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L’autore
Bruno Zevi
ISBN 978-88-587-7762-6
www.giunti.it
www.bompiani.eu
di Angela Marino
Ferrara – perché?
Ecco le principali ragioni che inducono a scegliere questo nucleo
urbano, sopra ogni altro, per un “saper vedere la città” mordente nei
problemi contemporanei:
– organismo medievale e rinascimentale, offre la duplice
esperienza della temporalità tardo-antica e dell’assetto spaziale
geometrico, soprattutto del loro intreccio in una simbiosi che non ha
riscontri. Innumeri nuclei medievali hanno subito un accrescimento,
ma in nessun caso si è verificato un processo così coerente di
saldatura. Non si tratta di un settore rinascimentale aggiunto
all’aggregato medievale, e autonomo rispetto a esso; e neppure di
un’albertiana ristrutturazione interna del vecchio tessuto. L’Addizione
erculea non sovrappone né giustappone un intervento umanistico,
aristocratico e autoritario, alla città reale. Invera un metodo capace
di tradurre un abitato consunto e soffocante in una moderna trama
territoriale, preservandone i valori. Ferrara vanifica i precetti
accademici sulle presunte “leggi di crescita delle città” e, allo stesso
tempo, irride le pseudoteorie del cosiddetto “ambientamento”, ultimo
rifugio dell’istinto conservatore. Volete immaginare un Wright o un Le
Corbusier che svolgano lo stesso compito affidato a Rossetti?
Oppure un Gropius, un Mendelsohn, un Mies? Cosa sarebbe
mancato per annodare, con pari coesione, le loro unità di abitazione,
i quartieri, le masse espressioniste od organiche al tracciato
medievale? Interrogativi del genere, spregiudicati e pressantemente
attuali, non si potrebbero formulare analizzando Perugia, Siena,
Venezia o Firenze, Roma o Napoli, Londra o Barcellona, e nemmeno
Pienza, Urbino e Mantova;
– piano chiuso o piano aperto? Il primo cristallizza lo sviluppo
entro una forma precostituita; il secondo, se è aperto davvero, non
pianifica. La coscienza divisa dell’umanesimo e quella angosciata
del manierismo persistono: da un lato, i razionalisti che propongono
nuovi modelli e trame, Versailles in chiave moderna; dall’altro, gli
esaltatori dell’autofarsi della città, inebriati da Los Angeles e specie
da Las Vegas. Abbiamo accennato alla posizione di Michelangelo,
Palladio, Borromini e Wright, cioè alla sostituzione del “piano” con
fulcri edilizi erompenti, capaci di trasformare la città. L’operazione
michelangiolesca di Roma è la più grandiosa nella storia dei non-
piani: individua cardini e direttrici, sottraendo ai primi il tradizionale
carattere statico, di arrivo, e alle seconde il monorientamento; fissa il
centro religioso a San Pietro, ripercuotendolo di qua dal Tevere in
San Giovanni dei Fiorentini, il centro residenziale a palazzo Farnese
prevedendone uno sbocco oltre il fiume, il centro civico nell’acropoli
capitolina raccordata però a piazza del Gesù e al Quirinale, l’asse di
espansione nella strada Pia con uno snodo verso le terme
dioclezianee e un riflusso a Santa Maria Maggiore. Con metodo
analogo, centripetato e invertito dal clima controriformistico, opera
Borromini, condensando furenti interventi nelle cerniere più delicate
del tessuto romano e sconvolgendole a un grado efferato con San
Carlino alle Quattro Fontane, Sant’Andrea delle Fratte, i Filippini, il
palazzo di Propaganda Fide incredibilmente incombente e
sproporzionato, e soprattutto elettrizzando il panorama con
l’elicoidale di Sant’Ivo alla Sapienza, antitesi blasfema all’intera
sequenza delle cupole accasciate di Roma, scherno di quella del
Pantheon. Un’urbanistica per “luoghi deputati”, come si è detto,
appare quanto mai attuale, e l’elicoidale espansa del Guggenheim
Museum può confrontarsi con quella introversa di Sant’Ivo (cfr. foto
14). Ma assai più stimolante e organica risulta la proposta
rossettiana: un piano, che tuttavia non congeli il processo di
sviluppo. L’Addizione, rispetto al nucleo medievale, ha una
dimensione così lungimirante da non essere stata saturata per
quattro secoli; relativamente ai tempi, una città-regione equilibrata
ed esaurientemente vissuta anche se vaste zone restano inedificate.
Concepito il piano, Rossetti non ha bisogno di simularne la
realizzazione, come Haussmann a Parigi (cfr. foto 12); anticipa la
soluzione di Michelangelo e Borromini, punta sui “nodi privilegiati”,
ma nell’ambito di un disegno, di un’intenzionalità che ha la forza di
canalizzare nei secoli i contributi del caso, la problematica
imprevedibile del futuro. Tra “città ideale” e non-piano, questo è forse
l’unicum della programmazione aperta e continua, di cui oggi si
ricerca la metodologia progettuale;
– piano bidimensionale o tridimensionale? Uno rimane sulla carta
o sfocia in amorfi settori “zonizzati”, l’altro esigerebbe il monopolio di
un solo architetto. Ferrara insegna invece come un piano possa
essere tridimensionale senza predeterminare le volumetrie edilizie,
di cui Rossetti non formulò neppure un regolamento. Paragonatene
la struttura con una moderna “new town”, bene organizzata come
Stevenage o Vällingby, magari accentrata come Cumbernauld (cfr.
foto 14). Cosa manca a queste nostre nuove città per essere
autentiche, per connotarsi in valenze polisenso essenziali per la vita
urbana? Perché, a distanza di pochi anni, sembrano “modelli” di se
stesse, ingranditi dimessi e impolverati? Ecco, a Ferrara s’impara a
costruire una città in modo organico, spontaneo, quasi impercettibile.
L’inverso, anche sotto questa luce, di Brasilia dove un’attività
edificatoria febbrile sino alla follia e dispendiosa oltre ogni logica fu
l’unico mezzo per garantire che la quantità di interessi economici
investiti impedisse di abbandonarla. Il programma estense per
l’espansione socio-demografica di Ferrara fu illusorio; ma la città
visse della sua nuova scala anche se la terza dimensione restò
largamente irrealizzata. Brasilia invece è stata tutta costruita, con
artificiosa compiutezza, nella volumetria del centro direzionale e dei
quartieri, ma la sua dimensione già sul nascere appariva
anacronistica;
– città antica e edilizia nuova. La tesi secondo la quale
l’organismo del passato va tutelato nella sua integrità, mentre il
linguaggio moderno andrebbe relegato alle zone di espansione,
trova una clamorosa smentita a Ferrara. Rossetti riuscì a salvare il
nucleo medievale perché lo rinnovò con alcuni interventi decisivi e,
per l’epoca, macroscopici. L’“urban renewal” fu attuato per poli, cioè
con lo stesso metodo adottato nell’area dell’Addizione. Per questo,
la città è solo empiricamente separabile in due porzioni; in realtà,
l’abitato antico sarebbe impensabile senza il complemento
rinascimentale, e viceversa. L’uno rinsangua l’altro, anziché
competere e depauperarsi. Bilanciamento di “cuori” urbani, raccordo
fra strade, presenza di “luoghi deputati” squillanti come il palazzo di
Ludovico il Moro nelle maglie di saldatura. Per apprendere a
condurre simultaneamente la duplice operazione di ampliamento e
rinnovo di una città, conviene attingere alla fonte ferrarese;
– non-finito urbatettonico. Questo è forse l’aspetto culminante, la
lezione di fondo. Tutti ormai lo ripetono: una serie di stanze, anche
se ciascuna bellissima in sé, non forma una casa; una serie di
edifici, sia pure splendidi singolarmente, non configura una città.
Occorre un legame di interdipendenza, il continuum. Ma, per
concretarlo, ogni elemento, palazzo chiesa viale piazza, deve
rimandare a quelli adiacenti, cioè rinunciare alla propria autonomia.
Ciò significa: poetica del non-finito, livello urbano in cui Biagio
Rossetti assume la statura del genio. Si sottrae al continuum
medievale, ma non accetta i volumi puri, isolati del Rinascimento;
acquisisce i metodi di Brunelleschi e di Alberti, ma in chiave di non-
finito. Posizione inaudita, contestataria alla radice della struttura
linguistica; in pieno umanesimo, là dove trionfa l’ideologia razionale,
irrompe col non-finito in una scala non mai tentata neppure da
Michelangelo e da Palladio. Se avesse teorizzato la sua concezione
urbatettonica, l’avrebbero preso per pazzo e liquidato; era un umile
artigiano e l’esperimento passò. Ma ora è tempo di proclamarne la
grandezza profetica, di calarsi nella grammatica, nella sintassi,
nell’arco dei messaggi del non-finito in urbanistica. Altrimenti, per
opporci a Haussmann, saremo costretti a inneggiare a Las Vegas,
alla vitalità del negativo. Le nostre città, i nostri quartieri sono
insensati per vari motivi, ma anche perché composti di “pezzi” finiti,
conclusi nella propria cornice, avari, intracettivi (cfr. foto 16). Mentre
tutto ciò che vale oggi, da Fallingwater all’Habitat di Montreal, è non-
finito a scala di paesaggio o di città. Corrodere e spalancare la
scatola, liberare lo spazio dall’involucro che lo comprime, creare
fluenze tra cavità polifunzionali: questo, sappiamo, è il compito
dell’architettura moderna dalle sue remote origini manieristiche, e lo
è pure dell’urbanistica. Piano chiuso o aperto, bidimensionale o
tridimensionale? Non basterà un disegno unitario né un
procedimento per “luoghi deputati” a risolvere questi dilemmi. Gli
aut-aut, architettura/urbanistica Gropius/Wright, servono a sferzare
le coscienze assopite, ma l’alternativa non sta tra il piano
sovrastrutturale e dispotico, che mortifica l’architettura, e il caos
urbano, che la libera da ogni vincolo. Si tratta di portare l’istanza
urbanistica nel seno dell’architettura. Invero, il non-finito è il
messaggio moderno dell’arte, implica il coinvolgimento dello
spettatore, il suo innesto, la sua partecipazione al processo creativo
altrimenti incompiuto senza di lui. In quanto non-finita, Ferrara non è
soltanto “la prima città moderna d’Europa”, è l’unica moderna.
Trasferitene la metodologia nella città-regione e nelle macrostrutture
che la distinguono, e gli obiettivi di organici insediamenti comunitari
per il futuro diverranno credibili;
– prospettiva e poetica dell’angolo. Si ripete che l’arte moderna
supera, e deve superare, la visione prospettica, tridimensionale,
statica dello spazio rinascimentale. Ma in che modo? La formula più
rigorosa fu escogitata dal gruppo “De Stijl”: scomporre il volume in
elementi bidimensionali onde annientare la profondità, e poi
rimontarne i frammenti, setti o lastre, nello spazio controllando però,
specie nelle giunzioni, che non ricostituiscano stereometrie
concluse, figure scatolari; Piet Mondrian cantò questa città
splendidamente immersa in un’atmosfera di elementarismo
cromatico, fragrante e lucidamente ebbra nei diaframmi rossi, blu,
gialli, bianchi e neri. Ma a tale drastica riduzione dell’edificio a mere
superfici trasparenti o comunque incorporee si opposero Wright e gli
organici, fedeli al principio “in the nature of materials”, e gli
espressionisti, soprattutto Mendelsohn. Essi confutavano: perché
mai, al fine di attingere il moto, la cosiddetta “quarta dimensione”
cubista, dovremmo uccidere la terza, umiliando i valori materici
dell’architettura? Noi pure miriamo a una visione cinetica, temporale,
ma esaltando le masse gravide, carnose, erompenti dal suolo. Si
verificò così una spaccatura ideologica e procedurale, durata un
ventennio. Mentre i razionalisti, Gropius, Mies, Le Corbusier fino alla
conversione di Ronchamp, appiattiscono i prismi, come nel
grattacielo dell’ONU a New York, sull’altra sponda Mendelsohn e
Wright, dall’Einsteinturm di Potsdam al Guggenheim Museum, li
esplodono nel paesaggio naturale e urbano. Ebbene, la storia, col
neoespressionismo e l’informale del secondo dopoguerra, cioè con
la crisi dell’astrattismo, ha dato ragione all’indirizzo wrightiano e
mendelsohniano in difesa della terza dimensione, della materia e del
gesto, dell’assimilazione del kitsch, della vita, della realtà,
dell’evento, del caso nell’opera d’arte. Ma è chiaro che questa
moderna terza dimensione, cinetica per energia propria, si pone in
netta antitesi rispetto a quella tradizionale. E allora occorre
rimeditare l’intero sviluppo dal Rinascimento a oggi. Quesito di
fondo: entro quali limiti è stata usata la dimensione prospettica nel
corso di cinque secoli? Si constata un fenomeno paradossale: a
scala urbana, quasi senza contrasti, ha dominato la prospettiva
centrale – chiese e palazzi a fondale di piazze, rettifili viari ben
contenuti da quinte edilizie; nessuno ha mai ruotato un palazzo
Farnese di 37° rispetto al quadro prospettico, un San Pietro di 62°,
una Madeleine di 26°, un St Paul di 43°. In altre parole, il sistema di
rappresentazione nato all’inizio del Quattrocento per valorizzare la
terza dimensione, coartato dall’accademia, ha finito per privilegiare
le facciate, disposte frontalmente o di scorcio, a detrimento dei
volumi. I piani urbanistici, mortificando la tridimensionalità
architettonica, hanno istituzionalizzato la gerarchia tra prospetto
principale, fianchi e retro; la strada-corridoio ha poi cancellato i
fianchi e spesso svilito il retro. Eccezioni a questa desolante regola,
contro la quale insorgevano Michelangelo, Palladio, Borromini,
Wright? Numerose su piccola scala, determinate da condizionamenti
topografici, preesistenze medievali, magistrale gusto barocco nei
raccordi. Ma, a scala urbana, una sola: Ferrara. Qui infatti, malgrado
un tracciato viario virtualmente ortogonale, Rossetti accentua
costantemente le visioni d’angolo, impegnando tutta la progettazione
sulle cerniere, tra cui provocatorio a un grado inaudito lo spigolo
isolato del palazzo Turchi-Di Bagno. Il barone Haussmann costruirà
false facciate per la Parigi imperiale e neoclassica, somma e
intreccio di quadri prospettici centralizzati. Rossetti, qualche secolo
prima, è assai più avanti, erige fulcri e perni di una struttura cinetica,
preannunciando Wright e Mendelsohn, nei cui schizzi trionfa la
visione angolare, cioè la prospettiva rivoluzionata in chiave
dinamica. Sotto questo profilo, non basta parlare di Ferrara come di
una città moderna ante litteram; vi si identifica una profezia urbana,
ancora tutta da realizzare, anzi da scoprire. Apologia, rilancio o,
meglio, conquista della tridimensionalità nei suoi movimenti
inesplorati – quindi poetica dell’angolo, rottura dell’oggetto
architettonico in sé finito, e suo intrinseco coinvolgimento nella
vicenda urbana;
– sovrastruttura e struttura, polisenso. Ferrara dimostra come
l’azione dell’urbanista non sia di mero rispecchiamento: può essere
eversiva, nel suo ambito può sconfiggere il potere. Si dice che gli
impianti rigidi esprimano i regimi dispotici, e quelli fluidi e narrativi gli
ordinamenti democratici: il paleolitico è organico, il neolitico
teocratico e autoritario, il Medioevo riflette il libero comune, la
Rinascenza l’oligarchia. Tuttavia, qui siamo al cospetto di una città
democratica, benché fondata all’ombra di una signoria tra le più
avare e corrotte. Lo riconosce anche Renzo Renzi, dopo aver
rievocato i plurimi sensi dell’ambiente ferrarese, quali emergono
nell’itinerario del migliore cinema italiano, da Ossessione di Visconti
a Il mulino del Po di Lattuada, da La lunga notte del ’43 di Vancini ai
deserti borghesi di Antonioni, cui si aggiunge Il giardino dei Finzi-
Contini di De Sica. Vanificando la romantica contrapposizione tra “la
città medievale, con le sue strade grige, gli anditi bui, le tortuosità
calde, la dimensione frequentabile; un oscuro, ma certo rifugio; una
vita chiusa e protetta dentro una totalità di funzioni soddisfatte. C’è
persino l’acqua che impregna i muri, come una matrice; rivelando,
tuttavia, direbbe De Pisis, il fondo di palude che sta, sempre, sotto le
case”, e l’Addizione in cui “i muraglioni e i palazzi proteggono gli altri,
gente nascosta, forse scomparsa, che mi lascia solo nelle strade
diritte e aperte, semmai a cercare di indovinare una vita che non mi
appartiene dietro stupende facciate, sotto alberi di cui mi sono
nascosti il tronco e la base, per impedirmi di partecipare.
