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LA LINGUA DI DANTE - PAOLA MANNI

CAPITOLO PRIMO: FIRENZE E LA TOSCANA ALL’EPOCA DI DANTE. LO SFONDO ECONOMICO


E SOCIALE

Nella seconda metà del XIII secolo e agli inizi del XIV, la Toscana si presenta come una regione
in pieno sviluppo economico e sociale (tale da imporsi non solo in Italia ma anche in Europa).
C’è un’altissima concentrazione urbana e un’espansione demografica fortissima. Agli inizi del
1300 lo storico Villani riscontra che la città di Firenze supera i 100.000 abitanti, con la
conseguente costruzione di una nuova cinta di mura (1333).

Fino gli inizi del XIII avevano primeggiato Pisa e Lucca, la prima potenza marittima, l’altra
“capitale” del potere longobardo e franco; (definitivo declino di Pisa: sconfitta del 1284 alla
Meloria a opera dei Genovesi conseguente supremazia di Firenze sulle altre città toscane). A
partire dalla metà del 1200 si assiste all’ascesa di Firenze. Sul versante della crescita
economica ha valore emblematico la coniazione del fiorino d’oro (1252): mette in ombra le
altre monete toscane e diventa uno dei più pregiati mezzi di scambio della finanza
internazionale

La prosperità delle città toscane si sorregge su diverse attività manifatturiere e artigianali:


importanti sono alcune industrie, come quella della lana per esempio. Altro pilastro
dell’economia è lo scambio internazionale di merci e denaro (Siena, poi Firenze). Alle soglie
del 1300, l’attività mercantile è in piena espansione. Il nucleo fondamentale dell’assetto
economico è quello della “compagnia”: raggruppamento di mercanti associati con modalità
precise (accoglie capitali, ha succursali in Italia e in Europa, ecc.).

In ambito europeo sono intensi i rapporti con la Francia: le compagnie mercantili toscane
hanno numerose filiali e frequentano le fiere di Champagne e di Fiandra acquistando fiducia
presso i sovrani che gli affidano le loro finanze; importanti sono la compagnia lucchese dei
Ricciardi e la fiorentina di Frescobaldi (banchieri fiduciari del re d’Inghilterra). Ovviamente, i
contatti con la Francia potenziano la conoscenza del francese e del provenzale (godevano di
grande prestigio in ambito culturale grazie la loro letteratura precoce) col conseguente
bilinguismo dei mercanti toscani e portando ad interferenze linguistiche testimoniante dalle
scritture attraverso prestiti isolati ed effimeri, presenti anche in ambito letterario.

Un altro aspetto importante dell’asseto sociale è il progredire dell’alfabetizzazione, registrata


grazie alle numerose menzioni di maestri impegnati su questo fronte censitario in tutta la
regione. Un fatto ancora più importante è le istituzioni delle scuole /botteghe d’abaco
(letteralmente “calcolo”; allusione al metodo di numerazione arabo-indiano). Le scuole
d’abaco (per i giovani di 10-11 anni per lo più), ovviamente laiche, sono organizzate dai
comuni o dalla stessa classe mercantile e la loro didattica si imperniata sul volgare.
Importante e fondamentale saper far di contro e leggere e scrivere. Luoghi di diffusioni San
Gemignano (1279) e Siena (1280), ma anche Firenze. Fra i più antichi libri d’abaco abbiamo il
Tractatus algorismi di Jacopo di Firenze (1307); in cui troviamo per la prima volta il termine
zevero, ovvero zero (cardine della matematica moderna). In alternativa alle scuole d’abaco, le
scuole di grammatica e logica avviano all’istruzione universitaria entro un curriculum di studi
che si basa sulla lingua latina. Scuole di logica, di grammatica ecc. sono presenti a Bologna
(sede di un antico Studio dotato di massimo prestigio in campo di diritto e retorica), a Firenze
(i domenicani di S.M. Novella e i francescani di S. Croce organizzano scuole e biblioteche per la
cultura ai livelli alti), in Toscana (scuole di notariato, grammatica, diritto canonico e teologia.

Eredi della cultura tradizionale e punti di riferimento per la classe mercantile restano i giudici
e i notai (perché svolgano un ruolo fondamentale nel mediare tra le due culture e lingue): essi
utilizzano sia il volgare che il latino. All’inizio del 1300 con la traduzione dell’ingente corpus
statutario senese (1309-10) prende avvio un’intensa opera di volgarizzamento di statuti e
ordinamenti. Ma gli esponenti della cultura giuridica sono prima fila anche nell’opera di
traduzione e divulgazione di testi classici e medievali. Importantissimo Brunetto Latini
(maestro di Dante), notaio e uomo politico attivissimo, traduttore degli scritti retorici e di
Cicerone e autore di poemetti didattici in volgare e di una enciclopedia in francese, il Tresor.
Altro testimone importante è Andrea Lancia, volgarizzatore degli statuti del comune di
Firenze e autore di molte traduzioni, tra cui una parafrasi in volgare dell’Eneide; inoltre egli è
stato commentatore della Commedia.

I mercanti, per esigenze professionali, sono spinti a scrivere, e a scrivere in volgare per la
corretta gestione dei propri affari e delle loro attività, per inventariare le merci, registrare la
contabilità, comunicare coi soci, fare conti, tenere registri. Ricordiamo le Ricordanze di Guido
Di Filippo D’Antella (un libro di ricordanze). La civiltà mercantile toscana, con la sua
eccezionale espansione, dà luogo a una produzione scrittoria che non ha eguale in
nessun’altra parte d’Italia (nonostante comunque l’attitudine dei mercanti alla scrittura in
volgare si era manifestata in tutta la penisola). La parte più antica di questa trascrizione è
stata raccolta da Arrigo Castellani. Una borghesia fiorente e alfabetizzata come quella toscana
non produce solo una grande mole di documenti di tipo pratico, ma esprime il suo dinamismo
intellettuale con la volontà di progredire culturalmente e con la capacità di sollecitare e
apprezzare le prove dell’arte e della letteratura (inizia a formarsi un pubblico moderno).

Parallelamente alla crescita economica della Toscana, si vede il fiorire di una civiltà letteraria
di grande rilievo, che si alimenta attraverso il contatto con i due centri all’avanguardia nella
cultura volgare del primo ‘200): la Sicilia (Scuola siciliana, poesia) e Bologna, sede di Studio
frequentato anche dai toscani, nel quale si gettavano le basi di una retorica volgare. Per
quanto riguarda la prosa, si sperimentano numeri volgarizzamenti dal latino e dal francese.
Alla fine del ‘200 ci sono tutta una serie di opere originali nell’ambito della trattatistica
filosofico-morale, storica, enciclopedica, novellistica. La poesia dà poi vita a una produzione
propria in cui spicca la personalità di Guittone , oltre che a quella di Bonagiunta Orbicciani da
Lucca. Nel 1200 vediamo una precoce vitalità della toscana occidentale nella produzione:
rimatori siculo-toscani, ma c’è anche il predominio dei testimoni occidentali nella tradizione
della lirica del duecento affidata a 3 codici. Tre grandi codici allestiti a fine del 1300: il
Palatino, il Laurenziano Rediano (pertinenza pisana) e il Vaticano latino 3793 (allestito a
Firenze da una mano proto mercantesca).
CAPITOLO SECONDO: LA SITUAZIONE LINGUISTICA. PROFILO DEL FIORENTINO DEL
DUECENTO

Analisi del quadro linguistico della Toscana all’epoca di Dante Si e soliti distinguere nella
Toscana medievale quattro fondamentali varietà: il fiorentino, il tipo occidentale (pisano-
lucchese), il senese e tipo orientale (rappresentato in primo luogo dall’aretino, il cortonese e il
borghese ossia il dialetto di Borgo Sansepolcro).

In epoca duecentesca, le varietà toscane (ancora in massima parte salde nella loro fisionomia
autonoma) mostrano numerosi elementi di differenziazione, che riguardano soprattutto
l’aspetto fonomorfologico, il lessico in misura minore e quasi per niente la sintassi.

FIORENTINO:

Alle soglie del Trecento, si possono considerare ormai definitivamente conclusi o in fase
avanzata i seguenti fenomeni:

a) I dittonghi discendenti ai, ei, oi si riducono alla prima componente (a, e, o).
meità, preite > metà, prete.
b) I tipi serò, serei passano a sarò, sarei.
c) Ogne (OMNEM) > ogni.
d) Scompare il dittongo in iera, ierano.
e) Si ha la sincope nei futuri e condizionali della 2a classe: averò> avrò. Tuttavia il tipo non
sincopato viverò è ancora costante. Nel corso del Trecento (e oltre), il fiorentino
manterrà la forma non sincopata fra occlusiva (o spirante labiodentale) e ‘r’. Es.
vespero, diritto, sofferire.
f) Nelle preposizioni articolate il tipo con ‘l’ doppia tende a generalizzarsi a tutti i casi
(prima ricorreva solo davanti a parola iniziante per vocale tonica: dell’oro, del’amico).
g) Le desinenze di 1a persona plurale del presente indicativo in –emo, -imo lasciano il
posto a –iamo in analogia con il congiuntivo; quindi da avemo > abbiamo.
h) Le desinenze di 3a persona singolare del perfetto indicativo di tipo debole, nei verbi di
tutte le classi esclusa la prima, -eo, -io > -è, -ì perdeo, sentio> perdè, sentì.
i) La desinenza etimologica di 2a persona singolare –e< -AS, che caratterizzava il presente
indicativo dei verbi della prima classe (tu ame) e il presente congiuntivo dei verbi della
2a, 3a, 4a classe (che tu abbie, che tu facce, che tu parte) tende a scomparire
assimilandosi alla –i; abbiamo quindi: tu ami, che tu abbi, che tu facci, che tu parti; fin
dall’inizio del 1300 si trova poi la desinenza moderna –a, da –a< -AM, AT (che tu abbia,
che tu faccia, ecc). Attestazioni di tale fenomeno già in Dante.
j) La desinenza di 1a persona singolare dell’imperfetto congiuntivo –e < -EM (che io
potesse) è sostituita da –i (che io potessi), come con la seconda persona singolare che
aveva regolarmente –i< -ES.

