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RENATO BARILLI
Dispense del corso di Storia delle arti applicate in età contemporanea
Biennio specialistico in storia dell’arte, a.a. 2006-7
non troppo dettagliate. Incontriamo insomma per questo verso una conferma
del grande fenomeno che vede l’arte, in tutto l’Occidente, rinunciare al
mimetismo fedele e puntuale che pure aveva interessato tutti i secoli della
modernità, fino agli Impressionisti. Inutile dire che questi, con Monet in testa,
sarebbero riusciti pessimi pubblicitari, e del resto avrebbero sdegnato un
coinvolgimento su questo fronte, ritenendo che il loro compito prioritario
forse ancora di dare un ritratto conforme e veritiero della realtà esterna, a
sfida della fotografia. Invece l’affiche non è il frutto di un processo
fotografico, bensì richiede che si compili una matrice essenziale, schematica,
tale da sostenere una “tiratura” secondo le regole del grande numero.
L’introduzione della scansione delle immagini attraverso il retino
fotolitografico sarà il mezzo che consentirà questo alleggerimento delle
immagini dalla pesantezza naturalistica, il che suonerà anche a conferma di
quanto fosse importante la proposta di Seurat e del suo divisionismo. Ora,
insomma, le immagini devono sottostare a procedimenti riduttivi, che le
riportano allo statuto di icone appunto astratte, stilizzate, smagrite, col che la
nostra sapienza occidentale riscopre un interesse verso le varie soluzioni,
lontane nel tempo (il mosaico bizantino) o nello spazio (le stampe giapponesi)
che in tempi di modernità avevamo disprezzato, considerandole indegne ed
evasive rispetto ai sacri compiti di registrazione fedele dell’esistente che ci
eravamo dati. Beninteso queste immagini ridotte si prestano a diverse
possibilità: possono ricevere il valore aggiunto dei linearismi sciolti, molli,
estenuati, che della stagione del Liberty sono stati la cifra caratteristica,
quando si rinunciava a ritrarre il velo di Maya steso sulle cose, cioè la loro
epidermide fenomenica, si voltava le spalle alla natura naturata per andare ad
abbeverarsi alle fonti della natura naturans, e si cercava così di approfittare
dei suggerimenti che ci venivano da fiori, piante, animali. Si scopriva che la
natura esclude le linee troppo regolari, l’angolo retto e la circonferenza,
mentre ama i tratti sinuosi, ellittici, ovoidali, lanceolati. Ne veniva il
fitomorfismo, ovvero il florealismo , che di quella stagione fu il frutto più
appariscente, autorizzando anche noi posteri, forti del senno del poi, a dire
che forse gli artisti, gli operatori culturali in quella stagione avevano già
qualche presentimento della presenza dei fenomeni elettromagnetici. Il
florealismo, infatti, può essere visto come l’anticamera inconsapevole di un
elettromorfismo di là da venire.
Ma veniamo dunque, come è nel proposito dichiarato, ad accertare la
presenza di fatti similari in ambito italiano, senza alcuna difficoltà, dato che il
Liberty, come si volle chiamarlo da noi, fu davvero una coiné partecipata da
tutti i Paesi dell’Occidente, indistintamente. Potremmo aprire questa sfilata
campionaria col manifesto elaborato da un artista di prima categoria,
Leonardo Bistolfi (1859-1933), solitamente impegnato nella produzione di
solenni monumenti cimiteriali volti a celebrare i meriti e le glorie degli illustri
estinti, e infatti di lì a poco sarebbe stato incaricato di progettare il
monumento enorme che i Bolognesi vollero dedicare a Giosuè Carducci alla
sua morte. Ebbene, un artista così titolato, perfino in accezione retorica, non
disdegnò affatto di elaborare un manifesto richiestogli peraltro per
un’occasione di grande peso, la Prima esposizione internazionale d’arte
decorativa moderna che si tenne Torino nel 1902 (f. 19, evento che in
qualche modo sanciva solennemente la fine della discriminazione tra il
maggiore e il minore, e il fatto che un artista solitamente impegnato in
un’attività maggiore e massimamente dignitosa si prestasse a quel compito, è
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del tutto indicativo del fenomeno della caduta di false gerarchie, su cui stiamo
insistendo. Nella sua opera grafica Bistolfi proponeva delle vergini di
ascendenza preraffaellita, delle sacerdotesse ben degne di celebrare un Ver
sacrum, i cui candidi pepli si sviluppavano in nastri svolazzanti, a pieghe
sinuose, così da tracciare una cifra altamente simbolica di tutto quel clima di
gusto. Ma accanto a lui erano all’opera degli specialisti, cioè dei grafici
pubblicitari che non osavano affacciarsi in attività maggiori. Il più arretrato
negli anni era Alfred Hohenstein (1854-1928), di origine russa, di cui si può
vedere un’affiche per il Marsala Florio (f. 2), del 1898, dove a dire il vero
questo grafico sosta a metà del guado, ci sono due floride vendemmiatrice le
cui forme piene e sode si attengono ancora a un codice di sano naturalismo,
mentre il cartiglio entro cui si iscrive il nome della ditta reclamizzata è libero
di prodursi in eleganti ed estenuate volute, di perfetto gusto Liberty, capaci
magari di cambiare stato e di divenire agili motivi in ferro battuto per una
cancellata o una balaustra. Più giusto negli anni per appartenere alla
congiuntura simbolista appare Leopoldo Metlicovitz (1868-1944), di cui a
dire il vero riportiamo un manifesto, dedicato a celebrare gli eroi del lavoro,
che è già un po’fuori delle acque cronologiche del Liberty, quando si sente il
bisogno di rafforzare la muscolatura, la plastica dei corpi, come del resto è
richiesto dal tema stesso (f. 3). Ma i profili dei due atletici simboli della
classe operaia restano ancora abbastanza serpeggianti e tortuosi. Metlicovitz
poi vale a ricordarci che tra i nuovi prodotti da segnalare al pubblico ci sono
ormai anche i film, i frutti della nascente industria cinematografica, su cui
non ha mancato di gettarsi quell’avido sperimentatore del nuovo, in perfetta
linea coi requisiti della stagione simbolista, che è stato Gabriele D’Annunzio,
pronto infatti a darci, nel 1914, Cabiria, per il cui lancio Metlicovitz elaborò
un’affiche dominata dalle spire di una fiamma del tutto ossequiente al codice
dell’à plat propugnato da Gauguin, anche se poi da quel fiotto liquido
sembrano materializzarsi delle braccia pesanti che a loro volta conducono a
una figura anch’essa un po’ troppo in carne (f. 4). Ma questo corrisponde alla
tendenza prevalente, nei primi due decenni del Novecento, che vedono
un’uscita netta e repentina, o invece cauta e strisciante, dai dettami di una
stilizzazione schiacciata, assolutamente intonata alla flatness, verso il
recupero più o meno accelerato della terza dimensione, fino a giungere agli
schemi massimamente fermi e solidi delle macchine.
