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Capitolo 1: Il Duecento e il Trecento

1. Il ritardo e l’affermazione della letteratura italiana


Un fenomeno singolare caratterizza, nel quadro europeo, le origini della letteratura italiana: il ritardo del
suo manifestarsi rispetto alle altre aree culturali dell’Europa e il rapido cammino che conduce alla presenza
di figure di letterati di assoluta grandezza quali Dante, Petrarca e Boccaccio. Dagli inizi del Duecento alla
metà del Trecento, la letteratura italiana compie a passi veloci il percorso della sua formazione e della sua
affermazione: nel Duecento assistiamo alla fondazione della letteratura italiana; gli scritti in latino restano
di gran lunga predominanti e gli adattamenti in volgare di testi latini, i <<volgarizzamenti>> attestano un
costante senso di rispetto e di subordinazione verso il testo originario in latino. Non è facile dare una
motivazione sicura a tale ritardo, si potrà segnalare che a differenza di quando accade in Francia, ove
l’aristocrazia, nel farsi portavoce di valori cavallereschi e mondani, rielabora in chiave laica molti elementi
della letteratura religiosa e li diffonde attraverso la lingua d’oc in area provenzale e la lingua d’oil nell’area a
nord della Loira, nella penisola italiana l’esigenza del volgare si fa urgente solo con la definitiva
affermazione della civiltà comunale. Tra le possibili cause del ritardo, vi è la maggior forza di resistenza
esercitata dal latino in un’area geografica in prossimità di Roma e anche dal punto di vista politico, la
frammentazione della penisola, che ostacola il raggiungimento di una lingua unitaria.
2. I primi documenti in volgare
Tracce del cosiddetto volgare si riscontrano in alcune testimonianze di secoli anteriori al Duecento. Tra la
fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo si colloca il cosiddetto indovinello veronese: una sorta d’impasto tra
latino e volgare. Nel primo documento in cui il volgare italiano appare contrapposto al latino sono i Placiti
Campani, redatti tra il 960 e il 963 nel principato longobardo di Capua e Benevento, all’interno di atti
notarili redatti in latino viene inserita una formula in volgare, in modo che i tre testimoni possano intendere
il contenuto della loro testimonianza. Nel XII secolo compaiono i primi testi con ambizioni letterari, come il
Ritmo laurenziano, il Ritmo cassinese, il Ritmo su Sant’Alessio.
3. Premesse francesi per la letteratura italiana
Per la fondazione della letteratura in Italia, più che gli sparsi frammenti notarili o altri occasionali
documenti, conta l’influsso esercitato dalla letteratura d’oltralpe. Sono in lingua d’ oil le chansons de geste,
destinate al canto e imperniate sulla celebrazione di gesta eroiche. La più antica e la più famosa è la
Chansons de Roland, scritta non molto tempo avanti alla prima crociata. L’autore si denomina Turoldo e
celebra la resistenza di Carlo Magno e dei suoi paladini contro i Saraceni. La rotta dell’esercito cristiano a
Roncisvalle, nei Pirenei, e l’eroica morte di Rolando sono il tragico epilogo di questo poema, da cui prende
avvio il “ciclo carolingio” che avrà larga diffusione popolare anche in Italia. Re Artù e i cavalieri della tavola
rotonda sono i protagonisti dei romanzi del ciclo bretone, nelle cui narrazioni l’eroismo guerresco convive
con l’esperienza amorosa; Chrétien de Troyes dà lustro a tale ciclo.
In area francese, oltre alla narrazione lunga dei poemi e dei romanzi, trovano sviluppo altre due forme di
narrazione breve: i lais, poemetti amorosi a carattere elegiaco (confessioni autobiografiche o sfoghi
sentimentali) e i fabliaux, racconti in versi dai contenuti erotici e licenziosi: temi predominanti sono la
misoginia e la satira anticontadina, il linguaggio ha un’espressività realistica e oscena.
Un altro genere letterario, il poema allegorico e didascalico, ha nel Roman de la Rose il suo risultato di
maggiore rilievo. E’ un poema di oltre ventimila versi, scritti in tempi diversi da due autori.
4. I provenzali e l’amor cortese
Non tanto la narrativa quanto la poesia è al centro dell’attività letteraria che nasce e si sviluppa nelle corti
della Francia meridionale, soprattutto in Provenza. La poesia provenzale detta occitanica, in quanto scritta
in lingua d’oc, è la poesia dell’amor cortese, così denominato perché è nel mondo delle corti che trova
origine e giustificazione. E’ qui che il poeta canta la donna, la “dama”: termine –questo- che deriva dal
latino domina, <<padrona>>. Con la donna il poeta instaura un rapporto che ha come presupposto
l’extraconiugalità: si ritiene che solo fuori dal matrimonio ci possa essere vero amore, vi è un’etica
mondana che entra in conflitto con l’etica religiosa. Il rapporto uomo-donna si realizza riproducendo i livelli
gerarchici della società feudale. L’amore si esplica nelle forme di servizio, di vassallaggio, di omaggio
dell’amante nei confronti dell’amata. Si richiede il rispetto di alcune convenzioni, allo scopo di convertire la
spinta del desiderio in promozione del raffinamento delle qualità individuali dell’innamorato, il quale,
proprio grazie all’esperienza amorosa, può condurre a piena realizzazione le sue virtù: la lealtà, la fedeltà, la
dedizione, la discrezione, la liberalità. L’insieme delle regole viene fissato come in un manuale di
precettistica nel trattato in prosa latina, De Amore, scritto da Andrea Cappellano nel 1189 alla corte di
Champagne. L’amor cortese, nella sua complessa dinamica, riflette una situazione di tensione erotica che
viene neutralizzata dall’idealizzazione della figura femminile.
I poeti dell’amor cortese vengono chiamati trovatori: il termine deriva da trobar, che vuol dire <<inventare
tropi>>, cioè figure metaforiche. Costante è nei poeti dell’amor cortese la ricerca di un’accurata tecnica
espressiva che sottolinei ed esalti l’artificio stilistico, nelle due direzioni opposte: il trobar clus <<chiuso>>,
con le sue aprezze verbali e con la ricerca di un virtuosismo oscuro ed enigmatico; e il trobar leu <<lieve>>,
che persegue un poetare chiaro, comprensibile, gradevole all’ascolto. Tra i poeti emersi tra la fine dell’XI e il
XIII secolo troviamo personalità come: Guglielmo IX d’Aquitania, Marcabru, Jaufrè Rudel, Arnaut Daniel.

Capitolo 2: Le grandi aree della prima letteratura italiana


L’Italia Settentrionale

1.1 I provenzali nell’Italia del Nord


Folta è la presenza di poeti provenzali cui viene data ospitalità nelle corti dell’Italia settentrionale. Nelle
città dell’Italia del nord i poeti italiani scrivono in lingua d’oc: a Genova abbiamo Doria, Cigala e Calvo; a
Mantova troviamo Sordello da Goito, reso famoso dal canto VI del Purgatorio, dove Dante gli fa
pronunciare una sdegnata invettiva contro quanti provocano la rovina dell’Italia, memore di un
componimento di Sordello: il compianto funebre per Blacatz.
1.2 La letteratura didattica
Nell’Italia settentrionale fiorisce già nelle seconda metà del XII secolo una produzione di carattere
didascalico e moraleggiante. Agli inizi del Duecento si sviluppa una tematica misogina. Lungo è l’elenco di
persone “noiose” compilato da Girardo: il traditore, il superbo, l’usuraio, il prete che si fa bello, la donna
che chiede soldi.
Lo scenario dell’aldilà, è uno degli argomenti toccati da Uguccione da Lodi e da Giacomino da Verona, il
quale si occupa del destino ultimo dell’uomo in due poemetti: in uno descrive il paradiso, la Gerusalemme
celeste, appare come una città dotata di fondamenta di pietre preziose ed è circondata da mura altissime,
con merli di cristallo e camminamenti d’oro fino, la luce del giorno splende in continuazione e gli angeli e i
beati cantano le lodi della Madonna, di Cristo, di Dio; l’altro poemetto descrive l’Inferno, che ha le
sembianze di un’immensa prigione, avvampano fiamme, alimentate da resina e zolfo e strisciano vipere e
serpenti si muovono spaventosi draghi. Diavoli dal volto orribile infieriscono ferocemente sui dannati,
percuotendoli con bastoni e spranghe. Il re di questo regno di perdizione è Belzebù.
Impegno morale, finalità edificante e volontà didascalica sostengono il lavoro letterario del milanese
Bonvesin de la Riva, il più autorevole tra gli scrittori didattici dell’Italia settentrionale. Esso scrive nel 1274 il
Libro delle Tre Scritture: Inferno, Paradiso e passione di Cristo. Si rimane pressappoco nella descrizione dei
regni dell’aldilà tracciata da Giacomino. Bonvesin scrive anche un manualetto riguardante le buone
maniere, ma il suo capolavoro è il De magnalibus urbis Mediolani, in cui descrive gli aspetti urbanistici e
architettonici della Milano dei suoi tempi e definisce la situazione politica, sociale ed economica della città.
Analogamente a Bonvesin, a Genova emerge la figura dell’anonimo genovese: autore ignoto che mette al
centro del suo cospicuo corpus di rime a carattere politico Genova.

2. L’area Umbra

2.1 San Francesco d’Assisi e il Cantico delle creature


Il Cantico delle creature che San Francesco compose tra il 1224 e il 1225, meritano di essere considerate
come il testo di maggior rilievo agli albori della letteratura italiana. Rampollo di un’agiata famiglia della ricca
borghesia, in giovinezza si dedica allo studio del latino e del francese e alla professione delle armi. Durante
un viaggio viene colpito da una febbre che lo induce a rientrare nel biennio 1205-1206; matura in lui un
profondo travaglio interiore che si precisa nell’affermazione della propria vocazione religiosa. Per il Cantico
delle creature assume a modello i salmi biblici. Il Cantico muove da una premessa: all’uomo caduto nel
peccato non è lecito neppure nominare Dio, ciononostante gli è consentito di colmare la distanza che lo
separa da Dio lodando le creature (il Sole, la Luna, le stelle) e gli elementi costitutivi dell’Universo (aria,
acqua, fuoco, terra) che sono legati in uno spirito di fratellanza all’uomo, poiché sono generati dallo stesso
padre (frate sole, sorella luna). Viene utilizzato un linguaggio semplice al fine di garantire la chiarezza e la
diffusione del messaggio; le lodi si commutano in lodi in Dio e ciò avviene perché l’universo con le sue
bellezze si fa mediatore di lode al Creatore. Il messaggio è esplicito: solo colui che saprà perdonare ed
accettare il dolore, rimettendosi alla fede che preserva dalla dannazione eterna, sarà salvo.
2.2 Iacopone da Todi e le laude
Nella seconda metà del secolo, per iniziativa di Ranieri Fasani, prende campo il movimento dei Flagellanti:
spinti all’autoflagellazione, gli aderenti alle confraternite accompagnavano le punizioni corporali con cani in
volgare, le laude, rivolte a celebrare Dio, la madonna e i santi. La laude è la forma espressiva in cui si trova
più adeguato adempimento letterario la spiritualità del francescano Iacopone da Todi. A seguito della
morte della moglie, decide di abbandonare la vita mondana: per un decennio tempra il suo spirito andando
in giro a mendicare, successivamente entra a far parte dei frati minori. La fortissima avversione di Iacopone
nei confronti di Bonifacio VIII si esplica su due fronti: quello letterario (attaccando il papa con delle rime) e
quello politico con la sottoscrizione del manifesto di Lunghezza (1297) che richiedeva di deporre il papa e
indire un nuovo concilio. Catturato dalle milizie del papa viene scomunicato e condannato al carcere a vita.
Le laude attribuibili a Iacopone sono sicuramente 92. La sua poesia si precisa nei termini di un assiduo
scontro tra forze opposte e non conciliabili: il vizio e la virtù, l’anima e il corpo, il mondo e Dio. Non pochi
componimenti lasciano intravedere una matrice letteraria, che attesta la conoscenza non solo di testi
religiosi ma anche quelli della cultura laica. Il debito con la poesia provenzale viene comprovato dal
reimpiego capovolto di alcuni topoi, cioè di temi letterari ricorrenti. La più conosciuta delle laude
iacoponiane , il Pianto della Madonna, che ha per argomento la passione di Cristo, presenta alcuni momenti
di affinità con lo stil novo. Due punti vanno messi in risalto per mettere a fuoco l’identità di Iacopone:
-La ricerca dell’equilibrio tra atteggiamenti estremi, se è opportuna qualora venga applicata ai valori laici e
mondani, non ha legittimità né ragioni di pertinenza qualora la si voglia estendere all’esperienza religiosa,
perché nell’universo della spiritualità, la verità è una sola e conta allora, lo spregiudicato gesto di squilibrio
di chi si affaccia verso tale verità e la vive come valore assoluto. L’esperienza religiosa non richiede
saggezza, ma follia.
-Il vero nemico della libertà spirituale dell’uomo è il corpo, che lo trascina verso il male e il peccato, è
proprio il corpo il bersaglio prediletto degli strali di Iacopone, che ne fa oggetto del suo massimo disprezzo.

3. La poesia in Sicilia

3.1 La corte di Federico II e i siciliani


In Sicilia, alla corte di Federico II, imperatore del Sacro Romano Impero dal 1220 al 1250, entro un
ambiente, la Magna Curia, aperto ad interessi filosofici, giuridici e scientifici, si colloca la creazione di una
poesia in volgare che si propone solo finalità estetiche e letterarie. Viene assunta a modello di riferimento
la poesia provenzale, anche se non va trascurata l’ipotesi di un influsso della lirica tedesca. Di differente
natura è lo statuto sociale dei poeti della Magna Curia rispetto ai “trovatori” provenzali. Diversamente da
costoro, che nell’esercizio del rimare realizzano la loro professionalità e trovano la loro collocazione a corte,
i poeti della corte siciliana sono dei funzionari imperiali: giuristi, notai, magistrati, burocrati, per i quali
ruolo istituzionale e attività letteraria procedono del tutto separati. La poesia si configura come
un’opportunità di aristocratica separatezza e di elegante evasione della realtà pratica: viene rimossa
qualsiasi implicazione politica, tanto economica, tanto encomiastica, quanto di polemica o di contestazione.
La poesia ha il suo fine nella disciplina formale e nella perfezione tecnica. Argomento delle loro poesie, è
sempre l’amore e il modello di rifermento è individuato nel decoro e nell’altezza di significato dell’amor
cortese; l’omaggio dell’amante alla dama, la subordinazione del poeta vassallo all’amata-signora, la
segretezza dell’amore, le figure ostili e malevoli dei lusingatori e dei malparlanti che pongono ostacoli alla
vicenda amorosa. Il recupero di questi topoi non preclude l’affermarsi di alcune istanze originali. Rispetto ai
provenzali, si percepisce nei poeti della scuola siciliana un interesse di natura psicologica che scruta i riflessi
interiori e spirituali dell’esperienza d’amore. Al centro dell’interesse viene a collocarsi non tanto la figura
femminile, quanto l’esplorazione del desiderio, si verifica la sostituzione del ruolo protagonista della donna
con Amore, oggettivato e personificato. Contrariamente a quando accadeva presso i trovatori, nei siciliani
la poesia non si risolve in canto e non viene quindi accompagnata dalla musica: la sua destinazione
esclusiva è la lettura. Un processo di raffinamento espressivo caratterizza l’esperienza letteraria dei siciliani.
Vengono impiegate due strutture metriche destinate a restare fondamentali nella letteratura italiana: la
canzone e il sonetto. Mentre per la canzone si opera un recupero del corrispettivo metro occitanico, per il
sonetto, si deve parlare di vera e propria invenzione, dovuta probabilmente al poeta più importante della
Magna Curia: Giacomo da Lentini. Il carattere elitario dipende dalla convergenza di due fattori: dalla
promozione del volgare a lingua esclusiva della poesia e della deliberata intenzione di contrapporre alla
lingua della poesia di maggior prestigio, il provenzale, un’altra lingua alla quale i poeti della corte di
Federico II sono chiamati a far ricorso, indipendentemente dalla loro località di nascita. Questa lingua è il
siciliano illustre: è presente il dialetto, il parlato (ma corretto), ripulito grazie al contributo di provenzalismi
e latinismi. Le testimonianze che ci consentono di conoscere i tratti peculiari di questa lingua, sono
estremamente ridotte. La maggior parte dei testi della scuola poetica siciliana, è stata tramandata
attraverso la loro trascrizione in codici toscani, nei quali la veste linguistica soggiace ad una riduzione
toscaneggiante.
3.2 Giacomo da Lentini
Tra i vari poeti della scuola siciliana ricordiamo: lo stesso Federico II, suo figlio Enzo, Pier delle Vigne, Guido
delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Giacomino Pugliese. Il maggiore tra i siciliani è Giacomo da Lentini, detto il
Notaro, il cui canzoniere comprende una quarantina di componimenti. Nel sonetto Amor è un desio che ven
da core, fa propria la teoria di Andrea Cappellano per cui “l’abbondanza di gran piacimento” è l’elemento
costitutivo della genesi dell’amore, ma si spinge anche più in là, considerando l’origine propria dell’amor
passionale (inteso come evento che coinvolge i sensi). Presente è anche il tema del vagheggiamento, inteso
come gioia contemplativa della bellezza esteriore della donna. in alternativa il vagheggiamento è dichiarato
come fatto esclusivamente interiore, che prescinde dalla vista diretta o dalla vicinanza, è sufficiente
l’immagine interiore dell’amata, quasi atto di fede “ come quello che crede / salvarsi per sua fede / ancor
non veggia inante”
3.3 Cielo d’Alcamo
Dell’ambiente dei poeti siciliani resta anche un testo che si distacca dagli altri per la sua caratterizzazione
apparentemente più “bassa” nell’affrontare la tematica dell’amore. Si tratta del contrasto Rosa fresca
aulentissima, attribuito a Cielo d’Alcamo. Non deve trarre in inganno la materia popolare, perché in realtà il
Contrasto è testo di accorta sapienza letteraria, modellato sull’esempio della “pastorella”, un genere della
tradizione provenzale.

Capitolo 3: La poesia in Toscana


1. Letteratura didattica, enciclopedica, allegorica in versi

1.1 Il <<Tesoretto>> di Brunetto Latini


Il personaggio di maggior rilievo è sicuramente Brunetto Latini che, nato a Firenze, nel terzo decennio del
Duecento, esercita l’attività notarile. Brunetto, autore di un poemetto in settenari (verso di sette sillabe) sul
tema dell’amicizia, dedicato a Rustico di Filippo, il Favolello, e soprattutto autore del Tesoretto, scritto in
Francia al tempo dell’esilio. Il Tesoretto è scritto in settenari che rimano a coppie. La trama del poemetto
tra pretesto da uno spunto autobiografico, per poi snodarsi sotto forma di racconto allegorico. All’inizio
troviamo Brunetto che, disperato per aver appreso della sconfitta guelfa a Montaperti, si smarrisce in una
selva, ove si imbatte in Natura, la quale gli fa da guida e da maestra su aspetti che riguardano la fisiologia
dell’uomo e il cosmo, prima di essere sostituita da Vertude, che fa conoscere al poeta le virtù cardinali e
quelle che governano il comportamento umano; virtù che appartengono all’etica cavalleresca: cortesia,
larghezza, leanza e prodezza. Quando giunge al regno del Dio d’Amore, Brunetto trova Ovidio, che lo
consiglia su come rimuovere le tentazioni dell’amore. Infine, trasportato sull’Olimpo, incontra Tolomeo, ma
nel momento in cui Tolomeo dovrebbe spiegargli l’essenza dei quattro elementi e il rapporto che li lega tra
di loro, il poemetto si interrompe.
All’interno del testo si possono isolare due momenti di maggior spicco che in qualche modo legano
Brunetto a Dante. Il primo è quello che mediante l’immagine dello smarrimento del protagonista nella selva
e del soccorso di una guida, non può non richiamare l’avvio della Commedia; il secondo è relativo al
momento in cui Brunetto si confessa: particolarmente sferzante è la sua condanna alla sodomia, di quel
peccato per cui Dante lo condannerà all’Inferno.
1.2 Tre poemetti anonimi
Allegoria, enciclopedismo, destinazione didattica accomunano tre poemetti della seconda metà del
Duecento, tutti e tre anonimi.
Detto del gatto lupesco: è un breve componimento, in novenari-ottonari a rima baciata, che racconta tre
avventure di un misterioso personaggio, il gatto lupesco. Le avventure sembrerebbero adombrare
simbolicamente la ricerca del protagonista che dall’amor profano procede verso la conquista della fede.
Mare amoroso: poemetto di 330 versi in metrica libera, che può essere considerato un piccolo manuale
enciclopedico dei luoghi comuni della tradizione letteraria. Duplice può essere il significato del titolo: o
intende segnalare la grandezza e l’onnipotenza dell’amore, oppure sta ad indicare la perfezione della donna
amata spiegata in tutta la sua vastità. La fisionomia che esso assume è una sorte di summa delle numerose
e disordinate letture dello scrittore.
L’Intelligenza: consta di 309 strofe di novenari e sviluppa in chiave allegorica l’avventura del poeta che,
incontrata una bellissima donna, sfarzosamente ornata e accompagnata da sette regine, la segue in Oriente
e viene da lei ospitato nel suo meraviglioso palazzo, le cui pareti sono istoriate da dipinti che raffigurano le
storie di Cesare, Alessandro, della guerra di Troia e dei cavalieri della tavola rotonda. Dopo che il poeta ha
dichiarato il suo amore ricevendo in cambio la promessa di felicità, la vicenda si conclude. Però, affinché il
lettore possa comprendere il suo significato, il poeta si sofferma a illustrare il senso allegorico: la donna è
l’Intelligenza, la cui sede, il palazzo, è l’anima dell’uomo.
1.3 Agli inizi del Trecento: Francesco da Barberino e la precettistica mondana
Si sconfina già nei primi del Trecento per incontrare l’estremo epigono della tradizione duecentesca di
letteratura divulgativa a fini pedagogici: le opere didattico-allegoriche di Francesco da Barberino sono due;
Documenti d’Amore, dove il significato di documenti è quello di insegnamenti e Reggimento e costumi di
donna, un prosimetro in cui la sezione più interessante è quella che racchiude una specie di galateo ad uso
delle donne, costruito sull’accumulo di dettagli concernenti la vita quotidiana.

2. La lirica: dalla Sicilia alla Toscana

2.1 Rimatori delle città toscane


Nel 1250 muore Federico II e la crisi della casa di Svevia giunge al suo culmine con la sconfitta di Manfredi a
Benevento (1266). Si esaurisce in questo arco di tempo anche la funzione culturale della Magna Curia e
giunge rapidamente al tramonto la poesia in siciliano illustre. Il magistero siciliano non resta senza eredità,
alcune tracce del loro patrimonio poetico si riscontrano in Umbria con Iacopone da Todi, in Emilia con
Ghislieri, Fabbruzzo, Onesto da Bologna. In modo più massiccio, l’eredità dei siciliani viene raccolta in
Toscana, la regione che diventa il centro egemone dell’attività poetica. La continuità in terra toscana della
poesia siciliana è comprovata dalle trascrizioni in codici toscani delle poesie dei siciliani, col conseguente
effetto di snaturamento del colorito linguistico originario, ed è confermata da un’abbondante produzione di
rime dei cosiddetti poeti <<siculo-toscani>>. A Lucca incontriamo Inghilfredi, Orbicciani, a Pisa incontriamo
Terramagnino, Rustichello, Galletto e Panuccio del Bagno. Al posto di una monarchia centralizzata in cui in
funzionari di corte si cimentano nella poesia, abbiamo dei comuni in cui operano cittadini, fra i quali si
annoverano anche i poeti, che tendono non ad appartarsi nel loro esercizio formale, ma a partecipare alla
vita pubblica con i loro versi. Lo spazio di pertinenza della poesia si allarga e così accanto all’amore
cominciano a richiamare attenzione anche temi di natura etica e politica: l’aver compreso come la poesia
potesse farsi carico di responsabilità morali e civili costituisce il tratto distintivo dei siculo-toscani, che li
stacca dall’atteggiamento elitario dei siciliani da una parte e dagli stilnovisti dall’altra.
2.2 Guittone d’Arezzo
La personalità di maggior spicco entro questa fase di rinnovamento della poesia è quella di Guittone del
Viva d’Arezzo, vissuto tra il 1235 e il 1294. Anno cruciale della sua vita è il 1265, quando la conclusione di
un lungo travaglio spirituale lo induce a lasciare la moglie e i tre figli e ad aderire ad una confraternita laica
dei Cavalieri di Santa Maria. Dopo la conversione abbandona la tematica amorosa, dedicandosi a
componimenti di argomento morale e religioso. La cesura biografica si rispecchia anche nel suo
<<canzoniere>> in cui abbiamo 85 sonetti amorosi e 90 sonetti morali. Per i componimenti di significato
etico e religioso la firma è Frate Guittone d’Arezzo, mentre Guittone d’Arezzo sono firmati i testi di
carattere amoroso, come a volere indicare immediatamente i due tempi separati e opposti del tracciato
esistenziale: quello dell’errore e quello del riscatto.
Nella lirica d’Amore si rivela estraneo alle potenzialità della fin’amor, cioè di quell’amore che secondo
l’etica cortese, migliorava e raffinava chi ne facesse esperienza. La poesia diventa per Guittone il campo di
una insistita sperimentazione tecnica, che si risolve nella ricerca degli artifici del trobar clus.
La sperimentazione formale non soffoca il maturare di una profonda crisi interiore, al culmine di questa
fase si colloca la famosa canzone per la rotta dei guelfi fiorentini a Montaperti “Ahi, lasso! Or è stagion de
doler tanto” in cui l’infausta circostanza diventa pretesto per una più ampia riflessione storica. Secondo
Guittone, Firenze, che era destinata a diventare la Roma dei tempi moderni, paga la colpa di essere venuta
meno all’appuntamento con la storia a causa delle lacerazioni tra le fazioni.
Centrale nella produzione di Guittone è la canzone Ora parrà s’eo saverò cantare, da ritenersi come la
canzone-manifesto della sua conversione, in cui il poeta annuncia il programma della sua nuova poesia.
Viene abbandonato l’amore perché è irrazionalità e follia. L’avversione alla poesia e ai poeti d’amore è
sollecitata da un radicale ostracismo a uno dei canoni fondanti dell’amor cortese, l’extraconiugalità
dell’esperienza amorosa; l’ottemperanza ai precetti del cristianesimo lo avvia al rinnegamento della poesia
amorosa e all’adesione ad una poesia nutrita di valori etici e di spirto religioso. Il primato è fatto convergere
sul “savere” e pertanto la poesia diventa poesia dottrinaria, poesia morale, poesia della rettitudine. Il
“savere” di Guittone poggia su solide certezze e non conosce la dialettica dei contrasti e la sospensione del
dubbio. I suoi componimenti promuovono la verità morale mediante il piglio perentorio dell’ammonimento
e dell’esortazione.
2.3 I guittoniani
Il magistero guittoniano agisce per oltre un ventennio su un’intera generazione di poeti. La sua lezione è
accettata sia nel recupero e nello sforzo di rinnovamento della pratica formale, sia nel prototipo di poeta
che egli impone, additando la strada di un rigoroso impegno etico, religioso, politico, al di là dello
stazionamento entro i confini della tematica amorosa: impegno che tende a privilegiare la componente
didattica, limitando o tralasciando la preoccupazione espressiva e letteraria. C’è Guittone e ci sono i
guittoniani: una folta schiera di compagni di viaggio o di epigoni, fra i quali meritano di essere ricordati:
Chiaro Davanzati, Dante da Maiano e Monte Andrea da Firenze.

3. La realtà e lo stile <<comico>>


3.1 La poesia <<giocosa>> o <<comico-realista>>
C’è un altro filone della poesia del Duecento, nel quale la componente di realtà è ancora più massiccia. La si
trova in quel tipo di poesia che la storiografia letteraria ha di volta in volta etichettato come “giocosa”,
“burlesca”, “borghese” o “comico-realista”. Quest’ultima definizione racchiude in un binomio il richiamo
allo stile e l’indicazione dei contenuti: lo stile è quello “comico”, che i manuali di retorica contrapponevano
al “tragico” come il più adatto ad una materia bassa e quotidiana e come il più disponibile ad accettare un
lessico che utilizzasse le locuzioni gergali e che non esitasse a scadere nel triviale; contenuti sono realistici,
perché l’attenzione viene rivolta a esigenze, desideri, obiettivi concreti, in contrapposizione ai
vagheggiamenti spirituali e alle astrazioni concettuali. Il carattere circoscritto delle occasioni poetiche
trascende la “municipalità” nel momento in cui esse sono proiettate sullo schermo “europeo” predisposto
dalla tradizione mediolatina e romanza. Sotto forme diverse, si registrano alcuni temi centrali
dell’ispirazione dei comico-realisti: la misoginia esagerata che disprezza qualsiasi comportamento della
donna e che apprezza la donna stessa solo come corpo, l’avversione nei confronti dei genitori, la lode del
denaro, l’esaltazione dei luoghi e delle occasioni di perdizione o di piacere immediato (la donna, l’osteria, il
gioco), l’atteggiamento irridente verso la religione.
3.2 Rustico di Filippo
Il corpus delle poesie di colui che, per ragioni cronologiche va considerato il primo tra i poeti comico-
realistici, Rustico di Filippo, fiorentino (1230-1290), conferma l’idea che quella del “comico” sia innanzi
tutto una scelta stilistica, i 58 sonetti che testimoniano la sua produzione sono bipartiti in 29 di argomento
riconducibile all’amor cortese e 29 chiaramente ascrivibili alla maniera giocosa. Nei sonetti comici
l’attenzione di Rustico è concentrata sul mondo comunale. Si allinea, nella successione dei sonetti, una
lunga fila di personaggi moralmente avvilenti: vecchie, buggeressa (sporcacciona), l’avaro, il soldato
millantatore ed altri ancora che subiscono la visualizzazione degradante provocata da un linguaggio
irridente, colorito, plebeo e licenzioso, in cui predomina la designazione diretta ed esplicita di quanto è
osceno, mentre assai ridotto è il ricorso alla copertura allusiva della metafora o dell’eufemismo: il
linguaggio erotico in volgare sembra trovare proprio nei testi di Rustico la sua fondazione.
3.3 Cecco Angiolieri
Il più noto esponente della rimeria giocosa è Cecco Angiolieri, nato a Siena nel 1260. Cecco invierà a Dante
3 sonetti, che tracciano una parabola di amicizia e di crisi dei loro rapporti. L’insofferenza giovanile per la
vita militare certificata da quattro multe per diserzione, una rissa e infine il fatto che dopo la sua morte, i
suoi cinque figli rinuncino all’eredità per non accollarsi ipoteche e debiti, sono tutti riferimenti biografici che
attestano un’inclinazione al disordine esistenziale.
Il denaro costituisce l’ossessione dominante in Cecco. Persistente è l’autocommiserazione per la sua
cronica indigenza, anche perché lo stato di povertà irrimediabile investe direttamente la sfera dell’amore:
le disgrazie amorose, sono per la massima parte imputabili all’inadeguatezza economica. Nel sonetto S’ì
fosse foco, in cui la rabbia distruttiva, tutta montata su iperboli e sull’incatenamento di ipotesi impossibili,
svela il suo carattere velleitario andando a scaricare la portata apocalittica nel riso conclusivo. Cecco è un
contemporaneo dei poeti del dolce stil novo, assume nei confronti della loro poesia un’intenzione di
esplicita parodizzazione. Basti pensare al fatto che quando, alla maniera degli stilnovisti, anche lui si crea
una figura di donna e imbastisce attorno a lei una storia, la donna è caratterizzata da tratti grossolani: ha il
poco accattivante nome di Becchina, il suo ruolo sociale non è invidiabile essendo figlia di un “cuoiaio”, nei
comportamenti e nelle parole, trionfa la sua volgarità. Ebbene, tale donna risulta per il poeta
irraggiungibile, ma non per l’incolmabile distanza che consuma nel desiderio l’amante cortese, bensì solo
perché all’innamorato, al povero Cecco, mancano i soldi per appagare l’avidità dell’amata, quella Becchina
che incarna perfettamente la parte dell’anti-Beatrice.
3.4 Folgore da San Gimignano e Cenne de la Chitarra
Una collocazione a parte tra i poeti inclini a un rapporto più stretto con il mondo reale spetta a Iacopo di
Michele da San Gimignano, detto Folgore; poeta di corone, vale a dire di sequenze di sonetti collegati tra di
loro per il tema o per l’occasione che li ha motivati. La tendenza prevalente di Folgore è di rinunciare ai toni
aspri e plebei, preferendo le forme del plazer provenzale (un tipo di componimento che gli consentiva di
celebrare i diletti dell’allegria conviviale). I valori cardine del mondo di Folgore, resi espliciti da alcune
parole-chiave: diletto, allegrezza, amicizia, lealtà, amore, cortesia, sollazzo. Folgore si fa interprete e
portavoce dell’ambizione del mondo borghese di elevarsi a un decoro aristocratico, attraverso l’emulazione
e la rivitalizzazione dei costumi del mondo cortese. Con partecipe adesione Folgore osserva un aspetto del
costume del suo tempo, quello delle brigate spenderecce, raffigurandone le occasioni di vita libera e
gaudente: la caccia, la cavalcata, la pesca, i tornei e le giostre, il ballo e il gioco. Il comico con Folgore, è
elevato a un livello di elegante medietà. Dell’avvenuto innalzamento del grado stilistico viene conferma dal
fatto che immediatamente nei confronti della poesia di Folgore si applichi l’esercizio della parodia.

Capitolo 4: Il dolce stil novo

1.1 Una nuova concezione dell’amore


In uno dei sonetti che indirizza al poeta bolognese Guido Guinizzelli Voi, ch’avete mutata la maniera, il
lucchese Bonagiunta Orbicciani rimprovera il destinatario e coloro che lo emulano di aver cambiato il modo
di comporre i versi d’amore e di perseguire un eccesso di tecnicismo e una complessità di argomentazione,
una <<sottiglianza>> che produce <<insicura parlatura>>. Il nuovo vento che proviene da Bologna,
comporta un duplice piano di innovazioni: nei contenuti, con il superamento delle regole dell’amor cortese
e il coinvolgimento diretto delle personalità dei poeti-amanti, con la loro sensibilità e la loro dimensione
intellettuale; nel linguaggio e nello stile, che vengono sospinti verso un decisivo rinnovamento. La novità è
costituita da un’adesione più stretta al dettato di Amore, con il conseguente recupero della tematica
amorosa come esperienza che si risolve in lode disinteressata. I requisiti di originalità della nuova poetica
sono resi espliciti dal significato degli aggettivi che la inquadrano. Il termine novo va innanzitutto preso alla
lettera, nel suo semplice e diretto valore di “nuovo”, per indicare l’appartenenza dei poeti, che si
riconoscono in questa maniera di poetare, a una posizione di avanguardia letteraria. Il termine può essere
anche assunto e messo in correlazione col provenzale nou o novel che, in riferimento al trobar, indicava un
modo del poetare che scaturiva da un rinnovamento interiore del poeta.
La novità di un’eccezionale esperienza d’amore, dando origine ad un uomo nuovo, si manifesta nei
contenuti e nelle forme di una poesia nuova: l’interiorizzazione e lo sprofondamento diretto ad attingere
l’essenza dell’amore sono le prerogative determinanti che qualificano la rinnovata esperienza e
realizzazione poetica. E tale processo di interiorizzazione opera anche in funzione di scavalcamento della
poetica guittoniana che –oltre ad aver infranto i limiti di pertinenza della poesia come canto d’amore- non
era riuscita, nell’ambito della lirica amorosa, a comporre la contraddizione tra amore e passione. L’altro
aggettivo, dolce: l’accentuata spiritualizzazione dell’amore invita all’individuazione di un repertorio di
immagini chiare e luminose, alla ricerca di una tonalità espressiva tenue e delicata, alla scelta di un lessico
prezioso e selezionato, all’impegno in un lavoro metrico curato e orientato verso soluzioni non artificiose
ma semplici e comprensibili.
La poesia di secondo Duecento: da una parte si colloca Guittone (e i guittoniani) che affida alla poesia una
responsabilità didattica alimentata dalla spiritualità cristiana; dall’altra si installa lo stilnovismo, il cui
carattere elitario costituisce l’esito conseguenziale di una cultura laica ed estranea a una diretta intenzione
pedagogica e una destinazione politica. L’esperienza d’amore, che è la condizione dominante, risulta
prevalentemente spogliata di riferimenti a situazioni esterne, perché è vissuta nella sua natura di fenomeno
interiore: diventa una dottrina la cui conoscenza permette all’uomo di percorrere la scala di elevazione
morale e spirituale indicata dall’amata; mutano –rispetto alla lirica provenzale a alla poesia siciliana- ruolo,
funzione, e identità della donna. Non più signora socialmente superiore al cavaliere, che le tributa
l’omaggio, bensì creatura la cui bellezza assume un valore etico prima ancora che estetico, essendo in
primo luogo portatrice di virtù, la donna del dolce stil novo è la donna-angelo che assolve ad una duplice
responsabilità: una terrena e mondana, consistente nel far sì che si manifesti la gentilezza dell’innamorato
attraverso il suo comportamento cortese e virtuoso, e una più alta e spirituale di mediazione tra l’uomo e
Dio. Ma perché in travaglio politico come la Firenze di fine Duecento, una società con tanti problemi pratici
e concreti, centrale sembra apparire una questione così astratta, concettuale, teoretica come quella
dell’amore? Nella poetica del dolce stil novo il tema dell’amore diventa il polo di catalizzazione di
problematiche d’ordine culturale e sociale, che trascendono la stretta specificità della casistica
sentimentale. Si afferma una concezione che rifiuta la coincidenza fra gentilezza e nobiltà di sangue e che,
negando tale preconcetto, respinge il principio dell’ereditarietà di quanto non è materiale ed è patrimonio
esclusivamente personale, acquisito con l’affermazione delle virtù individuali. L’elaborazione concettuale
degli stilnovisti, rivolta a sostenere il processo di radicale trasformazione dell’idea di nobiltà, non si pone
come obiettivo finale quello di una “democratizzazione” della società e della cultura; il loro intendimento è
quello di operare una chiusura verso il basso e di selezionare una ristretta élite, che in base al sapere, alla
raffinatezza formale, alle virtù interiori, fondi una nuova aristocrazia, in base al sapere, alla raffinatezza
formale, alle virtù interiori. Nasce l’ideale di una nuova corte, espressione d’intelligenza e di gusto
superiori.

