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Paola Manni -La lingua di Dante

Didattica della Lingua Italiana a Stranieri (Università per Stranieri di Siena)

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Descargado por Laura Ramos Barbero (lauraramosbarbero@gmail.com)
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P. Manni – “LA LINGUA DI DANTE”

Capitolo 1. Firenze e la Toscana all’epoca di Dante. Lo sfondo storico, economico e


sociale.

Seconda metà del secolo XIII- inizio del XIV: Toscana si presenta come una regione in pieno
sviluppo economico e sociale tale da imporsi non solo in Italia ma in tutta Europa e già dai secoli
precedenti è caratterizzata da un’altissima concentrazione urbana (territorio ristretto delineato dal
bacino dell’Arno, corrispondente a meno della metà della toscana odierna, ma con molte città quali
Pisa, Arezzo, Prato, Lucca, Pistoia, Firenze, Siena, San Gimignano, Volterra, Sansepolcro,
Cortona). Se in principio (inizio XIII sec.) primeggiavano Pisa (potenza marittima) e Lucca, a partire
dalla meta del Duecento si assiste all’ascesa di Firenze che in qualche decina d’anni diventa il
maggior centro economico dell’Occidente  (sconfitta di Pisa da parte dei genovesi, 1284,
episodio che sancisce il declino della città e la supremazia di Firenze sulle citta toscane).

1252: coniazione del fiorino d’oro; diviene in breve tempo uno dei piu pregiati mezzi di scambio a
livello internazionale.

La prosperità delle città toscane si sorregge su alcune industrie (in particolare quella della lana);
altro pilastro dell’economia è lo scambio internazionale di merci e di denaro (per cui si era
precocemente affermata Siena che lascia poi il posto a Firenze). Nucleo fondamentale dell’assetto
economico è lo sviluppo della compagnia, raggruppamento di mercanti associati che mettono
insieme cospicui capitali destinati ad accrescersi attraverso investimenti. Ciascuna compagnia
svolge i propri affari mediante succursali dislocate nei più importanti centri italiani ed europei.
L’Attività mercantile in espansione porta ad una vivacissima mobilità sia all’interno della regione sia
all’esterno, con coinvolgimenti frequenti nella vita politica di altri paesi. In ambito europeo sono
particolarmente intensi i rapporti con la Francia, che potenziano la conoscenza del francese e del
provenzale che godevano di grandissimo prestigio in ambito culturale grazie alla precocità della
loro letteratura. Il bilinguismo dei mercanti toscani porta a vistose forme di interferenza linguistica
testimoniate, nei testi (ad esempio commerciali) e nella letteratura, attraverso prestiti.

Allo sviluppo economico fa riscontro una massiccia espansione demografica. Firenze è uno dei
maggiori centri d’Europa, affiancata in Italia solo da Venezia e Milano. Legato allo sviluppo
economico è inoltre il progredire dell’alfabetizzazione: istituzione delle scuole (o botteghe) d’abaco,
calcolo, scuole del tutto laiche organizzate dai comuni o dalla stessa classe mercantile, con una
didattica imperniata sul volgare dove i giovani di età compresa tra i dieci e undici anni acquisiscono
le fondamentali competenze richieste al mercante, saper far di conto e saper leggere e scrivere
(novità nell’ambito del sistema scolastico occidentale, metà del ‘200). In alternativa alle scuole
d’abaco, vi sono le scuole di grammatica e logica le quali avviano all’istruzione universitaria entro
un curriculum di studi saldamente ancorato al latino. Durante tutto il Duecento i toscani sono
assidui frequentatori di Bologna, sede di studio dotata di massimo prestigio. Giudici e notai, eredi
della cultura tradizionale, sono punto di riferimento molto importante anche per la stessa classe
mercantile (che tuttavia in Toscana prima che altrove impara a gestire autonomamente le proprie
scritture) data la loro disposizione a gestire i due codici, latino e volgare, e di mediare tra le due
culture e le due lingue. Inizio del ‘300: prende avvio intensa opera di volgarizzamento di statuti e
ordinamenti, opera di traduzione e divulgazione dei testi classici e medievali, in particolare ad
opera del “maestro” di Dante, Brunetto Latini, notaio e uomo politico attivissimo.

Nesso che lega la civiltà mercantile alla scrittura e, insieme, al volgare: esigenze professionali che
spingono il mercante a scrivere (in volgare) per inventari, registri contabilità, comunicazione,

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gestione dei propri affari. La civiltà mercantile toscana con la sua eccezionale espansione dà luogo
ad una produzione scrittoria che non ha eguali in nessun’altra parte d’Italia. Oltre alla quantità di
testi sono anche le tipologie a destare grande interesse: oltre alle scritture mercantili (libri di conti e
registri, contratti, lettere) emergono scritture più complesse come i libri delle ricordanze (o libri di
famiglia, genere testuale ritenuto “toscano” per eccellenza e che avrà grande successo nei secoli
XIV-XV). Parallelamente alla sua crescita economica, al benessere e all’alfabetizzazione, nella
seconda metà del Trecento la Toscana vede fiorire una civiltà letteraria di grande rilievo
(apprezzata e sollecitata dagli stessi mercanti) che si alimenta del proficuo contatto con i due centri
all’avanguardia nella cultura volgare del primo Duecento: la Sicilia (alla cui scuola poetica erano
stati attivi anche alcuni toscani) e Bologna. Ciò coinvolge tutta la Toscana, anche se nell’insieme
della produzione duecentesca si rileva una più precoce attività della Toscana occidentale (Lucca,
rimatori pisani annoverati tra i “siculo-toscani”…)

Capitolo 2. La situazione linguistica. Profilo del fiorentino del Duecento

È possibile ricostruire il quadro linguistico della Toscana all’epoca di Dante grazie alla straordinaria
ricchezza di documenti pervenuti  importantissimo ruolo delle scritture mercantili non solo per la
loro quantità ma per la capacità di garantire un buon grado di genuinità linguistica (testi di tipo
pratico affidati quasi sempre a testimoni unici e autografi)

Si è soliti distinguere nella Toscana medievale quattro varietà di lingua:

- il fiorentino Stesse varietà che emergono in


- il tipo occidentale (pisano e lucchese) Dante nel De vulgari eloquentia, che
tiene tuttavia distinti il pisano e il
- il senese lucchese che avevano di fatto
- il tipo orientale (aretino, cortonese, e borghese di Sansepolcro) caratteristiche autonome.

In epoca duecentesca tali varietà mostrano numerosi elementi di differenziazione che riguardano
prima di tutto l’aspetto fonomorfologico, in misura assai minore il lessico, quasi per niente la
sintassi.

Caratteri tipici del fiorentino duecentesco, (in particolare seconda metà del secolo, epoca in cui
Dante nacque e raggiunse in patria la sua maturità)  sistema linguistico altamente dinamico

 Fattori evolutivi rispetto all’epoca più arcaica:

- dittonghi discendenti ai,ei,oi si riducono alla prima componente (es. preite > prete)
- serò,serei > sarò, sarei
- Ogne (OMNEM) > ogni
- scompare il dittongo in iera/ierano
- L geminata che ricorreva solo se precedente a vocale tonica (es. dell’oro, ma dela casa,
del’amico) tende a generalizzarsi a tutti i casi
- desinenze di 3 p.plur. del pres. indic. –emo/ -imo (avemo/perdemo/sentimo) lasciamo il posto a –
iamo (abbiamo/perdiamo/sentiamo) in analogia con il congiuntivo
- la desinenza di 2 pers.sing. –e del pres.indic. dei verbi della 1 classe (tu ame) e il pres.cong. dei
verbi della 2,3,4 classe (che tu abbie/che tu facce/che tu parte) tende a scomparire assimilandosi
alla –i, propria di altre voci del paradigma, ossia 2 pers.sing. pres.ind. di altre classi di verbi. Quindi
> (che tu ami/che tu facci/che tu abbi)
- desinenza di 1 pers.sing. dell’imperfetto congiuntivo –e (che io potesse) è sostituita da –i (che io
potessi) in analogia con la 2 pers.sing.
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 Tratti distintivi del fiorentino in tutta la sua fase più antica (sec. XIII e prima metà XIV):