L’impossibilità crea l’estraniamento inducendomi a vagheggiare un
aldilà dei muri, qualcosa che potrebbe essere sereno, che fu sereno,
ma ora, forse non esiste più”; una volta osservato che “la metafisica
presente a Ferrara non è suggerita dai resti del Medioevo, che
dovrebbe essere mistico; ma dai resti di un Rinascimento che fu
profano” (nei giardini dell’Addizione, Bassani ha dissolto “la lunga
nenia della tragedia ebraica”), Renzi aggiunge: “Del resto, quello
degli estensi fu un fenomeno di accumulazione, più ancora che
economica, culturale: un’accumulazione di ricchezze artistiche,
fantastiche, in funzione di una politica difensiva di potenza. Perché,
allora, non potremmo raccogliere simili bandiere, se esse non
riguardano la struttura? In una città come Urbino, il Palazzo sta
materialmente sopra tutte le altre case, prostrate ai piedi. A Ferrara,
al contrario, l’immagine è orizzontale: la città signorile si pone
accanto all’altra, chiamandola ad un rapporto, indicandole uno
sviluppo. Certo, Ferrara è città di pianura. Allora, la pianura ha
favorito il passo. Ma chi ha scelto di compierlo?” Chi, invero? Non i
signori, e non la plebe. Chi altro può essere se non Biagio Rossetti
nel suo messaggio ambiguo, equiprobabile, capace di
deautomatizzare il linguaggio, rendendo agibile per i poveri un
codice nato per i ricchi (ma non è architettura “povera” quella
dell’intera piazza Nuova?), insomma di suscitare, con un piano
dall’alto, un processo di pianificazione popolare? Tale è la realtà
urbanistica, polisenso come ogni opera d’arte. Vi si può proiettare
qualsiasi stato d’animo, e il suo opposto: il passato e il futuro, l’atto
compiuto perché divenga memoria. Giorgio Bassani ha collocato il
giardino dei Finzi-Contini in fondo al corso Ercole I d’Este, cioè alla
via degli Angeli. Lì si svolge l’identificazione con Micòl: “nel senso
che anch’io, come lei, non disponevo di quel gusto istintivo delle
cose che caratterizza la gente ‘normale’. Lo intuiva benissimo: per
me, non meno che per lei, più del possesso delle cose contava la
memoria di esse, la memoria di fronte alla quale ogni possesso, in
sé, non può apparire che delusivo, banale, insufficiente. Come mi
capiva! La mia ansia che il presente diventasse ‘subito’ passato,
perché potessi amarlo e vagheggiarlo a mio agio, era anche sua,
tale e quale. Era il ‘nostro’ vizio, questo: d’andare avanti con la testa
sempre voltata all’indietro. Non era così?” Certo, può essere anche
così, tra le innumeri declinazioni del clima ferrarese;
– codice antropologico e produzione di storia. Umberto Eco
elenca tre possibili soluzioni per un architetto operante in una
determinata comunità: a) atteggiamento di assoluta integrazione al
sistema sociale esistente, obbedienza alle richieste del corpo
sociale, quindi rispetto del codice tipologico, di un lessico di elementi
convenzionati; b) eversività avanguardistica, tentativo di obbligare la
gente a vivere in modo affatto diverso, forme nuove che denotano
funzioni nuove, non articolate secondo il codice di base dei rapporti
linguistici precedenti; c) elaborazione di un codice dei significati
architettonici che permetta di denotare un nuovo sistema di funzioni,
comprensibile però agli utenti per la sua parentela col precedente, e
tuttavia diverso nella misura in cui deve consentire di formulare altri
messaggi. Ebbene, quale delle tre posizioni sceglie Rossetti?
Esclude, quasi automaticamente, la prima; scarta anche la seconda,
se, come presume Eco, impedisce di convincere un committente, di
ottenere un incarico professionale, di realizzare. Dunque, resterebbe
la terza ipotesi, creativa in senso moderato, dove scatta qualcosa
che non corrisponde alle attese del pubblico pur facendo leva su
bande di ridondanza, su rimandi a codici preesistenti. Ma è proprio
vero? Per una larga parte della sua attività edilizia, prosa più che
poesia architettonica, non c’è dubbio. A livello urbanistico, no. Qui
l’eversività è totale, verificata dalla circostanza che tuttora non solo i
profani ma anche gli esperti e gli specialisti stentano a riconoscerla.
Nella letteratura urbanistica degli ultimi decenni, nessuno ha potuto
ignorare Ferrara e Biagio Rossetti, ma nessuno ha voluto prendere
atto e coscienza dell’apporto rivoluzionario di una metodologia
basata su un disegno aperto, cioè su una precisazione di
intenzionalità, sulla edificazione dei nodi focali della struttura, sulla
poetica dell’angolo, attributo sostanziale del non-finito, strumento
insostituibile per calibrare le forze cinetiche, e perciò fondere
urbanistica e architettura. In altri termini, pur non risparmiando gli
encomi, nessuno ha voluto capire che nell’urbatettura di Ferrara c’è
un lievito capace di generare vie nuove per i moderni assetti
territoriali. Dice ancora Eco che “l’architetto non deve
necessariamente modificare da solo il mondo, e però deve poter
prevedere, per un arco di tempo non controllabile, il variare degli
eventi intorno alla propria opera”, cioè “deve saper configurare le
sue forme significanti in modo che possano far fronte ad altri codici
di lettura”. Il suo compito è “di anticipare e accogliere, non di
promuovere, i movimenti della storia” tenendo anche conto del
possibile fallimento delle ipotesi sociologiche, fisiologiche, politiche e
antropologiche, del margine di errore di queste indagini. Rossetti
invece ha promosso la storia, anticipando alcuni aspetti di
Michelangelo, Palladio, Borromini, Wright, Mendelsohn e delle
ricerche contemporanee sui tessuti urbani, sulle macrostrutture
polifunzionali, sui luoghi deputati a incentivare la crescita della città,
soprattutto sulla città-territorio. Vogliamo riconoscerlo, incontrare
senza paura un personaggio eretico e discorde, protagonista della
più coraggiosa avanguardia, che tuttavia non si appaga dell’utopia e
crea una città? Vogliamo superare il dilemma piano-caos, assassinio
dell’architettura o assassinio dell’urbanistica, individuando le
condizioni di un’autentica pianificazione dal basso?
Certo, dovunque si può apprendere a “saper vedere la città”, a
Hong Kong e a Rio de Janeiro, in un villaggio indiano o in un
accampamento di beduini. Ma Ferrara sembra offrirne il laboratorio
meglio attrezzato. E se poi esercita un fascino divorante, forse non è
per caso: fu concepita come immagine globale di passato
medievale, presente rinascimentale e futuro plurivalente. Registra il
variare degli eventi con lo spessore della memoria e la temperie
simultanea e talora spasmodica dell’imprevedibile, del non-finito.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Arredo urbano
Nel “Decreto n. 1 sulla democratizzazione delle arti”, intitolato “Letteratura
di steccato e pittura di piazza”, pubblicato a Mosca nel 1918, si legge: “Da
oggi, mentre si distrugge il regime zarista, viene abrogata la presenza dell’arte
nei depositi e nei ripostigli del genio umano: palazzi, gallerie, saloni,
biblioteche, teatri. In nome della grande avanzata alla parità di tutti dinanzi alla
cultura, la libera parola della personalità creatrice venga scritta sulle cantonate
dei palazzi, sugli steccati, sui tetti, sulle strade delle nostre città e dei nostri
villaggi, sul cofano delle automobili, sulle carrozze, sui tram, sugli abiti di tutti i
cittadini. Come radiosi arcobaleni, da una casa all’altra, nelle strade e nelle
piazze, si stendano quadri che rallegrino e nobilitino l’occhio del passante. I
pittori e gli scultori sono tenuti a prendere subito tubetti e pennelli per ornare di
colori e disegni i fianchi, i fronti, i petti delle città e delle stazioni e il branco di
vagoni ferroviari in corsa perenne... Siano le strade un trionfo dell’arte per
tutti.” Sono famosi i versi di Majakovskij: “Se un canto non saccheggia una
stazione, | a che serve la corrente alternata? | Ammonticchiate un suono sopra
l’altro, | e avanti, | cantando e fischiettando. | [...] Tutti i soviet insieme non
muoveranno gli eserciti, | se i musicanti non suoneranno la marcia. | Portate i
pianoforti sulla strada, | alla finestra agganciate il tamburo! | Il tamburo |
spaccate e il pianoforte, | perché un fracasso ci sia, | un rimbombo. | [...]
Ripulisci il cuore dal vecchiume. | Le strade sono i nostri pennelli. | Le piazze
le nostre tavolozze.” Lo stesso Majakovskij, durante il dibattito al Palazzo
d’inverno organizzato il 24 novembre 1918, affermava: “A noi non occorre il
morto tempio dell’arte, dove languiscono opere inerti, ma la fabbrica vivente
dello spirito umano. A noi occorrono l’arte nitrente, la parola nitrente, l’azione
nitrente. L’arte del giorno d’oggi non serve a niente. Tutti i vecchi oggetti e
paesaggi parlano soltanto dei pettegolezzi dei ricchi e del borghese. È triste
che i pittori debbano sprecare il loro talento in simili cose superflue. L’arte
deve essere concentrata non già nei morti templi-musei, ma da per tutto: nelle
strade, nei tram, nelle fabbriche, nelle officine e nei quartieri operai.”
Sull’arredo delle strade e degli spazi urbani, cfr. Pianificazione: paesaggio
urbano = architettura: arredamento, in “L’architettura – cronache e storia”, n.
41, marzo 1959; BERNARD RUDOFSKY, Streets for People – a Primer for
Americans, Doubleday, New York 1969; HAROLD LEWIS MALT, Fumishing the
City, McGraw-Hill, New York 1970.
Urbanistica barocca
ANDREINA GRISERI, nelle Metamorfosi del barocco, Einaudi, Torino 1967,
riepiloga diligentemente le diverse fasi urbanistiche del Sei e Settecento
fornendo un’esauriente bibliografia: “La valutazione delle visuali prevede
tracciati a tridente, impianti stellari, risultati inediti di scenografie. Piazza del
Popolo nasce in questo clima, Juvarra vi guarderà come a un prototipo
normativo... La città assume l’impressione di un fondale, per il dramma del
potere assoluto... In questa esigenza la strada, unità urbanistica
fondamentale, finisce per approdare a una sorta di spersonalizzazione. La
prospettiva accentua l’interesse per direzioni fantastiche: prolunga l’attenzione
oltre limiti fino allora tangibili, sostiene nuove distanze, che il Settecento
accoglierà come suggerimento per una sensibilità elettrizzata; mentre nel
Seicento l’ostentazione prevale anche sull’uso... In questo giro di interessi
classici si spiega anche la preferenza data, a Parigi, non già a Bernini, ma a
Perrault, come artefice più ortodosso di un’architettura e della ragione e di
governo. Perrault, come a Torino il Castellamonte funzionario e tecnico,
rappresentava una sintesi più chiara e colossale (in senso accademico)
rispetto a una tipologia che dalla Francia si sarebbe divulgata per tutta Europa
un po’ come i giardini pettinati di Le Nôtre che domineranno per due secoli,
fino a creare il clima intorno ai palazzi reali e alle ville dell’alta borghesia...
Mentre a Roma il barocco coinvolgeva tutta la nuova figurazione, dilagava
dalle facciate alle nuove sistemazioni urbanistiche, negli interni, con stucchi e
marmi, e finiva per agire come gusto propulsore da Napoli a Genova a
Venezia, in Francia le esigenze della corte e l’‘ideologia del potere’ assumono
in proprio forme classiche, quasi a condensare la retorica di un ‘teatro della
ragione’: una delle creazioni più tipiche del secolo, dichiaratamente inserita nel
cuore del barocco. Nasce una cultura e un’arte delle capitali... È stato indicato
come le capitali europee si fondino fin dagli inizi sull’idea della “forma urbis”
studiata come riforma urbanistica, a Roma, da Sisto V negli ultimi anni del
secolo XVI, tecnico progettista Domenico Fontana, in funzione di uno stato
temporale come sostegno della Chiesa. Anche se già quell’idea si muoveva
nella sfera delle forme destinate alla persuasione, consacrate dalla retorica,
tuttavia a Parigi, Torino, Londra, i piani saranno diversamente orientati. Prende
forma una sorta di classicismo barocco come mediazione, che stranisce l’arte
riducendola a esclusivo mezzo di rappresentanza, indirizzandola al trionfo
della monarchia assoluta. Con intenti diversi da quelli del barocco romano...