2.2 I poeti del dolce stil novo

2.1 Il bolognese Guido Guinizzelli


Il dolce stil novo, che ha il suo epicentro a Firenze e che determinerà il ruolo egemone della letteratura
fiorentina, ha il suo luogo d’origine a Bologna, dove nasce attorno al 1230 Guido Guinizzelli. Fondamentale
è la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore, considerata il manifesto del dolce stil novo, perché ne
enuncia alcune idee capitali. Fin dai primi versi viene formulato il principio della corrispondenza tra amore e
cuore gentile, che dal punto di vista sociologico equivale alla rivalutazione delle nobiltà del cuore contro la
nobiltà di sangue, mentre la concezione della donna come figura che rappresenta la divinità emerge dalla
stanza finale. Il poeta immagina la circostanza in cui si troverà al cospetto di Dio e dovrà subire il
rimprovero di aver rivolto a una creatura terrena la reverenza spettante a Dio stesso e alla Vergine. Sola
giustificazione plausibile alle accuse sarà dire di aver amato una donna che “tenne d’angel sembianza”. Così
facendo, però, egli rivelerà come il suo desiderio non sia stato rimosso per via di sublimazione: il processo
di scorporamento dell’identità della donna e di assoluta interiorizzazione del sentimento d’amore non
risulta ancora del tutto compiuto. Occorrerà arrivare a Dante per riscontrare che la donna amata non ha
solo sembianze d’angelo, ma è essa stessa un angelo. Altre poesie di Guinizzelli per sviluppare il tema della
lode, ricorrono all’esaltazione della luminosità delle immagini naturali, determinanti allo scopo di definire
l’altrimenti indefinibile splendore dell’amata.
2.2 Guido Cavalcanti
Il poeta che conduce alle estreme conseguenze i presupposti di aristocratica spiritualità impliciti nella
poesia stilnovistica, è Guido Cavalcanti, attivissimo guelfo bianco, che a seguito di una rissa viene
condannato al confino, tra i quali c’era anche il suo amico Dante Alighieri. Sdegnoso, ateo, iroso,
materialista, appartato lo descriverà Boccaccio nel preambolo di una novella del Decameron. Nel canto X
dell’inferno, emerge l’immagine di un Guido refrattario a teologia, fede, spiritualità e interamente votato
alla sola razionalità umana, segno distintivo, questo, che indica una separazione concettuale da Dante, in
relazione al quale le componenti etiche di gentilezza e nobiltà d’animo erano sostituite dall’affermazione
del primato intellettuale. Dopo 1293-1295 –che per Dante costituisce la fase della conclusione della
stagione stilnovistica, suggellata dalla composizione della Vita nova, ed è il tempo del cosiddetto
“traviamento”- l’amicizia tra Dante e Guido entra in crisi: da una parte Cavalcanti che prosegue e
addirittura esaspera il suo solipsismo; dall’altra Dante che conduce a realizzazione la scelta risolutiva di
sostituire alla poesia d’amore la poesia dell’impegno morale, la poesia della definizione delle virtù, la poesia
della rettitudine. Cavalcanti nega allo stilnovismo la prerogativa di conformazione di un gruppo coeso e
univoco nella dimensione ideologica. Guido è un razionale, che nell’amore assiste al rivelarsi di un
fenomeno irrazionale; alla luce di un’analisi “scientifica” del fenomeno che poggia su di una rigorosa
piattaforma filosofica di natura materialistica, all’amore non viene riconosciuta alcuna prerogativa di
sublimazione che, per via morale o religiosa, lo qualifichi come esperienza gratificante, non resta che
soffrirlo angosciosamente, in quanto doloroso e mortale.
Ontologia e fenomenologia dell’amore sono analizzate e discusse nella canzone Donna me prega, perch’eo
voglia dire, una delle poesie più complesse e difficili della letteratura italiana. L’arduo componimento
cavalcantiano si avvale di un appropriato lessico filosofico e il debito con la filosofia è tratto anche per
quanto riguarda l’ossatura del ragionamento, che segue un procedimento deduttivo scolastico che utilizza
diverse fonti della letteratura filosofica, con predilezione per l’averroismo. Il pensiero di Guido lo inducono
a far propria una concezione secondo cui la sede dell’amore si trova nell’anima sensitiva, al di fuori dal
controllo della ragione. L’apparizione della donna col folgorante splendore che la fascia e che la rende
inconoscibile e l’impossibilità dell’uomo di costruirsi di lui un’immagine mentale provocano una serie di
effetti psicologici angosciosi, devastanti, devitalizzanti: tremore, paura, smarrimento sbigottimento,
svenimento, malinconia, pianto.
Amore-passione e processo raziocinante che intende inquadrarlo: su questi termini si imposta la
sceneggiatura, calata nel nudo scenario dell’interiorità e ricca di risonanze metafisiche dell’investigazione
amorosa di Cavalcanti. L’atto intellettuale è insieme salvezza e scacco: salvezza perché preserva dal rischio
della caduta nella sensualità, scacco perché l’astrazione della bellezza nega un possesso del fantasma
ideale. Questa giustapposizione suggerisce il tracciato di un sonetto come Chi è questa che vén, ch’ogn’om
la mira, in cui l’apparizione della donna genera una resa dell’ineffabilità e all’inadeguatezza umana di
accedere al possesso intellettuale compiuto, che è quello della conoscenza. La gamma delle occasioni
poetiche cavalcantiane presenta anche l’abbandono a una vena espressiva che si concede a una più libera
ed estroversa rispondenza a motivi mondani e realistici, modulati in forme leggiadre e piane.
2.3 Dante stilnovista
Lo stilnovismo di Dante si fonda sulle premesse guinizzelliane, portando su posizioni più avanzate quel
processo di ipostatizzazione della figura femminile, identificata con l’immagine della donna angelicata, di
cui Guinizzelli si era fatto promotore. Alla canzone-manifesto guinizzelliana Al cor gentil va
opportunamente accostata l’altra canzone-manifesto che è –nella Vita nova- Donne ch’avete intelletto
d’amore. Si potrà addirittura arrivare, come deduzione ultima, a pensare che la determinazione di <<dolce
stil novo>>, scolasticamente utile per inquadrare una situazione della poesia nel secondo Duecento, a
rigore sia perfettamente applicabile solo a Dante, più specificamente, al Dante della svolta della Vita nova
sancita dalla canzone Donne ch’avete. Qui infatti si definisce in termini del tutto originali la fisionomia della
donna-angelo, intesa come creatura pienamente celeste provvisoriamente operante nel mondo umano;
viene inaugurata inoltre la fase della “lode”, quella in cui Dante non attende alcun riscontro dalla sua
donna, come ad esempio il saluto, ma si appaga solo della gioia che dà nel celebrarla. Lo stilnovismo
dantesco si impronta dunque della lezione di Guinnizzelli. Dante compone un sonetto che nell’incipit rende
omaggio a Guinnizzelli attraverso una citazione.
2.4 Cino da Pistoia e altri stilnovisti
Fra i “minori” dello stil novo si ricordano Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi, mentre una posizione
di rilievo occupa Cino da Pistoia: esso tende ad abbassare la spiritualizzazione d’ordine metafisico e a
rivolgersi verso una fenomenologia più umana dell’amore, muovendosi tra evocazioni personali e analisi
psicologica. E’ importante per la sua funzione di ponte tra stilnovismo e petrarchismo.

Capitolo 5: La prosa dal Duecento al Trecento


1. Le <<artes dictandi>>

1.1 La centralità di Bologna


E’ a Bologna, dove intensa era l’attività notarile e giuridico-cancelleresca, che si situa la fondazione della
retorica volgare: Boncompagno da Signa, il cui testo più importante, la Rhetorica antiqua, proponeva un
tipo di retorica semplificata secondo la forma e l’uso della Chiesa e insisteva sul significato della retorica
come dottrina necessaria a collegare le arti liberali e il diritto. La figura di maggior rilievo è quella di Guido
Faba, attivo nella prima metà del Duecento. A lui si deve la Gemma purpurea: trattatello di retorica
epistolografica che istituisce un rapporto di parità tra latino e volgare.
1.2 Il <<digrossatore>> Brunetto Latini
L’impegno di “digrossatore” era frutto della consapevolezza di un nesso assai stretto tra arte del dire e dello
scrivere da una parte e arte del governare dall’altre: tra retorica e politica. Brunetto scrive la Retorica nel
1260, agli inizi del suo esilio in Francia. Il testo consiste nella traduzione dei primi diciassette capitoli del De
inventione di Cicerone, con l’aggiunta di un ampio commento. Due sono le specifiche competenze della
retorica: stabilire le norme del “dire” e quelle del “dittare”. Le prime riguardano l’oratoria, utile nei processi
e in politica; le seconde sono riferite ai componimenti letterari, in prosa e poesia, e il vertice di tali scritture
viene raggiunto, a giudizio di Brunetto, quando esse agiscono da strumento di ammaestramento, quando
esse “muovono li animi a ben fare”.
1.2 Le <<Lettere>> di Guittone d’Arezzo
Il primo significativo epistolario della letteratura italiana è quello costituito dalle lettere di Guittone
d’Arezzo, per la gran parte indirizzate ai confratelli e hanno per argomento problemi teologici e morali.

2. I volgarizzamenti

2.1 Dal latino


Così fervida è l’attività di volgarizzamento e così ampio è il ventaglio dei testi verso cui è orientata, che non
sembra esagerata l’opinione secondo cui quasi tutta la produzione letteraria in prosa del Duecento possa
essere considerata come frutto di volgarizzamento. Spicca la figura di Bono Giamboni: numerosi sono i suoi
volgarizzamenti in cui si cimenta con autorevoli scrittori medievali, convertiti in una prosa che per ritmo e
sostenutezza può essere ritenuta tra le più degne di apprezzamento nella prima letteratura in volgare. Nel
riprendere le fonti, Giamboni sviluppa un discorso etico-filosofico che denota una prospettiva ideologica
laica e progressista. Gli scontri allegorici della fede con le altre religioni vengono sceneggiati in modo tale da
rivelare lo spirito di tolleranza dell’autore, mentre la sua visione laica ha modo di emergere e di
manifestarsi in netta evidenza nel momento in cui alla filosofia, maestra della virtù, s’inchina in atto di
riverenza la stessa fede.
2.2 Dal francese
La strada dei volgarizzamenti è la stessa che, attraverso un altro sentiero, conduce all’affermarsi autonomo
della prosa narrativa. Nella fattispecie l’area verso la quale si indirizzava l’attenzione era quella francese. Il
dominio è del romanzesco. I volgarizzamenti favoriscono la divulgazione del mondo arturiano.

3. L’enciclopedia e la prosa scientifica

3.1 Il <<Tresor>> di Brunetto Latini


Il più consapevole interprete dei bisogni culturali della civiltà comunale è stato Brunetto Latini. Il più
organico risultato del suo impegno didattico è il Tresor, scritto in francese, che l’autore per sua esplicita
ammissione considerava “la più comune di tutte le lingue”. Il Tresor è scritto in prosa, probabilmente per
un’esigenza di estrema chiarezza e sempre per lo stesso motivo, viene abbandonato l’allegorismo. Il Tresor
è un’enciclopedia nella quale Brunetto riversa il patrimonio delle sue conoscenze. Il suo è un sapere che
non nasce da speculazioni originali, ma è frutto della rielaborazione di cognizioni già note.
Sono tre i libri in cui Brunetto articola il suo Tresor: nel primo si considera la nascita dell’universo e dopo
alcuni ragguagli di teologia, si danno informazioni di anatomia, geografia, zoologia, di cosmogonia, di storia;
nel secondo sono descritti e analizzati i vizi e le virtù; nel terzo si affronta il problema del governo delle città
e le istituzioni della civiltà comunale sono apprezzate come quelle che sono in grado di garantire la forma
perfetta di governo, in contrapposizione a quelle vigenti nella monarchia francese.
Un’altra grande summa enciclopedica duecentesca, scritta in latino, è lo Speculum di Vincenzo Beauvais,
d’impronta scolastica e di spirito religioso.
3.2 Restoro d’Arezzo
L’esigenza di una diffusione più larga del sapere abbatte la prerogativa del latino quale unico veicolo di
comunicazione scientifica. In prosa aretina è La composizione del Mondo colle sue cascioni (cagioni) di
Restoro d’Arezzo. Restringe alla cosmogonia e all’astronomia il campo di attenzione della sua curiosità
scientifica: il fine del sapere scientifico diventa quello di portare alla luce il funzionamento e le
manifestazioni di tale meccanismo. Per Restoro “il bianco non si conosce se non si conosce il nero”. Vige un
sistema binario che garantisce la conoscenza solo attraverso la dinamica degli opposti e delle
contrapposizioni: luce e ombra, vuoto e pieno.
4. Le cronache
Per tutto il Duecento vi è un proliferare di cronache, fra tutti gli storiografi del Duecento, emerge Salimbene
da Parma, autore della Cronica; se da una parte è ancora il latino a essere assunto come lingua degna della
storia, dall’altra il suo è un latino dialettale, colorito, parlato, del tutto in linea con una materia
contemporanea e adatto a lettori più ansiosi di curiosità che ambiziosi di un approfondito apprendimento
culturale. Realismo descrittivo e ricchezza narrativa, sostenuti da una lingua popolare, costituiscono i grandi
pregi della Cronica.

5. Dino Campagni
Il maggior cronista vissuta tra i due secoli è Dino Campagni; di lui si conservano alcune rime ma l’opera più
importante è la Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi: non ancora rimosso è il retaggio di paradigmi
medievali, persiste la visione provvidenzialistica della storia e si ricorre all’implorazione dell’intervento
divino al fine di agire contro la malvagità.

6. La prosa narrativa

6.1 Narratio brevis: exempla e raccolte a carattere esemplare


Nel Duecento manca il genere proprio della narrazione lunga: il romanzo. La letteratura italiana per molto
tempo sarà prevalentemente una letteratura che per la narrativa in prosa non privilegerà il romanzo, ma la
novella; le fonti e precedenti tanto contenutistici quanto formali della novella italiana si rintracciano negli
esiti della narratio brevis mediolatina e romanza, nelle legendae agiografiche, negli exempla della
predicazione morale, nei lais, nei fabliaux, nelle vidas e nelle razos della letteratura d’oltralpe. Si possono
individuare, alcune raccolte che si inseriscono nel segno della narratio brevis e della destinazione
esemplare. Le narrazioni a carattere romanzesco del ciclo classico e le storie di cavalieri della tavola
rotonda forniscono il materiale narrativo alle venti leggende storiche e cavalleresche contenute nei Conti di
antichi cavalieri, di un anonimo scrittore toscano. Il testo maggiormente significativo nella novellistica del
Duecento è il Novellino.
6.2 Il <<Novellino>>
Novellino è un titolo convenzionale che è stato ricavato dal modo con cui nel Cinquecento Giovanni della
Casa indicò la raccolta di novella in una lettera indirizzata nel 1525 a Carlo Gualteruzzi, Le ciento novelle
antike. Il Novellino registra in chiave narrativa gusti, mentalità e aspirazioni della società di fine Duecento;
contemporaneamente però, l’anonimo autore è preoccupato del recupero di valori del mondo cortese,
come l’onestà, la lealtà, la liberalità, e tende al rilancio di nobili costumanze, di cui sono portatori
personaggi illustri di ogni epoca. Il fatto che in gran parte del Novellino <<i nobili e gentili>> siano assunti a
principali protagonisti dei racconti, perché possano proporsi <<quasi come uno specchio appo i minori>>,
dimostra il persistere di una responsabilità morale delle novelle. La raccolta si propone anche come
esempio concreto di realizzazione dell’arte retorica e, in particolare, fra i precetti della retorica viene
seguito quello che raccomanda l’impiego della brevitas quale strumento di rappresentazione essenziale,
concentrata in brevi cenni descrittivi. Il racconto, prima di insegnare qualcosa, deve piacere per sé, per
come è narrato.
6.3 Il racconto di viaggio: Marco Polo
Capolavoro indiscutibile della letteratura di viaggio è il Milione, dal soprannome –Emilione- del suo autore,
il veneziano Marco Polo (1254-1324). Una motivazione economica e commerciale è all’origine del lungo
viaggio che Marco Polo compie nel regno dell’imperatore mongolo Kublai Khan. Il proposito di Marco Polo
è di raccontare quanto ha visto durante il lungo periodo trascorso in Oriente, ove fu gratificato della stima
del Gran Khan, che non esitò ad affidargli incarichi diplomatici e responsabilità amministrative. Se il
racconto dà l’impressione di irrompere nel territorio del meraviglioso è perché, il meraviglioso è nella realtà
stessa, il prodigioso e fantastico sono nelle cose e nelle persone: nelle immense ricchezze dell’Asia, nello
splendido palazzo del Gran Khan e anche nella stupefacente organizzazione postale del suo impero, nell’uso
della carta moneta, nelle arti mediche e negli incantesimi dei maghi.

Capitolo 6: Dante Alighieri

1. La giovinezza, Firenze, Beatrice


Nato a Firenze nel 1265 riceve una buona istruzione nella grammatica e nella logica e segue
successivamente, lezioni di diritto e di filosofia. Partecipa tra le fila della parte guelfa ai combattimenti della
propria parte contro i ghibellini di Arezzo. Tra adolescenza e giovinezza cade il secondo evento significativo:
l’amore per Beatrice, quando quest’ultima muore precocemente nel 1290, Dante ricostruisce la storia
amorosa nel libretto della Vita nova.

2. La <<Vita nova>>

2.1 L’amore giovanile e il <<libello>> che racconta l’amore


Il primo libro di Dante –la Vita nova- scritto dopo la morte di Beatrice tra il 1293 e il 1295, è la
testimonianza lirica e insieme il ripensamento idealisticamente trasfigurato dell’esperienza amorosa della
giovinezza. Beatrice è colei che conduce il poeta al suo rinnovamento: di qui il senso peculiare di “vita
nuova”. Il cammino di perfezionamento è duplice: c’è quello di natura interiore, psicologica, spirituale, che
produce un raffinamento umano e morale, e c’è quello degli strumenti letterari, che consente il
superamento di schemi formali ormai logori in nome di un’originale dolcezza di stile.
Per la Vita nova Dante sceglie entro il corpus della sua produzione giovanile, 31 componimenti: 25 sonetti, 4
canzoni, una ballata e una stanza isolata di canzone. Le poesie vengono collegate tra di loro mediante la
prosa, che da una parte funziona da tessuto narrativo perché serve a introdurre e a giustificare la
circostanza da cui le poesie hanno tratto ispirazione, e dall’altra è rivolta a spiegare gli aspetti retorici e
formali delle liriche. Per tale struttura il testo è definito prosimetro (libro misto di poesia e prosa) sul
modello del De consolatione Philosophiae di Severino Boezio. Nel passaggio dal “libro della memoria” al
“libello” scritto agisce un lavoro di selezione che impedisce di considerare il prosimetro alla stregua di un
fedele documento autobiografico. Il protagonista del “libello” non è Beatrice ma è Dante che racconta la
sua giovinezza alla luce della determinante esperienza d’amore che l’ha caratterizzata. Ne consegue la
duplice valenza di interpretazione del titolo stesso dell’opera: da una parte “vita nova” sta a significare “vita
giovanile” e dall’altra è interpretabile nel senso di “vita rinnovata”, con un rinnovamento che è quello
prodotto dall’esperienza d’amore.
2.2 Dal “saluto” al “gabbo”
Dante riferisce della prima volta in cui gli appare Beatrice, a nove anni, e di quando la rivede nove anni
dopo, insistendo sul numero nove come segno di perfezione in quanto multiplo di tre, indicativo della
trinità. Si passa poi al “saluto” che Beatrice rivolge al poeta e tanto il saluto, da intendersi, alla luce
dell’etimologia latina, come “salvezza”, quanto il nome stesso della donna, portatrice di beatitudine,
prefigurano allusivamente una destinazione non mondana dell’incontro, rafforzata da un’enigmatica
visione che il poeta ha dopo essere stato gratificato del saluto e che espone nel primo sonetto del libello, A
ciascun’alma presa e gentil core: un sonetto-questione, inviato a tutti i “fedeli d’amore” perché risolvano i
suoi dubbi, in particolare quello del macabro spettacolo della donna amata che si pasce del suo cuore; e fra
i molti che rispondono <<fue risponditore quelli cui io chiamo primo del li miei amici>> cioè Guido
Cavalcanti. Il saluto dispone Dante all’amore, poiché sul piano dei rapporti sociali, esige discrezione e
segretezza, secondo le regole dell’amor cortese, cui il poeta si attiene nella prima fase della sua esperienza
e del libretto che la racconta. Dante mette in atto una strategia di gesti e di atti che possano celare la vera
identità della donna da lui amata. La soluzione è quella di simulare e far credere che ad altra donna sia
indirizzato il suo interessamento: una <<gentile donna schermo>> che gli consente di conservare il segreto
sulla gentilissima donna cui veramente è indirizzato il suo amore. Quando la donna dello schermo si
allontana da Firenze, il poeta rivolge il suo fittizio amore a una seconda donna dello schermo, ma le voci del
suo comportamento giungono a Beatrice, che lo punisce togliendoli il saluto. Il poeta cade in uno stato di
prostrazione che ha il suo momento più acuto quando, invitato ad una festa di nozze cui partecipa anche
Beatrice, nell’accorgersi della presenza di lei trema e impallidisce. Tale “trasfigurazione” del volto non
suscita compassione in Beatrice e nelle donne che la accompagnano: anzi, la loro reazione è di scherno, di
irrisione, di “gabbo”, secondo l’incipit del sonetto Con l’altre donne mia vista gabbate.
Per i sonetti che si riconducono a tale situazione, utilizza un repertorio d’immagini cavalcantiano, ritenuto il
poeta più ricco di offerte per la rappresentazione drammatica del mondo sentimentale.
2.3 Lo <<stilo della loda>>
Quando si rende consapevole che gli è preclusa la facoltà di realizzare la perfezione dell’amor cortese,
scavalca il traguardo del saluto quale fine del suo amore. Si determina a questo punto, una svolta poetica.
Con l’individuazione della “materia nuova” il poeta liquida la dominante concezione secondo la quale
l’omaggio dell’amante era sollecitato dalla speranza di un riscontro, quale ad esempio saluto. Ora l’omaggio
è insieme mezzo e fine della devozione amorosa e l’appagamento consiste nella felicità di un canto che non
contempla la registrazione di trasalimenti o di pene personali, ma è totalmente votato alla celebrazione
dell’amata, e nella lode della donna trova il suo premio intero. Su questi presupposti si fonda la canzone-
manifesto dello stilnovismo dantesco, Donne ch’avete intelletto d’amore, a seguito della quale si allineano,
sostenute da analoga intenzione celebrativa delle virtù morali e delle potenzialità spirituali di Beatrice, le
altre “nove rime” della lode, ove si impone l’identità di figura miracolosa assunta da Beatrice. Diversamente
da Guinizzelli, che a conclusione della sua canzone giustificava il suo amore al cospetto di Dio, affermando
di non aver saputo resistere alla donna perché <<tenne d’angel sembianza>>, Dante osserva che il cielo
<<non have altro difetto>> che l’assenza momentanea di Beatrice, <<venuta / da cielo in terra a miracol
mostrare>>. Se per Guinizzelli la donna sembra un angelo, per Dante la donna è un angelo. L’identità della
donna è per il primo, quella della donna-angelo, il secondo quella dell’angelo-donna. Un sogno che il poeta
ha nel delirio di uno stato febbrile, prefigura la morte dell’amata entro uno scenario di natura stravolta, in
tutto rispondente al modello delle pagine del Vangelo che raccontano la passione di Cristo, e
l’identificazione della donna con una creatura celeste è ribadita dal coro degli angeli che accompagna la sua
ascesa al cielo. Dopo tale premonizione, Dante ha un’altra immaginazione, che sposta l’asse di riferimento
dal piano amoroso a quello letterario.
2.4 La <<donna pietosa>> e il ritorno di Beatrice
Dante non racconta la morte di Beatrice: la preannuncia e quando accade, comunica solo l’evento. La
scomparsa dell’amata per nulla modifica la sostanza di un amore che non ha bisogno della presenza della
donna, perché si esalta della sua spiritualità e della sua trascendenza. Al poeta sconsolato compare una
<<gentile giovane e bella molto>> che, nell’osservarlo da una finestra, lo vede immerso nel suo dolore e
prova compassione nei suoi confronti. Dante si lascia attrarre dalla consolatrice, che insidia nella sua mente
la memoria di Beatrice, e per lei compone quattro sonetti. Il rischio di un cedimento alla possibilità di un
nuovo amore, imprime una sterzata risolutiva alla storia: l’apparizione di Beatrice, giovane e bella così
come la prima volta che gli era apparsa, aiuta Dante a rimuovere la sua viltà. E scacciato il <<malvagio
desiderio>> per la donna pietosa, torna col pensiero alla <<gentilissima Beatrice>>, che infine gli si rivela
nella gloria celeste. Dante si congeda dalla donna amata e dal suo libello con una promessa e speranza: la
promessa di <<non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di
lei>>, e la speranza di <<dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuno>>.
2.5 Il percorso spirituale e il percorso letterario
Il grande progetto (la Commedia) potrà maturare dopo che la tematica amorosa sarà irrobustita grazie al
contributo delle letture filosofiche e a conseguenza dell’impegno morale e politico. Con l’auspicio espresso
a conclusione della Vita nova, ci si accosta alle radici della maestosa pianta della Commedia, perché fin
d’ora la trasvalutazione dell’immediato autobiografismo determina il ruolo ultraterreno e la funzione
salvifica di Beatrice. La componente mistico-religiosa non deve lasciare in ombra il carattere
eminentemente letterario del libello, che si manifesta in almeno due decisive risoluzioni: nel progetto di
fare della Vita nova una summa dell’attività lirica giovanile e nell’insistito appoggio del discorso a citazione
che vanno dalla Bibbia ad autori e opere della letteratura classica e di quella medievale. La Vita nova è la
ricostruzione orientata dell’amore giovanile di Dante ed è anche la storia della sua vocazione di poeta.

3. Le <<Rime>>

3.1 Tra Guittone e Cavalcanti


Dante non si preoccupò mai di raggruppare e riordinare un libro organico le liriche del tempo della Vita
nova, escluse dalla compagine del libro. Tali poesie costituiscono il libro delle Rime.
Alla maniera del sonetto-quesito si apparentano i sonetti di corrispondenza con Dante da Maiano,
riconducibili al magistero tecnico e artificioso di Guittone che però verrà presto abbandonato, anche perché
l’accostamento ai temi dell’amor cortese convince Dante ad apprezzare la lezione di raffinatezza
aristocratica di Guinizzelli e di Cavalcanti. Il rapporto di amicizia con quest’ultimo è testimoniato dal sonetto
Guido, i’ vorrei che tu Lapo ed io. Spostando l’attenzione sui debiti contratti da Dante delle Rime nei
confronti di Cavalcanti, si noterà come il recupero di motivi e immagini avvenga lungo due direttrici: agisce
l’influsso del Cavalcanti più leggiadro, quello nei modi aggraziati e musicali, contrappuntati di diminutivi e
vezzeggiativi; e l’aderenza al Cavalcanti più addolorato e cupo per altre canzoni.
3.2 La tenzone con Forese Donati
Dovrebbero appartenere al periodo del traviamento di Dante dopo la morte di Beatrice i sonetti della
tenzone con Forese Donati –fratello di Corso Donati- il futuro capo dei neri. Sono sei sonetti di botta e
risposta in cui i due contendenti non hanno freni nello scambiarsi contumelie e insulti infamanti. Il
contrasto aperto da Dante che taccia Forese di essere incapace di soddisfare la moglie, mette a nudo anche
la sua situazione di indigenza, procedendo con accuse di vigliaccheria e avarizia lanciata da Forese.
3.3 Poesia allegorica e didattica
Non senza riscontri sul piano della poesia è l’impegno di Dante negli studi filosofici. Dante tenta il difficile
esperimento della poesia dottrinale (Le dolci rime d’amor ch’io solia). La bellezza è finalizzata al piacere, la
virtù all’azione.
3.4 Le <<rime petrose>>
Negli anni che precedono l’esilio, Dante scrive quattro componimenti che costituiscono le cosiddette
<<rime petrose>>. All’opposto della dolce e celestiale donna angelicata dello stilnovismo, la <<donna
Petra>> per la sua durezza, si rivela avversa e crudele; il controcanto allo stilnovismo è impostato tanto
sull’opposizione stilistica quanto sul repertorio di immagini; il gelo, la fredda neve, la noiosa pioggia;
allestiscono uno scenario adatto a un amore che non è felice né corrisposto, ma contrastato e respinto. E’
amore che non raffina né eleva, perché è amore dei sensi e il dolore nasce dalla sottrazione del piacere.
3.5 Poesie del tempo dell’esilio
Si percepisce un’aura da <<petrose>> nell’assunto di quella che è considerata l’ultima delle canzoni di
Dante: Amor, da che convien pur ch’io mi dolga. Argomento della poesia è l’amore non corrisposto per una
bella donna e il dolore che il poeta prova, gli appare più aspro di quello della nostalgia di Firenze. Ma il
momento più alto e commosso Dante lo aveva toccato in un componimento precedente: la canzone Tre
donne intorno al cor mi sono venute. Al poeta fanno visita tre donne, che personificano la giustizia divina, la
giustizia umana e la legge positiva. Messe al bando dal consorzio umano, appaiono al poeta prostrate
nell’animo e lacere nelle vesti, ma ancora fiere e dignitose. Dante si rende conto di come la sua malvagia
sorte personale si iscriva nel quadro di una ingiustizia generale, al punto che l’afflizione arriva a convertirsi
in scatto di orgoglio.
4 Il “Fiore” e il “Detto d’Amore” attribuiti a Dante
Fra le opere degli anni che precedono l’esilio si registrano anche due poemetti, il Fiore e il Detto d’Amore,
per i quali manca la certezza della sicura paternità: il sospetto di una possibile paternità dantesca è sorto
perché, nel Fiore compare in due circostanze il nome dell’autore <<Durante>>; Dante è un ipocorismo –una
forma abbreviata- di Durante, nome proprio con cui era stato battezzato l’Alighieri. Altri indizi sono:
corrispondenze lessicali, stilistiche, formali, metriche tra i versi del Fiore e quelli delle Rime e della
Commedia.

5. L’esilio e i trattati

5.1 Dal priorato alla condanna, all’esilio, alla morte


La Firenze dell’ultimo quinquennio del Duecento in cui Dante consuma la sua breve carriera politica è una
città lacerata da forti contrasti tra la famiglia guelfa dei Cerchi (guelfi bianchi) e la famiglia Donati (guelfi
neri); i bianchi rivendicavano l’autonomia del Comune, mentre i neri uno stretto rapporto con il Papa,
Dante aderirà ai bianchi. Nel 1300 viene nominato priore per il bimestre 15 giugno – 15 agosto, ma una
settimana dopo l’insediamento, una violenta rissa scoppiata tra alcuni componenti delle fazioni, provoca
una risoluzione drastica ed esemplare: viene deliberato il confino per sette capi di parte nera e sette di
parte bianca. Bonifacio VIII trattiene Dante che viene a trovarsi lontano da Firenze quando si verifica
l’evento che aveva tentato di impedire: Carlo di Valois fa il suo ingresso a Firenze, favorendo l’ascesa al
potere dei Neri. Si aprono processi sommari nei confronti dei Bianchi, e Dante è una delle prime vittime di
tale modo sbrigativo e vendicativo di fare giustizia, perché, accusato di baratteria, di opposizione al papato
e al suo legato Carlo di Valois e di turbamento dell’ordine pubblico, è condannato in contumacia
all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, a una multa e al confino per due anni. Dante non presentandosi
entro i tre giorni prescritti per pagare l’ammenda, con ulteriore sentenza viene condannato a morte in
contumacia, con confisca di tutti i suoi beni. Per evitare di essere catturato e messo al rogo Dante sceglie la
via dell’esilio, che sarebbe durato per tutta la vita.
5.2 Il <<Convivio>>
Dopo il fallimento dei tentativi dei fuoriusciti di cambiare la situazione politica (1304), Dante si dedica in
modo pressoché esclusivo alla meditazione filosofica. Il risultato dell’impegno intellettuale è consegnato
alla stesura, di due trattati: il Convivio e il De vulgari eloquentia. Se nella Vita nova Dante aveva rivisitato
attraverso la memoria lirica i suoi anni giovanili, esaltando l’esperienza amorosa per Beatrice, ora nel
Convivio, ricostruisce la propria identità collocando al centro dell’interesse la maturazione avvenuta dopo la
scomparsa dell’amata, in “trenta mesi” di frequentazione delle “scuole de li religiosi” e delle “disputazioni
de li filosofanti”. All’autobiografia amorosa subentra l’autobiografia culturale e a far da ponte è la ripresa
dell’episodio della “donna pietosa” che prova compassione per il poeta dopo la morte di Beatrice: non una
donna reale, ma una donna che va allegoricamente intesa per “figlia di Dio, regina di tutto e bellissima
Filosofia”; e che la filosofia possa benissimo assolvere al ruolo di consolatrice.
Dante denomina il suo trattato Convivio perché alla luce del significato della parola latina convivium cioè
“banchetto”, egli intende allestire una “beata mensa”, un banchetto di sapere a beneficio dei non letterati.
Il pubblico cui Dante pensa di rivolgersi è quello di “principi, baroni, cavalieri e molt’altra nobile gente, non
solamente maschi ma femine” e verso di loro pensa che sia più conveniente rivolgersi scrivendo in volgare:
riconosce l’inferiorità del volgare rispetto al latino, però giustifica la sua scelta fondandola su almeno tre
buone ragioni: primo, sarebbe stato sconveniente commentare in una lingua più nobile, il latino, delle
poesie scritte in volgare; secondo, solo attraverso il volgare si sarebbe data prova di liberale generosità
nell’elargire al maggior numero possibile di persone il bene del sapere; terzo, il volgare è la loquela
naturale, destinata a raggiungere la perfezione del latino e a soppiantare il latino stesso.
Dante aveva progettato il Convivio come un libro ripartito in quindici trattati di cui il primo introduttivo e gli
altri quattordici a commento di altrettante canzoni; in realtà si hanno solo quattro trattati. Il Convivio resta
incompiuto, probabilmente perché l’alta fantasia della Commedia sottrae Dante all’analitico lavoro della
teoresi filosofica e della divulgazione enciclopedica.
Al capitolo introduttivo Dante riserva l’ufficio di definizione dei destinatari del libro e di giustificazione della
lingua impiegata.
Col secondo trattato ha inizio la parte speculativa, in cui vengono affrontati due argomenti: il primo di
natura metodologica e riguarda i quattro sensi secondo cui vanno interpretate le Scritture, il secondo
consiste nella descrizione dei cieli e delle intelligenze angeliche ad essi preposte.
Il terzo trattato si apre con la canzone Amor, che ne la mente mi ragiona, che celebra la Filosofia, in quanto
l’intelligenza e il sapere avvicinano gli uomini a Dio e coloro che non accedono alla conoscenza sono da
considerare <<peggio che morti>>.
Il quarto trattato è introdotto dalla canzone Le dolci rime d’amor ch’io solia: le difficoltà incontrate negli
studi filosofici consigliano il poeta di sospendere l’esperienza delle rime allegoriche e di orientarsi verso una
tematica etica e civile. In questo quarto trattato Dante affronta il tema della vera nobiltà, un tema di
capitale importanza in una società qual era quella contemporanea al poeta.
Il retroterra culturale del Convivio è molto vasto ed eterogeneo: Virgilio, Seneca, i padri della Chiesa… il
Convivio è opera di un intellettuale appassionato di letture filosofiche, non di un filosofo sistematico.
5.3 Il <<De vulgari eloquentia>>
Contemporaneo al tempo del Convivio è il De vulgari eloquentia, trattato progettato in quattro libri e
anch’esso rimasto interrotto al secondo libro. Il proposito di Dante è di analizzare i problemi della lingua e
di giustificare la dignità del volgare. Poiché i destinatari del suo intervento dovevano essere principalmente
i dotti, i <<chierici>>, coloro che nutrivano forti dubbi sulle possibilità d’impiego del volgare, ecco che Dante
scrive in latino. Il primo libro è occupato da argomenti di linguistica generale e storica. Il frazionamento
linguistico seguito alla punizione divina ha portato alla suddivisione delle lingue europee in tre famiglie: la
germanica, la greca e la neolatina. E’ su quest’ultima che Dante si sofferma, per insistere poi, all’interno
della tripartizione in lingua d’oc, lingua d’oli e lingua del si (il volgare italiano): l’obiettivo è di fissare una
lingua convenzionale, che di fronte alla varietà e mutevolezza delle lingue naturali s’imponga con la stabilità
delle sue regole generali. Nessuna delle parlate regionali possiede i requisiti necessari a imporsi sulle altre.
Dante constata che i maggiori poeti italiani, hanno scavalcato i confini regionali, esprimendosi in un volgare
sovramunicipale unitario. In rapporto a un’Italia che esiste come ipotesi geografica e giuridico-politica,
prospetta la possibilità di un idioma comune, di una lingua che viene qualificata attraverso quattro epiteti:
illustre perché perfetta e nobilitante, cardinale perché punto di riferimento e di vaglio per le parlate
municipali, aulica perché tale lingua sarebbe quella parlata nel palazzo reale qualora gli italiani avessero
una reggia e curiale perché degna del tribunale supremo se esso esistesse in un’istituzione politica e civile
unitaria. Dante si occupa dei contenuti degni del volgare illustre: salus (poemi epici assai diffusi in Francia);
venus (è la lirica d’amore praticata e realizzata dai trovatori provenzali e dagli stilnovisti); virtus (è la poesia
della rettitudine, che ha nelle canzoni morali dottrinarie dello stesso Dante un modello assai significativo).
Duplice è la natura del materiale di riflessione attorno al quale si organizza il De vulgari eloquentia: da una
parte il patrimonio erudito e libresco dei manuali di retorica; dall’altra l’esperienza personale di poeta. Col
suo trattato Dante consegue due risultati di rilievo: uno normativo, l’altro storiografico. Mentre illustra le
componenti formali, stilistiche e retoriche della poesia, Dante ne inquadra anche i momenti di evoluzione,
scrivendo in pratica quel primo capitolo della storia della poesia italiana che ne ha condizionato
l’inquadramento fino ai nostri giorni, con la partizione basilare di scuola siciliana, siculo-toscani, poeti
bolognesi e poeti del dolce stil novo.