FIORENTINO IN TUTTA LA SUA FASE PIÙ ANTICA (secolo XIII e prima metà del XIV):

a) Il dittongamento si presenta regolarmente anche dopo consonante + ‘r’ (priego,


truovo).
b) Conservazione di ‘e’ tonica in iato nelle voci del congiuntivo presente di dare e stare
(dea, stea).
c) Passaggio di ‘e’ protonica a ‘i’ ma persistenza di ‘e’ nelle forme di: Melano, Melanese,
pregione, serocchia, nepote, che si possono trovare ancora nel corso del XIV secolo.
d) È normale an < en protonico in danari, sanese, sanatore; inoltre in sanza (N.B. Dante).
e) Il sistema consonatico comprende la variante tenue dell’affricata alveolare sorda [ts],
che ricorre in parole dotte come grazia e vizio, proveniente da basi latine con –TJ-,
mentre si ha la doppia in parole provenienti da basi latine con –CTJ-, -PTJ-, come
elezione, eccezione.
f) Sussiste anche il grado tenue della sibilante sorda [∫] che, reso con la grafia <sci>,
rappresenta l’esito di -SJ-, (bascio < BASJUM). Ben distinto dall’affricata palatale sorda
[t∫] che fino alla seconda metà del 1300 non subisce spirantizzazione in posizione
intervocalica (poi si adeguano entrambi alla comune grafia <c>).
g) Il normale esito di –GL [ggj] per cui si hanno forme come tegghia < TEG(U)LAM.
h) Nella maggior parte dei casi si ha [nn] da .-NG- davanti a vocale palatale (giugnere,
tignere, ecc.).
i) La sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche interessa anche voci che oggi
hanno la sorda come aguto, (acuto), coverta (coperta), ecc.
j) Un fenomeno assimilativo assai diffuso è costituita dall’evoluzione del gruppo ia, io in
ie che si verifica in posizione atona che in posizione tonica soprattutto quando segue
un’altra sillaba (Es. fieno, avieno, avie, ecc.).
k) Negli avverbi composti da aggettivi in –le + -mente si ha la sincope se l’aggettivo è
piano (es. naturalmente), se l’aggettivo è sdrucciolo le forme sincopate coesistono con
quelle non sincopate (similmente e similemente).
l) Il tipo debole dell’articolo maschile singolare che si affianca al tipo forte lo, piò
presentarsi nella forma enclitica ‘l, specie dopo alcuni monosillabi.
m) Le forme ‘l e il possono rappresentare anche il pronome maschile atono di terza
persona singolare (che ‘l vide = che lo vide).
n) Nelle sequenze delle particelle pronominali atone l’accusativo precede in genere il
dativo (lo mi dai = me lo dai).
o) Fra i numerali diece resta in uso fino alla metà del XIV secolo; come diece, hanno la –e
finale gli avverbi domane, stamane.

VERBI:

a) La prima persona singolare dell’imperfetto indicativo esce regolarmente in –a> -am.


b) Per l’imperfetto indicativo dei verbi della 2a e 3a classe sono diffuse le desinenze -ea,
-eano (avea, aveano), in qualche caso affiancate da –ia, -iano che tendono a passare a
-ie, -ieno (avia, aviano / avie, avieno).
c) Per la 1a e 2a persona plurale dell’imperfetto indicativo dei verbi della 2a e 3a classe
sono d’uso normale le desinenze con assimilazione -avamo, -avate (avavamo, avavate,
credavamo).
d) Per la 2a persona singolare del presente congiuntivo dei verbi della 2a, 3a e 4a classe la
desinenza –i resta nel complesso dominante, affiancata dalla moderna desinenza in –a,
presente già in Dante (che tu abbia, che tu faccia).
e) Alla terza persona plurale del perfetto indicativo la molteplicità degli esiti è
particolarmente vistosa: nei perfetti deboli, ossia quelli con accento desinenziale, si
hanno le forme primitive -aro, -ero, -iro (amaro, perdero, sentiro), affiancate da –arono,
-erono, -irono (quindi con l’aggiunta di -no). Per i perfetti forti e le corrispondenti
forme del congiuntivo e del condizionale, accanto all’uscita etimologica in –ero
(dissero), si hanno forme diverse in –ono (dissono) e qualcuna in -oro (ebboro  e>o).
f) La seconda persona singolare del presente indicativo è sè, che rappresenta la norma
nel fiorentino (e toscano) medievale. La forma moderna, sei, appare nel corso del
Trecento ma non grazie ai toscani. Al futuro, ci sono fia, fie, fiano e fieno continuatrici di
FIO.

PARTE SU DANTE
CAPITOLO3: DANTE E IL VOLGARE: PREMESSA

Dante nasce e si forma nella seconda metà del 1200, mentre la città è in pieno sviluppo
economico-sociale e il volgare, con la crescente alfabetizzazione, si diffonde a tutti i livelli
(pratici e letterari): anche nella produzione dantesca il volgare assume un ruolo
preponderante. La gamma dei generi letterari da lui praticati (prescindendo dall’attribuzione
incerta del Fiore e del Detto d’Amore) è vastissima e spazia dalla poesia, alla prosa, al trattato
filosofico-scientifico, fino ad arrivare alla Commedia. Alle opere in volgare è affidata tutta la
vicenda artistica e autobiografico-spirituale di Dante; mentre il latino è riservato a opere
scientificamente oggettive o di alta ufficialità (a sé sta il caso delle Egloghe). La fiducia di
Dante nel volgare e la consapevolezza del proprio mezzo linguistico procedono di pari passo
con l’allargamento e la maturazione delle esperienze letterarie. Tutte le sue opere, in misura e
modi diversi, mostrano la sua attitudine speculativa e autoesegetica. Lo stretto legame fra
creazione letteraria e coscienza critica che segue tutto il percorso artistico di Dante nella sua
straordinaria latitudine e nel suo intenso dinamismo, renderebbe arbitraria e fuorviante una
separazione rigida fra interventi di natura speculativa e uso linguistico. Va perciò rispettata la
coesione tra teoria e prassi, assumendo come punti di riferimento i due grandi momenti
dell’itinerario dantesco: da un lato la produzione lirica e prosastica anteriore alla Commedia,
dall’altro l’esperienza della Commedia. Di Dante non ci è pervenuto nessun autografo:
l’indagine sulla sua lingua non può essere perciò esaustiva ciò riguarda soprattutto l’aspetto
fonomorfologico.

CAPITOLO 4: LA LEGITTIMAZIONE DEL VOLGARE NELLA «VITA NUOVA» E NEL «CONVIVIO»

VITA NUOVA: scritta tra il 1293 e il 1295. È un prosimetro, ovvero un genere letterario in cui
prosa e poesia si alternano. L’inizio della carriera artistica di Dante e il suo primo contatto col
volgare, attraverso la lirica, s’inquadrano nella consolidata tradizione che lega in un nesso
inscindibile la poesia volgare al tema amoroso. Importante è il principio espresso nell’opera in
un contesto volto ad affermare la pari dignità fra poesia latina e poesia volgare.
Successivamente il ragionamento si sviluppa in un confronto fra la poesia e la prosa e a
quest’ultima si riconosce una dignità e una funzione autonoma: se alla poesia (che sia scritta
in latino o in volgare) è attribuita una maggiore libertà espressiva, alla prosa spetta il compito
di aprire la ragione che è sottesa alla poesia (con figure e colori retorici). Se consideriamo il
capitolo 25 della VN notiamo che i poeti latini vengono indicati nel testo come poete, mentre i
poeti volgari vengono indicati come rimatori o dicitori per rima. Nello stesso capitolo però
troviamo anche poete volgari: segnale eloquente della piena promozione della poesia volgare
accanto a quella latina e al tempo stesso inaugura il senso assoluto che assumerà la parola
poeta nelle lingue moderne europee.

[CAPITOLO 8: LA PROSA DELLA «VITA NUOVA» E DEL «CONVIVIO»inserito qui per


continuità di filo logico, pp.69-76]

La prosa di Dante è testimoniata dalla VN e dal Convivio attraverso copie lontane dall’epoca di
composizione e, nel caso del Convivio, caratterizzate da un alto grado di corruzione.

La tradizione manoscritta della Vita Nova consta di una quarantina di codici, databili a partire
dalla metà del Trecento, vagliati e sistemati da Barbi nella sua edizione critica. [Curiosità:
l’edizione di Gorni introduce novità apprezzabili fra cui il titolo del’opera restaurato nella
forma senza dittongo Vita Nova, coerente con l’esordio latino del primo capitolo. Tuttavia le
scelte linguistiche della sua edizione sono spesso orientate verso soluzioni compromissorie e
più moderne, mentre l’edizione Barbi si mantiene più aderente al fiorentino tardo
duecentesco rispettando giustamente le forme più antiche. Anche Carrai sta preparando
un’edizione che si conforma al manoscritto Chigiano.]

La prosa nella VN ha la funzione di aprire la ragione, chiarire il verace intendimento sotteso


nelle liriche legandole nella continuità di un tessuto discorsivo sul modello del prosimetrum
medievale (capostipite è la Consolatio philosophiae di Boezio) mediato dalla tradizione delle
razos provenzali (razo nel senso di ‘prosa’, ‘didascalia esplicativa’). Elementi di rilievo nella
prosa sono: l’andamento tra il contemplativo e pensoso, il senso di elementarità espressiva, il
tono rarefatto, antirealistico, cadenzato, la musicalità interna tutti elementi che
sottolineano il debito nei confronti del parallelo linguaggio poetico. Stefano Carrai ha
proposto una lettura della VN in chiave di elegia, segnalando molti elementi linguistici e
stilistici a sostegno della sua affermazione: vocaboli tipici del registro doloroso e lacrimevole
(dolore, doloroso, lagrima, pianto, piangere ecc.); misero e miseria che rimandano alla
definizione tecnica di elegia (stilus miserorum), indicata da Dante stesso nel De vulgari
Eloquentia. Anche nella prosa, come nella poesia, c’è il richiamo alle Sacre scritture attraverso
una serie di richiami e analogie ben percepibili a livello lessicale e sintattico. Lo stesso titolo
Vita Nova dell’opera rimanda ad una espressione ricorrente nella letteratura cristiana (da S.
Paolo a S. Agostino) -> vita rinnovata, rigenerata dalla salvezza.

Non si possono negare a questa prosa movenze e aspetti propri, connessi anche ai diversi
modi in cui essa esplica la sua funzione chiarificatrice: ora narrando l’occasione delle poesie,
ora illustrandone le componenti secondo gli schemi di una collaudata tradizione esegetica
medievale nelle cosiddette divisioni, ora allargandosi in dichiarazioni e digressioni sull’arte
poetica. Nella prima parte (cap.1-20) le prose presentano spesso un’ampiezza e uno
svolgimento che travalicano le liriche; in seguito il legame diviene più stretto e organico,
facendo talora supporre che la poesia sia addirittura rimodellata sulla prosa. Ed è
naturalmente in questi casi, dove i due codici linguistici e stilistici procedono in modo
parallelo, che certi particolari procedimenti della prosa si possono meglio mettere in
evidenza.

Sul piano del lessico, uno dei tratti più caratterizzanti della prosa rispetto alla poesia è la
massiccia presenza di latinismi, che sottolineano il forte legame con la prosa letteraria
fiorentina contemporanea, formatasi alla scuola dei volgarizzamenti. Sono latinismi che non
hanno riscontro nelle parti liriche: erroneo, inebriato, infallibile, orribile. Il termine ineffabile fa
il proprio ingresso nel volgare grazie alla Vita nova: aggettivo mutuato dal linguaggio mistico-
religioso che viene usato con riferimento del tutto nuovo alla donna (attribuito alla cortesia di
Bea che porge a Dante suo saluto beatificante). Va considerato come latinismo anche il
modulo del superlativo assoluto in –issimo (gentilissima, grandissima). Aumentano, nel
complesso, anche i termini concreti (spesso dettati dall’aggiunta nella prosa di qualche
particolare realistico); si accolgono all’occorrenza anche termini specialistici (farnetico,
farneticare: ambito medico). Tendono invece a ridursi le componenti di ascendenza
galloromanza e lirico-siciliana. Drastica riduzione dei suffissati in –anza: resistono però forme
come baldanza, speranza, usanza. Il sicilianismo disio/disiare cede a desiderio/desiderare.

