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- O. Rossi Pinelli
Storia Dell'arte
Università degli Studi di Salerno (UNISA)
71 pag.
STORIA DELLA CRITICA
D'ARTE INTRODUZIONE
Perché scrivere oggi una storia delle storie dell'arte? Riflessioni sulla storiografia artistica
non sono mai mancate nel tempo, tuttavia la storia tracciata in queste pagine intende
proporsi, in un epoca in cui la disciplina è percorsa da un diffuso malessere, con qualche
carattere di novità. E' difficile negare che gli ultimi decenni abbiamo rappresentato un
periodo di disagio profondo per chi ha praticato questo genere di studio. Un disagio
condiviso con i ricercatori di molte altre discipline umanistiche per via di una crisi
generalizzata che ha colpito l'intero settore, non solo in Italia, e che ha prodotto una
diminuzione di finanziamenti, investimenti, attività editoriali, pubblico, tutto a favore delle
“scienze dure”. Le autrici di questo libro vorrebbero contribuire almeno un poco a
rafforzare la memoria di una tradizione di studi che ha spesso raggiunto risultati notevoli.
La storia della nostra disciplina è stata popolata da persone che hanno lavorato con
generosità, capacità di progettare, guardando al passato per agire nel presente e al futuro
per tutelare e conservare un'eredità preziosa. Naturalmente ci sono stati luci e ombre in
questa storia, fasi eroiche e periodi di grandi incertezze, interpreti brillanti e opachi. Quello
che si è voluto far emergere sono stati la ricerca, l'impegno, il lavoro di tanti protagonisti
che hanno contribuito a preservare la memoria delle opere, dei loro autori, trasmettendo
nel tempo il sentimento di appartenenza che il patrimonio suscita. Nel raccontare questa
storia si è cercato quindi di indagato sul come sia nato e si è sviluppato il nostro mestiere. I
protagonisti di questa vicenda sono numerosissimi. Nella prima parte del volume si è
scelto di circoscrivere l'analisi a quella molteplicità di indirizzi metodologici che più di altri
hanno trovato elaborazione in Italia, a partire dal 800 invece l'attenzione si è stesa
all'Europa e agli Stati Uniti. Il libro si apre con Vasari e si chiude con la storiografia degli
anni 80 del XX secolo. Se Vasari non fu certo il primo artista letterato ad aver osservato
l'arte e gli artifici con sguardo critico storico, egli ha rappresentato un momento di sintesi
dei saperi e delle metodologie precedenti. Ha costruito una trama a maglie strette di
vicende abbastanza documentate con le quali gli addetti ai lavori si sono trovati a fare i
conti fino ad oggi.
Il progetto originario di questo libro prevedeva uno sguardo sul presente, tuttavia cammin
facendo ci si è resi conto che se gli anni 70 e 80 erano stati portatori di un arricchimento
ed espansione della disciplina storica artistica, in decenni successivi si segnala invece una
perdita di centralità della storia dell'arte rispetto ad altri ambiti di studio.
Nonostante la miriadi di percorsi aperti, restano riconoscibili 4 indirizzi preminenti che di
volta in volta che sono imposti, sono arretrati, si sono rinnovati per poi nuovamente
implodere nell'attesa di una nuova fortuna.
Il più consolidato nel tempo è stato quello della connoisseurship. I conoscitori hanno
cominciato a proporsi già nel XVII secolo imponendosi nel XVIII e nel XIX. L'opera d'arte per
costoro è stata affrontata sempre come un intero al cui interno lo specialista poteva
individuare tutte le chiavi necessarie alla sua identificazione, collocazione e comprensione.
L'occhio, la memoria visiva, l'esercizio continuo, sono stati gli strumenti di cardine di chi ha
condiviso questo tipo di ricerca. Studiosi che miravano ad un altro obiettivo, cioè penetrare
nello spirito di manufatti artistici analizzando non solo lo stile ma la struttura delle opere,
le loro assonanze, i loro ritmi per captare l'impianto creativo, hanno un indirizzo connesso
con la ricerca formalista che ha sfiorato l'aspirazione alla trascendenza attraverso
un'assoluta
empatia con l'opera. Un altro indirizzo è quello legato alla ancoraggio delle opere ai fatti,
ai documenti, alle fonti per realizzare una storiografia positiva. Infine una quarta tendenza
è densa di diramazioni: la storia dell'arte come storia della cultura in senso molto ampio,
comprendendo l'iconologia, l'iconografia, la storia sociale dell'arte, la storia dell'arte come
storia delle idee e tanto altro ancora. Per gli studiosi che hanno alimentato questo
articolato indirizzo di studi si può raggiungere la comprensione delle opere solo superando
le frontiere disciplinari, grazie alla confluenza di saperi differenti.
1550-1590
Le arti del disegno
Nessuno degli autori ricordati scriveva ancora di "storia" dell' arte nel senso moderno ma
iniziava ad emergere la consapevolezza che il passato storico-artistico potesse illuminare il
presente, inoltre vi era sempre più da parte degli artisti l’esigenza di fare un salto di
qualità nella scala sociale. A favorire, in tal senso, le istanze degli addetti ai lavori irruppe
un imprevisto fattore esterno: la Controriforma con il Concilio di Trento con la difesa delle
immagini sacre che il mondo protestante aveva condannato. L'universo cattolico non solo
le difese ma ne esaltò il valore trascendentale, quindi la pittura era virtù nobilissima e si
attribuiva agli artisti una funzione sociale molto elevata.
Le immagini sacre avevano il potere, mediante gli atti religiosi che rappresentano, di unire
gli uomini con Dio. L'operato degli artisti era dunque l'anello tra la dottrina e i fedeli.
A cogliere l'occasione offerta da questa particolarissima congiuntura storica, fu un pittore-
letterato, Federico Zuccari il quale fondò l’Accademia del Disegno di san Luca con
l’obiettivo di accrescere la cultura delle giovani generazioni: era necessario esercitarsi non
solo nel Disegno ma anche nell' Anatomia, nella Prospettiva, nella Geometria, e quindi
nella Storia come nella Mitologia. Oltre alla didattica, gli allievi erano coinvolti in dibattiti di
natura teorici sul significato metafisico del disegno, “il segno di Dio tra noi”. Zuccari inoltre
sosteneva che l’imitazione avrebbe dovuto esprimere l'essenza di una dimensione
superiore, trascendente.
Anche questo della natura dell'imitazione sarà tema dibattuto ancora per tutto il
Settecento fino alle soglie del secolo successivo con Canova.
Giovanni Battista Armenini pittore fattosi prete, riscontrava con desolazione la crisi dell'
arte contemporanea. Egli condivideva con Vasari la visione di progresso e declino dell'
arte, ma a differenza di Vasari era certo di vivere una fase di reale declino. Proponeva una
poetica semplice, di impianto classicista capace di offrire un' alternativa alle troppe
bizzarre "maniere" in voga, egli arriva soprattutto a infrangere i segreti di bottega
rivelando ricette per preparare i colori, le vernici, le tele, dando un colpo definitivo alla
stessa ragion d'essere delle "corporazioni". Armenini, insomma, accompagnava il
rinnovamento di cui era portatrice l'Accademia di San Luca, la trasmissione libera dei
saperi in una visione di progresso condiviso.
1590-1640
Il governo della vista e il primato dell’invenzione
All’inizio del 600 l'irrompere del metodo scientifico di Galileo genera una rinnovata
curiosità nei riguardi della verità della natura e pone in primo piano il senso della vista: il
colore conferisce infatti verosimiglianza tale da stabilire il primato della pittura sulla
scultura.
Queste riflessioni sui gradi dell'imitazione della natura apre la strada alla facoltà di parola e
di giudizio anche di chi non era un artista.
Infatti appaiono sulla scena due eruditi non artisti: Giulio Mancini e Giovanni Battista
Agucchi.
Giulio Mancini nelle Considerazioni sulla Pittura rivendica il diritto di chi non è pittore a
giudicare un’opera di pittura.
Non è né pittore né poeta ma medico. Lui inventa una nuova figura, una figura che a
partire dal diciottesimo secolo si chiamerà il conoscitore, persone che non
necessariamente
pratichino la pittura, ma che la conoscano. Per Mancini una cosa è fare le opere e un’altra
è comprenderle, utilizzarle in un senso ampio, perché se l’obiettivo dell’arte e della pittura
è rappresentare la natura è più utile che essa sia giudicata da chi è in grado di orientarsi
nella realtà della natura, conoscendola scientificamente. Egli cataloga la pittura in base al
soggetto rappresentato: oggetti, natura, azioni umane, quindi le gerarchie di merito si
valutano in base ai soggetti rappresentati, ci si svincola dal saper fare pertanto può essere
giudicato anche dai non artisti e anzi gli artisti diventano cosí i meno indicati per giudicare
il loro operato.
Per Mancini, la pittura è un’imitazione e ha dei requisiti da valutare: Bellezza, Decoro,
Grazia, Proporzione, Colore, Bruttezza. Egli fu il primo a catalogare i dipinti secondo
l’epoca e la tecnica e la divisione in “scuole” già formulata dall’Agucchi e che diverrà uno
dei capisaldi della critica artistica. Mancini dà anche regole di mercato e le modalità di
collocazione piú appropriata per ogni soggetto, genere ed epoca delle pitture e
anche regole per come fare stime economiche.
Mancini parla anche dell’organizzazione degli oggetti d’arte negli spazi della casa. Ci aiuta a
capire anche che il collezionare opere d’arte è davvero un elemento di prestigio, di
autorappresentazione. Un gentiluomo nella propria dimora deve far vedere la sua
collezione di dipinti, ma ci sono disposizioni ben precise.
I disegni si devono tenere negli album perché questo consentirà anche al gentiluomo che li
ha collezionati di farli vedere in maniera agevole ai suoi ospiti. Dopo si considereranno le
pitture che per i paesaggi e cosmografie si metteranno nelle gallerie e in esse abbiamo
quindi dipinti che hanno soggetti che possono essere visti da tutti, quindi pitture di storia,
cosmografie, paesaggi. Le lascive come veneri, marte, donne nude devono andare invece
nelle gallerie di giardini e camere più terreni, cioè in spazi che non sono esattamente alla
portata di tutti.
Per quanto riguarda le scuole, vanno messe prima le nordiche, poi le lombarde, poi le
tosco-romane, perché così lo spettatore potrà godere con più facilità e riservare così
nella memoria le pitture già viste e di cui ha goduto.
Quanto alle cornici, il famoso effetto di quadro come finestra sul mondo secondo
Mancini è un dettaglio importante. L’ultimo aspetto sono le tende, necessarie sia perché
dietro di esse si devono mettere i dipinti un po' lascivi, sia perché servono per conservare.
Poi devono essere morbide, arrendevoli e i colori devono essere tenui, cioè quelli che in
qualche modo si accordano con la pittura.
Insieme a Mancini anche altri letterati come l’incisore Abraham Bosse (1602-1676)
teorizzano la legittimità di chi non è artista a poter esprimere un giudizio, che può
avvenire con l’osservazione e con una buona memoria visiva. Difatti è possibile mantenere
a mente le maniere e le attitudini di diversi artisti in modo da fare paragoni ed esprimere
giudizi.
Giovanni Battista Agucchi (1570-1632), letterato e erudito antiquario elabora una serie di
precetti per guidare l’occhio sul come classificare le tecniche, datare le opere e
identificare ogni singolo artista. Invenzione, tecnica pittorica e stile sono i tre punti da
valutare.
Le posizioni piú alte sono riservate alla pittura di storia: il dipingere di maniera e il
dipingere dal vero.
Agucchi dice che gli artefici fanno tutti più o meno la stessa cosa, cioè camminano per una
stessa strada e hanno la medesima intenzione di imitare il vero, il verosimile, il naturale, il
più bello della natura, cioè tutto sommato si tratta solo di graduare l’attenzione alla realtà
(più vicino, un po' meno vicino…) ma difatti quello che interessa agli artisti è una cosa
sola. Esistono però comunque delle differenze individuali che si riflettono nel lavoro loro,
ma la finalità degli artefici è per tutti la stessa: l’imitazione della natura.
Dunque laddove Giulio Mancini avrebbe detto: “se la finalità è la stessa per tutti, tutti mi
possono giudicare”; Agucchi dice che tutti fanno la stessa cosa perché imitano la natura,
ma ognuno lavora con le sue particolarità.
E allora a questo punto come possiamo orientarci nel mondo dell’arte? Dice Agucchi che
bisogna distinguere gli artisti per “scuole”. Gli artefici ovviamente hanno una maniera
individuale che li identifica, ma è possibile raggrupparli rispetto ad un interesse generale,
ad una modalità generale rispetto alla quale questi artefici poi declinano il loro modo di
lavorare originale. La scuola romana ad esempio si caratterizza per la capacità e l’interesse
per l’artificio degli antichi, cioè loro lavorano come gli antichi. I veneziani e quelli della
marca trevigiana, in particolare Tiziano, si sono occupati piuttosto d’imitazione della
bellezza della natura, cosa che già sappiamo da Vasari, quella che si ha dinanzi agli occhi. I
lombardi hanno un caposcuola che è quasi unico secondo Agucchi che è Correggio,
perché egli ha la capacità di imitare la natura forse anche più dei veneziani, ma lo fa in
modo tenero, facile, nobile, che è maniera di per se, cioè è un modo talmente diverso di
imitare la natura che non lo possiamo associare ai veneziani ma inquadrare in una scuola
per fatti suoi. Quello che invece rimane della tradizione toscana e che non è stato
esportato completamente a Roma, ad Agucchi non piace e tutto sommato questo è un
momento un po' di decadenza dell’arte toscana. Queste scuole regionali non sono tanto
legate ai luoghi di nascita degli artisti, quanto piuttosto al territorio in cui operavano gli
artisti.
Un'altra differenza tra Mancini ed Agucchi è che il primo delinea le scuole dei viventi, il
secondo le scuole del passato.
1640-1680
Il primato del colore prima metà del 600
Il primato della vista ha ormai condizionato la sfida tra natura e pittura, gli inganni della
natura si emulano attraverso l'arte della prospettiva e dl sapiente uso del colore applicato
per la restituzione degli aspetti atmosferici del reale.
In questo contesto l'esempio da emulare è certamente Tiziano.
