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Vanvitelli e la critica del ‘700 da completare

Gli studi sull'opera di Luigi Vanvitelli presentano una vasta gamma


d'interessi: l'architettura, il restauro, l'ingegneria, il programma
edilizio della corte borbonica etc. E anche nella forma questi studi
appartengono ai generi critico-didascalici più diversi. Dal Pascoli al
Milizia, suoi primi biografi, fino ai numerosi compilatori ottocenteschi
di vite e memorie degli architetti troviamo notizie di Vanvitelli sotto
la voce corrispondente; come monografie abbiamo quella scritta dal
nipote, il libro del Fichera e il capitolo che Pane dedica al Nostro nel
volume Architettura dell'età barocca a Napoli; vi sono inoltre gli
studi specifici su alcuni suoi periodi di attività e su singole opere, in
particolare la reggia di Caserta, che vanno dal volume del Chierici
fino alle più sintetiche guide turistiche; ancora di Vanvitelli si parla in
varie opere di storia politica e civile, si pensi al libro di M. Schipa,
dove il suo nome appare connesso ai piani architettonici ed urbanistici
dei Borboni; il quadro della bibliografia vanvitelliana è completato da
ricerche filologiche, dai ricordi di viaggi e da una quantità di
comunicazioni, di brevi memorie, di documenti fino ai numerosi
opuscoli di storia locale.
Se questi sono i generi, ancora più vario è il livello qualitativo dei
molteplici contributi a tale bibliografia. Si passa dalla rigorosa lettura
critica dell'attività vanvitelliana alla compilazione di profili biografici
che ripetono pedissequamente quelli più antichi, del Milizia in
particolare; dalle laboriose ricerche d'archivio alle più «intuitive»
interpretazioni ed attribuzioni; dai saggi che inquadrano l'architettura
di Vanvitelli nel contesto internazionale ai libelli che la esaltano
soprattutto come una gloria campanilistica; in una parola, dalla
storiografia artistica all'agiografia.
Ma una volta distinti i tipi ed i livelli degli scritti suddetti, va
osservato che, nonostante tale disparità, nessuno o quasi di questi
contributi è trascurabile per chi voglia conoscere la ricca e complessa
attività professionale di Vanvitelli. Pertanto la prima difficoltà per uno
studio sulla sua opera è quella di cogliere, dal coacervo di queste fonti
tanto disparate ed eterogenee, ciò che rende ancor vivo ed attuale il
fenomeno vanvitelliano. Constatiamo allora che per rendere
corrispondente agli interessi di oggi alcuni lati di questa singolare
figura, espressione di tanta cultura settecentesca, occorre colmare una
grossa lacuna ancora presente nella letteratura citata. La ricca
bibliografia di cui disponiamo manca di un considerevole capitolo: il
rapporto fra Vanvitelli e il pensiero critico del suo tempo; di un
momento in cui la riflessione critica assume un rilievo mai avuto in
precedenza e segna una sensibile svolta nella cultura architettonica.
Allo stato attuale, mentre conosciamo tutto sulla vita di questo
personaggio, mentre possediamo delle letture critiche delle sue opere
difficilmente superabili, mentre la conoscenza filologica va sempre
più ampliandosi, non sono stati ancora sufficientemente indagati i
legami culturali e linguistici delle sue fabbriche con le teorie
architettoniche del '700. II che è quanto dire ignorare l'attività di uno
dei principali protagonisti di questo secolo in riferimento a quanto di
più peculiare ebbe il tempo suo, la nascita o rinascita della teoria
critico-estetica.
Il presente articolo, che anticipa una più sistematica ed esauriente
monografia su Vanvitelli, tenta di costituire un primo esame
comparativo tra i due fenomeni suddetti, nella convinzione che in tal
modo si possa individuare una chiave per risolvere numerosi punti,
specie di ordine linguistico, rimasti criticamente insoluti.
S'è parlato, infatti, di Vanvitelli come de «l'ultimo maestro del
barocco italiano» (Gurlitt), di limite tra barocco e classicismo
(Brinckmann), di classicismo con influenze francesi (Osborn), della
reggia di Caserta come «l'equilibrato compendio di tutto il passato»
(Fichera), fino all'Ansaldi che considera Vanvitelli « il primo
architetto neoclassico italiano e forse europeo». [ C. ANSALDI, Luigi
Vanvitelli e il neoclassico in «Atti dell'vili Convegno Nazionale di Storia
dell'Architettura Caserta 1953].
Ora, a parte la legittimità o meno, in sede estetica, di tali
classificazioni[ R. Pane nel suo capitolo su V. in Architettura dell'età barocca
a Napoli respinge la definizione di neoclassico e di classicismo come didascaliche
astrazioni estranee peraltro alle intenzioni (li Vanvitelli, per il quale parla di
classicità in senso qualitativo], esse deludono anche come contributi alla
storia culturale dell'architettura. Ne è prova il fatto che, pur contenenti
ciascuna una parte di vero, non portano ad una esauriente definizione
dell'opera vanvitelliana, ma a delle designazioni che, una volta
verificate, risulterebbero forse solo nominalistiche e sostanzialmente
prive di utilità storico-critica.
Ma poiché tale esigenza continua a rispuntare, il fatto denota che non
siamo ancora riusciti ad inquadrare la figura dell'architetto nella
cultura del suo tempo, o almeno, in quegli aspetti teorici, tecnologici,