Un personaggio che transita lungo questa via è Leonetto Cappiello, come
dicono del resto i suoi stessi dati anagrafici (1875-1942) che si lasciano ormai
abbondantemente alle spalle gli anni Sessanta, di nascita dei Simbolisti, per
muoversi verso l’assai più grintosa soglia degli Ottanta. Questo artista
oltretutto che anche agli inizi del nuovo secolo Parigi continua ad esercitare
un’attrazione fatale sugli artisti di tutta Europa, compresi i nostri. Giunto
nella Ville Lumière, inizialmente egli vi si conforma ai suggerimenti fluenti e
rigorosamente piatti di Mucha e Toulouse-Lautrec (Musica e musicisti, 1901,
f. 5), ma poi, come vuole appunto la sua schedina biografica, si sposta verso
forme più piene e rotondeggianti, avvicinandosi al clima dell’Art Déco.
Ma allora non c’era bisogno di passare in Francia, dato che l’Italia offriva
eccellenti ditte per la stampa di manifesti pubblicitari, come per esempio la
Ricordi di Milano. Questo per riconoscere che l’attività pionieristica dei già
menzionati Hohenstein e Metlicovitz non cadeva certo nel vuoto, e anzi era
destinata a produrre uno splendido erede nella persona del triestino Marcello
Dudovich (1878-19629, ma attivo prevalentemente a Milano, con puntate a
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e dunque per lui l’arte deve essere utile, manifestarsi attraverso quel macro-
utensile che è l’edificio, concepito sul metro di una nuda e spoglia
funzionalità, ereditando in pieno il detto pronunciato circa un decennio prima
dall’architetto austriaco Adolf Loos secondo cui l’ornamento è un delitto. Per
Gropius tutte le altre arti devono fare saggiamente corona a questo primato
della funzione abitativa, rinunciando ai piaceri effimeri del colore e a tante
altre manifestazioni sensuose. Chi viene alla sua corte deve già credere in una
sorta di precoce “morte dell’arte”, che quanto meno non può pretendere di
avere fini autonomi, ma deve rendersi utile al funzionamento del
macroutensile globale. Per questa ragione Gropius, come si è visto a suo
tempo, predilesse su tutti l’ungherese Laszlo Moholy Nagy, pronto a
rinunciare al fascino dei pigmenti cromatici a favore del bianco e nero
fotografico, o dello scintillio dei metalli, preferiti ai vecchi materiali plastici.
Questo artista avanzatissimo si spinse fino a concepire la possibilità di
affidare un intervento artistico alle telecomunicazioni, inviando per via
telefonica o telegrafica delle indicazioni progettuali che il ricevente avrebbe
dovuto materializzare. Al Bauhaus giunsero anche Wassily Kandinsky e Paul
Klee, che però ebbero più difficoltà ad aderire a un simile programma
restrittivo delle libertà espressive concesse ai fatti di ordine grafico-
cromatico. Kandinsky era stato l’intrepido cultore di una via completamente
diversa, di affondo nelle profondità dei fenomeni biologici, negli intrichi dei
tessuti organici, facendosi capostipite di una linea biomorfa assolutamente
antitetica all’allora trionfante meccanomorfismo. Tanto è vero che per poter
stare alla corte del Bauhaus egli dovette sottoporre il suo repertorio a una
sorta di restyling, sopprimendo le creste dentate, le ciglia vibratili, i profili
sbisciolati delle sue cellule amebe attraverso un processo di rettificazione,
finendo per adottare, seppure a fatica, il vecchio manuale euclideo del punto,
linea e superficie. E anche Klee, che pure con un piede era penetrato
nell’universo della ricostruzione plastica del mondo, dovette mettere qualche
sordina alla sua grammatica eterodossa e stravagante.
