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Ciro Lomonte

Architettura: il meno è il più?


La ricerca della semplicità in architettura venne formulata in modo radicale da un campione
del razionalismo architettonico, Ludwig Mies van der Rohe (Aquisgrana 1886 – Chicago 1969),
prima docente e poi, nel periodo compreso tra il 1930 e il 1933, direttore del Bauhaus, la
rivoluzionaria scuola di arte e artigianato fondata a Weimar nel 1919.
Mies intendeva sopprimere ogni riferimento al passato: cercava un’innovazione radicale che
esaltasse i metodi costruttivi moderni, attribuendo al solo scheletro strutturale tutto il valore formale
dell’organismo architettonico nella sua integrità. Il suo motto era «less is more», il meno è il più.
Diceva anche: «Dio è nei dettagli».
Il razionalismo non è stato l’unica corrente dell’architettura moderna, ma si può dire che abbia
prevalso su tutte le altre a causa di una maggiore coerenza interna rispetto ai postulati delle
avanguardie. I maestri di questa corrente riuscirono a imporsi come capiscuola, cosa che non era
possibile agli esponenti dell’espressionismo o dell’architettura organica, per la difficile riproducibilità
dei loro stilemi formali. A ben guardare il razionalismo è l’equivalente architettonico dello
gnosticismo di inizio Novecento1.
«La gnosi è un sapere che sa e il cui annuncio si può riassumere così: chi è illuminato non
ascolta più [...] perché oramai ha visto»2. Se ci si ferma a considerare le grandi tesi del pensiero
gnosticheggiante, si riscontra più di una parentela con le teorie delle avanguardie architettoniche. La
gnosi di queste ultime è spiritualista, manichea: individua il principio positivo nello spirito e quello
negativo nella materia, che sarebbe il male da combattere. Rispetto ai filosofi gnostici, gli architetti
razionalisti avevano un modo di argomentare che non aveva bisogno del rigore dell’indagine
filosofica. Il presupposto della verità era l’autorità di un maestro che aveva avuto una rivelazione.
«Ma quale si supponeva che fosse la fonte dell’autorità del convento? Mah, la stessa di tutti i
nuovi movimenti religiosi: diretto accesso al nume che, in questo caso, era la Creatività. Di qui una
nuova forma di documento: il manifesto d’arte. Non v’erano manifesti nel mondo dell’arte prima del
Novecento e dell’evolversi delle conventicole. I futuristi italiani promulgarono il loro primo manifesto
nel 1910. Dopo di che, fu un profluvio di movimenti e ismi. Si emanavano manifesti uno dietro l’altro,
giorno e notte. Un manifesto altro non era che il decalogo della confraternita: “Ci siamo recati in cima
alla montagna e ne abbiamo riportato il Verbo, sicché ora noi dichiariamo che...”»3.
Una delle caratteristiche della gnosi è quella di non riconoscere il senso del limite. Lo
gnostico, infatti, si ritiene l’eletto che conosce il valore negativo alla materia e sa come tornare
all’Uno totalmente spirituale e impersonale (del tutto diverso dal vero Dio dei cristiani) da cui il
mondo proverrebbe per emanazione. Anche i postulati di Mies van der Rohe hanno radici simili.
Torniamo, per es., al motto miesiano less is more.
La semplicità è, in metafisica, una qualità degli enti creati che costituisce una partecipazione
più o meno elevata alla semplicità assoluta dell’Essere Perfettissimo, di Dio, l’unico in cui non vi sia
traccia di composizione. Confondere l’essenza dell’opera architettonica con la sua struttura significa
imitare l’Essere per Essenza, considerando inoltre erroneamente l’Atto Puro passività assoluta invece
che pienezza di vita.
Quando Mies van der Rohe affermava che, per ottenere la sincerità dell’opera architettonica,
«si deve rifiutare ogni forma che non sia retta dalla struttura», egli cercava una bellezza funzionale
dell’architettura confondendo esplicitamente il concetto tomista di verità (adæquatio rei et intellectus)
con quello di bellezza (omnia quæ visa placent).
Mies si proponeva di esaltare la struttura («il sistema costruttivo è l’edificio», cioè coincide
con la sua natura) risolvendo i problemi funzionali dell’edificio. Mi permetto di manifestare qualche