Per una società chiusa. La città accentra anche visivamente, i nuclei del
potere: nella piazza trionfa il palazzo; a Parigi il Louvre, a Versailles il Castello;
a Torino il Palazzo Reale e il fulcro di Piazza San Carlo; a Londra i piani del
Wren... Un’espressione di controllo interiore delle passioni, in una fissità
emblematica, che si identifica con la catarsi della tragedia di Racine. In questo
ambito la cosiddetta ‘meraviglia’ come fine dell’arte e illusione e stupore, è
proposta come tangibile; una nuova esattezza. Basta confrontare la facciata
abnorme di Versailles, un enorme frontespizio che servirà da sfondo ai
caroselli di Luigi XIV, per accorgersi di questo trapasso fondamentale: che
sblocca il genere ‘monumentale’, commissione della casa regnante, per
proporlo quale apertura più universale, destinata a ideali che vanno ora oltre la
celebrazione encomiastica”. Cfr. inoltre il secondo volume di LEONARDO
BENEVOLO, Storia dell’architettura del Rinascimento, Laterza, Bari 1968, anche
per l’ampia iconografia.
Urbanistica ottocentesca
Gli storiografi attribuiscono in generale maggior importanza alle utopie
riformistiche che alle concrete realizzazioni dell’Ottocento. GIUSEPPE SAMONÀ,
L’urbanistica e l’avvenire della città, Laterza, Bari 1967, ne rivendica invece il
contributo. Dopo aver accennato alle sistemazioni di Parigi, Berlino e Londra,
osserva: “A dire il vero, sistemazioni di questo genere, facenti perno su opere
monumentali più antiche, si erano già realizzate nei secoli precedenti;
basterebbe per tutte ricordare quelle eccezionali create a Roma dal barocco,
sul programma urbanistico della città cinquecentesca di Sisto V. Ma
nell’Ottocento esse costituirono il motivo fondamentale con cui venne
trasformandosi il centro della città più antica ed ebbero caratteristiche spesso
addirittura contrapposte a quelle dei secoli precedenti. Manca, infatti, alle
sistemazioni ottocentesche quella sensibilità per i rapporti spaziali controllati
che è quasi istintiva nelle età precedenti; e si sviluppa al suo posto una
schematicità geometrica per grandi parametri, che ubbidisce alla nuova
tendenza positivistica e generalizzatrice, a cui si deve la predilezione per la
forma urbana dilatata senza limiti, dove il grande sostituisce spesso, nel gusto,
il grandioso, come la ricchezza dell’ornato prende il posto di più penetrate
espressioni architettoniche celebrative. Si tratta, in sostanza, di sottolineare
quel sentimento di pubblico distacco da ogni profonda singolarità creativa, a
cui generalmente il nuovo centro urbano soggiacque malgrado la sua
aspirazione all’aulicità. Designato a esprimere un nuovo ordine civile in una
scala gerarchica di attribuzioni e di poteri sospinti da una volontà dominante,
ormai del tutto impersonale e in contrasto col diffuso principio del ‘laissez
faire’, il centro ottocentesco fu influenzato in modo sempre maggiore dal
sentimento nuovo ed uniforme della folla anonima, incapace di sentire un
limite vitale nello spazio urbano, ma onnipresente nell’imporre come una divisa
da parata gli schemi simmetrici, le facciate ripetute con monotonia
pseudomonumentale, i tracciati rettilinei allungati all’infinito... A distanza di
tempo, possiamo riconoscere la autenticità di molte realizzazioni di questo
genere, chiaramente percepibile nella dignità e nella grandiosità senza retorica
degli esempi più significativi... Tutte le osservazioni negative fatte al grande
piano parigino rivelano generalmente pochezza di senso storico in chi le ha
mosse.” Sul dibattito attinente ai centri storici: CIAM, Il cuore delle città, Hoepli,
Milano 1954; Dove batte il cuore della città: l’agorà trasformata in parcheggio,
in Cronache di architettura, vol. 1, n. 15, Laterza, Bari 1971.
Urbanistica moderna
Per l’idea della città giardino, la “cité industrielle” di Tony Garnier, il pensiero
urbanistico di Wright, Le Corbusier, Gropius e gli altri maestri del razionalismo
e della tendenza organica, cfr. la bibliografia della Storia dell’architettura
moderna, Einaudi, Torino 1975. Inoltre, LEONARDO BENEVOLO, Le origini
dell’urbanistica moderna, Laterza, Bari 1963; CARLO AYMONINO, Origine e
sviluppo della città moderna, Marsilio, Padova 1971.
Interpretazioni dell’urbanistica
Per un inquadramento generale, cfr. l’ottima antologia di FRANÇOISE CHOAY,
L’urbanisme – utopies et réalités, Seuil, Paris 1965. Vi sono raccolti scritti di
vari autori, articolati secondo i seguenti capitoli: “Le pré-urbanisme
progressiste” (Robert Owen, Charles Fourier, Victor Considérant, Etienne
Cabet, Pierre-Joseph Proudhon, Benjamin Ward Richardson, Jean-Baptiste
Godin, Jules Verne, Herbert-George Wells); “Le pré-urbanisme culturaliste”
(Augustus Welby Northmore Pugin, John Ruskin, William Morris); “Le pré-
urbanisme sans modèle” (Friedrich Engels, Karl Marx, Pierre Kropotkine, N.
Boukharine e G. Préobrajensky); “L’urbanisme progressiste” (Tony Garnier,
Georges Benoit-Lévy, Walter Gropius, Le Corbusier, Stanislas Gustavovitch
Stroumiline); “L’urbanisme culturaliste” (Camillo Sitte, Ebenezer Howard,
Raymond Unwin); “L’urbanisme naturaliste” (Frank Lloyd Wright);
“Technotopie” (Eugène Hénard, rapport Buchanan, Iannis Xenakis),
“Anthropopolis” (Patrick Geddes, Marcel Poète, Lewis Mumford, Jane Jacobs,
Léonard Duhl, Kevin Lynch); “Philosophie de la ville” (Victor Hugo, Georg
Simmel, Oswald Spengler, Martin Heidegger). Cfr. inoltre URBANO CARDARELLI
e MARIA LUISA SCALVINI, Incontri di studi urbanistici, in “Op. cit.”, n. 8, gennaio
1967. Per la ricerca di CHRISTOPHER ALEXANDER, più che Notes on the
Synthesis of Form, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1964 (in
italiano, Note sulla sintesi della forma, Il Saggiatore, Milano 1967), cfr. A City is
not a Tree, in “Design”, n. 266 (in italiano, La città non è un albero, in
“L’architettura – cronache e storia”, anno XII, nn. 133-35, novembre 1966-
gennaio 1967). Inoltre La storiografia urbanistica, Ciscu, Lucca 1976.
Interpretazioni politico-economiche
Fra le più brillanti demitizzazioni condotte negli ultimi anni va annoverata
quella riguardante l’urbanistica di Sisto V, scaduta dal livello di un’ispirazione
religiosa o liturgica a quello di una speculazione privata. CESARE D’ONOFRIO,
in Gli obelischi di Roma, Cassa di Risparmio, Roma 1965, si chiede: “Perché
mai il piano urbanistico di papa Sisto, iniziato con grandissima foga, si spegne
del tutto dopo poco meno di tre anni, pur avendo ancora il pontefice circa due
anni e mezzo di tempo per portarlo a termine o almeno per proseguirlo?
Ovvero, perché il pontefice sembra appagato dei rettifili ormai da lui costruiti,
benché assolutamente inadeguati, date le premesse liturgiche?... Mi pare che
la conclusione venga da sé: i tre rettifili progettati proprio agli inizi del
pontificato e immediatamente realizzati sotto l’etichetta ufficiale: ‘per
commodità et devotione del popolo’ coincidevano al millimetro con un’altra non
dichiarata ‘commodità’: l’immensa villa Montalto... La villa Montalto voleva
essere, in Roma, la dimora principesca (nel senso più esteso della parola)
della istituenda nobile dinastia dei Peretti. Di qui le infinite spese e le infinite
cure per essa (e per i suoi immediati dintorni), al fine di renderla più comoda e
più ricca, ed insieme, proprio attraverso una ben congegnata rete stradale,
farne da una solitaria villa di campagna, una vera e propria principesca
residenza cittadina, in diretto collegamento con i punti più ragguardevoli della
città... Si deve necessariamente concludere che il piano urbanistico ‘ufficiale’,
cioè quello dichiarato nella Bolla dell’86 e più dettagliatamente spiegato dalle
parole del Fontana, nonché da altre fonti, fu quasi esclusivamente realizzato
fin dove coincise con le ‘commodità’ della villa Montalto. Quindi, un vero e
proprio piano urbanistico realizzato da Sisto V a favore della città di Roma,
così come è stato formulato dagli studiosi moderni, non esiste; esiste quasi
soltanto una rete di efficacissime strade nate ad uso di quella villa.” Per
un’interpretazione della città in rapporto alla “economia del puro sovrappiù”,
cfr. EDOARDO SALZANO, Urbanistica e società opulenta, Laterza, Bari 1969.
Questo saggio comprende una serrata critica delle utopie ottocentesche: “Dal
momento che non vedevano la inevitabilità storica del capitalismo, gli utopisti
non solo non scorgevano, entro quest’ultimo, la peculiare potenzialità positiva
rappresentata, per la città, dal carattere sociale della produzione, ma
divenivano poi del tutto incapaci di comprendere realmente il capitalismo e di
analizzarlo nella sua vera e profonda natura, e quindi, per ciò stesso, di
criticarlo in modo sufficiente; di conseguenza, data la presenza massiccia e
l’inevitabile affermazione del sistema capitalistico-borghese, essi non potevano
far altro che patirlo, accettandolo nella sostanza e, al tempo stesso,
ribellandovisi moralisticamente e astrattamente.” Vedi inoltre: HENRI LEFEBVRE,
Réflexions sur la politique de l’espace, in “Espaces et sociétés”, n. 1,
novembre 1970.
Interpretazioni sociologiche
Un’ottima antologia dei classici della sociologia urbana (comprendente
anche scritti di NUMA DENIS FUSTEL DE COULANGES sulla città antica, di
GUSTAVE GLOTZ sulla città greca, di HENRI PIRENNE sulle città medievali, di
MAX WEBER sulla città) può trovarsi in Città e analisi sociologica, a cura di
GUIDO MARTINOTTI, Marsilio, Padova 1968. Cfr. inoltre RAYMOND LEDRUT,
Sociologie urbaine, Presses Universitaires de France, Paris 1968 (in italiano,
Sociologia urbana. Il Mulino, Bologna 1969); FRANCO FERRAROTTI,
Osservazioni sulla sociologia urbana, appendice di Roma da capitale a
periferia, Laterza, Bari 1970.
Interpretazioni psicologiche
Il saggio più importante in chiave socio-psicologica è quello di ALEXANDER
MITSCHERLICH, Die Unwirtlichkeit unserer Städte. Anstiftung zum Unfrieden,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 1965 (in italiano, Il feticcio urbano – La città
inabitabile, istigatrice di discordia, Einaudi, Torino 1968). Inoltre, ALFRED
LORENZER, Urbanistica: funzionalismo e montaggio sociale? La funzione
sociopsicologica dell’architettura, nel volume di H. BERNDT, A. LORENZER, K.
HORN, Architektur als Ideologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1968 (in
italiano, Ideologia dell’architettura, Laterza, Bari 1969).
Interpretazioni antropologiche
“Coloro che trovano brutta New York sono solo vittime di una percezione
illusoria. Non avendo ancora imparato a cambiare registro, si ostinano a
giudicare New York una città, e criticano le strade, i parchi, i monumenti.
Senza dubbio, New York è, obbiettivamente, una città, ma lo spettacolo che
offre alla sensibilità europea è di un altro ordine di grandezza che è quello del
nostro paesaggio; mentre i paesaggi americani ci trasportano in un sistema
ancora più vasto di cui noi non possediamo l’equivalente. La bellezza di New
York non dipende dalla sua natura di città, ma dalla sua trasposizione,
inevitabile per il nostro occhio se rinunciamo a irrigidirci, dal livello di città a
quello di paesaggio artificiale, dove i principi dell’urbanesimo non hanno più
ragione di esistere: unici valori significativi, il vellutato della luce,
l’evanescenza delle lontananze, i precipizi sublimi ai piedi dei grattacieli e le
vallate ombrose cosparse di automobili multicolori come fiori... A Parigi, il
Marais era in fiore nel XVII secolo e ora la muffa lo rode; specie più tardiva, il
IX circondario si sviluppava sotto il Secondo Impero, ma le sue case oggi
sfiorite sono invase da una fauna di piccola gente che, come insetti, vi trova un
terreno propizio a umili forme di attività... Nel 1935 a Rio de Janeiro, il posto
occupato da ciascuno nella scala sociale si misurava con l’altimetro, tanto più
basso quanto più il domicilio era alto. I miserabili vivevano appollaiati sulle
alture, nelle ‘favelas’ dove una folla di negri vestiti di stracci pulitissimi
inventava sulla chitarra quelle vivaci melodie che durante il carnevale
sarebbero discese a invadere la città... Per le città europee, il passare dei
secoli costituisce una promozione; per quelle americane, il passare degli anni
provoca una decadenza. Esse non soltanto sono costruite di fresco, ma lo
sono per rinnovarsi con la stessa rapidità con cui sono nate, cioè male. Al loro
sorgere i nuovi quartieri sono a malapena degli elementi urbani: sono troppo
brillanti, troppo nuovi, troppo allegri per esserlo del tutto. Sembrano piuttosto
elementi di una fiera, di un’esposizione internazionale edificata per qualche
mese. Dopo quel termine, la festa finisce e quei grandi giocattoli deperiscono.
Non sono città nuove in contrasto con città vecchie; ma sono città a ciclo di
evoluzione molto rapido, paragonate ad altre a ciclo più lento. Certe città
d’Europa si addormentano con dolcezza nella morte; quelle del Nuovo Mondo
vivono febbrilmente in una malattia cronica; giovani in perpetuo, senza tuttavia
essere mai sane...” (CLAUDE LÉVI-STRAUSS, Tristes Tropiques, Plon, Paris
1955; in italiano, Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano 1960). Cfr. anche: EDWARD
T. HALL, La dimensione nascosta, Garzanti, Milano 1968, e le osservazioni
relative in Prossemica e dimensione extra-disciplinare, in “L’architettura –
cronache e storia”, n. 158, dicembre 1968.
Pseudo-teorie sull’ambientamento
Un panorama dei vari punti di vista sull’argomento in CORRADO BEGUINOT e
PASQUALE DE MEO, Il centro antico di Napoli, Esi, Napoli 1965. Resta
fondamentale la posizione di IAN NAIRN, Urban surrealism, in Attualità
urbanistica del monumento e dell’ambiente antico, Milano 1957. Inoltre, Contro
ogni teoria dell’ambientamento, in “L’architettura – cronache e storia”, n. 118,
agosto 1965.
Biagio Rossetti
Il volume in grande formato, Biagio Rossetti, architetto ferrarese, il primo
urbanista moderno europeo, Einaudi, Torino 1960, contiene una vasta mole di
documenti d’archivio. Questi sono stati omessi nell’edizione del 1971, formato
“Saggi”, intitolata Saper vedere l’urbanistica, che però mantiene i rilievi dei
monumenti rossettiani, un’esauriente bibliografia, tavole cronologiche dal 1400
al 1530 sugli avvenimenti riguardanti la storia, le arti, l’architettura, il pensiero
e la tecnica, e gli indici dei nomi, dei luoghi e monumenti e delle illustrazioni.
