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ARTISTI DEI LAGHI

Il tema di questo simposio affronta un problema tra i più complessi della storia dell’arte e dell’architettura medievali.
Quella della migrazione di maestranze, e quindi di conoscenze, pratiche, linguaggi, tra luoghi tra loro anche molto distanti
è infatti una questione fondamentale per la comprensione dell’espressione artistica in senso generale, soprattutto per
le epoche in cui scarseggiano testimonianze documentarie precise, come il lungo periodo che noi chiamiamo Medioevo.
Tale questione impegna da lungo tempo studiosi di discipline diverse; nondimeno possiamo dire che, a causa delle
enormi difficoltà di interpretazione dei pochi dati disponibili, essa rimane in larga misura ancora non risolta. Ciò accade
sebbene le ricerche recenti contribuiscano sempre più a fare luce su singoli episodi o situazioni, permettendo
gradatamente di fare luce su un problema così complesso, e sul quale tuttavia occorrerà ancora lavorare a lungo. È
sintomatico, a questo proposito, che siano stati costituiti negli ultimi anni alcuni progetti di ricerca di diverso tipo e di
diversa aspirazione, come il grande progetto europeo Magistri Comacini, costruttori d’Europa in cui rientra anche il
nostro Simposio, che hanno l’obiettivo di raccogliere e confrontare i dati relativi ai diversi aspetti della migrazione
artistica: da quello propriamente formale e stilistico a quello storico, a quello sociale ed economico. È questo certamente
un punto di vista nuovo nella ricerca; un metodo che, dobbiamo ammettere, non ha goduto in passato, a parte qualche
raro caso, di grande successo. Troppo spesso lo storico dell’arte e dell’architettura di formazione tradizionale si è limitato
a registrare analogie tra opere, al fine di poter stabilire influenze e contaminazioni tra un centro artistico e una periferia,
tra un maestro e i suoi discepoli o imitatori. A questo proposito si sono correttamente formulate ipotesi di trasmissioni
di modelli, in modo indiretto ma anche diretto, cioè tramite lo spostamento di artisti o dei loro ateliers. Non si può
nascondere il fatto che effettivamente questo aspetto sia un fattore imprescindibile, anzi un elemento costitutivo della
stessa disciplina della Storia dell’arte. Per le epoche più recenti –diciamo dal Rinascimento in poi– la documentazione è
in molti casi abbondante ed esplicita, e non solo per gli artisti «Lombardi», per usare un termine generale sul quale
torneremo in seguito, ma anche per molte altre personalità dell’architettura e dell’arte di diversa provenienza, come ad
esempio gli artisti fiorentini e toscani in genere. Per il Medioevo invece la scarsità di fonti dirette e chiare ha costretto
da sempre gli studiosi a grandi sforzi interpretativi sui pochi dati disponibili che, quando era possibile, sono stati messi
in rapporto con le testimonianze monumentali, solo un poco più abbondanti. In questi studi l’epopea medievale che si
riferisce alle vie dei pellegrinaggi è emersa spesso, nell’assenza di altri riferimenti, come una soluzione provvidenziale ai
tanti quesiti che dagli studiosi. Non intendo certamente negare il ruolo che i flussi di pellegrinaggio possono avere svolto
in un più generale scambio e confronto di culture. Ma limitare lo scambio culturale alla sola imitazione di modelli artistici
o architettonici è senza dubbio riduttivo; al tempo stesso dovremmo ammettere che un racconto, una favola, un testo,
si trasportano più facilmente di un’architettura, di una scultura, di una pittura, e persino di un’idea di architettura,
scultura, pittura. Inoltre, il fenomeno dei pellegrinaggi non spiegherebbe le eventuali influenze culturali, e in particolare
artistiche, in epoche precedenti il tardo XI secolo. Come si vede, la questione è troppo complessa perché se ne possa in
questa sede anche solo accennare. Basterebbe però riflettere sul fatto che spesso relativamente a questo tema si è
venuta elaborando una visione antistorica degli eventi del passato, in particolare per quanto riguarda quel particolare
aspetto della cultura che è rappresentato dalla produzione architettonica e artistica. Le ricerche e le discussioni degli
studiosi, e soprattutto a partire dal Novecento, hanno spesso cercato di valutare attentamente il problema e di
ricondurlo entro margini di ragionevolezza. Ma in qualche caso la riflessione si è spinta ben oltre i limiti della
ragionevolezza, fino a raggiungere addirittura la dimensione del mito. Il problema dei cosiddetti Magistri Comacini si può
dire che riassuma in sé tutta la complessità del problema della migrazione artistica, e al tempo stesso del ruolo dell’artista
e del suo rapportarsi alla società, anche nei suoi aspetti economici. Tra i casi di temi riguardanti la cultura, non solo
artistica o architettonica, quello dei «Comacini» ha attirato l’attenzione di tanti studiosi di formazione diversa e con
metodi di approccio e punti di vista anche molto distanti tra loro. Il fenomeno si è rivelato infatti interessante, e lo è
ancora, anche per gli storici dell’economia e per i sociologi. Basti citare un convegno recentemente svoltosi a in Svizzera,
a Mendrisio, sul tema della circolazione della manodopera per l’attività edilizia e della organizzazione dei cantieri
nell’Europa moderna, nel quale è stato affrontata anche la questione della emigrazione degli artisti dell’area dei Laghi
Lombardi in Europa, non solo sotto gli aspetti di interesse storico artistico, ma anche socio-economico.1 Date queste
premesse, ci potremmo chiedere, con una battuta, se il titolo del presente simposio sia un’affermazione o piuttosto un
interrogativo. Il titolo del mio intervento intende invece richiamare l’attenzione su alcuni problemi di definizione
terminologica attraverso l’esame, pur sintetico, delle diverse posizioni e interpretazioni fornite dalla letteratura e delle
discussioni che a partire da questi problemi si sono generate circa la pratica professionale degli artefici. Ma prima di
tutto occorre rilevare come, in termini storiografici, la questione dei cosiddetti «maestri comacini» rappresenti un
problema che talora è andato ben oltre i suoi contenuti specifici, cioè la produzione architettonica e artistica ed
eventualmente i suoi risvolti sociali; intendo riferirmi al valore soprattutto politico, e di rivendicazione nazionale e
persino nazionalistica al quale la vicenda di queste generazioni di artefici ha offerto l’occasione soprattutto tra XIX e XX
secolo. Al tempo stesso, è opportuno rivolgere seppur brevemente l’attenzione anche ad altri punti di vista, che partendo
da posizioni anche lontane tra loro e applicando metodologie di indagine diverse hanno tuttavia inteso talora ricondurre
a termini più plausibili la serie di informazioni documentarie e la massa di interpretazioni che su di esse si sono generate,
dall’altra addirittura spingere ad estreme conseguenze il mito dei Comacini. 10 Saverio Lomartire Comacini, Campionesi,
Antelami, «Lombardi». Problemi terminologici e storiografici 11 È interessante per noi constatare come un tale mito
abbia potuto determinare, ben oltre il significato che storicamente è lecito attribuirle, la denominazione di Magistri
Comacini o Commacini: una specie di nome collettivo che ha raggruppato e assimilato gli artefici provenienti dalla zona
dei laghi della Lombardia, in omaggio a quella dimensione leggendaria nella quale talvolta si identificano ancor oggi le
comunità che vivono nell’area dei laghi di Como e di Lugano. I primi segni dell’interesse storiografico per la vicenda degli
antichi artisti lombardi si colgono già almeno a partire dalla pubblicazione dei Rerum Italicarum Scriptores a cura del
modenese Ludovico Antonio Muratori, il cui primo volume fu pubblicato a Milano nel 1724,2 del quale parleremo fra
breve. La pubblicazione di testi importanti sarà all’origine di una serie di edizioni di documenti e in genere di un interesse
per la storia medievale; un interesse che riguardò persino il teatro musicale. Un interesse, quello per il medioevo, inteso
non solo negli aspetti politici, ma anche letterari e storico-artistici, che ad esempio si mostra ancora nelle edizioni di
documenti curate dal canonico Girolamo Tiraboschi, al quale si deve la prima edizione, nel 1795, del famoso contratto
stipulato nel 1244 dai Maestri Campionesi con il Duomo di Modena.3 È nel corso del XIX secolo che si manifesta un
interesse più specifico per la produzione artistica del Medioevo, a partire dalla Histoire de l’art, pubblicata in sei volumi
dal 1810-23 da JeanBaptiste-Louis-George Seroux d'Agincourt.4 L’idea che la storia dell’arte fosse fatta a partire dai
monumenti non era una novità, ma nuovo è certo l’interesse per lo studio dei monumenti del medioevo, che supera con
nuova consapevolezza le tendenze del gusto neomedievale, o meglio neogotico, che si erano già espresse in Inghilterra
e poi nell’Europa del XVIII secolo. In Italia saranno Giuseppe e Defendente Sacchi, con le Antichità romantiche d’Italia,
pubblicate negli anni 1828-18295 e soprattutto Giulio Cordero di San Quintino, con il volume Dell’italiana architettura
durante la dominazione longobarda. Ragionamento, pubblicato nel 18296 a segnare un deciso passo in avanti nella
riscoperta dei monumenti medievali italiani, con un interesse pionieristico per l’architettura dell’altomedioevo; nello
stesso senso vanno considerate le osservazioni sull’architettura medievale prodotte da Amico Ricci nella sua Storia
dell’architettura, uscita tra il 1857 e il 1859.7 Né bisogna dimenticare che un importante elemento di stimolo per gli studi
sull’altomedioevo fu rappresentato dalla pubblicazione, alla metà del XIX secolo, del Codice Diplomatico Longobardo a
cura di Carlo Troya.8 Certamente nelle ricerche prodotte nella prima metà del secolo vanno cercate le premesse per
comprendere l’impegno profuso da Ferdinand De Dartein alla redazione del suo Étude sur l’Architecture Lombarde,
pubblicato a fascicoli dal 1865 al 18829 con il corredo di numerose tavole di alta qualità, che ancora oggi costituiscono
uno strumento insostituibile per lo studio. È molto significativo che l’aggettivo «lombardo» appaia qui impiegato già con
una funzione decisamente allusiva non ad una origine geografica, ma ad una connotazione stilistica, o meglio culturale.