Il teorico di questo mutamento di indirizzo pittorico fu sicuramente Marco Boschini (1602-
1704) mercante legato al mondo del collezionismo. Il più grande critico del 600, scrive in
dialetto veneziano e ne fa una lingua, perchè secondo lui solo questa lingua può restituire
esattamente la pittura veneziana di cui lui intende parlare, usando così la lingua degli
artefici. Tema centrale per Boschini è l'aderenza al vero, incarnata dalla pittura che sa far
trasparire l'anima dei colori. Egli scrive la Carta del Navegar Pitoresco (1660) in cui tesse
l’elogio di Tiziano come apice della scuola veneta e della pittura, rinnega l'idea della
congiunzione di diverse maniere.
Di Boschini è anche Ricche miniere della pittura veneziana qui la questione non è più il
diritto di chi non è pittore a giudicare le opere ma la possibilità di individuare delle
sfumature tra intendenti in grado di esercitare un'intelligenza dello stile e dilettanti. Le
figure appaiono idealmente divise da un cristallo che consente ai dilettanti di osservare
solamente la mensa con le prelibatezze di cui si nutrono gli intendenti, che hanno
maturato un contatto diretto con le opere.
Vi è un proliferare nel 600 di storiografie artistiche regionali.
Si tende ad una storicizzazione del presente e si è alla ricerca di nuove forme di
periodizzazione.
Giovanni Baglione (1573-1644) nelle sue Vite de’ pittori, scultori ed architetti sceglie di
ordinare gli artisti contemporanei in base alla successione dei papi, da Gregorio XIII a
Urbano VIII. Ambisce a valorizzare l’ambiente romano sostenendo che solo a Roma è
possibile perfezionarsi in quella «maniera buona italiana», in questo caso con Rubens.
Giovanni Battista Passeri nelle Vite de’ pittori scultori ed architetti ordina gli artisti in base
alla loro data di morte.
Francesco Scannelli propone un sistema storiografico alternativo in cui elimina totalmente
le vite degli artisti descrivendo solo le opere, da collocare nelle varie scuole pittoriche.
Secondo lui, così come le opere, anche gli scritti e i giudizi sulla pittura vanno osservati
dalla debita distanza e vanno comparati con la diretta osservazione delle opere. La
necessità di poter esercitare un esame diretto sulle opere, porta la preoccupazione e il
disappunto per gli incontrollabili spostamenti delle opere verso le grandi collezioni. Nello
stesso tempo la formula del viaggio assicura credibilità agli itinerari visivi.
Scannelli ha delle teorie molto eccentriche, egli sostiene che esiste un Microcosmo della
pittura in cui le varie scuole pittoriche sono parti del corpo umano: Michelangelo è la spina
dorsale, gli organi vitali sono i veri maestri universali: Raffaello il fegato, filtra e restituisce
nutrimento, lui tra dalla madre antichità la sostanza del sapere; Tiziano il cuore, vera
naturalezza che riceve il sangue dal fegato e lo perfeziona; e Correggio il cervello, l'organo
più nobile nel quale risiede il pensiero che controlla sentimenti ed azioni.
Pietro Bellori (1613-1696) si situa nel contesto di una necessità di un rinnovamento della
cultura figurativa contemporanea che doveva trarre ispirazione dall’antico.
In lui si rintraccia la continuazione delle Vite di Vasari, stessi principi: centralità del disegno,
organizzazione delle vite, concetto di “campioni”.
Bellori esalta la scuola romana di Carracci, in particolare Annibale. Una scuola che
sapeva guardare alla natura, emendandone il brutto attraverso i classici del
Rinascimento, mossa dallo spirito unificatore della pittura di Raffaello.
La sua opera L'idea del pittore, dello scultore e dell'architetto scelta dalle bellezze
naturali superiore alla Natura è costituita da singole biografie, che nell’edizione del
1672 sono 12: Annibale Carracci, Agostino Carracci, Domenico Fontana, Federico
Barocci, Michelangelo da Caravaggio, Rubens, Van Dyck, Duquesnoy, Domenichino,
Lanfranco, Algardi, Poussin, Maratta, Guido Reni e Andrea Sacchi.
Egli dà un ruolo predominante ad Annibale Carracci, restauratore della pittura, esempio di
progresso delle arti, compresenza di maestri antichi e i moderni. Annibale rappresenta
l’apice e il progresso ereditati da Raffaello.
Bellori afferma il primato dell’invenzione e declassa il colore, è l'intelletto non l'occhio a
giudicare.
Carlo Cesare Malvasia (1616-1693) sceglie di aderire al modello delle Vite del Vasari,
rinnovandolo alla luce di piú aggiornate esigenze storiografiche. La biografia si trasforma
cosí in un “racconto aperto”, un “appassionato” montaggio di documenti, carteggi,
testimonianze orali tagliati e inseriti in modo da risultare funzionali a un racconto che
restituisse dignità e autonomia alla scuola bolognese. Malvasia mutua dal Vasari anche la
suddivisione del volume in quattro età. Il punto di partenza è ancora una volta quello della
rinascita dell’arte dopo la cesura con l’antichità.
Cos’è che a Malvasia non piace? Innanzi tutto l’idea di storia che sottende le Vite; la visione
della storia come “frattura”: l’arte che, a causa delle invasioni barbariche, fatalmente
muore e che poi resuscita quando nacque a Firenze Cimabue. Cimabue che poi a sua volta
viene superato da Giotto e così via. Malvasia non concepisce la storia come frattura, come
scomparsa e rinascita; per lui la storia è innanzi tutto tradizione e memoria. Anche l’arte è
tradizione e memoria, e procede per stratificazioni. È certo vero che i secoli bui segnano
un declino del fare artistico, ma la ripresa qualitativa del mondo dell’arte avviene a Firenze
come a Bologna, come in molte altre città d’Italia. L’idea di Malvasia, dunque, non è quella
di sostituire la supremazia toscana con quella bolognese, ma di proporre un modo diverso
di vedere il divenire dell’arte: nessuna frattura, nessuna scomparsa, ma tradizione e
sviluppo.
1681-1814
La Repubblica delle Lettere e il dibattito sul metodo storico
- Fine 600
Il dibattito intorno all’attendibilità delle fonti storiche, che coinvolse anche le opere d’arte,
era andato intensificandosi negli ultimi decenni del Seicento.
Tre personaggi importanti riguardo il rapporto con la storia e le fonti furono Bianchini,
Montfaucon e Maffei.
Francesco Bianchini (1662-1729) esprime questa questione cruciale tra la fine del 600 e
l’inizio del 700: il rapporto tra scienza e antiquaria, tra scienza e storia.
Bianchini studiò il pensiero di Newton e fu fautore del rinnovamento del pensiero
scientifico italiano. La sua Istoria universale del 1697, aveva l’obiettivo ambizioso di
stabilire la verità delle storie e fornire una idea chiara della storia del Mondo.
Bianchini attua un metodo opposto a quello degli antiquari del suo tempo, che puntavano
a raccolte quanto piú possibile estese, in favore invece di una selezione degli elementi
significativi.
Nel 1703 fu nominato Presidente delle antichità di Roma con il compito di tutelare il
patrimonio artistico della città. Allestì il Museo Ecclesiastico in Vaticano, un progetto con
finalità didattiche che doveva ordinare tutte le opere d’arte conservate nel territorio
pontificio per illustrare la storia della Chiesa primitiva. I disegni preparatori testimoniano il
valore documentario attribuito ai singoli oggetti e la ricerca di accostamenti che
rendessero visibile il percorso storico. Si interessò anche a problemi di restauro, come nel
caso del Pantheon, e agli scavi archeologici.
Bernard de Montfaucon analizzò il rapporto tra storia, arte e critica del testo, scrisse
Diarium Italicum. Egli criticava gli antiquari che raccoglievano senza selezionare, la
sua raccolta proponeva invece una selezione delle sole testimonianze che avessero
precisi riscontri nelle fonti.
La classificazione sistematica degli oggetti combinata con il racconto storico produsse
un’opera decisamente diversa dalle raccolte antiquarie o dalle storie illustrate della
monarchia.
Montfaucon lavorava in parallelo fra testo e immagine con l’obiettivo prioritario di narrare
i fatti storici.
Scipione Maffei (1675-1755) fu impegnato per tutta la vita nel rinnovamento del metodo
storico. Contrario all’erudizione antiquaria compiaciuta delle proprie classificazioni, Maffei
usa diversi strumenti storiografici, dalla critica del testo all’epigrafia, coniugandoli con
l’analisi diretta sulle opere d’arte sia antiche che moderne.
Jonathan Richardson (1665-1745) sollevò la polemica sulla legittimità del giudizio artistico
da parte del conoscitore. Il conoscitore, ora, doveva dimostrare ciò che pubblicava
pertanto crebbe parallelamente il dibattito sulla qualità e attendibilità delle riproduzioni.
Nel 1719 Richardson poneva il connoisseur al centro dei suoi scritti. In The Connoisseur
rivendicava la possibilità di acquisire capacità di giudizio a chiunque sapesse esercitare la
razionalità e intendeva provare come ogni inglese colto e illuminato potesse acquisire
queste capacità con una buona conoscenza della storia generale e in particolare della
Storia delle Arti e specialmente della Pittura.
Metà 700
La Galleria di Dresda tra gli anni Quaranta e Sessanta del 700 diventa un luogo
importante per la cultura cosmopolita grazie al mecenatismo di Federico Augusto I di
Sassonia. Nelle sale della pinacoteca si alternarono cosí alcuni tra i conoscitori piú
accreditati dell’epoca e la Galleria rappresentò un luogo significativo nella carriera di
molti, non ultimo nella formazione di Winckelmann.
Gaetano Bòttari eseguì un progetto per l’ampliamento delle vite vasariane con una serie
di illustrazioni delle opere trattate nel testo, vi troviamo quindi l'importanza delle incisioni
per la documentazione delle opere.
Molto attento alla conservazione e documentazione mediante la raccolta di lettere: le
lettere degli artisti assumevano per la prima volta un rinnovato valore di prova storica.
Intorno alla metà del secolo il dibattito sulle competenze dei restauratori divenne
progressivamente piú acceso, incrociandosi con la riflessione dei conoscitori.
L’esercizio dell’attribuzione non era esente da clamorosi errori dovuti alle modifiche
che le opere subivano nel tempo.
Nel 1746 Pietro Guarienti (1678 ca. - 1753), pittore allievo di Giuseppe Maria Crespi, operò
una lucida difesa delle qualità del conoscitore, dava anche indicazioni per smascherare i
falsi.
Nel 1750 arrivò a Dresda anche Ludovico Bianconi (1717-1781), disseminava osservazioni
sulle modalità di esposizione delle opere. Bianconi polemizzava in particolare con Luigi
Crespi. Il confronto sulla legittimità del giudizio vedeva ancora una volta contrapposti un
intenditore a un artista.
Tra il 1753 e il 1757 alla collezione di dipinti di Dresda veniva dedicata una raccolta
di stampe curata da Carl Heinrich von Heineken (1707-1791) che applicò il modello
del Recueil Crozat, inaugurando una nuova tipologia di catalogo illustrato.
Nel 1764 direttore generale delle collezioni e delle Accademie di Sassonia veniva nominato
Christian Ludwig von Hagedorn (1712-1780) fine conoscitore, aveva come obiettivo
scardinare un pregiudizio nei confronti dell’arte tedesca, infatti contestava
l’assimilazione del «gusto tedesco» al «gusto gotico» fatta da Roger de Piles e mirava a
individuarne le caratteristiche peculiari.
A portare il metodo dei conoscitori sul terreno degli antiquari fu il conte di Caylus
(1692- 1765), incisore, collezionista e studioso oggi celebrato come uno dei padri
fondatori della moderna archeologia.
Il Grand Tour lo portò prima in Italia e poi fino in Asia Minore, un’esperienza che giocò un
ruolo rilevante per il suo metodo, influendo sullo sguardo molto ampio che riservò a tutti
i popoli dell’antichità.
Caylus ripropose la formula del Recueil con l’obiettivo di studiare fedelmente lo spirito e la
mano dell’Artista guardando le opere come la prova e l’espressione del gusto che
dominava in un secolo e in un paese. Il suo metodo era l’osservazione diretta delle opere.
Il gusto di un popolo per Caylus differisce da quello di un altro popolo. La tecnica e lo stile
costituivano quindi gli elementi fondanti dell’analisi.
La critica verso gli antiquari riguardava anche la qualità delle riproduzioni:
Caylus rivendicava di aver riprodotto solo opere che aveva visto personalmente,
spesso presentandole da più punti di vista.
Oggi è noto che Caylus si ritrovò spesso a lavorare su opere di scarso valore, talvolta false,
ma questo non sminuisce la portata delle sue scelte innovativa di metodo, che lo
condussero ad occuparsi di materiale minuto, oggetti di vita quotidiana e reperti
frammentari.
La ricerca sulle tecniche esecutive antiche e sui materiali costitutivi era questione cruciale
per Caylus, per questo si avvaleva della collaborazione di medici e chimici, con cui
riconosceva anche se le opere erano state sottoposte a restauri. Dal punto di vista della
narrazione storica, lo studioso concordava con quanti vedevano un percorso evolutivo
dall’origine presso gli Egizi fino all’apogeo dell’arte greca, per poi leggere un inevitabile
declino. All’interno di questo schema Caylus sottolineava però le peculiarità di ciascun
popolo e i legami trasversali tra le diverse culture.
Il metodo di Caylus era vagliare i documenti storici, appurare la verità dei fatti, riuscendo a
restituirli in una narrazione storica dal carattere didattico.
Dunque con il conte di Caylus si passa dall’Antiquaria alla Storia dell’arte. L’antiquaria è un
modo di sfruttare un catalogo, un inventario, una lista: per esempio Caylus scrive 40
volumi che raccolgono antichità greche, etrusche e romane. L’antiquario non fa la storia, fa
elenchi, cataloghi, inventari, mentre lo storico sente invece la necessità di mettere a
sistema i dati di fatto, per ricavare da essi delle leggi che gli consentano di fare una storia.
A questo modello storico sembra fare riferimento Johann Joachim Winckelmann (1717-
1768) nato a Sassonia nel 1717, all'inizio si dedicò alla medicina e alla matematica. Ebbe
anche modo di studiare diverse lingue quando dal 1748 al 1754 fu impegnato come
bibliotecario vicino Desdra. Qui strinse legami con vari conoscitori che aumenteranno il
suo interesse per la pittura italiana, in particolare la pittura classicista del 600 che spesso
metterà a paragone con gli antichi. Tale interesse rimarrà costante anche dopo il
trasferimento a Roma.