1
Con il termine gnosi sono designate, in modo particolare, le correnti filosofico-religiose che legano la salvezza a una
particolare conoscenza di misteri, accessibile a pochi eletti. Questa tendenza ha provocato nel cristianesimo dei primi
secoli varie eresie.
2
EMANUELE SAMEK LODOVICI, Metamorfosi della gnosi, Edizioni Ares, Milano 1979, pp. 7-8.
3
TOM WOLFE, Maledetti architetti, Bompiani, Milano 1982, p. 17.
dubbio sul fatto che egli si occupasse della funzione nel migliore dei modi. Infatti i suoi edifici sono
un po’ impersonali e dispersivi, non orientano lo svolgimento della vita al loro interno.
Vitruvio invece aveva sottolineato l’importanza di conciliare struttura, funzione e forma nel
caso in cui si voglia realizzare un’opera architettonica. «[...] queste opere devono essere realizzate
secondo criteri di solidità, di comodità e di bellezza (firmitas, utilitas, venustas). Il primo principio
sarà rispettato se le fondamenta poggeranno in profondità, su strati solidi e se la scelta dei materiali
sarà accurata, senza badare a spese; il secondo, o della funzionalità, allorché la distribuzione degli
spazi risponda a un uso corretto e agevole e rispetti opportunamente l’esposizione cardinale in base
alla funzione specifica dei locali. Il terzo infine, quello della bellezza, quando l’aspetto esteriore
dell’opera sarà gradevole e raffinato, nel rispetto delle giuste proporzioni e della simmetria delle sue
parti»4.
Uno degli accorgimenti proposti da Vitruvio per ottenere la venustas è la simmetria, uno dei
concetti più detestati dai razionalisti. Ma essa non è la specularità delle due parti della facciata,
rispetto all’asse centrale, adottata dagli architetti eclettici nella progettazione degli edifici: «La
symmetria è l’armonico accordo tra le parti di una stessa opera e la rispondenza dei singoli elementi
all’immagine d’insieme della figura. Come nel corpo umano la caratteristica euritmica sta nel rapporto
simmetrico dato dal piede, dalla mano, da un dito e dalle altre membra, così dev’essere nella
realizzazione dell’opera architettonica»5.
Simmetria è quindi con-misurazione, studio dinamico del rapporto fra le parti, non banale
disposizione statica degli elementi della facciata. Per l’architetto romano simmetria è sinonimo di
quella commodularità che deve essere determinata tra gli elementi costitutivi dell’opera architettonica
dalla presenza di un denominatore comune, che deve essere per l’appunto un modulo o un
sottomultiplo. L’architettura romana si fondava in gran parte sull’uso di multipli del modulo, l’unità di
base, o sui suoi semplici derivati geometrici. L’architetto del Pantheon, per esempio, deve avere
cominciato dividendo la circonferenza interna in 4, 8, 16 e 32 parti simmetriche. Non può essere un
caso che, nell’alzato, la distanza fra la cornice dell’ordine inferiore e la sommità della cupola sia
uguale al lato del quadrato inscritto nello stesso cerchio6.
Per capire fino in fondo cosa intendesse Vitruvio per simmetria bisogna ricordare che egli
faceva riferimento alle proporzioni della figura umana. Il corpo umano perfetto, sulla scorta dei canoni
dell’arte greca, sarebbe inscrivibile dentro un cerchio (a braccia e gambe allargate) e dentro un
quadrato (a braccia aperte e gambe chiuse). Non avendo a disposizione i disegni originali del De
architectura è possibile fare solo supposizioni sul modello vitruviano. È la famosa questione
dell’uomo iscritto nel cerchio e nel quadrato, che fece scervellare tanti artisti del Rinascimento e fu
risolta nella maniera più convincente da Leonardo da Vinci, il quale raggiunse la maggiore perfezione
nelle proporzioni della figura.
Questi principi hanno condizionato in senso antropomorfico lo sviluppo della ricerca
architettonica fino al secolo scorso. Per intendere fino a che punto questo sia vero, basta guardare
alcune piante di chiese medievali e rinascimentali in cui è iscritta la figura di un uomo.

***

Si potrà obiettare che esiste un altro tipo di semplicità in architettura, per es. quella del periodo
romanico. E che la sensibilità contemporanea rifugge tutto ciò che è sovraccarico di ornamenti.
Spostiamoci quindi al XII secolo. Figura interessante ai nostri fini è Suger 7, uomo di Chiesa e di
governo, dato il ruolo che questo monastero ha svolto nella storia della monarchia francese.
In tale condizione, Suger riuscì a combinare il servizio di Dio con la fedeltà al re Luigi VII in
forza di grandi capacità diplomatiche e amministrative e di una singolare tenacia. In questa prima
metà del secolo XII, così ricca di fermenti di ogni genere, Suger è l’anti-Bernardo, almeno nella vita

