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La storia delle storie dell'arte

- O. Rossi Pinelli
Storia Dell'arte
Università degli Studi di Salerno (UNISA)
71 pag.
STORIA DELLA CRITICA
D'ARTE INTRODUZIONE

Perché scrivere oggi una storia delle storie dell'arte? Riflessioni sulla storiografia artistica
non sono mai mancate nel tempo, tuttavia la storia tracciata in queste pagine intende
proporsi, in un epoca in cui la disciplina è percorsa da un diffuso malessere, con qualche
carattere di novità. E' difficile negare che gli ultimi decenni abbiamo rappresentato un
periodo di disagio profondo per chi ha praticato questo genere di studio. Un disagio
condiviso con i ricercatori di molte altre discipline umanistiche per via di una crisi
generalizzata che ha colpito l'intero settore, non solo in Italia, e che ha prodotto una
diminuzione di finanziamenti, investimenti, attività editoriali, pubblico, tutto a favore delle
“scienze dure”. Le autrici di questo libro vorrebbero contribuire almeno un poco a
rafforzare la memoria di una tradizione di studi che ha spesso raggiunto risultati notevoli.
La storia della nostra disciplina è stata popolata da persone che hanno lavorato con
generosità, capacità di progettare, guardando al passato per agire nel presente e al futuro
per tutelare e conservare un'eredità preziosa. Naturalmente ci sono stati luci e ombre in
questa storia, fasi eroiche e periodi di grandi incertezze, interpreti brillanti e opachi. Quello
che si è voluto far emergere sono stati la ricerca, l'impegno, il lavoro di tanti protagonisti
che hanno contribuito a preservare la memoria delle opere, dei loro autori, trasmettendo
nel tempo il sentimento di appartenenza che il patrimonio suscita. Nel raccontare questa
storia si è cercato quindi di indagato sul come sia nato e si è sviluppato il nostro mestiere. I
protagonisti di questa vicenda sono numerosissimi. Nella prima parte del volume si è
scelto di circoscrivere l'analisi a quella molteplicità di indirizzi metodologici che più di altri
hanno trovato elaborazione in Italia, a partire dal 800 invece l'attenzione si è stesa
all'Europa e agli Stati Uniti. Il libro si apre con Vasari e si chiude con la storiografia degli
anni 80 del XX secolo. Se Vasari non fu certo il primo artista letterato ad aver osservato
l'arte e gli artifici con sguardo critico storico, egli ha rappresentato un momento di sintesi
dei saperi e delle metodologie precedenti. Ha costruito una trama a maglie strette di
vicende abbastanza documentate con le quali gli addetti ai lavori si sono trovati a fare i
conti fino ad oggi.
Il progetto originario di questo libro prevedeva uno sguardo sul presente, tuttavia cammin
facendo ci si è resi conto che se gli anni 70 e 80 erano stati portatori di un arricchimento
ed espansione della disciplina storica artistica, in decenni successivi si segnala invece una
perdita di centralità della storia dell'arte rispetto ad altri ambiti di studio.
Nonostante la miriadi di percorsi aperti, restano riconoscibili 4 indirizzi preminenti che di
volta in volta che sono imposti, sono arretrati, si sono rinnovati per poi nuovamente
implodere nell'attesa di una nuova fortuna.
Il più consolidato nel tempo è stato quello della connoisseurship. I conoscitori hanno
cominciato a proporsi già nel XVII secolo imponendosi nel XVIII e nel XIX. L'opera d'arte per
costoro è stata affrontata sempre come un intero al cui interno lo specialista poteva
individuare tutte le chiavi necessarie alla sua identificazione, collocazione e comprensione.
L'occhio, la memoria visiva, l'esercizio continuo, sono stati gli strumenti di cardine di chi ha
condiviso questo tipo di ricerca. Studiosi che miravano ad un altro obiettivo, cioè penetrare
nello spirito di manufatti artistici analizzando non solo lo stile ma la struttura delle opere,
le loro assonanze, i loro ritmi per captare l'impianto creativo, hanno un indirizzo connesso
con la ricerca formalista che ha sfiorato l'aspirazione alla trascendenza attraverso
un'assoluta
empatia con l'opera. Un altro indirizzo è quello legato alla ancoraggio delle opere ai fatti,
ai documenti, alle fonti per realizzare una storiografia positiva. Infine una quarta tendenza
è densa di diramazioni: la storia dell'arte come storia della cultura in senso molto ampio,
comprendendo l'iconologia, l'iconografia, la storia sociale dell'arte, la storia dell'arte come
storia delle idee e tanto altro ancora. Per gli studiosi che hanno alimentato questo
articolato indirizzo di studi si può raggiungere la comprensione delle opere solo superando
le frontiere disciplinari, grazie alla confluenza di saperi differenti.