La presente edizione della “Biblioteca Studio” rinuncia a questi apparati e ai
commenti su alcune opere minori.
Fra i contributi successivi: F. BOCCHI, Note di storia urbanistica ferrarese
nell’alto medio evo, Deputazione di Storia Patria, Ferrara 1974; s. GHERONI, F.
BARONI, Note storiche su Palazzo Schifanoia, Deputazione di Storia Patria,
Ferrara 1975; C. CESARI, M. PASTORE, R. SCANNAVINI, Il centro storico di
Ferrara, a cura di P.L. CERVELLATI, Levi, Modena 1976; Le mura di Ferrara, a
cura di P. RAVENNA, Panini, Modena 1985; A.F. MARCIANÒ, L’età di Biagio
Rossetti. Rinascimenti di casa d’Este, Cassa Risparmio, Ferrara 1991; G.
GUERZONI, San Cristoforo di Ferrara, Interbooks, Padova 1992; C. BASSI,
Nuova Guida di Ferrara, Bovolenta, Milano 1981; Ferrara, novità fatta di verità
antiche, Interbooks, Padova 1991; Perché Ferrara è bella, Corbo, Ferrara
1994.
FERRARA DI BIAGIO ROSSETTI, “LA PRIMA CITTÀ
MODERNA D’EUROPA”
MOTIVI DELLA SFORTUNA CRITICA DI UN URBANISTA
L’ampliamento della delizia, voluto da Alberto V d’Este nel 1391. Gli ultimi restauri del
palazzo ne hanno rimesso in luce i resti del fastigio merlato.
La sopraelevazione della delizia, realizzata da Pietro Benvenuti e Biagio Rossetti nel 1463.
Il nuovo portale stride col motivo della merlatura.
Ricostruzione schematica della pianta di Schifanoia, con la “loza longa” situata verso il
parco, tra il blocco della sala dei Mesi e il corpo aggettante a nord. È segnata anche la
probabile scala di accesso al piano nobile.
Prospettiva schematica della delizia quale doveva apparire, con la “loza longa” e la scala,
dal vasto parco retrostante. Non rimane più alcuna traccia di questi elementi.
A tale scopo, il succedersi aritmico delle forature è vantaggioso: tutta
la tradizione medievale attestava che quanto più esse sono varie e
appaiono episodiche, tanto più risulta difesa l’unità della tessitura
parietale. Selezionare un “modulo” per ripeterlo meccanicamente
fino a misurare l’intera lunghezza dell’edificio avrebbe significato
seguire una via accademica, per giunta vana poiché la lunghezza
era tale da non poter essere facilmente racchiusa in una
“proporzione”.
II motivo emergente del portale collegato alle due finestre centrali della sala dei Mesi e a
quelle laterali che ne ripetono il tema, rispetto all’episodica narrativa del prospetto (cfr. foto
17, 18).
L’incastro compositivo del portale con le due finestre centrali della sala dei Mesi nella delizia
di Schifanoia. Il portale resterebbe un oggetto in sé, avulso dal contesto, applicato
meccanicamente alla facciata, se Rossetti non lo avesse incatenato entro un preciso
rapporto. Il triangolo dei vuoti s’incastra con quello dei pieni, mediando il trapasso dal
gioiello marmoreo alla stesura laterizia. Doppio cuneo sul quale poggia l’intero impianto
progettuale (cfr. foto 22).
Ipotetica distribuzione della luce nella sala dei Mesi, qualora le aperture del prospetto
corrispondessero a quelle del fronte posteriore. A destra, la soluzione rossettiana che,
sfalsando le finestre, consente un’illuminazione varia, puntata sulle pareti. Il dispositivo
esalta la pittura e immerge lo spazio in un’atmosfera trasognata e magica. Il prisma della
sala, altrimenti inerte, acquista una dinamicità determinata dai flussi luminosi incrociati.
Lo scatto direzionale di via Scandiana nel suo distacco da via Borgo di Sotto, e la delizia di
Schifanoia.
Linee-forza essenziali della composizione urbanistica di Schifanoia. Sin dalla sua prima
opera, Rossetti attesta l’interdipendenza tra edificio e città.
Schema volumetrico di San Giorgio prima della trasformazione operata da Alberto Schiatti
nel 1581. Il prospetto originario è documentato nella placca argentea della cassetta
contenente le reliquie di san Maurelio, scolpita da Giannantonio da Foligno nel 1512; si
tratta di un impianto veneziano, ricalcato sulle opere di Mauro Coducci e della sua scuola.
Quattro prismi, di cui il primo marcatamente più basso dei tre sovrastanti, caratterizzano la
composizione del campanile di San Giorgio. Montaggio di elementi stereometrici cubici, che
suona precisa critica al complesso prototipo albertiano del Duomo (cfr. foto 116, 117).
Rossetti ne rifiuta il programmato contrasto con la chiesa adiacente, vuole anzi che il
campanile sia rivestito dallo stesso materiale laterizio e che gli ornati delle trabeazioni e
degli oculi si diano carico del retaggio vernacolare della città. Codice nuovo, ma non
estraneo al contesto in cui interviene.
La torre campanaria del Duomo, per il pondo dell’ordine superiore
che dobbiamo immaginare accresciuto dal coronamento non
realizzato, doveva essere letta dall’alto verso il basso poiché, nella
corposità delle membrature e delle proporzioni, puntava verso terra.
Il campanile di San Giorgio si legge invece dal basso verso l’alto,
con una cadenza lenta che nulla ha più in comune con quella
scattante dei prototipi medievali. Merita, in proposito, osservare
alcuni particolari:
1) i tre prismi superiori sono pressoché identici, ma il quarto è più
basso, accentuando così in modo impercettibile lo slancio
prospettico;
2) le lesene sono in mattoni, non turbano la continuità orizzontale
degli specchi, ma la commentano con righe d’ombra presso gli
spigoli;
3) le fasce che dividono gli ordini e i capitelli sono invece in cotto
stampato; Rossetti preferisce collegare i capitelli alle
trabeazioni superiori anziché alle lesene, e ciò per evitare che i
dadi siano ingabbiati da una cornice cromaticamente diversa.
Fasce e capitelli formano una serie di U rovesciate levitanti
nella stesura laterizia;
4) la decorazione delle fasce tiene conto del tema prospettico e
varia di livello in livello, presentando nel primo una fitta
continuità di elementi floreali a foggia di candelabro, nel
secondo una successione di palmette, nel terzo e nel quarto
un gioco di tulipani fantasiosi, riuniti da festoni.
Le trabeazioni divisorie degli ordini del campanile di San Giorgio, fuse plasticamente con i
capitelli delle lesene angolari (cfr. foto 23), formano quattro U rovesciate, quasi sospese
nello spazio. Ulteriore critica alla soluzione albertiana della Cattedrale (cfr. foto 116, 117):
dato il lievissimo rilievo delle membrature agli spigoli, qui non si verifica la chiusura dei
riquadri sovrapposti.
Due ipotesi e la soluzione. Il prospetto di casa Rossetti con le finestre situate al centro degli
ambienti. Poi, lo stesso prospetto con i binati rossettiani ripetuti nei due ordini. Infine, lo
schema realizzato (cfr. foto 32-34), coagulante i vuoti nel centro in funzione urbanistica e
libero da ogni rigidità compositiva nel piano terreno.
Il corpo di disimpegno della scala sul fronte occidentale di casa Rossetti. Come è
testimoniato nei rilievi, di tale corpo restano evidenti tracce sull’attuale fianco dell’edificio.
La loggia di piazza progettata da Rossetti risolveva, con un intervento modesto, quasi con
un arredo urbano, il problema del vecchio centro, conferendo significato allo snodo
determinato dall’albertiano “Arco del Cavallo” (cfr. foto 36). Il sistema è facilmente
comprensibile e, del resto, ben illustrato in una xilografia di Ferrara del 1499 (cfr. foto 44).
La loggia circuiva il palazzo estense, concludendosi nella “via coperta”. L’arco albertiano,
oggi mero ingombro, costituiva un essenziale diaframma tra due piazze.
Ferrara nel XIV secolo, estesa a est per annettere il Borgo Vado. A sud, il polesine di
Sant’Antonio è difeso da una linea fortificata. Appartiene a questo secolo la Carta itineraria
conservata nella Biblioteca Vaticana, che costituisce il primo documento grafico originale in
cui è indicata la struttura urbana (cfr. foto 38-40).
La città nella prima metà del XV secolo, dopo l’annessione del Borgo di Sopra situato a
ovest, e la rettificazione delle mura settentrionali. Le due nuove arterie sono la strada di
San Francesco e via Scandiana (cfr. foto 17-18).
Nel 1451 l’Addizione del duca Borso aggrega alla città il polesine
di Sant’Antonio. La strada tracciata sul canale interrato è via della
Ghiara dove Biagio Rossetti costruirà la sua preziosa casetta:
fautore del nuovo, sceglierà l’arteria più moderna della Ferrara
quattrocentesca.
Ferrara dopo il 1451. Le mura meridionali sono state dilatate per includere il polesine di
Sant’Antonio. La dorsale dell’Addizione di Borso è via della Ghiara, dove Rossetti
costruisce la sua casetta (cfr. foto 32-34). Si confronti con la situazione urbanistica indicata
nella pianta di Bartolino da Novara del 1385. Risale al 1499 l’Alzato di Ferrara conservato
nell’Archivio di Stato di Modena (cfr. foto 44).
L’Addizione erculea con i raccordi del suo tracciato stradale al vecchio nucleo. Oltre le
piante Tipo del Prisciani (cfr. foto 43, 45), documentano questi raccordi l’incisione di Matteo
Florimi Formis del 1598 (cfr. foto 47) e la pianta disegnata da Giovanni Battista Aleotti (cfr.
foto 48). Del resto, la loro fondamentale importanza è evidenziata nelle foto aeree (cfr. foto
56), specie per quanto riguarda via della Rosa, oggi via degli Armari, che prolunga nella
maglia rinascimentale la curvatura di via Boccacanale, saldando i due settori urbani.
Arterie viarie e mura dell’Addizione erculea non sono ortogonali fra loro. Ciò è visualmente
rilevante, perché le strade terminano con inviti pluridirezionali.
Ipotesi dell’ubicazione della piazza nuova lungo via degli Angeli: la dinamica urbana ne
risulterebbe interrotta, mentre viene esaltata dalla localizzazione reale, lungo via dei Prioni
(cfr. foto 57, 64, 65).
Lo sviluppo urbano dopo l’età di Biagio Rossetti e le stesse mura elevate da Alfonso I
costituiscono una conferma della validità del disegno concepito nel 1492. Ordito
rinascimentale, ma non “città ideale”, ben radicato nel territorio, contenuto dall’invaso delle
mura, e sistematicamente raccordato all’aggregato medievale. La Giovecca, limite che
sembrava invalicabile, risulta totalmente assimilato nella struttura unitaria della città, l’unica
forse che abbia saputo fondere il nucleo antico e la sua grandiosa espansione (cfr. foto 49-
54).
Itinerario della costruzione delle mura dal Cantone di San Marco al Canton del Follo. Punte,
torrioni e porte sono identificabili nella foto aerea di Ferrara (cfr. foto 57).
Il nuovo sistema del “fronte bastionato” libera la città dalla soffocante cintura.
Le strade che adducono alla piazza nuova sono perimetrali e il loro accesso è
contrassegnato dai portici dei palazzi. Stupendo l’accesso da via Borso (cfr. foto 55) ma
significativi anche gli altri (cfr. foto 66-70).
I portici rossettiani non sono anonime “strade coperte”, ma spazi racchiusi da accentuati
elementi angolari, lo si riscontra, nella piazza nuova, sia nel palazzo Bevilacqua (cfr. foto
66-69) che in quello Rondinelli, che doveva prolungarsi lungo tutto il fronte meridionale
dell’ampio invaso urbano.
Quattro ipotesi sull’ubicazione del palazzo dei Diamanti nel quadrivio. L’impianto prescelto
accentua la direttrice verso la piazza nuova. Se il palazzo fosse situato di fronte, dove sorge
quello Prosperi-Sacrati (cfr. foto 81), costituirebbe un punto di arrivo, inducendo a tornare
indietro verso il Castello. Collocato a destra, implicherebbe un invito verso San Benedetto.
E infine, al posto del palazzo Turchi-Di Bagno, avrebbe un effetto analogo, in quanto
bloccherebbe visualmente l’accesso alla piazza nuova.
Il piano nobile del palazzo dei Diamanti è arretrato rispetto al filo del piano terreno. Tale
accorgimento prospettico evita che la sua mole incomba eccessivamente sul nodo del
quadrivio.
Schema della struttura originaria di palazzo dei Diamanti, con le due ali analoghe e lo
scalone di accesso al piano nobile. L’alterazione di questa struttura ha reso il palazzo più
umano e moderno.
I volumi interni del piano terreno e del primo piano. Malgrado il rigoroso ordito, che rispetta
sul fronte principale anche la legge toscana delle sette finestre, la sequenza degli spazi si
sottrae a ogni astratta regola proporzionale. L’effetto assonometrico di moderna pianta
articolata va tuttavia attenuato immaginando un secondo corpo di fabbrica sul lato
settentrionale del cortile.
Gli altri edifici rossettiani di via degli Angeli, anche i due del
quadrivio, i palazzi Prosperi-Sacrati e Turchi-Di Bagno, si
compongono in rapporto alla dimora di Sigismondo, quasi che il loro
tono fosse graduato in funzione del signoreggiante blocco estense.
Nessuno presenta una massa imponente; tutti puntano su strumenti
espressivi diversi, su lineamenti di pilastrate atte a separare i volumi
in piani che fungano da schermi alla strada, o su tranquille stesure
murarie. Persino il “vuoto” all’angolo nord-orientale del crocevia,
costituito da un neutro fabbricato a un piano dietro il quale svettano i
solenni alberi del parco Massari, si spiega in relazione al palazzo dei
Diamanti: rimpianto urbanistico, come vedemmo, non ammetteva sul
versante della piazza nuove strutture che venissero a competere con
quella di Sigismondo.
Palazzo Prosperi-Sacrati fu elevato intorno al 1493 per l’archiatra
ducale Francesco Castelli, e poi parzialmente rinnovato nella prima
decade del Cinquecento (cfr. foto 78-81). Un documento reperito da
Cittadella attesta che Rossetti fu chiamato come arbitro per dirimere
una lite sorta tra il committente e i costruttori; ciò spinse a escludere
Biagio dai possibili architetti del palazzo, poiché egli non poteva
essere giudice e parte, all’un tempo. Ma Reggiani, Neppi e Padovani
giustamente osservarono che il documento si riferisce alla prima
fase dei lavori, mentre l’opera di Rossetti riguarda soprattutto il
rinnovamento cinquecentesco; non meraviglia che Castelli, volendo
procedere a un arricchimento della sua abitazione, abbia chiamato
proprio colui che, per la sua autorità, era stato scelto arbitro nella
contesa.