6. Opere latine al tempo dell’esilio


6.1 La <<Monarchia>>
Il solo trattato portato a compimento da Dante è la Monarchia, che viene scritto in latino negli anni
dell’esilio. Nei tre libri in cui si articola la Monarchia, Dante riversa le tre idee fondamentali del suo pensiero
politico: 1) l’Impero è l’istituzione provvidenzialmente necessaria per unire politicamente l’umanità e per
garantire il benessere del mondo; 2) il popolo romano è deputato, per disegno della provvidenza, alla scelta
dell’imperatore; 3) l’autorità imperiale e l’autorità pontificia discendono direttamente da Dio e dunque i
due poteri sono autonomi. Il papa e l’imperatore derivano direttamente da Dio, senza mediazioni, la loro
autorità è considerata la separazione dell’uomo in corpo e anima, provvede ad un doppio fine: la felicità
terrena e la felicità eterna. La separazione delle competenze non esclude, uno spirito di matura
collaborazione; e in relazione al fatto che il raggiungimento della felicità terrena è preludio a quella eterna.
6.2 Le <<Epistole>> e le <<Egloghe>>
Sono tredici le Epistole di Dante che ci sono pervenute, tutte in latino. Dante intende l’epistolografia come
un genere letterario cui far ricorso per corrispondenza diplomatica, per ammonimento morale, per
partecipazione politica, per interventi a carattere letterario. L’epistola XII diretta a Cangrande della Scala
per annunziarli la dedica e inviargli il primo canto del Paradiso, chiarisce le motivazioni poetiche, morali e
politiche che sono fondamento del poema e ne illustra i criteri per una corretta interpretazione. Dante
distingue tra senso letterale e senso allegorico della visione e una lettura adeguata del poema esige
l’integrazione tra i due sensi: il senso letterale che raffigura il viaggio ultraterreno del protagonista e
rappresenta lo stato delle anime dopo la morte e il senso allegorico che presenta il destino di castigo o
grazia eterni che l’uomo consegue scegliendo, col libero arbitrio, il male o il bene. Ai personaggi e agli
episodi della Commedia, sono affidati un significato reale e storico e un significato esemplare e morale e il
fine pratico di insegnamento etico e di innalzamento spirituale è raggiunto in virtù della congiunzione tra
verità e allegoria.
Agli ultimi anni della sua vita appartengono due Egloghe, in esametri latini, scritte in risposta ad un
grammatico bolognese.

7. La <<Commedia>>

7.1 Gli anni di composizione


Poco dopo i quarant’anni, Dante dà avvio alla stesura della Commedia e tale impegno lo accompagnerà,
nelle peregrinazioni dell’esilio, fino alla morte. Come congettura meglio accettabile, risulta che l’avvio della
stesura della prima cantica sia da collocarsi nel 1306-1307: con l’interruzione del Convivio e del De vulgari
eloquentia.
7.2 Il titolo
All’epistola a Cangrande, Dante distingue lo svolgimento della tragedia da quello della commedia perché
nella prima <<la materia al principio è ammirabile e placida, alla fine o conclusione è fetida e orribile>>,
mentre <<la commedia poi introduce l’acerbità di alcuna cosa, ma la sua materia termina
prosperamente>>. Il termine <<comedìa>> appare solo in due circostanze e solo nell’inferno, mentre nel
paradiso, per qualificare la sua opera Dante la denomina <<poema sacro>>.
7.3 Precedenti e fonti
La generica ed enigmatica <<mirabile visione>> con cui si chiudeva la Vita nova, accompagnata dalla
promessa di una celebrazione sublimante della donna amata, si adempie nella pienezza di contenuto della
visione della Commedia, col ritorno di Beatrice che promuove, guida e conduce alla conclusione celeste il
viaggio ultraterreno di Dante. Nel ricordare i precedenti viaggi ultraterreni compiuti da san Paolo e da Enea,
Dante suggerisce anche le fonti alle quali si appoggia la sua ideazione. Sono da tenere in considerazione
anche i viaggi dell’Averno, narrati in più di una circostanza da Ovidio nelle sue Metamorfosi e il racconto di
Lucano. E’ a questi testi che fa riferimento Dante, piuttosto che ai più recenti –e forse da lui non conosciuti-
poemetti di Giacomino da Verona e di Bonvesin de la Riva, che contengono rappresentazioni dell’inferno de
del paradiso.
7.4 L’architettura del poema
I versi della Commedia sono 14.223, distribuiti in cento canti di differente misura, da un minimo di 115 versi
a un massimo di 160. I canti sono ripartiti in tre cantiche di 33 canti ciascuna, tranne la prima, l’Inferno, che
consta di 34 canti, perché il primo è introduttivo. L’equilibrio dell’insieme si fonda su di una serie di
corrispondenze strutturali che si manifestano nel ritornare dei numeri 3 e 10 e dei loro multipli. La terzina
incatenata è lo strumento metrico di scansione degli endecasillabi e al numero 3 al multiplo di 3, il 9, con a
volte l’aggiunta di una unità per formare il 10, sottostanno altre simmetrie.
Nove sono le parti dei tre regni ultraterreni: l’inferno, costituito da un vestibolo e nove cerchi (1+9); le parti
del purgatorio sono nove, con l’aggiunta al culmine del paradiso terrestre (9+1); i nove cieli del sistema
tolemaico più l’Empireo (9+1) compongono il paradiso. In tutte e tre le cantiche il canto VI è di argomento
politico, con progressione da Firenze all’Italia e quindi all’Impero. Il vocabolo che chiude le tre cantiche è lo
stesso <<stelle>>. Di rilievo è anche la constatazione che i due canti centrali dell’intera opera, il
cinquantesimo e il cinquantunesimo, vale a dire il XVI e il XVII del Purgatorio, affrontano i fondamentali
problemi del libero arbitrio e della dottrina dell’amore, veri e propri nuclei concettuali del pensiero
dantesco.
7.5 Il viaggio nei tre regni ultraterreni
L’Inferno. Egli immagina di compiere il suo viaggio ultraterreno quando è giunto al culmine della sua
parabola esistenziale, a trentacinque anni, nel 1300. Il viaggio si svolge in sette giorni, lo stesso numero di
giorni impiegati da Dio nella creazione, a cominciare dal 7 aprile, il venerdì santo.
Dante smarrito in una <<selva oscura>> (il peccato), pensa di poter trovare salvezza dirigendosi verso un
monte che vede illuminato dai raggi del sole. Il suo cammino è però ostacolato da tre fiere che gli si parano
davanti successivamente: una lonza (l’invidia), un leone (la superbia) e una lupa (la cupidigia). Gli viene
allora in soccorso un’ombra, che si rivela essere quella di Virgilio, inviato in suo aiuto da Beatrice e dalla
Vergine. La salvezza per lui potrà venire solo dopo che avrà percorso i regni della dannazione e della
purificazione. Dante rappresenta l’Inferno come una profonda voragine a forma di cono, che è stata aperta
sotto Gerusalemme da Lucifero quando fu cacciato dall’Empireo. I dannati sono distribuiti lungo i cerchi
degradanti di questo imbuto secondo un criterio di valutazione delle colpe che si rifà all’Etica Nicomachea e
alla Fisica di Aristotele. Tutti i dannati sottostanno alla legge del contrappasso: le punizioni infernali trovano
corrispondenza per similitudine o per contrasto col peccato commesso: i lussuriosi (abbandonati al furore
della passione) vengono incessantemente travolti da una bufera di vento; gli indovini che volevano scrutare
nel futuro, hanno il viso girato dalla parte del dorso e devono procedere all’indietro.
1° cerchio: dopo essere entrati nell’Inferno e aver superato l’Antiferno, Dante e Virgilio, condotti dal
traghettatore Caronte attraverso l’Acheronte, entrano nel primo cerchio infernale, il Limbo, ove si trovano
le anime di innocenti che non furono battezzati.
2°-5° cerchio: gli incontinenti, cioè coloro che subordinarono la ragione e il senso della misura all’istinto e
alle passioni, occupano i cerchi dal secondo al quinto: i lussuriosi, i golosi, gli avari e gli iracondi.
6° cerchio: Virgilio e Dante giungono nei pressi della città di Dite, dinnanzi a loro si presenta una pianura
popolata di sepolcri infuocati: è il sesto cerchio, dove vengono puniti gli eretici.
7° cerchio: i dannati del settimo cerchio sono i violenti contro il prossimo e contro se stessi (i suicidi).
8° cerchio: sede dei fraudolenti: ruffiani, seduttori, adulatori, indovini, ipocriti, ladri, i fomentatori di
scandali e discordie (Maometto) e i falsari.
9° cerchio: i peccatori che si macchiarono della colpa di frode contro chi aveva motivi di fidarsi di loro.
Nella parte estrema dell’Inferno trova posto il traditore sommo, il traditore di Dio: Lucifero, che ha tre
facce. In ciascuna delle sue bocche si trova un peccatore: Bruto e Cassio, traditori dell’Impero, e Giuda
traditore di Cristo. Virgilio e Dante completano la loro discesa nei gironi infernali scivolando lungo il corpo
di Lucifero. Così facendo, raggiungono il centro della Terra e qui si capovolgono. Salgono quindi lungo le
gambe del Diavolo e, dopo aver attraversato una caverna scavata nella roccia dalla natura, giungono
all’emisfero australe, ove sorge la montagna del Purgatorio, che si è formata con la terra uscita dalle viscere
del mondo al momento della caduta di Lucifero.
Il Purgatorio. Ai piedi della montagna del Purgatorio, Dante e Virgilio s’imbattono in Catone Uticense, che è
il guardiano del luogo e che sollecita Virgilio a lavare la caligine infernale che ancora copre il volto di Dante
e a cingerlo di un giunco, in segno di umiltà. Si procede verso l’Antipurgatorio, dove sono le anime di coloro
che tardano a pentirsi: la prima schiera è quella degli scomunicati; seguono gli spiriti negligenti, poi le
vittime di morte violenta.
Dinnanzi alla porta che consente l’accesso al monte del Purgatorio sta un angelo portiere, il quale incide
sulla fronte di Dante sette P, indicative del peccato: esse verranno in successione cancellate dagli angeli che
sono a custodia delle sette cornici in cui è suddivisa la montagna del Purgatorio. Le anime dislocate nelle
prime tre cornici sono i superbi, gli invidiosi e gli iracondi. Gli accidiosi occupano la quarta cornice. In
successione troviamo gli avari e i prodighi (che spendono con eccessiva facilità); seguono i golosi. Nella
balza più alta della montagna sono collocati i lussuriosi, avvolti tra le fiamme: fra di loro ci sono i grandi
poeti d’amore: Guido Guinizzelli e Arnaldo Daniello. Il viaggio nel Purgatorio finisce qui.
Gli appare al di là del fiume Lete <<una donna soletta>> che solo alla fine della cantica dichiarerà il suo
nome, Matelda. Rappresenta l’immagine della felicità terrena. Il poeta assiste a una processione simbolica,
aperta da sette candelabri e chiusa da sette vecchi, che configura la storia della Chiesa. Finalmente, sul suo
carro trionfale, entro una nuvola di fiori, compare Beatrice. Smarrito, il poeta non può trovare appoggio in
Virgilio (non può entrare in Paradiso, perché non è battezzato), ha assolto al suo ufficio e d’ora in avanti il
cammino dovrà essere guidato dalla fede, cioè da Beatrice. Rimproverato dalla donna, il poeta confessa le
sue colpe, dopo di che viene immerso nel Lete, le cui acque fanno dimenticare il male.
Il Paradiso. Anche le anime del Paradiso, pur avendo tutte la loro dimora nell’Empireo, più o meno vicine a
Dio a seconda del grado di beatitudine di cui godono, vengono incontro a Dante seguendo una tripartizione
correlativa al loro essere stati in vita saeculares, activi o contemplativi. Per le anime dei beati non esiste una
gerarchia nel godimento della felicità. Essa è piena per tutte. Salito al Paradiso a Dante compaiono, nel
primo cielo, quello della Luna, sotto sembianze diafane ed evanescenti, le anime degli <<spiriti mancanti>>
vale a dire di coloro che mancarono ai voti perché vittime della violenza altrui: come Piccarda Donati e
Costanza d’Altavilla. Fra gli spiriti attivi che dedicarono il loro impegno alla politica e che sono assegnati al
cielo di Mercurio c’è l’imperatore Giustiniano. Nel cielo di Venere si trovano gli spiriti amanti. Nel quarto
cielo –del Sole- a Dante e a Beatrice appaiono gli <<spiriti sapienti>> disposti sotto forma di corone
luminose, prendono la parola San Tommaso (domenicano) che esalta san Francesco e depreca la decadenza
dell’ordine domenicano. Nel cielo di Marte si presenta Cacciaguida, il trisavolo di Dante, morto in crociata;
dopo aver evocato la Firenze dei suoi tempi, sobria, civile, moralmente irreprensibile, e dopo aver
disegnato la parabola di decadenza delle antiche famiglie fiorentine, profetizza a Dante l’esilio e la sua
missione di poeta. Gli spiriti giusti cui è di appartenenza il sesto cielo, il cielo di Giove, compongono con le
loro luci le parole della sentenza biblica “amate la giustizia, voi che siete giudici in terra” per formare poi
l’immagine di un’aquila (appaiono le luci di Traiano, Costantino, Guglielmo il Buono). Gli <<spiriti
contemplativi>> del cielo di Saturno appaiono come luci che si muovono velocissime lungo una scala d’oro:
appaiono le figure di san Pietro Damiano e san Benedetto. L’ottavo cielo è il cielo delle stelle fisse, dove a
Dante è concesso assistere al trionfo di Cristo e all’apoteosi della vergine. Dal successivo nono cielo, il
Primo Mobile, sede delle gerarchie angeliche, Dante compie l’ascesa ultima all’Empireo, dove le anime dei
beati formano una candida rosa e si dispongono come nei gradini di un anfiteatro. Al poeta, incantato
davanti allo spettacolo celeste, si affianca san Bernardo, che sostituito da Beatrice, rivolge alla vergine un
preghiere d’intercessione, affinché Dante possa accedere alla contemplazione di Dio. La grazia viene
esaudita e il poeta ha l’ineffabile visione di dio e dei misteri della trinità e dell’incarnazione.
7.6 Caratteristiche delle tre cantiche
L’inferno è il regno del male, entro un’atmosfera cupa e ossessiva, dominata da pianti e lamenti, in un
paesaggio di rocce, spuntoni, scoscendimenti, in uno scenario in cui si susseguono bufere, piogge di fuoco,
laghi bollenti, cavità ghiacciate, si muove Dante, soggiogato dalla paura e la paura è la parola-chiave del
canto iniziale del poema. In Dante è costante la consapevolezza della separazione tra piano umano e piano
divino e della subordinazione del primo al secondo. Nel canto XXVI, dove prende la parola Ulisse, si
comprende bene che mentre a Dante, che ha temuto che il suo viaggio nell’aldilà potesse essere ritenuto
folle, viene consentito di varcare i confini umani perché ha voluto sfidare i confini imposti da Dio alla
conoscenza umana.
Quanto distingue e separa il Purgatorio sia dall’Inferno sia dal Paradiso è la dimensione della temporalità,
estranea agli altri due regni. Perciò le anime sono preoccupate di farsi ricordare ai vivi, affinché il loro
cammino venga reso più rapido dalle preghiere.
7.7 La Commedia come <<poema totale>>
La Commedia assume la configurazione di un <<poema totale>> perché in essa convergono e si integrano le
esperienze cruciali di Dante e sue idee fondamentali. Viene a stratificarsi uno sterminato materiale poetico,
differenziato nei contenuti e nei temi. Mobile ed eterogenei sono i parametri di inquadramento del reale
che producono una rete di antinomie che si possono sommariamente identificare nella presenza, all’interno
del poema, dei poli di cronaca-utopia, realismo-misticismo, narrativa lirica, cultura medievale-prefigurazioni
umanistiche. Dante è protagonista in prima persona del viaggio nell’aldilà e, ad un tempo, è anche l’autore-
scrittore, lo sceneggiatore e il regista dell’avventura oltremondana. La Commedia costituisce il libro
definitivo e assoluto del poeta, quello che riassume la sua attività di scrittore e la sua vicenda umana. Si
potrà seguire un itinerario progressivo che, scandendo le differenti stagioni esistenziali, conduce il poeta
dal <<libello>> della giovanile vicenda amorosa (la Vita nova), attraverso il libro della conoscenza filosofica e
della divulgazione del sapere (il Convivio), alla summa risolutiva del poema, che tutto dal passato recupera
per trasferirlo nell’orizzonte più alto in cui si integrano vissuto e profezia, cultura e invenzione, ragione e
fede.
7.8 Tra autobiografia culturale e destinazione politica
La Commedia, nel momento stesso in cui poeticamente ripercorre l’itinerario di salvezza del poeta, diventa
anche testimone delle tappe di evoluzione e di superamento della sua avventura intellettuale e soprattutto
della sua formazione di poeta. Di fronte a un quadro tanto desolante la reazione di Dante, vittima concreta
della deprecabile situazione storica con la sofferenza dell’esilio, non è la resa. L’ideale dantesco è il
ripristino delle grandi istituzioni medievali dell’Impero e del Papato, in collaborazione reciproca, ma con
rispetto delle singole autonomie. Il senso della missione di poeta che gli viene assegnata da Cacciaguida: il
poema sacro avrà la funzione di far conoscere il male del mondo e servirà da guida verso il bene <<questo
tuo grido farà come il vento/che le più alte cime più percuote>>.
7.9 Il plurilinguismo, la varietà stilistica, il lavoro metrico
Dante riserva circa quindici anni della sua vita alla stesura e alla costruzione della Commedia. A pieno titolo
Dante merita di essere riconosciuto come il padre della lingua italiana. Il linguaggio della Commedia, a
perfetta corrispondenza del poema totale, è il linguaggio totale. La base è il fiorentino non municipale,
entro il quale il poeta innesta un repertorio lessicale di differente provenienza. Rispetto alle opere giovanili,
risulta più ridotta l’utilizzazione dei gallicismi; il numero dei latinismi è vastissimo, siano essi della tradizione
classica, siano invece recuperati dagli autori medievali. L’adesione al latino s’incrementa con l’infittirsi delle
discussioni dottrinali e teoretiche e pertanto è più assidua nel Paradiso. Come finemente è stato osservato,
sembra delinearsi una sorta di progressione lungo le tre cantiche, che può essere percepita nel passaggio
dal termine “vecchio” proprio del parlato che designa Caronte all’Inferno, al provenzale “veglio” che nel
Purgatorio determina Catone, al latinismo “sene” che nel Paradiso indica san Bernardo. Dante è anche
creatore di parole; nei versi danteschi coabitano vocaboli dialettali e lessico dell’uso lirico, parole da trivio e
termini aulici, lessico della pratica quotidiana e neologismi.
Nel Purgatorio (canto XXXII) la traviale definizione di <<puttana>> è indirizzata contro la Curia papale
corrotta. Il poema sfrutta a pieno la potenzialità della terzina: lo schema ABA/BCB/CDC.

Capitolo 7: Francesco Petrarca


1. Dalla formazione culturale alla corona di poeta
Nato ad Arezzo il 20 luglio 1304, nel 1312 si trasferisce con la famiglia a Carpentras: compie gli studi di
grammatica e di diritto a Bologna. Il 6 aprile 1327 –il giorno del venerdì santo- Petrarca incontra Laura nella
chiesa di Santa Chiara. Petrarca abbraccia la carriera ecclesiastica e prende gli ordini minori, viene assunto
al servizio del cardinale Giovanni Colonna in qualità di cappellano. E’ di questi anni –dopo il 1330- l’avvio di
una fitta corrispondenza epistolare con i dotti del tempo come lui interessati alla ricerca filologica e
all’approfondimento degli studi umanistici. Nel 1337 prende dimora in Valchiusa, nella quiete del luogo,
Petrarca molte delle sue opere e comincia a scrivere il De viris illustribus, alcune poesie in volgare e il
poema latino Africa. E’ proprio quest’ultimo il testo su cui maggiormente concentra il suo lavoro anche
perché la circolazione di alcuni brani del poema e il riscontro favorevole che ottengono, alimentano in lui il
desiderio di essere insignito della laurea di poeta. L’opportunità gli viene offerta nello stesso giorno, il 1°
settembre 1340, all’Università di Parigi e dal Senato di Roma. Su consiglio del cardinale Colonna, il poeta
sceglie Roma.
2.L’<<Africa>>
Il maggior impegno celebrativo di Roma e della civiltà romana Petrarca lo destina alla composizione
dell’Africa, poema in esametri con il quale ambiziosamente vagheggia di far rinascere in tempi moderni
l’epica classica. Il modello di riferimento è l’Eneide, perché il poema, che ha per argomento la seconda
guerra punica, avrebbe dovuto constare di dodici canti, come il capolavoro virgiliano. Nonostante le
attenzioni del poeta, l’Africa resta un poema incompiuto. L’attenzione alle glorie del passato si traduce in
magnificazione delle sorti di Roma, il cui momento di maggiore rilevanza è costituito, nei primi due libri,
dall’apparizione in sogno a Scipione, del padre Publio: è il pretesto per dare avvio alla rassegna degli eroi
che hanno fatto grande Roma e per prefigurare profeticamente il destino della città nella parabola che ha il
suo culmine in Cesare Augusto, dopo di che inizia la curva discendente della decadenza, che non comporta,
malgrado l’occupazione di imperatori stranieri del trono di Cesare, la perdita del ruolo egemone della civiltà
romana. Il confronto fra passato e presente suscita la riflessione sul rapporto tra gloria umana e gloria
celeste. Solo quest’ultima è imperitura, mentre la gloria umana è vana e caduca, tanto da rendere inutili gli
affanni degli uomini per conquistarla. Gli interessano non le azione guerresche e gli atti di eroismo, ma gli
stati d’animo, le perplessità, le pene interiori dei protagonisti: elegiacamente e non epicamente i suoi
<<eroi>> sono i vinti, non i vincitori.
3.Le vicende biografiche dopo l’alloro
Il Petrarca scrive nel 1338 una vita di Scipione l’Africano, che costituisce il punto di partenza per una serie di
ventitré biografie di personaggi illustri del mondo romano, da Romolo a Catone il Censore. Il nucleo poi si
allarga e, per la destinazione conclusiva del libro, che viene intitolato De viris illustribus, tra il 1351-53 sono
aggiunti i profili di dodici figure illustri del passato più remoto, appartenenti alla Bibbia e alla mitologia
classica, da Adamo ad Ercole.

4.Le opere in latino

4.1 Le epistole
Petrarca è uno scrittore che affida la sua fama alle opere latine, che in verità rappresentano la massima
parte della sua ricca produzione, distribuendosi in vari generi: dalla storiografia alla filosofia morale, dalla
bucolica all’invettiva polemica, all’epistolografia. La fondazione dell’epistolario quale genere letterario si
deve proprio a Petrarca. E’ lui infatti il primo a non abbandonare le lettere alla precaria trasmissione
extravagante, provvedendo invece a sistemarle in raccolte organiche. Le epistole petrarchesche
soggiacciono a un lento e puntiglioso processo di elaborazione, proprio in quanto estranee a una finalità
pratica e proiettate, invece, sullo schermo dei valori universali. La silloge fondamentale delle lettere
petrarchesche è costituita dai Familiairum rerum libri XXIV, che comprende 350 epistole in latino.
Scritte tra il 1342 e il 1358 sono le diciannove lettere che compongono la silloge Sine nomine, così intitolata
perché vengono omessi i nomi dei destinatari, per ragioni di prudenza, in quanto si trattava di lettere di
contenuto politico e ideologico.
A un orizzonte di temi e di motivi delle Familiari ci riportano le 120 epistole distribuite in 17 libri che sono
raccolte nel volume delle Seniles, comprendente lettere scritte tra il 1361 e il 1364.
L’Epistola ad posteros, racconta la sua vita dalla nascita al 1351.
4.2 Gli scritti polemici
Capace di inserirsi in animate prese di posizione d’ordine culturale, Petrarca si segnala per alcuni interventi
che si caratterizzano per il piglio dell’invettiva e per il vigore con cui, in reazione a convincimenti ideologici
contrari, lo scrittore afferma le proprie idee. Ricordiamo in proposito i quattro libri delle Invective contra
medicum quendam.
4.3 Le opere latine in versi
Una serie di 66 epistole in esametri, composte tra il 1333 e il 1354, sono raccolte nei tre libri delle Epistole
metrice. Per certi tratti si configurano come sede di appunti di un diario privato che offrono per la presenza
di alcuni indugi riflessivi prossimi alla materia e ai toni del Canzoniere.
4.4 Le opere storiografiche e il manualetto storico-geografico
Nel lavoro della prima redazione del De viris illustribus si rivela il metodo storiografico del Petrarca il quale,
con mossa di deciso scarto rispetto all’eclettico enciclopedismo medievale, scrupolosamente attinge a una
pluralità di fonti; anticipando la tendenza umanistica, il Petrarca storiografo si rivela attratto dalle grandi
figure del passato perché solo in esse è possibile riscoprire le virtù scomparse, da riproporre ai
contemporanei. Esperienze personali di viaggiatore e nozioni libresche ed erudite, conoscenze storiche e
geografiche si uniscono in quella singolare operetta che è l’Itinerarium Syriacum.
4.5 Le opere morali
Scritto nel 1346 e successivamente revisionato ed ampliato è il De vita solitaria, in cui lo scrittore tesse
l’elogio di uno dei suoi miti esistenziali più profondamente avvertiti, quello della vita solitaria. Il trattato nel
quale in misura più complessa Petrarca organizza l’insieme delle sue riflessioni morali è il De remediis
utriusque fortune: è un libro sui due volti della Fortuna, sulla buona e sulla cattiva sorte; la novità del libro
consiste nel particolare punto di vista dello scrittore.
5. Il <<Secretum>>
La più analitica indagine introspettiva tesa a mettere a nudo i contrasti che dilacerano la sua anima è
condotta da Petrarca nel Secretum: al poeta appare una donna, la Verità, accompagnata da un vecchio
-sant’Agostino- che per tre giorni lo sottoporrà ad esame. Una dialettica entro la quale Agostino occupa il
posto di confessore e Petrarca quello di penitente, alla presenza della muta Verità. Nel primo libro Agostino
sollecita l’appello alla misericordia divina, ma il distacco dalle incombenze terrene sembra arduo da
realizzarsi. Nel secondo libro l’interrogazione di Agostini si incentra sui sette peccati capitali. Nel terzo
dialogo Agostino mette alle strette Petrarca, imputandogli i peccati per lui più rovinosi: l’amore per Laura e
il desiderio di gloria. Per Francesco non c’è assoluzione perché anche se riconosce i propri peccati, di
dimostra impotente a resistere alle tentazioni: l’attrazione del cielo è forte, ma la debole volontà non sa
sottrarlo ai vincoli dei <<mortalia negotia>>.

6. Le opere in volgare: il <<Canzoniere>>

6.1 I <<Rerum volgarium fragmenta>>: la fondazione del <<libro di versi>>


La produzione in volgare si riduce a solo due titoli: uno è il capolavoro dei Rerum volgarium fragmenta, la
raccolta di rime cui Petrarca deve la sua fama universale; l’altro è il poema dei Trionfi. Petrarca manifesta il
suo spirito di innovazione poiché per primo concepisce l’idea di costruire un “libro di versi”, una serie di
“rime sparse” viene organizzata in un libro che non ha bisogno di spiegazioni esterne o di raccordi narrativi
interni, perché il significato delle parti è del tutto affidato all’esile ma sicuro filo narrativo che coordina le
rime, accompagnandone la sequenza dal sonetto proemiale alla canzone conclusiva, lungo una direttrice di
fondo che intende raffigurare il percorso di una conversione.
Petrarca è il fondatore di quel singolare contenitore di componimenti poetici che è il <<canzoniere>>. E la
sua raccolta di liriche, il Canzoniere per eccellenza si impone immediatamente come modello, destinato a
riprese e imitazioni nei secoli a venire, in Italia e in Europa.
Due sembrano essere le componenti basilari che caratterizzano un <<canzoniere>>: una contenutistica e
una strutturale. Al primo aspetto appartiene la peculiare funzione di filtro lirico dell’autobiografia di cui è
investita la silloge lirica, l’io del poeta. Uno dei fattori di originalità consiste nella dinamica che si instaura
tra autonomia di ogni singolo componimento e coordinazione globale diretta a spostare il significato dei
testi considerati uno per uno nell’assunzione di un nuovo significato determinato dalla totalità del libro. In
alcuni casi i modi di connessione risultano ancora più evidenti, poiché si realizzano dei riconoscibili
raggruppamenti tematici. L’indicazione strutturale di maggiore evidenza è quella costituita dalla
suddivisione della raccolta in due parti: la prima che è detta delle rime “in vita di madonna Laura”, la
seconda “in morte di madonna Laura”. L’evento luttuoso di Laura viene subordinato all’avvertenza di una
condizione di crisi morale non più rinviabile come problema col quale dover fare i conti. Entro la prospettiva
suggerita dalla canzone di passaggio, le ragioni della bipartizione del Canzoniere, sembrano riconducibili
non tanto a fattori puramente esterni: piuttosto risulta percepibile la scansione in due tempi
dell’oscillazione psicologica e morale del poeta. La prima parte racchiude le poesie che traggono ispirazione
dagli amori colpevoli per Laura e per la gloria, mentre nella seconda parte si collocano quei componimenti
in cui manifesta è la consapevolezza del valore labile ed erroneo di quegli amori e subentra il desiderio di
un riscatto interiore e di una purificazione spirituale.
6.2 I contenuti del <<Canzoniere>>
Le componenti dominanti del mondo lirico del Petrarca sono enunciate nel sonetto proemiale della
raccolta, Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, che si propone come una dichiarazione di poetica. In una
prospettiva ormai di distacco dall’urgenza delle passioni e di slontanamento della vicenda amorosa,
valutata come <<giovanile errore>>, Petrarca si apre a un rapporto di confessione e di dialogo, postulando
non una condivisione della teoria dell’amore ma una complicità sul piano dell’esperienza e prefigurando
temi che saranno materia del suo canto: da una parte le speranze e quanto piace al mondo, dall’altra i
sospiri, il pianto, e poi anche la vergogna e il pentimento. Tra gioia e dolore, tra speranza e timore oscilla
l’anima in perenne dissidio del Petrarca, che sa che “quanto piace al mondo è breve sogno” ma anche a
questo sogno e alle illusioni mondane non sa rinunciare; che si avvede della vanità dei bene terreni, ma li
desidera. Il Canzoniere si propone come una raccolta di poesie d’amore dedicare alla creatura che di
quell’amore è l’ispiratrice, Laura. Il personaggio centrale della raccolta (Laura) agisce a più livelli nei
confronti del poeta: sul piano sentimentale ed esistenziale suscita i suoi affanni; sul piano conoscitivo
provoca le sue investigazioni psicologiche e la sua analisi interiore; sul piano poetico è l’ispiratrice dei versi.
Laura è una creatura che non possiede un’entità fisica determinata con precisione, viene descritta con
“begli occhi soavi”, “dolce riso”… anche la natura è sottoposta ad un processo di stilizzazione, i paesaggi
sono spesso sfumati fondali. La predilezione di Petrarca va per i luoghi solitari, anche perché ritenuti
possibili vie di fuga dall’incombente assillo dell’amore. La preferenza accordata ai luoghi solitari si rivela in
sintonia con le caratteristiche dell’amore petrarchesco; per Petrarca l’amore indirizzato verso una creatura
che non ha concretezza, perché è creatura disincarnata, è trasparenza, è fantasma, è un amore che non
vive della presenza, è un amore concepito come assenza e come perdita e pertanto si nutre di memoria o di
sogno. Il Canzoniere è il libro poetico che agisce da catalizzatore di quel regno delle contraddizioni che è
l’universo psicologico di Francesco Petrarca. Attraverso la figura di Laura, Petrarca giunge a fronteggiare in
serrata tensione i temi profondi del timore e al tempo stesso del desiderio di morte, della memoria
sospirosa del passato, della precarietà delle passioni, del valore effimero proprio di ogni cosa terrena, della
labilità dell’esistere e della fuga del tempo.
L’esigenza di autoanalisi si fa più stringente nella seconda sezione del Canzoniere. La scomparsa della
donna non è d’incentivo per la modulazione di inni celebrativi o di petizioni propiziatrici di un intervento
salvifico, dall’alto, da parte dell’amata. Questa soluzione “stilnovistica” è del tutto estranea alla sensibilità
di Petrarca, egli dopo la morte di Laura sconta più acutamente la dinamica contrastiva tra il destino di
beatitudine celeste additatogli dalla donna e la fiacchezza della volontà. Il Canzoniere porta allo scoperto, le
ragioni del malessere del poeta, facendole rimontare alla primaria e determinante impossibilità di
conciliare umano e divino. La poesia conclusiva del Canzoniere è la canzone Vergine bella, che di sol vestita;
l’invocazione alla Vergine che è stata messa in rapporto con la preghiera di intercessione nei confronti di
Dante formulata da San Bernardo nell’ultimo canto del Paradiso. “Pace” è la parola conclusiva dell’intero
Canzoniere, con l’appello del poeta alla Vergine di farsi mediatrice in suo favore a Cristo <<ch’accolga ‘l mio
spirito ultimo in pace>>. La stessa parola “pace” chiude un altro testo che affronta un argomento estraneo
alla lirica amorosa e all’investigazione esistenziale: un testo d’impegno civile, la canzone politica: Italia mia,
benché ‘l parlar sia indarno. In Italia mia il poeta si rivolge ai signori d’Italia e li esorta a promuovere e
consolidare la pace, ritenuta come componente prioritaria e indispensabile per la serena convivenza civile:
ma tale risultato potrà essere conseguito solo se si riuscirà a liberare il terreno italiano dall’invasione
straniera.
6.3 Lingua, stile, metrica del <<Canzoniere>>
L’alta coscienza che Petrarca ha del valore della letteratura fa sì che il suo lavoro fondamentale sia quello
della scelte linguistiche e stilistiche. La diversissima natura di due protagonisti della nostra storia letteraria
alle sue origini, Dante e Petrarca, è confermata in modo vistoso dalla netta differenza del repertorio verbale
dei due. A fronte de cospicuo vocabolario dantesco, reso voluminoso da un’aggressiva e prensile
fagocitazione letteraria della realtà che richiede naturalmente uno strumento lessicale “plurilinguistico”, si
contrappone lo smilzo vocabolarietto petrarchesco, frutto di un restringimento dell’area di attenzione
all’<<io>>, cui è sufficiente l’applicazione di una lingua chiusa e selezionata, di un “unilinguismo”. Se Dante
nella Commedia ha utilizzato circa 27.700 termini, Petrarca nel Canzoniere ne utilizza 3.275.
Gli endecasillabi petrarcheschi sono il risultato di un’assidua vigilanza retorica e ritmica, intesa, nella
maggior parte dei casi, a far combaciare l’unità metrica con l’unità sintattica; nell’ordine delle preferenze
stilistiche di Petrarca hanno notevole fortuna le dittologie sinonimiche (accoppiamento di termini dello
stesso significato per aggettivi e verbi). L’uso di grammatica della lirica, assieme al decoro di un lessico
aulico e letterario, è alla base dell’assunzione di Petrarca a modello da imitare nella poesia e giustifica la
fortuna di quel fenomeno culturale conosciuto come petrarchismo che è egemone nella produzione lirica
del Cinquecento. L’avventura dei sentimenti è per Petrarca anche avventura dello stile: la poesia come un
assoluto che rispecchia e al tempo stesso riscatta il dolore della vita è concetto che sta a fondamento del
Canzoniere, a conferma della convinzione del poeta che <<cantando il duol si disacerva>>.
7. Il poema: i <<Triumphi>>
La prova della sua inadeguatezza alla costruzione di un poema è data dai Trionfi, tramandati dai manoscritti
col titolo latino di Triumphi. Costante “lavori in corso”, i Trionfi svelano una tormentata storia esterna, che
dichiara a chiare lettere l’insoddisfazione dell’autore per esiti di strutturazione non corrispondenti alla sua
ambizione di cimentarsi con le misure di un poema. Petrarca sviluppa la dinamica del suo poema lungo la
sequenza di sei quadri che presentano sei successivi “trionfi”, allineati in senso ascensionale, poiché quello
successivo indica superamento di quello precedente: trionfo d’amore, ove tra le vittime d’amore figura
Petrarca stesso; il trionfo della castità ove i prigionieri sono liberati da Laura. La quale Laura però, nel
successivo trionfo, è sconfitta da quello delle morte (trionfo della morte). Morte avanza un’imponente
regina, la Fama che precede tre cortei, due di insigni uomini d’armi e uno di illustri letterati e filosofi. Ma
nel successivo trionfo, la Fama viene vinta dal Tempo, che copre di oblio gli eventi umani. Infine sul Tempo
trionfa l’Eternità che celebra il trionfo della gloria di Dio.
Capitolo 8: Esperienze poetica del Trecento
1.Dopo Dante

1.1 I commenti alla <<Commedia>>


Fin dalla prima diffusione della Commedia dantesca fervido è il lavoro di chiosatori e commentatori, che si
impegnano nell’opera di approfondimento del patrimonio di dottrina del poema, oltre che in quello di
interpretazione delle verità coperte dal velo dell’allegoria. Attorno al 1330 Jacopo della Lana, scrive il primo
commento integrale del poema. Accentua la caratterizzazione della fisionomia profetica del capolavoro
dantesco il frate carmelitano Guido da Pisa. Si situa tra il 1341 e il 1348 il commento in latino di un altro
figlio del poeta, Pietro Alighieri, il quale insiste nella citazione di autori classici e di testi della patristica e
della scolastica, per poter dimostrare l’elevata cultura del padre.
Nella seconda metà del secolo, i commenti danteschi hanno come punto di riferimento il lavoro di
Boccaccio.
1.2 I poemi allegorico-didattici
La lezione dantesca è dominante nella poesia allegorico-didattica del Trecento, la cui intrinseca debolezza
risulta ancor ancor più impietosamente sottolineata qualora si confronti tale produzione con la Commedia.
Una drastica riduzione del repisro poematico di Dante, con restrocessione ai modi dell’allegorismo didattico
duecentesco, la cui spia più evidente è il respiro dei distici settenari secondo l’uso di Brunetto Lantini nel
Tesoretto, è praticata dal figlio di Dante, Jacopo Alighieri, autore del Dottrinale. Più ambizioso è il progetto
di Fazio degli Uberti con il Dittamondo, poema allegorico lasciato incompiuto. Fazio costituisce una sorta di
enciclopedia in terzine, governata da un’esile trama adatta a conferire un respiro narrativo all’esposizione.
Il più combattivo tra gli oppositori danteschi è Cecco d’Ascoli, autore del poema “Acerba” rimasto
incompiuto. La programmatica opposizione a Dante culmina nell’invettiva in cui, in nome dell’obiettività
scientifica contrapposta alla finzione allegorica, Cecco afferma la superiorità del proprio poema rispetto a
quello dantesco.