1550-1590
Le arti del disegno

Giorgio Vasari (I511-I574) Pittore, architetto e scrittore arentino.


Artista manierista, fu attivo, come pittore e soprattutto come architetto, in diverse città
italiane (Arezzo, Bologna, Napoli, Roma). Il nome di Vasari rimane legato però soprattutto
alle grandi committenze pubbliche dei Medici a Firenze (complesso degli Uffizi) e alla
raccolta delle Vite, edite la prima volta nel 1550 (Vite dei più eccellenti architetti pittori et
scultori italiani da Cimabue insino a' tempi nostri), che costituiscono la prima opera
moderna di storiografia artistica, nelle quali definì il canone dell'arte italiana fra Trecento e
Cinquecento.
Nel 1546 era a Roma ad affrescare la Sala dei cento giorni, nel palazzo della Cancelleria, fu
in questo periodo che si vanno a collocare numerose cene ricche di “bellissimi e onorati
ragionamenti” col cardinale Alessandro Farnese. Vasari situò la genesi della prima edizione
delle Vite (1550) proprio tra le mura di Palazzo Farnese dove erano sempre umanisti:
Annibal Caro, Pietro Bembo, e monsignor Paolo Giovio, storico e letterato che si era fatto
costruire una villa per accogliere un "museo" di ritratti di uomini illustri.
La prima edizione risale al 1550, s'intitolava Vite de' più eccellenti architetti, pittori e
scultori italiani da Cimabue insino a' nostri tempi: descritte in lingua Toscana, da Giorgio
Vasari Pittore aretino. Con una utile et necessaria introduzione a le arti loro, edita dallo
stampatore ducale Torrentino, edizione “Torrentiniana”.
Nel 1568 la nuova versione "Giuntina" ( editore Giunti ) si intitolava invece Vite de' più
eccellenti Pittori, Scultori e Architettori, scritte da Giorgio Vasari Pittore e Architetto
Aretino di nuovo ampliate, con i ritratti loro, et con l'aggiunta delle Vite de' vivi et de'
morti, dall'anno I550 insino al I567.
Dalla seconda edizione Giuntina è scomparso il riferimento alla lingua toscana, ormai la
familiarità con il volgare era consolidata, inoltre Vasari si definiva non solo pittore ma
anche architetto ma si nota che l’architetto passava dal primo al terzo posto.
Probabilmente l'impresa Michelangiolesca della cappella Sistina con la grandiosità del
Giudizio universale, decretò il primato della pittura.
Tra le numerose ragioni del successo dell'opera vi fu la scelta di scriverla in lingua
toscana, una linguaggio più “basso” rispetto al latino, che in qualche modo conferiva un
marchio di modernità all'opera.
Le Vite si ponevano numerosi e complessi obiettivi, ad esempio contrastare la «voracità
del tempo» che aveva «cancellato e spento» la «memoria» di tante opere straordinarie
del passato. Importanti erano le novità dell'edizione del '68: l'ampliamento delle presenze
che spaziavano dal Veneto all'Emilia fino al Napoletano, includevano soprattutto molti
artisti
viventi. Nell'edizione del '50 invece, solo Michelangelo era ancora in vita.
Sebbene la seconda edizione ampliasse di molto la prospettiva, includendo realtà non
Toscane, non per questo la struttura delle Vite divenne policentrica. Aree come Lombardia,
Ferrara, Bologna, Napoli vennero trattare con una certa sufficienza.
In entrambe le versioni, Vasari fu molto attento alla scelta delle fonti: libri dei conti,
ricettari, epigrafi, scritture private, lettere, testimonianze orali e letterarie, una sorta di
autopsia dei fatti affiancata da un'analisi accurata delle opere.
Le biografie seguivano uno schema: dopo un'introduzione, seguiva il racconto
dell'infanzia e giovinezza che consentiva un'analisi sul carattere e formazione dell'artista,
poi descrizione e valutazioni sulle opere con aneddoti su commissioni e circostanze che
potevano aver favorito una certa opera, infine brevi cenni sugli aiuti di bottega e sugli
allievi. Ciascuna vita si concludeva con giudizi sulla qualità dell'opera e l'eticità
dell'autore.