- dittongamento si presenta regolarmente anche dopo consonante + r (priego/truovo). Singole


forme che presentano il dittongo rispetto all’ita moderno  niega (e altre voci di negare)
- conservazione di e tonica in iato nelle voci del congiuntivo presente di dare/stare (dea/stea)
- Pur nell’ambito della spiccata tendenza al passaggio di e protonica a i, si ha la persistenza di e in
Melano/melanese/pregione/nepote
- an (al posto di en) protonico in danari/incontanente/sanatore/sanese/sanza
- sistema consonantico comprende la variante tenue dell’affricata alveolare sorda [ts] che ricorre in
parole dotto come grazia/vizio
- sussiste il grado tenue della sibilante palatale sorda [ᶴ] (sci) (bascio/camiscia), ben distinto
dall’affricata palatale sorda [tᶴ]
- il normale esito di –GL- è –ggh- (tegghia/vegghiare al posto di teglia/vegliare)
- nella maggior parte dei casi si ha –GN- davanti a vocale palatale (giugnere/tignere)
- la sonorizzazione delle occlusive sorde in posizione intervocalica interessa anche voci che oggi
hanno la sorda come aguto (acuto)/ coverta (coperta) e varie parole in –adore –idore come
amadore/ ambasciadore/ imperadore
- fenomeno assimilativo assai diffuso è evoluzione del gruppo ia,io in ie sia in posizione atona che
tonica soprattutto quando segue altra sillaba (sieno/fieno)
- negli avverbi composti da LE+MENTE si ha la sincope se l’aggettivo è piano (es. naturalmente)
invece se l’aggettivo è sdrucciolo le forme sincopate ancora coesistono con quelle non sincopate
(es. similmente e similemente)
- il tipo debole dell’articolo determinativo maschile singolare, che si affianca al tipo forte lo, può
presentarsi nella forma enclitica ‘l specie dopo monosillabi (che, e, se)
- le forme ‘l e il possono rappresentare anche il pronome atono maschile (che ‘l vide = che lo vide)
- nelle sequenze delle particelle pronominali atone l’accusativo precede in genere il dativo (lo mi
sai = me lo dai) mentre le generazioni nate nel Trecento adottano l’uso inverso, moderno
- fra i numerali diece rimane in uso fino alla metà del Trecento, mentre è più tenace la resistenza di
dicessette, dicennove, milia. Hanno –e anche gli avverbi domane/stamane
- la 1 pers.sing. imperfetto indic. esce sempre in –a
- per l’imperfetto indic. della 2 e 3 classe sono diffuse le desinenze –ea/-eano (avea/aveano)
- per la 1 e 2 pers.plur dell’imperfetto indic. dei verbi della 2 e 3 classe sono normali le desinenze
con assimilazione –avamo/-avate (avavamo/avavate/credavamo/credavate)
- per la 2 pers.sing. del pres.cong. dei verbi della 2,3,4 classe la desinenza –i, già modellatasi su
quella della prima classe, resta nel complesso dominante, anche se le si affianca la moderna
desinenza –a, analogica alla 1 e 3 persona (che tu abbia/che tu faccia) di cui si hanno esempi in
Dante.
- alla 3 pers.plur. del perfetto ind. gli esiti sono molteplici. Nei perfetti deboli si hanno ancora –aro/-
ero/-iro < ARUNT/ERUNT/IRUNT (amaro/perdero/sentiro) affiancate però da –arono/-erono/-irono
(amarono/perderono/sentirono). Per i perfetti forti accanto all’uscita etimologica in –ero (dissero) si
hanno –ono (dissono) e –oro (ebboro)
- paradigma di essere: la 2 pers.sing. del pres.ind. è sé; al futuro in alternativa a sarà/saranno si
possono avere le forme sintetiche fia/fie e fiano/fieno.

Capitolo 3. Dante e il volgare: premessa

Dante nasce e si forma nella Firenze della seconda metà del Duecento, quando la città è in piena
espansione economica e sociale e il volgare, favorito dalla crescente alfabetizzazione, va

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imponendosi a tutti i livelli, sia negli usi pratici che letterari. Anche nella produzione dantesca il
volgare assume un ruolo preponderante.
La gamma dei generi praticati da Dante è vastissima e spazia dalla poesia, nella varietà delle sue
forme stilistiche e metriche (canzoni, sonetti, ballate, sestine) alla prosa, sperimentata in simbiosi
con la poesia nel primo prosimetro italiano, La Vita Nova, nel trattato filofosico-scientifico il
Convivio, fino alla Commedia. Al volgare è affidata dunque tutta la vicenda artistica e
autobiografica-spirituale dell’autore; il latino è riservato a opere scientificamente oggettive o di alta
ufficialità (De vulgari eloquentia; Monarchia; Epistole; Questio de aqua et terra).
La fiducia di Dante nel volgare e la consapevolezza del proprio mezzo linguistico procedono di pari
passo con la maturazione e l’allargamento delle esperienze letterarie dell’autore (intenso
dinamismo), inquadrandosi in quell’atteggiamento costante di riflessione tecnica e intelligenza
stilistica affiancato al concreto poetare (stretto legame fra creazione letteraria e coscienza critica).
Quest’attitudine si manifesta con massima pienezza nel De vulgari eloquentia, interamente
dedicato all’eloquenza volgare, che spicca nell’insieme complessivamente minoritario delle opere
in latino. Il De vulgari costituisce un capitolo di assoluto rilievo per la novità e il ruolo che occupa
nell’ambito del pensiero medievale e della storia della linguistica italiana.
Di Dante non è tuttavia pervenuto nessun autografo, l’indagine sulla sua lingua non può pertanto
essere esaustiva in particolar modo per quanto riguarda l’aspetto fonomorfologico (opere volgari
tramandate da più testimoni, nessuno dei quali autografo).

Capitolo 4. La legittimazione del volgare nella «Vita Nova» e nel «Convivio»

L’inizio delle carriera artistica di Dante e il suo primo contatto col volgare, attraverso la lirica, si
inquadrano nella consolidata tradizione che lega la poesia volgare al tema amoroso 1. Il principio è
espresso nella Vita Nova, in un contesto volto altresì ad affermare la pari dignità fra poesia latina e
poesia volgare. In essa si sviluppa poi un confronto tra la poesia e la prosa, cui si riconosce una
dignità e una funzione autonoma: alla poesia (sia latina che volgare) è attribuita una maggiore
libertà espressiva, alla prosa spetta il compito di “aprire la ragione che è sottesa alla poesia,
adorna di colori e figure retoriche” (funzione esplicativa/di commento). L’impianto stesso della Vita
Nova è di fatto caratterizzato da composizioni in versi che si alternano a parti in prosa.
Nel secondo estratto de La Vita Nova riportato da Manni (cap.XXV 7-8) viene segnalata la
persistente opposizione messa in atto da Dante fra “poete” che, secondo il significato tradizionale
vale per “poeti latini” e “dicitori per rima” (o rimatori) con cui vengono indicati i poeti volgari. Nel
primo brano tuttavia (cap. XXV 4-6) figura la designazione “poeta volgare” (o poete volgari) che è
un segnale eloquente della piena promozione della poesia volgare accanto a quella latina e al
tempo stesso inaugura il senso assoluto che assumerà la parola poeta nelle lingue moderne.

Più ampia e decisiva l’esaltazione del volgare nel Convivio, opera incompiuta di alto contenuto
filosofico e scientifico tradizionalmente ascritta agli anni fra il 1304-1307, nata col proposito di
offrire un commento alle canzoni dottrinarie. Preme a Dante giustificare l’uso delle lingua volgare in
tal campo. Quasi tutto il primo trattato (V-XIII) è quindi dedicato a difendere il commento,
presentato metaforicamente come il pane che accompagna la vivanda delle canzoni, dalla macula
sustanziale di non essere scritto nella lingua dei dotti. La legittimazione del volgare è fondata su tre
ragioni puntualmente sviluppate: 1) necessità di adottare nel commento delle canzoni quella
stessa lingua volgare in cui le canzoni erano composte, poiché non sarebbe stato lecito usare nel
commento una lingua che, rispetto a quella delle liriche, fosse sovrana (riconoscimento del
1
Nel primo estratto de “La Vita Nova” riportato da Manni (XXV 4-6), Dante giustifica ed esalta l’utilizzo del volgare e la
trattazione del tema amoroso. Il periodo finale va letto in chiave di allusione polemica a Guittone che si era
allontanato dal tema amoroso per sperimentare la poesia etica in volgare.
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maggior prestigio del latino legato soprattutto al suo carattere di artificiosità); 2) considerazioni
legate alla definizione socioculturale del pubblico cui il commento è destinato: il latino avrebbe
esposto le canzoni solo ai litterati mentre il volgare era inteso da tutti, e le avrebbe poi esposte a
gente d’altra lingua senza però poterne mediare la bellezza (notevole affermazione
sull’intraducibilità della poesia). Dante aveva quindi il desiderio di rendere il testo più largamente
gioviale e raggiungere con la propria opera un pubblico più vasto; 3) il naturale amore per la
propria loquela. Dante mette infatti in luce le potenziali doti del volgare e la dignità della prosa, che
antepone alla poesia (artificiosa, condizionata da adornezze), per il suo carattere più naturale e
spontaneo.
Tutto il cap. XI è costituito da un’invettiva contro “i malvagi uomini d’Italia che commendano lo
volgare altrui e lo loro proprio dispregiano”; è evidente la volontà di promuovere un atteggiamento
culturale nuovo in alternativa all’egemonia delle lingue d’Oltralpe (prestigio del francese esaltato
anche dallo stesso Brunetto Latini in “Tresor”, esperimento di prosa didattica anteriore al Convivio).
Dante spiega poi negli ultimi due capitoli come l’amore per la propria loquela risulti in lui
perfettissimo, in quanto hanno agito in esso, come vuole la dottrina dell’Etica aristotelica, sia le
cause generative di ogni amore, cioè vicinanza e bontà, sia quelle accrescitive, che sono riceverne
beneficio (afferma che il volgare permise ai suoi genitori di unirsi dandogli il supremo dono della
vita ed a lui di entrare in contatto col latino e con la scienza), la concordia di studio (poetando
Dante in volgare, egli concorre alla sua stabilità e quindi alla sua conservazione) e la consuetudine
(l’uso continuo che egli ne ha fatto). Infine, a chiusura del primo trattato, profezia solenne sulla
profonda fiducia nel nuovo mezzo linguistico con istanze di divulgazione e impegno etico: “Questo
sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale sorgerà là dove l’usato tramonterà […]”
L’ampio ragionamento sulla lingua sviluppato da Dante nel Convivio, scaturito dall’esigenza di
difendere la propria scelta a favore del volgare rivendicandone la dignità arriva a toccare alcuni
temi di vasta portata teorica. Tra questi, l’affermazione sull’incessante mutevolezza del volgare, in
quanto strumento plasmato dalla libera volontà dell’uomo, differentemente dal latino (superiore)
che è perpetuo e non corruttibile. A conclusione di questo brano (I v 8-10) che s’inserisce
l’annuncio della imminente composizione del De vulgari eloquentia.

