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RENATO BARILLI
Dispense del corso di Storia delle arti applicate in età contemporanea
Biennio specialistico in storia dell’arte, a.a. 2006-7

Presenze italiane dal Liberty al Postmoderno


1. Uscita dal Liberty
Il corso di quest’anno si collega a quello precedente continuandolo sotto
due aspetti. Intanto, riprende i tre snodi principali con cui quella trattazione si
chiudeva, dedicati in sequenza all’Art Nouveau (Liberty, Jugendstil,
Simbolismo), al clima del Bauhaus o in genere delle avanguardie
costruttiviste dei primi due decenni del Novecento, e infine all’Art Déco, ma
questa volta tali snodi vengono verificati in base ai fatti equivalenti
rintracciabili nell’ambito della cultura visiva italiana, laddove in precedenza
erano stati visti nel loro svolgersi in altri Paesi. Sempre poi lasciando
l’attenzione incentrata su fatti di casa nostra, ci si è proposti di completare il
tracciato storiografico giungendo fino in prossimità dei nostri anni. Va detto
che l’ambito delle arti applicate è enorme, già per la ramificazione delle
tipologie. Esso comprende infatti i vari prodotti delle industrie grafiche a
scopi pubblicitari e di intrattenimento, cioè l’intero ambio del cartellonismo, e
vi entra pure lo smisurati capitolo dell’utensilistica, la quale a sua volta
presenta uno scorrimento enorme dai piccoli strumenti di uso quotidiano fino
a quella sorta di macro-utensili che sono addirittura le proposte
architettoniche, e ci sta dentro, in appoggio a tali interessi, l’intero capitolo
dell’arredo di interni, con il connesso ambito delle arti decorative, per tacere
della moda. Non si potrà quindi pensare che questi appunti offrano un quadro
completo di orizzonti così vasti, mi limiterò a sondare alcune aree, e dentro ad
esse l’operato di alcune figure dominanti, facendo in modo che i loro apporti
personali lumeggino anche un percorso generale, con i movimenti oscillatori
che in genere li hanno caratterizzati.
Come si è visto l’anno scorso, un capitolo fondamentale in questo esame
delle arti applicate riguarda l’affiche, o in genere la grafica pubblicitaria,
comparsa in forze sul finire dell’Ottocento, di cui ci siamo limitati a
esaminare due protagonisti di grande spicco, apparsi sulla scena parigina, che
senza dubbio in quel momento era la ribalta più in vista e di maggiore
incidenza, nell’intero ambito dell’Occidente. Abbiamo visto i contributi
determinanti resi a questo capitolo da Henri Toulouse-Lautrec, nel cui caso
era già del tutto significativo il fatto che i suoi risultati stilisticamente più altri
non fossero da ricercare nei dipinti autonomi, proposti per le pareti dei
collezionisti, bensì gli elaborati da riprodurre in gran numero e da far apparire
sui muri della città, allo scopo di incitare i gusti del pubblico a frequentare,
per esempio, certi spettacoli piuttosto che altri. Accanto a Toulouse-Lautrec,
si era distinto in quest’attività uno dei tanti artisti accorsi nella Ville Lumière,
attratti dal ruolo che la città svolgeva allora in misura superiore a tutte le altre,
il ceco Alphonse Mucha. Riassumiamo gli aspetti fondamentali che
assicurano una grande importanza alla grafica pubblicitaria. Il loro sviluppo
implica che si sia già in una società industriale dominata dalla produzione di
merce in gran numero, la quale però richiede di stimolare nel pubblico il
bisogno di acquisto. Così come l’oggetto da imporre è ormai prodotto in gran
numero, allo stesso modo anche lo strumento cui è affidato il compito della
persuasione all’acquisto deve essere moltiplicato, concepito e stampato su
scala industriale, il che richiede l’elaborazione di forme asciutte, schematiche,
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non troppo dettagliate. Incontriamo insomma per questo verso una conferma
del grande fenomeno che vede l’arte, in tutto l’Occidente, rinunciare al
mimetismo fedele e puntuale che pure aveva interessato tutti i secoli della
modernità, fino agli Impressionisti. Inutile dire che questi, con Monet in testa,
sarebbero riusciti pessimi pubblicitari, e del resto avrebbero sdegnato un
coinvolgimento su questo fronte, ritenendo che il loro compito prioritario
forse ancora di dare un ritratto conforme e veritiero della realtà esterna, a
sfida della fotografia. Invece l’affiche non è il frutto di un processo
fotografico, bensì richiede che si compili una matrice essenziale, schematica,
tale da sostenere una “tiratura” secondo le regole del grande numero.
L’introduzione della scansione delle immagini attraverso il retino
fotolitografico sarà il mezzo che consentirà questo alleggerimento delle
immagini dalla pesantezza naturalistica, il che suonerà anche a conferma di
quanto fosse importante la proposta di Seurat e del suo divisionismo. Ora,
insomma, le immagini devono sottostare a procedimenti riduttivi, che le
riportano allo statuto di icone appunto astratte, stilizzate, smagrite, col che la
nostra sapienza occidentale riscopre un interesse verso le varie soluzioni,
lontane nel tempo (il mosaico bizantino) o nello spazio (le stampe giapponesi)
che in tempi di modernità avevamo disprezzato, considerandole indegne ed
evasive rispetto ai sacri compiti di registrazione fedele dell’esistente che ci
eravamo dati. Beninteso queste immagini ridotte si prestano a diverse
possibilità: possono ricevere il valore aggiunto dei linearismi sciolti, molli,
estenuati, che della stagione del Liberty sono stati la cifra caratteristica,
quando si rinunciava a ritrarre il velo di Maya steso sulle cose, cioè la loro
epidermide fenomenica, si voltava le spalle alla natura naturata per andare ad
abbeverarsi alle fonti della natura naturans, e si cercava così di approfittare
dei suggerimenti che ci venivano da fiori, piante, animali. Si scopriva che la
natura esclude le linee troppo regolari, l’angolo retto e la circonferenza,
mentre ama i tratti sinuosi, ellittici, ovoidali, lanceolati. Ne veniva il
fitomorfismo, ovvero il florealismo , che di quella stagione fu il frutto più
appariscente, autorizzando anche noi posteri, forti del senno del poi, a dire
che forse gli artisti, gli operatori culturali in quella stagione avevano già
qualche presentimento della presenza dei fenomeni elettromagnetici. Il
florealismo, infatti, può essere visto come l’anticamera inconsapevole di un
elettromorfismo di là da venire.
Ma veniamo dunque, come è nel proposito dichiarato, ad accertare la
presenza di fatti similari in ambito italiano, senza alcuna difficoltà, dato che il
Liberty, come si volle chiamarlo da noi, fu davvero una coiné partecipata da
tutti i Paesi dell’Occidente, indistintamente. Potremmo aprire questa sfilata
campionaria col manifesto elaborato da un artista di prima categoria,
Leonardo Bistolfi (1859-1933), solitamente impegnato nella produzione di
solenni monumenti cimiteriali volti a celebrare i meriti e le glorie degli illustri
estinti, e infatti di lì a poco sarebbe stato incaricato di progettare il
monumento enorme che i Bolognesi vollero dedicare a Giosuè Carducci alla
sua morte. Ebbene, un artista così titolato, perfino in accezione retorica, non
disdegnò affatto di elaborare un manifesto richiestogli peraltro per
un’occasione di grande peso, la Prima esposizione internazionale d’arte
decorativa moderna che si tenne Torino nel 1902 (f. 19, evento che in
qualche modo sanciva solennemente la fine della discriminazione tra il
maggiore e il minore, e il fatto che un artista solitamente impegnato in
un’attività maggiore e massimamente dignitosa si prestasse a quel compito, è
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del tutto indicativo del fenomeno della caduta di false gerarchie, su cui stiamo
insistendo. Nella sua opera grafica Bistolfi proponeva delle vergini di
ascendenza preraffaellita, delle sacerdotesse ben degne di celebrare un Ver
sacrum, i cui candidi pepli si sviluppavano in nastri svolazzanti, a pieghe
sinuose, così da tracciare una cifra altamente simbolica di tutto quel clima di
gusto. Ma accanto a lui erano all’opera degli specialisti, cioè dei grafici
pubblicitari che non osavano affacciarsi in attività maggiori. Il più arretrato
negli anni era Alfred Hohenstein (1854-1928), di origine russa, di cui si può
vedere un’affiche per il Marsala Florio (f. 2), del 1898, dove a dire il vero
questo grafico sosta a metà del guado, ci sono due floride vendemmiatrice le
cui forme piene e sode si attengono ancora a un codice di sano naturalismo,
mentre il cartiglio entro cui si iscrive il nome della ditta reclamizzata è libero
di prodursi in eleganti ed estenuate volute, di perfetto gusto Liberty, capaci
magari di cambiare stato e di divenire agili motivi in ferro battuto per una
cancellata o una balaustra. Più giusto negli anni per appartenere alla
congiuntura simbolista appare Leopoldo Metlicovitz (1868-1944), di cui a
dire il vero riportiamo un manifesto, dedicato a celebrare gli eroi del lavoro,
che è già un po’fuori delle acque cronologiche del Liberty, quando si sente il
bisogno di rafforzare la muscolatura, la plastica dei corpi, come del resto è
richiesto dal tema stesso (f. 3). Ma i profili dei due atletici simboli della
classe operaia restano ancora abbastanza serpeggianti e tortuosi. Metlicovitz
poi vale a ricordarci che tra i nuovi prodotti da segnalare al pubblico ci sono
ormai anche i film, i frutti della nascente industria cinematografica, su cui
non ha mancato di gettarsi quell’avido sperimentatore del nuovo, in perfetta
linea coi requisiti della stagione simbolista, che è stato Gabriele D’Annunzio,
pronto infatti a darci, nel 1914, Cabiria, per il cui lancio Metlicovitz elaborò
un’affiche dominata dalle spire di una fiamma del tutto ossequiente al codice
dell’à plat propugnato da Gauguin, anche se poi da quel fiotto liquido
sembrano materializzarsi delle braccia pesanti che a loro volta conducono a
una figura anch’essa un po’ troppo in carne (f. 4). Ma questo corrisponde alla
tendenza prevalente, nei primi due decenni del Novecento, che vedono
un’uscita netta e repentina, o invece cauta e strisciante, dai dettami di una
stilizzazione schiacciata, assolutamente intonata alla flatness, verso il
recupero più o meno accelerato della terza dimensione, fino a giungere agli
schemi massimamente fermi e solidi delle macchine.
Un personaggio che transita lungo questa via è Leonetto Cappiello, come
dicono del resto i suoi stessi dati anagrafici (1875-1942) che si lasciano ormai
abbondantemente alle spalle gli anni Sessanta, di nascita dei Simbolisti, per
muoversi verso l’assai più grintosa soglia degli Ottanta. Questo artista
oltretutto che anche agli inizi del nuovo secolo Parigi continua ad esercitare
un’attrazione fatale sugli artisti di tutta Europa, compresi i nostri. Giunto
nella Ville Lumière, inizialmente egli vi si conforma ai suggerimenti fluenti e
rigorosamente piatti di Mucha e Toulouse-Lautrec (Musica e musicisti, 1901,
f. 5), ma poi, come vuole appunto la sua schedina biografica, si sposta verso
forme più piene e rotondeggianti, avvicinandosi al clima dell’Art Déco.
Ma allora non c’era bisogno di passare in Francia, dato che l’Italia offriva
eccellenti ditte per la stampa di manifesti pubblicitari, come per esempio la
Ricordi di Milano. Questo per riconoscere che l’attività pionieristica dei già
menzionati Hohenstein e Metlicovitz non cadeva certo nel vuoto, e anzi era
destinata a produrre uno splendido erede nella persona del triestino Marcello
Dudovich (1878-19629, ma attivo prevalentemente a Milano, con puntate a
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Bologna e a Napoli. Con lui, come vogliono gli estremi anagrafici, le


tortuosità del Liberty si calmano decisamente, le sagome si spianano, forti
capitani d’industria, membri di una borghesia agiata e sicura di sé, occupano
la superficie planandovi con tratti fermi, magari già pronti ad ospitare una
giusta plasticità di forme (Fratelli Sanguinetti, 1905, f. 6). Ma ci fermiamo
qui, in questo rapido excursus delle tappe del cartellonismo pubblicitario,
pronti a riprenderlo più avanti, e proprio nel nome delle alte prestazioni
fornite da Dudovich.