La sua prima importante opera fu Pensieri sull'imitazione delle opere greche in pittura e
scultura, qui dimostrava l’assoluta unicità dell’arte greca fondandola su alcuni fattori
determinanti: la temperatura, la qualità fisica data dagli esercizi ginnici, la libertà politica e
quella dei costumi erano le motivazioni che spiegavano la superiorità dell’arte greca,
prescritta come modello per il gusto contemporaneo.
In questo saggio, compare un passo essenziale per la comprensione del neoclassicismo.
Eccolo qua per intero:
“La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una
quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare
che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle
figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata”
Per comprende al meglio queste parole perciò calarci nella realtà del contesto artistico del
Settecento. Una realtà in grande fermento, soprattutto dopo i ritrovamenti, avvenuti
rispettivamente nel 1738 e nel 1748, delle rovine di Ercolano ed Pompei, che
risvegliarono la passione per l’antichità negli artisti e negli intellettuali del tempo. L’eco di
tale scoperta pervase l’intera Europa, attirando in questa zona d’Italia viaggiatori
provenienti da tutto il continente. Lo stesso Winckelmann si recò a Pompei e a Ercolano,
benché solo alla fine degli anni Cinquanta del secolo, quindi dopo aver pubblicato i suoi
Pensieri: la visita, tuttavia, sarà per lui fondamentale per la stesura delle sue opere
successive. Uno dei risvolti positivi di questo rinnovato amore per l’antichità, fu
l’approccio scientifico all’arte del passato: gli studiosi iniziarono a redigere catalogazioni,
a condurre campagne di scavo, a studiare le testimonianze dell’arte classica con criterio
filologico. E tali interessi non riguardarono soltanto l’arte romana, che per secoli aveva
costituito lo “standard” al quale gli artisti si rifacevano: gli intellettuali iniziarono a
occuparsi in modo esteso e sistematico delle produzioni artistiche di altre civiltà, come
quella greca, quella egizia, quella etrusca, e non solo.
Fino ad allora, guardare alla classicità significava, essenzialmente, guardare all’arte
romana: il giudizio degli intellettuali, a partire dal Cinquecento, fu condizionato da Giorgio
Vasari, che nella sua Vita di Andrea Pisano affermò che l’arte romana fosse “la migliore,
anzi la più divina di tutte l’altre”. Il clima culturale che si sviluppò nel Settecento mise in
discussione il primato fino ad allora riconosciuto all’arte romana: in precedenza, nessuno
si era preoccupato di fare distinzioni tra arte greca e arte romana, dal momento che era
tutto ricondotto sotto la “categoria” della classicità. Gli studiosi del XVIII secolo
cominciarono pertanto a domandarsi quali fossero le differenze tra arte greca e arte
romana e, dunque, in quale modo le due civiltà declinassero la classicità. Fu proprio
Winckelmann a rivisitare profondamente il giudizio di Vasari: lo storico dell’arte tedesco
riteneva infatti che i greci fossero superiori ai romani. Per inciso, lo stesso giudizio di
Winckelmann condizionò i gusti estetici almeno fino agli inizi del Novecento (con
l’eccezione, però, del romanticismo), quando ci fu una completa rivalutazione dell’arte
romana.
Ma per quale motivo Winckelmann fu un deciso assertore della superiorità dell’arte greca
nei confronti dell’arte romana? Winckelmann riteneva che l’arte nascesse in clima
di libertà, e dal momento che riteneva anche che i greci fossero uomini veramente liberi in
quanto vivevano, al contrario dei romani, in uno stato basato su un vero ed efficace
sistema democratico, l’arte greca, secondo la logica di Winckelmann, non poteva che
essere più libera e detenere quindi il primato su quella romana. Lo storico tedesco era
convinto inoltre che il fiorire delle arti nella Grecia antica abbia avuto il suo inizio in un
momento ben preciso: quello della cacciata dei tiranni e della susseguente nascita della
forma di governo democratica nell’Atene antica. È dunque questo il motivo principale per
cui Winckelmann era un acceso fautore della superiorità dell’arte greca su quella romana:
quest’ultima non poteva che consistere in una copia, decadente e priva di valori, di quella
greca. Così come decadente, secondo Winckelmann, era l’arte a lui contemporanea, che
dipendeva dalla volontà di un sovrano, della sua corte, e dei mecenati che la
frequentavano: ricordiamo che Winckelmann era nato nel regno di Prussia. Anzi: è
possibile che il suo pensiero sostanzialmente illuminista e quindi la sua avversione per i
regimi monarchici (i quali spesso e volentieri si ispiravano al modello dell’Impero Romano)
avesse contribuito a formare il suo parere sulla superiorità dell’arte greca nei confronti di
quella romana.
Si aggiunga poi un altro dato importante: Roma è la sede del papato, che all’epoca di
Winckelmann era una delle monarchie più influenti (e probabilmente anche più dispotiche)
d’Europa. La Chiesa aveva dettato il gusto artistico europeo di tutto il Seicento,
promuovendo l’arte barocca. Winckelmann fu sempre estremamente critico nei confronti
dell’arte barocca, che era vista come un’arte degenerata, fondata sul virtuosismo tecnico e
sulla bizzarria. Bizzarro e armonia sono due concetti che non possono andare d’accordo. E
dal momento che Roma in quanto sede del papato poteva essere paragonata alla Roma
sede dell’Impero Romano, veniva spontaneo fare paragoni tra l’arte barocca e l’arte
imperiale.
Questo pensiero sull’arte greca non poteva non investire, ovviamente, la concezione del
bello dell’arte greca. I greci, secondo Winckelmann, furono la civiltà che più di ogni altra
riuscì nel realizzare un’arte caratterizzata da purezza formale, armonia, equilibrio e assenza
di turbamento: e questo, proprio in virtù della loro elevatissima libertà. Ed è pertanto qui
che si inserisce la definizione dei capolavori dell’arte greca come capolavori caratterizzati
da nobile semplicità e quieta grandezza. Per comprendere al meglio questo concetto,
possiamo utilizzare lo stesso esempio proposto da Winckelmann nella sua opera: il
celeberrimo Laocoonte. Si tratta di una scultura, di datazione incerta (sono state proposte
date che vanno dal primo secolo avanti Cristo, al primo dopo Cristo), conosciuta attraverso
una copia romana datata al primo secolo dopo Cristo, che raffigura il famoso episodio
dell’Eneide di Virgilio in cui si narra del sacerdote troiano Laocoonte che fu trascinato in
mare, assieme a entrambi i suoi figli, da due enormi serpenti marini mandati da Atena
affinché Laocoonte non ostacolasse il piano dei Greci per la conquista di Troia. Laocoonte,
infatti, aveva ammonito i suoi concittadini di non fidarsi del cavallo inviato in dono dai loro
rivali.
Nei suoi Pensieri, Winckelmann mette in contrapposizione i muscoli in tensione
del Laocoonte nel tentativo di divincolarsi dai serpenti, con la sua espressione che è sì
sofferente, ma non è scomposta: il dolore, nel volto di Laocoonte, si concretizza, dice
Winckelmann, in una bocca che lascia uscire solo un respiro affannoso e non grida orribili,
come quelle che Virgilio attribuisce al suo Laocoonte dell’Eneide. È dunque questo che
Winckelmann intende per quieta grandezza: la capacità di controllare le pulsioni, l’abilità
nel riuscire a comunicare in modo misurato ed equilibrato le sensazioni come, in questo
caso, il dolore di Laocoonte. Winckelmann paragona i capolavori dell’arte greca al mare:
per quanto possa essere turbata la superficie dalle onde, il fondo rimarrà sempre
tranquillo.
Allo stesso modo i greci, in mezzo alle passioni più turbolente, riuscivano comunque a
comunicare l’idea di una equilibrata grandezza dell’anima: e tale anima pervade tutta
l’opera, nel senso che la grandezza dell’anima di Laocoonte, che sopporta il dolore, si
percepisce proprio dal contrasto tra l’espressione e il movimento dei muscoli.
La quieta grandezza del personaggio si riflette quindi anche nella posa che l’artista sceglie
per rappresentarlo: anche in questo caso, si evitano pose eccessivamente bizzarre,
virtuose, scomposte, incontrollate. Si preferiscono pose semplici ma che al contempo
riescano a comunicare, anch’esse, la grandezza di un’anima nobile: ecco quindi
perché nobile semplicità. È comunque doveroso evidenziare che al giorno d’oggi si tende a
leggere il Laocoonte non tanto attraverso l’interpretazione di Winckelmann, bensì
attraverso quella di Aby Warburg che, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento,
ribaltò il giudizio di Winckelmann ritenendo che il Laocoonte fosse invece una scultura
dotata di un’enorme e travolgente forza drammatica espressa da movimenti convulsi e
nervosi.
Tornando a Winckelmann, è importante sottolineare come lo storico sostenesse che ci fu
anche un artista moderno in grado di distinguersi per nobile semplicità e quieta grandezza:
si trattava di Raffaello, l’artista che operando una estrema semplificazione degli schemi
compositivi del primo Rinascimento, arrivò a vette di armonia e di equilibrio fino ad allora
non toccate.
Ma Raffaello non era un uomo dell’antichità: era un moderno. Dunque, come era possibile,
secondo Winckelmann, far sì che l’opera realizzata da un artista moderno raggiungesse
quella nobile semplicità e quella quieta grandezza che contraddistinguevano le opere
dell’arte greca antica? La risposta non poteva essere che una: mediante l’imitazione.
Imitare gli antichi era infatti, secondo Winckelmann, l’unico modo per diventare grandi,
per il fatto che l’arte greca aveva raggiunto il massimo grado di perfezione formale e
nessuno avrebbe potuto superarla o fare di meglio. Imitare, tuttavia, non voleva dir
copiare: significava produrre opere originali, in modo creativo, ispirandosi però ai principi
che regolavano l’arte greca classica, facendo dunque in modo che le linee e le pose fossero
semplici e che i soggetti non fossero turbati dalle passioni. Le indicazioni di Winckelmann
costituirono la base su cui si mossero gli scultori neoclassici. L’artista che seguì più da
vicino il pensiero di Winckelmann non fu, come si potrebbe pensare, Antonio Canova, le
cui opere spesso lasciano intravedere un cuore pulsante di passione, bensì il danese Bertel
Thorvaldsen, che riuscì a produrre un’arte in cui le linee sono semplificate all’estremo e
dove non si scorge traccia di sentimento. Thorvaldsen si poneva quindi come l’artista che
più di ogni altro incarnava i concetti dello storico dell’arte tedesco, anche perché l’estetica
winckelmanniana costituì una delle basi della sua formazione: peccato solo che
Winckelmann non poté mai vedere le opere dell’artista che meglio aderì ai concetti
di nobile semplicità e quieta grandezza.
Il contatto diretto con le antichità di Roma rappresentò un elemento di svolta nel metodo
infatti scriveva quanto fosse impegnato ad “osservare e guardare” visitando scavi,
collezioni, atelier, restauratori. La difesa dell'importanza dell'autopsia divenne un
elemento di consapevolezza sempre più rilevante e i legami con artisti come Anton
Raphael Mengs facilitarono la sua comprensione della realtà materiale delle opere.
L'incarico come Prefetto delle Antichità, Antiquariato Apostolico e Commissario delle
antichità, assegnatogli dal papa nel 1763, includeva l'occuparsi delle licenze di
esportazione in merito al problema dei restauri e della loro riconoscibilità. Winckelmann
giudicava negativamente gli interventi che modificavano le opere per adattarle al gusto
contemporaneo.
Fin dai primi mesi progettò di scrivere sul restauro delle sculture antiche, proposito
rimasto incompiuto e realizzato poi dal suo restauratore di fiducia Cavaceppi.
Bartolomeo Cavaceppi è proprio un restauratore di scultura antica, tanto famoso nel suo
tempo che pubblica un catalogo delle sculture presenti nella sua raccolta privata che lui
esponeva anche al pubblico nel suo atelier o per venderle ai collezionisti nella sua bottega.
Cavaceppi si può permettere di fare il catalogo della sua collezione e mettere come
frontespizio l’immagine della sua bottega, con i suoi collaboratori a lavoro, con gente in
visita, con sculture, cioè egli si può consentire un’autocelebrazione non da poco perché il
suo studio romano veniva frequentato dal papa, dai sovrani, dagli aristocratici di
tutt’Europa che sapevano che lì potevano vedere sculture importanti e acquistarle
naturalmente integrate da Cavaceppi che integrava alla scultura antica. Winckelmann
insieme a Cavaceppi quando arriva a Roma può risistemare la raccolta del cardinale Albani:
così lavora insieme ad un tecnico che conosce stili e materiali della scultura antica, cosa
che consente a Winckelmann un approccio immediato agli stili della scultura antica,
cosicché può avviare quella raccolta di dati da cui può ricavare le leggi del suo sistema
della storia dell’arte dell'antichità.
Nel 1764 pubblica quello che è considerato il suo capolavoro storiografico: Storia dell'arte
nell'antichità in cui l’aspetto innovativo fu la sua capacità di sintesi e di narrazione. Lo
stesso aspetto del libro in formato tascabile testimonia il desiderio di diffondere le
conoscenze sull’arte rendendole comprensibili a un vasto pubblico, inoltre volle
rinnovare il linguaggio della storia dell’arte usando spesso neologismi.
L'opera era articolata in due parti: prima c'è l'Esame dell'arte relativo alla sua essenza, poi
l'analisi della produzione di Egizi, Fenici, Persiani, Etruschi, Greci e Romani. Così per ogni
popolo e periodo storico la produzione artistica era letta come il frutto dell'ambiente fisico
e della struttura politica e sociale. Alla Grecia era affidato un ruolo di
eccezione,culminante con Fidia. La storia dell’arte era raccontata come un processo in
evoluzione, mentre lo stile veniva letto attraverso le differenze territoriali.
Winckelmann intendeva cosí distaccarsi dal metodo degli antiquari: il pensiero
storiografico e quello scientifico si fondavano sulla lettura della realtà.
Il rapporto tra Winckelmann e Caylus si articolò a distanza: Winckelmann era piú giovane
di 25 anni e i due non si incontrarono mai personalmente.
Lo stile era per entrambi lo strumento privilegiato di analisi dell’opera, mentre la
differenza è sulla metodologia e sull’obiettivo finale: Caylus esaminò nel dettaglio
moltissime opere,
fondando il proprio metodo sulla prova dell’osservazione diretta, Winckelmann elaborò un
sistema di sintesi dove l’ipotesi era il metodo.
La critica militante. (dibattito tra metodo storico e definizione del bello e del gusto)
- Seconda metà del 700
Quando nel 1765 il conte Caylus morì. Denis Diderot osservò: “la morte ci ha liberato di
uno dei più crudeli amatori”. Questa forte affermazione ci dà l'idea di quanto si fosse
consumata la polemica tra i filosofi e i conoscitori intorno al giudizio artistico.