Se per Lombardia si intende gran parte dell’Italia del nord, così che possono essere compresi nell’elenco anche
monumenti delle Venezie, tuttavia è interessante il fatto che De Dartein recuperi i precedenti dell’architettura e della
scultura dei secoli XI e XII nelle testimonianze del periodo longobardo. Al tempo stesso egli riconosce il ruolo decisivo
che ebbero i costruttori e i lapicidi lombardi nel determinare una produzione monumentale di rilievo europeo; ma anche
su questo aspetto torneremo più oltre. 12 Saverio Lomartire Non mi voglio dilungare su questi problemi, che
richiederebbero un approfondimento a sé. Vorrei solo sottolineare come già in precedenza John Ruskin avesse
decisamente contribuito alla nozione di un’arte italiana largamente e decisamente tributaria alle opere degli artefici
lombardi attivi nell’Italia settentrionale e centrale, contraddicendo la ben nota impostazione vasariana che vedeva in
Giotto il vero iniziatore di un’espressione artistica che potesse dirsi veramente italiana.10 Dopo De Dartein, l’altro grande
fondatore della moderna storia dell’architettura è Raffaele Cattaneo, il quale, morto a soli ventotto anni, ebbe il tempo
di pubblicare, tra altri scritti, il fondamentale studio L’architettura in Italia dal secolo VI al Mille circa, edito a Venezia nel
1888 e presto diffuso in Europa e in America attraverso le traduzioni in lingua francese e inglese (rispettivamente nel
1889 e nel 1890). Il volume pose le premesse per il moderno studio comparato di architettura e decorazione, producendo
risultati interpretativi ancor oggi di indiscutibile validità. Nella seconda metà del XIX secolo l’interesse per lo studio dei
monumenti medievali poteva dunque disporre ormai di radici forti, il cui frutto è una serie di studi importanti, tra i quali
va almeno ricordato il volume di Oscar Mothes sull’architettura italiana del medioevo.11 In tutti gli scritti che abbiamo
citato l’interesse per l’architettura e l’arte del medioevo lombardo inizia ad assumere, in particolare per gli autori italiani,
un significato che supera i limiti della pura erudizione iniziale e anche degli approfondimenti della ricerca successiva. In
altri termini, si viene a costituire, soprattutto negli ultimi decenni del XIX secolo, un filone di studi che vede nella
rivalutazione delle testimonianze architettoniche e artistiche lombarde del Medioevo l’occasione per stabilire una sorta
di specificità culturale per una nazione che solo nel 1861 che ha ritrovato l’unità. Non è un caso se negli stessi anni si
avvia una metodica azione di studio e di restauro di molti edifici dell’XI e del XII secolo, individuati, a torto o a ragione,
come testimonianze depositarie di una genuina identità nazionale.12 Come si sa, l’opera che consacra, proprio in questo
senso, il mito dei «Maestri Comacìni» è il corposo saggio di Giuseppe Merzario pubblicato a Milano nel 1893 in due grossi
volumi.13 Quest’opera costituisce una imponente trattazione, condotta anche con taglio biografico, rivolta all’arte del
territorio dei laghi lombardi e alla sua irradiazione in Italia e in Europa. L’attività delle maestranze cosiddette «comacine»
viene esaminata a partire dalla documentazione esistente e non solo di età medievale, mettendo in primo piano non i
monumenti ma gli uomini, proprio per segnalare la loro opera come sommo esempio del costante e infaticabile impegno
civile di un popolo. Elemento importante per comprendere il taglio dato alla trattazione è il fatto che Giuseppe Merzario
(1825-1894), rivestì fino al termine della sua vita la carica di deputato al Parlamento nazionale; l’opera venne offerta e
dedicata a Giuseppe Zanardelli, allora Presidente della Camera dei Deputati, quale testimonianza delle «glorie antiche e
recenti, sparse in Italia e fuori, dei Maestri del Territorio di Como».14 Un precedente e un possibile modello per il lavoro
di Merzario fu probabilmente l’opera di Girolamo Luigi Calvi dedicata alle biografie degli architetti, scultori e pittori attivi
a Milano sotto il dominio dei Visconti e degli Sforza tra i secoli XIV e XV. 15 Credo che non si sbaglierebbe nel riconoscere
negli intenti del Calvi, come in quelli del Merzario, la giusta aspirazione a superare una concezione della storia dell’arte
italiana come gravitante principalmente sul fulcro artistico toscano: una concezione basata ancora sulle Vite di Giorgio
Vasari che per lungo tempo hanno costituito, e in parte ancor oggi costituiscono, un forte appiglio per la definizione della
vicenda artistica italiana. Comacini, Campionesi, Antelami, «Lombardi». Problemi terminologici e storiografici 13 Appare
così evidente come l’intenzione del Merzario sia quella di contribuire, attraverso la ricostruzione delle vicende degli
artisti dell’area comasca, alla formazione di una storia nazionale in senso ampio. A questo fine Merzario non esitò ad
estendere il termine Comacìno anche a figure di artisti per le quali nessuno mai aveva, né ha poi in seguito, avanzato
ipotesi circa una simile provenienza; nel testo di Merzario ciò accade principalmente per quei personaggi per i quali
manchino documenti certi, e sia pertanto necessario procedere secondo deduzioni: cioè soprattutto per gli artisti del
medioevo. In tal modo, secondo Merzario provengono dall’area di Como sia Lanfranco, architetto del Duomo di Modena,
sia Wiligelmo, scultore nello stesso cantiere. Va da sé che con una simile impostazione di metodo l’epopea dei maestri
Comacini veniva ulteriormente mitizzata. Le recensioni al testo di Merzario oscillarono fra l’apprezzamento per il grande
lavoro di raccolta e organizzazione di dati e la critica molto severa alla eccessiva disinvoltura con cui l’autore ha
ricostruito una storia basandosi sul solo spirito nazionalistico, anzi sul solo spirito campanilistico. La recensione al volume
scritta nel 1894 da Arthur L. Frothingham Jr. apparsa su The American Journal of Archaeolgy, 16 mentre apprezza
l’entusiasmo dell’autore e la sua volontà di analisi e discriminazione stilistica, gli rimprovera molto severamente la
tendenza a produrre deduzioni incoerenti al solo scopo di seguire un’ideologia, assoggettando l’architettura e l’arte
dell’intera Europa dal medioevo all’età moderna alla influenza dei «Maestri Comacini»: Nothing escapes his robust
appetite and power of assimilation. 17 Il recensore individua quattro metodi di lavoro applicati da Merzario: il primo è
quello definito «assumption», cioè deduzione senza argomenti ma solo partendo da posizioni precostituite; il secondo è
definito «suppressio veri» e consiste nel tacere l’esistenza di argomenti contrari alle tesi dell’autore; il terzo metodo è
la produzione di argomentazioni a partire unicamente dai dati stilistici delle opere; il quarto metodo è la «assumptive
deduction», cioè la tendenza a forzare i dati disponibili per ricondurli all’ipotesi dell’autore.18 Sebbene da più parti
all’epoca fossero stati bollati come privi di un reale valore scientifico, i volumi del Merzario rimangono tuttavia un
monumento critico importante per la serie di informazioni e ancor più per la volontà di rivalutare la componente
fondamentale dell’arte europea prodotta da maestri italiani. E sarebbe sbagliato disconoscere il ruolo importante che
essi hanno svolto nell’ambito di ricerche di respiro locale e nazionale sia precedenti che successive. In fondo, nell’opera
del Merzario mi sembra che si possa vedere un precedente dell’impegno di studio e catalogazione che più tardi sarà
sostenuto per la Catalogna da Josep Puig i Cadafalch, con ben altro approfondimento e metodo scientifico.19 Ma vorrei
anche sottolineare che, come è stato più volte osservato, le motivazioni che spingevano Puig i Cadafalch fossero tutto
sommato simili a quelle che avevano mosso il Merzario: la volontà, di stampo in qualche modo nazionalistico, di voltare
le spalle alla cultura dominante e al recente passato e di rivolgersi invece ad un ambito europeo cercando di recuperare
in quell’ambito radici più antiche e veramente caratterizzanti. Non possiamo inoltre dimenticare che anche Puig i
Cadafalch fu direttamente e vivacemente coinvolto nell’impegno politico.20 Ma questa non è una storia nuova; e ancora
oggi stiamo assistendo ad atteggiamenti simili, anche nello studio della storia e della storia dell’arte, da parte di nazioni
che intendono superare la crisi di un rapporto problematico con il proprio passato recente, volgendo ad esso le spalle e
cercando in ogni modo collegamenti con la storia europea. È questa un’ambizione che talora si avverte in modo assai