Entrambe le edizioni delle Vite iniziavano con la nascita di Cimabue (1240) ed


entrambe erano scandite in tre "età"che corrispondono alle età dell’uomo e quindi
corrispondono alle età dell’arte:
La Prima età si apriva appunto con Cimabue e si chiudeva con Lorenzo di Bicci, (comprende
Giotto) “infanzia dell'arte”. Nel Trecento gli artisti avevano preso coscienza di tutti i
problemi formali e spaziali che verranno risolti nel Quattrocento, questi artisti sono i
pionieri della prospettiva.
La Seconda età ( “giovinezza dell'arte”) da Jacopo della Quercia a Pietro Perugino)
coincideva con l'attività dei maestri del Quattrocento che avevano dato impulso alle arti
«aggiungendo alle cose de' primi la regola, ordine, misura, disegno e maniera». Questi
artisti sono quelli che cominciano a mettere ordine in questa quasi intuitiva ritrovata
relazione con la realtà degli infanti e che invece attraverso la scienza della prospettiva
mettono ordine, regola, misura, disegno e maniera.
Per Vasari fu Leonardo da Vinci a dare inizio alla terza età: (“maturità/ perfezione
dell'arte”) la sua prospettiva aerea apre la maniera moderna ed è una costruzione dello
spazio fatta di colore e luce e la distanza degli oggetti dal primo piano è data dallo sfumare
dei contorni, dalla trasformazione dei colori, età in cui il disegno aveva raggiunto la
perfezione, caratterizzata dalla capacità degli artisti di dissimulare le fatiche ossessive di
una visione scientifica dei loro predecessori sotto una maniera compiuta e matura che non
fa più fatica nel darsi regola, ordine, misura, disegno e maniera ma che anzi si può
permettere anche la deroga formale a queste regole e misure.
La Terza età, nella versione del 1550, si stagliava la figura dell'unico artista vivente:
Michelangelo, mentre nell'edizione del 1568, meno trionfalmente, quella dello stesso
Vasari.
Due temi importanti emergono dalle Vite:
la nozione di disegno (centrale nel dibattito artistico coevo) in cui Vasari spiegava come
nell'intelletto dell' artista si sviluppasse un disegno interno, che la mano materializzava poi
nell'opera d'arte. Nella concezione vasariana la storia del progresso artistico era la storia
dei progressi del disegno fino all'età della perfezione.
la nozione di maniera: un termine che di norma indicava i differenti tratti stilistici di un
artista, di una scuola, di un'epoca ma anche un'accezione negativa quando alludeva al
lavorare di "maniera", in cui si ripeteva stancamente il proprio repertorio, o a copiare
meccanicamente lo stile altrui.
Cosi come per il disegno, anche la maniera conosceva una parabola evolutiva. Dalla buona
maniera antica dell'arte greca e romana, si era passati alla goffa maniera "vecchia" del
Medioevo, caratterizzato dalla maniera bizantina e da quella gotica.
Nell'epoca della rinascita si era giunti a una maggiore naturalezza con le figure di
Giotto. Nella Terza età la maniera si configurava con il naturalismo. Leonardo aveva
realizzato la fusione di tutte e tre le arti del disegno e si era avvicinato alla perfezione.
La figura di Michelangelo ha condizionato molto il passaggio dall'una all'altra
edizione, dalla Torrentiniana alla Giuntina. Tuttavia la lontananza e poi la morte di
Michelangelo, favorirono un'apertura nei confronti di Raffaello.
La contrapposizione tra la maniera dei due grandi artisti (Raffaello e Michelangelo)
animò la vita culturale di tutto il Cinquecento.
Una vera e propria disputa, un “paragone” tra le arti, il dibattito verteva principalmente su
quanto ognuna di esse (pittura e scultura) fosse migliore nell’imitare la natura.
Questa disputa fu affrontata dal filologo Benedetto Varchi con un verdetto di parità:
pittura e scultura erano, entrambe arti nobili, in quanto sorelle, erano legate da fattori
comuni: il disegno e l'imitazione della natura. Per Varchi il disegno era l’emanazione diretta
dell'idea generatrice. Teorie condivise anche da Vasari.
Invece Vincenzo Maria Borghini sosteneva la superiorità della pittura per la evidente
contiguità con la poesia in quanto capace di invenzione, tanto è vero che all'esequie di
Michelangelo, aveva riservato all'allegoria della pittura un posto d'onore sul catafalco
funebre.
Oltre il "paragone" tra le arti, emergono discussioni sulla gerarchia dei generi della pittura
con il primato indiscusso della "pittura di storia".
Una posizione eccentrica quanto rilevante, nel dibattito tardocinquecentesco, la ebbe il
pittore lombardo Giovanni Paolo Lomazzo autore dell' Idea del tempio della pittura
(1590).
Lomazzo attinse dalla tradizione astrologica descrivendo un edificio allegorico con sette
colonne in cui ogni artista era collegato ad un pianeta, ognuno costituiva un modello
corrispondente alle sette parti dell’arte: proportione, moto, forma, lume, compositione,
prospettiva, colore. Michelangelo legato a Saturno e alla Proporzione, Gaudenzio Ferrari a
Giove e al Moto, Polidoro da Caravaggio a Marte e alla Forma, Leonardo al Sole e al Lume,
Raffaello a Venere e alla Compositione, e ancora Mantegna con la Prospettiva e Mercurio,
e infine Tiziano con il Colore e la Luna.
Quindi ogni artista aveva una caratteristica e la perfezione consisteva nell'eccellere in una
delle sette «Parti dell'arte» quella che più corrispondeva alla propria inclinazione
naturale. Insomma, per divenire «grandi», i pittori dovevano riconoscere la propria
vocazione e imitare la maniera dei maestri più affini.
L'autore immaginava la possibilità di mettere a confronto un Adamo ed Eva eseguito
da Michelangelo, uno da Tiziano, uno da Raffaello ecc ognuno di solo avrebbe
certamente realizzato un'opera eccellente facendo ricorso alle proprie personali
qulità. Insomma la diversità assurgeva a valore altamente positivo.