Dal punto di vista sintattico, l’opera s’innesta sulla tradizione della prosa narrativa toscana di
cui riprende certi procedimenti espressivi basati sull’analiticità, per blocchi sintattici
coordinati, e linearità. Particolarmente vistosa è la ripetizione di certi tipi sintattici e di certi
elementi lessicali: fra i moduli reggenti più insistiti vediamo mi parea, parve, io dico, vedea,
avvenne. Va ricordato che la tendenza alla ripetizione sul piano sintattico-stilistico ha ben noti
riscontri nella prosa contemporanea a tutti i livelli. Inoltre la ripetizione, specie quella
lessicale, era all’epoca necessitata dall’assenza di un sistema di segni paragrafematici come
quello moderno, funzionale a scandire logicamente il testo (capita anche che la ripetizione
lessicale sia accompagnata dal gioco etimologico). Infine va precisato che i modi ripetitivi, che
sostengono la struttura narrativa della VN e contribuiscono alla coesione del testo, sono
spesso legati alla presenza di modelli evangelici (fra le fonti più scoperte dell’opera): mi parea
(videbatur), io dico (amen dico vobis), avvenne (factum est autem). Anche gli avverbi temporali
(appresso, poi che, poscia che) che spesso aprono i capitoli ricordano gli avvii ricorrenti
soprattutto nel Vangelo di Giovanni; infine la presentazione delle poesie è stata definita una
vera e propria liturgia del testo, dal proponimento al cominciamento. Fra i singoli
procedimenti sintattici che stabiliscono una continuità rispetto alla prosa del ‘200 vanno
segnalate le costruzioni infinitive del tipo “essere me laudatore di me medesimo”; forme di
inversione fra cui quelle del soggetto; concatenazioni di relative; frequenti le strutture
paraipotattiche; e non mancano infine procedimenti di natura ipotattica (in una sintassi
dominata da coordinate lineari e simmetriche) che preannunciano gli sviluppi più complessi e
strutturati del Convivio. Sono molto importanti le consecutive forti, modulo ampiamente
utilizzato dagli stilnovisti e da Dante per esprimere stati di beatitudine o sofferenza che
l’amore provoca nell’animo umano (esemplare il loro susseguirsi nel racconto della prima
apparizione di Bea: es. sì fortemente, si nobili e laudabili).

[CAPITOLO 4: Riprendo da p.32 con la parte sul Convivio]


CONVIVIO: scritto fra il 1304 e il 1307, è un saggio dottrinario, opera incompiuta nata con il
proposito infatti di offrire un commento alle canzoni dottrinarie. Qui la difesa e l’esaltazione
del volgare è ben più ampia che nella VN: a Dante infatti preme giustificare, in un’opera di alto
contenuto filosofico e scientifico, l’uso di una lingua che ancora non era stata sperimentata in
tal campo. Quasi tutto il primo trattato è dedicato a difendere la scrittura in volgare dell’opera.
La legittimazione del volgare è fondata su tre ragioni:

1) Il primo motivo risiede in uno scrupolo di coerenza interna all’opera: nella necessità di
adottare nel commento delle canzoni quella stessa lingua volgare in cui le canzoni
erano composte. Le argomentazioni che Dante adduce implicano il riconoscimento del
maggior pregio del latino, ma sottolineano anche come il volgare sia riconosciuto come
lingua che permette di esporre le canzoni non solo ai litterati (come fa la lingua latina)
ma anche ai non letterati e a gente di altra lingua.
2) Il secondo motivo si basa sul desiderio di essere più largamente giovevole e
raggiungere con la propria opera un pubblico più vasto, quindi un’istanza di
divulgazione più ampia ed efficace (mentre il latino non avrebbe potuto realizzare ciò).
3) Il terzo motivo, nelle argomentazioni di Dante, assume toni appassionati e accoglie
affermazioni d’orgoglio per la propria opera che mette in luce le potenziali doti del
volgare. Proprio perché scritta in prosa, va a mostrare l’adeguatezza del volgare
(rispetto al latino) meglio della poesia, condizionata da accidentali adornezze.

Tutto il capitolo 11 è costruito sulla polemica contro i malvagi uomini d’Italia, i quali
preferiscono promuovere le lingue d’Oltralpe piuttosto che il proprio volgare. Dante poi
spiega negli ultimi due capitoli come l’amore per il proprio volgare risulti in lui perfettissimo:
si sofferma sui benefici del volgare, affermando che questo permise ai suoi genitori di unirsi
dandogli il supremo dono della vita; permise a lui stesso di addentrarsi nel latino e quindi
nella via della scienza, ecc. A conclusione del primo trattato si trovano parole che coniugano in
una profezia solenne la profonda fiducia di Dante nel nuovo mezzo linguistico con le istanze di
divulgazione e impegno etico. L’ampio ragionamento sulla lingua sviluppato da Dante nel
Convivio, scaturito dall’esigenza di difendere la propria scelta a favore del volgare
rivendicandone la dignità, arriva a toccare temi di vasta portata teorica che saranno
successivamente ripresi: come l’affermazione dell’incessante mutevolezza del volgare,
collegata al suo carattere di strumento plasmato dalla libera volontà dell’uomo lo latino è
perpetuo e non corruttibile, lo volgare è non stabile e corruttibile. Un tema che annuncia ciò che
verrà scritto nel De Vulgari nonché la sua prossima composizione.

[CAPITOLO 8: Riprendo con la parte sul Convivio, pp.76-84]

Del Convivio abbiamo 45 codici, quasi tutti fiorentini e quattrocenteschi, risalenti a un


archetipo assai disastrato (archetipo che secondo Barbi era caratterizzato da una coloritura
dialettale definibile “all’ingrosso aretina”). È evidente dunque come una simile situazione
testuale non consenta nessuna ricognizione sicura sulla prosa dantesca nel suo aspetto
fonomorfologico.

Del diverso carattere della prosa del Convivio è consapevole Dante stesso che definisce la sua
opera più matura, temperata e civile mentre la VN era fervida e passionata. L’affermazione
teorica della dignità della prosa (e il privilegio riconosciutole di rivelare la bellezza della
lingua nella sua naturalità priva di artifici) trova coerente riscontro in una prosa che si libera
dal giogo poetico sia nel contenuto sia nella forma: una prosa che si costruisce tutta
attingendo alle risorse intrinseche della lingua nell’alto compito di trasmettere agli uomini il
sapere. L’intento di offrire il commento a 3 canzoni allegoriche e dottrinali diviene infatti il
pretesto per una trattazione che tende a svilupparsi in modo autonomo, sorretta da
impalcature retoriche tutte tese nella volontà di esprimere la saldezza della ragione nella sua
ricerca della verità-sapienza.

Il lessico, subisce un forte incremento sia quantitativo che qualitativo, accogliendo una
miriade di termini appartenenti in larga misura al lessico intellettuale (ma non solo quello),
molti dei quali ricevono per la prima volta una consacrazione letteraria. Attraverso il Convivio
entra in circolazione una vasta terminologia designante i concetti fondamentali della
metafisica, della gnoseologia, dell’etica e della logica, della filosofia (es. essere, forma, atto,
principio, innato, effetto); del termine ‘idea’ Dante sembra offrire in assoluto la prima
attestazione volgare. Latinismi di origine scolastica come impulsione, calunnia, adolescente,
ecc. Lo stesso titolo è un latinismo. Un hapax (cioè compare una sola volta nel testo)
interessante è ‘amicizia’. Moltissimi gli aggettivi in -issimo, -abile, -ibile, -ale, -ivo. Significativo
è anche l’apporto del lessico comune, come sarchiare, zappa, scudaio. Nel Convivio convivono
la componente terminologica di tipo dotto e quella di tipo popolare, che di fatto spesso
coesistevano nel sapere dell’epoca e rimarranno ben vive fino al rinascimento (talvolta i
termini di ambito dotto sono affiancati da un corrispondente termine di uso più comune
introdotto da una congiunzione esplicativa, secondo un procedimento glossatorio tipico dei
volgarizzamenti). Altro aspetto che caratterizza il lessico del Convivio è l’abbondanza di usi
metaforici, a partire da quelli relativi al banchetto (che danno, in primo luogo, il titolo al
trattato).

La sintassi trova il suo costante punto di riferimento nel latino della trattatistica scolastica, di
cui ricalca continuamente gli schemi. Sia all’interno del periodo, che nei rapporti fra periodi e
nell’organizzazione dei capitoli dominano strutture largamente simmetriche che si realizzano
attraverso sia forme usuali come parallelismi e correlazioni, sia attraverso procedimenti più
ricercati come le perissologie (procedimento scolastico di far seguire un’affermazione dalla
negazione del suo contrario o viceversa).

Inoltre c’è il cosiddetto << periodo a festone>> (manifestazione esemplare della strategia
sintattico-argomentativa della prosa), ossia la riproduzione nella sintassi del processo
dimostrativo del sillogismo: prendendo avvio con una congiunzione che si riferisce alla
principale, il periodo s’inarca in una serie di preposizioni secondarie prolettiche per
concludersi nuovamente con la principale o con un suo prolungamento (tale struttura si
ritrova per tutto il procedere dell’opera). Talvolta la principale è preceduta da un segnale di
ripresa (congiunzione o avverbio) che aiuta a riannodare il filo del discorso. Fra le costruzioni
subordinanti sono presenti molte causali, concessive, relative, frasi ipotetiche, comparative e
molti costrutti latineggianti (come gli ablativi assoluti, le infinitive preposizionali, le oggettive
con accusativo + infinito, le inversioni, ecc.). tipico della prosa del Convivio è anche il ricorrere
di elementi enfatici che esprimono la passionalità dell’autore: questi conferiscono alla prosa
una letterarietà quasi del tutto assente nei testi in volgare di argomento scientifico precedenti
e contemporanei; e mettono in circuito livelli e registri di formalizzazione prosastica
differenziati e specifici, tanto da creare un archetipo modellizzante per la successiva prosa
d’arte della tradizione italiana (rientrano in questo quadro le esclamazioni e le interrogative
retoriche).

Il potente condizionamento del latino sulla prosa del Convivio trova conferma nell’omogeneità
che il normale sviluppo della trattazione presenta rispetto ai numerosi inserti tradotti da fonti
latine: tale confronto risalta come Dante si sia impossessato degli schemi logico-sintattici del
latino, sviluppandoli in modo duttile e autonomo per le proprie necessità espressive. Grande
rilievo acquista inoltre il rapporto organico che lega la lingua del Convivio alla prosa latina
della Monarchia. Inoltre le strutture sintattico-stilistiche dei modelli classici, e in particolare di
Cicerone, si riflettono in modo parallelo sulla prosa dantesca latina e volgare. Il Convivio si
pone sulla scia di una vigorosa tradizione della trattatistica fiorentina, già largamente ispirata
al modello latino, che aveva avuto il suo massimo esponente in Brunetto Latini: l’opera
tuttavia assimila al volgare l’esperienza costruttiva della prosa latina, elaborando un
linguaggio saldamente organico. La prosa del Convivio mostra una generosa apertura sulla
realtà, un ricco e variato repertorio lessicale, un sapiente equilibrio e la duttilità delle sue
strutture sintattiche e retoriche, più registri e livelli espressivi.