2. Dal primo al secondo Futurismo


Intanto siamo giunti al fatidico 1909 in cui Filippo Tommaso
Marinettiarinetti fa uscire sul “Figaro” di Parigi, in francese, il suo manifesto
del Futurismo, curioso exploit, dal punto di vista editoriale, si stenta a capire
infatti come un quotidiano conservatore della Ville Lumière, qual è ancora
oggi quella illustre testata, ospitasse un testo incendiario, oltretutto elaborato
da un autore straniero, ancorché perfettamente acclimatato nella capitale
francese, e in possesso di una sciolta francofonia, in quanto cresciuto ad
Alessandria d’Egitto, da genitori fieri della loro italianità, pronti a
trasmetterla al figlio, ma anche convinti che il modo migliore di educarlo in
una città egiziana fosse quello, faute de mieux, di fargli frequentare il locale
liceo francese. Inoltre il padre di Filippo Tommaso, avvocato di successo,
aveva tra i suoi clienti degli emiri azionisti del “Figaro”, cui imposero, per far
piacere al loro legale di fiducia, di ospitare, magari obtorto collo, quello
scritto con cui il capitolo delle proclamazioni d’avanguardia toccava una vetta
insuperabile, quasi inaugurando un genere letterario autonomo, di cui per anni
Marinetti sarebbe stato cultore insuperabile, pronto, fino alla morte, ad
emettere con cadenza regolare dei gridi di battaglia, a scoccare delle frecce a
raggiera verso tutti i settori dell’orizzonte culturale. In quel magnifico esordio
Marinetti pronuncia, si può dire a nome dell’intera generazione dei nati oltre
il capo del 1870, e magari assai più prossimi agli ’80, un interdetto generale
contro la “linea a tourniquet”, escono cioè condannate le tortuosità, le
mollezze smidollate del clima Liberty, che il capofila del Futurismo dichiara
“vomitose”, nauseanti, tali da far venire il mal d’auto. Bisogna appunto
mettersi al passo coi tempi dell’automobile, che non per nulla viene dichiarata
più bella della Nike di Samotracia. Bisogna allontanarsi dalla natura, coi suoi
ritmi flebili, malinconici, nostalgici, raddrizzare il nostro cammino, ripudiare
il fitomorfismo a favore del meccanomorfismo.
Però la realtà ci dice che i giochi sono sempre più complicati di quanto ci
verrebbe voglia di definirli, Marinetti aveva davvero una visione ampia e
complessa, quasi nel senso etimologico della parola, volta ad abbracciare le
novità tecnologiche non solo di specie meccanica (auto, aerei, transatlantici),
ma anche discendenti dalle energie radianti, infatti lo vedremo ben presto
inneggiare alla radia, al femminile, piuttosto che al maschile radio, come è
entrato nelle abitudini linguistiche dei nostri giorni. Insomma, egli intuisce
che il meccanomorfismo e l’elettromorfismo si daranno battaglia, nel corso di
tutto il secolo.
Se poi veniamo all’attività di coloro che egli recluterà per dar vita a un
Futurismo di specie pittorica, ma solo all’altezza del 1910, se per esempio
andiamo a vedere che cosa faceva sul finire del primo decennio il magnifico
cavallo di razza della scuderia futurista, prima ancora che questa ricevesse un
battesimo ufficiale, cioè Umberto Boccioni (1882-1916), gli dobbiamo dare
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un certificato di generico espressionismo, come abbiamo appena fatto nel


caso di Dudovich. Ma soprattutto, a conforto della nostra impostazione
generale volta a cancellare tutte le barriere tra il maggiore e il minore, sta il
fatto che proprio un artista fiero della libertà d’espressione come Boccioni,
orgogliosamente proteso a tutelare il suo diritto a sperimentare il nuovo, non
esita, pure lui, a impegnarsi nell’affiche, certo, per guadagnare qualche soldo,
ma anche perché pienamente convinto della pari dignità da riconoscersi a
quella manifestazione d’arte applicata rispetto a quanto egli concepiva in
stato di purezza assoluta, nel chiuso del suo atelier. In fondo, in nome di
questa piena dignità e legittimità, e perfino autorevolezza, da concedere al
cartellonismo pubblicitario, egli avrebbe dovuto riconoscere di aver avuto in
Bistolfi un predecessore, temperando invece l’omaggio rivolto al caso di
Medardo Rosso, che essendo un postimpressionista, intento ad ammorbidire i
confini tra i corpi e l’abbraccio atmosferico, non avrebbe mai potuto, e in
effetti mai compì, lo stesso passo, andando a cimentarsi in qualche progetto
per affiche. Boccioni invece si impegna in una serie di immagini
promozionali per l’Automobile Club Italiano, allora alle sue prime battute; e
confeziona, per un’oscura occasione data da una mostra di artisti a Brunate,
nei pressi di Como, nel 1909, un manifesto straordinario, in cui due figure
allegoriche sembrano ancora impaludate nelle molli curvature del Liberty,
senonché quelle curve si torcono a gomito, si impennano, si inalberano, si
divincolano, proprio per manifestare un furore che anche Marinetti
approverebbe, in quanto in esso non c’è nulla di vomitoso, ma vi si coglie un
fiero spirito protestatario, come se tra quelle spire si dibattesse un mostruoso
pitone (f. 7). Siamo insomma in pieno espressionismo, in quanto l’attore
umano intende fare da sé, esprimere appunto una carica energetica interna,
senza chiedere solidarietà, compiacente cassa di risonanza al cosmo. I
riferimenti antropici si fanno piccoli piccoli, quasi spariscono, ovvero quelle
figure esprimono furori che si possono dire già astratti, o meglio concreti.
Boccioni è già a un passo dal proporci una sorta di Espressionismo astratto
con trent’anni d’anticipo rispetto a quanto faranno, negli anni Quaranta, gli
artisti della Scuola di New York.
Ma ormai, cronologicamente, siamo entrati nell’area storica dei
costruttivismi di specie meccanomorfa, se ci riferiamo al panorama
internazionale. Ad aprire questa strada è prima di tutto il Cubismo, con le
Demoiselles d’Avignon, faticosamente redatte da Pablo Picasso nel 1907,
seguito da Georges Braque e da una schiera di altri protagonisti minori. Con
ciò Parigi rilancia il suo ruolo di faro, nell’intera Europa, e infatti verso di
essa guarda l’olandese Piet Mondrian, nell’impostare la sua operazione che si
richiamava molto opportunamente alneoplasticismo; infatti si tratta proprio di
rimodellare le cose secondo gli schemi della macchina, sottoponendole a una
specie di neoplasia, di deformazione tumorale, che però in questo caso
intende essere benefica, ispirarsi alla misura sicura, impassibile, altamente
funzionale, razionale, della macchina. E verso l’esperienza cubista guarda
pure il Suprematismo di Kasimir Malevic, come anche il movimento
inaugurato, nella Russia ormai alle soglie della Rivoluzione d’Ottobre, da
Vladimir Tatlin, col movimento che si richiama proprio al Costruttivismo.
Ma, per stare entro i termini del nostro percorso, sappiamo che un simile
clima è sancito nel modo più integrale dalla nascita del Bauhaus di Walter
Gropius, nella prima incarnazione avvenuta a Weimar nel 1918, cui seguirà il
trasferimento, e potenziamento, a Dessau. Gropius è prima di tutto architetto,
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e dunque per lui l’arte deve essere utile, manifestarsi attraverso quel macro-
utensile che è l’edificio, concepito sul metro di una nuda e spoglia
funzionalità, ereditando in pieno il detto pronunciato circa un decennio prima
dall’architetto austriaco Adolf Loos secondo cui l’ornamento è un delitto. Per
Gropius tutte le altre arti devono fare saggiamente corona a questo primato
della funzione abitativa, rinunciando ai piaceri effimeri del colore e a tante
altre manifestazioni sensuose. Chi viene alla sua corte deve già credere in una
sorta di precoce “morte dell’arte”, che quanto meno non può pretendere di
avere fini autonomi, ma deve rendersi utile al funzionamento del
macroutensile globale. Per questa ragione Gropius, come si è visto a suo
tempo, predilesse su tutti l’ungherese Laszlo Moholy Nagy, pronto a
rinunciare al fascino dei pigmenti cromatici a favore del bianco e nero
fotografico, o dello scintillio dei metalli, preferiti ai vecchi materiali plastici.
Questo artista avanzatissimo si spinse fino a concepire la possibilità di
affidare un intervento artistico alle telecomunicazioni, inviando per via
telefonica o telegrafica delle indicazioni progettuali che il ricevente avrebbe
dovuto materializzare. Al Bauhaus giunsero anche Wassily Kandinsky e Paul
Klee, che però ebbero più difficoltà ad aderire a un simile programma
restrittivo delle libertà espressive concesse ai fatti di ordine grafico-
cromatico. Kandinsky era stato l’intrepido cultore di una via completamente
diversa, di affondo nelle profondità dei fenomeni biologici, negli intrichi dei
tessuti organici, facendosi capostipite di una linea biomorfa assolutamente
antitetica all’allora trionfante meccanomorfismo. Tanto è vero che per poter
stare alla corte del Bauhaus egli dovette sottoporre il suo repertorio a una
sorta di restyling, sopprimendo le creste dentate, le ciglia vibratili, i profili
sbisciolati delle sue cellule amebe attraverso un processo di rettificazione,
finendo per adottare, seppure a fatica, il vecchio manuale euclideo del punto,
linea e superficie. E anche Klee, che pure con un piede era penetrato
nell’universo della ricostruzione plastica del mondo, dovette mettere qualche
sordina alla sua grammatica eterodossa e stravagante.
Se veniamo all’Italia, come è ben noto, il ruolo di competere col Cubismo
francese e di adottare anche presso di noi il meccanomorfismo spettò al
Futurismo, il cui padre fondatore, Marinetti, già nel celebre Manifesto
inaugurale predicava la bellezza e la preminenza dell’auto da corsa, ma poi
non mancava di inneggiare pure alla radio. Il più forte dei giovani che allora,
1910, accettarono di fare squadra con lui, Boccioni, muoveva anch’egli da
risentimenti di specie espressionista, e del resto non avrebbe mancato di
inneggiare per parte sua ai raggi X, ovvero a un’applicazione delle energie di
specie elettronica, di natura completamente estranea alla logica delle
macchine. Siamo giunto ad attribuirgli, nell’affiche redatta del 1909, un
anticipo addirittura dell’espressionismo astratto statunitense di tanti anni
dopo. Tutto ciò significa che i Futuristi, a differenza dei Neoplastici olandesi,
dei Suprematisti e Costruttivisti russi, e del clima complessivo del Bauhaus,
non accettarono mai a senso unico i codici spigolosi, aguzzi, rettificati del
meccanomorfismo, ma lo ibridarono spesso e volentieri con codici desunti da
altri ambiti, già alimentando un seppur oscuro intuito della famiglia opposta
degli elettromorfismi. Ma certo, finché il Futurismo si svolse nella sua prima
tappa, ubicata a Milano, dal 1910 al 1915 della nostra entrata in guerra, si
dedicò quasi unicamente a compiti di pura sperimentazione in laboratorio, nel
chiuso degli atelier, sdegnando i fini applicati. Poi quel clima di alta intensità
e di massimo rigore si disunì, sia per la morte precoce del capofila Boccioni,
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nel ’16, che però era entrato in una fase recessiva, sia per l’inversione di
cammino fatta registrare proprio in quel momento da Carrà, che dallo slancio
vertiginoso verso il futuro preferì fare marcia indietro e andare a rivisitare
soluzioni di stampo primitivista e brutalista, poi confluendo nella metafisica
da sempre proposta da De Carico. A Parigi anche Gino Severini, pur
continuando a praticare un’abile fusione tra istanze cubiste e futuriste,
assumeva pure lui forme regressive, inaugurando quello che si sarebbe detto
il “richiamo all’ordine”.
In quel momento l’”anziano” Giacomo Balla (1871-1958), che dalla sede di
Roma era stato un po’ alla finestra ad ammirare gli ardimenti dei più giovani
Boccioni e Severini, che al pari di Mario Sironi all’inizio del secolo erano
stati suoi allievi proprio nella Capitale, decise di prendere la testa del
movimento, mantenendo alta la bandiera dell’impegno sul futuro e
disprezzando invece le soluzioni revivaliste cui stavano indulgendo i più
giovani rimasti a Milano. Del resto, a sostenerlo in quest’azione protesa in
avanti, a Roma si trasferiva lo stesso capofila Marinetti, così in qualche nodo
decretando la fine della fase “milanese” del movimento e proclamando la
centralità ormai acquisita dall’Urbe, col compito connesso di non chiudersi a
riccio nel giro delle sue mura, ma di farsi propagatrice del verbo innovativo
presso tutte le comunità regionali e municipali del nostro Paese. Tutto ciò
significa che spettò a Balla, e al Futurismo in questa sua reviviscenza romana,
cui si usa anche dare il nome di Secondo Futurismo, rappresentare presso di
noi la fase neoplastica e costruttivista delle avanguardie internazionali,
occupare dignitosamente il ruolo che altrove stavano svolgendo i movimenti
di Mondrian o di Tatlin o del Bauhaus, marciando al passo con loro anche
nell’abolizione dei confini tra arte e arte, e soprattutto cancellando la
gerarchia tra il maggiore e il minore. Balla fu eccellente maestro di questa
fase seconda proprio in quanto nei suoi dipinti e bozzetti sparivano i confini
tra proposte da valutare in sé, allo stato puro, o invece idee per un edificio,
magari non proprio nella sua struttura esterna quanto piuttosto nella proposta
di arredo per interni, ivi compresi il mobilio, le carte da parato, l’utensilistica,
e perfino l’abbigliamento. Balla insomma si proponeva come superbo
conduttore di un’impresa integrata e globale. Non solo, ma non cedeva in via
univoca al modello neccanomorfo, bensì si faceva erede e continuatore di
quegli estri sinuosi, ameboidi, elettromorfi che già comparivano nella fase
eroica di Boccioni e compagni. Anch’egli, in sostanza, proponeva delle figure
costruite su solidi geometrici, che però non risultavano soltanto dalla
rotazione di forme rettangolari bensì anche di linee paraboliche, ellittiche,
comunque eccentriche. Balla in altre parole respingeva l’austerità di Gropius
e compagni, e il connesso impegno di proscrizione assoluta di motivi ludici,
ornamentali, fantasiosi. Il tutto trovò espressione in un binomio felice
formulato allora dall’artista torinese-romano, ormai capofila indiscusso di
quella fase di un Futurismo divenuto movimento popolare, quasi di massa, si
potrebbe dire, e non più di élite esclusivista. Questo binomio stava nel
raccomandare il “numero innamorato”, un’espressione che corrisponde
perfettamente a quanto, in retorica, viene detto un ossimoro, vocabolo di
incerta origine dal greco, che può significare o un palo dalla punta aguzza, o
forse meglio, un villano, un contadino ma dalla mente acuta, astuta. Si tratta
di un’abile strategia chiamata a far coesistere pacificamente dei contrari, in
modo che le virtù dell’uno si temperino con quelle dell’altro. Celebri ossimori
della tradizione sono il proverbio latino del festinare lente, cioè
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dell’affrettarsi ma con ponderazione. Ed è pure rimasto celebre l’ossimoro di


