Sei sulla pagina 1di 441

Il libro

Saper vedere la città

Quali eventi, quali strategie progettuali fecero della Ferrara estense,


nel 1492, “la prima città moderna d’Europa”, come la definì Jacob
Burckhardt? La domanda riguarda non solo l’eccezionalità
dell’Addizione Erculea progettata dall’architetto Biagio Rossetti, ma
l’intera tematica della pianificazione urbanistica. Bruno Zevi in
questo fondamentale saggio critico pubblicato per la prima volta nel
1960 indaga le caratteristiche, i progetti e le finalità di uno dei
capisaldi della storia dell’urbanistica e del Rinascimento italiano. Lo
fa raccontando le meraviglie dell’“officina ferrarese” ma anche
insegnandoci a leggere e interpretare lo spazio urbano, inteso nel
suo complesso come opera d’arte, dalle emergenze architettoniche
all’arredo di piazze e strade, alla poetica del non-finito e dell’angolo.
Zevi ci offre qui una lezione che a distanza di anni conserva intatta
tutta la sua attualità e l’altissimo valore civico.

L’autore
Bruno Zevi

Bruno Zevi (1918-2000) è stato architetto, critico e storico


dell’architettura, tra i più noti e prestigiosi del panorama culturale non
solo italiano.
Laureatosi a Harvard con Walter Gropius, fu fondatore nel 1945
dell’APAO (Associazione per l’architettura organica), segretario
generale dal 1952 dell’Istituto nazionale di urbanistica e direttore dal
1955 della rivista L’architettura, cronache e storia.
Ha esercitato un’intensa attività teorica e didattica, distinguendosi
per il costante impegno politico e sociale.
TASCABILI BOMPIANI 579
Illustazione di copertina: Elisa Vendramin.
Progetto grafico generale: Polystudio. Progetto grafico di copertina: Francesca
Zucchi.

ISBN 978-88-587-7762-6

www.giunti.it
www.bompiani.eu

© 1960, 1997 Bruno Zevi

© 2018 Giunti Editore S.p.A./Bompiani


Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20124 Milano – Italia

Prima edizione: gennaio 2018

Prima edizione digitale: gennaio 2018


Un’idea di città: Ferrara di Bruno Zevi dal 1960 al 2000

di Angela Marino

Biagio Rossetti, architetto ferrarese, il primo urbanista moderno


europeo, esce nel 1960; con il titolo Saper vedere l’urbanistica.
Ferrara di Biagio Rossetti, la prima città moderna europea viene
ripubblicato nel 1971 introdotto da un saggio dell’autore, che articola
il cambiamento di ‘scala’ storiografica dalla monografia a un’ottica di
tipo disciplinare; il volume sarà poi riedito, con uno sguardo più
complessivo, in Saper vedere la città (1997).
Nello studio su Ferrara si rispecchia – in maniera complessa,
qualche volta contraddittoria – la visione di Saper vedere
l’architettura, che nel 1948 segnalò Bruno Zevi come studioso di
caratura internazionale, e ne completa l’orizzonte critico. Sollecitato
da una richiesta della città di Ferrara per celebrare l’architetto
Rossetti, la mole di lavoro del gruppo di studio confluisce in una
mostra nel 1956; ma ci vorranno altri quattro anni – e una nuova
imponente quantità di materiali di studio di ogni tipo – per arrivare
alla monumentale pubblicazione della monografia nel 1960.
Nel saggio, che premette alla nuova edizione del 1971, Zevi
motiva il sopratitolo che precede quello originale come esplicito
legame con la pianificazione – in quegli anni predominante fino a
restringere gli spazi espressivi della architettura – che sembra
mettere in crisi quello stretto connubio fra urbanistica e architettura
che Zevi stesso aveva teorizzato, fra non poche polemiche. In nome
di quel connubio la conformazione dello spazio ‘vuoto’ esterno della
progettazione urbana può presentare analogie di metodo con il
processo compositivo dell’architettura; e l’autore, riprendendo lo
schema critico di Saper vedere l’architettura, articola ed esprime
numerose più strette analogie dei “caratteri” costitutivi della sintassi
spaziale che accomuna architettura e città.
Lo studioso tuttavia non si nasconde la difficoltà di leggere la
logica di una città storica, come anche la complessità delle
operazioni che precedono un intervento urbanistico e ne
condizionano la riuscita. Tanto è vero che valuta quanto la letteratura
sul paesaggio e la città sia scarsa e “arretrata”, alla fine degli anni
sessanta, quando viene scritto il saggio.
Probabilmente il discorso critico registra le difficoltà che su alcuni
terreni comincia a incontrare l’urbanistica in quegli anni – assai
legata a un impegno politico e sociale – e che condurrà negli anni
successivi a una crisi. Zevi sottolinea infatti che le forme di protesta
per la pessima urbanizzazione che sta invadendo il paese, la
sensibilità nascente per la tutela di città e paesaggio, le stesse
istanze provenienti dal mondo operaio e sindacale, non sono
comunque in grado di leggere la città. E oggi, a quasi cinquanta anni
di distanza, potremmo aggiungere che permane una grande difficoltà
a concepire una visione di città.
A questo punto l’Autore non si sottrae a una prova di analisi
critica.
Per l’architettura Zevi aveva praticato il metodo di tratteggiare nel
tempo le principali ‘concezioni dello spazio’, piuttosto che
l’approfondimento emblematico di un singolo edificio. Per la città
ritiene che questa scelta vada rovesciata. E arriviamo a Ferrara
come exemplum: Burckhardt l’aveva definita “la prima città moderna
d’Europa”. Col sostegno di una vasta conoscenza di molti strumenti
critici, Zevi sceglie di trasferire sulla città, anzi su una città, le
categorie della storia dello spazio che ha impiegato per l’architettura,
con tutti i dovuti distinguo. Conduce le verifica su Ferrara perché è
una “città vera”, non un aristocratico esperimento in vitro, come ad
esempio Pienza, poco generalizzabile.
L’ampliamento di Ferrara dal nucleo medievale è un grande
progetto impegnativo, che consente di progettare la città moderna
che verrà non solo attraverso alcuni standard urbanistici (la sezione
stradale che si amplia, gli assi portanti dell’espansione e i raccordi
col tessuto antico) ma anche con la costruzione di architetture nei
punti nodali, quali il palazzo dei Diamanti. In un certo senso,
semplificando, diventa tutto architettura, partecipe di un effetto città
complesso.
Forse l’impatto più incisivo che il libro ebbe, fra gli anni sessanta
e settanta (sia detto in modo assai abbreviato e sintetico) si verifica
proprio fra gli urbanisti, quando, in ultima analisi, si afferma che “Le
cosiddette ‘leggi’ compositive – unità, contrasto, simmetria,
equilibrio, proporzione, carattere, scala ... – valgono negli stessi limiti
in architettura e in urbanistica”: così Zevi scrive nell’introduzione alla
riedizione del 1971 sovratitolata, non a caso, Saper vedere
l’urbanistica. La lettura della Addizione erculea di Ferrara venne
certo studiata con uno sguardo critico, rigoroso, ma anche
“tendenzioso”. Attraverso Biagio Rossetti, Bruno Zevi insegna a
vedere la trasformazione e modernizzazione di una città, sia negli
interventi che riqualificano il nucleo antico che nel grandioso
progetto di espansione lungo le direttrici maggiori, su cui si innerva
tutta una serie di raccordi e richiami; infine – forse soprattutto –
tramite nuclei di interventi architettonici chiave, viene accettata una
specie di ‘poetica del non finito’ che , nella interpretazione dello
studioso, definisce il carattere di modernità della città. Un piano
largo, aperto, “di massima”, in cui ogni intervento architettonico si
riferisce agli altri e dialoga con essi, prevede anche quello che verrà.
Difficile dire quanto questa posizione zeviana sia figlia dell’architetto
militante, sostenitore della ‘critica operativa’, più che dello storico.
Ma mi sembra che sia Zevi (più e oltre Rossetti) a rompere con il
primato di un concetto controllato e misurato della composizione
‘prospettica’, modello perfetto e concluso. Ed è questo ciò che conta
e che rende questo libro influente nel periodo in cui esce.
Lo studio su Ferrara va di pari passo, negli anni
dell’insegnamento a Venezia, con un libro più denso, di amplissima
cultura europea e di lucidità di pensiero, quale Architettura in nuce
(ripresa esplicita della crociana Estetica in nuce). Per Biagio
Rossetti, una figura allora minore (e che in qualche modo resta tale),
la forza della mole di studio e di sforzo critico che Zevi vi pone è il
valore aggiunto: nel protagonista misconosciuto l’Autore costruisce
la sua interpretazione soggettiva, intensa, rivelatrice, che lo solleva a
protagonista di un modo nuovo di progettare la città e, appunto, di
“leggerla”.
In queste due opere, credo, con un tormento poco visibile ma più
profondo che in altri scritti, Zevi si misura con la filologia e la
storiografia, individua crocevia intellettuali poco praticati, forse non si
nasconde che la forza assertiva delle sue conclusioni non risolve
tutti i problemi che la sua stessa intelligenza critica rivela.
Poco dopo (e a seguito di una lunga mobilitazione degli studenti
della Facoltà di Architettura, che chiedevano un rinnovamento della
didattica) nel 1963 Zevi viene chiamato a Roma, dove solo nel 1970,
collocato al terzo anno, inaugura l’insegnamento di storia
dell’architettura moderna. L’impegno di Zevi, imperniato
sull’architettura e sulla critica del moderno, sarà negli anni seguenti
dominante. Ma il tema della città resta centrale nel suo orizzonte
critico.
Saper vedere la città, sempre premesso al titolo originario, viene
nuovamente pubblicato nel 1997 (ancora da Einaudi), in una epoca
(quasi quaranta anni dopo la prima edizione), in cui oramai appare
lontana la problematica fra urbanistica ed architettura posta in quei
termini. La stessa ricerca zeviana ha introdotto l’elemento critico del
linguaggio, che in qualche modo distingue di nuovo l’architettura e la
città (va anche valutata la crisi sviluppatasi intanto nell’urbanistica), e
dà rilievo alla categoria del paesaggio. Città, architettura, e
riscoperta della dimensione territoriale e paesistica, costituiscono il
terreno di una nuova ricerca progettuale, in cui i loro linguaggi
concorrono a costruire una più avanzata e moderna idea di spazio.
Saper vedere la città credo che approdi a questo esito, negli anni in
cui la prodigiosa scrittura zeviana si impegna in un’ancora
incessante attività di innovazione critica, ma anche di divulgazione
della sua visione della storia dell’architettura. Penso anche ai
preziosi (e sottovalutati) libretti Millelire dei tascabili economici
Newton, che non a caso vengono raccolti in un volume dal titolo
significativo di Controstoria e storia dell’architettura italiana.
E riproporre Ferrara di Biagio Rossetti oggi?
Quella stagione è trascorsa.
La crisi degli ultimi anni ci ha fatto forse tornare al punto da cui è
partito lo studio su Ferrara?
La storia non torna mai indietro, perfino l’angelo della storia di
Benjamin si limitava a guardare indietro, ma spinto in avanti da un
vento possente. Potremo però dire che la crisi economica, e non
solo, ci sta facendo considerare che dalle ‘patrie piccole’, dalle città
non megalopoli, dal paesaggio italiano – se non li consideriamo, con
occhi provinciali, un ripiegamento (relegandoli alla dimensione dei
‘borghi’) – possono nascere nuovi stimoli capaci di suscitare una
rinnovata visione, utile anche ad affrontare la crisi delle grandi città.
L’ennesimo rovesciamento, che forse nemmeno a Zevi sarebbe
dispiaciuto, nel quale Biagio Rossetti, da buon candidato a ‘genio’,
potrebbe giocare con successo il ruolo, forse oggi salvifico, di chi sa
praticare con forza il mestiere di architetto antieroe.
SAPER VEDERE LA CITTÀ
Il termine “urbanistica” è ambiguo e polivalente. Coinvolge infatti:
la programmazione economica del territorio; l’assetto regolamentato
degli abitati in zone residenziali e industriali, maglie viarie, nuclei
direzionali, parchi; la costruzione concreta, piano-volumetrica e
perciò spaziale della città. Anche il processo architettonico può
essere scisso in fasi analoghe, nell’impostazione economico-sociale
dell’edificio, nella distribuzione funzionale dei suoi ambienti, e nella
loro effettiva configurazione. Ma è chiaro che, in urbanistica come in
architettura, le due prime fasi riguardano le intenzioni progettuali –
certo essenziali per intendere la genesi del prodotto, l’ipotesi che lo
sottende – mentre solo la terza fornisce l’oggetto storico reale,
fruibile, da “saper vedere”. Del resto, senza educarsi a sperimentare
e capire lo scenario esistente, è difficile giudicare la validità o meno
di un progetto, realtà in fieri.
Il “distinguo” tra spazio “interno”, proprio dell’architettura e spazio
“esterno” dell’urbanistica si rivela proficuo nell’ambito didattico, ma
non può assumere autorità categoriale. L’invaso di una piazza o di
una strada, esterno rispetto agli edifici che lo fasciano, è interno
rispetto alla città; i fabbricati fungono da divisori o diaframmi di
contenimento delle fluenti cavità urbane, come pareti e mobili
articolano quelle dell’architettura. Per caratterizzare uno slargo, un
vicolo, un quartiere valgono gli stessi metodi critici atti a definire le
sale, le gallerie, i portici, la corte di un palazzo. Tanto che, dalla
capanna preistorica ai grattacieli, i sistemi progettuali – informali, a
reticolo aperto, a scacchiera perimetrata, descrittivi, radiocentrici o
stellari – trovano un’esplicazione sincronica in architettura e in
urbanistica (cfr. foto 1).
Alcuni giungono a interpretare la città come una grande casa: al
soggiorno corrisponde il cuore urbano, nodo degli scambi sociali più
intensi e delle attrezzature ricreative; il vano dello studio rimanda alle
scuole, alla comunità universitaria, alle istituzioni culturali; la cucina
e la dispensa, che Wright non a caso denominava “work space”, si
assimilano agli stabilimenti industriali e ai mercati; i corridoi e i
disimpegni si traducono in piazze e strade. L’analogia è meno
ingenua di quanto sembri (cfr. foto 8). Piazza San Marco si legge
come il soggiorno di Venezia e, se non presenta una figura
geometrica elementare e autonoma, ma scarica lo spazio nella
piazzetta e nelle calli, ciò dipende dal fatto che incarna una volontà
di continuum tardo-antica, incastro di vuoti fruibili, quale gli architetti
moderni ricercano, con la “pianta libera”, anche nell’alloggio minimo.
Anziché frammentare la casa in una serie di cubetti giustapposti –
salotto, pranzo, salottino, dispensa, stanza da lavoro, ripostigli di
vario genere – oggi si tende a integrare: abbiamo così ambienti
polifunzionali, al limite l’ambiente unico. Non diversamente in
urbanistica: superato lo scisma tra città e campagna, respinto il
concetto di “zoning” che riflette le divisioni di classe – centro
direzionale come sede del potere, quartieri alti per la borghesia e
bassi per gli operai, aree extra-moenia per i contadini – si elaborano
tessuti in cui convergono e fondono le tradizionali ripartizioni fra
residenza, lavoro, scuola, svago. A parte ogni considerazione
metodologica (cfr. foto 2), un’acropoli ellenica, il complesso dei fori
romani o del Palatino (cfr. foto 4), un castello medievale, la
cattedrale di Salisbury o la certosa di Pavia, la palazzina di caccia di
Stupinigi, le fortezze di Vauban sono architettura oppure urbanistica?
(cfr. foto 8-9).
La “scala” di una città esige, senza alcun dubbio, una
preparazione particolare in chi voglia captarne la struttura. Leggere,
nei colonnati di un tempio greco o di un portico brunelleschiano, il
significato non soltanto dei “pieni” ma dei loro intervalli, dei “vuoti”
bidimensionali o prospettici, è già operazione ardua per il profano;
afferrare il messaggio delle cavità architettoniche, specie delle loro
sequenze, richiede un’applicazione maggiore; comprendere gli spazi
urbani nella loro molteplicità e concatenazione è assunto
estremamente difficile. Per questo, la coscienza urbanistica risulta
anche più debole di quella architettonica, e la storiografia delle città
e dei paesaggi è povera e arretrata. I problemi riguardanti la
compresenza di valori poetici, letterari e prosaici, la sovrapposizione
di immagini diverse e contrastanti, la paternità stessa di queste
immagini, sono incomparabilmente più astrusi a scala urbana:
contenuti multiformi, rappresentazioni di impervia e tortuosa lettura.
Tuttavia, la differenza tra spazio “interno” ed “esterno”, tra
architettura e urbanistica, non concerne la peculiarità dell’oggetto: la
città stessa è creazione di spazi racchiusi; e non solo la città, ma
anche il paesaggio interpretato e vitalizzato dall’intervento umano –
un menhir, un albero, una highway, un ponte, un pilone telegrafico o
telefonico. Gli esempi urbani e paesaggistici (cfr. foto 1) s’intrecciano
a quelli attinenti a singoli edifici: Pompei, villa Adriana a Tivoli, la
fiorentina piazza della Signoria, l’intero organismo di Bologna, la
grande piazza di Bruxelles e Place des Vosges a Parigi, Welwyn
Garden City, i tessuti di Caorle e di Lucca compaiono a pari diritti
con il Pantheon, palazzo Farnese o la Casa sulla Cascata, il ponte
scaligero di Verona o un giardino disegnato in Brasile da Roberto
Burle Marx.
In un Saper vedere la città basato sul modello di Saper vedere
l’architettura, si potrebbe puntare unicamente sugli aggregati
cittadini, trascurando le fabbriche isolate? Sarebbe un duplice errore:
la realtà stereometrica di un edificio dipende dai punti di vista
esterni, cioè dalla conformazione dello spazio urbano in cui
s’immerge; e, viceversa, questo spazio è qualificato
tridimensionalmente dagli edifici che lo contornano ed elettrizzano. A
rigore, non esistono né architettura né urbanistica, ma soltanto
urbatettura. Malgrado il salto di scala, la sostanza del discorso non
muta. Vogliamo riscontrarlo rapidamente?

I primi tre capitoli di Saper vedere l’architettura riguardano:


L’ignoranza dell’architettura; Lo spazio, protagonista dell’architettura;
La rappresentazione dello spazio. Traslandoli in urbanistica, non
subirebbero radicali modifiche. L’ignoranza della città è certo più
grave, per le sue implicazioni ecologiche, politiche, economiche ed
etico-sociali; basti pensare agli insediamenti di 30-50.000 abitanti
che proliferano nelle fasce metropolitane, alle zone industriali e agli
sviluppi turistici che massacrano il paesaggio. Tecnici e intellettuali
protestano, di regola a posteriori, contro la “marea di cemento”, la
“paralisi del traffico”, i rumori, l’inquinamento; si moltiplicano le
associazioni che difendono la natura, i monumenti, i centri storici e i
parchi; gli stessi sindacati operai, nella lotta per una politica della
casa, agitano il problema urbanistico denunciando i mostruosi assetti
territoriali che impongono la pendolarità ai lavoratori e scatenano
nevrosi collettive. Ciò non dimostra però che una coscienza della
città sia diffusa nelle masse o anche solo nell’élite intellettuale. La
rivolta contro un habitat irrazionale e funesto è basilare sotto il profilo
politico e sociale, ma non tocca il problema di “saper vedere la città”,
come il sacrosanto sdegno di un senzatetto o di un baraccato non
comporta ch’egli sappia “vedere l’architettura”. Non facciamoci
illusioni in proposito. Gli stessi esperti di programmazione
economica, che fissano le localizzazioni industriali, residenziali e
turistiche, spesso sono insensibili alla lettura di una città. Oggi
l’urbanistica va di moda, tutti ne parlano e ne scrivono con passione
e con rabbia per rilevarne i disastri; ma tale fenomeno,
indubbiamente positivo, non altera lo stato generalizzato di
ignoranza.
Che lo spazio sia protagonista anche dell’organismo urbano,
appare evidente. La gente non sa leggere una città perché non sa
vederne i vuoti. Si può scommettere: domandate a cento persone
che frequentano quotidianamente la romana piazza di Spagna di
definirne la forma; sarà un miracolo se ne trovate una capace di farlo
(cfr. foto 10). Eppure, la guida del Touring riporta: è lunga 270 metri
e “dalle testate si restringe verso la metà, formando come due
triangoli, uniti al vertice”; il che è assai più di quanto conceda ad altre
piazze, per esempio a quella del Quirinale (cfr. foto 10), su cui si
limita a osservare come sia “cinta su tre lati da edifici ed aperta a
sinistra sul panorama della città, dominato in fondo dalla cupola di
San Pietro”, cioè non dice nulla. Del resto, anche conoscendo a
perfezione le principali piazze e strade di una città, se ne coglie
l’organismo? Un nucleo urbano non è composto solo di “emergenze”
e queste, salvo alcuni episodi rinascimentali e neoclassici, non
costituiscono eventi autonomi, avulsi dal contesto generale. Piazza
di Spagna si relaziona al tridente sistino, al Tevere, sul lato opposto
al Pincio e, dietro, alla Roma umbertina; il centro antico rimanda alla
periferia, ai successivi anelli di espansione, fino alle estreme
propaggini, alla campagna disseminata di borghi abusivi (cfr. foto
12). La visione architettonica implica il movimento dell’osservatore?
Tanto più quella urbanistica, sostanzialmente temporale e cinetica.
Visitando un edificio complesso, polisegnico, palazzo Pitti a Firenze
o quello ducale a Urbino, si perde talora il senso dell’itinerario
spaziale (cfr. foto 8-9). In una grande città, ciò avviene regolarmente:
ci si vive per decenni, eppure, guardandola dall’aereo, si resta ogni
volta stupiti; nessuno ne possiede sino in fondo il continuum
straordinariamente articolato e contraddittorio, in perenne stato di
trasformazione.
La rappresentazione dello spazio, di conseguenza, risulta in
urbanistica notevolmente più complicata di quanto non sia in
architettura. Disegni, fotografie, film non bastano, se non per
elementi singoli ed episodi parziali. La migliore mostra di urbanistica
mai allestita fu quella di Philadelphia del 1947, in cui Oskar Stonorov
e Edmund Bacon profusero la loro fantasia: plastici, immense foto
aeree, film, diorama, affreschi, pannelli umoristici, congegni
meccanici, riproduzione al vero dell’angolo viario di uno dei quartieri
più poveri e grigi, ogni possibile accorgimento fu utilizzato per
trasmettere il messaggio urbano; i modelli dei vari settori della città
potevano essere capovolti e allora ne appariva, sempre in tre
dimensioni, il volto nuovo, ristrutturato. Come afferrare il tessuto di
Roma nel IV secolo dopo Cristo? Lo strumento più idoneo, malgrado
le numerose lacune, è dato ancora dal grande plastico approntato da
Paul Bigot nel 1933-42 (cfr. foto 4). Ma un plastico non procura
l’esperienza del vivere entro la città, anzi assimila l’organismo reale
a un progetto. Ecco perché nella rappresentazione dello spazio
urbano c’è ancora tutto da fare: occorre inventare nuovi mezzi
comunicativi e intanto perfezionare, integrandoli, quelli disponibili.
Obiettivo: sottolineare i vuoti e il loro uso sociale.

I primi capitoli di un Saper vedere la città dunque


parafraserebbero quelli di Saper vedere l’architettura, quasi
mutuandone i termini. Nella città, come nella casa, valgono gli spazi
che contengono, rivestono, esaltano o mortificano, comunque
conformano l’esistenza dinamica dell’individuo, del gruppo e della
collettività. Il resto è scultura, packing, involucro, arredo. Certo, un
mobile mal sistemato, persino un quadro appeso al centro di una
parete e tale da spezzarla visualmente in due parti, basta a sciupare
un ambiente architettonico. Analogamente, piazza di Spagna
apparirebbe guasta senza il risucchio della scalinata di Trinità dei
Monti e la spaccatura d’ombra di via Condotti, e anche priva della
berniniana “Barcaccia”, affondata nel suo bacino proprio dove
s’incontrano i vertici dei triangoli (cfr. foto 10); piazza del Popolo vive
per l’obelisco e le testate delle chiese; piazza Navona si
accascerebbe inerte, tornerebbe circo, senza l’esplosiva fontana
polemicamente defilata rispetto alla borrominiana Sant’Agnese.
Qualsiasi esperto di “design” vi dirà che un soffitto scuro “abbassa”
una stanza, che muri e colori diversi ne “rompono” la chiusura
scatolare, che una porta dislocata in angolo l’“allunga” mentre,
situata al centro, la “dimezza”. Anche l’arredo urbano è arte, quando
attiene agli spazi; scade a cosmesi e “styling” in mancanza di essi.
Molti si entusiasmano per gli ombrelloni di Spalato o di Verona, per
le tende multicolori di Siviglia o di Osaka (cfr. foto 6), per le
decorazioni di carta e fiori, canne e fogliame in Spagna e in
Giappone, per i fastosi congegni luminosi che adornano le strade dei
paesi contadini durante le processioni. I costruttivisti russi
s’inebriavano progettando il rinnovo continuo del volto urbano, e a
ragione: la città non è un’entità immobile, può cambiare veste – ma
l’operazione è efficace in quanto vi sia un organismo spaziale da
rinvigorire; altrimenti, è rimedio evasivo. Seducenti gli ombrelloni
veronesi; piazza delle Erbe tuttavia resta magnifica senza di essi.
Eccitanti i fiori sulla scalinata di Trinità dei Monti, peraltro stupenda
anche nuda. Una brutta, anonima casa, se bene arredata, può
divenire sopportabile, ma non sarà mai architettura creativa.
All’inverso, la villa Savoye di Le Corbusier rimase in stato di
abbandono per vari anni, con rottami accatastati, vetrate infrante,
cumuli di fieno sotto i pilotis; eppure la sua realtà spaziale
trascendeva la contingenza, come accade alle rovine del mondo
antico, al tempio di Minerva Medica, al santuario di Baalbek, a
Delphi e a Pompei (cfr. foto 5).
INFORMALITÀ PALEOLITICA E RAZIONALISMO NEOLITICO
1. Nella tavola della pagina precedente, le abitazioni ricavate nelle grotte naturali di un
altopiano del Sahara, e quelle di Kotoko, nel Camerun settentrionale, indicano la totale
mancanza di geometria durante il paleolitico.
Non appena le popolazioni nomadi si stabilizzano, come avviene nel villaggio neolitico di
Ba-ila, nella Rhodesia del nord, si afferma l’ordine geometrico: il capo, dalla barriera del suo
recinto, controlla le capanne dei sudditi disposte a cerchio.
La scoperta del percorso è documentata dagli allineamenti dei menhir, o pietre oblunghe,
presso Carnac, in Bretagna.
Il tempio egiziano di Luxor rappresenta la più grandiosa realizzazione architettonica
monodirezionata del mondo antico.
LA SCALA UMANA DEI GRECI
2. “Volumi puri sotto la luce”: così Le Corbusier definiva la poetica urbanistica ellenica.
Nell’Acropoli ateniese, come a Paestum, i templi sono oggetti immacolati, deposti su un
terreno di cui si rispetta ogni caratteristica topografica. Gli spazi tra le costruzioni non sono
incanalati entro quinte parallele: nasce quindi il percorso polidirezionale, che evidenzia con
eccezionale intelligenza la tridimensionalità degli edifici e ne celebra il rapporto con l’uomo.
3. La sensibilità greca accentua il contrasto dialettico tra la scultura massiva del tempio e la
natura incondita del terreno: lo si nota nel tappeto petroso che separa il Partenone dai
Propilei, o in una veduta dell’Acropoli di Atene dal colle delle Muse. L’urbanistica
ippodamea prevale nel V secolo a.C. e si fonda sul tracciato ortogonale, come dimostrano
Priene e il nucleo antico di Napoli. Ma l’irregolarità del perimetro urbano attesta che,
contrariamente a quanto accade nel castrum romano, il processo parte dall’interno, dal
cuore civico dell’agorà, e dilata la scacchiera con moto centrifugo, fasciando poi l’abitato.
LO SPAZIO STATICO DI ROMA ANTICA
4. Il grande plastico della Roma del IV secolo d.C., eseguito da Paul Bigot, offre l’immagine
di un agglomerato denso di vistosi episodi monumentali: terme, circhi, teatri e anfiteatri, fori,
templi spettacolari. Tra queste emergenze isolate e statiche, un tessuto edilizio
insignificante. Timgad, in Africa, reitera l’ordito a scacchiera, la cui rigida forma procede in
senso centripeto, in quanto discende dalla cintura muraria del castrum e non dal foro,
casualmente ubicato.
5. Un avvio al continuum si registra durante l’età adrianea, specie nella villa imperiale di
Tivoli, i cui corpi si snodano sul terreno quasi ruotando attorno a cerniere.
Elementi lessicali e sintattici nuovi, ottagoni ed esagoni, bifocalità di monumenti e quindi
rottura del loro isolamento, si riscontrano nel palazzo di Diocleziano a Spalato e nel
santuario di Baalbek, in Asia Minore.
LA DIRETTRICE UMANA E I CONTRASTI DELLO SPAZIO MEDIEVALE
6. Il modo del narrare continuo nasce nella tarda romanità, ma trionfa durante il Medioevo.
Gli impianti radiocentrici di Carcassonne e di Bram, l’asimmetria di piazza della Signoria a
Firenze o di quella delle Erbe a Verona, ne costituiscono peculiari espressioni. Si noti, a
Firenze, lo sbilanciamento inaudito della torre di Arnolfo sul palazzo Vecchio, perno del
trapasso dalla piazza alla cinquecentesca galleria degli Uffizi, strada-corte adducente
all’Arno. Nessuno slargo urbano medievale possiede una propria autonomia geometrica,
nessuna cavità si conclude in se stessa, nessun edificio si proclama monumento enucleato
dal contesto della città. La simbiosi tra vie, piazze e costruzioni si rivela intensa come in
nessun altro periodo della storia: è l’età prodigiosa, “follemente temeraria”, in cui si
urbanizza l’Europa con “sistemi di forme inattese”.
7. Siena è l’organismo che più esalta il continuum medievale. Le tre piazze, quella del
Campo dominata dalla torre civica, quella del Mercato retrostante il palazzo comunale, e
quella della Cattedrale, sono rifuse dal vortice avvolgente delle strade.
I contrasti dimensionali dell’architettura gotica si proiettano a scala urbana nello scatto
verticale della cattedrale nel panorama di Chartres, e soprattutto nel profilo piramidale di
Mont Saint-Michel.

LE LEGGI E LE MISURE DELLO SPAZIO RINASCIMENTALE


8-9. La regola prospettica incide nella trama medievale ritagliandone e geometrizzandone
alcune porzioni. Nella piazza di Pienza, Bernardo Rossellino, sulle orme di Leon Battista
Alberti, marca i moduli compositivi nel disegno pavimentale.
A Venezia, piazza San Marco e la piazzetta adiacente segnano uno spazio fluidificato e
straripante rispetto alla stessa forma trapezoidale; nella piazzetta, lo squilibrio tra la diafana
parete del palazzo Ducale e quella solennemente plastica della Libreria sansoviniana ne
garantisce il dinamismo.
A Urbino, il palazzo dei Montefeltro ambienta un macroscopico intervento rinascimentale.
Nella mole dal perimetro frastagliato, le facciate si flettono aderendo alle varie situazioni
topografiche. L’immagine si cristallizza all’interno, nel quadrato della corte progettata da
Luciano Laurana.
La “città ideale” è oggetto di innumeri schemi utopistici, a cominciare da quelli di Francesco
di Giorgio Martini e del Filarete. Le applicazioni concrete sono però rare e tardive, e si
riferiscono in genere a insediamenti militari. I tre esempi illustrati riguardano la veneta
Palmanova del 1593, la fortezza di Vauban a Neuf-Brisach del 1698, e Grammichele, in
Sicilia, grosso borgo rurale iniziato nel Settecento. La geometria, in ogni caso, iberna la vita
comunitaria.
IL MOVIMENTO E L’INTERPENETRAZIONE NELLO SPAZIO BAROCCO
10. L’ideologia prospettica rinascimentale entra presto in crisi. Nell’età del Manierismo,
Michelangelo la rinnega comprimendo drammaticamente il trapezoidale invaso del
Campidoglio e lacerandone la proporzione.
Le piazze barocche, in scala diversa e per altre funzioni, riprendono la tematica medievale:
prive di una figura autonoma, non si esauriscono nel proprio ambito, ma coagulano e poi
rigettano i flussi stradali. A Roma, piazza di Spagna è formata da due triangoli le cui punte
convergono sulla berniniana fontana della Barcaccia; e piazza del Quirinale, schermata da
palazzi che non presentano alcuna ortogonalità tra loro, da un lato sbocca nella
michelangiolesca strada Pia, oggi XX Settembre, dall’altro si spalanca al panorama verso
San Pietro. Straordinari snodi, decisamente anti-classicistici, qualificano la maglia viaria di
Roma nel XVII e XVIII secolo.
11. L’urbanistica barocca trova in Inghilterra un grandioso documento nel Royal Crescent e
nel Circus di Bath, e soprattutto nella serpentina del Landsdown Crescent che risale al
1794.
Nel Settecento, tuttavia, l’Europa delle capitali torna alla prospettiva rinascimentale in una
serie di interventi sontuosi quanto gelidi, che rispecchiano la burocrazia dell’assolutismo.
Ne è l’archetipo la Reggia di Versailles, costruita tra il 1662 e il 1760, dogmaticamente
classicista.
LO SPAZIO URBANISTICO DELL’OTTOCENTO
12. Realizzata dal 1793 al 1810, piazza del Popolo, ingresso a Roma da nord e degno
epilogo del tridente sistino, è un apporto della teorica illuminista francese.
Il neoclassicismo assume una dimensione preponderante a Parigi, dove Georges Eugène
Haussmann, dal 1833 al ’69, sferra drastici tagli nel tessuto preesistente. Rettifili, vedute
assiali sfocianti in piazze circolari o comunque rigidamente geometriche, trafitte da un
obelisco o da una colonna: le quinte stradali hanno la funzione di accelerare le fughe
prospettiche, e perciò spesso le facciate vengono costruite prima degli edifici che
dovrebbero rivestire. Impianti magniloquenti, concepiti per fastose parate militari, dilagano
in tutto il mondo e, malgrado la loro inorganicità, conferiscono una struttura salda e nobile,
artificiosa ma sicura, all’apparato scenico delle grandi città ottocentesche.
13. I problemi della città industriale non si risolvono però con gli sventramenti
haussmanniani. Le catapecchie operaie dell’East End londinese e il paesaggio corroso di
Manchester denunciano uno stato di crisi, cui risponde nel 1898 l’idea della città giardino.
Nuclei urbani per 32.000 abitanti, difesi da un anello agricolo inalienabile e dotati di
industrie, sorgono intorno a Londra. La prima “garden city”: Letchworth, fondata nel 1903.
LA PIANTA LIBERA E LO SPAZIO ORGANICO DELL’ETÀ MODERNA
14. Fine dell’antitesi città-campagna mediante l’urbanizzazione aperta del territorio: questo
propugna Frank Lloyd Wright nel progetto di Broadacre City del 1934. È il portato, a scala
regionale, dei principi della continuità organica inverati dal genio americano in centinaia di
splendidi edifici; fra gli ultimi, il Guggenheim Museum infrange la scacchiera della metropoli
newyorkese con un’elicoidale espansa, strada interna ascendente come in un supergarage,
sempre permeata dalla mutevole realtà del mondo esterno.
Le Corbusier incarna la “pianta libera” in chiave europea. I grattacieli del Plan Voisin per il
cuore di Parigi, e l’Unità di abitazione di Marsiglia, del 1947-1952, documentano una visione
di prismi sospesi, alti e ben distanziati, che ritmano il paesaggio.
Le città satelliti di Stoccolma, Farsta e Vällingby, come le New Towns britanniche, di cui si
mostrano Stevenage e Cumbernauld, richiamano alla tematica delle “garden cities” ma, con
una progressiva riconcentrazione edilizia, acquistano maggiore fisionomia urbana.
15. Il colossale sistema delle freeways vertebra l’agglomerato dispersivo di Los Angeles.
A Chicago, il binato delle torri circolari di Marina City, del 1964, contiene le residenze, le
attrezzature e i servizi di un intero quartiere.
16. Nella tavola della pagina successiva, l’Habitat costruito a Montreal da Moshe Safdie nel
1967 ripropone in moderna versione il continuum medievale.
Il progetto per il centro commerciale di Tel Aviv-Jaffa, redatto da Jan Lubicz-Nycz, con i suoi
grattacieli a cucchiaio, consente di moltiplicare in altezza i livelli urbani.
Il Graphic Arts Center ideato da Paul Rudolph per New York, e il piano di Kenzö Tange per
una Tokyo con dieci milioni di abitanti offrono un’immagine delle macrostrutture
indispensabili alla metropoli contemporanea.

Al quesito: lo spazio urbano configura gli edifici o ne viene


configurato? non si può rispondere in modo assiomatico. Esaminate
la romana piazza Farnese: è il palazzo che fa la piazza, o viceversa?
Se Michelangelo non avesse bloccato il prisma spaziale con quel
prepotente, sproporzionato cornicione, l’insieme avrebbe scarso
significato. Tuttavia, ritenere che le emergenze architettoniche siano
sempre il movente genetico degli spazi urbani è erroneo. Forse, a
piazza della Signoria di Firenze (cfr. foto 6), l’incredibile
sbilanciamento a destra della torre arnolfiana spinse ad aprire la
strada-corte degli Uffizi; spostata a sinistra, paurosamente
incombente sullo slargo, avrebbe implicato un fermo, l’arresto di un
itinerario. Ma ci sono casi affatto antitetici: la senese piazza del
Campo vale per il suo cavo, mentre la fascia edilizia che la recinge è
neutra e opaca (cfr. foto 8), e la torre del Mangia si rapporta non alla
piazza, ma all’intera città. Anche il Campidoglio (cfr. foto 10) sta nel
suo invaso: il progetto michelangiolesco fu attuato in minima parte, e
ampiamente tradito nei tre palazzi; tuttavia l’immagine urbana attinge
inconfondibile personalità per il baricentro arretrato, cioè per il suo
furore antiprospettico.
La circostanza che lo spazio urbano sia generalmente scoperto –
non lo sono peraltro i bazar orientali, né le gallerie e i portici; case
pensili e archi valicano le strade di Perugia e di Siena – non lo
differenzia dalle cavità architettoniche: implica soltanto che la linea di
cielo, segnata dai fastigi degli edifici, acquista enorme rilievo (come,
del resto, quella dei soffitti strutturati e trapunti di luci dei testi
wrightiani). Ripensiamo alla piazzetta di San Marco (cfr. foto 7) quale
si vede provenendo dalla basilica: a destra, la Libreria sansoviniana
col suo greve cornicione rinascimentale indica il contenimento
ermetico dell’invaso, la negazione di ogni colloquio tra parete e cielo;
di fronte a essa, palazzo Ducale non consente invece chiusure, i
setti incorporei a losanghe bianche e rosa si librano e quasi scorrono
su un gioco di anelli marmorei, gli angoli sono vitalizzati da
sottilissime colonnine tortili che precludono il formarsi di una scatola
e, in alto, le merlature ricamate dicono che il cielo viene calamitato
nel contesto edilizio e questo s’incunea nel cielo. La piazzetta si
qualifica in tale squilibrio, e sarebbe frenata se avesse a sinistra una
fabbrica uguale alla Libreria o, a destra, un secondo palazzo Ducale.
I diaframmi architettonici incidono sullo spazio urbanistico, non meno
di quanto proporzioni, tagli, grana e contrasti cromatici delle pareti si
riflettano nella conformazione di una stanza. Ma urge ribadire che,
senza spazio interno, non vi è urbatettura, e ciò vale dal più modesto
granaio a una metropoli. Il Partenone è scultura (cfr. foto 3). Los
Angeles è un agglomerato smisurato di case che neppure il
vertiginoso circuito delle sopraelevate (cfr. foto 15), le famose
freeways, ha tradotto in città.
Che il Partenone sia scultura e non architettura è tuttora giudicata
affermazione blasfema, quasi la scultura non fosse arte. Ma si
consideri un ambiente qualsiasi, privo di individualità spaziale:
Raffaello o Tiepolo ne dipingono una parete, cioè lo sfondano –
l’ambiente non è più lo stesso, assume una dimensione visuale che
vince quella fisica, ma lo spazio creato dall’affresco o dalla tela, per
grandioso che sia, non è fruibile e quindi, a livello architettonico,
resta un vuoto insignificante. Forse fu Giotto a progettare la cappella
degli Scrovegni; tuttavia, non essendo autentico architetto, la pensò
solo in funzione delle figurazioni pittoriche. Così avviene a scala di
città: un ammasso di palazzi e chiese, di strade e piazze non forma
necessariamente un discorso urbano creativo, pur se i singoli pezzi
sono pregevoli; viceversa, i portici bolognesi, benché non memorabili
in sé, determinano l’immagine dell’aggregato e del suo paesaggio
collinare. Roland Barthes ha perfettamente intuito l’essenza del
fenomeno ricercandone una spiegazione semiologica: “... una città è
un tessuto, non composto di elementi uguali di cui si possono
contabilizzare le funzioni, ma di elementi forti e di elementi neutri o,
come dicono i linguisti, di elementi segnati e di elementi non
segnati... Inoltre, dobbiamo osservare che sempre più si attribuisce
un’importanza crescente al significato vuoto, al posto vuoto del
significato. In altre parole, gli elementi vengono sempre più intesi
come significanti per la loro posizione correlativa e non per il
contenuto. Per esempio, Tokyo, che è uno dei complessi urbani più
avvincenti che si possa immaginare dal punto di vista semantico, ha
effettivamente una specie di centro. Ma questo centro, occupato dal
palazzo imperiale, a sua volta cinto da un profondo fossato e
nascosto nel verde, è vissuto come un centro vuoto. Più
generalmente, gli studi fatti sul nucleo urbano in numerose città
hanno mostrato che il punto centrale del centro-città (ogni città
possiede un centro), che chiamiamo un nucleo duro, non è il punto
culminante di alcuna attività particolare, ma una specie di ‘fuoco’
vuoto dell’immagine che la collettività si fa del centro. Abbiamo
dunque, anche qui, un’immagine in qualche modo vuota che è
necessaria per l’organizzazione del resto della città”. Alcuni, in bilico
tra filosofia orientale e indirizzi teosofici, parlano di “non-essere”
come protagonista dell’urbatettura, mentre l’“essere” si
riconoscerebbe nella costruzione, nell’involucro murario. La
differenza è solo terminologica. Per noi, l’essere, in architettura
come in urbanistica, sta nello spazio, là dove si svolge la vita.

Veniamo alle Diverse età dello spazio. Una carrellata attraverso la


storia che si può facilmente riportare alla dimensione urbanistica.
Alcuni accenni per dimostrarlo:
– la scala umana dei greci. Tra immacolati oggetti plastici (cfr. foto
2-3), “puri sotto la luce”, si snodano nelle acropoli di Olimpia, Delphi,
Atene, spazi anti-geometrici e spesso informali, spalancati
sull’orizzonte. Itinerari non preordinati entro quinte visuali: sacro
rispetto topico, unico nella storia, confronto diretto tra natura
incondita del terreno e volumi posati, non radicati al suolo. Poetica di
percorsi all’aperto polidirezionati, in virtù della quale la visione di
templi, tesori, edifici pubblici diviene dinamica: esattamente l’inverso
di quella egiziana, fatta di percorsi unidirezionati e ipogeici. La
stessa scacchiera ippodamea di Priene, Olinto, Mileto ha un
significato affatto antitetico a quello del castrum romano, in quanto è
centrifuga ed estroversa, parte dall’interno, dall’agorà, e si espande
nel paesaggio senza mai confinarsi entro un perimetro rettangolare o
quadrato. Si comprende benissimo l’amore di Le Corbusier per la
Grecia: un linguaggio di volumi puri (cfr. foto 14), disincagliati
dall’ordito prospettico rinascimentale, quale egli cercava per la Ville
Radieuse, aveva il solo precedente del mondo ellenico;
– lo spazio statico di Roma antica (cfr. foto 4-5). Scenario
integralmente costruito, onde esaltare la dimensione illusionistica
degli edifici maggiori rispetto alle quinte. Tessuto continuo,
rigorosamente controllato dall’esterno all’interno, in senso centripeto;
calcolo di ogni punto di vista, teatralità monofocale che riduce e
quasi annulla le scelte dei percorsi; perfino una rotonda come il
Pantheon viene incastrata in una corte termale e centrata da un
maestoso pronao. La sequenza dei fori imperiali presenta quadri
isolati, compiuti in sé, giustapposti sapientemente ma non fusi:
siamo alla vigilia di quel “modo del narrare continuo” che è gloria
della scultura romana nelle rappresentazioni “filmate” delle colonne
traiana e antonina. L’urgenza di spezzare la staticità, affrancandosi
dall’ipoteca ellenistica, è già palese in villa Adriana, e in parte a
Pompei, a Timgad, a Palmyra, in genere nelle città asiatiche. Roma
scopre, insieme allo spazio interno, il continuum urbanistico, ma non
riesce a esprimerlo pienamente, fuori del tracciato ortogonale, se
non nel tardo-antico;
– la direttrice umana dello spazio medievale (cfr. foto 6-7). Il
modo del narrare continuo esplode nell’esperienza surreale,
metafisica delle catacombe, oltre cento chilometri sotterranei, meri
percorsi, itinerari senza punti di arrivo. Contro lo spazio statico
romano si attua una negazione totale dello spazio; domina,
incontrastato, il tempo. La città ipogeica corrode alle fondamenta la
megalomania sovrastante. All’accelerazione direzionale e alla
dilatazione dell’architettura bizantina corrisponde un organismo
paesaggistico in cui si discioglie la struttura urbana; alla barbarica
interruzione dei ritmi fa riscontro l’atrofizzarsi della città. Ma poi si
verifica il rilancio, e la narrativa degli edifici medievali si riflette nel
continuum di Siena, Perugia, Aversa, Carcassonne, Bram, degli
abitati maggiori e minori disseminati capillarmente in Europa. Ai
contrasti dimensionali del gotico s’accordano quelli di Clermont-
Ferrand, Chartres, Mont Saint-Michel. È lo scatto rivoluzionario
descritto da Le Corbusier in Quand les cathédrales étaient blanches:
una tecnica nuova, prodigiosa, “follemente temeraria” che,
sdegnando le regole di tradizioni millenarie, proietta “la civiltà verso
un’avventura sconosciuta”. Il panorama europeo si nutre ancora di
quello scatto;
– le leggi e le misure dello spazio rinascimentale (cfr. foto 8-9).
Cambio radicale di marcia sul duplice piano ideologico e pratico. Le
regole proporzionali e prospettiche condizionano gli schemi
urbanistici di Filarete, Francesco di Giorgio, Serlio, e operazioni quali
la piazza dell’Annunziata a Firenze, la piazza Grande di Vigevano,
quelle porticate di Carpi, Faenza, Imola, Ascoli Piceno. Il fervore
innovatore del primo Quattrocento si protrae nella seconda metà del
secolo culminando a Pienza, Urbino e Ferrara; assai più tardi, nei
“modelli costruiti” di Palmanova e Grammichele. Ma lo scisma tra
“città ideale” radiocentrica o stellare, comunque astratta e anelastica,
e “città reale” fondata su preesistenze medievali, caratterizza
l’umanesimo, la sua coscienza divisa, le sue crisi, le iniziative
compensatorie. Leon Battista Alberti, la cui vocazione di storico
vince quella del trattatista, teorizza una soluzione mediana:
l’inserimento di frammenti nuovi, edifici piazze o strade, nel contesto
antico. È l’unico metodo per evitare che l’atteggiamento razionalista
agisca contro la storia; appare tuttavia riduttivo dell’utopia
rinascimentale che, se da un lato costituisce una forza propulsiva
preannunciando l’avvento della moderna idea di “piano”, dall’altro
comporta l’oscillare sfibrante tra obiettivi sovrastrutturali e
frustrazione;
– il movimento e l’interpenetrazione nello spazio barocco (cfr. foto
10-11). Mentre i principi del Rinascimento si diffondono nel mondo,
conformandone capitali e città rappresentative fino a tutto l’Ottocento
(ma Brasilia non è anch’essa, in sostanza, una “città ideale” ad
assialità prospettiche?), il manierismo, registrando il colpo ferale del
sacco di Roma del 1527, approfondisce le lacerazioni insite nella
crisi dell’umanesimo. Emergono così le ambiguità e le contraddizioni
che informano la cultura dal XVI al XVI secolo: horror et amor vacui,
rigidezze ortogonali e natura selvaggia, gusto simultaneo della
geometria e dell’incolto, implacabile razionalità e droga scenografica,
spettacolari orditure classicistiche e anastrofi allegorie ellissi,
violenza gerarchica nell’impianto e malinconica tenerezza nei
raccordi, limiti monumentali e illusione di varcarli per attingere
l’infinito. Supreme testimonianze esprimono quest’angoscia: basti
ricordare piazza del Campidoglio, la galleria degli Uffizi, le ville di
Vignola. Ma i geni del manierismo, o della mancata Riforma, rifiutano
di elaborare piani urbanistici: Michelangelo, Palladio e Borromini non
credono più a un “programma” e imprimono i loro segni nelle città
mediante l’edificazione di “luoghi deputati”, cioè di fulcri architettonici
capaci di azionare il meccanismo della crescita urbana o, nel caso
disperato di Borromini, di coagularlo. Il rapporto minoritario del
barocco sblocca parzialmente la situazione: alle bipolarità focali e
alle interpenetrazioni di Bernini, dello stesso Borromini e di
Neumann fanno eco, dopo la sventagliata del tridente sistino, la
rottura dei quadri prospettici autosufficienti, la pluralità dei centri di
irradiazione e coordinamento, la tensione dei discorsi urbani, da
piazza San Pietro a piazza Sant’Ignazio, dalle trame di Lecce ai
crescents di Bath. Le città vengono riedite con straordinaria maestria
non più per inverare un ideale ma per persuadere e magari stupire la
gente nella teatralità controriformistica. Di tale retorica, destinata a
finire nell’ibernazione neoclassica, Bernini è la prestigiosa matrice;
Borromini l’antitesi eroica, estrema linea difensiva del retaggio
michelangiolesco. E anche in urbanistica la sconfitta borrominiana, a
lungo termine, è più feconda dei fasti berniniani;
– lo spazio urbanistico dell’Ottocento (cfr. foto 12-13). A
un’architettura dispersa nelle vacue diatribe dell’eclettismo stilistico
si affianca una grandiosa attività pianificatrice tesa ad affrontare i
drammatici problemi posti dalla rivoluzione industriale e dal
macroscopico sviluppo delle città. Il XIX secolo manca tuttavia di un
linguaggio proprio, il suo repertorio accumula e confonde le
esperienze del passato alterandone la scala dimensionale. L’impeto
napoleonico diviene mito e dalla Parigi di Haussmann dilaga nei
continenti lontani, contaminandosi con scenografie
pseudoellenistiche, rettifili militareschi pseudoromani, tridenti
pseudosistini, episodi pseudomedievali. Si abbattono le vecchie
cinture bastionate per ampliare l’abitato, che però, saturando
successivi anelli concentrici di territorio, ricostituisce un organismo
chiuso, virtualmente murato, da oltrepassare. Tutto appare “pseudo”
nell’architettura come nell’urbanistica ottocentesca, benché
quest’ultima sia ricca di proposte e nobili realizzazioni. È significativo
che nelle ultime decadi del secolo, quando si verifica la riscossa
architettonica, questa abbia scarsissima influenza urbanistica.
L’inventività degli ingegneri è relegata alle esposizioni universali,
lascia poche impronte nelle città, tranne la torre Eiffel. Le Arts and
Crafts di William Morris degli anni sessanta possono essere
collegate alla città giardino di Ebenezer Howard, il cui pensiero, al
tramonto del secolo, funge da ponte tra utopie ottocentesche e
movimento moderno, ma solo nel senso di una comune, salutare
rinuncia a ogni forma convenzionale e accademica. L’Art Nouveau
non possiede una direttiva urbanistica. Otto Wagner rinsangua
Vienna con la rete delle metropolitane, ma Horta, Olbrich e
Hoffmann, Mackintosh, cioè i maggiori spiriti creativi dell’Art
Nouveau, non operano a scala di città. E ciò proprio quando
l’urbanistica sembra fagocitare l’architettura;
– la pianta libera e lo spazio organico dell’età moderna (cfr. foto
14-15). Alla magniloquenza razionalizzata della scuola Beaux-Arts,
tuttora prevalente nel mondo, si contrappone il razionalismo
autentico della “città ideale” lecorbusieriana: ordito regolare ma
aperto, grattacieli o unità di abitazione sospesi su pilotis onde
garantire la disponibilità totale dello spazio urbano a livello pedonale,
paesaggi modellati con la terra scavata per le fondazioni; logica
calvinista nell’impianto e poi lirica gestualità nelle modanature, negli
“oggetti a reazione poetica”, che talvolta, come nel piano per Algeri,
orchestra l’intero scenario topografico. Nel messaggio di Le
Corbusier, il più limpido, drastico e affascinante, confluisce il
razionalismo tedesco con le stereometrie ritmate dei quartieri
residenziali e la Francoforte di Ernst May. Sull’altra sponda, agli
antipodi, Broadacre City di Frank Lloyd Wright, profezia della città-
regione, di un territorio urbanizzato che scioglie l’ormai anacronistica
distinzione tra nucleo cittadino chiuso e campagna. L’idea di Le
Corbusier investe il presente, e a Marsiglia, Nantes e Berlino
produce un macroedificio contenente l’attrezzatura completa
dell’unità abitativa; quella di Wright, troppo spesso fraintesa e
giudicata romantica, attiene al futuro anche sotto il profilo della
sopravvivenza ecologica. Come Michelangelo, Palladio e Borromini,
Wright non crede nel “piano” imposto dall’alto, nell’intervento
autoritario sulla comunità; perciò riprende il metodo dei luoghi
deputati, delle emergenze architettoniche che qualificano la città
anziché esserne assoggettate. Sintomatico, il Guggenheim Museum:
una strada elicoidale espansa, immersa nel corpo urbano, parte di
esso non meno di un supergarage pluripiani, esplosiva urbatettura in
cui persino la luce è dosata su quella esterna. Tutto ciò che avviene
negli ultimi decenni porta il segno di Wright, del continuum
paesaggistico: dalla “facciata” di Tel Aviv composta dai mastodontici
grattacieli a cucchiaio progettati da Lubicz-Nycz all’Habitat costruito
a Montreal da Safdie (cfr. foto 16). Contro l’ipotesi della morte
dell’arte e dell’architettura, è morta la città nell’accezione tradizionale
del termine: l’urbanistica si attua a scala territoriale, aggredisce
globalmente l’ambiente, e dell’environment l’architettura torna a
essere la leva decisiva. Brani della città lecorbusieriana sono
realizzabili per volontà della classe dirigente; malgrado i suoi difetti,
Brasilia è lecorbusieriana. La città di Wright invece nessuno la può
costruire oltre tutto perché non è una città, ma un territorio strutturato
da una società democratica, in cui l’abrogazione dei privilegi non
implichi massificazione delle coscienze e atonia delle energie
individuali.
Le interpretazioni dell’architettura sono riducibili a tre grandi
categorie: a) contenutistiche (politica, filosofico-religiosa, scientifica,
economico-sociale, tecnica, materialistiche di vario genere); b) fisio-
psicologiche (Einfühlung, Gestalt, psicanalisi); c) formalistiche
(principi compositivi, teorie linguistiche, schemi wölffliniani; per
estensione, semiologia e applicazioni strutturaliste). Ebbene, tali
interpretazioni non hanno alcun bisogno di essere trascritte in scala
urbanistica perché vi si calano spontaneamente. La storia delle città
e dei paesaggi è la puntuale rappresentazione di quella politica,
economico-sociale, filosofico-religiosa, scientifica e tecnica. Un
architetto, sia pure con immenso sforzo, può agire controcorrente,
opporsi come fecero Michelangelo, Borromini, Le Corbusier, Wright,
preparare l’avvenire rifiutando il presente o incidendo nelle sue
tangenti. L’urbanistica è prodotto corale e, salvo rarissime eccezioni,
registra; il resto è utopia, intenzionalità, fuga, compenso onirico,
“città ideale”. Da tale condizionamento deriva che la lettura delle città
è largamente basata sul simbolismo: fenomeni politici e socio-
economici + connotazioni emblematiche di essi. I trattati di Lewis
Mumford, The Culture of Cities e The City in History, offrono la
sintesi di un metodo che integra fenomeni e simboli, interpretazioni
contenutistiche, fisio-psicologiche e formaliste. Le cosiddette “leggi”
compositive – unità, contrasto, simmetria, equilibrio, proporzione,
carattere, scala, stile, verità, espressione, urbanità, enfasi o
accentuazione, varietà, sincerità, proprietà – valgono negli stessi
limiti in architettura e in urbanistica. E l’interpretazione spaziale tutte
le coinvolge e invera nei termini specifici della fruizione urbana.

Giungiamo così alla questione nodale. “Ci siamo posti la


domanda: per dare un’illustrazione pratica di quanto siamo venuti
dicendo [sullo spazio, protagonista dell’architettura], val meglio
prendere un edificio ed analizzarlo sino in fondo... oppure accennare
sommariamente alle principali concezioni dello spazio interno che
s’incontrano lungo la storia dell’architettura...?” Al quesito, in Saper
vedere l’architettura, si è risposto optando per la seconda strada,
benché la si riconoscesse “gravida di rischi, necessariamente
lacunosa”. In campo urbanistico, la scelta è opposta almeno per due
motivi. Anzitutto, numerosi libri ripercorrono la storia a larghi tratti;
mentre pochissime sono le personalità che abbiano configurato una
città organica e di cui sia stata penetrata la vicenda pianificatrice e
architettonica. Secondariamente, dal mondo antico in poi, e specie
dopo il Rinascimento, il dato urbano è stato sempre accompagnato
dall’“idea”, dall’ipotesi, dall’immagine più o meno utopica della città
quale avrebbe dovuto essere per risultare perfetta, ed è evidente
che questi fantasmi non possono essere oggetto di esperienza
concreta, di un “saper vedere”. Quattro edifici, Fallingwater, il
Bauhaus di Dessau, la villa Savoye a Poissy, il padiglione di
Barcellona attestano appieno il linguaggio architettonico di Wright,
Gropius, Le Corbusier, Mies van der Rohe. Ma nessuno di essi ha
attuato una città – Chandigarh incarna solo parzialmente la poetica
lecorbusieriana – e dei loro progetti urbani non è data diretta
fruizione.
Meglio dunque tuffarsi nella realtà di una città specifica, e viverla
in ogni sua piega, nell’intero arco che va dal programma all’arredo
urbano. Quale città? Per precise ragioni che esporremo, si propone
Ferrara.
La ricerca su “la prima città moderna d’Europa”, come la definì
Jacob Burckhardt, partì infatti con l’intento di approdare in un “saper
vedere la città”.