CAPITOLO 5: IL «DE VULGARI ELOQUENTIA»

Opera composta probabilmente fra il 1304 e 1305 o inizio del 1306, in concomitanza con il
Convivio e come quest’ultima, rimasta incompleta (abbiamo il primo libro e due terzi del
secondo; dovevano essere presumibilmente 4 libri). Opera che offre una trattazione completa
e sistematica del tema dell’eloquenza (arte del dire) in volgare. Il trattato (scritto in latino
perché rivolto ai più alti livelli di utenza) si configura come un’enciclopedia stilistica e
linguistica, che doveva abbracciare non solo la scala completa dei livelli di stile ma tutte le
varietà d’uso del volgare. Si tratta di una riflessione organica sulla lingua che mette a fuoco la
realtà dell’epoca e offre una salda valutazione storico-critica delle letterature romanze
inquadrandovi la sua personale esperienza artistica.

PRIMO LIBRO

Nella prospettiva filosofico-teologica che dà avvio (dopo il capitolo proemiale) al trattato, il


linguaggio, cioè l’espressione linguistica nella sua accezione più generale e astratta, appare
come prerogativa dell’uomo che ha avuto il dono divino di poter trasmettere i suoi pensieri
attraverso un signum (che è insieme sensibile e razionale): si trasmette attraverso i sensi
(organi vocali e udito) ma giunge fino alla ragione. L’ebraico, fra tutte le lingue, continua il
primordiale e universale linguaggio adamitico (concezione poi superata nel canto XXVI del
Paradiso, dove invece si afferma la mutevolezza e la caducità di ogni lingua, anche l’ebraico).
Le altre lingue naturali invece sono frutto del peccato e della confusione babelica, quindi la
varietà e mutevolezza della lingue nel tempo e nello spazio (eredità di una colpa) sono un
fatto negativo; si è cercato di porre rimedio attraverso la grammatica (cioè attraverso lingue
grammaticali come il latino -> lingua artificiale, frutto di studio e che ha carattere di
inalterabilità). Tra latino e volgare, la lingua volgare è la più nobile in virtù della sua priorità
nel tempo, della sua diffusione e della sua naturalità (è la lingua naturale, quella imparata fin
dalla nascita) Se nel Convivio si celebrava la superiorità del latino modello d’arte, nel De
vulgari eloquentia si afferma la superiorità del volgare in quanto strumento primario della
comunicazione fra gli uomini.

In Europa, la frammentazione linguistica si manifesta in un idioma differenziato in tre rami


(ulteriormente suddiviso in molteplici varietà): il germanico-slavo, il greco e un altro ramo
che attualmente appare triforme, suddiviso cioè rispettivamente in provenzale, il francese e
l’italiano. La parentela fra le lingue romanze non implica però il riconoscimento della comune
matrice latina come abbiamo visto, il latino è lingua artificiale e perciò esso ha tratto le
proprie forme dalle lingue naturali viventi. Al francese e al provenzale viene riconosciuto
l’eccellenza rispettivamente nella prosa e nella poesia lirica.

L’attenzione poi si concentra sull’Italia, il cui volgare si suddivide in quattordici varietà e a


loro volta suddivise in altre sottovarietà. Il ragionamento si addentra quindi in un’analisi
comparativa delle singole varietà, con l’obbiettivo di trovare la lingua migliore, più elegante e
illustre. Tuttavia nessuno dei volgari analizzati è all’altezza/degno, compresi i volgari della
Toscana: è quindi con folle stoltezza che gli abitanti di quella regione rivendicano a sé l’onore
del volgare illustre.

L’ideale linguistico, che non ha riscontro in nessuna singola varietà, viene comunque
realizzato dai migliori poeti (il cui canone si va definendo via via attraverso la rassegna stessa
dei volgari italiani, che è anche rassegna delle rispettive letterature). Emergono così gli illustri
maestri, detti siciliani (scuola siciliana: scuola intesa come unità dei poeti, non solo siciliani,
che fanno capo alla curia di Federico II e Manfredi e ne riflettono l’unità culturale). Per quanto
riguarda la Toscana, si distinguono due gruppi di poeti: i municipali, rappresentanti della
vecchia scuola (Guittone); dall’altra parte, celebrati per aver raggiunto l’eccellenza del
volgare, gli stilnovisti. Viene poi elogiato un gruppo di rimatori, mentre tratta del bolognese
(cui è riconosciuta una gradevolezza intrinseca), fra i quali primeggia Guido Guinizzelli. Tutti
questi poeti accomunati da un giudizio positivo hanno però avuto la capacità di deviare dalle
rispettive parlate locali per elevare artisticamente il loro mezzo espressivo e raggiungere per
questa via una lingua regolata e relativamente unitaria.

Dopo la pars destruens, empirica, si ha la pars construens del discorso, affidata a mezzi più
razionali (astratti e deduttivi). Il volgare ideale è quello virtualmente presente in ogni città
senza appartenere a nessuna ed è caratterizzato da quattro attributi:

a) Illustre: in ordine alla sua essenza, perché illumina (diffonde luce) e illuminato
(investito dalla luce) risplende su tutto, dove si evocano le due modalità dell’illuminare
per luce propria o per luce riflessa (il volgare ha il potere attivo di commuovere e di
conferire gloria e onore a chi lo coltiva, ma diviene ancora più fulgido attraverso
l’opera dei suoi massimi artefici).
b) Cardinale: in quanto perno, centro attorno a cui ruota la “selva” multiforme e
disordinata dei volgari municipali.
c) Aulicum: cioè ‘regale’.
d) Curiale: perché conforme all’equilibrata norma dell’agire che si pratica nella curia.
SECONDO LIBRO (capp.1-14)

Libro dedicato al volgare illustre che si manifesta attraverso la poesia, in particolare la


canzone. Si espongono così i fondamenti di una vera e propria dottrina dell’eloquenza volgare
applicata a quello che è riconosciuto il genere più alto. Competono al volgare illustre solo i
temi sommi, corrispondenti alle finalità supreme dell’uomo (salvezza, amore, virtù) e agli
oggetti a esse attinenti come la prodezza d’armi, l’amore ardente e la retta volontà. La forma
metrica migliore è la canzone; il verso migliore è l’endecasillabo. Lo stile coinciderà con quello
tragico e nella scelta dei vocaboli saranno presenti quelli più nobili (ad esempio amore, donna,
disio, virtute, ecc). Si prende poi in esame la canzone come costruzione metrica per indagarne
a fondo tutti gli elementi costitutivi (la sua stanza, l’articolazione melodica, l’estensione, ecc).
a proposito delle rime, si indicano quali procedimenti dovrà evitare il poeta aulico, come il
ripetersi eccessivo del suono di una stessa rima e l’asprezza (a meno che non sia mescolata
con la morbidezza). In questo secondo libro, in cui ragionamento teorico e fase applicativa
procedono in stretto contatto, s’infittiscono i riferimenti ai poeti dell’epoca e alla propria
esperienza personale.

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Il De vulgari assume un ruolo preciso all’interno dell’itinerario dantesco, ponendosi in stretto


rapporto con la produzione lirica. L’opera è un autocommento: non solo per le citazioni ma
anche perché tutti i suoi nodi concettuali rispecchiano il senso dell’esperienza lirica dantesca.
Tutta una serie di argomentazioni e le numerose autocitazioni stabiliscono una fitta rete di
corrispondenze con la prassi poetica dantesca nel momento delle più alte liriche d’ispirazione
stilnovistica e delle poco posteriori canzoni di argomento morale e dottrinario. In questo
quadro si inseriscono anche i giudizi negativi su alcuni predecessori, primo fra tutti Guittone
(per le componenti municipali nel lessico e l’eclettismo linguistico). Il De vulgari è anche
profondamente legato all’esperienza dell’esilio che consente a Dante di cogliere le tante facce
del plurilinguismo italiano e allargare il proprio orizzonte all’Italia intera e al mondo. Va
sottolineato anche lo stretto legame tra il DVE e il Convivio, a cui è contemporaneo e di cui
condivide l’afflato etico-politico.

Il significato che il DVE assume in rapporto alla cultura medievale e alla storia del pensiero
linguistico è fondamentale. Si tratta infatti di un’opera eccezionale per la novità dei temi
affrontati, per la ricchezza delle argomentazioni e per la vastità e originalità dell’impianto, che
lega organicamente temi di filosofia del linguaggio e di storia linguistica, di retorica e
storiografia e critica letteraria. In questo trattato la linguistica si è trovata al centro di
interessi culturali molto vasti. Il DVE utilizza, rielabora e contamina numerose fonti: bibliche,
teologico-filosofiche, enciclopediche, classiche, contemporanee (italiane e d’Oltralpe) il
riconoscimento delle fonti non impedisce però al pensiero dantesco di rivelarsi innovativo e
aprirsi a squarci di riflessione sorprendenti per la loro modernità (grande rilievo a la teoria
sugli idiomi volgari europei dove si inserisce il tentativo di classificazione e descrizione delle
varietà italiane, cui si attribuisce il merito di aprire la strada alla moderna indagine
dialettologica). L’esame comparativo dei volgari italiani, pur fondato realisticamente, si
realizza all’insegna di un evidente intento parodistico. Questo vivace filone della parodia
linguistica e della letteratura in improperium (manifestazioni spinte del genere comico-
realistico).

Nell’ambito della storia linguistica italiana viene tradizionalmente riconosciuto al DVE un


ruolo istituzionale anche per quanto concerne la formazione di una lingua letteraria comune e
il dibattito a essa inerente. Non c’è dubbio che l’opera meriti questo ruolo. Essa per la prima
volta propone in termini problematici una riflessione sulla situazione linguistica italiana e sul
suo policentrismo, proclamando l’esigenza di un ideale unitario. Il DVE è assunto perciò come
la prima tappa del lungo percorso in cui si articola la nostra questione della lingua.

L’opera rimase pressoché sconosciuta per tutto il Medioevo; nel Cinquecento, balzò in primo
piano grazie alla scoperta da parte del Trissino dell’esemplare oggi Trivulziano (T); l’autore lo
tradusse e lo pubblicò in volgare nel 1529. Al Manzoni spetta il merito di aver ribadito
l’intento retorico-letterario dell’opera contro una lettura in chiave esclusivamente linguistica
(secondo l’interpretazione del Trissino). Secondo testimone è il manoscritto Grenoble,
scoperto sempre nel ‘500; terzo testimone, conservato a Berlino, fu scoperto soltanto all’inizio
del secolo scorso.

CAPITOLO 6: IL LINGUAGGIO POETICO DALLE LIRICHE DELLA GIOVENTÙ A QUELLE DELLA


MATURITÁ (LE «RIME»)

Le rime di Dante non ebbero un’organizzazione unitaria da parte dell’autore e ci sono


pervenute attraverso una tradizione complessa, disomogenea e disforme. Inoltre vanno
considerati i 31 componimenti inclusi nella Vita Nuova (parte dei quali godono di una
tradizione doppia: una ‘inorganica’ di tipo autonomo e una ‘organica’ facente capo a quella del
prosimetro) e tre le canzoni illustrate nel Convivio. Tutto ciò si ripercuote sulla veste
linguistica dei componimenti, che perciò andrà valutata di volta in volta in stretto rapporto
con le particolari modalità attraverso cui il testo ci è pervenuto. La lirica dantesca, con la sua
eterogeneità e ricchezza di sperimentazioni, illumina sulla formazione di Dante e sul lungo
tirocinio poetico che lo ha impegnato per oltre 20 anni prima della Commedia.

