertorio di manuali
di riferimento (grammatiche, dizionari…) e di testi esemplari, per lo più con una tradizione letteraria
prestigiosa e di lunga data. È tendenzialmente unitaria, è adottata come modello per l’insegnamento
scolastico, ed è ritenuta dai parlanti della comunità la “buona” e “corretta” lingua.
In un repertorio linguistico, oltre alla lingua standard, ci sono anche dei dialetti, ovvero varietà di lingua di
uso prevalentemente orale, di diffusione demografica inferiore rispetto alla lingua standard, strettamente
imparentati con la lingua standard ma aventi struttura autonoma (es. dialetti italiani / italo-romanzi che sono
lingue sorelle dell’italiano).
Ci sono anche le minoranze linguistiche, non imparentate con la lingua standard e rappresentanti una
cultura ed una tradizione etnica diverse da quella dominante in un paese. Es: minoranza linguistica slovena in
provincia di Trieste e Gorizia.

Quando c’è una situazione di bilinguismo si parla di diglossia, situazione in cui una delle lingue è impiegata
negli usi formali/ufficiali ed è insegnata a scuola (“varietà H/A” = high, mentre l’altra è impiegata nella
conversazione quotidiana e negli usi informali (“varietà L” = low). Es. arabo classico (tg, televisione,
conferenze, scuola) vs varietà locali di arabo (casa, amici).
Il termine dilalia indica una situazione molto più frequente e tipica della realtà italiana, in cui la varietà alta
può essere usata in tutti gli ambiti, formali e informali, mentre la varietà bassa è riservata esclusivamente a
usi orali e familiari accanto alla prima. Es. triestino (parlato in famiglia, ma anche a scuola, nei ricevimenti
– usato in contesto sia informale che formale).

STRATIFICAZIONE DEL LESSICO

Nella costituzione del lessico (ci riferiamo virtualmente a ogni lingua) possiamo individuare sostanzialmente
4 strati:
1) strato ereditario;
2) strato dei prestiti;
3) strato delle formazioni onomatopeiche e fonosimboliche;
4) strato di neoformazioni, quelle derivate per mezzo di regole sincronicamente produttive

Lo strato ereditario è quella percentuale di lessico che ogni lingua riceve dal suo immediato antecedente
(lingua-madre). Sappiamo che esistono settori lessicali più stabili di altri: i numerali, la terminologia
parentale, i nomi delle parti del corpo. Non si possono scombussolare questi nomi senza ripercussioni su
tutto il loro gruppo. Se confrontiamo i numerali delle lingue romanze ci accorgiamo infatti delle loro
somiglianze. Prendiamo un altro esempio. latino = domus, sardo = domu, italiano= duomo.
Indipendentemente dalla percentuale cui può arrivare, lo strato ereditario svolge il ruolo di fornire la
morfologia flessiva (cioè le "marche grammaticali") a tutto il lessico (prestiti, onomatopee, neoformazioni).

Le corrispondenze fonetiche fra due lingue A e B si dicono sistematiche quando ad ogni X della lingua A,
nella lingua B può corrispondere X o Y o Z, ma in modo tale che la corrispondenza sia riconducibile a regole
tali da non entrare reciprocamente in concorrenza.

Strato dei prestiti è quello costituito dalle voci che una data lingua assume dalle lingue con le quali è a più
contatto. Il maggior numero di prestiti si ha quando due lingue vengono a trovarsi in contatto e una delle due
è dotata di un prestigio superiore all'altra: la lingua di minor prestigio si apre a prestiti dalla lingua più
prestigiosa, non soltanto per necessità ma per un intento "mimetico", ossia dal desiderio di partecipare al
prestigio sociale (si pensi ai tecnicismi angloamericani come b&b).
I prestiti possono avvenire a vari livelli: se il contatto è fortemente squilibrato e il flusso di prestiti è a senso
unico, si creano le condizioni in cui lo strato ereditario non riesce più a imporre la sua morfologia alle voci di
prestito: poniamo una lingua B che riversi in una lingua A, le voci di prestito diverranno sempre più
numerose, rifiuteranno di adeguarsi alla morfologia di A e si costituiranno anche al resto del lessico di A. La
lingua A finirà per diventare una variante della lingua B quando i prestiti da B ad A si porteranno dietro
le regole morfologiche proprie di B e tenderanno a imporle anche alle voci di A.
Ma il cambio di lingua può seguire altre strade ancora: quella più frequente è la decisione dei genitori di
non trasmettere ai figli una data lingua perché considerata inutile o addirittura dannosa: ciò avviene
quando ad una lingua si affianca via via un'altra di maggior prestigio, i parlanti divengono bilingui e infine i
genitori decidono di trasmettere ai figli solo la lingua più prestigiosa. È così che il latino è riuscito a
soppiantare l'Etrusco ed è così che l'Italiano sta soppiantando i vari dialetti.
Una lingua che ha rischiato di divenire un'altra lingua è il maltese, dal 1964 lingua ufficiale di Malta. Questa
è l'unica varietà di arabo ancora parlata in Europa e l’unica che utilizzi l'alfabeto latino. L'attuale maltese
conserva nel grosso il suo carattere di lingua semitica, ma il lessico è in grossa misura italiano-siciliano.
Parliamo poi della funzione di serbatoio lessicale che greco e latino hanno svolto per secoli nelle lingue
europee occidentali per incrementare il loro lessico col progredire delle arti, delle scienze, ecc.
Calco linguistico: processo per cui una voce di una lingua "x" viene scomposta nei suoi elementi costitutivi
e "tradotta" pezzo per pezzo in una lingua "y" ricevente: Hinter (dietro/retro) + land (terra) > retroterra (tutto
il territorio che fa capo a un porto).