Capitolo 5. Il «De vulgari eloquentia»

La riflessione sulla lingua e la letteratura volgare, già emersa nel Convivio, trova approfondimento
nel De vulgari eloquentia, opera destinata ad offrire una trattazione completa e sistematica del
tema dell’eloquenza, ossia dell’arte di dire, in volgare. L’opera è rivolta ai più alti livelli di utenza e
perciò scritta in latino, e si configura come un’enciclopedia stilistica e linguistica. Essa era volta ad
abbracciare non solo la scala completa dei livelli di stile, ma tutte le varietà d’uso del volgare, dal
più illustre, a quelli inferiori, fino a scendere gradatamente a quello che è proprio di una sola
famiglia (sic!). Il De vulgari sembra essere stato composto in concomitanza con il Convivio, tra il
1304-1305/6, e come esso è rimasto incompiuto. Quanto si possiede sono l’intero primo libro e
circa due terzi del secondo (l’opera era probabilmente destinata a dispiegarsi in quattro libri), e ciò
è comunque sufficiente a proiettare i principi istituzionali della poesia ai suoi più alti livelli in una
riflessione organica sulla lingua che mette a fuoco la realtà dell’epoca e offre una salda valutazione
storico-critica delle letterature romanze inquadrandovi la personale esperienza dell’autore.

LIBRO I: Nella prospettiva filologico-teologica che dopo il proemio dà avvio al trattato, il linguaggio
(locutio, loqui nella sua accezione più astratta) appare come prerogativa esclusiva dell’uomo che
ha avuto il dono divino di poter esprimere i suoi pensieri attraverso il signum, sensibile e razionale.
Esso si trasmette attraverso i sensi (organi vocali e udito) giungendo fino al suo obiettivo più
profondo, la ragione. Solo l’ ebraico tra tutte le lingue continua il primordiale e universale
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linguaggio adamitico (concezione che sarà poi superata nel Paradiso); le altre lingue naturali sono
frutto del peccato e della confusione babelica. La varietà e la mutevolezza delle lingue nel tempo e
nello spazio sono dunque un fatto negativo cui si è cercato di porre rimedio attraverso le lingue
grammaticali come il latino  concezione del latino come lingua artificiale, che i Romani
chiamarono “grammatica”, frutto di studio, posseduta anche dai Greci e da altri popoli, ma sono
pochi quelli che pervengono al suo pieno possesso se non in tempi lunghi e con studio assiduo.
Locutio vulgaris  lingua volgare, quella lingua che i bambini imparano ad usare da chi li circonda
quando incominciano ad articolare i suoni, lingua che riceviamo imitando la nutrice senza bisogno
di alcuna regola. Di queste due lingue la più nobile è, secondo Dante, il volgare perché adoperata
per prima dal genere umano (priorità nel tempo), perché il mondo intero ne fruisce benché sia
differenziata in vocaboli e pronunce diverse (diffusione), perché è naturale (naturalità) mentre il
latino artificiale, regolato. Dante trasforma quindi il binomio “arte-uso” in quello “convenzione-
natura” caricando il secondo termine di segno positivo. Se nel Convivio egli intende celebrare la
superiorità del latino modello d’arte, nel De vulgari, col supporto di dottrine scolastiche che
avvantaggiavano la natura sull’arte, si afferma la superiorità del volgare in quanto strumento
primario della comunicazione tra gli uomini.
In Europa la frammentazione linguistica, conseguente alla confusione babelica, si manifesta in un
idioma tripartito cioè una lingua differenziata in tre rami, a loro volta suddivisi in varietà: il
germanico-slavo, il greco, e un terzo ramo che comprende tre lingue distinte, il provenzale (oc), il
francese (oil) e l’italiano (sì). La parentela tra le lingue romanze affermata sulla base della stretta
concordanza lessicale non implica però la comune matrice latina dal momento che il latino non è
lingua naturale ma artificiale. È piuttosto accaduto quindi che il latino, secondo Dante, abbia tratto
le sue forme dalle lingue naturali viventi, in particolare dal volgare italiano (fattore che attribuisce
ad esso una certa preminenza sulle altre due lingue, nonostante francese e provenzale abbiano
raggiunto l’eccellenza rispettivamente nella prosa e nella poesia lirica). Procedendo dal generale al
particolare l’attenzione si concentra sull’Italia il cui volgare (definito vulgare latium) si suddivide in
14 varietà a loro volta differenziate in una serie infinita di sottovarietà che arrivano a distinguere
anche le zone interne di una stessa città. Questa attenta analisi comparativa delle varietà è per
Dante funzionale ad un intento ben preciso: trovare la lingua migliore, più elegante ed illustre, ma
nessuno dei volgari passati in esame appare degno (compresi i volgari della Toscana, è quindi con
stoltezza che gli abitanti di quella regione rivendicano l’onore del volgare più illustre). Quell’ideale
linguistico che non viene riscontrato quindi in nessuna varietà viene tuttavia realizzato dai migliori
poeti (esperienze degne di lode, contrapposte a quella di natura municipale, degli illustri maestri,
doctores illustres). Questi illustri maestri furono detti siciliani, stretti per la prima volta in una
definizione di “scuola” intesa come “unità di poeti”, non solo siciliani, che fanno capo alla curia di
Federico II e Manfredi. Si afferma che l’attributo di “siciliano” compete a tutto quello che gli italiani
hanno prodotto in fatto di poesia (all’epoca le composizioni dei siciliani erano però note non nella
veste originale ma attraverso il filtro dei copisti toscani). Quanto alla Toscana si distinguono due
gruppi di poeti: da una parte quelli condannati come municipali, rappresentanti della vecchia
scuola (tra cui Guittone), dall’altra gli stilnovisti (tra cui Dante stesso), celebrati per aver raggiunto
l’eccellenza del volgare. Tra i bolognesi, viene elogiato un gruppo di rimatori fra i quali primeggia
Guido Guinizzelli.
Il volgare “ideale” (quello virtualmente presente in ogni città senza appartenere a nessuna) è
positivamente caratterizzato da 4 attributi: illustre (perché diffonde luce, illumina), cardinale (in
quanto perno attorno cui ruota tutta la selva dei volgari municipali), aulicum (regale, perché se gli
italiani avessero una reggia, “aula”, esso apparirebbe in quella sede), curiale (perché conforme alla
curialitas, equilibrata norma dell’agire che si pratica nella curia, costituita da letterati, poeti, uomini
colti, anch’essa mancante in Italia).

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LIBRO II: Quel che resta del secondo libro è dedicato al volgare illustre (vera e propria dottrina
della lingua volgare) che si manifesta attraverso la forma eccellentissima della poesia (riconosciuta
come il genere più alto), ed in particolare della canzone. Competono al volgare illustre solo i temi
sommi, corrispondenti alle finalità supreme dell’uomo (salvezza, amore, virtù) e agli oggetti ad
essa attinenti (armi, amore ardente, retta volontà). Tra le forme metriche spicca per eccellenza la
canzone; fra i versi il migliore è l’endecasillabo; lo stile coinciderà con quello tragico, il più elevato
di tutti (uso estensivo dei termini commedia e tragedia non più limitati all’ambito teatrale). Rigorosa
cernita nella scelta dei vocaboli che eleggerà i termini più nobili (donna, amore, disio, virtute,
donare ecc.) escludendo le voci infantili (mamma e babbo, mate e pate), femminee (dolciada e
placevole), agresti (greggia ecc), cittadine (femina e corpo).
Dante prende in esame la canzone (Donne c’avete intelletto d’amore è proposta in assoluto come
esempio di canzone) come costruzione metrica per indagarne tutti i tratti costitutivi: stanza,
melodia, architettura, versi e rime. A proposito delle rime egli indica come procedimenti da evitare:
l’eccessivo ripetersi del suono di una stessa rima, l’equivocazione e l’asprezza.
In questo secondo libro si infittiscono i riferimenti ai poeti dell’epica e alla propria personale
esperienza.