Se veniamo all’Italia, come è ben noto, il ruolo di competere col Cubismo
francese e di adottare anche presso di noi il meccanomorfismo spettò al
Futurismo, il cui padre fondatore, Marinetti, già nel celebre Manifesto
inaugurale predicava la bellezza e la preminenza dell’auto da corsa, ma poi
non mancava di inneggiare pure alla radio. Il più forte dei giovani che allora,
1910, accettarono di fare squadra con lui, Boccioni, muoveva anch’egli da
risentimenti di specie espressionista, e del resto non avrebbe mancato di
inneggiare per parte sua ai raggi X, ovvero a un’applicazione delle energie di
specie elettronica, di natura completamente estranea alla logica delle
macchine. Siamo giunto ad attribuirgli, nell’affiche redatta del 1909, un
anticipo addirittura dell’espressionismo astratto statunitense di tanti anni
dopo. Tutto ciò significa che i Futuristi, a differenza dei Neoplastici olandesi,
dei Suprematisti e Costruttivisti russi, e del clima complessivo del Bauhaus,
non accettarono mai a senso unico i codici spigolosi, aguzzi, rettificati del
meccanomorfismo, ma lo ibridarono spesso e volentieri con codici desunti da
altri ambiti, già alimentando un seppur oscuro intuito della famiglia opposta
degli elettromorfismi. Ma certo, finché il Futurismo si svolse nella sua prima
tappa, ubicata a Milano, dal 1910 al 1915 della nostra entrata in guerra, si
dedicò quasi unicamente a compiti di pura sperimentazione in laboratorio, nel
chiuso degli atelier, sdegnando i fini applicati. Poi quel clima di alta intensità
e di massimo rigore si disunì, sia per la morte precoce del capofila Boccioni,
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nel ’16, che però era entrato in una fase recessiva, sia per l’inversione di
cammino fatta registrare proprio in quel momento da Carrà, che dallo slancio
vertiginoso verso il futuro preferì fare marcia indietro e andare a rivisitare
soluzioni di stampo primitivista e brutalista, poi confluendo nella metafisica
da sempre proposta da De Carico. A Parigi anche Gino Severini, pur
continuando a praticare un’abile fusione tra istanze cubiste e futuriste,
assumeva pure lui forme regressive, inaugurando quello che si sarebbe detto
il “richiamo all’ordine”.
In quel momento l’”anziano” Giacomo Balla (1871-1958), che dalla sede di
Roma era stato un po’ alla finestra ad ammirare gli ardimenti dei più giovani
Boccioni e Severini, che al pari di Mario Sironi all’inizio del secolo erano
stati suoi allievi proprio nella Capitale, decise di prendere la testa del
movimento, mantenendo alta la bandiera dell’impegno sul futuro e
disprezzando invece le soluzioni revivaliste cui stavano indulgendo i più
giovani rimasti a Milano. Del resto, a sostenerlo in quest’azione protesa in
avanti, a Roma si trasferiva lo stesso capofila Marinetti, così in qualche nodo
decretando la fine della fase “milanese” del movimento e proclamando la
centralità ormai acquisita dall’Urbe, col compito connesso di non chiudersi a
riccio nel giro delle sue mura, ma di farsi propagatrice del verbo innovativo
presso tutte le comunità regionali e municipali del nostro Paese. Tutto ciò
significa che spettò a Balla, e al Futurismo in questa sua reviviscenza romana,
cui si usa anche dare il nome di Secondo Futurismo, rappresentare presso di
noi la fase neoplastica e costruttivista delle avanguardie internazionali,
occupare dignitosamente il ruolo che altrove stavano svolgendo i movimenti
di Mondrian o di Tatlin o del Bauhaus, marciando al passo con loro anche
nell’abolizione dei confini tra arte e arte, e soprattutto cancellando la
gerarchia tra il maggiore e il minore. Balla fu eccellente maestro di questa
fase seconda proprio in quanto nei suoi dipinti e bozzetti sparivano i confini
tra proposte da valutare in sé, allo stato puro, o invece idee per un edificio,
magari non proprio nella sua struttura esterna quanto piuttosto nella proposta
di arredo per interni, ivi compresi il mobilio, le carte da parato, l’utensilistica,
e perfino l’abbigliamento. Balla insomma si proponeva come superbo
conduttore di un’impresa integrata e globale. Non solo, ma non cedeva in via
univoca al modello neccanomorfo, bensì si faceva erede e continuatore di
quegli estri sinuosi, ameboidi, elettromorfi che già comparivano nella fase
eroica di Boccioni e compagni. Anch’egli, in sostanza, proponeva delle figure
costruite su solidi geometrici, che però non risultavano soltanto dalla
rotazione di forme rettangolari bensì anche di linee paraboliche, ellittiche,
comunque eccentriche. Balla in altre parole respingeva l’austerità di Gropius
e compagni, e il connesso impegno di proscrizione assoluta di motivi ludici,
ornamentali, fantasiosi. Il tutto trovò espressione in un binomio felice
formulato allora dall’artista torinese-romano, ormai capofila indiscusso di
quella fase di un Futurismo divenuto movimento popolare, quasi di massa, si
potrebbe dire, e non più di élite esclusivista. Questo binomio stava nel
raccomandare il “numero innamorato”, un’espressione che corrisponde
perfettamente a quanto, in retorica, viene detto un ossimoro, vocabolo di
incerta origine dal greco, che può significare o un palo dalla punta aguzza, o
forse meglio, un villano, un contadino ma dalla mente acuta, astuta. Si tratta
di un’abile strategia chiamata a far coesistere pacificamente dei contrari, in
modo che le virtù dell’uno si temperino con quelle dell’altro. Celebri ossimori
della tradizione sono il proverbio latino del festinare lente, cioè
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specie soffice. E dunque, l’artista non si esime dal progettare mobili, tavoli,
sedie (f. 11) di solida consistenza, come si addice appunto a un’umanità
ingegneresca, al passo col produttivismo industriale, ma senza neppure
negarsi qualche angolosità stravagante, e soprattutto qualche scacchiera
cromatica, seppure condotta a chiazze larghe, quasi per compilare una tuta
mimetica. Tutti i nostri oggetti devono indossare quella tuta, per entrare in un
grande concerto ambientale, per adattarvisi come tante tessere di un mosaico,
o di un puzzle gigante. Quel mobilio, infatti, deve sentirsi pronto a far corpo
con un’intera stanza che sia concepita nel segno di andamenti flessi, come se
fossimo chiamati a vivere dentro amebe gigantesche ( Progetto di salone, del
’18, f. 12). Per questa via, Balla anticipa sul gusto che di lì a poco verrà
battezzato, ancora una volta a Parigi, sotto l’etichetta dell’Art Déco. Tutto
deve concorrere a confermare quell’armonia ossimorica, concepita cioè nel
segno dell’incontro del rigido e del molle, anche i nostri abiti devono essere
della partita, ecco infatti che Balla progetta perfino un Gilet futurista (’24, f.