chiaro e che è parte del lungo e impegnativo lavoro di costruzione dell’Europa. 14 Saverio Lomartire In Italia tra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si moltiplicarono, grazie a ricerche d’archivio, i contributi dedicati alla presenza
e all’attività di maestranze lombarde in Italia e all’estero, e la rivista Archivio Storico Lombardo, edita dalla Società Storica
Lombarda, costituì la sede privilegiata per tali interessi. Ma ben presto il frutto di questo infittirsi degli studi si produsse
anche in opere di ampio respiro. Così, vediamo nella grande e pionieristica Storia dell’Arte Italiana di Adolfo Venturi,
pubblicata in undici volumi a partire dal 1901 e fino al 1940, una attenta riconsiderazione dell’importanza che l’opera
dei maestri lombardi riveste per la definizione dell’arte del medioevo a vasto raggio.21 L’opera che rappresenta in
massimo grado questa impronta storiografica è la monografia pubblicata nel 1908, e riedita già nel 1910 in traduzione
inglese, da Giovanni Teresio Rivoira, che rende esplicito già nel titolo il proposito di dare una giusta collocazione alla
produzione architettonica della Lombardia: Le origini della architettura lombarda e le sue principali derivazioni nei paesi
d’Oltr’Alpe. 22 Il Rivoira asserisce di non trovare giustificato «il termine “romanico” applicato a tanta arte del medio
evo», e preferisce piuttosto, riconoscendo un ruolo determinate svolto da maestranze lombarde, parlare di forme
architettoniche appunto «lombarde», e considerare la loro espansione in Europa sotto forma di architetture «lombardo-
normanna» e «lombardo-renana».23 Con queste premesse il termine lombardo cessa di essere solo un elemento di
caratterizzazione geografica e di cultura locale per rafforzare il suo valore di termine antonomastico, di appellativo
stilistico, per assumere un ruolo di caratterizzazione storica e culturale più vasto. Questo d’altra parte si poteva osservare
già nella impostazione data da De Dartein alle sue ricerche, e si ritroverà nell’opera fondamentale di Arthur Kingsley
Porter dedicata alla Lombard Architecture, pubblicata nel 1917.24 Nell’impianto dato dal Rivoira si ritrovano però un
poco anche i segni dello spirito espresso da Giuseppe Merzario. Nel breve secondo capitolo del volume, dedicato ai
Maestri Comacini e che costituisce significativamente una premessa al terzo capitolo dedicato alla «Architettura
prelombarda», Rivoira spiega le ragioni della migrazione degli artefici della zona dei laghi e alla fortuna derivata quasi da
una indole naturale alla migrazione e all’attività imprenditoriale.25 Possiamo osservare che questa affermazione sembra
quasi confermare la fama di abili uomini d’affari che certamente i lombardi hanno avuto nell’Europa del medioevo e
dell’età moderna.26 Nello stesso capitolo Rivoira però accenna anche ad altri temi che verranno ripresi dagli studi
successivi, soprattutto a quello che vede nella riunione delle maestranze comacine in consorzi o società di persone una
diretta derivazione dai collegia fabrorum dell’Antichità romana.27 L’opera del Rivoira sarà la premessa per molti altri
studi, come quelli di Pietro Toesca, la cui monografia sull’arte del Medioevo sarà pubblicata nel 1927,28 e, unitamente
alla monografia del Porter, anche per quelli di Josep Puig i Cadafalch. Ma occorre osservare però come un filone di studi
parallelo si sviluppi in questi stessi anni, sempre partendo dalle premesse poste delle ricerche e dalle edizioni di
documenti soprattutto del XIX secolo. Si tratta del filone massonico, che vede la vicenda dei Magistri Comacini all’origine
delle società segrete dei Liberi Muratori e intreccia i risultati della ricerca documentaria con la distribuzione geografica
dei monumenti riconducibili ai Comacini e con la storia delle istituzioni, senza trascurare ovviamente aspetti simbolici
ed esoterici. Ne esce dunque amplificata la dimensione mitica nella quale sono considerate le maestranze lombarde, che
sarebbero dunque eredi dirette dei collegia fabrorum sopravvissuti alla caduta dell’impero grazie al rifugio loro dato
dalla posizione protetta dell’Isola Comacina, sul lago di Como, appunto, e che avrebbero tramandato un sapere tecnico
costruttivo antichissimo, da far risalire all’architetto del Tempio di Salomone. Comacini, Campionesi, Antelami,
«Lombardi». Problemi terminologici e storiografici 15 La questione, dibattuta in una serie molto cospicua di interventi
in sedi specializzate massoniche, ha prodotto, al di là della dimensione epica, taluni saggi interessanti proprio perché
permettono in qualche modo di completare il quadro interpretativo riguardante il fenomeno dei costruttori lombardi. Il
volume Cathedral Builders pubblicato dalla scrittrice Lucy Baxter sotto lo pseudonimo di Leader Scott nel 189929 ha
costituito una base di discussione per gli studi successivi, tra i quali va citato citare il volumetto di William Ravenscroft,
The Comacines. Their Predecessors and theis Successors, edito nel 1910 e ripubblicato con aggiunte nel 1924.30
L’interesse di questo studio risiede nel fatto che l’autore ha affrontato sistematicamente e in parte obiettivamente le
diverse questioni relative al problema dei Comacini, compiendo appositamente un viaggio in Italia alla ricerca delle tracce
relative all’attività dei maestri lombardi, partendo proprio dall’isola del Lago di Como chiamata Comacina. Qui egli ha
eseguito anche osservazioni e rilievi sulla tecnica muraria della chiesa di sant’Eufemia; circa l’esistenza di luoghi di ritrovo
per i magistri, l’autore descrive la Loggia dei Maestri Comacini di Assisi (fig. 1).31 Altro tema affrontato da Ravenscroft,
e comune agli studi di impostazione massonica è quello relativo alla scultura e in particolare ad alcuni elementi simbolici
di questa, come la figura del leone stiloforo e la decorazione ad intreccio, considerati simboli distintivi delle corporazioni
dei liberi muratori: al sant’Ambrogio di Milano l’autore rileva poi in un elemento ben noto del portale maggiore la firma
capovolta di Magister Adamus, già segnalata da Leader Scott (fig. 2). Il tema della scultura ad intreccio e del cosiddetto
«nodo comacino» (un termine che in realtà esiste solo nella letteratura di ispirazione massonica) riconduce poi ad un
altro tema della letteratura esoterica massonica, e cioè quello della colonna ofidica, o colonna annodata, nel quale viene
tradizionalmente riconosciuto un segno distintivo dei magistri comacini e delle loro antichissime origini. La presenza di
una coppia di colonne annodate del secolo XIII alla Cattedrale di Würzburg è stata considerata prova certa dell’attività
nella città tedesca di maestri costruttori comacini. Il tema della colonna annodata, al di là del suo aspetto esoterico,
meriterebbe un approfondimento negli studi, dal momento che è pur vero che un simile tipo di colonna, anzi di fascio di
colonne, compare spesso in monumenti nei quali la presenza di maestranze lombarde, campionesi, antelamiche, è certa:
come nel caso del Duomo di Trento, iniziato da Adamo da Arogno nel 1212, o nella porta Regia del Duomo di Modena,
allestita intorno al 1209 dai magistri lapidum guidati da Anselmo da Campione o da un suo successore o ancora nel
portale di modi lombardi detto «La Real» della cattedrale di Embrun, ma anche in molti altri casi. I capitelli delle colonne
di Würzburg riportano inoltre sull’abaco i nomi Iachim e Booz, che è l’appellativo dato da Salomone alle due colonne
poste davanti al Tempio;32 si può allora comprendere come il richiamo al tempio salomonico unito al tipo di colonna a
nodo possa avere contribuito ad amplificare oltre misura la dimensione mitica attribuita alla vicenda dei magistri
comacini, individuando in essi i modelli e i precursori delle società dei liberi muratori (Freemasons) in Europa e poi in
tutto il mondo.33 Al filone dottrinario massonico, che ha prodotto una letteratura vastissima, costituita nella maggior
parte dei casi da posizioni semplicistiche e preconcette, ma che talora presenta contributi eruditi, come l’ampio studio
di Karl Hoede pubblicato nel 1967,34 si intrecciano gli altri studi. Già il Rivoira era stato a suo tempo costretto ad
esprimersi sulla teoria che le prime logge massoniche siano state costituite da maestri comacini, dichiarandole però
mere ipotesi non sostenute da dati di fatto,35 né va trascurato che Arthur Kigsley Porter definì quello dei maestri