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raziocinanti e simili che contraddistinguono il dibattito architettonico
settecentesco. Pertanto non è un problema di classificazione che
bisogna risolvere, ma quello di meglio storicizzare l'opera
vanvitelliana, completando il mosaico delle informazioni con questo
grosso capitolo riguardante la teoria architettonica.
Notiamo anzitutto che molte biografie dell'architetto, oltre a
considerarlo, per così dire, figlio dell'arte, accentuano due aspetti della
sua formazione, al di là dei limiti convenzionali di ogni monografia
artistica. L'uno è quello della sua preparazione tecnologica, l'altro si
riferisce alla sua vocazione erudita, filologica e critica. Vanvitelli è
descritto come attento lettore di Vitruvio, autore che nel Settecento
subisce un accurato e notevole riesame. Ma nonostante queste
insistenti indicazioni non è esplicitamente detto quale sia stato il
rapporto diretto o indiretto del Nostro con le idee più significative che,
specie nell'ambiente curiale romano, circolavano al tempo del suo
giovanile soggiorno in questa città. Pertanto, oltre ai contemporanei L.
Pascoli, F. Milizia, J. Winckelmann, Quatremère de Quincy, che
scrissero sulle sue opere già realizzate, è necessario collegare l'attività
vanvitelliana con quei testi teorici che precedettero, accompagnarono
e fecero seguito (per le ragioni che vedremo) alla sua attività
architettonica.
Se allarghiamo l'orizzonte critico dell'architettura settecentesca e
riusciamo a vedere quanto Vanvitelli debba ai trattatisti
contemporanei e reciprocamente quanto questi debbano a lui, è
possibile forse trovare, come s'è detto, una chiave o, almeno, un
notevole aiuto per leggere quel tanto dibattuto, controverso e
indefinibile suo stile.
In questa linea di ricerca che, allo stato della presente informazione,
non può non essere a volte ipotetica e congetturale, sono soprattutto i
rapporti indiretti quelli più interessanti e significativi.
La polemica antibarocca che segna l'inizio dell'idea settecentesca di
architettura, senza risalire al Gallaccini che nel 1621 redige un
Trattato sopra gli errori degli architetti (pubblicato solo nel 1767
quando cioè le sue «regole corrette a saranno ormai condivise dalla

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maggioranza), ha inizio con il Cours d'architecture di François
Blondel del 1675. Il Milizia ricorda questo autore come a professore
reale in matematiche ed in architettura... Diede altresì dei disegni per
molti abbellimenti, che onosi fatti a Parigi. Egli fu direttore
dell'accademia di architettura, e membro di quella delle scienze; e si è
reso benemerito per le note fatte all'architettura del Savot, per il suo
Corso d'architettura in tre volumi in foglio, non meno per il Corso
Matematico, per la storia del Calendario Romano, per l'Arte di gettar
le bombe, e per la Nuova maniera di fortificai le piazze» [ F. MILIZIA,
Memorie degli architetti antichi e moderni in Opere complete t. v, Bologna 1827,
pp. 299-300]. I soli titoli di queste opere mostrano gli interessi del
Blondel, teorico rigoroso, seguace dei trattatisti del Rinascimento, il
cui insegnamento, a suo avviso, era stato tradito dal gusto barocco.
Al Blondel si collega un'opera che fuori dai paludamenti matematico-
accademici ebbe una maggiore diffusione: il Nouveau Traité de toute
l'Architecture del canonico L. G. de Cordemoy, vertice di quel tanto
discusso triangolo di teorici settecenteschi di cui fanno parte il Laugier
ed il Lodoli. Nell'opera del Cordemoy non viene messo in discussione
solo il barocco ma si revocano in dubbio le opere più famose dell'età
precedenti. estendendo lo scetticismo cartesiano ai valori acquisiti
nella storia dell'architettura. A lui si deve la nozione architettonica di
bienséance, cioè di convenienza, di corrispondenza ad uno scopo che,
come ha osservato lo Schlosser, è una versione moderna del decorum
vitruviano. Il libro del canonico francese è del 1706, quando il
Vanvitelli bambino si trova a Roma dove il padre Gaspare trasferisce
la famiglia da Napoli in seguito alla congiura di Macchia del 1701.
Data la ripercussione del libro, le cui idee trovarono più d'un seguace
nell'ambiente erudito del tempo e i contatti che la famiglia van Wittel
ebbe con questo, è assai probabile che il giovane architetto sia venuto
a conoscenza di questa che è fra le prime opere antibarocche.
Il libro del Cordemoy non a caso s'intitola Nouveau Traité perché
intende segnare una radicale svolta nel genere trattatistico, che tuttavia
non intacca l'autorità vitruviana, la quale subirà più tardi una revisione
secondo i nuovi principi. Ma nonostante l'affermazione del Cordemoy,

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per cui la sua opera sarebbe stata utile aux entrapreneurs et aux
ouvriers, il libro fu criticato per non aver sufficientemente
approfondito il problema costruttivo dell'architettura. Viceversa una
forte accentuazione in senso tecnologico presenta il trattato di A. F.
Frézier, La théorie et la pratique de la coupe do pierres et des bois
che vede la decadenza dell'architet tura contemporanea proprio nella
ignoranza costrutti va. La pubblicazione di questo libro è del 1739,
data che coincide col periodo in cui Vanvitelli, dopo ave esordito con
opere tecniche e di restauro, è impegnato nei lavori di Ancona. La
tendenza tecnicistica, a cui è informato il libro del Frézier, presto
divulgatasi in tutta la cultura architettonica del Settecento, trova una
perfetta corrispondenza nell'opera vanvitelliana e costituisce una delle
principali componenti di tutta la sua architettura. A ben riflettere ove
si eccettuino la reggia di Caserta e poche altre opere di spicco, la gran
parte dell'attività professionale del Nostro è essenzialmente un'opera
di restauro, dove sia pure modificando creativamente le precedenti
strutture, il fattore tecnologico è di primaria importanza.
Vero è che e «l'opera di restauro» è presente in tutta l'età barocca ed è
da riferirsi ad una più generale esigenza di attività professionale, dato
che il barocco rinnova e rifà piuttosto, o ancor più, che costruire ex
novo. Tuttavia la perizia costruttiva nel 700 si carica di nuove
intenzioni.
La trasposizione dell'atteggiamento illuministico in architettura, il
razionalismo e il funzionalismo denotano anche un nuovo ideale
estetico. Essi, in quanto critica all'autorità indiscussa della tradizione,
da un lato, e come principi correttivi delle «licenze» barocche,
dall'altro, preludono all'idea d'un'arte che si possa apprendere con
l'esercizio assiduo e diligente nella pratica del mestiere. Ci sembra
legittimo associare questo atteggiamento, o meglio, questo ideale
raziocinante con l'antico concetto di techne, che, a nostro avviso è alla
base del classicismo settecentesco. Quest'idea d'un'arte come sinonimo
di progressiva acquisizione dell'abilità tecnica, del mestiere, presente
in Vitruvio, nell'Alberti e in tutta la trattatistica cinquecentesca, si
ritrova, sia pure con diversi accenti, diffusissima in tutti i classicisti e