Ferrara – perché?
Ecco le principali ragioni che inducono a scegliere questo nucleo
urbano, sopra ogni altro, per un “saper vedere la città” mordente nei
problemi contemporanei:
– organismo medievale e rinascimentale, offre la duplice
esperienza della temporalità tardo-antica e dell’assetto spaziale
geometrico, soprattutto del loro intreccio in una simbiosi che non ha
riscontri. Innumeri nuclei medievali hanno subito un accrescimento,
ma in nessun caso si è verificato un processo così coerente di
saldatura. Non si tratta di un settore rinascimentale aggiunto
all’aggregato medievale, e autonomo rispetto a esso; e neppure di
un’albertiana ristrutturazione interna del vecchio tessuto. L’Addizione
erculea non sovrappone né giustappone un intervento umanistico,
aristocratico e autoritario, alla città reale. Invera un metodo capace
di tradurre un abitato consunto e soffocante in una moderna trama
territoriale, preservandone i valori. Ferrara vanifica i precetti
accademici sulle presunte “leggi di crescita delle città” e, allo stesso
tempo, irride le pseudoteorie del cosiddetto “ambientamento”, ultimo
rifugio dell’istinto conservatore. Volete immaginare un Wright o un Le
Corbusier che svolgano lo stesso compito affidato a Rossetti?
Oppure un Gropius, un Mendelsohn, un Mies? Cosa sarebbe
mancato per annodare, con pari coesione, le loro unità di abitazione,
i quartieri, le masse espressioniste od organiche al tracciato
medievale? Interrogativi del genere, spregiudicati e pressantemente
attuali, non si potrebbero formulare analizzando Perugia, Siena,
Venezia o Firenze, Roma o Napoli, Londra o Barcellona, e nemmeno
Pienza, Urbino e Mantova;
– piano chiuso o piano aperto? Il primo cristallizza lo sviluppo
entro una forma precostituita; il secondo, se è aperto davvero, non
pianifica. La coscienza divisa dell’umanesimo e quella angosciata
del manierismo persistono: da un lato, i razionalisti che propongono
nuovi modelli e trame, Versailles in chiave moderna; dall’altro, gli
esaltatori dell’autofarsi della città, inebriati da Los Angeles e specie
da Las Vegas. Abbiamo accennato alla posizione di Michelangelo,
Palladio, Borromini e Wright, cioè alla sostituzione del “piano” con
fulcri edilizi erompenti, capaci di trasformare la città. L’operazione
michelangiolesca di Roma è la più grandiosa nella storia dei non-
piani: individua cardini e direttrici, sottraendo ai primi il tradizionale
carattere statico, di arrivo, e alle seconde il monorientamento; fissa il
centro religioso a San Pietro, ripercuotendolo di qua dal Tevere in
San Giovanni dei Fiorentini, il centro residenziale a palazzo Farnese
prevedendone uno sbocco oltre il fiume, il centro civico nell’acropoli
capitolina raccordata però a piazza del Gesù e al Quirinale, l’asse di
espansione nella strada Pia con uno snodo verso le terme
dioclezianee e un riflusso a Santa Maria Maggiore. Con metodo
analogo, centripetato e invertito dal clima controriformistico, opera
Borromini, condensando furenti interventi nelle cerniere più delicate
del tessuto romano e sconvolgendole a un grado efferato con San
Carlino alle Quattro Fontane, Sant’Andrea delle Fratte, i Filippini, il
palazzo di Propaganda Fide incredibilmente incombente e
sproporzionato, e soprattutto elettrizzando il panorama con
l’elicoidale di Sant’Ivo alla Sapienza, antitesi blasfema all’intera
sequenza delle cupole accasciate di Roma, scherno di quella del
Pantheon. Un’urbanistica per “luoghi deputati”, come si è detto,
appare quanto mai attuale, e l’elicoidale espansa del Guggenheim
Museum può confrontarsi con quella introversa di Sant’Ivo (cfr. foto
14). Ma assai più stimolante e organica risulta la proposta
rossettiana: un piano, che tuttavia non congeli il processo di
sviluppo. L’Addizione, rispetto al nucleo medievale, ha una
dimensione così lungimirante da non essere stata saturata per
quattro secoli; relativamente ai tempi, una città-regione equilibrata
ed esaurientemente vissuta anche se vaste zone restano inedificate.
Concepito il piano, Rossetti non ha bisogno di simularne la
realizzazione, come Haussmann a Parigi (cfr. foto 12); anticipa la
soluzione di Michelangelo e Borromini, punta sui “nodi privilegiati”,
ma nell’ambito di un disegno, di un’intenzionalità che ha la forza di
canalizzare nei secoli i contributi del caso, la problematica
imprevedibile del futuro. Tra “città ideale” e non-piano, questo è forse
l’unicum della programmazione aperta e continua, di cui oggi si
ricerca la metodologia progettuale;
– piano bidimensionale o tridimensionale? Uno rimane sulla carta
o sfocia in amorfi settori “zonizzati”, l’altro esigerebbe il monopolio di
un solo architetto. Ferrara insegna invece come un piano possa
essere tridimensionale senza predeterminare le volumetrie edilizie,
di cui Rossetti non formulò neppure un regolamento. Paragonatene
la struttura con una moderna “new town”, bene organizzata come
Stevenage o Vällingby, magari accentrata come Cumbernauld (cfr.
foto 14). Cosa manca a queste nostre nuove città per essere
autentiche, per connotarsi in valenze polisenso essenziali per la vita
urbana? Perché, a distanza di pochi anni, sembrano “modelli” di se
stesse, ingranditi dimessi e impolverati? Ecco, a Ferrara s’impara a
costruire una città in modo organico, spontaneo, quasi impercettibile.
L’inverso, anche sotto questa luce, di Brasilia dove un’attività
edificatoria febbrile sino alla follia e dispendiosa oltre ogni logica fu
l’unico mezzo per garantire che la quantità di interessi economici
investiti impedisse di abbandonarla. Il programma estense per
l’espansione socio-demografica di Ferrara fu illusorio; ma la città
visse della sua nuova scala anche se la terza dimensione restò
largamente irrealizzata. Brasilia invece è stata tutta costruita, con
artificiosa compiutezza, nella volumetria del centro direzionale e dei
quartieri, ma la sua dimensione già sul nascere appariva
anacronistica;
– città antica e edilizia nuova. La tesi secondo la quale
l’organismo del passato va tutelato nella sua integrità, mentre il
linguaggio moderno andrebbe relegato alle zone di espansione,
trova una clamorosa smentita a Ferrara. Rossetti riuscì a salvare il
nucleo medievale perché lo rinnovò con alcuni interventi decisivi e,
per l’epoca, macroscopici. L’“urban renewal” fu attuato per poli, cioè
con lo stesso metodo adottato nell’area dell’Addizione. Per questo,
la città è solo empiricamente separabile in due porzioni; in realtà,
l’abitato antico sarebbe impensabile senza il complemento
rinascimentale, e viceversa. L’uno rinsangua l’altro, anziché
competere e depauperarsi. Bilanciamento di “cuori” urbani, raccordo
fra strade, presenza di “luoghi deputati” squillanti come il palazzo di
Ludovico il Moro nelle maglie di saldatura. Per apprendere a
condurre simultaneamente la duplice operazione di ampliamento e
rinnovo di una città, conviene attingere alla fonte ferrarese;
– non-finito urbatettonico. Questo è forse l’aspetto culminante, la
lezione di fondo. Tutti ormai lo ripetono: una serie di stanze, anche
se ciascuna bellissima in sé, non forma una casa; una serie di
edifici, sia pure splendidi singolarmente, non configura una città.
Occorre un legame di interdipendenza, il continuum. Ma, per
concretarlo, ogni elemento, palazzo chiesa viale piazza, deve
rimandare a quelli adiacenti, cioè rinunciare alla propria autonomia.
Ciò significa: poetica del non-finito, livello urbano in cui Biagio
Rossetti assume la statura del genio. Si sottrae al continuum
medievale, ma non accetta i volumi puri, isolati del Rinascimento;
acquisisce i metodi di Brunelleschi e di Alberti, ma in chiave di non-
finito. Posizione inaudita, contestataria alla radice della struttura
linguistica; in pieno umanesimo, là dove trionfa l’ideologia razionale,
irrompe col non-finito in una scala non mai tentata neppure da
Michelangelo e da Palladio. Se avesse teorizzato la sua concezione
urbatettonica, l’avrebbero preso per pazzo e liquidato; era un umile
artigiano e l’esperimento passò. Ma ora è tempo di proclamarne la
grandezza profetica, di calarsi nella grammatica, nella sintassi,
nell’arco dei messaggi del non-finito in urbanistica. Altrimenti, per
opporci a Haussmann, saremo costretti a inneggiare a Las Vegas,
alla vitalità del negativo. Le nostre città, i nostri quartieri sono
insensati per vari motivi, ma anche perché composti di “pezzi” finiti,
conclusi nella propria cornice, avari, intracettivi (cfr. foto 16). Mentre
tutto ciò che vale oggi, da Fallingwater all’Habitat di Montreal, è non-
finito a scala di paesaggio o di città. Corrodere e spalancare la
scatola, liberare lo spazio dall’involucro che lo comprime, creare
fluenze tra cavità polifunzionali: questo, sappiamo, è il compito
dell’architettura moderna dalle sue remote origini manieristiche, e lo
è pure dell’urbanistica. Piano chiuso o aperto, bidimensionale o
tridimensionale? Non basterà un disegno unitario né un
procedimento per “luoghi deputati” a risolvere questi dilemmi. Gli
aut-aut, architettura/urbanistica Gropius/Wright, servono a sferzare
le coscienze assopite, ma l’alternativa non sta tra il piano
sovrastrutturale e dispotico, che mortifica l’architettura, e il caos
urbano, che la libera da ogni vincolo. Si tratta di portare l’istanza
urbanistica nel seno dell’architettura. Invero, il non-finito è il
messaggio moderno dell’arte, implica il coinvolgimento dello
spettatore, il suo innesto, la sua partecipazione al processo creativo
altrimenti incompiuto senza di lui. In quanto non-finita, Ferrara non è
soltanto “la prima città moderna d’Europa”, è l’unica moderna.
Trasferitene la metodologia nella città-regione e nelle macrostrutture
che la distinguono, e gli obiettivi di organici insediamenti comunitari
per il futuro diverranno credibili;
– prospettiva e poetica dell’angolo. Si ripete che l’arte moderna
supera, e deve superare, la visione prospettica, tridimensionale,
statica dello spazio rinascimentale. Ma in che modo? La formula più
rigorosa fu escogitata dal gruppo “De Stijl”: scomporre il volume in
elementi bidimensionali onde annientare la profondità, e poi
rimontarne i frammenti, setti o lastre, nello spazio controllando però,
specie nelle giunzioni, che non ricostituiscano stereometrie
concluse, figure scatolari; Piet Mondrian cantò questa città
splendidamente immersa in un’atmosfera di elementarismo
cromatico, fragrante e lucidamente ebbra nei diaframmi rossi, blu,
gialli, bianchi e neri. Ma a tale drastica riduzione dell’edificio a mere
superfici trasparenti o comunque incorporee si opposero Wright e gli
organici, fedeli al principio “in the nature of materials”, e gli
espressionisti, soprattutto Mendelsohn. Essi confutavano: perché
mai, al fine di attingere il moto, la cosiddetta “quarta dimensione”
cubista, dovremmo uccidere la terza, umiliando i valori materici
dell’architettura? Noi pure miriamo a una visione cinetica, temporale,
ma esaltando le masse gravide, carnose, erompenti dal suolo. Si
verificò così una spaccatura ideologica e procedurale, durata un
ventennio. Mentre i razionalisti, Gropius, Mies, Le Corbusier fino alla
conversione di Ronchamp, appiattiscono i prismi, come nel
grattacielo dell’ONU a New York, sull’altra sponda Mendelsohn e
Wright, dall’Einsteinturm di Potsdam al Guggenheim Museum, li
esplodono nel paesaggio naturale e urbano. Ebbene, la storia, col
neoespressionismo e l’informale del secondo dopoguerra, cioè con
la crisi dell’astrattismo, ha dato ragione all’indirizzo wrightiano e
mendelsohniano in difesa della terza dimensione, della materia e del
gesto, dell’assimilazione del kitsch, della vita, della realtà,
dell’evento, del caso nell’opera d’arte. Ma è chiaro che questa
moderna terza dimensione, cinetica per energia propria, si pone in
netta antitesi rispetto a quella tradizionale. E allora occorre
rimeditare l’intero sviluppo dal Rinascimento a oggi. Quesito di
fondo: entro quali limiti è stata usata la dimensione prospettica nel
corso di cinque secoli? Si constata un fenomeno paradossale: a
scala urbana, quasi senza contrasti, ha dominato la prospettiva
centrale – chiese e palazzi a fondale di piazze, rettifili viari ben
contenuti da quinte edilizie; nessuno ha mai ruotato un palazzo
Farnese di 37° rispetto al quadro prospettico, un San Pietro di 62°,
una Madeleine di 26°, un St Paul di 43°. In altre parole, il sistema di
rappresentazione nato all’inizio del Quattrocento per valorizzare la
terza dimensione, coartato dall’accademia, ha finito per privilegiare
le facciate, disposte frontalmente o di scorcio, a detrimento dei
volumi. I piani urbanistici, mortificando la tridimensionalità
architettonica, hanno istituzionalizzato la gerarchia tra prospetto
principale, fianchi e retro; la strada-corridoio ha poi cancellato i
fianchi e spesso svilito il retro. Eccezioni a questa desolante regola,
contro la quale insorgevano Michelangelo, Palladio, Borromini,
Wright? Numerose su piccola scala, determinate da condizionamenti
topografici, preesistenze medievali, magistrale gusto barocco nei
raccordi. Ma, a scala urbana, una sola: Ferrara. Qui infatti, malgrado
un tracciato viario virtualmente ortogonale, Rossetti accentua
costantemente le visioni d’angolo, impegnando tutta la progettazione
sulle cerniere, tra cui provocatorio a un grado inaudito lo spigolo
isolato del palazzo Turchi-Di Bagno. Il barone Haussmann costruirà
false facciate per la Parigi imperiale e neoclassica, somma e
intreccio di quadri prospettici centralizzati. Rossetti, qualche secolo
prima, è assai più avanti, erige fulcri e perni di una struttura cinetica,
preannunciando Wright e Mendelsohn, nei cui schizzi trionfa la
visione angolare, cioè la prospettiva rivoluzionata in chiave
dinamica. Sotto questo profilo, non basta parlare di Ferrara come di
una città moderna ante litteram; vi si identifica una profezia urbana,
ancora tutta da realizzare, anzi da scoprire. Apologia, rilancio o,
meglio, conquista della tridimensionalità nei suoi movimenti
inesplorati – quindi poetica dell’angolo, rottura dell’oggetto
architettonico in sé finito, e suo intrinseco coinvolgimento nella
vicenda urbana;
– sovrastruttura e struttura, polisenso. Ferrara dimostra come
l’azione dell’urbanista non sia di mero rispecchiamento: può essere
eversiva, nel suo ambito può sconfiggere il potere. Si dice che gli
impianti rigidi esprimano i regimi dispotici, e quelli fluidi e narrativi gli
ordinamenti democratici: il paleolitico è organico, il neolitico
teocratico e autoritario, il Medioevo riflette il libero comune, la
Rinascenza l’oligarchia. Tuttavia, qui siamo al cospetto di una città
democratica, benché fondata all’ombra di una signoria tra le più
avare e corrotte. Lo riconosce anche Renzo Renzi, dopo aver
rievocato i plurimi sensi dell’ambiente ferrarese, quali emergono
nell’itinerario del migliore cinema italiano, da Ossessione di Visconti
a Il mulino del Po di Lattuada, da La lunga notte del ’43 di Vancini ai
deserti borghesi di Antonioni, cui si aggiunge Il giardino dei Finzi-
Contini di De Sica. Vanificando la romantica contrapposizione tra “la
città medievale, con le sue strade grige, gli anditi bui, le tortuosità
calde, la dimensione frequentabile; un oscuro, ma certo rifugio; una
vita chiusa e protetta dentro una totalità di funzioni soddisfatte. C’è
persino l’acqua che impregna i muri, come una matrice; rivelando,
tuttavia, direbbe De Pisis, il fondo di palude che sta, sempre, sotto le
case”, e l’Addizione in cui “i muraglioni e i palazzi proteggono gli altri,
gente nascosta, forse scomparsa, che mi lascia solo nelle strade
diritte e aperte, semmai a cercare di indovinare una vita che non mi
appartiene dietro stupende facciate, sotto alberi di cui mi sono
nascosti il tronco e la base, per impedirmi di partecipare.
L’impossibilità crea l’estraniamento inducendomi a vagheggiare un
aldilà dei muri, qualcosa che potrebbe essere sereno, che fu sereno,
ma ora, forse non esiste più”; una volta osservato che “la metafisica
presente a Ferrara non è suggerita dai resti del Medioevo, che
dovrebbe essere mistico; ma dai resti di un Rinascimento che fu
profano” (nei giardini dell’Addizione, Bassani ha dissolto “la lunga
nenia della tragedia ebraica”), Renzi aggiunge: “Del resto, quello
degli estensi fu un fenomeno di accumulazione, più ancora che
economica, culturale: un’accumulazione di ricchezze artistiche,
fantastiche, in funzione di una politica difensiva di potenza. Perché,
allora, non potremmo raccogliere simili bandiere, se esse non
riguardano la struttura? In una città come Urbino, il Palazzo sta
materialmente sopra tutte le altre case, prostrate ai piedi. A Ferrara,
al contrario, l’immagine è orizzontale: la città signorile si pone
accanto all’altra, chiamandola ad un rapporto, indicandole uno
sviluppo. Certo, Ferrara è città di pianura. Allora, la pianura ha
favorito il passo. Ma chi ha scelto di compierlo?” Chi, invero? Non i
signori, e non la plebe. Chi altro può essere se non Biagio Rossetti
nel suo messaggio ambiguo, equiprobabile, capace di
deautomatizzare il linguaggio, rendendo agibile per i poveri un
codice nato per i ricchi (ma non è architettura “povera” quella
dell’intera piazza Nuova?), insomma di suscitare, con un piano
dall’alto, un processo di pianificazione popolare? Tale è la realtà
urbanistica, polisenso come ogni opera d’arte. Vi si può proiettare
qualsiasi stato d’animo, e il suo opposto: il passato e il futuro, l’atto
compiuto perché divenga memoria. Giorgio Bassani ha collocato il
giardino dei Finzi-Contini in fondo al corso Ercole I d’Este, cioè alla
via degli Angeli. Lì si svolge l’identificazione con Micòl: “nel senso
che anch’io, come lei, non disponevo di quel gusto istintivo delle
cose che caratterizza la gente ‘normale’. Lo intuiva benissimo: per
me, non meno che per lei, più del possesso delle cose contava la
memoria di esse, la memoria di fronte alla quale ogni possesso, in
sé, non può apparire che delusivo, banale, insufficiente. Come mi
capiva! La mia ansia che il presente diventasse ‘subito’ passato,
perché potessi amarlo e vagheggiarlo a mio agio, era anche sua,
tale e quale. Era il ‘nostro’ vizio, questo: d’andare avanti con la testa
sempre voltata all’indietro. Non era così?” Certo, può essere anche
così, tra le innumeri declinazioni del clima ferrarese;
– codice antropologico e produzione di storia. Umberto Eco
elenca tre possibili soluzioni per un architetto operante in una
determinata comunità: a) atteggiamento di assoluta integrazione al
sistema sociale esistente, obbedienza alle richieste del corpo
sociale, quindi rispetto del codice tipologico, di un lessico di elementi
convenzionati; b) eversività avanguardistica, tentativo di obbligare la
gente a vivere in modo affatto diverso, forme nuove che denotano
funzioni nuove, non articolate secondo il codice di base dei rapporti
linguistici precedenti; c) elaborazione di un codice dei significati
architettonici che permetta di denotare un nuovo sistema di funzioni,
comprensibile però agli utenti per la sua parentela col precedente, e
tuttavia diverso nella misura in cui deve consentire di formulare altri
messaggi. Ebbene, quale delle tre posizioni sceglie Rossetti?
Esclude, quasi automaticamente, la prima; scarta anche la seconda,
se, come presume Eco, impedisce di convincere un committente, di
ottenere un incarico professionale, di realizzare. Dunque, resterebbe
la terza ipotesi, creativa in senso moderato, dove scatta qualcosa
che non corrisponde alle attese del pubblico pur facendo leva su
bande di ridondanza, su rimandi a codici preesistenti. Ma è proprio
vero? Per una larga parte della sua attività edilizia, prosa più che
poesia architettonica, non c’è dubbio. A livello urbanistico, no. Qui
l’eversività è totale, verificata dalla circostanza che tuttora non solo i
profani ma anche gli esperti e gli specialisti stentano a riconoscerla.
Nella letteratura urbanistica degli ultimi decenni, nessuno ha potuto
ignorare Ferrara e Biagio Rossetti, ma nessuno ha voluto prendere
atto e coscienza dell’apporto rivoluzionario di una metodologia
basata su un disegno aperto, cioè su una precisazione di
intenzionalità, sulla edificazione dei nodi focali della struttura, sulla
poetica dell’angolo, attributo sostanziale del non-finito, strumento
insostituibile per calibrare le forze cinetiche, e perciò fondere
urbanistica e architettura. In altri termini, pur non risparmiando gli
encomi, nessuno ha voluto capire che nell’urbatettura di Ferrara c’è
un lievito capace di generare vie nuove per i moderni assetti
territoriali. Dice ancora Eco che “l’architetto non deve
necessariamente modificare da solo il mondo, e però deve poter
prevedere, per un arco di tempo non controllabile, il variare degli
eventi intorno alla propria opera”, cioè “deve saper configurare le
sue forme significanti in modo che possano far fronte ad altri codici
di lettura”. Il suo compito è “di anticipare e accogliere, non di
promuovere, i movimenti della storia” tenendo anche conto del
possibile fallimento delle ipotesi sociologiche, fisiologiche, politiche e
antropologiche, del margine di errore di queste indagini. Rossetti
invece ha promosso la storia, anticipando alcuni aspetti di
Michelangelo, Palladio, Borromini, Wright, Mendelsohn e delle
ricerche contemporanee sui tessuti urbani, sulle macrostrutture
polifunzionali, sui luoghi deputati a incentivare la crescita della città,
soprattutto sulla città-territorio. Vogliamo riconoscerlo, incontrare
senza paura un personaggio eretico e discorde, protagonista della
più coraggiosa avanguardia, che tuttavia non si appaga dell’utopia e
crea una città? Vogliamo superare il dilemma piano-caos, assassinio
dell’architettura o assassinio dell’urbanistica, individuando le
condizioni di un’autentica pianificazione dal basso?
Certo, dovunque si può apprendere a “saper vedere la città”, a
Hong Kong e a Rio de Janeiro, in un villaggio indiano o in un
accampamento di beduini. Ma Ferrara sembra offrirne il laboratorio
meglio attrezzato. E se poi esercita un fascino divorante, forse non è
per caso: fu concepita come immagine globale di passato
medievale, presente rinascimentale e futuro plurivalente. Registra il
variare degli eventi con lo spessore della memoria e la temperie
simultanea e talora spasmodica dell’imprevedibile, del non-finito.
NOTE BIBLIOGRAFICHE

Una compiuta bibliografia urbanistica esorbita dagli scopi del presente


saggio. Il lettore interessato può consultarla in LEWIS MUMFORD, The City in
History – Its Origins, Its Transformations, and Its Prospects, Harcourt, Brace &
World, New York 1961 (in italiano, La città nella storia, Edizioni di Comunità,
Milano 1963). Tra i libri più recenti: EDMUND N. BACON, Design of Cities, Viking
Press, New York 1967; SIBYL MOHOLY-NAGY, Matrix of Man – An lllustrated
History of Urban Environment, Pall Mall, London 1968; PAOLO SICA,
L’immagine della città da Sparta a Las Vegas, Laterza, Bari 1970; LEONARDO
BENEVOLO, Storia della città, Laterza, Bari 1975.

Identità di architettura e urbanistica


“Scienza od arte che sia, od anche qualcosa di misto, di contaminato o di
composito delle due attività spirituali, o magari di altre, qual è l’oggetto
dell’urbanistica come comunemente s’intende? È lo stesso oggetto che ha la
politica – la quale è stata del resto anch’essa variamente teorizzata come
scienza o come arte, e ancora come misto di tutte e due. L’oggetto
dell’urbanistica è il rilevamento di una situazione storica data, al fine di
operarne la trasformazione attuale e futura secondo principi, credenze,
convinzioni, idee motrici, direttive e programmi, quali che questi siano. E
allora, per evitare equivoci e confusioni, credo che questo fondamentale lavoro
dovrebbe essere identificato e definito con una designazione sua propria e
distinta. Nessuna mi sembra più esplicita e rispondente di questa:
pianificazione... La pianificazione, al momento che si concreta come
ordinamento del presente e del divenire degli organismi, assume tutto il
complesso, veramente imponente, di mezzi che sono in grado di realizzare un
piano dalla sua impostazione e dal suo studio fino alla sua condotta e al suo
compimento: la fabbricazione, l’igiene, la viabilità ed il traffico, lo sfruttamento
delle condizioni geologiche e geografiche, il macchinario e le attrezzature, la
legislazione e la giurisprudenza, i materiali e le forze naturali, e così via. È la
realizzazione dei piani in questi termini che si dovrà correttamente distinguere
col nome di urbanistica... Di urbanistica si potrà parlare anche in termini
generali, teorematici o didascalici, come si parla di grammatica e di sintassi e
di metrica rispetto alla poesia... Si può avere un’urbanistica senza forma, ma
anche un’urbanistica che ha una forma, che ha risolto cioè un contenuto vitale
in un’ispirazione che impronta con irrecusabile certezza ed omogeneità ogni
determinazione... Ritengo che all’urbanistica che ha una forma sia da riservare
il termine di architettura al quale una millenaria tradizione storica ha
mantenuto il carattere di espressione artistica” (CARLO LUDOVICO RAGGHIANTI,
Pianificazione, urbanistica, architettura, in “L’architettura – cronache e storia”,
n. 3, settembre-ottobre 1955; e in “Critica d’arte”, n. 9, 1955).
Quanto ai riferimenti su questa tesi, cfr. Saper vedere l’architettura, Einaudi,
Torino 1948, nota II; la voce Architettura nell’Enciclopedia Universale dell’Arte,
vol. I, Istituto per la Collaborazione Culturale, Venezia-Roma 1958, e
segnatamente il capitolo Identità tra spazio interno e spazio esterno;
Architectura in nuce, Sansoni, Firenze 1972.
Analogamente GIULIO CARLO ARGAN, nel saggio La cultura delle città,
ripubblicato in Progetto e Destino, Il Saggiatore, Milano 1965: “Tradurre in
figura la struttura della società significa disegnare e costruire lo spazio della
sua esistenza, ch’è anche lo spazio e la ragione formale dell’architettura.
Poiché anche nell’arte il “mondo della vita” ha preso il posto del sistema
dell’universo, l’architettura moderna, come architettura della società o
urbanistica, costruisce e manifesta lo spazio della vita sociale allo stesso
modo che l’architettura classica componeva e rivelava nelle sue forme lo
spazio della natura.”
L’identità non implica il sincronismo. Si verificano spesso nella storia
discrepanze, scarti e conflitti tra architettura e urbanistica. Vanno interpretati in
due sensi: o come critica che l’architettura esprime contro una concezione
inerte e logora della città, o come resistenza dell’impianto urbano contro
artificiose violenze architettoniche.

La città come una grande casa


“E se è vero il detto dei filosofi, che la città è come una grande casa, e la
casa a sua volta una piccola città, non si avrà torto sostenendo che le membra
di una casa sono esse stesse piccole abitazioni... Nelle case, così come nelle
città, vi sono parti frequentate da tutti, altre riservate a pochi, altre infine alle
singole persone... Nella casa l’atrio, la sala e gli ambienti consimili devono
essere fatti allo stesso modo che in una città il foro e i grandi viali: non già,
cioè, in posizione marginale, recondita o angusta, ma in luogo ben visibile e
tale da esser raggiunto nel modo più diretto dalle altre parti dell’edificio” (LEON
BATTISTA ALBERTI, De re aedificatoria, trad. it. di Giovanni Orlandi, Il Polifilo,
Milano 1966, vol. 1). L’analogia è ripetuta innumeri volte e illustrata in LOUIS
KAHN e OSKAR STONOROV, Why City Planning is Your Responsibility,
Philadelphia 1943, benché non sia immune da equivoci.

La rappresentazione dello spazio urbano


Per la mostra del piano regolatore di Philadelphia, cfr. “Urbanistica”, n. 3,
gennaio-marzo 1950, e Cronache di architettura, Laterza, Bari 1971, vol. I,
articolo 14. Per il plastico di Roma, cfr. PAUL BIGOT, Rome antique au IVe
siècle ap. J. C., Vincent, Fréal, Paris 1942, e l’edizione minore del 1955. Per
l’urbanistica di Michelangelo, cfr. Michelangiolo architetto, Einaudi, Torino
1964. Per lo studio su Perugia, cfr. Messaggi Perugini, IBR, Perugia 1970-71.
In occasione della mostra su Michelangelo allestita nel Palazzo delle
Esposizioni di Roma nel 1964, furono approntati numerosi plastici di carattere
critico, con l’intento di illustrare per immagini pensieri critici. I modelli sono
riprodotti in “L’architettura – cronache e storia”, anno IX, n. 99, gennaio 1964.
Sulla validità di tale metalinguaggio iconico, cfr. Visualizzare la critica
dell’architettura, nella stessa rivista, anno x, n. 103, maggio 1964. Per una
metodologia dell’analisi urbana anche in rapporto ai mezzi fotografico e
cinematografico: GIOVANNI FANELLI, L’analisi della forma urbana, in EDOARDO
DETTI, GIAN FRANCO DI PIETRO e GIOVANNI FANELLI, Città murate e sviluppo
contemporaneo, Ciscu, Milano 1968.

Arredo urbano
Nel “Decreto n. 1 sulla democratizzazione delle arti”, intitolato “Letteratura
di steccato e pittura di piazza”, pubblicato a Mosca nel 1918, si legge: “Da
oggi, mentre si distrugge il regime zarista, viene abrogata la presenza dell’arte
nei depositi e nei ripostigli del genio umano: palazzi, gallerie, saloni,
biblioteche, teatri. In nome della grande avanzata alla parità di tutti dinanzi alla
cultura, la libera parola della personalità creatrice venga scritta sulle cantonate
dei palazzi, sugli steccati, sui tetti, sulle strade delle nostre città e dei nostri
villaggi, sul cofano delle automobili, sulle carrozze, sui tram, sugli abiti di tutti i
cittadini. Come radiosi arcobaleni, da una casa all’altra, nelle strade e nelle
piazze, si stendano quadri che rallegrino e nobilitino l’occhio del passante. I
pittori e gli scultori sono tenuti a prendere subito tubetti e pennelli per ornare di
colori e disegni i fianchi, i fronti, i petti delle città e delle stazioni e il branco di
vagoni ferroviari in corsa perenne... Siano le strade un trionfo dell’arte per
tutti.” Sono famosi i versi di Majakovskij: “Se un canto non saccheggia una
stazione, | a che serve la corrente alternata? | Ammonticchiate un suono sopra
l’altro, | e avanti, | cantando e fischiettando. | [...] Tutti i soviet insieme non
muoveranno gli eserciti, | se i musicanti non suoneranno la marcia. | Portate i
pianoforti sulla strada, | alla finestra agganciate il tamburo! | Il tamburo |
spaccate e il pianoforte, | perché un fracasso ci sia, | un rimbombo. | [...]
Ripulisci il cuore dal vecchiume. | Le strade sono i nostri pennelli. | Le piazze
le nostre tavolozze.” Lo stesso Majakovskij, durante il dibattito al Palazzo
d’inverno organizzato il 24 novembre 1918, affermava: “A noi non occorre il
morto tempio dell’arte, dove languiscono opere inerti, ma la fabbrica vivente
dello spirito umano. A noi occorrono l’arte nitrente, la parola nitrente, l’azione
nitrente. L’arte del giorno d’oggi non serve a niente. Tutti i vecchi oggetti e
paesaggi parlano soltanto dei pettegolezzi dei ricchi e del borghese. È triste
che i pittori debbano sprecare il loro talento in simili cose superflue. L’arte
deve essere concentrata non già nei morti templi-musei, ma da per tutto: nelle
strade, nei tram, nelle fabbriche, nelle officine e nei quartieri operai.”
Sull’arredo delle strade e degli spazi urbani, cfr. Pianificazione: paesaggio
urbano = architettura: arredamento, in “L’architettura – cronache e storia”, n.
41, marzo 1959; BERNARD RUDOFSKY, Streets for People – a Primer for
Americans, Doubleday, New York 1969; HAROLD LEWIS MALT, Fumishing the
City, McGraw-Hill, New York 1970.

Città non-città e città-paese


Che Los Angeles non sia una città, ma solo una sconfinata e amorfa
distesa di edifici, è confermato dal fatto che alcuni la esaltano come preludio di
una struttura urbana di tipo nuovo, cioè di un organismo destrutturato. Ma per
Lévi-Strauss neppure New York è una città nel senso storico, o europeo, del
termine. Evidentemente, la differenza tra città e non-città non è di ordine
categoriale; riguarda l’intensità degli scambi sociali, il comportamento
comunitario degli abitanti, il numero e la qualità dei poli di condensazione degli
interessi collettivi. Una “road-town”, serie di case costruite lungo i margini di
un’autostrada, presenta in genere un bassissimo grado di coesione urbana,
tanto da poter essere definita non-città. All’inverso, molti villaggi e borghi rurali
hanno un’intensità urbana elevatissima, superiore a quella delle metropoli. Ciò
si verifica anche nelle città-paese, vasti aggregati contadini in cui manca la
struttura economica e culturale, ma non la vita sociale della città. Cfr. GIANNI
PIRRONE, Une tradition européenne dans l’habitation, Sythoff, Leyde 1963;
LUCIANA NATOLI DI CRISTINA, La città-paese di Sicilia – Forma e linguaggio
dell’habitat contadino, Quaderni della Facoltà di Architettura, Palermo 1965.

Il centro vuoto della città


Il passo citato è tolto da: ROLAND BARTHES, Semiologia e urbanistica, in
“Op. cit.”, n. 10, settembre 1967. Già nel 1889 Camillo Sitte aveva intitolato il
secondo capitolo del suo libro: Il centro delle piazze lasciato libero,
osservando che “nel Foro dei Romani anche la persona meno dotata di spirito
d’osservazione riscontra a colpo d’occhio come la parte centrale sia lasciata
sgombra. In Vitruvio si può leggere come il centro delle piazze non è destinato
alle statue... Alla regola dell’antichità classica, di porre i monumenti ai lati delle
piazze, segue l’analoga regola medievale di collocare i monumenti e
particolarmente le fontane del mercato nei punti morti della circolazione... La
norma testé ricordata degli spazi liberi nel centro delle piazze vale anche per
ogni sorta di edifici e particolarmente per le chiese, che oggi, proprio
all’opposto dei precetti antichi, vengono normalmente erette nel mezzo delle
piazze... Ma non basta al gusto del nostro tempo collocare le proprie creazioni
nel modo più sfavorevole; anche le opere degli antichi maestri debbono essere
beneficate con l’isolamento, persino in quei casi in cui è evidentissimo che
esse vennero composte e studiate precisamente per armonizzarsi con gli
edifici adiacenti e non per essere isolate. Il loro isolamento infatti non potrebbe
essere attuato senza sconvolgere tutto il loro effetto”. Per un’analisi delle varie
interpretazioni del centro urbano, cfr. FRANCO SBANDI, Il centro della città
(definizioni), in “Op. cit.”, n. 17, gennaio 1970.

Paesaggio naturale e urbano


Cfr. EMILIO SERENI, Storia del paesaggio agrario italiano, Einaudi, Torino
1962; Per una moderna coscienza storica del paesaggio, in “L’architettura –
cronache e storia”, n. 78, aprile 1962; The Modern Dimension of Landscape
Architecture, Atti del Congresso della Federazione Internazionale degli
Architetti Paesaggisti, Haifa 1962; CHRISTOPHER TUNNARD e BORIS
PUSHKAREV, Man-made America: Chaos or Control?, Yale University Press,
New Haven-London 1963; La forma del territorio, in “Edilizia moderna”, n. 87-
88; VITTORIO GREGOTTI, Il territorio dell’architettura, Feltrinelli, Milano 1966;
PIERO MARIA LUGLI, Storia e cultura della città italiana, Laterza, Bari 1967;
GUIDO FERRARA, L’architettura del paesaggio italiano, Marsilio, Padova 1968;
Il paesaggio italiano: geopsiche senza querimonie, in Cronache di architettura,
vol. VII, n. 746, Laterza, Bari 1970; DIEGO BERTOCCHI, L’interpretazione
estetica del paesaggio, in Paesaggio e struttura urbana – aspetti della realtà
urbana bolognese, Renana Assicurazioni, Bologna 1970. Per i problemi
dell’“environmental design”: FRANCESCO STARACE, L’illusione del paesaggio –
note sulla storia dell’idea di paesaggio, La Buona Stampa, Napoli 1969; JEAN
ZEITOUN, La notion de paysage, in “L’architecture d’Aujourd’hui”, n. 145,
settembre 1969, con bibliografia; GEOFFREY e SUSAN JELLICOE, The
Landscape of Man, Viking Press, New York 1975.

La scala umana e il rispetto topico dei greci


Sui caratteri dell’urbanistica greca, cfr. Lo spazio interno della città ellenica,
in “Urbanistica”, n. 3, gennaio-marzo 1950. È sempre utile rileggere le pagine
di Alois Riegl in merito alla mancanza di spazio interno nell’architettura sia
egiziana che greca: “Lo spettatore che guardi una qualsiasi delle quattro facce
di una piramide, percepisce soltanto l’unitaria superficie del triangolo isoscele i
cui lati, col loro netto contorno, non fanno affatto pensare alla congiunzione
che si effettua dietro, in profondità... La piramide dovrebbe essere definita
piuttosto come opera plastica, anziché architettonica. Più fortemente si è
sentito il contrasto fra la necessità di spazio richiesta dalla pratica e l’orrore
che per esso si provava dal punto di vista artistico, nelle costruzioni dei templi
egiziani... Lo spazio richiesto dall’uso venne spezzettato in una fila di camere
oscure, così strette da non consentire l’impressione artistica della spazialità...
Nei cortili aperti, alle pareti perimetrali vennero anteposti dei colonnati (cioè
delle forme isolate), per rompere l’impressione ottica della superficie parietale
che si trovava dietro, e così spingere davanti agli occhi dell’osservatore delle
singole forme tangibili... Le sale sono riempite in maniera così fitta con una
selva di colonne a sostegno del soffitto, poste l’una vicino all’altra, che tutte le
superfici, che avrebbero potuto produrre l’effetto spaziale, ne risultano tagliate
e spezzettate; così l’impressione dello spazio, nonostante la considerevole
ampiezza delle sale, veniva ad esser soffocata, anzi annientata... Anche i greci
dell’epoca classica non hanno affatto cercato di creare degli spazi interni;
l’unico vano più ampio all’interno del tempio, la cella, è stato riportato,
attraverso l’ipertralità, allo stadio del cortile egizio... Nei porticati a colonne,
che raccolgono l’ombra proprio come fanno le pieghe del drappeggio classico,
vengono parzialmente riconosciuti la profondità e lo spazio; ma l’occhio si
ferma poi subito alla retrostante parete chiusa della cella, come se fosse la
piana superficie di un rilievo” (ALOIS RIEGL, Spätrömische Kunstindustrie, Wien
1901; in italiano, Arte tardoromana, Einaudi, Torino 1959). Quanto al culto dei
greci per la conformazione topografica: “Scalare la pendice dei Propilei, sia
pure a zig-zag, mette in luce, inculca subito qualcosa che nessuno dovrebbe
mai dimenticare, visitando le antichità greche. Fosse il loro senso ctonio, o
altra cosa, dove sceglievano di costruire, e quasi sempre sceglievano la
roccia, codesta roccia diveniva come sacra, sembrava si dovesse intaccarla,
modificarla il meno possibile. È un punto, incontrovertibile, ma per la nostra
sensibilità, oscurissimo. Non era un amore paesistico, manco a dirlo, un
romanticismo naturale avanti lettera, ma proprio il rispetto topico del luogo,
delle fattezze naturali del luogo. Nulla è più a gusto di quelle colonne
divinamente misurate e di quei ritmi; a un tratto, a un passo, ecco la roccia
bruta, selvaggia, incondita, su cui a zig-zag montava la rampa. Né fu mai
ricoperta, mai livellata... Mai quelle asperità furono livellate, mai si cercò di
sistemare, altrimenti che negli aspetti naturali e casuali, i paraggi dei templi e
dei monumenti. Se a questo si aggiunge la nessuna pianificazione, con cui
questi erano stati costruiti, così come risulta da qualsiasi plastico dell’Acropoli,
c’è da rimanere ancora più interdetti... Non sarebbero mancati gli appigli per
conferire una sistemazione più urbanistica alle adiacenze dei templi. Non si
fece, perché non se ne sentiva il bisogno. Ma pensate: si vedono ancora, nella
roccia a sinistra del Partenone, i solchi che servivano a contenere il recinto dei
torelli per il sacrificio, in un tempo arcaico, quando appunto si aveva questa
stalla sacra sull’Acropoli. La stalla scomparve, ma i solchi e i buchi nella roccia
rimasero. Nessun palinsesto può dare tanto” (CESARE BRANDI, Viaggio nella
Grecia antica, Vallecchi, Firenze 1954).

Lo spazio statico di Roma antica


Per i caratteri dell’illusionismo e del modo continuo di narrare, resta
fondamentale, benché non tratti di architettura, FRANZ WICKHOFF, Die Wiener
Genesis, Wien 1895; in italiano, Arte Romana, Le Tre Venezie, Padova 1947,
e il volume di ALOIS RIEGL, Spätrömische Kunstindustrie, citato nella nota
precedente. Per un tentativo di tradurre il pensiero del Wickhoff in termini
architettonici, cfr. A quarant’anni dalla morte di Franz Wickhoff, in “Annuario,
Istituto Universitario di Architettura di Venezia”, Venezia 1950 e in Pretesti di
critica architettonica, Einaudi, Torino 1973. Sul senso romano dello spazio, cfr.
anche SERGIO BETTINI, L’architettura di San Marco, Le Tre Venezie, Padova
1946. Dell’ordinamento chiuso, tipico di Roma, sono elementi fondamentali la
centuriazione territoriale, il castrum militare e, a partire dal in secolo d.C., la
città castramentata.

La direttrice umana dello spazio medievale


Benché limitato all’analisi di piazze e strade, e non dell’organismo urbano
nel suo insieme, resta basilare: CAMILLO SETTE, Der Städtebau nach seinen
künstlerischen Grundsätzen, Wien 1889; in italiano, col titolo L’arte di costruire
le città, Vallardi, Milano 1953. Ottimo anche il capitolo sulla città medievale
scritto da LUIGI PICCINATO per la voce Città nell’Enciclopedia Italiana, vol. X,
1931, che conclude così: “Il Medioevo ci appare come un’epoca di creazione
urbana potentemente originale. Lo spirito urbanistico (abdicazione
dell’individuo in favore delle esigenze della collettività) apparisce nel Medioevo
durante il secolo X e, sotto l’apparenza della irregolarità e del pittoresco, ci
mostra potentissimo l’ordine. Il quale non significa uniformità, ma piuttosto, da
una parte volontà di unificare, di uguagliare, di dare a tutto la stessa struttura;
dall’altra desiderio di specializzare, di classificare, di ripartire, di adattare le
cose ai vari scopi. Nell’armonia di queste due opposte tendenze sta l’anima
dell’urbanistica medievale e lo spirito di tutto il Medioevo. In pochi periodi
come in quello l’individuo è stato più solidamente inquadrato, la sua fantasia
più limitata: la regola appariva dovunque, nella vita spirituale come nella vita
civile, nella concezione teologica come nell’ordinamento delle città, nelle
dottrine della chiesa come nelle classi delle arti e dei mestieri: da questa
compressione sono scaturite tante individualità così potenti e a questa
armonia dobbiamo la nozione di ordine delle nostre città e la nostra coscienza
urbanistica.”

Le leggi e le misure dello spazio del Rinascimento


La “città ideale” è stata giudicata, dalla maggior parte degli storici, come un
segno di regressione dello sviluppo urbanistico europeo. Tuttavia, essa
presenta anche aspetti positivi: “Il costituirsi, il formarsi della città coincide col
processo di uscita dal Medioevo: e con città naturalmente non è da intendere
soltanto la costruzione urbana. La città è un ordine sociale, politico, giuridico,
puranco religioso. È chiaro che ciò che dà il tono alla cultura del Medioevo
rispetto all’antica ed alla moderna, è precisamente ch’essa non è in cotesta
dimensione: non si regge sulla città. Il suo connettivo è dato dai popoli
germanici, i quali per millenni erano stati nomadi, e dunque incivili, in senso
etimologico: privi di ‘civitas’. E quando occuparono l’Impero romano e
conobbero le città, s’accanirono a distruggerle, più forse che per barbarie,
perché le sentivano radicalmente diverse da tutta la struttura, anche spirituale,
del loro essere e vivere, o le abbandonarono ai latini sopravvissuti; fissando il
loro originale ‘Lebensraum’ nei castelli, isolati in mezzo alla ‘natura’. Il nucleo
residenziale della società feudale non è la città, ma il castello: il quale è
organismo di carattere non urbano, ma in certo senso ancora nomadico:
prende il posto del vecchio accampamento germanico traducendolo in
muratura sull’esempio del castrum militare romano, conosciuto dai barbari
lungo il limes. Così nell’Europa medievale una struttura compartimentata,
paratattica, sostituisce la struttura sintattica e organica antica... Quel connesso
organismo che era stata l’Europa romana divenne un ‘vacuum’ dove anche le
tracce delle arterie, delle grandi vie consolari progressivamente scomparvero,
sopraffatte dalla selva o inghiottite dalla palude... Dopo il Mille, il processo che
risolve il Medioevo: la lotta del ‘principio’ cittadino, cioè del convivere su un
piano di convergenza competitiva, entro un organismo unitario... Non è
dunque paradossale che il Rinascimento del ‘principio’ della città si sia
occupato, quasi ossessionato dal sogno della città ideale... È poi ovvio che
cotesta ‘ratio’ urbanistica si realizzasse, figurativamente, con quel mezzo che
è tipico di ogni altra messa in forma rinascimentale, cioè col disegno
prospettico... Tale disegno s’ottiene solo con una rigorosa selezione e
semplificazione figurativa; e dunque sottomettendo ogni ‘Erlebnis’, o quantum
di esistenza, alla rarefazione dell’idea, espressa in obbedienza a moduli
aritmetici e stereometrici. Grandi solidi geometrici chiusi in sé, separati l’uno
dall’altro da un ‘vuoto’, che è blocco atmosferico sentito anch’esso
plasticamente; le vie sono scansioni prospettiche di cotesti blocchi; le piazze,
cubi d’aria serrati tra quattro volumi immobili. Si capisce dunque come la
poetica della città ideale del Rinascimento, se ha avuto il merito di porre il
problema urbanistico in termini razionali, non ha poi portato, né poteva
portare, ad esiti pratici...” (SERGIO BETTINI, Palladio urbanista, in “Arte Veneta”,
XVI, 1961).

Horror et amor vacui nel manierismo


“Il manierismo distrugge la struttura rinascimentale dello spazio e la
frantuma in singoli spazi, non solo esteriormente divisi, ma organizzati in
maniera diversa anche all’interno; e disgrega la struttura dell’opera, dove per
le dimensioni e la posizione nello spazio le singole figure non hanno più alcun
rapporto logico con il significato loro attribuito nel contesto del quadro... Molte
delle più importanti caratteristiche del manierismo appaiono in architettura in
grado sensazionale: il senso della restrizione, del soffocamento, malgrado il
bisogno di libertà assoluta; la fuga nel caos, malgrado il desiderio di
proteggersi da esso; l’irruzione nello spazio, l’avanzare in profondità, lo sforzo
di erompere all’aperto, combinati con l’impulso di trovarsi improvvisamente
isolati; l’élan continuamente inibito, le vedute schermate, il principio della
quinta e del paravento che, diversamente da un muro capace di segnare un
limite e placare l’occhio, nasconde ed eccita la curiosità; l’associazione di un
horror vacui e di un amor vacui, l’uso di sovraccaricare di decorazioni aree
relativamente piccole della superficie, in altre parole il principio bidimensionale
riemergente in un’arte per eccellenza prospettica... Di fronte al colonnato degli
Uffizi o nel ricetto della Laurenziana, ci si sente non già trasportati ad un livello
più alto, coerente, pacifico dell’esistenza, ma sconcertati, sradicati, insicuri,
proiettati in una struttura spaziale artificiosa che sembra astratta rispetto
all’esperienza ordinaria... Il manierismo sottolinea l’antagonismo tra edificio e
ambiente, tra civiltà e natura, tra l’uomo e il mondo che lo circonda... Il palazzo
Farnese del Vignola a Caprarola mostra la più completa alienazione tra una
casa di campagna e il paesaggio... La villa Lante a Bagnaja dello stesso
Vignola produce un effetto analogo in modo opposto. A Caprarola la
dimensione architettonica è forzata, diviene quasi oppressiva... A Bagnaja gli
edifici sono sminuiti rispetto al parco. Comunque c’è sempre qualcosa di
irreale nel rapporto tra architettura e paesaggio: nel primo caso domina la
scala gigantesca, il secondo fa venire l’idea di una casa per le bambole, di un
giocattolo” (ARNOLD HAUSER, Manierismus, Beck, München 1964; in italiano, Il
Manierismo, Einaudi, Torino 1965).

Urbanistica barocca
ANDREINA GRISERI, nelle Metamorfosi del barocco, Einaudi, Torino 1967,
riepiloga diligentemente le diverse fasi urbanistiche del Sei e Settecento
fornendo un’esauriente bibliografia: “La valutazione delle visuali prevede
tracciati a tridente, impianti stellari, risultati inediti di scenografie. Piazza del
Popolo nasce in questo clima, Juvarra vi guarderà come a un prototipo
normativo... La città assume l’impressione di un fondale, per il dramma del
potere assoluto... In questa esigenza la strada, unità urbanistica
fondamentale, finisce per approdare a una sorta di spersonalizzazione. La
prospettiva accentua l’interesse per direzioni fantastiche: prolunga l’attenzione
oltre limiti fino allora tangibili, sostiene nuove distanze, che il Settecento
accoglierà come suggerimento per una sensibilità elettrizzata; mentre nel
Seicento l’ostentazione prevale anche sull’uso... In questo giro di interessi
classici si spiega anche la preferenza data, a Parigi, non già a Bernini, ma a
Perrault, come artefice più ortodosso di un’architettura e della ragione e di
governo. Perrault, come a Torino il Castellamonte funzionario e tecnico,
rappresentava una sintesi più chiara e colossale (in senso accademico)
rispetto a una tipologia che dalla Francia si sarebbe divulgata per tutta Europa
un po’ come i giardini pettinati di Le Nôtre che domineranno per due secoli,
fino a creare il clima intorno ai palazzi reali e alle ville dell’alta borghesia...
Mentre a Roma il barocco coinvolgeva tutta la nuova figurazione, dilagava
dalle facciate alle nuove sistemazioni urbanistiche, negli interni, con stucchi e
marmi, e finiva per agire come gusto propulsore da Napoli a Genova a
Venezia, in Francia le esigenze della corte e l’‘ideologia del potere’ assumono
in proprio forme classiche, quasi a condensare la retorica di un ‘teatro della
ragione’: una delle creazioni più tipiche del secolo, dichiaratamente inserita nel
cuore del barocco. Nasce una cultura e un’arte delle capitali... È stato indicato
come le capitali europee si fondino fin dagli inizi sull’idea della “forma urbis”
studiata come riforma urbanistica, a Roma, da Sisto V negli ultimi anni del
secolo XVI, tecnico progettista Domenico Fontana, in funzione di uno stato
temporale come sostegno della Chiesa. Anche se già quell’idea si muoveva
nella sfera delle forme destinate alla persuasione, consacrate dalla retorica,
tuttavia a Parigi, Torino, Londra, i piani saranno diversamente orientati. Prende
forma una sorta di classicismo barocco come mediazione, che stranisce l’arte
riducendola a esclusivo mezzo di rappresentanza, indirizzandola al trionfo
della monarchia assoluta. Con intenti diversi da quelli del barocco romano...
Per una società chiusa. La città accentra anche visivamente, i nuclei del
potere: nella piazza trionfa il palazzo; a Parigi il Louvre, a Versailles il Castello;
a Torino il Palazzo Reale e il fulcro di Piazza San Carlo; a Londra i piani del
Wren... Un’espressione di controllo interiore delle passioni, in una fissità
emblematica, che si identifica con la catarsi della tragedia di Racine. In questo
ambito la cosiddetta ‘meraviglia’ come fine dell’arte e illusione e stupore, è
proposta come tangibile; una nuova esattezza. Basta confrontare la facciata
abnorme di Versailles, un enorme frontespizio che servirà da sfondo ai
caroselli di Luigi XIV, per accorgersi di questo trapasso fondamentale: che
sblocca il genere ‘monumentale’, commissione della casa regnante, per
proporlo quale apertura più universale, destinata a ideali che vanno ora oltre la
celebrazione encomiastica”. Cfr. inoltre il secondo volume di LEONARDO
BENEVOLO, Storia dell’architettura del Rinascimento, Laterza, Bari 1968, anche
per l’ampia iconografia.

Urbanistica ottocentesca
Gli storiografi attribuiscono in generale maggior importanza alle utopie
riformistiche che alle concrete realizzazioni dell’Ottocento. GIUSEPPE SAMONÀ,
L’urbanistica e l’avvenire della città, Laterza, Bari 1967, ne rivendica invece il
contributo. Dopo aver accennato alle sistemazioni di Parigi, Berlino e Londra,
osserva: “A dire il vero, sistemazioni di questo genere, facenti perno su opere
monumentali più antiche, si erano già realizzate nei secoli precedenti;
basterebbe per tutte ricordare quelle eccezionali create a Roma dal barocco,
sul programma urbanistico della città cinquecentesca di Sisto V. Ma
nell’Ottocento esse costituirono il motivo fondamentale con cui venne
trasformandosi il centro della città più antica ed ebbero caratteristiche spesso
addirittura contrapposte a quelle dei secoli precedenti. Manca, infatti, alle
sistemazioni ottocentesche quella sensibilità per i rapporti spaziali controllati
che è quasi istintiva nelle età precedenti; e si sviluppa al suo posto una
schematicità geometrica per grandi parametri, che ubbidisce alla nuova
tendenza positivistica e generalizzatrice, a cui si deve la predilezione per la
forma urbana dilatata senza limiti, dove il grande sostituisce spesso, nel gusto,
il grandioso, come la ricchezza dell’ornato prende il posto di più penetrate
espressioni architettoniche celebrative. Si tratta, in sostanza, di sottolineare
quel sentimento di pubblico distacco da ogni profonda singolarità creativa, a
cui generalmente il nuovo centro urbano soggiacque malgrado la sua
aspirazione all’aulicità. Designato a esprimere un nuovo ordine civile in una
scala gerarchica di attribuzioni e di poteri sospinti da una volontà dominante,
ormai del tutto impersonale e in contrasto col diffuso principio del ‘laissez
faire’, il centro ottocentesco fu influenzato in modo sempre maggiore dal
sentimento nuovo ed uniforme della folla anonima, incapace di sentire un
limite vitale nello spazio urbano, ma onnipresente nell’imporre come una divisa
da parata gli schemi simmetrici, le facciate ripetute con monotonia
pseudomonumentale, i tracciati rettilinei allungati all’infinito... A distanza di
tempo, possiamo riconoscere la autenticità di molte realizzazioni di questo
genere, chiaramente percepibile nella dignità e nella grandiosità senza retorica
degli esempi più significativi... Tutte le osservazioni negative fatte al grande
piano parigino rivelano generalmente pochezza di senso storico in chi le ha
mosse.” Sul dibattito attinente ai centri storici: CIAM, Il cuore delle città, Hoepli,
Milano 1954; Dove batte il cuore della città: l’agorà trasformata in parcheggio,
in Cronache di architettura, vol. 1, n. 15, Laterza, Bari 1971.

Urbanistica moderna
Per l’idea della città giardino, la “cité industrielle” di Tony Garnier, il pensiero
urbanistico di Wright, Le Corbusier, Gropius e gli altri maestri del razionalismo
e della tendenza organica, cfr. la bibliografia della Storia dell’architettura
moderna, Einaudi, Torino 1975. Inoltre, LEONARDO BENEVOLO, Le origini
dell’urbanistica moderna, Laterza, Bari 1963; CARLO AYMONINO, Origine e
sviluppo della città moderna, Marsilio, Padova 1971.

Pop-urbanistica e fruizione del disordine


Sull’utilizzazione della pop-art a scala urbana, cfr. Architettura e pop-art, in
“L’architettura – cronache e storia”, n. III, gennaio 1965; REYNER BANHAM,
Toward a Million-Volt Light and Sound Culture, in “The Architectural Review”,
maggio 1967; D. SCOTT BROWN, On Pop-Art, Permissiveness and Planning, in
“Journal of the American Institute of Planners”, maggio 1969. Contro il mito di
Las Vegas, cfr. TOMÁS MALDONADO, La speranza progettuale – Ambiente e
società, Einaudi, Torino 1970.

Interpretazioni dell’urbanistica
Per un inquadramento generale, cfr. l’ottima antologia di FRANÇOISE CHOAY,
L’urbanisme – utopies et réalités, Seuil, Paris 1965. Vi sono raccolti scritti di
vari autori, articolati secondo i seguenti capitoli: “Le pré-urbanisme
progressiste” (Robert Owen, Charles Fourier, Victor Considérant, Etienne
Cabet, Pierre-Joseph Proudhon, Benjamin Ward Richardson, Jean-Baptiste
Godin, Jules Verne, Herbert-George Wells); “Le pré-urbanisme culturaliste”
(Augustus Welby Northmore Pugin, John Ruskin, William Morris); “Le pré-
urbanisme sans modèle” (Friedrich Engels, Karl Marx, Pierre Kropotkine, N.
Boukharine e G. Préobrajensky); “L’urbanisme progressiste” (Tony Garnier,
Georges Benoit-Lévy, Walter Gropius, Le Corbusier, Stanislas Gustavovitch
Stroumiline); “L’urbanisme culturaliste” (Camillo Sitte, Ebenezer Howard,
Raymond Unwin); “L’urbanisme naturaliste” (Frank Lloyd Wright);
“Technotopie” (Eugène Hénard, rapport Buchanan, Iannis Xenakis),
“Anthropopolis” (Patrick Geddes, Marcel Poète, Lewis Mumford, Jane Jacobs,
Léonard Duhl, Kevin Lynch); “Philosophie de la ville” (Victor Hugo, Georg
Simmel, Oswald Spengler, Martin Heidegger). Cfr. inoltre URBANO CARDARELLI
e MARIA LUISA SCALVINI, Incontri di studi urbanistici, in “Op. cit.”, n. 8, gennaio
1967. Per la ricerca di CHRISTOPHER ALEXANDER, più che Notes on the
Synthesis of Form, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1964 (in
italiano, Note sulla sintesi della forma, Il Saggiatore, Milano 1967), cfr. A City is
not a Tree, in “Design”, n. 266 (in italiano, La città non è un albero, in
“L’architettura – cronache e storia”, anno XII, nn. 133-35, novembre 1966-
gennaio 1967). Inoltre La storiografia urbanistica, Ciscu, Lucca 1976.

Interpretazioni politico-economiche
Fra le più brillanti demitizzazioni condotte negli ultimi anni va annoverata
quella riguardante l’urbanistica di Sisto V, scaduta dal livello di un’ispirazione
religiosa o liturgica a quello di una speculazione privata. CESARE D’ONOFRIO,
in Gli obelischi di Roma, Cassa di Risparmio, Roma 1965, si chiede: “Perché
mai il piano urbanistico di papa Sisto, iniziato con grandissima foga, si spegne
del tutto dopo poco meno di tre anni, pur avendo ancora il pontefice circa due
anni e mezzo di tempo per portarlo a termine o almeno per proseguirlo?
Ovvero, perché il pontefice sembra appagato dei rettifili ormai da lui costruiti,
benché assolutamente inadeguati, date le premesse liturgiche?... Mi pare che
la conclusione venga da sé: i tre rettifili progettati proprio agli inizi del
pontificato e immediatamente realizzati sotto l’etichetta ufficiale: ‘per
commodità et devotione del popolo’ coincidevano al millimetro con un’altra non
dichiarata ‘commodità’: l’immensa villa Montalto... La villa Montalto voleva
essere, in Roma, la dimora principesca (nel senso più esteso della parola)
della istituenda nobile dinastia dei Peretti. Di qui le infinite spese e le infinite
cure per essa (e per i suoi immediati dintorni), al fine di renderla più comoda e
più ricca, ed insieme, proprio attraverso una ben congegnata rete stradale,
farne da una solitaria villa di campagna, una vera e propria principesca
residenza cittadina, in diretto collegamento con i punti più ragguardevoli della
città... Si deve necessariamente concludere che il piano urbanistico ‘ufficiale’,
cioè quello dichiarato nella Bolla dell’86 e più dettagliatamente spiegato dalle
parole del Fontana, nonché da altre fonti, fu quasi esclusivamente realizzato
fin dove coincise con le ‘commodità’ della villa Montalto. Quindi, un vero e
proprio piano urbanistico realizzato da Sisto V a favore della città di Roma,
così come è stato formulato dagli studiosi moderni, non esiste; esiste quasi
soltanto una rete di efficacissime strade nate ad uso di quella villa.” Per
un’interpretazione della città in rapporto alla “economia del puro sovrappiù”,
cfr. EDOARDO SALZANO, Urbanistica e società opulenta, Laterza, Bari 1969.
Questo saggio comprende una serrata critica delle utopie ottocentesche: “Dal
momento che non vedevano la inevitabilità storica del capitalismo, gli utopisti
non solo non scorgevano, entro quest’ultimo, la peculiare potenzialità positiva
rappresentata, per la città, dal carattere sociale della produzione, ma
divenivano poi del tutto incapaci di comprendere realmente il capitalismo e di
analizzarlo nella sua vera e profonda natura, e quindi, per ciò stesso, di
criticarlo in modo sufficiente; di conseguenza, data la presenza massiccia e
l’inevitabile affermazione del sistema capitalistico-borghese, essi non potevano
far altro che patirlo, accettandolo nella sostanza e, al tempo stesso,
ribellandovisi moralisticamente e astrattamente.” Vedi inoltre: HENRI LEFEBVRE,
Réflexions sur la politique de l’espace, in “Espaces et sociétés”, n. 1,
novembre 1970.

Interpretazioni sociologiche
Un’ottima antologia dei classici della sociologia urbana (comprendente
anche scritti di NUMA DENIS FUSTEL DE COULANGES sulla città antica, di
GUSTAVE GLOTZ sulla città greca, di HENRI PIRENNE sulle città medievali, di
MAX WEBER sulla città) può trovarsi in Città e analisi sociologica, a cura di
GUIDO MARTINOTTI, Marsilio, Padova 1968. Cfr. inoltre RAYMOND LEDRUT,
Sociologie urbaine, Presses Universitaires de France, Paris 1968 (in italiano,
Sociologia urbana. Il Mulino, Bologna 1969); FRANCO FERRAROTTI,
Osservazioni sulla sociologia urbana, appendice di Roma da capitale a
periferia, Laterza, Bari 1970.

Interpretazioni psicologiche
Il saggio più importante in chiave socio-psicologica è quello di ALEXANDER
MITSCHERLICH, Die Unwirtlichkeit unserer Städte. Anstiftung zum Unfrieden,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 1965 (in italiano, Il feticcio urbano – La città
inabitabile, istigatrice di discordia, Einaudi, Torino 1968). Inoltre, ALFRED
LORENZER, Urbanistica: funzionalismo e montaggio sociale? La funzione
sociopsicologica dell’architettura, nel volume di H. BERNDT, A. LORENZER, K.
HORN, Architektur als Ideologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1968 (in
italiano, Ideologia dell’architettura, Laterza, Bari 1969).

Interpretazioni antropologiche
“Coloro che trovano brutta New York sono solo vittime di una percezione
illusoria. Non avendo ancora imparato a cambiare registro, si ostinano a
giudicare New York una città, e criticano le strade, i parchi, i monumenti.
Senza dubbio, New York è, obbiettivamente, una città, ma lo spettacolo che
offre alla sensibilità europea è di un altro ordine di grandezza che è quello del
nostro paesaggio; mentre i paesaggi americani ci trasportano in un sistema
ancora più vasto di cui noi non possediamo l’equivalente. La bellezza di New
York non dipende dalla sua natura di città, ma dalla sua trasposizione,
inevitabile per il nostro occhio se rinunciamo a irrigidirci, dal livello di città a
quello di paesaggio artificiale, dove i principi dell’urbanesimo non hanno più
ragione di esistere: unici valori significativi, il vellutato della luce,
l’evanescenza delle lontananze, i precipizi sublimi ai piedi dei grattacieli e le
vallate ombrose cosparse di automobili multicolori come fiori... A Parigi, il
Marais era in fiore nel XVII secolo e ora la muffa lo rode; specie più tardiva, il
IX circondario si sviluppava sotto il Secondo Impero, ma le sue case oggi
sfiorite sono invase da una fauna di piccola gente che, come insetti, vi trova un
terreno propizio a umili forme di attività... Nel 1935 a Rio de Janeiro, il posto
occupato da ciascuno nella scala sociale si misurava con l’altimetro, tanto più
basso quanto più il domicilio era alto. I miserabili vivevano appollaiati sulle
alture, nelle ‘favelas’ dove una folla di negri vestiti di stracci pulitissimi
inventava sulla chitarra quelle vivaci melodie che durante il carnevale
sarebbero discese a invadere la città... Per le città europee, il passare dei
secoli costituisce una promozione; per quelle americane, il passare degli anni
provoca una decadenza. Esse non soltanto sono costruite di fresco, ma lo
sono per rinnovarsi con la stessa rapidità con cui sono nate, cioè male. Al loro
sorgere i nuovi quartieri sono a malapena degli elementi urbani: sono troppo
brillanti, troppo nuovi, troppo allegri per esserlo del tutto. Sembrano piuttosto
elementi di una fiera, di un’esposizione internazionale edificata per qualche
mese. Dopo quel termine, la festa finisce e quei grandi giocattoli deperiscono.
Non sono città nuove in contrasto con città vecchie; ma sono città a ciclo di
evoluzione molto rapido, paragonate ad altre a ciclo più lento. Certe città
d’Europa si addormentano con dolcezza nella morte; quelle del Nuovo Mondo
vivono febbrilmente in una malattia cronica; giovani in perpetuo, senza tuttavia
essere mai sane...” (CLAUDE LÉVI-STRAUSS, Tristes Tropiques, Plon, Paris
1955; in italiano, Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano 1960). Cfr. anche: EDWARD
T. HALL, La dimensione nascosta, Garzanti, Milano 1968, e le osservazioni
relative in Prossemica e dimensione extra-disciplinare, in “L’architettura –
cronache e storia”, n. 158, dicembre 1968.

Interpretazioni formalistiche e gestaltiche


Cfr. GYORGY KEPES, The New Landscape, Theobald, Chicago 1956; KEVIN
LYNCH, The Image of the City, Technology & Harvard Press, Cambridge 1960
(in italiano, L’immagine della città, Marsilio, Padova 1964); KEVIN LYNCH, Site
Planning, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1962; APPLEYARD, LYNCH e MYER,
The View from the Road, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1964; La poetica
urbanistica di Lynch, in “Op. cit.”, n. 2, gennaio 1965, con bibliografia; ALDO
ROSSI, L’architettura della città, Marsilio, Padova 1966; MAURICE MUNIR
CERASI, La lettura dell’ambiente, Politecnico di Milano, 1966; rientra in questo
campo, benché comprenda anche altre interpretazioni, SILVANO TINTORI,
L’individualità urbana – ricerche per una scienza del territorio. Dedalo, Bari
1968; TAPANI ESKOLA, Planning criticism, in “Ark”, n. 5, maggio 1969; PHILIP
THIEL, La notation de l’espace, du mouvement et de l’orientation, in
“L’architecture d’Aujourd’hui”, n. 145, settembre 1969; RAYMOND LEDRUT,
L’image de la ville, in “Espaces et sociétés”, n. 1, novembre 1970; JEAN
CASTEX e PHILIPPE PANERAI, Notes sur la structure de l’espace urbain, in
“L’Architecture d’Aujourd’hui”, n. 153, gennaio 1971.

Interpretazioni strutturalistiche e semiologiche


Vedi la conferenza di ROLAND BARTHES, citata nella nota su “Il centro vuoto
della città”. Inoltre, FRANÇOISE CHOAY, Semiologie et Urbanisme, in
“L’architecture d’Aujourd’hui”, n. 132, giugno-luglio 1967; FRANÇOISE CHOAY,
Remarques a propos de sémiologie urbaine, ivi, n. 153, gennaio 1971;
DIETHARD ENGEL, RAINER JAGALS e UTE-THEODORA JAGALS, Analyse
structurale de l’espace urbain, ivi; BRUNO ZEVI, Il linguaggio moderno
dell’architettura, Einaudi, Torino 1974; id., Editoriali di architettura, Einaudi,
Torino 1979.

Pseudo-teorie sull’ambientamento
Un panorama dei vari punti di vista sull’argomento in CORRADO BEGUINOT e
PASQUALE DE MEO, Il centro antico di Napoli, Esi, Napoli 1965. Resta
fondamentale la posizione di IAN NAIRN, Urban surrealism, in Attualità
urbanistica del monumento e dell’ambiente antico, Milano 1957. Inoltre, Contro
ogni teoria dell’ambientamento, in “L’architettura – cronache e storia”, n. 118,
agosto 1965.

Visione prospettica e visione cinetica


Per la città immaginata da Mondrian, cfr. Poetica dell’architettura
neoplastica, Einaudi, Torino 1974. Per la poetica dell’angolo in Mendelsohn,
cfr. Erich Mendelsohn: opera completa, Etas-Kompass, Milano 1970.

Urbanistica e codici tipologici


Cfr. UMBERTO ECO, Appunti per una semiologia delle comunicazioni visive,
Bompiani, Milano 1967. Alle riserve espresse in merito alle tre soluzioni del
comportamento urbanistico, nell’articolo Alla ricerca di un “codice” per
l’architettura, in “L’architettura – cronache e storia”, n. 145, novembre 1967,
Eco ha risposto in una nota del volume La struttura assente, Bompiani, Milano
1968. Su questo libro, cfr. Saper vedere l’architettura, IIa ed., Einaudi, Torino
1976.

La persistente sottovalutazione di Ferrara


Basti citare i riferimenti alla città estense reperibili in alcuni dei migliori scritti
di urbanistica e di storia dell’arte apparsi nel decennio 1960-70. Neppure un
accenno in LEWIS MUMFORD, The City in History, Harcourt, Brace & World,
New York 1961. Appena una menzione in ANDRÉ CHASTEL, Renaissance
méridionale, Gallimard, Paris 1965 (in italiano, I centri del Rinascimento,
Feltrinelli, Milano 1965) e in Le grand atelier d’Italie, Gallimard, Paris 1965 (in
italiano, La grande officina, Feltrinelli, Milano 1966). Nulla in EDMUND N.
BACON, Design of Cities, Viking Press, New York 1967 e in SIBYL MOHOLY-
NAGY, Matrix of Man, Pall Mall, London 1968.
LEONARDO BENEVOLO, nella Storia dell’architettura del Rinascimento,
Laterza, Bari 1968, dedica varie pagine a Ferrara. E ne registra l’originalità ma
con riserve: “È stato fatto il tentativo di analizzare l’addizione come una vera
‘opera d’arte urbanistica’ e di dimostrare la coerenza figurativa del suo
impianto con il linguaggio architettonico di Rossetti, documentato nelle opere
precedenti e contemporanee ai lavori urbanistici. Ma la plausibilità di questa
analisi è tutt’altro che dimostrata, finché non si avrà un’idea precisa del ciclo
operativo messo in moto dai lavori del ’92, e del ruolo di Rossetti in questo
ciclo, cioè della possibilità che ha avuto di controllare le decisioni strategiche
del piano, e non solo le decisioni tattiche attinenti alla conformazione dei
singoli edifici e degli spazi adiacenti...” Sul che va osservato che le decisioni
strategiche, o politiche, di un piano non dipendono mai soltanto da un
architetto, mentre quelle tattiche possono alterarne profondamente il
significato, come avviene appunto a Ferrara. “Comunque si possa valutare la
partecipazione di Biagio Rossetti al ciclo operativo ferrarese, questo intervento
è certamente molto più personalizzato di quello urbinate, tanto che a Ferrara
tutte le testimonianze convergono su un nome solo, mentre a Urbino il puzzle
delle attribuzioni resta ancora complicatissimo... Nel settimo decennio del ’400
la fiducia di poter trasformare una città medievale in una città moderna è
ancora operante; alla fine del secolo subentra la coscienza dell’eterogeneità e
del distacco fra le due culture e i due tipi di paesaggio urbano; una maggiore
suscettibilità figurativa e una minore forza di decisione impediscono di attuare
contemporaneamente una trasformazione del centro e della periferia, come
accade a Urbino e come si era fatto nelle grandi operazioni urbanistiche della
fine del ’200...” Dove si conferma anzitutto il carattere nuovo dell’impresa
ferrarese, che aggredisce due culture urbane, rispetto a quella urbinate ancora
immersa nelle procedure medievali; e, in secondo luogo, si sottolinea
indirettamente il valore dell’attività rossettiana che, una volta strutturata la città
moderna, si dedica a ristrutturare quella antica. “Il ritardo cronologico influisce
anche sulla sostanza architettonica dell’addizione... A Urbino la combinazione
di aulico e popolare – cioè di impegno intellettuale e di partecipazione umana
– avviene a un livello che in quel momento è il più alto possibile, e l’aderenza
ai contenuti locali coesiste con l’aspirazione a una sintesi universale, vasta e
impegnativa, più di ogni altra fino allora tentata. A Ferrara i lavori di Ercole I
portano una leggera impronta provinciale, che diventa evidente se si
paragonano a quel che avviene contemporaneamente negli altri centri
italiani... Quando si apre il cantiere dell’addizione erculea. Bramante e
Leonardo da Vinci sono già nel pieno della loro attività, e il giovane
Michelangelo fa le sue prime prove nel giardino mediceo. Il prestigio della
‘terza maniera’ mette in ombra, subito dopo, la ricca varietà delle esperienze
locali.” Insomma, da un lato, Ferrara non va bene perché si distacca da quanto
era accaduto trent’anni prima a Urbino; dall’altro, viene criticata perché si
differenzia dalla successiva “terza maniera”, cioè da quel classicismo di stile
grande e sintetico che trova la sua sede, nei primi anni del ’500, nella corte
pontificia di Roma. Continua Benevolo: “La differenza è avvertibile anche sul
terreno tecnico; a Urbino il controllo prospettico serve solo a instaurare una
gradazione qualitativa fra gli elementi principali e gli elementi secondari del
paesaggio urbano, cioè a tradurre in termini esclusivamente intellettuali la
gerarchia dei rapporti economici e politici; perciò non esiste un sistema di
regole geometriche separabile dai singoli interventi edilizi. Invece a Ferrara
l’esigenza di regolarità prospettica diventa appunto lo strumento per
controllare l’intero sviluppo della città e per subordinarlo alla volontà della
classe dirigente; nasce così il piano, cioè un insieme di decisioni precedenti ai
singoli interventi, che comprende i tracciati della cinta muraria e di alcune delle
strade e piazze principali...” In ciò consiste proprio la modernità di Ferrara, nel
formulare un piano, un disegno coordinatore dei singoli interventi; e quanto al
dominio della classe dirigente, il volto di Ferrara ne è assai più affrancato di
quello di Urbino, letteralmente schiacciato dal palazzo Ducale (cfr. GIANCARLO
DE CARLO, Urbino, la storia di una città e il piano della sua evoluzione
urbanistica, Marsilio, Padova 1966). Tanto che: “controllo e subordinazione
tuttavia non sono totali; di qui le sfumature e le sottigliezze del risultato
concreto. Il piano di Ferrara è più moderno, per l’avvenuta separazione delle
scelte in due gruppi distinti, che possiamo cominciare a chiamare scelte
urbanistiche e scelte architettoniche. Questa separazione – le cui virtualità
organizzative sono in gran parte sconosciute – incrina per ora l’unità
dell’operazione, e apre una serie di problemi non risolti...” All’inverso, la
moderna separazione delle scelte urbanistiche e architettoniche trova a
Ferrara una reintegrazione. Piano e costruzione dei suoi nodi emergenti, delle
sue cerniere strutturali, sincronizzano, mettendo in moto un meccanismo
elastico che resiste ai secoli.
Lo stesso Benevolo torna sul problema nella Città italiana nel
Rinascimento, Il Polifilo, Milano 1969. Il fervore di vita culturale, avviato da
Lionello d’Este nel 1436, “conduce, verso la fine del Quattrocento, a una
trasformazione dell’organismo urbano senza paragone in Europa per la vastità
del disegno”. Si aggiunge però che “è perduta la confidenza negli strumenti
tradizionali di pianificazione, quindi la continuità del passaggio tra la
progettazione urbanistica e quella edilizia... Così l’addizione erculea resta una
zona urbanizzata a metà, con ampie zone di campagna alternate a episodi
monumentali”. Di nuovo, come si vede, nostalgia per l’urbanistica medievale,
cioè per una pianificazione che si attua attraverso l’edilizia, saturando tutto il
suolo.
Nessuno dei maggiori studiosi di storia urbanistica capta dunque l’originalità
di Ferrara rispetto a quanto la precede e la segue; nessuno sembra accorgersi
del suo messaggio profetico per ciò che attiene all’urbatettura, al non-finito e
alla poetica dell’angolo.
Il rapporto tra urbatettura rossettiana e pittura coeva è precisato, col
consueto acume, da GIULIO CARLO ARGAN, Storia dell’arte italiana, vol. II,
Sansoni, Firenze 1968: “La spazialità urbana che il Rossetti realizza tiene
conto di una realtà figurativa: l’idea di spazio che, malgrado le differenze
specifiche, poteva dedursi dall’opera dei grandi pittori ferraresi: Cosmè Tura,
Francesco del Cossa, Ercole de’ Roberti. Era una spazialità indipendente da
premesse prospettiche assolute; e in nessun modo omogenea o
geometrizzata, anzi fatta di rapidi, sorprendenti passaggi di grandezze:
contratte strettoie e spalancate aperture, fughe di linee e dilatarsi di atmosfere,
e scarti, deviazioni, direzioni plurime convergenti, divergenti, incrociate. Non
diversamente Rossetti sa combinare il rigore prospettico dei tracciati con
l’imprevisto delle soluzioni particolari. Può accadere, come nel palazzo dei
Diamanti, che la nota dominante non sia la facciata, ma lo spigolo, armato da
solide paraste, e sopra lo spigolo la più pungente sporgenza del balcone
d’angolo; e che le pareti, perciò, si prospettino sempre d’infilata, in una
condizione di luce radente che mette in valore le luci e le ombre delle facce
triangolari dei bugnati appuntiti.” L’appartenenza di Biagio Rossetti al mondo
artistico ferrarese dovrebbe facilitare il riconoscimento del suo genio; ciò che
non può avvenire continuando a giudicarlo con i parametri del Quattrocento
fiorentino e del Cinquecento romano.