comacini un mito privo di consistenza.36 16 Saverio Lomartire In questo clima compaiono, nella prima metà del
Novecento, alcuni contributi fondamentali che tendono a contrastare l’eccessiva mitizzazione del tema relativo alle
personalità e alle opere dei magistri lombardi attraverso un esame molto rigoroso delle fonti che arriva talora, come
vedremo fra breve, persino a negare decisamente una diretta corrispondenza del nome «comacini» con l’area geografica
gravitante sulla città di Como. Tra gli artefici di una simile offensiva al mito dei maestri comacini ha un ruolo di primo
piano l’ingengere milanese Ugo Monneret de Villard, primo professore di archeologia cristiana al Regio Istituto Tecnico
Superiore di Milano dal 1913 al 1923, il quale si è dedicato alla questione in alcuni studi pionierisitci, memorabili per
ampiezza di informazioni e per rigore di metodo, che in molti casi costituiscono ancor oggi un punto fondamentale di
riferimento. Tra questi vanno almeno citati il saggio fondamentale sulla organizzazione produttiva nell’Italia longobarda,
del 1919,37 il breve ma denso scritto sul famoso testo longobardo relativo alle tariffe professionali applicate dai magistri
comacini38 e uno sutdio sull’influsso lombardo sull’architettura romanica in Catalogna, edito già nel 1914.39 Sulla stessa
linea si collocheranno più tardi gli studi di Mario Salmi dedicati anch’essi al problema del ruolo dei magistri comacini e
della loro identificazione con artefici lombardi,40 e quelli di Gian Pietro Bognetti dedicati ai Magistri Antelami. 41 È su
questa solida base che hanno potuto ripartire le ricerche più recenti, tra le quali vanno segnalate quelle dedicate alla
comunità dei «magistri antelami» a Genova da Ennio Poleggi e poi da Tiziano Mannoni e dai suoi collaboratori e da altri
studiosi,42 oltre alle indagini pubblicate alcuni anni fa negli atti di un convegno dal titolo «Magistri d’Europa».43 Le
ricerche degli ultimi anni hanno potuto avvalersi di contributi pluridisciplinari, con analisi anche tipologiche dei complessi
architettonici e artistici, associate ad una più ampia conoscenza delle fonti attraverso attente indagini d’archivio, oltre
che dei meccanismi socio-economici alla base del fenomeno della migrazione. Il filone delle ricerche documentarie, in
particolare, prosegue la serie di studi di carattere locale che già da oltre un secolo continuano ad aggiungere dati sulla
presenza di «lombardi» in varie e distanti aree geografiche. La presenza non solo di singoli personaggi ma anche di gruppi
organizzati di maestri costruttori lombardi in certe aree geografiche italiane, come alla Liguria, al Trentino, al Regno di
Napoli, alla Puglia, all’Umbria, alle Marche, alla Toscana, è una nozione che si è venuta via via consolidando e che ancora
continua a dare i suoi frutti. Tale nozione rappresenta la frontiera più recente per gli studi, anche attraverso la
collaborazione di studiosi di ogni parte d’Europa, interessati ad approfondire la conoscenza dei loro monumenti anche
attraverso il confronto con la produzione nei territori d’origine degli artisti. Se questo però è possibile, ovviamente, con
maggiore facilità per le epoche più recenti, grazie alla relativa abbondanza di materiale documentario, grandi difficoltà
restano per l’età medievale. Come caso emblematico potremo citare ad esempio il complesso dei dati relativi alla
presenza di maestri lombardi in Toscana tra XII e XV secolo, che ha potuto essere precisata sulla base di ricerche
recenti.44 Altro esempio di come la ricerca meticolosa abbia potuto fornire risultati incoraggianti è quello relativo alla
presenza dei costruttori lombardi a Genova. Già gli studi di Bognetti pubblicati nel 193845 avevano potuto avvalersi della
cospicua documentazione d’archivio conservata, così da avviare una definizione piuttosto precisa delle dinamiche
insediative e professionali delle maestranze lombarde e di testimoniare inoltre una loro presenza anche a Brescia nel XII
secolo,46 le indagini più recenti sulla presenza di tali maestranze a Genova hanno potuto arricchire le conoscenze sia
per il periodo medievale che per le epoche successive.47 Comacini, Campionesi, Antelami, «Lombardi». Problemi
terminologici e storiografici 17 Tuttavia, nonostante i notevoli risultati offerti dalla ricerca recente e le prospettive per
gli studi futuri, restano ancora delle zone d’ombra, sulle quali i documenti sembrano non fornire esplicitamente chiavi
interpretative, così che è in molti casi necessario fare ricorso a congetture e a deduzioni ricavate a partire da
testimonianze più tarde. Mi riferisco innanzitutto alle questioni terminologiche richiamate già nel titolo di questo
intervento. I tre primi aggettivi, riferiti a magistri «comacini», «antelami», «campionesi», nell’opinione comune sono
praticamente sinonimi e a loro volta sono tutti assimilabili e anzi riassumibili nel termine «maestri lombardi». Vorrei
chiarire subito che personalmente concordo in linea di massima con questo punto di vista. Solo, è necessario ripercorrere
brevemente la storia di questi termini per vedere se e come essi trovino giustificazione nella vicenda artistica e sociale
dei maestri costruttori dell’Italia settentrionale. Proverò a farlo nel modo più semplice e senza addentrarmi a seguire
troppo minuziosamente il filo delle discussioni prodotte dagli studi, talora assai complesse e spesso rimaste in buona
misura ancora non risolte. Dobbiamo innanzitutto constatare come il problema si presti ad essere esaminato sotto due
diversi punti di vista, entrambi legittimi. Da un lato gli aggettivi che designano gli artefici vengono ricondotti, come pare
ovvio, a determinazioni di luogo ben riconoscibili, almeno in tre dei quattro casi ai quali abbiamo accennato. Dall’altro
lato tali aggettivi sono stati considerati corrispondenti a situazioni non più verificabili e piuttosto trasmessi dai documenti
con valore antonomastico, avendo perso il significato originario di determinazione geografica di origine. Questi due punti
di vista sono spesso stati visti come antitetici e inconciliabili, così che l’uno esclude quasi automaticamente l’altro. Vorrei
provare a vedere, con l’aiuto anche di alcune osservazioni fornite dagli studi recenti e meno recenti, se invece non esista
un modo per riconoscere una coesistenza dei due termini almeno in senso generale. Come si sa, il problema più
complesso riguarda proprio il termine «comacìno», che è la prima parola del titolo di questo Convegno, la parola che
porta l’accento concettuale più forte e caratterizza il resto del titolo, cioè l’architettura romanica catalana. Proviamo
dunque a cambiare il termine e a dire: «I Lombardi e l’architettura romanica in Catalogna». Si obietterà che in fondo il
titolo non cambia, dal punto di vista della comunanza culturale, soprattutto se si pensa che oltre all’architettura anche
la pittura catalana ha contatti con la pittura lombarda coeva.48 Ma, come abbiamo visto, alcune ricerche di alto livello,
come quelle già citate di Monneret de Villard, di Salmi, di Bognetti e poi anche di linguisti come Carlo Cordié,49 hanno
inteso negare decisamente una simile equazione. Cerchiamo di ripercorrere brevemente la vicenda. Come si sa, il
termine «comacino» con riferimento all’area di Como, e senza riferimento a maestranze ma a luoghi, trova
testimonianze piuttosto antiche: nell’Itinerarium Antonini (III sec.),50 in una epistola di sant’Ambrogio51 e in Paolo
Diacono, con riferimento all’isola del Lago di Como alla quale abbiamo già accennato.52 A queste testimonianze si
aggiungono quelle topografiche relative alla «Porta Comasna» o «Comasina» di Milano e alla via Mediolanum-Comum,
anch’essa nota come via Comasina, nome che peraltro mantiene ancor oggi la strada statale n. 35 nel tratto tra Milano
e Como; va poi ricordato che il termine Comasino è citato nel XIV secolo dallo scrittore italiano Franco Sacchetti con
riferimento agli abitanti di Como,53 lo storico della lingua Pier Gabriele Goidànich fornisce al proposito una serie di
piuttosto cospicua di testimonianze.54 18 Saverio Lomartire Come appellativo riferito invece a persone, se si eccettua il
nome Comacines attribuito dall’archeologia preistorica inglese alla popolazione abitante nell’area del lago di Como
nell’età del Ferro,55 il termine «magister commacinus» si trova, come è ben noto, citato esplicitamente in due testi
dell’età longobarda. La prima menzione si ha negli articoli 144 e 145 dell’editto di Rotari del 643 (fig. 3) e si riferisce