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doveva agire come sicuro principio contro i «giochi» del barocco. « I
grandi uomini al certo non si fanno di getto, come le statue di bronzo,
che in un momento belle e intere si formano: essi anzi si lavorano
come i marmi a punta di scalpello... Quindi è che il Vanvitclli in
mezzo a tante e sì grandi occupazioni, non cessava di studiare sempre
i migliori autori di architettura e di idraulica» [ L. VANV1TELLI, Vita
dell'architetto Luigi Vanvitelli, Napoli 1823, pp. 25-26]. Questo giudizio del
nipote è indubbiamente una ingenua ,apologia, ma riflette anche un
principio elaborato da ben più illustri e numerosi autori.
Tra gli altri testi famosi dell'epoca troviamo quello d'un seguace del
Cordemoy, il gesuita M. A. Laugier, autore di un Essai sue
l'architcture del 1753. Com'è stato osservato, esso riflette sia le idee
del Cordemoy, sia quelle del veneziano padre Carlo Lodoli, col quale
il Laugier fu certamente a contatto durante il suo soggiorno a Venezia.
M.A. Laugier critica il malinteso senso della tradizione e pone
l'accento sugli aspetti «strutturali» dell'architettura che coincidono
anche con quelli più semplici e «naturali». Distingue nell'opera
architettonica una parte essenziale e una parte secondaria affidata alla
plastica minore. Il suo razionalismo radicale lo porta ad esaltare le
forme dei volumi elementari, le quali, oltre a soddisfare meglio le
pratiche esigenze sono, a suo giudizio, anche le più espressive. Questo
geometrismo elementare si associa infatti ad un particolare
simbolismo, per cui, anticipando i progetti di quegli architetti francesi
che il Kaufmann ha definito «illuministi», egli preconizza tra l'altro
una chiesa a pianta triangolare. Laugier inoltre fonde la celeberrima
triade vitruviana con la nozione di bienséance, già indicata dal
Cordemoy, posta in luogo della venustas, con l'intenzione che il nuovo
termine possa meglio di quello latino ancorarsi a più solidi ed obiettivi
principi. Corollari di questa auspicata scienza dell'architettura sono
alcuni precetti come quello che la caratterizzazione degli edifici debba
trovarsi nella loro distribuzione; che la pianta sia l'elemento
generatore d'ogni fabbrica; che per le facciate sia da adottare un solo
ordine per evitare l'artificio della trabeazione ai piani inferiori etc.

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Non è chi non veda come queste regole siano riscontrabili in varie
opere van vitelliane.
Terzo, ma non ultimo, di questa triade di preti teorici è Carlo Lodoli,
la cui attività teorica si ritiene precedente a quella del Laugier. Il
pensiero del Lodoli, espresso soltanto in conversazioni e dibattiti
svolti nell'ambiente veneto a partire dagli anni intorno al ‘50, ci è noto
attraverso gli scritti dell'Algarotti e del Memmo. Nello stesso anno che
Laugier pubblica il suo Essai, l'Algarotti dà alle stampe un'opera
teorica avente per titolo l'esatta traduzione del libro francese: Saggio
sopra l'architettura, che può considerarsi un compendio degli autori
citati e la prima divulgazione dei precetti lodoliani. Egli in sostanza
discute lungamente le idee del Lodoli, ne diffonde le massime, specie
quella relativa all'uso dei materiali secondo la loro natura, riferisce
della polemica lodoliana contro ogni sorta di miti e credenze
architettoniche, ma ritiene che il rigorismo dell'abate veneziano
porterebbe ad un inaridimento del l'architettura. Cosicché ribadisce il
suo attaccamento a Vitruvio, ripropone per l'architettura il modello
naturale e riafferma la massima barocca, per cui del « vero più bella è
la menzogna»
Ma poiché Algarotti era considerato un brillante e piacevole
conversatore, può fornirci con la sua opera un documento della
versatilità del tempo, non una rigorosa testimonianza del principale
filone razionalista settecentesco; cosa che farà, viceversa, Andrea
Memmo col suo libro Elementi dell'architettura lodoliana, o sia l'arte
del fabbricare con solidità scientifica e con eleganza capricciosa
pubblicato nel 1786. I principi di Carlo sono abbastanza noti:
opposizione all'autorità vitruviana, o meglio al modo in cui i moderni
lo avevano interpretato; revisione critica dell'architettura classica e
moderna; revoca in dubbio di tutta l'erudizione che aveva offuscato il
vero significato dell'architettura, ossia la sua consistenza funzionale;
accento posto sulla proprietà dei singoli materiali e rifiuto della
giustificazione genetico-morfologica, per cui alcuni elementi
architettonici sarebbero trasferibili da un materiale all'altro. Lodoli
associa l'architettura con la scienza c afferma che i principi di