natura politica pronunciato da Aldo Moro, prima di cadere vittima del
Brigatismo, forse proprio per il torto di aver tentato quella conciliazione degli
opposti, quando aveva additato, alla Dc e al PCI, un percorso di “convergenze
parallele”. E dunque l’ossimoro predicato e praticato da Balla, e reso da lui
quasi una bandiera di combattimento per le falangi del Secondo Futurismo,
stava nell’invito a seguire le solide virtù costruttive-funzionali insite nel
numero, in una società dominata dalla figura dell’ingegnere, del grande
artefice o Fabbro dei propri destini, volto a raddrizzare le storture di madre
natura, senza per questo dover adottare uno squallido abito di privazioni
sensoriali. Anzi, il rigore strutturale doveva e poteva essete temperato da
buone dosi di estro, di piacevolezza cromatica. Insomma, nella formula,
accanto alla logica dei numeri doveva entrare anche la componente affettiva,
umorale, trasgressiva che usualmente si riconosce nei fenomeni
dell’innamoramento.
Vediamo brevemente, nell’ampia messe di opere prodotte senza tregua dalla
solerte officina di Balla, alcuni testi in grado di esemplificare questa via del
doppio registro, dell’utile ibridazione tra terminali di segno opposto. Per
esempio, ecco Tenerezze primaverili, f. 8), un olio su tela del ’18, dove il
linguaggio è decisamente concreto, come esige il clima internazionale
dell’epoca, cioè non si limita ad astrarre dalle forme di natura, ma propone un
linguaggio geometrico autofondato. D’altra parte queste pure concrezioni
geometriche non evitano affatto l’andamento curvilineo, anzi, vi si ispirano,
come se l’artista, in luogo di estrarre i suoi ritmi dalla vegetazione, volesse
imporglieli, ma sforzandosi nello stesso tempo di rispettare un codice
“soffice”, non credendo nell’unicità della hardness, nella ncessità di imporre
ovunque comunque l’angolo retto. Si può ricostruire il cosmo intero, con
abile intervento ingegneresco, ma non è detto che l’artefice intento all’opera
si debba legare le mani, vietarsi le mosse sinuose. Il che poi trova riscontro
anche nella tavolozza, che certo fornisce una sorta di spremuta da risorse
vegetali. L’opera è offerta come un dipinto allo stato puro, ma potrebbe
mutarsi facilmente in uno splendido manifesto per pubblicizzare appunto
qualche spremuta tonificante. Ancor più inoltrata su questa strada di buoni
coefficienti di innamoramento, ovvero di strizzatine d’occhio ai piaceri dei
sensi, ci appare un’altra tela, pronta anch’essa a mutarsi in affiche, Estate (f.
9), dove lo schema concreto, di partizione della superficie secondo grafismi
sicuri ed economici al massimo, è però allietato da un bombardamento di
motivi ornamentali, ma tenuti anch’essi sotto un attento e ben calibrato
controllo geometrico. In fondo, alla corte di Gropius, Kandinsky sta
procedendo allo stesso modo, nel rettificare i bollenti spiriti del suo
precedente periodo biomorfo. Naturalmente, è giusto che nell’urgenza
dell’abbozzo, che deve tenersi pronto a qualsivoglia destinazione, il pesante
olio su tela ceda alla tempera su carta, assai più agile e di pronta fattura, come
succede nel Paesaggio + sensazione di cocomero (f. 10), dove l’ossimoro
giunge ad allietare un fermo telaio concreto, seppur redatto al solito senza
sdegnare gli schemi curvilinei, attraverso una strizzatine d’occhi alla realtà
“popolare”, folclorica, di facile piacere dei sensi, fornita dall’accenno al
cocomero. Questa nuova umanità di ingegneri e di fabbri non deve
disprezzare i semplici allettamenti dei riti e dei consumi folclorici, questo il
“sano” messaggio che giunge dall’officina di Balla. Il suo tuttavia è davvero
un Bauhaus, seppur ingegnosamente rivolto a far sistema coi suggerimenti di
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specie soffice. E dunque, l’artista non si esime dal progettare mobili, tavoli,
sedie (f. 11) di solida consistenza, come si addice appunto a un’umanità
ingegneresca, al passo col produttivismo industriale, ma senza neppure
negarsi qualche angolosità stravagante, e soprattutto qualche scacchiera
cromatica, seppure condotta a chiazze larghe, quasi per compilare una tuta
mimetica. Tutti i nostri oggetti devono indossare quella tuta, per entrare in un
grande concerto ambientale, per adattarvisi come tante tessere di un mosaico,
o di un puzzle gigante. Quel mobilio, infatti, deve sentirsi pronto a far corpo
con un’intera stanza che sia concepita nel segno di andamenti flessi, come se
fossimo chiamati a vivere dentro amebe gigantesche ( Progetto di salone, del
’18, f. 12). Per questa via, Balla anticipa sul gusto che di lì a poco verrà
battezzato, ancora una volta a Parigi, sotto l’etichetta dell’Art Déco. Tutto
deve concorrere a confermare quell’armonia ossimorica, concepita cioè nel
segno dell’incontro del rigido e del molle, anche i nostri abiti devono essere
della partita, ecco infatti che Balla progetta perfino un Gilet futurista (’24, f.
13), dove lo stesso motivo a losanghe va a scomporre, ma nello stesso tempo
a ricompattare, l’indumento essenziale per la toilette maschile di quegli anni.
E naturalmente a questo generale appuntamento con tutte le occasioni di
arredo e di decoro non può mancare neppure un umile, marginale accessorio
dell’eleganza dell’uomo, quale la cravatta (f. 14).
Si è già detto che una caratteristica della fase seconda del Futurismo sta in
una partecipazione plurale, ricca di presenze quasi innumerabili, mostre
recenti ne hanno via via allargato le schiere attraverso un censimento che
sembra davvero inesauribile, e che va a scoprire colonie minori o minime,
propaggini del fuoco centrale sparse un po’ dappertutto nel nostro Paese. Non
potremo certo tener dietro a tanta abbondanza di presenze, ma dovremo pur
riaffermare che ognuna di esse conferma il copione generale, tutte praticano,
seppure con ingegnosità variabile, l’ossimoro pronunciato da Balla, facendo
convivere le ragioni del rigore meccanomorfo con vivi sprazzi di fantasia, di
concessione al folclore, perfino al kitsch: Ma intanto ecco subito il
deuteragonista, il comandante in seconda, che Balla ebbe a fianco sulla
plancia di comando dell’intero movimento, Fortunato Depuro (1892-1960),
proveniente da una realtà periferica quale Rovereto nel Trentino, e del resto
mai interamente sradicato dalla terra d’origine, che tornava a frequentare
intervallandola alle presenze romane, e anche ad avventurose puntate in
America. Siamo con ciò a una variante della natura ossimorica del Secondo
Futurismo, i cui vari adepti cercavano di conciliare l’intrepido
internazionalismo, di cultori nostrani dell’arte concreta, di nudi e crudi
neoplasticismi, con vigorosi inserimenti di caratteri locali. Vogliamo dire con
questo che più o meno essi anticiparono un fenomeno assolutamente tipico e
dominante dei nostri giorni, cioè la fusione tra il globale e il locale nella
sintesi che si affida all’etichetta del “localismo”.
Un esame, anch’esso sommario, della produzione di Depero può cominciare
con Meccanica di ballerini, olio su tela del ’17 (f. 15), che già nel titolo
esibisce un evidente statuto ossimorico, in quanto il ruolo del ballerino è
votato all’ambito del piacere, della distensione un po’ pazza e inebriata, anche
se il rigore del mondo dei meccanismi la insidia, pretende di piegarla ai propri
stampi. In fondo, questo era un compito ammesso anche presso il Bauhaus,
che non poteva ignorare le espressioni corporali legate alla recita o appunto
alla danza, infatti vi abbiamo incontrato Oskar Schlemmer e Alexander
Shawinsky, coloro che si erano assunti proprio questo ingrato ufficio di
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meccanizzare, di ingabbiare entro le maglie dei servo-meccanismi ciò che