1) Seconda metà del Duecento, esperienza giovanile. Le prime liriche, da riconoscere con
sicurezza nei sonetti della tenzone con Dante da Maiano (i più arcaici; Rime:
85,78,80,83) e non molti altri componimenti (Rime: 12 - La dispietata mente; 26 - A
ciascun’alma presa), si inseriscono con coerenza nel panorama della produzione
poetica toscana della seconda metà del ‘200, di stampo guittoniano, di cui riprendono
temi, modi e strutture linguistiche.
Molto rilevante la presenza di sicilianismi (Es. Saccio, aggio) e gallicismi (Es.
avenente, coraggio, dolzore). Dal punto di vista stilistico-sintattico, la dipendenza dai
modelli tradizionali si cogli nei sonetti indirizzati a D. da Maiano dove ci sono molti
giochi verbali, ripetizioni, rime ricercate ed equivoche (resta un’esperienza
particolarmente spinta comunque, poi superata: fin dall’inizio della sua carriera
poetica, Dante tende a superare gli schemi convenzionali della lirica dell’epoca. Lo fa
evitando sia il sicilianismo insistito, sia la ripetizione di rime e la presenza di versi
brevi, che cedono a strutture sintattiche più libere e distese coincidenti con le strutture
strofiche). La numero 42, cioè il sonetto della Garisenda, ci perviene in veste
linguisticamente padana attraverso un Memoriale del 1287 del notaio bolognese
Enrichetto delle Querce (è questa la più antica registrazione oggi nota di un testo
dantesco).
2) Momento stilnovistico. Ha la sua piena manifestazione nelle grandi liriche confluite
nella VN, cui si possono assimilare per coerenza di stile le prime due canzoni filosofiche
del Convivio (Rime: 2,3). Questo momento può essere considerato la fase ‘classica’
della poesia di Dante, cui egli stesso fornisce una sistemazione teorica nel DVE. Del
ristretto contingente di parole-chiave dello stilnovismo dantesco fanno parte i
sostantivi come: gentile (nobile), core, amore, donna (signora), occhi, pietà, anima,
mente, dire, fare, piangere. Si tratta di voci appartenenti al lessico di uso comune e prive
di connotazioni particolarmente realistiche, che si accordano e in parte coincidono con
i nove vocaboli (amore, donna, disio, virtute, donare, letitia, salute, securtate, defesa)
citati nel DVE e raccomandati per la loro capacità di lasciare soavità in chi li pronuncia.
Seppure molte di queste voci si erano già fissate nel lessico stilnovistico, Dante le
adegua a situazioni psicologiche trattate con una nuova sottigliezza e precisione.
Leggiadro e leggiadra (‘leggero’ inteso come ‘frivolo’)perdono la connotazione negativa
che perdura in Guittone e si ripropongono con la loro connotazione positiva inaugurata
da Calvalcanti; rari gli usi metaforici e le similitudini. La componente siciliana
sopravvive solo in quelle forme più saldamente acquisite, che hanno attenuato o perso
l’originaria carica allusiva: scompare del tutto aggio e saccio. Si confermano, nel lessico,
disio e disiare. Fra i gallicismi, sopravvivono soprattutto quelli di tipo meno spinto,
come bieltà e bieltate. Anche la componente latineggiante risulta ridotta. Se è giusto
attribuire al vaglio linguistico attuato dalla scuola stilnovistica nel suo insieme
un’importante opera di decantazione dei risultati delle scuole precedenti e di
fissazione del fiorentino letterario, è in primo luogo attraverso Dante e la sua lirica che
l’esperienza stilnovistica filtrerà nella tradizione poetica successiva. La sintassi tende
ad essere limpida e lineare: presenza massiccia di consecutive forti, anticipate da un
avverbio o un aggettivo nella sovraordinata, che intervengono nella descrizione degli
effetti che l’amore provoca nell’animo umano (costrutto tipico stilnovistico). Una delle
liriche più famose che incarna il nuovo stile c’è la canzone ‘Donne ch’avete intelletto
d’amore’ (riconosciuto da Dante come dotato delle supreme qualità della canzone
tragica e come decisivo momento di svolta nella propria esperienza poetica).
3) Anni della maturità. In contrasto con la poetica delle rime dolci e soavi tipiche della
fase stilnovistica. Queste nuove prove, diverse fra loro ma caratterizzate da un alto
impegno tecnico-stilistico, protese verso una maggiore complessità sintattica e
portatrici di un eccezionale incremento lessicale nell’ambito della produzione lirica
dantesca, avranno un valore decisivo nei confronti della Commedia. I sonetti della
tenzone con Forese (Rime: 87,89,91) esibiscono un linguaggio popolaresco e realistico
calcato sulla tonalità dell’invettiva e dell’improperio. Anche nei 5 sonetti indirizzati a
Cino (Rime: 99,101,104,106,107) si nota un ampliamento del vocabolario cortese
tradizionale realizzato attingendo sia al lessico concreto, spesso di stampo umile (foro,
poro, ponte, stecco), che alla terminologia astratta consona a un argomentare filosofico
(libero albitrio). Nelle Rime 1, 7, 8, 9, le cosiddette ‘petrose’ (che riprendono il trobar
clus), il linguaggio dantesco si caratterizza per un marcato realismo, puntando sulla
parola corposa, rara, che tende a collocarsi in rima. Il lessico è di continuo
metaforizzato. Le rime sono difficili, rare ad alta densità consonantica.
L’organizzazione del discorso si fa più complessa e decresce l’indice di coincidenza fra
metro e sintassi. Le prove più significative di questo periodo sono ‘Tre donne intorno al
cor’ e ‘Doglia mi reca nello core ardire’: considerate i due punti d’approdo
de’evoluzione poetica dantesca prima della Commedia.

CAPITOLO 7: L’ESPERIENZA (DANTESCA?) DEL «FIORE» E DEL «DETTO D’AMORE»

L’attribuzione a Dante del Fiore e del Detto d’Amore, a lungo discussa, è stata avvalorata da
Contini sulla base di un largo numero di riscontri linguistici e stilistici. In realtà, tale
attribuzione non manca di suscitare delle riserve , rafforzatesi nel tempo. Ammettendo la
paternità dantesca dei due poemetti, è d’obbligo pensare a opere giovanili, testimonianze di
una tecnica poetica presto superata e sconfessata (anche se non va sottratta come tassello in
quel quadro di forte sperimentalismo formale che caratterizza il percorso artistico
dell’autore). Le due opere presentano peraltro un carattere dirompente rispetto agli schemi
tradizionali proprio per quanto riguarda la lingua: sono perciò esperienze interessanti anche
nel quadro delle vicende linguistiche della Toscana due-trecentesca. I due poemetti
rappresentano delle singolari prove di rielaborazione del materiale del Roman de la Rose. Il
più ampio dei due, il Fiore, col suo esorbitante numero di francesismi innestati su una
struttura fonomorfologica fiorentina, è l’espressione più singolare della moda e della cultura
francese nella Firenze della prima giovinezza di Dante. La straripante componente francese
aveva indotto Parodi ad attribuire l’opera a uno di quei fiorentini per i quali la Francia e le
Fiandre erano quasi una seconda patria e il francese una seconda lingua (che poteva perciò
intorbidare nei loro ricordi la nativa schiettezza della lingua materna) ipotesi non respinta
da Contini. All’esorbitanza lessicale del Fiore concorrono anche i numerosi traslati e usi
metaforici, coerenti con la natura comica del testo. la componente francesizzante, poi, si
impone anche a livello fonetico (attraverso il vocalismo e consonantismo), con la ripresa di
parole grammaticali e nella sintassi. Sono inoltre presenti il legame con la lirica siciliana e
siculo-toscana e l’accoglimento del fiorentino dell’epoca. Nel Detto d’Amore, oltre ai numerosi
francesismi, sono presenti molti elementi siciliani. Assolutamente divergenti i sistemi ritmici
delle due opere: se nel Fiore le rime sono maggiormente costituite da desinenze verbali e esiti
suffissali, nel Detto la rima concentra in sé il massimo grado di attenzione virtuosistica.

CAPITOLO 9: LA «COMMEDIA» E IL SUO PLURILINGUISMO: FRA TEORIA E PRASSI

Il termine comedìa (citato due volte nell’Inferno: XVI, XXI), in parallelo con la tragedìa che
designa l’Eneide (canto XX inferno), è difficilmente interpretabile alla luce della gradazione
degli stili sancita nel DVE, secondo la quale il ‘comico’ (comico inteso come volgare realizzato
al suo massimo grado in quanto assunto in tutta la gamma delle sue possibilità espressive),
cui si addice il volgare mediocre e umile, occupa un livello intermedio fra il supremo stile
tragico che si esprime nel volgare illustre (adatto al genere lirico della canzone) e lo stile
elegiaco che assume solo il volgare umile. Si ammette dunque che il ‘comico’ della Commedia
implichi un valore diverso rispetto a quello espresso nel trattato latino. Importante l’epistola a
Cangrande, ampiamente discussa e controversa. Nell’epistola (che ha come oggetto la dedica a
Cangrande della cantica del Paradiso), probabilmente scritta nel secondo decennio del
Trecento, il termine comedìa è giustificato sulla base di un’argomentazione contenutistica: la
commedia presenta all’inizio una situazione perturbata, ma la sua vicenda si conclude
felicemente, a differenza della tragedia, la quale inizia con lieti eventi e si conclude in modo
tragico. La Commedia di Dante infatti all’inizio è orribile, fetida (Inferno), ma alla fine è
desiderabile, gradita (Paradiso). Il modo di esprimersi (il mezzo espressivo) è dimesso e
umile, poiché è linguaggio volgare usato anche dalle ‘donnette’ (definizione poco consona a
designare una lingua che implica le vette espressive del Paradiso). Tuttavia, il termine di
tragedìa assegnato all’Eneide si ritrova in contrasto con ciò che è affermato nella lettera (cioè
distinzione contenutistica fra commedia e tragedia), poiché l’opera virgiliana si conclude
felicemente.

Riepilogando, possiamo ipotizzare che il termine comedia sia stato inizialmente adottato da
Dante con riferimento alla prima cantica e al suo stile. Esso si è poi fissato trovando avallo
nella nuova definizione del comico indicata nella lettera a Cangrande, dove spiega che la lingua
adottata è quella del volgare, ossia la lingua dell’uso, naturale, umile e dimessa (resta inteso,
capace all’occorrenza di adeguarsi anche ai registri espressivi più alti). Interessante è la
proposta di Tavoni il quale, considerando il titolo del poema, valorizza un’accezione (risalente
a Orazio) della poesia comica che comprende la satira: il termine commedia consentirebbe
così a Dante di dare al poema una definizione contrastiva rispetto alla tragedia virgiliana e
anche di alludere al valore della propria poesia come denuncia militante della corruzione
morale e politica, violento attacco portato a fondo dal poeta con sprezzo dell’incolumità
personale.

L’attributo divina è stato aggiunto a commedia soltanto nel Cinquecento, a partire


dall’Edizione curata da Lodovico Dolce (1555) che lo riprese probabilmente dal Cesano di
Claudio Tolomei, a sua volta desunto dal Trattatello del Boccaccio. Dunque è Boccaccio il
primo a sottolineare col termine divina l’eccellenza del poema. Titolo poi ristabilito da
Petrocchi nella forma Commedia, piuttosto che Divina Commedia. La pronuncia dovrebbe
porre l’accento sulla ‘i’, sul modello del greco (e come indica Dante nei passi dell’Inferno XVI e
XXI).