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a ricompattare, l’indumento essenziale per la toilette maschile di quegli anni.
E naturalmente a questo generale appuntamento con tutte le occasioni di
arredo e di decoro non può mancare neppure un umile, marginale accessorio
dell’eleganza dell’uomo, quale la cravatta (f. 14).
Si è già detto che una caratteristica della fase seconda del Futurismo sta in
una partecipazione plurale, ricca di presenze quasi innumerabili, mostre
recenti ne hanno via via allargato le schiere attraverso un censimento che
sembra davvero inesauribile, e che va a scoprire colonie minori o minime,
propaggini del fuoco centrale sparse un po’ dappertutto nel nostro Paese. Non
potremo certo tener dietro a tanta abbondanza di presenze, ma dovremo pur
riaffermare che ognuna di esse conferma il copione generale, tutte praticano,
seppure con ingegnosità variabile, l’ossimoro pronunciato da Balla, facendo
convivere le ragioni del rigore meccanomorfo con vivi sprazzi di fantasia, di
concessione al folclore, perfino al kitsch: Ma intanto ecco subito il
deuteragonista, il comandante in seconda, che Balla ebbe a fianco sulla
plancia di comando dell’intero movimento, Fortunato Depuro (1892-1960),
proveniente da una realtà periferica quale Rovereto nel Trentino, e del resto
mai interamente sradicato dalla terra d’origine, che tornava a frequentare
intervallandola alle presenze romane, e anche ad avventurose puntate in
America. Siamo con ciò a una variante della natura ossimorica del Secondo
Futurismo, i cui vari adepti cercavano di conciliare l’intrepido
internazionalismo, di cultori nostrani dell’arte concreta, di nudi e crudi
neoplasticismi, con vigorosi inserimenti di caratteri locali. Vogliamo dire con
questo che più o meno essi anticiparono un fenomeno assolutamente tipico e
dominante dei nostri giorni, cioè la fusione tra il globale e il locale nella
sintesi che si affida all’etichetta del “localismo”.
Un esame, anch’esso sommario, della produzione di Depero può cominciare
con Meccanica di ballerini, olio su tela del ’17 (f. 15), che già nel titolo
esibisce un evidente statuto ossimorico, in quanto il ruolo del ballerino è
votato all’ambito del piacere, della distensione un po’ pazza e inebriata, anche
se il rigore del mondo dei meccanismi la insidia, pretende di piegarla ai propri
stampi. In fondo, questo era un compito ammesso anche presso il Bauhaus,
che non poteva ignorare le espressioni corporali legate alla recita o appunto
alla danza, infatti vi abbiamo incontrato Oskar Schlemmer e Alexander
Shawinsky, coloro che si erano assunti proprio questo ingrato ufficio di
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nella sua scultura più nota, Forme uniche nella continuità dello spazio. Qui le
forme non sono uniche, c’è invece l’intervento di un’abilità modistica, si
sente la mano del sarto per signora, ma proteso a minimizzare le differenze, a
permettere anche alla rappresentante del sesso debole di frequentare
l’universo dei motori. E naturalmente viene meno pure l’intento neoplastico,
di ristrutturazione delle figure dalle radici, che agiva su Boccioni; ora
quest’immagine di forza e di risolutezza quasi prometeiche deve essere
fornita in versione quotidiana, “popolare”, per far presa su un vasto pubblico,
che non saprebbe comprendere un discorso più elaborato. Un commento del
tutto simile merita l’altro grandioso manifesto di Dudovich volto a
reclamizzare la pellicola Agfa (f. 38), e anche qui tocca alla donna condire il
messaggio pubblicitario con il suo sex appeal, che d’altra parte anche in tale
occasione è mantenuto in limiti di sobrietà. La donna si impone con un gesto
secco, essenziale, alzando il braccio in posa autoritaria, ma nello stesso tempo
aggraziata. L’abito la fascia, la essenzializza, pur non rinunciando a
continuarsi nei lembi di due scialli, che remigano nello spazio quasi per
dotare di ali questo personaggio, che ancora una volta può essere posto sulla
falsariga degli idoli espressi dal Futurismo, in fondo anche questa è
un’immagine “più bella della Nike di Samotracia”.
Pur essendoci dati il compito di riconoscere i giusti meriti delle affiches
uscite dai nostri laboratori, non possiamo non ammettere che la sede primaria
per questa ed altre manifestazioni di arte applicata resta pur sempre Parigi,
non a caso l’epicentro della nascita dell’Art Déco, il movimento che sancisce
quella che abbiamo detto essere la politica del doppio binario, per gli anni
Venti. Torniamo dunque sulla scena parigina dove domina, per quanto
riguarda proprio l’affiche, negli anni Venti, il personaggio di Cassandre,
pseudonimo di Adolphe Jean-Marie Mouron (1901-1968). Rispetto al nostro
Dudovich, c’è in lui una rinuncia quasi assoluta all’elemento antropomorfo, la
seduzione del messaggio pubblicitario è affidata più direttamente alla purezza
di elementi geometrici, come risulta da Etoile du Nord, del ’27 (f. 39), a
sostegno di una ditta di trasporti, i cui mezzi sono incitati ad affrontare le
lucide e rettilinee rotte espresse da binari implacabilmente scorrenti verso il
fondo, dominato da una stella, eponimo della ditta pubblicizzata. Ma
Cassandre è pronto a inserire in misura straordinariamente evidente lo scarto,
l’infrazione, il dirottamento che impedisce a quei binari di scorrere in
rigoroso e teorematico parallelismo. In primo piano ce ne sono alcuni che
curvano, che deviano dal retto cammino, in loro la ragione geometrica non
manca di avvertire un palpito affettuoso, indice, avrebbe detto Balla con piena
approvazione,di un delicato effetto perturbatore di innamoramento. Si veda
anche Ernest (f. 40), dell’anno prima, elaborato per una ditta di cappelli, sul
tipo del nostro Borsalino, che stava divenendo il terreno per esibizioni di
straordinaria maestria da parte di Dudovic. Ma mentre nel nostro
cartellonista, come si è detto sopra, l’ingombro del corpo umano domina
sovrano, qui la componente antropomorfa o è cancellata, o ridotta all’osso,
lasciandosi intravedere solo attraverso una rapida traccia di orbite oculari,
apparenti molto in basso, come occhi di gufo nelle tenebre, mentre quello che
conta è la forma massiccia, rotondeggiante del cappello, come fittone, come
cilindro orgogliosamente centrico, per quanto ami sdoppiarsi alla sommità
accennando a un motivo bifido, quasi si trattasse di due stick per labbra cuciti
insieme.