viceversa si presenterebbe nel segno della sfrenatezza e della licenza. Ma le
soluzioni ammesse nel clima Bauhaus erano severe, seriose, qui invece
Depero lascia filtrare una buona dose di fronzoli, di lustrini. Nasce un
automa, un robot, ma con una carica a molla che gli consente un buon raggio
d’azione. Tanto è vero che questa marionetta, questo robot già degno di
avventure spaziali, può peraltro frequentare una situazione volgare come il
sedersi a un tavolo di caffè (olio su tela del ’18, f. 16), appoggiando i gomiti
su una tela incerata dozzinale, a quadretti chiassosi, che però potrebbe essere
anche una mappa per piani di volo arditi e arcani. Siamo sempre in presenza
di un’abile politica del doppio pedale; che oltretutto non si esime
dall’invasione dello spazio reale, come succede con Costruzione di donna (f.
17), dove la figura esce dal piano per divenire proprio un robot caricabile e
quindi pronto a muoversi a scatti. Del resto, Depero è pronto a dichiarare che
la sua Casa, il suo personale Bauhaus, dove si ritira a progettare, sul tavolo
del disegnatore, i robot pazzi e stravaganti destinati a tradursi in solidi
burattini spaziali, è da dirsi del mago (f. 18), correzione ossimorica della
qualifica ingegneresca cui invece si richiamano gli austeri frequentatori del
laboratorio concepito in Germania da Gropius. Questa parola di “magia” è
colma di consonanze, di lì a poco un artista e critico tedesco, Franz Roh,
emetterà la formula del Realismo magico, da considerarsi vincente per
qualificare la produzione comune, tra Italia e Germania, che negli anni Venti
sta per collocarsi sotto il segno del “richiamo all’ordine”. E come dimenticare
che, negli anni Cinquanta, alcuni artisti si sentiranno in obbligo di emendare i
rigidi proponimenti del Bauhaus gropiusiano proclamando lanecessità di
istituire un Bauhaus immaginista? Ebbene, Depero è lucido precursore,
vaticinatore di tutti questi orizzonti sanamente ibridati. Ci è poi largamente
noto, attraverso tanti esempi già visti, che il crollo di ogni confine tra il puro e
l’applicato trova il suo risultato più evidente nella capacità dei migliori artisti
contemporanei di darci perfette affiches pubblicitarie. Ovviamente Depero
non sfugge a questa regola generale, si veda una sua proposta per la Magnesia
S. Pellegrino, del ’30 (f. 19). A conferma che con lui siamo in presenza di un
capitano di lungo corso, chiuderemo il breve paragrafo dedicatogli con il
dipinto ormai tardo, del ’44, Rito e splendori d’osteria, f. 20, dove siamo
ancora a un coraggioso esito glocalista, l’occasione modesta, folclorica, di
un’Italietta ancora dedita ai riti della cultura paesana e contadina, viene
rivisitata, ripassata, rialzata con un trattamento quale si conviene a una
fabbrica super-efficiente.
Tra i tanti personaggi che hanno frequentato quello che ormai possiamo
definire il Bauhaus immaginista romano di Balla, non potremo mancare di
ricordare, come figura di notevole spicco, Enrico Prampolini (1894-1956),
che firma uno dei tanti manifesti dell’epoca in puro stile marinettiano, quello
che inneggia all’arte meccanica. Ma beninteso anche i suoi contributi si
pongono sotto il segno dell’ibridazione, come è nel Concetto spaziale del ’19
(f. 21). Conosceremo negli anni Trenta i concetti spaziali elaborati da Lucio
Fontana, che saranno decisamente fuori dall’ossimoro, in quanto Fontana
comprenderà che ormai, nel cosmo, sono rimaste in gioco solo le energie
dell’atomo, delle emissioni elettromagnetiche, del tutto affrancate dalla
geometria euclidea. Ci sarà posto solo per i gesti violenti e informi dei buchi
o degli squarci, estranei a ogni disegno prevedibile. Invece questo concetto
spaziale di Prampolini si limita a dentellare, a rendere sghembo il ritmo
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lineare, e a vivacizzarlo con un bell’effetto cromatico. Si indovina una


presenza robotica, incerta se venire avanti e definirsi o invece disperdersi in
un mosaico aniconico. Comunque, i secondo-futuristi sanno che ormai
bisogna frequentare l’universo aperto, elaborare manichini disposti a visitarlo,
o a esporsi alle sue radiazioni, magari nella speranza che queste siano
benefiche e salutari, come vogliono i riti della cura solare, della “tintarella”, e
dunque la seriosità della prospettiva cosmologica può ammorbidirsi nelle
grazie di una affiche pubblicitaria, con un manichino umano che espone la sua
epidermide a indorarsi a quei raggi (Spazialità solare, del ’41, f. 22). Un
intento da costruttore, come dichiarato in un bozzetto del ’26, è proprio di Ivo
Panneggi (1901-1982), tra i più decisi a frequentare l’ambito dell’architettura,
del “costruito”, come gli riesce di fare in misura esemplare in una casa di
abitazione civile ad Esanatolia, paesino delle Marche, per la quale, seguendo
le indicazioni del Bauhaus immaginista romano, progetta tutto, anche il
mobilio. E beninteso l’abitatore di quei luoghi siti in provincia vi può
giungere o allontanarsene a cavallo di una poderosa motocicletta, accettando
per sé il ruolo del Centauro, come Pannaggi propone in un bellissimo
manifesto del ’31 (f. 24).
Il Futurismo, tanto di prima quanto di seconda generazione, è sempre stato
ben convinto che la nuova umanità dovesse battere le vie dei cieli, attraverso
imprese aviatorie. Anche qui è sempre sussistita l’ambiguità, fin dal
Manifesto marinettiano, se queste rotte spaziali dovessero essere affidate alla
logica dei motori, costituendo quindi un nuovo capitolo dell’affermarsi della
macchina, o se invece si dovessero sollecitare, e rappresentare, le possibilità
novissime consentite dalle energie di radiazione: insomma, aerei o
telecomunicazioni? Dicevamo prima che in genere i Futuristi optarono per il
primo polo, non riuscendo a muoversi all’altezza dei concetti spaziali quali
poi avrebbe elaborato negli anni Trenta Lucio Fontana, nonostante che
proprio Marinetti e Boccioni avessero già avuto validi presentimenti, il
secondo giungendo a presagire che un giorno si sarebbero potute praticare
delle invasioni dello spazio coi soli gas, liberandosi dalle ultime tracce di
materismo. Ma certo l’Aeropittura, che è una delle modalità più note di
espletamento della fase secondo-futurista, venne intesa per lo più alla lettera,
come il sollevarsi da terra a bordo di aerei e darsi a una contemplazione
abbastanza naïve del sottostante paesaggio. Ovvero, l’ossimoro praticato
dagli aeropittori non stava certo nel tentativo di conciliare la pesantezza dei
meccanismi con la vibrazione energetica dell’immateriale, bensì, ancora una
volta, la dura geometria del rettangolare con la mollezza di spire orbitali,
pronte a strizzare l’occhio agli incanti dolci e imbambolati di un paesaggio
molto in veste di localismo. Questa almeno è l’area di intenti in cui si scrive
Gerardo Dottori (1884-1947) proponendo una sorta di frullatore in cui
entrano le distese prative, le dolci colline, le casette policrome della sua
Umbria, fatte vorticare entro quel contenitore e servite, con attenzione a non
alterarne troppo la fisionomia. Si veda un dipinto iniziale quale Primavera
umbra, del ’21 (f. 25) che procede il Manifesto dell’Aeropittura, steso nel
’29, e invece un’opera terminale, del ’41, Inferno di battaglia nel Golfo (f.
26), ispirato da un evento dell’ormai divampante Seconda guerra mondiale,
ma senza che la drammaticità dell’ora entri nel dipinto. Merita poi un posto di
rilievo una delle poche figure femminili che entrarono nella compagine
secondo-futurista. Si tratta del resto di una personalità di grande peso nella
storia del movimento, Benedetta Capa, nota più che altro col solo nome di
12

battesimo (1897-1977), che ancora ventenne incontrò a Roma il Grande


Fondatore Marinetti, inducendolo al rito borghese del matrimonio, santificato
dall’arrivo di ben tre figlie, tuttora felicemente viventi. Ma accanto a questo
volto di brava consorte e madre di famiglia, capace di dare alla carriera
tempestosa di Marinetti un sereno porto d’approdo, Benedetta seppe coltivare
con ingegno e vivacità la via dell’arte, sia sul fronte visivo che su quello
letterario, in cui produsse alcuni romanzi di buon livello. Per il primo ambito,
si veda una sua Velocità di motoscafo, tra il ’23 e il ’24 (f. 27), in cui siamo
senza dubbio entro i limiti di quello spirito tutto sommato naïf già riscontrato
in Dottori, in quanto la durezza dei ritmi meccanomorfi è temperata solo da
concessioni a tarsie decorative, però si deve apprezzare la misura insistita con
cui queste sono proposte, così da ricavarne un mosaico vibrante. Come dire
che il motivo ondulatorio non è esente da una geometrizzazione, che però non
giunge a tto irrigidirlo del tutto, lasciandolo capace di fornire palpiti e
vibrazioni vivaci. Infine mostreremo anche un dipinto di Pippo Rizzo,
Aranceto, del ’26-27 (f. 28), prendendo questo artista (1897-1964) a
rappresentante tipico di quella fitta produzione regionalista, in questo caso la
Sicilia, in cui il Secondo-futurismo fu così solerte e attivo a esprimersi.
Oltretutto, si tratta di un’occasione chiaramente legata al più schietto esito
glocalista, in quanto una raggiera di impronta meccanica, di morfologia
concreta, cioè impostata su un formalismo autonomo, si trova applicata a
illustrare una simpatica realtà folclorica, perfino di sapore verista, come può
essere un aranceto. Il tutto ovviamente potrebbe funzionare anche come
affiche promozionale a vantaggio dei buoni prodotti isolani.

3. Uno sguardo all’industria ceramica


Passiamo adesso a esaminare, sempre a titolo di rapida campionatura,
quello che avveniva, nel corso degli anni Venti, in un settore estremamente
coltivato nel nostro Paese come quello della ceramica, e dei suoi derivati,
come la maiolica e ogni altro prodotto uscito dai forni, utilizzando i
giacimenti naturali di argilla che sono così diffusi nella nostra terra.
Ceramica, evidentemente, in quanto applicata alla modellazione di utensili,
soprattutto di “casalinghi”. Per l’alta sua efficienza in un settore del genere la
ceramica non era certo sfuggita all’attenzione del gremito fronte secondo-
futurista, dove fra le tante figure minori si era distinto Tullio di Albisola, che
appunto aveva accettato di far scomparire il cognome all’ombra del
toponomastico, legato a un piccolo centro della riviera ligure di Ponente che
spiccava nella nostra geografia per meriti in ambito ceramico, al pari del resto
di Faenza, la città romagnola che ha talmente legato il suo nome alla
produzione ceramica, da farlo diventare, in Francia, un sinonimo per indicare
l’intero settore produttivo volto a sfruttare questo materiale. Tornando ad
Albisola, questa località legherà il suo nome a tanti alti eventi che
solcheranno l’arte italiana, fino proprio quel Bauhaus immaginista degli anni
Cinquanta che avrebbe ereditato tanti degli stimoli già presenti al momento
del Secondo-futurismo. Un movimento, abbiamo detto, che si raccomandava
per la politica, diciamo così, ossimorica, o delle convergenze parallele,
perseguita con bella tenacia. Ebbene, questa virtù di procurare felici
coesistenze potrebbe essere riferita in genere ai nostri migliori architetti del
medesimo periodo degli Anni Venti, il cui tratto generale è di non legarsi
direttamente al clima “duro e puro” del Movimento moderno, di rifiutare, in
sostanza, i modelli rigidi del Bauhaus o del Costruttivismo sovietico. Non per
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questo si riunciava a progettare in modi limpidi ed essenziali, ma si accettava


che le forme taglienti del diedro o comunque del rigido venissero
contemperate con l’assunzione di alcuni stilemi del passato, particolarmente
cari alla nostra tradizione, a cominciare dall’arco. Ne venne il clima che si
disse anche del monumentalismo, in quanto chi lo coltivava cercava appunto
di sposare rigore, essenzialità con l’innesto di forme cariche di aura, di
memorie. Nel periodo “tra le due guerre” l’Italia mise in campo una bella
schiera di architetti che praticavano questa strategia dei doppio comandi, sul
tipo di Giovanni Muzio e Marcello Piacentini, in attesa che, contro di loro, si
ponesse chi invece decise di adottare le proposte essenziali e minimali
elaborate proprio da Gropius, e avremo allora il caso di Giuseppe Terragni.
Ma siamo ancora al clima anni Venti, dominato proprio dall’ipotesi, così
felicemente emessa da Balla, del “numero innamorato”, che del resto
confluisce nel clima internazionale dell’Art Déco. Ebbene, una delle grandi
figure di architetto di tutta quella stagione, Giò Ponti (1891-1979), si
caratterizza proprio per quest’impostazione conciliante, come risultò proprio
da una sua assidua collaborazione con le grandi fabbriche ceramiche del
nostro Paese, a cominciare dalla Richard Ginori. Intanto, ciò che lo distingue
dal settarismo dei seguaci del Movimento moderno, e dal loro precetto
secondo cui less is more, è la propensione a mantenere l’uso delle icone, di
cui, nell’ornare del vasellame, si potrebbe fare a meno, se proprio si volesse
seguire una dieta stretta. Ma non è certo il caso di Ponti, che viceversa
inserisce quasi sempre, nel decorare panciute tazze o anfore o urne o fondi di
piatti e scodelle, e ogni altra possibile stoviglia, la figura umana, ovviamente
in modi stilizzati e rappresi, ma senza regredire alle soluzioni “schiacciate”
dell’Art Nouveau. Sappiamo che, negli anni Venti, posti sotto il segno di
etichette molteplici ma affini, dall’Art Déco al “richiamo all’ordine”, o al
clima che in Italia si disse Novecento per eccellenza, entro le sagome già
appiattite, nella stagione Liberty, si volle pompare aria così da ottenere
fantocci vistosamente ingombranti. A questa regola si attenne il massimo dei
nostri scultori di quegli anni, Arturo Martini, e dunque si confermava quanto
avevamo già intravisto subito agli inizi del nuovo secolo, gli artisti erano
concordi nel rinunciare alle seduzioni di un linearismo sciolto ed eccentrico,
deliziosamente serpeggiante sul piano, preferivano adottare fantocci,
burattini, manichini severamente pesanti, intenti a portare cariche
espressioniste. Ma questa volontà di espressione poteva venire declinata con
vari umori, mirando a “esprimere”, appunto, un male di vivere e una protesta
sociale, o viceversa a riecheggiare le pose fatali, gravemente ieratiche degli
eroi antichi, con l’ intento di far rivivere le forme nobili del passato, perfino
di quello greco-romano, purché ripreso secondo le mosse ridotte ed essenziali
dell’arcaismo. O in alternativa ci potevano stare assunzioni dal patrimonio del
folclore, quale svolto esemplarmente dalle maschere regionali. Ebbene, se
veniamo alla produzione ceramica di Ponti, e alle componenti iconiche che vi
vengono svolte, troviamo soluzioni che costeggiano quanto sopra indicato. Si
veda una sorta di urna cineraria quale Trionfo dell’amore e della morte (f.
29), dove cominceremo a notare il formato rigorosamente cilindrico del
recipiente. Il cilindro è una variante “soffice” rispetto alla durezza spigolosa
del cubo o del parallelepipedo, e infatti il Bauhaus mai lo avrebbe ammesso,
ma d’altra parte si affida a una soluzione assolutamente “centrica”, quale
sarebbe stata respinta con sdegno dalla stagione del languori tipica del
Liberty. Assolutamente centrica è anche la collocazione del motivo di un
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carro trionfale trainato da un ippogrifo, mentre sempre nel rispetto di