Biagio Rossetti
Il volume in grande formato, Biagio Rossetti, architetto ferrarese, il primo
urbanista moderno europeo, Einaudi, Torino 1960, contiene una vasta mole di
documenti d’archivio. Questi sono stati omessi nell’edizione del 1971, formato
“Saggi”, intitolata Saper vedere l’urbanistica, che però mantiene i rilievi dei
monumenti rossettiani, un’esauriente bibliografia, tavole cronologiche dal 1400
al 1530 sugli avvenimenti riguardanti la storia, le arti, l’architettura, il pensiero
e la tecnica, e gli indici dei nomi, dei luoghi e monumenti e delle illustrazioni.
La presente edizione della “Biblioteca Studio” rinuncia a questi apparati e ai
commenti su alcune opere minori.
Fra i contributi successivi: F. BOCCHI, Note di storia urbanistica ferrarese
nell’alto medio evo, Deputazione di Storia Patria, Ferrara 1974; s. GHERONI, F.
BARONI, Note storiche su Palazzo Schifanoia, Deputazione di Storia Patria,
Ferrara 1975; C. CESARI, M. PASTORE, R. SCANNAVINI, Il centro storico di
Ferrara, a cura di P.L. CERVELLATI, Levi, Modena 1976; Le mura di Ferrara, a
cura di P. RAVENNA, Panini, Modena 1985; A.F. MARCIANÒ, L’età di Biagio
Rossetti. Rinascimenti di casa d’Este, Cassa Risparmio, Ferrara 1991; G.
GUERZONI, San Cristoforo di Ferrara, Interbooks, Padova 1992; C. BASSI,
Nuova Guida di Ferrara, Bovolenta, Milano 1981; Ferrara, novità fatta di verità
antiche, Interbooks, Padova 1991; Perché Ferrara è bella, Corbo, Ferrara
1994.
FERRARA DI BIAGIO ROSSETTI, “LA PRIMA CITTÀ
MODERNA D’EUROPA”
MOTIVI DELLA SFORTUNA CRITICA DI UN URBANISTA

Che nell’officina ferrarese dove, lungo l’arco di un secolo e


mezzo, operano poeti come Matteo Maria Boiardo e Ludovico
Ariosto, pittori come Cosimo Tura, Francesco del Cossa ed Ercole
de’ Roberti, scultori come Alfonso Lombardi, musicisti come
Luzzasco Luzzaschi e Gerolamo Frescobaldi, e dove sostano insigni
artisti, Antonio Pisano e Leon Battista Alberti, Ruggero van der
Weyden, Jacopo Bellini e Andrea Mantegna, potesse individuarsi
una personalità architettonica di rilievo, era prevedibile. Indubbia la
sua identità: il nome di Biagio Rossetti emergeva decisamente sopra
ogni altro per l’evento stesso di essere egli stato protagonista della
massima avventura pianificatrice dell’Europa rinascimentale,
l’Addizione di Ercole I d’Este.
Eppure la figura di Rossetti è stata per secoli vittima di una
congiura del silenzio. Non lo nomina Vasari nelle Vite né Milizia nelle
Memorie, ne accenna appena Cicognara nel Ragionamento
sull’indole e carattere degli ingegni ferraresi, lo ignorano o lo
deprezzano con sommari commenti persino i maggiori storici di
urbanistica: non è citato da Marcel Poëte nella Introduction à
l’Urbanisme né da Lewis Mumford in The Culture of Cities, gli
concede una pagina Lavedan nel secondo volume della Histoire de
l’Urbanisme, finanche Giovannoni lo licenzia con due brevi paragrafi
nel suo saggio sull’urbanistica rinascimentale. È gran merito di
Adolfo Venturi l’aver dedicato a Rossetti un capitolo della sua
monumentale Storia, specie se si considera che egli ne intuì
l’importanza fuori di un’analisi strutturale e spaziale della città e degli
edifici – ma l’indicazione rimase senza prolungamenti. Malgrado il
fervore degli interessi urbanistici e la messe di ricerche di studiosi
locali – da Righini a Reggiani e a Medri, e segnatamente a un
appassionato e competentissimo “dilettante”, lo psichiatra Giorgio
Padovani – la consistenza della personalità rossettiana non è stata
chiarita in modo da varcare i confini della storiografia ferrarese
legittimandosi come un fenomeno fondamentale nella storia del
linguaggio del Rinascimento e soprattutto come la grandiosa tappa
iniziale dell’urbanistica moderna europea.
Un’incomprensione, una sfortuna critica così sistematica, quale
non ha forse riscontro in alcun’altra figura coeva, non può essere
spiegata in base agli ardui problemi filologici posti dalla biografia e
dalle costruzioni di Rossetti. Indubbiamente i documenti che
attestano la vicenda della sua vita, benché copiosi, non colmano
molte lacune, e i suoi edifici, per aver subito metamorfosi e
rifacimenti in seguito a terremoti manomissioni e guerre, sono di
difficile lettura e spesso di malsicura attribuzione; ma i motivi della
disgrazia critica di Rossetti riguardano solo in modestissimo grado la
filologia, mentre si riferiscono in larga misura a problemi di metodo
storiografico. Problemi di tre ordini: biografico, estetico e urbanistico;
o, se si vuole: psicologico, figurativo e sociale.
Sotto il profilo psicologico, Biagio Rossetti si inserisce male nella
cornice consueta dei grandi architetti della Rinascenza: non ha il
prestigio del costruttore che domina con l’ardimento delle sue
invenzioni la scena edilizia di una città, né il temperamento
dell’uomo raffinato, intellettuale e scaltro che serve di decoro a una
corte principesca. Non rientra nell’idillico quadro dell’umanesimo
miticamente raffiguratoci dall’idealismo ottocentesco; nelle feste e
nei giochi, nelle giostre e nei falò, nelle delizie e nei giardini, nel
lusso e negli splendori della vita estense, in generale in tutto quel
mondo di colta gentilezza che viene di norma associato
all’aristocrazia e alla borghesia agiata del Quattro e Cinquecento,
egli si trova completamente spaesato. È un cittadino-suddito che non
partecipa alla haute del ducato, non gode della protezione
economica della corte, non si nobilita nel servilismo dell’élite. In una
società nettamente divisa in classi, lavora per i principi ma rimane
legato alla plebe, erige sontuosi palazzi ma non è invitato ai
banchetti che vi si svolgono, dona con le sue creazioni gloria e
fascino alle famiglie feudali, dai Bevilacqua ai Roverella, ma non è
ammesso a frequentarle. Il diaframma che separa la sua funzione
pubblica dal costume privato, l’ambiziosa clientela dalla sua figura
discreta, ha oscurato il suo nome nei confronti di quello dei
committenti: realizzate le opere, Biagio Rossetti scompare senza lodi
e riconoscimenti, spesso senza nemmeno aver ricevuto un
compenso. Un maestro del genere è l’antitesi dell’artista erudito ed
eroico, conteso dai mecenati, egocentrico e conformista, qual è
designato dalla critica burckhardtiana e dalla letteratura adulatoria
del Rinascimento. Non può assurgere ai fasti della celebrità e
nemmeno alla registrazione di un cronista attento come Vasari. Si
ammirano i suoi edifici, ma non si parla di lui; dopo la morte, ne
rimane appena il ricordo. Quando le chiese e i palazzi da lui eretti
s’impongono all’attenzione degli studiosi, sembra impossibile
attribuirli a un autore così umile e così poco sollecito di serbare
traccia del suo nome ai posteri, e li si assegna ad artisti disparati e
remoti, San Cristoforo a Sansovino, il palazzo di Ludovico il Moro a
Bramante, Santa Maria in Vado a Ercole de’ Roberti, oppure si
preferisce lasciarli senza paternità. Tale è il divario tra il mito
dell’artista rinascimentale e la realtà biografica di Biagio Rossetti,
che Frizzi dubitava persino che egli fosse mai stato un architetto.
All’anomalia della personalità professionale si aggiunge quella del
linguaggio. Rossetti non si presenta come instauratore di
un’originale età artistica, né come seguace di un grande maestro.
Non sente la missione di creare forme nuove, né di divulgare o
popolarizzare tematiche espressive elaborate da altri. Si differenzia
perciò dagli “eroi” della storia dell’arte edilizia rinascimentale, da
Brunelleschi a Bramante, e anche dalla schiera degli architetti, come
Michelozzo o Rossellino, che strumentano per un più vasto pubblico
gli apporti dei maggiori. Fenomeno decisamente singolare, Rossetti
non scelse di importare a Ferrara una delle poetiche dominanti nelle
altre regioni: pur traendone elementi morfologici, rifiutò la corrente
toscana, la lombarda e la veneta, attinse scarsamente alla scuola
bolognese; in un’epoca di dottrine e di principi compositivi, non volle
essere un emulo; in una città che era ponte alle grandi vie
commerciali e culturali dell’Italia settentrionale, evitò di assoggettarsi
a uno stile. Per la sua temperie, per il suo carattere engagé,
istintivamente antiaulico, l’arte di Rossetti sembrerebbe assimilabile
al corso della poesia popolare, in quanto ribolle nella vena di una
Baukunst che accoglie i più vari suggerimenti linguistici ma non ne
subisce nessuno, e piega ogni fraseggiare ridondante e ampolloso a
una funzione costruttiva logica e prosastica. Senonché a una sua
definizione nell’ambito della poesia popolare contrastano, oltre che
l’eccezionalità di alcune immagini, gli oggetti stessi della fatica: i
sontuosi palazzi, le vaste cattedrali, un piano regolatore di raggio
inedito. All’antitesi tra clientela e psicologia si assomma quindi quella
fra temi edilizi aristocratici e linguaggio popolare, talora eclettico,
raramente incline a scelte figurative coerenti, sorprendente per
manifestazioni spesso inconciliabili secondo i paradigmi di una rigida
“purezza” formale, da San Francesco al palazzo dei Diamanti, dalla
casetta nell’antica via della Ghiara alla magione detta di Ludovico il
Moro. Alla luce degli schemi tradizionali della critica rinascimentale,
fondati sull’esaltazione della personalità e del gusto, Biagio Rossetti
non poteva consistere: né come uomo, né come artista.
La causa principale di questa persistente sfortuna storiografica,
tuttavia, va ascritta all’incomprensione della specifica vocazione
dell’urbanista. Con gli strumenti statici e categoriali della vecchia
critica d’arte non si poteva intendere il capolavoro dell’Addizione e
quindi la natura creativa del suo autore: sfuggivano la dimensione e
il modo del fenomeno urbanistico. Senza un metodo di visione e di
lettura dinamico, senza quella moderna esperienza spazio-
temporale che ha sostanzialmente trasformato la critica
architettonica, era possibile analizzare con acutezza i complessi
edilizi di piazze e strade – le monumentali sistemazioni
dell’Annunziata a Firenze, di San Marco a Venezia, di Vigevano, del
palazzo Farnese o del Campidoglio a Roma; la piazza dei Signori a
Vicenza, l’asse viario degli Uffizi o il celebre tridente di Domenico
Fontana – ma non l’organismo di un’intera città. Gli stessi parametri
interpretativi di Sitte, Gurlitt, Stübben o Gantner, per altri versi
rivelatori, si palesarono inadatti allo scopo in quanto agivano per
distinzione di problemi, scindendo l’insieme urbano in “elementi” e
procedendo al loro esame separato, senza poi attingere una sintesi
convincente. Inoltre, i diffusi pregiudizi sulle “leggi” di conformazione
e di accrescimento delle città impedirono di discernere la peculiarità
del piano ferrarese. Per il periodo rinascimentale sembrava
superfluo, del resto, affaticarsi nella ricerca di “leggi”, come invece si
supponeva indispensabile per gli esempi greci, romani e medievali: i
trattatisti avevano fornito i loro schemi ideali, inorganici e astratti, e
bastava ritrovarli incarnati su scala ridotta in realizzazioni eccezionali
come Sabbioneta o Grammichele, o adombrati in alcuni interventi
parziali di città preesistenti. Il valore di un’urbanistica concreta e
impegnata, tale cioè da non limitarsi alla formulazione di “modelli” o
al rinnovamento di una piazza o al taglio di una strada, esorbitava
dalle capacità di intendimento della storiografia tradizionale. Lo
stesso concetto di espansione urbana risultava ostico e confuso. Se
Rossetti avesse sventrato due o tre arterie della Ferrara medievale,
o avesse disposto una bella piazza colonnata nel vecchio nucleo,
sarebbe stato lodato, ossequiato, esaltato dai contemporanei e dai
posteri, avrebbe ricevuto l’omaggio di lunghi capitoli in ogni storia
dell’arte. Invece fu urbanista nel senso moderno della parola,
pianificatore di nuove misure cittadine, non dilaniatore delle antiche
o mero costruttore di isolati episodi edilizi. A lui spettava il
riconoscimento di Burckhardt di essere stato il primo in Europa a
inverare una concezione organica dell’urbanistica; ma poiché il
senso di quest’arte non era decifrato, il riconoscimento si limitò a
qualche veloce e generica frase elogiativa.
Di là dagli ostacoli filologici, sono dunque queste le ragioni che
spiegano il secolare fraintendimento critico di Rossetti. Ma sono
anche le ragioni che ne indicano l’attualità e ne raccomandano lo
studio. Un’indagine sulle sue opere è affascinante non soltanto
perché conduce alla ricostruzione e al riscatto di una singolarissima
figura del primo Cinquecento, ma soprattutto perché favorisce
l’affinamento di nuovi metodi storiografici. Mediante la testimonianza
rossettiana crolla, in maniera definitiva, il mito dell’artista
rinascimentale librato in una soprazona intellettuale, in un clima ove
vige perfetta armonia di relazioni tra dominatori e sudditi, e l’impegno
maggiore è costituito dalle cacce e dalle regate, dalle giostre e dai
palii, dalle cavalcate e dai balli, nel quadro di una coreografia
opulenta e lussuriosa; si conferma, all’opposto, un’interpretazione
secondo la quale anche un professionista di successo come Rossetti
può sentire solo da lontano gli scoppi delle bombarde, i suoni delle
campane, i rumori che accompagnano le feste carnevalesche e i
tornei degli estensi, mentre le sue preoccupazioni e i suoi affanni
sono rivolti al lavoro quantitativamente ossessionante, ai tributi
paurosi da pagare, al desiderio a lungo represso di possedere una
casa. Per le sue opere, perde significato il divario tra poesia d’arte e
poesia popolare, tra architettura aulica e prosa edilizia, mentre si
precisa il valore civile di un costume, di un educato contegno
dell’espressione che prolunga i suoi benefici effetti nel tempo e,
senza precludere la presenza del genio, garantisce continuità e
simbiosi tra i successivi costruttori della città. L’analisi dell’Addizione,
infine, sostanzia artisticamente quel ramo dell’architettura che non è
circoscritto all’edificio e al suo ambiente, piazza o strada, borgo o
quartiere, ma si estende all’intera struttura del territorio urbano con
le relative implicazioni economiche, sociali, tecniche e figurative.
Per questi problemi di metodo che la sua biografia, il suo
linguaggio, i suoi prodotti urbanistici comportano, Biagio Rossetti era
destinato a essere universalmente riconosciuto solo in un’epoca
come l’attuale, in cui si ripropongono i temi della professionalità
architettonica, della poesia e della letteratura e della prosa edilizia,
dell’attività creatrice nella pianificazione delle città. A quasi cinque
secoli dalla morte, Rossetti riemerge in una problematicità vitale
anche per l’architetto moderno.
PARTE PRIMA
L’ARCHITETTO DELLA VECCHIA FERRARA
L’operosità documentata di Biagio Rossetti copre il periodo che
va dal 1466 al 1516, esattamente mezzo secolo. Di esso, oltre la
metà, ventisei anni, fu spesa nella costruzione di edifici inseriti entro
la maglia della Ferrara medievale e delle sue zone di espansione
precedenti al piano dell’Addizione erculea, o ubicati in altri centri
dello stato estense. Lungo travaglio preparatorio ai compiti
urbanistici, il cui esame precisa la traiettoria di un’evoluzione che,
partendo dall’architettura di singoli fabbricati, culmina in quella di una
nuova città ideata nel 1492.
Senza questa complessa e faticosa esperienza preliminare,
Rossetti probabilmente avrebbe potuto concepire e progettare
l’Addizione, ma non realizzarla traducendone il disegno in terza
dimensione. Per essere in grado di attuare un piano coordinando
l’edilizia che lo sostanzia, occorre possedere conoscenze
approfondite dei programmi funzionali, rapidità d’intuito nel giudicare
le impostazioni spaziali e volumetriche, sensibilità figurativa
sviluppata a ogni livello, dalla scelta dei materiali al gusto della
modanatura. Occorre cioè essere architetto, di una particolare
inclinazione atta a evitare due forme di evasione: quella che, per
pluralità di sollecitazioni, conduce al mero professionismo; e quella
che, per ansia di compiere opere artisticamente perfette, obbliga a
circoscrivere la tematica del fare. Un urbanista non può restringere
la sua attività alla produzione di pochi isolati gioielli che richiedano
dedizione completa; ma, d’altra parte, non può abbandonare l’arte e
il mestiere dell’edificare, altrimenti il suo piano rimarrà uno schema,
un diagramma, una semplice intenzione.
Gli urbanisti qualificati sono rari in ogni età della storia proprio
perché l’esercizio della loro disciplina esige un delicatissimo
equilibrio di interessi diversi, spezzato il quale si cade o nella
pianificazione astratta, o in un frammentarismo edilizio che esclude
una visione sintetica. Un urbanista deve essere architetto, ma che
tipo di architetto? Ecco un quesito di pulsante attualità cui il lavoro di
Biagio Rossetti antecedente all’Addizione offre una risposta sicura e
calzante.

Le opere giovanili di Rossetti nel nucleo medievale e nell’Addizione di Borso: a ovest,


l’abside di San Niccolò e la loggia di piazza; a est, il palazzo di San Francesco o Pareschi,
e la delizia di Schifanoia; lungo l’asse borsiano, il palazzo di Ghiara e casa Rossetti; a sud,
il campanile di San Giorgio. Sembra che Biagio voglia impossessarsi del tessuto urbano
preesistente, e dei suoi codici, prima di compiere il salto nella città nuova situata a nord,
oltre la Giovecca (cfr. foto 64).

È il periodo della sua vita filologicamente più oscuro. Le notizie


sui suoi interventi abbondano, ma le opere conservate sono assai
poche. Conviene perciò investigare anzitutto palazzo Schifanoia, il
campanile di San Giorgio e la casetta di via della Ghiara, tre testi
accertati che delineano la fisionomia rossettiana, e passare poi in
rassegna alcuni lavori giovanili minori di cui restano scarse tracce.
Questa indagine consentirà di intendere il vettore specifico che fa di
un architetto un urbanista.
PALAZZO SCHIFANOIA

I lavori intrapresi a palazzo Schifanoia (cfr. foto 17-22) impegnano


ventisette anni della vita di Biagio Rossetti: dal 1466 quando, in
qualità di “muradore” o aiuto-architetto, collabora con Pietro
Benvenuti degli Ordini, al 1493, data in cui altera la configurazione
del prospetto principale sostituendo alle merlature gotiche un
grandioso cornicione rettilineo. In questo periodo, Rossetti passa da
funzioni professionali subordinate alla carica di architetto ducale cui
lo nomina Ercole I nel 1483, alla morte di Benvenuti. La storia degli
interventi a Schifanoia è perciò particolarmente significativa agli
effetti della formazione del maestro: essa attesta lo sviluppo della
sua “critica” al monumento preesistente e quindi illumina i suoi
rapporti con la cultura architettonica ferrarese medievale e
quattrocentesca. Quando comincia a operare, questa “critica” è
schiva e sommessa; quando conclude la trasformazione, è esplicita
intransigente e radicale, come s’addice a un professionista affermato
e orientato a giudicare, dopo l’esperienza dell’Addizione, ogni
fenomeno edilizio nella cornice di una concezione urbanistica.
Ha nociuto a un’esegesi storicamente adeguata del contributo
rossettiano al palazzo Schifanoia l’averlo relegato tra le sue “opere
giovanili”, quasi che egli si sia limitato a inserire nell’impianto di
Benvenuti qualche finestra ad archivolto in terracotta di suo gusto, o
a tracciare il partito entro il quale furono cesellati gli ornati del
portale. L’intervento saliente non va individuato in tali apporti, ma nei
mutamenti attuati nel 1493, poiché questi permettono di misurare
con esattezza quanto l’architetto accolga e quanto rifiuti della
maniera gotica ferrarese persistente fino all’ottava decade del
Quattrocento malgrado i commenti rinascimentali, svolti su un piano
più erudito che spazialmente sostanziale, di Benvenuti.
I temi critici che la lettura di palazzo Schifanoia propone sono tre:
1) il rapporto con la tradizione figurativa medievale e
l’interpretazione data da Rossetti alle impostazioni compositive
del Rinascimento che, malgrado la ripetuta presenza di Leon
Battista Alberti alla corte estense, non riescono a penetrare a
Ferrara;
2) l’unificazione espressiva dei vari corpi di una fabbrica
realizzata in oltre due decenni di successive aggiunte e
modifiche, su un organismo spaziale slegato e discontinuo,
sorto su una pianta enormemente allungata attraverso l’inerte
giustapposizione lineare di vari ambienti;
3) la natura dell’immagine finale in relazione all’ambiente, alla
narrazione di via Scandiana, e in particolare il posto che nella
tessitura del prospetto spetta al portale sbilanciato con inaudito
ardire.

Si potrebbe aggiungere un quarto tema critico: il colloquio che si


attua a palazzo Schifanoia tra pittori, scultori e architetti, ciò che oggi
si denominerebbe il problema della sintesi delle arti visuali.
Pur tralasciando una minuziosa registrazione della tormentata
vicenda edilizia del palazzo, occorre ricordarne le fasi principali quali
si possono ricostruire, in via ipotetica specie per quanto riguarda la
fabbrica trecentesca, dalle “Cronache” di Caleffini, Equicola e
Merenda, e dall’esame della struttura superstite. Il complesso attuale
risulta da un processo edificatorio articolato in quattro tappe:
– 1385. Alberto V d’Este, prima di succedere al fratello Nicolò II,
si costruisce in un settore periferico della città una piccola dimora
ove rifugiarsi a “schivar la noia”. Questo primitivo corpo edilizio,
lungo circa 32 metri e alto 6 o 7, è parzialmente sopravvissuto
nell’ala bassa a sinistra del portale maggiore. Aveva probabilmente
otto finestre prospicienti la strada, o sei finestre centrali racchiuse ai
lati dai fornici ad arco acuto degli ingressi.
Schema della prima delizia di Schifanoia, costruita da Alberto V d’Este nel 1385. Edificio
modesto, tradizionale, simmetrico e con terminale merlato.

Il compatto prisma era coronato da una merlatura;


– 1391. Alberto V è salito al potere, eleva le “delizie” del Paradiso
e di Belfiore, amplia quella di Schifanoia con un corpo lungo,
secondo alcuni, circa 64 metri e a due piani, seminterrato e rialzato,
di cui la fabbrica del 1383 costituiva un’appendice adibita ai servizi.

L’ampliamento della delizia, voluto da Alberto V d’Este nel 1391. Gli ultimi restauri del
palazzo ne hanno rimesso in luce i resti del fastigio merlato.

Il nuovo organismo è formato da una sequenza di vasti ambienti che


traevano i loro nomi dalle decorazioni murali, con annesse
“guardacamere” o stanze per la servitù. All’esterno, la parte centrale
più alta era stretta da ali del cui fastigio a merli è stata rimessa in
luce una serie di archetti visibili sul lato destro; vi era perciò
rispondenza tra distribuzione funzionale e volumetria, in quanto la
sala principale emergeva su quelle adiacenti. Per il resto però il
blocco aveva le caratteristiche di un fortilizio difeso con una severa
muraglia. Chi fu l’architetto di questa edizione del palazzo? Poiché
Alberto V aveva affidato il progetto della “delizia” di Belfiore a
Bartolino Ploti da Novara, l’autore del Castello estense, si è pensato
di attribuirgli anche Schifanoia; ma nessun documento suffraga
l’ipotesi. In realtà, non si discerne un discorso artisticamente serrato
degli spazi, e non sembra che le finestre ad arco acuto fossero
allineate secondo intervalli regolari; anche per il fatto che i corpi
laterali avevano diversa lunghezza, il loro periodare doveva
presentare un ritmo empirico e prosastico. Le attrattive della “delizia”
si rivelavano negli interni, specie nella “loza longa” situata a nord e
affacciata sul vasto giardino cintato da mura merlate. Di questa
loggia, che costituiva il vero soggiorno, il luogo dove si tenevano
feste e banchetti, non rimangono più tracce; ugualmente è
scomparsa la scala esterna che conduceva al primo piano;
– 1465. Intorno a questa data, Borso d’Este ordina a Pietro
Benvenuti di sopraelevare il palazzo con un piano nobile che serva
da appartamento ducale; nel 1467 è già compiuto il soffitto della sala
degli Stucchi; due anni dopo Francesco del Cossa conclude il ciclo
dei suoi celebri affreschi.

La sopraelevazione della delizia, realizzata da Pietro Benvenuti e Biagio Rossetti nel 1463.
Il nuovo portale stride col motivo della merlatura.

In tale ampliamento, la sequenza degli ambienti seguì


fondamentalmente quella dell’organismo del 1391. Un immenso
salone occupò l’estremità a ponente, mentre la corrispondente sala
inferiore di Alberto V fu divisa e trasformata in ingresso. Il secondo
ordine di finestre fu disegnato in consonanza a quello sottostante, e
il maestoso blocco alto 15 metri terminò con una fascia decorata e
una sontuosa fila di merli a frastaglio, i cui resti furono rinvenuti da
Gualtiero Medri. Nello stesso periodo fu elevato il grandioso portale
marmoreo, mentre nel lato a levante fu aperta una porta ad arco,
della cui ornamentazione in cotto rimane un rilievo di Runge. A
conclusione di questo ciclo di lavori, nel 1470 il terreno davanti al
palazzo venne sistemato in uno slargo che accolse cerimonie
pubbliche e tornei;
– 1493. Si giunge all’ultimo atto. Il palazzo è prolungato a levante
di altri 7 metri con un corpo che aggetta di circa 3 metri sul fronte
nord.

La delizia dopo i lavori rossettiani del 1493. Lo stupendo cornicione in terracotta ha


trasformato l’immagine.
Viene abbattuta la merlatura del Benvenuti: la fascia terminale del
1467 è sostituita da un’altra a disegno geometrico; l’edificio è
coronato da un solenne cornicione in cotto.
In tutto questo travagliato processo, le “scelte” espressive di
Rossetti non sono che apparentemente modeste. Vediamo anzitutto
il suo atteggiamento rispetto alla tradizione. Rossetti accetta la
corrispondenza delle nuove finestre del piano nobile a quelle
inferiori: è un omaggio alla prassi funzionale e organica delle
disposizioni medievali, un rifiuto alla norma di quelle rinascimentali.
Evidentemente, egli ben conosceva il lessico compositivo prevalso
da oltre mezzo secolo a Firenze, ma non sente di doverlo accettare.
Più tardi, nel palazzo dei Diamanti, in quello di Ludovico il Moro e
specialmente nel palazzo Roverella, non avrà alcuna difficoltà a
disegnare partiti regolari per i prospetti; ma qui, anziché adottare
estrinsecamente le leggi dell’umanesimo architettonico, s’immerge
nella tradizione e ne condensa gli apporti.

Ricostruzione schematica della pianta di Schifanoia, con la “loza longa” situata verso il
parco, tra il blocco della sala dei Mesi e il corpo aggettante a nord. È segnata anche la
probabile scala di accesso al piano nobile.

A Schifanoia il problema è di esaltare il valore della stesura muraria


in laterizio, di far sì che essa mantenga la sua consistenza tattile
nonostante l’apertura di porte e finestre.

Prospettiva schematica della delizia quale doveva apparire, con la “loza longa” e la scala,
dal vasto parco retrostante. Non rimane più alcuna traccia di questi elementi.
A tale scopo, il succedersi aritmico delle forature è vantaggioso: tutta
la tradizione medievale attestava che quanto più esse sono varie e
appaiono episodiche, tanto più risulta difesa l’unità della tessitura
parietale. Selezionare un “modulo” per ripeterlo meccanicamente
fino a misurare l’intera lunghezza dell’edificio avrebbe significato
seguire una via accademica, per giunta vana poiché la lunghezza
era tale da non poter essere facilmente racchiusa in una
“proporzione”.

II motivo emergente del portale collegato alle due finestre centrali della sala dei Mesi e a
quelle laterali che ne ripetono il tema, rispetto all’episodica narrativa del prospetto (cfr. foto
17, 18).

L’unità espressiva poteva invece essere garantita da un sistema più


elastico e provato, che poi, contrariamente al suo aspetto arbitrario e
“pittoresco”, svelava un rigore logico assai più persuasivo dei canoni
rinascimentali, permettendo di aprire porte e finestre là dove erano
funzionalmente necessarie, e rispecchiando così in facciata la vita e
la distribuzione dell’organismo interno. L’operaio-costruttore
predomina dunque sull’umanista, un’antica organica cultura edilizia
su quella libresca.
Soffermiamoci sulle finestre ad archivolto. Esse appartengono
alla tradizione edilizia ferrarese e, in generale, emiliana. Perché
l’architetto le predilige sugli altri tipi preesistenti, su quelli
propriamente rinascimentali, o su eventuali modelli di nuova
invenzione? Non è arduo rispondere: sotto il duplice profilo tecnico e
figurativo, esse sono conformi alla struttura muraria a laterizi in vista
consacrata nel costume dell’edilizia popolare. Incorniciare le finestre
significa trasformarle in una serie di edicole e perciò eccettuarle
dalla continuità parietale. Ora, se l’unità del blocco di Schifanoia è
affidata proprio alla compattezza di questo piano, non vi erano
alternative: i verticali di ogni apertura dovevano essere tagliati al
vivo, senza cesure o mediazioni che avrebbero relegato la parete in
un “secondo piano” visivo. Restava il problema dell’arco che non
poteva essere efficientemente tagliato nei mattoni; ma era già risolto
dall’archivolto in cotto offerto dalla tradizione e qui solo regolarizzato
dalla forma a tutto sesto. Regolarizzato, non tipizzato: Rossetti non
ha alcuna ragione di escludere il contributo di un artigianato la cui
perizia è stata confermata nei secoli; entro i precisi lineamenti degli
archivolti, la fantasia artigianale può dunque sbrigliarsi in decorazioni
svariate e anomale conferendo un ulteriore accento di preziosità
cromatica alla già ricca grana della parete laterizia.
L’immenso portale comprova, in guisa quasi clamorosa, come un
impianto tradizionale possa venire finalizzato a intenti espressivi
affatto nuovi. È mai pensabile un portale di queste dimensioni nella
scala degli ordini sovrapposti rinascimentali? Chi avrebbe avuto
l’ardire di violentare con un innesto così vistoso e sbilanciato la
“proporzione” architettonica? A Schifanoia l’operazione poté essere
attuata poiché il disegno era basato su un equilibrio arcaico più
complesso e ricettivo di inusitate invenzioni. Tale capacità
assimilatrice è, in certo modo, connaturata al costume edilizio
ferrarese: ne troviamo un altro incandescente 12 esempio nel cortile
d’onore di casa Romei dove un esuberante motivo decorativo irradia
sul portico (cfr. foto 28); anche qui un ingrediente eterogeneo è
ammissibile perché l’architettura si esalta nel suo eclettismo, nelle
sue impurità, nell’intreccio libero, “sgrammaticato” sotto il profilo
accademico, di sporti e loggiati.
L’attribuzione della plastica del portale a Francesco del Cossa, ad
Ambrogio da Milano o allo stesso Rossetti ha importanza
secondaria: Venturi parla di “un’applicazione alla pietra del disegno
architettonico di Francesco del Cossa”; Padovani, notando le
disparità tra gli ordini del portale e quelli delle “architetture dipinte”
del Cossa, è proclive ad assegnarlo a Biagio. Una cosa appare
comunque evidente: Benvenuti e Rossetti, responsabili
dell’ampliamento voluto da Borso d’Este, devono avere non solo
approvato, ma almeno in parte determinato l’impianto del portale.
Esso infatti influisce risolutamente sull’organismo architettonico e, di
contro, sarebbe inspiegabile fuori del suo contesto. Per due ragioni:
restringendosi nel tabernacolo superiore, consente la presenza di
due finestre del piano nobile immediatamente adiacenti; con il suo
lievissimo aggetto, malgrado l’imponenza dimensionale e il contrasto
cromatico, rispetta l’unità parietale del prospetto. Sono dispositivi
collegati e interdipendenti. Più che sovrapposto, il portale appare
incastonato nel muro, il suo rilievo è così poco sentito da ridursi
quasi a graffito. Compresso poi dalle due ampie finestre rossettiane,
si lega all’edificio per il diretto riferimento che queste hanno con le
altre due finestre simmetriche e uguali dello stesso piano. In realtà, il
portale non può essere letto in modo autonomo perché, con le
quattro grandi aperture che corrispondono al salone d’onore,
impegna l’intero settore orientale del palazzo.

L’incastro compositivo del portale con le due finestre centrali della sala dei Mesi nella delizia
di Schifanoia. Il portale resterebbe un oggetto in sé, avulso dal contesto, applicato
meccanicamente alla facciata, se Rossetti non lo avesse incatenato entro un preciso
rapporto. Il triangolo dei vuoti s’incastra con quello dei pieni, mediando il trapasso dal
gioiello marmoreo alla stesura laterizia. Doppio cuneo sul quale poggia l’intero impianto
progettuale (cfr. foto 22).

Precisiamo il metodo seguito per incatenare visualmente al


fabbricato il motivo marmoreo nella cornice delle quattro finestre
maggiori: le due estreme sono talmente distanti da permettere alla
coppia centrale di formare sistema con il portale, sicché questo,
mentre mitiga la spaziatura decorativa, si dilata architettonicamente
in quanto la piramide rovesciata costituita dai tre fornici della porta e
delle finestre ha una carica più intensa di quella del trapezio
marmoreo; inoltre, ai pieni tra le coppie delle bucature superiori
replicano, dopo che i restauri hanno cancellato le spurie aperture, i
pieni della zona bassa; il portale si avvantaggia di questa respirata
cadenza, antitetica al susseguirsi veloce e nervoso delle finestre in
tutta la parte occidentale della facciata.

Ipotetica distribuzione della luce nella sala dei Mesi, qualora le aperture del prospetto
corrispondessero a quelle del fronte posteriore. A destra, la soluzione rossettiana che,
sfalsando le finestre, consente un’illuminazione varia, puntata sulle pareti. Il dispositivo
esalta la pittura e immerge lo spazio in un’atmosfera trasognata e magica. Il prisma della
sala, altrimenti inerte, acquista una dinamicità determinata dai flussi luminosi incrociati.

Architettura e decorazione sono dunque strettamente allacciate.


La collaborazione tra le tre arti figurative, ciò che oggi si
chiamerebbe il teamwork fra pittori, scultori e architetti, trionfa
ovunque a Schifanoia. Se i pittori intervengono all’esterno a
ravvivare cromaticamente la fascia terminale e i merli, gli architetti
sono attenti a concepire gli involucri spaziali in funzione dei grandi
cicli pittorici. Osserviamo, ad esempio, la celebre sala dei Mesi: le
finestre sono quattro in facciata, ma soltanto tre sul fronte verso il
giardino. Tale anomalia è dettata dalla volontà di non tagliare
longitudinalmente il salone con regolari flussi luminosi che
stabilirebbero una sequenza di zone rischiarate e di zone ombrose,
monotona e fastidiosa per la visione degli affreschi. Come nel
prospetto, la dissimmetria è uno strumento per affermare la
continuità parietale. Le grosse portelle di legno, ancora esistenti nel
1850, che servivano a chiudere le finestre erano dipinte, e così gli
incavi del muro che le accoglievano e le porte. Di notte, sbarrate le
aperture, la sala si trasformava in una galleria ininterrotta di affreschi
al cui magico risalto, di giorno, contribuivano i punti di luce naturale
iniettati, con acuto e calcolato disordine, dalla porta d’ingresso
originaria all’angolo orientale del fronte a nord, dalle finestre, dalla
porticina che immetteva in un poggiolo prospiciente verso la città a
ovest e, di contro, dalla porta attraverso la quale si accede nella sala
degli Stucchi. La struttura edilizia non vale dunque per sé, ma in
consonanza di una dimensione spaziale inverata insieme dalla
pittura e dall’architettura.
E giungiamo all’ultimo intervento, quello del 1493 che riguarda la
sostituzione dell’antica merlatura con un maestoso cornicione in
cotto. A questa data, come si sa, Biagio Rossetti è ormai da dieci
anni architetto ducale e, nella grande impresa dell’Addizione erculea,
ha imparato a interpretare ogni fenomeno edilizio in chiave di una
visione urbanistica. Che alcune parti del palazzo crollassero, come
accennano le cronache, può esser vero, e probabilmente si tratta
proprio di qualche tratto della merlatura; ma questo non fu che un
pretesto per attuare una radicale trasformazione. Gli è che a
Rossetti il fastigio a merli non poteva piacere. Rifletteva
un’anacronistica tematica diretta a disporre un passaggio graduato
tra fabbrica e cielo, attraverso il quale l’atmosfera penetrava nel
discorso edilizio e questo in quella. Linguaggio affatto estraneo al
mondo rinascimentale che esigeva definite proporzioni geometriche:
meraviglia anzi che Benvenuti nel 1465 si sia piegato a rielaborare il
motivo di coronamento del palazzo del 1391. Ma non è tanto il
desiderio di imporre una proporzione all’edificio che spinge il
Rossetti a costruire il cornicione, benché senza dubbio questo
elemento dovesse sembrargli indispensabile per unificare le varie
parti della fabbrica che ora si estendeva ulteriormente con un’ala a
levante. Il nuovo terminale serviva essenzialmente a dinamizzare
con una lunghissima freccia il rettilineo stradale, costituiva quindi
uno strumento di correzione urbanistica prima che architettonica.
Via Scandiana ha origine dal nucleo antico di Ferrara ma,
distaccandosi con energico scatto da via Borgo di Sotto, ne forma
una direttrice centrifuga verso le mura orientali. Velocitarla
significava portare all’estremità della vecchia maglia cittadina uno di
quei moderni vettori urbanistici che Rossetti veniva sperimentando
nei tracciati dell’Addizione.

Lo scatto direzionale di via Scandiana nel suo distacco da via Borgo di Sotto, e la delizia di
Schifanoia.

Del resto, la mole di Schifanoia offriva l’opportunità di utilizzare un


preesistente organismo per una finalità attualissima: la lunghezza
del prospetto suggeriva una visione dinamica che, movendo dal
portale sbilanciato verso il cuore di Ferrara, proseguisse con ritmi
sempre più serrati verso oriente; il fatto poi che le finestre di questo
lato risultassero più piccole di quelle che incorniciano il portale era
vantaggioso perché forzava la prospettiva allungando illusoriamente
la già eccezionale distesa muraria. A inverare una lettura cinematica
mancava solo una conclusione che precisasse in modo perentorio la
linea del cielo; la merlatura smorzava e sfrangeva questa
conclusione, rallentava la lettura, con le sue indicazioni verticali
proponeva una visione statica, frontale, che metteva in risalto tutte le
anomalie dei successivi e incongrui ingrandimenti. Demolendola,
Rossetti attuò un’operazione di straordinario impegno, in duplice
senso: intonò il palazzo alla città nuova, e infuse originale accezione
ai suoi ingredienti stringendoli in funzione di un’immagine diversa,
anzi antitetica a quella inerte e statica del passato. Tra slargo e
strada, scelse la strada e salvò un’architettura. Per tale intervento
geniale, Schifanoia non è di Ploti, Benvenuti, Cossa, Ambrogio, ma
solo di Biagio Rossetti: egli seppe calamitare ogni membratura
prodotta da altri artisti in una creazione capace di agglutinare; spostò
l’ordine della visione, e ogni brano del discorso ne trasse nuova
emergenza, diversa incisività. Lo riprova il fatto che nei secoli il
palazzo, malgrado le alterazioni e i massacri subiti, conservò la
propria fisionomia con un potere di assimilazione che tollerò persino
l’insulso inserimento di un secondo portale marmoreo, proveniente
dal convento di San Domenico e sovrapposto, con peculiare ottusità
critica, in una stesura laterizia destinata, di là dall’ingresso
principale, a rimanere ininterrotta.

Linee-forza essenziali della composizione urbanistica di Schifanoia. Sin dalla sua prima
opera, Rossetti attesta l’interdipendenza tra edificio e città.

Attraverso il quarto di secolo in cui lavora a Schifanoia si


configura dunque la personalità creativa e intellettuale di Rossetti: il
metodo di vedere l’edificio nel contesto urbano proiettando
sull’architettura un’interpretazione della città. La quotidiana
frequentazione dei pittori e degli scultori che decorano le sale di
Schifanoia allarga i suoi orizzonti culturali: ha cominciato a lavorare,
giovane modesto, artigiano plebeo; esce da Schifanoia come un
protagonista dell’officina d’arte ferrarese.
CAMPANILE DI SAN GIORGIO

La chiesa di San Giorgio era stata fino al XII secolo Cattedrale di


Ferrara (cfr. foto 23). Quando l’Ordine degli Olivetani, che ne aveva
preso possesso nel 1445, volle portarla a nuovo splendore in vista
della riconsacrazione avvenuta poi solo nel 1479, chiamò a lavorarvi
i due maggiori artisti dell’epoca: Cosimo Tura e Biagio Rossetti. Il
campanile fu inaugurato nel 1485 con una cerimonia che costituì
occasione per celebrare la pace con Venezia, ma è logico ritenere
che il progetto risalga al periodo intorno al 1473-1475, quando
Cosmè prese a dipingere le sue gloriose pale.

Schema volumetrico di San Giorgio prima della trasformazione operata da Alberto Schiatti
nel 1581. Il prospetto originario è documentato nella placca argentea della cassetta
contenente le reliquie di san Maurelio, scolpita da Giannantonio da Foligno nel 1512; si
tratta di un impianto veneziano, ricalcato sulle opere di Mauro Coducci e della sua scuola.

La configurazione della chiesa agli inizi del XVI secolo ci è


tramandata da una placca argentea della cassetta contenente le
reliquie di san Maurelio, scolpita da Giannantonio da Foligno nel
1512; la sua trasformazione fu operata da Alberto Schiatti nel 1581.
Forse Rossetti non si limitò alla semplice edificazione del campanile,
ma intervenne nell’intero rinnovamento del 1479. Ma se in varie parti
si rintracciano impronte rossettiane, la torre campanaria, che nella
placchetta di Giannantonio da Foligno vediamo coronata da una
cuspide ora mozza, resta l’unica testimonianza architettonicamente
impegnata.
Non a caso il suo primo, esplicito valore è di ordine urbanistico.
Rivolto alla città, il campanile segna un punto di riferimento extra
urbano di fondamentale importanza nell’orchestrazione spaziale del
settore sud-orientale di Ferrara: col suo accento verticale, impone
un’apertura oltre le mura, invita a trapassarne i confini, dirige verso
la campagna. Tale funzione, a prima vista, potrebbe sembrare
inerente a ogni torre eretta presso la cinta murata di una città, ma
acquista singolari caratteristiche nel quadro psicologico-creativo di
Rossetti se viene relazionata ai futuri lavori dell’Addizione e al
cornicione di Schifanoia. Ecco l’azione 1475-93: a nord, Rossetti
rompe le vecchie mura ampliando le prospettive urbane nelle fughe
della nuova trama viaria; a est, velocizza la direttrice di via
Scandiana con la linea-forza del terminale di Schifanoia; a sud,
blocca l’espansione mediante il “fermo” di San Giorgio, che anima
anche questo antico capitolo del tessuto ferrarese. Ancor oggi il
campanile costituisce l’unico fattore di riscatto in un ambiente
dimesso e inarticolato: il fianco dell’abside e delle navate, lo scorcio
del prospetto settecentesco, l’ingresso dell’ex convento si adagiano
come parete di fondo della torre e, con la loro confusa narrazione,
ne sottolineano per contrasto la tensione compositiva.
Accingendosi a progettare il campanile, Rossetti avrà certamente
preso le mosse dal prototipo del Duomo (cfr. foto 117), cominciato
nel 1451 secondo un disegno attribuito a Leon Battista Alberti. Suol
ripetersi che quest’opera “ha portato il Rinascimento a Ferrara”:
merita dunque una breve analisi anche perché, mentre Biagio
lavorava a San Giorgio, il campanile della Cattedrale era ancora un
problema in atto, avendone il duca Borso ultimato solo il primo
ordine nel 1458; spetterà infatti a Ercole I di aggiungere il secondo e
il terzo nel 1491-95, e ad Alfonso II il quarto.
L’impianto albertiano, come risulta attualmente, consiste di
quattro dadi sovrapposti separati da maestose trabeazioni e legati
da robusti pilastri angolari. L’accordo tra i prismi è affidato agli
aggetti delle trabeazioni che smorzano l’impeto ascensionale dei
pilastri appartenendo, nello stesso tempo, al sistema delle scansioni
orizzontali e a quello delle chiusure laterali. Nei riquadri incorniciati
da questa ferrea orditura, altissime finestre si aprono entro doppie
edicole formate da carnose colonne, troppo grevi per rispettare il
piano da cui emergono. Quali elementi assicurano l’unità espressiva
della mole? Tre, principalmente: il “peso” del quarto ordine più alto
degli altri in quanto la coppia dei suoi fornici è raccordata alla
trabeazione sottostante attraverso un massiccio piedistallo; la gravità
degli ampi vuoti dello stesso ordine, ben diversi dalle aperture
inferiori, anguste o addirittura chiuse; infine, il coronamento che non
fu completato. Mezzi invero inadeguati. Il tema del campanile appare
in genere ostico alla metrica rinascimentale poiché il suo slancio
delude l’esigenza di commensurabilità espressa dalla
sovrapposizione di elementari figure stereometriche. Ma qui vi sono
poi due diversi partiti, quello dei dadi e quello dei riquadri, che si
vorrebbero contemporaneamente armonizzare. L’effetto prospettico
che sminuisce la consistenza dei prismi superiori potrebbe essere
complementato o da una loro maggiore altezza oppure da un
trattamento plastico più vigoroso; accade invece l’inverso, e il
correttivo delle estreme finestre slargate impallidisce rispetto al
“pieno” delle colonne centrali abbinate. Di questo campanile si è
lodata la “romana ponderosità”, è stato definito “il più classico tra
quanti fiancheggiano le chiese cristiane”; ma appunto la sua
romaneggiante gravezza ne denuncia il limite culturalistico. Senza
dubbio, impone il Rinascimento a Ferrara esplicando una funzione di
aggiornamento utile, ma lo fa in modo estrinseco, senza mediazioni
con l’edilizia della città, e perciò rimane un oggetto estraneo,
inassimilabile.
Nel dimesso scenario del settore sud-orientale di Ferrara, la cristallina stereometria del
campanile di San Giorgio costituisce l’unico elemento di tensione e di riscatto.

Oltre che nel disegno albertiano, la cui realizzazione era in larga


misura ancora in fieri, Rossetti poteva trovare una fonte di
ispirazione nella tradizione quattrocentesca, per esempio nel
campanile di Santo Stefano (cfr. foto 29). Esso presenta pregi e
difetti opposti a quelli della Cattedrale: prisma sostanzialmente
unitario su cui le basse cornici e i lievi aggetti angolari sono
sommessi commenti delle superfici laterizie, e non strumenti di
articolazione volumetrica. Innestandosi nel corpo della chiesa,
questa torre schiva i problemi del legamento a terra, rinuncia a
stabilire un preciso rapporto tra gli scomparti, risolve con facilità la
questione della propria chiusura figurativa aprendo in alto quattro
generose finestre, e termina con una cuspide sfaccettata,
empiricamente posata sul blocco.
Posto davanti ai precedenti locali e al modello albertiano della
Cattedrale, Rossetti non sceglie. Configura il campanile di San
Giorgio accogliendo alcuni motivi del Duomo, ma rifiutandone
risolutamente altri. L’ordito dei quattro dadi sovrapposti, dei forti
pilastri angolari, delle trabeazioni sentite e risegate, è accettato, e
pertanto il distacco dai tipi locali è reciso; ma l’elaborazione uniforme
degli specchi incorniciati dagli ordini sovrapposti è scartata. A San
Giorgio i quattro dadi sono figure limpide e cristalline,
immediatamente identificabili, e ciò avviene perché Rossetti ha
l’intelligenza di differenziarne i riquadri: ai valori plastici dell’involucro
preferisce quelli stereometrici esaltati dalla preminenza dei pieni sui
vuoti, dalla chiara stesura delle superfici circoscritte ma non
soffocate da pilastri e trabeazioni che, per il loro tenue aggetto,
costituiscono un’increspatura, una “condensazione” della grana
muraria. Il dispositivo atto a garantire unità all’insieme proviene dalla
tradizione medievale, dalla scala ascendente dei vuoti, ma non è
adottato meccanicamente in una sequenza di monofore, bifore e
trifore formanti un cono rovesciato di aperture. Nel matematico
disegno della torre, Rossetti punteggia i tre dadi inferiori con semplici
oculi, e solo nel quarto apre ampie bifore sormontate da un
archivolto che spazia in tutto il riquadro, fino quasi a toccare i pilastri.
Bifore, non coppie di finestre arcuate insistenti su colonne che
vengano a formare al centro uno spurio motivo binato, come nella
Cattedrale: “pesano” coi loro vuoti e perciò concludono la
composizione, ma senza atrofizzare il piano di fondo; anzi, nel senso
dell’altezza, “navigano” sulla superficie laterizia, non essendo legate
alla trabeazione superiore né a quella inferiore; in altre parole,
rimangono verticalmente “scorrevoli”. Tra le due soluzioni del lessico
medievale e rinascimentale – scala ascendente delle aperture o loro
monotona ripetizione – Biagio sceglie dunque una terza via che
razionalizza la tradizione senza negarla, o meglio interpreta la nuova
visione quattrocentesca in modo personalizzato e radicato
nell’ambiente ferrarese.

Quattro prismi, di cui il primo marcatamente più basso dei tre sovrastanti, caratterizzano la
composizione del campanile di San Giorgio. Montaggio di elementi stereometrici cubici, che
suona precisa critica al complesso prototipo albertiano del Duomo (cfr. foto 116, 117).
Rossetti ne rifiuta il programmato contrasto con la chiesa adiacente, vuole anzi che il
campanile sia rivestito dallo stesso materiale laterizio e che gli ornati delle trabeazioni e
degli oculi si diano carico del retaggio vernacolare della città. Codice nuovo, ma non
estraneo al contesto in cui interviene.
La torre campanaria del Duomo, per il pondo dell’ordine superiore
che dobbiamo immaginare accresciuto dal coronamento non
realizzato, doveva essere letta dall’alto verso il basso poiché, nella
corposità delle membrature e delle proporzioni, puntava verso terra.
Il campanile di San Giorgio si legge invece dal basso verso l’alto,
con una cadenza lenta che nulla ha più in comune con quella
scattante dei prototipi medievali. Merita, in proposito, osservare
alcuni particolari:
1) i tre prismi superiori sono pressoché identici, ma il quarto è più
basso, accentuando così in modo impercettibile lo slancio
prospettico;
2) le lesene sono in mattoni, non turbano la continuità orizzontale
degli specchi, ma la commentano con righe d’ombra presso gli
spigoli;
3) le fasce che dividono gli ordini e i capitelli sono invece in cotto
stampato; Rossetti preferisce collegare i capitelli alle
trabeazioni superiori anziché alle lesene, e ciò per evitare che i
dadi siano ingabbiati da una cornice cromaticamente diversa.
Fasce e capitelli formano una serie di U rovesciate levitanti
nella stesura laterizia;
4) la decorazione delle fasce tiene conto del tema prospettico e
varia di livello in livello, presentando nel primo una fitta
continuità di elementi floreali a foggia di candelabro, nel
secondo una successione di palmette, nel terzo e nel quarto
un gioco di tulipani fantasiosi, riuniti da festoni.
Le trabeazioni divisorie degli ordini del campanile di San Giorgio, fuse plasticamente con i
capitelli delle lesene angolari (cfr. foto 23), formano quattro U rovesciate, quasi sospese
nello spazio. Ulteriore critica alla soluzione albertiana della Cattedrale (cfr. foto 116, 117):
dato il lievissimo rilievo delle membrature agli spigoli, qui non si verifica la chiusura dei
riquadri sovrapposti.

L’espressione è compiuta indipendentemente dai pinnacoli e dalla


cuspide. In effetti, pinnacoli e cuspide non sono per alcun verso
legati alle membrature inferiori: non conferiscono loro uno sfogo
verticale, né le premono col proprio peso; sono figure quasi
autonome situate nell’atmosfera. Hanno però un immenso valore
urbanistico, e questo ne giustifica la presenza.
Il linguaggio rinascimentale non offre alternative ai pinnacoli e alle
cuspidi medievali, per l’evidente ragione che questi terminali a
impeto verticale tendono a rendere incommensurabili le dimensioni e
i volumi. Si è visto che lo stesso Rossetti rifiuterà la merlatura di
Schifanoia, cioè quel colloquio tra massa edilizia e cielo che è
un’istanza per lui ormai affatto bruciata. Ma a San Giorgio, se come
architetto ha concluso il suo compito nell’ambito della mole
prismatica, come urbanista è sensibile al valore insostituibile di
questi antichi elementi lessicali gotici, sia nelle vedute dall’interno
della città che nello scenario della campagna. Il dilemma sembra
insolubile: il fastigio ascensionale che serve all’urbanista per meglio
caricare il “fermo” oltre le mura, è ingrato all’architetto. Allora Biagio
non sceglie, non tenta di superare artificiosamente il dilemma
eliminando cuspide e pinnacoli, oppure collegandoli in qualche modo
ai partiti inferiori: con esemplare semplicità, espone le sue esigenze
e le armonizza senza velleità di integrarle. Così ottiene un’immagine
di raro equilibrio, in cui lo scatto ascendente delle visioni remote è
gradualmente contestato, fino ad annullarsi nell’assoluta razionalità
delle letture architettoniche ravvicinate.
CASA ROSSETTI

Più di ogni altro prodotto del periodo iniziale dell’operosità di


Biagio, la casetta che nel 1490 egli costruì per la sua famiglia nel
settore sud-orientale della città, vicino a San Giorgio, è significativa
della sua posizione culturale (cfr. foto 32-34). È una piccola
costruzione, ma compendia un lungo processo evolutivo dell’edilizia
domestica, e stabilisce un archetipo che rimarrà pressoché invariato
nei decenni successivi.

Due ipotesi e la soluzione. Il prospetto di casa Rossetti con le finestre situate al centro degli
ambienti. Poi, lo stesso prospetto con i binati rossettiani ripetuti nei due ordini. Infine, lo
schema realizzato (cfr. foto 32-34), coagulante i vuoti nel centro in funzione urbanistica e
libero da ogni rigidità compositiva nel piano terreno.

Le componenti e i termini della formazione di Biagio sono ormai


chiari, testimoniano la compresenza di un vernacolo popolare e delle
nuove istanze della cultura rinascimentale. Questa casa offre la
sintesi di tali termini: è colta e, insieme, popolare; soddisfa dunque le
due qualità per cui un linguaggio può diffondersi incarnandosi in
opere di poesia, letterarie e di prosa.
II sottofondo dell’edilizia ferrarese che si sviluppa lungo il corso
del Trecento e nella prima metà del XV secolo, mostra un carattere
improntato a stretta funzionalità e schivo da qualsiasi retorica (cfr.
foto 24-30). Non vi sono figure di artisti che impongano una
coerenza stilistica di tipo accademico (cfr. foto 30). La stessa casa
Romei, per esempio, benché commissionata da un ricco e ambizioso
mercante che vuol gareggiare per fasto con le più insigni magioni
della città, non risponde a un disegno unitario, ma è frutto di un
capriccioso incrociarsi di idee discordi, escogitate dal committente.
Nel programma edilizio di casa Romei il fattore pubblicitario limita il
dettato funzionale, ma questo invece informa sistematicamente, col
suo sano empirismo, le case dei poveri. Cade opportuno dunque
soffermarsi sul patrimonio dialettale che Biagio eredita, riordina e
accresce.
Sotto il profilo distributivo, la casa ferrarese anteriore
all’intervento rossettiano può essere definita in base agli esempi
superstiti: le case di Stella dell’Assassino, De’ Combi, dei Gambi in
via Ripagrande, quelle di via Carri e di via Cammello, quella con
portico in via San Romano 28-30, quella di via Carbone 15 e altre
meno interessanti. Sono organismi generalmente bloccati in cui gli
ambienti prospettano sul fronte e sul retro lasciando immuni da
aperture i fianchi. Nella disposizione planimetrica non si riscontrano
simmetrie. L’atrio è di regola spostato verso un lato dell’edificio:
comunica con una scala che spesso non prende luce dall’esterno, e
con gli ambienti del piano terreno, la cucina, la stanza per il bucato e
la “stanza del forno”. Nel piano o nei piani superiori: una serie di
piccoli vani tra cui si distinguono un salotto non molto vasto che
serviva anche per il pranzo, le camere da letto, una stanza per la
biancheria. Manca, salvo poche eccezioni, il cortile.
La struttura è in larga misura determinata dalla disponibilità dei
materiali. A Ferrara, città di pianura, non vi sono cave di pietra
naturale. I costi di trasporto dalle cave veronesi e istriane sono così
elevati da non poter essere affrontati per costruzioni ordinarie.
Questa condizione è comune anche a Bologna, ma l’edilizia
bolognese può disporre di ottimo legname, sicché si moltiplicano i
portici formati da travi e impalcature, gli sporti si avvantaggiano di
congegni di travi di legno e, negli stessi muri, si trova spesso uno
scheletro ligneo che è quello veramente portante. Solo più tardi,
quando a Bologna mattoni e cotto gradualmente sostituiscono il
legname, il che avviene a partire dal Duecento ma in modo intenso
nel XIV secolo, si sviluppa un vernacolo che influenza direttamente
Ferrara.
Il cotto costituisce infatti il materiale principe delle case medievali
ferraresi. I terreni argillosi del delta padano sono un’ottima fonte per
la sua fabbricazione, e la qualità finissima dell’argilla permette lo
stampaggio di qualsiasi ornato.
Tale è la morfologia dell’edilizia domestica ferrarese che Biagio è
chiamato a reinterpretare. Benché gli esempi di case medievali che
ci rimangono non siano numerosi, il loro carattere può essere
chiaramente desunto: planimetrie e sequenze spaziali libere da
qualsiasi rigidezza proporzionale, volumetria bloccata anche quando
si adottano i portici, netta prevalenza dei pieni sui vuoti con
l’eccezione delle forti zone d’ombra di via delle Volte, decorazioni in
terracotta per le cornici e le aperture che esaltano i muri di mattoni,
qualche commento in marmo di Verona o in pietra d’Istria nei
capitelli, nei bancali delle finestre o in lastre intercalate ai mattoni
(cfr. foto 26).
Che cosa accoglie o respinge Rossetti di questo patrimonio?
Salvo gli archi acuti e alcuni dettagli ornamentali, non ricusa nulla.
Accetta gli archi ribassati, naturalmente le finestre ad archivolto che
abbiamo visto adottate nel palazzo Schifanoia e le decorazioni in
cotto già largamente profuse nel campanile di San Giorgio, persino –
nel palazzo di Ludovico il Moro – il motivo dei camini aggettanti sulle
pareti. Ma questi coefficienti della morfologia ferrarese ordina con
nuovi criteri sostituendo alla empiria medievale un rigoroso senso
organizzativo degli spazi e creando un’originale struttura, tecnica e
formale insieme. Lo stesso rapporto tra architettura e decorazione è
capovolto rispetto ai precedenti gotici: mentre prima alle
dissimmetrie pittoresche si opponeva un rigido geometrismo degli
ornati, ora una visione della fabbrica improntata a un preciso
disegno è integrata da fantasiose decorazioni che addolciscono la
severità compositiva permettendo di cesellare pesci, testine,
cavallucci marini, piccoli rosoni e conchiglie concave, insomma tutti
quegli elementi che fanno dell’archivolto della porta di casa Rossetti
un lieto, vivace, mirabile capolavoro di artigianato e d’arte.
L’impianto planimetrico di casa Rossetti si fonda sulla tripartizione
longitudinale del blocco edilizio: nel mezzo, la sala passante si
affaccia sulla strada e sul giardino posto a sud, disimpegnando gli
altri locali; la scala, di cui si vedono i resti, è situata a occidente, con
ripiano fuori del prisma. Tale configurazione richiama subito gli
impianti delle case veneziane, anch’esse, sin dagli esempi
duecenteschi, divise in tre parti, con l’ambiente centrale prospiciente
sulla riva o fondamenta e sul cortile posteriore, e spesso con una
scala che fa corpo a sé.

Il corpo di disimpegno della scala sul fronte occidentale di casa Rossetti. Come è
testimoniato nei rilievi, di tale corpo restano evidenti tracce sull’attuale fianco dell’edificio.

Si sa che Rossetti, in qualità di architetto ducale, aveva ricevuto


l’incarico da parte di Ercole I di sistemare il palazzo estense a
Venezia – l’attuale Fondaco dei Turchi – e si era recato nella città
lagunare ripetutamente tra il 1484 e il 1488: tutto porta a inferire che
egli abbia tratto dai prototipi veneziani questo schema planimetrico
tripartito che non ha precedenti a Ferrara. Tuttavia il richiamo a
Venezia vale soltanto sotto il profilo distributivo e non coinvolge
l’architettura né strutturalmente né espressivamente.
Struttura essenziale della casa veneziana: una serie di diaframmi paralleli che conduce, nel
corso del processo costruttivo, al montaggio di membrature bidimensionali. La facciata-
schermo, caratteristica della città lagunare, ne è una conseguenza; in effetti, sottraendosi al
gioco statico, può ridurre al grado zero la componente materica.

A Venezia i quattro muri che tripartiscono il fabbricato sono i soli


portanti. L’involucro murario strutturalmente non esiste in quanto due
pareti, quelle del prospetto e del retro, non entrano nel gioco dei pesi
e delle resistenze, e possono quindi atrofizzarsi nelle trame di pietra
traforata. La concezione spaziale che ne risulta è tipicamente gotica:
i diaframmi longitudinali fugano le cavità verso gli esterni luminosi,
garantendo un’illimitata simbiosi tra casa e paesaggio. Di questa
visione non vi è nemmeno un ricordo in casa Rossetti. Qui lo spazio
è organizzato secondo precise e commensurabili “quantità”, definite
dal sistema costruttivo a volte ribassate che, scaricando il peso
mediante lunette sui muri, li impegna tutti nella funzione portante.
Non vi è centrifugazione spaziale: gli ambienti sono solidamente
racchiusi e, di conseguenza, i pieni predominano sui vuoti. Rispetto
alla tradizione veneziana Rossetti opera dunque una critica radicale,
che è poi quella dell’uomo della Rinascenza nei confronti degli
antecedenti medievali: articola secondo una metrica tridimensionale
l’organismo architettonico.
Malgrado le apparenti analogie, la struttura della casa ferrarese si differenzia
sostanzialmente da quella veneziana. Coinvolge tutti i suoi elementi nel gioco statico, non
agisce per setti o diaframmi, ma per unità tridimensionali. Anche in questo caso, Rossetti
razionalizza una metodologia progettuale già esplorata in modo asintattico.

Ma sorge il problema di qualificare questa metrica, di


personalizzare le quantità spaziali attraverso la disposizione delle
aperture, cioè attraverso la luce. Non solo: rinnovata la struttura,
occorre che essa trovi un’esplicitazione formale. Si tratta insomma di
elaborare un lessico, una sintassi, un linguaggio organicamente
legato ai contenuti funzionali. S’impone a Rossetti un originale sforzo
creativo, l’invenzione della casa ferrarese.
È intanto evidente che, se l’empirismo dell’edilizia domestica
medievale non può offrire più di alcuni vocaboli al nuovo discorso, le
soluzioni desunte da Venezia e Firenze non sono soggette a essere
assimilate. Venezia, come si è detto, ove si rifiuti il principio dei filtri
luminosi, non propone alternative. Quanto alla Toscana, il problema
che per vari decenni ha preoccupato gli architetti – quello di conferire
una terza dimensione alla facciata impegnandola nella nuova visione
prospettica – ha trovato soluzioni nella configurazione degli edifici
civili; ed è stato proprio L.B. Alberti, il maestro più conosciuto a
Ferrara, che nel palazzo Rucellai ha creato un sistema di emergenze
figurative dei divisori spaziali mediante la scansione di paraste
appena aggettanti sulla superficie esterna. Ma sia nello schema
albertiano che in quello, assai più fortunato nel Quattrocento, di
Michelozzo a palazzo Riccardi Medici, finestre e pieni sono
intercalati secondo un ritmo implacabilmente uniforme, e dividono il
blocco edilizio in una serie di “moduli” centrati da un’apertura. Ciò
implica la rinuncia a una qualificazione variata degli ambienti.
Biagio Rossetti non può accettare l’ordito toscano. Il suo
temperamento di operaio-costruttore, di uomo del popolo per il quale
gli apporti culturali devono subire un vaglio funzionale, gli rende
sospetto un sistema di finestrature che cela il reale organismo
dell’edificio dietro l’apparenza di una serie di stanze tutte uguali e
tutte dotate di una finestra al centro. Anche la soluzione albertiana
non gli appare convincente perché le paraste sono in fondo soltanto
decorative e quindi perfettamente sganciabili dall’ipotetica
rispondenza ai setti interni. Il valore di una “struttura figurativa”
indipendente da quella costruttiva e spaziale è scarsamente
apprezzato dalla mente pratica di Biagio. Egli intende imprimere un
ordine razionale al mondo edilizio ferrarese, ma non può ricorrere a
una regola compositiva come quella toscana che, ai suoi occhi,
appare non solo anelastica, ma irrimediabilmente formalistica.
Bisognava quindi inventare un nuovo sistema di proiettare le
strutture interne, e perciò gli spazi che esse delimitano, sul
prospetto, dando a esso logiche snodature. Una riflessione
funzionale suggerisce a Biagio la via. Le finestre centrali non
permettono di utilizzare bene la parete di facciata di un ambiente,
specie nelle case ferraresi dove su queste pareti sono spesso
collocati i camini. Occorre quindi sdoppiare le finestre lasciando nel
mezzo un ampio tratto di parete piena. L’operazione comporta anche
un altro vantaggio: man mano che le fonti di luce si approssimano ai
muri laterali, questi divengono specchi riflettenti, mentre l’ombrosità
centrale favorisce il senso di dilatazione dei vani. La soluzione ultima
è ormai definita: le finestre sono spostate a filo muro, col duplice
effetto di un’amplificazione dimensionale e di una varietà di vedute
panoramiche in ogni stanza.
Campo di visione panoramica in un ambiente con finestra centrale, e duplice campo di
visione offerto dal binato rossettiano. Scarto spaziale profondo poiché le pareti laterali sono
inondate di luce.