Rossetti mantenne il tono opaco dell’edificio che egli stesso, in
qualità di soprintendente all’Addizione, aveva contribuito a
determinare, ma vi sovrappose alcuni preziosi elementi: all’interno, il
loggiato; all’esterno, le pilastrate angolari e lo stupefacente portale.
Stava modificando le finestre del piano nobile quando la morte
dell’archiatra, avvenuta nel 1511, fece sospendere i lavori.
La paternità del portale, come si è accennato, è stata contestata
a Biagio. È ben difficile tuttavia immaginare che Castelli chiamasse
due diversi artisti per le pilastrate e per il portale, tanto più che le
ricorrenze e gli allineamenti sono tali che l’autore misterioso di
quest’ultimo avrebbe dovuto assoggettarsi a Rossetti per tutta
l’impostazione architettonica, limitandosi all’esecuzione plastica.
Quanto alla congettura di Agnelli, chi avrebbe comprato il portale a
Venezia se non Biagio? Va aggiunto che un’analisi permette di
reperirvi modanature usate ampiamente da Rossetti altrove; né gli
accenti veneti e lombardeschi sono estranei, come sappiamo, al suo
gusto. Perché dunque gli fu negato? Il motivo è uno solo: è stato
giudicato troppo bello per Rossetti. Le splendide colonne scanalate
con capitelli compositi, i pilastri che le legano alla parete, la scalinata
scolpita, la trabeazione e i fregi sono sembrati plasticamente troppo
perfetti per essere ascritti al modesto “muratore”. Gli amatori di
Rossetti ne hanno rivendicato la paternità al maestro mediante
minuti esami calligrafici e acute comparazioni. Ma prima che nelle
magnifiche membrature, è nella funzione urbanistica del portale che
si rivela il suo autore.
Rossetti aveva escluso un ingresso sontuoso e aggettante
rispetto al filo stradale nel palazzo dei Diamanti, perché all’interno
del quadrivio e in quell’angolo voleva che una massa compatta si
proponesse all’osservatore. Qui però il problema era diverso. Era
stato risolto provvisoriamente nel 1493 con una porta di cui sono
state rinvenute tracce ma si ignora il disegno. Quando, nel
Cinquecento, Biagio riaffrontò il tema, sentì che in direzione del
Barco, su un corpo edilizio minore e appena ravvivato da spunti
decorativi, un grandioso accesso emergente avrebbe suggerito un
arresto visuale non solo utile, ma quasi indispensabile per smorzare
la velocità della traiettoria longitudinale, per invitare a levante, verso
la piazza nuova.
Linee-forza del palazzo Turchi-Di Bagno (cfr. foto 83, 84). Il barone Haussmann, per i rettifili
parigini, costruirà facciate. Rossetti fissa gli angoli, in una visione prospettica infinitamente
più ricca e dinamica.
Il pilastro angolare di palazzo Mosti (cfr. foto 85) ripete, in tono minore, il motivo di palazzo
Turchi-Di Bagno. Risponde a una funzione tipica delle case ferraresi dell’aggregato
medievale (cfr. foto 24-27).
Va notato però come esso non si allinei al portale, non rispetti gli
ordini sovrapposti, astragga insomma dalla composizione del
palazzo. Anche in questo caso Biagio vuol dimostrare che le facciate
dell’edificio non valgono per un loro impianto autonomo e
simmetrico, ma come quinte prospetticamente sfuggenti da un nodo
urbano.
L’ultimo fabbricato che resta da esaminare è quello di Giulio
d’Este (cfr. foto 86). Restaurato nel 1932, conferma il carattere che
Rossetti voleva imprimere ai fabbricati disposti lungo le strade
dell’Addizione. Le finestre binate, il mirabile cornicione, la porta
marmorea con sovrastante balcone, l’arioso cortile razionalizzano il
vernacolo ferrarese senza annientarlo. Il discorso rinascimentale
adotta vocaboli noti all’artigianato locale precisandone la virtuale
sintassi, ma senza rigorismi accademici. L’eleganza non comporta
atteggiamenti altezzosi, la fabbrica gentilizia si nutre di ingredienti
tratti dai dialetti, la fisionomia di Ferrara moderna non si distacca e
non si oppone a quella del vecchio nucleo. La saldatura, la simbiosi
tra le due città è garantita anche dal linguaggio architettonico che
Rossetti rinnova ma non sovverte.
San Silvestro
Casa Rossetti (cfr. foto 32-34)
Palazzo di Ludovico il Moro (cfr. foto 119-134)
Palazzo di Ghiara
Ciò non accade nella seconda metà della sua vita perché, tornato
ad agire nel vecchio nucleo, egli sente che il problema della sua
saldatura con l’Addizione va affrontato anche sul terreno del
linguaggio architettonico: e perciò trasferisce il tema di San
Francesco e di Santa Maria in Vado nella città nuova, con San
Benedetto e San Cristoforo; e conclude il suo lavoro con palazzo
Roverella posto simbolicamente sulla Giovecca, quasi ad avvertire
che la cesura tra i due settori urbani è stata cancellata. Tuttavia è
inutile pretendere da lui quello che non intese dare se non in casi
eccezionali: la cura di ogni particolare.
Anche per tali ragioni, e per procedere a un radicale snellimento
del testo, si è ritenuto opportuno omettere il vaglio analitico delle
attribuzioni, le notizie sulle vicende dei monumenti, l’escussione
degli accertamenti acquisiti. Lo specialista potrà consultare il vasto
apparato documentario e filologico pubblicato nella grande edizione
del 1960; mentre per lo storico, l’architetto, il cultore d’arte, tale
apparato non intralcerà il discorso sulla personalità rossettiana. Lo
scopo cui si mira è dimostrare che, contro tutte le apparenze, nei
lavori di Rossetti si enuclea una sostanziale coerenza, decifrabile
malgrado gli apporti di altri artisti, i rifacimenti seguiti al terremoto del
1570, le distruzioni inferte nell’ultima guerra. Questa coerenza si
esplica sul terreno spaziale, volumetrico e urbanistico, in tutte le
opere; in alcune poi è riconoscibile la mano del Rossetti – e sono le
opere di poesia.
SAN FRANCESCO
Profondità prospettiche delle navi minori e delle cappelle in San Lorenzo a Firenze, e
quantità stereometriche in San Francesco, dove il risucchio prospettico viene caricato dai
flussi luminosi (cfr. foto 96-97).
Le cappelle sono scure a San Lorenzo, mentre a San Francesco Rossetti inonda di luce le
pareti del loro involucro (cfr. foto 96) rendendole riflettenti.
La luce che inonda San Francesco (sopra) è quella della città. Mentre a San Lorenzo
(basso, sinistra) proviene dall’alto, qui (basso, destra) ha la scala dell’uomo. L’atmosfera
che ne deriva rasenta l’eresia. Rossetti è un eretico in questo senso: vuole che l’edificio
sacro appartenga al contesto urbano, sia immanente.
Schema della facciata (cfr. foto 87). Le volute di matrice albertiana sembrano aggredire il
setto centrale, quasi per dimostrare che l’organismo architettonico si costruisce dall’esterno
verso la navata maggiore.
L’ordine gigante nel fianco della chiesa (cfr. foto 93-95). Le finestre binate hanno la misura
della città medievale. Da qui l’effetto colossale, particolarmente evidente da via delle
Vecchie (cfr. foto 26). Inoltre, le lesene proiettano all’esterno i divisori delle cappelle, con
funzione analoga a quella delle paraste interne (cfr. foto 98).
Quali sono dunque gli elementi che rendono questa chiesa tanto
diversa da San Francesco da infirmarne l’attribuzione a Rossetti? In
primo luogo, il soffitto piano che affievolisce e in parte distrugge
l’articolazione stereometrica in campate; secondariamente, la
mancanza delle cappelle laterali; infine, la decorazione profusa sulle
pareti.
Non potendo ottenere, data l’ubicazione della chiesa, fonti luminose provenienti dalle
cappelle laterali, e dovendosi affidare alle alte finestre della navata maggiore, l’architetto
decide di innalzare l’ordine delle colonne su pilastri, ispirandosi a un motivo veneto.
Ma sono tutti elementi non riferibili a Biagio. Per ciò che riguarda
il soffitto piano, l’architetto non lo voleva, come dimostra il contratto
già citato in cui appunto si prevedono una serie di cupolette e,
all’incrocio tra la navata e il transetto, una cupola; per ragioni
finanziarie, le prime non furono mai costruite, mentre la cupola fu
demolita nel 1829 onde garantire la stabilità dell’edificio. Quanto alle
cappelle, qui mancano, ma dietro gli invadenti altari barocchi si
individuano chiaramente le inflessioni murarie che ne riecheggiano il
motivo. Infine, le decorazioni che soffocano le superfici sono tutte del
tardo Cinquecento o del Seicento.
Le inflessioni dei muri perimetrali sono ora nascoste da sontuosi altari barocchi. Occorre
immaginarle nella loro primitiva nudità, quando fungevano da sfondo a mense semplici e
chiare. Se ne capta allora il significato: un’eco delle cappelle brunelleschiane di Santo
Spirito a Firenze nello spessore della parete. Luce radente dalle finestre di facciata.
Si può rompere l’uniformità dei colonnati (a sinistra) di San Francesco (cfr. foto 94) e di
Santa Maria in Vado (cfr. foto 102) per articolare la navata (a destra) mediante paraste che
raggiungono ed animano la trabeazione (cfr. foto 108, 109). Ne discende un organismo
controllatissimo, consono al settore rinascimentale della città.
Una croce greca cui si aggiunge un braccio longitudinale. Il contrasto tra ideale centrico
rinascimentale ed esigenza liturgica e simbolica della croce latina tormenta gli architetti
della Rinascenza. Rossetti supera l’ostacolo nel modo più elementare e brillante: denuncia
la dicotomia, separando il braccio dalla croce greca mediante una calotta schiacciata che
dimezza la navata maggiore (cfr. foto 108, 109).
Tale croce è poi allungata con l’unità della calotta schiacciata e con
un’ultima volta a botte sull’ingresso. L’organismo fruisce così di due
puntualizzazioni focali: una, principale, nella cupola, e una
secondaria nel mezzo della navata, ed è soluzione quanto mai
efficace poiché segna una graduazione ascensionale dei centri
luminosi.
La chiesa acquista due fulcri: quello della calotta illuminata dagli oculi laterali, che serve di
preparazione allo slancio della cupola, perno dell’organismo fondamentale, a croce greca.
Sostanziali sono dunque gli arricchimenti del linguaggio
rossettiano in San Benedetto, ma il timbro della sua arte si identifica
ancora una volta nella distribuzione delle sorgenti di luce perché da
esse tutti gli altri elementi vengono qualificati. Per ciò che riguarda le
tre absidi, l’impianto di Santa Maria in Vado è considerato
soddisfacente e può quindi essere qui ripetuto. Spregiudicata è
l’illuminazione, eccentrica e dilatantesi, delle cappelle che
fiancheggiano il presbiterio. Ma dove il metodo trionfa è nelle
cappelle semicircolari delle navi minori. Esse prendono naturalmente
lo spunto da San Francesco, ma sono poi elaborate in senso critico
e quasi eversivo.
A Santo Spirito di Firenze, le finestre sono poste al centro delle cappelle semicircolari (a
sinistra): i flussi luminosi sono quindi paralleli. Qui invece abbiamo flussi incrociati che
raddoppiano il chiarore delle cappelle, puntando sulle loro cavità (cfr. foto 109).
Una visione prospettica del fianco di Santo Spirito a Firenze secondo il primitivo schema
brunelleschiano presenta un equilibrio di pieni e vuoti, in quanto le finestre delle cappelle
sono situate al centro (a sinistra). Invece a San Benedetto (a destra) prevalgono
decisamente i pieni (cfr. foto 104-106) poiché le finestre binate si nascondono nei recessi
(cfr. foto 107) lasciando pressoché ininterrotto il semicilindro laterizio.
Visuale ipotetica delle due cupole dall’ingresso della chiesa, qualora mancasse l’arcone
trionfale e quindi la calotta della zona presbiteriale non fosse schermata.
Va notato come l’arco di questa quinta incornici l’inviluppo
dell’abside: entrando nella chiesa sembra che l’abside sia posta a
immediato contatto con la quinta, e l’effetto della sua misteriosa,
indecifrabile profondità è altamente suggestivo.
L’arcone trionfale (cfr. foto 112-114), separando la zona presbiteriale dal transetto,
determina un’immensa camera di luce, sfolgorante al termine di una navata relativamente
oscura.
Il grandioso sopraordine di San Cristoforo (cfr. foto 111, 112) è il risultato dello studio su una
calibrata distribuzione della luce. Innalzando le finestre della navata, la zona in basso resta
oscura e quindi può essere qualificata dalle fonti luminose delle cappelle.
San Cristoforo costituisce il fermo a nord dell’Addizione Erculea (cfr. foto 64) dal lato della
piazza nuova. Da palazzo Bevilacqua (cfr. foto 69) si sale lungo via Borso (cfr. foto 55); la
chiesa si stagliava nel paesaggio anche nella parte absidale ora nascosta (cfr. foto 110,
111).
I due ordini del coro (sopra) rispettano l’organismo medievale pur alterandone la scala (cfr.
foto 116-118). Ciò non accadrebbe se le arcate si estendessero (sotto), come a San Giorgio
(cfr. foto 23), a San Niccolò (cfr. foto 35) e a San Cristoforo (cfr. foto 111), da terra al
cornicione. Per concludere l’organismo della chiesa-madre della città, Rossetti non sentì il
bisogno di immettere un oggetto estraneo, analogo al campanile albertiano (cfr. foto 118).
Depurò il vernacolo.
I vuoti attuali della corte (a sinistra) e quelli alternati previsti nel disegno rossettiano (a
destra). L’assurdo restauro violentò il monumento anche sotto il profilo tecnico e struttivo
poiché demolì i binati pieni saldamente connessi al muro superiore e inferiore.
Abbiamo visto però che nell’aprile 1502 il loggiato corrispondente
alla sala maggiore era già costruito; e alcune particolarità fanno
credere che la costruzione fu fatta con la detta alternanza. Verso
l’interno mancavano per le arcate chiuse gli archi un poco più ampi
degli esterni e concentrici, che completano le arcate aperte
nascendo alla maniera medioevale da una mensola ricavata dal
masso del primo concio. Ma è anche fuori di dubbio che le colonnine
e i capitelli mostrano tutti una lavorazione completa come se fosse
stato sempre inteso di lasciare tutti gli archi aperti. Questa curiosa
situazione ha naturalmente dato luogo a discussioni. Occorre notare
che sugli angoli del cortile venivano ad accostarsi due archi aperti e
ciò in contrasto con eventuali preoccupazioni statiche, che
avrebbero – se mai – consigliato di rafforzare appunto gli angoli.