collocazioni simmetriche compaiono figurine mitologiche, che coltivano un
altro ossimoro. Cupidi propiziatori dell’eros, o invece austeri, lugubri divinità
funebri? Più di frequente, saranno schierate le figure che esprimono un senso
leggero e ludico della vita. Degno di ammissione è dunque Il maestro di
danza (f. 30), dalle pose inarcate, anche se contenute, non lasciate libere di
cedere a ritmi sfrenati e privi di controllo. Ma Ponti non sarebbe un architetto
se lasciasse la figura umana a dominare il campo in solitudine, essa al
contrario deve assumere un ruolo subordinato, di figurina intenta a seguire un
percorso dettato dall’alto, si tratti di un labirinto, o del casellario di una sorta
di gioco dell’oca, o comunque di qualche tracciato geometrico da percorrere a
balzi. Se vogliamo, siamo sempre in presenza di una serie di tentazioni
ossimoriche, tra una essenzialità di modellazione degna del “moderno”, o
invece un richiamo all’antico, per cui gli esiti finali, di queste solide urne o
giare, potranno intitolarsi alla Conversazione classica. Un altro ossimoro
starà nella partita doppia di accarezzare, per un verso, i valori di superficie,
come da sempre è proprio dell’arte vasaria, o invece suggerire affondi,
soluzioni volumetriche che facciano finta di infrangerla e di aprire piste
sprofondanti verso il lontano. Purché, in questo caso, non si pretenda di
adottare la prospettiva ingannevole della soluzione piramidale, con la
convergenza delle linee in un punto di fuga. Meglio adottare una prospettiva
assonometria, in cui le linee obliquano, ma mantenendosi parallele tra loro,
quasi nel rispetto letterale di un ossimoro come quello che predica la
possibilità di convergenze parallele. Qualche volta una figura umana,
elegantemente stilizzata, allampanata come un Watussi, si lascia tentare o
irretire in quei labirinti senza uscita, in quanto proprio la mancanza di un
punto di fuga farà sì che non si giunga mai a un terminale, ma si permanga in
uno stato di sospensione continua (f. 31). Oppure l’icona scompare, resta solo
una scansione nel rispetto del motivo classicissimo dei soffitti a cassettone,
che ricorda anche le cellette di un colombario romano, pronte a ospitare tante
urne con ceneri mortuarie. Il vaso redatto secondo un simile spirito si intitola
Prospettica (f. 32), ma in realtà è una prospettiva di corto cammino, l’invaso
si allontana di poco dall’immanenza della superficie, che dunque non riesce a
infrangere ma può solo animare con un ritmo a scacchi di poca profondità.
Eloquente un titolo come La casa degli efebi (f. 33), che ci dice come la
componente umana sia data da deliziose figure adolescenziali macerate da
digiuni, o dalla preoccupazioni di mantenere un fisico asciutto e scattante,
pronto alle esibizioni sportive o alle prestazioni sessuali, il che ne fa come dei
preziosi uccelli esotici prigionieri tra le sbarre di una gabbia, da cui però non
intendono affatto fuggire, preferendo utilizzarle come spalliera svedese per
esercizi acrobatici. Vale la pena ricordare che in tutte queste elaborazioni
ceramiche Ponti frequenta, come vuole una regola millenaria, sobrie soluzioni
cromatiche, improntate in genere, anche per questo verso, su contrasti a due,
il nero contro la doratura, o l’azzurro oltremare contro gialli sulfurei. E c’è
anche una scala di valori, dal più al meno complesso, anche in funzione della
portata merceologica del prodotto da elaborare, se si tratta di anfore o urne di
grande volume, è chiaro che un tracciato prospettico deve apprestare una
sorta di casellario, lasciando alla presenza umana un compito subordinato, di
comparsa chiamata ad animare quelle piste di scorrimento, ma accettandone
la regia. Se invece la superficie utile da decorare si riduce perché la stoviglia
accorcia il suo raggio d’estensione, divenendo non più che una tazza o un
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piatto, una scodella, il motivo lineare-prospettico deve rientrare, o addirittura


sparire del tutto, mentre tocca alla figurina estendersi, allargare la propria
sagoma, sia che questa si riferisca a nobili motivi tratti dall’antico, o da
frivole frequentazioni laterali del repertorio delle maschere e del folclore
(Venatoria, f. 34, Donatella, f. 35). Da ultimo, il nostro burattinaio non evita
di mostrarsi allo scoperto, dopo aver tirato abilmente i fili di tante marionette,
o meglio, esibisce allo scoperto Le mani con cui ha potuto operare tanti
prodigi di realismo magico. Ma anche quelle mani diventano un delizioso
motivo di arredo, come fossero concepite per contenere le reliquie di qualche
santo, o per compiere delicati compiti tattili in cerimonie rette da raffinati
rituali, quando la mano nuda e cruda dell’animale umano non è accettata ed
egli è tenuto ad assumere paramenti, guanti, coperture che nobilitino la
semplicità del gesto (f. 36).