2. La tradizione lirica

2.1 La poesia in Toscana


I poeti che contribuiscono a definire il panorama della poesia toscana del Trecento sono di modesto rilievo.
La loro produzione è prevalentemente orientata verso forme di un ormai infiacchitto epigonismo dello stil
novo o di una traduzione in canzoni del risentimento morale e politico. La memoria dantesca agisce anche
in quello che è forse il più notevole fra i poeti del secondo Trecento: Giannozzo Sacchetti; il tema della
fortuna costituisce uno dei temi dominanti della poesia trecentesca. Di spicco è la personalità del fratello di
Giannozzo, Franco Sacchetti, il cui Libro delle Rime è rivelatore di una duplice piattaforma: quella del
letterato e quella del moralista.
Solo tra i poeti della seconda metà del secolo agirà più a fondo, per la poesia d’amore, il modello del
Petrarca, congiunto con l’eredità di Cino da Pistoia. Tra fine Trecento e primo Quattrocento, suggella
l’esperienza della lirica toscana del XIV secolo il fiorentino Cino Rinuccini, che si riaccosta agli stilnovisti
attraverso la mediazione del Petrarca.
2.2 L’area veneta e Niccolò de’ Rossi
La presenza di Dante a Verona e a Ravenna negli ultimi anni della sua vita incide su alcune scelte poetiche in
quell’ambito territoriale. Il veneziano Giovanni Quirini, nella lirica dello stilnovismo assume il punto di
riferimento più affidabile; il personaggio di maggior spicco è però il trevigiano Niccolò de’ Rossi, attivo nella
prima metà del Trecento, cui si deve l’iniziativa più notevole per la diffusione della letteratura toscana in
area veneta. Le rime di Niccolò de’ Rossi sono eterogenee nella maniera e nello stile, poiché si avvertono gli
influssi di Cavalcanti, di Dante stilnovista e di Dante comico e petroso, oltre che dei poeti giocosi.

3. Poesia narrativa e poesia popolare

3.1 La letteratura francoveneta


Il gusto narrativo tende ad esplicarsi, nel corso del secolo, nelle forme poematiche che rilanciano le
avventure cavalleresche. Un’importante testimonianza dell’interesse per le storie d’armi e d’amore è data
dalla diffusione della materia di Francia attraverso i poemi in franco-veneto, nell’area nord-orientale
dell’Italia. Sono poemi la cui lingua oscilla tra i poli opposti di un francese letterario scritto da italiani colti e
un veneto infarcito di francesismi. All’interno di questa produzione spiccano i Geste Francor e l’Entrée
d’Espagne.

3.2 I cantari
Una delle novità più significative della letteratura trecentesca è costituita dall’affermarsi di un gusto
popolare del narrare nel genere dei cantari, che sono scritti in prevalenza da canterini e giullari di
professione, vaganti di piazza in piazza e disponibili a tagli o rimaneggiamenti in funzione dell’area
territoriale e del pubblico e che ricorrono all’impiego dell’ottava rima, su cui si fonderà la lunga e fortunata
stagione del poema cavalleresco. Il primo dei cantari è il Cantare di Fiorio e Biancifore, a fonti francesi si
rifanno cantari come Liombruno, Ponzela Gaia, Bel Gherardino e La donna del Vergiù. Uno dei più prolifici
autori della letteratura municipale toscana è Antonio Pucci.

4. La poesia e il rapporto con la realtà

4.1 L’inclinazione moralista di Bindo Bonichi


Bindo Bonichi, mercante senese della generazione di Dante è un attardato epigono di Guittone e
continuatore anche della maniera realistico-gioiosa, è autore di canzoni pedanti e monotone, mentre più
arguti ed animati sono i suoi sonetti.
4.2 La poesia municipale di Antonio Pucci
Antonio Pucci ha fatto dell’orgoglio municipale il predominante argomento delle sue rime; Pucci è un
divulgatore appassionato e assai sensibile alle richieste di un pubblico curioso e appagato da narrazioni
semplici. Egli è il cronista in versi della sua città: scrive sirventesi su eventi naturali e politici.
5. I poeti di corte
La realtà politica delle Signorie favorisce l’espandersi del fenomeno dei poeti cortigiani: quei poeti che,
vagabondando di corte in corte, ove mettevano la loro penna al servizio dei signori, traevano, quale
corrispettivo di reazione personale, motivazioni di risentimento e di rabbia, tradotte in imprecazioni contro
la sorte malvagia. Di qui la frequenza, presso tali poeti, delle cosiddette canzoni <<disperate>>, che così
erano definite perché intessute di maledizioni indirizzate contro tutto e tutti.
Prototipo di tale genere può essere considerata la canzone Le stelle universali e’ ciel rotanti di Antonio da
Ferrara: ha lasciato un canzoniere piuttosto nutrito in cui prevalgono le componenti autobiografiche, che si
possono individuare soprattutto nei modi dell’adulazione cortigiana rivolta ai Visconti.
Tutte le caratteristiche biografiche e letterarie del poeta cortigiano sembrano concentrarsi nella fisionomia
del padovano Francesco di Vannozzo: il suo esercizio di scrittura attesta l’uso della poesia a scopo di
adulazione dei signori.
Tra la seconda metà del Trecento e i primi decenni del Quattrocento si situa la vita errabonda e drammatica
nella conclusione di Simone Serdini, detto il Saviozzo, che nato a Siena nel 1360 ca, muore suicida tra il
1419 e il 1420; Saviozzo scrive su richiesta dei committenti, compone anche –dietro pagamento- poesie
d’amore per donne mai conosciute.
6. La scelta del latino: i preumanisti padovani
Agli inizi del Trecento si verifica un episodio singolare della poesia del secolo: quella di chi adotta come
lingua il latino. L’epicentro di una cultura letteraria che, nella convinzione della superiorità del latino nei
confronti del volgare, prefigura istanze dell’Umanesimo, si situa a Padova, città di nascita do Lovato de’
Lovati (1241-1309). Albertino Mussato è il maggiore rappresentante di questo preumanesimo veneto: esso
è sospinto dall’ambizione di riprodurre la grandezza e la solennità del teatro classico.

Capitolo 9: Giovanni Boccaccio


1. La giovinezza e le opere del periodo napoletano

1.1 Le <<Rime>>
Giovanni Boccaccio nasce probabilmente a Firenze nel 1313, figlio di un mercante, segue il padre a Napoli
per essere avviato alla pratica della mercatura, assieme allo studio del diritto canonico. Sono esperienze
che il Boccaccio sopporta di malavoglia, anche se la frequentazione di corsi giuridici ha una parentesi
positiva nell’incontro con Cino da Pistoia. Attraverso Cino ha modo di essere sensibilizzato alla lettura dei
poeti dello stil novo e di Dante. L’arricchimento culturale procede con l’avanzamento nell’apprendistato
letterario, che si svolge in latino e in volgare, in prosa e in versi. Boccaccio non costruì mai un suo
canzoniere; le influenze rintracciabili nella sua opera, sono quelle di Dante, di Cino da Pistoia e di Petrarca
(soprattutto nei componimenti di meditazione sul tempo e sulla morte). Lo sguardo sensualmente attratto
dal fascino delle bellezze naturali e delle bellezze femminili caratterizza la poetica dalle soluzioni più
originali di Boccaccio lirico.
1.2 La vocazione narrativa: in prosa e in versi
Non l’ispirazione lirica, ma la dimensione narrativa rappresenta la reale vocazione del Boccaccio scrittore; e
lo attesta molto bene la sua prima opera importante, il Filocolo (secondo un’errata etimologia greca
<<fatica d’amore>>). Il Filocolo racconta in una prosa d’arte lavorata e preziosa le disavventure e le
peripezie amorose di Florio e Biancifiore che innamorati e costretto a separarsi per volontà dei genitori di
lui, avversi ad una relazione del figlio con una donna ritenuta non degna per stirpe, alla fine si
ricongiungono e si sposano; rappresenta il primo esempio nella letteratura italiana di quel genere che è il
romanzo in prosa. Il Filocolo si configura da ultimo come un testo rappresentativo di un’operazione
culturale diretta a congiungere le due anime della cultura della corte angioina: una cultura “alta”,
scientifica, naturalistica, erudita, e una cultura “bassa”, di svago, mondana, affascinata dai versi d’amore e
dalle prose dei romanzi. Il progetto di Boccaccio è quello di saldare i due poli e di approdare ad una
letteratura “mezzana” conciliando l’invenzione narrativa con il sapere, unendo due fasce di pubblico fino
allora nettamente separate: i dotti e le donne. Il Filostrato che nell’etimologia greca sta a significare “vinto
d’amore”, è un poema in ottave che per argomento risale al mondo omerico, accostato attraverso
rimaneggiamenti dell’epica classica scritti in latino e in francese nel Duecento e nei primi anni del Trecento.
Entro un contesto di avventure d’armi, Boccaccio isola l’episodio relativo al rapporto amoroso fra Troiolo e
Criseida, culminato con la scoperta del tradimento della donna e con la risoluzione di Troiolo di prendersi
immediata vendetta del suo rivale Diomede: ma, entrato furiosamente in battaglia, è infine ucciso da
Achille. Importante in senso storiografico perché inaugura l’uso dell’ottava narrativa come strumento
metrico destinato a straordinario successo nella letteratura italiana; costituisce la fonte per due opere di
due grandi della letteratura inglese: il poema Troiolo e Criseida di Geoffrey Chaucer (1383) e il dramma di
William Shakespeare Troiolo e Criseida. Boccaccio si cimenta anche nella stesura di un poema epico: il
Teseida. A Dante che nel De vulgari eloquentia aveva scritto di aver riscontrato che fino ad allora nessuno
aveva scritto di argomenti epici in volgare, intendeva rispondere il Boccaccio scrivendo il Teseida. La sfida
lanciata da Boccaccio al genere epico non si può dire che si risolva in modo vincente, perché il rapporto tra
armi ed amore è nettamente squilibrato a favore del secondo.

2. Le opere del periodo fiorentino

2.1 L’allegoria : la <<Comedia delle ninfe fiorentine>> e l’<<Amorosa Visione>>


Nel 1340 Boccaccio lascia Napoli e rientra a Firenze; per presentarsi all’ambiente fiorentino Boccaccio si
accosta alle direttrici formali e tematiche della letteratura toscana fra Due e Trecento, come ben si avverte
fin dalla sua prima opera dopo il ritorno a Firenze: la Comedia delle ninfe fiorentine.
Al pari della Vita nova di Dante, le ninfe è un prosimetro che per le parti in versi impiega la terzina dantesca
e che svolge un motivo centrale della poetica stilnovista: la forza purificatrice dell’amore. Lo dimostra
chiaramente la trama del racconto, che vede protagonista il rozzo pastore Ameto –il quale- a seguito
dell’incontro con sette ninfe che rappresentano le virtù cardinali e teologali, abbandona la sua condizione di
brutalità animalesca e conquista la piena umanità, al punto che gli è concessa l’opportunità di attingere alla
massima felicità spirituale: la contemplazione divina.
L’Amorosa visione è un poema di cinquanta canti in terzine, in cui Boccaccio si prefige di seguire le orme di
Dante non solo nella scelta metrica, ma anche nella concezione generale dell’opera come mirabile visione.
Al poeta smarrito in un lido deserto viene incontro una “donna gentile” che lo conduce in un castello,
dentro al quale il poeta visita due sale le cui pareti sono istoriate. Le due sale costituiscono i luoghi
complementari di un’unica meditazione sui valori della vita umana, perché alla prima sala riservata a
immagini di grandi desideri terreni (Sapienza, Fama, Ricchezza, Amore) fa seguito una seconda sala, che è il
regno della Fortuna, raffigurata nell’imprevedibilità degli eventi e delle azione che regolano (e sconvolgono)
quei beni terrestri cui era stato dato spazio alla prima sala.
2.2 L’<<Elegia di madonna fiammetta>>
L’Elegia di madonna Fiammetta è una narrazione in prosa in cui la protagonista si rivolge alle <<innamorate
donne>> per raccontare loro la storia del suo amore extraconiugale per Panfilo. L’incontro, la felicità della
corresponsione, la malinconia per la partenza di Panfilo, la sofferenza per il mancato ritorno dell’amato, la
gelosia a seguito della falsa notizia che Panfilo si è sposato, il tentato suicidio dopo la notizia vera di un
nuovo amore di Panfilo, l’illusione fallace del suo ritorno: su questa trama si articolano i nove capitoli
dell’Elegia. Altissimo è il quoziente di letterarietà di questo testo: non un discorso d’esperienze d’amore,
ma un discorso letterario sull’amore. Nel genere dell’elegia, espressamente dichiarato dal titolo, il racconto
rientra anche per la presenza di una trama non risolta in modo definitivo né positivamente né
negativamente, come rispettivamente è nella commedia e nella tragedia; significativa è la conclusione del
racconto: <<Al quale (fuoco della passione) io prego Iddio che… salutevole acqua mandi, o con trista morte
di me, o con lieta tornata di Panfilo>>.
2.3 Il <<Ninfale fiesolano>>
Il Ninfale fiesolano è un poemetto di 473 ottave sulle origini leggendarie di Fiesole, alle quali si risale
attraverso la storia di due giovinetti innamorati, il pastore Africo e la ninfa Mensola. Costei, sedotta da
Africo, infrange l’obbligo di castità dovuto a Diana e, dopo aver dato alla luce un bambino, subisce la
vendetta della dea, che la tramuta nel fiume che porterà il suo nome, mentre anche lo specchio d’acqua in
cui era avvenuto l’incontro con Mensola aveva preso il nome di Africo, avendo lì il giovane pastore trovato
la morte, addolorato per non aver più rivisto la sua amata.
Il Boccaccio ripropone l’ambientazione pastorale per costruire un poemetto eziologico –cioè sulle origini di
un luogo- in cui la componente mitico-leggendaria funziona da punto di vista privilegiato per osservare i
sentimenti naturali degli uomini, primo fra tutti l’amore.

3. Il Decameron

3.1 La struttura del libro di novelle


Il capolavoro della narrativa in forme brevi della letteratura italiana, il Decameron, viene scritto e ordinato
dal Boccaccio tra il 1349 e il 1351. Il titolo del libro richiama la lingua greca ed è riallacciato all’ Hexameron
(sei giornate) di sant’Ambrogio. Il contenuto consta di cento novelle raccontante da un gruppo, una brigata,
di sette donne e di tre giovani che si allontanano da Firenze per evitare il contagio della peste scoppiata nel
1348. Le cento novelle sono ripartite in dieci giornate e ogni giornata è formata da dieci novelle,
raccontante a turno dai componenti della brigata. Sempre a turno uno dei giovani o una delle donne è
nominato re o regina della giornata e ha il compito di indicare l’argomento al quale i narratori dovranno
attenersi. L’opera è preceduta da un proemio in cui l’autore indica esplicitamente come destinatarie della
sua opera, le donne. Non è sufficiente il proemio ad avviare l’opera, ma serve anche un’introduzione, in cui
si descrive l’occasione storica, la peste, che fornisce il pretesto del raccontare. L’insieme di questi luoghi di
strutturazione del materiale narrativo, comprese le introduzioni e le conclusioni alle singole giornate,
conclusioni durante le quali il re o la regina della giornata canta una ballata, costituisce la cosiddetta
<<cornice>>.
3.2 La peste, la fuga in contado, la scelta del narrare
Nell’avviare il Decameron, Boccaccio dichiara di dover dare inizio alla sua narrazione “quasi da necessità
costretto” partendo “dall’orrido cominciamento” della rappresentazione di Firenze devastata dalla peste:
solo dalla drammatica registrazione di quell’evento può trovare giustificazione l’ingresso sulla scena della
brigata dei dieci giovani che decidono di allontanarsi dalla città e di trascorrere nella letizia del narrare il
tempo funesto. La brigata si colloca in alternativa a quanto sta accadendo in città, poiché contro il
disordine, la sregolatezza, l’immoralità, ripropone l’ordine, l’equilibrio, la regola morale; i dieci giovani si
attengono alla ragione come metodo normativo della loro convivenza: la trasgressione è consentita
solamente se è la brigata a concederla e a controllarla. La definizione delle norme basilari da seguire nella
tecnica del racconto di Boccaccio non la espone in chiave teorica, ma la affida alla misura narrativa di una
novella: l’importantissima prima novella della sesta giornata, la cui funzione di assoluto rilievo è rimarcata
dalla sua stessa collocazione strutturale, nell’esatto punto centrale del libro: attraverso il racconto di
madonna Oretta vengono fissate alcune regole fondamentali della narratologia. La novella di madonna
Oretta, che è una metanovella perché costituisce una riflessione sul narrare e che, dimostrando come non
si deve raccontare, fa capire come si debba raccontare, è istruttiva per almeno due ragioni. La prima perché
indica come il fine delle novelle non sia pedagogico o esemplare, ma essenzialmente ludico: il raccontare
deve suscitare piacere. La seconda perché rivela come questo piacere venga raggiunto non attraverso il
contenuto del racconto, ma grazie alla forma: meno importa quanto si racconta rispetto a come lo si
racconta.
3.3 Le dieci giornate del <<Decameron>>
Giornate I-III: la riprovazione del male, la fortuna, l’ingegno.
DI fronte al campo del reale e del narrabile Boccaccio si dispone con atteggiamento di piena libertà: nella
prima giornata, per volontà della regina Pampinea <<si ragiona di quello che più aggrada a ciascheduno>>.
Viene rimosso immediatamente un tema scottante come quello della fede: con la figura del primo
personaggio –ser Cepparello- il quale definito come “il peggiore uomo che forse mai nascesse”, a seguito di
una confessione giocata sul filo della menzogna, dopo morto verrà addirittura venerato come santo.
Dopo aver riprovato nella prima giornata i mali insiti nella religione e anche i limiti etici presenti nel mondo
laico, argomento della seconda giornata è <<chi da diverse cose infestato, sia oltre la sua speranza riuscito a
lieto fine>>. Si tratta di novelle avventurose che hanno a protagonista principale la fortuna. Nella terza
giornata la capacità di iniziativa e l’ingegno determinano svolgimento ed esiti delle azioni. Il predominante
obiettivo del desiderio è quello della conquista amorosa e della soddisfazione erotica.
Giornate IV-V: tragedie a lieto fine nell’amore
La nuova decade narrativa è preceduta da un intervento dell’autore che in prima persona difende le trenta
novelle precedenti dalle critiche mosse da chi aveva puntato il dito d’accusa soprattutto contro la facile
disponibilità di Boccaccio nel compiacere le donne; una sua convinzione di fondo, riconosce il primato delle
pulsioni naturali sul controllo della razionalità. Nella quarta giornata “si ragiona di coloro li cui amori ebbero
infelice fine”.
Il dittico riguardante le vicende d’amore si completa con la quinta giornata che in contrapposizione agli
amori infelici di quella precedente, prende in considerazione <<ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri
o sventurati accidenti, felicemente avvenisse>>. Nella quarta novella, l’amore di due giovinetti, Riccardo e
Caterina, sorpresi dopo una notte trascorsa assieme dal padre di lei, non finisce male perché
l’appartenenza alla stessa classe sociale favorisce le nozze.
Giornate VI-VIII: i motti e le beffe
Nella sesta giornata “si ragiona di chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscottesse, o con pronta
risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno>>. Il cuoco Chichibio.
Una sottile distinzione differenzia le novelle della settima da quelle dell’ottava giornata, entrambe dedicate
alla beffa. Nella settima giornata “si ragiona delle beffe, le quali per amore o per salvamento di loro le
donne hanno già fatte a’ suoi mariti” mentre nell’ottava “di quelle beffe che tutto il giorno o donna a uomo
o uomo a donna o l’uno all’altro si fanno”. La diversità di contenuto tra le due giornate esemplifica due
modalità d’impiego della beffa: la beffa finalizzata a esiti pratici e vantaggiosi (settima giornata) e la beffa
come esercizio di malizia gratuita e divertita (ottava giornata).
Giornate IX-X: dalla libertà tematica all’esaltazione della magnificenza
Nella nona giornata i dieci novellatori non sono obbligati a restringere la narrazione “sotto alcuna
spezialità” e pertanto “si ragiona ciascuno secondo che gli piace e di quello che più gli aggrada”. Le due
giornate imperniate sulla beffa non sono bastate per accogliere i molti racconti sull’argomento, e allora
nella nona giornata è la beffa a predominare. Nella decima giornata la brigata è sollecitata al massimo
impegno del re, Panfilo, il quale invita i giovani a ragionare “di chi liberamente o vero magnificamente
alcuna cosa operasse intorno a fatti d’amore o altra cosa”. I novellatori ingaggiano una sorta di gara, in cui
ognuno cerca di superare chi l’ha preceduto. L’ultima novella della giornata del Decameron è quella nota
come la novella di Griselda: ha come protagonista Gualtieri, il marchese di Salluzzo, che incarna
l’autoritarismo del potere feudale. La sua è una volontà assoluta, che agisce come domino arbitrario e
imperioso in un rapporto diretto e personale. La “matta bestialità” da lui esercitata nei confronti
dell’indifesa Griselda non va disgiunta dalla nozione di violenza, che il lieto fine della vicenda dissimula, ma
non cancella.
3.4 I grandi temi: l’amore e il denaro
In sintesi le tematiche affrontate nel Decameron sono l’amore e il denaro, l’eros e l’economia, le donne e i
mercanti. Nell’ampio ventaglio delle situazioni amorose si dispongono le manifestazioni dell’amore inteso
come forza distruttiva, dell’amore che compie il tragitto dall’amore cortese a risoluzione nel patto
matrimoniale dell’amore come ineluttabile pulsione giovanile, dell’amore senile, dell’amore come
appagamento dei sensi, che coinvolge anche i religiosi. La tematica amorosa è significativa anche per
determinare la fisionomia e la personalità delle figure femminili. Con atteggiamento di apertura mentale e
di consenso Boccaccio considera quelle donne che –mosse dalla spinta dei sensi- si concedono all’amore; al
contrario, si rivela avverso nei confronti di quelle che agiscono per tornaconto economico. Il Decameron è
portato a valutare in senso positivo lo spirito pratico dei mercanti e ad apprezzare i requisiti di prontezza,
scaltrezza, ingegnosità, calcolo, razionalità. Mostra invece di non essere in sintonia con una delle
componenti determinanti nella formazione della mentalità mercantile: lo spirito imprenditoriale fondato
sul rischio.
3.5 Le fonti e la parodia
Assai ampio è il bacino delle fonti alle quali Boccaccio attinge per le sue novelle: Apuelio, i poeti provenzali,
il Novellino, il Filocolo dello stesso Boccaccio. Il filo conduttore più robusto e continuo che percorre per
intero il Decameorn è il filo della parodia, intesa come ribaltamento comico di precedenti o fonti “alti”.
3.6 Le scelte espressive
L’atteggiamento del Boccaccio nei confronti della realtà ripercorsa e censita narrativamente appartiene alla
mentalità di un laico che si accosta al mondo esterno non con un apparato preconcetto e gerarchicamente
stratificato di valori, ma con l’intenzione di giudicare di volta in volta i fatti, rivendicando gli strumenti di
misura dalla loro dinamica interna. In questo consiste il vero “realismo” di Boccaccio, da intendersi come
apertura a un giudizio non precostituito sulle cose e sull’agire degli uomini, ma come capacità di esporre gli
avvenimenti presentandoli quali problemi e non quali esempi.

4. Dopo il Decameron

4.1 Le opere in latino


Incontro fondamentale per Boccaccio è quello con Petrarca. Dopo averlo conosciuto per la prima volta a
Firenze nel 1350, l’anno successivo Boccaccio si reca a Padova a fargli visita. Il rapporto tra Petrarca e
Boccaccio non è tra uguali, Petrarca assume un costante atteggiamento di superiorità, che si risolve nel
considerare il suo interlocutore come a lui subalterno. Alla maniera del suo maestro, anche lui riprende il
genere bucolico, per travestire i fatti biografici e gli eventi politici nelle sedici egloghe a carattere allegorico
che formano il Buccolicum Carmen. Ad emulazione di Petrarca, Boccaccio scrive anche alcune opere a
carattere storiografico, che lo impegnano per l’intero arco della maturità e della vecchiaia. L’opera erudita
che maggiormente impegna Boccaccio è rappresentata dalle Genealogie deorum gentilum, sulla quale
l’autore ritorna praticamente fino alla morte.
4.2 Le opere in volgare
L’ultima opera a carattere narrativo del Boccaccio è il Corbaccio. L’autore racconta come, sotto forma di
visione, a lui, innamoratosi di una vedova, compaia l’ex marito dell’amata, che passa in rassegna tutti i vizi
delle donne e che lo esorta a dedicarsi non all’amore, ma agli studi, più convenienti alla sua età.
Il titolo viene dal termine “corvo”: si potrebbe risalire al “color nero” della veste della vedova, la
protagonista femminile che alimenta la radicale posizione misogina del testo. Si registrano l’abbandono
della tematica amorosa, il distacco dalla letteratura erotica, il congedo dal pubblico femminile; si verifica
l’apertura dell’autore verso una cultura seria, destinata a un pubblico di dotti ai quali far pervenire i risultati
della meditazione sui valori morali e i frutti di studi profondi.
Negli anni che vanno dalla conclusione del Decameron alla morte, l’ammirazione per Dante e la sua opera
trovo il suo riscontro in un assiduo impegno di celebrazione dell’esponente più prestigioso della nuova
letteratura in volgare. Due sono le attestazioni di maggiore evidenza: Trattatello in laude di Dante (si tratta
di un libretto encomiastico nel quale il progetto di restituire un’immagine di Dante nell’identità di poeta-
teologo e le Esposizioni sopra la Commedia che sviluppano gli appunti per le letture pubbliche del poema
dantesco.

Capitolo 10: La prosa del Trecento

1. I volgarizzamenti
Continua nel Trecento l’attività dei volgarizzatori; rivelante novità è la comparsa di volgarizzamenti in prosa
di opere di poesia della letteratura latina.

2. La letteratura religiosa

2.1 Giordano da Pisa, Domenico Cavalca, Iacopo Passavanti


Sono del primo decennio del secolo i circa settecento sermoni di Giordano da Pisa; meritano attenzione
perché costituiscono la prima attestazione di omiletica non latina, per il quadro sociologico di cui sono
documento, a riflesso dello sforzo assiduo del predicatore di spiegare la materia teologica attraverso
immagini della vita quotidiana, e per il valore linguistico del testo.
Domenico Cavalca (1270-1342) ha lasciato numerosissimi scritti, prevalentemente opera di trascrittura e
compilazione di altri testi. Il capolavoro di Cavalca volgarizzatore è costituito dalle Vite dei Santi Padri.
Di Iacopo Passavanti l’unica opere che ci è pervenuta è lo Specchio di vera penitenza, in cui l’autore fa
confluire le sue esperienze di confessore e predicatore. L’analisi di vizi e virtù conduce l’autore a prendere
in esame da ultimo la scienza umana e quella diabolica e a prestare una particolare attenzione ai sogni: ne
risulta un vero e proprio Trattato dei sogni.

2.2 La letteratura mistica: santa Caterina


La personalità di maggior rilievo della prosa religiosa del Trecento è santa Caterina da Siena (1347-1380)
testimoniata dalle 387 lettere scritte a laici ed ecclesiastici, ai potenti della terra e a gente umile. Caterina è
convinta che solo dal rinnovamento morale degli uomini può derivare una riforma delle strutture politiche:
è proprio per affermare questa sua persuasione che la vediamo dialogare da pari a pari con i potenti, in
funzione di ammaestramento. Obiettivo primario è la liberazione della Chiesa da ogni forma di
attaccamento ai beni temporali, associato al ripristino della centralità di Roma.

3. La storiografia

3.1 La <<Cronica>> di Giovanni Villani


Il maggior cronista del Trecento è Giovanni Villani, autore della Cronica, in dodici libri divisibili in due parti:
la prima va dalla Torre di Babele alla calata in Italia di Carlo d’Angiò mentre la seconda parte gli anni che
vanno dal 1265 al 1348.
3.1 L’anonimo romano
Capolavoro della cronistica del Trecento è un’opera dell’area romana: la Cronica di Anonimo Romano che
racconta gli avvenimenti accaduti a Roma dal 1325 al 1357.
4. Un libretto pedagogico per i borghesi
Vissuto nella seconda metà del Trecento è Paolo da Certaldo, autore del Libro di buoni costumi: un agile
manualetto di istruzione sulle pratiche commerciali, sull’educazione dei giovani di famiglia benestante e sul
comportamento cui deve attenersi il buon borghese.

5. La narrativa

5.1 I romanzi
La narrativa romanzesca del Trecento non ha tratti di originalità e si presenta o come risultato di
rielaborazione o come opera di compilazione (Andrea da Barberino, Bosone da Gubbio).
5.2 La novellistica
Nella novellistica la prosa narrativa si concretizza in prove più originali, fra cui spiccano le novelle di Franco
Sacchetti. Il suo libro di maggior rilievo è il Trecentonovelle; il Sacchetti è un dichiarato ammiratore del
Boccaccio, tanto da piangerne la scomparsa come si trattasse della morte della poesia stessa. Nei suoi scritti
però, prende le distanze da Boccaccio; le novelle non sono collocate entro una cornice ma procedono alla
spicciolata. Il che non significa che siano allineate in modo del tutto disorganico, in quanto al loro interno si
formano dei raggruppamenti per associazione di argomenti e di personaggi. L’universo di Sacchetti viene
ripercorso attraverso il filtro della nostalgica memoria degli anni della giovinezza oppure affrontato con
atteggiamento di critica dei costumi degradati, con toni espressivi che variano dalla polemica arguta al
risentimento aspro. Numerosi ed eterogenei sono gli aspetti del costume che sottostanno al suo giudizio e
alla sua reazione: dalla delusione per l’eclisse della cavalleria all’amarezza per l’arbitrio capriccioso dei
signori, si riscontrano spinte di irritazione verso i preti e gli uomini di chiesa in generale e contro qualsiasi
forma di superstizione e di risentimento per l’ipocrisia che ha falsificato la vera fede, per i guasti prodotti
dal denaro; parallelamente si sviluppano digressioni sulla fortuna, sull’attenzione a non giudicare dalle
apparenze.
Altri scrittori di novelle sono Giovanni Fiorentino (che riprende il sistema boccacciano) e Giovanni Sercambi.

Capitolo 11: Il Quattrocento: le idee, la cultura, le istituzioni

1. Questioni di nomenclatura e di periodizzazione


Il Quattrocento e il Cinquecento sono i secoli dell’Umanesimo e del Rinascimento. Il termine Umanesimo è
piuttosto recente: fu coniato in Germania nell’Ottocento dal pedagogista Niethammer che lo derivò dalla
parola humanista, utilizzata nel Cinquecento nel gergo studentesco delle università per indicare colui che si
occupava di discipline letterarie. La parola humanista era a sua volta derivata dalla antica espressione
studia humanitatis (ossia discipline relative all’umanità) che i dotti italiani di fine Trecento avevano desunto
dai testi di Cicerone e del Grammatico Gellio. L’Umanesimo si caratterizza per la preminenza di un gruppo
ristretto di discipline liberali (retorica, storia, poesia e filosofia morale) di cui si afferma l’assoluta centralità
per la formazione dell’uomo e del cittadino. Tali studi vengono inoltre sentiti fin dall’inizio come un ritorno
al magistero degli antichi latini e greci, che di queste discipline incentrate sull’uomo avevano offerto
l’esempio più alto. Nel momento in cui nasce la coscienza dell’Umanesimo nasce anche il concetto e il
termine stesso di Medioevo, cioè di un’età di mezzo fra l’antichità e il suo moderno risorgimento; il termine
Medioevo compare nel 1518 nelle opere di Gioacchino di Watt. Di qui nasce la contrapposizione,
particolarmente cara all’epoca illuministica e romantica, tra un Medioevo barbarico, tenebroso, irrazionale,
mistico, ascetico, soggiogato a una religiosità intollerante, dogmatica e superstiziosa e un Rinascimento
invece individualistico, razionalistico, naturalistico, prima tappa di un cammino che porterebbe alla piena
laicità della cultura moderna. Oggi nessuno potrebbe sottoscrivere tale opposizione (Medioevo e
Rinascimento) a causa dello straordinario sviluppo degli studi sul Medioevo che hanno definitivamente reso
giustizia allo splendore dottrinale, artistico, filosofico e letterario della età di mezzo, che nessuno si
sognerebbe più di marchiare come oscurantistica. Gli studi recenti hanno dimostrato l’insostenibilità di un
Umanesimo laico, irreligioso, pagano, antesignano diretto del laicismo illuministico. Le componenti
profondamente religiose e spirituali dell’Umanesimo italiano sono state messe in luce e per tale via si sono
ristabilite linee di continuità anche con l’età precedente. La novità rappresentata dalla nascita degli studia
humanitatis nelle prime generazioni degli umanisti italiani, appare incontestabile. Eugenio Garin sostiene
che la vera differenza degli umanisti italiani sta nel loro nuovo senso storico che determina anche il loro
nuovo rapporto con gli antichi.
2. Il ritorno all’antico e la nuova filologia
Il clima intellettuale quattrocentesco è dominato da un rinnovamento negli studi che si realizza attraverso
un ritorno all’antico –ovvero attraverso una riacquisizione- della cultura classica pagana e cristiana. Si tratta
di una vera e propria rivoluzione culturale –anticipata tuttavia già nel Trecento- nel pensiero e nell’opera di
Petrarca. L’innovazione sta nel metodo: Petrarca paragonava manoscritti diversi della stessa opera,
confrontando le lezioni varianti, integrando e ragionando per supposizione, per restaurare –fin dove
possibile- il testo originale. In tal modo Petrarca intendeva riavvicinarsi alla “voce” autentica degli antichi
autori, restaurare non soltanto le parole, ma anche il modo di sentire, di ragionare, in una parola, la loro
umanità.
2.1 I classici “scarcerati”
In primo luogo l’Umanesimo si propone la materiale ricoperta dei testi antichi. I primi umanisti si accorsero
che i giacimenti inesplorati di materiale manoscritto antico consistevano soprattutto nelle biblioteche
monastiche e nelle chiese cattedrali di tutta Europa. I libri che gli umanisti di prima generazione rinvennero
in tutta Europa erano i codici copiati durante tutto il Medioevo negli scriptoria dei conventi, e che adesso si
rivelavano un anello di congiunzione fondamentale con la civiltà antica; i codici cercati dagli umanisti erano
manoscritti di epoca altomedievale. Emblematiche di questa caccia ai manoscritti antichi furono le scoperte
di codici latini fatte da Poggio Bracciolini (1380-1459), esso scoprì codici di Cicerone, Quintiliano e Lucrezio.
Il recupero di manoscritti greci fu più semplice: la letteratura greca era ancora ben viva e disponibile, ma in
Oriente, nel mondo bizantino. Gli studi greci furono riattivati soltanto dal movimento dei nostri umanisti
verso Oriente, ma anche dal movimento inverso, di dotti bizantini che dalla Grecia e specie da
Costantinopoli , si mossero verso la nostra penisola, recandovi la loro competenza linguistica e spesso il
tesoro dei loro libri e delle loro biblioteche. I dotti di Bisanzio iniziarono a frequentare l’Italia quando
l’imminenza del pericolo turco spinse Costantinopoli a rompere l’isolamento e a cercare in Occidente aiuti
ed alleanze. L’afflusso di maestri greci salì dopo la presa di Costantinopoli (1453) ma a quell’altezza
cronologica lo studio della lingua e della letteratura greca non era più una novità.