Mentre l'estetica diventava una disciplina autonoma tra gli studenti filosofici, definita la
scienza del bello , nel mondo dell'arte si riprendeva la polemica sull'autorevolezza del
giudizio.
Diderot contestava ai conoscitori di essere a digiuno di filosofia pertanto non avrebbero
mai potuto comprendere la verità dell’arte e quindi esprimere una libera valutazione, oltre
al fatto che un collezionista sarebbe stato condizionato dal mercato. Solo un filosofo,
completamente libero da vincoli esterni, poteva invece penetrare la verità sull’arte.
Proprio questa differenza diventerà uno dei temi portanti della storia dell’arte fino ai primi
decenni dell’Ottocento.
Veniva messa a fuoco in questo periodo una distanza sia dal punto di vista del metodo
che degli obiettivi: da un lato la ricostruzione storica, dall’altro il problema della
definizione del bello e del gusto.
Rappresentativa di questo clima è la polemica innescata nel 1764 tra Mariette e
Giovanni Battista Piranesi (1720-1770) a suon di lettere pubbliche.
Piranesi si era formato a Venezia ed aveva viaggiato a Napoli per poi trasferirsi a Roma,
in contrasto con Winckelmann, difendeva l’autonomia dell’arte romana rispetto al
modello greco. Mariette invece sosteneva il debito dell'arte romana verso l'arte greca.
Sullo sfondo si dibattevano considerazioni sul ruolo della storia dell’arte del passato
rispetto all’arte contemporanea e in questa direzione le Accademie ponevano la centralità
di riferirsi all’antico e i canoni di tradizione belloriana.
L’esigenza di riformare e rilanciare queste istituzioni percorse l’Europa durante tutto il
secolo, Hagedorn nel 1763 si occupò dell’Accademia di Dresda, a Madrid e Roma si schierò
Mengs (1728-1779) che si cimentò come storiografo per legittimare cosí le proprie scelte
come pittore.
Raphael Mengs nato in Boemia nel 1746 si stabilì a Roma, dove si legò a Winckelmann e
divenne uno dei pittori piú celebrati dell’Accademia di San Luca. Pubblicò un unico testo
nel 1762: Pensieri sulla bellezza e sul gusto nella pittura, dedicato a Winckelmann.
L’obiettivo era spiegare cosa sia la Bellezza e cosa sia il Gusto.
Collaboratore di Mengs fu Francesco Milizia (1725-1798). Originario della terra d’Otranto
si stabilì nel 1761 a Roma, entrando in contatto con Bottari, Winckelmann e lo stesso
Mengs. Pubblicò nel 1768 le Vite de’ piú celebri architetti , riproponendo il modello
vasariano, ma con ampi riferimenti a Félibien. Egli biasimava aspramente Bottari per aver
preteso di commentare e correggere il grande modello storiografico. Ciò che lo metteva in
sintonia con Vasari era la scelta di usare la stesura delle vite per proporre una severa
selezione degli artisti e veicolare i propri giudizi estetici.
Milizia rappresenta un caso emblematico per testimoniare quanto la storiografia artistica
nella seconda metà del Settecento fosse così tipologicamente varia. Il suo Roma nelle
belle arti del disegno è un esempio delle nuove forme di divulgazione, edito in forma
anonima e tascabile, senza immagini: gli edifici della città venivano presentati in ordine
cronologico.
La costruzione della storia dell’arte stava percorrendo molte e diverse strade: il
dizionario, la lettera pubblica e il discorso accademico.
Nacquero i periodici: le «Efemeridi letterarie» recensirono piú di cinquemila libri italiani
e stranieri, le recensioni veicolavano precisi orientamenti estetici, discutevano di modelli
e canoni del buon gusto.
Rispetto a Parigi, piú orientata alla modernità, nel contesto romano critica d’arte e storia
dell’arte rimanevano spesso unite, perché il canone del passato era percepito come
vincolo e fondamento del canone del presente.
Cosí i periodici seguivano con tempestività le novità dei pittori contemporanei, ma anche
notizie degli scavi o dell’allestimento dei musei, rilanciando le questioni polemiche piú
scottanti.
Animati da diversi indirizzi critici questi giornali rappresentarono un canale di diffusione,
contribuendo al consolidamento di un lessico specifico.
Possiamo citarne alcuni come: “Il giornale delle belle arti”, “Le memorie per le belle arti” e
“Monumenti antichi inediti ovvero notizie sulle antichità e belle arti”.
La scoperta delle tombe di Tarquinia nel 1756 avviò una discussione sempre piú
articolata, Luigi Lanzi dedicò una serie di scritti agli Etruschi.
Si diffuse l’approccio filologico-antiquario anche nell’indagine sulle opere medievali.
Nelle ricerche storico-religiose si erano distinti Bianchini e Montfaucon: il diverso
metodo di ricerca favorì un crescente apprezzamento anche delle intrinseche qualità
formali.
L’apprezzamento per l’arte medievale aveva anche un risvolto collezionistico.
Una rivalutazione critica del Trecento italiano non piú sul piano storico-religioso, ma con
aperture sul fronte della storia dell’arte arrivò con Gaetano Bòttari. L’attenzione di Bòttari
alle questioni di conservazione delle opere medievali e alla loro collocazione nei contesti
originari fu condivisa da diversi studiosi di quell’epoca, come il veneziano Anton Maria
Zanetti il Giovane (1706-1778) o il bolognese Giampietro Zanotti (1674-
1765). La questione dell’architettura gotica diventò uno dei temi dominanti, soprattutto
nell’ambiente anglosassone con numerose produzioni di stampe. Il problema della tutela
delle opere medievali suscitava crescente attenzione.
Una storia dell’arte visibile: musei e cataloghi. (intento didattico dei musei e libri
tascabili) fine 700
Musei e collezioni diventarono i luoghi privilegiati per attuare il dibattito sull’arte, anche i
cataloghi si arricchirono di schede delle opere, sempre piú dettagliate. Il formato e il
linguaggio dei cataloghi diventò più accessibile.
Negli stessi anni si difendeva l’utilità dell’attività del conoscitore per liberare l’opera d’arte
dal segreto delle raccolte private, sostenendo una dimensione pubblica del godimento
dell’arte.
Come si è visto, il Recueil Crozat aveva indicato una strada per coniugare testo e
immagini. Il metodo fu applicato alla collezione di dipinti di Dresda da Carl Heinrich von
Heineken.
Il catalogo era rivolto a un pubblico ampio, non necessariamente di conoscitori.
L’intento didattico dei nuovi allestimenti e l’attenzione verso un pubblico non piú
esclusivamente di artisti e intenditori divenne in questi anni una questione cruciale per i
nuovi musei, modificando di conseguenza le strategie editoriali. Sempre piú frequenti
furono i cataloghi tascabili.
Nelle polemiche di quest’epoca si può leggere una contrapposizione crescente tra l’idea di
una collezione come piacere per l’occhio ed esposizione di modelli per gli artisti secondo
gli insegnamenti accademici e quella di una collezione istruttiva sul piano della storia
dell’arte per conoscitori, amatori e un pubblico piú ampio.
Nel 1782, mentre ordinava i disegni della collezione degli Uffizi, il direttore Giuseppe Pelli
Bencivenni lamentava: “quanti libri abbiamo sopra quest'arte, ma quanto siamo ancora
mancanti di una storia perfetta, che indichi senza passione il merito e le doti di ciascuno!”.
Questo desiderio di raccontare una storia generale dell’arte mosse la nascita di alcune
opere.
Il primo fu Luigi Lanzi (1732-1810), che maturò il suo nuovo e ambizioso progetto di una
storia della pittura in Italia dalla fine dell’epoca antica fino alla soglia della
contemporaneità. Privilegiò un formato piccolo, senza illustrazioni (edizione in sei volumi
tascabili).
La prima edizione si intitolava “Storia pittorica dell'Italia inferiore” e si limitava alla scuola
fiorentina, senese, romana e napoletana. Lanzi registra il passaggio dalla mentalità
antiquaria a una visione storicizzante della storia dell’arte. Il suo obiettivo era scrivere una
storia generale della pittura, nella consapevolezza che la storia della pittura è simile alla
letteraria e criticava gli storiografi precedenti per la mancanza della visione d’insieme.
Voleva fare una sintesi capace di narrare attraverso l’evoluzione degli stili le molteplici
influenze culturali. Realizzare una storia come compendio, voleva dire scegliere
rielaborando. Lanzi fondò il proprio operato sulla verifica autoptica delle opere,
acquisita durante numerosi viaggi. I taccuini testimoniano il passaggio dalla cultura
antiquaria alla storia dell’arte.
A seguito della decisione del Congresso di Vienna nel 1815 di restituire le opere
“conquistate” dalle truppe napoleoniche ai loro paesi di appartenenza fu di fatto sciolto il
Musée Napoléon che ebbe se non altro il merito di aver proposto una visione d’insieme
delle diverse scuole artistiche europee. Al loro ritorno in patria le opere diventarono
simboli del patrimonio della nazione. Vennero aperti nelle città europee vari musei: a
Madrid il Museo del Prado; in Prussia l’Altes Museum, a Monaco l’Alte Pinacothek, a
Roma il Braccio Nuovo dei Musei Vaticani, a San Pietroburgo l’Hermitage, a Parigi il
Louvre, a Londra la National Gallery. Le esposizioni universali, iniziate con quella di Londra
del 1851, a loro volta portarono alla fondazione di musei per le arti applicate. Durante
quella che è stata definita “l’età dei musei” risultava ormai codificato un sistema di
epoche storico- stilistiche che avrebbe costituito la base di partenza per le ricerche dei
secoli successivi. Si affermava lo storicismo, ovvero l’analisi del passato su base positivista
e il curvare la storia alle esigenze del contemporaneo. Si avviò una crescente
professionalizzazione degli addetti ai lavori, tra i quali persero sempre più peso gli artisti.
Tale processo portò anche ad una forte differenziazione di competenze tra amministratori
museali, conoscitori e storici dell'arte impegnati nella ricerca di archivio e nella
costruzione di sintesi storiche rivolte al grande pubblico.
Nel 1815, le opere d’arte prussiane furono esposte nelle sale dell’Accademia di Belle Arti
di Berlino. All’università il filosofo Hegel (Fenomenologia dello spirito, 1807) vi insegnò a
partire dal 1817. Emergeva quindi nel contesto berlinese la particolare importanza della
“Storia”, attraverso il pensiero hegeliano e il metodo filologico-critico di Leopold von
Ranke e di Georg Niebuhr. Secondo il nuovo paradigma scientifico positivista, il compito
dello storico non era né giudicare, né atteggiarsi a magister vitae ma solo mostrare la
storia esattamente «cosí come è stata». Il museo parigino influenzò molto il museo di
Berlino (Altes Museum), esso fu inteso innanzitutto come luogo di studio “scientifico”. Nel
1823 una commissione presieduta da Wilhelm von Humboldt, Schinkel, Waagen e Rumohr
formulò un indirizzo profondamente diverso: una nuova concezione di museo, non più un
luogo dove esporre l’evoluzione storica dell’arte ma un luogo dove sperimentare la
bellezza, un luogo di diletto e poi di insegnamento. Waagen (1794-1868)rappresentava un
nuovo tipo di specialista che collegava lo studio scientifico con il lavoro di funzionario
museale. Egli basandosi sull’analisi delle fonti e sull’autopsia delle opere tentò di
interpretare l’arte dei Van Eyck nel contesto storico del loro tempo. L’arte dei Van Eyck
veniva cosí proposta come esempio massimo di naturalismo in quanto espressione dello
spirito nordico. Tra università e museo si formò cosí un gruppo di studiosi, la cosiddetta
“scuola di Berlino”, che portò avanti una serrata discussione sui metodi e sulle
competenze degli storici dell’arte, anche in concorrenza/separazione con altre discipline
come la filosofia, la storia e l’archeologia. Si contrapponevano quindi due metodi: il
modello scientifico-filologico (autopsia dell’opera e critica delle fonti) e il modello
illuministico enciclopedico ampliato con storiografie a carattere universale (Lanzi, Fiorillo,
D’Agincourt). I
collezionisti di arte tedesca sottolinearono l’importanza di suddividere la storia dell’arte in
modo cronologico (e non per scuole). Leopoldo Cicognara si pose in questa scia
costruendo il percorso per cronologie, proponendo una divisione in quattro epoche,
(alimenta spirito nazionale italiano con apice degli artisti Canova). Giovan Battista
Cavalcaselle e Joseph A. Crowe reimposteranno la storia della pittura italiana su rinnovate
basi metodologiche e storiografiche con un dichiarato intento didattico. Gli storici dell’arte
cominciavano a scrivere anche per il pubblico della media e piccola borghesia, che
conosceva l’arte solo dai musei e dai volumi illustrati, a differenza dei collezionisti e dei
viaggiatori appartenenti alle élites . Si apriva, dunque, un nuovo ambito di attività per gli
storici, finalizzato alla formazione di un pubblico vasto attraverso scritti pensati per una
diffusione ampia, differenziandosi in questo dalle “storie generali” di fine Settecento e di
inizio Ottocento. Tra i primi esempi di questa tipologia di manualistica sono da ricordare gli
Handbücher pubblicati da Franz Kugler (1800-1858) che trattava in meno di mille pagine la
storia artistica del mondo intero.
Morelli nasce a Verona nel 1816 e muore a Milano nel 1891, ma in realtà viene da una
famiglia di origine bergamasca che però si era trasferita in svizzera ed è una famiglia per
metà svizzera e per metà italiana e Morelli l’italiano quasi non lo parlava perché la sua
lingua madre è il tedesco. La sua infanzia e giovinezza e la sua formazione è tutta tedesca,
tanto tedesca che l’italiano sicuramente non lo scrive e non lo scrive correttamente, forse
lo parla solo. È medico, studia in Germania con scienziati molto famosi nel suo tempo,
come biologi e geologi, e si laurea in medicina. Partecipa anche a delle spedizioni molto
famose come quella di un glaciologo molto importante che si chiama Luis Agassitz. La sua
formazione è dunque anche militante nel campo delle scienze della natura. A Berlino
frequenta salotti di intellettuali, artisti e il medico non lo farà mai. Nel 1873 circa sconvolge
il contemporaneo mondo dell’arte con un saggio dedicato alla pittura italiana nelle
raccolte dei musei tedeschi. Un paio d’anni dopo scrive un saggio in continuazione del
precedente che invece è dedicato alla pittura italiana nelle famose gallerie italiane (la
galleria borghese e la Doria pamphily). Intorno al 73-75 pubblica in tedesco un saggio che
si chiama LE OPERE DEI MAESTRI ITALIANI NELLE GALLERIE DI MONACO, DRESDA E
BERLINO. I due testi hanno
stesso tema: le opere dei maestri italiani prima nelle gallerie tedesche di Monaco, Dresda e
Berlino e poi invece nella borghese e Doria pamphily di Roma. Morelli non firma il suo
saggio perché scrive saggio critico di Ivan Lermolieff, non di Giovanni Morelli. Utilizza infatti
in questi testi uno pseudonimo misto tra tedesco e russo sulla cui scelta sono stati versati
fiumi d’inchiostro, ma è un po' un anagramma. Tiene dentro un po' tutte le lettere del suo
nome. Dice che poi è tradotto dal tedesco dal dottor Giovanni schwartze, che è sempre lui.