Dovettero essere piuttosto ragioni di carattere pratico a suggerire
questa limitazione di aperture.” E pertanto: “Studiata a lungo... e
portata dall’On. Ministero all’esame del Consiglio Superiore la grave
questione dell’opportunità di aprire tutte le arcate o di riaprire solo
quelle sin dall’origine destinate ad esser aperte, con la già notata
alternanza ‘due aperte e due chiuse’, prevalse il convincimento che il
fatto della completa lavorazione delle colonnine e dei capitelli
attestasse l’intendimento della totale apertura. Ragioni tecniche
concorsero a ritenere conveniente questa soluzione.”
C’è da stupire per la leggerezza con la quale fu adottata una
decisione così importante. Le sue giustificazioni possono essere
contestate una per una:
1) “è impossibile essere assolutamente sicuri” che Rossetti volle
l’alternanza di pieni e vuoti nel loggiato? Al contrario, se ne può
essere certi. Il contratto a rogito del notaio Bongiovanni del 16 aprile
1502, richiamato nel contratto del notaio Benedetto Lucenti del 21
settembre 1503, assicura che il loggiato del salone era già stato
realizzato. Biagio Rossetti che rimarrà garante delle opere anche
quando, per altre occupazioni, dovrà cederne l’esecuzione ad altri,
era sul posto, architetto e direttore dei lavori. Per quali ragioni,
contro la prova documentaria e la logica, si può supporre che una
determinazione compositiva così rilevante non spettasse a lui?
2) “espediente dell’ignoto capomastro che continuò la fabbrica e
che n’era già forse anche prima l’esecutore”? La congettura
dell’“espediente” sarebbe sostenibile se, dopo aver costruito tutti gli
archi aperti, ne fossero stati chiusi alcuni. Ciò non accadde, poiché il
loggiato non fu costruito da chi “continuò” i lavori, ma da chi li eseguì
sotto la diretta sorveglianza di Rossetti.
3) “le colonnine e i capitelli mostrano tutti una lavorazione
completa come se fosse stato sempre inteso di lasciare gli archi
aperti”? Se dovessimo demolire tutte le pareti retrostanti gli elementi
architettonici o le statue che mostrano una lavorazione completa,
resterebbe ben poco delle cattedrali romaniche e gotiche e dei
monumenti del Rinascimento. E poi: le colonnine e i capitelli
addossati al muro si potevano vedere di scorcio dal basso, e di lato
dalle arcate aperte del loggiato: perché mai avrebbero dovuto essere
plasmati in modo sommario?
4) “sugli angoli del cortile venivano ad accostarsi due archi aperti
e ciò in contrasto con eventuali preoccupazioni statiche”. Si tratta di
statica costruttiva? Per nulla; in tal caso si dovrebbero chiudere le
arcate angolari di tutti i cortili. E poi: l’aprire tutte le arcate rafforza
forse quelle angolari?
5) “prevalse il convincimento che il fatto della completa
lavorazione delle colonnine e dei capitelli attestasse l’intendimento
della totale apertura”. L’intendimento di chi? Di Bramante o di
Rossetti?
Sin dalla sala dei Mesi della delizia di Schifanoia, Rossetti ha posto la massima cura nel
dosaggio della luce degli ambienti interni. Qui, nelle gallerie e nei saloni del piano nobile,
tale dosaggio era affidato all’alternanza dei binati pieni e vuoti, e al suo rapporto con le
forature superiori (alto). Tutto ciò è stato cancellato: le fonti luminose sono ora piatte e
uniformi (basso).
Il palazzo ha acquistato una forma aperta, articolata, in certo senso assai più vicina al gusto
moderno di quanto non fosse l’impianto progettuale. Uno splendido non-finito che coinvolge
la fantasia di ciascuno.
Ubicazione del palazzo lungo l’asse della Giovecca (cfr. 56, 64), di fronte al vecchio centro.
La zona presbiteriale di Santa Maria della Consolazione è accentuatamente più alta delle
navate. Il restauro è dovuto a S.I. Sarpi.
La volontà di contrapporre alla navata in penombra un ambiente
sacro inondato di luce ha dettato, come vedemmo, la soluzione
dell’arco trionfale alla Certosa. Qui lo stesso arco, ora svisato dagli
spuri pilastri disegnati, diviene, anziché paramento, parte integrante
della struttura edilizia. La distinzione volumetrica tra il blocco delle
navate e la zona presbiteriale serve a nascondere le fonti luminose
che si annidano ai lati lasciando integra, dentro e all’esterno, la
tessitura curvilinea absidale esaltata dall’oculo centrale. Va dunque
concluso che si tratta di una chiesa pensata e costruita da Rossetti
come ambiente interamente fasciato dal rosso laterizio, punteggiato
soltanto dai bianchi capitelli.
Dopo il fervente biennio 1492-94 dedicato al cantiere
dell’Addizione, tutta l’attività di Rossetti è tesa a un fine: integrare,
mediante una serie di interventi architettonici, le due città. I suoi
lavori spaziano infatti nell’intero territorio ferrarese, e anzi sembrano
costantemente selezionati allo scopo di definirne o configurarne i
principali nodi urbani, oppure di incentivare l’edilizia in settori
periferici all’abitato. San Vito segna l’arresto visuale di via
Scandiana; il chiostro di San Paolo, il sopraelevamento della “via
coperta”, la loggetta del giardino pensile del Castello, palazzo
Montecatino sono contributi al rinnovamento del vecchio nucleo; San
Silvestro è l’epilogo orientale della Giovecca. Di là da questa arteria
ingemmata da palazzo Roverella, San Gabriele, l’Arsenale, il portale
Giglioli-Varano costituiscono inviti all’Addizione, punti di attrazione
verso la terra nuova. Infine, a nord-est, San Giovanni Battista
bilancia sul corso dei Prioni la massa di San Benedetto; e Santa
Maria della Consolazione serve a risolvere l’angolo di via Mortara,
cioè a concludere, presso porta Mare, il decumano dell’Addizione.
Dopo la grande impresa dell’Addizione, ventidue anni spesi per rinnovare l’aggregato
medievale, per strutturare con emergenze architettoniche l’area della città nuova, e infine
per garantire una simbiosi tra i due settori così densa e tesa da risultare in un organismo
unitario e moderno. Nello schema non sono segnati tutti gli interventi, ma solo i maggiori o
quelli esteticamente più validi. Tuttavia Rossetti non sprezza i lavori più modesti e umili,
specie nell’abitato antico: sa che è essenziale rivitalizzarlo a ogni scala, anche a livello
dell’arredo urbano.
Collocazione cronologica di Biagio Rossetti (linea scura a sinistra) tra i grandi architetti della
Rinascenza. Le linee orizzontali segnano il 1470 (sopra) e il 1516 (sotto). Quelle verticali,
da sinistra, sopra: l’operosità di Brunelleschi, Rossellino, Filarete, Michelozzo, Alberti,
Laurana, Francesco di Giorgio, Coducci, Benedetto da Maiano, Bramante, Giuliano da
Sangallo, Leonardo, Antonio da Sangallo il vecchio. Sotto: la vita di Falconetto,
Michelangelo, Serlio, Peruzzi, Raffaello, Antonio da Sangallo il giovane, Sanmicheli,
Sansovino, Giulio Romano e Palladio.
Nel 1955 il sindaco di Ferrara, prof. Luisa Balboni, e l’assessore alle BB.AA. sen. Mario
Roffi si rivolsero al preside dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, prof. arch.
Giuseppe Samonà, per invitare la cattedra di storia dell’architettura a predisporre le
celebrazioni di Biagio Rossetti nel quattrocentoquarantesimo anniversario della morte. Gli
studenti e io accettammo con entusiasmo: dedicai il corso al maestro ferrarese,’mentre gli
allievi del primo anno rilevarono vari monumenti, e quelli del secondo, con la guida del mio
assistente dott. Giuseppe Mazzariol, svolsero indagini documentate in una serie di tesine.
Contemporaneamente, con l’ausilio del dott. Marino Berengo, furono iniziate le ricerche
d’archivio nella Biblioteca Estense di Modena.
La mostra “Identità di Biagio Rossetti” fu inaugurata il 28 giugno 1956 nel ridotto del
Teatro Comunale, e sortì l’effetto desiderato: volevamo rivelare Rossetti ai ferraresi
mediante visioni inedite di edifici che ognuno poteva osservare direttamente passeggiando
per qualche ora nella città, ma il cui significato espressivo esigeva una presentazione
critica. Durante tre mesi, migliaia di persone visitarono l’esposizione, smentendo ancora
una volta il luogo comune che le mostre di architettura non siano attraenti ed efficaci. Vorrei
ricordare tutti gli studenti che lavorarono per la manifestazione; mi limiterò a uno, al
migliore, perito in un disastro automobilistico nel 1959, l’indimenticabile amico Vittorio
Clauser di Rovereto.
Dopo la mostra, l’idea di pubblicare un libro sul Rossetti nacque spontanea. Ma
occorsero quattro anni per realizzarla, anche perché i documenti trascritti da Cittadella e da
Campori si dimostrarono spesso inesatti, i rilievi inattendibili e graficamente scadenti, i dati
largamente lacunosi.
Le ricerche presso l’Archivio Notarile Antico e l’Archivio Comunale Antico di Ferrara
furono esperite con l’aiuto del dott. Nello Rondelli; le trascrizioni vennero controllate dal
dott. Armando Petrucci; per i disegni, collaborò l’arch. Bruno Barinci; le fotografie, escluse
quelle aeree di Fotocielo, furono riprese insieme all’arch. Luigi Pellegrin e a Gianni
Berengo-Gardin. Il dott. Luciano Capra, direttore della Biblioteca Ariostea, agevolò la
raccolta delle stampe; il sindaco Spero Ghedini e la sua amministrazione sostennero la
pubblicazione del volume uscito, in grande formato, nel 1960.
Percorrendo l’antica Ripagrande, oggi via Carlo Mayr, l’occhio cadeva costantemente su
una lapide apposta alla sinagoga, che ricorda il lungo elenco dei deportati scomparsi nei
campi di concentramento. L’ultimo nome è Zevi Emma, persona di cui ignoravo persino
l’esistenza. Avevo pensato di premettere al libro una dedica: Alla memoria di Zevi Emma –
sconosciuta, forse remota parente – che la bestia fascista ferrarese – inviò a morte. Alcuni
amici giudicarono questa dedica non pertinente; perciò fu omessa.
Tavole fuori testo
3. La sensibilità greca accentua il contrasto dialettico tra la scultura massiva del tempio e la
natura incondita del terreno: lo si nota nel tappeto petroso che separa il Partenone dai
Propilei, o in una veduta dell’Acropoli di Atene dal colle delle Muse. L’urbanistica
ippodamea prevale nel V secolo a.C. e si fonda sul tracciato ortogonale, come dimostrano
Priene e il nucleo antico di Napoli. Ma l’irregolarità del perimetro urbano attesta che,
contrariamente a quanto accade nel castrum romano, il processo parte dall’interno, dal
cuore civico dell’agorà, e dilata la scacchiera con moto centrifugo, fasciando poi l’abitato.
5. Un avvio al continuum si registra durante l’età adrianea, specie nella villa imperiale di
Tivoli, i cui corpi si snodano sul terreno quasi ruotando attorno a cerniere.
Elementi lessicali e sintattici nuovi, ottagoni ed esagoni, bifocalità di monumenti e quindi
rottura del loro isolamento, si riscontrano nel palazzo di Diocleziano a Spalato e nel
santuario di Baalbek, in Asia Minore.
7. Siena è l’organismo che più esalta il continuum medievale. Le tre piazze, quella del
Campo dominata dalla torre civica, quella del Mercato retrostante il palazzo comunale, e
quella della Cattedrale, sono rifuse dal vortice avvolgente delle strade.
I contrasti dimensionali dell’architettura gotica si proiettano a scala urbana nello scatto
verticale della cattedrale nel panorama di Chartres, e soprattutto nel profilo piramidale di
Mont Saint-Michel.
11. L’urbanistica barocca trova in Inghilterra un grandioso documento nel Royal Crescent e
nel Circus di Bath, e soprattutto nella serpentina del Landsdown Crescent che risale al
1794.
Nel Settecento, tuttavia, l’Europa delle capitali torna alla prospettiva rinascimentale in una
serie di interventi sontuosi quanto gelidi, che rispecchiano la burocrazia dell’assolutismo.
Ne è l’archetipo la Reggia di Versailles, costruita tra il 1662 e il 1760, dogmaticamente
classicista.
13. I problemi della città industriale non si risolvono però con gli sventramenti
haussmanniani. Le catapecchie operaie dell’East End londinese e il paesaggio corroso di
Manchester denunciano uno stato di crisi, cui risponde nel 1898 l’idea della città giardino.
Nuclei urbani per 32.000 abitanti, difesi da un anello agricolo inalienabile e dotati di
industrie, sorgono intorno a Londra. La prima “garden city”: Letchworth, fondata nel 1903.
16. Nella tavola della pagina successiva, l’Habitat costruito a Montreal da Moshe Safdie nel
1967 ripropone in moderna versione il continuum medievale.
Il progetto per il centro commerciale di Tel Aviv-Jaffa, redatto da Jan Lubicz-Nycz, con i suoi
grattacieli a cucchiaio, consente di moltiplicare in altezza i livelli urbani.
Il Graphic Arts Center ideato da Paul Rudolph per New York, e il piano di Kenzö Tange per
una Tokyo con dieci milioni di abitanti offrono un’immagine delle macrostrutture
indispensabili alla metropoli contemporanea.
PALAZZO SCHIFANOIA
Sorge su via Scandiana, arteria che dal vecchio nucleo medievale conduce alle mura sud-
orientali (cfr. foto 64). Rossetti vi lavorò, in varie riprese, per ventisette anni. Il suo primo
intervento è del 1466 quando collabora, in qualità di aiuto con Pietro Benvenuti dagli Ordini,
architetto ducale; l’ultimo è del 1493, anno in cui già ferve il cantiere dell’Addizione erculea.
Per un certo periodo, antecedente la costruzione della casetta in via della Ghiara (cfr. foto
32-34), Rossetti tenne studio in questo palazzo.
17. Il prospetto quale appare provenendo dall’abitato medievale. L’edificio basso a sinistra è
probabilmente quanto sopravvive del primo corpo della delizia costruita nel 1385 da Alberto
V d’Este. Nella parte orientale si nota un filare di archetti, residuo del fastigio a merli del
1391, anno in cui Alberto V fece ampliare la delizia. Il portale secondario proviene dal
convento di San Domenico e determina una stonatura nel tessuto laterizio del palazzo.
Anche negli ambienti interni si registra un processo additivo, corrispondente alle vicissitudini
storiche del palazzo; Rossetti non lo ha alterato forzandolo in un ordito rinascimentale ma,
fidando sul coagulo del portale e della sala dei Mesi, ha scelto di preservare “il modo del
narrare continuo” di genesi tardo-antica.