2.2 La nuova filologia


Accertare la verità dei testi poteva significare accertare la verità della storia e quindi intervenire in modo
decisivo anche in ambito politico ed ideologico. Questa applicazione della nuova filologia trova nel
Quattrocento un formidabile campione in Lorenzo Valla (1407-1457), il più grande filologo e grammatico
(insieme a Poliziano) dell’Umanesimo. Su basi linguistiche Valla dimostrò che la famosa donazione di
Costantino, secondo cui l’imperatore avrebbe concesso al papa il diritto di esercitare il potere temporale sul
territorio della Chiesa, era un falso compilato nel Medioevo. Compie degli studi anche sul Nuovo
Testamento, inizia un processo di approccio laico ai testi sacri che arriverà a considerarli e studiarli nella
loro concreta storicità, al di là di ogni paralizzante sacralizzazione.
2.3 Il problema dell’imitazione
Il culto dell’antico e il restauro del puro latino classico implicano di per sé un processo di imitazione.
Quando gli umanisti cercano in ogni modo di discostarsi dal corrotto latino medievale per tornare a scrivere
con la lingua e lo stile della latinità aurea, essi assumono la posizione di chi ha davanti a sé dei modelli e
cerca di replicarne al meglio i pregi e le bellezze; non si deve credere che l’atteggiamento umanistico di
fronte all’antico consistesse in una duplicazione passive e inerte, già in Petrarca non si tratta di imitazione
ma di immedesimazione: autori come Virgilio, Orazio, Cicerone, sono stati così profondamente assimilati da
essere divenuti ormai parte di una memoria personale. Petrarca procede contrapponendo due metafore
che simboleggiano l’accezione negativa e positiva dell’imitazione: quella negativa è rappresentata
dall’attore che cambia vesti cambiando personaggio e passando da un’identità fittizia ad un’altra; quella
positiva è la metafora dell’ape, che succhia il dolce da ogni fiore, ma lo elabora e lo trasforma in qualcosa di
diverso, in cera e miele.
3. Un secolo bilingue
Nel quattrocento la lingua latina fu sottoposta ad un processo di depurazione dalle corruttele subite
durante l’età medievale e di restaurazione attraverso il confronto con i modelli classici. Il latino diventò
sempre più una lingua elitaria. L’accresciuta eleganza che veniva acquistando rendeva il latino poco
utilizzabile per fini pratici, per i quali veniva impiegato il volgare. Il Quattrocento si presenta dominato da
una cultura bilingue. Non mancarono dispute tra fautori e oppositori dell’una e dell’altra lingua. Leon
Battista Alberti (1404-1472) rivendicava la superiorità del volgare rispetto al latino; scrisse la prima
grammatica della lingua italiana.

4. Il curriculum dell’educazione umanistica

4.1 I grandi maestri


Al centro della cultura medievale c’erano state le Chiese e le grandi università, la nuova cultura umanistica
si crea in ambiti educativi diversi; si tratta di spazi privati, di scuole che si impongono da sé per il prestigio
dei propri maestri.
4.2 Le accademie
Gli umanisti evitano le sedi tradizionali, come la Chiesa e l’università, ciò non esclude che molti di loro siano
uomini di Chiesa o professori universitari.

5. Libri e biblioteche

5.1 Dal manoscritto al libro a stampa


Il libro del Quattrocento è ancora per massima parte un libro manoscritto. I manoscritti vengono ancora
prodotti grazie all’opera paziente di religiosi all’interno di monasteri e conventi, oppure da parte di copisti
professionisti presso botteghe. Il libro manoscritto rimaneva raro, costoso, lento, elitario; l’invenzione della
stampa a caratteri mobili rappresenta una vera e propria rivoluzione. Il libro diventava improvvisamente
disponibile in grandi quantità, costava poco, poteva diffondersi rapidamente, andava per le mani di tutti e
diventava esso stesso un potente fattore di alfabetizzazione. I primi tipografi furono in genere orefici, data
l’abilità di lavorazione dei metalli richiesta per la fusione dei caratteri di piombo. Il primo di tutti fu l’orefice
Gutemberg (1394-1468) che col sistema dei caratteri mobili stampò nel 1455 la Bibbia, il primo libro
stampato al mondo.
5.2 Le biblioteche umanistiche
Per Petrarca i libri non devono essere rinchiusi nelle biblioteche dei privati ma devono essere messi a
disposizione della comunità. Le esigenze erano due: che le nuove biblioteche fossero pubbliche e che
costituissero anche dei centri di controllo filologico dei testi. La prima biblioteca fu dovuta all’iniziativa di
cosimo il Vecchio de’ Medici.
6. Unità e policentrismo dell’umanesimo italiano
I tratti fondamentali dell’Umanesimo, quali il ritorno all’antico, il sorgere della nuova filologia e di un nuovo
senso storico, accompagnano ovunque il diffondersi e il radicarsi del fenomeno; tuttavia esso assume
coloriture caratteristiche e diverse di città in città. La frammentazione politica dal punto di vista letterario e
culturale si tradusse in un inestimabile fattore di vitalità e creatività.

Capitolo 12: Firenze tra Umanesimo civile e Umanesimo laurenziano


1. I due tempo dell’Umanesimo fiorentino
Con le espressioni Umanesimo civile e Umanesimo laurenziano si distinguono due momenti storico-letterari
successive del Quattrocento fiorentino: l’Umanesimo civile è caratterizzato da un legame fra istituzioni
politiche e cultura; l’Umanesimo laurenziano gravita intorno alla figura di Lorenzo de’ Medici ed è
caratterizzato da un mecenatismo che tende a chiudere gli intellettuali all’interno del potere, allontanandoli
da un impegno attivo nella società. Il consolidarsi del principato dei Medici modificò nel profondo la
funzione dell’intellettuale fiorentino. In un primo momento egli si identificava con l’istituzione politica di cui
era parte attiva: la repubblica, il governo democratico della città. A partire dalla seconda metà del secolo
l’intellettuale si realizza al di fuori della gestione diretta della cosa pubblica; egli si concede alla protezione
di un mecenate che gli consente di dedicarsi a tempo pieno ai propri studi.
1.1 Il ritorno di Platone
Durante il Medioevo il filosofo antico per eccellenza era stato Aristotele, conosciuto attraverso le traduzioni
latine dei traduttori arabi. L’Umanesimo vede la rivincita di Platone; Cosimo de’ Medici poté coltivare il suo
proposito di riportare Platone in Occidente solo attraverso l’incontro con Marsilio Ficino (1433-1499). Le
teorie ficiniane pongono l’accento sull’uomo e sulla sua centralità nell’universo, egli afferma che l’anima è il
nodo e la copula del mondo e come tale è connessione delle cose divine e delle cose mortali. Pico della
Mirandola era convinto che esistesse un unico sapere originario, da cui si sarebbero generate tutte le
scuole di pensiero
1.2 L’antiumanesimo di Girolamo Savonarola
Firenze conobbe anche un oppositore dichiarato della sua cultura umanistica nella figura di Girolamo
Savonarola (1452-1498), il frate domenicano che con la sua veemente predicazione sembrò stregare per
qualche anno il clima culturale di Firenze. Savonarola è stato presentato come l’anti-Lorenzo: secondo il
frate i libri di Aristotele e Seneca “sono buoni ma non profittano alla religione cristiana”. Bruciò in piazza i
libri profani, disegni, carte da gioco e disegni. Era un uomo del Medioevo, oscurantista e antiumanista, però
profeta di libertà ed infine martire della riforma religiosa, visto che proprio i suoi attacchi contro Alessandro
VI e la corruzione della chiesa romana, gli costarono la condanna al rogo.
1.3 La letteratura popolare del Quattrocento fiorentino
All’Umanesimo si affianca una cultura diversa, di origine ed inclinazione diversa che possiamo definire
popolare. Se l’umanesimo greco e latino trova nei Medici i propri mecenati, la letteratura di gusto popolare
è quella caratteristica delle famiglie magnatizie, che si tengono fedeli a un gusto più tradizionalista. Questa
letteratura è in volgare i suoi generi sono: scritture di devozione (preghiere, laudi), di immediato
intrattenimento (romanzi di cavalleria) o di utilità pratica (cronache). Dal suo seno nascerà uno dei
capolavori letterari della Firenze Quattrocentesca: il Morgante di Pulci.

2. Lorenzo il Magnifico

2.1 La prima educazione e gli esordi letterari


Lorenzo nasce nel 1449 da Piero de’ Medici e Lucrezia Tornabuoni, in questo periodo la famiglia è ancora
nella mani del nonno Cosimo il Vecchio (1389-1464). A soli 21 anni si trova a dover gestire il principato dei
Medici a Firenze. Riceve in famiglia due influenze diverse: il nonno Cosimo fautore del neoplatonismo e la
madre Lucrezia era una tipica rappresentante del gusto popolareggiante (Lorenzo si avvicina inizialmente al
gusto materno).
2.2 La conversione ficiniana
Nel 1473 con la composizione de “Il sommo bene” Lorenzo cambia registro, nel neoplatonismo sembra
trovare un alto motivo di sublimazione interiore e di rinnovata religiosità.
2.3 Lorenzo poeta lirico e il <<Comento>>
Lorenzo comincia a scrivere poesie d’amore ancora giovanissimo, ma non dà mai al suo canzoniere una
forma compiuta e chiusa, ne risulta un libro di rime costruito per accumulazione: quasi un diario poetico,
costituito da sonetti, canzoni, sestine e una ballata. Nel Comento raccoglie alcuni sonetti dalle Rime e li
commenta in prosa.
2.4 La congiura de’ Pazzi e l’apogeo della politica laurenziana
Lorenzo conosce il suo momento più critico nel 1478, con la congiura de’ Pazzi. Il popolo fiorentino si
solleva in difesa dei Medici e dà inizio ad un linciaggio dei congiurati. Lorenzo con un viaggio a Napoli mette
fine all’ostilità napoletana nei confronti dei Medici, il viaggio si rivela un successo e Lorenzo diventa l’ago
della bilancia della politica italiana.
2.5 Trionfi e canti carnascialeschi
Il canto carnascialesco è propriamente una canzone cantata da un gruppo di figuranti che impersonano arti,
mestieri, particolari gruppi sociali, personaggi della cronaca cittadina e della storia contemporanea. I canti
di Carnasciale sono tutti testi a doppio senso osceno. A un livello letterale, essi consistono in descrizioni di
una particolare arte, mestiere o condizione umana: in questo senso costituiscono una riserva linguistica di
grande interesse, perché registrano nomenclature di strumenti ed oggetti molto specifici. Al livello del
doppio senso ogni oggetto e gesto del mestiere allude a pratiche e circostanze sessuali.
I trionfi sono carri allegorici in genere ispirati alla mitologia classica che sfilavano in occasione festive
accompagnati da musiche e canti.
2.6 La fine di Lorenzo: un ritorno di devozione
Le sue ultime opere testimoniano un sincero approfondimento di spirito religioso, non più nelle forme
neoplatoniche del FIcino, ma in quelle della devozione popolare; Lorenzo il Magnifico muore nel 1492.

3. Luigi Pulci

3.1 Nella cerchia dei Medici: il <<Morgante>>


Luigi Pulci (1432-1484) nasce da una famiglia di nobili origini; le sue letture più approfondite riguardano
Petrarca, Dante e Boccaccio. Su Richiesta di Lucrezia Tornabuoni (madre di Lorenzo) pare sia iniziata la
stesura del Morgante.
3.2 La trama del Morgante
Il poema del Pulci non si distingue per l’originalità della trama, riprende canovacci della tradizione
cavalleresca. All’inizio del Morgante Orlando, sdegnato per le solite calunnie di Gano, abbandona la corte di
Carlo Magno ed entra in avventura dirigendosi verso la terra dei pagani. Incontra Morgante, un gigante
smisurato che per suo amore si converte al cristianesimo e si fa suo scudiero e compagno. Dopo varie
avventure parallele tutti convergono intorno alla città di Caradoro che il re Manfredonio cinge d’assedio per
la bella Meridiana. Sconfitto il pagano, i paladino tornano a Parigi, assediata da Erminione che istigato da
Gano intende vendicare la morte del padre ucciso da Rinaldo. Esasperato dall’acquiescenza di Carlo alle
trame odiose dei maganzesi, Rinaldo si ribella e si proclama imperatore, mentre Orlando riprende la via
dell’Oriente. Morgante in cerca di Orlando s’imbatte in Marguette, quest’ultimo è un mezzo gigante cinico e
spassoso campione di malandrineria: ateo e miscredente, egli sciorina di fronte a Morgante il suo
personalissimo credo, fondato su una fede assoluta nei piaceri della gola, del gioco e del sesso. I due si
accompagnano insieme e passano attraverso varie avventure, troncate dalla morte di Marguette
scoppiando dalle risate alla vista di una bertuccia (scimmia) che cercava di infilarsi i suoi stivali. Morgante
rimasto solo, arriva a Babilonia e ritrova Orlando e gli altri paladini; la città viene conquistata soprattutto
grazie al suo aiuto, ma al suo ritorno muore appinzato da un granchiolino. Invidiosi dei successi militari di
Orlando contro i mori, Gano si accorda col pagano Marsilio (re di Spagna) e fa sì che a Roncisvalle gli
infedeli sorprendano con un’imboscata la retroguardia franca comandata da Orlando. Solo in punto di
morte l’eroe si decide a suonare il suo corno per avvertire Carlo dell’accaduto. Tornato indietro,
l’imperatore trova i suoi paladini massacrati; finalmente venuto a conoscenza della malvagità di Gano, lo
imprigiona e lo fa squartare. Rinaldo riparte per la sua avventura; Carlo muore e sale al cielo per ricevere la
ricompensa della sua fedeltà alla causa cristiana.
3.4 L’invenzione di Marguette
Il personaggio di Marguette rappresenta l’invenzione più famosa del Morgante, non solo perché
rappresenta uno dei pochi inserti inventati ma perché in questo personaggio e nel suo credo sovversivo,
possiamo leggere un attendibile manifesto dell’ideologia irriverente, ribelle, e della vocazione parodica
dell’autore. La bruttezza fisica si accompagna ad una bruttezza morale.
3.5 l’originalità del Morgante
L’originalità dell’operazione pulciana è in realtà tutta di carattere linguistico e stilistico, è nello spessore
espressivo del testo che risiede la sua inconfondibile attitudine creativa. Lo stile va a incidere sul contenuto,
evidentemente privo ormai di ogni risonanza di valori.
3.6 Il <<Morgante maggiore>> e i cantari della dolorosa rotta
Già nell’irriverente credo di Marguette si poteva leggere la sarcastica estraneità di Pulci alle sottigliezze
teologiche della Firenze contemporanea. Nel 1475 una violenta polemica vede opposti i rappresentanti
della “vecchia guardia” fiorentina –depositari della tradizione letteraria municipale- e Finicio con gli altri
dotti dell’avanguardia neoplatonica; Pulci scrive sonetti ingiuriosi che ridicolizzano l’esoterico sincretismo
religioso dei finiciani. Il risultato è la sua progressiva emarginazione dalla brigata laurenziana.
3.7 Le altre opere del Pulci
Pulci anche nel resto della sua produzione si conferma manipolatore di materiali linguistici e stilistici, scrive
Vocabolarietto di lingua furbesca, la Beca da Dicomano, un poemetto in ottave e la Giostra che celebra il
torneo vinto da Lorenzo il Magnifico nel 1469.
3.8 La fine di Pulci
Pulci muore a Padova per febbri malariche; negli ultimi anni si era riavvicinato all’ortodossia cattolica, scrive
anche un poemetto dedicato alla vergine: Confessione.

4. Agnolo Poliziano

4.1 All’ombra del <<lauro>>: poesia latina e volgare


Angelo Ambrogini (1454-1494) detto Poliziano si stabilisce a Firenze in tenera età. Nel 1475 si cimenta nelle
versione latina dei canti II-V dell’Iliade con la dedica del secondo libro a Lorenzo de’ Medici, Poliziano entra
subito nelle grazie della corte dei Medici e diventa segretario personale di Lorenzo. La vasta produzione
poetica latina è caratterizzata da una raffinata imitazione dei modelli classici, in cui l’autore mette in luce la
sua erudizione e la sua passione per la ricerca filologica. In questo ambito Poliziano predilige il metro
elegiaco, in cui sono composti alcuni dei carmi più riusciti. In volgare Poliziano scrive esclusivamente poesie,
in sintonia con la politica culturale promossa da Lorenzo. Nelle sue rime coltiva forme caratteristicamente
popolari come il rispetto (un genere cantabile in ottave definito “spicciolato” se costituito da una sola
ottava, “continuato” se costituito da più ottave in successione) e la ballata. Lo stile delle rime volgari è
comunque caratterizzato dalla “dotta verità”: Poliziano riesce infatti ad amalgamare temi e motivi propri
della lirica petrarchesca e contemporanea con numerose fonti classiche, in modo da conferire una
raffinatezza a questa poesia in cui l’autore non cela mai del tutto la sua profonda erudizione.
4.2 Le <<Stanze per la giostra>>
Nel gennaio 1475 si svolse nella piazza di Santa Croce, a Firenze, un torneo in cui risultò vincitore Giuliano, il
fratello minore di Lorenzo. Era norma che di questi tornei si celebrasse la memoria in poemetti in ottave;
dopo la vittoria di Giuliano anche Poliziano –letterato ufficiale e poeta in carica della famiglia medicea- si
mise all’opera per celebrare l’esordio mondano del giovane Medici, con un poemetto intitolato Stanze per
la giostra (stanze sta per “ottave”). Nelle sue mani la giostra diventa un poemetto epico-mitologico e
accanto ai personaggi terreni, agiscono personaggi divini (Amore, Venere, Marte). Le Stanze rimasero
incompiute a causa della morte di Giuliano nella congiura de’ Pazzi nel 1478. In quest’opera Poliziano si
rivela non un narratore, quanto un poeta lirico-descrittivo, interessato più al cesello che al flusso avvincente
del racconto.
La trama dell’opera: il giovane Iulio, bello e forte come un dio, si dedica alla caccia e non si interessa
minimamente dell’amore. Offeso da questo atteggiamento, Cupido decide di vendicarsi. Durante una
battuta fa apparire di fronte al giovane una candida cerva: Iulio non può fare a meno di inseguirla per
catturarla. Improvvisamente l’animale si trasforma in una ninfa bellissima (trasfigurazione di Simonetta
Cattaneo, presente alla giostra) di cui il giovane si innamora. Nel secondo libro Cupido racconta di aver fatto
innamorare Iulio; esalta la stirpe dei Medici, loda Lorenzo e la sua fedeltà a Lucrezia Donati. Dal canto suo
Venere decide che Iulio dovrà combattere nella giostra che ha ispirato l’opera. Così, attraverso un sogno,
Amore spinge il giovane a impegnarsi per la Gloria, con cui potrà conquistare il cuore della sua ninfa. Iulio
decide così di partecipare al torneo, su questo proposito si interrompe il poemetto.
4.4 Da Firenze a Mantova: la <<Fabula di Orfeo>>
Nel 1479 Poliziano lascia Firenze, a Mantova presso Francesco Gonzaga compone l’Orfeo che fu
commissionata dallo stesso Gonzaga che la volle in volgare perché fosse meglio compresa dal pubblico. Si
narra di come Euridice muoia morsa da un serpente per sfuggire alle pretese d’amore del pastore Aristeo.
Orfeo, sposo di Euridice scende all’inferno per riscattarla; da Plutone ottiene che possa tornare in vita a
patto che non si volti mai a guardarla. Orfeo è incapace di resistere al giuramento e così la donna è
condannata alla morte eterna; perduta ogni speranza di riavere la propria amata Orfeo maledice le donne e
si converte all’amore dei giovinetti, questo provoca l’ira delle baccanti che lo uccidono facendolo a pezzi.
L’opera si chiude con un canto in onore di Bacco.
4.5 Poliziano professore
Ripristinati i rapporti con Lorenzo, torna a Firenze in cui ottiene la cattedra di poetica e retorica; svolge
lavori di filologia, grammatica e storia.

Capitolo 13: Ferrara e l’Umanesimo cortigiano


1. Geografia e storia della corte estense
Fuori Firenze, l’Umanesimo si struttura secondo il modello cortigiano, accentrandosi nell’iniziativa del
principe e trovando nella corte il suo unico centro di elaborazione e di irradiazione. Questo modello di
Umanesimo cortigiano trova nella Ferrara degli Este il suo esempio più compiuto e artisticamente più
fecondo.
2. I generi cortigiani
I generi in volgare prediletti dalle corti quattrocentesche sono la lirica e il romanzo cavalleresco; il modello
petrarchesco non viene comunque abbandonato.

3. Matteomaria Boiardo

3.1 Alla corte degli Este: poesia latina e volgarizzamenti dall’antico


Tutta la prima parte della carriera poetica di Boiardo è inclinata sul versante umanistico, esso è il
collaboratore principale di Ercole nell’ambizioso progetto di rinascita del teatro classico che prevede il
volgarizzamento e la messa in scena di numerose commedie di Plauto e Terenzio.
3.2 Gli <<Amorum libri tres>>
Il suo canzoniere rappresenta nel panorama della lirica quattrocentesca la ripresa più seria del modello
petrarchesco. Il libro di rime di Boiardo si inscrive in uno schema di errore/pentimento che inquadra
l’amore del poeta nei termini di una disavventura giovanile, a cui è seguito il ravvedimento dell’età matura.
Gli Amorum libri boiardeschi sono un’opera di straordinaria originalità, sentimentale e stilistica; l’opera si
divide in tre libri: nel primo innamoramento e conquista della donna; nel secondo tradimento di lei e
delusione del poeta amante; nel terzo, un ritorno di fiamma che chiude il libro su una nota dolce-amara, di
una schiavitù d’amore ormai subita senza illusioni e senza speranza di felicità. Ogni libro si compone così di
sessanta componimenti ciascuno; ogni gruppo di sessanta comprende cinquanta sonetti più dieci
composizioni d’altro metro; cinque sono ballate, mentre le altre cinque consistono in metri più impegnatici,
generalmente canzoni.
3.3 <<Orlando innamorato>> o <<Innamoramento di Orlando?>>
L’Orlando Innamorato fu pubblicato per la prima volta tra il 1482 e il 1483; il terzo libro –rimasto interrotto-
fu pubblicato a sé stante nel 1495, pochi mesi dopo la morte dell’autore. Il titolo Orlando innamorato è
stato abbandonato dalle curatrici della più recente edizione, che hanno preferito il titolo Innamoramento di
Orlando, meglio attestato tra i contemporanei di Boiardo.
3.4 La trama del poema
Alla corte di Carlo Magno i cavalieri cristiani e saraceni -durante la tregua di Pasqua Rosata (pentecoste)-
sono riuniti a banchetto alla vigilia di un grande torneo. La festa viene sconvolta dall’arrivo di Angelica, una
principessa orientale di mirabile bellezza, che si offre in premio a chi sconfiggerà il cavaliere che
l’accompagna, suo fratello Argalia; i cavalieri battuti dovranno farsi suoi prigionieri senza fare opposizione.
Angelica è in realtà una incantatrice mandata in Occidente per distruggere la corte carolingia. Ferraù, un
guerriero pagano, sconfitto, si rifiuta di arrendersi e Angelica scappa inseguita da Ranaldo e Orlando. Dopo
tante avventure, il poema si interrompe
3.5 L’ideologia boiardesca e il ritorno dei cavalieri di re Artù
Il Boiardo stesso rivendica la novità dell’invenzione nel proemio dell’Innamorato; Orlando Innamorato è un
ossimoro provocatorio, innamorandosi Orlando esce dalla scena epica, abbandona fisicamente il paesaggio
della guerra, lascia al suo destino Carlo Magno e l’armata cristiana, per entrare in un altro spazio e in un
altro paesaggio narrativo: quello bretone della “ventura” disseminato di prove magico-meravigliose. Questa
bretonizzazione del personaggio di Orlando e in generale della materia carolingia, ha dato luogo a una delle
più diffuse formule interpretative del poema boiardesco: che nascerebbe dalla fusione dei due maggiori
cicli medievali, quello carolingio e quello bretone arturiano. Nell’Innamorato il cast dei personaggi è
carolingio ma il sistema di valori e di comportamenti è arturiano.
3.6 La tecnica narrativa e la simulazione di oralità
L’Orlando innamorato inaugura anche un modello narrativo, costituisce uno degli archetipi fondamentali
della narratività europea. Tratto caratteristico della narratività boiardesca è la struttura ad intreccio del
racconto, fondata su una continua interruzione e ripresa a distanza dei vari fili narrativi. Ciò che noi
leggiamo non è veramente un racconto ma la rappresentazione di un racconto; ovvero che il libro mantiene
dentro di sé la morfologia di un testo recitato destinato all’ascolto e non alla lettura. Da questa dimensione
orale del testo nasce anche l’intreccio delle storie continuamente abbandonate e riprese: perché il continuo
timore del canterino è che il suo pubblico si annoi. La tecnica è quella degli antichi cantari di piazza e il
pubblico è composto da signori e cavalieri e damigelle graziose.
3.7 Boiardo novelliere
Le novelle dell’Innamorato sono sette, raggruppabili in alcune tipologie fondamentali. Innanzitutto le
novelle eziologiche, votate a spiegare la “cagion” di un’usanza strana o crudele; vi sono poi le novelle che
hanno la funzione di narrare la biografia pregressa del personaggio che le racconta. L’esplicita dipendenza
dal testo archetipo della moderna novellistica borghese da una parte dimostra la potenza della lezione
toscana anche all’interno della civiltà letteraria della corte estense; dall’altra parte, il trattamento a cui
Boiardo sottopone la sua fonte è esemplare della matura, autonoma fisionomia narrativa che con
l’Innamorato ha ormai assunto il genere “romanzo”.

Capitolo 14: Un Umanesimo di trapianto: la Napoli aragonese


1. Alfonso d’Aragona, principe umanista
Il Quattrocento napoletano coincide con la figura e l’opera di Alfonso d’Aragona. Entrato trionfalmente
nella sua capitale nel 1443, il re vi impiantò subito una corte sfarzosa e di grandi ambizioni intellettuali
(Lorenzo Valla, Beccadelli, Pontano); sotto Alfonso nasce l’Accademia Napoletana. Tutto si consuma fra la
corte e l’accademia: Alfonso non promosse la scuola universitaria né si preoccupò di estendere la vitalità
culturale della sua corte in altri centri del regno.
2. Giovanni Pontano e il latino umanistico a Napoli
L’opera di Giovanni Pontano rappresenta in modo esemplare la vitalità creativa e artistica che il latino
conserva ancora nel Quattrocento; Pontano, trasferitosi a Napoli divenne personaggio di spicco presso la
corte aragonese: la sua abilità politica lo portò alla carica di segretario di Stato. Scrive poemi didascalici,
raccolte liriche, scrive in prosa trattati morali.
3. L’<<Arcadia>> di Jacopo Sannazaro
Sannazaro sin dal 1481 ha un ruolo attivo all’interno della corte aragonese presso il re Federico d’Aragona;
la sua opera testimonia della convivenza nella cultura aragonese tra Umanesimo classico (greco-latino) e
Umanesimo volgare. Sannazaro continua la tradizione filologica quattrocentesca, dedicandosi alla scoperta
e allo studio di rari testi latini. L’Arcadia: la sua importanza nel panorama della cultura quattrocentesca è
duplice: da una parte essa consacra –sul piano dei contenuti- la centralità della materia pastorale
nell’immaginario letterario della moderna letteratura italiana; dall’altra, con la sua decisa assunzione di un
toscano letterario, essa costituisce un fondamentale superamento dell’ibridismo linguistico
quattrocentesco, in direzione di quel toscano nazionale in cui il Cinquecento di lì a poco identificherà la
lingua italiana. Il prodotto finale è il risultato di un assemblaggio di parti prosastiche e di ecloghe poetiche
(per lo più canzoni in sestine) che erano state composte in forma estravagante sin dal 1480, ed erano
originariamente destinate alla declamazione o alla recitazione.
La trama dell’Arcadia è sospesa in un tempo indefinito; il pastore Azio Sincero –sotto cui si cela lo stesso
Sannazaro- lascia Napoli per recarsi in Grecia dove fra i pastori d’Arcadia spere di trovare conforto alle
proprie pene d’amore. I pastori-poeti d’Arcadia si dedicano alla vita campestre, al pascolo, alla caccia e
spesso si cimentano in gare poetiche cantando le loro vicende sentimentali. Il protagonista spera di avere
trovato tale pacifica atmosfera un balsamo alle proprie sofferenze, finché, dopo un terribile sogno, ha il
presentimento di una sciagura. Inizia a vagare per le campagne dell’Arcadia, solo, sino a un fiume che
scorre alle pendici di un monte. Qui una ninfa lo conduce attraverso un passaggio sotterraneo, alle rive del
Sebeto, vicino a Partenope (Napoli), dove Azio viene a sapere dell’improvvisa morte dell’amata. L’opera si
chiude col doloroso sfogo del protagonista e con il suo congedo dalla zampogna pastorale.
Nell’Arcadia convivono due mondi: uno ideale bucolico e uno reale, quello della corte napoletana cui
rimandano continui riferimenti del testo. In molti dei poeti-pastori che popolano l’opera si possono
riconoscere intellettuali e scrittori dell’ambiente napoletano.
4. Masuccio Salernitano, novelliere aragonese
Il Novellino di Masuccio Salernitano rappresenta certamente un aspetto ben diverso della cultura
aragonese. Le sue novelle si rifanno al nobile precedente decameroniano, ma insistono ossessivamente sui
temi misogini dell’infedeltà e lussuria femminile e su quelli accesamente anticlericali della corruzione,
ignoranza, immoralità del clero. Da punto di vista linguistico il Novellino rappresenta una soluzione
rilevante del Quattrocento aragonese: l’autore dichiara apertamente la sua ammirazione e dipendenza dal
Boccaccio, senza rinunciare a una fortissima coloritura linguistica locale.

Capitolo 15: Il Cinquecento: le idee, la cultura, le istituzioni


1. Questioni di nomenclatura e periodizzazione
Quando si parla di Rinascimento ci si intende riferire al classicismo rinascimentale: ovvero agli aspetti della
civiltà quattro e cinquecentesca che più appaiono indebitati col ritorno all’antico e col recupero e
l’imitazione del mondo classico. Nel Cinquecento il classicismo non esaurisce il quadro culturale del secolo,
si affiancano delle credenze irrazionali, magiche, esoteriche.
Il Manierismo è stato spesso indicato come l’anello di congiunzione fra Rinascimento e Barocco; il
Manierismo è categoria primariamente della storia dell’arte, non della letteratura. Il termine nacque con
intenzione dispregiativa per indicare certe manifestazioni artistiche del tardo Cinquecento, nei primi del
Novecento il Manierismo non venne visto più come un fenomeno di decadenza e di esaurimento, ma come
l’emergere di un carattere soggettivistico e deformante dell’arte tardocinquecentesca contrapposto alle
regole classiche; il Manierismo significherebbe l’irregolare, l’anormale, il disarmonico, ciò che si oppone alla
regola e all’armonia classica.
2. Il protagonismo della corte
Rispetto al Quattrocento, il nuovo secolo vede un accentrarsi ancora più forte delle attività intellettuali e
culturali all’interno della corte. Il Libro del Cortegiano di Baldesar Castiglione (1531) ci restituisce
l’immagine più altamente idealizzata di quel mondo e del suo livello di raffinatezza intellettuale; la corte è il
luogo della conversazione, del civile scambio e confronto di idee; il luogo in cui il garbo e la naturalezza dei
modi si contrappongono in una grazia scevra di ogni affetto, e semmai concedendo un tocco di elegante
noncuranza. Tuttavia l’idealizzazione del Libro del Cortegiano non manca di provocare parodie e riscritture
grottesche, che si incaricano di svelare il vero volto della corte cinquecentesca. Ariosto e Tasso ci parlano
della corte come di un luogo esigente e duramente competitivo, carico di insidie: ma anche come l’unico
palcoscenico capace di assicurare lustro, fama, visibilità, successo. Cosimo I de’ Medici riesce a concentrare
nelle sue mani la cultura di Firenze, attraverso gesti simbolici ed efficaci misure di governo: in particolare
con l’istituzione dell’Accademia degli Umidi (1540) che diventerà Accademia Fiorentina.

3. Gli altri centri della cultura

3.1 Le accademie
Se quelle umanistiche del Quattrocento rappresentavano circuiti di cultura alternativa, legati
all’avanguardia dei nuovi studi classici, le accademie cinquecentesche, sono organismi votati alla
divulgazione della cultura. L’accademia si distingue dalla corte per il suo carattere non gerarchico.
3.2 Le università
Rispetto alla vitalità dei circuiti cortigiani e accademici, le università non attraversano nel Cinquecento un
periodo particolarmente brillante; esse si attardavano a coltivare saperi ormai arretrati (Aristotele,
Tolomeo) mentre il nuovo veniva maturando in circoli, accademie e liberi rapporti intellettuali. Dal 1564 Pio
IV prescrisse il giuramento di fedeltà cattolica a tutti i laureandi.
3.3 Le tipografie
Un centro nuovo e propulsivo della cultura cinquecentesca, è la tipografia.
4. La condizione degli intellettuali
All’inizio del Cinquecento gli scrittori si affaticano per entrare al servizio di qualche principe; l’Ariosto si
descrive malpagato e poco apprezzato. I tumulti e i travagli delle guerre d’Italia spingono il cortigiano laico
verso l’approdo ecclesiastico, sentito più tranquillo e sicuro. Questo trapasso sarà possibile fino a quando il
Concilio di Trento non disciplinerà con maggior rigore le carriere del personale ecclesiastico.
5. La stampa, la filologia, la censura
Nella sua organizzazione culturale, il Cinquecento vive una paradossale contraddizione, da una parte il
mercato del libro si espande presso ogni classe sociale; dall’altra la chiusura autoritaria
tardocinquecentesca esige un controllo capillare delle opinioni e delle idee e di conseguenza, un controllo
sulla carta stampata. Fino alla comparsa della stampa, la Chiesa aveva avvertito la pericolosità della nuova
tecnologia. Nel 1559 usciva l’Indice dei libri proibiti emanato da papa Paolo IV Carafa: un indice che
proibiva oltre agli scritti eretici ed eterodossi, anche molti autori volgari (Boccaccio e Machiavelli) e molte
edizioni in latino della Bibbia e tutte quelle in volgare. I protestanti non furono da meno nelle repressione e
nel controllo delle idee diffuse a mezzo stampa. Nel perseguire gli stampatori di idee eterodosse
Melantone, invocava la censura sulla stampa per impedire la diffusione di <<impia dogmata>>. Tutta
l’Europa cristiana cerca di limitare i “danni” della stampa. La censura non si limitava a distruggere i libri
proibiti ma censurava anche nel senso di riscrivere, tagliare (es. il Decameron venne censurato perché
troppo licenzioso).

6. In cerca di una lingua nazionale

6.1 La <<questione della lingua>>


Nel corso dei primi trent’anni del Cinquecento, l’Italia deve constatare amaramente il suo distacco
dall’Europa: mentre altrove si consolidano gli stati-nazione (Francia, Spagna, Inghilterra) e si perfezionano
le strutture unitarie delle moderne monarchie assolute, la nostra penisola si rivela incapace di superare il
suo particolarismo e impotente a generare un’egemonia capace di unificare il paese. All’inizio del
Cinquecento si esaspera per contrasto l’esigenza di affermare e perfezionare un’identità italiana –se non
politica- almeno culturale e linguistica. Le opzioni linguistiche che cercano di dare risposte a questa
problematica sono molteplici e danno luogo a quella che è stata definita <<questioni della lingua>>; le
posizioni più importanti furono due: quella di coloro che erano interessati principalmente alla lingua parlata
(favella) e quella di chi mirava essenzialmente alla lingua letteraria, cioè alla lingua degli scrittori.
6.2 A favore di una lingua parlata e cortigiana
La prima posizione è esemplarmente incarnata dai sostenitori della cosiddetta <<lingua cortigiana>> , si
tratta di uomini di corte che considerano la lingua innanzitutto come gesto sociale, come comportamento.
Essi non sono preoccupati di come si debba scrivere, bensì di come si debba parlare in una società raffinata
ed esigente come quella cortigiana. La lingua è considerata all’interno di un codice di comportamento
complessivo; essa viene discussa quale fatto di educazione, di belle maniere. I sostenitori della lingua
cortigiana non perseguono un’unità linguistica nazionale, a loro importa che ovunque –a corte- si parli con
l’identica raffinatezza e pulizia di modi e di stile.
6.3 La lingua <<comune>> di Giangiorgio Trissino
Il pensiero linguistico di Dante è alla base della proposta di Trissino: infatti egli legge nell’ideale dantesco di
un volgare italiano presente in tutte le parlate della penisola, ma non identificabile con nessuna in
particolare.
6.4 Un italiano da scrivere: l’opzione trecentista di Pietro Bembo
La forza vincente delle idee linguistiche di Pietro Bembo (1470-1547) consiste proprio nella netta
distinzione tra lingua scritta e lingua parlata. Bembo dimostra che di tutte le corti possibili, quella pontificia
è la meno consigliabile come luogo di omologazione linguistica: se nelle altre si può contare almeno su una
certa continuità dinastica –a Roma- i papi cambiano e portano con sé inclinazioni linguistiche diverse a
seconda della loro nazionalità. Bembo non fa che constatare l’assenza in Italia di un centro, di una capitale
capace di porsi come luogo di elaborazione autorevole di una lingua nazionale. L’Italia, destinata a rimanere
divisa in tante realtà locali, non può aspirare a una lingua d’uso unitaria; tuttavia potrà mantenere la sua
identità culturale assicurandosi lo strumento di una lingua letteraria che rappresenti un forte dato
identificativo almeno della élite intellettuale italiana. Ecco allora l’opzione del Bembo per il ritorno alla
lingua dei grandi toscani del Trecento. E’ una scelta che rivelerà vincente non soltanto perché altamente
praticabile ma anche perché essa risponde in profondità a una lettura molto lungimirante della situazione
storico-sociale italiana.
6.5 La reazione dei toscani e il primato dell’uso
L’idea di Bembo di dover tornare indietro di due secoli ad una lingua, come quella dei grandi trecentisti, di
cui proprio i fiorentini e i toscani erano in grado di sentire il carattere ormai arcaico e disusato, solleva a
Firenze e in Toscana indignazione. Secondo questa opposizione la lingua usata da Dante non è italiana ma
prettamente toscana, la conclusione è che non c’è lingua che si possa chiamare d’Italia. Un oppositore di
Bembo è Benedetto Varchi che nel suo Ercolano (1570) afferma che la lingua cortigiana non è lingua, basta
dire per dimostrarlo che ella non fu mai naturalmente favellata da alcun popolo. Giovambattista Gelli arriva
a negare che i tempo siano maturi per una vera e propria grammatica del fiorentino, lingua ancora
giovanissima, sottoposta alle fluttuazioni dell’uso. L’Accademia della Crusca impegnata nella stesura del
vocabolario, darà una spinta formidabile per il rilancio del fiorentino come l’unica lingua nazionale. Le
lingue sono sempre affermate sotto la pressione di un’autorità dall’alto che in Italia manca. Se il latino e il
francese si sono imposti con l’autorità dell’Impero, il toscano può sperare solo di affermarsi per la sua
intrinseca bellezza: può solo sperare di essere usato per amore, non per forza. L’opzione vincente nel
campo della lingua letteraria italiana fu quella del Bembo.