Nessuno degli autori ricordati scriveva ancora di "storia" dell' arte nel senso moderno ma
iniziava ad emergere la consapevolezza che il passato storico-artistico potesse illuminare il
presente, inoltre vi era sempre più da parte degli artisti l’esigenza di fare un salto di
qualità nella scala sociale. A favorire, in tal senso, le istanze degli addetti ai lavori irruppe
un imprevisto fattore esterno: la Controriforma con il Concilio di Trento con la difesa delle
immagini sacre che il mondo protestante aveva condannato. L'universo cattolico non solo
le difese ma ne esaltò il valore trascendentale, quindi la pittura era virtù nobilissima e si
attribuiva agli artisti una funzione sociale molto elevata.
Le immagini sacre avevano il potere, mediante gli atti religiosi che rappresentano, di unire
gli uomini con Dio. L'operato degli artisti era dunque l'anello tra la dottrina e i fedeli.
A cogliere l'occasione offerta da questa particolarissima congiuntura storica, fu un pittore-
letterato, Federico Zuccari il quale fondò l’Accademia del Disegno di san Luca con
l’obiettivo di accrescere la cultura delle giovani generazioni: era necessario esercitarsi non
solo nel Disegno ma anche nell' Anatomia, nella Prospettiva, nella Geometria, e quindi
nella Storia come nella Mitologia. Oltre alla didattica, gli allievi erano coinvolti in dibattiti di
natura teorici sul significato metafisico del disegno, “il segno di Dio tra noi”. Zuccari inoltre
sosteneva che l’imitazione avrebbe dovuto esprimere l'essenza di una dimensione
superiore, trascendente.
Anche questo della natura dell'imitazione sarà tema dibattuto ancora per tutto il
Settecento fino alle soglie del secolo successivo con Canova.