PALAZZO SCHIFANOIA
18. Scorcio della delizia, provenendo dalle mura orientali. Nel 1493 il palazzo fu prolungato
da questo lato di altri 7 metri, raggiungendo così la lunghezza di circa 105 metri.
19. Il portale prima dell’ultimo restauro, con le due spurie finestre al piano terreno. L’atrio
originario non prendeva luce dalla via Scandiana, ma dalla corte interna.
20, 21. Particolari del portale marmoreo, attribuito da alcuni a Francesco del Cossa, da altri
a Rossetti. Imbotte decorata; aggetto minimo sulla stesura laterizia di fondo.
22. Il portale, perno compositivo. La disposizione delle aperture nella facciata non risponde
ad alcuna legge proporzionale. Una volta stabilito l’asse costituito dal portale e dalle quattro
finestre del salone, il ritmo delle forature è flessibile ed episodico. L’ubicazione di questo
portale nell’ambito del prospetto va senza dubbio ascritta a Rossetti.
Posto nell’estremo settore sud-orientale di Ferrara, il campanile di San Giorgio segna un
“arresto” visuale nel panorama del nucleo medievale e dell’Addizione di Borso (cfr. foto 64).
Fu inaugurato nel 1485, in occasione della celebrazione della pace con Venezia, ma il
progetto risale agli anni intorno al 1473-75, quando l’Ordine degli Olivetani rinnovò la chiesa
chiamandovi a lavorare Cosimo Tura e Biagio Rossetti.
SAN GIORGIO
23. L’abside ripete nella sua limpida stesura laterizia, nelle lesene e nella disposizione delle
finestre un impianto rossettiano.
29. Il campanile di Santo Stefano costituisce, insieme a quello albertiano del Duomo (cfr.
foto 116, 117), un precedente del campanile di San Giorgio: ne incarna la componente
locale rispetto a quella rinascimentale “importata”.
30. La casa delle Vedove in via Mortara 209-23 anticipa nella stesura muraria, nei camini e
nei binati delle finestre, elementi che Rossetti razionalizza trascrivendo il “parlato” ferrarese
in un linguaggio basato su una rigorosa coerenza formale. In fondo a via Mortara Rossetti
eleverà l’ultima sua opera, Santa Maria della Consolazione (cfr. foto 137-140).
31. Il “cortile nuovo” della Residenza Ducale, con la scala coperta di Pietro Benvenuti dagli
Ordini, terminata nel 1481. Una veduta dall’alto nella foto 116.
CASA ROSSETTI
Biagio realizzò il sogno di costruirsi una modesta casetta nel 1490. Quale ubicazione,
scelse via della Ghiara, dorsale dell’Addizione di Borso, l’arteria moderna della città (cfr.
foto 64).
32. Il lotto fronteggia una piccola strada, l’attuale via Caprera, sull’asse della quale
l’architetto allineò gli stipiti del portale. La disp osizione delle finestre è studiata in modo da
offrire successivi quadri prospettici ben definiti a chi proviene dal nucleo medievale.
33. Nel primo piano, il sistema delle finestre a filo di muro sancisce un elemento del
vernacolo ferrarese che rimarrà stabile nel linguaggio rossettiano. Risponde a ragioni
funzionali, costruttive ed espressive, poiché consente di porre un camino al centro della
parete degli ambienti, difende l’integrità del muro, inonda con luce radente i divisori
longitudinali e infine offre a ogni stanza due vedute panoramiche.
34. Il portale e il sistema delle finestre binate nei due piani della casa.
L’ABSIDE DI SAN NICCOLÒ
35. Ideata probabilmente intorno al 1475, quando fu rinnovata la chiesa, ma completata
solo nel 1499, la “cappella grande” di San Niccolò prelude all’abside della Cattedrale (cfr.
foto 116-118). La strada che si vede a destra è via Colomba.
LOGGIA DI PIAZZA
36. Dall’“arco del cavallo”, attribuito a Leon Battista Alberti, si staccava la loggia che,
prolungandosi a nord, configurava uno slargo tributario di quello a fronte della Cattedrale
(cfr. foto 44).
38. Particolare della Carta itineraria del XIV secolo, il primo documento grafico originale,
illustrato nel suo insieme nel retro (cfr. foto 40).
40. La Carta itineraria del territorio di Ferrara nel XIV secolo, conservata nella Biblioteca
Vaticana. È certamente posteriore al 1326 poiché vi appare il palazzo della Ragione,
iniziato nel 1283 ma terminato solo in quell’anno. Il nord è in basso.
44. Alzato di Ferrara del 1499, conservato nell’Archivio di Stato di Modena. Nella piazza si
vede la “loggia” rossettiana, elemento urbanisticamente essenziale (cfr. foto 36).
46. (pp. seguenti). Pianta di Ferrara nel 1597, elaborata da Filippo Borgatti nel 1895.
Rappresenta la consistenza della città al momento della devoluzione del Ducato alla Santa
Sede.
48. Pianta di Ferrara nel 1605, disegnata da Giovanni Battista Aleotti. Mostra la costruzione
della fortezza pontificia e la demolizione del Castel Tedaldo.
49. Recinto di Ferrara nel XVII secolo. Documenta l’intera linea fortificata, con la precisa
denominazione delle porte e dei baluardi. La fortezza pontificia, indipendentemente dal suo
intrinseco valore architettonico, risulta una componente autonoma ed estranea.
53. Pianta della città nel 1836, eseguita da Francesco Pampani. L’organismo ferrarese
contava in quell’epoca 26.563 abitanti.
54. Pianta della città alla fine del XIX secolo. La fortezza pontificia è stata distrutta, mentre
la cintura muraria si conserva integra. Compare la ferrovia. La vicenda urbanistica di
Ferrara entra nella cronaca del nostro secolo col suo invaso rossettiano incolume, ricca di
un “piano aperto” che i secoli non hanno ancora saturato.
Temperie della città nuova: una svolta metodologica e uno scatto qualitativo nei confronti
sia della maglia medievale (cfr. foto 24-31, 36) che dell’Addizione borsiana (cfr. foto 17-22,
32-34). Questa immagine ne sintetizza i caratteri: rettifilo viario, schermi di cortine in cotto,
emergenze arboree che colorano diversamente l’ambiente in ogni stagione, in ogni
condizione climatica, quasi in ogni ora del giorno. Ma il fattore rilevante è dato dal colloquio
tra paesaggio urbano e masse edilizie, cioè dall’incastro tra “architettura di percorso” e
“architettura di arrivo”. Il genio rossettiano si concreta in questi trapassi. Siamo in un punto
delicatissimo, dove una arteria del nuovo comprensorio sbocca nell’immenso spazio del
moderno centro direzionale. Si tratta di mediare il passaggio tra due contrastanti fruizioni
urbane. Rossetti prolunga il percorso in un portico, cioè lo coagula in un ambito edilizio che
già appartiene all’episodio di arrivo.
L’ADDIZIONE ERCULEA
55. Via Borso, larga 9 metri, che da San Cristoforo alla Certosa (cfr. foto 56, 109-114)
adduce alla grande piazza nuova (cfr. foto 65). In fondo, il palazzo Bevilacqua funge da
ponte tra le quinte stradali e il gigantesco slargo. Non vi è alcun distacco tra “monumenti”,
edifici “minori” e “arredo urbano”: sono tutti ingredienti indispensabili di una stessa
narrazione che consente luci e ombre, presenze salienti e pause di fondali prosaici. Ma in
nessun caso è ammissibile che un singolo fabbricato si sottragga alla regola di un comune
contegno civile.
Il problema nodale dell’impresa rossettiana consisteva nel garantire una simbiosi tra nucleo
antico e settori nuovi della città. A Ferrara, il canale della Giovecca sembrava costituire una
cesura insuperabile: l’abitato medievale si addensava a sud, intricato e tortuoso; a
settentrione, il deserto. La barriera, prima che figurativa, era di natura sociale e psicologica.
Occorreva vincere un costume passivo, il gregarismo che costringeva i cittadini in un’area
limitata, ai piedi del potere incentrato nel Castello estense. Attraversare la Giovecca
significava capovolgere i comportamenti, svincolarsi dal paternalismo, conquistare un
territorio libero, sconfinato, consono alla vita di uomini coraggiosi. A tal fine, era necessario
il massimo impegno progettuale nella saldatura tra le due parti. Giustapporre
meccanicamente un quartiere rinascimentale all’insediamento del Medioevo era facile,
come dimostrano i programmi di espansione di molte città europee, da Napoli e Bari a
Trieste e Barcellona, attuati dal Seicento all’Ottocento. Ma Rossetti vuole attingere
un’immagine unitaria, una sola città, e perciò ne cuce e fonde le componenti con
straordinaria maestria.
56. Simbiosi tra i due settori della città. A sud della Giovecca, si vedono il Castello e la “via
coperta” che lo congiunge alla residenza estense nel cui cortile si profila la scala di
Benvenuti (cfr. foto 31); a destra, la Cattedrale. A nord della Giovecca, l’asse della via degli
Angeli. La strada arcuata a sinistra è via della Rosa, oggi via degli Armari, che incunea
nella maglia rinascimentale l’andamento dell’antica via Boccacanale. Sulla Giovecca, a est,
si intravede il palazzo Roverella (cfr. foto 135, 136).
L’ADDIZIONE ERCULEA
57. Ferrara dall’alto. L’asse est-ovest, al cui centro sorge il Castello estense, è la Giovecca,
che separa il nucleo medievale e l’Addizione di Borso, sua propaggine a sud-est, dalla città
nuova creata da Biagio Rossetti. Dal Castello si stacca la via degli Angeli che incrocia, nel
celebre quadrivio dominato dal palazzo dei Diamanti, la via dei Prioni adducente, a sinistra,
a porta Po e, a destra, a porta Mare. Lungo questa arteria si spalanca il “cuore” della
Ferrara moderna, la piazza erculea (cfr. foto 65). Rossetti tempesta con i suoi interventi (cfr.
foto 64) sia il vecchio aggregato che l’area di espansione, poiché il suo programma consiste
nell’edificare una città unitaria, senza soluzioni di continuità. La compattezza dell’insieme è
assicurata dalla cintura muraria, che non ha una mera funzione difensiva, ma determina
uno spazio territoriale agibile, socialmente e psicologicamente fruito anche se per secoli
vasti settori restano privi di fabbriche. Qui si invera la concezione di un piano oggi
denominato “aperto”: un assetto da realizzare a breve o a lunghissimo termine, secondo le
esigenze, in parte o in tutto, capace di recepire imprevisti apporti, e tuttavia utilizzabile
immediatamente, per la sua scala umana, come non-finito.
LE MURA
58. Il cosiddetto “torrione del Barco” visto dal fossato esterno della fortificazione.
60. Uno dei sei torrioni nel tratto tra quello del Barco e la porta degli Angeli.
61. La porta degli Angeli conclude l’asse sud-nord dell’attuale corso Ercole I d’Este.
62. Un tratto delle mura tra porta Mare e la Punta della Giovecca.
LA PIAZZA NUOVA
65. Polmone verde dell’Addizione Erculea, è larga 100 metri e lunga 200. A sinistra, si vede
il porticato del palazzo Rondinelli. Nel fondo, il palazzo Bevilacqua (cfr. foto 66-70), il cui
ampio portico accoglie la direttrice di via Borso (cfr. foto 55).
PALAZZO BEVILACQUA
66. Il blocco, con il suo portico, visto dal lato meridionale della piazza.
67. La “strada coperta” che congiunge via Borso all’attuale via Palestro.
68. Al viandante che giunge nella piazza dall’attuale via Palestro, il palazzo offre la scelta di
penetrare nell’immenso slargo attraverso l’involucro protettivo del portico.
69. Il palazzo come diaframma, cioè come interruzione della fuga prospettica stradale,
risalta anche nelle vedute lontane (cfr. foto 55). Avvicinandosi, il portico sbilanciato indica
come il percorso stradale sia destinato a sboccare a sinistra, nella piazza.
70. Provenendo dal quadrivio, il palazzo media il passaggio tra decumano e piazza.
L’opera artisticamente più impegnata dell’Addizione rossettiana non sorge sulla piazza
nuova, ma domina il crocevia, nodo dell’intero piano regolatore. Nel dilemma tra architettura
di “percorso” e di “arrivo”, la scelta cade sul percorso, cioè su una visione dinamica
privilegiata dal palazzo costruito per Sigismondo d’Este. L’inedito “muro di marmo”, coperto
da ottomilacinquecento diamanti, termina con un cornicione in cotto (cfr. foto 73) sospeso
su una fascia neutra arretrata rispetto al bugnato. Agli spigoli, le candelabre scolpite da
Gabriele Frisoni, nel loro tenue e delicato modellato, placano l’ossessiva tensione del
“palazzo dell’orgoglio”, e lo ricollegano alla scala degli altri edifici del quadrivio. Sullo stesso
lato della via degli Angeli spicca, al di là del corso dei Prioni, il portale del palazzo Prosperi-
Sacrati (cfr. foto 78-81). La larghezza della via degli Angeli è di metri 11,60 di cui la sede
carrabile occupa metri 8,15.
72. Il gioco dei diamanti sotto la luce. Benché di forme maestose, le sette finestre del primo
piano e il portale con candelabre aggiunto nel Seicento non riescono a infrangere il
continuum della muraglia marmorea il cui ritmo vorticoso travolge ogni elemento incastrato.
Prorompente e minacciosa, di regola, tale parete diviene in qualche momento decantata e
dolcissima.
74. Il magistrale gioco dei diamanti nel passaggio tra parete e plinto angolare.
75. La corte. Tracce di un muro perpendicolare al fronte del portico dimostrano resistenza di
un corpo di fabbrica che racchiudeva probabilmente lo scalone.
76. La serie delle arcate del portico risvolta sul fronte meridionale; lo stesso motivo era
previsto a nord. I vuoti agganciavano i pieni da ambo le parti.
77. Interno del portico. Da questo generoso spazio racchiuso si accedeva al cortile, alla
scala coperta, e quindi al grande salone.
Tutti i palazzi rossettiani sulla via degli Angeli sono configurati per rispondere a un preciso
compito urbanistico. Impianti asimmetrici e sbilanciati, immagini in sé non-finite che
traggono la loro compiutezza solo dal contesto generale. Nel quadrivio, un’eco del palazzo
dei Diamanti (cfr. foto 78-81), una superlativa pilastrata isolata (cfr. foto 82-84), e una zona
affatto neutra per risucchiare lo spazio. Nel secondo crocevia, segni elementari nei pilastri
angolari placano la tensione. Nel primo tratto della strada, a contatto col nucleo medievale,
una razionalizzazione del repertorio tipico di Ferrara sin dalle lontane origini (cfr. foto 86).
PALAZZO PROSPERI-SACRATI
78. La candelabra e il balcone d’angolo ripetono, in scala minore, il motivo già collaudato
nel palazzo dei Diamanti.
79. Il portale prima degli ultimi restauri. La paternità di quest’opera è stata a lungo
contestata a Rossetti.