Il De vulgari eloquentia si arresta bruscamente prima di aver portato a termine il secondo libro. Da
alcuni accenni è possibile intuire alcuni dei temi destinati ad essere trattati nei libri successivi, tra i
quali il più chiaro riguarda il IV libro dedicato allo stile comico e al volgare mediocre e umile.
Intenzione poi di riservare ad un altro libro il tema della prosa illustre (il volgare illustre può infatti
secondo Dante legittimamente manifestarsi in entrambi i generi, poesia e prosa, che hanno pari
dignità). Anche se non esplicitamente come nel Convivio si ritrovano nel De vulgari numerose
autocitazioni (Donne c’avete intelletto d’amore ne è un esempio) e giudizi negativi su alcuni suoi
predecessori, in primo luogo Guittone. Il De vulgari assume un ruolo preciso all’interno
dell’itinerario dantesco ponendosi in stretto rapporto con la produzione lirica (periodo d’ispirazione
stilnovistica). La stessa brusca interruzione dell’opera può trovare infatti una sua coerenza nel
dinamismo interno all’itinerario artistico di Dante: nell’esaurirsi cioè di quella produzione lirica che
ne aveva ispirato le teorie, e nell’affacciarsi della Commedia, radicalmente nuova dal punto di vista
linguistico e stilistico. Il De vulgari è profondamente radicato nell’esperienza personale dell’esilio,
che permette a Dante di cogliere sul campo le tante facce del plurilinguismo italiano. Legame
strettissimo tra De vulgari e Convivio: l’ampia teoria sul linguaggio del tratto latino (che trova
fondamento in un principio aristotelico-tomistico) permette a Dante di reinterpretare la sua
esperienza di poeta lirico amoroso alla luce di un supremo ideale, il volgare illustre.
Il De vulgari acquista ruolo fondamentale sia in rapporto alla cultura medievale sia alla storia del
pensiero linguistico inquadrandosi come un’opera eccezionale per la novità dei temi affrontati, la
ricchezza delle argomentazioni e l’ originalità dell’impianto, che lega organicamente temi di filosofia
del linguaggio, storia linguistica, retorica, storiografia e critica letteraria. Dante rielabora numerose
fonti, da quelle bibliche a quelle enciclopediche e teologico-filosofiche, ma le sue riflessioni si
rivelano comunque innovative e sorprendenti per la loro modernità  principio di mutevolezza
delle lingue parlate nel tempo e nello spazio, teoria sugli idiomi volgari europei (di grandissimo
rilievo), tentativo di classificazione e descrizione delle varietà italiane (cui si attribuisce il merito di
aprire la strada alla moderna indagine dialettologica). L’Italia dialettale delineata da Dante (pur con
evidente intento parodistico), non ha precedenti a noi noti e offre una scorta di importanti
informazioni fonologiche, morfosintattiche e lessicali sulle varietà del paese. Al De vulgari
eloquentia viene tradizionalmente riconosciuto un ruolo istituzionale nell’ambito della storia
linguistica italiana anche per quanto concerne la formazione di una lingua letteraria comune e il
dibattito a essa inerente  l’opera per la prima volta propone in termini problematici una riflessione

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sulla situazione linguistica italiana e il suo policentrismo, proclamando l’esigenza di un ideale


unitario  (viene perciò assunta come prima tappa della lunghissima “Questione della lingua”!!).
Dante infatti, traendo stimolo dalle altre lingue romanze, promuove la letteratura nella lingua
materna con l’intento di costruire una linea letteraria italiana non subalterna alle altre letterature. Il
fatto che tale lingua letteraria (una lingua del si scritta e parlata ai confini dell’Italia) si configuri in
termini anti-municipali nulla toglie al significato profondo di questa azione, ovvero l’acquisizione di
una lingua unitaria.
L’opera rimase pressoché sconosciuta per tutto il Medioevo ma balzò in primo piano nel
Cinquecento; fu guardata con disagio e sospetto dai fiorentinisti per l’atteggiamento di severità che
emerge in Dante relativamente ai volgari toscani.

Capitolo 6. Il linguaggio poetico dalle liriche della gioventù a quelle della maturità

Intricata situazione relativa alla trasmissione dei testi  numerosi problemi di attribuzione,
cronologia, ricostruzione  ripercussioni sulla veste linguistica dei componimenti valutata in stretto
rapporto alle modalità attraverso cui il testo è pervenuto. Rime: non ebbero un’organizzazione
unitaria, ci sono pervenute attraverso una tradizione disomogenea e disforme. Vita Nova: (trentun
componimenti) doppia tradizione, inorganica e organica. Convivio: (tre canzoni) duplice tradizione.
Il complesso della lirica dantesca ha un valore importantissimo: eterogeneità e ricchezza di
sperimentazioni testimoniate anche sul versante metrico (sonetti, sonetti doppi, canzoni, stanze di
canzoni, ballate)  illumina sulla formazione di Dante e sul lungo percorso poetico che lo ha
accompagnato nel ventennio prima della Commedia e che in essa si riflette.

1. Prime rime: da riconoscere nei sonetti indirizzati a Dante da Maiano, in Rime (i più arcaici), in
molti altri componimenti fra cui probabilmente la canzone La dispietata mente (Rime), in Non me
poriano zamai far emenda (Rime), e nel primo sonetto della Vita Nova, A ciascun’ alma persa. Si
inseriscono con coerenza nel panorama della produzione poetica toscana della seconda metà del
Duecento, di stampo guittoniano, di cui riprendono temi, modi e strutture linguistiche, presenza di
sicilianismi e gallicismi. I modelli tradizionali si ravvisano in particolar modo nel sonetti a Dante da
Maiano dove abbondano i giochi verbali, le ripetizioni, le rime ricercate, equivoche e composte.
Tuttavia, Dante fin dall’inizio della sua carriera tende a superare gli schemi convenzionali della
lirica dell’epoca evitando i sicilianismi insistiti, la fitta ripetizione di rime e i versi brevi.

2. Momento stilnovistico: piena manifestazione nelle liriche confluite nella Vita Nova e le prime due
canzoni filosofiche del Convivio. Può essere considerato la fase “classica” della poesia di Dante,
cui egli stesso fornisce una sistemazione teorica nel De vulgari eloquentia  nuovo atteggiamento
linguistico. Liriche più alte e famose: la canzone Donne c’avete intelletto d’amore (Vita Nova,
riconosciuta dallo stesso Dante nel De vulgari come esempio di componimento dalle supreme
qualità della canzone tragica), il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare (Vita Nova, Rime).
Parole-chiave dello stilnovismo dantesco (voci appartenenti al lessico di uso comune): donna,
amore, core (in assoluto i più frequenti), occhi, pietà, anima, mente, spirito, cielo, morte, pensiero,
viso, gli aggettivi gentile, dolente, novo, amoroso, bello, degno, pensoso, soave, umile, i verbi dire,
fare, vedere, venire, piangere, andare. Essi si accordano e in parte coincidono con i nove vocaboli
citati nel De vulgari e raccomandati per la loro capacità di lasciare soavità a chi li pronuncia
(amore, donna, disio, virtute, donare, letitia, salute, securtate, defesa).
Caratteristiche: rari gli usi metaforici e scarse le similitudini, rime poco vistose, componente
siciliana sopravvive solo in quelle forme più saldamente acquisite (scopare saccio, evitato aggio),
gallicismi ridimensionati ma ancora abbastanza numerosi, ridotta anche la componente

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latineggiante, lessico profondamente rinnovato, sintassi limpida e lineare, presenza delle


consecutive forti anticipate da avverbio o aggettivo nella sovraordinata (costrutto tipico della
tecnica stilnovistica, si riscontra anche in Cavalcanti)  soluzioni che si stabilizzeranno nella futura
poesia italiana. Da attribuire alla scuola stilnovistica (ed in particolar modo a Cavalcanti)
l’importante opera di decantazione dei risultati delle scuole precedenti e fissazione del fiorentino
letterario, ma è in primo luogo attraverso Dante e la sua lirica che l’esperienza stilnovistica filtrerà
nella tradizione poetica successiva.

3. Superamento della fase stilnovistica: anni della maturità, soluzioni stilistiche (forti ed esasperate)
assai diverse in contrasto con la poetica delle rime dolci e soavi e con quanto esposto nel De
vulgari eloquentia, ma caratterizzate comunque da alto impegno tecnico-stilistico, protese verso
l’incremento lessicale e maggiore una complessità sintattica.
Sonetti della tenzone con Forese: linguaggio popolaresco e realistico calcato sull’invettiva e
l’improperio.
Cinque sonetti indirizzati a Cino: incremento del vocabolario cortese tradizionale in concomitanza
con lessico concreto, spesso di stampo umile, e terminologia astratta consona ad un argomentare
filosofico.
Quattro canzoni unite al gruppo delle “petrose”: marcato realismo (più termini concreti rispetto agli
astratti, differentemente dalla Vita Nova), lessico concreto metaforizzato (che anticipa la
Commedia), parola corposa e rara ad alta densità consonantica che tende a collocarsi in rima
(tipologia di rime che nel De vulgari erano invece considerate sconvenienti, cioè quelle ripetute,
aspre, equivoche), organizzazione del discorso più complessa, variazioni semantiche (per
mantenere la rima).  es. di canzone con queste caratteristiche: Così nel mio parlar (parola-
chiave pietra utilizzata in maniera metaforica).
Le più significative: canzoni morali Tre donne intorno al cor mi son venute e Doglia mi reca nello
core ardire considerate i due punti d’approdo dell’evoluzione poetica dantesca prima della
Commedia (offrono soluzioni di lingua e di stile assai varie), e la canzone trilingue (latino, francese,
italiano) Ai faus ris, puor quoi trai aves (culmine dello sperimentalismo formale che caratterizza
l’itinerario poetico di Dante)..

Capitolo 7. L’esperienza (dantesca?) del «Fiore» e del «Detto d’amore»

In posizione decentrata rispetto al profilo del linguaggio poetico dantesco (ma che potrebbe
rientrare nel quadro del suo sperimentalismo formale) si collocano i due poemi Il Fiore e Detto
d’amore la cui attribuzione a Dante suscita delle riserve ma è stata avvalorata da Contini.
Ammettendo la paternità dei due poemi a Dante si pensa essi rientrino tra le opere giovanili poiché
caratterizzati da una tecnica poetica presto superata e sconfessata. I due poemi si configurano
comunque come esperienze di grande interesse nel quadro delle vicende linguistiche della
toscana due-trecentesca. Entrambi, tramandati da un unico testimone ritenuto dei primi del
trecento e di mano fiorentina, rappresentano delle singolari prove di rielaborazione del materiale
del Roman de la Rose (poema allegorico scritto nel Duecento).

Fiore: più ampio, abbondantissimo numero di francesismi ma innestati su di una struttura


fonomorfologica fiorentina, la componente francesizzante si impone anche a livello fonetico e
talvolta sintattico (tali caratteristiche inducono alcuni studiosi a pensare che il poema sia stato
scritto da uno di quei fiorentini le cui attività avevano sede in Francia e per cui la Francia era come
una seconda patria). Non mancano voci che trovano corrispondenza in testi mercantili. È tuttavia

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possibile cogliere il legame con la lirica siciliana e siculo-toscana (frequente il ricorso a saccio
ecc.). Testo di natura comica con numerosi usi metaforici.