Giovanni Battista Armenini pittore fattosi prete, riscontrava con desolazione la crisi dell'
arte contemporanea. Egli condivideva con Vasari la visione di progresso e declino dell'
arte, ma a differenza di Vasari era certo di vivere una fase di reale declino. Proponeva una
poetica semplice, di impianto classicista capace di offrire un' alternativa alle troppe
bizzarre "maniere" in voga, egli arriva soprattutto a infrangere i segreti di bottega
rivelando ricette per preparare i colori, le vernici, le tele, dando un colpo definitivo alla
stessa ragion d'essere delle "corporazioni". Armenini, insomma, accompagnava il
rinnovamento di cui era portatrice l'Accademia di San Luca, la trasmissione libera dei
saperi in una visione di progresso condiviso.

1590-1640
Il governo della vista e il primato dell’invenzione

All’inizio del 600 l'irrompere del metodo scientifico di Galileo genera una rinnovata
curiosità nei riguardi della verità della natura e pone in primo piano il senso della vista: il
colore conferisce infatti verosimiglianza tale da stabilire il primato della pittura sulla
scultura.
Queste riflessioni sui gradi dell'imitazione della natura apre la strada alla facoltà di parola e
di giudizio anche di chi non era un artista.
Infatti appaiono sulla scena due eruditi non artisti: Giulio Mancini e Giovanni Battista
Agucchi.

Giulio Mancini nelle Considerazioni sulla Pittura rivendica il diritto di chi non è pittore a
giudicare un’opera di pittura.
Non è né pittore né poeta ma medico. Lui inventa una nuova figura, una figura che a
partire dal diciottesimo secolo si chiamerà il conoscitore, persone che non
necessariamente
pratichino la pittura, ma che la conoscano. Per Mancini una cosa è fare le opere e un’altra
è comprenderle, utilizzarle in un senso ampio, perché se l’obiettivo dell’arte e della pittura
è rappresentare la natura è più utile che essa sia giudicata da chi è in grado di orientarsi
nella realtà della natura, conoscendola scientificamente. Egli cataloga la pittura in base al
soggetto rappresentato: oggetti, natura, azioni umane, quindi le gerarchie di merito si
valutano in base ai soggetti rappresentati, ci si svincola dal saper fare pertanto può essere
giudicato anche dai non artisti e anzi gli artisti diventano cosí i meno indicati per giudicare
il loro operato.
Per Mancini, la pittura è un’imitazione e ha dei requisiti da valutare: Bellezza, Decoro,
Grazia, Proporzione, Colore, Bruttezza. Egli fu il primo a catalogare i dipinti secondo
l’epoca e la tecnica e la divisione in “scuole” già formulata dall’Agucchi e che diverrà uno
dei capisaldi della critica artistica. Mancini dà anche regole di mercato e le modalità di
collocazione piú appropriata per ogni soggetto, genere ed epoca delle pitture e
anche regole per come fare stime economiche.
Mancini parla anche dell’organizzazione degli oggetti d’arte negli spazi della casa. Ci aiuta a
capire anche che il collezionare opere d’arte è davvero un elemento di prestigio, di
autorappresentazione. Un gentiluomo nella propria dimora deve far vedere la sua
collezione di dipinti, ma ci sono disposizioni ben precise.
I disegni si devono tenere negli album perché questo consentirà anche al gentiluomo che li
ha collezionati di farli vedere in maniera agevole ai suoi ospiti. Dopo si considereranno le
pitture che per i paesaggi e cosmografie si metteranno nelle gallerie e in esse abbiamo
quindi dipinti che hanno soggetti che possono essere visti da tutti, quindi pitture di storia,
cosmografie, paesaggi. Le lascive come veneri, marte, donne nude devono andare invece
nelle gallerie di giardini e camere più terreni, cioè in spazi che non sono esattamente alla
portata di tutti.
Per quanto riguarda le scuole, vanno messe prima le nordiche, poi le lombarde, poi le
tosco-romane, perché così lo spettatore potrà godere con più facilità e riservare così
nella memoria le pitture già viste e di cui ha goduto.
Quanto alle cornici, il famoso effetto di quadro come finestra sul mondo secondo
Mancini è un dettaglio importante. L’ultimo aspetto sono le tende, necessarie sia perché
dietro di esse si devono mettere i dipinti un po' lascivi, sia perché servono per conservare.
Poi devono essere morbide, arrendevoli e i colori devono essere tenui, cioè quelli che in
qualche modo si accordano con la pittura.