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quest'arte devono corrispondere alle «scientifiche leggi della
litologia»
Ma il precetto famosissimo che compendia la gran parte del pensiero
lodoliano è che «nessuna cosa si deve mettere in rappresentazione che
non sia veramente in funzione». Ne seguono come corollari le critiche
agli errori più diffusi: « di pietra sono gli edifizi fabbricati e mostrano
di esser di legname; le colonne figurano travi in piedi che sostentino la
fabbrica; le cornici, lo sporto del comignolo di essa, e l'abuso va così
innanzi che tanto più belli si reputano gli edifizi di pietra quanto più
rappresentano in ogni loro parte e membratura, con ogni maggior
esattezza e somiglianza l'opera di legno... Per che ragione la pietra non
rappresenterà ella la pietra, il legno il legno, ogni materia sé medesima
e non altra?... Fabbricare con vera ragione architettonica: cioè
dall'essere la materia conformata in ogni sua parte secondo l'indole e
natura sua, ne risulterà nelle parti legittima armonia e perfetta
solidità»[A. MEMMO, Elementi di architettura lodoliana, Roma 1934, p. 16 e
segg.]
Quali sono i rapporti, certamente indiretti, fra l'opera di Vanvitelli e il
pensiero del Lodoli, che andava diffondendosi proprio negli anni in
cui si realizzava la reggia di Caserta? Per rispondere a questa
domanda è necessario vedere in che senso il prete veneziano influenzò
l'architettura contemporanea.
A parte le critiche contrarie come quella del Selvatico, per cui Lodoli
sarebbe un cinico, un istrionico parlatore ad effetto e, quale inesperto
nella pratica dell'arte, «incerto teorichista», è stato osservato da più
parti che il radicalismo lodoliano non ebbe ripercussioni immediate
sull'attività pratica del suo tempo. Come osserva il Kaufmann «Lodoli
non fu il protagonista dell'architettura futura. Egli espose principi di
stupefacente novità, ma non offrì risposte alle domande che
sorgevano, e cioè a che cosa dovesse somigliare l'architettura (il
corsivo è nostro), quali dovessero esserne le forme e come le parti
dovessero porsi in rapporto le une con le altre. Nella sua dottrina
manca qualsiasi suggerimento che riguardi la visualizzazione dei
nuovi principi... Egli mancò al suo fine, ritenendo che l'architettura

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potesse passare di colpo dal formalismo al funzionalismo; il problema
dell'epoca per lui sembrava ridursi alla semplice abolizione della
forma, mentre in verità era quello di trovare una forma capace di
esprimere gli atteggiamenti mutati degli uomini» [E. KAUFMANN,
L'architettura dell'illuminismo, Torino 1966, p. 120].
Quest'ultimo passo del Kaufmann è ovvio e risente del vecchio
preconcetto per cui la teoria debba necessariamente tradursi in una
indicazione formale. Ma, a parte ciò, il brano citato indica una crisi
linguistica che investì anche l'architettura vanvitelliana come vedremo
più avanti.
Un analogo giudizio, culturalmente più avvertito, viene espresso dalla
Nicco Fasola che scrive «Tipicamente il nostro Lodoli è filosofo. Vale
a dire, le sue riflessioni sopra l'architettura non vengono da una nuova
coscienza architettonica - che si può avvertire in altri, come il
Cordemoy - ma dall'applicare all'architettura i principi d'indagine
degli altri campi d'esperienza, da un'illazione razionalistica cioè nel
campo architettonico. Questo indica subito il limite della sua
competenza; difatti è stato facile osservare che manca nel trattato la
parte positiva, l'indicazione nuova» [G. Nicco FA5OLA, Ragionamenti
sulla architettura, Città di Castello 1949, pp. 174-175]
Ciò risponde senz'altro al vero, ma è proprio in questa mancanza
d'indicazione operativa, nel senso di mancata indicazione di modelli
da imitare, che, a nostro avviso, sta il carattere peculiare del pensiero
lodoliano. Il suo spirito eretico, il suo essere contro Vitruvio e contro
il barocco, l'atteggiamento per cui, come dice Memmo, «intorno
l'architettura combatteva contro tutti», non poteva tradursi in precetti
operativi, in regole e norme, così come bene o male avevano fatto i
precedenti trattatisti. In tal senso, ponendo in crisi quel complesso di
dottrine che rendeva la trattatistica un vero e proprio codice
dell'architettura, egli segna una reale svolta nella storia della teoria
architettonica e costituisce forse il primo esempio di quel radicalismo
critico moderno, spesso consapevolmente paradossale, che vale in
quanto rigorosa intransigenza. Il fatto poi che le sue idee non si
traducessero facilmente in schemi paradigmatici costituiva l'unico