Ci tiene tanto a nascondere la sua identità perché sa già che i suoi saggi faranno grande
scandalo nel mondo dell’arte contemporanea, infatti si attirerà insulti e minacce da varie
personalità nel mondo dell’arte. Anche nella premessa di questi testi parla di se stesso
come un russo che viene dalle steppe come fosse un barbaro che tiene le distanze. Morelli
cambia di nome, attribuzione molti dei dipinti italiani che erano conservati nei musei di
monaco, Dresda e Berlino che alla metà dell’800 erano tra i musei più prestigiosi e ricchi
d’Europa. Riscrive così il catalogo. La maggior parte dei cambiamenti non è a migliorare il
nome dell’artista, non è che un artista raffaellesco di secondo piano diventa Raffaello, ma
perlopiù sono i tanti Raffaello che vengono distribuiti invece agli artisti di secondo piano
della stessa cerchia. Così non solo mette in discussione l’autorità, ma il valore anche
economico della collezione di quel museo di cui parla. Il museo di Dresda contava su una
lunghissima tradizione collezionistica. Qui c’è ad esempio la madonna sistina di Raffaello. Il
museo di Berlino è stato uno dei più interessanti grazie alla collezione di Von Bode che ha
fatto in quegli anni delle straordinarie campagne di acquisti, a Berlino viene costruita l’isola
dei musei per costruire un momento di crescita culturale e di prestigio anche politico della
Germania del tempo. Poi morelli tira le sue conclusioni mettendo in campo ogni metodo di
analisi considerato sovversivo o forse più genericamente rivoluzionario perché analizza le
opere d’arte così come gli scienziati analizzano i loro oggetti di studio. Il suo metodo di
analisi è simile al metodo che utilizza lo zoologo per distinguere tra le specie animali o tra
due individui della stessa specie o che mette in campo il botanico per distinguere le specie
delle piante oppure piante simili nell’ambito della stessa specie. Questo è legato alla sua
formazione. La grande novità per il mondo dell’arte non consiste nel fatto che lui utilizzi
questo metodo perché abbiamo visto che senza parlare esplicitamente di relazione con la
scienza la figura del conoscitore con mancini nasce nell’ambito delle relazioni con le
discipline scientifiche. Se mancini aveva chiarito già la centralità dell’osservazione perché
morelli è tanto scandaloso? Perché è il primo che anticipa questo modello epistemologico
o interpretativo e il primo che dichiara nelle premesse dei suoi due saggi citati prima
ponendo dei principi metodologici di teoria dell’arte in cui esplicita il suo modo di lavorare
una prospettiva, disciplinare che tende ad una scienza dell’arte. Questa cosa non va tanto
giù ai suoi contemporanei. Era difficile da digerire il metodo, cioè la determinazione di
Morelli a fondare un metodo scientifico con cui analizzare le opere d’arte, un’opera che si
modellava proprio sui metodi delle scienze della natura. Dicendolo morelli afferma che gli
oggetti d’arte sono come tutti gli altri oggetti, ossia dei fatti. Tende dunque a sottrarre
l’oggetto d’arte a quell’aura di arte con la A maiuscola di poesia, di distanza dal mondo
reale a cui tradizionalmente ad esempio si assiste con il romanticismo, che però quando
morelli racconta il suo metodo è stato appena spazzato via dal positivismo significa
appunto fare la piazza pulita di una tradizione che dalla fine del settecento fino a un terzo
di ottocento era stata molto vivace, cioè appunto quella romantica per cui l’artista è
l’artista geniale, il talento per eccellenza, che si fa da se, non ha bisogno di niente per
dipingere. Secondo questa tradizione gli oggetti d’arte sono distinti nella pura fattualità
degli oggetti del mondo. E invece morelli dicendo che ci si può occupare di oggetti d’arte
come ci si occupa di animali o piante contraddice questa posizione, cioè vuol dire che gli
oggetti d’arte si possono misurare, confrontare e valutare con lo stesso sguardo positivo,
cioè scientifico, con lo stesso sguardo con cui si misurano, confrontano e valutano altri
oggetti della natura. Se morelli declassa molte opere nei musei tedeschi li risarcisce
trovando un’opera straordinaria perché è il primo a riconoscere la venere dormiente di
Giorgione ed è il primo ad attribuirla a lui: prima di allora passa sotto il nome di
Sassoferrato, pittore umbro molto apprezzato nell’ottocento e anche conosciuto e
collezionato. Il regalo che morelli fa alla galleria di Dresda è doppio perché la galleria di
Dresda si ritrova con un Giorgione che non sapeva di avere ma in particolare giorgione è
un artista che avendo un catalogo molto risicato con notizie biografiche scarsissime, è una
figura difficile da ricostruire a livello di personalità artistica, è una figura evanescente di cui
si sa pochissimo, anche se riconosciamo una forte influenza. A ciò si deve aggiungere che
c’è un momento in cui Giorgione e Tiziano si confondono, cioè Giorgione con Tiziano
giovane, cosa che crea ancora maggiore difficoltà. Nel catalogo di Dresda dunque si
ritrovano opere importanti e soprattutto di un artista il cui catalogo è minimo. Tra l’altro
questa è una delle rare opere di giorgione che sono sempre rimaste nel catalogo del
pittore, perché invece la difficoltà di definire anche dal punto di vista documentario la
personalità del pittore il suo catalogo si apre e si chiude a fisarmonica, cioè ci sono
momenti in cui non contiene più di 10 opere e altri in cui invece ne contiene 25, poi dopo
5, perché è stato sempre un banco di prova per gli storici dell’arte, proprio per queste
difficoltà. Questo riconoscimento fece molto piacere all’opinione pubblica (questo è il
momento in cui si cominciano a seguire un po' in più queste vicende della cultura),
toccando un tassello molto interessante. Il tema dell’orecchio è stato centrale nel
dibattito intorno al metodo di morelli, il quale spiega il suo modo di lavorare. Non troppo
diversamente da mancini anche per la stessa formazione medica e l’identica attenzione ai
dettagli, perché tutte e due utilizzano lo stesso modello interpretativo che è il paradigma
indiziario, cioè cominciano a lavorare attraverso il riconoscimento di tracce che non tutti
vedono. Morelli dedica molto spazio a chiarire come lavora e lo chiarisce al punto tale da
creare molto sconcerto nel mondo dell’arte. Dice morelli che davanti ad un dipinto
dobbiamo comportarci come un botanico o uno zoologo e cominciare a distinguere
selezionando i dettagli di quel dipinto che sono meno interessanti e quasi invisibili per lo
spettatore comune, ma che sono importanti per il conoscitore.
SCIENZA DELL’ARTE
Morelli è uno che vuole portare questa modalità di lavoro da mancini in poi, utilizzata da
tutti coloro che si occupano di valutare oggetti d’arte, che si occupano di consigliare i
collezionisti o quelli che in qualche modo partecipano al discorso sull’arte, è uno che vuole
sistematizzare questo sapere. Dire che queste modalità costituiscono in realtà un sistema
fa assimilare la storia dell’arte a una scienza dell’arte. Così come la botanica e la zoologia si
occupano di distinguere specie animali e i singoli oggetti che si trovano dentro alla specie,
allo stesso modo la storia dell’arte lavorerà partendo dalla centralità dell’osservazione per
riconoscere scuole pittoriche, botteghe e artisti. La storia dell’arte può essere una scienza
dell’arte il cui oggetto sono le opere d’arte che sono osservabili come tutti gli altri
fenomeni di natura. Quindi l’arte non è l’arte con la A dei romantici, ma invece è composta
da una serie di oggetti che sono misurabili, analizzabili e confrontabili e questo modo di
lavoro produce giudizio di valore sulla qualità degli oggetti d’arte, così come per le scienze
della natura si lavorano, si osservano, si confrontano, si misurano gli oggetti nel loro ciclo.
Il “battesimo” del Rinascimento e la storia della cultura. (relazione tra stile e cultura)
1855
In Francia il termine renaissance era già stato usato da alcuni autori dell’illuminismo, tra
cui Voltaire, ed era stato poi ripreso da d’Agincourt. Qualche anno dopo lo storico svizzero
Jacob Burckhardt riproponeva il concetto di Renaissance e la formula «della scoperta del
mondo e dell’uomo», incentrandoli nella cultura fiorentina del XV secolo. Veniva cosí
codificata l’idea di Rinascimento come “epoca” che aveva dato avvio alla modernità.
Pertanto il rapporto tra cultura e stile artistico di un determinato periodo storico per
fornire il quadro di un’epoca diventava un nuovo paradigma storiografico. Burckhardt era
stato influenzato dallo storicismo positivista di Ranke e di Droysen, teneva anche lezioni
pubbliche pensate per un pubblico ampio, ben al di là del ristretto mondo accademico,
lettori di tutti i ceti sociali. Ma l’opera che rese famoso lo studioso svizzero fu Il Cicerone:
guida al godimento delle opere d’arte in Italia del 1855, un libro concepito per i viaggiatori
tedeschi in Italia, che univa la tradizione del manuale storico-artistico con quella delle
guide. Un testo di successo che ha profondamente influenzato, per almeno un secolo, la
percezione dell’arte e della cultura italiane da parte dei viaggiatori e dei turisti provenienti
dal Nord Europa. Nella Civiltà del Rinascimento in Italia Burckhardt delineò alcuni aspetti
della storia e della cultura del Quattro e del Cinquecento italiano con capitoli sulla vita
politica nelle città e nei principati italiani; la formazione dell’individuo moderno distinto da
quello medievale. Con questa opera Burckhardt ha dato un contributo fondamentale alla
“scoperta del Rinascimento italiano”. A partire dalla metà dell’Ottocento anche altri
studiosi cercarono di ripensare la storia dell’arte come parte di un processo culturale piú
ampio e complesso. Le questioni affrontate erano, fondamentalmente, quelle del rapporto
causale tra i mutamenti di stile, di forme e i coevi cambiamenti sociali, religiosi,
tecnologici. In Francia il filosofo e storico Hippolyte Taine (1828-1893) sosteneva che
un’opera d’arte in quanto fatto storico era il risultato di una serie di circostanze ambientali
ben determinate, quali il clima, la razza, l’ambiente, il momento storico. John Ruskin
(1819-1900) fu il critico
d’arte piú influente dell’Inghilterra vittoriana e un attento osservatore dei fenomeni sociali
determinati dall’industrializzazione. Per Ruskin il moderno sistema produttivo aveva
causato una netta separazione tra intellettuali e lavoratori, in antitesi al mondo medievale.
Anche Ruskin, come William Morris e il movimento Arts and Crafts, vedeva nell’arte uno
strumento di trasformazione sociale. In opere come Le sette lampade dell’architettura del
1849, o nei tre volumi di Le pietre di Venezia del 1851 e 1853, Ruskin affrontò il tema
dell’architettura: attribuiva all’arte gotica una supremazia morale. Nel gotico Ruskin vedeva
realizzato il modello medievale di produzione artigianale e individuale che la rivoluzione
industriale aveva distrutto. Vedeva il restauro «la peggiore delle distruzioni, in contrasto
diretto con la concezione del restauro di Viollet-le-Duc.
Arte, scienza e industria. Seconda metà dell’800 le esposizioni danno vita storia della
cultura attraverso arti minori
Nel 1851 a Londra si apriva la prima grande Esposizione universale. La quantità e varietà
degli oggetti, provenienti da tutto il mondo univa in un unico sistema prodotti culturali,
industriali e naturali. Le esposizioni universali rappresentarono uno straordinario volano
per la valorizzazione delle “arti minori”. In generale nel corso dell’Ottocento la nuova
tipologia del museo di arti applicate ebbe la funzione di rendere visibile anche la storia
della cultura attraverso gli oggetti esposti. Il vivace panorama espositivo e museale era
accompagnato dalla riflessione sulle cosiddette “arti applicate”. Nella cultura ottocentesca
le arti minori erano chiamati a essere un modello per artisti e artigiani, ma anche oggetti di
piacere estetico per i collezionisti o ancora documenti della vita e della cultura dei tempi
passati. L’esperienza londinese ebbe una forte influenza anche su Gottfried Semper dal
1834 professore all’Accademia di belle arti di Dresda era stato costretto all’esilio. Egli visse
a Londra, dove entrò in contatto con il gruppo degli esuli tedeschi riuniti intorno a Karl
Marx e Friedrich Engels. Egli sosteneva che esiste una quantità di condizionamenti esterni
all’opera che hanno una notevole influenza sulla sua forma per esempio il luogo, il clima,
l’epoca storica, le usanze, il carattere, il ceto sociale di colui a cui l’opera è stata destinata.
Definiva l’arte un linguaggio autonomo. Il “sistema scientifico” semperiano trovò
applicazione nel museo di Vienna, primo museo dedicato alle arti applicate nell’Europa
continentale. Dal 1890 il reparto tessile fu diretto da Alois Riegl, che nei suoi studi partirà
da una revisione critica del rapporto condizionante stabilito tra materiale, tecnica e stile da
Semper. Da Julius von Schlosser in poi, infatti, il museo viene considerato una delle
istituzioni che rese possibile lo sviluppo della tradizione viennese di studi storico-artistici.