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Parigi, durante tutto l’entre deux guerres, resta polo d’attrazione, anche
dall’Italia, vi si trasferisce pertanto Severo Pozzati(1895-1983), che dalla
vicina Bologna aveva frequentato, assieme al fratello Mario, il clima austero e
severamente plastico della Metafisica. Ma, passato a Parigi, preferì adattare la
sua Musa alle soluzioni più allettanti e meglio pagate della grafica
pubblicitaria, da lui praticata sulle orme di Cassandre, e abbreviando anche il
nome in una sigla di pronta efficacia, Sepo. A lui si devono alcuni dei
migliori manifesti “tra le due guerre”, impostati seguendo le sobrie, sintetiche
virtù dimostrate dal maestro francese, ma vivacizzate da qualche sinuosità,
sempre nell’intento ossimorico, di cui noi Italiani fummo maestri a tutta
Europa, di conciliare il rigido col soffice. In una proposta come Il lavoro
d’Italia, del ’28 (f. 41), Sepo parte dal rigido, squadernando i fogli di un
opuscolo, con pagine acuminate come lamine. Già assai più ossimorico è
invece un manifesto del ’34, concepito per le Confezioni Tortonese (f. 42),
dominato dal motivo di una fettuccia che si srotola libera nello spazio, ma
attenta a non ingarbugliarsi troppo, mentre nello stesso tempo non manca di
far apparire una sorta di androide. L’ingegnosità sta proprio nell’economia di
mezzi con cui il richiamo figurativo viene posto in atto, come se venisse fuori
da sé, per effetto fortuito di quello snodarsi della pezzuola. C’è poi un
intervento che possiamo dire autoreferenziale o tautologico, in quanto Sepo è
chiamato a reclamizzare un Congresso internazionale della pubblicità (f. 43),
nel ’33, nel qual caso egli mette in campo il motivo arcuato di una calamita,
che corrisponde molto bene alla tipologia dei linearismi pronti a subire delle
flessioni, ma moderate e controllate. Inoltre il grafico sfrutta la nozione della
calamita non solo nella forma esteriore, ma anche nella sua funzione propria,
permettendole di attrarre a sé delle lettere in maiuscola e nei caratteri detti “a
scatola”, magnifica via per sfruttare l’elemento verbale, che di solito veniva
escluso dal mondo delle immagini. Si tratta insomma di un ardito ricorso al
lettering, nel quadro di un’ulteriore opzione a favore di una sorta di
iconoclastia, che quasi anticipa soluzioni di specie “concettuale”. Sepo,
purtroppo, vale anche a illustrare quanto sia da ritenersi fallace la vecchia
gerarchia tra il maggiore e il minore, con ruolo prioritario affidato alla pittura
pura. Infatti, invecchiando, egli è stato preso da una comprensibile nostalgia
per il paese d’origine che lo ha indotto a lasciare Parigi e a rientrare a
Bologna, dove ha abbandonato l’attività di grafico pubblicitario, pretendendo
di riqualificarsi, di recuperare la dignità già posseduta negli anni giovanili,
quando lavorava a fianco di Morandi, l’artista cioè si è rituffato in una pratica
pittorica, in cui tuttavia è apparso invecchiato, superato dai tempi, fermo a
modalità in ritardo sul passo del gusto, e decisamente inferiore ai brillanti
esiti riportati nell’ormai lontana stagione trascorsa sulla Senna.
Ritornando per un momento al clima anni Venti, questi vennero illustrati
molto bene, presso di noi, da un altro superbo affichista, Federico Seneca,
non distante nei dati anagrafici da Sepo (1891-19769. La sua collocazione
geografica nell’Umbria lo destinò fatalmente a lavorare per i prodotti
dell’industria dolciaria, e soprattutto cioccolatiera della Perugina, ne venne
insomma quasi l’obbligo di modulare delle forme di personaggi di colore,
come impastati o scolpiti in morbide masse di cacao, secondo quella tendenza
a gonfiare le sagome umane, a ricavarne dei bambolotti, o degli androidi, o
dei robot, coltivata negli stessi anni anche dai Secondo-futuristi capeggiati da
Depero. Seneca affrontava l’affiche con forti doti di plastico, quasi che fosse
un artigiano abituato a intagliare nel legno delle statuette di idoli di qualche
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rito esotico, sul tipo di quelle che di solito vengono prodotte nei paesi africani
e magari messe in vendita in qualche mercatino parrocchiale, sotto il
patrocinio delle missioni. Ma lo sappiamo, la maschera, il burattino sono tra
le modalità espressive dell’epoca (f. 44, 45).