4
MARCO VITRUVIO POLLIONE, De architectura libri decem, libro primo, III, 2. Nella traduzione curata da Luciano
Migotto, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1990, il brano si trova a p. 29.
5
MARCO VITRUVIO POLLIONE, op. cit., libro primo, II, 4. Cfr., nella traduzione del Migotto, cit., p. 23.
6
Cfr. JOHN B. WARD-PERKINS, Architettura Romana, Electa, Milano 1989, p.85.
7
Suger fu abate dal 1122 al 1151 dell’antica abbazia parigina di Saint-Denis.
attiva. Dalla più influente personalità religiosa del tempo lo distingueva quasi tutto, compreso un certo
disinteresse per problemi di dottrina o di regola.
Su questo fra Suger e Bernardo di Chiaravalle ci fu una polemica, ma è significativo che l’altro
e ben più famoso avversario di Bernardo, Abelardo, che ebbe l’ardire di smontare il mito di san
Dionigi (primo vescovo di Lutetia, morto martire intorno al 270, identificato erroneamente con
l’ateniese convertito da S. Paolo e con lo Pseudo Dionigi l’Aeropagita, filosofo del V secolo) proprio
quando era ospite all’abbazia, non venga preso in considerazione da Suger che per sistemare la
faccenda piuttosto imbarazzante della sua appartenenza alla comunità di Saint-Denis.
Ad opporre Suger a Bernardo e ai cistercensi è soprattutto l’aspirazione alla bellezza e al fasto
dei luoghi sacri, l’uso dell’arte e dell’architettura in servizio della gloria di Dio. È questa la vera
passione di Suger, passione tanto più forte in quanto fondata sull’opera di quel Dionigi al quale era
intitolata l’abbazia.
Dionigi (pseudo-Dionigi per noi, forse un anonimo siriano che scrive fra IV e V secolo)
inserisce nella sua teologia una metafisica della luce, che combina elementi neoplatonici e cristiani. La
luce discenderebbe dall’Uno alla materia terrestre, che, pur oscurata, ne conserva qualche parte; la
luce presente nel mondo è così guida e ascesa al divino come le materie che la possiedono: l’oro, le
gemme, le vetrate. La luce è poi anche luce architettonica, ampiezza e altezza della costruzione: in
questo modo il nuovo coro di Saint-Denis inaugura l’arte gotica dell’Ile-de-France.
Suger restò sempre profondamente convinto dell’utilità dell’impresa e del suo valore religioso
e celebrativo. Forse intuì anche la modernità di certe soluzioni artistiche e architettoniche: lo dimostra
il libello che egli ha lasciato sull’opera di ricostruzione di Saint-Denis.
San Bernardo, invece, era contrario all’eccessivo lusso e alle immagini fantastiche introdotte
dalla decorazione scultorea d’oltralpe, che secondo lui distraeva i monaci dalla meditazione. La
diatriba di Bernardo di Chiaravalle contro le figurazioni tendeva forse a ristabilire una distinzione tra i
luoghi destinati ai soli chierici e le chiese aperte ai laici, per le quali Bernardo ammetteva l’utilità
delle immagini (Apologia ad Guillelmum, XII). Ma questo atteggiamento restrittivo riguardo alla
decorazione era raro in quell’epoca e i suoi effetti poco durevoli.
L’uso abbondante delle iscrizioni nelle immagini dimostra, tuttavia, che non si può
contrapporre troppo decisamente il mondo dei laici, che avrebbero avuto spontaneamente familiarità
con esse, all’universo dei chierici, che accedevano senza mediazione alle verità della Sacra Scrittura.
Le opere medievali mostrano spesso un carattere estremamente dotto e, anche se potevano
produrre un effetto forte su un pubblico laico, la loro piena comprensione richiedeva una cultura
scritturistica e teologica che solo i chierici possedevano. Nel De admnistratione (XXXII) Suger
riconosceva che il significato profondo delle opere che ornavano il coro della sua basilica non era
accessibile che ai letterati più acuti.
Non dimentichiamo però il motto di Onorio di Autun (1080-1154), fatto proprio da Suger: la
pittura è laicorum literatura. Molto più che la biblia pauperum di Papa Gregorio I. Oggi che c’è un
pregiudizio illuminista nei confronti del Medioevo, si tende a citare il detto di Gregorio Magno come
se i fedeli fossero universalmente analfabeti. Eppure essi sapevano leggere il linguaggio delle
immagini e dei simboli molto più di noi.

***

La questione della semplicità in architettura, qui appena abbozzata, non è affatto semplice.
Andrebbe approfondita con maggiore dovizia di riferimenti.
Si tenga presente che i nostri contemporanei sono stati abituati, forse anche costretti, al
minimalismo. Non è che amino la semplicità, sono più poveri di codici interpretativi dell’opera d’arte
autentica. E non si accorgono che lo stesso minimalismo è un codice, di matrice spiritualista.
I capolavori sono semplici di per sé, in quanto hanno raggiunto un equilibrio armonico
straordinario. I grandi artisti sembrano geni della semplicità, ma in realtà non lo sono. La loro
grandezza risiede anche nel saper nascondere nelle loro opere il travaglio che ha generato una
soluzione perfetta.

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