La sua fondazione s’inseriva in una precisa riorganizzazione istituzionale e culturale attuata
a Vienna dopo la rivoluzione del 1848. All’interno di un’ampia riforma del sistema
universitario nel 1852 era stato affidato il nuovo insegnamento di Storia dell’arte
medievale e moderna all’Università di Vienna. Tra le premesse per la nascita della scuola di
Vienna va ricordata anche la fondazione dell’Istituto per la ricerca storica austriaca nato
nel 1854 per lo studio “scientifico”. L’Istituto aveva come finalità la formazione diplomatica
e paleografica di archivisti, bibliotecari e personale museale, sul modello dell’École des
Chartes di Parigi. Quasi tutti gli storici dell’arte viennesi durante gli anni della loro
formazione passarono anche per le aule dell’Istituto, acquisendo qui gli strumenti per l’uso
filologicamente corretto delle fonti storiche. Si stabiliva cosí uno stretto legame tra
archivio, museo e università, un legame che avrebbe rappresentato una delle
caratteristiche fondamentali del lavoro e delle ricerche di molti esponenti del gruppo
viennese.
1873-1912 La storia dell’arte tra Nationbuilding e studio della forma (scuola viennese)
Monaco 1909 Negli ultimi decenni dell’800 e l’inizio del 900 la storia dell’arte è stata parte
integrante della fase finale del Nationbuilding . Infatti, anche se con modalità diverse da
paese a paese, gli studi storico-artistici contribuirono alla costruzione di una coscienza
nazionale e alla definizione del suo patrimonio, l’identità nazionale. A Monaco si tenne un
Congresso di storia dell’arte che vide contrapposti Venturi e Warburg: il primo
sottolineava l’importanza di preservare il patrimonio culturale della nazione evitandone la
dispersione attraverso l’acquisto da parte di ricchi mecenati esteri, Warburg d’altro canto
sosteneva anche la interdisciplinarietà tra le nazioni nel conoscere le opere delle varie
nazioni che in effetti si era potuta attuare grazie proprio a questi acquisti e spostamenti
delle opere (in questo caso italiane) da parte della comunità di studiosi internazionali.
Quindi il tema dibattuto nei primi decenni del 900 era proprio questo: considerare le opere
d’arte patrimonio della nazione da proteggere o veicolo di comprensione tra le culture?
Venturi era indirizzato verso una costruzione di una forte identità nazionale, Warburg ne
descriveva le rischiose implicazioni nazionalistiche. Venturi e Warburg, rappresentavano
due concezioni molto diverse della professione di storico dell’arte: il professore Venturi,
già
ispettore delle belle arti, aveva unito tutela, insegnamento, ricerca e amministrazione; lo
studioso privato Warburg, economicamente indipendente, era in quel momento
impegnato a consolidare il suo ruolo all’interno di un esteso network scientifico
internazionale. Il primo incontro internazionale degli storici dell’arte fu convocato a Vienna
nel 1873 in occasione dell’Esposizione universale. Vi presero parte circa 64 studiosi,
prevalentemente di lingua tedesca. Il X Congresso, convocato a Roma nel 1912, è
considerato il primo congresso di storia dell’arte a carattere effettivamente e
programmaticamente internazionale. Emerge complessivamente un quadro molto
differenziato da paese e paese, dovuto in parte anche a diverse tradizioni e organizzazioni
dell’insegnamento accademico e dei profili professionali. Mentre nei paesi di lingua
tedesca e in Austria la formazione degli storici dell’arte era prerogativa delle università, in
Francia, dove la materia era già insegnata agli artisti presso le accademie di belle arti si
sviluppò un sistema articolato di scuole: il Collège de France, l’École du Louvre veniva
introdotto l’insegnamento anche per i futuri direttori di musei. Nel 1891 il primo corso di
Storia dell’arte alla Sorbona. In Italia, nel 1901, veniva creata la prima cattedra di Storia
dell’arte, presso l’Università «La Sapienza» di Roma, affidata a Adolfo Venturi. Pietro
Toesca a Torino (1907). In Spagna il primo professore di Storia dell’arte all’Università di
Madrid fu Monzó che vi insegnò dal 1904. In Gran Bretagna, viceversa, stentò ad
affermarsi una distinzione netta tra istruzione tecnica, critica estetica e storia dell’arte.
Negli Stati Uniti nel 1912 l’arte era materia di insegnamento già in 400 istituzioni. Negli
ultimi anni dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento si assiste, dunque, a un
progressivo inserimento della storia dell’arte nell’insegnamento universitario. Una storia
dell’arte imperiale: la Scuola viennese di storia dell’arte.
La scuola viennese di storia dell'arte è stata un'istituzione accademica che ha dato origine
a un nuovo approccio teorico nello studio della storia dell'arte.
Il termine scuola viennese di storia dell'arte (Wiener Schule der Kunstgeschichte) venne
coniato da Julius von Schlosser in uno dei primi riassunti della storia dell'arte viennese che
abbracciava il periodo dalla metà dell'800 agli anni venti del '900.
Questo termine è oggi usato non tanto per la Scuola, quanto per indicare una successione
sorprendentemente ricca di personaggi eminenti che, portando avanti, correggendo o
anche contraddicendo le basi gettate dai loro maestri, hanno contribuito sostanzialmente
allo studio della Storia dell'arte. Quattro furono i personaggi più significativi: Franz
Wickhoff, Alois Riegl, Max Dvoràk e Julius von Schlosser.
Le caratteristiche di studio di questa nuova storia dell'arte sono:
• Il concetto di oggetto artistico non più come monumento, ma come documento, e
come tale fermamente legato al periodo storico in cui è stato prodotto.
• Il contatto diretto con l'oggetto artistico, in maniera tale che oltre alla valutazione
estetica, tipica del periodo tardo romantico, si possa anche eseguire una valutazione della
tecnica, dei caratteri stilistici, iconografici e altro, attingendo a documenti storici e
filologici.
• L'uguale considerazione di tutti gli oggetti artistici, la parità tra arti minori e
maggiori e il superamento dei concetti di "progresso" e di "decadenza", per cui tutte le
epoche hanno pari dignità.
Negli ultimi tre decenni dell’Ottocento nella capitale austriaca si formò un gruppo di
studiosi noto come Scuola viennese di storia dell’arte. Si trattava di studiosi appartenenti a
generazioni diverse, che tra gli anni Settanta dell’Ottocento e gli anni Trenta del
Novecento contribuirono in modo fondamentale allo sviluppo del discorso storico-
artistico, uniti dalla convinzione che la storia dell’arte fosse parte integrante delle scienze
storiche. Il modello di lavoro viennese consisteva nel legame tra lo studio diretto degli
oggetti nei musei, la riflessione teorica dell’università e lo studio delle fonti, che porterà a
risultati importanti.
L’impegno comune consisteva nel trasformare la storia dell’arte in scienza dell’arte
caratterizzata dall’oggettività scientifica e dall’autonomia disciplinare. Com’è noto, la
monarchia asburgica era segnata da una serie di conflitti interni e dal progressivo calo di
prestigio in campo internazionale, un processo avviatosi con la perdita della Lombardia e la
perdita del Veneto con il conseguente indebolimento del potere centrale. In concomitanza
con l’Esposizione universale si svolse a Vienna un incontro di storici dell’arte. Vi
parteciparono studiosi “specialisti” di storia e di teoria dell’arte, insegnanti di accademie e
politecnici, direttori di musei, l’unico partecipante italiano fu Cavalcaselle. Vennero
discussi il problema dei musei, il problema del restauro e della conservazione;
l’insegnamento scolastico; i criteri per la riproduzione delle opere e per la costituzione di
un repertorio bibliografico. Si possono individuare nella produzione storiografica degli
studiosi viennesi alcuni precisi filoni di ricerca. - Un primo filone di ricerca era incentrato
sullo studio delle fonti letterarie della storia dell’arte. - Un altro importante filone
concerneva lo studio topografico dei monumenti presenti nelle diverse regioni dell’Impero
tesa a documentare la topografia, la storia, la cultura, l’arte e l’economia delle province
dell’Impero asburgico.
Evidenziare la varietà e ricchezza culturale che caratterizzava la monarchia. Agli studi
topografici era dedicata anche la collana pubblicata a partire dal 1907 da Max Dvořák. -
Sul piano metodologico, la centralità dell’oggetto d’arte e dell’autopsia visiva come
fondamento dello studio era uno dei capisaldi di questa stagione di studi, intensificata
dall’incontro con Giovanni Morelli. Il metodo empirico-positivista di Morelli che metteva in
secondo piano la valutazione estetica delle opere e aspirava a un fondamento scientifico
influenzò gli studiosi di Vienna. Schlosser includerà addirittura Morelli tra i membri della
scuola viennese, sottolineando l’ input positivista del suo metodo. Fu Franz Wickhoff
(1853-1909), a mettere a punto un percorso metodologico incentrato sullo studio della
forma morelliana, integrato con il metodo storico-filologico di Sickel («il metodo Sickel-
Morelli» lo definirà Schlosser), basato sulla distinzione tra copia e originale e sul problema
dell’autenticità. Molti degli studiosi della generazione successiva tra cui Dvořák e lo stesso
Schlosser iniziarono il loro percorso partendo dall’impostazione metodologica tardo
positivista di Wickhoff, emancipata da ogni implicazione estetica che aprí la strada a una
storia dell’arte al di fuori del canone classico. Wickhoff fece un lungo studio sull’arte
romana di cui sosteneva l’autonomia contro la tradizionale lettura winckelmanniana, che
la considerava come declino dell’arte greca. Wickhoff ha il grande merito di liberarci da
Winckelmann affermò l’archeologo Ranuccio Bianchi-Bandinelli nel 1961. Una messa in
discussione radicale del canone classicista che si manifestò anche nell’attenzione prestata
da Wickhoff all’arte contemporanea. Tali premesse furono arricchite da Alois Riegl (1858-
1905) che aveva una spiccata attenzione per le identità culturali. Riegl iniziò la sua carriera
lavorando in una istituzione museale e pubblicò i suoi primi studi, dedicati a un gruppo di
opere tessili lì conservate. Probabilmente proprio il materiale, anonimo,
decontestualizzato, con decorazioni puramente ornamentali, dunque privo di contenuto,
lo indusse ad un metodo analitico incentrato sulla evoluzione delle forme. Il problema del
rapporto tra cultura occidentale e cultura orientale fu in seguito ripreso anche in Stilfragen
con particolare attenzione per le contaminazioni tra le culture. In questi anni Riegl
pubblicò un consistente numero di saggi dedicati alla cosiddetta arte popolare, un tema di
grande attualità negli studi austro-ungarici. Alcuni scritti riegliani possono essere letti
come una presa di posizione antiromantica e antinazionalista. Risulta importante
sottolineare che in questo testo Riegl analizzava criticamente i processi produttivi nelle
campagne nella convinzione che la nostalgica e romantica celebrazione dell’arte popolare
non potesse e non dovesse prescindere dalla conoscenza delle condizioni sociali e
materiali in cui si era svolta la produzione. Riegl metteva in discussione il concetto di
“decadenza” e proponeva un superamento del giudizio di valore nella storia dell’arte, a
partire dalla constatazione che non potevano esistere differenze qualitative tra stili diversi,
né tanto meno periodi di declino, in quanto «nell’evoluzione non può esistere un regresso
né un arresto». Le opere d’arte erano, infatti, per Riegl il risultato di un Kunstwollen
preciso e funzionale, inteso come “forza” che dirige/guida l’evoluzione stilistica. Il
Kunstwollen , parola creata da Riegl e di difficile traduzione (“intenzione d’arte”, volontà
d’arte, impulso artistico) permetteva di emancipare l’opera d’arte da ogni approccio
estetico e gettava le basi dello studio della storia dell’arte come disciplina autonoma. Riegl
collegava maggiormente il Kunstwollen alla letteratura, alla filosofia, alla religione e
soprattutto alla struttura economica della società di riferimento. Per poter leggere le
opere del passato anche nelle loro implicazioni sociali e culturali la storia dell’arte doveva
innanzitutto abbandonare ogni giudizio di gusto e successivamente includere nella sua
analisi anche il pubblico per il quale le opere erano state create. Riegl sosteneva che
bisogna cogliere nelle opere il Kunstwollen che le ha prodotte: la storia dell’arte come
storia della percezione, intesa come sintesi della cultura di un’epoca. Nella complessa
dinamica accademico-scientifica della Vienna prima della Grande guerra s’inseriva un altro
esponente della scuola viennese, Josef Strzygowski (1862- 1941), metteva in discussione la
dipendenza dell’arte cristiana egiziana dai modelli romani, bizantini e persiani,
sottolineando viceversa l’importanza della tradizione siriana e dell’antico Egitto. Tuttavia, i
suoi scritti erano caratterizzati da un tono apertamente antisemita e nazionalista che
provocò una profonda spaccatura tra gli studiosi e la creazione di una seconda cattedra
assegnata a Dvořák, cui dopo la morte successe Schlosser. Parte integrante dell’ampia
riflessione di questo gruppo di studiosi intorno alla storia dell’arte fu l’attenzione per lo
studio e per la conservazione del patrimonio monumentale e artistico dell’Impero. Nel
1903 Riegl veniva nominato membro della Commissione Centrale e si oppose al progetto
di “liberazione” radicale degli antichi resti del palazzo di Diocleziano a Spalato, insistendo
sulla necessità di conservare la complessa stratificazione storica della città antica. Scrisse
in Der moderne Denkmalkultus, Il culto moderno dei monumenti, qui Riegl partiva
dall’esigenza di svincolare la tutela dalle preferenze estetiche per giungere a una teoria
conservativa basata sul rispetto del valore attribuito a ogni monumento, inteso come
«opera della mano dell’uomo». In questa ottica viene attribuito da Riegl un ruolo centrale
soprattutto al valore di antichità del monumento. A differenza del valore storico, che è
legato al lavoro degli specialisti, il valore di antichità si rivolge a tutti e dunque anche alle
masse, nuovo attore sociale e storico del
secolo XIX. Riegl operò il superamento di ogni norma estetica attraverso il concetto di
Kunstwollen. Alla morte di Riegl, gli succederà Max Dvo řák, che avrebbe portato avanti
l’impegno del maestro, pubblicando nel 1916, dunque in piena guerra mondiale, il
Catechismo per la tutela dei monumenti.