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modo per non cadere nelle generiche categorie di classicista e
neoclassicista, dalle quali non riescono ad affrancarsi i più
rivoluzionari teorici ed architetti settecenteschi. Ma, come vedremo,
c'era anche un altro modo, questa volta espresso proprio dal
linguaggio architettonico, sia pure attraverso una via eclettica, per non
cadere in queste ed altre categorie. Un esempio in tal senso ci sembra
proprio la gran parte dell'attività vanvitelliana.
Il passaggio da Lodoli a Vanvitelli fu mediato da una serie di altri
contributi che, sia pure posteriori all'attività di quest'ultimo, indiziano
un modo di pensare già maturo quando il Nostro è impegnato nelle
sue opere migliori. È necessario pertanto ricordare a questo punto altri
due autori che possono considerarsi il ponte fra la predicazione
lodoliana e l'attività di Vanvitelli. Ci riferiamo a J. Fr. Blondel (da
distinguersi dall'altro Blondel prima citato) e al nostro Milizia.
Il primo pubblica nel 1771 il suo Cours d'Architecture ou traité de la
Decoration, Distribution et Costruction des Bétiments, che raccoglie
appunto le lezioni tenute alla sua scuola d'architettura aperta a Parigi
sin dal 1744. Non conosciamo direttamente quest'opera, ma quel che
conta ai fini del nostro discorso è ciò che di essa scrive Milizia, il
quale deve molto all'autore francese.
Interessa notare che Milizia scrive prima del suo Principii di
Architettura civile, pubblicato nel 1781, un Saggio di Architettura
come premessa alle Vite dei più celebri architetti etc. stampato nel
1768. Cosicché fra la data di pubblicazione del Saggio e quella dei
Principii è la stampa del trattato del Blondel, di cui parla ampiamente
nella terza edizione delle Vite, che viene intitolata Memorie degli
architetti antichi e moderni.
Il trattato del Blondel è una sintesi di vecchie e nuove idee, il cui
spirito di moderazione ricalca alcune linee albertiane: definizione
della figura dell'architetto, valore sociale e nazionale dell'architettura,
equilibrio contro le licenze etc. Ma converrà riportare testualmente
parte di ciò che Milizia scrive di Blondel.
«Ecco la teoria dell'architettura: ella dà due sorte di regole; alcune
necessarie d'un'osservanza sempre indispensabile sotto pena di cadere

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in errori, che offendono e rivoltano; altre accessorie, che si possono
trascurare senza che l'opera riesca difettosa; ma non sarà nemmeno
bella. Le regole della prima spezie...si riducono alla giustezza e alla
regolarità col legame, all'ordine, all'euritmia, alla simmetria:
trascurato qualcuno di questi attributi, l'opera è insoffribile. Ma non
basta che un edificio sia senza difetti, può essere anco senza bellezze:
deve essere bello, e per esserlo bisogna, che vi sia osservata un'esatta
unione della pluralità con l'unità; e questo si ottiene colla varietà delle
parti, col numero e colla giustezza delle proporzioni... Laddove le
regole accessorie, o accidentali, sono il risultato d'un colpo d'occhio e
d'un sentimento, di cui non si possono assegnare limiti precisi... le
regole necessarie sono d'un'osservanza rigorosa, e non è mai permesso
allontanarsene. Le accidentali si possono prendere da' migliori
monumenti, e da Vitruvio, ma con qualche libertà, perché non sono
che limiti a un di presso esatti, che si possono alterare senza pericolo,
non però dagli architetti mediocri, ma da chi ha perspicacia e un gusto
sicuro. Questo è il preciso dell'architettura del Blondel, e della teoria
generale delle belle arti del Sulzer» [ F. MILIZIA, op. cit., pp. 418-420].
In sostanza il Cours del Blondel e i principi dello stesso Milizia
sanciscono un dualismo che era inevitabile in un'epoca scientista e
raziocinante. Essi raccolgono e codificano la convinzione d'una
doppia anima dell'architettura:1'una fondata su norme accertabili,
l'altra sull'ambiguità del gusto e del talento. Era fatale che di lì a poco
la «scienza» si sarebbe appropriata della prima e «l'arte» della
seconda, che sarebbe sorta l'antinomia ingegnere-architetto. Del resto
con l'avvento della società borghese, la pratica dell'architettura si
sarebbe estesa a tal punto da imporre una suddivisione dei compiti, dei
quali l'architetto ottocentesco sembrò rassegnato ad accettare quello
più prestigioso, ma sostanzialmente e per vari motivi subordinato
all'altro. Tuttavia, nel coacervo d'idee settecentesche si intuisce questo
fenomeno, ma si tenta ancora di concentrare nella figura
dell'architetto, una volta avvertito degli errori e delle «licenze»
formalistiche del recente passato, queste doti di scienziato e di artista,
di esperto e di poeta. Il caso di Vanvitelli è ancora tipico esempio d'un

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personaggio avente in sé quelle attitudini che di lì a poco toccheranno
a diversi specialisti.
Francesco Milizia va però oltre la suddetta distinzione. Egli raccoglie,
unitamente alle massime più celebri, l'illuminismo lodoliano
innestandolo alla diretta esperienza dell'architettura e alle idee più
vive della critica militante del suo tempo. È stato osservato che la sua
opera teorica rappresenta forse la sintesi più completa del dibattito
architettonico settecentesco.
«Nella metà di questo secolo egli scrive si è fatto un cambiamento ben
rimarchevole nelle nostre idee, ed è incontrastabile tra noi il progresso
di quella sana filosofia, la quale non consiste che nell'applicazione
della ragione ai differenti oggetti, sui quali ella può esercitarsi. Ond'è
che questo secolo vien per eccellenza chiamato il secolo della
filosofia... Tutto ciò che appartiene, non solo alla nostra maniera di
concepire, ma anche alla nostra maniera di sentire, è il vero dominio
della filosofia. Come mai dunque il vero spirito filosofico può opporsi
al buon gusto? Egli ne è anzi il più fermo appoggio, perché egli
consiste a rimandare ai veri principii, a riconoscere che ogni arte ha la
sua natura propria, ogni cosa il suo particolare colorito, ed il suo
carattere; in una parola a non confondere i limiti di ciascun genere.
Questo spirito filosofico nell'abbracciare le belle arti, ha abbracciato
con ispecialità l'architettura, la quale ne ha ritratto notevole vantaggio,
almeno in teorica per la filosofica maniera, come ella è stata trattata
dal Freizer in quella sua bella dissertazione, dall'Algarotti nel suo
sensato saggio sopra l'architettura, dal Laugier in quelle sue sagaci
osservazioni, dal Cordemoy, e da parecchi altri. E maggiore può
sperarsi il suo progresso, se si continuerà a sottoporre le opere anche
migliori de' nostri artisti ad un giudizio severo, a riprendere ogni
difetto, a rilevarne i pregi, ad esigere ch'eglino rendano ragione delle
forme, delle proporzioni, degli ornamenti, a spianare le difficoltà della
teorica, e ad unire le riflessioni all'esperienza» [F. MILIZIA, Principi di
architettura civile in op. cit., torno I, pp. 34-36]
Come si vede da questo brano, oltre alla citazione degli autori cui
prima abbiamo accennato, che lega gli scritti del Milizia a tutto il