all’attribuzione di responsabilità in caso di incidenti occorsi mentre un magister commacinus o suoi collegantes, cioè suoi
soci, stanno costruendo o riparando un edificio.56 Il secondo testo è invece contenuto in codici più tardi; in questo caso
non si tratta di un testo di legge, ma del «Memoratorium de mercedibus commacinorum», e la sua collocazione oscilla
nei vari codici che lo contengono tra le leggi di Grimoaldo e quelle di Liutprando, cioè tra la fine del VII e la prima metà
dell’VIII secolo.57 Non intendo soffermarmi sugli aspetti del contenuto, che non interessano il nostro argomento e sono
d’altra parte ben noti, se non per segnalare l’interesse in particolare del secondo testo riguardo alla fissazione di prezzi
per la costruzione di varie componenti costruttive e la denominazione di tecniche murarie, come «opera gallica» e
«opera romanense», sulla quale hanno discusso gli studiosi. Rinvio per questi aspetti alle approfondite e articolate
osservazioni fatte a suo tempo da Ferdinand De Dartein58 oltre che allo studio esauriente che ne fece nel 1920 Ugo
Monneret de Villard.59 Rimane aperto invece il problema etimologico del termine commacinus, che ha impegnato
studiosi di storia dell’architettura e dell’arte, storia del diritto, storia economica, linguistica, almeno dal XVII secolo. Nella
parola commacinus si era imbattuto già nel 1655 lo storico del diritto olandese Hugo Grotius, commentando le leggi di
Rotari rilevava la somiglianza del termine comacinus con il germanico Gemachin, cioè architetto.60 Fu Ludovico Antonio
Muratori, che pubblicò l’editto di Rotari nel primo volume dei Rerum Italicarum Scriptores, ad indicare come spiegazione
più logica il riferimento di commacinus ad una connotazione geografica, sulla scorta delle denominazioni antiche,
sebbene non univoche, relative all’area di Como.61 Da quel momento non vi sono state sostanziali obiezioni a questa
interpretazione, fino al commento al Codice Diplomatico Longobardo pubblicato nel 1853 a cura di Carlo Troya,62 il
quale proponeva invece una derivazione di commacini dal goto *gemakijns e lo metteva in relazione con l’impiego da
parte di quelle maestranze di machinae o macinae, cioè di ponteggi per la costruzione (e quindi cum-machinis o cum-
macinis, termini dai quali deriverebbe la lettura commàcini invece di commacìni), sulla scorta della indicazione fornita
dalle Etymologiae di Isidoro di Siviglia a proposito dei maciones: «Maciones dicti a machinis in quibus insistunt propter
altitudinem parietum.»),63 da cui derivano il francese maçon e l’inglese mason. Questa proposta fu ripresa da Ugo
Monneret de Villard, il quale in due saggi molto eruditi, come abbiamo visto, rigettò decisamente l’indicazione geografica
a spiegazione dell’aggettivo commàcino per privilegiare quella professionale data dall’impiego di macchine e constatava
la presenza nel 739 a Tuscania, nel Lazio, di un Rodpertu magister commacinus, oltre che di magistri commacini a Salerno
nel 1058.64 Monneret rifiutò anche l’ipotesi che nei testi longobardi sia possibile riconoscere l’esistenza di una
corporazione di maestri costruttori e tantomeno di un residuo delle leggi che nell’antichità romana regolavano il
funzionamento dei collegia fabrorum. 65 A queste ipotesi aderì ben presto lo storico dell’arte Mario Salmi, che in due
successivi interventi66 segnalava, in modo non molto generoso, come la regione comasca non possedesse tra XI e XII
secolo monumenti di grande qualità formale e costruttiva, in rap Comacini, Campionesi, Antelami, «Lombardi». Problemi
terminologici e storiografici 19 porto ad altre città della pianura lombarda, come Milano e Pavia: in tal modo, riconosceva
alla maggioranza dei magistri commàcini testimoniati in varie aree geografiche, tra cui la Catalogna, scarse abilità
costruttive, limitate solo alla riproposizione di moduli decorativi diffusi in Lombardia; il Salmi ribadiva così l’opportunità
di abbandonare il termine «comacino» in favore di un generico «lombardo» che avrebbe rappresentato meglio la diversa
provenienza geografica degli artefici. Magister commàcinus rappresenta dunque per il Salmi un appellativo legato alla
professionalità, senza alcun rapporto con la regione di Como. La discussione su questo aspetto ha ben presto attirato
l’attenzione di linguisti come Pier Gabriele Goidànich, che in un breve articolo pubblicato nel 1940 rifiutava come
glottologicamente improponibile una derivazione di commacino da cum-machinis e, avvalendosi di una ricca
documentazione storica, indicava senz’altro la correttezza della identificazione geografica;67 diversi anni dopo Carlo
Cordié, in uno studio pure molto documentato e minuzioso tornava invece decisamente sulle posizioni di Monneret e di
Salmi.68 In anni molto più recenti è stato uno studioso di biblioteconomia, Andrea Cuna,69 ad affrontare la questione,
in riferimento al problema della definizione del soggetto sotto il quale schedare un vecchio articolo di Francesco Macchi
sui Magistri comacini. Il problema dunque rimane, dal momento che è probabile il termine commacinus sia giunto ad un
certo punto ad essere sinonimo di «costruttore», muratore; al tempo stesso però è certa la provenienza di maestranze
edilizie ed artisti dalla regione dei laghi lombardi almeno dall’alto medioevo fino all’età moderna, come d’altra parte già
affermava nel XVIII secolo Ludovico Antonio Muratori, quando a commento del termine commacinus scriveva: «Ancora
ai nostri giorni dai monti dell’Insubria, e in particolare dai laghi Verbano e Lario non pochi muratori migrano verso le
altre parti d’Italia.» La questione è stata affrontata nella sua complessità in due importanti contributi dallo storico
medievale Gian Pietro Bognetti, che in un saggio pubblicato nel 1961 aveva ripreso le ragioni delle due opposte tesi e
aveva provato a formulare una ipotesi che è molto ingegnosa, e proprio per questo credo che possa contribuire a
ricollocare la questione in termini più corretti. Tralascio l’ipotesi, proposta dal Bognetti dopo un sottile ragionamento,
circa una derivazione del termine dalla regione dell’Asia Minore chiamata Commagene (oggi appartenente alla Turchia)
attraverso l’immigrazione nell’area comasca di maestranze, e in particolare di carpentieri, già dopo la guerra gotico-
bizantina. Bognetti, che pure propende per le posizioni già espresse da Ugo Monneret De Villard, avanza un’ultima
ipotesi, a mio avviso molto acuta e convincente, secondo la quale il termine commacini usato nell’Editto di Rotari non
ebbe in origine un valore generale, ma costituiva l’appellativo dato a maestranze edili di origine comasca residenti nella
capitale Pavia, dove le leggi venivano scritte ed emanate. Il valore universale della legge avrebbe poi diffuso il termine
in tutto il regno; in tal modo, l’appellativo «comacino», da una iniziale determinazione di luogo si sarebbe esteso a
designare in senso generale i maestri costruttori.70 A simili conclusioni è arrivata in anni recenti la filologa tedesca Teja
Erb in un contributo importante, ma che tuttavia è sfuggito alla discussione su questo tema. La studiosa, dopo avere
affrontato le diverse possibilità lessicali ed etimologiche a partire dalla definizione dei lessici del Du Cange, del
Mittellateinisches Wörterbuch e di vari dizionari etimologici, affronta i diversi aspetti del problema e le diverse posizioni
sostenute dagli studiosi, per concludere che il significato generico di «costruttore» attribuito al termine «comacino» –
come peraltro, ad esempio quello del termine «norcino» (da Norcia) per indicare l’artigiano specialista della lavorazione
delle carni suine– non si dissocia per lungo 20 Saverio Lomartire tempo –e soprattutto alle origini, in concomitanza cioè
con la sua codificazione nel diritto longobardo– da una propria caratterizzazione geografica riferita all’area comasca,
come d’altra parte sembra essere avvenuto anche, in altro contesto, per l’appellativo «norcino».71 L’ipotesi è certo
audace, ma non è affatto priva di plausibilità. Non va però taciuto che, ben prima del Bognetti, essa era già stata avanzata
quasi un secolo prima da De Dartein, pressappoco negli stessi termini.72 Quello che importa a noi osservare è che in tal
modo emerge concretamente la possibilità di conciliare le due diverse posizioni interpretative relativamente al termine
«comacino». D’altra parte questo sembra essere precisamente il caso dell’altro aggettivo del quale ci dobbiamo
occupare, e cioè quello relativo ai Magistri Antelami. Sull’argomento disponiamo di una serie cospicua di documenti che