80. Scorcio del portale costruito intorno al 1510, in occasione di una riedizione dell’edificio,
che risale al 1493. Nel fondo, il palazzo dei Diamanti.
81. Sequenza del palazzo dei Diamanti e del palazzo edificato per l’archiatra Castelli, poi
Prosperi-Sacrati, sulla via degli Angeli.
83. La pilastrata angolare nel suo dialogo con il bugnato, le candelabre e il balcone del
palazzo di Sigismondo d’Este.
84. Provenendo dalla porta degli Angeli verso il Castello, il sorprendente motivo angolare
che fronteggia il palazzo dei Diamanti.
PALAZZO MOSTI
85. Nel secondo crocevia dell’Addizione, modesti pilastri angolari, di genesi medievale,
danno la misura dell’importanza del nodo stradale. Sono completamente scissi dagli edifici.
SAN FRANCESCO
87. Il prospetto principale, malgrado i rifacimenti subiti dopo il terremoto del 1570, mantiene
lo schema originario che proietta in facciata la scansione degli spazi interni della chiesa, e
nelle volute ripete il motivo albertiano di Santa Maria Novella a Firenze.
88. Il fianco della chiesa forma la quinta stradale della via Savonarola. In fondo, la strada ha
una lieve inclinazione, in corrispondenza del palazzo Pareschi.
89. Il fronte sul cortile è stato alterato dai successivi interventi. Si notino le finestre originarie
della navata maggiore, vicino agli oculi aperti più tardi.
La chiesa di San Francesco rappresenta l’intervento con cui si apre, nel 1491, la seconda
parte della vita di Rossetti. Se ne osservi la posizione nodale nel tracciato urbano (cfr. foto
64). Da qui si può davvero partire per trasformare l’aggregato medievale in un cantiere non
meno fervido dell’Addizione, perché siamo alle spalle della Cattedrale (cfr. foto 116) e allo
sbocco di una serie di antiche stradine sulla via Savonarola. Inoltre, c’è da concludere un
episodio iniziato con la costruzione del palazzo di San Francesco o Pareschi che ora può
fungere da fondale di un’emergenza progettata in modo da determinare un salto qualitativo
nei moduli della città e nei codici linguistici della sua architettura (cfr. foto 88).
SAN FRANCESCO
90. La decorazione in cotto accentua il suo vigore negli angoli tra la facciata e i fianchi della
chiesa. Accogliendo gli schemi compositivi rinascimentali, Rossetti non rinuncia all’apporto
dell’artigianato locale, sì che le sue opere acquistano, rispetto ai modelli toscani, ricchezza
“tattile” e materica, assumendo una fisionomia familiare nel mondo ferrarese. Estraneo ad
ogni diagrammaticità trattatistica, egli non intende imporre le forme rinascimentali: le
assimila e le umanizza.
91. Le alte e profonde finestre sulla via Savonarola stringono le lesene in una morsa.
93. L’ordine che appare gigantesco in rapporto alle strade medievali. Specie provenendo
dalla via delle Volte (cfr. foto 26) si evidenzia uno scatto nella dimensione urbana.
SAN FRANCESCO
94. Lo spazio della navata centrale, scandito da precise quantità tridimensionali.
95. Calotte circolari, quasi cupole schiacciate, hanno sostituito le primitive volte.
SAN FRANCESCO
96. Durante l’estate, i fasci di luce trapassano i pilastri delle cappelle, raggiungono le
colonne in un magico corteo di indicazioni trasversali, puntate direttamente sui vuoti.
97. Il pilastro che separa le cappelle non è una proiezione del muro sul piano: è il muro
stesso che avanza, stretto e compresso dagli archi laterali.
98. Le fasce arcuate che separano le tre calotte del transetto costituiscono espedienti
correttivi di un nodo insoluto della composizione. Subito dopo, in Santa Maria in Vado (cfr.
foto 102), Rossetti saprà eliminarli.
99. L’abside ha una larghezza maggiore di quella della navata centrale. Ciò consente di
nascondere alla vista dei fedeli le finestre laterali che ne rischiarano l’invaso. Dispositivo
strutturalmente poco convincente che Rossetti non adotterà in altre opere, a eccezione
dell’ultima, Santa Maria della Consolazione (cfr. foto 137-140), e tuttavia consono
all’immagine di San Francesco.
102. La navata maggiore vista dall’ingresso. Il sapore coducciano del colonnato su alti
piedistalli si può spiegare ricordando i numerosi viaggi fatti da Rossetti a Venezia, in
occasione dei restauri compiuti nel palazzo estense, attuale Fondaco dei Turchi. Del resto,
elementi veneti sono già stati riscontrati nella sacrestia di San Giorgio e nel prospetto
originario del palazzo di San Francesco o Pareschi.
103. La navata centrale vista dall’altare. Si noti come, al posto dei pilastri divisori delle
cappelle a San Francesco (cfr. foto 97), qui vi siano semicolonne. Si ripete il passaggio da
San Lorenzo a Santo Spirito operato da Brunelleschi.
Compiute le due chiese nel nucleo medievale e lungo la via Scandiana, Rossetti torna
nell’area dell’Addizione, anzitutto per determinare sul lato occidentale della via degli Angeli
un contrappeso alla piazza nuova, poi per fissare, con la Certosa, un’emergenza nel settore
nord (cfr. foto 64).
SAN BENEDETTO
104. La piazza domina il braccio occidentale del decumano dell’Addizione. Le sue
dimensioni sono modeste, non paragonabili a quelle della piazza nuova (cfr. foto 65), ma la
prepotente presenza di un monumento conferisce all’intervento un deciso rilievo. Si vede, in
fondo alla via dei Prioni, il balcone angolare del palazzo Prosperi-Sacrati (cfr. foto 78-81) e,
sulla destra, il cortile del palazzo dei Diamanti (cfr. foto 71-77).
105. Le rovine della chiesa dopo i bombardamenti subiti durante la seconda guerra
mondiale. I danni erano tali da escludere la legittimità di un restauro.
106. Veduta aerea del complesso. Il campanile fu aggiunto più tardi, da G.B. Aleotti.
SAN BENEDETTO
108. Per distinguere le diverse quantità spaziali della navata centrale, l’uniforme colonnato
di San Francesco (cfr. foto 94) e di Santa Maria in Vado (cfr. foto 102) viene mutuato con
una sequenza di pilastri differenziati dalle innervature strutturali. Due fonti di luce dall’alto: la
cupola e, in sordina, la calotta che snoda la croce greca dal braccio longitudinale.
109. La luce emana dalle cappelle come a San Francesco (cfr. foto 95, 96), ma non si
riflette più sui diaframmi strutturali. Date le concavità parietali, incrocia i suoi flussi
direttamente sui vuoti caricandoli di energia. Sulla comune base del ripudio della soluzione
centrica brunelleschiana, si tratta di una variante assai più drammatica.
A quattro anni dall’esperienza di San Francesco, la chiesa di San Cristoforo alla Certosa
rappresenta una sfida creativa esattamente antitetica. Qui, nel settore nord-orientale
dell’Addizione, Rossetti si misura col paesaggio naturale. La parte artisticamente più
interessante è quella absidale, dove la lavorazione del cotto passa dal fraseggio artigianale
all’atto poetico.
112. La navata vista dall’ingresso. Si notino i gradini che la separano dalle cappelle.
114. Dato il sensibile prolungamento della zona presbiteriale, l’arco che immette nella
crociera divide in parti uguali la profondità della chiesa: rapporto inedito nell’esperienza
rossettiana, funzionale alla luce incamerata nel vano di fondo. Si notino anche i piedistalli
dei pilastri, saldamente connessi ai gradini delle cappelle. Ciò che appariva fragile e
provvisorio in Santa Maria in Vado (cfr. foto 102) acquista forza unitaria nello schema
albertiano.
115. Il sopraordine non è un mero espediente plastico: esso impedisce alle luci della navata
di porsi in concorrenza con quelle dominanti delle cappelle.
117. Nel farraginoso racconto del Duomo, l’abside rossettiana emerge come episodio di
riscatto. Si suole ripetere che il campanile albertiano “portò il Rinascimento a Ferrara”; in
realtà, lo importò senza riuscire a radicarlo.
118. Nella congerie delle strette vie medievali, la mole absidale offre una pausa grandiosa e
umile allo stesso tempo. Attira senza sorprendere, dilata e domina lo spazio circostante
senza comprimerlo. Un’opera senza artifici, nata di sé medesima.
120. I restauratori che nel 1930 deturparono la grande corte interna non commisero
l’ingiuria di sfondare l’arcata centrale della pentafora su via Porta d’Amore.
121. L’ingresso sull’antica via della Ghiara, a distanza di pochi passi (cfr. foto 64) dalla
casetta che Rossetti aveva costruito per la propria famiglia nel 1490 (cfr. foto 32-34).
122. Prospetto su via della Ghiara e loggia del fronte di levante. Si noti la libera ripetizione
delle finestre binate del piano nobile (cfr. foto 132).
124. Così sarebbe apparsa la corte qualora si fossero riaperti soltanto i binati alternati,
rispettando il disegno rossettiano. Vivace e originalissima immagine, in cui le contrastate
sequenze di pieni e vuoti si liberavano negli angoli spalancati.
125. Contro ogni testimonianza documentaria e ogni verifica struttiva, fu deliberato nel 1930
di aprire tutte le arcate del loggiato, tradendo Rossetti in omaggio a una vaga rievocazione
bramantesca. Un eccezionale atto creativo fu così mortificato.
126. Insulto all’esterno e insieme agli interni. La galleria e le sale del piano nobile, che si
avvalevano dei contrasti di luce e ombra determinati dall’alternanza di un binato aperto e di
uno chiuso, sono scaduti al rango di comuni loggiati e ambienti insipidi.
Come fu possibile perpetrare l’assurdo “restauro” del 1930, inaudita violenza contro un
capolavoro d’arte? Non è difficile ricostruire la logica deformata di questo misfatto. Il livello
poetico della corte di Ludovico il Moro era tale da spingere, per molti anni, gli studiosi
accademici a sottrarne la paternità al modesto “muratore” di Ferrara, benché egli avesse
applicato il motivo dei binati con estrema coerenza nelle opere giovanili, nei palazzi
dell’Addizione e nelle chiese, e lo diffondesse anche sui vari prospetti di questa opera.
L’attribuzione a Bramante fu presto sconfessata, ma lasciò uno strascico, causa ultima di
uno dei più gravi episodi nella storia acritica del restauro. La corte non era di Bramante, e
tuttavia doveva diventare, a ogni costo, “bramantesca”. Vicenda che dovrebbe costituire un
aspro monito per coloro che intervengono sui monumenti in base a generiche regole
stilistiche, senza decifrare l’individuato programma di un’irripetibile fantasia creatrice.
128. Il valore delle opere di poesia non è attenuato dalla circostanza della loro
incompiutezza. La corte di Antonio Costabili, come intuì Jacob Burckhardt, è uno dei più
straordinari testi del “non-finito” in architettura.
129. Alternativamente, le lesene della fascia mediana agguantano gli archivolti sottostanti,
confermando l’autenticità del partito rossettiano svisato dal restauro.
130. Attorno alla tonante corte principesca, i corpi di fabbrica mantengono un’espressività
semplice e prosaica. È tipico di Rossetti, dopo un atto lirico, un immediato recupero del
“parlato”. Persino temi vernacoli appaiono nel fronte verso mezzogiorno.
133. Il fronte a levante (cfr. foto 121) brilla per la vivace descrittività delle aperture a oculo,
rettangolari e arcuate, cioè per un impianto anticlassicistico e funzionale.
134. La mano dell’architetto nel pilastro angolare della corte d’onore. Insieme alla parasta di
San Francesco (cfr. foto 97), esso costituisce la più qualificata sigla plastica del maestro. La
tensione del portico sfreccia dagli spigoli verso le gallerie. Tale è l’energia rappresa di
questo pilastro angolare da sopportare senza difficoltà il peso delle tracce sbocconcellate
della parete che doveva concludere la corte a levante (cfr. foto 127). Forme rigorosissime,
taglienti; sopra e intorno, tonalità calde del laterizio, inventività decorativa, casualità di
rapporti tra pieni e vuoti, spregio della proporzione finita e chiusa.
L’ultima delle maggiori opere rossettiane si eleva, simbolicamente, sul corso della
Giovecca, il diaframma attraverso il quale si attua l’osmosi tra la città vecchia e l’Addizione
(cfr. foto 57, 64). Questa arteria fu concepita come un “asse attrezzato” dell’intero
organismo urbano. Di conseguenza, questo è l’unico edificio pensato da Rossetti per una
visione frontale.
PALAZZO ROVERELLA
135. (retro). L’eccessivo preziosismo decorativo, dovuto ai “taiapreda” che completarono
l’opera, non altera la sostanziale elementarità della composizione. Si noti come la
dimensione degli scomparti non sia uniforme, ma registri l’articolazione degli ambienti
interni.
136. Impianto albertiano, scandito da paraste, come nel fiorentino palazzo Rucellai. Ma,
affiancando le finestre alle paraste, si sovverte il discorso esaltando le innervature struttive
e distruggendo la consistenza geometrica dei setti di tamponamento.
L’ultima opera di Biagio Rossetti è situata in fondo a via Mortara, presso porta Mare (cfr.
foto 64), e risolve l’estremo nodo nord-orientale dell’Addizione. Fu costruita dal 1501 al
1516, anno della morte del maestro. L’itinerario rossettiano si chiude degnamente con
un’architettura povera.
138. La facciata, cui in seguito fu sovrapposto un goffo nartece, doveva essere tripartita da
due ordini di pilastri separati da un fregio. Un non-finito, architettonicamente muto e invece
importantissimo come punto di arresto in una prospettiva dell’Addizione.
140. Veduta dall’ingresso. La chiesa prima del restauro. L’oculo absidale, che appare
ancora chiuso nella foto dell’esterno (cfr. foto 137), è tornato a illuminare, insieme alle due
finestre laterali, la zona presbiteriale. Le due colonne dell’arco trionfale sono posteriori, ma
uno schermo analogo a quello di San Cristoforo alla Certosa (cfr. foto 112) doveva essere
stato previsto dall’architetto.
INDICE
Note bibliografiche
PARTE PRIMA
L’architetto della vecchia Ferrara
Palazzo Schifanoia
Campanile di San Giorgio
Casa Rossetti
Opere minori
PARTE SECONDA
Il piano regolatore erculeo
Il disegno urbanistico
Le mura
La piazza e i palazzi dell’Addizione
Via degli Angeli e palazzo dei Diamanti
PARTE TERZA
L’architetto della Ferrara moderna
San Francesco
Santa Maria in Vado
San Benedetto
San Cristoforo alla Certosa
Abside della Cattedrale
Palazzo di Ludovico il Moro
Palazzo Roverella
Opere minori
CONCLUSIONE
Il linguaggio urbanistico di Rossetti
Riconoscimenti