Tornando alla riflessione di Dante, è certo che la continuità ideale fra la grande tradizione
latina e la propria opera (e in particolare fra la tragedia latina di Virgilio e la propria
commedia volgare) acquista un rilievo centrale anche dal punto di vista teorico-linguistico.
Unico fra tutti i moderni, Dante si sente degno di essere unito nel nome e nella fama ai grandi
poeti latini.

La lingua dell’opera, il volgare, è chiamata a descrivere il mondo umano e il divinino,


adeguando via via i propri mezzi alla materia trattata in base al principio della convenientia,
desunto dalla retorica classica (ossia la variazione stilistica in base ai personaggi, ai luoghi,
ecc). Per questo motivo si dice che la Divina Commedia è un’opera impregnata di
plurilinguismo: si va dal comico esasperato dei canti infernali ai vertici del tragico paradisiaco,
dal dolce all’aspro e dissonante, dall’invettiva alla profezia, dal narrativo allo speculativo, ecc.;
dando luogo a una lingua che rompe gli schemi delle poetiche anteriori. Per quanto le tre
cantiche abbiano un loro registro di base, una loro fondamentale tonalità, la mescolanza degli
stili percorre tutto il poema ora fondendosi in sapienti impasti, ora creando giustapposizioni e
rotture di dirompente effetto. Inoltre, si nota come la Commedia (nonostante la sua ricchezza
e versatilità espressiva) sia saldamente ancorata alla realtà linguistica di Firenze degli ultimi
decenni del Duecento (Es. riferimento nel canto X dell’Inferno ai vv.22-26).

CAPITOLO 10: FONOLOGIA E MORFOLOGIA DELLA LINGUA DELLA «COMMEDIA»

Arrivare a stabilire il testo della Commedia, mettendo ordine nei vari manoscritti che la
tramandano ha costituito uno dei problemi più spinosi affrontati dalla moderna filologia.

Un risultato dalla portata storica si è avuto con la pubblicazione della Commedia secondo
l’antica vulgata di Giorgio Petrocchi; non è un’edizione critica in senso proprio ma si fonda
su una parte della tradizione, che è quella più antica, costituita dai 27 anteriori al 1355 (viene
esclusa l’edizione di Boccaccio). Ci sono due famiglie in cui i codici vengono poi suddivisi:
quella toscana e quella settentrionale, la più precoce e meno diffusa e di conseguenza meno
soggetta ad errori. Importantissimo il codice Trivulziano 1080, utilizzato da Petrocchi, perché
il più antico (1337) e per l’affidabilità del copista; secondo Petrocchi il codice è di salda base
linguistica fiorentina ma tutt’altro che restio ad accogliere i fenomeni della fascia mediana
(area padana). Copista Francesco di ser Nardo, il quale fondò a Firenze una bottega
specializzata nella trascrizione di codici della Commedia.

Uscita nel 1996 l’edizione curata da Antonio Lanza, il quale presenta un testo fondato sul solo
manoscritto Trivulziano 1080, permettendo un testo più omogeneo e che ha in sé una sua
coerenza linguistica.

Un’altra edizione è quella di Federico Sanguineti (2001), un testo critico fondato su uno
stemma di sette codici. Un ruolo determinante è riconosciuto al manoscritto Urbinate latino
336, datato 1352 e ritenuto di area emiliana o emiliano-romagnola, dal quale vengono tuttavia
espunti, attraverso il confronto con testimoni fiorentini e toscani, i tratti settentrionali
imputabili al copista (Es. metafonesi, cambi di vocali finali, ecc). è chiaro però che l’aver
assunto come testo-base un codice non toscano aumenta, proprio sul piano linguistico, le
difficoltà e i dubbi (maggiore ricorso all’emendazione).

L’edizione curata da Giorgio Inglese (2007;2011) riesamina la tradizione dell’antica vulgata,


aggiornandola e riorganizzandola in un nuovo stemma semplificato. Tiene conto del
Trivulziano 1080 e il Palatino 313, quest’ultimo di copista fiorentino e di datazione
presuribilmente molto alta.

È evidente che la lingua della Commedia si sottrae a un’analisi esaustiva: non solo niente si
può dire della fisionomia grafica del testo, ma anche l’originario aspetto fonomorfologico è
destinato a rimanere in parte occultato e non può essere oggetto di conclusioni libere da
sospetti. Un doveroso atteggiamento di cautela ha indotto la critica ad attribuire particolare
valore alle parole in chiusura di verso, laddove il vincolo della rima offre garanzia di rispetto
dell’originale (escluso per le rime imperfette). Per esempio, non si può affermare con
sicurezza che Dante impegni ogne invece di ogni, forme mai attestate in rima; è certo che egli
usa diece con ‘e’ finale ed è pure certo che alterna fori con ‘i’ finale (Es. Purgatorio XXX 30, in
rima con vapori, fiori) con fore e fora.

In generale, si può dire che la lingua della Commedia nelle sue componenti fonomorfologiche
aderisce al fiorentino degli ultimi decenni del secolo XIII (delineato nel capitolo 2). Con
sicurezza:

1) -an in sanza, ‘e’ finale in dimane, stamane, diece.


2) Il comune esito toscano [ggj] in –GL: tegghia, stregghia.
3) Il mantenimento di ‘e’ tonica in iato nelle forme del congiuntivo dea, stea (a cui però
non si associano le forme plurali che sono dieno e stieno).
4) La desinenza in –a della prima persona singolare dell’imperfetto indicativo.
5) La forma verbale dell’indicativo presente sè in luogo del moderno sei.
6) La propensione per forme come operare, temperare, vespero (le prime due alternate
però con le forme sincopate).
7) Negli avverbi con -le+mente si alternano le due forme, sincopata e non sincopata:
similemente/similmente.

Il fiorentino è comunque accolto nella sua dimensione più ampia e articolata: Dante sfrutta
tutte le possibilità di una lingua che non solo si presenta ricca di varietà diastatiche e
diafasiche, ma che in quel particolare momento storico si configura come un sistema
altamente dinamico che ha maturato e sta maturando al suo interno diversi tratti evolutivi
rispetto all’epoca più antica.

Sempre in posizione di rima:

8) Prima persona plurale del presente indicativo dei verbi della 2a e 3a classe: –emo
allato a -iamo. Es. solemo; repetiam. Nel caso dei verbi della prima classe è costante
–iamo.
9) Terza persona singolare del perfetto indicativo dei verbi della 2a, 3a e 4a classe
(coniugazione debole): -eo, -io allato –é, -ì. Es. poteo, rompeo; potè, compiè.
10) Seconda persona singolare del presente indicativo dei verbi della 1a classe: -e allato a
–i. Es. gride; pense o pensi; guarde.
11) Seconda persona singolare del presente congiuntivo dei verbi della 2a, 3a, 4a classe:
-e allato a –i (-a). Es. Diche; credi; eschi; tegni; intende. Dante estende più volte la
desinenza –e anche alla 2a persona singolare del presente congiuntivo dei verbi della 1a
classe che etimologicamente usciva in –i (AMES) Es. abbracce; favelle; adage.
12)Prima persona singolare dell’imperfetto congiuntivo: -e allato a –i. Es. Io morisse; io
fosse; io posasse allato a io udissi.
13)Terza persona plurale del perfetto indicativo della coniugazione debole: –aro, -iro (e
anche –ero) allato ai più rari -arono, -irono (mai -erono) che però si presentano
SEMPRE FUORI RIMA nelle forme apocopate –aron, -iron. Per la prima classe si ha
anche la desinenza sincopata –arno. Es. poetaro; udiro (anche potero; rendero) allato a
diventaron; udiron. La desinenza –aro, forma primitiva, si è prolungata più a lungo nel
corso del secolo XIV e il nuovo tipo –arono prende campo nell’ultimo ventennio del
Duecento.
Queste alternanze desinenziali rappresentano tutte dei tratti evolutivi interni al fiorentino
nella fase che va dagli ultimi decenni del Duecento agli inizi del Trecento. Si nota una
propensione di Dante verso l’uso di elementi tradizionali, se non verso veri e propri
arcaismi, poiché ormai il primo tipo desinenziale di ciascuna coppia aveva lasciato il posto
al secondo o era ormai in pieno regresso. Inoltre bisogna tener conto che la circostanza
dell’esilio ha “arretrato” il fiorentino di Dante ancorandolo alla fase duecentesca. Un
esempio di uso arcaizzante è la presenza di ‘l’ scempia nelle preposizioni articolate davanti
a parola iniziante per consonante. Es. “ne lo / punto”.

Spiccano nella morfologia verbale alcune forme non fiorentine che assumono un forte
rilievo stilistico-espressivo (per lo più si tratta di occidentalismi):

1) Terza persona plurale del presente indicativo uscente in –eno. Ovvero formata dalla 3a
persona singolare + -no: Es. ponno.
2) Terza persona plurale del perfetto indicativo formata anch’essa dalla 3 a persona sing. +
-no. Dienno (diedero); fenno (fecero).
3) Terza persona plurale del perfetto indicativo dei verbi della 1a classe in –oro (tipo
lucchese, infiltratosi nel fiorentino fin dal primo ‘300): Es. levorsi.
4) Più rari gli occidentalismi fonologici come: fersa = ‘sferza’ (anche ferza, ferze).
Probabilmente deriva dall’arabo firsa: ‘pezzo di drappo’/‘pannolino’, passato poi
significare un ‘flagello fatto di strisce o corde’.
5) Anche lassare non è un termine fiorentino ma latamente toscano.
6) Settentrionali le forme sonorizzate sego ‘seco’ e figo ‘fico’ (questa, pronunciata dal
romagnolo Alberigo dei Manfredi, va posta fra i dialettalismi con funzione mimetico
espressiva).

Sulla solida fiorentinità strutturale della lingua della commedia, comunque ampiamente
orientata e aperta a contributi esterni, si innestano molteplici influssi di tipo culturale: latini,
galloromanzi, siciliani. Alla concomitanza di questi influssi:

1) Assenza del dittongo in forme come fera, vene, core, novo; comprese quelle con e, o
dopo consonante +r, dato che il fiorentino due-trecentesco ha normalmente il tipo
priego, truovo. Es. faci (fai) o face (fa), che sono interpretabili come latinismi, cioè
come forme di ascendenza lirico-siciliana.
2) Este usato in contesto di altissima solennità.
3) Alternanze fittissime come: littera e lettera, licito e lecito, lito e lido, iudicare e
guidicare, templo e tempio.
4) Oscillazioni fra de-/di- (defettivo e difettivo, devoto e divoto, ecc) e re-/ri-.
5) Diffusi nominativi come speme, spene (il secondo sempre preferito in sede di rima).
6) Fra i sicilianismi fonologici ricordiamo canoscenza che s’impone su conoscenza.
7) È costante ancidere (=uccidere), termine utilizzato anche nella lirica prestilnovistica.
8) Notevole il tipo aggio, abbandonato nella fase stilnovista.
9) Si ha la serie: miso; commisa; ripriso; sorpriso.
10) Il condizionale in –ia (derivante dall’infinito + HABEBAM è ben documentato
soprattutto nella 3a persona plurale dove –ieno prevale su -ebbero. Es. avria; averien;
avrian, ecc.
11) Per il condizionale di essere, oltre alle forme in –ia (saria, sarieno, sarian) e a quelle in
–ebbe (sarebbe, sarebbero), si hanno fora e foran che rappresentano un tipo di
condizionale di ascendenza siciliana derivante dal piuccheperfetto indicativo latino in
–AVERAM. I tratti di provenienza siciliana più realizzati nell’uso dantesco, sono
comunque il tipo aggio e il condizionale in –ia.
12) Imperfetto in -ia dei verbi della 2a e 3a classe rappresentato da vincia e avia, più spesso
in forme di terza persona singolare in –ie (<-ia) seguite da enclitiche (Es. cresciemi) e
da un numero ancora più alto di forme plurali in –ieno (<-iano), sia in rima che fuori
rima (movieno, moviensi, faciensi, taciensi).
13) Il condizionale in -ia resta sostanzialmente limitato all’ambito letterario e soprattutto
poetico, l’imperfetto in –ia ricorre più volte nella prosa documentaria dalla fine del
secolo XIII a tutto il secolo XIV, facendo supporre un insediamento minoritario nell’uso
fiorentico dell’epoca.
14) Gallicismi: dispitto; respitto.
15) Fra le forme di sonorizzazione che esulano dal tipo toscano spicca con frequenza
sovra, in altri casi ovra, scovra.