E’ ora di chiamare in causa chi più di tutti ha attestato il volto serioso di
questo gonfio e forte plasticismo professato nei nostri anni Venti, Mario
Sironi (1885-1961), capofila del movimento tenuto a battesimo da Margherita
Sarfatti e da lei battezzato coll nome di Novecento, intendendo con ciò che le
proposte avanzate dai sette artisti da lei riuniti sotto tale bandiera
rappresentassero per antonomasia il clima del nuovo secolo. Risulta quindi
particolarmente apprezzabile che un artista così impegnato a far grande e
austero, nel nome di un ritorno alle severe origini di una romanità arcaica,
petrosa, monumentale, non sdegnasse, neppure lui, di cimentarsi nell’affiche,
anche se nel caso attraverso cui lo documentiamo si trattava addirittura di fare
la pubblicità a un organo assolutamente centrale per le sorti della modernità
quale la Borsa (f. 46). Anche al vociante antro delle negoziazioni e delle
transazioni affaristiche Sironi impone il motivo austero dell’arco romano, a
gara con quanto stavano facendo anche i nostri architetti del filone
monumentalista, come i già ricordati Ponti e Muzio e Piacentini, mentre
anche la folla in basso si agita con mosse cadenzate, quasi fosse fatta da una
schiera di automi.
Con ciò abbiamo ormai varcato il capo degli anni Trenta, in cui la musica
cambia. Si è già ricordato che proprio, nell’ambito trainante dell’architettura,
è l’ora in cui anche nel nostro Paese si impianta un cantiere degno dei
parametri del Bauhaus o in genere del Movimento moderno, si tratta della
Casa del Fascio che Giuseppe Terragni fa sorgere a Como, e altre eccellenti
figure dell’arte edificatoria si porranno su questa linea, come i già ricordati
Libera e Pagano, stabilendo un vivace dialogo con gli esponenti del filone di
segno contrario, intenti per parte loro a salvaguardare la peculiarità italiana
della politica del doppio binario, del tentativo di conciliare un funzionalismo
limpido e razionale con l’inserimento di vistose tracce del passato. Anche la
pittura e la grafica seguono il modernismo di Terragni, infatti sempre agli
inizi dei Trenta proprio tra Milano e Como si ha il cosiddetto Astrattismo
lombardo, con Mauro Reggiani, Manlio Rho, Mario Radice, Atanasio Soldati,
Carla Badiali. Se rientriamo nelle acque territoriali dell’affiche, sappiamo già
che per necessità funzionale il discorso pubblicitario non può rinunciare
facilmente a valersi di motivi iconici a favore di una grammatica astratta o
meglio concreta, fatta di puro geometrismo, ma certo l’impostazione del
manifesto può avvenire in modi più ariosi e scattanti. Lo dimostrano i
contributi di Marcello Nizzoli (1887-1969), che proprio all’inizio del
decennio, nel 1931, compila un manifesto per l’Annuale della marcia su
Roma (f. 47), risolto per intero attraverso forme aniconiche desunte dal
repertorio delle lettere o dei numeri, questi ultimi ovviamente in carattere
romano per stare al passo con la natura dell’evento celebrato. E così, i due
bracci di una “X” maiuscola che siglano il compiersi della misura cronologica
del decennio scattano limpidi, tesi, quasi come progetti per la costruzione di
un’edicola, a gara con le proposte convergenti del razionalismo di Terragni. Il
fatto che quest’affiche, così rispondente a un clima finalmente in regola con i
parametri del Movimento moderno, instauratosi in Italia con un decennio di
ritardo rispetto alle altre capitali europee, sia rivolta a celebrare il regime
fascista, è un attestato della larghezza mentale nel campo estetico di cui va
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dato atto alla dittatura mussoliniana. Questa non pretese mai di imporre,
almeno in materia di gusto, una soluzione unica, mentre ovviamente fu
duramente repressiva in ambito politico, punendo gli oppositori col confino, o
addirittura con l’assassinio. Ma quanto a idee estetiche, Mussolini non poté
mai dimenticare di avere alle sue spalle Marinetti e il Futurismo, e di aver egli
stesso inaugurato il movimento detto di Novecento, mentre a partire dal
Trenta si richiameranno a lui anche i funzionalisti della specie di Terragni o
gli astrattisti in pittura sulla scorta del loro miglior teorico, Carlo Belli. E non
è tutto, vedremo presto che ci sarà una variante rivolta all’elogio della civiltà
contadina. Quale Italia voleva il Fascismo? Un paese virilmente aperto alle
prospettive dell’industrialismo e dell’urbanesimo, o una comunità abbarbicata
alle sane radici del ruralismo? O una popolazione di eroi del lavoro, e magari
delle imprese coloniali, protese a raccogliere in eredità i simboli, i riti e miti
della romanità? Nizzoli, evidentemente, si poneva nella prima casella di
questo ventaglio di soluzioni, in cui era compreso anche un inno alla moda,
quale risulta da un suo manifesto del ’30, anch’esso affidato alla nuda
eloquenza di schemi geometrici, a triangolo o a capanna, ma d’altra parte
l’argomento in sé frivolo raccomandava anche che le ampie vele di questa
sorta di chiosco venissero bombardate con un picchiettio di quadretti, seppure
parcamente impostati sul bianco e nero (f. 48). E visto che ci troviamo su
questo fronte dell’opzione razionalista, cui non mancava una certa
accettazione da parte del regime, possiamo esaminare l’affiche di un
architetto tra i più limpidi promotori del clima rigoroso, di una tendenza che
potrebbe anche essere ricondotta a “stracittà”, parola d’ordine che entrava in
fiero contrasto col suo opposto, con “strapaese”, sorto invece a tutelare
l’Italietta contadina e municiplista. Libera, dunque, ebbe il compito, alla data
precoce del ’28, di stendere un manifesta per reclamizzare un Concorso
nazionale per l’arredo economico delle case popolari (f. 49), e dunque i
criteri di un funzionalismo severo, riduttivo, alla Bauhaus, si imponevano
sovrani, inducendo il progettista a esibire un austero allineamento di tanti
cubicoli, con monotona soluzione modulare, assolutamente schiva di
compiacimenti decorativi. L’economia veniva così propugnata a vantaggio
del grande numero, della possibilità di provvedere l’abitazione a tanti utenti,
di quel popolo, di quella massa proletaria che in qualche modo avevano
sollecitato la comparsa sulla scena europea delle fatali dittature
nazionalpopolari di destra, o della rivoluzione sovietica, a sinistra. Ma quelle
nude celle abitative, se garantivano buone condizioni igieniche ai loro utenti,
li condannavano anche a quella che poi si sarebbe detta una deprivazione
sensoriale. Possiamo usare il futuro perché queste soluzioni nel nome di un
funzionalismo economico e riduttivo risorgeranno e si diffonderanno ovunque
dopo le rovine della Seconda guerra mondiale, fino a provocare la reazione
che si porrà sotto l’egida del postmoderno.