Differenze tra conoscitore e storico d'arte


Il conoscitore è una persona competente capace di esprimere un giudizio critico sulle
opere d’arte e al tempo di Mancini non esisteva ancora questo termine, però ne definisce
la figura professionale, le competenze, l’attività, ma bisogna aspettare il secolo successivo
perché questa parola entri nel lessico del discorso sull’arte e soprattutto ci entra più o
meno contemporaneamente in Inghilterra e in Francia. Le competenze e le attività di
questa nuova figura professionale vengono delineate da Mancini in un momento in cui
forse nasce il sistema moderno dell’arte, con l’aumentare del collezionismo e degli scambi
sul mercato dell’arte, dei collezionisti attivi e degli amatori. Nascono poi le esposizione
temporanee e si moltiplicano le occasioni degli artisti relativamente al restauro. Per
Mancini in un’esposizione l’osservatore va divertito e non va annoiato, ad esempio
mettendo tutti i
dipinti della scuola lombarda, tutti i dipinti di Raffaello e i raffaelleschi tutti insieme,
mantenendo invece la stessa altezza cronologica facendo confronti. Ci ha restituito anche
la funzione dei vari spazi della casa anche in relazione alla collocazione delle opere di
pittura. La galleria è lo spazio per eccellenza. Il conoscitore risolve i singoli casi attributivi
senza essere interessato a fare una storia dell’arte mettendo l’opera in un contesto storico
o ad inserire i suoi giudizi in una prospettiva storica ampia. Vasari dice che non vuole fare
un catalogo ma vuole scrivere una storia dell’arte perché gli interessano gli effetti, i
moventi, giudicare le azioni degli uomini e i risultati di queste azioni. Il conoscitore prepara
il catalogo invece. Lo storico dell’arte dovrebbe invece inserire questo catalogo e
organizzare questi dati in una prospettiva storica. Non deve costruire solo una linea
cronologica. Il conoscitore è uno storico dell’arte reticente, mentre lo storico dell’arte è un
conoscitore loquace, diceva Panofky. Questo perché il conoscitore non ha necessità di
costruire un discorso, lui risolve il caso attributivo e compila il catalogo. Lo storico dell’arte
invece deve necessariamente essere conoscitore, ma parla, è loquace perché costruisce un
discorso che è un discorso storico in una prospettiva più ampia e storica in cui inserisce
anche i risultati del suo lavoro. Questa figura professionale di cui Mancini ha individuato il
nome avrà una straordinaria fortuna nella storia del discorso sull’arte. In Giulio Mancini c’è
il germe del conoscitore moderno e anche di un metodo: tesi fondamentale di un saggio
molto famoso su questi temi di uno storico e non di uno storico dell’arte, Carlo Ginzburg,
pubblicato nel 1979 con il titolo di Spie alle radici di un paradigma indiziario e poi
ripubblicato in un raccolta che si chiama Miti emblemi spie, morfologia e storia ,
quest’ultimo pubblicato nel 1986. In questo saggio sono discussi Mancini, Morelli, Sherlock
Holmes e Freud, tutti grandi conoscitori perché l’idea di Carlo Ginzburg è che il
conoscitore, così come lo definisce Mancini nelle considerazioni sulla pittura, lavora
utilizzando un metodo che è non troppo diverso da quello dell’investigatore o dello
psicanalista. Il conoscitore, l’investigatore e lo psicanalista lavorano secondo Carlo tutti a
partire da indizi che gli consentono di ricostruire al conoscitore, l’autore e la cronologia di