4. Con l’affiche lungo i decenni


Ma si sa che il nostro banco preferenziale di verifica per questi passaggi
dalla purezza dell’atto pittorico o scultoreo all’applicazione di carattere
pratico è fornito dal capitolo dell’affiche, sempre così consistente in Italia.
Ripartiamo da un grande campione di questa attività, già incontrato in uscita
dai fasti del Liberty, quale Marcello Dudovich. Anche lui, come tutti, come
Arturo Martini nell’ambito della scultura, e Giò Ponti tra architettura e
decorazione di arredi domestici, ci appare intento a pompare aria dentro le
fragili sagome della stagione precedente. E’ il clima che in linea di massima
abbiamo ricondotto alla latitudine di un espressionismo generico, capace di
molte cadenze. Infatti sia Martini che Ponti civettano con soluzioni di gusto
retrospettivo, tra arcaismo e classicità greco-romana. Ma queste cadenze
eleganti e dotte non si addicono a un campo di applicazioni “popolari” come
l’affiche, e dunque le proposte elaborate da Dudovich devono tenere i piedi
per terra, consentire alla figura umana di reggere il confronto con la
modernità delle macchine di cui si propone come fiero utente. Due capolavori
in assoluto in tal senso, dei molti lasciatici da questo grande artefice, sono
quelli intesi a glorificare due macchine essenziali per la vita moderna, quale
l’auto, soprattutto nella versione utilitaria del veicolo di serie, e la macchina
fotografica. Oggi le cose non starebbero in termini molto mutati, questi due
utensili sarebbero ancora tra i più diffusi e apprezzati, e destinati quindi a
un’intensa promozione pubblicitaria, anche se ormai dovrebbero essere
affiancati da un terzo incomodo poderoso qual è la serie degli aggeggi legati
al mondo dell’elettronica. Il primo di questi manifesti altamente emblematici
riguarda La nuova Balilla (f. 37), l’auto utilitaria con cui la Fiat anticipava il
consumismo della società sviluppata quale presso di noi si sarebbe realizzata
solo trent’anni dopo, allora anche l’utilitaria Balilla restava una meta sottratta
a una diffusione di massa. Inevitabile forse l’aggancio promozionale al sex
appeal di una figura femminile, che però non viene affatto manipolata
secondo codici di leggiadria e di svenevolezza, al contrario si tratta di una
donna proposta con piglio aggressivo, che incede in avanti con passo risoluto,
e si avvale di un abbigliamento non molle e vaporoso, bensì asciutto, a larghe
falde, quasi nell’intento di superare la differenza tra i due sessi e di dare
anche al sesso debole una investitura maschia, competitiva. Tanto che quella
donna aggressivamente in marcia viene quasi ad essere un equivalente, in
versione più laica e quotidiana, della solenne icona elaborata da Boccioni,
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nella sua scultura più nota, Forme uniche nella continuità dello spazio. Qui le
forme non sono uniche, c’è invece l’intervento di un’abilità modistica, si
sente la mano del sarto per signora, ma proteso a minimizzare le differenze, a
permettere anche alla rappresentante del sesso debole di frequentare
l’universo dei motori. E naturalmente viene meno pure l’intento neoplastico,
di ristrutturazione delle figure dalle radici, che agiva su Boccioni; ora
quest’immagine di forza e di risolutezza quasi prometeiche deve essere
fornita in versione quotidiana, “popolare”, per far presa su un vasto pubblico,
che non saprebbe comprendere un discorso più elaborato. Un commento del
tutto simile merita l’altro grandioso manifesto di Dudovich volto a
reclamizzare la pellicola Agfa (f. 38), e anche qui tocca alla donna condire il
messaggio pubblicitario con il suo sex appeal, che d’altra parte anche in tale
occasione è mantenuto in limiti di sobrietà. La donna si impone con un gesto
secco, essenziale, alzando il braccio in posa autoritaria, ma nello stesso tempo
aggraziata. L’abito la fascia, la essenzializza, pur non rinunciando a
continuarsi nei lembi di due scialli, che remigano nello spazio quasi per
dotare di ali questo personaggio, che ancora una volta può essere posto sulla
falsariga degli idoli espressi dal Futurismo, in fondo anche questa è
un’immagine “più bella della Nike di Samotracia”.
Pur essendoci dati il compito di riconoscere i giusti meriti delle affiches
uscite dai nostri laboratori, non possiamo non ammettere che la sede primaria
per questa ed altre manifestazioni di arte applicata resta pur sempre Parigi,
non a caso l’epicentro della nascita dell’Art Déco, il movimento che sancisce
quella che abbiamo detto essere la politica del doppio binario, per gli anni
Venti. Torniamo dunque sulla scena parigina dove domina, per quanto
riguarda proprio l’affiche, negli anni Venti, il personaggio di Cassandre,
pseudonimo di Adolphe Jean-Marie Mouron (1901-1968). Rispetto al nostro
Dudovich, c’è in lui una rinuncia quasi assoluta all’elemento antropomorfo, la
seduzione del messaggio pubblicitario è affidata più direttamente alla purezza
di elementi geometrici, come risulta da Etoile du Nord, del ’27 (f. 39), a
sostegno di una ditta di trasporti, i cui mezzi sono incitati ad affrontare le
lucide e rettilinee rotte espresse da binari implacabilmente scorrenti verso il
fondo, dominato da una stella, eponimo della ditta pubblicizzata. Ma
Cassandre è pronto a inserire in misura straordinariamente evidente lo scarto,
l’infrazione, il dirottamento che impedisce a quei binari di scorrere in
rigoroso e teorematico parallelismo. In primo piano ce ne sono alcuni che
curvano, che deviano dal retto cammino, in loro la ragione geometrica non
manca di avvertire un palpito affettuoso, indice, avrebbe detto Balla con piena
approvazione,di un delicato effetto perturbatore di innamoramento. Si veda
anche Ernest (f. 40), dell’anno prima, elaborato per una ditta di cappelli, sul
tipo del nostro Borsalino, che stava divenendo il terreno per esibizioni di
straordinaria maestria da parte di Dudovic. Ma mentre nel nostro
cartellonista, come si è detto sopra, l’ingombro del corpo umano domina
sovrano, qui la componente antropomorfa o è cancellata, o ridotta all’osso,
lasciandosi intravedere solo attraverso una rapida traccia di orbite oculari,
apparenti molto in basso, come occhi di gufo nelle tenebre, mentre quello che
conta è la forma massiccia, rotondeggiante del cappello, come fittone, come
cilindro orgogliosamente centrico, per quanto ami sdoppiarsi alla sommità
accennando a un motivo bifido, quasi si trattasse di due stick per labbra cuciti
insieme.
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Parigi, durante tutto l’entre deux guerres, resta polo d’attrazione, anche
dall’Italia, vi si trasferisce pertanto Severo Pozzati(1895-1983), che dalla
vicina Bologna aveva frequentato, assieme al fratello Mario, il clima austero e
severamente plastico della Metafisica. Ma, passato a Parigi, preferì adattare la
sua Musa alle soluzioni più allettanti e meglio pagate della grafica
pubblicitaria, da lui praticata sulle orme di Cassandre, e abbreviando anche il
nome in una sigla di pronta efficacia, Sepo. A lui si devono alcuni dei
migliori manifesti “tra le due guerre”, impostati seguendo le sobrie, sintetiche
virtù dimostrate dal maestro francese, ma vivacizzate da qualche sinuosità,
sempre nell’intento ossimorico, di cui noi Italiani fummo maestri a tutta
Europa, di conciliare il rigido col soffice. In una proposta come Il lavoro
d’Italia, del ’28 (f. 41), Sepo parte dal rigido, squadernando i fogli di un
opuscolo, con pagine acuminate come lamine. Già assai più ossimorico è
invece un manifesto del ’34, concepito per le Confezioni Tortonese (f. 42),
dominato dal motivo di una fettuccia che si srotola libera nello spazio, ma
attenta a non ingarbugliarsi troppo, mentre nello stesso tempo non manca di
far apparire una sorta di androide. L’ingegnosità sta proprio nell’economia di
mezzi con cui il richiamo figurativo viene posto in atto, come se venisse fuori
da sé, per effetto fortuito di quello snodarsi della pezzuola. C’è poi un
intervento che possiamo dire autoreferenziale o tautologico, in quanto Sepo è
chiamato a reclamizzare un Congresso internazionale della pubblicità (f. 43),
nel ’33, nel qual caso egli mette in campo il motivo arcuato di una calamita,
che corrisponde molto bene alla tipologia dei linearismi pronti a subire delle
flessioni, ma moderate e controllate. Inoltre il grafico sfrutta la nozione della
calamita non solo nella forma esteriore, ma anche nella sua funzione propria,
permettendole di attrarre a sé delle lettere in maiuscola e nei caratteri detti “a
scatola”, magnifica via per sfruttare l’elemento verbale, che di solito veniva
escluso dal mondo delle immagini. Si tratta insomma di un ardito ricorso al
lettering, nel quadro di un’ulteriore opzione a favore di una sorta di
iconoclastia, che quasi anticipa soluzioni di specie “concettuale”. Sepo,
purtroppo, vale anche a illustrare quanto sia da ritenersi fallace la vecchia
gerarchia tra il maggiore e il minore, con ruolo prioritario affidato alla pittura
pura. Infatti, invecchiando, egli è stato preso da una comprensibile nostalgia
per il paese d’origine che lo ha indotto a lasciare Parigi e a rientrare a
Bologna, dove ha abbandonato l’attività di grafico pubblicitario, pretendendo
di riqualificarsi, di recuperare la dignità già posseduta negli anni giovanili,
quando lavorava a fianco di Morandi, l’artista cioè si è rituffato in una pratica
pittorica, in cui tuttavia è apparso invecchiato, superato dai tempi, fermo a
modalità in ritardo sul passo del gusto, e decisamente inferiore ai brillanti
esiti riportati nell’ormai lontana stagione trascorsa sulla Senna.
Ritornando per un momento al clima anni Venti, questi vennero illustrati
molto bene, presso di noi, da un altro superbo affichista, Federico Seneca,
non distante nei dati anagrafici da Sepo (1891-19769. La sua collocazione
geografica nell’Umbria lo destinò fatalmente a lavorare per i prodotti
dell’industria dolciaria, e soprattutto cioccolatiera della Perugina, ne venne
insomma quasi l’obbligo di modulare delle forme di personaggi di colore,
come impastati o scolpiti in morbide masse di cacao, secondo quella tendenza
a gonfiare le sagome umane, a ricavarne dei bambolotti, o degli androidi, o
dei robot, coltivata negli stessi anni anche dai Secondo-futuristi capeggiati da
Depero. Seneca affrontava l’affiche con forti doti di plastico, quasi che fosse
un artigiano abituato a intagliare nel legno delle statuette di idoli di qualche
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rito esotico, sul tipo di quelle che di solito vengono prodotte nei paesi africani
e magari messe in vendita in qualche mercatino parrocchiale, sotto il
patrocinio delle missioni. Ma lo sappiamo, la maschera, il burattino sono tra
le modalità espressive dell’epoca (f. 44, 45).
E’ ora di chiamare in causa chi più di tutti ha attestato il volto serioso di
questo gonfio e forte plasticismo professato nei nostri anni Venti, Mario
Sironi (1885-1961), capofila del movimento tenuto a battesimo da Margherita
Sarfatti e da lei battezzato coll nome di Novecento, intendendo con ciò che le
proposte avanzate dai sette artisti da lei riuniti sotto tale bandiera
rappresentassero per antonomasia il clima del nuovo secolo. Risulta quindi
particolarmente apprezzabile che un artista così impegnato a far grande e
austero, nel nome di un ritorno alle severe origini di una romanità arcaica,
petrosa, monumentale, non sdegnasse, neppure lui, di cimentarsi nell’affiche,
anche se nel caso attraverso cui lo documentiamo si trattava addirittura di fare
la pubblicità a un organo assolutamente centrale per le sorti della modernità
quale la Borsa (f. 46). Anche al vociante antro delle negoziazioni e delle
transazioni affaristiche Sironi impone il motivo austero dell’arco romano, a
gara con quanto stavano facendo anche i nostri architetti del filone
monumentalista, come i già ricordati Ponti e Muzio e Piacentini, mentre
anche la folla in basso si agita con mosse cadenzate, quasi fosse fatta da una
schiera di automi.
Con ciò abbiamo ormai varcato il capo degli anni Trenta, in cui la musica
cambia. Si è già ricordato che proprio, nell’ambito trainante dell’architettura,
è l’ora in cui anche nel nostro Paese si impianta un cantiere degno dei
parametri del Bauhaus o in genere del Movimento moderno, si tratta della
Casa del Fascio che Giuseppe Terragni fa sorgere a Como, e altre eccellenti
figure dell’arte edificatoria si porranno su questa linea, come i già ricordati
Libera e Pagano, stabilendo un vivace dialogo con gli esponenti del filone di
segno contrario, intenti per parte loro a salvaguardare la peculiarità italiana
della politica del doppio binario, del tentativo di conciliare un funzionalismo
limpido e razionale con l’inserimento di vistose tracce del passato. Anche la
pittura e la grafica seguono il modernismo di Terragni, infatti sempre agli
inizi dei Trenta proprio tra Milano e Como si ha il cosiddetto Astrattismo
lombardo, con Mauro Reggiani, Manlio Rho, Mario Radice, Atanasio Soldati,
Carla Badiali. Se rientriamo nelle acque territoriali dell’affiche, sappiamo già
che per necessità funzionale il discorso pubblicitario non può rinunciare
facilmente a valersi di motivi iconici a favore di una grammatica astratta o
meglio concreta, fatta di puro geometrismo, ma certo l’impostazione del
manifesto può avvenire in modi più ariosi e scattanti. Lo dimostrano i
contributi di Marcello Nizzoli (1887-1969), che proprio all’inizio del
decennio, nel 1931, compila un manifesto per l’Annuale della marcia su
Roma (f. 47), risolto per intero attraverso forme aniconiche desunte dal
repertorio delle lettere o dei numeri, questi ultimi ovviamente in carattere
romano per stare al passo con la natura dell’evento celebrato. E così, i due
bracci di una “X” maiuscola che siglano il compiersi della misura cronologica
del decennio scattano limpidi, tesi, quasi come progetti per la costruzione di
un’edicola, a gara con le proposte convergenti del razionalismo di Terragni. Il
fatto che quest’affiche, così rispondente a un clima finalmente in regola con i
parametri del Movimento moderno, instauratosi in Italia con un decennio di
ritardo rispetto alle altre capitali europee, sia rivolta a celebrare il regime
fascista, è un attestato della larghezza mentale nel campo estetico di cui va
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dato atto alla dittatura mussoliniana. Questa non pretese mai di imporre,
almeno in materia di gusto, una soluzione unica, mentre ovviamente fu
duramente repressiva in ambito politico, punendo gli oppositori col confino, o
addirittura con l’assassinio. Ma quanto a idee estetiche, Mussolini non poté
mai dimenticare di avere alle sue spalle Marinetti e il Futurismo, e di aver egli
stesso inaugurato il movimento detto di Novecento, mentre a partire dal
Trenta si richiameranno a lui anche i funzionalisti della specie di Terragni o
gli astrattisti in pittura sulla scorta del loro miglior teorico, Carlo Belli. E non
è tutto, vedremo presto che ci sarà una variante rivolta all’elogio della civiltà
contadina. Quale Italia voleva il Fascismo? Un paese virilmente aperto alle
prospettive dell’industrialismo e dell’urbanesimo, o una comunità abbarbicata
alle sane radici del ruralismo? O una popolazione di eroi del lavoro, e magari
delle imprese coloniali, protese a raccogliere in eredità i simboli, i riti e miti
della romanità? Nizzoli, evidentemente, si poneva nella prima casella di
questo ventaglio di soluzioni, in cui era compreso anche un inno alla moda,
quale risulta da un suo manifesto del ’30, anch’esso affidato alla nuda
eloquenza di schemi geometrici, a triangolo o a capanna, ma d’altra parte
l’argomento in sé frivolo raccomandava anche che le ampie vele di questa
sorta di chiosco venissero bombardate con un picchiettio di quadretti, seppure
parcamente impostati sul bianco e nero (f. 48). E visto che ci troviamo su
questo fronte dell’opzione razionalista, cui non mancava una certa
accettazione da parte del regime, possiamo esaminare l’affiche di un
architetto tra i più limpidi promotori del clima rigoroso, di una tendenza che
potrebbe anche essere ricondotta a “stracittà”, parola d’ordine che entrava in
fiero contrasto col suo opposto, con “strapaese”, sorto invece a tutelare
l’Italietta contadina e municiplista. Libera, dunque, ebbe il compito, alla data
precoce del ’28, di stendere un manifesta per reclamizzare un Concorso
nazionale per l’arredo economico delle case popolari (f. 49), e dunque i
criteri di un funzionalismo severo, riduttivo, alla Bauhaus, si imponevano
sovrani, inducendo il progettista a esibire un austero allineamento di tanti
cubicoli, con monotona soluzione modulare, assolutamente schiva di
compiacimenti decorativi. L’economia veniva così propugnata a vantaggio
del grande numero, della possibilità di provvedere l’abitazione a tanti utenti,
di quel popolo, di quella massa proletaria che in qualche modo avevano
sollecitato la comparsa sulla scena europea delle fatali dittature
nazionalpopolari di destra, o della rivoluzione sovietica, a sinistra. Ma quelle
nude celle abitative, se garantivano buone condizioni igieniche ai loro utenti,
li condannavano anche a quella che poi si sarebbe detta una deprivazione
sensoriale. Possiamo usare il futuro perché queste soluzioni nel nome di un
funzionalismo economico e riduttivo risorgeranno e si diffonderanno ovunque
dopo le rovine della Seconda guerra mondiale, fino a provocare la reazione
che si porrà sotto l’egida del postmoderno.
Le due vie dell’architettura degli anni Trenta, il funzionalismo alla Terragni
e il monumentalismo alla Piacentini, trovarono una confluenza allorché il
regime fascista, ormai prossimo alla sua caduta, volle però dare al mondo
intero una solenne dimostrazione della sua grandeur approfittando del fatto
che la tradizionale Esposizione Universale sarebbe toccata, nel ’42, a Roma.
Per celebrarla nel modo più conveniente si volle creare di sana pianta una
città satellite alla periferia dell’Urbe, nacque così l’operazione passata alla
storia col nome di EUR, un quartiere edificato ex novo che ancora oggi è
gloria e vanto della nostra capitale, raggiungibile con un ramo di
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metropolitana. A dire il vero, la tendenza che vinse, dato che in definitiva era
la più amata dal regime, risultò essere quella alla Piacentini, volta a conciliare
l’arco con l’architrave, peraltro entrambi tra le tipologie costitutive della
romanità. Tutto ciò trova conferma nell’affiche concepita per questa grande
operazione da uno dei migliori architetti dell’epoca, Ludovico Quaroni (1911-
1987), consistente proprio nel presentare un lucido, scattante arco parabolico
(f. 50).
Ma c’era anche l’”altra” Italia, contenta di una collocazione strapaesana,
protesa a crogiolarsi al sole e a imbottirsi, possibilmente, di cibo, senza troppe
preoccupazioni per la linea. Di questa fu cantore Gino Boccasile (1901-1952).
Si veda una sua affiche per un abbronzante, la crema Berteli (f. 51). La donna
ben in carne che ostruisce lo spazio del manifesto proviene evidentemente
dalla tipologia di Dudovich, ma la massa muscolare non si mostra protesa
verso l’auto da guidare nel traffico, o nel gesto di ostentare una macchina
fotografica. Questa è un’immagine di riposo, il che giustifica la pinguedine
eccessiva della figura femminile, sorpresa nella beata fruizione aproblematica
di un’ora di sole. Boccasile cercherà di ignorare l’immane flagello della
seconda guerra mondiale abbattutosi sul nostro Paese, con conseguente
caduta del regime, e così, nel ’46, chiamato a reclamizzare un prodotto
Paglieri (f. 52), egli insiste nel proporci un’immagine muliebre che
evidentemente non vuole guardarsi intorno, prendere atto delle macerie,
interrogarsi su quale destino ci attenda. Quuesta creatura ama circondarsi di
un serto floreale di ruguadosa freschezza, ignorando che stanno per arrivare le
stagioni delle verdure surgelate o liofilizzati. Anche quando Boccasile mette
il suo talento al servizio di un congegno utile e funzionale, piuttosto che
appartenente al settore dei cosmetici, quale la Lama Bolzano per la rasatura
della barba (f. 53), con l’ottima idea di ricavarne i setti di una fisarmonica, la
mette però nelle mani di una presenza femminile troppo florida, ossequiente
ai canoni di una bellezza muliebre ormai tramontata.
Quest’Italietta strapaesana e fieramente trincerata nella cultura contadina
verrà via via condannata e respinta, da un Paese che sul finire degli anni
Cinquanta conobbe quello che venne detto il miracolo italiano, e, passato il
capo dei Sessanta, si avviò verso un industrialismo avanzato, conoscendo la
stagione del boom, della società affluente, ricca di merci. Le forme atticciate
e gonfie proposte da Boccasile non potevano più ottenere credito, bisognava
ritornare alle soluzioni scarne, tese, sintetiche al massimo, concepite da Sepo
nei Trenta (anche se lui di persona, rientrato nella sua Bologna, le stava
ripudiando a favore di un’attività “bellartistica” che a torto riteneva più
nobilitante). Chiuderemo il nostro rapido excursus lungo i fasti dell’affiche
esaminando alcune tappe del nostro cartellonista più prestigioso, e di più
continua presenza, nei decenni del dopoguerra, Armando Testa (1917-1992).
Per esempio, Facis, del 1954 (f. 54) per una ditta di confezioni maschili, e
infatti il manifesto accampa un’immagine maschile, ma asciutta, concepita
come una sottiletta, e posta in rapida marcia, nel nome di un attivismo
dinamico, cui diviene funzionale l’aver afferrato a volo, appunto, una
confezione, ugualmente schematica. E’ del ’60 un capolavoro assoluto di
Testa quale il manifesto per un amaro, aperitivo o digestivo piemontese, quale
il Punt e Mes, nel qual caso l’affichista si limita a visualizzare il concetto
stesso dell’unità accompagnata da una sua metà, così felicemente espressa
dalla denominazione della bevanda. Testa ritrova, nella scansione minimale,
ridotta all’osso, la forza sintetica di cui erano stati capaci ai loro tempi
21