Le due vie dell’architettura degli anni Trenta, il funzionalismo alla Terragni
e il monumentalismo alla Piacentini, trovarono una confluenza allorché il
regime fascista, ormai prossimo alla sua caduta, volle però dare al mondo
intero una solenne dimostrazione della sua grandeur approfittando del fatto
che la tradizionale Esposizione Universale sarebbe toccata, nel ’42, a Roma.
Per celebrarla nel modo più conveniente si volle creare di sana pianta una
città satellite alla periferia dell’Urbe, nacque così l’operazione passata alla
storia col nome di EUR, un quartiere edificato ex novo che ancora oggi è
gloria e vanto della nostra capitale, raggiungibile con un ramo di
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metropolitana. A dire il vero, la tendenza che vinse, dato che in definitiva era
la più amata dal regime, risultò essere quella alla Piacentini, volta a conciliare
l’arco con l’architrave, peraltro entrambi tra le tipologie costitutive della
romanità. Tutto ciò trova conferma nell’affiche concepita per questa grande
operazione da uno dei migliori architetti dell’epoca, Ludovico Quaroni (1911-
1987), consistente proprio nel presentare un lucido, scattante arco parabolico
(f. 50).
Ma c’era anche l’”altra” Italia, contenta di una collocazione strapaesana,
protesa a crogiolarsi al sole e a imbottirsi, possibilmente, di cibo, senza troppe
preoccupazioni per la linea. Di questa fu cantore Gino Boccasile (1901-1952).
Si veda una sua affiche per un abbronzante, la crema Berteli (f. 51). La donna
ben in carne che ostruisce lo spazio del manifesto proviene evidentemente
dalla tipologia di Dudovich, ma la massa muscolare non si mostra protesa
verso l’auto da guidare nel traffico, o nel gesto di ostentare una macchina
fotografica. Questa è un’immagine di riposo, il che giustifica la pinguedine
eccessiva della figura femminile, sorpresa nella beata fruizione aproblematica
di un’ora di sole. Boccasile cercherà di ignorare l’immane flagello della
seconda guerra mondiale abbattutosi sul nostro Paese, con conseguente
caduta del regime, e così, nel ’46, chiamato a reclamizzare un prodotto
Paglieri (f. 52), egli insiste nel proporci un’immagine muliebre che
evidentemente non vuole guardarsi intorno, prendere atto delle macerie,
interrogarsi su quale destino ci attenda. Quuesta creatura ama circondarsi di
un serto floreale di ruguadosa freschezza, ignorando che stanno per arrivare le
stagioni delle verdure surgelate o liofilizzati. Anche quando Boccasile mette
il suo talento al servizio di un congegno utile e funzionale, piuttosto che
appartenente al settore dei cosmetici, quale la Lama Bolzano per la rasatura
della barba (f. 53), con l’ottima idea di ricavarne i setti di una fisarmonica, la
mette però nelle mani di una presenza femminile troppo florida, ossequiente
ai canoni di una bellezza muliebre ormai tramontata.
Quest’Italietta strapaesana e fieramente trincerata nella cultura contadina
verrà via via condannata e respinta, da un Paese che sul finire degli anni
Cinquanta conobbe quello che venne detto il miracolo italiano, e, passato il
capo dei Sessanta, si avviò verso un industrialismo avanzato, conoscendo la
stagione del boom, della società affluente, ricca di merci. Le forme atticciate
e gonfie proposte da Boccasile non potevano più ottenere credito, bisognava
ritornare alle soluzioni scarne, tese, sintetiche al massimo, concepite da Sepo
nei Trenta (anche se lui di persona, rientrato nella sua Bologna, le stava
ripudiando a favore di un’attività “bellartistica” che a torto riteneva più
nobilitante). Chiuderemo il nostro rapido excursus lungo i fasti dell’affiche
esaminando alcune tappe del nostro cartellonista più prestigioso, e di più
continua presenza, nei decenni del dopoguerra, Armando Testa (1917-1992).