Trasformare i tesori artistici in beni della nazione: l’Italia dopo l’Unità. Seconda metà 800
(1861) All’indomani dell’Unità, in Italia si sviluppò un vivace dibattito intorno alla tutela del
patrimonio storicoartistico e alla sua organizzazione amministrativa. Il confronto fu
caratterizzato dalla richiesta di maggiore autonomia, e quindi di decentralizzazione. 25 Il
patrimonio del nascente Stato risultava essere esposto a molteplici rischi in seguito alla
soppressione dell’asse ecclesiastico. Già nel 1863 Giovanni Battista Cavalcaselle aveva fatto
un precoce tentativo di progettare la gestione e la valorizzazione del patrimonio storico-
artistico italiano, incentrato sul riordinamento delle gallerie e sul censimento del
patrimonio in vista della creazione di un catalogo nazionale. I temi furono ripresi da Adolfo
Venturi che chiese dunque la stesura di nuovi cataloghi delle gallerie italiane e di un
catalogo generale delle regioni italiane; una maggiore sorveglianza dei restauri. Venturi
mirava a rifondare sistematicamente la ricerca storico-artistica italiana e denunciava
soprattutto la scarsa preparazione professionale media degli storici. Vi fu la definitiva
istituzione delle soprintendenze (1907) e l’approvazione delle prime leggi nazionali di
tutela nel 1902 (legge Nasi) e nel 1909. Nei primi decenni dopo l’Unità, le due figure chiave
del panorama storico-artistico italiano erano Giovanni Morelli e Giovanni Battista
Cavalcaselle. Dopo l’Unità, Cavalcaselle, ormai un’autorità nel campo della
connoisseurship e della ricerca storica, nel 1871 venne chiamato a Roma come Ispettore
delle antichità e belle arti del ministero della Pubblica Istruzione. Nello svolgimento di
questa funzione mise a punto metodologie, norme e pratiche rivolte ad assicurare una
maggiore tutela del patrimonio nazionale. In particolare il cantiere dei restauri nella
basilica di Assisi gli offrì l’occasione per stabilire i criteri di un intervento orientato al puro
consolidamento dell’opera-documento, confluiti poi nei Regolamenti sul restauro del
1877. Giovanni Morelli (1816-1891). Nel 1890 veniva edito il primo volume sui maestri
italiani nelle gallerie romane in cui egli usa l’espediente letterario del dialogo. Frutto di una
decennale esperienza acquisita sul campo del mercato artistico internazionale, i suoi studi
sono volti a distinguere tra copie e falsi, ricostruire il lavoro autografo di ogni artista su
basi razionali, quasi “scientificamente” provate. Cosí, utilizzando la personale conoscenza
dell’anatomia comparata acquisita durante gli anni di studio di medicina cominciò a
dissezionare visivamente i dipinti fino a elaborare una tesi destinata a un notevole
successo: gli artisti si impadronivano di una serie di tecniche a imitazione del maestro;
crescendo potevano anche mutare lo stile, ma sempre se ne sarebbe rintracciata la
matrice. Piccoli e insignificanti erano i particolari che sfuggivano alle regole
dell’apprendistato: le unghie, le orecchie, qualche onda nei panneggi e poco altro. Morelli
dava anche molta importanza al disegno come ratto distintivo per riconoscere un artista.
In pieno storicismo, il “metodo sperimentale” di Morelli diminuiva drasticamente il peso
della comprensione storica delle opere attraverso il dato biografico o il contesto culturale,
fino a quasi negarlo ricollegandosi, viceversa, alla tradizione settecentesca dei conoscitori.
L’educazione dell’occhio, non la ricerca del documento archivistico, portano
all’attribuzione scientificamente corretta. Adolfo Venturi celebrò Cavalcaselle come «il
primo storico nazionale dell’arte», contrapponendo il suo metodo positivista, basato sulla
comparazione e l’osservazione, alla numerosa schiera, polverosa e litigiosa, dei ricercatori
interessati esclusivamente alla scoperta di nuovi documenti d’archivio. Gaetano Milanesi,
nella corposa edizione critica delle Vite di Vasari (1878-85), summa della sua attività, fece
confluire i risultati di decenni di ricerca archivistica. Anche Antonio Bertolotti (1834-1893),
docente di paleografia alla Sapienza di Roma, raccoglieva documenti riguardanti la storia
artistica dell’Urbe. In Piemonte, Alessandro Baudi di Vesme (1854-1923) esemplificava lo
stretto nesso esistente tra archivio, museo e tutela del patrimonio. Le sue ricerche
storiche, di assoluta fede tardopositivista nelle fonti e nei documenti d’archivio, si rivolse
esclusivamente alla storia dell’arte piemontese. Adolfo Venturi (1856-1941) era incentrato
sulla esigenza di dare validità scientifica alla Storia dell’arte attraverso la conferma
documentaria. Venturi dopo essere entrato in contatto diretto con studiosi sensibili alle
istanze della connoisseurship morelliana operò una fusione dei due metodi, il “metodo
storico” e “metodo sperimentale”. Una soluzione cioè che integrasse l’educazione visiva
del conoscitore con la frequentazione dell’archivio. Nel 1901 fu finalmente istituita la
cattedra di Storia dell’arte sulla quale fu chiamato. Nello stesso anno fondò la Scuola di
perfezionamento in storia dell’arte medievale e moderna,
finalizzata alla formazione dei futuri funzionari dello Stato. Negli anni successivi, attraverso
l’insegnamento venturiano si formarono nell’ateneo romano i maggiori storici dell’arte del
Novecento italiano. La didattica venturiana era incentrata sulla formazione dell’occhio
attraverso esercizi sul materiale storico-artistico, secondo la celebre formula del «vedere e
rivedere». Sorprende la vastità delle pubblicazioni scientifiche di questo studioso: nella sua
bibliografia figurano oltre 1400 titoli. Fin dagli anni Ottanta, Venturi aveva individuato le
riviste come uno strumento importante per l’aggiornamento, sul modello della “scienza
dell’arte” proposto nel mondo tedesco Volumi dedicati all’arte prerinascimentale,
ricostruzione di personalità artistiche poco note, l’individuazione di scuole, legando opera
a opera in un attento lavoro di confronti. Venturi concentrò l’attenzione su opere e
documenti delle zone periferiche (il Piemonte, la Liguria, il Tirolo, le Isole). Tuttavia la
trattazione in questi volumi smarriva in parte il suo carattere d’insieme per aggregarsi
intorno a singole personalità artistiche. La Storia dell’arte italiana intendeva essere
un’opera di riferimento per la formazione del pubblico e dei giovani studiosi. Corrado Ricci
(1858-1934) si trovò a essere il protagonista incontrastato dell’amministrazione delle Belle
Arti. Nel 1897 gli era stata affidata la prima Soprintendenza istituita in via sperimentale a
Ravenna Insieme a Guido Cagnola e Francesco Malaguzzi Valeri, nel 1901 Ricci fondò la
milanese «Rassegna d’arte».
LE CATEGORIE DI BERENSON
La storia della pittura del rinascimento di berenson è una storia fatta per scuole regionali.
C’è la macroarea dell’Italia centrale che fa capo a Firenze e poi c’è quella dell’Italia
settentrionale con mantegna ad esempio. Le chiavi più famose del suo discorso sull’arte
sono quelle individuate per la pittura fiorentina del rinascimento. Questa pittura fiorentina
come da tradizione comincia con Giotto e finisce con Michelangelo. Secondo berenson si
articola intorno ad una categoria formale che riguarda lo specifico linguaggio della pittura
che Berenson definisce i valori tattili. Questa formuletta dei valori tattili è la formula per
cui berenson è famoso nella storia dell’arte. È la capacità di rendere col disegno i volumi
dei corpi, la massa e tutta la terza dimensione. Sono valori che parlano alla vista ma che
attraverso la vista stimolano il tatto e dunque la nostra capacità di rendere la terza
dimensione, perché berenson ci ricorda che noi ci orientiamo nello spazio perché agli
stimoli visivi corrispondono stimoli che attivano gli altri sensi. Quando vediamo oggetti si
attiva una specie di tatto immaginario così da riconoscerne le forme tridimensionali e la
consistenza fisica. Ne diamo un peso, un volume. Questa capacità, che è tutta fiorentina
secondo berenson perché naturalmente ha a che fare con la centralità del disegno e con
quel famoso progetto mentale alla base, e cioè la capacità di rendere la terza dimensione e
di farci sentire la massa berenson la sintetizza da questo momento in poi nei valori tattili,
che sono dunque una categoria della forma e riguardano il linguaggio specifico della
pittura e hanno a che fare con il modo in cui l’artista utilizza i suoi propri strumenti della
pittura, cioè il modo in cui è in grado di mettere in forma cose. Si forma su morelli e pater,
scrive cataloghi e inventari Berenson, quindi vere e proprie liste dei pittori italiani del
rinascimento, mentre invece la storia, la sintesi è affidata al saggio vero e proprio che lui
discute in un resoconto, una visione ampia della storia dell’arte e della pittura italiana del
rinascimento che però lui distingue per scuole regionali, immaginando che ogni scuola
regionale si chiarisca alla luce di una chiave, di un concetto, di una categoria che è quella
della forma, perché appunto quella scuola regionale mette in forma in quel modo. I
veneziani per il colore, i fiorentini per i valori tattili, i pittori dell’Italia centrale per la
composizione spaziale come perugino e Raffaello, l’Italia settentrionale per esempio per
un rapporto molto diverso rispetto a quello dei fiorentini con l’antico (per es mantenga che
dice di essere un artista arcaista per i rapporti con l’antico). Insomma ogni scuola regionale
ha una chiave che però è una chiave che identifica le scelte formali e il linguaggio formale
specifico, la capacità specifica di quella particolare scuola pittorica. Ai veneziani non
interessano i valori tattili, ai fiorentini non interessa il colore, i pittori dell’Italia centrale
sono interessati spazialmente alla resa dell’ambiente e del rapporto dell’individuo con
l’ambiente, gli artisti dell’Italia settentrionale sono in dialogo con l’antico che però è un
dialogo speciale. Le liste, l’orario ferroviario viene dalla lettura di morelli, mentre
l’attenzione alle categorie della forma deriva soprattutto dalla lettura di pater, che da non
storico dell’arte se lo inventa il catalogo su Giorgione. Berenson mette insieme invece la
competenza alla luce della sensibilità della forma.
Berenson esercitò una vasta influenza sugli studiosi del tempo a villa Tatti a Settignano
Firenze, tra cui Pietro Toesca. In questo momento storico però le riflessioni sull’arte
erano cambiate: l’arte era sempre più vista come una manifestazione dello spirito. Pietro
Toesca (1877-1962), un medievista molto interessato alla storia. La sua teoria consisteva
nella necessità di analizzare l’opera sia nella sua forma ma anche nella sua interezza,
ovvero nello spirito. Coniugò la tradizione del Cavalcaselle e di Luigi Lanzi della
connoisseurship insieme allo studio delle fonti antiche. Di Morelli condivideva l’assioma
prima conoscitori poi storici. Ricorreva allo studio dello stile e alla ricerca iconografica,
ma anche ai contesti. Era anche lui ispirato alle teorie crociane sull’arte: unione tra
percezione estetica e ricostruzione storica. Secondo T. lo stile cambia in continuazione e
rifiuta il concetto di decadenza. Inoltre rifuggiva dall’esprimere giudizi di valore. Il suo
volume "La pittura e la miniatura nella Lombardia fino alla metà del quattrocento"
ricostruì per la prima volta il quadro dell'arte figurativa lombarda del medioevo,
definendone l'importanza riguardo all'intera Europa.. Riteneva che le invasioni
barbariche non fossero state così determinanti nell’arte del medioevo, piuttosto il
cristianesimo. Egli individuò (come Schlosser) che la genesi dell’arte del medioevo (lo
stile internazionale) andasse ricercata nell’area lombarda e i rapporti di questa con la
Francia. Si profila una ricerca che vede un nesso tra arte e sentimento religioso e
soprattutto un superamento dell’apologia dei fatti. Roberto Longhi (1890-1970) (vedi
pdf) grande protagonista della critica stilistica del 900, aveva studiato alla scuola di
Adolfo Venturi ma ampliando la sua ricerca all’arte lombarda come Toesca, distaccandosi
quindi dalla visione fiorinocentrica. Rivendicava la grandezza di pittori al di fuori di questo
canone. Per Longhi l’opera d’arte era pura forma, era la materializzazione dello spirito in
un quadro. Il suo primo obiettivo era rintracciare l’intuizione profonda che aveva portato
l’artista a formare la sua opera comprendendone a fondo la cultura. Ogni indagine
muoveva dalla storia della critica per capire il contesto anche critico in cui era vissuto un
artista. Contestava quella visione monolitica che univa rinascimento a classicismo e anzi
era alla ricerca delle correnti anticlassiche del 400 e 500. Partiva dallo stile per decifrare
tutto il resto. Identificò opere di autori marginali (attribuzione dell’Annunciazione a Carlo
Braccesco, pittore ligure). Il suo studio comunque non mirava
solo alle attribuzioni ma piuttosto quello che lo interessava maggiormente era il linguaggio
letterario in grado di descrivere l’opera d’arte. La storiografia artistica del tempo era molto
criticata e per questo definita critica estetizzante (cioè priva di contenuti). Egli cerco di
superare questa vulnerabilità con un linguaggio espressivo e meno evocativo con una
folgorante equivalenza tra immagine e scrittura. Molti furono gli studiosi che si
avvicinarono all’arte Rinascimentale italiana, due grandi conoscitori furono Popham,
britannico e Wilde ungherese, essi guardavano molto anche ai restauri secondo gli
insegnamenti di Friedlander. Essi promossero uno stile di storiografia molto attenta
all’osservazione diretta delle opere. La grammatica delle forme: pluralità di percorsi. Nella
prima metà del 900 cresce la partecipazione alle mostre e ai musei e crescente è la figura
dell’intermediario: era urgente creare un metodo per coinvolgere un pubblico colto ma
non necessariamente esperto. Roger Fry (1866-1934): in questo fu un maestro, le sue
conferenze accrebbero di molto l’amore per l’arte. Prima di lui solo Ruskin aveva inciso
profondamente sulla mentalità del pubblico. Fry attuava un analisi formale: cercava di
analizzare i dipinti da un punto di vista formale per delinearne l’aspetto qualitativo
escludendo in questa analisi il soggetto, ovvero il contenuto. Per lui la forma aveva un
significato, la forma trasmetteva un emozione: appunto la forma-significante. In questo
modo trovava corrispondenze anche tra artisti lontani nel tempo, come ad esempio gli
antichi maestri e le avanguardie artistiche del 900. Lionello Venturi (1885-1961) figlio di
Adolfo, era sicuramente un conoscitore, ciò che reputava un requisito di base per un
critico d’arte. Egli si specializzò molto nell’arte contemporanea. Come Berenson intravide
un profondo collegamento tra l’arte dei primitivi (Giotto, Botticelli) con gli artisti della
seconda metà dell’800 (impressionisti, postimpressionisti) ciò che li accomunava era la
libertà creativa, il rifuggire dall’imitazione della natura per esprimere umanità, vita, poesia.