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contesto teorico del suo tempo, viene esplicitamente detto che
l'atteggiamento «filosofico» dell'architettura settecentesca non è solo
un modo di concepire i suoi problemi, ma soprattutto una maniera di
«sentirli»; la teorica si risolve in critica militante ed in poetica. I
principi di questa sono gli assunti illuministici, il razionalismo, il
revisionismo della tradizione che si associano ad altrettanti miti quali
la natura, il primitivo, la capanna lignea e tutta una simbologia
rivissuta a lume della ragione.
Se analizziamo alcune di queste credenze appare evidente lo spirito
nuovo che le anima. Ritorna in auge non tanto la trattatistica
rinascimentale, ma la vecchia fonte vitruviana, che sembrò meglio
sostenere la componente scientifica dell'architettura intesa più come
techne alla maniera antica che come l'arte dei moderni. Proprio
nell'ambiente e nel periodo più famoso dell'attività vanvitelliana si
stampa una delle migliori edizioni del Vitruvio, quella del marchese
Bernardo Galiani dedicata allo stesso re Carlo che volle la reggia di
Caserta. Un altro passo di Milizia ci indica il modo in cui fu
interpretato ai suoi giorni l'autore latino. «Vitruvio inveisce contro il
suo tempo, ch'era pur per Roma il secolo d'oro, con uguale stizza con
cui ora chiunque ha il senso comune, si scaglia contro le stramberie
borrominesche; ed il suo trattato di architettura non è più fondato
sopra autori contemporanei, cioè sopra edifici di Roma, ma sulle opere
greche del tempo migliore. Il male è che egli non vide quegli edifici, e
peggio è ancora, che essendosi perduti i disegni della sua opera, ella è
caduta in mano dei commentatori» [Ivi, p. 58].
Un altro punto della poetica settecentesca è quello simbolico-
linguistico, del quale il Milizia, sulla scorta del Lodoli, fornisce un suo
peculiare contributo. «Il pregio egli scrive - degli edifizi non consiste
ne' grandi massi di pietre sopra pietre, e molto meno nella folla degli
ornamenti gettati alla rinfusa. I materiali in Architettura sono come nel
discorso le parole, le quali separatamente han poca, o niuna efficacia,
e possono essere disposte in una maniera spregevole; ma combinate
con arte, ed espresse con energia muovono, ed agitano gli affetti con
illimitata possanza» [Ivi, pp. 21-22].

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Ma il punto più saliente della teoria di Francesco Milizia, che è anche
quello più vicino all'esperienza operativa e vanvitelliana in particolare,
si ha quando egli riprende il tema del rapporto fra architettura e
natura, il quale ripropone peraltro secondo la nuova visuale un mito
assai antico. L'architettura è anche per il Milizia un'arte d'imitazione
della natura, ma non della natura così com'è - compito che egli
attribuisce «per così dire» allo «storico», ma della bella natura. I
termini imitazione e natura assumono per lui un particolare
significato. «Imitazione è la rappresentazione artificiale d'un oggetto.
La natura cieca non imita: è l'arte che imita»; cosicché l'attività
mimetica in quanto atto artificiale si distingue dal mero naturalismo ed
è soggetta al giudizio. Vi sono diversi gradi e tipi di imitazione, quello
strettamente artistico non imita semplicemente la natura ma la bella
natura. Questo attributo denota e rimanda ad una scelta. Nel passo che
segue Milizia spiega il suo modo d'intendere e connettere i termini
suddetti: «È uomo d'ingegno, e non imitator servile, chi con sagacità
sa scegliere i migliori archetipi, depurarli de' loro difetti, arricchirli di
bellezze di propria invenzione, o raccogliere dovunque le ha sapute
discernere; la imitazione fatta in una maniera nobile, generosa, e piena
di libertà, è una continua invenzione».
«Imitar la bella natura, è lo stesso che imitare una scelta di parti
naturali, perfette, componenti un tutto perfetto, quale naturalmente
non si dà. Ma la natura non produce cosa, almeno riguardo a noi, che
sia perfettamente buona o cattiva, eccellentemente bella o brutta
all'eminenza. Ora le belle arti fanno bello, che la natura non fa.
L'uomo di gusto e di genio, dopo aver bene osservata la natura, sceglie
le parti che a lui sembrano le migliori; sparse qua e là nelle produzioni
naturali, e più confacenti al suo soggetto, e ne forma un tutto
compiuto. Questo tutto così compito e perfetto relativamente a noi, è
quello che si chiama la bella natura. Tutto immaginario, ma il fondo è
però interamente naturale. Tutto è natura, dice il Pope, ma natura
ridotta a perfezione, ed a metodo. Ecco la imitazione libera, o sia
poetica» [Ivi, pp. 51-52].