Il processo, partito dall’interno, è talmente organico da risolvere


quasi automaticamente il tema dell’articolazione della facciata.
Infatti, le finestre che stringono dai due lati i diaframmi murari
longitudinali ne mettono in immediato risalto gli spessori, secondo
una legge di “verità strutturale” che nemmeno Ruskin avrebbe
preteso più rigorosa. Va osservato che se i divisori delle cavità
interne e quelli estremi che chiudono l’involucro edilizio sono
denunciati in facciata, ciò non avviene per un gusto anatomico che
finirebbe nell’artificio: la denuncia non implica l’esposizione dei muri
in tutta la loro altezza. Se questo si verificasse, si dovrebbe
rinunciare a un prospetto consistente, staccandolo dall’organismo
edilizio, come a Venezia; oppure bisognerebbe incorniciare i settori
parietali tra paraste e marcapiani, come a Firenze. Ma la prima via è
preclusa dalla struttura a volte che, come si è visto, impegna
staticamente la facciata; e la seconda trova ostacolo nella
disposizione decentrata delle finestre e nella mancanza dei
marcapiani, tanto che sarà esplorata da Rossetti solo assai tardi, in
un lavoro “rappresentativo” e aulico, palazzo Roverella sulla
Giovecca.
Nella casetta, il ragionamento è molto semplice e riflette
l’esperienza di numerosi precedenti edifici locali – il più eloquente e
“puro”: la casa delle Vedove in via Mortara del 1401 – in cui si
registra lo stesso dispositivo nella distribuzione delle finestre (cfr.
foto 30). I muri di spina che si vogliono accusare in facciata non
sono elementi indipendenti; perciò, se emergono per indicare le
articolazioni interne, non debbono alterare l’unità plastica del
prospetto che sale compatto da terra fino al cornicione. Il rispetto del
tessuto murario è così impegnativo per Rossetti che egli favorisce lo
sfalsamento dei vuoti ovunque risponda a un dato funzionale: così il
fornice del portale è sovrastato da un pieno, le finestre ad arco
ribassato del piano terreno non sono allineate con quelle superiori
né disposte simmetricamente rispetto all’ingresso. Una volta fissata
la composizione del blocco con l’ordito sicuro delle grandi aperture
ad archivolto, gli altri elementi possono mantenere una libertà che
serve a sottolineare il continuum della stesura laterizia.
Si ricorderà che a Schifanoia, determinato il motivo-guida del
marmoreo portale innestato nel sistema delle quattro finestre del
piano nobile, tutto il resto poteva disporsi senza rigore di ricorsi. Qui
lo stesso metodo è applicato non sulla prospettiva stradale, ma
dall’alto in basso: il sistema cornicione-finestre superiori ha una tale
forza che la ripetizione delle stesse bucature al piano terreno ne
implicherebbe un’attenuazione. È l’orizzontalità invece che Rossetti
vuole affermare, e per questo sceglie per le finestre inferiori l’arco
ribassato la cui cornice, tagliata diagonalmente, non spezza, anzi
sottolinea la continuità muraria.
Casa Rossetti, malgrado l’alterazione dei prospetti laterali e del
retro, la distruzione del corpo della scala, la sostituzione del
cornicione nel restauro del 1910, segna l’inizio di una nuova era
nella storia dell’edilizia domestica ferrarese, maturando una versione
originale del linguaggio rinascimentale, che è imparagonabile a
quelle toscana, bolognese e veneta, e dà luogo a una “scuola”
degna di un più attento riconoscimento. Il lessico qui elaborato trova
immediate risonanze in una serie di case di via Vittoria, di via
Colomba 25, di via Saraceno 16, alcune delle quali applicano così
coerentemente la lezione rossettiana da poter essere attribuite, se
non al maestro, ai suoi diretti discepoli. E non si tratta di imitazioni
accademiche. Ognuna di queste case ha proporzioni, numero di
piani, configurazione diversi. Rossetti non ha offerto soluzioni formali
da plagiare, ma un metodo che concatena i vocaboli della tradizione
locale, e perciò ottiene la spontanea adesione dei costruttori e degli
artigiani. L’architettura colta non soffoca ma razionalizza, ravviva e
stimola i vernacoli popolari.
In tutto questo l’urbanista non entra? Senza dubbio, per tre versi.
Anzitutto per la scelta del lotto ubicato lungo un’arteria, allora
recente, dell’Addizione del duca Borso, via della Ghiara (attuale via
XX Settembre), e prospiciente una strada (l’attuale via Caprera) che
lo arricchisce di un profondo campo panoramico. In secondo luogo,
perché la composizione della casetta è disegnata in vista proprio
della provenienza da quest’ultima strada, ed è assimilabile per
successivi quadri: da lontano, appare il solo portale schiacciato dal
pieno superiore; poi, il portale con le due finestre ad arco ribassato
che lo serrano ai lati, e sopra le corrispondenti finestre di cui le
quinte viarie celano le sorelle di là dai muri di spina, e che risultano
quindi a filo delle pareti urbane; infine, il blocco nel suo insieme,
maestosamente definito dall’ordine del primo piano e del cornicione.

Dinamica visiva nell’apprendimento del-l’immagine di casa Rossetti. Dall’inizio di via


Caprera, appare la sola bucatura del portale, sovrastato da un muro pieno e dal cornicione.
Procedendo (cfr. foto 32), si forma un triangolo finestra-portale-finestra che punteggia di
vuoti l’intera altezza dell’edificio. Più avanti (cfr. foto 33), le finestre del primo piano si
tramutano in binati, mentre si evidenziano l’asimmetria e la casualità del partito al piano
terreno. Gli sguinci del portale sono allineati sull’asse della strada di fronte. Particolare
estremamente significativo: registrazione architettonica di un condizionamento urbanistico.

Vi è un ultimo particolare: le due strade che si incrociano non sono


esattamente ortogonali tra loro, e perciò lo sguincio del portale, se
fosse a squadro rispetto a via della Ghiara, apparirebbe anomalo e
sghembo dall’asse di via Caprera. Biagio non esita, allinea gli
sguinci del portale sull’asse della strada di fronte: più della
grammatica architettonica gli interessa la sintassi urbanistica, vuole
che la sua casa fino all’ultima modanatura si leghi alla città,
costituendo la coerente soluzione di un nodo viario.
OPERE MINORI

Nel periodo precedente il 1492, Rossetti si dedica a una copiosa


serie di opere di cui rimangono testimonianze documentarie o alcuni
frammenti. Non aggiungono molto al quadro artistico della
giovinezza del maestro, ma ne completano il ritratto professionale e
spiegano come mai, circa all’età di quarantacinque anni, gli venisse
conferito l’incarico colossale di riprogettare la città.
Sotto l’aspetto organizzativo, Rossetti acquista e matura le sue
capacità di dirigente espletando due funzioni pubbliche: quella di
addetto alla “munizione” dagli anni intorno al 1475, e quella di
“architetto ducale” a partire dalla morte di Benvenuti, cioè dal 1483.
Grazie alla prima carica, collabora alla soprintendenza delle
fortificazioni di tutto il ducato, si reca a Modena, Rubiera, Brescello,
Finale, partecipa in qualità di ingegnere militare alla guerra tra
Ferrara e Venezia del 1482-84. In virtù del secondo ufficio, è
responsabile dei lavori attuati nei palazzi estensi di Belfiore, di
Belriguardo, di Ghiara e di San Francesco, e compie, come già si è
ricordato, vari viaggi a Venezia. L’intera scena edilizia non di una
città, ma di uno stato con le sue ramificazioni extraterritoriali è prima
sotto la sua osservazione, poi sotto il suo controllo. A questa attività
si aggiungono inoltre altri incarichi che rientrano nel campo della
professione privata.
L’abside della chiesa dì San Niccolò (cfr. foto 35) rivela un grado
avanzato di assimilazione della tematica rinascimentale. L’architetto
si trovava a operare su un edificio preesistente, ma non ritenne
affatto necessario conformarsi al lessico medievale; al contrario, agì
in modo spregiudicatamente novatore. La tessitura muraria fu
scompartita mediante una serie di lesene concluse da una semplice
cornice che è commento lineare più che plastico.
L’abside di San Niccolò (cfr. foto 35) sembra avventarsi sull’organismo della chiesa. La
misurano maestose arcate su lesene sottilissime, dai capitelli atrofizzati.

Non si tratta di un “ordine” classico capace di corrodere o


atrofizzare espressivamente il muro riducendolo a mera funzione di
fondo. Qui il muro è già in se stesso parete, piano, lastra senza
profondità, srotolata a involucrare la cavità curvilinea dell’abside, e
perciò il partito rossettiano costituisce un’increspatura appena
affiorante della superficie, diretta a metterne in rilievo i valori
luministici e cromatici. Per ottenere questo risultato, il maestro deve
affrontare un problema lessicale “chiave”: la funzione del capitello.
Nella morfologia architettonica, il capitello è un luogo in cui il dialogo
tra luci e ombre si fa più concitato; a ragione, perché è l’elemento in
cui termina la colonna o il pilastro, e sul quale riposa la trabeazione.
Accogliendo anche sul terreno figurativo i pesi superiori per scaricarli
sui sostegni, il capitello, sin dalle sue edizioni più remote, sporge
come una piastra sulla lignea colonna primitiva, s’inarca nell’abaco e
nell’echino dorico, s’avviluppa nei cartocci ionici, s’innalza e si
arricchisce nel corinzio e, lungo la storia, registra tutte le più sensibili
trasformazioni del gusto; si profila a stampella nelle cripte e nei
campanili medievali, si astrae nelle trine bizantine, è rude nel
romanico, si ingentilisce naturalisticamente nel gotico, si razionalizza
nel Quattrocento. Ma comunque separa, divide, è un “nodo” tra
membrature eterogenee, orientate l’una orizzontalmente e l’altra
verticalmente, e pertanto riflette i “tempi” e i “toni” innumeri di un
vitale nesso sintattico su cui si concentrano l’intelligenza, l’abilità,
l’arte dei maestri; non vi è forse, nel lessico compositivo, un altro
“vocabolo” o “congiunzione” che permetta un così immediato
intendimento del discorso generale dell’edificio, e sia segno di un
gusto, di una personalità o addirittura di una singola immagine
architettonica. Ebbene, malgrado la dovizia degli esemplari di
capitelli nella morfologia storica, Rossetti non ne individuò alcuno
che servisse alla funzione richiesta in San Niccolò, dove non
occorreva separare, raccogliere e scaricare pesi, ma semplicemente
raccordare due membrature. Dovette perciò ideare un nuovo
capitello scrostando le decorazioni, appiattendo i profili anzi
riportandoli nei binari delle lesene, scarnificando ed
essenzializzando fino al punto di ridurre il capitello a emblema
metafisico di se stesso con un procedimento astrattivo che si arresta
solo dopo aver distrutto l’oggetto nella sua tradizionale consistenza.
Infatti, un capitello è formato da una piccola cornice, dal suo corpo
decorato e da un listello inferiore, ma qui rimangono soltanto cornice
e listello mentre scompare la sostanza plastica; le lesene si
prolungano fino all’imposta degli archi e le due modanature
orizzontali servono solo a rallentarne lo slancio. Che cosa implica
questa scrittura? È una riprova della volontà di integrità edilizia che
abbiamo già riscontrato più volte nella poetica rossettiana: la stesura
muraria è intangibile, può essere articolata, modulata, vibrata magari
fino al limite di una parete di diamanti, ma non mai infranta. L’abside
di San Niccolò con i suoi capitelli “astratti”, divenuti ombre di se
stessi, genera un elemento sintattico tipico e quasi permanente di un
idioma, e lo ritroveremo successivamente nelle più varie versioni, da
San Francesco alla Cattedrale. Qui è allo stato “puro”, in
atteggiamento iconoclastico, protestante rispetto all’intera
enciclopedia classicistica del Rinascimento. La posizione di Rossetti,
anche in questo caso, appare sottilmente critica: egli accetta la
“proporzione” rinascimentale ma ne sconvolge le membrature e i
rapporti statici; quando il classicismo scompone, egli riunifica
strutturalmente; per questa passione di integrità strutturale, dimostra
uno straordinario anticonformismo.
La loggia di piazza, se non vi fosse un documento del 1492 che
certifica l’intervento di Rossetti, potrebbe essere esclusa dal quadro
della sua produzione (cfr. foto 36). Frizzi ne indicò come autore un
misterioso Antonio Francesco Sardi che, alla luce dell’atto pubblicato
dal Campori, risultò un semplice intermediario. Ma l’equivoco non è
senza significato. Le rozze colonne sopravvissute all’incendio del
1532, con i loro capitelli insieme goticizzanti e classicistici, mostrano
un persistere di modi arcaici inspiegabile anche nell’ambito
dell’eclettismo rossettiano.

La loggia di piazza progettata da Rossetti risolveva, con un intervento modesto, quasi con
un arredo urbano, il problema del vecchio centro, conferendo significato allo snodo
determinato dall’albertiano “Arco del Cavallo” (cfr. foto 36). Il sistema è facilmente
comprensibile e, del resto, ben illustrato in una xilografia di Ferrara del 1499 (cfr. foto 44).
La loggia circuiva il palazzo estense, concludendosi nella “via coperta”. L’arco albertiano,
oggi mero ingombro, costituiva un essenziale diaframma tra due piazze.

È evidente che il maestro, tutto preso dai lavori dell’Addizione


erculea, seguì l’esecuzione dell’opera con scarso interesse. A parte i
dettagli, però, la loggia espletava una straordinaria funzione
urbanistica, che ci è rappresentata in una xilografia di Ferrara del
1499: unificava la parete del palazzo estense di fronte alla
Cattedrale e, prolungandosi a nord, formava con la porta del Leone
e l’arcivescovado uno slargo snodato sulla piazza. Connessa poi
all’albertiano “arco del cavallo”, giustificava questo “fermo”
prospettico cooperando al suo compito di conferire una chiusura
virtuale, e cioè valida figurativamente ma non ingombrante, al
discorso spaziale cadenzato su tre piazze. Camillo Sitte, se avesse
esaminato il problema di questa loggia, avrebbe certamente incluso
l’esempio di Ferrara nel suo famoso libro su L’arte di costruire le
città, poiché vi avrebbe trovato un’ulteriore conferma dei suoi
principi: “Uno spazio libero nell’interno di una città deve
principalmente il suo nome di piazza al fatto di essere ben delimitato
e chiuso e individuato. Oggi invece viene chiamato piazza anche
l’isolato vuoto, attorniato da quattro strade, sul quale si sia rinunciato
a costruire. Ciò può soddisfare dal punto di vista igienico e magari
da quello tecnico; ma dal punto di vista artistico, si tratta solo di un
lotto non edificato, non già di una piazza cittadina. Ben altro occorre
per attingere bellezza, significato, carattere: come vi sono camere
arredate e camere vuote, così potrebbesi ragionare di piazze ben
definite ed ordinate e di altre prive di qualsiasi sistemazione. La
condizione per le piazze, come per le stanze, è che tanto le une che
le altre siano ambienti delimitati e chiusi.” Ferrara ha scarsamente
inteso questa lezione nei secoli: dalla mancata ricostruzione della
loggia rossettiana alla truce definizione della piazza a fianco della
Cattedrale vi è stata una continua mortificazione degli “spazi” urbani
in “vuoti” e gli elementi dell’arredo cittadino hanno subito
deturpamenti e distruzioni.

Schema della riedizione rossettiana dell’antico centro di Ferrara. La loggia offriva lo


strumento di coordinamento degli spazi urbani, poneva in ordinato colloquio le tre piazze
adiacenti alla Cattedrale. La sua demolizione ha ricreato una smagliatura (cfr. foto 56).

La loggia di piazza è ormai muto rudere di un organismo che


possiamo immaginare risolutivo, con le sue dense ombre e la sua
plastica imponenza, nell’orchestrazione spaziale del nodo urbano più
delicato della vecchia Ferrara.
Queste “opere minori” del periodo giovanile potevano essere
esaminate secondo un criterio cronologico, inserendole tra i capitoli
riguardanti palazzo Schifanoia, il campanile di San Giorgio e casa
Rossetti. Avremmo così ottenuto una sequenza che, iniziando
intorno al 1470 con palazzo Schifanoia, sarebbe proseguita con il
palazzo per Teofilo Calcagnini del ’75 e forse con l’abside di San
Niccolò, i due interventi rodigini di San Bartolomeo e del palazzo
Roverella del 1474-76, la fontana in piazza delle Erbe del 1481, il
campanile di Santa Maria degli Angeli compiuto nel 1483 e quello di
San Giorgio terminato nel 1485, i lavori condotti nei palazzi estensi
di Venezia, Belfiore, Belriguardo, di Ghiara e di San Francesco nel
periodo 1483-85, i quattro archi di trionfo e la casa presso San
Niccolò del ’91, per concludersi infine con casa Rossetti e con la
loggia di piazza che impegnano il maestro nel 1491-92.
L’esposizione si sarebbe frantumata tra opere sicure e ipotizzate,
costruzioni criticamente leggibili e lavori di cui rimangono solo vaghe
notizie documentarie.
La “condizione” della critica rossettiana, va individuata anche nel
disagio di una ricerca filologica esperita su opere che spesso non
esistono più o sono irriconoscibili. I dati acquisiti durante gli spogli
d’archivio, se fossero riportati e commentati, turberebbero il discorso
critico con il solo effetto di uno sfoggio erudito. Non è questo che
occorre al riscatto della figura di Biagio Rossetti giovane, il cui
rilievo, sullo sfondo di una professione engagée oltre ogni dire, è
affidato all’intelligenza compositiva del palazzo Schifanoia e del
campanile di San Giorgio, e alla poesia colta e insieme popolare
della casetta di via della Ghiara.
PALAZZO SCHIFANOIA
Sorge su via Scandiana, arteria che dal vecchio nucleo medievale conduce alle mura sud-
orientali (cfr. foto 64). Rossetti vi lavorò, in varie riprese, per ventisette anni. Il suo primo
intervento è del 1466 quando collabora, in qualità di aiuto con Pietro Benvenuti dagli Ordini,
architetto ducale; l’ultimo è del 1493, anno in cui già ferve il cantiere dell’Addizione erculea.
Per un certo periodo, antecedente la costruzione della casetta in via della Ghiara (cfr. foto
32-34), Rossetti tenne studio in questo palazzo.
17. Il prospetto quale appare provenendo dall’abitato medievale. L’edificio basso a sinistra è
probabilmente quanto sopravvive del primo corpo della delizia costruita nel 1385 da Alberto
V d’Este. Nella parte orientale si nota un filare di archetti, residuo del fastigio a merli del
1391, anno in cui Alberto V fece ampliare la delizia. Il portale secondario proviene dal
convento di San Domenico e determina una stonatura nel tessuto laterizio del palazzo.
Anche negli ambienti interni si registra un processo additivo, corrispondente alle vicissitudini
storiche del palazzo; Rossetti non lo ha alterato forzandolo in un ordito rinascimentale ma,
fidando sul coagulo del portale e della sala dei Mesi, ha scelto di preservare “il modo del
narrare continuo” di genesi tardo-antica.
PALAZZO SCHIFANOIA
18. Scorcio della delizia, provenendo dalle mura orientali. Nel 1493 il palazzo fu prolungato
da questo lato di altri 7 metri, raggiungendo così la lunghezza di circa 105 metri.
19. Il portale prima dell’ultimo restauro, con le due spurie finestre al piano terreno. L’atrio
originario non prendeva luce dalla via Scandiana, ma dalla corte interna.
20, 21. Particolari del portale marmoreo, attribuito da alcuni a Francesco del Cossa, da altri
a Rossetti. Imbotte decorata; aggetto minimo sulla stesura laterizia di fondo.
22. Il portale, perno compositivo. La disposizione delle aperture nella facciata non risponde
ad alcuna legge proporzionale. Una volta stabilito l’asse costituito dal portale e dalle quattro
finestre del salone, il ritmo delle forature è flessibile ed episodico. L’ubicazione di questo
portale nell’ambito del prospetto va senza dubbio ascritta a Rossetti.
Posto nell’estremo settore sud-orientale di Ferrara, il campanile di San Giorgio segna un
“arresto” visuale nel panorama del nucleo medievale e dell’Addizione di Borso (cfr. foto 64).
Fu inaugurato nel 1485, in occasione della celebrazione della pace con Venezia, ma il
progetto risale agli anni intorno al 1473-75, quando l’Ordine degli Olivetani rinnovò la chiesa
chiamandovi a lavorare Cosimo Tura e Biagio Rossetti.
SAN GIORGIO
23. L’abside ripete nella sua limpida stesura laterizia, nelle lesene e nella disposizione delle
finestre un impianto rossettiano.
EDILIZIA FERRARESE PRE-ROSSETTIANA
24-27. Incrocio di via Carbone con via delle Volte; scorcio di via delle Volte; via delle
Vecchie vista dal fianco di San Francesco; casa di via San Romano 32-38. Il repertorio
medievale ferrarese offre a Rossetti un humus ricchissimo in cui calare le nuove esigenze
del mondo rinascimentale.
Nella prima metà del Quattrocento, il linguaggio medievale resiste ancora a Ferrara. Partiti
rinascimentali sono liberamente accostati a strutture caratteristiche del Trecento; ne
derivano episodi architettonici felici e talora grottescamente espressivi, come il cortile di
casa Romei (cfr. foto 28). Pietro Benvenuti dagli Ordini è l’architetto ducale sotto la cui
guida Rossetti fa il suo apprendistato, e che sostituisce alla sua morte, avvenuta nel 1483.
Ma l’anonima casa delle Vedove (cfr. foto 30) vale più dell’ibrido scalone (cfr. foto 31).
EDILIZIA FERRARESE PRE-ROSSETTIANA
28. Il cortile d’onore di casa Romei, databile intorno al 1445. Il vistoso monogramma in
terracotta è posteriore. L’edificio, già attribuito a Pietro Benvenuti dagli Ordini, è stato poi
ascritto a Pietrobono Brasavola.
29. Il campanile di Santo Stefano costituisce, insieme a quello albertiano del Duomo (cfr.
foto 116, 117), un precedente del campanile di San Giorgio: ne incarna la componente
locale rispetto a quella rinascimentale “importata”.
30. La casa delle Vedove in via Mortara 209-23 anticipa nella stesura muraria, nei camini e
nei binati delle finestre, elementi che Rossetti razionalizza trascrivendo il “parlato” ferrarese
in un linguaggio basato su una rigorosa coerenza formale. In fondo a via Mortara Rossetti
eleverà l’ultima sua opera, Santa Maria della Consolazione (cfr. foto 137-140).
31. Il “cortile nuovo” della Residenza Ducale, con la scala coperta di Pietro Benvenuti dagli
Ordini, terminata nel 1481. Una veduta dall’alto nella foto 116.
CASA ROSSETTI
Biagio realizzò il sogno di costruirsi una modesta casetta nel 1490. Quale ubicazione,
scelse via della Ghiara, dorsale dell’Addizione di Borso, l’arteria moderna della città (cfr.
foto 64).
32. Il lotto fronteggia una piccola strada, l’attuale via Caprera, sull’asse della quale
l’architetto allineò gli stipiti del portale. La disp osizione delle finestre è studiata in modo da
offrire successivi quadri prospettici ben definiti a chi proviene dal nucleo medievale.
33. Nel primo piano, il sistema delle finestre a filo di muro sancisce un elemento del
vernacolo ferrarese che rimarrà stabile nel linguaggio rossettiano. Risponde a ragioni
funzionali, costruttive ed espressive, poiché consente di porre un camino al centro della
parete degli ambienti, difende l’integrità del muro, inonda con luce radente i divisori
longitudinali e infine offre a ogni stanza due vedute panoramiche.
34. Il portale e il sistema delle finestre binate nei due piani della casa.
L’ABSIDE DI SAN NICCOLÒ
35. Ideata probabilmente intorno al 1475, quando fu rinnovata la chiesa, ma completata
solo nel 1499, la “cappella grande” di San Niccolò prelude all’abside della Cattedrale (cfr.
foto 116-118). La strada che si vede a destra è via Colomba.
LOGGIA DI PIAZZA
36. Dall’“arco del cavallo”, attribuito a Leon Battista Alberti, si staccava la loggia che,
prolungandosi a nord, configurava uno slargo tributario di quello a fronte della Cattedrale
(cfr. foto 44).
PARTE SECONDA
IL PIANO REGOLATORE ERCULEO
IL DISEGNO URBANISTICO

Nell’estate del 1492 Biagio Rossetti apre i cantieri dell’Addizione


erculea. Ancora giovane, è un artista di consumata esperienza in
campo urbanistico. Operando entro l’antico insediamento ferrarese
ha avuto agio di intendere in ogni sua piega il rapporto tra edifici e
città: ha composto palazzo Schifanoia in funzione dell’asse di via
Scandiana; ha innestato l’alta mole absidale di San Niccolò
nell’angusta maglia medievale intorno a via Colomba; ha appreso il
valore di alcuni riferimenti verticali nel paesaggio elevando il
campanile di San Giorgio; la nuova dimensione delle città
quattrocentesche e la poetica delle loro fughe prospettiche, le ha
vissute nell’Addizione di Borso, costruendo in via della Ghiara; e
infine ha ridisegnato il “cuore” della vecchia Ferrara progettando la
loggia di piazza di fronte alla Cattedrale. La sua biografia, fino a
circa quarantacinque anni, prepara dunque all’atto epico
dell’Addizione erculea.
È un atto così grandioso da travolgere la misura degli eventi che
gli storici dell’urbanistica rinascimentale sono usi a considerare: da
qui gli accenni, “summa cum laude”, che troviamo ripetuti in ogni
testo; da qui l’effettiva incomprensione. Per mostrare fino a qual
punto la storiografia ufficiale abbia sottovalutato o male interpretato
l’opera di Biagio Rossetti, basterà citare due nomi illustri: Gustavo
Giovannoni e Pierre Lavedan. I brevi passi che essi dedicano
all’Addizione erculea rivelano non tanto uno scarso interesse per la
figura del suo architetto, quanto una mancata intelligenza per la
stessa fenomenologia del pianificare urbanistico in scala moderna.
Ciò che avvince gli storici tradizionali non è l’organismo urbano
nel suo complesso, ma i singoli episodi che lo formano: le
fortificazioni e specialmente le piazze e il loro arredo. La mentalità di
Camillo Sitte domina tuttora impedendo di risalire dagli effetti alle
cause, cioè dai complessi architettonici ai piani regolatori. E poiché
spesso nel Rinascimento le sistemazioni di nuove piazze e strade
sono realizzate senza un’organica alterazione dell’impianto urbano,
si conclude che in esse consiste il vero apporto di quell’età. Ferrara
è un’eccezione, dacché il significato del piano trascende quello delle
sue parti? Quando se ne tiene conto, la si descrive sommariamente,
quasi in parentesi. Rossetti non è un teorico paragonabile a Filarete
o a Francesco di Giorgio Martini? La sua figura di urbanista
moderno, concreto e impegnato, irrita o almeno non ispira.
Giovannoni, accennando al programma di spostare il centro della
città nell’Addizione, giudica: “il tentativo non poté dirsi riuscito”. Qui
risalta l’equivoco. Un piano è una previsione correlata ad alcune
condizioni politiche, economiche, sociologiche; la sua validità è
riscontrabile in base alla permanenza e allo sviluppo di queste
condizioni. Se il programma di accrescimento demografico concepito
da Ercole I si fosse realizzato senza il trasferimento del centro
urbano nella città nuova, sarebbe giusto affermare che il tentativo
non riuscì. Ma è accaduto l’inverso: il piano politico non fu attuato e
perciò il centro di Ferrara rimase intorno alla Cattedrale e al Castello.
Quando però, per ragioni affatto diverse da quelle sognate
dall’estense, si è verificato un forte incremento demografico ed
edilizio, l’incapacità del vecchio centro ad assolvere le sue funzioni è
emersa in forma palese, e il piano elaborato da Rossetti quattro
secoli e mezzo prima ha offerto l’unico antidoto efficace alla paralisi
urbana. Dunque, anziché parlare di tentativo non riuscito, va
riconosciuto che il piano fu così lungimirante da proporsi ancor oggi
attualissimo.
L’Addizione non è servita che a tranquilli e nobili quartieri
residenziali? Non è poco se si immagina cosa sarebbe avvenuto a
Ferrara qualora, senza lo sfogo dell’Addizione, tutta la popolazione
si fosse addensata nel nucleo vecchio e nelle sue limitate propaggini
a sud e a ovest. La constatazione di Giovannoni costituisce semmai
una riprova della bontà del piano rossettiano: esso non ha imposto
una soluzione tale da dover essere attuata subito nella sua
interezza, oppure abbandonata. La sua elasticità, la sua adattabilità
a condizioni politiche e demografiche diverse ne attesta l’intelligenza
polivalente.
Né la più vasta previsione ha mortificato la città modesta:
percorrendo i viali dell’Addizione, anche nei tratti non racchiusi da
edifici, nessuno ha mai provato un senso di smarrimento, di
agorafobia, di solitudine infastidita. Al contrario, la “misura”
dell’Addizione è parsa così suggestiva da spingere a invocarne la
totale salvaguardia.
E non è questa la dimostrazione definitiva che si tratta di una
delle rarissime opere d’arte urbanistiche della storia? Infatti ciò che
distingue queste opere è proprio la loro duttilità, la possibilità di
crescere nel tempo e di inverarsi in successive immagini.
Un’architettura, una volta realizzata, costituisce un’operazione
chiusa e, se è opera d’arte, qualsiasi alterazione la deturpa. Lo
stesso accade per i complessi architettonici, piazze strade quartieri:
la semplice ipotesi di trasformare piazza dell’Annunziata a Firenze,
quella della Cattedrale a Pienza o piazza San Marco a Venezia
incute raccapriccio e angoscia poiché siamo di fronte a
rappresentazioni poetiche compiute. Ma una città è un processo che
si esprime nel suo farsi dinamico attraverso i secoli. L’arte
urbanistica consiste nell’ideare questo processo, nel predisporlo e
nell’orientarlo in guisa tale che in ogni sua fase si traduca in
un’immagine personalizzata, irripetibile, esteticamente conclusa,
eppure suscettibile di nuovi apporti, di ampliamenti e contrazioni.
Come e assai più di uno spartito musicale o di un copione
cinematografico, il piano di una città esige interpreti e trascrittori, i
quali possono in ogni momento tradire la concezione originaria,
sminuirne la tensione, ostacolarne lo sviluppo. Si potrebbe dire che a
un urbanista occorra, tra molte altre qualità, anche una buona dose
di fortuna, poiché la sua ispirazione deve essere compresa,
condivisa e concretata dai posteri per varie generazioni. Ma la
fortuna dipende anzitutto dalla forza dell’intenzione artistica iniziale:
dalla resistenza cioè che il piano oppone, per la sua intrinseca
coerenza, a chi vuole insidiarlo e, insieme, dal suo grado di ricettività
nei confronti dei contributi edilizi che lo integrano nel tempo. Se il
suo schema è troppo rigido e artificiale, resta sulla carta come
Sforzinda di Filarete e innumeri altre “città ideali” della Rinascenza;
nei casi in cui viene realizzato, come a Palmanova, Grammichele e
Avola, Charleville, Henrichemont o Saarlouis, non ammette sviluppi
dinamici. All’inverso, se lo schema è troppo elastico e, in omaggio
alla “spontaneità”, si arrende a ogni intervento, la struttura stessa del
piano è annientata, e la sua idea originaria rientra in quella cronaca
di “ipotesi”, di “intenzioni”, di velleità di cui è intessuta tanta parte
della storia urbanistica.
Ferrara è, in tal senso, un unicum. Il piano di Biagio Rossetti ne
configurò la struttura e il volto per secoli. La sua trama rimane ancor
oggi quella che l’architetto creò nel 1492 costruendone alcuni brani
fondamentali. Ripercorrerne la genesi ed esaminarne le fasi significa
affrontare, attraverso Ferrara, un problema cardinale e attualissimo:
la realtà della fenomenologia urbanistica, la sostanza del mestiere
stesso dell’urbanista, il valore della città in quanto opera d’arte.
Agli inizi del XIII secolo, Ferrara risulta un insediamento
sviluppato in lunghezza per circa un chilometro tra i due castelli, e
profondo quasi la metà (cfr. foto 37). Fuori del nucleo principale
rimanevano a ponente l’isola del Belvedere, a levante il polesine di
Sant’Antonio e la punta di San Giorgio stretta dai rami del Po di
Volano e del Po di Primaro. La città era attraversata da tre arterie nel
senso della lunghezza: via dei Sabbioni congiungeva le roccheforti e
la chiudeva a nord; via Ripagrande, scorrente lungo il fiume, la
definiva a sud; via delle Volte fungeva da complemento a via
Ripagrande. L’aggregato, che si suppone di circa 15.000 abitanti, era
seghettato da corsi d’acqua il maggiore dei quali, il canale di Santo
Stefano, lo tagliava in due parti. Gli antichi nomi delle strade e degli
spiazzi testimoniano il carattere anfibio dell’impianto urbano: si parla
di “fondi”, il più grande dei quali era il Fondo Bagnolo, e di vie
collegate a canali quali via Boccacanale, via Gorgadello, via
Buonporto. Anche la via Voltapaletto si pensa derivi il suo nome da
un dispositivo che regolava le acque. Nell’ottima planimetria redatta
dal comune nel 1958, sono segnati i capisaldi della Ferrara del XII
secolo: il Castrum Ferrariae o Castello dei Cortesi, Castel Tedaldo,
l’isola del Belvedere, via dei Sabbioni, via Grande o Ripagrande,
l’antica piazza, il Pratum Bestiarum, l’isola di Sant’Antonio e infine il
monastero di San Giorgio.
Nel 1135 ha inizio la costruzione del Duomo, che si protrae fino
alla prima metà del XIV secolo. Il sorgere del monumento attesta il
rigoglio della città e ha organiche conseguenze urbanistiche: la
piazza attrae, per così dire, la maglia viaria preesistente conferendo
nuovi orientamenti alla sua tessitura. Si formano varie strade
convergenti verso la Cattedrale: l’attuale via Porta Reno, via di San
Romano, via Vittoria, via Vignatagliata, e altre. A nord, fuori di via dei
Sabbioni, era cresciuto un borgo accentrato nell’odierna via Cairoli:
la pressione esercitata dalla piazza spinge ad assimilarlo e a
predisporre una cinta di mura settentrionali. L’aggregato medievale
di Ferrara acquistò allora l’aspetto che fondamentalmente conserva.
Il nuovo centro della città assunse presto funzioni, oltre che
religiose, politiche e commerciali. Di fronte alla Cattedrale fu
edificato il palazzo del Signore che, compiuto nel 1283, rimarrà
dimora degli estensi. Sulla piazza del mercato, a fianco del Duomo,
si affacciavano la sede delle corporazioni, i magazzini e le bettole.
Nella seconda metà del XIV secolo il “cuore” urbano di Ferrara
appare definitivamente configurato.
Incontriamo a questo punto il primo documento grafico originale:
la carta itineraria del territorio ferrarese redatta nel secondo quarto
del XIV secolo a uso della navigazione commerciale padana (cfr.
foto 38-40). Essa conferma le testimonianze scritte, poiché include la
Cattedrale (“Episcopium”), palazzo della Ragione (“Palatium
Communitatis”), la residenza dei marchesi estensi (“Marchicenus”),
la porta del Leone (“Porta Leonis”) e la chiesa dei Frati Minori
(“Minores”), cioè la prima San Francesco. Il Borgonuovo di cui si è
detto, a nord del Duomo, appare già integrato entro la cinta muraria.
A ovest, fuori del recinto fortificato, si estende il Borgo di Sopra,
limitato da un fossato e dominato dal Castel Tedaldo.
Sorge qui il problema della cosiddetta “Addizione Adelarda” che,
nella pianta di Borgatti, è contrassegnata da un tratto di mura che
congiunge la porta del Leone al Canton del Follo, eliminando il
cuneo triangolare compreso tra questi due punti e via delle Vecchie
(cfr. foto 45). È datata dall’autore “verso il 1135”. Ma nella veduta
attribuita a Bartolino da Novara, supposta del 1338 e però, per la
presenza del Castello, certamente posteriore al 1385, il cuneo
triangolare appare assai meno esteso, essendo delimitato dalle torri
di Sant’Agnese del Terraglio e di Santa Maria in Vado, e dal Canton
del Follo (cfr. foto 41, 42). Probabilmente Borgatti fu tratto in errore
da un altro alzato ascritto a Bartolino e datato 1374, riprodotto
intorno al 1390 nella “Genealogia dei SS.ri Estensi di Mario Equicola
proseguita da Antonio Isnardi” in una versione assai poco attendibile
come dimostra, da un lato, l’assenza del Castello e, dall’altro,
l’inclusione del polesine di Sant’Antonio entro le mura, che fu invece
realizzata soltanto nel 1451.

Ferrara nel XIV secolo, estesa a est per annettere il Borgo Vado. A sud, il polesine di
Sant’Antonio è difeso da una linea fortificata. Appartiene a questo secolo la Carta itineraria
conservata nella Biblioteca Vaticana, che costituisce il primo documento grafico originale in
cui è indicata la struttura urbana (cfr. foto 38-40).

La trascrizione elaborata da Frizzi della prima veduta di Bartolino


costituisce un’ulteriore confutazione dell’interpretazione di Borgatti.
Volendo tuttavia comporre questi documenti, si potrebbe pensare a
una Addizione Adelarda operata in tre tempi: 1) la costruzione a nord
di una cinta muraria, conseguenza del sorgere della piazza della
Cattedrale; 2) un primo spostamento dei confini urbani derivante
dall’edificazione di un tratto di mura rettilineo dalla porta del Leone
alla torre di Sant’Agnese e di un braccio diagonale congiungente
quest’ultima con la torre di Santa Maria in Vado; 3) la continuazione
del rettifilo murario dalla torre di Sant’Agnese al Canton del Follo,
con l’eliminazione della rientranza del Pratum Bestiarum, attuata più
tardi dal marchese estense Nicolò II, in seguito alla costruzione del
Castello intrapresa nel 1385. Va aggiunto che, tra il 1316 e il 1325, il
Borgo Vado, cioè la zona orientale più vicina al nucleo fortificato, fu
annesso alla città.
Il Castello, la rettificazione delle mura settentrionali, l’inclusione
nella città del triangolo dell’antico Pratum Bestiarum portarono alla
formazione di via di San Francesco (oggi via Savonarola), cardine
del quartiere quattrocentesco delimitato dal corso Giovecca e
dall’attuale via Ugo Bassi.

La città nella prima metà del XV secolo, dopo l’annessione del Borgo di Sopra situato a
ovest, e la rettificazione delle mura settentrionali. Le due nuove arterie sono la strada di
San Francesco e via Scandiana (cfr. foto 17-18).

Nel 1451 l’Addizione del duca Borso aggrega alla città il polesine
di Sant’Antonio. La strada tracciata sul canale interrato è via della
Ghiara dove Biagio Rossetti costruirà la sua preziosa casetta:
fautore del nuovo, sceglierà l’arteria più moderna della Ferrara
quattrocentesca.
Ferrara dopo il 1451. Le mura meridionali sono state dilatate per includere il polesine di
Sant’Antonio. La dorsale dell’Addizione di Borso è via della Ghiara, dove Rossetti
costruisce la sua casetta (cfr. foto 32-34). Si confronti con la situazione urbanistica indicata
nella pianta di Bartolino da Novara del 1385. Risale al 1499 l’Alzato di Ferrara conservato
nell’Archivio di Stato di Modena (cfr. foto 44).

Infine, il celebre “Alzato” della Biblioteca Estense di Modena


rappresenta il centro urbano nel 1499: vi appare la loggia di piazza
progettata da Rossetti negli anni immediatamente precedenti l’inizio
dei lavori del nuovo piano regolatore (cfr. foto 44).
Giungiamo così all’età di Ercole I d’Este. La storia urbanistica di
Ferrara s’incarna nella biografia di un artista. Sin qui è stata una
cronaca faticosa, irta di passaggi oscuri e di congetture: ora diviene
un atto creativo. La vicenda muta registro. Fino a Biagio Rossetti la
formazione della città avviene a scatti, per episodi successivi che
non hanno un intimo legame artistico, ma riflettono eventi politici
militari ed economici nel trapasso dalla società comunale alla
Signoria (cfr. foto 47-51). Una serie di capitoli urbanistici giustapposti
attraverso addizioni parziali, spesso contingenti. Ferrara poteva
rimanere nella struttura del XII secolo, con un corpus fatto di acque,
traghetti e ponti, come Comacchio; o poteva svilupparsi come
Venezia, mediante ingrandimenti consecutivi e perciò memori del
continuum tardo-antico. Sarebbe stata una città affascinante, ma
solo una variazione nella ricchissima enciclopedia urbanistica
dell’Evo Medio.
La suggestione che proviamo peregrinando per le vie della
Ferrara medievale, via delle Volte via Voltapaletto via Boccacanale e
venti altre, e la nobiltà che promana da via Scandiana o da via della
Ghiara non possono distrarre dall’intendere che l’Addizione erculea
costituisce un evento fenomenologicamente diverso, che segna
appunto la distinzione tra l’urbanistica antica e moderna. Nella
prima, lo sviluppo cittadino coincide con quello edilizio, sì che
sarebbe assurdo immaginare una via Fondobanchetto o una via
Buonporto come semplici tracciati stradali, senza la terza
dimensione delle case; nella seconda, invece, è proprio il piano che
vale, e le architetture hanno anzitutto un significato in funzione della
definizione del piano.
Il programma dell’Addizione erculea derivò da una serie di motivi
politici, economici, militari e psicologici.
Sotto il profilo militare, l’impresa fu dettata dall’urgenza di
costruire a settentrione una linea difensiva più lontana dal centro
urbano. Durante la guerra con Venezia del 1482-84, Ercole era stato
costretto a sbarrare la via al Castello facendo erigere un terrapieno
che si estendeva in cerchio da via della Rosa (ora via Armari) fino a
San Guglielmo (attuale via Palestro); ma tale dispositivo di
emergenza lasciava scoperti e indifesi, specie dopo la cessione del
polesine di Rovigo, il Barco e le delizie e i borghi sorti oltre le mura,
di là dalla fossa della Giovecca.
I motivi politici ed economici si riassumono nell’ambiziosa
prospettiva di un forte incremento demografico. Sin dal 1480 un folto
gruppo di ebrei emigrati dalla Spagna era venuto ad accrescere la
popolazione dei borghi situati presso la porta San Biagio, attorno a
San Guglielmo e alla porta del Leone (Borgo San Leonardo). Oltre
l’attuale via Cittadella, a ovest, era sorto il convento di San Gabriele;
più lontano, il palazzo di Belfiore e la Certosa; infine a nord-est,
come si è accennato, si estendeva il “barchetto”, parco di delizie e
riserva di caccia e pesca del duca. Il territorio dell’Addizione erculea
era quindi già popolato ma, nella guerra con Venezia, si era visto
quanto fosse agevole per il nemico occuparlo. Il miraggio politico di
Ercole fu di accrescere l’immigrazione, di rendere Ferrara una città
numericamente forte e, di conseguenza, di determinare
un’espansione della sua economia di scambio. Per ottenere lo
scopo, non si poteva però ammettere una dilatazione
pluridirezionale, a macchia d’olio, un insinuarsi di borghi poveri tra
monumenti pregevoli e attrezzature principesche. Bisognava
pianificare la città nuova includendo l’immensa area a settentrione
nell’ambito urbano.
Qui s’innesta la spinta ideologica, la brama di rivaleggiare con
altre città che si venivano arricchendo di splendide chiese e di
sontuosi palazzi, e ancora il desiderio delle famiglie nobili di non
vivere più nelle anguste e tortuose vie della maglia medievale. Si
aggiunga una componente d’indole psicologica: occorreva
impressionare il popolo con parate militari lungo regali rettifili. E
infine, un dato riguardante le differenze di classe: in una strada
medievale si procede generalmente a piedi, il ricco vicino al povero;
ma nelle arterie rette la strada è di chi va a cavallo, e chi va a piedi si
scosta e sta a guardare. Il trapasso dall’economia comunale a quella
mercantile imperniata su un’oligarchia di privilegiati trova qui la sua
cristallizzazione visuale.
Questo, nelle sue linee salienti, il programma. Ma vi erano cento
modi di inverarlo, nel quadro di uno stesso programma politico-
economico le interpretazioni urbanistiche sono plurime. È facile
tracciare un elenco dei principali errori in cui sarebbe potuto cadere
Rossetti pur compiacendo il suo committente e forse, anzi,
soddisfacendone meglio gli istinti e le ambizioni:
a) in primo luogo, avrebbe potuto concepire una città nuova
totalmente distaccata dall’antica sotto il profilo della “forma urbana”.
La dimensione del nuovo territorio era tale da giustificare la
costruzione di una città ideale, avulsa dall’abitato preesistente e
raccordata a esso, funzionalmente, da alcune arterie. Quale
architetto del Rinascimento avrebbe avuto l’umiltà e il coraggio di
rinunciare a legare il suo nome a una città a schema rigido, a stella,
a perimetro ottagonale, o a scacchiera regolare? Tutta la trattatistica
dell’epoca mirava a questi schemi ideologici, graficamente
memorabili, tali da far testo, da essere tramandati, ripetuti, per
generazioni e generazioni. Rossetti deve la sua immortalità al gran
rifiuto di adottare una delle città ideali teorizzate nel suo tempo, e
all’impegno di inventarne una reale. Ma pagò la sua grandezza al
caro prezzo della celebrità e della fama. L’Addizione erculea non può
essere riportata nei manuali di urbanistica come esempio di una
“forma-tipo”: per intenderne le ragioni, occorre studiare la storia dello
sviluppo di Ferrara e individuare l’aderenza del nuovo all’antico;
capire un processo, e non solo un bel disegno. In una disciplina
come l’urbanistica, per secoli soffocata entro una mentalità fondata
su archetipi scolastici, questo è un grave difetto;
b) una volta deciso di ricollegarsi al vecchio nucleo, l’architetto
avrebbe potuto redigere un progetto incentrato sul Castello e quindi
sulla piazza della Cattedrale. Situato sul lembo nord della città
medievale, il Castello poteva costituire il baricentro ideale di una
forma urbana disegnata a raggiera, con strade che dalle varie porte
delle mura dell’Addizione adducessero al cuore cittadino.

L’Addizione erculea con i raccordi del suo tracciato stradale al vecchio nucleo. Oltre le
piante Tipo del Prisciani (cfr. foto 43, 45), documentano questi raccordi l’incisione di Matteo
Florimi Formis del 1598 (cfr. foto 47) e la pianta disegnata da Giovanni Battista Aleotti (cfr.
foto 48). Del resto, la loro fondamentale importanza è evidenziata nelle foto aeree (cfr. foto
56), specie per quanto riguarda via della Rosa, oggi via degli Armari, che prolunga nella
maglia rinascimentale la curvatura di via Boccacanale, saldando i due settori urbani.

Anche in questo caso, avrebbe avuto maggior fortuna poiché, vicino


a Sforzinda di Filarete, alle planimetrie di Francesco di Giorgio
Martini, agli schemi dei trattatisti del Cinquecento, ogni manuale
avrebbe riportato Ferrara immobilizzata in un tracciato viario a raggi
partenti dal Castello. Dall’alto delle sue torri, il Signore di Ferrara
avrebbe dominato con lo sguardo i rettifili fuggenti verso le porte, e si
sarebbe sentito padrone assoluto, despota della sua gente.
Appagato l’estense, immortalato Rossetti, Ferrara avrebbe però
scontato le conseguenze di due ambizioni. Il suo sviluppo nei secoli
sarebbe stato paralizzato come è accaduto in ogni città
monocentrica;
c) nell’ambito territoriale dell’Addizione, Rossetti avrebbe potuto
creare una gerarchia di arterie stradali tale da differenziare quelle
rappresentative da quelle residenziali. Avrebbe, tra l’altro, accolto i
suggerimenti di L.B. Alberti che distingueva le “viae militares”, larghe
e diritte, dalle secondarie che voleva ondulate e serpeggianti
affinché risultassero più lunghe visualmente e più varie nelle
successive apprensioni prospettiche. Un dispositivo del genere
avrebbe però prodotto una città antifunzionale e reazionaria, molto
simile a quelle derivate dagli sventramenti rettilinei nei tessuti
medievali. Rossetti sarebbe stato un Haussmann con tre secoli e
mezzo di anticipo, con tutti i difetti dell’urbanista parigino e senza i
suoi pregi. Infatti il piano di Haussmann derivò dagli squarci inferti
nella vecchia maglia urbana e dall’edificazione dei nuovi fronti
stradali. A Ferrara si sarebbe verificata una situazione analoga ma
capovolta: non già sventramenti operati nella trama dei tuguri, ma
creazione di questi ultimi alle spalle di arterie imperiali spesso non
edificate.
Nell’evitare questi tre errori consiste la “scelta” rossettiana. E se
ora si passa all’analisi di ciò che egli fece, si constaterà come, in
ogni particolare del suo piano, egli sveli la preoccupazione di non
cedere a due opposti richiami: il razionalismo astratto e l’empirismo
banale, la volontà ostinata di predeterminare l’intero assetto urbano
in ogni dettaglio e, all’inverso, la pigra fiducia in una sua crescita
“spontanea”.
Il comprensorio da pianificare fu determinato dal disegno della
nuova cinta muraria che, partendo a ovest dalla vecchia porta San
Marco, venne a includere tutti gli agglomerati esistenti a nord della
città per ricongiungersi infine, dopo un percorso di tre miglia, al
Canton del Follo. Esamineremo questa linea difensiva, e il suo
significato nella storia delle fortificazioni. Qui importa notare che
essa non fu dettata da considerazioni formalistiche, non volle
designare una figura geometrica semplice, ma seguì organicamente
il perimetro delle località che occorreva aggregare e i conseguenti
suggerimenti topografici. Ciò conferì all’Addizione una consistenza
figurativa singolare. Le mura, per il loro andamento spezzato e per la
loro geometria irregolare, non costituirono una chiusura opprimente,
un contenimento di tale preponderanza da governare la struttura
urbanistica interna. Quando Rossetti fissò le due arterie principali, la
spina di via degli Angeli (l’odierno corso Ercole I d’Este) e la
trasversale detta dei Prioni (corso Porta Po, già via di San
Benedetto, e oggi corso Biagio Rossetti; e corso Porta Mare), non si
preoccupò minimamente della loro perpendicolarità rispetto alle
mura in cui si concludevano. Con piccole rettifiche avrebbe potuto
far sì che via degli Angeli trovasse al suo limite una parete
ortogonale, conclusione monumentale della sua fuga; o che le due
porte di San Benedetto e di San Giovanni Battista, alle estremità di
via dei Prioni, fossero allineate sul suo asse. Non volle, per una
ragione sottile e geniale: qualora si fosse giunti a una perfetta
consonanza tra maglia stradale e circuito murario, lo spazio
dell’Addizione in ogni punto avrebbe sofferto della presenza
dominante dei suoi limiti fortificati: i rettifili si sarebbero spezzati
contro imponenti barriere statiche, e il loro tracciato sarebbe apparso
funzione delle mura e delle strade esterne, non del disegno proprio
della città. L’architetto volle invece un piano libero e dinamico,
enucleato sull’abitato e dotato di una forza centrifuga tale da legare
organicamente l’intero territorio. La trasversale di via dei Prioni è
pressoché parallela alle mura estreme del Barco del Duca, ma la
distanza rende il fortuito accordo inapprezzabile. Ciò che invece si
nota, e specialmente si sente e si esperimenta, è il fenomeno
inverso, la mancata consonanza astratta tra il guscio e il contenuto
dell’Addizione. Ogni strada, dalle maggiori alle secondarie, anche
quando si imbatte nelle mura non si conclude in esse, poiché la loro
obliquità rimanda a nuove prospettive, induce a scoprire nuovi brani
di una visione spaziale. Le direttrici lineari insomma, anziché
costituire episodi finiti, sfociano sulle diagonali, si traducono in
dimensioni figurative varie e spesso sorprendenti, quasi a dimostrare
che nessuna strada, nemmeno il cardo e il decumano, è autonoma
rispetto al complesso urbano. Anche per questo, l’esame o meglio
l’intendimento dell’Addizione è lento e difficile: il turista frettoloso che
percorre i due corsi e si inoltra al massimo fino alla Certosa non
potrà mai possederne l’essenza; occorre un’assidua frequentazione
per capire l’energia di un discorso indissolubile in capitoli e frasi e
parole.

Arterie viarie e mura dell’Addizione erculea non sono ortogonali fra loro. Ciò è visualmente
rilevante, perché le strade terminano con inviti pluridirezionali.

Tale carattere è soprattutto dovuto al continuo dialogare tra il modulo


ortogonale delle strade e l’andamento descrittivo e naturalistico della
cinta muraria.
Giovannoni, come si è visto, rimprovera a Rossetti di aver
ipotizzato uno spostamento del centro urbano che non si è verificato
nemmeno dopo oltre quattro secoli. Ma se l’architetto lo avesse
voluto a ogni costo, tanto per soddisfare una sua vanità, avrebbe
creato una piazza all’incrocio delle due arterie principali, invece di
spostarla a levante lungo la trasversale. Una piazza ubicata a un
terzo di via degli Angeli avrebbe attratto le attività commerciali
sostituendo o almeno alleggerendo il vecchio centro. Però Rossetti
non volle: perché tale piazza avrebbe provocato il fallimento del
piano riducendolo a un semplice, seppur grandioso, complesso
architettonico disteso lungo un’arteria e culminante in uno slargo
monumentale. Intorno ci sarebbe stato il deserto, oppure uno
sviluppo casuale di quartieri e fabbricati poveri. Ercole I avrebbe
forse apprezzato una piazza innestata sull’asse che egli poteva
dominare dal Castello fino alla porta degli Angeli, ma la retorica
dell’impianto architettonico sarebbe costata fortemente in termini
urbanistici. La vitalità perenne del piano rossettiano dipende dal fatto
che l’autore, con eccezionale intelligenza dei fenomeni urbani, seppe
attenuare l’importanza di via degli Angeli, per sottolineare quella di
via dei Prioni. Come si vedrà, ogni suo intervento edilizio fu diretto a
impedire che l’integralità del piano fosse minacciata: bloccando con
fastosi palazzi l’incrocio tra le due arterie e costruendo sulla
trasversale a ponente la chiesa di San Benedetto e a levante la
piazza, stabilì un’equivalenza di valori che non permise più nei secoli
il depauperamento delle zone adiacenti al corso principale.

Ipotesi dell’ubicazione della piazza nuova lungo via degli Angeli: la dinamica urbana ne
risulterebbe interrotta, mentre viene esaltata dalla localizzazione reale, lungo via dei Prioni
(cfr. foto 57, 64, 65).

Con questo congegno, tutto il comprensorio dell’Addizione era


controllato dal piano, si negava ogni possibile gerarchia tra quartieri
ricchi e poveri, e le strade minori venivano a partecipare della nobiltà
degli assi viari preminenti. Per l’interpretazione che Rossetti dette al
programma di Ercole, un sogno dittatoriale si traduceva in un
organismo democratico e popolare, teso a respingere dalla sua
struttura ogni differenziazione di classe. Non mai nella storia un
urbanista a servizio di un Signore fu meno servile.
Evidentemente, affinché la nuova maglia di strade ortogonali ed
equivalenti pulsasse di vita e di traffici, era necessario che l’abitato
antico fosse orientato verso l’Addizione: dal piano grafico occorreva
cioè passare alla realtà sociale garantendo un fluire continuo tra il
vecchio nucleo e il nuovo. L’operazione rivestiva particolare rilievo e
delicatezza per il fatto che il fosso della Giovecca, trasformato in
strada, costituiva una cesura permanente tra le due parti della città.
Bisognava invitare signori e popolo a varcarla, a superare il senso di
agorafobia che prova chi è abituato a vivere in angusti e
sovrappopolati quartieri e si sente sperduto e malsicuro di fronte a
sterminati orizzonti. Stabilire una saldatura con il tessuto della città
medievale divenne così l’immediato impegno di Rossetti: ovunque
possibile, ogni vecchia via doveva sfociare in una delle nuove, con
un perfetto sistema di ricambio mediante il quale il nucleo antico
avrebbe comunicato con l’insediamento moderno, quasi riversandosi
in esso dapprima a ritmo serrato e poi, più pacatamente, verso la
Certosa e Santa Maria degli Angeli, fino a diluirsi nella campagna e
lungo le mura.
La planimetria Tipo del Prisciani del 1498 mostra uno stadio
intermedio dei lavori. Il circuito del nuovo fossato è definito; alcuni
rettifili raggiungono il palazzo della Certosa, la porta del Barco, la
chiesa degli Angeli e il palazzo di Belfiore; da porta San Giovanni a
porta San Benedetto scorre la trasversale sulla quale si apre già la
grande piazza. Ma la fossa della Giovecca e le antiche mura, dal
Canton del Follo a porta San Marco e al torrione da Po, precludono
l’integrazione tra i due settori urbani. Vediamo invece la pianta di
Borgatti, che si riferisce al 1597: ultimati i lavori nella loro fase
sostanziale, eliminato il fosso della Giovecca, troviamo numerosi
raccordi tra la città antica e la nuova. Da ponente a levante,
seguendo la toponomastica della carta, la strada di San Biagio si
snoda in quella di San Gabriele e, attraversata via dei Prioni (qui
strada di San Benedetto), si conclude nella parallela di Santa
Caterina bloccata dal complesso monumentale della Croce di San
Francesco. Più in là, la strada delle Stalle o di Malborghello continua
diritta in quelle di Santa Lucia e di Mirasole per infrangersi nella
stessa strada di Santa Caterina, a sinistra del monastero omonimo.
Il prolungamento dell’arcuata strada di Boccacanale nella strada
della Rosa è sintomatico: superando ogni astratto principio
ideologico, la curvatura medievale prosegue nella città nuova
seguendo il perimetro del terrapieno difensivo eretto in occasione
della guerra con Venezia, supera il corso degli Angeli, muore nel
successivo raccordo, cioè nella preesistente strada del Borgo del
Leone. Quest’ultima, quasi parallela all’asse degli Angeli,
rischierebbe di fargli concorrenza essendo connessa al Castello e
alla piazza della Cattedrale; per sminuirne l’importanza la si rende
più stretta, ad andamento curvilineo, e la si spezza nella strada di
San Benedetto. Le altre vie segnate da Borgatti sul versante
orientale sono tracciate con criteri analoghi: la strada di San
Guglielmo seguita quella dei Bastardini e sbocca nella piazza nuova;
da quella di Santo Spirito nasce la strada di San Francesco; l’ultima
strada dell’Addizione, che termina a Santa Maria della Consolazione,
conferma un asse che parte da via della Ghiara, cioè dalla dorsale
dell’Addizione di Borso.

Lo sviluppo urbano dopo l’età di Biagio Rossetti e le stesse mura elevate da Alfonso I
costituiscono una conferma della validità del disegno concepito nel 1492. Ordito
rinascimentale, ma non “città ideale”, ben radicato nel territorio, contenuto dall’invaso delle
mura, e sistematicamente raccordato all’aggregato medievale. La Giovecca, limite che
sembrava invalicabile, risulta totalmente assimilato nella struttura unitaria della città, l’unica
forse che abbia saputo fondere il nucleo antico e la sua grandiosa espansione (cfr. foto 49-
54).

Non tutti questi raccordi sono naturalmente dovuti a Rossetti, ma


la capacità di adattamento della nuova città all’antica, e di questa a
quella, è conseguenza diretta dell’impostazione del suo piano. Egli
curò di certo alcuni felicissimi innesti, per esempio quelli tra le attuali
via Bersaglieri del Po e via Palestro, via Terranuova e via
Montebello, via Ugo Bassi e via Mortara, via Romei e via
Frescobaldi, via Spadari e via Armari, via Aldighieri e via Ariosto,
corso Isonzo e via Cittadella, e inoltre disegnò il tracciato di
numerose strade secondarie quali via Mascheraio e via Colombara.
La città fece il resto ma, dacché il piano era stato organicamente
pensato, non poté tradirlo.
Va notato che, a eccezione del corso degli Angeli, tutte le
perpendicolari alla Giovecca si concludono nella trasversale di via
dei Prioni o, al massimo, in qualche sua parallela, come la strada di
Santa Caterina: servono perciò tutte a rinsanguare il decumano del
reticolo, o meglio a urbanizzare il settore compreso tra questo e la
Giovecca; non sfondano, non fugano le loro prospettive all’infinito,
sino alle mura, dunque non si propongono come episodi visuali
autonomi.

Un tracciato stradale di tipo ortogonale avrebbe meccanicamente suddiviso il territorio


dell’Addizione in lotti autonomi, non caratterizzati. Sarebbe mancata ogni fluenza tra le vie
nuove e specialmente tra queste e il tracciato medievale.

Percorrendo anche le strade più lunghe dell’Addizione, si giunge


sempre a un punto in cui si è costretti a fermarsi, a voltare a sinistra
o a destra, a seguire nuove direttrici.
Via degli Angeli parte dal Castello estense e termina nelle mura settentrionali. Ma le sue
parallele s’interrompono per non sezionare la città nuova in una serie di scomparti statici. In
tal modo, il centro moderno ne calamita le direttrici.

Questo carattere di pluridirezionalità è proprio delle città organiche, e


si esalta negli aggregati medievali densi di sinuosità, di scarti
prospettici, di sorprese. Recuperarlo nella moderna maglia di Ferrara
fu il gran merito di Rossetti che, a tal fine, sacrificò ogni ambizione di
realizzare complessi architettonici magniloquenti, straniati dal
contesto urbano.
Ma l’urbanistica, anche la più lungimirante, non ha efficacia se
non si invera nella terza dimensione, nell’edificazione di barriere
visuali. Urge perciò entrare nell’analisi della cinta muraria, dei
palazzi e delle chiese per intendere come Rossetti realizzò il suo
disegno.
LE MURA

L’integrazione della cosiddetta “architettura militare” nella storia


vera e propria dell’architettura costituisce un problema ancora
insoluto. Lo studio delle fortificazioni esige senza dubbio conoscenze
specifiche, riguardanti soprattutto lo sviluppo delle armi da fuoco e le
conseguenti tecniche difensive. Ma la tendenza di considerare la
“funzionalità” militare preminente rispetto all’espressione artistica
mira a postulare un “genere” architettonico avulso dal processo
metodologico della storiografia moderna. Anche nel caso di Rossetti
e di Ferrara, le ricerche di Francesco Avventi e lo studio inedito di
Nino Barbantini concernente le mura prima dell’Addizione erculea
sono contributi informativi interessanti, che tuttavia riflettono
un’antiquata mentalità critica. L’architettura militare sembra
assurgere a protagonista di un ramo della vicenda costruttiva nel
quale si vanifica la personalità degli artisti. Mentre apparirebbe
risibile una storia dell’edilizia ecclesiastica che tenesse conto solo
del dato liturgico, nel campo delle fortificazioni il progresso della
tecnica bellica sembra offrire l’unico spunto giustificativo
all’architettura.
Per contrastare questa gretta tendenza, alcuni storici d’arte
hanno tentato di “leggere” i testi delle fortificazioni essenzialmente
sotto il profilo figurativo, riconquistando così alla storia
dell’architettura un grandioso capitolo che gli specialisti volevano
precluderle. Il risultato è stato fecondo particolarmente nella
trattazione del Rinascimento, poiché varie figure del XV e del XVI
secolo, da Francesco di Giorgio Martini a Michele Sanmicheli, hanno
lasciato nelle fortificazioni un documento sicuro delle loro capacità
creative. Il procedimento però, forse per la sua stessa origine
polemica, non si rivela del tutto convincente. Opporre a una critica
meramente contenutistica una critica astratto-figurativa segna un
apporto utile nel metodo della storiografia artistica ma non si riesce a
caratterizzare la peculiare fisionomia dei monumenti; ci si limita a
parlare di superfici, di piani, di valori luministici o spaziali in modo
generico, non individualizzante.
Una cinta muraria è la cornice di un piano regolatore: può
determinare l’organismo urbano, può essergli sovrapposta e
soffocarne lo sviluppo, può rimanergli estranea; comunque, va
giudicata anzitutto in funzione del piano. Poiché fissa il perimetro del
territorio abitato, il circuito delle fortificazioni discende da una scelta
politica e amministrativa che investe il fattore iniziale e più
importante del destino di un aggregato umano: la sua misura. E
perché questa misura sia rispettata, occorre non soltanto che sia
giusta sotto l’aspetto demografico ed economico, ma anche che
divenga necessaria artisticamente.
Nei suoi continui viaggi fuori dello stato estense, Rossetti aveva
avuto agio di studiare le fortificazioni che si venivano costruendo o
rinnovando in quell’epoca, e sembra logico ritenere che conoscesse
non solo gli scritti di Mariano di Jacopo, detto il Taccola da Siena
(1381-1458), che aveva preparato la difesa di Roma per il papa
Callisto III basandosi sul sistema che fu poi detto “bastionato”, ma
fosse anche bene informato sul pensiero e sui progetti di Leon
Battista Alberti, di Filarete e di Francesco di Giorgio Martini in tema
di rocche e di cinte murarie. Fatto è che egli per la difesa
dell’Addizione apprestò il sistema più moderno e spregiudicato dei
suoi tempi.
Del resto, la storia dello sviluppo urbanistico di Ferrara coincide
puntualmente con la vicenda delle sue fortificazioni. Durante l’età
feudale, le difese sono concepite in funzione degli attacchi della
cavalleria, padrona dei campi di battaglia. Nel periodo comunale, la
fanteria riacquista un ruolo dominante con gli arcadori e balestrieri,
le cui armi furono interdette nel Concilio Lateranense del 1139. Da
un’impostazione tattica basata sull’urto dei cavalieri si passa alla
lotta corpo a corpo in cui la cavalleria è affiancata da manipoli di
balestrieri e, dal principio del ’400, di archibugieri. La fondamentale
scoperta del ’300, anticipata dalle “bombarde” citate già in alcuni
manoscritti del secolo precedente, riguarda l’energia cinetica
prodotta dall’esplosione della polvere da sparo. In meno di un
secolo, si passa dalle palle di pietra caricate su rudimentali
bombarde ai primi cannoni di bronzo chiamati colubrine o falconi
che, ristretta la bocca della tromba e aumentata la sua lunghezza,
lanciavano a notevole distanza pesanti palle di ferro e di piombo.
Tutto il sistema offensivo e difensivo venne sovvertito dall’avvento
delle bocche da fuoco. Infatti i tiri radenti delle artiglierie assolvevano
più efficacemente l’antico ufficio degli arieti nello sbrecciare le mura
e, all’inverso, le artiglierie di difesa dovevano essere collocate in
apposite piattaforme sulle mura. Lo strumentario bellico ereditato dai
romani e dai bizantini e adottato ancora nel tardo Medioevo,
catapulte baliste “onagri” scorpioni, gallerie mobili coperte che
permettevano di scavare trincee sotto le mura, manganelle petriere e
torri d’assalto, lentamente scomparve; con esso, l’empirismo delle
cinture difensive cede il posto alla scienza militare, e questa implica
un ripensamento delle strutture territoriali. Media il passaggio tra
scienza militare e urbanistica l’invenzione del cosiddetto “fronte
bastionato italiano”.
Gli specialisti di architettura militare non sono concordi circa
l’origine di questo sistema. Ne parla il già nominato Mariano di
Jacopo, ne tiene conto L.B. Alberti nel De re aedificatoria, ne
presuppone la conoscenza Filarete nel progetto di Sforzinda dacché
le armi da fuoco piazzate agli angoli del suo schema stellare
possono sparare sul fianco degli attaccanti, e ne approfondisce
l’analisi nel Trattato di architettura civile e militare redatto intorno al
1490. Ma chi dalla teoria scende alla pratica e poi risale ai principi è
Francesco di Giorgio Martini: nel libro V del suo trattato egli
riassume l’esperienza acquisita nelle costruzioni militari attuate per
molti anni alla corte di Urbino, e nei successivi libri, specie nel VI e
nell’VIII, detta le norme per le nuove fortificazioni.
Sotto l’apparenza della fredda raccomandazione tecnica, le
pagine di Francesco di Giorgio costituiscono capitoli di semantica
compositiva e, in vari punti, investono l’intero problema della visione
architettonica. Basti l’enunciato che la bontà di una fortezza sta
nell’artificio della pianta anziché nella grossezza dei muri per
indicare il passaggio dal mondo medievale alla razionalità del
Rinascimento. Basti il perentorio rifiuto dei circuiti rotondi delle mura
e l’elogio di quelli a forma di rombo o di romboide per denotare,
insieme e oltre il dato militare, un elemento di gusto figurativo. Nella
sottile dialettica tra curvilinei avvolgimenti di torri, distese murarie,
drammatici scatti di spigoli prominenti si qualifica la tematica lirica
delle fortezze di Francesco di Giorgio, tanto elaborate nella
planimetria e nei profili da bruciare ogni massiccia gravità e da
apparire leggiadro gioco di superfici tese, vitalizzanti il paesaggio.
Una volta penetrate dall’intelligenza creativa e non più affidate al
peso dei materiali e alla quantità del lavoro, le fortificazioni perdono i
connotati del rude e brutale vigore per rendersi ricettive di ogni
accento artistico individuale.
Si potrebbe perfino sostenere che la struttura stessa del “fronte
bastionato italiano” comporta una rivoluzione figurativa. Anzitutto le
mura si abbassano e, per facilitare l’appostamento dei fucilieri e
dell’artiglieria leggera, vengono terrapienate all’interno addossandovi
il cosiddetto “ramparo”. Anche le torri riducono l’altezza
conformandola a quella delle mura. Perché quest’ultime possano
offrire una maggiore resistenza al tiro in breccia, si costruisce
esternamente una scarpa assai pronunciata, misurante dai due terzi
ai tre quarti dell’altezza totale, che termina con un cordone di pietra
spesso ornato, il quale serve a impedire la scalata degli attaccanti.
Inoltre, per proteggere meglio la scarpa, si costruisce lo spalto al di
là della controscarpa, e il fossato diviene largo e profondo per
accogliere i detriti delle mura sbrecciate durante gli assalti.
Avanzano le torri per difendere di fianco le mura; s’irrobustiscono i
puntoni alle estremità delle cortine del tracciato poligonale; talora,
seguendo i consigli di Francesco di Giorgio, alla base dei torrioni si
edificano apposite casematte per tutelare con tiro radente il vallo.
In termini architettonici, che cosa comporta questo sistema?
Vediamo la città dall’esterno. Il cordone fortificato non è più una
minacciosa barriera che strania il nucleo urbano dal contesto
paesistico; a una decina di metri dallo spalto, nascosto
prospetticamente il fossato, si nota appena il muretto superiore della
scarpa cui il cordolo con le sue decorazioni e comunque con la sua
ombra funge da graziosa base (cfr. foto 58-63). Si vedono le torri più
avanzate, ma non sono gli alti fortilizi medievali svettanti nell’aggetto
dei merli; assomigliano più a belvederi che a macchine belliche.
L’alternanza spesso disordinata di torri e setti murari sullo stesso
prospetto è scomparsa; i tracciati poligonali impegnano l’attenzione
dell’osservatore su figure tridimensionali, dinamiche, scattanti.
Invero, queste cinte murarie basse e antimonumentalistiche
sembrano nate per segnare una decorosa cornice alla misura della
città.
Il mutamento è analogo ma psicologicamente più rilevante
all’interno dell’abitato. Il terrapieno, con la sua scala ascensionale
che da piazza d’Armi conduce al ramparo e quindi al parapetto,
acquista una fisionomia quasi umana e familiare.
Le vecchie mura determinavano una chiusura; le nuove
suggeriscono un lieve contenimento dell’invaso urbano e non
impediscono ai cittadini di scrutare le campagne fino agli estremi
orizzonti. L’abitato è ugualmente, anzi più efficacemente difeso, ma
crolla l’apparato visuale delle fortificazioni, il suo angoscioso
incombere che ricordava in ogni istante la condizione di
“insicurezza”. Con il nuovo sistema difensivo, il principe la nobiltà e il
popolo hanno diritto di sentirsi sicuri.
È probabile che Biagio Rossetti abbia conosciuto Francesco di
Giorgio e le sue opere militari, tanto più che il duca d’Urbino era
alleato con l’estense; e quasi certamente incontrò Giuliano da
Sangallo, ritenuto inventore dei torrioni con locali casamattati
sovrapposti e aperti su un cortiletto che permetteva l’esalazione del
fumo prodotto dagli spari. Fatto sta che il già citato terrapieno a
difesa del Castello, costruito durante la guerra del 1482-84, dimostra
come Ferrara fosse aggiornata sui nuovi sistemi fortificati. La cortina
di mura che Rossetti eleva a perimetro dell’Addizione dal 1493 al
1505 è uno dei primissimi esempi su larga scala del “fronte
bastionato italiano”.
Ma le mura non sono un semplice attestato della perizia di Biagio
ingegnere; confermano l’atteggiamento mentale dell’artista. Sin
dall’analisi del palazzo Schifanoia, del campanile di San Giorgio e
della casetta di via della Ghiara, il contegno rossettiano, fondato su
un’assimilazione critica e condizionata del mondo figurativo
rinascimentale, è apparso preciso. Il suo linguaggio rifiuta ogni
sterile dogmatica, non accetta figure o idee preconcette, adotta le
nuove teorie compositive solo e in quanto servano a risolvere meglio
un programma edilizio. Il “muratore” non cede all’intellettuale, il che
significa che l’uomo del Rinascimento non intende rinunciare
aprioristicamente a ciò che la tradizione medievale offre di positivo.
Anche nel caso delle mura, Biagio vince le lusinghe di un tracciato
geometrico regolare pur sapendo che, per i suoi attributi di
trasmissibilità, esso lo avrebbe reso assai più famoso nel mondo
umanistico. Non gli interessa la forma astratta di un circuito murario.
Il territorio dell’Addizione, come si è detto, non era un deserto
circoscrivibile a caso: possedeva i suoi borghi e numerose
attrezzature ducali. Anziché sovrapporvi la cinta bastionata, egli
adegua la teoria alla pratica e disegna il tracciato delle mura in
funzione dell’organismo della città nuova. Avrebbe potuto applicare
uno schema radiocentrico, a perimetro ottagonale o a stella, oppure
uno schema ortogonale. Il guscio avrebbe prevalso sull’abitato, il
contenente sul contenuto, la difesa militare sulla vita associata.
Rifiutò di incarnare un precetto, costruì una città.
I “Diari ferraresi” ci permettono di seguire il lavoro condotto da
Biagio in ogni sua fase. Iniziò lo scavo delle fosse dal Canton di San
Marco, allo sbocco nord-ovest del vecchio fossato; prolungò quindi
la direttrice già esistente dal Canton del Po al Canton di San Marco
fino a incontrare l’altro tronco di fosse che si stava scavando verso il
palazzo di Belfiore.