Una sua opera fu Il gusto dei primitivi (1926). Il gusto per L. Venturi era la sintesi delle
preferenze di un artista nei confronti della cultura visiva del proprio tempo quindi il gusto
era il fattore che legava gli artisti alla propria epoca. Venturi fece suo un assunto di Croce e
cioè che la storia della critica d’arte fosse legata indissolubilmente alla storia dell’arte. Fu
molto attratto anche dagli schemi di Wölfflin soprattutto per interpretare l’opera ma non
per fare delle categorie estetiche. Scrisse la Storia della critica d’arte nel 1936, una storia
delle idee estetico-critiche sull’arte. Nonostante queste innovazioni da parte della
moderna critica d’arte, la cultura ufficiale in Europa seguitava a celebrare il classicismo e la
tradizione. Solo negli Stati Uniti il clima culturale era diverso. A New York vennero aperte
molte gallerie private: Le mogli e le figli dei banchieri e degli imprenditori delle industrie
dell’arte americana (Rockefeller, Mary Sullivan e Lillie Bliss) fondarono il MOMA,
inizialmente affidato ad Alfred Barr, giovane critico d’arte. Il museo ospitava opere di
pittura, scultura, disegni, stampe, fotografie, design e arte industriale etc. prima mostra su
Cezanne, Van Gogh, Seurat e Gauguin. BARR studia ad Harvard, legato all’estetica di
Ruskin, legato al formalismo. Autopsia delle opere dal vivo. Seguiva il metodo Fogg
prestava molta attenzione al materiale, al colore e alla composizione delle opere; l’analisi
era condotta tramite i raggi X (per la prima volta usati al Fogg Museum). Anche Barr si
soffermò sulla sintonia formale tra i “primitivi”, gli espressionisti tedeschi, Kokoschka,
Durer e Holbein.
Negli anni ’20, il Nordamerica diventa un polo di attrazione per l’intellighenzia europea
antifascista.
LA “STORIA DELLA CRITICA D’ARTE” DI LIONELLO VENTURI, SUO PADRE ADOLFO E
SCHLOSSER
Il ruolo che svolgono le istituzioni nella storia dell’arte è presente nella storia delle storie
dell’arte di pinelli, il nostro manuale, cioè esso tiene conto della storia delle istituzioni
dentro cui questo contesto del discorso sull’arte si muove. È una visione che corrisponde
alla disciplina della storia della critica d’arte che nasce come disciplina accademica alla
normale di Pisa con paola barocchi nel 1978. C’è un’attenzione tra il rapporto tra arte e
società, arte e politica con la crisi della storia dell’arte dagli anni cinquanta in poi. A partire
dall’immediato dopoguerra la casa editrice intensamente aperta alle novità dell’arte era
Einaudi che fa pubblicare il manuale di riferimento per ricostruire il discorso sull’arte
dall’antichità al novecento, di Lionello venturi: storia della critica d’arte. La disciplina è
tanto legata alla storia dell’arte che è difficile ricostruire chiaramente i confini rispetto a
quella considerata tradizionalmente la disciplina madre. Le due discipline si corrispondono
nella maniera più equilibrata. Gli storici dell’arte fanno sempre e comunque la storia della
critica d’arte. La storia delle attribuzioni legate ad un determinato dipinto diventano
necessariamente storia della critica d’arte o storia del discorso sull’arte. Lionello venturi è
figlio di adolfo venturi, il padre della storia dell’arte italiana e della sua trasformazione in
disciplina accademica. Ha una formazione filologico-storica, cioè è formato sul metodo che
è quello dei conoscitori del metodo attributivo, cioè del filone degli storici dell’arte che si
occupano delle questioni dello stile, del riconoscimento delle mani per costruire le serie
cronologiche con anche una grande attenzione alla lettura dei documenti di archivio per
esempio. Adolfo Venturi è il padre di una sistematizzazione in italia della storia dell’arte
secondo un metodo filologico-storico, cioè da un lato analisi dello stile e dall’altro lettura
di documenti d’archivio accurata a sostegno delle ricostruzioni storiche. Adolfo ha
collaborato con la riforma di gentile che rende l’arte obbligatoria nelle scuole di secondo
grado, fonda a roma contemporaneamente la prima scuola di perfezionamento in storia
dell’arte, una svolta non da poco, perché a questo perfezionamento romano sotto la guida
di adolfo si formano i primi quadri dell’amministrazione di quelli che oggi chiamiamo beni
culturali e che prima erano belle arti e si formano con competenze specifiche di questo
lavoro con formazione necessaria per un funzionario della soprintendenza o per un
professore dei storia dell’arte all’uni, ad es., le competenze sono precise sia a livello
metodologico sia con una scelta precisa degli oggetti di studio. Da quando è attivo il
perfezionamento della storia dell’arte guidato a roma da adolfo i direttori, conservatori dei
musei in italia saranno storici dell’arte e non più poeti o artisti. Si moltiplicano anche le
cattedre universitarie e la ricerca: abbiamo così i primi storici dell’arte formati in maniera
scientifica, nascono le prime riviste scientifiche legate alla storia dell’arte. Lionello è figlio
di adolfo venturi e appartiene alla seconda generazione di allievi della scuola del
perfezionamento di roma. Segue gli insegnamenti del perfezionamento di Roma insieme a
Longhi: sono coetanei, hanno una formazione simile ma faranno scelte di metodo diverse.
Dopo il perfezionamento diventa scrittore, soprintendente e poi comincia ad insegnare
storia dell’arte all’università di torino secondo proprio quella definizione di carriera di
storico dell’arte che si viene a definire a partire proprio dalla scuola di perfezionamento di
roma. Lionello è antifascista per cui deve emigrare prima in Francia e poi all'università di
roma fonda una vera e propria scuola di storia dell’arte che parte proprio dal suo
orientamento e che arriverà fino ad argan che si forma proprio nella tradizione di Lionello
venturi e anche fino a pinelli autrice del nostro
Manuale. Lionello si forma col metodo filologico storico come storico dell’arte e
appartiene a quella generazione di intellettuali italiani che non si sono sottratti alla lezione
di benedetto croce, alla sua lezione estetica. Nella monografia su “giorgione e il
giorgionismo” venturi codifica la lezione di tono come elemento distintivo della pittura di
colore, in particolare della pittura veneziana e inventa la nozione “giorgionismo” per
indicare una vasta area di influenza di scelte giorgionesche di artisti anche lontani da
giorgione che però hanno assimilato da lui le modalità di dipingere e l’affezione del tono.
Poi scrive nel 36 due volumi su cezanne, perché Lionello si occupa anche dell’arte a lui
contemporanea. Gli studi su cezanne sono un enorme catalogo ragionato del pittore
francese. Si occupa dell’impressionismo, pubblica in francese gli archivi
dell’impressionismo, si occupa anche dell’educazione del pubblico a guardare la pittura
con l’opera come si guarda un quadro. "Da giotto a chagall”: gli interessi vanno dall’arte
Veneziana del rinascimento fino alla pittura moderna (impressionismo e cezanne) e lavora
a sostenere artisti a lui contemporanei scrivendo molto a lungo su di loro e crea
orientamenti all’arte italiana a lui contemporanea. “Il gusto dei primitivi” è un suo libro
famosissimo del 26 che mette in campo una nozione, quella di gusto, che vediamo tornare
declinata diversamente rispetto alla sua proposta anche dentro la nostra storia del
discorso sull’arte. Parlando di storia del gusto pensiamo a qualcosa di soggettivo o al gusto
collettivo legato alla fortuna o sfortuna di determinati artisti, quindi il gusto è
l’apprezzamento estetico ed esiste anche una storia del gusto. In questo volume venturi
non intende il gusto del pubblico, ma quello degli artisti come una nozione fondativa
anche dei processi artistici. Secondo Lionello quel gusto a cui lui pensa è un’attitudine degli
artisti verso le immagini dell’arte a loro contemporanea o del passato che istruiscono il
loro processo creativo. Quindi è il gusto degli artisti inteso come uno dei momenti centrali
intorno a cui si costruisce poi il processo creativo di un’opera d’arte e che può essere
rivolto tanto alla loro contemporaneità quanto invece alla rilettura di opere del passato.
Anche la letteratura artistica di schlosser è molto legata alla lezione di croce, la cui filosofia
è influente anche a livello europeo. Quindi venturi si lega a schlosser. Croce sarà tradotto
in tedesco anche grazie alla mediazione di schlosser e viceversa accade per schlosser.
Lionello ha una carriera tipica della sua generazione, visto che si forma alla scuola di
perfezionamento di roma, per cui prima si iscrive alle belle arti, poi è soprintendente, poi è
professore all’università di storia dell’arte. Vive a lungo in esilio da antifascista. Scrive il
gusto dei primitivi del 1926 in cui venturi fonda la nozione di gusto come un momento
centrale del processo creativo, gusto inteso come adesione alle immagini create da altri
artisti nel presente e nel passato che avviano il processo creativo di ciascun artista. La
frase nella foto di sopra è della rossi pinelli. Qualunque storia è sempre una selezione e
anche venturi ha un’idea in testa ben precisa quindi e la critica d’arte per lui sono idee
esteticocritiche. Seleziona voci di storici dell’arte che gli interessano. Il suo percorso
storico e teorico mirava a definire i canoni più adatti per esprimere i giudizi di valore, cioè
LA STORIA DELLA CRITICA D’ARTE di venturi per la pinelli è una storia di idee estetico-
critiche dall’antichità fino ai giorni di Lionello che vengono selezionate da lui con lo scopo
di fondare i principi quanto più possibile generali per la costruzione del giudizio critico, un
giudizio critico che sono principi che sono selezionati da venturi in base all’influenza che su
di lui ha l’estetica crociana e la sua formazione filologico-storica.
COINCIDENZA TRA CRITICA E STORIA E INFLUENZA CROCIANA IN LIONELLO VENTURI E
LONGHI
Longhi e lionello venturi appartengono a quella prima generazione strutturata di storici
dell’arte che si era formata presso la scuola del perfezionamento di Roma e che avviano
una carriera specialistica o nell’amministrazione di quelle che allora si chiamavano le belle
arti, o nell’università o in entrambe. Come lionello longhi fa parte della schiera degli
spiritualisti che subirono fortissima l’influenza innovatrice di Benedetto croce, e in
particolare con Lionello Longhi condivide (ma come tutta la sua generazione e quella
successiva, perché l’onda d’urto crociana in Italia si è sentita fino agli anni settanta) del
pensiero crociano quella corrispondenza e identificazione tra critica e storia. Per entrambi
critica e storia sotto il segno di croce si identificano, perché qualunque giudizio critico è
sempre storico e il giudizio storico è sempre presente e qualunque giudizio critico è anche
storico. Perciò storia e critica si identificano. Da questo punto di vista si giustifica la scelta
di venturi di scrivere il primo manuale di storia di critica d’arte. Inghilterra, Francia e USA
sono le tappe dell’esiliato venturi che era antifascista. Venturi si è occupato di arte antica
quanto di arte contemporanea orientando alcune delle tendenze, si è occupato di
impressionismo; tra i lavori più celebri suoi abbiamo quelli degli archivi
dell’impressionismo, una monumentale monografia su cezanne in due volumi e l’opera il
gusto dei primitivi. Sia venturi sia Longhi sono attivi sulle prime riviste specialistiche di
storia dell’arte legate sempre alle attività di ricerca, insegnamento e perfezionamento di
Roma. Venturi inizia a scrivere sull’archivio storico dell’arte, una rivista fondata e diretta a
lungo da Adolfo venturi che poi in continuità cambierà nome in l’arte e venturi sarà
associato alla sua direzione ad adolfo venturi e su tale rivista scriverà anche longhi. Il
cambiamento del nome della rivista riflette la forte influenza di croce su questa
generazione. Adolfo venturi immagina questa nuova rivista specialistica che gli serve anche
come banco di prova per le ricerche sue e dei suoi allievi con una rigorosa metodologia che
è quella da noi definita filologico-storica, cioè attenzione al dato di stile e alla lettura dei
documenti. Venturi sceglie un nome per la rivista che è archivio storico dell’arte italiana
che definisce subito la direzione metodologica, cioè archivio e metodo filologico storico.
Filologia nel senso di filologia intorno alle fonti e filologia dello stile, cioè confronti di tutto
ciò che è in una dimensione attributiva, confronto tra oggetti che hanno la stessa
dimensione cronologica e geografica fino a riconoscere la mano dell’artista. Archivio
perché chiama questa dimensione di studi filologico-storici che appartiene anche ad altre
discipline come lo studio della letteratura.
Ad un certo punto all’altezza dell’affermazione della generazione di venturi e Longhi la
rivista interrompe le pubblicazioni, cambia nome e si chiama l’Arte: cambiamento dietro
il quale c’è anche un cambiamento metodologico, perché alla ricongiunzione sui dati si
sostituisce un’idea di Arte che richiama molto a quella visione crociana per cui oggetti
d’arte non sono altro che la momentanea concretizzazione di un’immagine che però
appartiene al mondo dello spirito. Da questo punto di vista è anche incorruttibile e non
fa parte dell’attualità delle cose l’arte. Non è un caso che proprio sull’arte cominciano ad
uscire i primi interventi e le prime ricerche di lionello di storia della critica d’arte, perché
ormai questo cambiamento di nome della stessa rivista rispecchia anche un
cambiamento d’attenzione, un cambiamento metodologico, un nuovo atteggiamento
culturale che sostituisce in qualche modo l’atteggiamento ancora ottocentesco positivista
del metodo filologico-storico, cioè ricognizione dei dati, analisi dei dati, una ricognizione
di tipo
filologico-storico che serve per attribuire un determinato oggetto in una dimensione
appunto cronologica e spaziale, quindi ancora di impostazione positivista, con un diverso
atteggiamento culturale che ha a che fare proprio con la forte influenza di Benedetto croce
che va in una direzione più sensibile alle teorie dell’arte per esempio. Non a caso all’arte
verrà associato come direttore lionello venturi da un certo punto in poi, sull’arte scrive
anche longhi e sull’arte appaiono i primi studi di lionello venturi di storia della critica
d’arte. Ma longhi è molto attivo su tutte le rivista più e meno specialistiche. Dopo la
seconda guerra mondiale sarà uno degli intellettuali più sensibili alla necessità di
diffondere i risultati della ricerca (es- grandi mostre su Caravaggio e caravaggisti,
partecipazione sua ad un’impresa editoriale per il pubblico ampio come I MAESTRI DEL
COLORE).