7. L’ampliamento della società letteraria

7.1 Le donne poetesse


Tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento il panorama letterario presenta profonde e
significative mutazione nelle strutture e nelle istituzioni culturali: la codificazione del volgare come lingua
colta e letteraria e insieme l’ampio sviluppo della stampa producono un notevole allargamento della
società letteraria; arrivano due categoria sociali che finora erano rimaste ai margini: le donne e gli artisti.
L’appartenenza all’aristocrazia è ancora una condizione preliminare che facilita l’esercizio delle lettere alle
donne del Rinascimento. Alcune donne poetesse: Vittoria Colonna, Veronica Gambara. Il Cinquecento
annovera almeno un’altra categoria di persone a cui era concesso uno stile di vita più libero: la cortigiana.
7.2 Gli artisti scrittori
La promozione dell’artista a un ruolo intellettuale di pari dignità con i letterati inizia dal XVI secolo. In
precedenza essere artista voleva dire essenzialmente essere un artigiano. Le migliori condizioni economiche
degli artisti, ormai protetti, ricercati e lusingati da potenti mecenati, sono la premessa ineliminabile per
accedere al mondo della cultura. Nelle Rime Michelangelo Buonarroti (1475-1564) rappresenta in un
linguaggio aspro e concreto il contrasto irrisolto e vissuto drammaticamente tra la carne e lo spirito.

Capitolo 17: Niccolò Machiavelli


1. Segretario fiorentino
Niccolò nasce a Firenze il 6/5/1469 da Bernardo (notaio); riceve un’educazione tradizionale. Nel 1498 viene
chiamato a reggere la seconda cancelleria del Comune dove resta fino al 1512. Machiavelli scrie in questi
anni opuscoli di riflessione politica; nel 1504 la sua prima opera poetica (Decennale primo) pubblicato nel
1506 racconta in terzine la cronaca degli ultimi dieci anni di storia fiorentina.
2. Prima e dopo la caduta
La carriera di Machiavelli si divide in die periodi ben distinti: dalla sua preistoria fino al 1513 (data
dell’allontanamento dal servizio di Segreteria), e dal 1513 alla sua morte nel 1527; il primo periodo
corrisponde al Machiavelli segretario mentre il secondo corrisponde alla lunga fase della sua lontananza
dalla cosa pubblica. La cesura del 1513 non può essere interpretata come lo spartiacque reciso fra un
Machiavelli politico e un Machiavelli letterato, Machiavelli è poeta anche negli anni della segreteria.
3. Fra <<Principe>> e <<Discorsi>>
Il Principe viene buttato giù di getto nel 1513 –in tempi strettissimi- sotto l’urgenza di una situazione
personale drammatica: è sollecitato da uno scopo pratico, acquistarsi il favore dei nuovi padroni per
tornare ad essere impiegato nella macchina statale. Il Principe detta in apertura il proprio disegno, l’ordine
degli argomenti e la loro disposizione strutturale; i Discorsi, al contrario, fanno dipendere la loro struttura e
la successione degli argomenti dagli spunti di commento e riflessione che il testo di Livio, letto nella sua
continuità, suscita senza sosta, ma liberamente senza alcuna sistematicità. Il Principe considera attraverso
la figura del principe nuovo, il momento di fondazione di uno stato, ovvero il momento di disconnessione e
di discontinuità rispetto al regime precedente (monarchico o repubblicano); si concentra sull’inevitabile
violenza del passaggio e sulle misure eccezionali che il principe nuovo dovrà assumere per mantenere uno
stato ancora fragile. I Discorsi invece tenendo fermo l’obiettivo sulle istituzioni dello stato, puntano ad
individuare i fattori di durata dello stato stesso, prendendo spunto dalla storia di Roma. Se al Principe
interessa come si fonda uno stato, ai Discorsi preme scoprire come farlo durare. Il mondo ideologico e
morale da cui nascono le due opere è omogeneo.
4. Il <<Principe>>: temi, struttura, ideologia
Il Principe rappresenta il primo tentativo da parte dello scrittore di riaffacciarsi sulla scena pubblica della
sua città. La dedica ai Medici, prima a Giuliano, poi a Lorenzo duca di Urbino, conferma lo scopo immediato
dell’opera. Il Principe può essere scandito in quattro parti: dal I all’XI capitolo si esamina la varia tipologia
dei principati (ereditari, misti, nuovi, civili, ecclesiastici); dal XII al XXIV si considerano le “offese e difese”,
cioè le ragioni di forza o di debolezza degli stati, con speciale attenzione al tema delle armi e della virtù del
principe; il capitolo XXV che affronta il tema della fortuna; il XXVI consistente nell’esortazione finale a
liberare l’Italia dai barbari.
Capitolo I: anticipa lo schema generale dell’opera.
Capitolo II: citando a esempio il ducato di Ferrara, la cui solidità politica non da altro dipende che
dall’antichità del dominio estense.
Capitolo III: intitolato ai principati misti; non ai principati in generale ma i principati in tutto o in parte nuovi;
non il principe in genere, ma quel principe che si trova davanti il compito di creare uno stato nuovo, e di
gestire in prima persona la drammatica transizione da un vecchio regime, sia esso principesco o
repubblicano. Esamina anche la sfortunata guerra condotta da Luigi XIII in Italia.
Capitolo IV: confronto tra antico e moderno, regni di Turchia e di Francia sono messi a paragone con
l’Impero persiano, abbattuto da Alessandro Magno; l’Impero turco è difficile da conquistare ma facile da
mantenere, viceversa per quello francese.
Capitolo V: il discorso si allarga alle repubbliche viste come oggetto di conquista dal principe nuovo.
Capitolo VI: affronta il tema degli organismi politici interamente di nuova fondazione.
Capitolo VII: si incentra su Cesare Borgia. Per Machiavelli è un principe negativo chi arriva al potere con la
forza e non con la virtù.
Capitolo VIII: affronta il tema del delitto politico.
Capitolo IX: invita il principe a fondare il potere sul popolo e non sugli aristocratici.
Capitolo X: menziona le città tedesche come modello di ordine civico.
Capitolo XI: nonostante diffidasse dai principati ecclesiastici, elogia Leone X (un Medici)
Capitoli XII-XIV: discorsi militari, necessità di avere un esercito autoctono e di non arruolare mercenari
stranieri.
Capitolo XV: il principe deve poter essere crudele; “perpetuare il male per garantire il bene” (Andreotti)
Capitoli XVI-XXIII: esamina il contesto politico italiano.
Capitolo XXIV: spiega perché i principati italiani hanno perso lo stato; essi non avevano eserciti propri e si
sono appoggiati sull’aristocrazia.
Capitolo XXV: affronta il tema della fortuna: essa è immagine del continuo mutamento delle situazioni,
dell’ardua inafferrabilità del reale da parte dell’uomo. Afferma che è meglio essere “impetuoso che timido:
perché la fortuna è donna ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla”.
Capitolo XXVI: è un’esortazione a prendere l’Italia e a liberarla dai barbari, rivolta alla casa dei Medici nelle
persona di Lorenzo duca di Urbino. L’opera si chiude citando Petrarca:
Virtù contra furore prenderà l’armi
e fia ‘l combattere contro
che l’antico valore
nell’italici cor non è ancor morto
5. Dalla <<Mandragola>> alla <<Clizia>>
Nel 1518 scrive e fa rappresentare la Mandragola, quest’opera procurò a Machiavelli un’immediata
popolarità. Nella storia del teatro comico rinascimentale, la Mandragola rappresenta lo scarto più decisivo
rispetto al modello classicistico ariostesco, procedendo verso una modernità inedita di situazioni e di
linguaggio; la trama presenta molte affinità con quella della novella VI della terza giornata del Decameron.
L’intreccio ruota intorno ai tentativi del giovane Callimaco di arrivare a godere l’amore della bellissima e
onestissima Lucrezia, moglie del ricco borghese Nicia, dottore in legge, ma di poco cervello. Nicia è disposto
a tutto pur di avere un erede, vincendo la supposta sterilità di Lucrezia. Spacciandosi per medico, Callimaco
suggerisce il rimedio della mandragola: una pozione che renderà feconda la donna, salvo procurare la
morte di chi per primo giacerà con lei. Nicia si lascia convincere a tentare la prova, l’uomo da sacrificare
sarà un ragazzaccio di strada, va da se, che travestito, il ragazzaccio sarà Callimaco che riuscirà ad avvicinare
la donna amata. La notte d’amore ha così luogo e la donna, scoperto l’inganno, decide di accettare l’amore
di Callimaco e di farselo compagno per l’avvenire.
Pesa sulla seconda commedia di Machiavelli la Clizia, il pregiudizio di derivare dalla Casina di Plauto; ma
Clizia non è un volgarizzamento, ma un radicale rifacimento: soltanto a partire dal III atto che la commedia
machiavelliana “traduce” quella di Plauto; quindi pressoché la metà del testo machiavellico è materiale
originale.
6. Machiavelli scrittore di storia
Nell’Arte della guerra, un trattato in forma di dialogo che discute il tema delle milizie, ribadendo
l’avversione al sistema degli eserciti mercenari e la necessità di dotarsi di truppe proprie. Alla fine
dell’opera constata l’impossibilità in Italia di una vera riforma della milizia e assume un sguardo giudicante
sulla realtà contemporanea, facendosene già lo storico, più che il riformatore. La sua storiografia non vuole
essere un semplice racconto, ma vuole essere anche un’interpretazione dei fatti.
7. La fine di Machiavelli
Nel 1527, il sacco di Roma e il tracollo di Clemente VII determina a Firenze un movimento antimediceo:
viene restaurata la repubblica e Machiavelli si trova un’altra volta dalla parte sbagliata. Mentre fervono i
preparativi per la resistenza che sfocerà poi nell’assedio di Firenze, Machiavelli muore il 21 giugno 1527.

Capitolo 18: Francesco Guicciardini


1. Avvocato, ambasciatore, uomo politico: l’ascesa pubblica di Guicciardini
Francesco Guicciardini nasce a Firenze nel 1483, dimostra fin da subito una forte ambizione politica che lo
induce a dedicarsi agli studi giuridici; intraprende la carriera da avvocato. Nel 1511 ottiene il mandato di
ambasciatore della Repubblica presso il re di Spagna, successivamente diventerà anche governatore di
Modena e Reggio.
2. Uno scrittore clandestino
Colpisce il fatto che le sue opere siano in massima parte opere non destinate alla pubblicazione, l’unica
scritta per essere divulgata è la Storia d’Italia; le altre hanno visto la luce assai tardi, a cominciare
dall’Ottocento, ciò dipende dal carattere delle sue opere, scritte per sé o tutto al più per i suoi eredi
immediati. Fino al Discorso di Logrogno, la sua proposta contempla un concentramento di poteri che se da
una parte rimanda al moderno modello veneziano e alla sintesi delle forme classiche di governo
(monarchia, oligarchia, democrazia) dall’altra tiene ben presenti le concrete condizioni civili e istituzionali di
Firenze.
3. Anni difficili: dal sacco di Roma all’assedio di Firenze
Guicciardini spinge Clemente VII a formare un’alleanza con la Francia (lega di Cognac) e a entrare in guerra
contro l’imperatore. Guicciardini rientra in patria in un clima di aperta avversione verso lo stato pontificio e
verso la politica da lui promossa.
4. Guicciardini contro Machiavelli
Le <<Considerazioni intorno ai “Discorsi” del Machiavelli sopra la prima Deca di Tito Livio>> sono un
puntualissimo commento polemico relativo a 38 capitoli dell’opera machiavelliana. In esso l’autore prende
le distanze da alcune idee cardine del pensiero di Machiavelli, mettendo in luce la propria differente
interpretazione della storia e della politica. I machiavelliani insistevano sulla necessità –per gli uomini
moderni- di guardare alla <<lezione degli antichi>> traendo dal loro esempio regole utili a “ordinare le
repubbliche e mantenere gli stati”. Proprio la repubblica romana sembrava all’autore il modello più alto di
stato, da imitare e riprodurre come forma ideale di governo; Guicciardini oppone una concezione
relativistica della storia, dalla quale a suo giudizio non può essere tratta alcuna regola <<ferma>> perché i
fatti della storia non si ripetono mai uguali.
5. I <<Ricordi>>
La sfiducia nei confronti di ogni teoria che prometta una lettura razionale della realtà si approfondisce in
questi ultimi anni dello scrittore, in cui la disavventura personale di Guicciardini coincide con la grande
tragedia di un’Italia ormai piegata e asservita alla potenza spagnola. I Ricordi costituiscono il frutto di
questa desolata percezione della fine di un’epoca. Uno dei più significativi e famosi ricordi di Guicciardini
denuncia proprio l’impossibilità di attingere dal passato regole universalmente valide. Il mondo di
Guicciardini è un mondo in cui le distinzioni e le eccezioni prevalgono nettamente sugli elementi di
continuità e di regolarità. La conseguenza più devastante dell’avversione alle regole è la distruzione del
principio di casualità: non si può mai essere sicuri del perché un evento succeda ad un altro, e quindi è
impossibile dedurne leggi fisiche di funzionamento. Esso è convinto che esistano leggi regolari e fisse che
governano il reale e che –in fondo- il mondo sia sempre stato lo stesso, ma è altrettanto persuaso che non è
dato all’uomo di conoscere quelle leggi se non con estrema difficoltà. Non si tratta di un trattato politico o
civile scritto in forma organica, bensì uno <<zibaldone>> di pensieri e di massime che derivano
dall’esperienza diretta dell’autore.
6. Guicciardini storico e la <<Storia d’Italia>>
La Storia d’Italia è una sorta di testamento ideologico che Guicciardini consegna ai posteri; la sua personale
sfortuna viene a coincidere col tragico destino dell’Italia di cui Guicciardini sceglie di narrare la storia a
partire dal 1494, anno della discesa in Italia dell’esercito francese fino alla morte di Clemente VII (1534). Il
quadro della decadenza italiana, si ricompone in un grandioso monumento composto di 20 libri che
distende in piena fedeltà ai canoni della storiografia classica, con una solennità formale e un’accuratezza
stilistica che denunciano l’intento evidente di assicurare alla sua opera un posto duraturo nella letteratura
volgare. La lezione contenuta nella Storia d’Italia non è solo quella dell’impotenza umana; non è solo una
lezione di disperazione, ma di orgoglio. Anche se l’uomo non può dominare il mondo esterno, egli resta
sovrano del proprio regno, il regno dell’intelletto.

Capitolo 19: Classicismo e anticlassicismo cinquecentesco


1. Il petrarchismo
Alla morte di Bembo, un suo contemporaneo –Niccolò Franco- scrisse un sonetto commemorativo: senza
Bembo la lirica in volgare sarebbe continuata nella sua versione cortigiana, caratterizzata da una lingua
ibrida e incerta e da tematiche superficialmente mondane e galanti. Scrivere sonetti in stile petrarchesco
diventò per i letterati italiani l’esercizio più comune di addestramento alla lingua e alla patria; il
petrarchismo ebbe il carattere di un fenomeno nazionale, unificante; inoltre non occorreva una complessa
educazione linguistica o letteraria o filologica per scrivere un sonetto –si che- tipicamente, proprio
attraverso il petrarchismo il Cinquecento vede arrivare alla ribalta della letteratura categorie e gruppi sociali
finora esclusi come le donne e gli artisti.
2. Da Castiglione a Della Casa: la modellizzazione dei comportamenti
Il Cortegiano di Baldesar Castiglione, nell’ambito dei dibattiti linguistici del Cinquecento propone una
soluzione radicata nell’ambiente di corte e nel vivo uso linguistico delle nobili cerchie cortigiane; tratto
peculiare delle idee linguistiche di Castiglione è proprio il privilegio accordato alla lingua parlata, di
conversazione, rispetto a quella scritta letteraria. Al perfetto cortigiano si richiede di saper conversare,
danzare, cantare, suonare, disegnare: non come un professionista, ma con l’agio disinvolto di un dilettante
disinteressato. In Castiglione l’indubbia esteriorizzazione delle qualità cortigiane non si riduce ancora a pure
e gelida etichetta: nel dialogo è ben evidente la fiducia che il perfetto uomo di corte non simuli le sue virtù,
ma veramente le possegga, sua pure in un accorto, consapevole regime di offerta performativa, attoriale,
quasi, delle stesse. Coronamento della perfezione cortigiana è il servizio amoroso; si tratta di amore
cortese, platonico, altamente spiritualizzato e indifferente agli eventuali legami materiali dei cavalieri e
delle dame coinvolti.
L’opera più emblematica di questa nuova fisionomia della trattatistica comportamentale è il Galateo di
Giovanni Della Casa (1558); esso si ritaglia la prospettiva più limitata di una normativa dei comportamenti
quotidiani e minuti conformi alle regole della buona società. Casa sceglie di non parlare in prima persona,
ma di mascherarsi dietro il personaggio di un vecchio ignorante che ammaestra un suo parente giovinetto
nel momento in cui questi sta per entrare nella società. Dietro le figure dell’anziano consigliere e del
giovane pupillo si riconoscono l’autore e il suo prediletto nipote. Si tratterà allora, non di insegnare come
raggiungere la virtù e aborrire il vizio ma come riuscire simpatico e beneducato. Alcuni consigli che hanno
reso celebre il Galateo: non guardare nel fazzoletto dopo esserti soffiato il naso, non assaggiare il cibo dal
piatto degli altri, non starnutire annaffiando chi ti sta accanto, non sbadigliare rumorosamente.
Un settore particolare della trattatistica rinascimentale è quello dei trattati sull’amore, in genere di
impronta platonizzante (Bembo, Leone Ebreo, Giuseppe Betussi).
3. L’aristotelismo e le poetica del Cinquecento
Il Cinquecento maturo vede imporsi nella cultura italiana l’influsso di Aristotele e della sua Poetica, questo
interesse si risveglia già nel Quattrocento, quando per la prima volta questo trattato viene tradotto in
latino. Tuttavia per assistere a una vera e propria divulgazione bisognerà attendere la traduzione latina del
1536 e il suo volgarizzamento nel 1549; è quindi solo a metà del Cinquecento che il testa comincia ad
essere commentato e a entrare nel circolo vivo della letteratura italiana. Il suo influsso in realtà fu tardo e
spesso controverso, sia per l’oggettiva difficoltà di una retta interpretazione, sia per la persistente presenza
di Orazio. La novità centrale è rappresentata dalla riflessione sull’atto poetico come mimesis, come
imitazione della realtà. Per la narrativa, la mimesi della realtà significava soprattutto la scelta del vero e
della storia come materia del racconto e la conseguente esclusione di materie fantastiche o inventate. Per il
teatro mimesi voleva dire perfetta corrispondenza del tempo dell’azione scenica col tempo reale dello
spettatore: ad essere imitati dal poeta erano i sentimenti rappresentati. L’accento posto dalle poetiche
aristoteliche sulla poesia come mimesi e sul poeta come “rassomigliatore” dette luogo a una generale
aspirazione a un’arte più legata al vero, più seria e impegnata rispetto alla pura finzione fantastica.
4. Discussioni e sperimentazioni sul romanzo epico-cavalleresco
Boiardo e Ariosto non avevano lasciato alcuno scritto di teoria letteraria; la riflessione teorica esplode
invece postuma. Ariosto non si era nemmeno preoccupato di dare un nome al genere letterario che egli
aveva ereditato da Boiardo, si limitava a chiamarlo “istoria”. Si comincia adesso a discuterne come
romanzo: termine medievale che designava in genere narrazioni d’argomento cavalleresco in prosa. Nel
pieno Cinquecento –dopo l’Orlando Furioso- “romanzo” passa ormai a significare il genere letterario
incarnato da Boiardo e Ariosto: ovvero un poema d’argomento cavalleresco, in ottave, a trama intrecciata e
costruito sul finto presupposto d’essere recitato da cantore e ascoltato da una platea di dame e cavalieri
presenti alla recita. A questo modello romanzesco si contrappone nel corso del secolo il modello epico di
ascendenza classica, rappresentato soprattutto da Omero e Virgilio. Favola multipla imperniata su una
pluralità di personaggi contro favola unitaria incentrata su di un eroe solo, racconto orale con un autore
ben presente nel testo contro racconto impersonale in cui la figura del poeta non appare in prima persona.
5. Figli di un dio minore: romanzieri in prosa
Il romanzo in prosa rimase sottotono, non entrando mai nel campo di osservazione e di dibattito della
raffinata protonarratologia cinquecentesca. Ciò che rende distintivo questo insieme testuale è proprio la
sua bassa codificazione, e quindi la grande libertà di soluzioni narrative adottate; si può andare così dalla
peripezia avventurosa all’autobiografia amorosa o al melodrammatico intrigo cortigiano. Mentre il dibattito
sul poema e sul romanzo in versi attirava una sperimentazione coltissima, il romanzo in prosa si cimentava
in una sbrigliata gamma di formati e d’invenzioni narrative.
6. La rifondazione dei generi teatrali
Sotto la spinta della riscoperta e dello studio dei modelli antichi, si assiste –nei primi anni del Cinquecento-
a quella che è stata definita “l’invenzione del teatro”, ovvero a un articolato processo sperimentale che
conduce alla configurazione su rinnovate basi classiche della drammaturgia, della scenografia, del luogo
teatrale moderni. I testi drammaturgici degli autori greci e latini, le riflessioni aristoteliche sulla tragedia,
sono le basi di tale rinascita, che mira a superare la fluida esperienza quattrocentesca dello spettacolo di
piazza, sacro e profano, verso un’idea di teatro come luogo chiuso, deputato alla recitazione di un testo
letterario. Questa rivoluzione dell’istituto teatrale ha come scenario la corte e vede nella commedia il
genere privilegiato: essa rappresenta vicende private e borghesi in un contesto cittadino e richiedeva un
linguaggio colloquiale e quotidiano. Nella Mandragola di Machiavelli si realizza l’incontro fra struttura
classica e universo comico decameroniano. Bernardo Dovizi, fu il primo a comprendere che il novelliere
boccaccesco poteva essere utilizzato come un repertorio ricchissimo di intrecci e personaggi comici, molto
più vicini alla realtà sociale e di costume cinquecentesca di quanto non lo fossero i prototipi latini. In
particolare in area veneta, il teatro dialettale trova il suo vivace sviluppo, c’è una percezione del veneziano
come lingua di piena dignità letteraria. Se la commedia all’antica, di forma classicheggiante, riesce a
innestarsi felicemente nel tessuto letterario del Cinquecento italiano, non altrettanto si può dire della
tragedia. Gli ultimi due generi teatrali che il Cinquecento mise a punto: la favola pastorale e il melodramma.
Fino agli anni quaranta si può dire che il Cinquecento non conobbe altra favola pastorale se non l’egloga di
stile virgiliano; nel 1545 Giraldi fece recitare l’Egle di genere satirico.
Resurrezione di una forma drammaturgica classica volle essere almeno all’inizio il melodramma. Vari critici
e filologi avevano avanzato l’ipotesi che la tragedia antica fosse cantata e non recitata: fosse cioè una
combinazione di melos (canto) e drama (azione); fu presso l’accademia fiorentina Camerata de’ Bardi che
maturò l’idea di sperimentare la rinascita di uno spettacolo agìto e cantato, nel quale la musica servisse non
a un diletto superficiale ma una intensificazione degli affetti e del valore espressivo della parola. Si tratta di
prove ancora molto accademiche, ma di lì a poco il genio musicale di Claudio Monteverdi si impadronirà di
questa nuova formula rappresentativa, facendo dell’unione di azione scenica e canto (del melodramma o
come presto si dirà dell’opera) una delle manifestazioni principali dell’arte italiana.
7. La novella tra comico e patetico
La tradizione novellistica volgare aveva subito nel Quattrocento un momento di decadenza. La
predominanza del latino durante l’Umanesimo aveva infatti respinto la narrativa volgare ai margini della
cultura ufficiale, relegandola nell’alveo della letteratura popolaresca. Dopo gli anni trenta del Cinquecento,
quando si vuol conferire dignità poetica ai generi letterari volgari, che la novellistica ricerca un proprio
statuto: i letterati cinquecenteschi eleggono a modello il Decameron, non soltanto dal punto di vista
linguistico ma strutturale, iniziando a costruire veri e propri libri di novelle. A differenza di Boccaccio
l’occasione del novellare non è data dalla fuga di un evento pericoloso e funesto, ma da una situazione di
puro intrattenimento. I narratori toscani trattengono la tradizione decameroniana specialmente il gusto per
la tematica comico-burlesca realisticamente ambientata entro uno sfondo cittadino e municipale. Un
episodio particolare della novellistica cinquecentesca è il recupero della fiaba, che proprio nel Cinquecento
si guadagna il suo diritto di stampa uscendo dalla tradizione orale per entrare nel dominio della letteratura.
8. L’antipetrarchismo di Francesco Berni
Tutti i fenomeni fondanti del classicismo cinquecentesco (bembismo in campo linguistico, petrarchismo,
trattatistica del comportamento) non mancarono di suscitare moti di contestazione. Contro questa rigidità
modellizzante si levarono voci che invocavano ribellione, libertà, spontaneità. Spesso la contestazione
assunse le armi del ridicolo: non era difficile volgere in burla la versificazione meccanica e combinatoria dei
seguaci di Bembo; bastava cambiare di posto o di colore alla tessere prefabbricate della loro poesia per
ottenere effetti di comica parodia. L’antipetrarchismo non tarda a stilizzarsi in maniera che lo stesso Berni è
all’origine di una saldissima e durevole tradizione di poesia “bernesca” caratterizzata dall’uso stilizzatissimo,
letteratissimo, del vocabolario e del burlesco. Petrarchismo e antipetrarchismo, platonismo amoroso e
dissacrazione burlesca non sono che due facce della stessa medaglia.
9. Conformismo e anticonformismo in Pietro Arentino
Se c’è un personaggio che nel Cinquecento si arroga il diritto e il titolo di contestatore violento della cultura
egemone, questi è Pietro Arentino (1492-1556) con le sue commedie rovescia il mito luminoso della corte
castiglionesca in un’immagine sordida di corruzione morale e di abiezione fisica. L’Arentino rappresenta nel
Cinquecento il capofila di una tipologia di letterato che la storiografia tradizionale ha cercato di etichettare
come quella degli anticlassicisti, irregolari, dei bizzarri.
10. Il poema epico-cavalleresco in linguaggio maccheronico: Teofilo Folengo
Già alla fine del Quattrocento fa la sua comparsa la poesia cosiddetta maccheronica che ha le sue prime
espressioni in varie opere anonime. Nella lingua antica i maccheroni sono gli “gnocchi”: cibo rustico,
popolare e grossolano. In realtà la poesia maccheronica è tutt’altro che rustica o popolaresca: essa esibisce
una grossolanità ben calcolata, elaborata e i suoi creatori sono tutti di estrazione universitaria, esperti di
latino. Essa si costruisce attraverso l’applicazione della morfologia latina a un materiale lessicale volgare,
anzi dialettale. L’incrocio tra latino e lingue popolari non era nuovo: ne facevano uso soprattutto i
predicatori. Per i poeti maccheronici lo scopo è puramente espressivo: essi voglio divertirsi e divertire
utilizzando un linguaggio quotidiano, anche osceno. In questa tradizione l’opera di Teofilo Folengo occupa
un posto a sé; esso applica un linguaggio maccheronico artefatto a uno dei più nobili prodotti del
classicismo rinascimentale: il poema epico-cavalleresco.
11. Riforma e letteratura
L’atteggiamento degli scrittori italiani nei confronti della Riforma religiosa che dal secondo decennio del
Cinquecento cominciò s squassare l’edifico dell’Europa cattolica è ben rappresentato dal Ricordo 28 di
Guicciardini in cui esprime sdegno per la corruzione intollerabile del potere temporale, sostanziale
indifferenza per le questioni teologiche e marcata antipatia per i preti come categoria sociale. Non si può
dire che dagli scritti degli eretici e riformati italiani uscissero dei capolavori; fra questi riformatori/scrittori i
nomi di maggiore spicco sono quelli di Antonio Brucioli per la sua fondamentale traduzione italiana della
Bibbia (1532); Giorgio Biandrate, Matteo Gribaldi, Olimpia Morata e John Florio che nel 1598 pubblicò un
dizionario della lingua italiana più di dieci anni prima dell’Accademia della Crusca.
12. Giordano Bruno
Nacque a Nola nel 1548, a 17 anni entrò nell’ordine domenicano dove ricevette un’istruzione aristotelica-
tomistica (Tommaso d’Aquino). Bruno è un insaziabile curioso, così accosta le opere di Erasmo, Pico della
Mirandola, i greci materialisti (Democrito, Pitagora, Eraclito, Epicuro), filosofi arabi, ma anche cabalà
ebraica e letteratura ermetica. Sospettato di disprezzare il culto dei santi e di simpatizzare con gli eretici
Bruno fuggì dal convento prima che iniziasse il processo contro di lui, uscendo dall’ordine domenicano. La
fuga e l’abbandono dell’ortodossia cattolica lo condussero fuori dall’Italia, qui Bruno aderì formalmente al
calvinismo, per accorgersi –poco dopo- che il clima della città non era meno intollerante di quello che si era
lasciato alle spalle in terra cattolica; Bruno entrò in conflitto con le autorità calviniste ginevrine e dovette
ritrattare le sue accuse, ma fu comunque costretto a lasciare la città. Si diresse allora in Francia, dove riuscì
ad entrare nelle grazie di Enrico III; qui pubblico le sue prime opere più importanti sull’arte della memoria.
Pubblicò anche una commedia in volgare, il Candelaio: la trama della sua opera si intreccia attorno a tre
nuclei principali, l’innamoramento del candelaio Bonifacio per la cortigiana Vittoria, l’inganno perpetrato da
Cencio ai danni di Bartolomeo, dandogli ad intendere di poter mutare i metalli in oro per via dell’alchimia e
le disavventure di Manfurio, vittima più volte di inganni e ruberie per le vie di Napoli. Alla fine della
commedia si ritrovano tutti e tre i gruppi di personaggi nelle mani di alcuni falsi sbirri che con la minaccia di
trascinarli in giudizio li derubano e si prendono gioco di loro.
Ognuna delle tre materie del Candelaio corrisponde ad un livello linguistico specifico: amoroso per la trama
di Bonifacio, scientifico per quella di Cencio ed erudito per quella di Manfurio. Ognuno di questi livelli
linguistici è aggredito con una virulenza ironica e deformatrice: così assistiamo alla grande demistificazione
del linguaggio ricercato delle tre storie della commedia.
Nel 1583 si reca a Londra, ma anche qui entra in conflitto con l’intellighenzia locale: conflitto che culminò
nella cena del mercoledì delle ceneri del 1584 in cui entrarono in contrasto per la teoria copernicana. Da
quella cena prende spunto l’opera in volgare più notevole di Bruno: La cena delle Ceneri; in cui
rappresentando il dialogo svoltosi a Oxford, espone compiutamente la sua visione cosmologica. La Cena fu
seguita da altri cinque dialoghi italiani che rappresentano il nucleo portante del sistema filosofico e
scientifico bruniano. Bruno si schiera a favore della visione copernicana del Cosmo, affermando l’infinità
dell’universo. Nei dialoghi morali si propone di eliminare i vizi dal cielo e di sostituirli con altrettante virtù: è
una urticante satira della corruzione contemporanea e specie delle deviazioni religiose del suo tempo.
Presentando la Cena ne rivendica il carattere indisciplinato: al suo interno c’è il dialogo, la commedia, la
tragedia, la poesia, la matematica, la morale e la logica. Tornato a Parigi entra in conflitto con uno
scienziato francese che lo costringe a lasciare anche la Francia. Peregrina in Germania ma anche qui si trovò
in contrasto con la Chiesa dominante (luterana) e viene scomunicato. Facendo tappa a Francoforte pubblica
un altro nucleo di opere. Dopo Francoforte soggiorna a Zurigo ma un nobile veneziano lo invita a
soggiornare a Venezia. Entra in conflitto con lo stesso nobile che lo denuncia per eresia all’Inquisizione
veneta, accusandolo di blasfemia. Si aprì un processo che durò otto anni. Il tribunale romano e il papa
stesso (Clemente VIII) speravano in una ritrattazione ma Bruno non cedette sostenendo l’infinità
dell’universo, la molteplicità dei mondi e il moto della Terra. Il 17 febbraio 1600 fu arso vivo in Campo dei
Fiori.

Capitolo 20: Torquato Tasso


1. Gli esordi: dal <<Gierusalemme>> al <<Rinaldo>>
Torquato Tasso nasce nel 1544 a Sorrento (Napoli); nel 1557 si trasferisce con il padre ad Urbino per poi
trasferirsi a Venezia; è qui che –nel 1559- Torquato fa il suo esordio con le 116 ottave del Gierusalemme: un
frammento rimasto incompiuto e clandestino, ma importante a testimoniare la precocità dell’idea di un
poema eroico ispirato alla gloriosa materia della prima crociata. Si iscrive alla facoltà di legge ma la
vocazione poetica ha la meglio e prende a frequentare i corsi di filosofia ed eloquenza. Nel 1562 Tasso esce
allo scoperto con la sua prima opera a stampa: il Rinaldo, un poema bilanciato fra omaggio all’avanguardia
aristotelica e classicheggiante e fedeltà al retaggio romanzesco del genere. Nello stesso anno vengono
concepiti anche i primi nuclei dei Discorsi dell’arte poetica.
2. A Ferrara: l’<<Aminta>>
La vicenda dell’Aminta si svolge in un indeterminato luogo pastorale, assai simile all’Arcadia classica. Il
pastore Aminta ama –non ricambiato- Silvia, una giovane ninfa seguace di Diana e restia ai legami
sentimentali. Inutilmente Dafne esorta Silvia a ricambiare l'amore per il giovane, mentre Aminta comunica
a Tirsi il proprio affanno e gli confida il proposito di uccidersi. Arrivati ad una fonte questi ultimi
sorprendono un satiro intento a legare Silvia ad un albero per usarle violenza. Messo in fuga il satiro,
Aminta libera la ninfa che tuttavia fugge senza mostrargli gratitudine. Dafne, che impedisce ad Aminta di
uccidersi, dialoga con lui quando sopraggiunge la ninfa Nerina ad annunciare il ritrovamento dei resti di
Silvia, morta sbranata dai lupi durante una battuta di caccia. Aminta corre via per mettere in atto il suicidio,
mentre Silvia ricompare viva e scampata al pericolo. Alla notizia del possibile suicidio di Aminta, la ninfa
rivela il proprio turbamento, svelando così il suo amore. Nella scena conclusiva il pastore Elpino narra come
Aminta si sia salvato cadendo da un burrone su un fascio d'erbe e, raggiunto dalla ninfa, sia ormai tra le sue
braccia. Aminta e Silvia incarnano il momento della scoperta d’amore ma soprattutto un estremismo di
sentimenti (tentato suicidio); mentre Tirsi e Dafne rappresentano il controcanto della maturità assennata e
un po’ cinica. Nell’Aminta dietro ai personaggi della favola si celano infatti ben note figure di letterati, poeti
o cortigiani ferraresi. Dal punto di vista delle fonti, Tasso ricava numerose suggestioni da autori classici e
umanistici. Tasso lascia l’iniziativa nelle mani della fortuna che entra in scena almeno tre volte (sotto forma
di lupo, velo e cespuglio) e orchestra l’intreccio su aristoteliche peripezie, ovvero attraverso i colpi di scena
o mutamenti di sorte che governano la favola della tragedia.
3.Il poema di una vita
Al centro di tutta l’attività letteraria di Torquato Tasso c’è il poema della crociata. Tasso non perde mai di
vista l’intento di piacere non solo agli intendenti ma al più vasto pubblico dei lettori. Il suo sarà un poema
epico –non romanzesco- di soggetto storico, non di fantasia e ispirato a un soggetto (la prima Crociata) che
unisce insieme le armi e la missione religiosa e che nell’Europa cinquecentesca, ossessionata dal pericolo
turco, evoca evidentemente potenti suggestioni attualizzanti. Rispetto alle novità esplosiva del
Gierusalemme, il Rinaldo è sembrato alla maggior parte della critica un intermezzo, un modo per l’autore di
presentarsi al pubblico. Non più un poema epico, ma un romanzo; non più un’azione storica, ma il solito
repertorio di meraviglie e di magie. Abbandonata la liberata Tasso, torna sul suo poema della crociata e ne
fa il fulcro centrale della sua ultima e stremata stagione poetica. Ne esce la Gerusalemme conquistata, un
poema tutto diverso, conformato ai dettami della Controriforma. L’assedio di Gerusalemme è ora lucidato
attentamente su quello di Troia; i personaggi sono sovrapposti studiosamente a quelli dell’Iliade.