CAPITOLO 11: IL LESSICO DELLA «COMMEDIA»

La poliformia della lingua della Commedia s’impone vigorosamente a livello lessicale. La


componente di base fiorentina è accolta in tutta la gamma delle sue varietà senza nessuna
preclusione (ciò comporta anche il recupero di tutte quelle voci che nel DVE erano state
esplicitamente condannate). Nella rappresentazione del mondo infernale, Dante include
parole e cose fino ad allora mai trattate dalla letteratura. Sono vocaboli realistici e concreti
come beffa, cigolare, leccare, letame, porcile, sudore, teschio, zuffa e così via: un lessico corrente
di ambito popolare e furbesco, un linguaggio comico e realistico, voci immonde o oscene che
approdano a effetti espressivi di drammaticità.

L’excursus espressivo verso il Paradiso segna l’ascesa dei latinismi, presenti ovunque nel
poema, che s’infittiscono e raggiungo il loro apice nella terza cantica in concomitanza con
l’innalzamento del livello linguistico e il prevalere di strutture tematiche di natura filosofica e
teologica. I latinismi che si fondono nel discorso traggono la loro origine sia dalla latinità
scritturale e tomistico-teologale sia dalla latinità classica; per molte parole ed espressioni si
individua la provenienza virgiliana (Es. il secreto calle Inf. X ricalca i secreti calles dell’Eneide
VI 443). Abbondano anche i latinismi di prima mano, sconosciuti alla tradizione precedente,
che possono essere anche caratterizzati da forme insolite e timbri aspri: presenti nella prima
cantica si pongono in rima con parole realistiche e talora anche plebee, (Es. curro, azzurro,
burro). In contrapposizione nel linguaggio del Paradiso, nel quale si diffondono enormemente
latinismi (soprattutto di tipo letterario) rispetto alle altre due cantiche, essi tendono a
formare delle serie rimiche compatte (a volte per sottolineare la densità di certi passi
dottrinali, altre per dare solennità allo stile). Ci sono molti latinismi che sono divenuti comuni
proprio in seguito all’impiego dantesco, per esempio fertile e ferace; anche molesto e mesto. Un
altro latinismo che si diffonderà grazie alla Commedia è quisquilia, (impurità, elemento
superfluo).

Anche le voci scientifiche e tecniche sono presenti nel poema e sono costituite a loro volta
da cultismi e anche se non mancano apporti di lessico popolare. Sono presenti molti termini
appartenenti all’astronomia, matematica, perspettiva (ottica e scienza prospettica la parola
occhio è il sostantivo più frequente della Commedia, termine connesso alla visione culminante
nella contemplazione di Dio; ma anche interesse di Dante per l’atto visivo nei suoi aspetti
fisici), medicina e musica. Esempi di parole: meridiano, emisperio, orbita, orizzonte, settentrion,
zona, plenilunio, cerchio, arco, circumcinto, ottuso, triangolo, lume acuto, spirto visivo, etico,
membro, arpa, giga, ecc. I termini anatomici e medici contribuiscono in modo determinante
agli effetti di violento realismo espressivo proprio dell’Inferno. Es. minugia(budella), corata
(insieme dei visceri), sacco (sacco dello stomaco). Spesso i termini tecnici/scientifici sono
investiti da sensi traslati o sono impiegati in contesti metaforici o similitudini (Es. un
tecnicismo della tessitura, dell’industria tessile: aggueffarsi, cioè ‘ammatassarsi’, ‘far matassa’;
i due termini perso e sanguigno). Scorrendo i vocaboli scientifici si può notare che un certo
numero di essi sono costituiti da grecismi, i quali comunque vengono sempre desunti da fonti
latine, come: tetragono e epa, latrìa, perizoma, baratro, antomata (quest’ultimo è fedelmente
ripreso dalle versioni latine di Aristotele che Dante consultava). Le voci scientifiche d’origine
araba (arabismi) sono per esempio nuca, alchìmia, cenìt. Un interessante calco dall’arabo è
costituito da imprimere per indicare l’influenza esercitata dai corpi celesti sul mondo terreno.

Gallicismi sono piuttosto limitati nell’Inferno e nel Purgatorio, si vanno a incrementare nel
Paradiso (gallicismi che contribuiscono a incrementare il livello stilistico specie dove la
materia è più alta e complessa). Quelli più frequenti sono cangiare, gioia, noia, noiare, augello,
parvente, leggiadro, leggiadria, periglio, veltro, dotta, bolgia (dall’antico francese). Non
mancano voci influenzate semanticamente dal francese: argento, nel senso di ‘denaro’,
cappello nel senso di ‘ghirlanda’. Uomo come pronome impersonale, e persona nel senso di
‘alcuno’ in frasi negative.

Un sicilianismo lessicale che si è stabilizzato nel lessico poetico è disio/disiare, che domina
rispetto alla variante gallicizzante disire (-o)/disiare e all’ancor più raro desiderio/desiderare
(quest’ultimo tipico dell’uso prosastico dantesco).

Tra i dialettismi i più sicuri sono quelli introdotti intenzionalmente da Dante per fini
mimetico-esprissivi; altre voci dialettali invece lasciano spesso dei dubbi dato che non è
possibile escludere con sicurezza una loro diffusione nella toscana dell’epoca ossia una
provenienza francese o provenzale. Ad esempio co (cioè ‘capo’), tradizionalmente considerato
settentrionale, è vivo in alcune aree toscane periferiche. Ancoi (cioè ‘oggi’) può essere
settentrionale, ma anche provenzale. Altre parole: barba (zio), considerato un
settentrionalismo; veggia, (botte) sempre un settentrionalismo. L’impronta locale si coglierà
in alcune voci concrete e tecniche, ad esempio quelle inserite nella rappresentazione
dell’arsenale veneziano (Inf. XXI 7-18) partendo dalla voce arzanà che si contrappone agli
allotripi toscani darsana, tarsanà, tersanaia (vuol dire ‘fabbrica’). Altri termini come scola, dal
veneto a ravennate scaula, imbarcazione simile a una gondola.
Un’altra fonte di arricchimento lessicale si deve all’inventiva di Dante che, mosso dalle proprie
esigenze espressive, conia vari neologismi aspetto significativo della creatività di Dante
che all’occorrenza riesce a forzare gli stessi limiti imposti dalla lingua. Neologismi che si
trovano soprattutto nel Paradiso e sono legati alla poesia dell’ineffabile. Fra le coniazioni
dantesche la maggior parte è costituita da formazioni verbali parasintetiche che utilizzano il
prefisso in-. Questo schema è applicato non soltanto ai sostantivi e agli aggettivi, ma anche ai
numerali, agli avverbi e perfino ai pronomi personali e ai possessivi. Così per esempio
troviamo voci come inurbarsi, inventrarsi, imparadisare, inforsarsi e così via. Altri neologismi
formati con prefissi diversi sononeologismi con il prefisso –a: appulcrare, arruncigliare; con
il prefisso di-: dilibrarsi, dirocciarsi, dismalare, trasumanare. L’inventività linguistica dantesca
coinvolge anche i nomi propri, manifestandosi nelle sue forme più vivaci e creative nella
designazione dei luoghi e dei personaggi infernali: Malacoda, Scarmiglione, Barbariccia,
Cagnazzo e altri presenti nel canto XXI dell’Inferno. Questi nomi sono stati inventati da Dante
sulla base di termini comuni che opportunamente modificati acquistano un significato allusivo
alle qualità fisiche o caratteriali delle varie figure demoniache. I nomi propri comunque non
sono quasi mai presenze neutre, ma s’incarnano stilisticamente nella realtà del narrato
attraverso valori posizionali e avvicinamenti evocativi (in molti casi ricorrono in fin di verso
irradiandolo e generando rime difficili o aspre che generano immagini e metafore di grande
tensione espressiva).

CAPITOLO 12: L’ALLOTROPIA NELLA «COMMEDIA»: ASPETTI STILISTICI

Le diverse componenti messe in luce sia a livello fonomorfologico che lessicale vengono
spesso a sedimentarsi in allotropi voci che pur risalendo alla medesima origine e
conservando il medesimo significato, si presentano differenziate formalmente. L’abbondanza
di allotropi costituisce in effetti una prerogativa di grande rilievo della lingua della Commedia,
che permette di cogliere nel modo più immediato e diretto il larghissimo spettro delle risorse
linguistiche impiegate.

Le forme latineggianti si impongono sulle forme popolari in contesti più elevati: lauro in luogo
di alloro. Il latinismo arbore è preferito ad albero laddove il termine assume un valore
simbolicamente pregnante indicando sia l’albero del girone dei golosi, sia l’albero del Paradiso
terrestre. Talvolta la forma latineggiante è capace di evocare l’originale valore semantico:
claustro, rispetto a chiostro -> cintura difensiva.

Anche l’alternanza fra varianti di origine galloromanza e corrispondenti voci indigene denota
talora una scelta stilistica. Infatti, se nell’Inferno Caronte è un vecchio (III 8), nel Purgatorio è
presentato come un veglio (canto I). Accanto a specchio che è la forma più consueta figurano i
più preziosi speglio, speculo e il gallicismo miraglio. Specchio e miraglio figurano nello stesso
canto XXVII del Purgatorio; col primo termine Lia indica sé stessa, col secondo indica lo
specchio in cui si riflette Rachele.

Diverso il caso di mangiare, francesismo da tempo acclimatato nel lessico toscano. Esso si
alterna con il tipo indigeno manicare e, in veste più aderente al latino, manducare.
Ricordiamo anche fra le varianti legate alla suffissazione alterativa, l’alternanza tra suora,
sorella e serocchia. I primi due termini risultano del tutto inconsueti nel fiorentino dell’epoca,
che ha normalmente serocchia. Dante preferisce invece suora e sorella.

L’allotropia interessa anche i nomi propri, soprattutto quelli classici o biblici (o comunque
non toscani), la cui forma può ubbidire a una tradizione o latina, o fiorentina, o alloglotta,
rispondendo alle necessità metriche ma anche al contesto evocato.

CAPITOLO 13: DIALETTALITA’ E INSERTI ALLOGLOTTI NELLA «COMMEDIA»

Costituiscono una compagine a sé, degna di rilievo e assai significativa della capacità dantesca
di gestire con maestria e talora spregiudicatezza il mezzo linguistico a fini mimetico-
espressivi, quelle forme, quei vocaboli e anche quegli inserti alloglotti che vengono
consapevolmente inseriti nel poema per caratterizzare la lingua di alcuni personaggi. È in
questo ambito che si possono cogliere, come abbiamo visto, i dialettalismi veramente sicuri e
inequivocabili presenti nel poema.