Per esempio, Facis, del 1954 (f. 54) per una ditta di confezioni maschili, e
infatti il manifesto accampa un’immagine maschile, ma asciutta, concepita
come una sottiletta, e posta in rapida marcia, nel nome di un attivismo
dinamico, cui diviene funzionale l’aver afferrato a volo, appunto, una
confezione, ugualmente schematica. E’ del ’60 un capolavoro assoluto di
Testa quale il manifesto per un amaro, aperitivo o digestivo piemontese, quale
il Punt e Mes, nel qual caso l’affichista si limita a visualizzare il concetto
stesso dell’unità accompagnata da una sua metà, così felicemente espressa
dalla denominazione della bevanda. Testa ritrova, nella scansione minimale,
ridotta all’osso, la forza sintetica di cui erano stati capaci ai loro tempi
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Cassandre e Sepo (f. 55). Ma già lo abbiamo detto, gli anni Sessanta sono
accaparrati dal consumismo e dalle confezioni industriali, caratteri che si
applicano anche ai generi commestibili, per i quali vale in primo luogo la
legge dell’inscatolamento. Tra poco partirà l’epopea della Pop Art, che con
un Andy Warhol avrà tra i compiti primari quello di elevare un monumento al
barattolo contenente la zuppa Campbell. L’Europa è invasa dalla “buona
carne Simmenthal”, che del resto risale già agli anni Trenta, il che sta anche a
ricordarci che in effetti c’è un filo conduttore, nell’architettura e nelle arti
applicate, che dai Trenta, scavalcata la cesura bellica, rimbalza e si diffonde
nei Cinquanta-Sessanta. Si sa che i vecchi canoni naturali attribuiti al
prodotto di macelleria sono legati al requisito della tenerezza, ecco dunque la
splendida idea di Testa, di sottoporre un tipico prodotto artificiale e
massificato che è la scatoletta Simmenthal alla prova del fuoco che di solito si
riserva ai prodotti naturali: la prova del taglio, andando ad aggredire col
coltello la scatoletta per vedere come si comporta (f. 56). Compito in genere
del valido grafico pubblicitario è di visualizzare i sentimenti condivisi dal
pubblico. Per esempio, se si vuole rendere il senso della morbidezza
accogliente di una poltrona, cosa ci può essere di meglio che il foderarla con
fette di prosciutto? (1978, f. 57). E’ talmente imperante, nella società dei
consumi e delle merci, il ruolo della persuasione pubblicitaria, che questa
travalica gli esiti bidimensionali propri dell’affiche e non di rado affronta
anche le tre dimensioni confezionando bambocci, robot, burattini pronti a
calcare le scene di spot pubblicitari affidati a brevi filmati o a sequenze video.
E Testa è stato eccellente nel creare una simile popolazione di automi, volti a
raccogliere la preziosa eredità dei nostri secondo-futuristi. Ecco un campione
tratto dalla fortunata serie relativa alle imprese di un caballero conquistador ai
danni di una vogliosa Carmencita (f. 58).
concettismo, gusto per il wit. Anche se, al solito, andando a vedere nella sua
costituzione fisica questo progetto, si nota ancora una volta che Sottsass non
si allontana di troppo da una scatola solida, ben sagomata. D’altronde anche il
contributo al clima Liberty recato dall’architettiura viennese di stampo
secessionista, da cui proveniva Sottsass padre, amava gli spigoli aguzzi,
anche se poi faceva scattare all’improvviso delle mosse devianti che
andavano a movimentare le pareti, magari tempestandole di motivi decorativi.
Anche la scatola di Sottsass junior ci appare traforata con travature che la
solcano in diagonale, magari ricordandoci le assonometrie che Ponti tracciava
sulle sue anfore. Del resto, queste gabbie traforate, sempre nell’ingegnoso
progetto del Nostro, servono anche come contenitori per ospitare dei corpi
semicilindrici, ripresi anche sul tetto a mo’ di soffitto a botte. Forse Sottsass
non si scatena mai come quando ci offre un progetto di Architettura
monumentale per la conservazione delle memorie nazional-popolari (f. 72).
Evidentemente, si sente provocato da quell’accenno al nazional-popolare che
rema in direzione del tutto contraria al suo bisogno di prezionismi, di
raffinatezze sofisticate, da riportarsi a una ascendenza neobarocca. Il blocco
dell’edificio si articola in bracci, piramidi, motivi zigzaganti, anche se attenti
a evitare la curva. Sottsass resta aderente a un linearismo di fondo, anche se
ama imprimergli delle svolte repentine. Notevole, per finire, un suo Progetto
per piazza monumentale (f. 73) che si schiera anch’esso in antitesi ai dettami
del Movimento moderno. Questo era a favore di una pianificazione
urbanistica totale, fondata sulla griglia delle orizzontali e verticali, che non
lasciava spazi di disimpegno, margini per la distensione e l’incontro
disinteressato dei cittadini, negava l’idea stessa che ci potesse essere un foro,
una piazza, intesa anche come luogo di conservazione delle memorie e
dunque chiamato a farsi “monumentale”, nel senso etimologico della parola,
che richiama a un ricordo del passato, di trascorse virtù. Un luogo,
evidentemente, da sottrarre alla tirannia del funzionamento economico e da
riservare invece a un’idea di spreco, di otium disinteressato. Il postmoderno,
invece, rilancia un simile bisogno quasi fisiologico di stabilire dei luoghi di
incontro, posti in grado di attrarre per il cumulo delle cariche ornamentali,
storiche, di memoria, di connotazione storica di cui sanno farsi portatori.
Sottsass affronta un tema del genere occupando l’area con delle sorte di
prefabbricati gustosamente policromi, in cui si può cogliere anche una
potenzialità ludica, e anche un carattere provvisorio, come fossimo in
presenza di una costruzione ricavata da un bambino utilizzando i pezzi di una
scatola dei balocchi.
Abbiamo visto che gli ardimenti di cui è capace Sottsass scattano, ma solo a
partire da griglie che restano ancora di specie quadrangolare. Per avere invece
una trasgressione completa, compiaciuta, ostentata di tutte le buone regole del
Movimento moderno basterà venire a Alessandro Mendini, che nasce nel
1931, quasi una generazione dopo Sottsass Jr. e a differenza di lui non deve
attraversare una fase di ossequio ai dettami del funzionalismo. Onde mettere
in atto questa sua ripulsa clamorosa, quasi urlata, di tutti i sacri canoni del
moderno, Mendini si rifà al maestro dell’avanguardia storica che fu il più
propenso a sviluppare una via di segno opposto rispetto alle soluzioni
neoplastiche e costruttiviste, dal Cubismo al Neoplasticismo. Si pensi al russo
Wassili Kandinky, che ebbe il coraggio di inaugurare la via del biomorfismo,
tuffandosi nelle profondità della vita oganica. Ma poi lo stesso Kandinsky era
venuto ad un onesto compromesso con l’altra famiglia spirituale, accettando
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