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Evidentemente queste argomentazioni risentono di molteplici
influenze, specie quella albertiana del compendio delle parti migliori
suggerita nel De statua; inoltre costituiscono il tentativo (in alcuni
momenti riuscito) di connettere il bello artistico e il mito di natura, di
razionalizzare molte credenze condivise ma ancora vaghe e confuse. Il
brano citato non manca di semplicistico sintetismo, di aspetti
tautologici, di sostituire ai sostantivi imbarazzanti i più comodi
aggettivi, ma ciò che esso indica di positivo per il nostro tema sta nel
fatto che rappresenta una giustificazione e una sistema tizzazione
dell'eclettismo. Rende quest'ultimo, implicandolo con le nozioni di
scelta e di convenienza, un metodo per il pratico operare.
Il vecchio codice dell'architettura è in crisi nella seconda metà del
Settecento, ma la polemica contro il barocco esige nuove regole,
nuove norme di comportamento, nuovi criteri di giudizio. Oltre
all'accentuazione degli aspetti funzionali e pragmatici dell'architettura,
assistiamo allo sforzo di rendere sistematico un insieme di vecchie
leggi che, prese isolatamente non hanno più valore. Questo sistema
raziocinante «pensato e sentito» darà luogo ad una critica severa,
mordace e satirica, di cui il Milizia è tipico esponente, la quale è tanto
vicina alla concreta attività architettonica da trasformarsi quasi in
azione creativa.
Per le relazioni fra Vanvitelli e Milizia riportiamo un passo di
quest'ultimo assai indicativo del reciproco atteggiamento e del nuovo
rapporto instauratosi fra arte e critica. «Io ho veduto un esemplare
delle Vite degli architetti postillato di propria mano del celebre signor
Luigi Vanvitelli, il quale aveva scritto alla prima pagina l'autore di
questo satirico libro è Francesco Milizia. Ma Milizia dove ha trovato
difetti gli ha visti con dispiacere; e perciò gli ha manifestati, per
impedirne, se è possibile, la recidiva e la propagazione»[ F. MILIZIA,
Saggio di architettura civile, in Op. cit., tom. IX, p. 115]
A conclusione del rapporto fra teoria settecentesca ed attività
vanvitelliana ci resta da accennare al valore linguistico di alcune sue
opere, oltre a quei punti già indicati nel corso della nostra trattazione.

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Il principio più significativo emerso da vari autori citati è quello che
pone la pianta al centro del fenomeno architettonico; pianta non più
intesa come forma preordinata in vista di un voluto effetto plastico
d'insieme, ma come un piano rispondente a rigorosi criteri funzionali,
distributivi e simbolici, tanto accentuati sin da questa stesura
bidimensionale della fabbrica da rendere detto piano quasi un progetto
autosufficiente. Il rigorismo stilistico, la polemica antibarocca, la
censura delle «licenze» e soprattutto la cieca fiducia in un
procedimento analitico rendono le parti in elevato degli edifici del
tutto subordinate alla pianta. Questa nuova intenzione planimetrica è il
pregio ed il limite di molte opere del '700 e di Vanvitelli in
particolare. Infatti, da un lato abbiamo l'espandersi del nucleo interno
verso l'esterno fino a raggiungere una dimensione che, superati i limiti
della facciata, diventa spazio urbanistico, dall'altro la subordinazione
alla pianta dei prospetti porta ad una soluzione di continuità
nell'organismo architettonico, alla ripetizione meccanica degli
clementi prospettici, al loro eclettismo e addirittura all'indifferenza per
la plastica minore.
Questi caratteri sono presenti in molte fabbriche vanvitelliane. Le sue
opere migliori sono quelle dove la solidità dell'impianto planimetrico
è talc da annullare questa distinzione fra pianta e prospetti, o quanto
meno da ridurre il senso di sovrapposizione presente nel dettaglio
architettonico.
«Il palazzo di Caserta - scrive Quatrémcrc de Quincy - ha su tutti gli
edifici dello stesso genere, una superiorità incontestabile: ed è la
perfetta unità suggerita dalla pianta... Non potrebbesi infatti
immaginare un accordo maggiore fra la distribuzione della pianta e la
disposizione degli alzati» [QUATREMERE DE QLINCY, Dizionario storico
di architettura, Mantova, II, p. 624] Marco Rosci definisce il suddetto
procedimento dall'interno verso l'esterno, che a suo avviso accomuna
Vanvitelli allo Juvarra, come il tema della e facciata non facciata e e
conferma quanto andiamo osservando nel dire che e «il Vanvitclli
“vede” innanzitutto in pianta, le sue elementari, persino squallide
forme rettangolari si proiettano immediatamente, totalmente in

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profondità, gli alzati finiscono per essere una sorta di pura
rappresentazione visiva (ma nello stesso tempo, di funzionale
determinazione, proiezione nello spazio cubico) della planimetria, che
rimane la fondamentale “comunicazione” dell'intuizione
vanvitelliana» [M. Rosci, Filippo Juvara e il « nuovo» classico alla metà del
Settecento in «Atti dell'VIII Convegno» cit.]. Ma i pregi planimetrici non si
limitano alla sola reggia, né a quegli edifici basati su un impianto a
schema ortogonale; in varie opere dove appare un andamento
curvilineo e dove gli elementi di facciata sono tratti - quasi a formare
un contrappunto - dal repertorio più classicistico, è ancora la
dimensione planimetrica la matrice dell'intero organismo.
Se prendiamo una delle sue opere più felici, la chiesa del Gesù di
Ancona, è proprio il misurato gioco di concavità presente nell'abside,
nelle nicchie, negli archi di passaggio delle navate ad incurvare quel
profilo a terra della facciata, risolta con lo schema d'un tempio in
antis, il cui pronao è tagliato da una doppia scala curvilinea.
Questa stessa concavità, che ritroviamo nella chiesa dcll'Annunnziata,
nel cortile di S. Marcellino e in altri interni absidati, può spiegarsi
proprio con l'esigenza di ottenere da un «aumentato» spazio arcuato in
pianta un partito architettonico verticale più ricco, una volta che
Vanvitelli riduce la sua grammatica architettonica a pochi e scarni
clementi. Cosicché quegli accenti che nell'opera sua sembrano più
vicini alla dinamica barocca vanno intesi, viceversa, come un
razionale artificio correttivo dell'angustia e della modestia dello spazio
disponibile.
Passando ad un altro precetto della teoria settecentesca, quella
distinzione nell'architettura di parti fondamentali cd accessorie,
indicata dal Laugier, dal Blondel, dall'Algarotti e dal Milizia, essa si
ritrova in pieno nell'opera vanvitelliana, specie negli ambienti interni
della reggia, dove la dicotomia si trasforma spesso in stridente
contrasto. A proposito della cappella, Pane osserva che la colorazione
e la doratura della volta a botte nuoce alla sua architettura « e questo
perché la plastica vi è già talmente determinata ed espressiva nel suo
chiaroscuro, che il colore, invece di conferirle un necessario elemento