un dipinto, all’investigatore di scoprire l’assassino e all’investigatore di riconoscere la
patologia del suo paziente. Tutti arrivano al risultato leggendo dei segni e delle tracce. E in
base a tutto questo queste tre figure professionali arrivano al risultato nella loro attività
specifica e secondo Carlo questa modalità di investigazione del conoscitore si legge già
nelle indicazioni che Giulio Mancini dà nella sua opera per suggerire la formazione di
questa nuova figura professionale di cui stiamo parlando. I capitoli dell’opera manciniana
sono distinti come in un vero e proprio manuale e danno indicazioni per conoscere le
scuole nazionali, con una particolare attenzione per il sistema dell’arte a Roma e quindi la
scuola romana, poi c’erano i generi. Era dunque un vero e proprio manuale per esercitare
l’occhio, il quale è importante per Mancini come per tutta la sua generazione. In questo
contesto Galileo aveva insegnato la centralità dell’osservazione nei fenomeni naturali. Così
come lo scienziato nell’osservare i fenomeni naturali per ricavare delle teorie generali, allo
stesso modo questa nuova figura di conoscitore di cui parla anche mancini attraverso
l’osservazione dei dipinti può risolvere i casi attributivi, consigliare cosa comprare,
distinguere la qualità per esempio della pittura, e di conseguenza anche suggerire ad un
ideale collezionista il giusto prezzo a cui acquistarla. L’osservazione si educa e così come lo
scienziato si esercita a guardare i fenomeni della natura così il conoscitore deve esercitare
l’occhio a riconoscere quello che vede. Mancini suggerisce di guardare le figure perché si
può conoscere il manuale nel
senso scritto ma dato che si tratta di storia dell’arte bisogna innanzitutto collegare il testo
all’immagine. Il testo, cioè l’oggetto di studio e attenzione di questa nuova figura
professionale che deve aiutare ad orientarsi sul mercato dell’arte e che è appunto il
conoscitore sono gli oggetti artistici e così allora come lo scienziato deve guardare con
attenzione la natura, questo conoscitore ante litteram si deve esercitare a guardare le
opere. Le considerazioni sulla pittura sono un piccolo manuale che indica come si può
orientare e può esercitare il suo lavoro. In uno di questi capitoli dedicati alla preparazione
di queste competenze, Mancini suggerisce che in ogni dipinto ci sono delle parti che
possono svelare in qualche modo il nome dell’autore e l’ambito culturale a cui questo deve
appartenere. Cioè dice che in ogni dipinto questi elementi quasi invisibili per chi non è
esercitato a vederli, ma che invece sono utili per questa nuova figura professionale sono
dei caratteri che corrispondono all’autore, alla mano che ha utilizzato così come i caratteri
della scrittura corrispondono a chi scrive. Secondo Mancini sono quei caratteri, quegli
elementi invisibili allo spettatore comune, ma che invece consentono al conoscitore di
trovare la chiave per riconoscere l’autore di quel determinato dipinto e più in generale il
contesto, la scuola pittorica ecc… L’idea è che questi segnali siano come i caratteri della
scrittura, e cioè fortemente individualizzanti, corrispondenti solo a quel pittore o a quello
scrivente. Basti pensare alla grafologia, disciplina che dallo studio della scrittura
ricostruisce i caratteri e l’identità di chi ha scritto.