Calco semantico: una voce di una lingua "y" già esistente e dotata di un suo significato assume un secondo
significato, perché condizionata dalla voce corrispondente di una lingua "x" (che ha di per sé entrambi i
significati): realizzare fino ai primi del 1900 significava 'rendere tale, effettuare', poi acquista anche il
significato di 'capire, rendersi conto', per imitazione dall'inglese 'to realize'.

Calco formale: è il già citato esempio di 'Hinterland' oppure anche pellerossa, tradotto dall'inglese 'redskin'.
Si faccia attenzione: i calchi semantici non aumentano il numero delle unità lessicali della lingua che effettua
il calco, ma aumentano la gamma dei significati di forme già esistenti. I calchi formali invece "combinano"
forme lessicali nuove portatrici di nuovi significati (pellerossa: indigeno dell'America del nord).

Lo strato onomatopeico e fonosimbolico comprendono quelle formazioni che nella loro successione
fonetica tentano di riprodurre suoni e rumori, oppure cercano di suggerire in qualche modo l'idea di quello
che si vuole indicare (come il fonosimbolo "zigzag"). Nella parola "sbam" c'è un legame stretto tra il
significato a cui si vuole rimandare ('rumore forte e improvviso') e il significante (/s/ + /b/ + /a/ + /m/) che
veicola il significato detto riproducendo l'effetto acustico del rumore.
Le formazioni onomatopeico-fonosimboliche possono presentarsi sia come puri ideofoni (bum: esplosione,
din don: rintocco di campana), sia come vere e proprie parole (ticchettare, ticchettio). Ricordiamo che
l'evoluzione fonetica può oscurare precedenti formazioni onomatopeiche (pipio, pipionis: uccellino che
pigola - piccione: colombo), e rimotivare su base onomatopeico-fonosimbolica elementi di tutt'altra origine
(toscano "succiare" > "succhiare" favorito dalla rappresentazione onomatopeica dell'atto del succhiare).
Nel caso di “bau” e “abbaiare”, se ne vanno ciascuno per conto suo e, nello specifico, “abbaiare” è indizio
di un’onomatopea “bai” (per indicare il verso del cane) oggi non più utilizzata.

Strato delle neoformazioni: riguarda regole sincronicamente produttive, che si applicano a voci
provenienti da tutti e tre gli strati, che in un dato momento cronologico il parlante di una qualunque lingua
riconosce come regole e usa normalmente. Così se ci riferiamo all'italiano del III millennio sono regole
sincronicamente produttive:
a) la formazione del femminile a mezzo del suffisso -èssa: principe > principessa, poeta > poetessa;
(regola che si è sviluppata nel periodo tardo-latino e da allora è rimasto sino ai giorni nostri).
b) la formazione del femminile a mezzo dell'uso ambigenere del maschile: presidente m. >
presidente f.; vigile m. > vigile f. (regola estranea all'italiano sino alla fine del '900).
c) formazione del femminile a mezzo del suffisso -ina: gallo > gallina; re > regina;

Fenomeni di contatto fra lingue:


 INTERFERENZA: riguarda l’influenza e l’azione che un sistema linguistico può avere su un altro.
Comprende fenomeni come il trasporto di materiali linguistici (elementi, parole, regole, costrutti,
ecc…). Es. influenza da un’altra lingua riguardo l’organizzazione delle parole: ita. “la notte fra
venerdì e sabato” – ita. svizzero “venerdì su sabato” (italiano svizzero influenzato dal tedesco)

 PRESTITI

 CALCO

 COMMUTAZIONE DI CODICE: riguarda i fenomeni che avvengono sul piano del discorso ed è
tipico del comportamento dei parlanti bilingui. Il termine indica l’uso alternato di due lingue diverse
(codici) nella stessa interazione comunicativa da parte di uno stesso parlante, manifestantesi nel
passaggio nel discorso da una lingua ad un’altra. Tale passaggio può avvenire tramite:

o CODE SWITCHING (COMMUTAZIONE): “last time I went to the hospital... the doctor
said, no more / inglese! Adesso eh, capisci bene, brava brava”
o CODE MIXING (MESCOLANZA): “bueno, in other words el flight que sale de Chicago
around three o’clock”

FARE ESERCIZI 1, 4, 5, 7, 9, 10, 11, 19, 21, 23, 24, 26

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