Definizione: l'alloglossia (dal greco allos, altro, e glossa, lingua) è la situazione di una
comunità (detta alloglotta) che, rispetto all'elemento demografico maggioritario di un'entità
statale o amministrativa, utilizza una lingua diversa da quella parlata da quest'ultimo.

In luogo dell’avverbio ‘ora’ abbiamo il lucchesismo ‘issa’ nel discorso di Bonagiunta Orbicciani
e ‘istra’ nella frase lombarda attribuita a Virgilio da Guido da Montefeltro. Sia issa che istra
presuppongono una derivazione da IPSA HORA. Non si conoscono altre attestazioni di istra,
che è comunque da mettere in relazione con i settentrionali insta e ista.

Nella terzina citata (Inf. XXVII 19-21) anche ‘mo’ (ora) potrebbe essere un elemento allusivo
alla settentrionalità del personaggio. Ma la sua connotazione dialettale si stempera dato che è
usato in altri contesti di tipo neutro, come nel canto VIII del Purg. o nel canto X dell’Inf; ‘mo’
era comunque utilizzato ampiamente nell’Italia medievale.

Sulla voce ‘sipa’ cioè ‘sia’ (congiuntivo presente di essere) citata da Venedico Caccianemico nel
canto XVIII (60-61) dell’Inferno come bolognesismo tipico.

Il gusto per la mimesi linguistica porta Dante a inserire nel poema otto versi (Purg. XXVI 140-
47) in lingua provenzale attribuiti ad Arnaut Daniel. E ancora la policromia linguistica del
poema si arricchisce con gli inserti latini che si fanno via via più frequenti nel passaggio dal
Purgatorio al Paradiso, di pari passo con l’innalzarsi del livello stilistico. Al polo opposto
vanno ricordati i due brani in lingua incomprensibile attribuiti a creature diaboliche (Inf. XXXI
67).

CAPITOLO 14: SINTASSI E STILE DELLA «COMMEDIA»

Anche per quanto riguarda la sintassi, la Commedia condivide con l’uso fiorentino dell’epoca
alcune strutture che si sono successivamente evolute senza trasmettersi all’italiano. Ce ne
danno prova le regole che determinano la posizione del pronome atono all’interno di frase:
1) Nei raggruppamenti di pronomi atoni, quello con funzione di accusativo è sempre
preposto a quello con funzione di dativo. Es. Lo mi vieta, il mi consento.
2) È rispettata la legge Tobler Mussafia, che obbliga a porre in posizione enclitica al verbo
le particelle pronominali atone sia dopo pausa (e in primo luogo a inizio di
proposizione principale posta in apertura del periodo o anche coordinata
asindeticamente ad altra o ad altre che la precedono), sia normalmente dopo alcune
congiunzioni coordinanti come ‘e’ e ‘ma’. Es. ruppemi, fecemi. Dopo ‘e’ si hanno tuttavia,
sia pure limitati, alcuni casi di proclisi, fra cui ‘e si protende’, ‘mi sostenne’. E dopo ‘ma’
eccezionalmente. La tendenza all’enclisi vige anche nel caso di principale posposta alla
dipendente, pur ammettendo varie eccezioni (es. priegoti). Alla legge obbedisce pure il
pronome atono unito all’imperativo, che in posizione libera predilige comunque la
proclisi.
3) Aumento delle concessive e l’uso del gerundio e dei suoi valori proposizionali rispetto
alle opere precedenti
4) Quasi i 2/3 del testo sono costituiti da dialogo, ossia da una lingua che almeno si
propone come parlata.
5) Segmentazione della frase: in cui si ha la messa in rilievo di un elemento tematico, che
può essere anticipato o posticipato, e la ripresa del medesimo attraverso il pronome
personale atono. Sono per lo più casi in cui l’elemento tematico ha funzione oggettiva
ed è costituito da una frase.
6) Un caso di anticipazione del soggetto che, dopo l’interposizione della relativa
dipendente, viene ripreso dal pronome dimostrativo si ha nei versi 49 -52 Inf. I (“una
lupa…questa”).
7) Che: polifunzionale, grammaticalmente indistinto (valore causale, di pronome relativo,
ecc).
8) Recupero della paraipotassi, costrutto tipicamente volgare.
9) Regresso dei costrutti con l’accusativo e l’infinito, sostituiti da dichiarative di forma
esplicita.
10) Tra i costrutti latineggiante che si trasmettono dalle opere giovanili al poema abbiamo
invece la reggenza negativa di temere: ‘temo che non’.

La sintassi della Commedia non può essere analizzata senza ter conto di quelle strutture
stilistiche e metriche in cui essa s’incarna, dando vita a un linguaggio poetico che trova
nell’intima coesione, nell’armonia e nella fluidità gran parte della sua grandezza e del suo
fascino. Vediamo:

11) La metafora e la similitudine, spesso in sinergia, assumono un ruolo centrale. Le


similitudini sono per lo più espresse attraverso costrutti comparativi. Partendo dal
tipo ‘come + sostantivo’, si arriva al tipo che si espande in una relativa. La
concentrazione metaforica e simbolica della poesia dantesca aumenta man mano che si
procede nella terza cantica.
12) Le forme proposizionali, consentono di sviluppare i parallelismi più ampi ed elaborati.
Esse stabiliscono un rapporto di analogia fra due proposizioni, anteponendo la
subordinata (introdotta dalla congiunzione come o sì come) alla sovraordinata
evidenziata dal correlativo così.
Nel caso in cui nelle due proposizioni figurino dei verbi copulativi, o comunque dei
verbi che reggono un complemento predicativo, gli elementi della correlazione che
fungono da predicato nominale o da complemento predicativo sono spesso resi con
quale e tale (cotale). Questi due tipi di comparazione possono svolgersi anche in
contemporanea!
13) Componente primaria dello stile è la ripetizione. Si hanno struttura molteplici e
variate che vanno dalla ripetizione della stessa parola all’interno del verso a quella che
coinvolge l’inizio di più versi o più terzine, dalla ripetizione derivativa al gioco
etimologico.
14) Largamente presenti le allitterazioni che percorrono tutto il poema stabilendo delle
continue corrispondenze fra canto e canto e fra cantica e cantica, segno tangibile di una
“memoria” interna all’opera. Il procedimento ripetitivo diviene quindi un elemento
essenziale del ritmo narrativo di tutta l’opera.
15) La rima ha ruolo di assoluta centralità e può fungere da significativo elemento
conduttore per delinearne l’itinerario. Nel ricchissimo repertorio di rime utilizzate
nell’opera vediamo confluire tutte le diverse tipologie rimiche già esperite
nell’itinerario poetico anteriore: rime piane, vistose, ricercate, rare aspre, ecc.

CAPITOLO 15: LA FORTUNA TRECENTESCA DELLA «COMMEDIA»

Se le opere minori sarebbero sufficienti a fare di Dante uno dei massimi autori della
letteratura italiana, è la Commedia a conferirgli un ruolo di assoluta centralità nella nostra
storia linguistica (tanto da meritargli l’appellativo di “padre della lingua italiana”). L’enorme e
immediata fortuna dell’opera, che coinvolge non solo i gruppi elitari dell’alta cultura ma anche
le cerchie più vaste ed eterogenee della borghesia mercantile dell’epoca, costituisce il primo
atto di diffusione di un modello linguistico che s’impone vigorosamente in Italia al di sopra
delle singole tradizioni locali. I più precoci indizi del successo della Commedia sono affidati
alle numerose citazioni che affiorano nelle diverse aree e negli ambienti più disparati.

Alcune terzine dell’Inferno sono state trascritte a partire dal 1317, nei documenti notarili
bolognesi. La citazione più antica, un passo del III canto dell’Inferno copiato sulla coperta di
un registro di atti criminali, è dovuta alla mano di ser Tieri degli Useppi di San Gemignano.
Ugualmente significativi i riecheggiamenti, le glosse e le vere e proprie citazioni centonarie
che s’insinuano non solo in opere letterarie ma anche in testi dovuti a scrittori di cultura
media, come il cosiddetto Libro del Biadaiolo, o chiamato anche Specchio Umano. L’autore è un
fiorentino, modesto venditore di biade, che però non manca di offrire nelle parti narrative una
drammatica ed efficace rappresentazione della miseria e della fame, citando Dante in
momenti di particolare tensione espressiva.

È certo che nella Toscana con la Commedia si realizza per la prima volta una circolazione
socialmente ben diversificata, che di bocca in bocca travalica perfino l’alfabetizzazione,
sostenuta dalla continuità linguistica sostanziale del testo colto e della lingua di ogni giorno
(diffusione scritta e orale).
Il più antico manoscritto datato che trasmette per intero la commedia, il Landiano 190 della
Biblioteca Comunale di Piacenza (copiato a Genova nel 1336) su commissione del podestà del
pavese Beccario de Beccaria, proviene dall’area settentrionale cui appartengono diversi fra i
codici più antichi. In particolare l’area emiliano-romagnola e Bologna svolgono una funzione
capitale nelle fasi iniziali di divulgazione della Commedia, prima che Firenze. Le copie poi
raggiunte nel corso del secolo XIV oltrepassano i 300 codici, tanto che fin dalle fasi più antiche
si coglie nei manoscritti una fitta contaminazione orizzontale. Nonostante ciò le diverse patine
regionali che via via s’incontrano nei manoscritti non soverchiano mai la sostanza linguistica
del poema: il che vuol dire che la lingua del modello, col suo prestigio e la sua memorabilità,
vince le abitudini del copista e s’impone.

Intensa anche l’attività dei commentari (che segna l’inizio di una plurisecolare tradizione di
lavoro esegetico), molto importante per la diffusione e il moltiplicarsi delle copie, non esenti
da contaminazioni, interpolazioni, aggiunte, il che rende particolarmente complesso
l’allestimento delle edizioni (che tuttavia vanno incrementandosi). Guardando ai commenti
più antichi e alla loro distribuzione geografica un ruolo di primo piano per la precocità spetta
ancora a Bologna. Il volgare domina decisamente nell’esegesi fiorentina, tuttavia l’uso del
latino da parte di molti altri commentatori risponde all’esigenza sempre più sentita di
adeguare l’opera critica ai modelli canonici del commento universitario e scolastico e si salda
naturalmente al nuovo atteggiamento culturale che va maturando nel corso del 1300. Non si
deve dimenticare che l’uso del volgare in un’opera come la Commedia dovette apparire fin
dall’inizio a dir poco rivoluzionario ai rappresentanti della cultura tradizionale del tempo.
Siano scritti in volgare o latino, i commenti presentano comunque un grandissimo interesse
per lo storico della lingua: essi contengono una miriade di osservazioni linguistiche e hanno la
capacità di rivelare nel modo più ampio e diretto le tensioni connesse alla ricezione linguistica
della Commedia, di mettere in luce l’audacia linguistica del poema nel suo impatto con la
realtà dell’epoca. Le chiose dei commentatori, con la loro vigile attenzione per i fatti lessicali e
il loro generoso raggio di orizzonte, si prestano inoltre a essere esplorate contrastivamente
per mettere a fuoco concordanze e conflitti che si instaurano tra Firenze, la Toscana non
fiorentina e gli altri ambiti italiani.

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