furono in parte pubblicati dal Bognetti in uno studio importante dal titolo significativo: I magistri Antelami e la Valle
Intelvi, edito nel 1940.73 In questo caso non vi è dubbio che il termine Antelamo, di cui Antelami sarebbe il genitivo, si
riferisce alla Valle Intelvi, che dalla riva occidentale del lago di Como si estende verso il Lago di Lugano mettendo il
collegamento le due aree geografiche, attualmente una italiana e l’altra svizzera. Già dai tempi del re longobardo
Liutprando maestranze di carpentieri intelvesi erano tenute a recarsi nella capitale Pavia per prestare la loro opera
all’abbazia di San Pietro in Ciel d’Oro, come risulta da un diploma di conferma di re Ugo del 929.74 Ma la comunità più
numerosa di magistri Antelami è presente nei secoli del medioevo e oltre nella città e nel territorio di Genova, dove essa
è radicata certamente dal XII secolo, come confermano molti documenti, e forse anche prima. Il caso dei magistri
Antelami genovesi è forse il meglio studiato tra quelli di cui ci occupiamo; agli studi di Bognetti, che hanno già
precocemente chiarito le dinamiche dell’insediamento di queste maestranze e il loro rapporto con le terre di origine, si
sono aggiunte fino ad anni recentissimi ricerche ulteriori,75 che hanno permesso di verificare la consistenza numerica
del gruppo, che già dalle prime fasi si mostra compatto e riunito in una specie di corporazione, fino ad epoche molto
recenti, per le quali la corporazione appare ormai consolidata da tempo. Lo studio sull’attività dei Magistri Antelami a
Genova permette di riconoscere, fin dalle sue prime fasi, il permanere di uno stretto rapporto con i territori di origine
nella Valle Intelvi e nelle zone circostanti, ai quali territori la documentazione scritta fa spesso riferimento.76 Gli studi
hanno evidenziato come a Genova l’appellativo «Antelamo»/«Antelami» si mantenga costantemente nel tempo e
assuma anzi valore antonomastico, così da designare l’attività di maestro muratore, di lapicida, di carpentiere.77 E
tuttavia è ancora possibile ritrovare nei documenti anche in epoche tarde, dal XV al XVIII secolo, traccia del continuo
afflusso di maestranze dalla Valle Intelvi e dall’area tra Como e Lugano, e anche del permanere di un rapporto costante
con quei territori.78 Quanto il termine Antelami valga a designare una corporazione di maestri costruttori è testimoniato
da una nota controversia che nel 1515 all’interno della stessa corporazione degli Antelami oppone i muratori agli scultori.
Questi ultimi infatti chiedono di poter formare una propria corporazione di scultori distaccandosi dal gruppo degli
Antelami, i quali, viene affermato, non mostrano particolare interesse per la scultura.79 Questo fatto può certo
sorprendere, se si pensa che il più famoso degli Antelami della prima generazione, forse anche appartenente al gruppo
degli Antelami genovesi, come è stato proposto80 è proprio quel Benedetto che a Parma si firma come scultor nella
lastra della deposizione nel Duomo e sul Battistero, e di quest’ultimo edificio con ogni probabilità è anche architetto.
D’altra parte, quello della migrazione di artisti dalla valle Intelvi, prima come lapicidi e muratori, poi come scultori e poi
come stuccatori è stato un fenomeno durato ininterrottamente, se ancora agli inizi del Novecento veniva pubblicato un
vademecum dal titolo «L’Emigrante Vallintelvese». È significativo osservare come elemento comune in questa vicenda
sia sempre stato, anche in epoche recenti, il rapporto con la terra d’origine, dove gli artisti sono sempre tornati quando
ne hanno avuto la possibilità. Ancora alla metà del Cinquecento Antonio Medaglia, l’architetto della basilica conciliare
di Santa Maria Maggiore a Trento, dichiarerà orgogliosamente in una propria sontuosa epigrafe la sua provenienza «a
Pelo Superiori Vallis Intelvi».82 Vorrei però citare un esempio più recente, anch’esso molto significativo. Risale a qualche
anno fa la morte in Valle Intelvi di uno degli ultimi modellatori della scagliola, cioè di una speciale tecnica di lavorazione
dello stucco, che in gioventù aveva lavorato per la decorazione del Reichstag a Berlino; l’artista ricordava ancora la visita
di Hitler ai lavori e l’invito rivoltogli a restare in Germania e a sposare una donna tedesca, invito al quale l’artista si era
sottratto. Tutto quanto si è constatato per la vicenda dei magistri Antelami potrebbe, per analogia, aiutarci a capire
meglio anche la questione dei Comacini. Ancora più chiara risulta la situazione per gli artefici che indicano la propria
provenienza da Campione, sul Lago di Lugano. È stato giustamente rilevato che il termine Maestri Campionesi
corrisponde ad una moderna categoria critica e non ad un termine impiegato in origine da questi artisti.83 Nondimeno,
l’appellativo trova riscontro in una precisa volontà di connotazione geografica e al tempo stesso segna il graduale
passaggio alla perdita del nome collettivo. Per un lungo periodo, probabilmente dalla seconda metà del XII fino al XIV
secolo, ma con esempi sporadici anche più tardi, si conservano infatti numerose testimonianze di magistri che
aggiungono al loro nome l’attributo de Campilione e in vario modo esibiscono un legame diretto con i territori d’origine.
Si registrano pochissime eccezioni a questa prassi, e tra queste si segnala il caso di Giovanni di Ugo da Campione, attivo
a Santa Maria Maggiore di Bergamo alla metà del XIV secolo, che si dichiara civis Pergami, esibendo una sorta di orgoglio
per avere ormai consolidato la sua appartenenza alla città nella quale aveva già lavorato suo padre, Ugo de Campilione.
84 Il caso dei Campionesi, grazie alle informazioni che ci forniscono numerosi elementi documentari ed epigrafici, si
presta bene ad una riflessione sullo status di queste maestranze, che sono in genere considerate itineranti, e certo
dovettero prestare la loro opera al servizio di diversi committenti, ma che tuttavia in alcuni casi intrattengono con grossi
cantieri edilizi un rapporto duraturo, che può svolgersi nell’arco di diverse generazioni. Il documento più antico che ci
fornisce notizie in questo senso è il noto contratto (pactum) stipulato nel 1244 da Enrico da Campione con il cantiere del
Duomo di Modena.85 Tale contratto in realtà costituisce il rinnovo di un precedente contratto stipulato con lo stesso
cantiere dal nonno di Enrico, Anselmo da Campione, probabilmente verso la fine del XII secolo, e che aveva anch’esso
probabilmente una formulazione simile al documento del 1244 (fig. 4). Prima di tutto va evidenziata la natura particolare
del contratto stesso, che non entra nel merito delle opere che i magistri lapidum (come sono chiamati nel documento)
devono eseguire per il Duomo, ma parla solo dei salari. Questo documento, nel menzionare esplicitamente il precedente
pactum, rinvia probabilmente a parti del precedente contratto concernenti più nel dettaglio anche i lavori, limitandosi
invece a riprendere le parti che vanno 22 Saverio Lomartire aggiornate, come appunto quelle relative ai pagamenti.
Resta dunque la curiosità sulla distribuzione degli incarichi ai magistri e sulle modalità operative del cantiere; tuttavia, il
documento del 1244 presenta una serie di informazioni preziose per comprendere almeno in parte il funzionamento del
cantiere stesso. Verosimilmente tali informazioni potrebbero essere in via di principio applicabili, pur con molta cautela,
ad altri casi. Potremmo così riassumere gli elementi salienti del documento modenese:
1. Il contratto è stipulato tra il massaro, cioè l’amministratore economico del cantiere del Duomo e alcuni magistri
lapidum capeggiati da Enrico da Campione, il quale dichiara di essere nipote di Anselmo, suo nonno, che aveva stipulato
un contratto con il Duomo modenese forse verso la fine del secolo precedente.
2. Enrico è il più giovane tra i magistri presenti alla stipula, e tra questi vi è un fratello di suo padre. Enrico è figlio di
Otacio, all’epoca deceduto, che era figlio di Anselmo: probabilmente dunque Enrico ha ereditato la conduzione del
cantiere in quanto discendente in linea diretta da Anselmo secondo il principio della primogenitura.
3. I compensi pattuiti al tempo di Anselmo non sono più ritenuti adeguati ai tempi e devono quindi essere aggiornati.
Tali compensi sono più alti nei mesi di ottobre e più bassi negli alòtri mesi, certamente in conseguenza del fatto nella
bella stagione si lavorava sui ponteggi e per un maggior numero di ore.