Cassandre e Sepo (f. 55). Ma già lo abbiamo detto, gli anni Sessanta sono
accaparrati dal consumismo e dalle confezioni industriali, caratteri che si
applicano anche ai generi commestibili, per i quali vale in primo luogo la
legge dell’inscatolamento. Tra poco partirà l’epopea della Pop Art, che con
un Andy Warhol avrà tra i compiti primari quello di elevare un monumento al
barattolo contenente la zuppa Campbell. L’Europa è invasa dalla “buona
carne Simmenthal”, che del resto risale già agli anni Trenta, il che sta anche a
ricordarci che in effetti c’è un filo conduttore, nell’architettura e nelle arti
applicate, che dai Trenta, scavalcata la cesura bellica, rimbalza e si diffonde
nei Cinquanta-Sessanta. Si sa che i vecchi canoni naturali attribuiti al
prodotto di macelleria sono legati al requisito della tenerezza, ecco dunque la
splendida idea di Testa, di sottoporre un tipico prodotto artificiale e
massificato che è la scatoletta Simmenthal alla prova del fuoco che di solito si
riserva ai prodotti naturali: la prova del taglio, andando ad aggredire col
coltello la scatoletta per vedere come si comporta (f. 56). Compito in genere
del valido grafico pubblicitario è di visualizzare i sentimenti condivisi dal
pubblico. Per esempio, se si vuole rendere il senso della morbidezza
accogliente di una poltrona, cosa ci può essere di meglio che il foderarla con
fette di prosciutto? (1978, f. 57). E’ talmente imperante, nella società dei
consumi e delle merci, il ruolo della persuasione pubblicitaria, che questa
travalica gli esiti bidimensionali propri dell’affiche e non di rado affronta
anche le tre dimensioni confezionando bambocci, robot, burattini pronti a
calcare le scene di spot pubblicitari affidati a brevi filmati o a sequenze video.
E Testa è stato eccellente nel creare una simile popolazione di automi, volti a
raccogliere la preziosa eredità dei nostri secondo-futuristi. Ecco un campione
tratto dalla fortunata serie relativa alle imprese di un caballero conquistador ai
danni di una vogliosa Carmencita (f. 58).

5. Un confronto ravvicinato tra il moderno e il postmoderno


Abbiamo già detto del filo di continuità che lega i nostri anni Trenta al
clima che risorge verso il ’60, nel nome di una finale opzione a favore di una
prospettiva stracittadina, consona a una società di industrialismo avanzato che
vuole marciare al passo con gli standard del progresso. Un clima del genere
si affermò, presso di noi, soprattutto nel Nord, con epicentro in una Milano
che allora conduceva i giochi sul versante economico, con amoi riscontri a
livello estetico. Qui agiva una eletta schiera di architetti che però si
impegnarono prevalentemente nel design, cioè nella progettazione di modelli,
di prototipi, che fossero adatti a una produzione industriale fondata sul grande
numero. Questi designers milanesi raggiunsero un’eccellenza riconosciuta
nell’intero ambito dell’Occidente. Prenderemo come campione della
categoria Achille Castiglioni, nato nel 1918, ma potremmo riferirci con pari
merito a Joe Colombo, Marco Zanuso, Enzo Mari, ad altri ancora. Di
Castiglioni si vedano alcune proposte per utensili: Lampada Tubino, per la
Ditta Flos (f. 59), dove il corpo illuminante è affidato a bracci metallici
scarni, protesi in orizzontale, attenti a esibire la funzione quasi senza
ingombro di materia o di volume. Straordinaria la Lampada ad arco,
progettata nel ’62 sempre per la Flos (f. 60) dove, certo, si disegna l’arco del
titolo, un perfetto ramo di parabola, che potrebbe ricordarci l’ellisse fornita da
Quaroni a simbolo dell’EUR. Ma la flessione, la deroga dal rigore rettilineo,
sembra quasi non derivare da una scelta esplicita del progettista, essere
piuttosto il frutto spontaneo della forza di gravità, corrispondente quindi
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all’accettazione di un condizionamento fisico imprescindibile. Se però la


lampada sorge da terra, può svettare lungo una nitida verticale, e dunque in
questo caso la forza di gravità si applica lungo quel medesimo andamento
rettilineo, non interviene come motivo di disturbo (f. 61). Se poi si tratta di
progettare una sdraio, si dovrà pur tener conto delle esigenze di abbandono
del corpo, su uno schienale obliquato per non costringere la colonna
vertebrale a una scomoda torsione ad angolo retto, e sarà pure opportuno
inserire una comoda predella per l’appoggio dei piedi, ma queste concessioni
alla fisiologia del nostro corpo potranno essere fatte mantenendo una rigorosa
salvaguardia di rigide e tese unità rettangolari (f. 62). Dalla concezione di
singoli utensili Castiglioni passa, nella sua qualità di architetto, a più globali
regie di intere unità spaziali, come avvenne nel ’60 per il Ristorante birreria
Splügen di Milano (f. 63), o per il negozio Gavina, del ’62, elaborato per
consentire a un grande produttore di questi prototipi avanzati e illuminati,
Dino Gavina, di esporre e commercializzare questa mercanzia così avanzata,
che segnava anche il finale trionfo, pur a tanta distanza di decenni degli ideali
Bauhaus in casa nostra (f. 64).
Però, in quello scorcio tra i Cinquanta e i Sessanta, stava pure per partire
una reazione, verso quel mondo di rigori, di squadrature inesorabili, che
rischiavano di sacrificare tante componenti vitali per i bisogni dell’uomo,
come sarebbe un qualche grado di soddisfacimento dei sensi, o di abbondanza
affidata alla decorazione. Insomma, si profilava una nuova battuta del
conflitto tra il rigido e il molle, tra lo hard e il soft, che abbiamo visto
percorrere in filigrana tutta la vicenda novecentesca.
Non ci meraviglieremo quindi a constatare che un quasi coetaneo di
Castiglioni, Ettore Sottsass Jr., nato nel ’17, appena un anno prima, e tuttora
felicemente all’opera, si sia preso il compito di pilotare la nave del design e
della progettazione architettonica, di interni, meno frequentemente di esterni,
fuori dalle secche, dall’aridità del Movimento moderno strettamente inteso,
coi suoi dogmi avversi all’ornamento, a tutto ciò che sappia di concessione
all’estro, alla fantasia, per andare a raggiungere i territori del postmoderno, di
cui si avrà una esplicita consapevolezza solo a partire dalla metà degli anni
Settanta, con una data epocale nel 1977, allorché uno storico inglese
dell’architettura, Charles Jencks, ebbe a pubblicare The Language of
Postmodern Architecture. Intanto, risolviamo l’enigma di quella sigla Junior
che accompagna il nostro Sottsass, dovuta in quanto figlio di un omonimo
Sottsass senior, che negli anni Venti rappresentò molto bene una residua
affezione a schemi di architettura viennese secessionista, non disposta a
cedere alle soluzioni hard del Bauhaus; e dunque, già il padre difendeva i
buoni diritti della decorazione e di qualche seppur contenuta accensione
cromatica. Ma il figlio, cresciuto nell’ambiente milanese ligio alle soluzioni
iper-funzionaliste, ai suoi inizi fece finta di conformarsi a questi schemi, non
mancando però di far valere indici devianti. Si veda per esempio una sua
libreria (f. 65), che a dire il vero è già tarda, dell’87, quando la questione del
postmoderno era ormai pienamente deflagrata, ma si potrebbero trovare nella
produzione di Sottsass chiari segni anticipatori di soluzioni del genere. C’è
una modularità schematica di caselle atte ad ospitare il materiale librario, ma
si noterà che le misure sono continuamente variate, e soprattutto disposte con
evidente criterio di asimmetria, disprezzando un ordine metodico. Inoltre fa la
sua comparsa il colore, caldo, per dare il senso del ricorso a buoni materiali
naturali, come sarebbe il legno, lontani dal culto per la metallurgia cui invece
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si ispirava il design di Castiglioni e compagni. Se ora passiamo alle Lampade