Detto d’amore: abbondanza di francesismi condivisi dal Fiore e talvolta anche autonomi, ma
presenza insistente di elementi siciliani.
Divergenti i sistemi ritmici dei due poemi. In Fiore le rime sono frettolose e poco curate
(prerogativa del sonetto comico) mentre in Detto d’amore sono virtuose e trattate con massimo
grado di attenzione (sul modello della lirica toscana, in particolare di Guittone).

Capitolo 8. La prosa della «Vita Nova» e del «Convivio»

La prosa di Dante è testimoniata dalla Vita Nova (1992-95 circa) e dal Convivio (1304-07 circa),
opere che ci sono giunte attraverso copie lontane dall’epoca di composizione e, nel caso del
Convivio, caratterizzate da un alto grado di corruzione. Non è possibile dunque attuare una sicura
ricognizione della prosa dantesca in particolare per quanto concerne il suo aspetto
fonomorfologico. Sono due opere profondamente differenti a livello di contenuto e ambizioni con
risultati originali rispetto alla prosa tradizionale.

Vita Nova: la prosa della Vita Nova ha l’intento di “aprire la ragione”, chiarire l’intento sotteso alle
liriche, sul modello del prosimetro medievale (componimento misto di prosa e versi il cui
capostipite si ravvisa nel Consolatio Philosophiae di Boezio). Il termine stesso “ragione” è talvolta
utilizzato da Dante come tecnicismo corrispondente a “prosa”, “didascalia esplicativa” (dal
provenzale razo). Caratterizzata da un andamento tra il contemplativo e il pensoso, elementarità
espressiva, tono rarefatto, musicalità interna. Carrai ne ha proposto una lettura in chiave di elegia
(genere che nel medioevo volgare poteva trascorrere dalla poesia alla prosa), non si possono
tuttavia negare alla prosa di quest’opera movenze e aspetti propri connessi ai diversi modi in cui
essa assume la sua funzione chiarificatrice: ora narrando le poesie, ora illustrandone le
componenti secondo gli schemi della tradizione esegetica, ora facendo dichiarazioni e digressioni
sull’arte poetica.
Sul piano del LESSICO  tratto caratterizzante della prosa rispetto alla poesia è la forte presenza
di latinismi che non hanno riscontro nel corrispondente linguaggio lirico. Un termine di grande
interesse è ineffabile che fa il suo ingresso nel volgare proprio attraverso la Vita Nova. Esso è
usato come riferimento (del tutto nuovo) alla donna, attribuito alla cortesia di Beatrice che porge a
Dante il suo saluto beatificante. È da considerare come latinismo proprio della prosa anche il
superlativo assoluto in –issimo (amarissima, gentilissima, grandissima ecc.) di cui Dante fa largo
uso. Tendenza verso le forme e i costrutti elativi testimoniati anche dall’ insistente ricorrere di voci
come meravigliarsi, meraviglia, meraviglioso. Aumentano i termini concreti, i termini specialistici
(come farnetico, farneticare che rimandano all’ambito medico); tendono invece a ridursi le
componenti galloromanze e lirico-siciliane. Riduzione dei suffissati in –anza meno acclimatati
(allegranza, dottanza ecc.) Passa alla prosa gabbare “ingannare, schernire” , mentre di pertinenza
solo poetica è il sost. gabbo. Il sicilianismo disio, disiare cede a desiderio, desiderare.
SINTASSI si inquadra nella tradizione della prosa narrativa toscana da cui riprende certi
procedimenti espositivi: analiticità e linearità (andamento narrativo per “blocchi” o “scomparti”).
Subordinate ripetitive, tra gli andamenti reggenti insistenza di mi parea, parve, io dico, vedea,
avvenne. Tendenza alla ripetizione talvolta anche accompagnata da giochi etimologici (es. queste
parole che io parlo, salute salutava). Gli avverbi temporali spesso aprono i capitoli (fanno pensare
agli avvii ricorrenti nel Vangelo), presenza di costruzioni infinitive (es. converrebbe essere me
laudatore, io ponga amore essere corpo, che stabiliscono continuità con la prosa duecentesca),
varie le forme di inversione (in particolare del soggetto), dense concatenazioni di relative (es. la
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quale..), abbastanza frequenti le strutture paraipotattiche (quando il periodo inizia con una
subordinata e termina con una principale ad essa legata, generalmente con una congiunzione “e”
o “si”, es. s’io dissi falso, e tu falsasti conio).
Notevole incidenza delle consecutive forti, ampiamente utilizzate dagli stilnovisti e da Dante in
particolare per descrivere gli stati di beatitudine e sofferenza provocati dall’amore (esemplare il
loro susseguirsi nel racconto della prima apparizione di Beatrice).
La sintassi è dominata da coordinazione ma non mancano (vedi sopra) procedimenti di natura
ipotattica che preannunciano gli sviluppi assai più complessi del Convivio.

Convivio: diverso il carattere della prosa del Convivio rispetto alla Vita Nova (fervida e passionata),
Dante stesso definisce l’opera più matura, temperata e virile. L’intento è quello di fornire il
commento a tre canzoni allegoriche e dottrinali ma la trattazione in prosa tende poi a svilupparsi
poi in modo sostanzialmente autonomo (diversamente da quanto accade nella Vita Nova dove
ritroviamo simbiosi prosa-poesia).
LESSICO  se nella Vita Nova era tutto imperniato sul tema amoroso e sulla celebrazione di
Beatrice, nel Convivio subisce un forte incremento quantitativo e qualitativo. Si ritrovano una
miriade di termini appartenenti al lessico intellettuale, scolastico (ma non solo) molti dei quali per la
prima volta ricevono una consacrazione letteraria. Attraverso il Convivio entrano in circolazione
termini (latinismi) che designano i concetti fondamentali della metafisica, della gnoseologia,
dell’etica e della logica di cui Dante sembra offrire in assoluto la prima attestazione volgare (es.
essere, essenza, forma, atto, cagione, principio, materia, sustanza, intelletto ecc.). Insieme ad
ineffabile (Vita Nova) si introduce il sost. ineffabilitade e in entrambi i termini si riconferma
l’allusione alla donna (la donna gentile che nelle canzoni allegoriche incarna la filosofia) accanto a
quello tradizionale mistico-religioso. Hapax interessante è amicizia (il termine comune era amistà,
amistade). È un latinismo lo stesso titolo dell’opera (Convivio = banchetto), non del tutto nuovo alla
tradizione volgare ma inconsueto. Moltissimi gli aggettivi in –issimo, -abile, -ibile, -evole, -ale, -ivo,
utilizzati in larga misura in voci dotte. Al polo opposto è pure significativo l’apporto del lessico
comune, di stampo realistico (es. gallina, tetta, zappa, e nomi di mestiere spadaio, sellaio,
scudaio). Talora i termini di ambito dotto (termini della geometria, medicina ecc.) sono affiancati da
un corrispondente d’uso comune, popolare, introdotto da una congiunzione esplicativa (es.
magnificare, cioè fare grandi). Abbondanza di usi metaforici a partire da quelli relativi al banchetto,
che danno il titolo al trattato; traslati e similitudini investono voci come mensa, cibo, pane, vivanda,
gustare, e verbi che si riferiscono al cibo legati al gusto e al processo digestivo.
SINTASSI trova il suo costante punto di riferimento nel latino (la lingua del Convivio si lega infatti
alla prosa latina della Monarchia). L’opera assimila quindi alla prosa volgare l’esperienza della
prosa latina. La strategia sintattico-argomentativa della prosa del Convivio si ha nel cosiddetto
periodo a “festone” (prendendo avvio con una congiunzione che si riferisce alla principale, il
periodo si inarca in una serie di proposizioni secondarie, per lo più di tipo causale, per poi
concludersi pienamente con la principale o con un suo prolungamento (vedi es. pag. 80). Oltre alle
causali, hanno larga diffusione le concessive introdotte sia da congiunzioni (fra cui il latinismo etsi)
sia dalla formula avvenga che, le relative, le frasi ipotetiche, le comparative, i costrutti latineggianti
come le dichiarative prolettiche, le infinitive preposizionali sul modello delle gerundive latine, le
oggettive con accusativo + infinito, gli ablativi assoluti, le inversioni ecc. Regressione della
paraipotassi (costrutto antilatino). Frequente ricorso ad elementi enfatici come esclamazioni e
interrogative retoriche.