Itinerario della costruzione delle mura dal Cantone di San Marco al Canton del Follo. Punte,
torrioni e porte sono identificabili nella foto aerea di Ferrara (cfr. foto 57).

Dei numerosi torrioni e rivellini eretti probabilmente nel 1495 in


questo tratto di mura verso porta San Biagio non rimane nulla; si
individua un solo puntone mozzato. Ma il profilo della fortificazione
presenta tutte le caratteristiche descritte con scarpa, cordone e muro
completamente in cotto. Al di sopra, il terrapieno è molto sviluppato
e ripara la strada o piazza d’armi.
Nel maggio 1493 fu ampliata la fossa che andava dalla porta
Borgo di Sotto al Canton del Follo e la si collegò con quella dal lato
di Santa Lucia, completando così il circuito da porta San Biagio a
quella di Sotto. Nello stesso anno fu fondato il torrione che guardava
verso Francolino e, poco più tardi, si aggiunsero nel versante di San
Giovanni undici torrioni: di essi restano i primi due vicini a porta
Mare. Seguì il torrione di San Giovanni e altri, posti ai vertici delle
mura, furono terminati, secondo Frizzi, nel 1497: di questi rimane il
cilindro a invaso aperto, con torre osservatorio, presso porta Mare.
Dello stesso periodo sono le tre porte di San Giovanni, San
Benedetto e degli Angeli. I lavori continuarono ancora per due anni:
nel 1499 la nuova cinta fortificata era compiuta e si potevano
demolire le vecchie mura che correvano parallelamente al canale
della Giovecca, incominciando a sbrecciare quelle ubicate nei pressi
di porta del Leone. All’alba del nuovo secolo, Ferrara si apriva
all’Addizione.
Le stampe consentono di seguire sincronicamente lo sviluppo
della città e della cinta fortificata. Quella già esaminata del 1498
mostra che la fossa ad andamento poligonale era terminata e si
erigevano porte e torrioni, ma non ancora le mura (cfr. foto 43);
l’abitato è tuttora difeso dalla vecchia cintura della Giovecca, e le
nuove strade non sono collegate a quelle del nucleo medievale; in
quell’anno, il cantiere dell’Addizione era in febbrile attività, i principali
palazzi erano in costruzione, ma la fusione tra le due città non era
ancora avvenuta. La pianta di Borgatti, riferita al 1597, illustra la
cinta rossettiana con i suoi quindici bastioni semicircolari nel tratto
porta Po-porta Mare (cfr. foto 46); si individuano i grossi torrioni
angolari e le tre porte con rivellini. Una stampa del 1598 offre una
veduta prospettica in cui si nota la completa integrazione tra l’abitato
antico e l’Addizione. Senza dubbio Matteo Florimi Formis (cfr. foto
47), autore del disegno, e il Capocaccia che lo revisionò nel 1602
semplificarono la maglia viaria di Rossetti, con ciò confermando la
perfetta simbiosi ottenuta tra i due settori urbani.
Le mura ferraresi rimasero inalterate per un secolo. I lavori
condotti sotto Alfonso I nel 1512 per completare il tronco che
Rossetti aveva interrotto al Canton del Follo e per allargare la cinta
difensiva con il maestoso baluardo di porta San Giovanni non
conferirono alla città una diversa fisionomia (cfr. foto 48-49). Si può
solo osservare che forse Rossetti, se avesse continuato a dirigere il
cantiere militare, avrebbe trovato per la nuova fortificazione una
soluzione diversa da quella attuata, che costò l’abbattimento di gran
parte dell’abitato del Borgo della Pioppa e la distruzione delle chiese
di San Silvestro, San Lorenzo e Santo Spirito. Anche l’espediente di
accumulare la gran quantità di terra scavata per la nuova fossa in un
solo luogo, appunto denominato “il Montagnone”, sarebbe stato
estraneo al suo spirito restio a creare artificiali elementi paesistici.
Ma con la morte di Ercole nel 1505, Biagio lascia la carica di
ingegnere ducale, probabilmente per contrasti con Alfonso I.
Conserva il posto di “giudice d’argini” perché nessuno è più
competente di lui in materia d’idraulica, ma non è più responsabile
delle opere pubbliche nel loro insieme.
Aggiungeremo incidentalmente che se Biagio, per assurda
ipotesi, fosse stato vivo ai tempi in cui la città cadde sotto lo stato
pontificio, avrebbe impedito ad Aleotti di costruire, dal 1598 al 1618,
la fortezza a sud-ovest della città che vediamo riprodotta in tutta la
serie delle stampe successive: dal “Recinto” del XVII secolo alla
mirabile veduta prospettica del 1705 (cfr. foto 50), dalla celebre
“Scenografia” alla pianta del 1836. Per far posto a questa fortezza fu
demolito un intero quartiere, abbattuto il Castel Tedaldo, annientata
l’isola del Belvedere assimilandola alla terraferma (cfr. foto 51-53).
Ma la storia si vendica. La fortezza pontificia progettata da Mario
Farnese era un capolavoro di architettura militare e forse anche di
architettura tout court, ma non aveva alcun rapporto con l’organismo
urbano: gioiello geometrico stupendo ma distaccato, avulso dalla
trama della città. Nel 1859, dopo l’unione di Ferrara all’Italia (cfr. foto
54), la fortezza, come mostra l’ultima stampa, fu distrutta e rimase
una “spianata” inedificata per molti decenni, edificata male poi. Fu
uno scempio, un crimine, un atto di vandalismo favorito però dal fatto
che la struttura pontificia non si era mai innestata nella città. La sua
costruzione aveva offeso Ferrara, e questa l’abbatté.

Le antiche mura difensive incombevano sui cittadini, precludendo loro le visuali


panoramiche dall’interno dell’abitato. Un’atmosfera chiusa e oppressiva dominava sul
contesto urbano.

Un simile destino non poteva cogliere la cinta rossettiana che,


come si è ripetuto, non fu concepita solo alla luce della ragione
militare e nemmeno della ragione architettonica, ma derivò nel suo
intero tracciato dalla legge interna, organica della città. Nel 1548
Francesco Alunno descrive gli undici grandi baluardi muniti di
piattaforme “contro de quali erano i terrapieni ottimamente condotti e
così smisurati che piuttosto dorsi di monti addimandar si potevano”.
L’osservazione è rivelatrice anche sotto l’aspetto espressivo.
Mediante gli alti terrapieni Rossetti aveva nascosto alla vista dei
cittadini le mura difensive, opponendosi a ogni tetro esibizionismo
militaresco.

Il nuovo sistema del “fronte bastionato” libera la città dalla soffocante cintura.

Ma aveva fatto anche qualcosa di assai più rilevante: aveva


trasportato una porzione di campagna nell’ambito del nucleo urbano.
È questo un altro fondamentale motivo per cui Ferrara
cinquecentesca è la prima città moderna europea: il suo piano, in
termini contemporanei, si definirebbe un “piano aperto”. Le sue
direttrici non sono infatti centripete come quelle delle città ideali a
schema centrale, né vengono interrotte dalle mura, ma si smorzano
nel verde a esse addossato.
Controprova vitale: le mura rossettiane hanno saputo invecchiare.
Oggi, col passare dei secoli, perduta da tempo immemorabile
l’originaria funzione, le mura sono tornate alla terra, fattore di
un’immagine paesistica. Si ammirano le cortine colorate di cotto
sbrecciato, i frammenti del cordone marginale, le nude porte e le
scarpate, i torrioni a invaso sporgente: da un lato, sono elementi
umanizzatoti della natura; dall’altro, contengono la città e ne
attestano l’antica misura. In realtà, difendono ancora Ferrara, non
dai nemici esterni ma da un’espansione edilizia vorace e pronta,
senza quelle mura, a distruggere il piano di Biagio Rossetti. Sono
decantate a sommesse presenze prospettiche, a pennellate di
cinabro nel verde, a tenui suggestioni figurative. Ma, nel custodire la
città, hanno la stessa forza che le rese illustri nel Cinquecento.
LA PIAZZA E I PALAZZI DELL’ADDIZIONE

Tra le prescrizioni urbanistiche di Leon Battista Alberti ve n’è una


di eccezionale acutezza: “si studi che gli isolati e il piano della città
non paia dalle vie sommerso”. L’avvertenza è contro i rettilinei, le
viae militares che l’umanista escludeva dall’abitato. Viene enunciata
una norma che non si stenta a definire di validità perenne. Interessa
vitalmente Rossetti per questa ragione: egli la rispetta pur
adducendo le viae militares entro la cinta muraria.
Le arterie monumentali rette sommergono effettivamente gli
isolati e minano l’organicità di un piano. Un comprensorio territoriale
spartito da una serie di assi ortogonali si scinde in tanti episodi
distinti quante sono le strade; se poi tra queste non vi è gerarchia –
e avviene in infiniti schemi reticolari antichi e moderni – il cittadino
perde ogni senso di orientamento. Rossetti aveva meditato sulla
prescrizione di Alberti? Non lo sappiamo, anche se è estremamente
probabile. Comunque doveva proporsi il tema di non disperdere, nel
nuovo e rivoluzionario tracciato, i valori della tradizione. Il quesito
però doveva apparire insolubile.
La nuova visione prospettica rinascimentale consigliava i rettilinei
con edifici allineati sui due lati, fungenti da quinte, e con cornicioni
marcapiani e basamenti convergenti su un punto di fuga remoto. Ma
la strada diveniva così una “spaccatura d’ombra”, una strada-
corridoio, la cui unidirezionalità avrebbe finito per annientare la
consistenza tridimensionale degli isolati, per deprimere le vie
trasversali. Come risolvere l’antinomia? Chiunque abbia
passeggiato, anche per poche ore, lungo le strade dell’Addizione sa
come Rossetti vi sia riuscito. Non attenuò la regolarità assiale delle
sue arterie, il che sarebbe stato una forma di accademismo
neomedievalista ante litteram, ma frenò la velocità delle fughe visuali
mediante un magistrale dosaggio dei volumi edilizi. In breve,
predispose le costruzioni in modo che esse determinassero le
prospettive ma senza serrare le quinte stradali. Tra fabbricato e
fabbricato lasciò ampie porzioni di verde che servirono a dilatare i
vuoti viari nello spazio della città. Nei palazzi stessi, attraverso gli
archi degli ariosi androni, valorizzò la visione dei cortili e dei parchi
permeando di luce le pareti murarie. Infine, e principalmente, eliminò
le vedute frontali trattando le facciate come piani in funzione
prospettica.
Risolse insomma il problema urbanistico in terza dimensione
incarnando l’indissolubile simbiosi tra il pianificatore e l’architetto. Fu
sommo architetto, almeno nel palazzo dei Diamanti. Ma il suo valore,
la sua originalità non stanno tanto negli “acuti” lirici, quanto nell’aver
pensato anche i più prosaici edifici come fattori del piano urbanistico.
Che cosa costruì entro il perimetro dell’Addizione? (cfr. foto 64). I
palazzi Prosperi-Sacrati, Turchi-Trotti-Di Bagno, Strozzi-Bevilacqua,
Mosti, il palazzo di Giulio d’Este e quello dei Diamanti; le chiese di
San Benedetto, San Giovanni Battista, Santa Maria della
Consolazione, San Cristoforo alla Certosa... e la lista può
continuare, si direbbe quasi a piacere. Le prove documentarie?
Sono numerose, e altre sono state reperite nelle ultime ricerche
d’archivio. Le verifiche stilistiche? Sono immediate e irrefutabili,
poiché in ognuno degli edifici citati s’individuano particolari di mano
rossettiana. V’erano altri architetti in Ferrara, cui si possano attribuire
queste opere? Nessuno. Il portale di palazzo Prosperi-Sacrati è stato
ascritto da Adolfo Venturi a Ercole de’ Roberti, da Lanzi a
Baldassarre Peruzzi, da Cittadella e da Righini ai Lombardo che
operarono nel primo Cinquecento a Ferrara; molti studiosi lo
ritengono invece di Rossetti. Ebbene, ammettiamo che non sia suo:
che cosa si sottrae di sostanziale alla figura di Biagio? Un
capolavoro plastico, senza dubbio, uno dei più radiosi aditi della
storia architettonica. Ma la grandezza di Rossetti non è affidata a
questi prodotti artistici; se fosse accertato autore del portale ma non
del palazzo, il catalogo dei suoi “elementi architettonici” sarebbe più
pregevole, ma Ferrara senza quella struttura non avrebbe attinto la
sua immagine. Il dato documentario trasmessoci da cento e più
contratti è uno solo: Rossetti fu il soprintendente di tutti i lavori
dell’Addizione, decise sulla collocazione degli edifici, li definì e
conformò stereometricamente, alcuni li assunse in proprio, molti ne
fece eseguire da altri ma sotto il suo quotidiano controllo, integrando
l’attività dei suoi aiuti, concedendo loro ampia libertà inventiva
nell’ambito però di preordinati impianti compositivi. Né più né meno:
lo sforzo dei critici “rossettiani”, tendente a inflazionare le attribuzioni
in base ad analogie stilistiche con particolari di opere sicure del
maestro, è generoso, comprensibile dopo un plurisecolare
disconoscimento, ma ingenuo. Che esista una finestra rossettiana in
un palazzo non significa che quel palazzo sia tutto di Rossetti: egli
può averla disegnata occasionalmente nel correggere il lavoro di
qualche sottoposto. E viceversa, che non vi sia in un fabbricato
nemmeno un particolare rossettiano non implica che vada sottratto a
Rossetti: gli appartiene come tutti gli altri nella struttura
fondamentale, anche se la grafia figurale non è sua.
Per non cadere in equivoci, occorre forse precisare. Il postulato
“l’arte consiste nel particolare” non viene infirmato da quanto si è
detto. Ma il particolare di una città non è la finestra, il cornicione o il
portale, sibbene l’edificio nella sua entità volumetrica o di massa.
Per intendere l’Addizione, è indispensabile addentrarsi in ogni suo
particolare, ma ciò significa in ogni sua struttura edilizia, non in ogni
dettaglio decorativo.
Vi è poi un pericolo: quello di ridurre Biagio a un personaggio
schematico, a una “formula” professionale. È un urbanista? Allora
non è autore di edifici poiché all’urbanista interessa solo la
stereometria delle costruzioni, o al più l’allineamento dei basamenti e
dei cornicioni. È un architetto? In questo caso, è impossibile che sia
indifferente ai particolari e ammetta di affidarli ad altri. Tale maniera
di ragionare è astratta. In realtà Rossetti fu urbanista dell’intera
Ferrara, soprintendente di tutti gli edifici dell’Addizione, autore di
alcuni di essi. L’esegesi critica va quindi condotta tenendo conto di
queste tre sincrone funzioni, anche se è resa difficile dalla loro
continua sovrapposizione. Del piano urbanistico si è detto; ora
esaminiamo l’apporto del soprintendente.
Biagio concentra anzitutto la sua attenzione sui due gangli vitali
dell’Addizione: l’incrocio tra via degli Angeli e via dei Prioni, e la
piazza nuova. Si è già osservato che il piano è inteso a valorizzare
via dei Prioni, cioè a far sì che la città non si scomponga in isole
longitudinali separate da strade parallele a via degli Angeli. A tal fine,
occorre che su questa non sorga alcun centro, slargo o piazza, e
che invece sulla trasversale si istituiscano richiami di rilievo. Tale
impostazione è applicata puntualmente: l’incrocio è bloccato da
fabbricati; su via dei Prioni si aprono a est la piazza nuova, a ovest
San Benedetto.
Sappiamo che via degli Angeli esisteva anche prima
dell’Addizione poiché congiungeva il Castello al Barco del Duca.
Asse lungo quasi un chilometro e mezzo, era naturalmente destinato
a divenire la strada più nobile e attraente della nuova città. Per
calamitare lo sviluppo edilizio a est e a ovest, un urbanista “teorico”
avrebbe potuto pensare di interromperla con una piazza da cui
sarebbe scaturita una serie di radiali. Rossetti non ricorre però a
questi artifici: egli crede nell’organicità della vita urbana, sente di non
doverla contrastare pur intervenendo nell’orientarne la crescita. Il
“fermo” in via degli Angeli doveva essere costituito da qualcosa di
più sottile di un’interruzione delle quinte prospettiche. Due sontuosi
fabbricati all’incrocio del cardo e del decumano potevano
determinare uno shock psicologico così forte da attrarre l’attenzione
sulle fughe laterali. Il peso volumetrico e plastico delle strutture
angolari del quadrivio sembra infatti essere stato matematicamente
calcolato in funzione dei richiami, o dei risucchi urbanistici: la mole
soverchiarne del palazzo dei Diamanti, quella leggermente minore e
placata di palazzo Turchi-Di Bagno, il blocco più basso di palazzo
Prosperi-Sacrati, e il “vuoto” dello spigolo nord-est offrono, come
vedremo, una composizione di forze stereometriche che ha per
risultante una freccia diretta verso la piazza nuova.
Intenti affatto opposti conformano i due bracci di via dei i Prioni
(cfr. foto 57). Qui occorre smorzare la velocità prospettica, attenuare
l’ossessione del rettifilo pur mantenendo la continuità dell’asse. Il
procedimento di Rossetti è chiaro e geniale: non vuole piazze
centrali attraversate dalla strada e bersagliate da direttrici diverse: a
ovest, apre una pausa davanti a San Benedetto, a est l’immenso
polmone verde dell’Addizione.

Le strade che adducono alla piazza nuova sono perimetrali e il loro accesso è
contrassegnato dai portici dei palazzi. Stupendo l’accesso da via Borso (cfr. foto 55) ma
significativi anche gli altri (cfr. foto 66-70).

Palazzo Rondinelli sul fianco meridionale, palazzo Strozzi-


Bevilacqua a ponente e gli altri fabbricati sorti sulla misura di quelli
rossettiani donano alla piazza la sua terza dimensione. In realtà, la
sua estensione – due quadrati di cento metri – fa sì che essa, pur
essendo appoggiata nel lato maggiore a via dei Prioni, non possa
essere “letta” come uno slargo della strada. La piazza erculea è
sconfinata, non è una dilatazione della direttrice viaria, non è
composta per attrarre lo spazio verso un particolare edificio, e infatti
non contiene un monumento preminente. Vi si esperimenta un
effetto simile a quello che si prova, dopo aver seguito la fuga di una
strada dell’Addizione, penetrando nel cortile di un palazzo
rossettiano: invero si tratta di un’incommensurabile corte dell’intero
organismo urbano, dimensionata in modo non da rallentare ma da
capovolgere il senso dei due bracci del corso dei Prioni risucchiando
le forze direzionali provenienti a destra dalla porta orientale della
città, a sinistra dall’incrocio di via degli Angeli, e da calamitarle verso
mezzogiorno. Anziché favorire una fabbricazione limitata ai fianchi
della strada lasciando che dietro i prospetti monumentali sorgano
zone residenziali squallide e depauperate, Rossetti, attraverso la
precisa ubicazione della piazza, stimola l’urbanizzazione del
quadrilatero via degli Angeli-via dei Prioni-mura orientali-Giovecca
con una intelligenza funzionale che non ha riscontro nell’urbanistica
del passato, nemmeno nell’800. Da Rossetti a Haussmann, non vi è
una sola piazza concepita, nello stesso grado, come strumento
direttivo dell’urbanizzazione di un territorio.
Ma le inedite dimensioni della piazza nuova ponevano un quesito:
come evitare che le affluenti viarie tangenziali disperdessero la loro
direzionalità, la loro misura di umano contenimento, nell’immenso
vuoto? e che il viandante fosse colto da un senso di disorientamento
e di agorafobia? Via dei Prioni, scorrendo a lato, aveva un’invincibile
forza cinetica; ma non così le strade minori. Ed ecco, l’architetto
interviene, eleva i due palazzi Rondinelli e Strozzi-Bevilacqua
spostandoli in avanti rispetto ai fili delle affluenti, e offrendo quindi ai
cittadini provenienti dagli opposti versanti il riparo di ampi portici.
Proprio nei tratti in cui le strade potevano smarrire la loro
personalità, egli le trasforma in gallerie coperte salvaguardandone
l’invaso. Anche qui la moderna concezione dinamica della città
prevale: Rossetti non ha l’ambizione di costruire l’intero involucro
della piazza, ma si dedica ai suoi nodi chiave, ai raccordi con il
tessuto viario circostante. I due blocchi porticati servono a tale
scopo.
Le vicende di palazzo Strozzi-Bevilacqua hanno reso pressoché
illeggibile la sua architettura. Ciò malgrado, l’impianto volumetrico e i
connotati compositivi sono tali da far considerare impensabile un
diverso edificio in quel delicato nodo della piazza. Si è precisata la
funzione spaziale dei cortili aperti negli edifici rossettiani
dell’Addizione: essi dilatano le cavità stradali con il periodare dei loro
richiami trasversali, pur mantenendo compatte le quinte
prospettiche. Nel caso di palazzo Strozzi-Bevilacqua (cfr. foto 66-69)
però tale funzione veniva atrofizzata: all’enorme piazza non
occorreva certo di essere ampliata visualmente e, del resto, nessuna
quantità di luce proveniente dall’ingresso della fabbrica avrebbe
potuto competere con quella esterna. Va aggiunto che il porticato del
piano terreno, consentendo allo spazio urbano di agganciare la mole
edilizia, elimina la necessità di sfondi, che anzi risulterebbero
dannosi alla compattezza della massa ombrosa della galleria.
Quindi: parete unitaria sul corso dei Prioni, apertura verso la piazza,
balconi angolari, loggiato sui fianchi del cortile. L’organismo
distributivo si articola intorno alla corte quadrata e gli ambienti
maggiori sfruttano la già analizzata formula rossettiana delle due
finestre addossate alle pareti trasversali, con il camino al centro.

I portici rossettiani non sono anonime “strade coperte”, ma spazi racchiusi da accentuati
elementi angolari, lo si riscontra, nella piazza nuova, sia nel palazzo Bevilacqua (cfr. foto
66-69) che in quello Rondinelli, che doveva prolungarsi lungo tutto il fronte meridionale
dell’ampio invaso urbano.

Palazzo Bevilacqua rimane di insostituibile valore nella


caratterizzazione della piazza. Aggettando rispetto alle linee di fuga
delle due strade tangenti – le attuali via Palestro e via Borso, i cui
assi subiscono proprio in corrispondenza dello spigolo del palazzo
uno scarto lieve ma fondamentale per la valorizzazione della piazza
– costituisce un “fermo” che prepara sin da lontano chi proviene
dalla Giovecca o dalla Certosa al tonante episodio del moderno foro.
Leon Battista Alberti aveva avvertito: “si faccia in modo che
l’ingresso e la facciata di una casa si addirizzi quasi sembrando ella
stare in mezzo alla via”, acuto commento alle narrazioni urbanistiche
medievali. Rossetti ne tiene conto però in una visione rinascimentale
e moderna, traslando in chiave razionale una regola derivata da
osservazioni sulla pittoresca “vaghezza”. A dimensioni colossali
riuscì a conferire una scala umana; con le “strade coperte” dei
porticati, mediò il contrasto tra le vie d’accesso e gli orizzonti
spalancati del nuovo centro urbano.
Un analogo ragionamento si addice a palazzo Ronchegalli-
Rondinelli, a sud della piazza. È chiaramente il risultato di un lavoro
in collaborazione. Il portico, per metà costituito di colonne simili a
quelle di palazzo Strozzi-Bevilacqua, prosegue poi in modo difforme,
sì che è da pensare che Rossetti, dopo aver curato il disegno dei
primi quattordici archi, abbia lasciato ad altri, e anzitutto a Stancari
suo dipendente, il prolungamento dell’edificio. Anche in quest’opera
ciò che va rilevato è il “tono”: nel grandioso fondale del nuovo
“cuore” di Ferrara, l’architetto parla in prosa. Vuole fabbricati
decorosi ma non sontuosi. Avrebbe potuto creare la piazza più
squillante e monumentale d’Italia, emblema del dispotismo estense:
l’ha invece resa popolare. Egli sapeva che la vitalità di una lingua
trae il suo alimento e i suoi strumenti di ricambio dal “parlato”, dai
dialetti, da quel subconscio vernacolo che solo può rinsanguare i
lessici e le sintassi accademiche. Sapeva che una città non si
costruisce con pochi modelli aulici, con dieci palazzi principeschi e
chiese fastose, ma orientando l’edilizia minuta, democratica,
sottraendola ai manierismi estrinseci e stimolandone il prosaico
vigore. Palazzo Rondinelli non è un’opera d’arte, parla in sordina,
non si propone come mera parete delimitante lo spazio aperto della
piazza, ma come emergenza o proiezione su di essa del costume
edilizio di un abitato.
Dinamica stradale dell’Addizione. Via degli Angeli parte dal Castello, ma è separata dalla
sua mole. La piazza nuova deve costituire la principale attrazione, mentre le direttrici verso
la porta settentrionale e verso la chiesa di San Benedetto sono secondarie. I diversi pesi
urbani si proiettano sulle architetture.

Ma è tempo di tornare a via degli Angeli, al celebre quadrivio. Lo


stesso tono minore dell’edilizia della piazza erculea trova la sua
giustificazione in relazione all’incrocio tra il cardo e il decumano
dell’Addizione; palazzo Strozzi-Bevilacqua chiude angolarmente
un’arteria che si diparte da palazzo Turchi-Di Bagno. In effetti, la
lettura di Ferrara non può essere scissa in episodi: la piazza rimanda
al crocicchio, e questo a quella. Attardarsi su un edificio significa
perdere il senso e il ritmo del tessuto urbano, la visione della città.
VIA DEGLI ANGELI E PALAZZO DEI DIAMANTI

Anche la mole che Sigismondo d’Este fece costruire nel 1493 va


analizzata, in primo luogo, sotto il profilo urbanistico. Chiunque ne
abbia tentato un’esegesi si è subito dovuto porre un interrogativo:
perché fu edificata in quell’angolo e non altrove? e, in mancanza di
una verifica urbanistica, non ha potuto rispondere. Non meraviglia
che perfino una persona sensibile come Giorgio Padovani dichiari
che il palazzo, se sorgesse su una vasta piazza, “acquisterebbe
certo moltissimo”. Una piazza non poteva aprirsi lungo via degli
Angeli perché avrebbe scardinato l’intera struttura dell’Addizione. Va
ricordato anzi un fatto fondamentale: quando fu elevato il palazzo dei
Diamanti, via degli Angeli aveva inizio all’altezza delle attuali vie
Lollio e Padiglioni (cfr. foto 46), mentre lo spazio antistante il
Castello, come ben si vede nella pianta di Borgatti, era occupato dal
“Giardino del Padiglione” tagliato solo nel 1633 dal cardinale Palotta
per prolungare il corso fino alla Giovecca.
Perché il taglio del Giardino non fu operato da Rossetti? Via degli
Angeli è preesistente al piano dell’Addizione e serviva a raggiungere
la delizia di Belfiore, il Barco, la Certosa, la piccola chiesa di Santa
Maria degli Angeli, insomma le attrezzature e i monumenti fuori dalle
mura della Giovecca. Conglobando tutte queste opere nella nuova
cinta, Rossetti non aveva alcuna ragione di alterare l’arteria che si
era formata spontaneamente in asse al Castello. Ma aveva
fondatissimi motivi per non accordarle una supremazia rispetto a via
dei Prioni, direttrice sia del nuovo abitato che del territorio estense.
Non consta che prevedesse la continuazione di via degli Angeli fino
alla Giovecca; ma anche ammettendo che, in ultima analisi, la
auspicasse, ne pospose l’attuazione al fine di vitalizzare le parallele,
specie quelle adducenti alla piazza nuova. L’ipotesi di una seconda
piazza di fronte a palazzo dei Diamanti è dunque urbanisticamente
insostenibile. Ma ci si può chiedere: perché, dovendo progettare
un’opera artisticamente così impegnativa, non la collocò sulla piazza
erculea? E ancora: perché scelse quell’angolo e non l’opposto, o il
versante settentrionale di via dei Prioni? In altre parole, palazzo dei
Diamanti non potrebbe sostituire palazzo Prosperi-Sacrati o quello
Turchi-Di Bagno?
Non lo potrebbe, in modo assoluto. Giungendo dalla piazza
erculea si doveva trovare all’incrocio l’edificio di maggior risalto (cfr.
foto 71-77).
Se il palazzo fosse stato posto nel sito di quello Prosperi-Sacrati,
l’indicazione direzionale sarebbe stata esattamente opposta a quella
voluta, puntando verso la porta degli Angeli.

Quattro ipotesi sull’ubicazione del palazzo dei Diamanti nel quadrivio. L’impianto prescelto
accentua la direttrice verso la piazza nuova. Se il palazzo fosse situato di fronte, dove sorge
quello Prosperi-Sacrati (cfr. foto 81), costituirebbe un punto di arrivo, inducendo a tornare
indietro verso il Castello. Collocato a destra, implicherebbe un invito verso San Benedetto.
E infine, al posto del palazzo Turchi-Di Bagno, avrebbe un effetto analogo, in quanto
bloccherebbe visualmente l’accesso alla piazza nuova.

Se avesse sostituito palazzo Turchi-Di Bagno, l’effetto angolare e


perciò tridimensionale, in quell’itinerario, sarebbe andato perduto. Lo
stesso ragionamento vale per i nobili e i pellegrini provenienti dalla
delizia di Belfiore o dal Barco: all’incrocio, il palazzo di Sigismondo si
parava loro dinanzi con la sua massa superba, mentre quello Turchi-
Di Bagno formava due quinte invitanti verso il Castello o la piazza
erculea, e il richiamo era accentuato dal “vuoto” dell’angolo nord-est.
In qualunque altra posizione, il suggerimento avrebbe avviato verso
San Benedetto.
La verifica dell’insostituibilità ubicazionale di palazzo dei Diamanti
rivela il carattere singolarissimo del quadrivio. Un architetto mediocre
lo avrebbe risolto con quattro palazzi uguali o equivalenti, mentre
Rossetti, come si è accennato, ne differenzia il “peso” in funzione dei
riferimenti ai vari settori della città. Su quell’angolo, e solo su quello,
occorreva un’architettura squillante, imprevista, meravigliosa
nell’accezione etimologica del termine. Biagio, come si è constatato
più volte, è dispostissimo a rinunciare ai temi aulici se essi
interrompono il discorso urbano: così si è comportato nella piazza
dove, per questo, palazzo dei Diamanti non poteva essere situato.
Ma qui, proprio per precisare e rendere dinamico il discorso urbano,
urgeva un’architettura eccezionale: egli la crea per Sigismondo
d’Este.
“Veramente emana da questo edificio, che Ferruccio de Lupis
disse ‘il palazzo dell’orgoglio’, una profonda virtù di suggestione... A
chi abbia la ventura di ammirare la facciata del palazzo in una sera
di pioggia, non sarà sfuggito il singolare effetto che sulle aguzze
prominenze di pietra produce la scarsa luce dei fanali agitati dal
vento. Le immense pareti si animano, tutte scintilla di luciori e
tremolii d’ombra: la facciata sembra perdere la sua solidità
marmorea e divenire inconsistente, trasparente... Davvero, allora,
non paiono pietre le bugne, ma veri diamanti, e come diamanti
rifrangono la luce in mille guizzanti bagliori. Davvero, allora, il
palazzo pare la dimora della luce e merita l’ariostesco epiteto di
‘spirtale’ che il Carducci gli diede.” Anche chi diffida di ogni enfasi
letteraria deve riconoscere in questo passo di Padovani un accento
di sincero entusiasmo. Per l’originalità e per l’importanza che riveste,
il problema del rivestimento di palazzo dei Diamanti si pone subito,
prima ancora dello studio del suo organismo.
Che tale rivestimento sia di Rossetti sembra ormai accertato.
Cittadella, che aveva espresso dubbi in proposito pensando di
riferirlo al 1567, quando il fabbricato fu compiuto, dovette ricredersi
di fronte alla cronaca di Jacopino dei Bianchi di Modena il quale nel
1496 lo aveva visto “lavorato de fora a malmora e diamanti”. Agnelli
avanzò l’ipotesi che il rivestimento fosse limitato al solo piano
terreno e proseguito in un secondo tempo, nel 1567, nel piano
superiore. Ma contro questa congettura sta il fatto inoppugnabile,
che i ricorsi orizzontali delle facciate – il toro marmoreo che limita la
scarpata di base, la cornice a ovuli con fascia architrave che funge
da marcapiano e da bancale per le finestre del piano nobile –
aggettano in modo tale da dimostrare che l’architetto aveva
preordinato il bugnato. Vi sono vari interstizi nelle connessioni tra le
bugne: si può quindi misurare la distanza tra la parete di
applicazione e il quadrato di base dei diamanti, che è di circa dieci
centimetri. È irragionevole supporre che Rossetti avesse maggiorato
la profondità del toro e della cornice di dieci centimetri se non in
previsione del rivestimento. Perciò quando nel 1503 egli cedette il
lavoro a Girolamo Pasini e a Cristoforo da Milano, la composizione
era definitivamente impostata da lui e dal suo collaboratore Gabriele
Frisoni da Mantova. Il compimento del bugnato, fino al 1567, non fu
che l’esecuzione del disegno rossettiano.
A quali fonti è ricorso Biagio per la sua invenzione? È una
questione che ha incuriosito gli studiosi. Sono stati citati: palazzo
Sanuti, ora Bevilacqua, a Bologna; palazzo Raimondi a Cremona del
1496, quindi posteriore; la parte inferiore della chiesa del Gesù
Nuovo a Napoli; palazzo detto lo Steripinto a Sciacca; casa Ciambra
o Giudecca a Trapani e altre opere che, con ogni probabilità,
restarono sconosciute a Rossetti. Quanto al bolognese palazzo
Bevilacqua di Infrangipani, esso vale a indicare ciò che Rossetti
rifiutò: il bugnato vi è adottato in funzione della sovrapposizione degli
ordini, temperandosi dal basso in alto in una sequenza che ritma il
passaggio da bugne rettangolari piatte a piramidi con base
rettangolare prima e quadrata poi.
I tre tipi di bugnato a diamante di palazzo Bevilacqua a Bologna non hanno nulla in comune
con quello del muro marmoreo del palazzo di Sigismondo. Invano si è cercato un
antecedente dell’invenzione rossettiana, da parte di storici scarsamente propensi a
riconoscere l’originalità creativa dell’architetto-urbanista ferrarese.

L’accentuazione è orizzontale, sottolineata dai solchi profondi che


isolano le bugne entro circoscritte zone d’ombra. Biagio, proprio
perché vuole un muro di marmo, elimina questi solchi, uniforma le
ottomila cinquecento bugne disegnandole molto più aggettanti di
quelle di Infrangipani in modo che smorzino, con forti ombre
triangolari, la distinzione degli ordini sovrapposti. Con tali dispositivi,
ottenne due risultati: alleggerì, impreziosendole, le quinte stradali;
allo stesso tempo, rese più compatta e possente la massa
volumetrica quale si presentava ai cortei principeschi provenienti
dalla porta degli Angeli, e a quelli popolari che dalla piazza nuova si
dirigevano, lungo il corso, verso il Castello.
Un’analisi del bugnato ha messo in risalto alcune peculiarità
inedite. Si è riscontrato un graduale spostamento dell’asse delle
piramidi: nella striscia di bugne del basamento, i vertici delle piramidi
sono sensibilmente rivolti verso il basso; nella zona centrale della
facciata, gli assi sono rigorosamente normali a essa; sopra,
s’inclinano di nuovo, ma verso l’alto. Il sospetto che possa trattarsi di
un caso fortuito o di un’imperfezione tecnica è dissipato da un’altra
osservazione: man mano che ci si appressa alle paraste angolari, le
diagonali congiungenti i vertici delle piramidi seguono un andamento
curvilineo regolare, mentre esso si attenua gradualmente nelle zone
discoste dallo spigolo.
I vertici delle piramidi dei diamanti (cfr. foto 71-74) sono spostati in alto o in basso mediante
sottili e spesso inafferrabili correzioni ottiche, e sono raccordati secondo linee curve,
inclinate verso l’angolo. Questi dispositivi spiegano il carattere vibrato, tutt’altro che
meccanicistico, dell’imponente rivestimento.

È mai opinabile che Rossetti e Frisoni non ne fossero consapevoli?


Queste impalpabili correzioni ottiche sono essenziali nell’effetto
estetico, poiché detraggono ogni meccanicità al muro marmoreo, lo
rendono vibrante, lo esaltano: verticalmente, offrendo al riguardante i
triangoli luminosi dei diamanti in alto e in basso; orizzontalmente,
convogliando e intensificando lo scintillio verso l’angolo.
Del resto, altre cure dello stesso genere qualificano il palazzo. Via
degli Angeli procede in leggero pendio fino a pochi metri dopo il
blocco dei diamanti, quindi risale verso il Castello. Ebbene,
osservando il basamento della facciata, si nota come esso si
assottigli a sud. Un cedimento durante i lavori o un interramento?
Per caso, alcuni scavi nella massicciata della strada hanno
permesso di constatare che non esiste alcun tratto di scarpata
interrato; viene spontaneo pensare che Rossetti abbia voluto
accentuare la fuga prospettica del basamento quasi per invitare al
successivo raccordo viario. E ancora: un parallelepipedo tarchiato,
ricoperto da un manto così violento, sarebbe risultato statico e
opprimente all’angolo del quadrivio. Biagio allora arretra il piano
nobile; lo scarto è sensibile, anche se l’occhio profano non lo
registra; il masso si contrae, non incombe più sulle strade, acquista
una dinamica ascensionale.
La funzione figurativa delle candelabre angolari non richiede
commenti. Basta immaginarle assenti, con i diamanti spinti fino allo
spigolo, per rendersi conto della massiccia gravezza che avrebbe
acquistato la mole.

Il piano nobile del palazzo dei Diamanti è arretrato rispetto al filo del piano terreno. Tale
accorgimento prospettico evita che la sua mole incomba eccessivamente sul nodo del
quadrivio.

Invero, la fattura chiaroscurale minuta e fragile di queste candelabre,


contestando la rigida geometria dei diamanti e opponendo fine
eleganza decorativa alla rude, altera, ispida distesa muraria, fa sì
che l’angolo si svuoti di materia. La soluzione è tridimensionale,
poiché si prolunga nella zona neutra che separa il bugnato dal
cornicione: per essa, il coronamento dell’edificio, anziché invischiarsi
nel contatto con i diamanti, galleggia sopra il blocco. L’espediente
richiama palazzo Strozzi a Firenze dove un alto cornicione si
distacca da una massa rivestita di bugne in modo simile anche se
cromaticamente meno intenso. Ma, a parte la datazione
dell’immagine di Benedetto da Maiano e del Cronaca rispetto al testo
ferrarese, quest’ultimo ha una forza, una concretezza plastica e
tattile assai superiore: la fascia neutra non è, come a Firenze, una
superficie liscia che placa i motivi “disegnati” del bugnato; è un muro
di mattoni tagliato da finestre a ovulo che si propone come “secondo
piano” del muro di marmo. La più incisa rientranza, la commutazione
del materiale, la sua grana e specie il suo colore consentono lo
scatto del cornicione conclusivo.
Mentre è del tutto chiara la funzione compositiva dei pilastri
angolari e dell’incavo superiore, le candelabre a fianco del portale
suscitano profonde perplessità. Non rispondono infatti al progetto
originario, non sono di Rossetti.
Va riconosciuto che palazzo dei Diamanti possiede una tale
energia da assimilare modifiche e accrescimenti. Ciò si applica non
solo al rivestimento esterno, ma al suo intero organismo. Malgrado
le numerose trasformazioni, l’impianto spaziale mantiene una
fisionomia schiettamente personalizzata. Su via degli Angeli: il
vastissimo salone che riceve luce da cinque finestre e il cui soffitto a
cassettoni era valorizzato dagli ovuli ora chiusi. A nord, sul corso dei
Prioni: cinque sale la cui notevole caratteristica è che lo spazio si
rastrema progressivamente accentuando gli effetti prospettici anche
mediante successivi abbassamenti dei soffitti. Lo stesso fenomeno si
riscontra nell’ala sud: la cubatura delle sale illuminate da finestre che
si affacciano sul giardino diminuisce in modo graduale, a eccezione
degli ultimi due vani che sono gemelli. Quest’ala conclude il sistema
di tre sale maggiori concentrate intorno al cortiletto e comunicanti
attraverso una galleria e un corridoio. Il palazzo, così com’è,
presenta un impianto planimetrico modernissimo, dinamico, si
direbbe oggi spazio-temporale: dal nucleo del cortiletto lo spazio
erompe nel salone per poi cadenzare il suo discorso nel braccio
lungo via dei Prioni.
Occorre avvertire tuttavia che lo schema attuale non è quello
originario, la cui ricostruzione propone ardui quesiti, specie per ciò
che riguarda l’ubicazione della scalea che adduceva al salone su via
degli Angeli. Entrati nel cortile, si nota subito che l’asse
congiungente l’ingresso al pozzo e al cancello di fondo non taglia il
vuoto in parti uguali: a destra, cioè nel corpo a settentrione, manca
qualcosa, e lo denuncia chiaramente il loggiato. Esso infatti presenta
sette archi a pieno centro che risvoltano sulla parete sud
agganciandola brillantemente con un altro arco.
L’aggancio del portico sull’ala meridionale del cortile. Evidentemente, lo stesso motivo si
ripeteva sull’ala settentrionale, quando esisteva il corpo di fabbrica contenente lo scalone.

Ma a nord il loggiato continua con un estremo arco ribassato che si


differenzia dagli altri; le tracce di un muro sovrastante, ben visibili,
testimoniano come esso dovesse essere conglobato in un interno,
come cioè esistesse un’ala nord analoga a quella meridionale. Che
cosa fu demolito nel corpo su via dei Prioni? Analizzando il salone
del piano nobile, si nota un incasso di porta perfettamente
simmetrico a quello che immette nella galleria delle sale a sud; tale
porta, oggi murata, attesta l’esistenza di un corpo attraverso il quale,
anche sul lato nord, si raggiungeva il salone. Numerosi altri dati,
accuratamente verificati, suggeriscono una chiara ricostruzione: 1)
l’attuale muro settentrionale del cortile è più alto di quello dell’ala di
fronte, ma è pari alla parete interna della sua galleria, il che dimostra
che anch’esso originariamente era un divisorio; 2) tracce di fori di
travi disposte in diagonale, fanno pensare a uno scalone a due
rampe, simile a quello del palazzo comunale; 3) le finestre
dell’attuale sottotetto non sono che porte murate sino all’altezza di
ottanta centimetri dal pavimento; 4) i finestrini che illuminano il
mezzanino e la scaletta a chiocciola sono stati aperti in un secondo
tempo, come conferma pure la diversità dei materiali; 5) nel giardino
sono state rinvenute tracce di un muro parallelo a via dei Prioni; 6)
un secondo muro parallelo a via degli Angeli, di cui sono state
scoperte le fondazioni, farebbe arguire che il blocco originario del
fabbricato si concludesse al limite interno della loggetta del corpo
meridionale, e cioè che il palazzo sia stato prolungato su via dei
Prioni più tardi; 7) una pianta del 1841 mostra un corridoio aereo
sopra il muro di cinta collegato appunto all’ultimo ambiente del
braccio nord e alla loggetta. D’altra parte, le cronache del 1567
riferiscono che il palazzo fu radicalmente rimaneggiato, forse in
seguito a un crollo: tutto lascia dunque ritenere che il corpo
settentrionale fosse uguale a quello meridionale, che il cortile fosse
simmetrico, aperto sul giardino attraverso il diaframma del fondale.
Una perfetta pianta a U, alterata dalle successive vicende. Nel corpo
ora mancante si sviluppava, con ogni probabilità, lo scalone che
adduceva al piano nobile.

Schema della struttura originaria di palazzo dei Diamanti, con le due ali analoghe e lo
scalone di accesso al piano nobile. L’alterazione di questa struttura ha reso il palazzo più
umano e moderno.
I volumi interni del piano terreno e del primo piano. Malgrado il rigoroso ordito, che rispetta
sul fronte principale anche la legge toscana delle sette finestre, la sequenza degli spazi si
sottrae a ogni astratta regola proporzionale. L’effetto assonometrico di moderna pianta
articolata va tuttavia attenuato immaginando un secondo corpo di fabbrica sul lato
settentrionale del cortile.

Benché lo studio ricostruttivo sia appassionante, l’indagine


storico-filologica non può oscurare l’istanza estetica: le numerose
modifiche apportate nel corso dei secoli hanno conferito
all’organismo una singolare bellezza. Non è osservazione romantica,
né amore del rudere e dell’impuro. La scomposta facciata
settentrionale, il dissimmetrico loggiato, il corpo a sud umanizzato
dalla loggetta offrono una visione solenne e insieme bonaria che fa
di questo cortile un “ambiente interno scoperto” così cordiale quale
nessuna rigida composizione bilanciata potrebbe fornire. L’impianto
rinascimentale è animato e rinsanguato da una varietà di apporti, in
parte dovuti ai suoi collaboratori e seguaci, in parte a coloro che
completarono i lavori. Sono proliferazioni sviluppatesi attraverso i
tempi che hanno talvolta arricchito l’immagine originaria. Chi
avrebbe la temerità di riesumarne la configurazione? Ad esempio,
anche se fosse definitivamente accertato che l’ultima sala del
braccio su via dei Prioni fu aggiunta nel Seicento, chi proporrebbe di
demolirla quando all’interno estende la tematica dello spazio
rastremato delle altre quattro sale, e nel prospetto presenta una
finestra ben distanziata e tutt’altro che fastidiosa? Più che del gusto
del non-finito, si tratta qui del gusto del “cresciuto”, del dono di
impiantare un organismo architettonico in forma elastica, ricettiva di
alterazioni e commenti. A Firenze, la mancanza della cornice di una
finestra, di un rapporto proporzionale, di una simmetria ferisce subito
l’occhio; a Ferrara, specie nei palazzi dell’Addizione, è un fatto
secondario che stimola più l’intelletto che la sensibilità.
L’assenza della galleria nel braccio settentrionale non danneggia
nemmeno l’articolazione spaziale interna. La fuga delle sale e le
prospettive del salone esaltano l’ambiente angolare che partecipa
alla vita dei due corpi, la riassume, la proietta tramite il balcone sulla
città. Questo stupendo sporto ci riporta al panorama urbano, agli altri
palazzi del quadrivio, ai rettifili: è l’episodio plasticamente più
qualificato di tutta l’opera, e non a caso è ubicato nel fulcro dinamico
dell’Addizione per informare di sé ogni saliente visuale, dal Castello
e dalla porta degli Angeli, da San Benedetto e dalla piazza nuova.

Gli altri edifici rossettiani di via degli Angeli, anche i due del
quadrivio, i palazzi Prosperi-Sacrati e Turchi-Di Bagno, si
compongono in rapporto alla dimora di Sigismondo, quasi che il loro
tono fosse graduato in funzione del signoreggiante blocco estense.
Nessuno presenta una massa imponente; tutti puntano su strumenti
espressivi diversi, su lineamenti di pilastrate atte a separare i volumi
in piani che fungano da schermi alla strada, o su tranquille stesure
murarie. Persino il “vuoto” all’angolo nord-orientale del crocevia,
costituito da un neutro fabbricato a un piano dietro il quale svettano i
solenni alberi del parco Massari, si spiega in relazione al palazzo dei
Diamanti: rimpianto urbanistico, come vedemmo, non ammetteva sul
versante della piazza nuove strutture che venissero a competere con
quella di Sigismondo.
Palazzo Prosperi-Sacrati fu elevato intorno al 1493 per l’archiatra
ducale Francesco Castelli, e poi parzialmente rinnovato nella prima
decade del Cinquecento (cfr. foto 78-81). Un documento reperito da
Cittadella attesta che Rossetti fu chiamato come arbitro per dirimere
una lite sorta tra il committente e i costruttori; ciò spinse a escludere
Biagio dai possibili architetti del palazzo, poiché egli non poteva
essere giudice e parte, all’un tempo. Ma Reggiani, Neppi e Padovani
giustamente osservarono che il documento si riferisce alla prima
fase dei lavori, mentre l’opera di Rossetti riguarda soprattutto il
rinnovamento cinquecentesco; non meraviglia che Castelli, volendo
procedere a un arricchimento della sua abitazione, abbia chiamato
proprio colui che, per la sua autorità, era stato scelto arbitro nella
contesa.
Rossetti mantenne il tono opaco dell’edificio che egli stesso, in
qualità di soprintendente all’Addizione, aveva contribuito a
determinare, ma vi sovrappose alcuni preziosi elementi: all’interno, il
loggiato; all’esterno, le pilastrate angolari e lo stupefacente portale.
Stava modificando le finestre del piano nobile quando la morte
dell’archiatra, avvenuta nel 1511, fece sospendere i lavori.
La paternità del portale, come si è accennato, è stata contestata
a Biagio. È ben difficile tuttavia immaginare che Castelli chiamasse
due diversi artisti per le pilastrate e per il portale, tanto più che le
ricorrenze e gli allineamenti sono tali che l’autore misterioso di
quest’ultimo avrebbe dovuto assoggettarsi a Rossetti per tutta
l’impostazione architettonica, limitandosi all’esecuzione plastica.
Quanto alla congettura di Agnelli, chi avrebbe comprato il portale a
Venezia se non Biagio? Va aggiunto che un’analisi permette di
reperirvi modanature usate ampiamente da Rossetti altrove; né gli
accenti veneti e lombardeschi sono estranei, come sappiamo, al suo
gusto. Perché dunque gli fu negato? Il motivo è uno solo: è stato
giudicato troppo bello per Rossetti. Le splendide colonne scanalate
con capitelli compositi, i pilastri che le legano alla parete, la scalinata
scolpita, la trabeazione e i fregi sono sembrati plasticamente troppo
perfetti per essere ascritti al modesto “muratore”. Gli amatori di
Rossetti ne hanno rivendicato la paternità al maestro mediante
minuti esami calligrafici e acute comparazioni. Ma prima che nelle
magnifiche membrature, è nella funzione urbanistica del portale che
si rivela il suo autore.
Rossetti aveva escluso un ingresso sontuoso e aggettante
rispetto al filo stradale nel palazzo dei Diamanti, perché all’interno
del quadrivio e in quell’angolo voleva che una massa compatta si
proponesse all’osservatore. Qui però il problema era diverso. Era
stato risolto provvisoriamente nel 1493 con una porta di cui sono
state rinvenute tracce ma si ignora il disegno. Quando, nel
Cinquecento, Biagio riaffrontò il tema, sentì che in direzione del
Barco, su un corpo edilizio minore e appena ravvivato da spunti
decorativi, un grandioso accesso emergente avrebbe suggerito un
arresto visuale non solo utile, ma quasi indispensabile per smorzare
la velocità della traiettoria longitudinale, per invitare a levante, verso
la piazza nuova.

Elementi fondamentali di palazzo Prosperi-Sacrati: il balcone angolare e il portale


costituiscono rilevanti “arresti visuali” su via degli Angeli, favorendo la conversione verso la
piazza nuova (cfr. foto 78-81).

Certo, vi sono ottime ragioni per ritenere sua anche la fattura


plastica del portale; ma persino se fosse accertato che qualche
scultore, per esempio Antonio Lombardo, sia l’artefice delle
membrature, la paternità dell’impianto resterebbe a Rossetti.
A questo punto infatti il carattere della sua personalità artistica e
professionale dovrebbe essere evidente. Tracciata la città, sceglie gli
edifici la cui massa deve essere da lui definita per dare al piano la
sua terza dimensione; tra i fabbricati, ne seleziona uno chiave,
palazzo dei Diamanti, e gli dedica le sue fatiche perché l’architettura
risolve un nodo fondamentale della città; ristudiando la dimora
dell’archiatra, individua nel portale un elemento qualificante l’intera
strada. Occorre un plastico capace di crearlo in modo che la sua
monumentalità sommerga e coaguli, travolgendo con la sua forza
l’intera immagine? Lo trova e lo controlla, oppure si fa lui stesso
scultore. Tale è il genio rossettiano: capace di rinunciare anche a un
intero isolato, ma non a un portale quando va aggredito e modellato
per incidere sulla visione urbana, e lo splendore plastico sublima la
città.
Nel palazzo Turchi-Trotti-Di Bagno costruito nel 1493,
contemporaneamente alla prima edizione di quello dell’archiatra (cfr.
foto 82-84), l’intervento di Rossetti è stato individuato nella vistosa
pilastrata d’angolo in pietra bianca d’Istria, composta da due coppie
di paraste poggianti su alte basi trapezoidali.

Linee-forza del palazzo Turchi-Di Bagno (cfr. foto 83, 84). Il barone Haussmann, per i rettifili
parigini, costruirà facciate. Rossetti fissa gli angoli, in una visione prospettica infinitamente
più ricca e dinamica.

Alcuni hanno attribuito al maestro anche le finestre ad arco ribassato


su via degli Angeli, il loggiato interno, la scala secondaria, il portale
rifatto nel 1555 secondo il modello originario. Ma le strutture primitive
mostrano un organismo a L spazialmente ritmato secondo moduli di
pretta marca rossettiana.
Il motivo angolare, a prima vista, desta più sorpresa che
ammirazione, tanto appare polemicamente scisso dall’organismo
edilizio. Per intendere che si tratta di una soluzione spericolata
quanto geniale, bisogna immaginare di prolungarne i partiti sulle due
facciate. Che cosa accadrebbe? Il palazzo formerebbe una massa
composta da due ordini scanditi da paraste appaiate. Questo blocco
marmoreo verrebbe a competere con palazzo dei Diamanti, e
l’insieme dei due edifici apparirebbe una maestosa scenografia.
Dominata da due immagini diverse ma di pari intensità artistica, la
strada perderebbe vigore dinamico. Rossetti comprende i rischi insiti
in tale soluzione: sente che occorre un motivo angolare e lo disegna
ampio e schiacciato sulla superficie, ma ha il coraggio di
interromperlo. La stessa assenza di un poggiolo simile a quello di
palazzo dei Diamanti è sagace: nella prospettiva di via degli Angeli,
due balconi sporgenti costituirebbero uno statico “fermo” visuale,
mentre da quel lato si voleva, segnato l’angolo, un invito a procedere
verso il Castello o verso la piazza. La composizione di palazzo
Turchi-Di Bagno non doveva dunque essere simmetrica, non doveva
chiudersi su se stessa: dal pernio angolare le quinte parietali
dovevano indicare fughe illimitate. A tal fine, Rossetti torna al
linguaggio della tradizione, al laterizio, all’umile dialogo tra finestre
binate e superfici piene; rettangoli senza pretese, conclusi dal
cornicione e punteggiati da bucature pressoché anonime. Ecco il
costume dell’architetto: dopo un atto lirico sente subito l’urgenza di
riparlare in prosa, di adeguarsi a un linguaggio popolare,
comprensibile a tutti, comunicabile, umano.

La lettura di palazzo Mosti è analoga (cfr. foto 85). Posto


all’angolo tra via degli Angeli e l’attuale via Aria Nuova, ripete il tema
del palazzo Turchi-Di Bagno, ma in sordina. Lo spigolo viario su cui
s’impernia è secondario rispetto a quello del quadrivio, e quindi il
partito decorativo può ridursi a un semplice robusto pilastro.

Il pilastro angolare di palazzo Mosti (cfr. foto 85) ripete, in tono minore, il motivo di palazzo
Turchi-Di Bagno. Risponde a una funzione tipica delle case ferraresi dell’aggregato
medievale (cfr. foto 24-27).
Va notato però come esso non si allinei al portale, non rispetti gli
ordini sovrapposti, astragga insomma dalla composizione del
palazzo. Anche in questo caso Biagio vuol dimostrare che le facciate
dell’edificio non valgono per un loro impianto autonomo e
simmetrico, ma come quinte prospetticamente sfuggenti da un nodo
urbano.
L’ultimo fabbricato che resta da esaminare è quello di Giulio
d’Este (cfr. foto 86). Restaurato nel 1932, conferma il carattere che
Rossetti voleva imprimere ai fabbricati disposti lungo le strade
dell’Addizione. Le finestre binate, il mirabile cornicione, la porta
marmorea con sovrastante balcone, l’arioso cortile razionalizzano il
vernacolo ferrarese senza annientarlo. Il discorso rinascimentale
adotta vocaboli noti all’artigianato locale precisandone la virtuale
sintassi, ma senza rigorismi accademici. L’eleganza non comporta
atteggiamenti altezzosi, la fabbrica gentilizia si nutre di ingredienti
tratti dai dialetti, la fisionomia di Ferrara moderna non si distacca e
non si oppone a quella del vecchio nucleo. La saldatura, la simbiosi
tra le due città è garantita anche dal linguaggio architettonico che
Rossetti rinnova ma non sovverte.

Oltre venti palazzi furono costruiti nell’Addizione in meno di un


decennio, e contemporaneamente sorsero dodici chiese, due delle
quali – San Benedetto e San Giovanni – dominano le piazze minori.
Palazzi e chiese rossettiane disseminate nel territorio dell’Addizione: il futuro della città nei
secoli è garantito da queste fondamentali strutture edilizie. Anche a livello urbanistico, si
tratta di fissare gli “angoli”, i nodi, le cerniere di un continuum che sarà inverato dagli eventi
e dalla vita. Rinunciare a predisporre il futuro, cioè a indicare un’intenzionalità di sviluppo, è
codardo; ma ipotecarlo in ogni particolare è assurdo e illusorio.