4. Trama della <<Gerusalemme Liberata>>


La storia ha inizio nel sesto anno di guerra contro Gerusalemme, all'interno della prima crociata. Dio si
avvede che i cristiani hanno ormai dimenticato il loro obiettivo e manda l'arcangelo Gabriele da Goffredo di
Buglione, perché sproni i compagni; egli viene eletto capo supremo della spedizione. Si arriva all'assedio e
con esso ai primi scontri. Satana invia dei demoni ad aiutare i pagani; inoltre manda nel campo cristiano la
bellissima maga Armida, che fa innamorare di sé i guerrieri cristiani e li imprigiona in un castello. Argante,
uno dei più feroci guerrieri pagani, sfida a duello i cristiani, e viene prescelto Tancredi. Erminia, principessa
di Gerusalemme, è innamorata di Tancredi; vedendolo ferito, si traveste con l'armatura di Clorinda, la
vergine guerriera di cui Tancredi è a sua volta innamorato. Sorpresa dai cristiani, fugge e si ritrova tra i
pastori, con cui si allontana dalla brutalità della guerra. Tancredi viene fatto prigioniero da Armida mentre
inseguiva quella che credeva essere Clorinda.
Nel campo cristiano si diffondo una serie di notizie che generano sconforto: si dice che Rinaldo sia morto,
che Tancredi non si trova più e che non giungeranno i rinforzi promessi dal re danese Sveno. Il tumulto
seguente viene placato da Goffredo anche con l'aiuto divino. La guerra continua con vicende alterne,
sempre con l'intervento divino e demoniaco. Dopo una processione al Monte Oliveto, i cristiani assaltano
Gerusalemme con una torre mobile, ma la notte interrompe la battaglia. Argante e Clorinda riescono a
incendiare la torre, ma vengono sorpresi dai cristiani; in un duello Tancredi uccide Clorinda, la quale prima
di morire si fa da lui riconoscere e battezzare, poi muore tra le sua braccia. L'eroe è disperato, ma viene
salvato dall'apparizione della donna amata.
Il mago Ismeno, a questo punto, getta un incantesimo sulla selva di Saron in modo che i cristiani non
possano rifornirsi di legna per costruire una nuova torre. Dio però decide che è giunto il momento di
cambiare le sorti della guerra: in una visione, Goffredo viene a sapere che Rinaldo è l'unico a poter spezzare
l'incantesimo della selva. I cavalieri Carlo e Ubaldo vengono mandati a cercarlo e lo liberano dal giardino
incantato di Armida, che si è innamorata di lui. Così l'eroe giunge a Gerusalemme e dopo essersi purificato
spezza l'incantesimo. I cristiani penetrano così nella città e inizia il duello finale; il più duro è quello tra
Argante e Tancredi. Il primo muore, il secondo è ferito in modo grave ma viene salvato da Erminia.
Nonostante l'arrivo dell'esercito egizio, i cristiani vincono e Goffredo può piantare la bandiera crociata sulla
città e adorare il Santo Sepolcro.
5. La struttura della favola
I venti canti della Gerusalemme si possono dividere in tre blocchi strutturali: prima parte sacca di eventi
positivi, sacca centrale di eventi negativi, e parte finale di eventi positivi. Nella battaglia conclusiva i cristiani
espugnano Gerusalemme e nell’ultima scena Goffredo appende la spada quale ex voto al Santo Sepolcro. La
favola del poema presenta una struttura bilanciata sul piano delle quantità complessive (10 canti positivi e
10 negativi) e asimmetrica sul piano degli sviluppi narrativi (3+10+7) diventa dinamica non nel mezzo ma
dal tredicesimo canto in poi.
6. Tematiche e ideologia del poema: i tre livelli del conflitto
Fin dalla prima ottava del proemio la Gerusalemme liberata presenta la propria trama epica disposta su tre
livelli di conflitto. Goffredo affronterà non solo il nemico ovvio (gli infedeli) ma anche un nemico invisibile e
soprannaturale costituito dal diavolo stesso e dalle forze demoniache, nonché quello che si incarna
nell’indisciplina dei suoi compagni, tutt’altro che compatti sotto il vessillo dell’impresa sacra e
continuamente bisognosi di essere ricondotti alle ragioni prime, etiche e religiose della crociata.
6.1 Conflitto storico e conflitto ideologico
Lo scontro fra la due cavallerie non oppone solo pagani contro cristiani, ma attraversa anche lo
schieramento cristiano, incrinandone la compattezza ideologica e aprendo proprio quel terzo fronte di
conflitto. Quando Armida si presenta al campo cristiano nelle vesti (simulate) della classica donzella in
pericolo della tradizione romanzesca, chiedendo protezione e aiuto; Goffredo rifiuta, opponendo
chiaramente le ragioni della sua causa, ma al suo diniego reagisce vivacemente Eustazio, rivendicando
invece la validità di una cavalleria tradizionale fedele al valore supremo della cortesia. E’ vero che il campo
cristiano persegue il valore dell’uniformità ideologica e si conforma all’ideologia in certo modo
“spersonalizzante” della Crociata: ma in realtà essa non ci viene presentata mai in atto, come un ideale
pienamente e pacificamente raggiunto.
6.2 Un irrisolto bifrontismo spirituale
Ciò che distingue la Liberata è proprio la compenetrazione di due impulsi opposti: l’edificazione di una
struttura inedita in cui si alternano e s’intrecciano momenti lirici (legati alla soggettività dei personaggi) e
momenti eroici (legati alle spinte unitarie della causa collettiva).
7. I personaggi
Nel campo cristiano: tra i crociati si staglia la figura di Goffredo di Buglione, esso è il garante in Terra della
missione celeste e simboleggia l’eroismo nel suo aspetto più puro e disinteressato. Rinaldo è il braccio
dell’impresa, necessario al compimento della missione e insieme progenitore mitico della dinastia estense,
dunque vettore dell’intenzione encomiastica del poema. Tancredi è il crociato pressoché perfetto, non
fosse per il folle amore che inquina la sincera dedizione alla causa, l’amore per Clorinda (una valorosa
guerriera pagana). Alla fine uccide Clorinda non avendola riconosciuta, ma allo stesso tempo obbedisce alla
sua richiesta di essere battezzata in punto di morte.
Nel campo pagano: alla guida della città troviamo Aladino, un crudele monarca; non può vantare nessun
tipo di ascendente etico-religioso sulle sue truppe, costituite da un crogiolo di popoli e mercenari. Al fianco
del re troviamo il negromante Ismeno, animatore del soprannaturale di matrice diabolica: a lui si devono gli
incantamenti che tentano –invano- di impedire l’impresa della crociata, ma che comunque riescono a
rallentarne il corso. Tra i pagani i veri protagonisti sono: Argante è un guerriero violentissimo, raffigurato da
Tasso nell’atteggiamento costante dell’aggressività e tuttavia non estraneo a ripieghi malinconici e
meditativi. Solimano è il re di Nicea, spodestato dai cristiani, un re che agisce sotto l’impulso dell’odio pur
avvertendo un continuo presagio di sventura e quindi pervaso dalla grandezza tragica degli sconfitti
indomiti. Clorinda è la vergine guerriera i cui turbamenti interiori, grazie alla morte e al battesimo sfociano
nell’incontro finale con Dio, Erminia è la tenera e vulnerabile principessa tormentata dal suo amore segreto
per Tancredi; Armida è il personaggio femminile più complesso, capace di percorrere tutto l’arco
sentimentale che va dalla maga infida dei primi canti alla seduttrice di Rinaldo fino alla donna innamorata e
sottomessa del finale.
8. Stile magnifico e varietà tonale
L’epica richiede uno stile magnifico che all’occorrenza sappia flettersi verso l’abbondanza di ornamenti
della lirica o la semplicità della tragedia: non dunque, lo stile mediocre di tanta poesia cavalleresca ma uno
stile alto. Sul piano retorico, Tasso ricorre preferibilmente ad alcune figure specifiche, quali ad esempio
l’ossimoro, il parallelismo, il chiasmo: figure di doppiezza o di dissonanza che ben si accordano a quel
sistema di conflitti su cui si fonda il poema. Notevolissimo è il ruolo dell’enjambement (alterazione
dell’unità del verso con l’unità sintattica).
9. Dentro e fuori da Sant’Anna
Tasso manifesta degli squilibri mentali, nel 1559 approfittando di una crisi nervosa a cui si era abbandonato
Torquato durante le nozze del duca Alfonso, quest’ultimo lo fa rinchiudere come pazzo frenetico
nell’ospedale di Sant’Anna, vi rimane chiuso per sette anni. Durante gli anni di prigionia era iniziata la
circolazione della Gerusalemme liberata, lontana dal controllo del suo autore: quella del 1580 col titolo
Goffredo ebbe un successo immediato. Uscito da Sant’Anna, per prima cosa riprende il frammento tragico
del Galealto e lo riscrive e completa col titolo Il re Torrismondo, riscrive e pubblica i Discorsi dell’arte
poetica col titolo i Discorsi del poema eroico, progetta un’edizione complessiva sia delle rime, sia delle
prose, si dedica alla composizione di nuove opere di stampo religioso, riscrive da cima a fondo la Liberata e
la pubblica nel 1593 col titolo Gerusalemme conquistata, con dedica al cardinale Aldobrandini, nipote del
papa.
10. L’ultimo Tasso <<Il Re Torrismondo>>
Tasso aveva iniziato una tragedia nel 1573, lasciandola interrotta; una volta uscito dal carcere Tasso
riprende in mano il testo e gli dà forma compiuta col nuovo titolo il Re Torrismondo. La favola descrive i
tormenti del re di Gozia Torrismondo, diviso tra l’amore per Alvida, figlia del re di Norvegia Araldo e la
lealtà verso l’amico Germondo, re di Svezia. Dopo alterne vicende con Germondo che sembra disposto a
tirarsi indietro, Torrismondo scopre che Alvida rifiuta di credere alla storia dell’incesto e si suicida,
pensando di non essere più amata. Torrismondo la segue nella morte, ma prima di uccidersi invia una
lettera a Germondo in cui si professa suo amico e gli affida la madre e il regno. Germondo disperato per la
duplice morte, chiude la tragedia con una sconsolata considerazione sulla vanità dell’esistenza.
11. La <<Gerusalemme conquistata>>
In sede critica si è spesso guardato alla seconda Gerusalemme con forti pregiudizi, come ad un’opera
pesantemente condizionata dai tardi scrupoli religiosi del suo autore; è innegabile che il disegno correttivo
del Tasso risulti del tutto omogeneo al clima post-tridentino. La Conquistata è un poema meno fascinoso
della Liberata ma è anche un progetto faticosamente elaborato e liberamente perseguito. Tasso cerca di
acquisire linearità narrativa ponendosi più precisamente sulle tracce dell’Iliade. A questo scopo, aumento il
numero delle partizioni da 20 canti a 24 libri (alla maniera di Omero e si noti come il passaggio dal canto
romanzesco al libro epico dia il senso della riforma).
Il Seicento
Capitolo 21: La cultura barocca
Il Seicento fu un secolo ricco di spinte innovative, segnato dalla volontà di differenziarsi dal periodo
precedente. Questo non significò rinnegare il passato –anzi- in ogni ambito gli esponenti di spicco della
cultura di questo secolo tennero in conto la lezione degli antichi; ma molte novità, quali gli sviluppi della
stampa, gli apporti dal nuovo mondo, un sistema di efficienti comunicazioni epistolari, nuove conoscenze
naturali, portarono innovazione in ogni campo
1.Le istituzioni
1.1 I luoghi del sapere
Uno dei primi eventi caratterizzanti il nuovo secolo in Italia è la nascita dell’Accademia dei Lincei: un gruppo
di giovani studiosi della nobiltà romana nel 1603 fonda un’istituzione destinata a rinnovare il sapere non
solo in Italia ma anche in Europa e nel mondo. L’Accademia riesce ad imporre una nuovo epistemologia: lo
spirito di osservazione che è alla base delle nuove conoscenze che soppiantano le pseudoscienze come
l’alchimia e l’astrologia. Si propongono l’incremento e la diffusione del sapere da cui dovrebbe nascere un
rinnovamento etico. Poli culturali del Seicento sono ancora le corti: ma sia per lo sviluppo della borghesia
sia per le difficoltà del rapporto con un principe assoluto; le università e le accademie divengono le vere
sedi della produzione e circolazione delle idee. Altre accademie si propongono degli obiettivi specifici, come
la promozione del toscano per gli accademici della Crusca di Firenze. Anche i privati con il collezionismo si
fanno promotori di sviluppo delle conoscenze, si diffondono i “gabinetti delle curiosità” tanto che ogni
importante città italiana può vantare un collezionista. Si diffondono le biblioteche pubbliche, si aprono
teatri e si velocizza ed espande la comunicazione, si intessono carteggi fra dotti, si stampano
periodicamente “avvisi, ragguagli” e relazioni che riferiscono di avvenimenti politici, fatti di cronaca, eventi
culturali e religiosi, spettacoli. Sono anticipi delle gazzette e dei moderni giornali. Il libro stampato
raggiunge anche un pubblico popolare; ma contro queste massificazioni emerge il desiderio di una élite che
se ne distingua, anche con l’uso di un linguaggio ricercato e con una letteratura idealizzante. Si avverte
vivissimo nel Seicento il carattere progressivo della conoscenza. Soprattutto dopo le scoperte della scienza
sperimentale.
1.2 La Chiesa
Allo splendore di Roma contribuisce il mecenatismo di papi come Urbano VIII, che inaugura un periodo di
feconda produzione artistica e letteraria. Sotto lo stesso papa però, avviene il processo a Galileo con la
definita condanna delle teorie copernicane e il divieto di divulgare le nuove idee, che si credevano contrarie
al testo biblico. Se da una parte da Roma viene lo splendore di una nuova civiltà, dall’altra essa mostra
anche i limiti della cultura italiana del Seicento. Nel clima di controllo e di inquisizione suggellato dal rogo di
Giordano Bruno le opere di Galileo e di Campanella vengono portate all’estero e là pubblicate; da lì
ritornano clandestine in Italia, arricchendo il dibattito e la conoscenza. L’incontro fra gli educatori della
Compagnia di Gesù e la Curia romana modella un nuovo rinascimento cristiano; Roma coltiva un’idea di
verità congiunta con la bellezza, che si manifesta nelle eleganze dell’architettura, delle arti, della musica,
della liturgia e dell’oratoria. Fonda così il suo potere politico-religioso non sulla forza o l’autorità derivata
dal divino, ma sul fascino delle forme, cariche di memorie di una tradizione prestigiosa. La Chiesa si pone
inoltre alla ricerca di nuove forme di coinvolgimento dei fedeli attraverso la predicazione. Il predicatore del
Seicento proviene spesso dai nuovi ordini come i gesuiti, teatini, cappuccini e costituisce l’élite intellettuale
ecclesiastica. Le parrocchie tentano un incremento della cultura dei ceti più bassi attraverso le scuole della
dottrina cristiana che destinate all’insegnamento del catechismo, allargano comunque l’alfabetizzazione. Si
deve alla Chiesa e alla ricerca delle sue radici la valorizzazione in questo secolo dell’archeologia cristiana,
della filologia e della storia per l’accertamento della tradizione agiografica e liturgica.
1.3 La corte e le città
Le corti italiane hanno perso quel primato che avevano ancora nell’Europa del Cinquecento e vivono di
riflesso le decisioni prese altrove, nelle corti di Madrid, Parigi o Londra. Sola eccezione è Roma: cosmopolita
e raffinata, raccoglie il meglio di musicisti, pittori, scultori, architetti, poeti e letterati che attirati da tutta
Europa ne fanno il centro propulsore di nuovi indirizzi artistici. (Caravaggio, Borromini, Bernini). Ritenendosi
che attraverso la vista e l’udito passi anche la percezione dell’ignoto e del trascendente, la
rappresentazione artistica diventa un mezzo per rivelare, oltre al fascino delle forme e della luce,
l’illusorietà e l’apparenza.
1.4 La lingua
Il grande evento linguistico del Seicento è la pubblicazione –nel 1612- del primo Vocabolario
dell’Accademia della Crusca; formata a Firenze nel 1583 la Crusca ha tra i suoi obiettivi quello di organizzare
un dizionario del volgare letterario, basato sugli autori del buon secolo della lingua italiana, il Trecento. La
seconda edizione del Vocabolario (1623) introduce significativi ampliamenti; ma è solo la terza edizione
(1691) a vedere una dilatazione effettiva dei lemmi con l’accoglienza di termini moderni e di poeti come
Tasso. Il volgare viene accolto anche in quegli ambiti che erano tradizionale prerogativa del latino, come nel
campo della comunicazione scientifica, storica e giuridica.
2. La periodizzazione
Il Seicento è l’età del Barocco, ma non è con questo stile perfettamente identificabile. All’avvio del secolo le
forme del Manierismo ancora perdurano e anche quando il nuovo gusto si impone, permangono
inclinazioni costanti verso il classicismo. La fiducia in qualcosa di certo, stabile e permanente che aveva
determinato l’equilibrio e l’armonia rinascimentali, viene a morire con le scoperte della nuova scienza. Il
dubbio diventa presupposto del pensiero, che vive di antinomie, di polarità fra ordine e disordine, fra
eterno e contingente, fra vero e illusorio-accidentale. La linea di demarcazione cronologica fra Manierismo
e Barocco non è facilmente tracciabile; se il Manierismo riflette un’arte introversa e preziosa, il Barocco
partecipa di una situazione teatralmente grandiosa ed espansiva; se l’uno persegue un’aulica raffinatezza,
l’altro mostra una tendenza più popolare ed emotiva, specie nell’attività di proselitismo degli ordini
religiosi; se il primo predilige la concentrazione del virtuosismo, il secondo mira a espandersi con la lussuria
e l’abbondanza esagerata. I caratteri più marcati del Barocco sono la ricerca del nuovo e l’effetto della
meraviglia. Entra nelle scelte degli scrittori un nuovo criterio: il giudizio e il gusto del pubblico; tutto è
accettato purché porti allo stupore, all’inatteso, alla meraviglia. L’ingegno diventa la facoltà protagonista;
esso incrementa lo stupore e la meraviglia attraverso la costruzione di analogie, accresce il piacere della
conoscenza per mezzo di una costruzione che nasconde significati ulteriori da decriptare.