LA «COMMEDIA»

Capitolo 9. La «Commedia» e il suo plurilinguismo


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Superamento di quanto teorizzato in fatto di lingua e di stile nel Convivio e nel De vulgari
eloquentia. Definizione del termine  Il termine stesso Comedìa (che per due volte nell’Inferno
Dante attribuisce al poema) in parallerlo con Tragedìa (che designa, attraverso le parole di Virgilio,
l’Eneide) è difficilmente interpretabile alla luce della gradazioni dei livelli di stile sanciti da Dante nel
De vulgari eloquentia. In tale opera, infatti, Dante dichiara che il “comico”, cui si addice il volgare
mediocre e umile, si trovi in posizione intermedia fra il supremo stile tragico (che si esprime nel
volgare illustre, adatto alla lirica della canzone) e lo stile elegiaco (componimento lirico di tono
malinconico che assume solo il volgare umile). Pare dunque che il “comico” della Commedia
assuma un’accezione diversa rispetto a quanto dichiarato nel trattato latino. Nell’ Epistola a
Cangrande (secondo decennio del Trecento, attribuito dalla maggior parte degli studiosi a Dante)
distinzione contenutistica tra commedia e tragedia. Il termine Comedìa è giustificato sulla base del
felice esito della vicende (il poema termina infatti in Paradiso) in contrasto con la tragedia
(caratterizzata da un’evoluzione drammatica degli eventi). Il mezzo espressivo viene qui definito
dimesso e umile in quanto si tratta del linguaggio volgare nel quale comunicano anche le donnette.
Distinzione contenutistica che non è però coerente con l’attributo di tragedia conferito all’Eneide;
inoltre, l’allusione al linguaggio delle donnette pare poco consona a designare la lingua del
Paradiso. Permane quindi un certo disagio di fronte alla definizione di Commedia, lo stesso
Boccaccio dichiarò che tale nome non gli parve appropriato allo stile dell’opera. Rejna (1921)
ipotizza un cambiamento d’indirizzo durante l’elaborazione del poema sia per quel che riguarda lo
stile sia per il contenuto, concepito in origine come semplice commedia e poi diventato
qualcos’altro. Secondo Baldelli, rispetto al De vulgari, si verificherebbe uno slittamento della
definizione di “comico” sul piano dello stile e su quello della lingua adottata, da qui una nuova
poetica del comico come volgare realizzato al suo massimo grado (poiché capace all’occorrenza di
adeguarsi anche ai registri espressivi più alti).
L’attributo Divina  non ci sono dubbi che l’attributo sia stato aggiunto soltanto nel Cinquecento a
partire dall’edizione curata da Ludovico Dolce (Boccaccio fu il primo tuttavia a sottolineare con
quest’aggettivo l’eccellenza del poema). Il titolo del poema è stato poi opportunamente ristabilito in
Commedìa o Comedìa (alternanza fra nasale scempia o geminata ma la pronuncia pone sempre
l’accento sulla i)
La riflessione di Dante sulla continuità fra la grande tradizione latina e la sua opera (in particolare
fra la tragedia latina di Virgilio e la propria commedia volgare) acquista un rilievo centrale anche
dal punto di vista teorico-linguistico. Essa è innanzitutto spesso proclamata nel corso del poema (è
infatti uno dei più importanti temi su cui si incentra il canto XX dell’Inferno) e sottolineata poi anche
a livello terminologico  il verbo cantare è adottato con perfetto parallelismo sia per indicare la
tragedia virgiliana sia la commedia dantesca; significativo l’uso dei termini poeta, poema, poetare:
nel Paradiso la Commedia viene infatti designata come sacrato poema o poema sacro (Macrobio
aveva cosi definito la tragedia virgiliana). Per contro, attraverso le parole di Virgilio stesso, l’Eneide
viene indicata con il termine rima, che è proprio della poesia volgare. All’interno del poema si
riscontrano 30 attestazioni della parola poeta, 29 si riferiscono ai poeti classici e l’ultima a Dante
stesso il quale, grazie al poema sacro, si sente degno di essere unito nel nome e nella fama ai
grandi poeti latini (pur scrivendo in volgare).
Riflessione sulla mutevolezza delle lingue  In contrasto con la teoria espressa nel De vulgari
eloquentia, secondo la quale l’ebraico sarebbe restato l’ininterrotto continuatore del primitivo e
universale linguaggio assegnato da Dio all’uomo (immutabilità), nel Paradiso Dante dichiara invece
la mutevolezza di ogni lingua, compresa quella di Adamo, anch’essa creazione umana (XXVI,
Paradiso). La mutevolezza naturale delle lingue non è più intesa come effetto della punizione
babelica ma come carattere costitutivo di ogni lingua in quanto tale (la lingua di Adamo non è
meno tramutabile del volgare di cui è costituita la commedia).
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Nel viaggio dantesco il volgare è dunque chiamato a descrivere sia il mondo umano sia il divino (la
metafisica), adeguando via via i propri mezzi alla materia trattata in base al principio della
convenientia desunto dalla retorica classica e già posto nel De vulgari eloquentia a fondamento
della distinzione tra i livelli stilistici. Fra il comico esasperato dei canti infernali e il tragico
paradisiaco viene utilizzata una vastissima gamma espressiva (dolce, soave, aspra, dissonante,
elegiaca, realistica, lirica, l’invettiva, la profezia ecc.) dando luogo ad una lingua che rompe gli
schemi delle poetiche anteriori per cui si è soliti utilizzare i termini  multilinguismo, plurilinguismo
(Contini). La mescolanza degli stili percorre tutto il poema, fra gli episodi che permettono di
cogliere al massimo questa dialettica l’incontro con Adamo (Inferno, vedi antologia testo 4.1),
mentre per il linguaggio comico-realistico basti ricordare il discorso con Cacciaguida (Paradiso
XVII 129). Tuttavia, con la sua ricchezza e versalità espressiva la Commedia l’opera è saldamente
ancorata alla realtà linguistica della Firenze degli ultimi decenni del Duecento (anni della
giovinezza, prima dell’esilio) e risulta nel suo insieme l’opera più fiorentina di Dante per quanto
riguarda la sua struttura fonetica, morfologica, sintattica e nel lessico fondamentale.

Capitolo 10. Fonologia e morfologia della lingua della «Commedia»

Arrivare a stabilire il testo della Commedia mettendo ordine tra i manoscritti che la tramandano
(spesso non autografi) ha costituito uno dei problemi più spinosi della filologia moderna sul quale
la discussione è ancora aperta. La lingua della Commedia si sottrae infatti a un’analisi esaustiva e
l’originario aspetto fonomorfologico è destinato a rimanere in parte occultato. Un doveroso
atteggiamento di cautela ha quindi tradizionalmente indotto la critica (fin dallo studio di Parodi,
1896) ad attribuire particolare valore alle parole in chiusura del verso dal momento che il vincolo
della rima offre garanzia di rispetto dell’originale. Tale metodo si conferma ancor oggi come il più
affidabile, tolti i casi in cui compare la rima imperfetta (es. il tipo siciliano: e chiusa in rima con i, o
chiusa in rima con u).

Edizioni tra le più importanti (che non possono comunque garantire una veste linguistica fedele):
La commedia secondo l’antica Vulgata, Petrocchi (risultati di portata storica e punto di riferimento
imprescindibile); Barbi; Parodi; la Commedia curata da A. Lanza (1996); l’edizione di Federico
Sanguineti; l’edizione curata da Giorgio Inglese.

Caratteristiche  la lingua della Commedia nelle sue componenti fonomorfologiche appare


aderente al tipo fiorentino degli ultimi decenni del XIII secolo (vedi cap.2). Esempi di tale aderenza
sono: an in sanza; e finale in diece, dimane; stamane; il comune esito toscani [ggj] di –GL- in
tegghia, stregghia, mugghiare ecc.; il mantenimento di e tonica in iato nelle forme del congiuntivo
dea, stea; la desinenza della forma in –a della 1 pers.sing dell’imperfetto indicativo; la forma di 2
pers.sing. del presente indicativo sé in luogo del moderno sei; negli avverbi in –le+mente si ha
contrapposizione tra il tipo naturalmente (quasi costante) e similmente/similemente (in alternanza).
Il fiorentino si presenta comunque nella sua dimensione più ampia e articolata, Dante sfrutta infatti
tutte le possibilità di una lingua che si presenta ricca di varietà diastratiche e diafasiche, che si
configura come un sistema altamente dinamico che ha maturato e sta maturando al suo interno
tratti evolutivi rispetto all’epoca più antica. Morfologia verbale  alternanze relative ad alcuni tipi
desinenziali (vedi pag. 102-103) che rappresentano tutte dei tratti evolutivi interni al fiorentino nella
fase che va dagli ultimi decenni del Duecento agli inizi del Trecento. Tuttavia, propensione dell’uso
dantesco verso elementi tradizionali, anche veri e propri arcaismi (l scempia nelle preposizioni
articolate davanti a parole che iniziano con consonante es. ne la via); occorre tenere presente che
la circostanza dell’esilio abbia naturalmente “arretrato” il fiorentino di Dante ancorandolo alla fase
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duecentesca. Spiccano nella morfologia verbale anche alcune forme non fiorentine di grande
rilievo stilistico-espressivo, per lo più occidentalismi. Fonologia  Più rari gli occidentalismi
fonologici (es. fersa “sferza”, sibilante in luogo della affricata alveolare); presenza di altre forme
non fiorentine ma più in generale toscane, umbre e settentrionali.
La solida fiorentinità strutturale della lingua della Commedia è comunque aperta a contributi esterni
 latini (alternanze innumerevoli tra littera e lettera, licito e lecito; faci “fai” face “fa” interpretabili
come latinismi ovvero come forme di ascendenza lirico-siciliana), siciliani (forme come
canoscenza al posto di conoscenza e, in campo morgolofico, il tipo aggio, il condizionale in -ia),
galloromanzi (dispitto e respitto con i tonica al posto di e); questi possono anche convergere tutti in
un medesimo esito (es. assenza del dittongo in forme come fera, vene, core, novo ecc.)