Ma se l’esame dei principali palazzi non ha distolto l’attenzione


dall’organismo urbanistico, quello delle chiese propone temi che
richiedono una lettura particolare. E inoltre San Francesco, la prima
di esse, si erge nella Ferrara medievale. Dunque conviene chiudere
a questo punto il capitolo sulla città nuova.
Nell’agosto del 1494, Biagio Rossetti inizia la costruzione di San
Francesco. Da quel momento per lui non esiste più alcuna differenza
tra la vecchia e la nuova Ferrara. Due anni di inenarrabile fatica
hanno creato la struttura dell’Addizione. La cinta muraria della
Giovecca non è ancora crollata, l’antico nucleo non si è ancora
spalancato agli orizzonti dell’Addizione; ma proprio per questo, e
prima che sia troppo tardi, occorre intervenire a rinnovarlo. Da ora in
poi il compito del Rossetti è diretto a fondere l’abitato medievale con
l’Addizione già virtualmente compiuta, a saldare le due città, o
meglio a sviluppare una sola moderna unità urbana. Gli restano
ventidue anni per realizzare questo obiettivo.
SVILUPPO URBANISTICO DI FERRARA
37. Planimetria della città nel XIII secolo, elaborata da Carlo Savonuzzi. Sono segnati l’isola
del Belvedere (IB), il Castel Tedaldo (CT), la via dei Sabbioni (VS), Ripagrande (VG),
l’antica piazza (AP), il pratum bestiarum (PB), il Castello dei Cortesi (CC), il polesine di
Sant’Antonio (M), e il monastero di San Giorgio (MG).
38. Particolare della Carta itineraria del XIV secolo, il primo documento grafico originale,
illustrato nel suo insieme nel retro (cfr. foto 40).
SVILUPPO URBANISTICO DI FERRARA
La serie dei documenti originali si apre con la Carta itineraria. Siamo nell’età cantata da Le
Corbusier in una pagina celebre: “Quando le cattedrali erano bianche, l’Europa aveva
organizzato le attività produttive secondo l’esigenza imperativa di una tecnica nuova,
prodigiosa, follemente temeraria, il cui impiego conduceva a sistemi di forme inattese... Le
cattedrali erano bianche perché erano nuove. Le città erano nuove. Se ne costruivano di
tutte le misure...”
39. Trascrizione del particolare della Carta itineraria precedentemente illustrato (cfr. foto
37), orientato come le altre stampe. Benché in modo assai schematico, vi si individuano i
principali elementi dell’organismo ferrarese nel XIV secolo.
40. La Carta itineraria del territorio di Ferrara nel XIV secolo, conservata nella Biblioteca
Vaticana. È certamente posteriore al 1326 poiché vi appare il palazzo della Ragione,
iniziato nel 1283 ma terminato solo in quell’anno. Il nord è in basso.
41. Pianta di Bartolino da Novara, databile al 1385; vi è segnato infatti il Castello.
Manomessa in epoca più tarda, la pianta contiene alcune indicazioni non attendibili.
42. Trascrizione ottocentesca della pianta di Bartolino da Novara, elaborata da Antonio
Frizzi. Il cuneo triangolare dell’“Addizione Adelarda” appare assai ridotto.
“Il nuovo mondo cominciava. Bianco, limpido, gioioso, pulito, netto e senza ritorni, il nuovo
mondo si apriva come un fiore sulle rovine. Si erano abbandonate tutte le usanze
riconosciute; si erano voltate le spalle al passato. In cento anni il prodigio fu compiuto e
l’Europa fu cambiata.” L’epopea urbana del continente, così descritta da Le Corbusier, fu
interrotta, com’è noto, dalla crisi economica e demografica della seconda metà del
Trecento. In Italia tuttavia lo sviluppo si prolunga fino all’alba del Cinquecento. Spiccano tra
i maggiori interventi, a metà del Quattrocento, quelli attuati da Niccolò V e Sisto IV a Roma,
da Francesco Sforza a Milano, la ricostruzione di Pienza, di Urbino e di Mantova. L’impresa
più ardita è quella di Ferrara: compiuta alla fine del XV secolo da Biagio Rossetti, appare
tuttora “follemente temeraria” anche nell’ambito figurativo, poiché si svincola dalla pittura
“maestra a tutte le cose”, come affermava Leon Battista Alberti, e si fonda su una moderna
concezione urbanistica.
SVILUPPO URBANISTICO DI FERRARA
43. Carta originale di Pellegrino Prisciani del 1498, conservata nella Biblioteca dell’Archivio
di Stato di Modena. A sud, l’Addizione di Borso; a nord, l’Addizione Erculea.
44. Alzato di Ferrara del 1499, conservato nell’Archivio di Stato di Modena. Nella piazza si
vede la “loggia” rossettiana, elemento urbanisticamente essenziale (cfr. foto 36).
45. Trascrizione della carta di Prisciani, fedelmente elaborata da Filippo Borgatti. Da
sinistra, si notano i borghi della Pioppa, di San Luca e di San Giacomo.
46. (pp. seguenti). Pianta di Ferrara nel 1597, elaborata da Filippo Borgatti nel 1895.
Rappresenta la consistenza della città al momento della devoluzione del Ducato alla Santa
Sede.
SVILUPPO URBANISTICO DI FERRARA
47. Incisione di Matteo Florimi Formis del 1598, riveduta da Giuseppe Capocaccia nel 1602.
48. Pianta di Ferrara nel 1605, disegnata da Giovanni Battista Aleotti. Mostra la costruzione
della fortezza pontificia e la demolizione del Castel Tedaldo.
49. Recinto di Ferrara nel XVII secolo. Documenta l’intera linea fortificata, con la precisa
denominazione delle porte e dei baluardi. La fortezza pontificia, indipendentemente dal suo
intrinseco valore architettonico, risulta una componente autonoma ed estranea.
50. (pp. seguenti). Prospettiva aerea di Ferrara, disegnata ne l 1705. Si osservi la
preponderanza delle zone verdi entro il recinto fortificato.
SVILUPPO URBANISTICO DI FERRARA
51. Prospettiva aerea della città, incisa da Andrea Bolzoni nel 1747. Da questo
fondamentale disegno furono tratte altre incisioni pubblicate da G.B. Galli nel 1768, nel
1782, nel 1794 e infine nel 1800. In tali riproduzioni però si riscontrano numerose aggiunte
e rettifiche.
Tutte le stampe qui raccolte, a eccezione della Carta itineraria della Biblioteca Vaticana (cfr.
foto 38-40), della carta di Pellegrino Prisciani della Biblioteca dell’Archivio di Stato di
Modena (cfr. foto 43) e dell’Alzato dell’Archivio di Stato di Modena (cfr. foto 44), sono
conservate nella Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara.
SVILUPPO URBANISTICO DI FERRARA
52. Scenografia prospettica degli inizi del XIX secolo. A distanza di oltre tre secoli, la
previsione rossettiana mantiene la sua validità tecnica e sociale.
53. Pianta della città nel 1836, eseguita da Francesco Pampani. L’organismo ferrarese
contava in quell’epoca 26.563 abitanti.
54. Pianta della città alla fine del XIX secolo. La fortezza pontificia è stata distrutta, mentre
la cintura muraria si conserva integra. Compare la ferrovia. La vicenda urbanistica di
Ferrara entra nella cronaca del nostro secolo col suo invaso rossettiano incolume, ricca di
un “piano aperto” che i secoli non hanno ancora saturato.
Temperie della città nuova: una svolta metodologica e uno scatto qualitativo nei confronti
sia della maglia medievale (cfr. foto 24-31, 36) che dell’Addizione borsiana (cfr. foto 17-22,
32-34). Questa immagine ne sintetizza i caratteri: rettifilo viario, schermi di cortine in cotto,
emergenze arboree che colorano diversamente l’ambiente in ogni stagione, in ogni
condizione climatica, quasi in ogni ora del giorno. Ma il fattore rilevante è dato dal colloquio
tra paesaggio urbano e masse edilizie, cioè dall’incastro tra “architettura di percorso” e
“architettura di arrivo”. Il genio rossettiano si concreta in questi trapassi. Siamo in un punto
delicatissimo, dove una arteria del nuovo comprensorio sbocca nell’immenso spazio del
moderno centro direzionale. Si tratta di mediare il passaggio tra due contrastanti fruizioni
urbane. Rossetti prolunga il percorso in un portico, cioè lo coagula in un ambito edilizio che
già appartiene all’episodio di arrivo.
L’ADDIZIONE ERCULEA
55. Via Borso, larga 9 metri, che da San Cristoforo alla Certosa (cfr. foto 56, 109-114)
adduce alla grande piazza nuova (cfr. foto 65). In fondo, il palazzo Bevilacqua funge da
ponte tra le quinte stradali e il gigantesco slargo. Non vi è alcun distacco tra “monumenti”,
edifici “minori” e “arredo urbano”: sono tutti ingredienti indispensabili di una stessa
narrazione che consente luci e ombre, presenze salienti e pause di fondali prosaici. Ma in
nessun caso è ammissibile che un singolo fabbricato si sottragga alla regola di un comune
contegno civile.
Il problema nodale dell’impresa rossettiana consisteva nel garantire una simbiosi tra nucleo
antico e settori nuovi della città. A Ferrara, il canale della Giovecca sembrava costituire una
cesura insuperabile: l’abitato medievale si addensava a sud, intricato e tortuoso; a
settentrione, il deserto. La barriera, prima che figurativa, era di natura sociale e psicologica.
Occorreva vincere un costume passivo, il gregarismo che costringeva i cittadini in un’area
limitata, ai piedi del potere incentrato nel Castello estense. Attraversare la Giovecca
significava capovolgere i comportamenti, svincolarsi dal paternalismo, conquistare un
territorio libero, sconfinato, consono alla vita di uomini coraggiosi. A tal fine, era necessario
il massimo impegno progettuale nella saldatura tra le due parti. Giustapporre
meccanicamente un quartiere rinascimentale all’insediamento del Medioevo era facile,
come dimostrano i programmi di espansione di molte città europee, da Napoli e Bari a
Trieste e Barcellona, attuati dal Seicento all’Ottocento. Ma Rossetti vuole attingere
un’immagine unitaria, una sola città, e perciò ne cuce e fonde le componenti con
straordinaria maestria.
56. Simbiosi tra i due settori della città. A sud della Giovecca, si vedono il Castello e la “via
coperta” che lo congiunge alla residenza estense nel cui cortile si profila la scala di
Benvenuti (cfr. foto 31); a destra, la Cattedrale. A nord della Giovecca, l’asse della via degli
Angeli. La strada arcuata a sinistra è via della Rosa, oggi via degli Armari, che incunea
nella maglia rinascimentale l’andamento dell’antica via Boccacanale. Sulla Giovecca, a est,
si intravede il palazzo Roverella (cfr. foto 135, 136).
L’ADDIZIONE ERCULEA
57. Ferrara dall’alto. L’asse est-ovest, al cui centro sorge il Castello estense, è la Giovecca,
che separa il nucleo medievale e l’Addizione di Borso, sua propaggine a sud-est, dalla città
nuova creata da Biagio Rossetti. Dal Castello si stacca la via degli Angeli che incrocia, nel
celebre quadrivio dominato dal palazzo dei Diamanti, la via dei Prioni adducente, a sinistra,
a porta Po e, a destra, a porta Mare. Lungo questa arteria si spalanca il “cuore” della
Ferrara moderna, la piazza erculea (cfr. foto 65). Rossetti tempesta con i suoi interventi (cfr.
foto 64) sia il vecchio aggregato che l’area di espansione, poiché il suo programma consiste
nell’edificare una città unitaria, senza soluzioni di continuità. La compattezza dell’insieme è
assicurata dalla cintura muraria, che non ha una mera funzione difensiva, ma determina
uno spazio territoriale agibile, socialmente e psicologicamente fruito anche se per secoli
vasti settori restano privi di fabbriche. Qui si invera la concezione di un piano oggi
denominato “aperto”: un assetto da realizzare a breve o a lunghissimo termine, secondo le
esigenze, in parte o in tutto, capace di recepire imprevisti apporti, e tuttavia utilizzabile
immediatamente, per la sua scala umana, come non-finito.
LE MURA
58. Il cosiddetto “torrione del Barco” visto dal fossato esterno della fortificazione.
59. La piattaforma superiore del torrione del Barco.
60. Uno dei sei torrioni nel tratto tra quello del Barco e la porta degli Angeli.
61. La porta degli Angeli conclude l’asse sud-nord dell’attuale corso Ercole I d’Este.
62. Un tratto delle mura tra porta Mare e la Punta della Giovecca.
63. La Punta della Giovecca, allo sbocco del corso omonimo.
64. EDIFICI DI BIAGIO ROSSETTI

Punta della Montagnola

Porta degli Angeli (cfr. foto 61)

Torrione del Barco (cfr. foto 58, 59)


San Cristoforo alla Certosa (cfr. foto 110-115)
Palazzo Mosti (cfr. foto 85)
Torrione di porta Mare
Santa Maria della Consolazione (cfr. foto 137-140)
San Giovanni Battista
La piazza nuova (cfr. foto 65)
Palazzo Rondinelli
Palazzo Bevilacqua (cfr. foto 55, 66-70)
Palazzo Prosperi-Sacrati (cfr. 78-81)
Palazzo Turchi-Di Bagno (cfr. foto 82-84)
Palazzo dei Diamanti (cfr. foto 71-77)
Palazzo di Giulio d’Este (cfr. foto 86)
San Benedetto (cfr. foto 104-109)
Palazzo Giglioli-Varano
Arsenale
Loggetta del Castello
Palazzo Roverella (cfr. foto 56, 134, 135)
La “via coperta”
Palazzo Saracco
Abside della Cattedrale (cfr. foto 116-118)
Punta della Giovecca
Palazzo di San Francesco o Pareschi
San Francesco (cfr. foto 87-99)
Palazzo Montecatino
San Vito
Palazzo Schifanoia (cfr. foto 17-22)
Santa Maria in Vado (cfr. foto 100-103)
Chiostro di San Paolo

San Silvestro
Casa Rossetti (cfr. foto 32-34)
Palazzo di Ludovico il Moro (cfr. foto 119-134)
Palazzo di Ghiara

San Giorgio (cfr. foto 23)


LA PIAZZA NUOVA
65. Polmone verde dell’Addizione Erculea, è larga 100 metri e lunga 200. A sinistra, si vede
il porticato del palazzo Rondinelli. Nel fondo, il palazzo Bevilacqua (cfr. foto 66-70), il cui
ampio portico accoglie la direttrice di via Borso (cfr. foto 55).
PALAZZO BEVILACQUA
66. Il blocco, con il suo portico, visto dal lato meridionale della piazza.
67. La “strada coperta” che congiunge via Borso all’attuale via Palestro.
68. Al viandante che giunge nella piazza dall’attuale via Palestro, il palazzo offre la scelta di
penetrare nell’immenso slargo attraverso l’involucro protettivo del portico.
69. Il palazzo come diaframma, cioè come interruzione della fuga prospettica stradale,
risalta anche nelle vedute lontane (cfr. foto 55). Avvicinandosi, il portico sbilanciato indica
come il percorso stradale sia destinato a sboccare a sinistra, nella piazza.
70. Provenendo dal quadrivio, il palazzo media il passaggio tra decumano e piazza.
L’opera artisticamente più impegnata dell’Addizione rossettiana non sorge sulla piazza
nuova, ma domina il crocevia, nodo dell’intero piano regolatore. Nel dilemma tra architettura
di “percorso” e di “arrivo”, la scelta cade sul percorso, cioè su una visione dinamica
privilegiata dal palazzo costruito per Sigismondo d’Este. L’inedito “muro di marmo”, coperto
da ottomilacinquecento diamanti, termina con un cornicione in cotto (cfr. foto 73) sospeso
su una fascia neutra arretrata rispetto al bugnato. Agli spigoli, le candelabre scolpite da
Gabriele Frisoni, nel loro tenue e delicato modellato, placano l’ossessiva tensione del
“palazzo dell’orgoglio”, e lo ricollegano alla scala degli altri edifici del quadrivio. Sullo stesso
lato della via degli Angeli spicca, al di là del corso dei Prioni, il portale del palazzo Prosperi-
Sacrati (cfr. foto 78-81). La larghezza della via degli Angeli è di metri 11,60 di cui la sede
carrabile occupa metri 8,15.
PALAZZO DEI DIAMANTI
71. Scorcio sulla via degli Angeli, provenendo dal nucleo medievale. Il portale con le
candelabre laterali, di cui si vedono alcune modanature, fu aggiunto a metà del Seicento, e
tradisce il pensiero rossettiano. Accentua infatti l’asse centrale e la simmetria del fronte,
evocando un’immagine statica, di matrice toscana, affatto estranea all’impianto urbanistico
ferrarese.
72. Il gioco dei diamanti sotto la luce. Benché di forme maestose, le sette finestre del primo
piano e il portale con candelabre aggiunto nel Seicento non riescono a infrangere il
continuum della muraglia marmorea il cui ritmo vorticoso travolge ogni elemento incastrato.
Prorompente e minacciosa, di regola, tale parete diviene in qualche momento decantata e
dolcissima.
PALAZZO DEI DIAMANTI
73. Le candelabre terminali del fronte sulla via degli Angeli e il cornicione in cotto.
74. Il magistrale gioco dei diamanti nel passaggio tra parete e plinto angolare.
75. La corte. Tracce di un muro perpendicolare al fronte del portico dimostrano resistenza di
un corpo di fabbrica che racchiudeva probabilmente lo scalone.
76. La serie delle arcate del portico risvolta sul fronte meridionale; lo stesso motivo era
previsto a nord. I vuoti agganciavano i pieni da ambo le parti.
77. Interno del portico. Da questo generoso spazio racchiuso si accedeva al cortile, alla
scala coperta, e quindi al grande salone.
Tutti i palazzi rossettiani sulla via degli Angeli sono configurati per rispondere a un preciso
compito urbanistico. Impianti asimmetrici e sbilanciati, immagini in sé non-finite che
traggono la loro compiutezza solo dal contesto generale. Nel quadrivio, un’eco del palazzo
dei Diamanti (cfr. foto 78-81), una superlativa pilastrata isolata (cfr. foto 82-84), e una zona
affatto neutra per risucchiare lo spazio. Nel secondo crocevia, segni elementari nei pilastri
angolari placano la tensione. Nel primo tratto della strada, a contatto col nucleo medievale,
una razionalizzazione del repertorio tipico di Ferrara sin dalle lontane origini (cfr. foto 86).
PALAZZO PROSPERI-SACRATI
78. La candelabra e il balcone d’angolo ripetono, in scala minore, il motivo già collaudato
nel palazzo dei Diamanti.
79. Il portale prima degli ultimi restauri. La paternità di quest’opera è stata a lungo
contestata a Rossetti.
80. Scorcio del portale costruito intorno al 1510, in occasione di una riedizione dell’edificio,
che risale al 1493. Nel fondo, il palazzo dei Diamanti.
81. Sequenza del palazzo dei Diamanti e del palazzo edificato per l’archiatra Castelli, poi
Prosperi-Sacrati, sulla via degli Angeli.
PALAZZO TURCHI-DI BAGNO
82. La pilastrata d’angolo in pietra d’Istria appare, plasticamente e cromaticamente, avulsa
dall’organismo edilizio e, in effetti, è l’unico episodio sontuoso di un’opera altrimenti
prosaica. La sua funzione è specificamente urbanistica: esalta il cardine di un incrocio
stradale, dal quale si dipartono opache quinte architettoniche. Soluzione ardita e
spregiudicata: l’unica possibile in quell’angolo del quadrivio.
83. La pilastrata angolare nel suo dialogo con il bugnato, le candelabre e il balcone del
palazzo di Sigismondo d’Este.
84. Provenendo dalla porta degli Angeli verso il Castello, il sorprendente motivo angolare
che fronteggia il palazzo dei Diamanti.
PALAZZO MOSTI
85. Nel secondo crocevia dell’Addizione, modesti pilastri angolari, di genesi medievale,
danno la misura dell’importanza del nodo stradale. Sono completamente scissi dagli edifici.
PALAZZO DI GIULIO D’ESTE
86. Provenendo dal Castello lungo la via degli Angeli, forma la quinta stradale. Nelle bifore,
nel cornicione, nel libero, antiaccademico trattamento compositivo dei balconi, nella nuda
stesura laterizia, si riecheggia un costume radicato nella storia della città.
PARTE TERZA
L’ARCHITETTO DELLA FERRARA MODERNA
Se le opere giovanili e i palazzi dell’Addizione provano il
sincretismo architettonico di Rossetti, i grandi edifici religiosi
dell’ultima decade del Quattrocento e i lavori cinquecenteschi ne
dilatano in misura quasi insospettabile il raggio culturale. Il lessico, i
nessi grammaticali e sintattici, il linguaggio delle quattro chiese che
dobbiamo ora esaminare – San Francesco, Santa Maria in Vado,
San Benedetto e San Cristoforo alla Certosa – sono già permeati dei
più diversi apporti, veneti lombardi toscani; se si aggiungono il
cadenzato fraseggio dell’abside della Cattedrale, le tensioni
plastiche della dimora di Ludovico il Moro, la rigida metrica di
palazzo Roverella, pur tralasciando le opere minori, Biagio Rossetti
rischia di configurarsi come uno straordinario costruttore ma anche
come artista irrimediabilmente eclettico. Tale egli risulta, invero, dagli
studi finora compiuti, volti in generale a sottrargli o a rivendicargli la
paternità di questo o quell’edificio sulla base del confronto minuto dei
particolari decorativi e della distinzione tra i frammenti ascrivibili a lui
e le parti realizzate da altri o in età successiva.
Che l’analisi della calligrafia figurale sia, anche in architettura,
strumento essenziale per le attribuzioni è fuori dubbio; ma dal suo
uso esclusivo derivano gravi inconvenienti specie nella trattazione di
una personalità quale Rossetti. Ne abbiamo già rilevati due: il primo
consiste nel non assegnargli opere i cui particolari non attestano la
sua mano, quando è noto che egli deferiva ai suoi aiuti l’esecuzione
e spesso l’ideazione di molti dettagli; il secondo comporta l’equivoco
opposto, e cioè l’attribuzione a Biagio di tutti gli edifici in cui sono
reperibili particolari “rossettiani”, mentre sappiamo che molti di essi
discendono dalla tradizione locale ed entrano poi nel patrimonio
linguistico dell’intera scuola ferrarese. Ma, principalmente, l’analisi
della scrittura o grafia, se non è integrata, distrae dallo studio degli
organismi architettonici, e perciò dall’oggetto sostanziale dell’attività
del maestro. In troppi saggi la descrizione della porta dei Sacrati
occupa più pagine di quelle dedicate alle mura e persino al piano
regolatore di Ferrara; la disamina delle cornici, dei capitelli, dei plinti
fa perdere di vista le qualificazioni volumetriche e spaziali; si
impiegano più parole per sostenere o negare che gli acroteri del
frontone di San Francesco ripetono quelli originari, di quante se ne
spendano per definire il peculiare impianto della chiesa. Eppure, si
dovrebbe comprendere che se Rossetti è il primo urbanista moderno
europeo, lo è anche perché incarna una figura professionale nuova,
più vicina all’architetto contemporaneo condizionato dal teamwork
che all’artista tradizionale pronto a rinunciare a una vasta produzione
pur di disegnare e plasmare ogni ornato delle sue opere.
Durante l’avvincente biennio dell’Addizione, il disinteresse di
Rossetti si estendeva talora a interi prospetti edilizi in quanto il suo
intervento era confinato, in palazzo Rondinelli o in palazzo Mosti,
alla determinazione della volumetria e di alcuni elementi, come i
motivi angolari, urbanisticamente significativi.

Itinerario degli interventi rossettiani per il rinnovo dell’aggregato medievale e per la


saldatura con l’area dell’Addizione. Le tappe (cfr. foto 64): San Francesco (cfr. foto 87-99),
Santa Maria in Vado (cfr. foto 100-103), poi salto a San Benedetto (cfr. 104-109) e a San
Cristoforo alla Certosa (cfr foto 110-115). Ritorno alla Cattedrale (cfr. foto 116-118), fuga al
palazzo di Ludovico il Moro (cfr. foto 119-134), e conclusione nel palazzo Roverella (cfr. foto
135-136). In termini di settori urbani: nucleo antico – Addizione di Borso – Addizione
Erculea – nucleo antico – Addizione di Borso – Giovecca.

Ciò non accade nella seconda metà della sua vita perché, tornato
ad agire nel vecchio nucleo, egli sente che il problema della sua
saldatura con l’Addizione va affrontato anche sul terreno del
linguaggio architettonico: e perciò trasferisce il tema di San
Francesco e di Santa Maria in Vado nella città nuova, con San
Benedetto e San Cristoforo; e conclude il suo lavoro con palazzo
Roverella posto simbolicamente sulla Giovecca, quasi ad avvertire
che la cesura tra i due settori urbani è stata cancellata. Tuttavia è
inutile pretendere da lui quello che non intese dare se non in casi
eccezionali: la cura di ogni particolare.
Anche per tali ragioni, e per procedere a un radicale snellimento
del testo, si è ritenuto opportuno omettere il vaglio analitico delle
attribuzioni, le notizie sulle vicende dei monumenti, l’escussione
degli accertamenti acquisiti. Lo specialista potrà consultare il vasto
apparato documentario e filologico pubblicato nella grande edizione
del 1960; mentre per lo storico, l’architetto, il cultore d’arte, tale
apparato non intralcerà il discorso sulla personalità rossettiana. Lo
scopo cui si mira è dimostrare che, contro tutte le apparenze, nei
lavori di Rossetti si enuclea una sostanziale coerenza, decifrabile
malgrado gli apporti di altri artisti, i rifacimenti seguiti al terremoto del
1570, le distruzioni inferte nell’ultima guerra. Questa coerenza si
esplica sul terreno spaziale, volumetrico e urbanistico, in tutte le
opere; in alcune poi è riconoscibile la mano del Rossetti – e sono le
opere di poesia.
SAN FRANCESCO

Un primo esame dell’impianto planimetrico di San Francesco


permette di coglierne l’ispirazione brunelleschiana. Se si passa
all’organismo tridimensionale, traspaiono accenti bramanteschi. Ma
quando dallo spazio dimensionale si risale a quello architettonico
qualificato dalla luce, l’immagine diviene originalissima, brucia ogni
residuo culturale, si propone come uno dei risultati supremi della
fantasia di Biagio Rossetti.
II disegno della pianta prende le mosse da un modulo quadrato
(cfr. foto 87-99). Una duplice fila di otto moduli fiancheggia la navata
centrale i cui quattro quadrati si estendono nel transetto per
formarne altri tre distanziati da doppi archi che si concludono, sulla
parete di fondo, in una serie di cappelle leggermente più ampie di
quelle delle navi minori. Sin qui una metrica rigorosa, cui sfugge
soltanto l’abside per la cavità che sborda rispetto alla larghezza della
navata.
Articolazione spaziale di San Francesco (cfr. foto 94-99). A sinistra, lo schema planimetrico
del brunelleschiano San Lorenzo a Firenze, che costituisce la fonte dell’ispirazione
rossettiana. Il soffitto piano, indicato al centro, implica una visione unidirezionale verso
l’altare, che Brunelleschi attenua con il “pieno” centrale e con richiami prospettici laterali.
Ma in San Francesco, a destra, si ragiona per quantità tridimensionali, ora sottolineate dalle
calotte schiacciate.

Lo schema richiama quello di San Lorenzo a Firenze, ma non


appena si traduce in terza dimensione mostra impegni assai diversi.
Il soffitto livellato di San Lorenzo fa sì che la navata centrale appaia
come una “strada” in relazione alla quale gli sfondi delle navi minori
costituiscono profondità prospettiche iscritte entro nitide cornici. A
San Francesco invece, sopra la trabeazione che lega le otto arcate,
sospesi su peducci si elevano arconi trasversali racchiudenti in un
primo tempo volte, e ora cupole schiacciate e quasi piatte: non più
dunque lastre parallele del pavimento e del soffitto, ma un
succedersi di definite quantità spaziali ben separate e riassunte dalle
calotte su pennacchi. Ne consegue uno smorzamento della direttrice
longitudinale della chiesa, una strutturazione cadenzata e già
cinquecentesca dei rapporti spaziali.
Ma il dato singolarissimo di quest’opera consiste nel modo in cui
tali rapporti sono configurati dalla luce. Sappiamo ormai che Rossetti
esige il rispetto della continuità strutturale, e pertanto spesso resiste
al metodo di decomposizione in ordini e moduli del primo
Rinascimento: anche nel palazzo dei Diamanti la ripartizione
altimetrica del blocco era stata vanificata dall’impetuosa forza
plastica e dall’ossessionante sfaccettatura del muro di marmo.
Adottando a San Francesco un impianto rinascimentale, egli intende
caratterizzarlo in senso strutturale, e ciò ottiene in virtù di una
rivoluzionaria distribuzione delle fonti luminose.

Profondità prospettiche delle navi minori e delle cappelle in San Lorenzo a Firenze, e
quantità stereometriche in San Francesco, dove il risucchio prospettico viene caricato dai
flussi luminosi (cfr. foto 96-97).

La realtà stereometrica delle cappelle laterali è contestata da una


serie di finestre strette e altissime che inondano di chiarore le pareti
separatorie.

Le cappelle sono scure a San Lorenzo, mentre a San Francesco Rossetti inonda di luce le
pareti del loro involucro (cfr. foto 96) rendendole riflettenti.

Queste cappelle, anziché essere cavità in ombra come a San


Lorenzo, chiusura di quadri prospettici, divengono per i muri che le
scandiscono protagoniste dell’intera figurazione. Di conseguenza,
mentre a San Lorenzo la nave centrale è assai più luminosa delle
navi minori, qui il vero discorso architettonico è avviato dalle
cappelle, o meglio dai loro schermi, e quando sfocia sulla navata
principale non trova fondamentali contrasti, poiché questa è
rischiarata da poche sorgenti poste sulla facciata e sui fianchi.
La luce in San Lorenzo a Firenze e in San Francesco. Nella chiesa brunelleschiana (sopra),
le finestre della navata centrale sono le fonti luminose determinanti, mentre le navi minori e
le cappelle restano in ombra. A San Francesco avviene il contrario (sotto): scarsa la luce
della nave centrale (cfr. foto 94, 95), violentissima e talora magica quella proveniente dalle
cappelle, vere camere di condensazione per il lancio della luce nelle cavità delle navate (cfr.
foto 96).

I setti divisori delle cappelle assumono dunque il ruolo di nodi


cardine della composizione, e perciò Biagio s’impegna a fondo
disegnando uno stupendo pilastro c he si eleva per offrire una
piattaforma di lancio all’arco che ricade sulla corrispondente
colonna. Se si pensa ancora al partito di San Lorenzo, alle sue
cappelle profilate da archi separati da lesene, l’originalità dell’impeto
strutturale rossettiano risulterà nella sua piena evidenza: il pilastro
qui non è solo denuncia figurativa di un ipotetico muro posteriore, è il
muro stesso che avanza, premuto e quasi strozzato dagli archi delle
cappelle, materia che si svincola dal suo peso.

La lesena tra le cappelle è un elemento sovrapposto nel brunelleschiano San Lorenzo a


Firenze. Mentre a San Francesco (destra) denuncia ed esalta un muro che separa vuoti
luminosi.
Chiunque, entrando in San Francesco, rimane colpito da questa
strumentazione della luce in chiave e funzione strutturale. Non si
tratta di mera intensità luminosa: se nelle pareti esterne delle
cappelle fossero aperte grandi finestre centrate, la preminenza della
luce laterale sarebbe identica. Ma qui essa è legata ai piani
strutturali, fino al punto che in prospettiva le finestre perdono rilievo,
mentre spiccano e brillano i setti murari riflettenti.
La luce viene dal basso, ha scala umana, dagli schermi
trasversali fluisce e risale lungo i pilastri, trasborda sulle colonne.
Per il suo intervento, la consueta lettura prospettica e plastica della
chiesa viene capovolta: non sono le colonne a riverberarsi sui
pilastri, ma questi su quelle, poiché l’organismo si costruisce
dall’esterno verso l’interno, si autofà e determina con moto
centripeto per attingere poi il suo equilibrio nella solenne
articolazione della navata centrale.

La luce che inonda San Francesco (sopra) è quella della città. Mentre a San Lorenzo
(basso, sinistra) proviene dall’alto, qui (basso, destra) ha la scala dell’uomo. L’atmosfera
che ne deriva rasenta l’eresia. Rossetti è un eretico in questo senso: vuole che l’edificio
sacro appartenga al contesto urbano, sia immanente.

Le splendide membrature del braccio longitudinale non trovano


adeguata rispondenza in quelle del transetto dove archi e cornici
sono assai più fragili.
Se il transetto costituisce la parte più debole dell’organismo, vi sono alcuni dispositivi che
merita rilevare. Ecco il trapasso dalle navi minori alle cappelle del transetto. Il raccordo è
dato da un arco longitudinale che precipita sul vuoto delle cappelle (cfr. foto 98): soluzione
spericolata, anche se non pienamente soddisfacente.

Ma la posizione delle due cupole laterali dimostra un notevole


acume: i loro archi interni d’imposta sono allineati sugli assi mediani
delle navatelle, il che consente di centrare le calotte ellissoidali
rispetto alle cappelle della parete di fondo pur lasciando che le due
prime, a fianco del presbiterio, prolunghino la fuga delle navi minori.
Sicché lo spazio di quest’ultime, scandito dalle otto cupolette in
penombra, a un certo momento si dilata, ma il passaggio non
avviene su un rapporto di vuoti, sibbene su un “pieno” di
brunelleschiana memoria, disegnato nello spazio.
Anche la soluzione dell’abside è consona all’impianto. La volontà
di offrire alla chiesa una conclusione non di ombra ma di luce, e
precisamente di struttura illuminata, induce ad ampliare il diametro
del nicchione rispetto alla larghezza del presbiterio: le sorgenti
luminose possono così celarsi, mentre l’inviluppo spaziale riflettente
è libero di trasmettere le sue vibrazioni sull’altare.
L’abside è dilatata rispetto alla larghezza della navata centrale (cfr. foto 99). Ciò consente di
aprire finestre che inondano il vano di luce senza essere viste dall’osservatore.
L’espediente delle cappelle ripetuto in scala ingigantita.

Un discorso architettonico che si attua dall’esterno all’interno è


congeniale a un urbanista. E la volumetria di San Francesco è, del
resto, plasmata per razionalizzare una serie di nodi viari della
vecchia Ferrara. Secondo la tradizione medievale, il blocco della
chiesa non si presenta isolato: il suo fianco funge da quinta a una
strada, l’attuale via Savonarola, la cui direttrice, nel pensiero
rossettiano, doveva culminare nel prezioso portale decentrato di
palazzo Pareschi.

La funzione urbanistica di San Francesco è già stata commentata, leggendone la


planimetria. Va richiamata l’attenzione su un altro importante fenomeno: l’indipendenza
della chiesa dalle strade. Il fianco non forma parete su via Savonarola perché si pone
ortogonalmente alle stradine medievali; una volta creato il fondale della città vecchia, il
transetto si ricollega all’arteria maggiore (cfr. foto 88).
Perpendicolarmente, si aprono due strade. La prima, via delle
Vecchie, satura tuttora di suggestivi caratteri medievali, esalta la sua
spaccatura d’ombra negli ordini giganteschi del fianco di San
Francesco. Va notato che le lesene non rispondono a un dettato
decorativo, ma segnano la concreta, struttiva sporgenza dei muri di
spina delle cappelle; le finestre oblunghe, stringendole e quasi
scavandole con i loro sguinci nella cortina laterizia, indicano che la
lettura di questo prospetto va condotta non sulla superficie, ma nel
senso della profondità. La seconda strada, via della Paglia, è a filo
del transetto e ha quindi davanti a sé la dinamica scena
dell’avviluppo absidale.

Schema della facciata (cfr. foto 87). Le volute di matrice albertiana sembrano aggredire il
setto centrale, quasi per dimostrare che l’organismo architettonico si costruisce dall’esterno
verso la navata maggiore.

La facciata, aperta su un generoso sagrato, prosegue e raccoglie


la sequenza delle lesene dei fianchi. Più che le membrature
strutturali, esse rivelano con esattezza, nella scala dei successivi
rettangoli, le entità spaziali dell’organismo architettonico: si tratta di
uno spaccato della navata maggiore, delle minori e delle cappelle,
schermato da una muratura. Poiché la disposizione delle finestre
non soccorre, come nei fianchi, a conferire un significato costruttivo
alla facciata, le paraste corrispondenti alle spartizioni longitudinali
interne risaltano per il rivestimento marmoreo fuso in basso da uno
zoccolo dello stesso materiale e, in alto, dal magnifico fregio in cotto.
Le volute dell’ordine superiore ripetono il tema albertiano di Santa
Maria Novella a Firenze e quello di Santa Maria del Popolo a Roma.
La rozza fattura tradisce il rifacimento seguito al terremoto del 1570,
ma se le proporzioni sono quelle originarie, nella loro corposità, nella
loro invadenza, nell’aggredire la parte centrale del prospetto, queste
volute traducono bene il senso dell’autocostruirsi della chiesa
dall’esterno verso la navata centrale.

L’ordine gigante nel fianco della chiesa (cfr. foto 93-95). Le finestre binate hanno la misura
della città medievale. Da qui l’effetto colossale, particolarmente evidente da via delle
Vecchie (cfr. foto 26). Inoltre, le lesene proiettano all’esterno i divisori delle cappelle, con
funzione analoga a quella delle paraste interne (cfr. foto 98).

Come si vede, in San Francesco Rossetti parte da un modello


noto ed esplorato dalla Rinascenza toscana, ma lo impiega ai fini di
una rappresentazione che non ha più nulla in comune con i suoi
prototipi, in quanto ne strutturalizza l’organismo figurativo mediante
la luce: le stesse parole, la stessa sintassi sono adottate per una
lingua diversa, che non ha riscontro in altre regioni e nemmeno a
Ferrara, ed è quindi inconfondibilmente rossettiana. Lingua
rinascimentale che non nega però gli apporti vernacoli, manifesti non
tanto in senso formale quanto in un empirismo esecutivo che disgela
e umanizza la diagrammaticità dell’impianto. Soluzioni provvisorie
come quelle angolari all’incontro del transetto con le navate e con il
vano absidale, che costituirebbero altrove vistose sgrammaticature,
sono qui naturalmente assimilate. La sostituzione stessa degli oculi
alle finestre rettangolari, di cui è ancora evidente traccia sui fianchi,
e quella forse più importante delle volte della navata maggiore con le
calotte schiacciate, non hanno alterato la fisionomia essenziale
dell’immagine, che ha resistito persino al dissennato rifacimento
della pavimentazione in marmo lucido. Per Rossetti, la tematica
prospettica e proporzionale del Rinascimento non è dogma e
nemmeno metodo di controllo; è semplicemente un mezzo
attraverso il quale si può razionalizzare la visione strutturale senza
che essa perda la sua consistenza per trascendere nel puro disegno
di membrature nello spazio.
SANTA MARIA IN VADO

Il problema della paternità di Santa Maria in Vado, la cui


ricostruzione ebbe inizio un anno dopo quella di San Francesco, cioè
nel 1495, è complicato dall’interpretazione dei documenti. Un
contratto reperito da Cittadella attesta che i canonici affidarono a
Rossetti la direzione dei lavori, e al capomastro Bartolomeo Tristano
l’esecuzione. Che significa “direzione dei lavori”? Per alcuni, che il
progetto non è di Rossetti; per altri, che ovviamente è suo. Vi è poi
un atto notarile registrato nel 1495 nel quale si menzionano certi
“disegni” prodotti dal pittore Ercole de’ Roberti per la chiesa. Si tratta
di progetti architettonici, di particolari decorativi, o addirittura di opere
ornamentali? Di nuovo, per alcuni si tratta dell’intero progetto; per
altri, di contributi che non incidono sull’architettura, limitandosi al
massimo a qualche sagoma. Gli stessi sostenitori della paternità di
de’ Roberti lamentano poi le difformità tra le sue “architetture dipinte”
e quella costruita in Santa Maria in Vado. Così, ad esempio, Ortolani
scrive che l’esecuzione dei disegni “mostra di avere per mano di un
maestro quale il Rossetti alterato l’idea del Roberti se si debba
desumerla senz’altro dalle sue architetture dipinte”. Poiché a de’
Roberti non sono ascritti altri edifici, la sua “idea” deve essere
desunta dai dipinti; ma siccome non corrisponde alla concezione di
Santa Maria in Vado, si conclude che Rossetti non solo non sarebbe
autore della chiesa, ma addirittura ne avrebbe rovinato il disegno.
Siamo ben lontani dal sottovalutare il significato dei rapporti tra
Biagio e i maggiori pittori ferraresi del suo tempo; è indubbio che la
frequentazione e la collaborazione con i protagonisti del grande ciclo
pittorico della sua terra siano fattori essenziali della cultura
rossettiana. Tuttavia, prima ancora di condurre un’analisi di Santa
Maria in Vado, il semplice buon senso lascia intendere che un uomo
come Rossetti, architetto ducale e soprintendente di tutti i lavori
dell’Addizione, non si sarebbe prestato a fungere da passivo
esecutore di un disegno di Ercole de’ Roberti; per tale scopo, del
resto, era stato chiamato Bartolomeo Tristano. Se invece per
“direzione dei lavori” s’intende la traslazione in termini costruttivi di
una scenografia architettonica di de’ Roberti, potremmo anche
accettare la tesi antirossettiana, dacché basta un minimo di nozioni
professionali per comprendere che tra una visione architettonica
grafica e un’architettura reale corre un distacco talmente profondo
da ridurre la prima a mero pretesto. Di pittori-architetti e di scultori-
architetti ne conosciamo un buon numero lungo la storia; i rapporti
tra pittura, scultura e architettura sono costanti, perché lo spazio
architettonico partecipa della spazialità comune a tutte le arti
figurative, promuovendone o derivandone la tematica; ma di pitture
trasferite in architettura e rappresentative della personalità del pittore
e non dell’architetto, invero non se ne individua alcuna. Un pittore
naturalmente può farsi architetto; ma una pittura non diviene
architettura meccanicamente, cioè fuori dalla mediazione di un
architetto che la interpreti, le dia vita specificamente architettonica, la
informi insomma di sé.
Entrare in Santa Maria in Vado dopo l’esperienza di San
Francesco può sorprendere (cfr. 100-103). A prima vista, i due
organismi non sembrano nemmeno apparentati. Ma meditando sulle
vicende della chiesa, e in specie staccandone mentalmente le
sovrapposizioni, è facile ricostruire un impianto collegato a quello di
San Francesco, e quasi sua variazione.
La metrica della pianta è analoga e forse ancor più rigorosa. Si
parte anche qui dal modulo quadrato: sei moduli per le navatelle, tre
di lato doppio per la nave centrale, tre per il braccio trasversale. Sul
fondo, ai lati del presbiterio, coppie di cappelle ripetono le dimensioni
delle campate delle navi minori, e le due estreme si ripercuotono sul
versante opposto del transetto per abbracciare il corpo delle tre
navate. La zona presbiteriale è assai più profonda che a San
Francesco, e ciò elimina la necessità di slargare l’abside.
Lo schema attuale (a sinistra) della chiesa costituisce una drastica riduzione e, in parte, una
deformazione di quello progettato da Rossetti (a destra). Egli voleva anzitutto che la
profondità della navata centrale fosse scandita, come a San Francesco, da una serie di
campate culminanti in una cupola che fu costruita ma poi demolita nel primo Ottocento. Con
un soffitto piano e senza cupola, gremito di decorazioni barocche, l’organismo rossettiano
risulta scarsamente leggibile.

Quali sono dunque gli elementi che rendono questa chiesa tanto
diversa da San Francesco da infirmarne l’attribuzione a Rossetti? In
primo luogo, il soffitto piano che affievolisce e in parte distrugge
l’articolazione stereometrica in campate; secondariamente, la
mancanza delle cappelle laterali; infine, la decorazione profusa sulle
pareti.

Non potendo ottenere, data l’ubicazione della chiesa, fonti luminose provenienti dalle
cappelle laterali, e dovendosi affidare alle alte finestre della navata maggiore, l’architetto
decide di innalzare l’ordine delle colonne su pilastri, ispirandosi a un motivo veneto.

Ma sono tutti elementi non riferibili a Biagio. Per ciò che riguarda
il soffitto piano, l’architetto non lo voleva, come dimostra il contratto
già citato in cui appunto si prevedono una serie di cupolette e,
all’incrocio tra la navata e il transetto, una cupola; per ragioni
finanziarie, le prime non furono mai costruite, mentre la cupola fu
demolita nel 1829 onde garantire la stabilità dell’edificio. Quanto alle
cappelle, qui mancano, ma dietro gli invadenti altari barocchi si
individuano chiaramente le inflessioni murarie che ne riecheggiano il
motivo. Infine, le decorazioni che soffocano le superfici sono tutte del
tardo Cinquecento o del Seicento.

Le inflessioni dei muri perimetrali sono ora nascoste da sontuosi altari barocchi. Occorre
immaginarle nella loro primitiva nudità, quando fungevano da sfondo a mense semplici e
chiare. Se ne capta allora il significato: un’eco delle cappelle brunelleschiane di Santo
Spirito a Firenze nello spessore della parete. Luce radente dalle finestre di facciata.

Se immaginiamo di sostituire i fastosi altari con modeste mense,


di scandire il soffitto con calotte che articolino la navata in campate,
di liberare le pareti dalle ornamentazioni, l’immagine rossettiana
risulterà riconoscibile. Molte soluzioni sono, senza dubbio, diverse
da quelle di San Francesco, ma derivano dal fatto che qui il tema è
diverso. La luce non filtra dalle cappelle laterali, ma dall’alto della
nave maggiore; non emana dalle strutture trasversali e quindi non
richiede l’elaborato passaggio tra muri, pilastri e colonne. Il fraseggio
è più tradizionale, prende le mosse dalla navata principale, si
trasmette nelle semicolonne addossate, si dilata con discrezione
nelle arcuate inflessioni delle virtuali cappelle. La rappresentazione è
assai meno drammatica e originale, e il dispositivo delle colonne
librate su piedistalli richiama alla memoria il linguaggio veneziano di
Coducci. Tuttavia, Santa Maria in Vado occupa un posto chiave nella
ricerca rossettiana, poiché media il trapasso da San Francesco a
San Benedetto. L’aver soppresso le cappelle, del resto, è segno di
coerenza: alterata la distribuzione della luce, esse sarebbero
divenute cavità ombrose e incommensurabili, e avrebbero finito per
sottrarre chiarezza all’organismo e compattezza strutturale ai muri
esterni. L’architetto non forza il programma e perciò si limita a
conferire alle pareti un leggero moto ondoso che serve a definire
pittoricamente le quantità spaziali.
La posizione urbanistica di Santa Maria in Vado non è dissimile
da quella di San Francesco. Il volume offre il suo lato lungo a via
Borgo di Sotto, mentre il fronte d’ingresso si affaccia su un sagrato.
Quest’ultimo è stato notevolmente trasformato, ma le fiancate
ritmate da lesene ripetono, anche se in forma appiattita, il partito di
San Francesco. Ha però sconvolto le proporzioni della chiesa
l’innalzamento della nave minore e della cappella del lato orientale
del transetto attuato, secondo Reggiani, dopo il 1572. Un fregio e
una cornice vennero aggiunti alla primitiva trabeazione e il tetto, così
elevato, seppellì la base dei muri maestri superiori sia del transetto
che della navata maggiore.
Santa Maria in Vado rimanda, per la sua posizione urbanistica (cfr. foto 64), alla prima
opera rossettiana, alla delizia di Schifanoia su via Scandiana (cfr. foto 17-22). Una strada
minore consente di vedere la facciata frontalmente, ma l’organismo è concepito per essere
osservato di scorcio, come quelli di San Francesco e di San Benedetto.

Furono brutalmente troncate le lesene e, ciò che è più grave, furono


ostruite le finestre originarie, mentre altre vennero aperte senza
alcun rispetto per il cornicione terminale. Sarebbe giustificato un
restauro? Anche gli studiosi più conservatori, e più ostili a intervenire
sui monumenti, dovrebbero rispondere affermativamente. Le attuali
goffe proporzioni di Santa Maria in Vado ritroverebbero il loro
equilibrio mediante un abbassamento del tetto delle navatelle, e le
posticce volute del transetto perderebbero ragion d’essere.
Non sarebbe difficile riportare la chiesa alla sua fisionomia originaria. L’attuale effetto, goffo
e massiccio, potrebbe essere eliminato togliendo il fregio e la cornice aggiunti sul fianco,
riabbassando il tetto e quindi liberando le lesene, ora inghiottite dagli spioventi, all’esterno
della navata centrale.

Un ripristino servirebbe soprattutto all’interno, perché le finestre più


basse creerebbero coni di luce atti a rischiarare le pareti perimetrali,
a valorizzare la rispondenza tra colonne e semicolonne retrostanti, e
principalmente a rendere nitide e incisive le inflessioni murarie.
L’intera spazialità della chiesa ne risulterebbe esaltata poiché la
continuità strutturale passerebbe dal dato tecnico al fatto figurativo.
Anche rispetto all’abside tagliata da due finestre laterali tipicamente
rossettiane, il nuovo, o meglio l’antico dosaggio della luce sarebbe
fondamentale attenuando l’intensità luminosa del transetto e
restituendo ruolo preminente al discorso delle tre navate.
SAN BENEDETTO

Per due anni Rossetti medita sulle esperienze di San Francesco


e di Santa Maria in Vado. Quando, nel 1496, pone mano ai lavori di
San Benedetto, è un architetto maturo, deciso a costruire un
originale e complesso organismo chiesastico per Ferrara. Non deve
innestarlo nella stretta e tortuosa trama delle vie medievali; ha
predisposto una piazza sul versante occidentale di via dei Prioni, e
ora è chiamato a innalzarvi un tempio. Rispetto al crocevia
dell’Addizione, lo slargo di San Benedetto controbilancia la piazza
nuova, ma le sue dimensioni sono assai modeste riducendosi a
quelle di un generoso sagrato. La configurazione urbanistica non è
quindi affidata alla quantità del vuoto esterno, ma alla forza plastica
della struttura che lo domina.
L’impianto planimetrico compone gli schemi di San Francesco e
di Santa Maria in Vado (104-109). Ai sei quadrati delle navi minori
corrispondono i tre moduli della navata principale che si prolungano
in altri quattro all’incrocio con il transetto, nei suoi bracci e nel
presbiterio.
Lo schema planimetrico è direttamente ispirato a quello di Santo Spirito a Firenze, specie
per quanto riguarda le cappelle semicircolari che anche Brunelleschi avrebbe voluto visibili
all’esterno. Qui siamo nell’Addizione, in un’area libera, dove spazi e volumi possono essere
pienamente se stessi, affrancati dai condizionamenti presenti a San Francesco e specie a
Santa Maria in Vado.

La croce è così definita da cinque quadrati longitudinali e da tre


trasversali. Per assicurarne la compattezza, le tre absidi che
chiudono la navata e il transetto sono identiche. Ancora, il sistema
campata-cappella delle navi minori è ripetuto ai lati del presbiterio.
Come si vede, un impianto geometricamente implacabile.
Rispetto a San Francesco, esso razionalizza la proporzione tra
cappelle e navi minori, precisa la larghezza del transetto e la
profondità del presbiterio, evita di aumentare il raggio dell’abside.
Rispetto a Santa Maria in Vado, lo schema traduce le pittoriche
concavità ricavate nelle pareti in spazi architettonici, determina la
profondità del presbiterio uguagliandola alla larghezza della navata
centrale, offre una conclusione al transetto e perciò elimina la
necessità di estendere i muri esterni per saldarli con un incastro al
corpo delle tre navi.
Ma San Benedetto non risulta soltanto da una meccanica
correzione dei nodi compositivi rimasti insoluti nelle due precedenti
chiese: le sue membrature dimostrano un superamento, in senso
cinquecentesco, delle formule già esperite. Ciò che, in fondo,
mancava in San Francesco e in Santa Maria in Vado era una chiara
rispondenza tra le quantità spaziali che articolano la navata
maggiore e i colonnati. A San Francesco gli arconi trasversali che
delimitano le grandi calotte devono arrestarsi su peducci perché, se
scendessero a toccare la cornice, non troverebbero poi un adeguato
prolungamento fino a terra. Peggio avviene in Santa Maria in Vado,
dove il rifiuto di costruire le volte proposte da Rossetti ha impedito
una modulazione della navata in chiare unità tridimensionali. Biagio
comprende che un colonnato indifferenziato non è adatto a una
visione strutturalizzata degli spazi, e pertanto lo sostituisce con
pilastri mistilinei alternati a pilastri semplici, e i primi continua nella
trabeazione e negli arconi trasversali.

Si può rompere l’uniformità dei colonnati (a sinistra) di San Francesco (cfr. foto 94) e di
Santa Maria in Vado (cfr. foto 102) per articolare la navata (a destra) mediante paraste che
raggiungono ed animano la trabeazione (cfr. foto 108, 109). Ne discende un organismo
controllatissimo, consono al settore rinascimentale della città.

Il ragionamento procede: l’articolazione della navata maggiore deve


rispecchiarsi ai lati, e perciò nelle navatelle si avvicendano lesene e
semicolonne, e inoltre deve estendersi a tutto l’involucro, inclusa la
copertura. Ed ecco il succedersi di volte a botte plasticizzate da
cassettoni, di una cupoletta schiacciata e della cupola. Così se il
sistema di San Francesco era del tipo A-A-A-A-A, e quello di Santa
Maria in Vado era costituito da una sola A all’incrocio della navata
con il transetto, a San Benedetto abbiamo un B-A-B-A-B con
un’accentuazione della seconda A, che è la cupola. A dire il vero, le
proporzioni della chiesa sono tali che la lettura parte dalla cupola,
centro di una croce greca formata da quattro volte a botte.

Una croce greca cui si aggiunge un braccio longitudinale. Il contrasto tra ideale centrico
rinascimentale ed esigenza liturgica e simbolica della croce latina tormenta gli architetti
della Rinascenza. Rossetti supera l’ostacolo nel modo più elementare e brillante: denuncia
la dicotomia, separando il braccio dalla croce greca mediante una calotta schiacciata che
dimezza la navata maggiore (cfr. foto 108, 109).

Tale croce è poi allungata con l’unità della calotta schiacciata e con
un’ultima volta a botte sull’ingresso. L’organismo fruisce così di due
puntualizzazioni focali: una, principale, nella cupola, e una
secondaria nel mezzo della navata, ed è soluzione quanto mai
efficace poiché segna una graduazione ascensionale dei centri
luminosi.

La chiesa acquista due fulcri: quello della calotta illuminata dagli oculi laterali, che serve di
preparazione allo slancio della cupola, perno dell’organismo fondamentale, a croce greca.
Sostanziali sono dunque gli arricchimenti del linguaggio
rossettiano in San Benedetto, ma il timbro della sua arte si identifica
ancora una volta nella distribuzione delle sorgenti di luce perché da
esse tutti gli altri elementi vengono qualificati. Per ciò che riguarda le
tre absidi, l’impianto di Santa Maria in Vado è considerato
soddisfacente e può quindi essere qui ripetuto. Spregiudicata è
l’illuminazione, eccentrica e dilatantesi, delle cappelle che
fiancheggiano il presbiterio. Ma dove il metodo trionfa è nelle
cappelle semicircolari delle navi minori. Esse prendono naturalmente
lo spunto da San Francesco, ma sono poi elaborate in senso critico
e quasi eversivo.

A Santo Spirito di Firenze, le finestre sono poste al centro delle cappelle semicircolari (a
sinistra): i flussi luminosi sono quindi paralleli. Qui invece abbiamo flussi incrociati che
raddoppiano il chiarore delle cappelle, puntando sulle loro cavità (cfr. foto 109).

A San Francesco l’illuminazione radente rende l’emergere delle


strutture divisorie delle cappelle così imperativo da annientarne
l’entità stereometrica. La luce è abbagliante, il setto murario tra le
due finestre è scuro, negatività stretta da due L emananti e
riverberanti chiarore. È una soluzione drammatica e stupenda, ma
indifferente alle quantità spaziali delle cappelle che, in effetti,
potrebbero essere meno o più profonde senza alterare il risultato. Lo
schema di San Benedetto nasce invece da una ferrea
concatenazione compositiva: la profondità delle cappelle è il
geometrico derivato della larghezza delle navi minori. Non si vuol più
interrompere un discorso di rapporti spaziali con una serie di fulgenti
diaframmi strutturali: l’impegno è di continuarlo e concluderlo
spazialmente. Inserite nella circolarità delle cappelle, le finestre di
San Benedetto diffondono equamente la luce sull’inviluppo parietale,
ma principalmente la concentrano sul vuoto per realizzarlo e
vitalizzarlo architettonicamente. La rappresentazione che ne
scaturisce è solo apparentemente analoga a quella di San
Francesco; in sostanza, le è esattamente antitetica. In ambedue le
chiese infatti il discorso si svolge dall’esterno verso l’interno, ma
mentre in San Francesco il tramite delle forze centripete è offerto dai
“pieni” e la luce scorre dai muri ai pilastri e alle colonne, qui si tesse
attraverso i “vuoti” e la luce dalle cavità semicircolari si trasmette
nelle campate delle navi minori e quindi nella navata centrale. La
nuova articolazione di quest’ultima non consente poi di lasciare tale
discorso senza integrazioni: perciò nella navata maggiore la
luminosità è concentrata sulla calotta mediana e sulla cupola, sulle
due A del sistema.
Di fronte a una sintassi così complessa e posseduta, il riferimento
al brunelleschiano Santo Spirito di Firenze appare inessenziale. Che
Rossetti si sia ispirato allo schema originario di Santo Spirito, basato
appunto su una serie di cappelle semicircolari espresse anche
all’esterno, è più che probabile; dispositivi brunelleschiani sono
reperibili pure in questa chiesa, ma rimangono elementi estrinseci al
suo carattere e persino alla sua sintassi. A Santo Spirito, le finestre
delle cappelle sono centrate, sprigionano un getto di luce
perpendicolare all’asse della navata; qui invece, come si è detto,
servono a illuminare precise quantità spaziali. I principi della metrica
fiorentina sono acquisiti, ma rielaborati in funzione di un’immagine
fondata su cellule tridimensionali definite da un ferreo gioco di
innervature struttive. Esso culmina nella relazione tra il presbiterio e
le due cappellette absidali.
Riferiamoci ancora una volta a San Francesco e a Santa Maria in
Vado. Nella prima chiesa le cappellette ai fianchi del presbiterio
servono semplicemente a concludere la fuga prospettica delle navi
minori. Lo stesso avviene a Santa Maria in Vado dove il profondo
vano presbiteriale, ermeticamente chiuso ai lati, attesta l’intenzione
di prolungare la massa cava della navata maggiore. Nell’un caso e
nell’altro, i pilastri sono assimilati nei muri del presbiterio e qualsiasi
passaggio trasversale è negato. Ma in San Benedetto la nuova
strutturazione delle membrature e il peculiare modulo spaziale
definito dalle fonti di luce permette, anzi esige l’isolamento dei
pilastri finali e l’eliminazione dei divisori tra presbiterio e cappellette.
Da tale congegno le finestre eccentriche delle due absidiole
traggono moltiplicata ragion d’essere, poiché fungono da proiettori
orientati verso il centro della navata principale.

La rigorosissima distribuzione della luce in chiave spaziale convince l’architetto ad aprire


una sola finestra, dissimmetrica, nelle absidiole ai lati del presbiterio (cfr. foto 108).

I rimandi spaziali in senso trasversale che in San Francesco non si


potevano attuare poiché la visione si svolgeva tutta sui pieni murari,
e che in Santa Maria in Vado erano negati dalla mancanza di
adeguate fonti di luce, si esaltano in San Benedetto.
Questa esegesi è forse arida, pretende di spiegare un prodotto
d’arte come un fenomeno logico. Ciò accade perché non si riferisce
a un’opera di Biagio Rossetti, sibbene a un suo “modello” in scala al
vero. San Benedetto, quasi completamente distrutta durante l’ultima
guerra, è stata fedelmente ricostruita; ma qualsiasi ripristino di tali
dimensioni porta a un palese falso, a una parodia dell’originale,
fredda e anonima, ripugnante per la grana e il tono cromatico dei
materiali. Si è dunque costretti a evocare un ricordo, o a discettare
su una “idea” architettonica in cui è assente quell’impronta della
mano rossettiana che fa di San Francesco un capolavoro. Chi ha
visto e ha camminato tra le rovine di San Benedetto dopo la guerra
era tuttavia colto da dubbi circa l’atteggiamento da assumere: una
ricostruzione non poteva accettarsi, per motivi scientifici e morali;
l’ipotesi di conservare i monconi strutturali appariva romantica e
ineffettuale; la proposta di abbatterli per elevare in quel sito un
edificio moderno era ineccepibile sotto il profilo teorico, ma nessuno
si sentiva in grado di sostenerla con fervore. Il bisogno di far rivivere,
in qualche modo, il pensiero rossettiano, di non rinunciare a un
passaggio linguistico essenziale nella sua arte, sembrava, se non
legittimo, prepotentemente organico e naturale.

Una visione prospettica del fianco di Santo Spirito a Firenze secondo il primitivo schema
brunelleschiano presenta un equilibrio di pieni e vuoti, in quanto le finestre delle cappelle
sono situate al centro (a sinistra). Invece a San Benedetto (a destra) prevalgono
decisamente i pieni (cfr. foto 104-106) poiché le finestre binate si nascondono nei recessi
(cfr. foto 107) lasciando pressoché ininterrotto il semicilindro laterizio.

I responsabili della ricostruzione hanno poi un’attenuante: la


massa di San Benedetto era necessaria e insostituibile sul terreno
urbanistico e occorreva salvarla, indipendentemente dal falso
architettonico. Se la facciata rifatta non ha alcun significato, la serie
delle cappelle si presenta ancora, a chi proviene dal crocevia, con il
suo moto ondoso, plasticamente continuo. Le finestre infatti si
rifugiano nei recessi più lontani, si annidano nei nodi costruttivi più
delicati, nei punti di giunzione dove le pareti curve si trasformano in
divisori delle cappelle. L’idea, anche in un modello al vero, è
originale ed efficace. La rappresentazione è radicalmente diversa da
quella di Santo Spirito a Firenze, anche nell’edizione
brunelleschiana: a Firenze, le finestre poste al centro delle absidiole
si sarebbero distribuite prospetticamente in un equilibrato discorso di
pieni e vuoti, mentre qui la continuità muraria è difesa e valorizzata.
San Benedetto è dunque un documento di natura più intellettuale
che artistica: la ricostruzione ha il solo vantaggio di stimolare
l’immaginazione a risalire dal diagramma linguistico alla perduta
forma poetica.
In basso, la Giovecca; in alto, via dei Prioni; al centro, l’asse di via degli Angeli. San
Benedetto (cfr. foto 104, 106) controbilancia con un’emergenza architettonica il peso
urbanistico della piazza nuova (cfr. foto 107).
SAN CRISTOFORO ALLA CERTOSA

Una meditazione ulteriore sulla concatenazione degli spazi interni


conduce alla chiesa di San Cristoforo riedificata nel 1498, due anni
dopo San Benedetto. Il suo impianto nasce da una riflessione critica
sui tre edifici precedenti e attesta, contro ogni apparenza di
eclettismo, il coerente sviluppo della personalità rossettiana (cfr. foto
110-115). Quattro chiese diverse, artisticamente compiute e tali da
non giustificare alcuna gerarchia di valore, discendono da una
stessa ricerca culturale e rispecchiano le fasi di un costante
approfondimento linguistico.
Con San Benedetto Rossetti aveva scritto una parola definitiva in
tema di articolazione spaziale. Ma non è ancora soddisfatto: l’aver
affidato ai “vuoti” qualificati in vario modo dalla luce la
strumentazione figurativa non acquieta il suo istinto incline a
sottolineare i caratteri espressivi di compatte strutture murarie.
Ecco lo schema planimetrico dell’ultima delle quattro chiese rossettiane. Sostanzialmente
diverso da quelli di San Francesco, Santa Maria in Vado e San Benedetto, pur se ne
riprende numerosi motivi. Ciò che impressiona è la lunghezza dell’organismo: il corpo delle
navate ne copre soltanto la metà, risultando equivalente alla profondità del transetto e della
zona presbiteriale. Si noti poi la calotta che a San Benedetto divideva la nave maggiore (cfr.
foto 108) e qui invece si nasconde dietro la cupola (cfr. foto 114). Infine, non più tre navate,
ma una sola.

Per questo, riesamina San Francesco. Se vi era un’incoerenza nel


suo organismo, poteva individuarsi nel contrasto fra le direttrici
longitudinali delle navate e l’incalzare dei setti trasversali illuminati.
La luce emanante dai diaframmi divisori delle cappelle si
ripercuoteva sulle colonne ma, data la loro distanza e la rotondità dei
fusti, in maniera troppo debole e dispersiva. Per evitare l’ostacolo,
occorreva prendere una decisione radicale: sopprimere le navi
minori saldando le cappelle agli ordini della navata centrale;
sostituire quindi alle colonne i pilastri o, si potrebbe dire, eliminare le
colonne per portare sulla nave maggiore i pilastri che a San
Francesco separavano le cappelle. Da questo pensiero critico
germina lo schema di San Cristoforo, che scioglie pure un problema
rimasto sospeso a San Benedetto, e cioè l’alternanza di pilastri
diversi nelle cappelle, giustificata dall’esigenza di stabilire un più
forte legame tra gli elementi strutturali e tuttavia poco rispettosa
dell’identità spaziale delle campate delle navi minori. Coagulando il
sistema, ponendo i divisori delle cappelle a immediato contatto con i
pilastri della navata centrale, il problema viene risolto a priori: ogni
due fornici, i pilastri proseguono nell’alta trabeazione concludendosi
poi negli arconi trasversali.
Smorzare l’impeto della direttrice longitudinale significa
accentuare l’equivalenza tra i quattro bracci della croce. Infatti il
vano presbiteriale è allungato, corrisponde a due quadrati rispetto ai
tre della navata centrale: l’arco che immette nel transetto divide in
parti uguali la lunghezza della chiesa. L’asse dell’organismo, anziché
far convergere la sua fuga in modo univoco sull’abside, come
accade in San Francesco, in Santa Maria in Vado e in San
Benedetto, sia pur in gradi diversi, a metà rovescia il senso
direzionale. La soluzione è nuova per Rossetti e pone numerosi
quesiti.
Il vano al centro della croce culmina in una cupola che condensa
il moto prospettico delle tre volte a vela della navata. Ma la cupola
non è illuminata, anzi deve essere in ombra per dare abbagliante
risalto alla zona presbiteriale e all’abside, cioè all’ambiente sacro.
Come risolvere questo fondamentale passaggio compositivo?
Analizzando la sezione della chiesa, si direbbe che l’architetto abbia
in un primo tempo pensato di creare una drammatica prospettiva
discendente dalla cupola maggiore a quella sopra il presbiterio e giù,
attraverso un corpo neutro, alla cavità absidale. Ma alla modulazione
plastica si sarebbe opposta la realtà della luce che, partendo
dall’abside, sarebbe salita lungo le due cupole per inondare il vano
centrale della chiesa. Allora Rossetti inventa un enorme diaframma,
un sovrarco, quasi un grande tendaggio a difesa dello spazio sacro,
e trattiene così i flussi luminosi nel presbiterio.

Visuale ipotetica delle due cupole dall’ingresso della chiesa, qualora mancasse l’arcone
trionfale e quindi la calotta della zona presbiteriale non fosse schermata.
Va notato come l’arco di questa quinta incornici l’inviluppo
dell’abside: entrando nella chiesa sembra che l’abside sia posta a
immediato contatto con la quinta, e l’effetto della sua misteriosa,
indecifrabile profondità è altamente suggestivo.

L’arcone trionfale (cfr. foto 112-114), separando la zona presbiteriale dal transetto,
determina un’immensa camera di luce, sfolgorante al termine di una navata relativamente
oscura.

“Costretto ragionevolmente nei limiti presenti dalle misure delle


minori cappelle, il motivo architettonico dell’ordine sulla navata
principale – in sé pregevolissimo (benché suscettibile di più
grandioso sviluppo) – ha forzato l’artista a un ripiego: quello di un
sopraordine che raggiunga le volte. E il ripiego si perpetua
naturalmente per tutto l’interno... tale da costringere – con la
necessità di nascondere il dislivello tra le due cupole contigue della
crociera e del presbiterio – ad un altro ripiego: quello del magnifico
arco trionfale.” Così Reggiani, il quale arriva persino a opinare che la
soluzione dei peducci di San Francesco sia posteriore a San
Cristoforo benché i lavori di quella chiesa siano stati iniziati quattro
anni prima. L’accusa di “ripiego” è, del resto, comprensibile se si
giudica l’organismo di San Cristoforo nel mero contesto plastico,
fuori di ogni considerazione degli effetti di luce. Il sopraordine,
secondo i dettati accademici, è veramente troppo alto e
ingombrante. Ma Rossetti sa che la proporzione grafica non coincide
con la realtà di quella architettonica, che sta nel modo in cui la luce
le dà vita. Ammettiamo per assurdo di eliminare il “ripiego”, abolendo
il sopraordine e perciò abbassando tutta la chiesa. In questo caso, la
luce proveniente dalle finestre della navata maggiore soffocherebbe
quella tangenziale ai muri divisori delle cappelle, distruggendo la
dialettica creata da Rossetti. Egli vuole che le finestre superiori
servano a illuminare le volte a vela, e che in basso la luce, smorzata
dalla fascia neutra del sopraordine, sia determinata come in San
Francesco dalle strutture murarie riflettenti.

Il grandioso sopraordine di San Cristoforo (cfr. foto 111, 112) è il risultato dello studio su una
calibrata distribuzione della luce. Innalzando le finestre della navata, la zona in basso resta
oscura e quindi può essere qualificata dalle fonti luminose delle cappelle.

Sull’arcone trionfale si è già detto, ma si provi mentalmente ad


abolirlo: i flussi di luce provenienti dalle aperture laterali poste sotto
la cupola del presbiterio diverranno visibili sin dall’ingresso e
diminuiranno l’intensità luminosa dell’abside; oppure, togliendo il
sopraordine, la zona presbiteriale diverrà scura, più buia della
crociera che riceve almeno luce dai bracci del transetto. L’organismo
della Certosa è quindi esatto, né può pensarsi che preceda quello di
San Francesco dato che il legame strutturale tra ordine e volte, con
l’alternarsi di pilastri maggiori e minori, deriva dalle esperienze di
Santa Maria in Vado e di San Benedetto. Chi vuol gustarne le
sottigliezze specie nel rapporto plastica-luce, osservi un altro
particolare: le prime cappelle, ai lati dell’ingresso, non hanno
finestre, e le ultime, presso la crociera, ne hanno soltanto una.
Simbiosi tra mondo toscano e mondo veneto. Gli schemi rossettiani attingono a
Brunelleschi e a Leon Battista Alberti, ma la singolarità delle immagini è data dalla luce, che
connota spazi e volumi. Le cappelle di San Cristoforo (cfr. foto 111) sono assai simili a
quelle di San Francesco (cfr. foto 94, 96), ma qui, a contatto diretto della navata unica,
acquistano un rilievo decisamente maggiore. Pertanto, la loro sequenza deve essere
misurata all’inizio e al termine: la prima cappella infatti prende luce dalla facciata e l’ultima
ha una sola finestra.

La ragione è che, rispetto all’illuminazione offerta dagli oculi


successivamente innestati nel prospetto, la luce proveniente dalle
finestre delle due prime cappelle sarebbe vana emulazione, e quindi
furono murate; analogamente, una seconda finestra nelle ultime
cappelle getterebbe chiarore sul muro del transetto eguagliandolo ai
divisori delle cappelle, mentre con questa cesura si sottolinea
l’incidenza della luce nel transetto. San Cristoforo non è un “modello
al vero” come San Benedetto, è un’opera di poesia; ma la sua
coerenza compositiva è quasi matematicamente dimostrabile.
Se molti parlano di “timidezza e impacci” a proposito dell’interno,
l’elogio dell’involucro e del suo trattamento parietale nei fianchi e
nell’abside è corale. Ma poiché si suole indicare quanto vi è in essi di
tradizionalmente rossettiano, è opportuno qui rilevarne gli elementi
nuovi. Cominciamo la lettura dal prospetto delle cappelle: mentre a
San Francesco e a Santa Maria in Vado le paraste laterali
raggiungono la trabeazione, qui un cordone di archetti binati misura
le campate. I peducci intermedi insistono sul pieno, sulla parete,
quasi a sottolinearne la consistenza e la continuità, mentre le
finestre, come di consueto, si stringono alle lesene. Per asserire una
rispondenza precisa tra struttura e paramento murario, ciò non
avviene nell’ordine superiore: le finestre della navata maggiore sono
centrate negli specchi interni, e tale loro indipendenza dalla struttura
è denunciata dagli archetti trinati. Una soluzione apparentemente
contraddittoria ci offre l’abside, dove i peducci insistono sulle
finestre; ma se si osserva la pianta, si nota subito che queste sono
eccentriche, come le finestre delle cappelle, rispetto al vano
absidale: il loro ruolo figurativo richiedeva un trattamento diverso
rispetto alle aperture della navata.
Il campanile con le sue affusolate membrature sembra voler
compendiare in un moto ascensionale le cadenze dell’involucro
chiesastico; le sue magnifiche modanature e decorazioni mostrano
che Rossetti intendeva curare San Cristoforo fino all’ultimo dettaglio.
E il nobile impianto della facciata, eliminate le volute, avrebbe con
ogni probabilità sciolto i problemi rimasti insoluti a San Francesco e
a Santa Maria in Vado.
La visione della chiesa è ostacolata dalle costruzioni che
l’attorniano e l’assalgono. Ciononostante, il suo effetto paesistico è
stupendo.
L’atteggiamento di Rossetti rispetto ai principi rinascimentali non è mai privo di riserve
critiche. Abbiamo constatato che egli non ama i monumenti isolati e vuole che le chiese si
vedano di scorcio, cioè in modo dinamico. Se piazza Borso sta proprio davanti a San
Cristoforo, la chiesa viene decentrata.