Capitolo 22: Poetiche e retoriche


1.Manierismo
Verso la fine del Cinquecento entra in crisi un modo di concepire la letteratura che aveva dominato il secolo
e che si fondava sul confronto con le teorie antiche di Aristotele e Orazio; la Poetica di Aristotele non è
abbandonata. La ricerca di inconsuete normative sottintende il bisogno di libertà espressiva, la volontà di
distinguersi dal classicismo, l’irrequieto desiderio di sperimentare nuove vie; queste ricerche si definiscono
manieristiche. In letteratura il Manierismo consiste nella critica alla codificazione petrarchesca,
nell’infrazione dell’armonia ariostesca, nel gusto dell’espressione artificiosa. In discussione è la funzione
stessa della poesia: l’equilibrio fra utile e diletto sembra incrinarsi a favore del diletto; nel rapporto fra
poesia e verità, si fa prevalere il fantastico sul verosimile.
2.Il Barocco
2.1 Meraviglia, metafora, concetto, acutezza
In mancanza di una verità a cui rifarsi e in assenza di certezza, a causa anche delle scoperte che dilatano i
confini del conosciuto, meglio optare per l’insolito, l’inaudito, lo straordinario. La curiosità diventa una virtù
che aiuta ad evadere dal prevedibile. Il nuovo, l’eccesso, l’insolito, sono ricercati per causare effetti di
meraviglia e di stupore. Qualunque sia il modo, l’essenziale è l’effetto: Marino dichiara che “è del poeta il
fin la meraviglia”; le regole ormai sono un ingombro, la figura retorica privilegiata è la metafora. La
conoscenza data dalla metafora è tutt’uno con la meraviglia, che nasce da uno stupore intellettivo, ovvero
dalla mente che scopre affinità e legami inattesi. Le manifestazioni del Barocco non sono uniformi, esiste un
classicismo barocco che prende le distanze dalle prove più esasperate del nuovo gusto.
2.2 <<Il cannocchiale aristotelico>> di Emanuele Tesauro
Il più importante documento della concezione retorica in auge nella prima metà del secolo è Il cannocchiale
aristotelico di Tesauro; sintesi del gusto barocco, il trattato esce nel 1654. Tesauro uscì dalla compagnia dei
gesuiti e fu presso i Savoia storico, epigrafista e precettore. Il cannocchiale aristotelico combina antico e
moderno. Lo strumento che aveva consentito a Galileo di scalzare i fondamenti dell’autorità di Aristotele è
qui abbinato alla Poetica aristotelica come misura e vaglio dell’elocuzione moderna. Tesauro si prefigge
infatti di esaminare secondo i principi aristotelici le forme retoriche preferite dalla propria età. Gran parte
dell’opera è dedicata alla metafora come “il più alto colmo delle figure ingegnose”; ma l’argomento
principale è l’acutezza, che viene ripartita in tre forme: semplici parole ingegnose, proposizioni ingegnose e
argomenti ingegnosi.
Il linguaggio è considerato esteriorità, le cose risplendono nel loro travestimento linguistico, come figure
meravigliose. Solo in Dio e nelle menti angeliche, la comunicazione avviene senza mezzo: è questo l’unico
caso in cui significante e significato coincidono. Il linguaggio stesso dunque è metafora che dice altro da
quello che è, poiché trasmette il pensiero per via di simboli esteriori, non essendo possibile la trasmissione
da pensiero a pensiero, senza la via dei sensi.
3. I teorici della poesia
3.1 Indirizzi di primo Seicento
Entrato in crisi il sistema delle poetiche, la formulazione teorica nel Seicento viene riservata ad altri luoghi:
le dediche o le prefazioni alle opere, le corrispondenze tra letterati, le discussioni accademiche, i trattati di
retorica e di arte oratoria. La poetica è per lo più assorbita dalla retorica, non solo perché per il Barocco
questa è l’arte per eccellenza ma anche perché la poesia è ricondotta a forma di comunicazione. Una delle
prime espressioni teoriche del secolo è la poetica di Campanella; egli compose due poetiche che
concernono tutta la scrittura in versi, latina e volgare, risalgono alle origini e alle funzioni della poesia, ai
compiti e qualità dei poeti, per poi dare indicazioni operative. Essa è un’arte strumentale che serve a far
assimilare in modo gradevole e facile, grazie al ritmo e all’armonia, la verità e il bene. Il fine della poesia
non è il diletto, ma il diletto è il suo mezzo. Alessandro Tassoni propone Torquato Tasso tra i nuovi
“campioni” di poesia. Nei Pensieri dimostra che il presente ha i suoi grandi così come l’antichità ha avuto
Omero e Virgilio, cui oggi tributano persino un <<eccesso di fama>>. Contro l’imitazione, propone la
superiorità degli usi moderni, poiché gli ingegni umani perfezionano tutte le tecniche, quindi anche la
poesia. Il Barocco letterario romano rappresenta una forma di classicismo che si apre a multiformi
esperienze mantenendo però un riferimento all’unità della tradizione.
4. I teorici della prosa
4.1 Ciceronismo e laconismo
Nell’ambito della prosa non mancano delle vere e proprie formulazione teoriche e normative che tentano
di frenare le eccessive professioni di libertà stilistica e di riflettere sul linguaggio specifico delle discipline. Ci
si interroga sulla migliore espressione che possa concentrare nella parola forza ed eleganza, che possa
conquistare e persuadere proprio per mezzo del suo fascino, senza negare la verità. Il punto di partenza e
confronto è dato sempre dai classici. Nello stile ciceroniano collocano la sintesi tra classicismo e fede,
spiritualità ed eleganza. Altri si –come Virgilio Malvezzi- si rifanno a Tacito.
4.2 Sforza Pallavicino e prosa <<insegnativa>>
Alla definizione di uno stile per la prosa didascalica e scientifica si impegna il gesuita Sforza Pallavicino; egli
pone un problema essenziale: cioè quale grado di verità sia riservato alla poesia. Unico scopo delle poetiche
favole è l’adornar l’intelletto. Si interroga sulla forma adatta agli scritti filosofici e alla moderna prosa
scientifica. Lo scritto “insegnativo” deve anzitutto perseguire la verità nel suo semplicissimo aspetto; perché
l’uso dell’ornamento rischia di velare la chiarezza; anche se il pensiero acquista forza dall’ornato. Egli
propone come genere della scrittura scientifica e didattica il dialogo, poiché la gentilezza nello stile
dialogico si trova congiunta alla sottigliezza della dottrina.
5. Verso il Settecento
Quando ormai la sensibilità barocca volge verso il buon gusto, espressione della nuova cultura razionalistica
che si sta facendo lentamente strada, Francesco Frugoni propone una specie di riassunto della cultura del
secolo. Il Tribunal della critica (1689) appartiene al genere satirico, Frugoni si pone come fustigatore degli
eccessi, difende l’utilità delle regole. La sensibilità di quel tempo è già rivolta verso altre poetiche e altri
criteri fondati sul buon gusto, sul decoro, sulla chiarezza, sull’eleganza. La Poetica di Benedetto Menzini
(1646-1704) si rifà ad Orazio e alla tradizione italiana di Petrarca, Ariosto e Tasso, per uno stile che coniughi
i classici latini e greci con quelli italiani, l’obiettivo è un’espressione chiara, pura e piana.
Capitolo 23: Galileo e prosa scientifica
La nascita della scienza moderna coincide con la nascita della prosa scientifica italiana.
1.Galileo Galilei: dagli studi pisani al <<Sidereus nuncius>>
Galileo e i suoi allievi sono i principali protagonisti di quel radicale mutamento nella conoscenza dei
fenomeni naturali che va sotto il nome di rivoluzione scientifica. Con le sue osservazioni celesti Galileo trova
la via per scardinare il paradigma aristotelico-tolemaico, riesce a matematizzare le leggi cosmiche e
dinamiche che deduce dalle sue osservazioni, esprime in un linguaggio preciso e accessibile la sua nuova
visione del mondo. Galileo (1564-1642) fu inizialmente indirizzato alla professione medica, ma non portò a
termine gli studi per la precoce disaffezione che lo portò verso la scienza tradizionale e il suo insegnamento.
Compose studi su Dante. Ma fu la geometria a rivelargli la vocazione per gli studi matematici. Chiamato nel
1592 all’insegnamento delle matematiche all’università di Padova, poté entrare in ambiente più aperto.
L’impulso a perseguire gli studi astronomici venne dall’apparizione nel 1604 di una nova, una stella mai
vista. Nell’estate 1609 costruì il suo primo telescopio potenziandolo e migliorandolo. Utilizzando il
telescopio osservò la superficie irregolare della Luna, l’immensità del numero delle stelle e la natura delle
nebulose e della Via Lattea ed individuò quattro satelliti di Giove; lo scienziato arrivò nel 1610 a definire le
fasi di Venere, i periodi dei satelliti di Giove e la configurazione di Saturno.
1.2 L’Accademia dei Lincei e Galileo
Si recò a Roma per propagare le sue idee, fu ricevuto dal papa che ebbe confermate le sue affermazioni dal
Collegio dei gesuiti. Nel viaggio romano gli fu offerta anche l’iscrizione all’Accademia dei Lincei. La
combinazioni di indagini scientifiche e letteratura rispondeva alla fede dei Lincei che l’avanzamento delle
conoscenze rappresentasse un avanzamento anche del bene pubblico.
1.3 Le lettere <<copernicane>>
Il primo attacco venne dall’aristotelico Lodovico delle Colombe, che contestò le tesi galileiane sul
comportamento dei corpi immersi nell’acqua. Galilei si esprimeva costantemente in volgare, divulgando le
sue scoperte a un pubblico sempre più vasto, ma divenendo agli occhi dei suoi oppositori sempre più
pericoloso. La questione più seria venne sollevata non da specialisti ma da predicatori domenicani che
avanzarono per la prima volta l’ipotesi che l’opinione di Copernico –da Galileo difesa- fosse contraria alle
Sacre Scritture. Ha una fitta corrispondenza con intellettuali italiani ed europei; nelle Lettere copernicane
vengono espresse delle idee per difendere le sue posizioni espresse in un linguaggio semplice e
comprensibile, il suo modo di concepire il rapporto tra scienza e Sacre Scritture. Galileo è convinto di avere
una missione da svolgere all’interno della Chiesa, quella di innovare il sapere aprendosi a una cultura al
passo dei tempi, aggiornando il paradigma aristotelico con l’accoglimento delle nuove conoscenze. Galileo
argomenta la sua tesi avvalendosi di molti riferimenti ai testi dei Padri della Chiesa e propone la
separazione dei due campi d’indagine –teologico e scientifico- proponendone pari dignità. Egli distingue i
due diversi linguaggi: quello biblico e quello naturale, entrambi procedenti dal Verbo ma caratterizzati da
differenti modalità interpretative. Il compito delle Sacre Scritture è quello di “insegnarci come si va in cielo
con come va il cielo” che è compito dell’astronomia. Il domenicano Tommaso Campanella prese le difese di
Galileo fondandosi sulla similarità fra queste scoperte e quelle di Colombo, che avevano confutato già altri
errori dei Padri della Chiesa. Galileo si recò a Roma per sostenere la sua posizione ma nonostante l’abilità
con cui si mosse e l’aiuto che ricevette dagli ambasciatori fiorentini, il Sant’Uffizio procedette alla condanna
di due proposizioni copernicane come false: la centralità del Sole e la mobilità della Terra e vietò a Galileo
di professarle e insegnarle.
1.4 <<Il saggiatore>>
Galileo prende di mira anche il sistema di Tycho Brahe, che i gesuiti stavano facendo proprio perché
conciliava eliocentrismo e geocentrismo, configurando un moto del Sole come centro di un sistema
planetario ad una Terra immobile. Galileo vedeva in questa scelta il fallimento di ogni possibilità di rilancio
del copernicanesimo. Dai Lincei venne consigliato a Galilei di rispondere tramite una lettera che prese il
nome di Il saggiatore che uscì a Roma nel 1623. Con un argomentare variato e uno stile vivacissimo, Galileo
distrugge il dogmatismo della scienza tradizionale.
1.5 Il <<Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo>>
Dagli incontri con il papa prese il via la scrittura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo,
tolemaico e copernicano” che rispondeva all’idea di confrontare e provare la validità della tesi copernicana.
Per esporre le sue idee aveva scelto una forma letteraria, che ricordava i numerosi dialoghi della tradizione
rinascimentale, in cui le verità si coniugavano con il piacere della parola e della divagazione e dove si
raggiunge con maggior forza la verità proprio grazie al procedere per interrogazioni. Gli interlocutori sono.
Salviati (Galileo) che si presenta con la severa nobiltà del nobile fiorentino, ma anche con la calma,
l’autorevolezza, la prudenza dello scienziato, guidano verso la scoperta della verità con un lento ed umile
filosofare socratico; Sagredo come ingegnoso interlocutore non intendente, quindi non corrotto dalle
scuole filosofiche, con le sue domande movimenta il discorso e infine Simplicio è lo sciocco e ostinato
difensore delle tesi aristoteliche. Nella prima giornata sono abbattuti i presupposti della scienza aristotelica
–ovvero la differenza fra Terra e cieli- considerati tutti ugualmente corruttibili. La seconda giornata è
dedicata a dimostrare la possibilità del moto di rotazione della Terra e a smantellare le argomentazioni
contrarie; nella terza giornata viene presentato il moto della Terra intorno al Sole.
1.6 Le lettere
Galileo tentò in ogni modo di evitare il viaggio, ma dovette cedere e presentarsi a Roma, dove ricevette una
condanna assai più dura di quanto si aspettasse: doveva abiurare, subire una pena detentiva, impegnarsi a
non trattare più della mobilità della Terra e della stabilità del Sole. Il Dialogo venne proibito, l’eliocentrismo,
per dichiarazione del papa, fu considerato contrario alla fede, quindi eretico. L’abiura venne accettata senza
resistenza da Galileo Galilei. Scrisse molte lettere, il suo epistolario si allarga a tutta l’Europa e coinvolge le
massime personalità della storia intellettuale italiana ed europea. Sono rivolte a familiari, scienziati,
ecclesiastici, uomini di stato. Illustrano proposizioni e teoremi scientifici oppure trattano del rapporto tra
scienza e fede, ma spesso registrano le variazioni del suo animo.
2. I galileiani: collaboratori e allievi di Galileo
Nonostante le sconfitte e gli ostacoli il seguito di studiosi fu largo: Benedetto Castelli (benedettino) si
dedicò agli studi di idraulica; Evangelista Torricelli fu nominato filosofo e matematico, portando a felice
accertamento i suoi esperimenti sul vuoto e sulla pressione.
3. Altri scrittori di scienza in volgare: i gesuiti
I gesuiti pur non rifiutando il metodo sperimentale e pur non ricusando il confronto con il nuovo paradigma
della scienza galileiana, furono sempre alla ricerca di un sistema pensiero che offrisse una visione del
mondo ordinata, provvidenziale, in cui poter collocare le nuove conoscenze.
Capitolo 24: La prosa storica e morale
Nel Seicento fu vivissimo il dibattito sui problemi etico-politici, perché alimentato dalle profonde
contraddizioni di una società e di una cultura in rapida evoluzione.
1. L’utopia di Tommaso Campanella
Scritta in volgare ai primi del Seicento, quando l’autore era già in carcere, La città del sole è il sogno utopico
del domenicano calabrese Tommaso Campanella (1568-1639) che raccoglie sia il disegno delle sue idee
filosofiche e politiche sia i riflessi del tentativo rivoluzionario che gli costò ben ventisette anni di carcere.
Nel 1599, il frate aveva organizzato una congiura per dar vita ad una ribellione sociale e politica volta alla
realizzazione di una società comunitaria, basata sulla condivisione dei beni e su una religione naturale, ma
fu tradito da alcuni congiurati. Si finse pazzo salvandosi dalla condanna capitale ma subì la pena del carcere
a vita. Liberato e prosciolto dalle accuse del Sant’Uffizio, Campanella si avvicinò a papa Urbano VIII ma fu
ancora una volta (nel 1633) coinvolto in una congiura antispagnola, per cui dovette rifugiarsi in Francia.
Secondo Campanella la legge di natura impone la realizzazione politica della repubblica, perché unica
organizzazione che consente a ognuno di compiere ciò per cui è nato. Siccome si tratta di legge naturale –
quindi divina- è compito del religioso controllare l’opera del governo. Egli accusa la Chiesa di non esercitare
alcun controllo sulla Spagna e lasciare soffrire i popoli a essa soggetta. Un governo teocratico, garantisce
maggior rispetto delle condizioni di vita dei sudditi. La Città del Sole disegna la realizzazione di questi
principi. E’ definita dall’autore un dialogo poetico e amalgama dialogo filosofico, letteratura di viaggio e
utopica. E’ costruita come il resoconto che un genovese nocchiere del Colombo espone a un Ospitalario (un
ordine di cavalieri) sulla Città del sole, luogo che avrebbe visitato durante un suo viaggio. Posta sulla
sommità di un monte, difesa da sette cerchia di mura, la Città è abitata da un popolo che vive secondo i
principi naturali. Scienze naturali, meccaniche, storiche, sono illustrate sulle mura perché tutti le imparino;
il principe è sacerdote ed essi vivono in totale comunione anche l’affettività, mettono tutti i beni in comune
per evitare la povertà ma sono pronti a difendere con le armi la loro città, seguono una religione naturale,
perché non ebbero rivelazione, Gesù e gli apostoli sono considerati in modo molto onorato tra gli altri
fondatori di leggi. Il racconto del viaggiatore è privo di opinioni, giudizi. La descrizione della città
immaginaria è minuziosa, precisa, attenta al dettaglio. La prosa è quasi secca, ha solo la dimensione
comunitaria, pubblica, senza spazio per il privato, il sentimento, l’interiorità.
2. La riflessione sulla politica
2.1 La <<Ragion di stato>> di Giovanni Botero
Il successo che arrise per tutto il Seicento al trattato Della ragion di stato (1589) di Giovanni Botero,
testimonia che esso rispondeva a esigenze profondamente sentite all’epoca, cui nessuno seppe porre mano
con altrettanta chiarezza; il testo affronta la questione spinosa dell’emancipazione politica dalla dimensione
religiosa. Botero fu il primo ad affrontarlo in modo sistematico e a trovare –seppure con molti
compromessi- una sintesi del dualismo fra politica e morale. Pur facendo proprio l’assunto machiavellico –
cioè la distanza fra imperativi politici e regole etiche- giunse però a dimostrare la loro possibile, anzi
necessaria conciliazione, seguendo il lume della ragione e il dettame della coscienza, cioè subordinando
l’agire politico alla giurisdizione universale della coscienza, che è riconoscimento della legge di Dio e di
natura iscritta nell’uomo. La prosa di Botero è ricca di precetti e di esemplificazioni tratte dalle storie
bibliche, antiche, medievali e moderne
2.2 Traiano Boccalini
Il tacitismo segna un’epoca e un genere della trattazione politica secentesca. In quanto storico di grande
consapevolezza politica e rivelatore dei misfatti di Tiberio per conseguire e conservare l’impero, Cornelio
Tacito venne assunto come paradigma delle ragioni della politica. Dall’esercizio sopra gli scritti di Tacito
deriva l’analisi di Traiano Boccalini (1556-1613) sulla conduzione politica del tempo. Sotto il velo
dell’allegoria nei Ragguagli egli mostra gli stratagemmi con cui sotto il nome di ragion di stato si governano i
popoli. Privo di speranza nella possibilità di migliorare i popoli, egli scruta nel profondo l’animo dei principi,
dove trova conciliazione la brama di potere con la necessità delle cose, ovvero si realizza il connubio di tutte
le malvagità. L’uomo politico postasi in capo la massima che sopra tutte le cose debba mantenersi e
conservarsi nello stato, mette i piedi sul collo a tutte le altre importanze della terra e del cielo. Così
Boccalini guarda alle repubbliche come i soli governi in cui il bene pubblico sta sopra l’interesse privato,
dove dominano le leggi, dove si concilia la libertà con la potenza e la pace con la soddisfazione dello stato.
2.3 Il rinnovamento religioso-politico di Sarpi
Paolo Sarpi (1552-1623) non fu un teorico della politica, ma un frate veneziano che ebbe modo di
pronunciarsi sul rapporto religione-stato e propugnare la separazione delle due aree. Al momento della
crisi tra Venezia e Roma, Sarpi si schierò con Venezia. Egli sostiene sia l’origine divina del potere temporale
sia l’autonomia delle prerogative giurisdizionali dello stato, invocando da una parte il ritorno della Chiesa
alla purezza dei primi tempi e dall’altra una prassi politica volta al bene e alla tranquillità dello stato, una
pratica del buon governo come espressione della volontà divina.
3. La storiografia
3.1 Sarpi <<Istoria dell’interdetto>> e <<Istoria del Concilio Tridentino>>
Sarpi pose mano alla ricostruzione degli eventi relativi all’Interdetto: ricca di minute informazioni l’opera
mostra distacco, ma è tenuta insieme da una costruzione a tesi che riesce ad amalgamare le frammentarie
informazioni. Scrive anche la storia del Concilio di Trento, opera che va inserita nella stessa battaglia contro
una gerarchia ecclesiastica che trascura la purezza evangelica insegnata da Cristo.
3.2 <<Dell’arte istorica>> di Agostino Mascardi
La crescita della precarietà della vita umana rende labile la concezione di un essere umano artefice del
proprio destino, su cui si era fondata la precedente storiografia. I grandi modelli di storici del passato sono
Livio e Tacito, il primo è seguito dall’Arte Istorica di Agostino Mascardi, il più completo e approfondito testo
teorico del secolo. La questione della verità della storia è primaria in Mascardi, in funzione del fatto che
sulla storia si devono fondare i giudizi e le azioni degli uomini. Occorre dunque che essa abbia
autorevolezza, che sia veritiera e non frutto di invenzioni più o meno verosimili. Lo storico ha il dovere di
cercare le ragioni delle azioni, non di accontentarsi dei fatti che soddisfano una mera curiosità. Per
Mascardi la storia insegna e della storia ci si deve giovare perché la sola esperienza non può consentire quel
grado di prudenza necessario alla gestione politica.
3.3 La scrittura spezzata di Virgilio Malvezzi
Se Agostino Mascardi prende a modello Livio, è Tacito lo storico che più affascina il Seicento. La storia
secentesca infatti abbandona volentieri la narrazione per la formulazione di aforismi e di una lezione
morale. Malvezzi è autore di trattati politici, di biografie romanzate, di opere storico-propagandistiche, di
pagine di acuta osservazione morale. In lui la ricostruzione storica intende mostrare anzitutto
l’imprevedibilità dei casi umani, quindi evidenziare i limiti dell’insegnamento che dalla storia si può trarre;
egli sostiene che la sola esperienza o la sola riflessione sui fatti umani possono essere maestre di vita.
3.4 <<Istoria del Concilio di Trento>> di Sforza Pallavicino e altra storiografia
La condanna all’Indice, cui venne sottoposta l’opera di Sarpi non fece che renderla più appetibile per
l’Europa protestante, mentre la Chiesa non era stata ancora in grado di offrire alcuna ricostruzione
dell’evento che fosse da essa accreditata. L’incarico fu affidato dapprima al gesuita Terenzio Alciati e dopo
la sua morte il compito venne affidato al confratello Sforza Pallavicino che in pochi anni riuscì a organizzare
il materiale raccolta dall’Alciati in una Istoria del Concilio di Trento. Pallavicino si avvale di una metodologia
della ricerca storica profondamente rinnovata dal confronto fra cattolici e protestanti. Ogni confessione si
chiamava alla tradizione e attraverso la ricostruzione della storia del cristianesimo motivava le scelte
teologiche.
4. L’etica in corte
4.1 La <<Dissimulazione onesta>> di Torquato Accetto
L’individuo avvertiva drammaticamente la necessità di sapersi orientare in un mondo minaccioso e oscuro,
in una società dominata da poteri assoluti. In quest’epoca di soprusi e violenze venne ripreso il vecchio
adagio “homo homini lupus”. In tale quadro appariva evidente che l’essere umano doveva continuamente
stare sulla difensiva rispetto ad altri per salvaguardare il proprio esistere e dargli senso. Il breve trattato di
Torquato Accetto Della dissimulazione onesta rappresenta l’analisi più emblematica di questa difficile
condizione dell’essere umano nel Seicento: egli sostiene che la verità è da venerare, ma appartiene alla
dimensione divina, la carne ci rende simile ai lupi, perciò dissimulare è un bene, fa superare la limitatezza
dell’essere umano, è una virtù non un vizio. Accetto ritiene la dissimulazione perfettamente coerente con la
virtù, anzi benefica e feconda; essa è la miglior alleata della prudenza, quindi di primaria importanza nelle
cose politiche.
4.2 Il <<savio>> e la corte
La corte è il luogo per eccellenza in cui prudenza e pazienza sono messe a prova, tanto che è ben evidente
l’opposizione principe-segretario nel ritratto che Accetto fa del primo, chiuso nel suo studio, difeso e
protetto, della cui condizione il segretario è invano desideroso. La dissimulazione resta la sola difesa
praticabile.
5. La parola dello spirito
5.1 L’oratoria sacra
La forte spinta innovativa del Concilio di Trento (1545-1563) rappresentò per il mondo cattolico un influsso
indiretto ma notevole anche in ambito letterario. Il genere che meglio rappresenta questo fervore intorno
alla parola è quello dell’oratoria sacra. La cultura barocca è una cultura di persuasione e la predicazione fu il
mezzo di comunicazione di massa privilegiato.
5.2 Paolo Segneri e i quietisti
La predicazione del Gesuita Paolo Segneri (1624-1694) mise in atto il rifiuto di questa moda oratoria ed è in
genere assunta come spartiacque tra una predicazione fiorita di ornamenti, metafore e similitudini e una
predicazione che si fonda su un’eloquenza soda e popolare. Segneri lottò contro il quietismo: un
movimento che riponeva la totale fiducia in Dio e invitava il credente ad abbandonargli la sua anima e la
sua vita.
5.3 Religione e sapere: <<La ricreazione del savio>> di Daniello Bartoli
Gli ecclesiastici che si occuparono di spiritualità non furono estranei al procedere delle conoscenze
scientifiche e naturali che caratterizzarono il secolo. Impiegarono i fenomeni naturali per una lettura
simbolica: in essi ritenevano si potesse vedere l’impronta del Creatore, che consentiva di conoscere
l’invisibile attraverso il visibile. Nell’interpretazione di queste tracce individuavano insegnamenti morali,
perché le cose naturali erano considerate caratteri di Dio, da leggersi come un libro della natura
corrispondente alla Bibbia; questa è una metafora medievale, ripresa frequentemente.
6. Scrittura femminile
E’ quasi solo in ambito religioso che le donne entrano nella letteratura del Seicento, con rare eccezioni:
l’attrice Isabella Andreini, Lucrezia Marinelli, la poetessa Margherita Sarrocchi. Marinelli si segnala in
particolare per i suoi scritti sulle donne ma che si risolve in una ritrattazione delle posizioni giovanili,
invitando le donne a chiudersi in casa (Essortazione alle donne e agli altri, 1645); questo libro riflette il
profilo di un secolo che alle donne ha offerto poche possibilità.
Capitolo 25: Giambattista Marino
1. Da Napoli a Parigi
Marino raccontò egli stesso, sotto la maschera del pastore Fileno, parte della sua vita nel maggior poema
(l’Adone). Nato a Napoli nel 1569, avviato dal padre agli studi giuridici, subì presto il fascino per la poesia e
si avvicinò ai circoli poetici della città. Gli anni napoletani furono segnati dall’ideazione di ambiziosi progetti
e da questioni con la giustizia, che lo portarono ben due volte in carcere (per delle falsificazioni). Si trasferì
a Roma e lì appunto una raccolta di liriche che egli stesso portò a Venezia per seguirne la stampa presso il
più importante editore del tempo. La pubblicazione delle sue Rime (1602) costituiscono il primo evento
letterario significativo del Seicento lirico. La disposizione rompe con la tradizionale successione
autobiografica petrarchesca , riprendendo in qualche modo la tripartizione tassiana (rime d’amore,
d’encomio e sacre). Con il successo delle Rime Marino ottenne a Roma la protezione del nipote del papa.
Marino compose in questi anni anche l’idillio Europa (1607) e un poemetto encomiastico, Il ritratto di Don
Carlo Emanuello, un elogio del duca di Savoia. Nel 1608 si trasferì a Torino, dove conquistò subito i favori
della corte; dopo un primo periodo di successi, i rapporti con il duca degenerarono, portando Marino in
carcere con il sequestro degli scritti. Una volta liberato si dedicò pienamente al poema mitologico, cui
continuò a lavorare dopo il trasferimento in Francia avvenuto nel 1605.
2. <<La lira>>
La lira uscì sia in edizione singola sia riprendendo i primi due volumi di rime già edite; questa terza parte si
suddivide in Amori, Lodi, Lagrime, Divozioni, Capricci. Si tratta di un canzoniere frammentato, per cui è
difficile ricostruire la cronologia dei componimenti. Marino vuole che le sue rime siano costellate di “brilli di
poesia viva”, suo obiettivo è mostrare fantasia e versatilità, gusto della rarità e novità. Nelle Divozioni che si
differenziano dalle sacre per non essere dirette alla divinità, Marino sperimenta nuovi metri e nuovi temi.
3. Le <<Dicerie sacre>>
In contemporanea con La lira, uscirono le tre prediche fittizie che costituiscono le Dicerie sacre, esse non
abbracciano una funzione liturgica ma appartengono all’oratoria sacra in quanto sono discorsi che si
incentrano su tematiche religiose, anche le motivazioni profonde sembrano piuttosto di natura
encomiastica e politica. La prima intitolata Diceria prima sopra la Santa Sindone, prende la pittura come
termine analogico dell’impressione del corpo di Cristo sul lenzuolo della Sindone; la seconda intitolata
Diceria seconda sopra le sette parole dette da Cristo in croce, tratta il tema della pietà; le terza intitolata Il
cielo, mette in analogia la volta celeste con L’ordine dei cavalieri dei santi Maurizio e Lazzaro. La
disposizione dei tre discorsi non rispetta la successione cronologica. L’autore introduce nella predica
un’erudizione inusuale: la prima diceria è un trattato sulla pittura; la seconda mette in relazione le
proporzioni armoniche, il microcosmo e l’armonia delle sfere; la terza è un trattato astronomico sulla Sfera.
4. <<La galeria>> e <<La sampogna>>
A Lione pubblicò il Tempio (1615) un encomio in sestine per Maria de’ Medici. In Francia portò a termine La
galeria: una sorta di poesia encomiastica diretta ad artisti, le liriche sono divise in due sezioni, Pitture e
Sculture; le pitture includono Favole, Istorie, Ritratti, Capricci. Sintetizza Marino: ciascuna favola, viene
espressa in un disegno di mano di valent’uomo; e sopra ogni disegno io fo un breve elogio in loda di quel
maestro, e poi vo scherzando intorno ad esso con qualche capriccio poetico. Nel 1620 uscì La sampogna,
una raccolta di dodici idilli. Marino mostrò presto interesse per la poesia pastorale sul modello dell’Aminta
di Tasso.
5. <<L’Adone>>
Marino si dedica ad elaborare una favola mitica, per farne un poema alternativo al successo tassiano.
L’ideazione risale all’epoca napoletana, ma la crescita fu lenta ed accompagnò il poeta in tutti i suoi
spostamenti. Esce alle stampe a Parigi nel 1623. La dedica sul frontespizio è a Luigi XIII, all’interno a Maria
de’ Medici, reggente di Francia. L’esile trama mitologica che a suo dire è angusta ed incapace di varietà
d’accidenti, viene arricchita con molti inserti di episodi correlati e altre favole. L’eroismo è affidato al tema
amoroso con una sorte di inversione: mentre l’amore normalmente cede alle armi, qui le armi cedono
all’amore. L’Adone può essere letto come l’epica della pace. Si presenta in venti canti con più di cinquemila
ottave. La storia prende il via da una vendetta di Cupido che spinge la madre a innamorarsi di Adone, il
quale spinto da Fortuna all’isola di Cipro, viene introdotto al palazzo della dea Clizio. Adone recatosi alla
caccia, viene visto addormentato da Venere, che se ne innamora. Puntasi il piede in una rosa è medicata da
Adone, che si innamora a sua volta. Adone viene condotto al giardino del piacere, costruito secondo
l’anatomia umana. Sono cinque le suddivisioni, una per ogni senso; in ciascuna viene descritto l’organo e i
godimenti a cui porta. Nel giardino del tatto Adone e Venere si congiungono in matrimonio. I due poi
passano all’isola della poesia, al cielo della Luna, Mercurio, di Venere, tutte occasioni di divagazioni
conoscitive. Ritornati in terra, la quiete della coppia è turbata dalla gelosia di Marte, contro Adone si
scatenano le forze negative della magia e del male e il giovane è costretto alla furia del dio a molte negative
avventure. Riuscirà poi a ricongiungersi con l’amata nel canto XV ma solo per un fuggevole momento. La
partenza di Venere, la curiosità di Adone, l’ostilità di Diana portano il giovane ad una pericolosa caccia, in
cui Marte istiga contro di lui un cinghiale che ne causa la morte. Gli ultimi due canti consistono nella
consolazione di Venere e nei giochi funebri in memoria dell’amato.
Dal punto di vista narrativo il poema arricchisce l’esile trama del mito degli amori di Venere e Adone, con la
moltiplicazione degli episodi. Vi è l’inserzione di poemi nel poema: tutti i racconti sugli amori tra uomini e
dei o la consolazione di venere sono occasioni per allungare all’inverosimile l’esigua trama mitica. Il poema
appare come una summa delle narrazioni, con una grande varietà di generi inglobati dall’autobiografia, alla
novella, al dramma, al poema eroico, alla satira; ma questa infinità di avventure non tocca il nucleo
narrativo principale. La composizione appare a blocchi narrativi: la sezione dedicata all’educazione sensitiva
di Adone, i canti dell’educazione intellettuale, la parte romanzesca degli errori e dell’azione magica, la
materia storico-encomiastica; una struttura complessa, che non consente di ridurre il poema a una formula
unitaria. L’Adone si può considerare anche un lungo idillio. Su tutto si allunga l’ombra della morte e dello
scorrere del tempo, che viene segnalato dal susseguirsi delle ore del giorno e delle stagioni, una ripetizione
che scandisce il poema segnando un richiamo continuo alla caducità umana e al suo inarrestabile correre
verso la fine e l’oblio. Anche la memoria di Adone si perde già nei giochi in suo onore, esso si presenta
come un personaggio fragile –che eroe non è- perché fugge tutti i pericoli. La vicenda si svolge tutta
nell’isola di Cipro. Marino assegna grande importanza al tema della conoscenza, mostrando notevole
tempestività nell’impiego della materia scientifica, relativa alle conoscenze astronomiche, anatomiche,
meccaniche, nell’uso dei termini e nella creazione di metafore sul linguaggio settoriale di scienza e tecnica.
Gli eventi sono rappresentati o in effige o con l’inserzione di personaggi nella vicenda, con l’effetto
anacronistico di rendere antico il presente. L’Adone è definito il poema della nuova letteratura del privato e
del disimpegno; prendere a modello Nonno e Ovidio significa già archiviare l’epica italiana che si era rifatta
a Omero e Virgilio. Anche la materia sacra è inclusa, assunta in chiave mondana dall’agiografia. Marino
esprime stati amorosi con linguaggio mistico, creando un rapporto tra erotismo e misticismo. Il personaggio
di Adone può essere visto secondo il modello di Cristo: il suo corpo morto ricalca i modi della deposizione;
molti episodi della storia del giovane ripercorrono vicende della vita dei santi, sconsacrando così i miti
cristiani. Marino si misurò anche con un poema sacro: La strage degli innocenti che venne pubblicato
postumo.
6. Le polemiche sull’<<Adone>>
L’Adone lasciò dopo la sua uscita un seguito di polemiche che lo portarono rapidamente all’eclisse.
Anzitutto a Roma, dove era stato appena eletto Urbano VIII, letteratissimo ma fautore di una linea severa di
poesia, il poema apparve subito da correggere. Tommaso Stigliani rimprovera all’Adone l’assenza di unità e
il mancato rispetto delle regole aristoteliche. Marino non ha lasciato testi di poetica ma si è affermato in
qualità di sperimentatore, da lui viene il maggior contributo allo stile barocco.
Capitolo 26: La poesia
1. La lirica
1.1 Sperimentalismi tra Cinque e Seicento
Per tutto l’ultimo ventennio del Cinquecento si registrano tentativi di svincolarsi dalla tradizione lirica
petrarchesca sia in ambito stilistico e metrico sia in quello tematico. Il madrigale, saggiato in varie
combinazioni di settenari ed endecasillabi, sollecitava l’interesse di una cultura lirica fortemente melica,
assai propensa ad avvicinare il proprio linguaggio alla musica. Punta massima di questa sperimentazione fu
Il gareggiamento poetico, raccolta di quasi duemila madrigali di più di ceto autori, uscita nel 1611. Il
concettismo è uno stile letterario che si sviluppa a partire dalla fine del XVI secolo; è caratterizzato da un
ritmo rapido, un vocabolario semplice, diretto da metafore piene di ingegno e di giochi di parole.
1.2 Modi e temi
L’effetto dell’influenza manierista determinò un rinnovamento profondo della tradizione lirica. Come gli
esploratori del pensiero, del mondo e della natura, i poeti del Seicento assaggiano il gusto della
rappresentazione (assai spesso metaforica) delle forme svariate della vita (animali, fiori, piante, giardini,
fontane, stagioni) e delle nuove tecniche (cannocchiale, macchine, telai, orologi, fontane). Le opzioni
metriche restano prevalentemente quelle tradizionali: sonetto, canzone, madrigale. L’amore è
complimento galante, calda sensualità, ma non è mai appagante; il tema della morte, della fugacità del
vivere, è uno dei più praticati dalla poesia del Seicento, il genere encomiastico è abbondante, in esso
troviamo celebrazioni di città (Roma, Napoli e Venezia).
1.3 Lirici barocchi
L’influenza di Marino fu profonda e determinò un’abbondante produzione lirica, tanto pervasiva da
interessare tutte le aree culturali italiane e da allargarsi all’Europa. Meritano di essere segnalati i poeti
Fulvio Testi, Ciro di Pers, Giacomo Lubrano in cui il messaggio è un memento mori fiducioso perché
proiettato nella certezza della fede.
1.4 Il classicismo romano
Firenze e Roma sono i centri della poetica classicista, la produzione fiorentina, anche per la presenza
dell’Accademia della Crusca, rimase fedele alla tradizione degli antichi. Dall’altra la ricerca di una valenza
etica, di cui si faceva interprete la Roma del rinnovamento cattolico post-tridentino, improntò anche la
poesia.
1.5 Le rime di Campanella
La più energica espressione di autonomia rispetto al gusto imperante del secolo è offerta dalla Scelta di
rime di Tommaso Campanella, la stampa però ebbe una circolazione clandestina e oscura, e rimase poi
quasi dimenticata fino all’Ottocento. La poesia di Campanella è dichiaratamente una poesia filosofica, egli
aggiunge alle rime un autocommento che chiarisce la portata della sua parola, mettendo in atto la
convinzione che la poesia sia canto di verità divine. Il male concorre all’armonia dell’universo che gioca la
commedia.
2. I poemi
2.1 Poemi epici e sacri
Nonostante le profonde innovazioni, nel sistema letterario del Seicento il poema epico mantiene un ruolo
importante; domina in questo ambita l’influenza ineguagliata della Liberata. Il modello tassiano non
funziona solo per la scelta del soggetto ma anche per gli episodi e per la loro organizzazione. Ricorrente
oggetto dell’epica secentesca è la scoperta del nuovo mondo. Un altro genere fortunatissimo nel Seicento è
il poema sacro, che concerne materia biblica, agiografia, spirituale. Poiché il santo è in sé personaggio
eroico, di un eroismo fatto di virtù e obbedienza dalle divine leggi, poiché spesso le sue imprese consistono
in lotte contro le potenze infernali e la virtù eroica era un principio necessario per la canonizzazione, il
modello tassiano della Liberata è tenuto ben presente anche da questa produzione, piuttosto mediocre ma
assai diffusa.
3. I generi nuovi
3.1 Il poema eroicomico <<La secchia rapita>> di Alessandro Tassoni
Nasce nel Seicento un nuovo genere misto, il poema eroicomico. Esso si attiene alla normativa dell’epica
ma nell’applicarla a materia che di questa gravità non è degna, si appropria di una componente ludica. E’ un
genere che consente la mescolanza dei due livelli, alto e basso, e che acquista natura polemica e satirica. Il
nuovo genere si fonda sull’ironia verso ideali avvertiti come derelitti del passato e consente l’immissione di
materia municipale, che contribuisce a demistificare le grandi ideologie e le gesta dell’epica. Il più fortunato
di questi prodotti è La secchia rapita di Alessandro Tassoni; essa racconta della guerra fra ghibellini
modenesi e guelfi bolognesi per il possesso di un secchio di legno sottratta nottetempo da un pozzo
bolognese; la parodia non è contro il genere epico ma contro il suo uso ripetitivo e piatto, in un contesto
che di eroico non ha più nulla. La parodia degli stereotipi dell’epica convive in Tassoni con la satira politica e
sociale.
3.2 L’idillio barocco
Della sampogna di Marino e La Salmace di Girolamo Preti, aprono la stagione dell’idillio barocco; esso
combina il poemetto mitologico e le composizioni bucoliche, l’egloga e la pastorale, ma se la pastorale si
indirizza verso la musica e il melodramma, l’idillio resta testo poetico, a volte dialogato, a volte narrativo.
3.4 La poesia giocosa e satirica
Nel Seicento si registra una ricca produzione di poesia giocosa, che guarda anzitutto a Berni come modello,
ma intraprende anche vie sperimentali e talvolta impiega il latino o il dialetto. Spesso è espressione di
realtà locali, che assegnano nel genere una forma letteraria al gergo e una sua promozione a lingua, ma ha
perciò circolazione limitata.
Capitolo 27: Il teatro
1. Una civiltà teatrale: lo spettacolo
Mentra si afferma nel Seicento la moderna civiltà teatrale, il teatro assurge a metafora, rappresentazione
stessa del mondo, inteso come gioco, travestimento, commedia o tragedia, in cui ognuno recita una parte.
Il rinnovamento della drammaturgia nel Seicento fu determinato da tre fenomeni: la diffusione delle
compagnia di attori, la definizione dell’edificio teatrale moderno, il rinnovamento del pubblico, non più
costituito solo da nobili, ma da una borghesia pagante. Le corti si preoccupano di attrezzarsi o attrezzare le
loro città con sale destinate ad accogliere in modo ottimale i sempre più complicati spettacoli. I teatri si
aprirono al pubblico cittadino pagante e diventarono espressione della vita di società. La creazione della
rete di teatri pubblici fece di Venezia il primo centro teatrale d’Europa. Per rispondere a un pubblico
sempre più esigente, lo spettacolo si arrichì del contributo di figure specializzate nella costruzione della
scenografia, nella creazione di macchine stupefacenti per grandiosità e impegno, nell’accompagnamento di
musiche adatte alla scena. Nacquero nuove professioni teatrali: musicisti per il teatro, librettisti, scenografi,
macchinisti, pittori, architetti e ingegneri.
1.2 Il teatro dei gesuiti
I gesuiti fecero presto del teatro uno strumento educativo, previsto nella loro Ratio studiorum. L’obiettivo
dei gesuiti era di trasformare la società trasformando l’individuo. L’eroe delle tragedie dei gesuiti non è –
come nelle tragedie classiche- in conflitto fra il dovere politico e le scelte morali o sentimentali, ma è un
individuo totalmente votato al bene, che si trova però in contrasto con il mondo esterno, malvagio e ostile.
La coerenza con se stesso lo conduce inevitabilmente al sacrificio di sé, fino al martirio. I soggetti sono
attinti dalla Bibbia, dalle vite dei santi, ma non vengono disdegnati i soggetti e le tematiche più trasgressivi
offerti dalla drammaturgia classica rivisitati con sensibilità cristiana.
2. La commedia dell’arte e altri generi comici
Tutt’altro che sprovveduti, i comici dell’arte fornivano un repertorio assai vasto, che andava dalle
commedie ai drammi sacri, alle tragedie. Essi dominavano con maestria la parola da sceneggiare e hanno
lasciato testi e invenzioni di grande successo, il cui contributo maggiore si colloca ovviamente nell’ambito
comico. I comici dell’arte recitavano prevalentemente improvvisando. I loro spettacoli avevano personaggi
caratterizzati da maschere, che immediatamente suscitavano curiosità e sorpresa; da giochi verbali e
gestuali, i cosiddetti “lazzi” da intrecci facilmente adattabili, i canovacci; da seduzioni musicali, istrioniche,
giullaresche. Arte indica appunto questo sapere applicato a un talento creativo, che si divulga tramite le
compagnie. Gli attori scelgono le per le compagnie nomi di prestigio che le accomunano alle accademie (I
Fedeli, gli Uniti, i Confidenti) cioè aspirano a essere considerati intellettuali di alto livello. La commedia
letteraria ebbe nel Seicento soprattutto una dimensione cortigiana e regionale. Le migliori prove
drammaturgiche in questo ambito sono quelle di Michelangelo Buonarroti il Giovane (1568-1642).
3. La tragedia cristiana: Federico della Valle ed Emanuele Tesauro
La tragedia –sia essa religiosa o storica- è nel Seicento un contenitore atto ad accogliere riflessioni
sull’animo umano, un esemplare modo di riflettere sui casi della vita.
Federico Della Valle fa sempre riferimento al modello della tragedia greca, privo di divisione interna e di
prologo; nelle sue opere sono poi presenti segni del suo profondo spirito religioso, in sintonia con
l'atmosfera culturale della Controriforma. Proprio per tale motivo la sua prima tragedia, La reina di Scotia, si
ispira ad un dramma storico recente, quello della cattolica Maria Stuarda condannata a morte dall'anglicana
Elisabetta I nel 1587. La tragedia mette in scena l'ultima giornata di Maria, in prigione.
Il teatro di Della Valle è privo di effetti spettacolari e mira da una parte a creare atmosfere, dall'altra a
studiare l'animo dei personaggi, approfondendone la psicologia. Non è interessato all'avventura o al
macabro: infatti all'azione vengono preferiti monologhi e indugi. Proprio per questo motivo tali opere sono
destinate, più che alla recitazione, alla lettura.
Emanuele tesauro: come il modello geocentrico esce distrutto dalla sperimentazione che Galileo Galilei
conduce con il suo cannocchiale, così i principi fondamentali del fare artistico sono modificati dall'opera di
Tesauro che alla rivoluzione galileiana rimanda fin dal titolo. Nel trattato, l'attenzione è rivolta soprattutto
alla Metafora che per Tesauro è la figura retorica per eccellenza in quanto riesce a collegare fenomeni
lontani attraverso l'analogia che sta alla base. La metafora è vista come argomentazione arguta ed
ingegnosa da cui scaturiscono piacere e meraviglia. La rottura della convenzione che regola i rapporti tra
significanti e significati ad opera dell'invenzione metaforica apre la strada al rinnovamento e
all'arricchimento della potenzialità significativa dei singoli termini.
3.2 La tragedia classica. L’<<Aristodemo>> di Carlo de’ Dottori
La produzione tragica rimane nel Seicento finalizzata più alla letteratura che alla rappresentazione. Unica ad
avere un reale successo di scene è la tragedia Il Solimano (1620) di Prospero Bonarelli. I tragediografi
accettano il principio che la tragedia deve suscitare pietà e terrore, quindi purificare gli animi attraverso la
catarsi. Impostata su una vicenda classica, l’Aristodemo di Carlo de’ Dottori è considerata la migliore
tragedia italiana del Seicento. Aristodemo, re di Itome, città della Messenia in guerra con Sparta, ha
appreso da un oracolo che potrà conseguire e conservare il regno se sarà sacrificata agli dei una vergine del
suo sangue. Le possibili vittime sono due: Arena, figlia di Licisco (parente del re), e la stessa figlia del re,
Merope. Il sorteggio ha designato come vittima Arena. Tuttavia Licisco, per salvarla, afferma che Arena non
è sua figlia, e la fa fuggire. Aristodemo decide allora di sacrificare la propria figlia invece della fuggitiva,
sordo agli interventi della regina Amfia, madre di Merope, della nutrice e del promesso sposo Policare, i
quali insistono tutti sulle ragioni della vita e sulla legge dell'amore. Merope si prepara alla morte
accettandola al pensiero della salvezza della patria e di Policare, l'uomo che ama, e immaginando, con
disposizione profondamente religiosa ed eroica, che il suo sacrificio debba avvenire nel corso di un rito alla
presenza del popolo ammirato. La madre Amfia e il promesso sposo Policare, per salvarla, affermano che il
suo sacrificio sarebbe inutile perché Merope non è più vergine: avrebbe sposato segretamente Policare e
sarebbe già incinta. Aristodemo allora entra sacrilegamente nella sala dove è custodita Merope, la trafigge
con le proprie mani. Aristodemo addirittura fruga fra le viscere della figlia alla ricerca vana della prova della
sua colpa. Alla morte di Merope segue la morte di Policare, lapidato dalla folla istigata dallo stesso
Aristodemo. Al tiranno appaiono due ombre: Merope e Arena che si scopre essa stessa figlia di Aristodemo.
Scoprendosi parricida due volte, Aristodemo si uccide con la spada con la quale aveva trafitto Merope.
4. Nuove forme drammatiche: tragicommedia e melodramma
Il grande mutamento che avviene nel Seicento nella cultura e pratica teatrale è preparato da intensi
dibattiti avvenuti alla fine del Cinquecento, nati dal confronto fra le esigenze del tempo e il rispetto per
l’eredità classica. Da una parte Battista Guarini causò una polemica sulla legittimità di un genere misto
come la tragicommedia; dall’altro gruppo di musicisti ed eruditi, riuniti intorno al nobile Giovanni de’ Bardi,
nell’impegno di ricostruire l’antica tragedia –nella quale- era essenziale la musica, portò alla ricostruzione di
uno spettacolo musicato che diede come esito un genere nuovo, il melodramma. Pochi anni dopo (1608)
per le nozze di Francesco Gonzaga e Margherita di Savoia, Claudio Monteverdi musicò l’Arianna, cui Ruccini
fornì un testo tragico; con Ruccini si definisce la figura del librettista.
4.2 L’oratorio e il melodramma a Roma
Nella diffusione del genere melodrammatico, a Roma prevalsero temi sacri e agiografici. L’oratorio è un
genere privo di scenografia, la sua origine è oscura: il termine che indica originariamente un luogo di
preghiera, era usato a proposito delle confraternite religiose dove si svolgevano anche frequenti sacre
rappresentazioni. Il grande momento del melodramma sacro e profano a Roma coincide con il papato di
Urbano VIII.
4.3 L’opera veneziana
Claudio Monteverdi poté trovare a Venezia un pubblico vasto e ricercato, in grado di apprezzare il suo
lavoro. Pur mantenendo i tre atti, l’opera veneziana abbandona le normative e il decoro per l’inserzione di
personaggi comici, il travestimento e lo scambio tra i sessi, insieme con i rifermenti alla contemporaneità e
soluzioni formali nuove, come il lamento e i contrasti.
Capitolo 28: La narrativa
1. Il romanzo, un nuovo genere
Il Seicento è il secolo in cui esplode in Italia e in Europa, l’interesse per il romanzo. Per romanzo nel
Rinascimento si intendeva la narrazione fittizia di avventure amorose ed eroiche raccontante dai poemi
cavallereschi come l’Orlando Innamorato, Furioso e dai loro numerosi epigoni e imitatori. Il romanzo
secentesco ne assume senz’altro le caratteristiche, ma nello stesso tempo assorbe anche l’eredità di altri
modelli: anzitutto dei romanzi ellenistici che –tradotti alla fine del Cinquecento- hanno avuto un grande
successo. Quella romanzesca è una letteratura narrativa che si adegua al costume sociale e letterario del
secolo, cercano letture di evasione idealizzanti, ma senza l’impegno ideologico riservato all’epica. Del
romanzo secentesco manca una trattazione teorica dell’epoca, sia perché di norma il Seicento è poco
propenso alla codificazione dei singoli generi, sia perché il romanziere è ben consapevole di rispondere al
gusto del pubblico, quindi di lavorare ad un genere soggetto a condizioni e contingenti variabili.
1.2 La prima metà del secolo: il romanzo erotico-avventuroso
Proprio per la mancanza di regole, il romanziere può conseguire quell’estetica della profusione e
abbondanza che caratterizza il Barocco, così lontana dall’armonia rinascimentale. Prevale nella prima metà
del secolo l’elemento fantastico, che genera romanzi su trame avventurose, sentimentali, eroiche, con
personaggi per lo più inventati.
1.3 Il romanzo dell’interiorità
Genova costituisce –a fianco a Venezia- un altro centro di produzione romanzesca; i temi sono più variati,
spesso orientati all’approfondimento dell’interiorità. Nel romanzo ligure i conflitti interiori fra amore ed
etica, fra morale individuale e ragion di stato, fra ragione e passione sfociano persino in racconti agiografici
e religiosi, dando vita an un vero e proprio romanzo religioso.
1.4 Il romanzo storico-politico
L’attenzione alla realtà multiforme porta nel romanzo anche umori polemici e libertini, dopo un’iniziale
produzione di tematica sacra si passa a scritture mondane rivolte contro il potere nella sua proteiforme
realtà.
1.5 Il secondo Seicento: il romanzo di costume
Nella seconda metà del secolo, il gusto si evolve verso il romanzo di costume; si tratta di romanzi di materia
contemporanea, che abbandonano le grandi trame eroico-avventurose per orientarsi verso storie più
concrete, misure più modeste e prospettive più quotidiane.
2. La novella: Raccolta di novelle
Quasi coincidente con il periodo di miglior sviluppo della narrativa romanzesca è quello della novellistica,
che vede la più rappresentativa e abbondante produzione a Venezia. La lunga durata del modello di
Boccaccio continua ad agire sulla scrittura di novelle ben oltre il Cinquecento e persiste in modo evidente
anche durante il Seicento.
2.2 Novelle e conversari accademici
Nel Seicento le accademie letterarie –oltre ad incentivare la produzione di novelle- ne importano anche la
forma. Spesso, specie nella parte riservata alla cornice, le raccolte di novelle si sviluppano come incontri di
begli ingegni, sentenze e bei modi di dire.
3. Tra romanzo e novella: La Lucerna di Francesco Pona
La lucerna è un'opera narrativa originale che ha come protagonista un unico personaggio in trasformazione,
sul modello del romanzo ellenistico e dell'opera di Apuleio. L'opera è divisa in quattro sere nelle quali il
personaggio autobiografico Eureta, uno studente dell'università di Padova, ascolta il racconto della sua
lucerna, che contiene un'anima più volte reincarnata, secondo la teoria già classica, che ritroviamo in
Platone, della metempsicosi. La lucerna racconta storie provenienti da ogni tempo e luogo, e questo è il
pretesto per poter mescolare generi e autori, imitando e citando, secondo la teoria di Marino per cui l'arte
è un'imitazione dell'arte stessa. Nell'opera si passa dall'incarnazione in animali, all'incarnazione in uomini e
donne, per passare poi a un filosofo aristotelico, a una cortigiana, a Cleopatra, a un personaggio della
letteratura precedente, rileggendo in chiave nuova novelle del Boccaccio o delle raccolte precedenti. Altre
novelle si basano sul fatto che la lucerna è stata venduta e arriva a Venezia, passando da una casa a
un'altra, con spunti narrativi così esotici, erotici e dell'orrore. Il testo diventa così un grande insieme di
materiale narrativo vario, con la possibilità di unire in un'unica opera generi e forme diverse. L'opera venne
messa all'Indice nel 1627 e fu sconfessata dall'autore nel 1636, tanto che nel 1648 egli pubblicò una
palinodia (ritrattazione) intitolata L'Antilucerna.
4. Favole e apologhi
Il Seicento fece un massiccio uso del racconto breve, che entrò non solo nei libri di novelle (favole ed
esempi) ma anche nei trattati politici, di comportamento, scientifici, medici, polemici. Nella narrativa
esemplare la forma breve è impiegata per la trasmissione di insegnamenti: con il fascino del piacevole si
propongono utili ammaestramenti.
5. Forme autobiografiche e lettere
Il genere meglio deputato per la presentazione dell’io è all’epoca la lettera. L’epistolografia aveva nel
Cinquecento abbandonato progressivamente il carattere assunto con la produzione umanistica ed era
divenuta un prodotto del mercato librario
5.2 Letteratura di viaggio
Il più praticato genere di scrittura in cui autore e narratore coincidono è (nel ‘600) la relazione di viaggio.
Essa è orientata alla considerazione dei popoli, dei loro costumi, dei modi di vita, dei governi, delle forme
organizzative, delle culture e manifestazioni artistiche dei paesi visitati. Contribuisce notevolmente all’avvio
della scienza antropologica, che nel Seicento si fa strada, definendo il suo campo d’indagine proprio grazie
al contributo dei viaggiatori oltre che dei moralisti e dei filosofi. Attraverso il confronto intensificato con
altri popoli e geografie, matura lentamente anche l’acquisizione del concetto di relatività di ogni prospettiva
culturale.

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