Capitolo 11. Il lessico della «Commedia»

Per quanto riguarda il lessico la componente di base fiorentina è accolta in tutte le sue varietà, da
quelle più auliche a quelle più colloquiali e più basse, il che comporta anche il pieno recupero di
quelle voci condannate nel De vulgari eloquentia fra cui manicare e introcque e la cosiddetta
puerilia (mamma e babbo), silvestria (greggia e cetria), urbana lubrica et reburra (femina e corpo).
Inferno/ Purgatorio  Il fiorentino nei suoi livelli più realistici e popolari tocca il culmine nella
rappresentazione del mondo infernale, dove Dante ammette parole e cose mai trattate in
letteratura, vocaboli di pregnante concretezza, voci che suonano basse e plebee, veri e propri
idiotismi fiorentini (si pensi ai canti di Malebolge). Un lessico corrente di ambito popolare e
furbesco si ritrova nei dialoghi fra i demoni, così come voci oscene di grande drammaticità (gesto
offensivo di Vanni Fucci “Le mani alzò con ambedue le fiche”) e versi di cruda descrittività.
Anche attraverso gli squarci di linguaggio comico-realistico che si aprono nel Purgatorio e nel
Paradiso non mancano le voci prettamente “basse” come ad esempio bozzacchione “susina
deformata e guasta”, parroffia “parrocchia”, rogna.
I latinismi presenti nell’Inferno si pongono sempre in rima con parole realistiche.
Paradiso  parabola di ascesa dei latinismi (di origine scritturale e classica, o desunti da fonti
enciclopediche e lessicografiche) che s’infittiscono e raggiungono il loro apice nella terza cantica in
concomitanza con l’innalzamento del livello stilistico e il prevalere di strutture tematiche di natura
filosofica e teologica. Tuttavia, anche laddove la tematica non sia di natura filosofica i latinismi
intervengono per dare solennità allo stile. Sono particolarmente vistosi i latinismi di prima mano
(sconosciuti alla tradizione precedente) talvolta anche caratterizzati da forme insolite e timbri aspri;
alcuni di essi sono divenuti comuni proprio grazie all’impiego dantesco (es. fertile/ferace, molesto/
mesto, quisquilia “impurità”, “elemento superfluo”). Termini invece che in un primitivo uso dantesco
avevano un tono assai elevato assumono nella Commedia una connotazione più comune e
vulgata attenuando il loro significato originario (eccellente, egregio, illustre, puerile, profano,
magnificare).
I latinismi presenti nel Paradiso tendono a formare delle serie rimiche con altri latinismi
estremamente letterari.
Voci scientifiche e tecniche  sono innumerevoli, in gran parte costituite da cultismi anche se non
mancano cospicui apporti di lessico popolare (ad es. nel campo della medicina). Particolarmente
numerosi i termini appartenenti all’astronomia; molti i termini della matematica e della prospettiva
(nella quale sono inglobate ottica e scienza prospettica); presenti anche il linguaggio medico e
della musica, più altri tecnicismi. Non di rado la terminologia tecnica è utilizzata in senso traslato o
impiegata in contesti metaforici e in similitudini (es. letargo, termine medico che denota stato
patologico di sonnolenza e amnesia, usato metaforicamente per indicare dimenticanza e oblio).
Occhio è il sostantivo più frequente in tutto il poema (263 occorrenze, interesse di Dante per l’atto
visivo nei suoi aspetti fisici, visione culminante di Dio), seguito da mondo (143 occorrenze).
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Un certo numero di vocaboli scientifici utilizzati sono costituiti da grecismi, i quali comunque
vengono sempre desunti da fonti latine. Il greco a quell’epoca era ancora ignorato in Italia, ma
Dante, pur non conoscendolo, si spinge addirittura a tentare alcune neoformazioni. Altri tecnicismi
sono di origine araba, già tradizionalmente assimilati alla cultura medievale attraverso le traduzioni
latine.
Tra le altre voci che concorrono ad arricchire la varietà lessicale della Commedia ritroviamo
numerosi gallicismi (sostantivi provenzaleggianti in –anza; è un gallicismo anche bolgia; non
mancano inoltre voci influenzate semanticamente dal francese ad es. argento inteso come
denaro), che contribuiscono a nobilitare il livello stilistico dell’opera specie dove la materia è alta e
complessa (piuttosto limitati nell’Inferno e nel Purgatorio essi vengono incrementati nel paradiso).
Un sicilianismo lessicale che si è stabilizzato nel lessico poetico è disio, disiare, che domina
rispetto alla variante gallicizzante disire,disirare e all’ancora più raro desiderio,desiderare.
I dialettalismi, tra cui i più sicuri sono quelli introdotti da Dante intenzionalmente per fini mimetico-
espressivi, si colgono in alcune voci concrete legate a determinati ambienti operativi (es. quelle
inserite nella rappresentazione dell’arsenale veneziano, altre voci relative al lessico nautico
dell’Adriatico ecc.)
Ultima ma non secondaria fonte di arricchimento lessicale si deve all’inventiva di Dante che,
mosso dalle proprie esigenze espressive, conia vari neologismi in particolar modo nel Paradiso. La
maggior parte delle coniazioni è costituita da formazioni verbali con prefisso in- (inurbarsi,
infuturarsi, imparadisare, ecc.) che si applica anche a sostantivi, aggettivi, avverbi, pronomi
personali. Altri prefissi sono a-/di-/tras-. L’inventiva dantesca investe anche i nomi propri,
manifestandosi nella sua forma più creativa nella designazione dei luoghi e dei personaggi infernali
(es. diavoli dell’inferno: Malebranche, Malacoda, Scarmiglione, Barbariccia, Cagnazzo,
Draghignazzo, ecc.). Tali nomi sono stati inventati da Dante sulla base di termini comuni che,
modificati, acquistano un significato allusivo alle qualità fisiche e caratteriali delle varie figure
demoniache. Secondo alcuni, Dante potrebbe essersi liberamente ispirato anche a cognomi
esistenti in Toscana. I nomi propri di cui la Commedia è ricchissima spesso ricorrono alla fine del
verso, irradiando, soprattutto nell’Inferno, rime difficili o aspre che generano immagini e metafore di
grande tensione espressiva. Al polo opposto, in Paradiso, la solidarietà con i valori spirituali è resa
ancora più incisiva dall’allusione etimologica.

Capitolo 12. L’allotropia della «Commedia»: aspetti stilistici

L’abbondanza di allotropi, voci (varianti) che pur con la medesima origine e medesimo significato si
presentano formalmente diverse2, costituisce una prerogativa di grande rilievo della lingua della
commedia3. Tale propensione per le varianti dipende anche da esigenze di tipo puramente tecnico
come la rima e il metro del verso. Le scelte dantesche tuttavia hanno più spesso un valore
stilistico-espressivo. Tra le forme latineggianti e le forme popolari, sono più spesso le prime ad
imporsi sulle seconde con l’evidente scopo di nobilitare il linguaggio (es. lauro in luogo di alloro è
messa in bocca a Virgilio). Talvolta la forma latineggiante è capace di evocare l’originale valore
semantico (es. labore, rispetto a lavoro, insiste sul senso di “fatica”) o di rimandare a significati
metaforici. Anche l’alternanza fra le varianti di origine galloromanza e le corrispondenti voci
indigene denota talora una scelta stilistica: ad es. all’Inferno Dante usa vecchio per indicare
Caronte, nel Purgatorio veglio per indicare Catone, nel Paradiso entrambi i termini lasciano il posto
alla superiore dignità formale del latinismo sene. Il francesismo mangiare, da tempo acclimatato
2
L’allotropia può essere solo morfologica (parole formalmente diverse ma con lo stesso significato) o anche semantica
(significato diverso).
3
Non sono qui presi in considerazione gli allotropi che pur avendo la medesima origine hanno sviluppato un’evidente
diversità di significato (esempio/scempio; fuga/foga ecc.)
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nel lessico toscano, si alterna con il tipo indigeno manicare (citato nel De vulgari come
popolarismo fiorentino) e, in veste più aderente al latino, manducare (forme con maggiore carica
espressiva, manicare e manducare sono utilizzati nell’Inferno). Alternanza fra
suora/sorella/serocchia, le prime due forme sono del tutto inconsuete nel fiorentino dell’epoca che
ha normalmente serocchia, ma Dante preferisce suora o sorella ed è certo che questo abbia
contribuito a decretare la fortuna di sorella nell’italiano letterario. Analogo il caso di rana che Dante
ha preferito rispetto a ranocchio. L’allotropia interessa anche i nomi propri, soprattutto quelli
classici o biblici, la cui forma può ubbidire a una tradizione latina, fiorentina, o alloglotta
rispondendo alle necessità metriche ma anche al contesto evocato.

Capitolo 13. Dialettalità e inserti alloglotti nella «Commedia»

Presenza di vocaboli e inserti alloglotti che vengono consapevolmente usati da Dante per indicare
la lingua di alcuni personaggi attraverso i quali si possono cogliere i dialettalismi veramente sicuri e
inequivocabili presenti nella Commedia.
Es.  in luogo all’avverbio ora si ha il lucchesismo issa nel discorso di Bonagiunta Orbicciani, e
istra nella frase attribuita a Virgilio da Guido da Montefeltro (entrambe forme che derivano da ispa
hora) ; la voce sipa “sia” (congiuntivo presente di essere) con calore di particella affermativa citata
come bolognesismo tipico da Venedico Caccianemico; forma verbale mora nel grido dei
palermitani insorti contro gli Angiò, sicilianismo; il gallicismo giuggiare “giudicare” messo in bocca
al francese Ugo Ciappetta in sequenza con una serie di riferimento toponomastici d’Oltralpe.
Il gusto per la mimesi linguistica porta Dante a inserire nel poema otto versi in lingua provenzale
attribuiti ad Arnaut Daniel, ed ancora il poema si arricchisce con inserti latini che si fanno via via
più frequenti nel passaggio dal Purgatorio al Paradiso, di pari passo con l’innalzarsi del livello
stilistico. Al lato opposto, vanno ricordati i due brani in lingua incomprensibile attribuiti a creature
diaboliche nell’Inferno, per i quali è stata suggerita un’interpretazione in chiave di glossolalìa.