Posta nell’estrema zona dell’Addizione, chiude lo scenario urbano e


costituisce il punto d’arresto della tangenziale alla piazza nuova,
l’attuale via Borso, che, partendo dal palazzo Bevilacqua, si avvia
verso nord.

San Cristoforo costituisce il fermo a nord dell’Addizione Erculea (cfr. foto 64) dal lato della
piazza nuova. Da palazzo Bevilacqua (cfr. foto 69) si sale lungo via Borso (cfr. foto 55); la
chiesa si stagliava nel paesaggio anche nella parte absidale ora nascosta (cfr. foto 110,
111).

Siamo all’acme dell’arte rossettiana. Tutti i momenti del suo


linguaggio vi si riassumono: il “murer”, l’artigiano eccelle
nell’eleganza delle cornici, dei capitelli, delle membrature; lo
“inzeniero”, lo strutturalista accusa nelle paraste i divisori delle
cappelle e, sopra, il sistema tripartito della navata maggiore;
l’umanista, l’uomo colto rievoca l’organismo albertiano di
Sant’Andrea a Mantova e, nei fronti del transetto, il brunelleschiano
“pieno” centrale. Forse il brano liricamente più alto di questa
architettura sta proprio nel trapasso tra gli archi trinati dei fianchi
delle navi e del transetto, che è mediato da una zona piena ma non
inerte, anzi vitalizzata dal motivo delle lesene strette da archi ripreso
dai pilastri di San Francesco. Ma, mentre in quell’interno i pilastri
avevano una straordinaria aggressività plastica, qui si presentano in
funzione di un aereo gioco di linee sul piano laterizio: lo
commentano senza interromperlo, come si addice alla mole della
struttura terminale di una città.
ABSIDE DELLA CATTEDRALE

Iniziata nello stesso anno 1498, la ricostruzione del coro della


Cattedrale si collega strettamente alle forme della Certosa. Ma ne
costituisce una versione purificata, scevra di ogni nervosismo,
spiritualmente più vicina alle cadenze dell’abside di San Niccolò (cfr.
foto 35), concepita con ogni probabilità intorno al 1475 e realizzata
quasi contemporaneamente (cfr. foto 116-118). Come mai Rossetti,
decantando l’esperienza delle quattro chiese, tornò a questa
tematica giovanile?
La risposta non è ardua se si tien conto della lunga e tormentata
storia della Cattedrale, e in particolare della sua configurazione al
tempo dell’intervento rossettiano. L’organismo originario aveva infatti
un aspetto profondamente diverso dall’attuale. Era articolato su
cinque navate, di cui la centrale pare fosse coperta a carena di nave
in legno di larice, e le minori con volte a costoloni incrociati, impostati
su pilastri polistili. La facciata era della stessa famiglia di quella della
Cattedrale di Modena, e lungo i fianchi correva un loggiato che
proseguiva anche nella parte posteriore, attanagliando l’abside
mediante archi rampanti. Anche l’attuale fianco settentrionale, pur
risalendo al periodo romanico, non è quello originale, come è facile
constatare analizzando le colonne e i diversi materiali. Riassunta a
grandi tappe, la vicenda del Duomo è la seguente: tra il 1190 e il
1250 le campate laterali della facciata furono rialzate; in seguito al
terremoto del 1570, le arcate superiori della fiancata settentrionale
furono sostituite da una cornice collegante i capitelli dei costoloni;
nel fianco meridionale, invece, il porticato attuale è del 1473 e ripete
una prima edizione in legno del 1264 e una seconda in laterizi del
1332. Esso girava anche davanti alla facciata, e questo braccio fu
abbattuto solo nel 1736. Infine, nel 1712 ebbe inizio una radicale
trasformazione dell’interno che alterò l’intero organismo spaziale: la
chiesa fu ridotta da cinque navate a tre, e fu arricchita da cappelle
laterali.
Quando Rossetti si accinse a racchiudere con un coro e
un’abside la Cattedrale, questa era dunque già assai mutata rispetto
al suo primo impianto romanico. Struttura tipica della vecchia città,
“impura”, esito di una serie di apporti non coordinati; e tuttavia
vibrante di vita e di testimonianze. Ancor oggi il Duomo di Ferrara
non regge forse al vaglio di un’analisi stilistica di tipo scolastico, ma
è un monumento così pregnante, si direbbe quasi così “engagé”
entro l’antico nucleo urbano che nessuno potrebbe sensatamente
desiderare di restituirlo alle forme originarie. Molti hanno invero
proposto di demolire il portico e le botteghe del fianco meridionale
per rimettere in luce il paramento delle logge primitive; ma il
consiglio fortunatamente non è stato ascoltato. Il tempio ha resistito,
con il suo venerando eclettismo, alle manie di accademica “castità”;
il pulsare, gli umori della città continuano a qualificarlo,
consentendogli di dominare ancora la piazza offesa da uno dei più
brutali “risanamenti” degli ultimi decenni.
All’empirico e farraginoso sviluppo della Cattedrale Rossetti non
poteva rispondere che apportando un elemento di ordine e di
equilibrio. Creò un ambiente a volta, di pianta quadrata; poi spiccò
l’abside. Ripeté dunque lo schema di San Cristoforo accentuando
anzi con un vano rettangolare concluso da due arconi il distacco tra
il coro e le navate. Date le dimensioni e la molteplicità dei punti di
vista, una separazione per mezzo di un grande arco trionfale non era
realizzabile; la cesura tra i due settori della chiesa doveva essere
affidata alla chiarezza compositiva della parte nuova. La storia ne ha
dimostrato l’incisività irreversibile: quando Mazzarelli rivestì tutto
l’interno con fasto settecentesco, si fermò al vano precedente il coro,
non ebbe l’ardire di adulterare l’opera di Rossetti. Mentre la crociera,
o meglio la pseudo-crociera, fu assimilata entro la nuova veste del
tempio, coro e abside con il loro basamento, l’esile membratura dei
dodici pilastri, le finestre, il catino e l’imbotte non vennero
strutturalmente alterati. Dietro le sovrapposizioni decorative, i candidi
e nudi ritmi luminosi del gusto rossettiano tuttora costituiscono
l’episodio nobile e artisticamente teso dell’organismo.
All’esterno, l’architetto non fu polemico, accettò di prolungare
l’impianto a due piani della Cattedrale, preferì il laterizio al marmo,
ma portò un ordine rinascimentale solenne e maestoso a
conclusione dell’affastellato volume. Il ricco cornicione in terracotta a
stampo, con i suoi mensoloni, dentelli, ovoli, perle e serafini dona ai
fianchi della chiesa un terminale grandioso. Va notato come tra il
cornicione del primo ordine e quello superiore corrano alcune
diversità: sopra, i modiglioni e gli ovoli sono più grandi e i serafini
hanno quattro alucce anziché due; le sequenze degli archi sono
impostate su lesene a capitello liscio in alto e a scannellature con
brevi volute ioniche in basso; inferiormente, i finestroni oblunghi a
strombo con archivolti a pieno centro sono ornati con foglioline nella
gola esterna. Niente altro: il resto è inviluppo laterizio punteggiato da
linee di marmo nella gola dritta, nel listello della parte superiore del
basamento, nei capitelli e nelle basi dei pilastri. Nessun
esibizionismo, nessuna velleità di imporre un segno sorprendente
della propria personalità. Ma in questo parlare sommesso e quasi
inibito vi è la modestia della genuina poesia. La rilevò nello stesso
amore dell’esecuzione Adolfo Venturi: “L’abside del Duomo ferrarese
ci offre un mirabile esempio dell’arte di Biagio Rossetti, che conduce
i mattoni a filo tagliente, nitido, puro, nella costruzione regolare ed
esatta, nella lineatura matematica dei filari sui fondi, nella
disposizione unita ed uguale. Le lesene sono tirate con una squadra
affilata metallica, gli archi girati con un compasso fermo incisivo; e il
cornicione nei due piani dell’abside, benché di terracotta a stampa, è
composto con rigore, quasi, potrebbe dirsi, col timore che possa
trovarsi un intervallo più o meno grande, la differenza di un attimo,
un peso ineguale nella corona di dentelli, di mensoline, di ovuli, di
perle. E, nella curvatura delle pareti, delle cornici, del diademato
cornicione, tutto si volge in ordine, si arcua leggermente, come se,
non migliaia di pezzetti si stampassero, ma un sol pezzo
s’involvesse entro un cilindro. Sopra queste superfici compatte,
questa tela di lino, le linee, nette, chiare, non comportano se non
sottigliezza d’ornamenti, che vi si appiattiscono e vi si spianano in
silenzio.”

I due ordini del coro (sopra) rispettano l’organismo medievale pur alterandone la scala (cfr.
foto 116-118). Ciò non accadrebbe se le arcate si estendessero (sotto), come a San Giorgio
(cfr. foto 23), a San Niccolò (cfr. foto 35) e a San Cristoforo (cfr. foto 111), da terra al
cornicione. Per concludere l’organismo della chiesa-madre della città, Rossetti non sentì il
bisogno di immettere un oggetto estraneo, analogo al campanile albertiano (cfr. foto 118).
Depurò il vernacolo.

Si riscontra dunque un processo di semplificazione anche rispetto


a San Cristoforo dove le lesene raggiungevano il cornicione
inquadrando gli archi. Rossetti ha qui eliminato ogni rigida divisione
verticale poiché era suo intento allungare figurativamente il corpo del
coro e dell’abside: si è distaccato dalla chiesa, poi ha iniziato la lenta
scansione delle arcate. L’osservatore vive lo stesso processo:
quando, dopo l’esame denso di faticosi brani della facciata e dei
fianchi, si giunge all’abside, la personalità di un architetto emerge,
distinta dalle decine di capimastri e di decoratori che nei secoli
testimoniarono di sé e dei propri affanni nel Duomo. E la sua opera
sembra riscattare in lirica assolutezza l’intero monumento.
PALAZZO DI LUDOVICO IL MORO

Quando si pensa che si è tentato di sottrarre a Rossetti anche la


paternità del palazzo che Antonio Costabili fece costruire all’angolo
tra via della Ghiara e via Porta d’Amore all’inizio del 103-106 ’500,
per ascriverlo a Bramante (cfr. foto 119-122), vien voglia di ricordare
quanto scrisse Berenson a proposito dei vecchi criteri attribuzionistici
riguardanti la coeva pittura ferrarese: “Invidio a codesti scrittori del
passato la facoltà di varcare da culmine a culmine, con salti
giganteschi, senza curarsi di quanto si stende fra le cime. Le pitture
che li interessavano essi le attribuivano a qualche maestro famoso;
e se un dipinto era di origine lombarda non c’era caso che non
dovesse trattarsi d’un Mantegna, d’un Leonardo o d’un Correggio...”
Così per l’architettura: la Certosa è opera somma? La si ascrive a
Sansovino. Palazzo Costabili è un capolavoro? È certamente di
Bramante. Bramante non è mai stato a Ferrara? Avrà inviato i
disegni da Milano. E chi gli avrebbe conferito l’incarico? Ludovico il
Moro che, temendo di perdere il ducato, prevedeva di rifugiarsi a
Ferrara e pertanto dette ordine a Costabili, ambasciatore estense a
Milano, di costruirgli una magione. Ma se un documento del 1502
attesta che, a quella data, il palazzo era in corso di costruzione, e
quindi se ne può ricondurre l’inizio al 1500, come poté Ludovico il
Moro ordinare l’edificio, se era già spodestato e si era nascosto in
Francia? Si risponde che forse i lavori erano cominciati prima,
oppure che Ludovico avrebbe commesso l’incarico durante la sua
prigionia a Loches. Nessun documento legittima questa leggenda,
ma essa ha una tale saldezza che il palazzo si chiama ancora di
Ludovico il Moro.
Non ci attarderemmo sull’attribuzione a Bramante se essa non
avesse avuto conseguenze fatali. Si tratta di questo: anche quando il
mito della paternità bramantesca era stato sfatato, il restauro del
palazzo fu condotto, contro ogni logica, secondo criteri e metodi
forse applicabili a un’opera di Bramante. Sicché quella corte di cui
Burckhardt diceva: “vale dieci palazzi, benché non sia realizzata che
a metà e minacci di andare in rovina” fu trasfigurata in guisa da farla
apparire, se non bramantesca, certo ligia ai canoni classicistici.
Il sospetto è così grave che merita discuterne subito, avviando
l’analisi proprio dalla corte (cfr. foto 123-126). Si osservi una
fotografia dello stato precedente al restauro, quando le arcate del
loggiato erano chiuse o semichiuse. L’esame delle strutture murarie
metteva in chiara evidenza il fatto che questo loggiato era
caratterizzato dall’alternanza di due archi aperti e di due chiusi.
Orbene, quando nel 1930 fu deciso di ripristinare l’edificio per
destinarlo a sede del Museo di Spina, fu nominata una commissione
ministeriale per studiarne il progetto, e Gustavo Giovannoni riferì
sull’argomento al Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti: la
conclusione fu di aprire tutte le arcate. Così ne scrisse Carlo
Calzecchi, soprintendente al restauro: “Occorre rilevare un
’interessante particolarità costruttiva, che nel restauro fu necessario
eliminare; cioè l’alternanza di due archi aperti e di due chiusi nel
loggiato. È impossibile essere assolutamente sicuri che quella
alternanza risalga allo stesso Rossetti o sia stata nulla più che un
espediente dell’ignoto capomastro che continuò la fabbrica e che
n’era già forse anche prima l’esecutore.

I vuoti attuali della corte (a sinistra) e quelli alternati previsti nel disegno rossettiano (a
destra). L’assurdo restauro violentò il monumento anche sotto il profilo tecnico e struttivo
poiché demolì i binati pieni saldamente connessi al muro superiore e inferiore.
Abbiamo visto però che nell’aprile 1502 il loggiato corrispondente
alla sala maggiore era già costruito; e alcune particolarità fanno
credere che la costruzione fu fatta con la detta alternanza. Verso
l’interno mancavano per le arcate chiuse gli archi un poco più ampi
degli esterni e concentrici, che completano le arcate aperte
nascendo alla maniera medioevale da una mensola ricavata dal
masso del primo concio. Ma è anche fuori di dubbio che le colonnine
e i capitelli mostrano tutti una lavorazione completa come se fosse
stato sempre inteso di lasciare tutti gli archi aperti. Questa curiosa
situazione ha naturalmente dato luogo a discussioni. Occorre notare
che sugli angoli del cortile venivano ad accostarsi due archi aperti e
ciò in contrasto con eventuali preoccupazioni statiche, che
avrebbero – se mai – consigliato di rafforzare appunto gli angoli.
Dovettero essere piuttosto ragioni di carattere pratico a suggerire
questa limitazione di aperture.” E pertanto: “Studiata a lungo... e
portata dall’On. Ministero all’esame del Consiglio Superiore la grave
questione dell’opportunità di aprire tutte le arcate o di riaprire solo
quelle sin dall’origine destinate ad esser aperte, con la già notata
alternanza ‘due aperte e due chiuse’, prevalse il convincimento che il
fatto della completa lavorazione delle colonnine e dei capitelli
attestasse l’intendimento della totale apertura. Ragioni tecniche
concorsero a ritenere conveniente questa soluzione.”
C’è da stupire per la leggerezza con la quale fu adottata una
decisione così importante. Le sue giustificazioni possono essere
contestate una per una:
1) “è impossibile essere assolutamente sicuri” che Rossetti volle
l’alternanza di pieni e vuoti nel loggiato? Al contrario, se ne può
essere certi. Il contratto a rogito del notaio Bongiovanni del 16 aprile
1502, richiamato nel contratto del notaio Benedetto Lucenti del 21
settembre 1503, assicura che il loggiato del salone era già stato
realizzato. Biagio Rossetti che rimarrà garante delle opere anche
quando, per altre occupazioni, dovrà cederne l’esecuzione ad altri,
era sul posto, architetto e direttore dei lavori. Per quali ragioni,
contro la prova documentaria e la logica, si può supporre che una
determinazione compositiva così rilevante non spettasse a lui?
2) “espediente dell’ignoto capomastro che continuò la fabbrica e
che n’era già forse anche prima l’esecutore”? La congettura
dell’“espediente” sarebbe sostenibile se, dopo aver costruito tutti gli
archi aperti, ne fossero stati chiusi alcuni. Ciò non accadde, poiché il
loggiato non fu costruito da chi “continuò” i lavori, ma da chi li eseguì
sotto la diretta sorveglianza di Rossetti.
3) “le colonnine e i capitelli mostrano tutti una lavorazione
completa come se fosse stato sempre inteso di lasciare gli archi
aperti”? Se dovessimo demolire tutte le pareti retrostanti gli elementi
architettonici o le statue che mostrano una lavorazione completa,
resterebbe ben poco delle cattedrali romaniche e gotiche e dei
monumenti del Rinascimento. E poi: le colonnine e i capitelli
addossati al muro si potevano vedere di scorcio dal basso, e di lato
dalle arcate aperte del loggiato: perché mai avrebbero dovuto essere
plasmati in modo sommario?
4) “sugli angoli del cortile venivano ad accostarsi due archi aperti
e ciò in contrasto con eventuali preoccupazioni statiche”. Si tratta di
statica costruttiva? Per nulla; in tal caso si dovrebbero chiudere le
arcate angolari di tutti i cortili. E poi: l’aprire tutte le arcate rafforza
forse quelle angolari?
5) “prevalse il convincimento che il fatto della completa
lavorazione delle colonnine e dei capitelli attestasse l’intendimento
della totale apertura”. L’intendimento di chi? Di Bramante o di
Rossetti?

Ecco il punto. Si ragionò secondo gli ideologismi compositivi


cinquecenteschi senza alcuna considerazione della poetica
rossettiana rifulgente, nella corte di palazzo Costabili, per una delle
sue più geniali invenzioni.
Sin dai lavori giovanili si è riscontrata la diffidenza di Biagio verso
i partiti architettonici indifferenziati e dominati da una prevalenza di
aperture. Un loggiato continuo, uniforme, privo di drammatici effetti
chiaroscurali, quale egli stesso aveva attuato in vari palazzi minori
dell’Addizione, doveva sembrargli insoddisfacente. Da qui l’intuizione
dell’alternanza di due pieni e di due vuoti. Perché due e due? Perché
è tipico del linguaggio rossettiano, dalla casetta di via della Ghiara in
poi, il principio del binato di vuoti intorno a un solido, spessore di
muro o setto parietale o pilastro (cfr. foto 127-130). E, del resto,
bastava osservare i motivi del fronte su via Porta d’Amore – la
pentafora chiusa nell’arcata di centro, le finestre binate – o ancora la
facciata sul giardino di levante, tutta composta di finestre tangenziali
ai muri esterni e di bifore, per comprendere come fosse assurdo
attribuire a Rossetti l’intendimento di aprire tutte le finestre del
loggiato. La stessa facciata a mezzogiorno, nel portico a cinque
arcate stretto da bifore rettangolari che si ripetono quattro volte, nella
distribuzione binata delle finestre al piano nobile, soprattutto
nell’impianto eccentrico, dimostra come l’artista, in questa che fu
forse l’opera sua più impegnata, volesse far assurgere a grandioso
motivo monumentale ciò che era stato in un primo tempo gergo
dell’edilizia medievale ferrarese, e poi tema razionalizzato ma
sempre popolare dei suoi lavori giovanili.

Sin dalla sala dei Mesi della delizia di Schifanoia, Rossetti ha posto la massima cura nel
dosaggio della luce degli ambienti interni. Qui, nelle gallerie e nei saloni del piano nobile,
tale dosaggio era affidato all’alternanza dei binati pieni e vuoti, e al suo rapporto con le
forature superiori (alto). Tutto ciò è stato cancellato: le fonti luminose sono ora piatte e
uniformi (basso).

La corte magnifica, testo tra i più eccelsi e originali della


Rinascenza, fu dunque sfigurata da un restauro condotto secondo lo
“stile” bramantesco. Le conseguenze del misfatto sono innumeri. In
primo luogo, il salone del piano nobile e la galleria hanno acquistato
un tono anodino e generico. Mentre, nel fondo del salone, la
pentafora che risulta all’interno in due bifore anima la parete e lo
spazio, le finestre indistinte sul cortile sviliscono l’espressione,
rendono l’ambiente scolastico e freddo. Le decorazioni sovrapposte
durante il restauro incorniciano le dieci finestre laterali con un
riquadro “novecentesco” di gusto pauroso. E il soffitto a cassettoni,
la cui profondità doveva spiccare solo per la luce radente dei piccoli,
alti e distanziati finestrini, ora è illuminato dal basso e diviene
copertura pesante e inqualificata di un sordo vuoto.
Ma le conseguenze sono sensibili anche all’esterno, dove
l’orizzontalità acquistata dal loggiato è in netta antitesi con
l’aggressivo tema inventato da Rossetti (cfr. foto 131-134). A ogni
arcata del portico dovevano corrispondere sopra o una coppia di
pieni o una di aperture; in ambedue i casi, erano in rilievo le
colonnine centrali strette dagli archi vuoti o murati. Per dare maggior
risalto, ed energia verticale, a queste colonnine, esse erano
collegate mediante lesene alla sommità delle arcate inferiori e,
trapassando la cornice, ne agguantavano gli archivolti. Il motivo è
rimasto, ma ha perso tensione e drammaticità in quanto
l’eguagliamento di tutte le aperture del loggiato ha conferito uno
sviluppo orizzontale alla corte, sviluppo che viene poi contestato
dall’alternarsi dei pilastrini che si arrestano alla cornice o scendono
fino agli archivolti inferiori. Anche lo stupendo pilastro angolare, cui
si addossano due semicolonne, ha smarrito l’originaria vitalità: tra ali
libere e ariose, costituiva un forte elemento plastico che si innalzava,
attraverso il doppio pilastrino della fascia centrale, fino al piano
nobile, ove un corrispondente pieno era sottolineato da una coppia
di archi aperti da ciascun lato. Ma questi archi avevano rilievo in
quanto subito dopo seguiti dai moduli chiusi, mentre ora l’uniformità
del loggiato defrauda il motivo angolare della sua decisiva funzione.
Persino l’efficacia del magnifico cornicione è stata indebolita: i ricorsi
verticali tra portico e loggiato, mediati dai quadrati della fascia, gli
davano una preponderanza che il loggiato tutto aperto ha
sensibilmente attenuato.
I vuoti angolari della corte (cfr. foto 124), profezia del moderno “angolo vitreo”, traevano
forza dalla circostanza di essere incorniciati da pieni. Aperte tutte le arcate, vengono ora
assimilati in un sistema indifferenziato a nastro che Rossetti ha sempre respinto. I binati
sono sparsi ovunque nel palazzo, ma i “restauratori” non sanno vedere.

Ci siamo dilungati sul restauro della corte di Ludovico il Moro


perché, tranne alcune riserve, un esplicito giudizio sull’arbitrio
perpetrato nel 1930 non era stato ancora emesso. Il cortile Costabili
è un unicum come tutte le grandi opere d’arte, ma riflette le
caratteristiche del linguaggio rossettiano nell’impostazione e in ogni
dettaglio: se questo linguaggio fosse stato studiato, l’arbitrio non
sarebbe stato commesso.

Il palazzo ha acquistato una forma aperta, articolata, in certo senso assai più vicina al gusto
moderno di quanto non fosse l’impianto progettuale. Uno splendido non-finito che coinvolge
la fantasia di ciascuno.

E poi nella corte consiste tutto il palazzo, il quale ha assunto una


bellezza che forse nemmeno l’opera compiuta avrebbe attinto. Non
si vuole cedere al compiacimento del non-finito e, meno ancora, del
rudere. Si constata soltanto che l’organismo del palazzo, con i suoi
tre bracci, ha acquistato una forma aperta sorprendentemente affine
al più avanzato gusto contemporaneo: potrebbe accostarsi agli
schemi wrightiani più articolati o al Bauhaus di Dessau. Il fatto che
due soli lati del cortile siano stati costruiti suscita uno straordinario
interesse anche in una lettura spazio-temporale, in quanto abolisce
la distinzione tra interno ed esterno, favorendo la visione sincronica,
dinamica, attualissima di un volume e del suo spaccato.
La sequenza spaziale degli ambienti interni non rivela uno studio
proporzionale come l’organismo del palazzo dei Diamanti. Si registra
invece un’insistenza sul modulo quadrato che, in multipli di due o di
due e mezzo, determina le dimensioni del salone e delle sale del
fronte a mezzogiorno. Gli ambienti di rappresentanza e anche quelli
minori sono quasi sistematicamente illuminati secondo la formula
rossettiana delle finestre tangenti ai muri.

L’architetto è ostile all’inerte sovrapposizione delle fasce rinascimentali. Pertanto (a sinistra)


vuole agganciare il loggiato al portico (cfr. foto 126-128) prolungando alternativamente un
pilastrino della zona mediana, che sembra mordere l’arcata inferiore. Ne risulta (a destra)
un ordine di vuoti, formato da un’arcata del portico legata e quasi sospesa a due arcatelle
del loggiato, che traeva originalità e vigore dal contrasto tra binati pieni e vuoti.

La composizione è controllatissima e tuttavia non rinuncia agli


ingredienti tradizionali cari a Rossetti. Il largo uso della terracotta,
l’asimmetria dei fronti di mezzogiorno e di levante, il discorso
spicciolo e quasi dialettale del cortiletto dove due finestre di diversa
dimensione sono liberamente affiancate, dimostra che il maestro,
anche nel suo testo più aulico, non dimenticò di ravvivarne il
linguaggio con i suggerimenti dell’edilizia “parlata”.
I volumi interni del piano nobile del palazzo di Ludovico il Moro.
PALAZZO ROVERELLA

Delle principali opere di Rossetti solo l’ultima sorge sul corso


Giovecca, e sembra segnare con la sua ubicazione il momento
risolutivo del sogno urbano del maestro (cfr. foto 134-135). Partito
dall’Addizione di Borso per palazzo Schifanoia su via Scandiana e
per la casetta di via della Ghiara, trasferitosi poi nel nuovo
comprensorio settentrionale per il piano regolatore e i palazzi e le
chiese in esso inclusi, tornato nel vecchio nucleo medievale per San
Francesco e per l’abside della Cattedrale, e poi ancora
nell’Addizione di Borso per palazzo Costabili, nell’ultimo lavoro
Biagio interviene sulla linea di saldatura tra la città antica e la nuova,
quasi a dimostrare che ormai si tratta di un unico e moderno
organismo urbano.

Ubicazione del palazzo lungo l’asse della Giovecca (cfr. 56, 64), di fronte al vecchio centro.

Lo stesso asse della Giovecca, lungo oltre un chilometro e largo


quindici metri, è del resto una sua creazione. Equicola narra che
nell’anno 1440 venne dato inizio a via della “Zoecca”, ma è chiaro
che si riferisce a una strada secondaria scorrente lungo le mura. Il
nome è ripetuto, con la variante di “Zodeca” nel Diario ferrarese e
nei rogiti del XVI secolo: non appena, infranta la cinta fortificata,
cominciò l’afflusso della popolazione verso nord, la spina della
Giovecca, dalla fossa del Castello alla palazzina di Marfisa, divenne
luogo di richiamo per le manifestazioni politiche, religiose e
carnevalesche, e di attrazione per le attività commerciali. Un’arteria
di questo genere, nell’urbanistica contemporanea, si denominerebbe
“asse attrezzato” o “asse direzionale” e in effetti, nella concezione
rossettiana, risponde alle stesse funzioni: libera il “centro” dal suo
vincolo statico, lo rende flessibile e dinamico da est a ovest,
costituisce il diaframma attraverso il quale si attua la naturale osmosi
tra i due settori della città.
Posto nel primo tratto della Giovecca, di fronte al sagrato della
chiesa dei Teatini, il palazzo costruito per Gaetano Magnanini e poi
passato ai Roverella trae la sua figurazione proprio dal sito in cui si
eleva: è l’unico prodotto di Rossetti che sia pensato per una visione
frontale, in cui una facciata vale per sé, indipendentemente dagli
scorci prospettici. Ecco perché all’alzato principale furono dedicate
infinite cure compositive e decorative, con un interesse per le
proporzioni, i collegamenti visuali, le modanature, quale raramente si
riscontra nelle opere precedenti. Non vi era un organismo
volumetrico da risolvere poiché nel varco dell’attuale via Boldini
aperta nel 1933 si affollavano altri edifici: il palazzo non aveva
fianchi, ma si inseriva nella continuità della narrativa stradale; sul
piano di facciata, e solo su di esso, bisognava dunque operare.
L’architetto non ha dubbi circa la fonte linguistica cui attingere.
Nel palazzo Rucellai a Firenze, Leon Battista Alberti aveva
individuato un metodo per scomporre la facciata in guisa che essa
denunciasse non solo la sovrapposizione dei piani, ma anche la
separazione degli ambienti interni. Rossetti lo riprende: sopra l’alto
stilobate infatti eleva le paraste mediante le quali lascia affiorare sul
prospetto il ritmo delle cavità spaziali. Allo schema albertiano però
aggiunge il suo stilema delle finestre a filo di muro, e capovolge così
il senso della figurazione: mentre in palazzo Rucellai il modulo è
fornito da due lesene centrate da una finestra, qui il sistema affida il
suo rigore alla parasta stretta da due aperture, trasferendo perciò
l’accento dal vuoto alla struttura. Ne consegue che mentre nel
prototipo fiorentino lo specchio murario tra le lesene è sostanziato
dalle bugnature, qui è distrutto nella sua consistenza geometrica,
formando una T cui gli slanciati frontoni delle finestre contendono
ogni gravità. Ciò è importante anche nei riguardi dell’elasticità
funzionale e delle proporzioni: gli ambienti di palazzo Roverella sono
assai più vasti di quelli Rucellai e variano di larghezza; per scandire
il fronte in setti rigorosamente uguali, bisognerebbe accettare il falso
di lesene non corrispondenti ai muri di spina; e, d’altra parte, se le
aperture fossero centrate, la composizione risulterebbe fiacca e
disordinata.

Ipotetica applicazione (sopra, a sinistra) dello schema albertiano di palazzo Rucellai a


Firenze, con un’uniformità di scomparti. Lo stesso schema (sopra, a destra) con lo
scomparto centrale più ampio. La soluzione rossettiana (sotto) che addensa i vuoti al
centro, giustificando un solo portale, al posto dei due albertiani di palazzo Rucellai.

Rossetti decide allora di sfruttare le diverse dimensioni delle cavità


interne per conferire un effetto centripeto alla facciata: mentre a
Firenze i moduli sono tutti uguali, sicché il motivo non riesce a
concludersi nemmeno sull’angolo, qui si verifica una convergenza
visuale verso la trifora e il portale.

Due quadrati sovrapposti, divisi da una fascia decorativa, implicherebbero la mera


sovrapposizione di figure geometriche autonome. Ciò sarebbe contrario al gusto rossettiano
sempre teso a legare organicamente gli elementi architettonici. Pertanto la trabeazione in
cotto viene coinvolta nel gioco dei due quadrati, ne contesta l’autosufficienza.
Come è assicurato il collegamento figurativo tra i due ordini? Non
solo con l’alto basamento calcolato per sostenere il getto di tutto il
partito verticale fino al cornicione; non solo con i risalti sulle
trabeazioni, sottolineati da busti che attirano l’attenzione proprio sui
nodi di passaggio tra le sovrapposte lesene; ma, principalmente, con
un sottile espediente proporzionale. Il modulo dello scomparto, sia
nel piano inferiore che in quello superiore, non è un quadrato, ma la
somma dei due scomparti sovrapposti risulta di due quadrati. La
linea di demarcazione cade sulla fascia della trabeazione, nella zona
cioè più dispersiva e plasticamente elaborata. Il dispositivo è assai
efficace perché l’occhio decifra il sistema dei due quadrati – reali nei
tre scomparti centrali, e virtuali ai lati – ma non può scinderlo nelle
sue componenti geometriche.
Malgrado il preziosismo delle decorazioni dovute a vari “mastri” e
“taiapreda”, l’edificio è fedele al linguaggio rossettiano. L’adozione
degli ordini rinascimentali consente di accusare in facciata le
strutture di spina e, conseguentemente, di incorniciare le finestre con
edicole; ma, al di là dell’aulica sintassi, il senso del discorso è lo
stesso delle opere più umili e popolari, quando le aperture erano
tagliate a filo di muro e appena coronate da un archivolto in
terracotta. Si osservi nelle finestre l’aggetto quasi invisibile delle
fasce in cui sono incastonate tre testine: sono strisce piane quasi
schiacciate sulla parete, appartengono più al fondo che al motivo
dell’edicola, sino al punto che i frontoni triangolari e le cornici che le
sovrastano, più che raccordarsi al vuoto della finestra, sembrano
galleggiare, senza peso proprio. Tale peculiarità spiega la
proporzione dei frontoni, a prima vista troppo alti: nella loro puntuta
secchezza, essi indicano di appartenere al tema centrale della
contigua parasta, e non a una sequenza di pieni e vuoti; al limite,
denunciano che i vuoti sono funzioni delle nervature strutturali. Per
la stessa ragione, gli archivolti delle finestre del piano nobile sono
inseriti in un rettangolo definito da una lieve metallica cornice,
riecheggiando così la soluzione esplicitata nel portale ove l’esile
arcata s’inquadra in una maestosa edicola marmorea.
Alla configurazione tutta tesa a esprimere le linee-forza della
struttura contribuiscono i quattro camini sporgenti dal tetto e ben
visibili sul prospetto. Essi attestano lo scopo del pieno centrale dei
vari ambienti e accentuano la distinzione tra lo scomparto mediano e
quelli laterali. Anche questo è un motivo del vernacolo tradizionale
ferrarese razionalizzato e orientato a diversa immagine.
Nell’ultima delle principali opere rossettiane, ritroviamo dunque gli
ingredienti di una cultura e di un linguaggio perseguiti con costanza
dalla prima giovinezza: l’amore per le compatte stesure murarie di
palazzo Schifanoia; il gusto per i riquadri elementari e adamantini
ravvivati da dense ornamentazioni in terracotta, come nel campanile
di San Giorgio; la volontà di esporre, di esaltare le strutture, come
nella casetta di via della Ghiara. L’alta zoccolatura a scarpata ripete
un tema comune al palazzo dei Diamanti, al palazzo Turchi-Di
Bagno, a quello di Giulio d’Este. La distribuzione delle fonti di luce
negli ambienti interni è la stessa che abbiamo trovato in San
Francesco, in San Benedetto e in San Cristoforo, nei palazzi
dell’Addizione e in quello di Ludovico il Moro. Le finestre del piano
terreno sono della stessa famiglia di quelle dei cortili delle magioni di
Sigismondo e di Costabili. La citazione albertiana si collega a quella
dell’organismo della Certosa. Il colloquio tra laterizio e pietra d’Istria
richiama alla mente la corte del palazzo di Ludovico. Molte altre
analogie possono individuarsi nei particolari plastici, dal portale ai
capitelli.
Invero, se la prolificità di Rossetti giustificava il sospetto di
eclettismo, l’analisi delle sue opere lo rivela personalità di rara
coerenza, saldissima nelle convinzioni, capace di resistere alle
lusinghe dei linguaggi più autorevoli della sua età, o di piegarli ai
propri fini espressivi. Brunelleschi e Alberti, la tradizione emiliana, il
mondo veneto e quello lombardo, Sansovino e Bramante gli servono
come pretesti. I suoi edifici, se interpretati secondo i metodi
compositivi o lo stile di questi architetti, risultano tutti poco
convincenti o addirittura sbagliati. È un cattivo Brunelleschi, un
pessimo Alberti, tradisce Ercole de’ Roberti e i Lombardo, sconvolge
i ritmi di Sansovino e di Bramante. Non vi è rimedio: per capire
Biagio Rossetti, bisogna cessare di vivisezionarlo secondo i termini
di una o più “scuole”, abbandonare la ricerca di incroci e
contaminazioni, e riconoscere una personalità irriducibile a ideologie
generiche e alla vaga nozione di uno “stile” rinascimentale. Come
Cosmè Tura, Biagio nell’arte italiana propone una tematica discorde
e originale, riscattando anche in sede architettonica la gloria del
cantiere ferrarese.
OPERE MINORI

Il Diarium ferrariense del 1409-1502 e quello di Bernardino


Zambotti documentano che la chiesa di Santa Maria della
Consolazione fu eretta per ordine del duca Ercole, il quale andò “in
persona a designarla”. Nel prospetto, sotto un nartece rimasto
incompiuto e comunque posteriore, un elegante portale di marmo
risulta inserito entro il vano della porta originaria. Nella struttura
muraria, come ha notato Sarpi, si individuano tracce di una
progettata tripartizione inquadrata da pilastri e di due ordini
sovrapposti separati da un fregio per la cui applicazione è stata
omessa un’intera risega di mattoni. Lo schema è analogo a quello
delle facciate di San Francesco e di Santa Maria in Vado, mentre il
previsto rivestimento marmoreo l’apparenta al prospetto di San
Cristoforo. All’interno, le tre navate si aprono con sette archi su
pilastri e, sulla nave maggiore, questi s’innalzano per scompartire un
alto sopraordine definito da trabeazioni in cotto. L’attuale, eccessiva
differenza di altezza tra la copertura dell’abside e quella del corpo
della chiesa è dovuta a un espediente pratico adottato dopo il
terremoto del 1570.

La zona presbiteriale di Santa Maria della Consolazione è accentuatamente più alta delle
navate. Il restauro è dovuto a S.I. Sarpi.
La volontà di contrapporre alla navata in penombra un ambiente
sacro inondato di luce ha dettato, come vedemmo, la soluzione
dell’arco trionfale alla Certosa. Qui lo stesso arco, ora svisato dagli
spuri pilastri disegnati, diviene, anziché paramento, parte integrante
della struttura edilizia. La distinzione volumetrica tra il blocco delle
navate e la zona presbiteriale serve a nascondere le fonti luminose
che si annidano ai lati lasciando integra, dentro e all’esterno, la
tessitura curvilinea absidale esaltata dall’oculo centrale. Va dunque
concluso che si tratta di una chiesa pensata e costruita da Rossetti
come ambiente interamente fasciato dal rosso laterizio, punteggiato
soltanto dai bianchi capitelli.
Dopo il fervente biennio 1492-94 dedicato al cantiere
dell’Addizione, tutta l’attività di Rossetti è tesa a un fine: integrare,
mediante una serie di interventi architettonici, le due città. I suoi
lavori spaziano infatti nell’intero territorio ferrarese, e anzi sembrano
costantemente selezionati allo scopo di definirne o configurarne i
principali nodi urbani, oppure di incentivare l’edilizia in settori
periferici all’abitato. San Vito segna l’arresto visuale di via
Scandiana; il chiostro di San Paolo, il sopraelevamento della “via
coperta”, la loggetta del giardino pensile del Castello, palazzo
Montecatino sono contributi al rinnovamento del vecchio nucleo; San
Silvestro è l’epilogo orientale della Giovecca. Di là da questa arteria
ingemmata da palazzo Roverella, San Gabriele, l’Arsenale, il portale
Giglioli-Varano costituiscono inviti all’Addizione, punti di attrazione
verso la terra nuova. Infine, a nord-est, San Giovanni Battista
bilancia sul corso dei Prioni la massa di San Benedetto; e Santa
Maria della Consolazione serve a risolvere l’angolo di via Mortara,
cioè a concludere, presso porta Mare, il decumano dell’Addizione.
Dopo la grande impresa dell’Addizione, ventidue anni spesi per rinnovare l’aggregato
medievale, per strutturare con emergenze architettoniche l’area della città nuova, e infine
per garantire una simbiosi tra i due settori così densa e tesa da risultare in un organismo
unitario e moderno. Nello schema non sono segnati tutti gli interventi, ma solo i maggiori o
quelli esteticamente più validi. Tuttavia Rossetti non sprezza i lavori più modesti e umili,
specie nell’abitato antico: sa che è essenziale rivitalizzarlo a ogni scala, anche a livello
dell’arredo urbano.

Nel 1516 la ristrutturazione della città è compiuta. I secoli


successivi vedranno accrescimenti delle fabbriche, apporti di altri
architetti, presenze di linguaggi anche remoti da quello rossettiano;
ma non altereranno il piano regolatore né la fisionomia ormai
deliberata in ogni sua piega della Ferrara rinascimentale.
Collaboratori e discepoli di Biagio ne continueranno il costume
edilizio civile. Ma in campo urbanistico non si registrano allievi. E
non occorrono: il maestro, da solo, ha creato la struttura, le cadenze,
l’immagine perenne della prima città moderna europea.
Dopo due anni dedicati all’Addizione, Rossetti torna nel vecchio nucleo ferrarese per
rivitalizzarlo e quindi saldarlo alla città moderna.
SAN FRANCESCO
87. Il prospetto principale, malgrado i rifacimenti subiti dopo il terremoto del 1570, mantiene
lo schema originario che proietta in facciata la scansione degli spazi interni della chiesa, e
nelle volute ripete il motivo albertiano di Santa Maria Novella a Firenze.
88. Il fianco della chiesa forma la quinta stradale della via Savonarola. In fondo, la strada ha
una lieve inclinazione, in corrispondenza del palazzo Pareschi.
89. Il fronte sul cortile è stato alterato dai successivi interventi. Si notino le finestre originarie
della navata maggiore, vicino agli oculi aperti più tardi.
La chiesa di San Francesco rappresenta l’intervento con cui si apre, nel 1491, la seconda
parte della vita di Rossetti. Se ne osservi la posizione nodale nel tracciato urbano (cfr. foto
64). Da qui si può davvero partire per trasformare l’aggregato medievale in un cantiere non
meno fervido dell’Addizione, perché siamo alle spalle della Cattedrale (cfr. foto 116) e allo
sbocco di una serie di antiche stradine sulla via Savonarola. Inoltre, c’è da concludere un
episodio iniziato con la costruzione del palazzo di San Francesco o Pareschi che ora può
fungere da fondale di un’emergenza progettata in modo da determinare un salto qualitativo
nei moduli della città e nei codici linguistici della sua architettura (cfr. foto 88).
SAN FRANCESCO
90. La decorazione in cotto accentua il suo vigore negli angoli tra la facciata e i fianchi della
chiesa. Accogliendo gli schemi compositivi rinascimentali, Rossetti non rinuncia all’apporto
dell’artigianato locale, sì che le sue opere acquistano, rispetto ai modelli toscani, ricchezza
“tattile” e materica, assumendo una fisionomia familiare nel mondo ferrarese. Estraneo ad
ogni diagrammaticità trattatistica, egli non intende imporre le forme rinascimentali: le
assimila e le umanizza.
91. Le alte e profonde finestre sulla via Savonarola stringono le lesene in una morsa.
92. Un capitello e la trabeazione in cotto sulla via Savonarola.
93. L’ordine che appare gigantesco in rapporto alle strade medievali. Specie provenendo
dalla via delle Volte (cfr. foto 26) si evidenzia uno scatto nella dimensione urbana.
SAN FRANCESCO
94. Lo spazio della navata centrale, scandito da precise quantità tridimensionali.
95. Calotte circolari, quasi cupole schiacciate, hanno sostituito le primitive volte.
SAN FRANCESCO
96. Durante l’estate, i fasci di luce trapassano i pilastri delle cappelle, raggiungono le
colonne in un magico corteo di indicazioni trasversali, puntate direttamente sui vuoti.
97. Il pilastro che separa le cappelle non è una proiezione del muro sul piano: è il muro
stesso che avanza, stretto e compresso dagli archi laterali.
98. Le fasce arcuate che separano le tre calotte del transetto costituiscono espedienti
correttivi di un nodo insoluto della composizione. Subito dopo, in Santa Maria in Vado (cfr.
foto 102), Rossetti saprà eliminarli.
99. L’abside ha una larghezza maggiore di quella della navata centrale. Ciò consente di
nascondere alla vista dei fedeli le finestre laterali che ne rischiarano l’invaso. Dispositivo
strutturalmente poco convincente che Rossetti non adotterà in altre opere, a eccezione
dell’ultima, Santa Maria della Consolazione (cfr. foto 137-140), e tuttavia consono
all’immagine di San Francesco.
SANTA MARIA IN VADO
100. Come San Francesco, offre alla strada il suo fianco (cfr. foto 64). Sulla via Scandiana,
Rossetti aveva costruito la sua prima opera, la delizia di Schifanoia (cfr. foto 17-22).
101. Se il prospetto è stato profondamente alterato, non minori manomissioni hanno
sofferto il fianco e il corpo del transetto. Le goffe volute furono aggiunte dopo il 1572.
Si immagini una serie di cupolette al posto del soffitto piano; poi una cupola all’incrocio con
il transetto, che fu in realtà realizzata e demolita solo nel 1829; infine, un ambiente liberato
dalle invadenti decorazioni del tardo Cinquecento e del Seicento. Né basta. La posizione
urbanistica della chiesa impedì di costruire file di cappelle da cui far penetrare la luce.
L’architetto cercò di sostituirle con vaste nicchie, una sequenza di inflessioni murarie. Ma
fastosi altari barocchi hanno ora preso il posto delle semplici e lineari mense ideate dal
maestro, e falsano l’immagine.
102. La navata maggiore vista dall’ingresso. Il sapore coducciano del colonnato su alti
piedistalli si può spiegare ricordando i numerosi viaggi fatti da Rossetti a Venezia, in
occasione dei restauri compiuti nel palazzo estense, attuale Fondaco dei Turchi. Del resto,
elementi veneti sono già stati riscontrati nella sacrestia di San Giorgio e nel prospetto
originario del palazzo di San Francesco o Pareschi.
103. La navata centrale vista dall’altare. Si noti come, al posto dei pilastri divisori delle
cappelle a San Francesco (cfr. foto 97), qui vi siano semicolonne. Si ripete il passaggio da
San Lorenzo a Santo Spirito operato da Brunelleschi.
Compiute le due chiese nel nucleo medievale e lungo la via Scandiana, Rossetti torna
nell’area dell’Addizione, anzitutto per determinare sul lato occidentale della via degli Angeli
un contrappeso alla piazza nuova, poi per fissare, con la Certosa, un’emergenza nel settore
nord (cfr. foto 64).
SAN BENEDETTO
104. La piazza domina il braccio occidentale del decumano dell’Addizione. Le sue
dimensioni sono modeste, non paragonabili a quelle della piazza nuova (cfr. foto 65), ma la
prepotente presenza di un monumento conferisce all’intervento un deciso rilievo. Si vede, in
fondo alla via dei Prioni, il balcone angolare del palazzo Prosperi-Sacrati (cfr. foto 78-81) e,
sulla destra, il cortile del palazzo dei Diamanti (cfr. foto 71-77).
105. Le rovine della chiesa dopo i bombardamenti subiti durante la seconda guerra
mondiale. I danni erano tali da escludere la legittimità di un restauro.
106. Veduta aerea del complesso. Il campanile fu aggiunto più tardi, da G.B. Aleotti.
107. Le cappelle semicircolari rimandano al tema del progetto brunelleschiano di Santo
Spirito a Firenze. Ma qui le finestre non sono centrali: si annidano nelle zone di saldatura,
respingendo un equilibrato, classicistico rapporto di vuoti e pieni.
SAN BENEDETTO
108. Per distinguere le diverse quantità spaziali della navata centrale, l’uniforme colonnato
di San Francesco (cfr. foto 94) e di Santa Maria in Vado (cfr. foto 102) viene mutuato con
una sequenza di pilastri differenziati dalle innervature strutturali. Due fonti di luce dall’alto: la
cupola e, in sordina, la calotta che snoda la croce greca dal braccio longitudinale.
109. La luce emana dalle cappelle come a San Francesco (cfr. foto 95, 96), ma non si
riflette più sui diaframmi strutturali. Date le concavità parietali, incrocia i suoi flussi
direttamente sui vuoti caricandoli di energia. Sulla comune base del ripudio della soluzione
centrica brunelleschiana, si tratta di una variante assai più drammatica.
A quattro anni dall’esperienza di San Francesco, la chiesa di San Cristoforo alla Certosa
rappresenta una sfida creativa esattamente antitetica. Qui, nel settore nord-orientale
dell’Addizione, Rossetti si misura col paesaggio naturale. La parte artisticamente più
interessante è quella absidale, dove la lavorazione del cotto passa dal fraseggio artigianale
all’atto poetico.
SAN CRISTOFORO ALLA CERTOSA
110. Il fianco meridionale; l’ingresso alla chiesa è a sinistra, su via Borso (cfr. foto 55).
111. Le pareti del transetto sono bipartite da un brunelleschiano “pieno” centrale.
Le innovazioni salienti di San Cristoforo rispetto alle tre chiese precedenti consistono
nell’eliminazione delle navi minori e nell’arcone trionfale. Rossetti si ispira evidentemente al
profetico schema albertiano di Sant’Andrea a Mantova, e l’arcone serve ad accentuare il
distacco tra lo spazio riservato ai fedeli e la zona sacra violentemente rischiarata. Magico,
scenografico effetto di luce, determinato da una seconda cupola insistente sul presbiterio,
che rimane completamente celata all’osservatore stupefatto.
112. La navata vista dall’ingresso. Si notino i gradini che la separano dalle cappelle.
SAN CRISTOFORO ALLA CERTOSA
113. Le cappelle laterali, poste a diretto contatto con la navata centrale.
114. Dato il sensibile prolungamento della zona presbiteriale, l’arco che immette nella
crociera divide in parti uguali la profondità della chiesa: rapporto inedito nell’esperienza
rossettiana, funzionale alla luce incamerata nel vano di fondo. Si notino anche i piedistalli
dei pilastri, saldamente connessi ai gradini delle cappelle. Ciò che appariva fragile e
provvisorio in Santa Maria in Vado (cfr. foto 102) acquista forza unitaria nello schema
albertiano.
115. Il sopraordine non è un mero espediente plastico: esso impedisce alle luci della navata
di porsi in concorrenza con quelle dominanti delle cappelle.
L’ABSIDE DELLA CATTEDRALE
116. (retro). La cattedrale dall’alto.
117. Nel farraginoso racconto del Duomo, l’abside rossettiana emerge come episodio di
riscatto. Si suole ripetere che il campanile albertiano “portò il Rinascimento a Ferrara”; in
realtà, lo importò senza riuscire a radicarlo.
118. Nella congerie delle strette vie medievali, la mole absidale offre una pausa grandiosa e
umile allo stesso tempo. Attira senza sorprendere, dilata e domina lo spazio circostante
senza comprimerlo. Un’opera senza artifici, nata di sé medesima.
PALAZZO DI LUDOVICO IL MORO
119. La mole costruita per Antonio Costabili all’inizio del Cinquecento si presenta, sul fianco
di via Porta d’Amore, come un fortilizio segnato da cornici, marcapiani e finestre varie,
disposte in modo flessibile. Si scorge, nel fondo, la pentafora.
120. I restauratori che nel 1930 deturparono la grande corte interna non commisero
l’ingiuria di sfondare l’arcata centrale della pentafora su via Porta d’Amore.
121. L’ingresso sull’antica via della Ghiara, a distanza di pochi passi (cfr. foto 64) dalla
casetta che Rossetti aveva costruito per la propria famiglia nel 1490 (cfr. foto 32-34).
122. Prospetto su via della Ghiara e loggia del fronte di levante. Si noti la libera ripetizione
delle finestre binate del piano nobile (cfr. foto 132).
PALAZZO DI LUDOVICO IL MORO
123. Stato della celebre corte prima del restauro. Un esame anche superficiale della sua
consistenza strutturale metteva in chiaro rilievo la caratteristica alternanza di due archi pieni
e di due chiusi nel loggiato: il motivo del binato, caro a Rossetti.
124. Così sarebbe apparsa la corte qualora si fossero riaperti soltanto i binati alternati,
rispettando il disegno rossettiano. Vivace e originalissima immagine, in cui le contrastate
sequenze di pieni e vuoti si liberavano negli angoli spalancati.
125. Contro ogni testimonianza documentaria e ogni verifica struttiva, fu deliberato nel 1930
di aprire tutte le arcate del loggiato, tradendo Rossetti in omaggio a una vaga rievocazione
bramantesca. Un eccezionale atto creativo fu così mortificato.
126. Insulto all’esterno e insieme agli interni. La galleria e le sale del piano nobile, che si
avvalevano dei contrasti di luce e ombra determinati dall’alternanza di un binato aperto e di
uno chiuso, sono scaduti al rango di comuni loggiati e ambienti insipidi.
Come fu possibile perpetrare l’assurdo “restauro” del 1930, inaudita violenza contro un
capolavoro d’arte? Non è difficile ricostruire la logica deformata di questo misfatto. Il livello
poetico della corte di Ludovico il Moro era tale da spingere, per molti anni, gli studiosi
accademici a sottrarne la paternità al modesto “muratore” di Ferrara, benché egli avesse
applicato il motivo dei binati con estrema coerenza nelle opere giovanili, nei palazzi
dell’Addizione e nelle chiese, e lo diffondesse anche sui vari prospetti di questa opera.
L’attribuzione a Bramante fu presto sconfessata, ma lasciò uno strascico, causa ultima di
uno dei più gravi episodi nella storia acritica del restauro. La corte non era di Bramante, e
tuttavia doveva diventare, a ogni costo, “bramantesca”. Vicenda che dovrebbe costituire un
aspro monito per coloro che intervengono sui monumenti in base a generiche regole
stilistiche, senza decifrare l’individuato programma di un’irripetibile fantasia creatrice.
PALAZZO DI LUDOVICO IL MORO
127. Gli angoli svuotati di materia erano originariamente esaltati dai binati pieni che li
stringevano ai lati. Per accentuare le direttrici verticali, cioè per vitalizzare l’inerte
sovrapposizione degli ordini, la colonnina centrale di ogni bifora si prolungava in un
pilastrino esteso ad agganciare la chiave dell’arco inferiore.
128. Il valore delle opere di poesia non è attenuato dalla circostanza della loro
incompiutezza. La corte di Antonio Costabili, come intuì Jacob Burckhardt, è uno dei più
straordinari testi del “non-finito” in architettura.
129. Alternativamente, le lesene della fascia mediana agguantano gli archivolti sottostanti,
confermando l’autenticità del partito rossettiano svisato dal restauro.
130. Attorno alla tonante corte principesca, i corpi di fabbrica mantengono un’espressività
semplice e prosaica. È tipico di Rossetti, dopo un atto lirico, un immediato recupero del
“parlato”. Persino temi vernacoli appaiono nel fronte verso mezzogiorno.
PALAZZO DI LUDOVICO IL MORO
131. Un’ulteriore, sintetica versione del binato rossettiano nel fronte sud (cfr. foto 129).
132. Il cortiletto del palazzo. Rossetti ama il libero accostamento di finestre
dimensionalmente varie. Si confronti con il prospetto del palazzo di Giulio d’Este (cfr. foto
86).
133. Il fronte a levante (cfr. foto 121) brilla per la vivace descrittività delle aperture a oculo,
rettangolari e arcuate, cioè per un impianto anticlassicistico e funzionale.
134. La mano dell’architetto nel pilastro angolare della corte d’onore. Insieme alla parasta di
San Francesco (cfr. foto 97), esso costituisce la più qualificata sigla plastica del maestro. La
tensione del portico sfreccia dagli spigoli verso le gallerie. Tale è l’energia rappresa di
questo pilastro angolare da sopportare senza difficoltà il peso delle tracce sbocconcellate
della parete che doveva concludere la corte a levante (cfr. foto 127). Forme rigorosissime,
taglienti; sopra e intorno, tonalità calde del laterizio, inventività decorativa, casualità di
rapporti tra pieni e vuoti, spregio della proporzione finita e chiusa.
L’ultima delle maggiori opere rossettiane si eleva, simbolicamente, sul corso della
Giovecca, il diaframma attraverso il quale si attua l’osmosi tra la città vecchia e l’Addizione
(cfr. foto 57, 64). Questa arteria fu concepita come un “asse attrezzato” dell’intero
organismo urbano. Di conseguenza, questo è l’unico edificio pensato da Rossetti per una
visione frontale.
PALAZZO ROVERELLA
135. (retro). L’eccessivo preziosismo decorativo, dovuto ai “taiapreda” che completarono
l’opera, non altera la sostanziale elementarità della composizione. Si noti come la
dimensione degli scomparti non sia uniforme, ma registri l’articolazione degli ambienti
interni.
136. Impianto albertiano, scandito da paraste, come nel fiorentino palazzo Rucellai. Ma,
affiancando le finestre alle paraste, si sovverte il discorso esaltando le innervature struttive
e distruggendo la consistenza geometrica dei setti di tamponamento.
L’ultima opera di Biagio Rossetti è situata in fondo a via Mortara, presso porta Mare (cfr.
foto 64), e risolve l’estremo nodo nord-orientale dell’Addizione. Fu costruita dal 1501 al
1516, anno della morte del maestro. L’itinerario rossettiano si chiude degnamente con
un’architettura povera.
SANTA MARIA DELLA CONSOLAZIONE
137. L’abside slanciata e nuda si apparenta a quelle delle altre chiese rossettiane, da San
Niccolò (cfr. foto 35) a San Giovanni Battista.
138. La facciata, cui in seguito fu sovrapposto un goffo nartece, doveva essere tripartita da
due ordini di pilastri separati da un fregio. Un non-finito, architettonicamente muto e invece
importantissimo come punto di arresto in una prospettiva dell’Addizione.
139. L’interno è caratterizzato dalla contrapposizione tra la zona presbiteriale fortemente
illuminata, e la navata oscura. Le tre navate comunicano mediante sette archi su pilastri.
L’alto sopraordine della nave centrale è una riedizione di quello di San Cristoforo alla
Certosa (cfr. foto 113). Nella veduta dall’altare, si notano le finestre laterali e quelle della
vôlta, riaperte recentemente.
140. Veduta dall’ingresso. La chiesa prima del restauro. L’oculo absidale, che appare
ancora chiuso nella foto dell’esterno (cfr. foto 137), è tornato a illuminare, insieme alle due
finestre laterali, la zona presbiteriale. Le due colonne dell’arco trionfale sono posteriori, ma
uno schermo analogo a quello di San Cristoforo alla Certosa (cfr. foto 112) doveva essere
stato previsto dall’architetto.
CONCLUSIONE
IL LINGUAGGIO URBANISTICO DI ROSSETTI

Nel 1470, quando Biagio si configura come il principale aiuto


dell’architetto ducale Pietro Benvenuti degli Ordini, Brunelleschi era
morto da ventiquattro anni, Rossellino da sei, Filarete da uno;
Michelozzo aveva settantaquattro anni, Leon Battista Alberti
sessantasei, circa cinquanta Luciano Laurana; erano sulla trentina
Francesco di Giorgio Martini e Mauro Coducci; sui venticinque-
ventotto Benedetto da Maiano, Bramante e Giuliano da Sangallo,
mentre Leonardo e Antonio da Sangallo il vecchio non avevano
raggiunto i venti.

Collocazione cronologica di Biagio Rossetti (linea scura a sinistra) tra i grandi architetti della
Rinascenza. Le linee orizzontali segnano il 1470 (sopra) e il 1516 (sotto). Quelle verticali,
da sinistra, sopra: l’operosità di Brunelleschi, Rossellino, Filarete, Michelozzo, Alberti,
Laurana, Francesco di Giorgio, Coducci, Benedetto da Maiano, Bramante, Giuliano da
Sangallo, Leonardo, Antonio da Sangallo il vecchio. Sotto: la vita di Falconetto,
Michelangelo, Serlio, Peruzzi, Raffaello, Antonio da Sangallo il giovane, Sanmicheli,
Sansovino, Giulio Romano e Palladio.