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di bellezza sembra, piuttosto, toglierle chiarezza e visibilità. In altri
termini, il colore tende a farla ciò che essa non sarebbe per il suo
disegno, e cioè barocca» [R. PANE, Op. cit., p. 248].
Così pure, nel commentare sfavorevolmente il teatrino della stessa
reggia, il Fichera scrive: «La dissociazione fra ornamento e struttura è
completa» [F. FICHERA, Luigi Vanvitelii, Roma 1937, p. 105].
Per i suoi partiti « secondari » Vanvitelli sceglie, nel senso indicato da
Milizia, nel repertorio tradizionale o ripete pochi ed elaborati
elementi: l'ordine unico, consigliato dal Laugier per evitare l'artificio
della trabeazione nei piani intermedi, su un basamento lievemente
bugnato; il cassattonato e le conchiglie nei catini delle absidi, delle
nicchie e nelle imborti dei passaggi arcuati; le bugne orizzontali che si
diramano dalle chiavi degli archi e degli architravi; gli angoli interni
smussati a 450, il coronamento con balaustre etc.
Ora, sia le opere più riuscite, sia le cadute dell'attività vanvitelliana si
spiegano ancora con un altro fra i principi più diffusi della teoria
settecentesca: l'aderenza completa di ogni fabbrica alla sua
destinazione. Vanvitelli è assai più abile e disponibile dei suoi grandi
predecessori alle istanze dei committenti. Mentre la coerenza degli
architetti prima di lui va ricercata soprattutto nella fedeltà ad un
proprio ideale plastico-figurativo, con lui nella rispondenza che
ciascun edificio ha con il suo programma edilizio.
Adattando di volta in volta i suoi stilemi, cui è giunto faticosamente
più con la perseveranza del metodo che per la virtù del talento, egli è
l'ideatore della regale residenza extraurbana, è il progettista di
«borghesi» edifici cittadini, gli basta modificare la scala
dell'intervento per dedurre dalla reggia la villa Campolieto, è
l'architetto militare della scarna e moderna caserma della Maddalena,
è l'ingegnere dell'acquedotto Carolino, è il regista di scenografiche
macchine da festa, supera se stesso quando dispone di spazio esterno
in cui afferma la sua attitudine urbanistica, come dimostra il parco ed
il piano di Caserta.
Tale versatilità, i suoi momenti eclettici e le ripetizioni che essa
inevitabilmente comporta si devono certo al ritmo intenso della lunga

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attività professionale del Nostro, ma anche a quei legami indiretti con
le teorie sopra ricordate.
Vanvitelli, contrariamente a quanto si afferma, non chiude alcun
momento del gusto, né propone alcuna innovazione stilistica, forse
perché è sostanzialmente indifferente a questi problemi. La sua
architettura segna una svolta nel senso primario e strutturale, prelude,
continuando gli esempi di Mansart e di Gabriel, a quella nuova
dimensione urbanistica ripresa dopo la parentesi neoclassica, dagli
architetti di Haussmann nei lavori di Parigi, che servì a configurare i
grandi spazi delle metropoli moderne. L'elemento di facciata è per
Vanvitelli un modulo ripetibile in funzione dell'interno, adattabile a
vari edifici e caratterizzante lo spazio urbanistico non più quello del
prospetto edilizio. La gran parte di quanto egli aggiunge a questa
concezione strutturale è da attribuirsi alla volontà dei committenti, ad
un simbolismo esteriore, alle esigenze d'uno sfarzo da parata.
Se è vera questa nostra congettura, essa richiama alla mente il fatto
che il contemporaneo Lodoli, pur avendo liberato il pensiero
architettonico dalle nebbie che l'avvolgevano, non scrisse mai un
trattato d'architettura perché riteneva che «il togliere agli uomini i
piacevoli lor pregiudizi era un direttamente perturbare ed offendere
loro amor proprio».
Vanvitelli, da quel che si deduce dalle biografie, non he uno spirito
tanto radicale, ma si trovò ad esprimere con la sua architettura sia le
indicazioni positive, sia gli errori indicati dalla teoria del suo tempo e
persino quelli in cui essa cadde.
Nella rassegna delle idee architettoniche del Settecento abbiamo
ricordato anche quelle posteriori all'opera del Nostro. Lo abbiamo
fatto nella convinzione che la sua attività si possa considerare come un
riflesso degli studi teorici contemporanei e al tempo stesso come un
vivente trattato, sulla scorta del quale è stato successivamente scritto e
teorizzato in Italia e in Europa.
L’ipotesi che l'opera vanvitelliana sia assimilabile ad una trattazione
teorica - non indicante cioè delle forme, come continua a credere chi
lo definisce neoclassico, ma principi - è confermata dallo stesso

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Vanvitelli. Com’è noto, infatti, egli era così consapevole di aver detto
con la sua architettura quanto esigeva la cultura del tempo da
rimandare alle sue opere chi, secondo il costume in uso, gli chiedeva
di scrivere un vero e proprio trattato.
Renato De Fusco

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