disegnate nel ’94 per la Ditta Fontana (f. 66), certamente ci sta un confronto
con le Lampade da terra progettate a suo tempo da Castiglioni, ma là gli steli
si contraevano in sé, per evitare l’espansione volumetrica, per stringersi su
una pura idea di retta, qui invece si allargano fino a una misura cilindrica, e
soprattutto i copi illuminanti non disprezzano di ricalcare, seppure da lontano
e con modalità sobrie, senza concedere a un revivalismo di sapore Art
Nouveau, i bulbi, le corolle di fiori, con relativi colori. Vediamo ora i
deliziosi paraventi-divanetti concepiti, nel ’94, per la Ditta Cassina (f. 67), in
cui si conferma un certo residuo ossequio alla normalità canonica degli
schemi rettangolari, ma quei divanetti esibiscono anche un senso di fragilità,
in linea con suggerimenti provenienti dall’arredo caro ai giapponesi, che
come sappiamo si valgono ampiamente di tenui separés affidati alla carta. E
anche qui fa la sua comparsa una morbida, calda colorazione. Questo gioco
sottile, tra il rispetto delle regole funzionaliste e il saltarne fuori con soluzioni
eccentriche, trova conferma in uno dei pochi edifici firmati dal Nostro, Casa
Cei, Empoli, ’91-93, dove una compatta facciata (f. 68) risulta però interrotta
da vani di finestre di formato tra loro diverso, e non sempre ossequienti al
primato dell’angolo retto, e soprattutto disposti con voluta asimmetria. Se poi,
tornati agli interni, e rivolgendoci agli arredi igienici, consideriamo le vasche,
progettate attorno al ’95 (f. 69), non ci meraviglieremo certo a vedere che in
questo caso il progettista si è sentito autorizzato ad abbandonare del tutto il
quadrangolo, così ostile ai caratteri fisiologici ed ergonomici del corpo
umano, per puntare su forme ameboidi, le più adatte ad accogliere la nostra
nudità.
Se scarsi sono i casi in cui il nostro Sottsass è approdato al costruito, per la
dittatura ancora esercitata dai canoni del Movimento moderno e dalla loro
vulgata, la sua fantasia contestatrice ha avuto largo agio di sbizzarirsi a livello
di progetti, in genere deliziosi, estrosi, perfino umoristici, in opposizione alla
seriosità modernista, che oltre a vietare l’ornamento vietava pure che in
ambito edificatorio fossero consentiti esiti di carattere ludico. In fondo,
aleggia nelle soluzioni eterodosse di Sottsass un buon retaggio dal nostro
Secondo-futurismo, in cui accanto all’ossimoro del “numero innamorato”
lanciato da Balla ha dominato un’altra massima, pronunciata negli anni eroici
del movimento, da Aldo Palazzeschi, perfettamente intonata a un programma
di distensione affidato al “lasciatemi divertire”. A livello di libera
progettazione su carta, cioè dando sfogo a quella che è stata detta anche
architettura disegnata o dipinta, e che trova sempre occasione di mettersi in
mostra nelle fasi di apertura all’utopia, Sottsass ci ha fornito a getto continuo
un’infinità di soluzioni ingegnose, concettose, neobarocche. Forse qualcuno
ricorda la cantilena Chi ha paura di Virginia Woolf che risuona nella pièce di
uguale titolo composta dal drammaturgo statunitense Albee, dove lo sberleffo
ai danni della grande Virginia è assolutamente gratuito e nonsensical. Sottsass
si affretta a convertirlo in un uguale sbeffeggiamento ai danni di un’autorità
indiscussa dell’ambito architettonico, denominando Chi ha paura di Frank
Lloyd Wright? una di queste sue proposte, che nel caso non si inoltra neppure
troppo nei territori della stravaganza (f. 70). Come invece fa, fin dal titolo, il
progetto per Villa con preziosità marmoree (f. 71), dove il compiacimento per
il fattore della ricchezza, dell’eccesso, è esibito allo scoperto. Si potrebbe
perfino parlare di un preziosismo di ritorno, riprendendo il termine già caro al
Seicento francese, in accordo con tante altre etichette similari, marinismo,
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concettismo, gusto per il wit. Anche se, al solito, andando a vedere nella sua
costituzione fisica questo progetto, si nota ancora una volta che Sottsass non
si allontana di troppo da una scatola solida, ben sagomata. D’altronde anche il
contributo al clima Liberty recato dall’architettiura viennese di stampo
secessionista, da cui proveniva Sottsass padre, amava gli spigoli aguzzi,
anche se poi faceva scattare all’improvviso delle mosse devianti che
andavano a movimentare le pareti, magari tempestandole di motivi decorativi.
Anche la scatola di Sottsass junior ci appare traforata con travature che la
solcano in diagonale, magari ricordandoci le assonometrie che Ponti tracciava
sulle sue anfore. Del resto, queste gabbie traforate, sempre nell’ingegnoso
progetto del Nostro, servono anche come contenitori per ospitare dei corpi
semicilindrici, ripresi anche sul tetto a mo’ di soffitto a botte. Forse Sottsass
non si scatena mai come quando ci offre un progetto di Architettura
monumentale per la conservazione delle memorie nazional-popolari (f. 72).
Evidentemente, si sente provocato da quell’accenno al nazional-popolare che
rema in direzione del tutto contraria al suo bisogno di prezionismi, di
raffinatezze sofisticate, da riportarsi a una ascendenza neobarocca. Il blocco
dell’edificio si articola in bracci, piramidi, motivi zigzaganti, anche se attenti
a evitare la curva. Sottsass resta aderente a un linearismo di fondo, anche se
ama imprimergli delle svolte repentine. Notevole, per finire, un suo Progetto
per piazza monumentale (f. 73) che si schiera anch’esso in antitesi ai dettami
del Movimento moderno. Questo era a favore di una pianificazione
urbanistica totale, fondata sulla griglia delle orizzontali e verticali, che non
lasciava spazi di disimpegno, margini per la distensione e l’incontro
disinteressato dei cittadini, negava l’idea stessa che ci potesse essere un foro,
una piazza, intesa anche come luogo di conservazione delle memorie e
dunque chiamato a farsi “monumentale”, nel senso etimologico della parola,
che richiama a un ricordo del passato, di trascorse virtù. Un luogo,
evidentemente, da sottrarre alla tirannia del funzionamento economico e da
riservare invece a un’idea di spreco, di otium disinteressato. Il postmoderno,
invece, rilancia un simile bisogno quasi fisiologico di stabilire dei luoghi di
incontro, posti in grado di attrarre per il cumulo delle cariche ornamentali,
storiche, di memoria, di connotazione storica di cui sanno farsi portatori.
Sottsass affronta un tema del genere occupando l’area con delle sorte di
prefabbricati gustosamente policromi, in cui si può cogliere anche una
potenzialità ludica, e anche un carattere provvisorio, come fossimo in
presenza di una costruzione ricavata da un bambino utilizzando i pezzi di una
scatola dei balocchi.
Abbiamo visto che gli ardimenti di cui è capace Sottsass scattano, ma solo a
partire da griglie che restano ancora di specie quadrangolare. Per avere invece
una trasgressione completa, compiaciuta, ostentata di tutte le buone regole del
Movimento moderno basterà venire a Alessandro Mendini, che nasce nel
1931, quasi una generazione dopo Sottsass Jr. e a differenza di lui non deve
attraversare una fase di ossequio ai dettami del funzionalismo. Onde mettere
in atto questa sua ripulsa clamorosa, quasi urlata, di tutti i sacri canoni del
moderno, Mendini si rifà al maestro dell’avanguardia storica che fu il più
propenso a sviluppare una via di segno opposto rispetto alle soluzioni
neoplastiche e costruttiviste, dal Cubismo al Neoplasticismo. Si pensi al russo
Wassili Kandinky, che ebbe il coraggio di inaugurare la via del biomorfismo,
tuffandosi nelle profondità della vita oganica. Ma poi lo stesso Kandinsky era
venuto ad un onesto compromesso con l’altra famiglia spirituale, accettando
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l’invito di Gropius e portandosi, negli anni Venti, a vivere presso il Bauhaus,


il che gli aveva imposto di rettificare alquanto i suoi motivi cellulari e
ameboidi, senza tuttavia soffocarli del tutto. Ebbene, è a questo Wassily già
alquanto indurito che il nostro Mendini, nel ’78, cioè al momento stesso di
nascita ufficiale del postmoderno, dedica un omaggio, intitolando al nome del
grande sperimentatore russo una poltrona che magari, nello scheletro, nella
struttura tubolare metallica portante, non si allontana del tutto dalle severe
prescrizioni insite nel design di Breuer, però il nudo scheletro è fasciato di
rivestimenti, nello schienale, nei braccioli, che si lanciano a costeggiare i
profili sinuosi, ondeggianti dei fenomeni cellulari, adottandone anche la
policromia, stesa a vaste chiazze, come se quel pezzo di arredo fosse stato
raggiunto da una specie di scarlattina vivificante (f. 74). Mendini fa un uso
multiplo del riferimento al grande artista, applicandone il nome proprio alla
progettazione di una poltrona, e invece il cognome, Kandinsky, a una
sventagliata di superfici pronte per andare a rivestire oggetti o pareti di
abitazione (f. 75). Alla poltrona intitolata alle lussureggianti ricchezze
decorative stimolate dal nome e cognome di Kandinsky, l’artista ne aggiunge
presto un’altra, dedicata questa volta al sommo narratore del Novecento
Proust, identificato a torto o a ragione come campione di squisite delicatezze
decadenti, per cui, in questo caso, urge rinunciare del tutto a uno schema
funzionale, su cui innestare i pannelli di fastosa decorazione. Ora la poltrona,
presentandosi in numerose varianti, assume uno schienale movimentato da
riccioli, volute, bitorzoli, fronzoli vari, cui fanno eco le stoffe del
rivestimento, anch’esse screziate, iridescenti (f. 76). Naturalmente l’architetto
che è in Mendini non si vuole ridurre alla confezione di un singolo pezzo di
mobilio, fosse pure la fastosa poltrona Proust, non intende rinunciare alla
prerogativa di ogni rappresentante della sua professione di sentirsi chiamato a
progettare in grande, su scala ambientale. Ecco dunque un favoloso Interno
del ’91 (f. 77) in cui alla poltrona Proust, già tanto compiaciuta delle sue
maculature a scarlattina o a morbillo, fa eco un rivestimento delle pareti con
carte da parato anch’esse riproducenti un pattern decorativo sontuoso e
travolgente. Ma anche Mendini riesce a compiere qualche passo indietro e a
rientrare nel profilo professionale più consono a un designer, come quando,
per la Ditta Alessi specializzata nella produzione di articoli per la casa, non
esita certo a tuffarsi in una felice progettazione di cavatappi, frullini, saliere,
oliere (f. 78), trasformando questi modesti utensili in una allegra popolazione
di folletti e gnomi e robot, nel che si coglie un’eredità proveniente dalla Casa
del mago impiantata tanti anni prima da Depuro.
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Avvertenze per l’esame


Il presente corso si innesta su quello svolto nei due anni precedenti,
scaricabile dal sito del Dipartimento o acquistabile presso il servizio
fotocopie (compreso il relativo materiale illustrativo). Di tale parte pregressa
si chiede una conoscenza sintetica. Si ricorda che in un esame d’arte le
nozioni apprese attraverso il testo scritto devono essere verificate sulle
immagini, pertanto lo studente è tenuto a presentarsi avendo con sé lo
stampato di tutte le riproduzioni delle opere qui considerate, in assenza di
questo necessario supporto l’esame non può essere sostenuto. A integrazione
dei presenti appunti si può fare ricorso a volumi integrativi, indicati nel
programma e in genere presenti nella biblioteca del Dipartimento:
AA.VV., L’Italia che cambia, Firenze, Artificio, 1989;
Futurismo 1909-1944, a cura di E. Crispolti, Milano, Mazzotta, 2001;
A.Branzi, Il Design italiano 1964-1990, Milano, Electa, 1996;
Armando Testa, Milano, Charta, 2001;
Alessandro Mendini. Cose, progetti, costruzioni, a cura di P. Weiss, Milano,
Electa, 2001.
Può essere utile la conusltazione di due testi generali stesi da R.Barilli:
L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Milano, Feltrinelli,
2005;
Storia dell’arte contemporanea in Italia. Da Canova alle ultime tendenze,
Torino, Bollati Boringhieri, 2007.
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