Per ampliare il quadro cronologico, basterà ricordare che nel 1516,


alla morte del maestro ferrarese, Falconetto aveva quarantotto anni,
Michelangelo quarantadue, Serlio quarantuno; sui trentacinque
erano Peruzzi, Raffaello e Antonio da Sangallo il giovane, di poco
minori Sanmicheli e Sansovino, mentre Giulio Romano era ancora
nell’adolescenza e nell’infanzia Palladio. In questo contesto di
personalità e di talenti, Rossetti non può essere considerato un
architetto sommo.
Se l’arte è invenzione di forme, Biagio non fu vero poeta. Ogni
elemento lessicale della delizia di Schifanoia, del campanile di San
Giorgio e della casetta in via della Ghiara può essere riferito a un
etimo emiliano o veneto; i palazzi dell’Addizione e quelli di Ludovico
il Moro e dei Roverella riesumano temi toscani e lombardi;
l’icnografia delle chiese discende da Brunelleschi, Alberti e Coducci;
anche del tipico capitello scanalato o del motivo delle finestre binate
è facile reperire i prototipi altrove. Del resto, se analizziamo i rari
capolavori di Rossetti – San Francesco, palazzo Costabili, San
Cristoforo alla Certosa – dobbiamo riconoscere che quasi nessuno
resiste a un vaglio severo fino alla modanatura: sono abbozzi,
componimenti didascalici, poesie virtuali cui manca sempre un
ultimo tocco per assurgere al rango di autentiche e insindacabili
creazioni liriche.
Un referto su Biagio come uomo può trarsi compiutamente dai
documenti d’archivio: il ritratto che ne risulta non è certo quello di un
artista. È una figura di regista, organizzatore e impresario, che
compra e vende terreni, appalta lavori, amministra beni fondiari, e
talora si impegola negli affari in guisa da provocare risentimenti. Il
documento del 28 settembre 1493 è sintomatico: riguarda
un’inchiesta sulla sua situazione finanziaria promossa da Ercole I. La
grida del duca del 25 maggio 1503, con cui si censurano atti
commessi ai danni dell’architetto, dimostra come egli avesse molti
nemici. Scorriamo ancora la lettera diretta da Biagio al cardinale
Ippolito d’Este il 4 marzo 1512, in cui il maestro deve giustificarsi per
aver punito alcuni dipendenti. Il consuntivo è esplicito: sospettato dai
committenti, osteggiato dal pubblico, inviso agli operai, Rossetti
presenta un volto professionale che ha ben poco in comune con
quello generalmente accreditato agli altri architetti dell’epoca. Il
secolare disconoscimento della sua opera non può davvero
sorprendere: nei termini della storiografia architettonica tradizionale,
il suo contributo è modesto, periferico, impuro ed eclettico. È
spiegabile che nessuno studioso di ampio respiro se ne sia
occupato. In realtà, spendere anni di ricerca su di lui, in questa
prospettiva appare, se non inutile, almeno sproporzionato. Né qui si
tenterà di mutuare l’affetto derivante dalla lunga frequentazione con
un giudizio di valore, rialzando artificiosamente la quota di Biagio
nella borsa dei maggiori spiriti della Rinascenza.
Alcune osservazioni conclusive sono tuttavia indispensabili non
già per proporre un’apologia rossettiana, quanto per intendere più a
fondo l’indole di una singolare produzione architettonica. Va
premesso anzitutto che la sfortuna critica di Biagio s’innesta
perfettamente in quella dell’arte ferrarese coeva. Vasari non nomina
Rossetti ma, nella prima edizione delle Vite, nemmeno Francesco
del Cossa e Lorenzo Costa; dedica appena poche righe a Cosmè
Tura, mentre s’indugia su un mediocre pittore come Galasso di
Matteo Piva. Non si tratta dunque di carente informazione ma di
incomprensione critica. E il fenomeno si protrae per lungo tempo: da
Cicognara a Cavalcaselle, il gusto scolastico vieta di ravvisare
l’originale fisionomia di pittori che sembravano “asciutti” o “duri” e
comunque “eccentrici”. La scoperta dell’arte ferrarese si deve a
Adolfo Venturi, ma la sua legittimazione al livello europeo si attua,
malgrado i notevolissimi apporti di studiosi illustri, da Gruyer a
Berenson, solo dopo la grande esposizione del 1933 nel palazzo dei
Diamanti. La storiografia architettonica è sempre stata più lenta di
quella delle altre arti figurative. Se i segni di Cosmè Tura, Francesco
del Cossa ed Ercole de’ Roberti apparvero “contorti”, “furenti”,
“scoppi di pazzia” agli occhi di critici adusi ai rigorosi organismi
toscani e ai modi veneti, non meraviglia che l’anomalia di Rossetti
susciti ancora indifferenza o perplessità. Si rileggano l’Officina
Ferrarese di Longhi, o i saggi di Ortolani: quasi tutti gli aspetti per i
quali Rossetti apparve una figura difficilmente inseribile nell’alveo
maestro dell’architettura rinascimentale sono comuni ai maggiori
pittori contemporanei. Per captare il messaggio di Tura, si sono
spezzati gli schemi categoriali di una critica togata; così occorre per
Biagio.
Ma l’architettura di Biagio non esige di legittimarsi come
fenomeno irregolare ed eretico rispetto a una generica poetica
rinascimentale. La sua giustificazione consegue al riconoscimento
del genio urbanistico. Il capolavoro, il supremo poema di Rossetti
non è il palazzo di Sigismondo, né San Cristoforo, né la corte di
Ludovico il Moro: è Ferrara nel suo complesso, nella sua
concretezza vivente, il piano regolatore, la cintura muraria, le
attrezzature architettoniche della vecchia città e dell’Addizione
nell’indissolubile vincolo che le salda. Finché il prodotto unico ed
eccezionale della sua arte verrà smembrato, e ciascuna parte sarà
sottoposta a un esame disgiunto, si rimarrà inappagati. Palazzo
Schifanoia, preso in sé, analizzato come oggetto avulso dalla fuga di
via Scandiana, ha scarso senso. La casetta di via della Ghiara è
umile manufatto fuori del contesto edilizio. La composizione di
palazzo dei Diamanti, vista staticamente all’angolo del quadrivio, è
per vari versi manchevole; quella di palazzo Turchi-Di Bagno è
assurda se non grottesca; quella di palazzo Mosti, fiacca ed
empirica; e i due fabbricati della piazza nuova sono, in sé,
trascurabili. Le chiese che offrono il loro fianco alle strade, mentre il
prospetto si affaccia su un sagrato, tradiscono residui
medievaleggianti. Non è arduo svalutare anche il piano regolatore
che, come disegno astratto, è assai meno attraente degli schemi di
città ideali del Rinascimento. Le mura poi non sono paragonabili ad
altre sontuose e regali, alla stessa fortezza pontificia di Aleotti:
questa era un “pezzo unico”, un prodotto di bravura ubicabile
ovunque con analogo effetto; la cinta rossettiana è invece il vaso di
una specifica città e, svuotata di essa, perde momento, tensione,
ragione. Qui è il punto: se Ferrara viene decomposta, i suoi brani
appariranno tutti sciatti e immaturi; ma se la città è riconosciuta
come opera d’arte e ogni sua componente vien giudicata in funzione
dell’immagine finale, Biagio assume la statura di uno dei massimi
architetti-urbanisti della storia europea. È vano pretendere di
risollevare le sorti di Rossetti con gli strumenti consueti della critica,
affannandosi a dimostrare che, in fondo, non è poi tanto inferiore a
Bramante o a Sansovino: questa è la via inefficace percorsa appunto
dagli studiosi locali, ansiosi di scoprire per Ferrara un grande
architetto del tipo tradizionale. Occorre invece comprendere che egli
fa un altro mestiere: costruisce organicamente una città.
Considerate i monumenti dell’Acropoli di Atene ed eccepiteli dalla
loro organizzazione spaziale ponendo, ad esempio, il tempietto di
Athena Nike in una piazza, il Partenone a sfondo di un asse viario,
l’Erechtheion in mezzo a un parco. Che resterà della loro immagine,
che spicco avranno i volumi e le linee non più a contrasto con il
brullo e petroso masso su cui si designano? Le sublimi correzioni
ottiche sembreranno accidentali e gratuite; a ogni testo architettonico
e plastico mancherà qualche cosa per essere perfetto. Il
ragionamento può ripetersi per ogni complesso edilizio, dai fori
imperiali al settecentesco slargo di Sant’Ignazio a Roma, dalla
piazza della Signoria a Firenze all’arteria parigina che adduce alla
Madeleine. Staccate uno degli edifici di Gabriel dalla Place de la
Concorde, e il suo stesso ordito apparirà arbitrario.
Tutto ciò è acquisito e insistervi sembra superfluo. Specie dopo la
doviziosa antologia di sventramenti e false restituzioni, ognuno sa
che un monumento non può essere divelto dal panorama per il quale
fu concepito, pena la distruzione del suo messaggio. Si potrebbe
persino affermare che tanto più eletta è un’architettura quanto più è
pertinente e radicata in un ambiente, cioè quanto più scade fuori di
esso. Il fronte borrominiano del Collegio dei Filippini trae il suo vigore
dalla massa edilizia che lo sostiene e lo prolunga fino alla torre
dell’Orologio; senza di essa l’angolo stupendo del fabbricato sarebbe
indecifrabile o virtuosistico.
Non ancora acquisita è invece la stessa esperienza quando si
attua alla scala di un’intera città. La differenza è meramente
quantitativa ma implica impegni di lettura figurale inconsueti. Tutti
ormai intendono perché Bernini non situò l’obelisco di piazza
Navona sull’asse della chiesa di Sant’Agnese, o perché la torre di
Arnolfo è decentrata rispetto al palazzo: sono dispositivi facilmente
spiegabili. Ma la relazione che lega palazzo Turchi-Di Bagno nel
crocevia a palazzo Bevilacqua nella piazza nuova non può essere
documentata né con una né con cento fotografie, poiché non si
conclude entro quadri prospettici prossimi o continui. Se a palazzo
Turchi fosse affiancato un fabbricato simile con pilastrata angolare
rovesciata, la lettura sarebbe immediata; ma quando tra i due edifici
la strada si restringe da metri 17,40 a metri 13,90, e il primo è
immerso nel quadrivio mentre il secondo è risucchiato nella cavità
verde dell’Addizione, il rapporto sfugge. E così il rimando tra San
Benedetto e San Giovanni Battista, tra il campanile di San Giorgio e
Santa Maria della Consolazione, tra il coro del Duomo e palazzo
Montecatino. In tale rete di relazioni sta e splende Ferrara, e non si
scinde in episodi finiti, in serie di equilibrati capitoli, poiché è un
tutt’uno risultante solo da una sintesi totale, per intendere la quale
occorre fruire a lungo dei suoi spazi. Burckhardt aveva colto nel
segno: è la prima città organica europea; non riflette un “tipo”, una
legge, una dottrina; è, in concreto, se stessa.
In questa cornice, Biagio Rossetti non si propone né come un
sommo né come un modesto maestro, ma semplicemente come una
delle più alte incarnazioni nella storia del linguaggio urbanistico. I
suoi stessi demeriti divengono qualificanti: se i suoi edifici risultano
incompiuti quando sono analizzati come oggetti autonomi, ciò va
stimato un fenomeno non solo positivo ma straordinario. Palazzo dei
Diamanti, con il suo piano nobile arretrato rispetto a quello inferiore,
appare anomalo? palazzo Rondinelli è scadente? a San Niccolò
manca qualcosa per essere un’opera d’arte perfetta? Non v’è
dubbio; ma è proprio questo il carattere saliente ed eccezionale.
Ogni frase edilizia è tronca o incerta o sospesa proprio perché
rimanda ad altre frasi sì da intessere il più serrato discorso urbano
della Rinascenza.
Che Rossetti fosse consapevole di adottare un linguaggio diverso
da quello architettonico comune, lo attesta il trattamento degli angoli.
Le sue opere, specie i palazzi, presentano accentuazioni angolari
che non trovano equilibrio nell’ambito dello stesso fabbricato: la mole
di Sigismondo, i palazzi Turchi, Mosti, Montecatino, Prosperi-Sacrati
condensano le loro composizioni sull’angolo donde sfreccia un’intera
quinta stradale, una dimensione cioè che oltrepassa notevolmente
quella dei loro volumi. Fotografato in sé, il pilastro di palazzo Mosti è
inconsistente e irritante, e il blocco apparirebbe più armonioso
elidendolo; ma quel palazzo non è una strofe conclusa, è un
endecasillabo, un verso di avvio alla prima ottava del secondo
crocicchio dell’Addizione, e per tale va giudicato. Se Ferrara si legge
con il dizionario o, peggio, sulla metrica dei blocchi compatti della
Rinascenza toscana, per reperirvi le stesse pausate cadenze, perde
ogni suggestione, diviene incomprensibile: è un’altra cosa.
La poetica degli angoli non è certamente monopolio di Rossetti.
L’angolo è un nodo basilare in ogni composizione, e basti ricordare
le soluzioni del periodo barocco per rendersi conto che su questo
nodo tutti i grandi architetti antichi e moderni hanno puntato come
sul luogo più sensibile dei legamenti figurali. Ma il metro di Rossetti
è, ancora una volta, diverso da quello degli altri. Egli non modella
l’angolo in quanto vi individua il fulcro della reintegrazione plastica e
quindi della configurazione stereometrica del fabbricato, ma perché
da esso fa scattare una direttrice che trova il suo equilibrio lontano,
di regola dopo una sequenza di edifici e di strade. La sua poetica
dell’angolo non è dunque al servizio del “pezzo” architettonico, ma di
tutto l’organismo urbano.
Questo linguaggio era inedito. Che non sia stato criticamente
inteso, lo prova l’insensibilità degli interventi perpetrati sugli edifici
rossettiani. Sovrapporre sul fronte di Schifanoia un secondo portale
marmoreo per bilanciare quello maggiore significa non capir nulla di
un componimento che termina solo nelle mura sudorientali.
Trasformare il prospetto del palazzo di San Francesco rendendolo
simmetrico vuol dire addirittura ignorare il ruolo di quell’edificio nello
sguincio di via Savonarola. Affiancare due candelabre all’adito del
palazzo dei Diamanti attesta una completa cecità rispetto al suo
impianto dinamico. Tutti questi interventi e altri, sono stati dettati
dall’intenzione di tramutare gli edifici rossettiani in “pezzi” autonomi,
compiuti in sé, simmetrici o comunque bilanciati, cioè dall’istinto di
opporre un linguaggio architettonico a quello urbanistico.
Ciò chiarito, v’è da chiedersi come mai Rossetti non abbia avuto
seguaci, come mai l’urbanistica moderna da lui solennemente
inaugurata non abbia trovato proseliti e assertori. Ma la risposta non
è compendiabile in termini di architettura, dacché coinvolge
argomenti politici e sociali, morali tecnici e psicologici. Ferrara fu
costruita in una peculiare congiuntura storica: le sovrastrutture del
dominio estense erano paternalistiche e reazionarie, ma le reali
strutture della città, “punctum crucis” di grandi correnti commerciali e
culturali, consentirono che l’idea organica di Biagio Rossetti
prevalesse sulle ambizioni di Ercole I. Ferrara era un centro
internazionale, anti-dottrinario, pragmatico, militarmente e
politicamente abbastanza debole ed esposto per sottrarsi al
protezionismo e alla retorica. Subito dopo, le condizioni cambiano: la
storia si discioglie nella cronaca e nell’utopia, la Riforma stroncata
mortifica la nuova scienza implicita nell’umanesimo, i virtuali stati
moderni si provincializzano, tra l’individuale e l’universale non vi è
più la mediazione delle responsabilità sociali. A Ludovico Ariosto
succede Torquato Tasso.
In tali travolgimenti, un linguaggio urbanistico non era destinato a
diffondersi. Realizzare una città coerente nelle sue tre dimensioni,
attraverso l’intero processo che va dal piano al motivo d’angolo e al
portale, diveniva impossibile. La cultura si disintegra tra
un’urbanistica astratta e ineffettuale e un’architettura chiusa in
episodi isolati.
Muta e si confonde anche la figura professionale dell’urbanista.
Egli cessa di essere un artista calato nell’amministrazione della città,
atto a dirigere la demanializzazione dei suoli di espansione, a
organizzare immensi cantieri, a indirizzare anche sul terreno
finanziario una poliedrica operazione urbana. L’acribia ideologica e
la compiacenza trattatistica prevalgono, s’impone la dittatura del
graficismo, della geometria e dei simboli, l’utopia comprime l’urgenza
dei contenuti. Al limite, malgrado le riserve inglesi e alcuni vettori
francesi e tedeschi, la figura dominante in Europa diviene quella di
uno Haussmann, i cui squarci e le cui facciate culminano nel
capolavoro dell’eloquenza. Invero, fino alla nostra epoca
un’urbanistica organica, nel senso socialmente aderente non fu
ripresa. Per questo, solo oggi possiamo a pieno apprezzare Biagio
Rossetti, la sua linea professionale, la sua vocazione, la sua arte
affabile, colta e insieme popolare, scaturente non da folgorazioni
divine ma da un coraggioso e ispirato proponimento terrestre.
L’insegnamento che ne deriva per l’architetto-urbanista moderno
è profondo poiché riguarda un costume dell’operare. Finché non si
supera il solipsismo ascetico dell’architetto di vecchia maniera, ogni
intento urbanistico sarà deluso per l’assenza di uomini capaci di
inverarlo. Finché l’architetto non sarà competente nella
programmazione economica dell’assetto urbano, le città resteranno
passivo specchio delle sovrastrutture politiche, e l’intervento artistico
assumerà il ruolo di un contributo di lusso, se non di disturbo. I nostri
agglomerati continueranno a espandersi con i sistemi che vediamo
applicati in ogni periferia: un piano regolatore, quando c’è, vanificato
da un’incoerente edilizia; una marea di brutti fabbricati, qualche
eccezione architettonicamente elevata, ma scissa dal resto; una
somma di atti egoistici, stridenti e spesso urlanti, senza
orchestrazione nemmeno dei rumori. Tra lo speculatore gretto, prono
al solo guadagno, e l’architetto preoccupato solo del suo frammento,
o al più del piccolo ambiente e del quartiere, il disastro urbano
rimarrà irrimediabile. Due forme di egocentrismo, l’una brutale e
l’altra forse “poetica” ma irresponsabile, non formano una città civile.
Ecco la conclusione: se si vuol comprendere che cosa sia
l’urbanistica, un piano a lunga previsione, aperto, elastico, ricettivo e
tuttavia saldamente “tenuto” nei suoi orientamenti, concretato nella
dialettica tra monumenti e prosa, fenomeno organico e vivente opera
d’arte, si studi Ferrara all’alba del Cinquecento. Se si vuole
incontrare un urbanista impegnato, integro, poeta, si mediti su
Rossetti. Le numerose immagini dei suoi edifici non servono a
rivelare la magia di una modanatura o di un gesto lirico, ma a
indicare un metodo e un costume che assoggettano ogni particolare
edilizio alla creazione di una colta e umana scena cittadina. Per
essa, il linguaggio di Rossetti non è soltanto attuale: addita una via
che una moderna società democratica può ulteriormente esplorare.
Vi è altro? Forse un ultimo episodio completa la fisionomia
discorde, protestante di questo architetto. Si tratta di una lettera del
31 marzo 1490, nella quale Biagio si rivolge al duca in tono
perentorio: minaccia di sospendere i lavori se gli operai non
verranno pagati, “perché li favorenti e maistri sono poveri che vivevo
de soe fatiga”. Funzionario della corrotta, esosa burocrazia estense,
urbanista e perciò tipicamente “manager”, nella lotta tra padroni e
sudditi Rossetti non esita: passa nelle file degli umiliati, dei giusti.
RICONOSCIMENTI

Nel 1955 il sindaco di Ferrara, prof. Luisa Balboni, e l’assessore alle BB.AA. sen. Mario
Roffi si rivolsero al preside dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, prof. arch.
Giuseppe Samonà, per invitare la cattedra di storia dell’architettura a predisporre le
celebrazioni di Biagio Rossetti nel quattrocentoquarantesimo anniversario della morte. Gli
studenti e io accettammo con entusiasmo: dedicai il corso al maestro ferrarese,’mentre gli
allievi del primo anno rilevarono vari monumenti, e quelli del secondo, con la guida del mio
assistente dott. Giuseppe Mazzariol, svolsero indagini documentate in una serie di tesine.
Contemporaneamente, con l’ausilio del dott. Marino Berengo, furono iniziate le ricerche
d’archivio nella Biblioteca Estense di Modena.
La mostra “Identità di Biagio Rossetti” fu inaugurata il 28 giugno 1956 nel ridotto del
Teatro Comunale, e sortì l’effetto desiderato: volevamo rivelare Rossetti ai ferraresi
mediante visioni inedite di edifici che ognuno poteva osservare direttamente passeggiando
per qualche ora nella città, ma il cui significato espressivo esigeva una presentazione
critica. Durante tre mesi, migliaia di persone visitarono l’esposizione, smentendo ancora
una volta il luogo comune che le mostre di architettura non siano attraenti ed efficaci. Vorrei
ricordare tutti gli studenti che lavorarono per la manifestazione; mi limiterò a uno, al
migliore, perito in un disastro automobilistico nel 1959, l’indimenticabile amico Vittorio
Clauser di Rovereto.
Dopo la mostra, l’idea di pubblicare un libro sul Rossetti nacque spontanea. Ma
occorsero quattro anni per realizzarla, anche perché i documenti trascritti da Cittadella e da
Campori si dimostrarono spesso inesatti, i rilievi inattendibili e graficamente scadenti, i dati
largamente lacunosi.
Le ricerche presso l’Archivio Notarile Antico e l’Archivio Comunale Antico di Ferrara
furono esperite con l’aiuto del dott. Nello Rondelli; le trascrizioni vennero controllate dal
dott. Armando Petrucci; per i disegni, collaborò l’arch. Bruno Barinci; le fotografie, escluse
quelle aeree di Fotocielo, furono riprese insieme all’arch. Luigi Pellegrin e a Gianni
Berengo-Gardin. Il dott. Luciano Capra, direttore della Biblioteca Ariostea, agevolò la
raccolta delle stampe; il sindaco Spero Ghedini e la sua amministrazione sostennero la
pubblicazione del volume uscito, in grande formato, nel 1960.
Percorrendo l’antica Ripagrande, oggi via Carlo Mayr, l’occhio cadeva costantemente su
una lapide apposta alla sinagoga, che ricorda il lungo elenco dei deportati scomparsi nei
campi di concentramento. L’ultimo nome è Zevi Emma, persona di cui ignoravo persino
l’esistenza. Avevo pensato di premettere al libro una dedica: Alla memoria di Zevi Emma –
sconosciuta, forse remota parente – che la bestia fascista ferrarese – inviò a morte. Alcuni
amici giudicarono questa dedica non pertinente; perciò fu omessa.
Tavole fuori testo

INFORMALITÀ PALEOLITICA E RAZIONALISMO NEOLITICO


1. Nella tavola della pagina precedente, le abitazioni ricavate nelle grotte naturali di un
altopiano del Sahara, e quelle di Kotoko, nel Camerun settentrionale, indicano la totale
mancanza di geometria durante il paleolitico.
Non appena le popolazioni nomadi si stabilizzano, come avviene nel villaggio neolitico di
Ba-ila, nella Rhodesia del nord, si afferma l’ordine geometrico: il capo, dalla barriera del suo
recinto, controlla le capanne dei sudditi disposte a cerchio.
La scoperta del percorso è documentata dagli allineamenti dei menhir, o pietre oblunghe,
presso Carnac, in Bretagna.
Il tempio egiziano di Luxor rappresenta la più grandiosa realizzazione architettonica
monodirezionata del mondo antico.

LA SCALA UMANA DEI GRECI


2. “Volumi puri sotto la luce”: così Le Corbusier definiva la poetica urbanistica ellenica.
Nell’Acropoli ateniese, come a Paestum, i templi sono oggetti immacolati, deposti su un
terreno di cui si rispetta ogni caratteristica topografica. Gli spazi tra le costruzioni non sono
incanalati entro quinte parallele: nasce quindi il percorso polidirezionale, che evidenzia con
eccezionale intelligenza la tridimensionalità degli edifici e ne celebra il rapporto con l’uomo.

3. La sensibilità greca accentua il contrasto dialettico tra la scultura massiva del tempio e la
natura incondita del terreno: lo si nota nel tappeto petroso che separa il Partenone dai
Propilei, o in una veduta dell’Acropoli di Atene dal colle delle Muse. L’urbanistica
ippodamea prevale nel V secolo a.C. e si fonda sul tracciato ortogonale, come dimostrano
Priene e il nucleo antico di Napoli. Ma l’irregolarità del perimetro urbano attesta che,
contrariamente a quanto accade nel castrum romano, il processo parte dall’interno, dal
cuore civico dell’agorà, e dilata la scacchiera con moto centrifugo, fasciando poi l’abitato.

LO SPAZIO STATICO DI ROMA ANTICA


4. Il grande plastico della Roma del IV secolo d.C., eseguito da Paul Bigot, offre l’immagine
di un agglomerato denso di vistosi episodi monumentali: terme, circhi, teatri e anfiteatri, fori,
templi spettacolari. Tra queste emergenze isolate e statiche, un tessuto edilizio
insignificante. Timgad, in Africa, reitera l’ordito a scacchiera, la cui rigida forma procede in
senso centripeto, in quanto discende dalla cintura muraria del castrum e non dal foro,
casualmente ubicato.

5. Un avvio al continuum si registra durante l’età adrianea, specie nella villa imperiale di
Tivoli, i cui corpi si snodano sul terreno quasi ruotando attorno a cerniere.
Elementi lessicali e sintattici nuovi, ottagoni ed esagoni, bifocalità di monumenti e quindi
rottura del loro isolamento, si riscontrano nel palazzo di Diocleziano a Spalato e nel
santuario di Baalbek, in Asia Minore.

LA DIRETTRICE UMANA E I CONTRASTI DELLO SPAZIO MEDIEVALE


6. Il modo del narrare continuo nasce nella tarda romanità, ma trionfa durante il Medioevo.
Gli impianti radiocentrici di Carcassonne e di Bram, l’asimmetria di piazza della Signoria a
Firenze o di quella delle Erbe a Verona, ne costituiscono peculiari espressioni. Si noti, a
Firenze, lo sbilanciamento inaudito della torre di Arnolfo sul palazzo Vecchio, perno del
trapasso dalla piazza alla cinquecentesca galleria degli Uffizi, strada-corte adducente
all’Arno. Nessuno slargo urbano medievale possiede una propria autonomia geometrica,
nessuna cavità si conclude in se stessa, nessun edificio si proclama monumento enucleato
dal contesto della città. La simbiosi tra vie, piazze e costruzioni si rivela intensa come in
nessun altro periodo della storia: è l’età prodigiosa, “follemente temeraria”, in cui si
urbanizza l’Europa con “sistemi di forme inattese”.

7. Siena è l’organismo che più esalta il continuum medievale. Le tre piazze, quella del
Campo dominata dalla torre civica, quella del Mercato retrostante il palazzo comunale, e
quella della Cattedrale, sono rifuse dal vortice avvolgente delle strade.
I contrasti dimensionali dell’architettura gotica si proiettano a scala urbana nello scatto
verticale della cattedrale nel panorama di Chartres, e soprattutto nel profilo piramidale di
Mont Saint-Michel.

LE LEGGI E LE MISURE DELLO SPAZIO RINASCIMENTALE


8-9. La regola prospettica incide nella trama medievale ritagliandone e geometrizzandone
alcune porzioni. Nella piazza di Pienza, Bernardo Rossellino, sulle orme di Leon Battista
Alberti, marca i moduli compositivi nel disegno pavimentale.
A Venezia, piazza San Marco e la piazzetta adiacente segnano uno spazio fluidificato e
straripante rispetto alla stessa forma trapezoidale; nella piazzetta, lo squilibrio tra la diafana
parete del palazzo Ducale e quella solennemente plastica della Libreria sansoviniana ne
garantisce il dinamismo.
A Urbino, il palazzo dei Montefeltro ambienta un macroscopico intervento rinascimentale.
Nella mole dal perimetro frastagliato, le facciate si flettono aderendo alle varie situazioni
topografiche. L’immagine si cristallizza all’interno, nel quadrato della corte progettata da
Luciano Laurana.
La “città ideale” è oggetto di innumeri schemi utopistici, a cominciare da quelli di Francesco
di Giorgio Martini e del Filarete. Le applicazioni concrete sono però rare e tardive, e si
riferiscono in genere a insediamenti militari. I tre esempi illustrati riguardano la veneta
Palmanova del 1593, la fortezza di Vauban a Neuf-Brisach del 1698, e Grammichele, in
Sicilia, grosso borgo rurale iniziato nel Settecento. La geometria, in ogni caso, iberna la vita
comunitaria.

IL MOVIMENTO E L’INTERPENETRAZIONE NELLO SPAZIO BAROCCO


10. L’ideologia prospettica rinascimentale entra presto in crisi. Nell’età del Manierismo,
Michelangelo la rinnega comprimendo drammaticamente il trapezoidale invaso del
Campidoglio e lacerandone la proporzione.
Le piazze barocche, in scala diversa e per altre funzioni, riprendono la tematica medievale:
prive di una figura autonoma, non si esauriscono nel proprio ambito, ma coagulano e poi
rigettano i flussi stradali. A Roma, piazza di Spagna è formata da due triangoli le cui punte
convergono sulla berniniana fontana della Barcaccia; e piazza del Quirinale, schermata da
palazzi che non presentano alcuna ortogonalità tra loro, da un lato sbocca nella
michelangiolesca strada Pia, oggi XX Settembre, dall’altro si spalanca al panorama verso
San Pietro. Straordinari snodi, decisamente anti-classicistici, qualificano la maglia viaria di
Roma nel XVII e XVIII secolo.

11. L’urbanistica barocca trova in Inghilterra un grandioso documento nel Royal Crescent e
nel Circus di Bath, e soprattutto nella serpentina del Landsdown Crescent che risale al
1794.
Nel Settecento, tuttavia, l’Europa delle capitali torna alla prospettiva rinascimentale in una
serie di interventi sontuosi quanto gelidi, che rispecchiano la burocrazia dell’assolutismo.
Ne è l’archetipo la Reggia di Versailles, costruita tra il 1662 e il 1760, dogmaticamente
classicista.

LO SPAZIO URBANISTICO DELL’OTTOCENTO


12. Realizzata dal 1793 al 1810, piazza del Popolo, ingresso a Roma da nord e degno
epilogo del tridente sistino, è un apporto della teorica illuminista francese.
Il neoclassicismo assume una dimensione preponderante a Parigi, dove Georges Eugène
Haussmann, dal 1833 al ’69, sferra drastici tagli nel tessuto preesistente. Rettifili, vedute
assiali sfocianti in piazze circolari o comunque rigidamente geometriche, trafitte da un
obelisco o da una colonna: le quinte stradali hanno la funzione di accelerare le fughe
prospettiche, e perciò spesso le facciate vengono costruite prima degli edifici che
dovrebbero rivestire. Impianti magniloquenti, concepiti per fastose parate militari, dilagano
in tutto il mondo e, malgrado la loro inorganicità, conferiscono una struttura salda e nobile,
artificiosa ma sicura, all’apparato scenico delle grandi città ottocentesche.

13. I problemi della città industriale non si risolvono però con gli sventramenti
haussmanniani. Le catapecchie operaie dell’East End londinese e il paesaggio corroso di
Manchester denunciano uno stato di crisi, cui risponde nel 1898 l’idea della città giardino.
Nuclei urbani per 32.000 abitanti, difesi da un anello agricolo inalienabile e dotati di
industrie, sorgono intorno a Londra. La prima “garden city”: Letchworth, fondata nel 1903.

LA PIANTA LIBERA E LO SPAZIO ORGANICO DELL’ETÀ MODERNA


14. Fine dell’antitesi città-campagna mediante l’urbanizzazione aperta del territorio: questo
propugna Frank Lloyd Wright nel progetto di Broadacre City del 1934. È il portato, a scala
regionale, dei principi della continuità organica inverati dal genio americano in centinaia di
splendidi edifici; fra gli ultimi, il Guggenheim Museum infrange la scacchiera della metropoli
newyorkese con un’elicoidale espansa, strada interna ascendente come in un supergarage,
sempre permeata dalla mutevole realtà del mondo esterno.
Le Corbusier incarna la “pianta libera” in chiave europea. I grattacieli del Plan Voisin per il
cuore di Parigi, e l’Unità di abitazione di Marsiglia, del 1947-1952, documentano una visione
di prismi sospesi, alti e ben distanziati, che ritmano il paesaggio.
Le città satelliti di Stoccolma, Farsta e Vällingby, come le New Towns britanniche, di cui si
mostrano Stevenage e Cumbernauld, richiamano alla tematica delle “garden cities” ma, con
una progressiva riconcentrazione edilizia, acquistano maggiore fisionomia urbana.
15. Il colossale sistema delle freeways vertebra l’agglomerato dispersivo di Los Angeles.
A Chicago, il binato delle torri circolari di Marina City, del 1964, contiene le residenze, le
attrezzature e i servizi di un intero quartiere.

16. Nella tavola della pagina successiva, l’Habitat costruito a Montreal da Moshe Safdie nel
1967 ripropone in moderna versione il continuum medievale.
Il progetto per il centro commerciale di Tel Aviv-Jaffa, redatto da Jan Lubicz-Nycz, con i suoi
grattacieli a cucchiaio, consente di moltiplicare in altezza i livelli urbani.
Il Graphic Arts Center ideato da Paul Rudolph per New York, e il piano di Kenzö Tange per
una Tokyo con dieci milioni di abitanti offrono un’immagine delle macrostrutture
indispensabili alla metropoli contemporanea.

PALAZZO SCHIFANOIA
Sorge su via Scandiana, arteria che dal vecchio nucleo medievale conduce alle mura sud-
orientali (cfr. foto 64). Rossetti vi lavorò, in varie riprese, per ventisette anni. Il suo primo
intervento è del 1466 quando collabora, in qualità di aiuto con Pietro Benvenuti dagli Ordini,
architetto ducale; l’ultimo è del 1493, anno in cui già ferve il cantiere dell’Addizione erculea.
Per un certo periodo, antecedente la costruzione della casetta in via della Ghiara (cfr. foto
32-34), Rossetti tenne studio in questo palazzo.
17. Il prospetto quale appare provenendo dall’abitato medievale. L’edificio basso a sinistra è
probabilmente quanto sopravvive del primo corpo della delizia costruita nel 1385 da Alberto
V d’Este. Nella parte orientale si nota un filare di archetti, residuo del fastigio a merli del
1391, anno in cui Alberto V fece ampliare la delizia. Il portale secondario proviene dal
convento di San Domenico e determina una stonatura nel tessuto laterizio del palazzo.
Anche negli ambienti interni si registra un processo additivo, corrispondente alle vicissitudini
storiche del palazzo; Rossetti non lo ha alterato forzandolo in un ordito rinascimentale ma,
fidando sul coagulo del portale e della sala dei Mesi, ha scelto di preservare “il modo del
narrare continuo” di genesi tardo-antica.

PALAZZO SCHIFANOIA
18. Scorcio della delizia, provenendo dalle mura orientali. Nel 1493 il palazzo fu prolungato
da questo lato di altri 7 metri, raggiungendo così la lunghezza di circa 105 metri.

19. Il portale prima dell’ultimo restauro, con le due spurie finestre al piano terreno. L’atrio
originario non prendeva luce dalla via Scandiana, ma dalla corte interna.

20, 21. Particolari del portale marmoreo, attribuito da alcuni a Francesco del Cossa, da altri
a Rossetti. Imbotte decorata; aggetto minimo sulla stesura laterizia di fondo.

22. Il portale, perno compositivo. La disposizione delle aperture nella facciata non risponde
ad alcuna legge proporzionale. Una volta stabilito l’asse costituito dal portale e dalle quattro
finestre del salone, il ritmo delle forature è flessibile ed episodico. L’ubicazione di questo
portale nell’ambito del prospetto va senza dubbio ascritta a Rossetti.
Posto nell’estremo settore sud-orientale di Ferrara, il campanile di San Giorgio segna un
“arresto” visuale nel panorama del nucleo medievale e dell’Addizione di Borso (cfr. foto 64).
Fu inaugurato nel 1485, in occasione della celebrazione della pace con Venezia, ma il
progetto risale agli anni intorno al 1473-75, quando l’Ordine degli Olivetani rinnovò la chiesa
chiamandovi a lavorare Cosimo Tura e Biagio Rossetti.
SAN GIORGIO
23. L’abside ripete nella sua limpida stesura laterizia, nelle lesene e nella disposizione delle
finestre un impianto rossettiano.

EDILIZIA FERRARESE PRE-ROSSETTIANA


24-27. Incrocio di via Carbone con via delle Volte; scorcio di via delle Volte; via delle
Vecchie vista dal fianco di San Francesco; casa di via San Romano 32-38. Il repertorio
medievale ferrarese offre a Rossetti un humus ricchissimo in cui calare le nuove esigenze
del mondo rinascimentale.
Nella prima metà del Quattrocento, il linguaggio medievale resiste ancora a Ferrara. Partiti
rinascimentali sono liberamente accostati a strutture caratteristiche del Trecento; ne
derivano episodi architettonici felici e talora grottescamente espressivi, come il cortile di
casa Romei (cfr. foto 28). Pietro Benvenuti dagli Ordini è l’architetto ducale sotto la cui
guida Rossetti fa il suo apprendistato, e che sostituisce alla sua morte, avvenuta nel 1483.
Ma l’anonima casa delle Vedove (cfr. foto 30) vale più dell’ibrido scalone (cfr. foto 31).

EDILIZIA FERRARESE PRE-ROSSETTIANA


28. Il cortile d’onore di casa Romei, databile intorno al 1445. Il vistoso monogramma in
terracotta è posteriore. L’edificio, già attribuito a Pietro Benvenuti dagli Ordini, è stato poi
ascritto a Pietrobono Brasavola.

29. Il campanile di Santo Stefano costituisce, insieme a quello albertiano del Duomo (cfr.
foto 116, 117), un precedente del campanile di San Giorgio: ne incarna la componente
locale rispetto a quella rinascimentale “importata”.

30. La casa delle Vedove in via Mortara 209-23 anticipa nella stesura muraria, nei camini e
nei binati delle finestre, elementi che Rossetti razionalizza trascrivendo il “parlato” ferrarese
in un linguaggio basato su una rigorosa coerenza formale. In fondo a via Mortara Rossetti
eleverà l’ultima sua opera, Santa Maria della Consolazione (cfr. foto 137-140).

31. Il “cortile nuovo” della Residenza Ducale, con la scala coperta di Pietro Benvenuti dagli
Ordini, terminata nel 1481. Una veduta dall’alto nella foto 116.

CASA ROSSETTI
Biagio realizzò il sogno di costruirsi una modesta casetta nel 1490. Quale ubicazione,
scelse via della Ghiara, dorsale dell’Addizione di Borso, l’arteria moderna della città (cfr.
foto 64).
32. Il lotto fronteggia una piccola strada, l’attuale via Caprera, sull’asse della quale
l’architetto allineò gli stipiti del portale. La disp osizione delle finestre è studiata in modo da
offrire successivi quadri prospettici ben definiti a chi proviene dal nucleo medievale.

33. Nel primo piano, il sistema delle finestre a filo di muro sancisce un elemento del
vernacolo ferrarese che rimarrà stabile nel linguaggio rossettiano. Risponde a ragioni
funzionali, costruttive ed espressive, poiché consente di porre un camino al centro della
parete degli ambienti, difende l’integrità del muro, inonda con luce radente i divisori
longitudinali e infine offre a ogni stanza due vedute panoramiche.

34. Il portale e il sistema delle finestre binate nei due piani della casa.
L’ABSIDE DI SAN NICCOLÒ
35. Ideata probabilmente intorno al 1475, quando fu rinnovata la chiesa, ma completata
solo nel 1499, la “cappella grande” di San Niccolò prelude all’abside della Cattedrale (cfr.
foto 116-118). La strada che si vede a destra è via Colomba.

LOGGIA DI PIAZZA
36. Dall’“arco del cavallo”, attribuito a Leon Battista Alberti, si staccava la loggia che,
prolungandosi a nord, configurava uno slargo tributario di quello a fronte della Cattedrale
(cfr. foto 44).

SVILUPPO URBANISTICO DI FERRARA


37. Planimetria della città nel XIII secolo, elaborata da Carlo Savonuzzi. Sono segnati l’isola
del Belvedere (IB), il Castel Tedaldo (CT), la via dei Sabbioni (VS), Ripagrande (VG),
l’antica piazza (AP), il pratum bestiarum (PB), il Castello dei Cortesi (CC), il polesine di
Sant’Antonio (M), e il monastero di San Giorgio (MG).

38. Particolare della Carta itineraria del XIV secolo, il primo documento grafico originale,
illustrato nel suo insieme nel retro (cfr. foto 40).

SVILUPPO URBANISTICO DI FERRARA


La serie dei documenti originali si apre con la Carta itineraria. Siamo nell’età cantata da Le
Corbusier in una pagina celebre: “Quando le cattedrali erano bianche, l’Europa aveva
organizzato le attività produttive secondo l’esigenza imperativa di una tecnica nuova,
prodigiosa, follemente temeraria, il cui impiego conduceva a sistemi di forme inattese... Le
cattedrali erano bianche perché erano nuove. Le città erano nuove. Se ne costruivano di
tutte le misure...”
39. Trascrizione del particolare della Carta itineraria precedentemente illustrato (cfr. foto
37), orientato come le altre stampe. Benché in modo assai schematico, vi si individuano i
principali elementi dell’organismo ferrarese nel XIV secolo.

40. La Carta itineraria del territorio di Ferrara nel XIV secolo, conservata nella Biblioteca
Vaticana. È certamente posteriore al 1326 poiché vi appare il palazzo della Ragione,
iniziato nel 1283 ma terminato solo in quell’anno. Il nord è in basso.

41. Pianta di Bartolino da Novara, databile al 1385; vi è segnato infatti il Castello.


Manomessa in epoca più tarda, la pianta contiene alcune indicazioni non attendibili.

42. Trascrizione ottocentesca della pianta di Bartolino da Novara, elaborata da Antonio


Frizzi. Il cuneo triangolare dell’“Addizione Adelarda” appare assai ridotto.
“Il nuovo mondo cominciava. Bianco, limpido, gioioso, pulito, netto e senza ritorni, il nuovo
mondo si apriva come un fiore sulle rovine. Si erano abbandonate tutte le usanze
riconosciute; si erano voltate le spalle al passato. In cento anni il prodigio fu compiuto e
l’Europa fu cambiata.” L’epopea urbana del continente, così descritta da Le Corbusier, fu
interrotta, com’è noto, dalla crisi economica e demografica della seconda metà del
Trecento. In Italia tuttavia lo sviluppo si prolunga fino all’alba del Cinquecento. Spiccano tra
i maggiori interventi, a metà del Quattrocento, quelli attuati da Niccolò V e Sisto IV a Roma,
da Francesco Sforza a Milano, la ricostruzione di Pienza, di Urbino e di Mantova. L’impresa
più ardita è quella di Ferrara: compiuta alla fine del XV secolo da Biagio Rossetti, appare
tuttora “follemente temeraria” anche nell’ambito figurativo, poiché si svincola dalla pittura
“maestra a tutte le cose”, come affermava Leon Battista Alberti, e si fonda su una moderna
concezione urbanistica.

SVILUPPO URBANISTICO DI FERRARA


43. Carta originale di Pellegrino Prisciani del 1498, conservata nella Biblioteca dell’Archivio
di Stato di Modena. A sud, l’Addizione di Borso; a nord, l’Addizione Erculea.

44. Alzato di Ferrara del 1499, conservato nell’Archivio di Stato di Modena. Nella piazza si
vede la “loggia” rossettiana, elemento urbanisticamente essenziale (cfr. foto 36).

45. Trascrizione della carta di Prisciani, fedelmente elaborata da Filippo Borgatti. Da


sinistra, si notano i borghi della Pioppa, di San Luca e di San Giacomo.

46. (pp. seguenti). Pianta di Ferrara nel 1597, elaborata da Filippo Borgatti nel 1895.
Rappresenta la consistenza della città al momento della devoluzione del Ducato alla Santa
Sede.

SVILUPPO URBANISTICO DI FERRARA


47. Incisione di Matteo Florimi Formis del 1598, riveduta da Giuseppe Capocaccia nel 1602.

48. Pianta di Ferrara nel 1605, disegnata da Giovanni Battista Aleotti. Mostra la costruzione
della fortezza pontificia e la demolizione del Castel Tedaldo.

49. Recinto di Ferrara nel XVII secolo. Documenta l’intera linea fortificata, con la precisa
denominazione delle porte e dei baluardi. La fortezza pontificia, indipendentemente dal suo
intrinseco valore architettonico, risulta una componente autonoma ed estranea.

50. (pp. seguenti). Prospettiva aerea di Ferrara, disegnata ne l 1705. Si osservi la


preponderanza delle zone verdi entro il recinto fortificato.

SVILUPPO URBANISTICO DI FERRARA


51. Prospettiva aerea della città, incisa da Andrea Bolzoni nel 1747. Da questo
fondamentale disegno furono tratte altre incisioni pubblicate da G.B. Galli nel 1768, nel
1782, nel 1794 e infine nel 1800. In tali riproduzioni però si riscontrano numerose aggiunte
e rettifiche.
Tutte le stampe qui raccolte, a eccezione della Carta itineraria della Biblioteca Vaticana (cfr.
foto 38-40), della carta di Pellegrino Prisciani della Biblioteca dell’Archivio di Stato di
Modena (cfr. foto 43) e dell’Alzato dell’Archivio di Stato di Modena (cfr. foto 44), sono
conservate nella Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara.

SVILUPPO URBANISTICO DI FERRARA


52. Scenografia prospettica degli inizi del XIX secolo. A distanza di oltre tre secoli, la
previsione rossettiana mantiene la sua validità tecnica e sociale.

53. Pianta della città nel 1836, eseguita da Francesco Pampani. L’organismo ferrarese
contava in quell’epoca 26.563 abitanti.
54. Pianta della città alla fine del XIX secolo. La fortezza pontificia è stata distrutta, mentre
la cintura muraria si conserva integra. Compare la ferrovia. La vicenda urbanistica di
Ferrara entra nella cronaca del nostro secolo col suo invaso rossettiano incolume, ricca di
un “piano aperto” che i secoli non hanno ancora saturato.
Temperie della città nuova: una svolta metodologica e uno scatto qualitativo nei confronti
sia della maglia medievale (cfr. foto 24-31, 36) che dell’Addizione borsiana (cfr. foto 17-22,
32-34). Questa immagine ne sintetizza i caratteri: rettifilo viario, schermi di cortine in cotto,
emergenze arboree che colorano diversamente l’ambiente in ogni stagione, in ogni
condizione climatica, quasi in ogni ora del giorno. Ma il fattore rilevante è dato dal colloquio
tra paesaggio urbano e masse edilizie, cioè dall’incastro tra “architettura di percorso” e
“architettura di arrivo”. Il genio rossettiano si concreta in questi trapassi. Siamo in un punto
delicatissimo, dove una arteria del nuovo comprensorio sbocca nell’immenso spazio del
moderno centro direzionale. Si tratta di mediare il passaggio tra due contrastanti fruizioni
urbane. Rossetti prolunga il percorso in un portico, cioè lo coagula in un ambito edilizio che
già appartiene all’episodio di arrivo.

L’ADDIZIONE ERCULEA
55. Via Borso, larga 9 metri, che da San Cristoforo alla Certosa (cfr. foto 56, 109-114)
adduce alla grande piazza nuova (cfr. foto 65). In fondo, il palazzo Bevilacqua funge da
ponte tra le quinte stradali e il gigantesco slargo. Non vi è alcun distacco tra “monumenti”,
edifici “minori” e “arredo urbano”: sono tutti ingredienti indispensabili di una stessa
narrazione che consente luci e ombre, presenze salienti e pause di fondali prosaici. Ma in
nessun caso è ammissibile che un singolo fabbricato si sottragga alla regola di un comune
contegno civile.
Il problema nodale dell’impresa rossettiana consisteva nel garantire una simbiosi tra nucleo
antico e settori nuovi della città. A Ferrara, il canale della Giovecca sembrava costituire una
cesura insuperabile: l’abitato medievale si addensava a sud, intricato e tortuoso; a
settentrione, il deserto. La barriera, prima che figurativa, era di natura sociale e psicologica.
Occorreva vincere un costume passivo, il gregarismo che costringeva i cittadini in un’area
limitata, ai piedi del potere incentrato nel Castello estense. Attraversare la Giovecca
significava capovolgere i comportamenti, svincolarsi dal paternalismo, conquistare un
territorio libero, sconfinato, consono alla vita di uomini coraggiosi. A tal fine, era necessario
il massimo impegno progettuale nella saldatura tra le due parti. Giustapporre
meccanicamente un quartiere rinascimentale all’insediamento del Medioevo era facile,
come dimostrano i programmi di espansione di molte città europee, da Napoli e Bari a
Trieste e Barcellona, attuati dal Seicento all’Ottocento. Ma Rossetti vuole attingere
un’immagine unitaria, una sola città, e perciò ne cuce e fonde le componenti con
straordinaria maestria.

56. Simbiosi tra i due settori della città. A sud della Giovecca, si vedono il Castello e la “via
coperta” che lo congiunge alla residenza estense nel cui cortile si profila la scala di
Benvenuti (cfr. foto 31); a destra, la Cattedrale. A nord della Giovecca, l’asse della via degli
Angeli. La strada arcuata a sinistra è via della Rosa, oggi via degli Armari, che incunea
nella maglia rinascimentale l’andamento dell’antica via Boccacanale. Sulla Giovecca, a est,
si intravede il palazzo Roverella (cfr. foto 135, 136).

L’ADDIZIONE ERCULEA
57. Ferrara dall’alto. L’asse est-ovest, al cui centro sorge il Castello estense, è la Giovecca,
che separa il nucleo medievale e l’Addizione di Borso, sua propaggine a sud-est, dalla città
nuova creata da Biagio Rossetti. Dal Castello si stacca la via degli Angeli che incrocia, nel
celebre quadrivio dominato dal palazzo dei Diamanti, la via dei Prioni adducente, a sinistra,
a porta Po e, a destra, a porta Mare. Lungo questa arteria si spalanca il “cuore” della
Ferrara moderna, la piazza erculea (cfr. foto 65). Rossetti tempesta con i suoi interventi (cfr.
foto 64) sia il vecchio aggregato che l’area di espansione, poiché il suo programma consiste
nell’edificare una città unitaria, senza soluzioni di continuità. La compattezza dell’insieme è
assicurata dalla cintura muraria, che non ha una mera funzione difensiva, ma determina
uno spazio territoriale agibile, socialmente e psicologicamente fruito anche se per secoli
vasti settori restano privi di fabbriche. Qui si invera la concezione di un piano oggi
denominato “aperto”: un assetto da realizzare a breve o a lunghissimo termine, secondo le
esigenze, in parte o in tutto, capace di recepire imprevisti apporti, e tuttavia utilizzabile
immediatamente, per la sua scala umana, come non-finito.

LE MURA
58. Il cosiddetto “torrione del Barco” visto dal fossato esterno della fortificazione.

59. La piattaforma superiore del torrione del Barco.

60. Uno dei sei torrioni nel tratto tra quello del Barco e la porta degli Angeli.

61. La porta degli Angeli conclude l’asse sud-nord dell’attuale corso Ercole I d’Este.

62. Un tratto delle mura tra porta Mare e la Punta della Giovecca.

63. La Punta della Giovecca, allo sbocco del corso omonimo.

64. EDIFICI DI BIAGIO ROSSETTI


Punta della Montagnola

LA PIAZZA NUOVA
65. Polmone verde dell’Addizione Erculea, è larga 100 metri e lunga 200. A sinistra, si vede
il porticato del palazzo Rondinelli. Nel fondo, il palazzo Bevilacqua (cfr. foto 66-70), il cui
ampio portico accoglie la direttrice di via Borso (cfr. foto 55).

PALAZZO BEVILACQUA
66. Il blocco, con il suo portico, visto dal lato meridionale della piazza.

67. La “strada coperta” che congiunge via Borso all’attuale via Palestro.

68. Al viandante che giunge nella piazza dall’attuale via Palestro, il palazzo offre la scelta di
penetrare nell’immenso slargo attraverso l’involucro protettivo del portico.

69. Il palazzo come diaframma, cioè come interruzione della fuga prospettica stradale,
risalta anche nelle vedute lontane (cfr. foto 55). Avvicinandosi, il portico sbilanciato indica
come il percorso stradale sia destinato a sboccare a sinistra, nella piazza.
70. Provenendo dal quadrivio, il palazzo media il passaggio tra decumano e piazza.
L’opera artisticamente più impegnata dell’Addizione rossettiana non sorge sulla piazza
nuova, ma domina il crocevia, nodo dell’intero piano regolatore. Nel dilemma tra architettura
di “percorso” e di “arrivo”, la scelta cade sul percorso, cioè su una visione dinamica
privilegiata dal palazzo costruito per Sigismondo d’Este. L’inedito “muro di marmo”, coperto
da ottomilacinquecento diamanti, termina con un cornicione in cotto (cfr. foto 73) sospeso
su una fascia neutra arretrata rispetto al bugnato. Agli spigoli, le candelabre scolpite da
Gabriele Frisoni, nel loro tenue e delicato modellato, placano l’ossessiva tensione del
“palazzo dell’orgoglio”, e lo ricollegano alla scala degli altri edifici del quadrivio. Sullo stesso
lato della via degli Angeli spicca, al di là del corso dei Prioni, il portale del palazzo Prosperi-
Sacrati (cfr. foto 78-81). La larghezza della via degli Angeli è di metri 11,60 di cui la sede
carrabile occupa metri 8,15.

PALAZZO DEI DIAMANTI


71. Scorcio sulla via degli Angeli, provenendo dal nucleo medievale. Il portale con le
candelabre laterali, di cui si vedono alcune modanature, fu aggiunto a metà del Seicento, e
tradisce il pensiero rossettiano. Accentua infatti l’asse centrale e la simmetria del fronte,
evocando un’immagine statica, di matrice toscana, affatto estranea all’impianto urbanistico
ferrarese.

72. Il gioco dei diamanti sotto la luce. Benché di forme maestose, le sette finestre del primo
piano e il portale con candelabre aggiunto nel Seicento non riescono a infrangere il
continuum della muraglia marmorea il cui ritmo vorticoso travolge ogni elemento incastrato.
Prorompente e minacciosa, di regola, tale parete diviene in qualche momento decantata e
dolcissima.

PALAZZO DEI DIAMANTI


73. Le candelabre terminali del fronte sulla via degli Angeli e il cornicione in cotto.

74. Il magistrale gioco dei diamanti nel passaggio tra parete e plinto angolare.

75. La corte. Tracce di un muro perpendicolare al fronte del portico dimostrano resistenza di
un corpo di fabbrica che racchiudeva probabilmente lo scalone.

76. La serie delle arcate del portico risvolta sul fronte meridionale; lo stesso motivo era
previsto a nord. I vuoti agganciavano i pieni da ambo le parti.

77. Interno del portico. Da questo generoso spazio racchiuso si accedeva al cortile, alla
scala coperta, e quindi al grande salone.
Tutti i palazzi rossettiani sulla via degli Angeli sono configurati per rispondere a un preciso
compito urbanistico. Impianti asimmetrici e sbilanciati, immagini in sé non-finite che
traggono la loro compiutezza solo dal contesto generale. Nel quadrivio, un’eco del palazzo
dei Diamanti (cfr. foto 78-81), una superlativa pilastrata isolata (cfr. foto 82-84), e una zona
affatto neutra per risucchiare lo spazio. Nel secondo crocevia, segni elementari nei pilastri
angolari placano la tensione. Nel primo tratto della strada, a contatto col nucleo medievale,
una razionalizzazione del repertorio tipico di Ferrara sin dalle lontane origini (cfr. foto 86).
PALAZZO PROSPERI-SACRATI
78. La candelabra e il balcone d’angolo ripetono, in scala minore, il motivo già collaudato
nel palazzo dei Diamanti.

79. Il portale prima degli ultimi restauri. La paternità di quest’opera è stata a lungo
contestata a Rossetti.

80. Scorcio del portale costruito intorno al 1510, in occasione di una riedizione dell’edificio,
che risale al 1493. Nel fondo, il palazzo dei Diamanti.

81. Sequenza del palazzo dei Diamanti e del palazzo edificato per l’archiatra Castelli, poi
Prosperi-Sacrati, sulla via degli Angeli.

PALAZZO TURCHI-DI BAGNO


82. La pilastrata d’angolo in pietra d’Istria appare, plasticamente e cromaticamente, avulsa
dall’organismo edilizio e, in effetti, è l’unico episodio sontuoso di un’opera altrimenti
prosaica. La sua funzione è specificamente urbanistica: esalta il cardine di un incrocio
stradale, dal quale si dipartono opache quinte architettoniche. Soluzione ardita e
spregiudicata: l’unica possibile in quell’angolo del quadrivio.

83. La pilastrata angolare nel suo dialogo con il bugnato, le candelabre e il balcone del
palazzo di Sigismondo d’Este.

84. Provenendo dalla porta degli Angeli verso il Castello, il sorprendente motivo angolare
che fronteggia il palazzo dei Diamanti.

PALAZZO MOSTI
85. Nel secondo crocevia dell’Addizione, modesti pilastri angolari, di genesi medievale,
danno la misura dell’importanza del nodo stradale. Sono completamente scissi dagli edifici.

PALAZZO DI GIULIO D’ESTE


86. Provenendo dal Castello lungo la via degli Angeli, forma la quinta stradale. Nelle bifore,
nel cornicione, nel libero, antiaccademico trattamento compositivo dei balconi, nella nuda
stesura laterizia, si riecheggia un costume radicato nella storia della città.
Dopo due anni dedicati all’Addizione, Rossetti torna nel vecchio nucleo ferrarese per
rivitalizzarlo e quindi saldarlo alla città moderna.

SAN FRANCESCO
87. Il prospetto principale, malgrado i rifacimenti subiti dopo il terremoto del 1570, mantiene
lo schema originario che proietta in facciata la scansione degli spazi interni della chiesa, e
nelle volute ripete il motivo albertiano di Santa Maria Novella a Firenze.

88. Il fianco della chiesa forma la quinta stradale della via Savonarola. In fondo, la strada ha
una lieve inclinazione, in corrispondenza del palazzo Pareschi.

89. Il fronte sul cortile è stato alterato dai successivi interventi. Si notino le finestre originarie
della navata maggiore, vicino agli oculi aperti più tardi.
La chiesa di San Francesco rappresenta l’intervento con cui si apre, nel 1491, la seconda
parte della vita di Rossetti. Se ne osservi la posizione nodale nel tracciato urbano (cfr. foto
64). Da qui si può davvero partire per trasformare l’aggregato medievale in un cantiere non
meno fervido dell’Addizione, perché siamo alle spalle della Cattedrale (cfr. foto 116) e allo
sbocco di una serie di antiche stradine sulla via Savonarola. Inoltre, c’è da concludere un
episodio iniziato con la costruzione del palazzo di San Francesco o Pareschi che ora può
fungere da fondale di un’emergenza progettata in modo da determinare un salto qualitativo
nei moduli della città e nei codici linguistici della sua architettura (cfr. foto 88).

SAN FRANCESCO
90. La decorazione in cotto accentua il suo vigore negli angoli tra la facciata e i fianchi della
chiesa. Accogliendo gli schemi compositivi rinascimentali, Rossetti non rinuncia all’apporto
dell’artigianato locale, sì che le sue opere acquistano, rispetto ai modelli toscani, ricchezza
“tattile” e materica, assumendo una fisionomia familiare nel mondo ferrarese. Estraneo ad
ogni diagrammaticità trattatistica, egli non intende imporre le forme rinascimentali: le
assimila e le umanizza.

91. Le alte e profonde finestre sulla via Savonarola stringono le lesene in una morsa.

92. Un capitello e la trabeazione in cotto sulla via Savonarola.

93. L’ordine che appare gigantesco in rapporto alle strade medievali. Specie provenendo
dalla via delle Volte (cfr. foto 26) si evidenzia uno scatto nella dimensione urbana.

SAN FRANCESCO
94. Lo spazio della navata centrale, scandito da precise quantità tridimensionali.

95. Calotte circolari, quasi cupole schiacciate, hanno sostituito le primitive volte.

SAN FRANCESCO
96. Durante l’estate, i fasci di luce trapassano i pilastri delle cappelle, raggiungono le
colonne in un magico corteo di indicazioni trasversali, puntate direttamente sui vuoti.

97. Il pilastro che separa le cappelle non è una proiezione del muro sul piano: è il muro
stesso che avanza, stretto e compresso dagli archi laterali.

98. Le fasce arcuate che separano le tre calotte del transetto costituiscono espedienti
correttivi di un nodo insoluto della composizione. Subito dopo, in Santa Maria in Vado (cfr.
foto 102), Rossetti saprà eliminarli.

99. L’abside ha una larghezza maggiore di quella della navata centrale. Ciò consente di
nascondere alla vista dei fedeli le finestre laterali che ne rischiarano l’invaso. Dispositivo
strutturalmente poco convincente che Rossetti non adotterà in altre opere, a eccezione
dell’ultima, Santa Maria della Consolazione (cfr. foto 137-140), e tuttavia consono
all’immagine di San Francesco.

SANTA MARIA IN VADO


100. Come San Francesco, offre alla strada il suo fianco (cfr. foto 64). Sulla via Scandiana,
Rossetti aveva costruito la sua prima opera, la delizia di Schifanoia (cfr. foto 17-22).
101. Se il prospetto è stato profondamente alterato, non minori manomissioni hanno
sofferto il fianco e il corpo del transetto. Le goffe volute furono aggiunte dopo il 1572.
Si immagini una serie di cupolette al posto del soffitto piano; poi una cupola all’incrocio con
il transetto, che fu in realtà realizzata e demolita solo nel 1829; infine, un ambiente liberato
dalle invadenti decorazioni del tardo Cinquecento e del Seicento. Né basta. La posizione
urbanistica della chiesa impedì di costruire file di cappelle da cui far penetrare la luce.
L’architetto cercò di sostituirle con vaste nicchie, una sequenza di inflessioni murarie. Ma
fastosi altari barocchi hanno ora preso il posto delle semplici e lineari mense ideate dal
maestro, e falsano l’immagine.

102. La navata maggiore vista dall’ingresso. Il sapore coducciano del colonnato su alti
piedistalli si può spiegare ricordando i numerosi viaggi fatti da Rossetti a Venezia, in
occasione dei restauri compiuti nel palazzo estense, attuale Fondaco dei Turchi. Del resto,
elementi veneti sono già stati riscontrati nella sacrestia di San Giorgio e nel prospetto
originario del palazzo di San Francesco o Pareschi.

103. La navata centrale vista dall’altare. Si noti come, al posto dei pilastri divisori delle
cappelle a San Francesco (cfr. foto 97), qui vi siano semicolonne. Si ripete il passaggio da
San Lorenzo a Santo Spirito operato da Brunelleschi.
Compiute le due chiese nel nucleo medievale e lungo la via Scandiana, Rossetti torna
nell’area dell’Addizione, anzitutto per determinare sul lato occidentale della via degli Angeli
un contrappeso alla piazza nuova, poi per fissare, con la Certosa, un’emergenza nel settore
nord (cfr. foto 64).

SAN BENEDETTO
104. La piazza domina il braccio occidentale del decumano dell’Addizione. Le sue
dimensioni sono modeste, non paragonabili a quelle della piazza nuova (cfr. foto 65), ma la
prepotente presenza di un monumento conferisce all’intervento un deciso rilievo. Si vede, in
fondo alla via dei Prioni, il balcone angolare del palazzo Prosperi-Sacrati (cfr. foto 78-81) e,
sulla destra, il cortile del palazzo dei Diamanti (cfr. foto 71-77).

105. Le rovine della chiesa dopo i bombardamenti subiti durante la seconda guerra
mondiale. I danni erano tali da escludere la legittimità di un restauro.

106. Veduta aerea del complesso. Il campanile fu aggiunto più tardi, da G.B. Aleotti.

107. Le cappelle semicircolari rimandano al tema del progetto brunelleschiano di Santo


Spirito a Firenze. Ma qui le finestre non sono centrali: si annidano nelle zone di saldatura,
respingendo un equilibrato, classicistico rapporto di vuoti e pieni.

SAN BENEDETTO
108. Per distinguere le diverse quantità spaziali della navata centrale, l’uniforme colonnato
di San Francesco (cfr. foto 94) e di Santa Maria in Vado (cfr. foto 102) viene mutuato con
una sequenza di pilastri differenziati dalle innervature strutturali. Due fonti di luce dall’alto: la
cupola e, in sordina, la calotta che snoda la croce greca dal braccio longitudinale.

109. La luce emana dalle cappelle come a San Francesco (cfr. foto 95, 96), ma non si
riflette più sui diaframmi strutturali. Date le concavità parietali, incrocia i suoi flussi
direttamente sui vuoti caricandoli di energia. Sulla comune base del ripudio della soluzione
centrica brunelleschiana, si tratta di una variante assai più drammatica.
A quattro anni dall’esperienza di San Francesco, la chiesa di San Cristoforo alla Certosa
rappresenta una sfida creativa esattamente antitetica. Qui, nel settore nord-orientale
dell’Addizione, Rossetti si misura col paesaggio naturale. La parte artisticamente più
interessante è quella absidale, dove la lavorazione del cotto passa dal fraseggio artigianale
all’atto poetico.

SAN CRISTOFORO ALLA CERTOSA


110. Il fianco meridionale; l’ingresso alla chiesa è a sinistra, su via Borso (cfr. foto 55).

111. Le pareti del transetto sono bipartite da un brunelleschiano “pieno” centrale.


Le innovazioni salienti di San Cristoforo rispetto alle tre chiese precedenti consistono
nell’eliminazione delle navi minori e nell’arcone trionfale. Rossetti si ispira evidentemente al
profetico schema albertiano di Sant’Andrea a Mantova, e l’arcone serve ad accentuare il
distacco tra lo spazio riservato ai fedeli e la zona sacra violentemente rischiarata. Magico,
scenografico effetto di luce, determinato da una seconda cupola insistente sul presbiterio,
che rimane completamente celata all’osservatore stupefatto.

112. La navata vista dall’ingresso. Si notino i gradini che la separano dalle cappelle.

SAN CRISTOFORO ALLA CERTOSA


113. Le cappelle laterali, poste a diretto contatto con la navata centrale.

114. Dato il sensibile prolungamento della zona presbiteriale, l’arco che immette nella
crociera divide in parti uguali la profondità della chiesa: rapporto inedito nell’esperienza
rossettiana, funzionale alla luce incamerata nel vano di fondo. Si notino anche i piedistalli
dei pilastri, saldamente connessi ai gradini delle cappelle. Ciò che appariva fragile e
provvisorio in Santa Maria in Vado (cfr. foto 102) acquista forza unitaria nello schema
albertiano.

115. Il sopraordine non è un mero espediente plastico: esso impedisce alle luci della navata
di porsi in concorrenza con quelle dominanti delle cappelle.

L’ABSIDE DELLA CATTEDRALE


116. (retro). La cattedrale dall’alto.

117. Nel farraginoso racconto del Duomo, l’abside rossettiana emerge come episodio di
riscatto. Si suole ripetere che il campanile albertiano “portò il Rinascimento a Ferrara”; in
realtà, lo importò senza riuscire a radicarlo.

118. Nella congerie delle strette vie medievali, la mole absidale offre una pausa grandiosa e
umile allo stesso tempo. Attira senza sorprendere, dilata e domina lo spazio circostante
senza comprimerlo. Un’opera senza artifici, nata di sé medesima.

PALAZZO DI LUDOVICO IL MORO


119. La mole costruita per Antonio Costabili all’inizio del Cinquecento si presenta, sul fianco
di via Porta d’Amore, come un fortilizio segnato da cornici, marcapiani e finestre varie,
disposte in modo flessibile. Si scorge, nel fondo, la pentafora.

120. I restauratori che nel 1930 deturparono la grande corte interna non commisero
l’ingiuria di sfondare l’arcata centrale della pentafora su via Porta d’Amore.

121. L’ingresso sull’antica via della Ghiara, a distanza di pochi passi (cfr. foto 64) dalla
casetta che Rossetti aveva costruito per la propria famiglia nel 1490 (cfr. foto 32-34).

122. Prospetto su via della Ghiara e loggia del fronte di levante. Si noti la libera ripetizione
delle finestre binate del piano nobile (cfr. foto 132).

PALAZZO DI LUDOVICO IL MORO


123. Stato della celebre corte prima del restauro. Un esame anche superficiale della sua
consistenza strutturale metteva in chiaro rilievo la caratteristica alternanza di due archi pieni
e di due chiusi nel loggiato: il motivo del binato, caro a Rossetti.

124. Così sarebbe apparsa la corte qualora si fossero riaperti soltanto i binati alternati,
rispettando il disegno rossettiano. Vivace e originalissima immagine, in cui le contrastate
sequenze di pieni e vuoti si liberavano negli angoli spalancati.

125. Contro ogni testimonianza documentaria e ogni verifica struttiva, fu deliberato nel 1930
di aprire tutte le arcate del loggiato, tradendo Rossetti in omaggio a una vaga rievocazione
bramantesca. Un eccezionale atto creativo fu così mortificato.

126. Insulto all’esterno e insieme agli interni. La galleria e le sale del piano nobile, che si
avvalevano dei contrasti di luce e ombra determinati dall’alternanza di un binato aperto e di
uno chiuso, sono scaduti al rango di comuni loggiati e ambienti insipidi.
Come fu possibile perpetrare l’assurdo “restauro” del 1930, inaudita violenza contro un
capolavoro d’arte? Non è difficile ricostruire la logica deformata di questo misfatto. Il livello
poetico della corte di Ludovico il Moro era tale da spingere, per molti anni, gli studiosi
accademici a sottrarne la paternità al modesto “muratore” di Ferrara, benché egli avesse
applicato il motivo dei binati con estrema coerenza nelle opere giovanili, nei palazzi
dell’Addizione e nelle chiese, e lo diffondesse anche sui vari prospetti di questa opera.
L’attribuzione a Bramante fu presto sconfessata, ma lasciò uno strascico, causa ultima di
uno dei più gravi episodi nella storia acritica del restauro. La corte non era di Bramante, e
tuttavia doveva diventare, a ogni costo, “bramantesca”. Vicenda che dovrebbe costituire un
aspro monito per coloro che intervengono sui monumenti in base a generiche regole
stilistiche, senza decifrare l’individuato programma di un’irripetibile fantasia creatrice.

PALAZZO DI LUDOVICO IL MORO


127. Gli angoli svuotati di materia erano originariamente esaltati dai binati pieni che li
stringevano ai lati. Per accentuare le direttrici verticali, cioè per vitalizzare l’inerte
sovrapposizione degli ordini, la colonnina centrale di ogni bifora si prolungava in un
pilastrino esteso ad agganciare la chiave dell’arco inferiore.

128. Il valore delle opere di poesia non è attenuato dalla circostanza della loro
incompiutezza. La corte di Antonio Costabili, come intuì Jacob Burckhardt, è uno dei più
straordinari testi del “non-finito” in architettura.

129. Alternativamente, le lesene della fascia mediana agguantano gli archivolti sottostanti,
confermando l’autenticità del partito rossettiano svisato dal restauro.

130. Attorno alla tonante corte principesca, i corpi di fabbrica mantengono un’espressività
semplice e prosaica. È tipico di Rossetti, dopo un atto lirico, un immediato recupero del
“parlato”. Persino temi vernacoli appaiono nel fronte verso mezzogiorno.

PALAZZO DI LUDOVICO IL MORO


131. Un’ulteriore, sintetica versione del binato rossettiano nel fronte sud (cfr. foto 129).

132. Il cortiletto del palazzo. Rossetti ama il libero accostamento di finestre


dimensionalmente varie. Si confronti con il prospetto del palazzo di Giulio d’Este (cfr. foto
86).

133. Il fronte a levante (cfr. foto 121) brilla per la vivace descrittività delle aperture a oculo,
rettangolari e arcuate, cioè per un impianto anticlassicistico e funzionale.

134. La mano dell’architetto nel pilastro angolare della corte d’onore. Insieme alla parasta di
San Francesco (cfr. foto 97), esso costituisce la più qualificata sigla plastica del maestro. La
tensione del portico sfreccia dagli spigoli verso le gallerie. Tale è l’energia rappresa di
questo pilastro angolare da sopportare senza difficoltà il peso delle tracce sbocconcellate
della parete che doveva concludere la corte a levante (cfr. foto 127). Forme rigorosissime,
taglienti; sopra e intorno, tonalità calde del laterizio, inventività decorativa, casualità di
rapporti tra pieni e vuoti, spregio della proporzione finita e chiusa.
L’ultima delle maggiori opere rossettiane si eleva, simbolicamente, sul corso della
Giovecca, il diaframma attraverso il quale si attua l’osmosi tra la città vecchia e l’Addizione
(cfr. foto 57, 64). Questa arteria fu concepita come un “asse attrezzato” dell’intero
organismo urbano. Di conseguenza, questo è l’unico edificio pensato da Rossetti per una
visione frontale.

PALAZZO ROVERELLA
135. (retro). L’eccessivo preziosismo decorativo, dovuto ai “taiapreda” che completarono
l’opera, non altera la sostanziale elementarità della composizione. Si noti come la
dimensione degli scomparti non sia uniforme, ma registri l’articolazione degli ambienti
interni.

136. Impianto albertiano, scandito da paraste, come nel fiorentino palazzo Rucellai. Ma,
affiancando le finestre alle paraste, si sovverte il discorso esaltando le innervature struttive
e distruggendo la consistenza geometrica dei setti di tamponamento.
L’ultima opera di Biagio Rossetti è situata in fondo a via Mortara, presso porta Mare (cfr.
foto 64), e risolve l’estremo nodo nord-orientale dell’Addizione. Fu costruita dal 1501 al
1516, anno della morte del maestro. L’itinerario rossettiano si chiude degnamente con
un’architettura povera.

SANTA MARIA DELLA CONSOLAZIONE


137. L’abside slanciata e nuda si apparenta a quelle delle altre chiese rossettiane, da San
Niccolò (cfr. foto 35) a San Giovanni Battista.

138. La facciata, cui in seguito fu sovrapposto un goffo nartece, doveva essere tripartita da
due ordini di pilastri separati da un fregio. Un non-finito, architettonicamente muto e invece
importantissimo come punto di arresto in una prospettiva dell’Addizione.

139. L’interno è caratterizzato dalla contrapposizione tra la zona presbiteriale fortemente


illuminata, e la navata oscura. Le tre navate comunicano mediante sette archi su pilastri.
L’alto sopraordine della nave centrale è una riedizione di quello di San Cristoforo alla
Certosa (cfr. foto 113). Nella veduta dall’altare, si notano le finestre laterali e quelle della
vôlta, riaperte recentemente.

140. Veduta dall’ingresso. La chiesa prima del restauro. L’oculo absidale, che appare
ancora chiuso nella foto dell’esterno (cfr. foto 137), è tornato a illuminare, insieme alle due
finestre laterali, la zona presbiteriale. Le due colonne dell’arco trionfale sono posteriori, ma
uno schermo analogo a quello di San Cristoforo alla Certosa (cfr. foto 112) doveva essere
stato previsto dall’architetto.
INDICE

Un’idea di città: Ferrara di Bruno Zevi dal 1960 al 2000


di Angela Marino

SAPER VEDERE LA CITTÀ

Note bibliografiche

FERRARA DI BIAGIO ROSSETTI,


“LA PRIMA CITTÀ MODERNA D’EUROPA”

Motivi della sfortuna critica di un urbanista

PARTE PRIMA
L’architetto della vecchia Ferrara

Palazzo Schifanoia
Campanile di San Giorgio
Casa Rossetti
Opere minori

PARTE SECONDA
Il piano regolatore erculeo

Il disegno urbanistico
Le mura
La piazza e i palazzi dell’Addizione
Via degli Angeli e palazzo dei Diamanti
PARTE TERZA
L’architetto della Ferrara moderna

San Francesco
Santa Maria in Vado
San Benedetto
San Cristoforo alla Certosa
Abside della Cattedrale
Palazzo di Ludovico il Moro
Palazzo Roverella
Opere minori

CONCLUSIONE
Il linguaggio urbanistico di Rossetti

Riconoscimenti

Potrebbero piacerti anche