4. Il salario è previsto in parte in denaro e in parte in alimenti. Ciò ricorda da vicino, secondo l’interpretazione di
Monneret de Villard, i «solidi vestiti» del Memoratorium de mercedis commacinorum longobardo.86
5. I magistri lapidum sono autorizzati a reclutare a loro discrezione dei socii, a condizione però che siano magistri della
loro arte, riservandosi continuativamente così il diritto di scegliere i propri collaboratori.
6. Di conseguenza, i magistri lapidum sottraggono ai committenti il diritto di reclutamento delle maestranze e al tempo
stesso assicurano permanentemente il controllo del cantiere alla propria famiglia. D’altra parte nel contratto è
addirittura esplicitato che, fin dai tempi di Anselmo da Campione, i magistri lapidum si impegnavano a offrire la loro
opera in perpetuum al cantiere del Duomo, che in tal modo si assicurava la presenza continuativa di manodopera per gli
interventi di completamento, ammodernamento e soprattutto per la manutenzione dell’edificio: un fatto questo non
isolato al caso modenese, come ha indicato circa vent’anni fa la storica Gina Fasoli.87
È interessante osservare come, anche dopo due generazioni, i magistri lapidum modenesi si dichiarano sempre de
Campilione episcopatus Cumani, a segnalare un legame fortissimo con i territori di origine, dove certamente posseggono
ancora dei beni e forse anche la famiglia, e dove tornano annualmente, come ha dimostrato Gian Piero Bognetti già per
i magistri antelami genovesi88 e come accadrà in altri casi, anche in seguito.89 Vale la pena di osservare a questo
proposito che il possesso di terreni nei luoghi di origine (e non solo, nel caso) poteva anche servire agli artefici come
garanzia di impresa nel rapporto con la committenza.90 Quanto all’entità dei lavori pattuiti tra le maestranze campionesi
e l’amministratore del Duomo di Modena, anche se, come abbiamo visto, il contratto non è esplicito, una serie di studi
ha contribuito progressivamente, soprattutto nel corso del XX secolo, a riconoscere i più importanti interventi effettuati,
già a partire dalla seconda metà del XII secolo e poi in maggior misura nel corso del XII secolo, all’edificio iniziato
dall’architetto Lanfranco nel 1099 e che doveva essere praticamente concluso verso la metà del XII secolo. Giova qui
rinviare alla Comacini, Campionesi, Antelami, «Lombardi». Problemi terminologici e storiografici 23 nutrita bibliografia
su questo aspetto, che ha via via chiarito come l’intervento campionese, avviato con l’allestimento del cosiddetto
pontile, simile agli esempi di jubés francesi e ascrivibile probabilmente ad Anselmo da Campione, abbia avuto come
fulcro la risistemazione dell’area presbiteriale dell’edificio e si siano progressivamente estesi alla facciata e alla
riconfigurazione dell’intera compagine interna anche con il ricorso ad ampie stesure di intonaco dipinto a motivi
architettonici, fino alla costruzione della torre campanaria, denominata torre Ghirlandina, che sarà conclusa nel 1322 da
un altro Enrico da Campione.91 Ma il caso del Duomo di Modena non è isolato nel panorama italiano: una situazione
paragonabile si ritrova nel Duomo di Trento, dove i lavori di costruzione della nuova Cattedrale sono avviati nel 1212
sotto la Guida di Adamo da Arogno (un piccolo villaggio sul passo che collega la Valle Intelvi al Lago di Lugano). Anche
qui una testimonianza epigrafica, cioè la lastra tombale di Adamo e della sua famiglia, fornisce informazioni di grande
interesse (fig. 5). Rinvio alla bibliografia per un esame dettagliato dell’iscrizione;92 vorrei solo sottolineare qui i punti più
significativi del testo. Viene detto che Adamo «incepit et construxit»: il doppio verbo non costituisce una ridondanza
retorica, ma indica tecnicamente che la costruzione venne iniziata da Adamo da Arogno, di cui si precisa l’appartenenza
alla diocesi di Como, e costruita sotto la sua direzione per alcuni anni sulla base di un progetto complessivo riguardante
un nuovo edificio, e non la eventuale rielaborazione dell’edificio precedente. Si aggiunge infatti che Adamo costruì,
mostrando grande competenza (e quindi anche forse partecipando alla progettazione), l’intero perimetro con tutte le
sue componenti (appendiciis) esterne e interne, e che il lavoro fu proseguito dai suoi figli e poi dai suoi nipoti. Siamo
dunque di fronte ad un altro caso di gestione continuativa del cantiere da parte di generazioni successive di una stessa
famiglia di costruttori; in tal modo potremmo anche immaginare che Adamo avesse stipulato un contratto che
impegnava la sua famiglia a lavorare nel cantiere di Trento in perpetuum, come abbiamo visto a Modena. D’altra parte,
anche per le epoche successive numerosi documenti testimoniano la presenza per lungo tempo di costruttori provenienti
dall’area di Como per il Duomo e per edifici del territorio di Trento. Abbiamo già citato il caso dell’intelvese Antonio
Medaglia per Santa Maria Maggiore nel XVI secolo, ma le testimonianze si susseguono almeno fino al XVIII secolo.93 I
documenti relativi al Duomo permettono di capire che vi fu un avvicendamento, tra XIII e XIV secolo, tra i discendenti di
Adamo da Arogno e alcuni magistri de Campilione, i quali ad un certo punto avranno anche il controllo finanziario del
cantiere, con la gestione diretta di molti beni terrieri della cattedrale; un dato questo che mette in evidenza una forte
attitudine imprenditoriale di questi artefici.94 Un dato importante è rappresentato dal fatto che l’avvicendamento delle
maestranze campionesi al cantiere del Duomo di Trento è da intendere come strettamente connesso ad una attenta
politica di relazioni familiari e più in generale di parentele. Sono stati di recente studiati e correttamente interpretati i
documenti che provano i legami di parentela tra gli eredi di Adamo da Arogno e la famiglia degli scultori e costruttori
provenienti dall’area comasca e luganese, i Bigarelli di Arogno, attivi a Lucca, a Pistoia, a Pisa già dal XII secolo. In
particolare, intorno al 1240 Guidobono Bigarelli sposerà una nipote di Adamo da Arogno e per un certo periodo si
sposterà a lavorare a Trento.95 Il più noto rappresentante della famiglia Bigarelli è certo quel Guido Bigarelli «da Como»
(con una indicazione geografica generica, che privilegia però in modo significativo Como con riferimento alla diocesi)
figlio di Bonagiunta e attivo, fra l’altro, in imprese importanti al pulpito del Battistero di Pisa, a San Bartolomeo a Pistoia
e al Duomo di Lucca.96 Anche per le opere di Guido da Como sono possibili confronti con sculture del Duomo di Trento,
ma qui vorrei proporre di riconoscere la paternità di Guido Bigarelli o della sua bot 24 Saverio Lomartire tega in alcune
tarde sculture del Duomo di Modena, e in particolare il Cristo benedicente sopra il rosone della facciata (fig. 6), ad
indicare quale rete di stretti contatti e di scambi intercorra tra le maggiori imprese architettoniche di quest’epoca in
un’area geografica piuttosto ampia. Siamo di fronte, in altri termini, ad un diverso modo di intendere la pratica
professionale rispetto a quello della semplice appartenenza ad una corporazione, e che consiste in un continuo controllo
dei cantieri edilizi attuato principalmente attraverso legami di parentela, e talora anche con l’oculato allargamento del
cerchio della parentela, come abbiamo visto. Non vi è d’altro canto ragione per pensare che anche in altri casi, per altre
maestranze «comacine», le cose siano andate diversamente. Così, vedremo che a Bergamo nel corso del XIV secolo la
conduzione del cantiere di Santa Maria Maggiore passerà da Ugo da Campione al figlio Giovanni, e poi al nipote
Nicolino;97 e potremmo citare altri casi, fino al cantiere del Duomo di Milano, dove il «Collegio dei Deputati della
Fabbrica» che attuerà un controllo sulla costruzione e vaglierà i diversi interventi progettuali ed esecutivi sarà per lungo
tempo composto quasi esclusivamente da magistri originari dell’area comasca, tenendo strettamente le redini del
cantiere anche a costo di memorabili scontri con i diversi architetti, anche provenienti dal nord Europa, che si
avvicenderanno alla fabbrica soprattutto nelle prime fasi, sconfitti dall’ostruzionismo, questo sì corporativo, dei maestri
lombardi.98 Ecco che, in conclusione, siamo tornati al termine lombardus come aggettivo attribuito a magistri costruttori
e ad artisti. In fondo, le peculiarità che abbiamo osservato nell’esaminare i casi dei magistri commacini, degli Antelami,
dei Campionesi, sono diversi aspetti di un medesimo modo di far valere, da parte di quelle maestranze, competenze
professionali storicamente acquisite. Nel Duomo di Trento, un verso dell’epigrafe commemorativa dei lavori fatti
eseguire nel 1309 da Guglielmo di Castelbarco (fig. 7) vuole indicare, con l’espressione «per fabricum Cumani magistri»,
l’alta qualità delle opere edilizie realizzate non già riportando i nomi degli artefici, bensì ricordando che essi sono stati
eseguiti da maestri provenienti dell’area comasca.99 Possiamo ritenere che siano state una indiscussa abilità nel taglio
della pietra e nella costruzione a costituire il punto di forza per la fortuna delle maestranze lombarde in Europa nel
medioevo e oltre. Ma non dobbiamo dimenticare che, come abbiamo visto, ad una tale abilità si aggiungeva certamente
una riconosciuta capacità imprenditoriale. Il saper mettere a disposizione della committenza una competenza in diversi
settori, compreso talora perfino quello della gestione economica, permetteva a questi gruppi di maestranze, uniti da
vincoli di parentela prima ancora che corporativi, di garantirsi in molti casi l’assegnazione delle opere escludendo
eventuali concorrenti locali. I magistri lombardi sapranno di volta in volta assecondare le richieste dei committenti e
adeguarsi ai mutamenti di gusto, attraverso un aggiornamento continuo, anche eventualmente sulla produzione non
lombarda, come ad esempio quella toscana o transalpina che verso la fine del XIV secolo saranno espresse nel Duomo
di Monza da Matteo da Campione,100 o ripercorrendo in modo personale, e persino rinnovando e ibridando, le tradizioni
locali, come dimostra il caso dei lombardi attivi a Lucca e a Pistoia. Ma forse, si potrà obiettare, non è stato sempre così,
ricordando che l’appellativo «lombardus» ha potuto avere talvolta, nel medioevo e anche più tardi, una connotazione
negativa derivante dall’esercizio mercantile, finanziario e anche dalla pratica dell’usura. Uno studio recente ha mostrato
che nella Parigi del XIII secolo gli Italiani, e in particolare i Lombardi, Comacini, Campionesi, Antelami, «Lombardi».