Capitolo 14. Sintassi e stile nella «Commedia»

Per quanto riguarda la sintassi, la Commedia condivide con il fiorentino dell’epoca alcune strutture
che si sono successivamente evolute senza trasmettersi all’italiano  es. posizione del pronome
atono all’interno di frase (quello con funzione di accusativo è sempre preposto a quello con
funzione di dativo come vuole la norma duecentesca. Es. “il mi vieta”, “il mi consento”, “non mi ti
celerà”). È rispettata la legge Tobler-Mussafia che obbliga a porre in posizione enclitica al verbo le
particelle pronominali atone in primo luogo a inizio proposizione sia dopo alcune congiunzioni
come e e ma (es. “Ruppemi l’alto sonno ne la testa”, “e rechiti a la mente chi son quelli”). A tale
legge obbedisce anche il pronome atono unito all’imperativo (es. “Ditemi, voi che si strignete i
petti”).
La fenomenologia sintattica presente nella Commedia è più ricca e multiforme rispetto a quella
delle opere precedenti e ciò vale non solo per i costrutti più presenti, come quelli relativi e
temporali legati all’andamento narrativo del poema, ma anche per altri tipi di proposizioni quali ad
esempio le concessive, che vanno segnalate come un’importante novità nell’ambito del linguaggio
poetico dantesco. Diviene più vasto e articolato anche l’uso del gerundio e dei suoi valori
proposizionali  la lingua della Commedia giunge dunque alla massima maturità e duttilità
sfruttando tutta la gamma di soluzioni disponibili anche sul piano della sintassi.
Oltre alle concessive, che si confanno ad argomentazione di tono elevato, possiamo cogliere al
polo opposto procedimenti che sono tipici dell’uso più spontaneo ossia di una lingua che si
propone come “parlata”: 2/3 del testo sono infatti costituiti da dialogo.

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Presenti alcuni esempi di segmentazione della frase in cui si ha la messa in rilievo di un elemento
tematico (dislocazione a sinistra e a destra). Presenza di che polifunzionale il cui valore complesso
oscilla fra quello di che relativo e che causale (la maggior parte ricorrono nel discorso diretto), a
volte anche modale. Nella Commedia si assiste al recupero della paraipotassi, quasi scomparsa
nella prosa del Convivio (uso tuttavia piuttosto limitato); regresso dei costrutti con l’accusativo e
l’infinito cui si sostituiscono dichiarative di forma esplicita.
Tra le strutture fondamentali del poema dantesco ritroviamo similitudini e metafore le quali
assumono un ruolo assolutamente centrale. Metafore  oltre a ricorrere in voci di ambito tecnico-
scientifico usate in senso metaforico la metafora investe continuamente anche il lessico più usuale
configurandosi come una risorsa essenziale dello stile di Dante (in particolare termini che
assumono valori simbolici relativi alla vita spirituale es. fiori= anime elette, digiuno, fame, cibo, ecc.
, Paradiso). Similitudini  avevano avuto un notevole incremento già nel Convivio. Raro l’uso nelle
liriche. Nella Commedia sono di solito espresse attraverso costrutti comparativi che si presentano
in una gamma vastissima di forme (nominali: come+sostantivo; tipo che si espande in una relativa:
“dirò come colui che piange e dice”; forme proposizionali che consentono di sviluppare parallelismi
più ampi ed elaborati come analogia fra due proposizioni ecc.). Non di rado le similitudini possono
dilatarsi in periodi di eccezionale lunghezza.
Altra componente di primaria importanza è la ripetizione  già molto presente nelle opere
precedenti. Si tratta di ripetizioni che possono variare dalla ripetizione della stessa parola
all’interno del verso a quelle che coinvolgono l’inizio di più versi o più terzine.
Largamente presenti anche le allitterazioni.
La rima nella Commedia è comunque sede privilegiata dell’inventività linguistica dantesca,
depositaria di elementi fonomorfologici e e soprattutto lessicali di forte impatto innovativo, fulcro da
cui si irradiano situazioni stilistiche tese e fortemente espressive. Nel ricchissimo repertorio di rime
della Commedia (753) vediamo quindi confluire tutte le diverse tipologie rimiche già esperite
nell’itinerario poetico anteriore: dalle rime piane di tipo desinenziale (poco vistose), alle rime
ricercate e insolite che spesso intrecciano i latinismi del Paradiso, fino alle rime rare e aspre in cui
s’incardina il lessico realistico e talora volgare dei canti infernali.

Capitolo 15. La fortuna trecentesca della «Commedia»

Se è vero che le opere cosiddette “minori” sarebbero sufficienti a fare di Dante uno dei massimi
autori della letteratura italiana, si deve riconoscere che è la Commedia, con la sua dirompente
novità e l’ammirazione suscitata, a conferire al suo autore un ruolo di assoluta centralità nella
nostra storia linguistica, tanto da meritargli l’appellativo di “padre della lingua italiana”.
L’enorme e immediata fortuna dell’opera coinvolse non solo i gruppi elitari dell’alta cultura ma le
cerchie più vaste ed eterogenee della borghesia mercantile dell’epoca; costituisce il primo atto di
diffusione di un modello linguistico che s’impone vigorosamente in Italia al di sopra delle singole
tradizioni locali.
I più precoci indizi del successo della Commedia sono affidati alle numerose citazioni che affiorano
nelle diverse aree e negli ambienti più disparati: documenti notarili bolognesi, un passo del III
canto dell’Inferno è copiato in un registro di atti criminali, alcune terzine vengono trascritte in
caratteri ebraici da un rabbino di Roma nel 1300, altri pezzi del poema vengono aggiunti (a mo’ di
glosse) in un codice del De Consolatione boeziano, le citazioni si insinuano anche in opere
letterarie e in testi di scrittori di cultura media, citazioni dantesche talora intervengono in momenti
di particolare tensione espressiva (“A! Dura terra, perché non t’apristi? Rappresentazione della
tragedia dei poveri cacciati da Siena nel 1329).

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In Toscana con la Commedia si realizza per la prima volta una circolazione socialmente ben
diversificata che di bocca in bocca travalica perfino l’alfabetizzazione, sostenuta dalla continuità
linguistica tra lingua colta e lingua di ogni giorno presente nel testo. Alla diffusione orale del poema
contribuiscono le pubbliche letture che si susseguono in diverse città italiane.
Trasmissione della Commedia  il più antico manoscritto datato che trasmette per intero la
Commedia è il Landiano 190 della Biblioteca Comunale di Piacenza copiato da un emanuense
marchigiano su commissione del podestà pavese Beccario de Beccaria. L’area dell’Italia
settentrionale svolge una funzione capitale nelle fasi iniziali di divulgazione della Commedia (in
particolare la zona emiliano-romagnola). Firenze assumerà il ruolo preponderante solo
successivamente arrivando ad organizzare una produzione dei codici in forme che si possono
definire quasi industriali. L’incremento delle opere raggiunge nel corso del XIV secolo dimensioni
imponenti oltrepassando i trecento codici (che diventeranno ottocento se si aggiungono i testimoni
quattrocenteschi). Le diverse patine regionali che caratterizzano i manoscritti non soverchiano mai
la sostanza linguistica del poema, tuttavia come già detto le innumerevoli testimonianze
comportano grandissime problematiche per quanto riguarda la ricostruzione del testo. Allo stesso
tempo, l’insieme della tradizione testuale della Commedia in tutte le sue varianti assume un ruolo
importantissimo ai fini della documentazione linguistica dell’epoca (in particolar modo a livello di
tesoro lessicale).
Intensa anche l’attività dei commentatori che danno inizio ad una plurisecolare tradizione esegetica
nata già a ridosso della primissima edizione del poema. Nel Trecento già si affermò il termine
dantista per indicare lo studioso di Dante. Guardando ai commenti più antichi e alla loro
distribuzione geografica un ruolo di primo piano per la sua precocità spetta ancora a Bologna
( commenti in latino). Il volgare domina decisamente nell’esegesi dovuta ad autori fiorentini. Anche
a Napoli, dove la conoscenza del poema fu certo favorita dalla presenza di Boccaccio e Petrarca,
si compilò un ampio commento in latino. L’impiego del latino da parte di molti commentatori
risponde all’esigenza sempre più sentita di adeguare l’opera critica ai modelli canonici del
commento universitario e scolastico e si salda naturalmente nel nuovo atteggiamento culturale che
va maturando nel corso del Trecento. L’uso del volgare in un’opera come la Commedia dovette
infatti apparire fin dall’inizio a dir poco rivoluzionario ed eccepibile ai rappresentanti della cultura
tradizionale del tempo (anche per lo stesso Boccaccio). Ci fu infatti chi lo rimproverò di essersi
servito di un mezzo espressivo indegno all’altezza suprema dei termini trattati. Siano scritti in
volgare o in latino i commenti si rivelano comunque di grandissimo interesse per lo storico della
lingua poiché contengono una miriade di riflessioni linguistiche che mettono in luce l’audacia
linguistica del poema e il suo impatto con la realtà dell’epoca. Le chiose dei commentatori, con la
loro attenzione per i fatti lessicali, si prestano inoltre per essere analizzate contrastivamente per
mettere a fuoco le concordanze e i conflitti che si instaurano, dal punto di vista linguistico, tra
Firenze, la Toscana più in generale e il resto d’Italia. I dialettalismi vengono infatti chiosati da
alcuni commentatori e da altri no, fattore che ci permette di capirne la provenienza.

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