Problemi terminologici e storiografici 25 occupavano l’area commerciale della città, sulla riva destra, e non l’area degli
artisti sulla riva sinistra. Anche il pittore senese Duccio di Buoninsegna, nei due anni in cui è documentata la sua presenza,
risulta risiedere nel quartiere commerciale della città; in modo molto significativo, egli è menzionato una volta come
«Duch de Sienne» e una volta invece come «Duch le Lombart»:101 e ciò a segnale non tanto una incomprensione
geografica quanto piuttosto dell’incidenza della presenza lombarda nella popolazione parigina del tempo. Verso la metà
del XIII secolo, poi, il più importante libraio parigino è un Nicola Lombardo che esercita con la sua arte con una notevole
abilità imprenditoriale che lo rende assai facoltoso.102 Per quanto riguarda il tema che più interessa il presente simposio,
possiamo aggiungere che il connotato negativo attribuito talora al termine lombardo è stato in passato espresso anche
con riferimento a certe realizzazioni architettoniche: ad esempio da Ugo Monneret de Villard o Mario Salmi,103 che
hanno giudicato, pur con diverso grado si severità, i maestri lombardi che poterono eventualmente prestare la loro opera
tra XI e XII secolo negli edifici della Catalogna come portatori di competenze tecniche di basso livello e sostanzialmente
incapaci di esprimere una reale qualità progettuale e formale. L’argomento è stato ripreso recentemente in un
interessante studio di Fernando Galtier Martí,104 nel quale si osserva come nella loro attività catalana i magistri lombardi
mostrino di non essere sempre stati all’altezza delle aspettative dei loro committenti, soprattutto per gli aspetti
strutturali. Ciò potrà certamente corrispondere al vero, in molti casi e non solo in Catalogna, sebbene appaia privo di
giustificazione ogni giudizio generalizzante. Ma giova chiedersi se il variegato repertorio delle componenti formali che si
diffonde con singolare omogeneità su una vasta area geografica nell’architettura già tra X e XI secolo –repertorio che in
fondo è un portato di saperi tecnici e di prassi edilizie e decorative non sempre e non necessariamente sottoposte ad un
esplicito indirizzo progettuale– non sia da sé un elemento sufficiente proprio per delineare invece un ruolo rilevante di
quei magistri, fossero essi veramente lombardi oppure no, nella formulazione di un nuovo linguaggio architettonico che
accomuna aree geografiche tra loro distanti e costituisce, pur con materiali costruttivi il più delle volte non pregiati, parte
importante di quel rinnovamento che Josep Puig i Cadafalch chiamava «Primer Art Romànic.» Il Raimundus Lambardus
che nel 1175 stipula l’interessantissimo contratto per il completamento di Santa Maria alla Seu d’Urgell potrà forse anche
avere portato quel cognome come indicativo di una competenza professionale, e non di una provenienza geografica. Ma
in questo caso avremmo difficoltà a spiegare allora nella Seu d’Urgell la corrispondenza con alcuni esiti dell’architettura
lombarda del XII secolo: a solo titolo di esempio potremmo citare l’analogia dell’articolazione esterna dell’abside della
Seu con quella del San Michele di Pavia (fig. 8). Tralascio il problema e rinvio agli studi che anche in questo volume
vengono presentati, anche se, per inciso, tengo a manifestare la mia propensione per un riconoscimento del termine
«Lambardus» soprattutto come indicativo di una provenienza geografica, probabilmente alla stessa stregua del
cognomen «Languard» testimoniato a livello documentario anche se in area catalana in epoca medievale.105 Il fatto che
i Lombardi già da tempo esportassero le loro abilità e le loro novità in Europa è d’altra parte ampiamente testimoniato,
anche al di là dei casi che abbiamo esaminato. Tra gli esempi che si potrebbero citare vale la pena di ricordare il caso di
quel Johannes «gente Lombardus arte pictor egregius» chiamato da Ottone III a dipingere a d Aquisgrana, e che Carl
Nordenfalk ha proposto di identificare nel cosiddetto Maestro del cosiddetto Registrum Gregorii prodotto a Treviri.106
Oppure quel Nivardo «pictorum peritissimo a Langobardorum regione ascito» al quale NOTE 26 Saverio Lomartire l’abate
Gauzlin chiese agli inizi dell’XI secolo l’esecuzione di alcune opere, tra le quali una grande croce, per l’abbazia di
Fleury.107 L’abate piemontese Guglielmo da Volpiano potrebbe poi avere portato con sé artisti e lapicidi lombardi per
la costruzione di Saint-Bénigne a Digione.108 Né si potrà tralasciare la notizia trasmessa dagli Annales Rodenses che
ricordano che la costruzione del monastero di Klosterrat fu condotta, agli inizi del XII secolo, «schemate langobardino»
e forse proprio da maestranze lombarde.109 Allo stesso modo si dovrà ricordare che per la costruzione del Duomo di
Spira Corrado II potrebbe essersi avvalso di maestranze lombarde, come avvenne verosimilmente per la costruzione del
Duomo di Lund nel XII secolo.110 In un memorabile saggio Erwin Kluckhohn esaminò poi il ruolo della scultura italiana
(rappresentata da esempi sostanzialmente tutti lombardi) per lo sviluppo della scultura tedesca nel XII secolo,111 per
non parlare poi delle presenze lombarde nel Duomo di Coira e dei problemi da tempo dibattuti ad esempio circa le
sculture sulla facciate di Saint-Gilles-Du-Gard.112 L’elenco potrebbe continuare, con un incremento delle testimonianze
per le epoche più recenti; vorrei solo ricordare che Ernst Guldan studiò a suo tempo l’espansione in Europa dell’opera
delle maes tranze lombarde nel XV e nel XVI secolo usando ancora il termine «Maestri Comacini».113 Ma non vorrei qui
dare l’impressione di voler contribuire inopportunamente al mito, già contestato da Porter114 dei Magistri Comacini.
Certamente lo scopo della ricerca attuale e futura deve invece essere quello di sottrarre il fenomeno della espansione
dei lapicidi e degli artisti lombardi in Europa dalla sua plurisecolare dimensione mitica e di restituirlo a quello della verità
storica. Ma per raggiungere questo obiettivo è necessario che vengano esaminati e messi in discussione anche, e direi
soprattutto, proprio gli elementi che avevano causato la formazione del mito. Potremmo allora concludere con le parole
di Teresio Rivoria, il quale, parafrasando De Dartein, individuava in questi maestri, che chiameremo ancora una volta
Comacini, una indole «ad emigrare dai loro paesi nativi, a fine di recarsi in isquadre ovunque si stia per intraprendere o
si siano intrapresi lavori edilizi, sospinti dall’aridità di un suolo montagnoso, dall’amor di lucro, dall’ingegno innato e dal
carattere intraprendente».

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