Insieme a Mancini anche altri letterati come l’incisore Abraham Bosse (1602-1676)
teorizzano la legittimità di chi non è artista a poter esprimere un giudizio, che può
avvenire con l’osservazione e con una buona memoria visiva. Difatti è possibile mantenere
a mente le maniere e le attitudini di diversi artisti in modo da fare paragoni ed esprimere
giudizi.

Giovanni Battista Agucchi (1570-1632), letterato e erudito antiquario elabora una serie di
precetti per guidare l’occhio sul come classificare le tecniche, datare le opere e
identificare ogni singolo artista. Invenzione, tecnica pittorica e stile sono i tre punti da
valutare.
Le posizioni piú alte sono riservate alla pittura di storia: il dipingere di maniera e il
dipingere dal vero.
Agucchi dice che gli artefici fanno tutti più o meno la stessa cosa, cioè camminano per una
stessa strada e hanno la medesima intenzione di imitare il vero, il verosimile, il naturale, il
più bello della natura, cioè tutto sommato si tratta solo di graduare l’attenzione alla realtà
(più vicino, un po' meno vicino…) ma difatti quello che interessa agli artisti è una cosa
sola. Esistono però comunque delle differenze individuali che si riflettono nel lavoro loro,
ma la finalità degli artefici è per tutti la stessa: l’imitazione della natura.
Dunque laddove Giulio Mancini avrebbe detto: “se la finalità è la stessa per tutti, tutti mi
possono giudicare”; Agucchi dice che tutti fanno la stessa cosa perché imitano la natura,
ma ognuno lavora con le sue particolarità.
E allora a questo punto come possiamo orientarci nel mondo dell’arte? Dice Agucchi che
bisogna distinguere gli artisti per “scuole”. Gli artefici ovviamente hanno una maniera
individuale che li identifica, ma è possibile raggrupparli rispetto ad un interesse generale,
ad una modalità generale rispetto alla quale questi artefici poi declinano il loro modo di
lavorare originale. La scuola romana ad esempio si caratterizza per la capacità e l’interesse
per l’artificio degli antichi, cioè loro lavorano come gli antichi. I veneziani e quelli della
marca trevigiana, in particolare Tiziano, si sono occupati piuttosto d’imitazione della
bellezza della natura, cosa che già sappiamo da Vasari, quella che si ha dinanzi agli occhi. I
lombardi hanno un caposcuola che è quasi unico secondo Agucchi che è Correggio,
perché egli ha la capacità di imitare la natura forse anche più dei veneziani, ma lo fa in
modo tenero, facile, nobile, che è maniera di per se, cioè è un modo talmente diverso di
imitare la natura che non lo possiamo associare ai veneziani ma inquadrare in una scuola
per fatti suoi. Quello che invece rimane della tradizione toscana e che non è stato
esportato completamente a Roma, ad Agucchi non piace e tutto sommato questo è un
momento un po' di decadenza dell’arte toscana. Queste scuole regionali non sono tanto
legate ai luoghi di nascita degli artisti, quanto piuttosto al territorio in cui operavano gli
artisti.

Un'altra differenza tra Mancini ed Agucchi è che il primo delinea le scuole dei viventi, il
secondo le scuole del passato.

1640-1680
Il primato del colore prima metà del 600

Il primato della vista ha ormai condizionato la sfida tra natura e pittura, gli inganni della
natura si emulano attraverso l'arte della prospettiva e dl sapiente uso del colore applicato
per la restituzione degli aspetti atmosferici del reale.
In questo contesto l'esempio da emulare è certamente Tiziano.
Il teorico di questo mutamento di indirizzo pittorico fu sicuramente Marco Boschini (1602-
1704) mercante legato al mondo del collezionismo. Il più grande critico del 600, scrive in
dialetto veneziano e ne fa una lingua, perchè secondo lui solo questa lingua può restituire
esattamente la pittura veneziana di cui lui intende parlare, usando così la lingua degli
artefici. Tema centrale per Boschini è l'aderenza al vero, incarnata dalla pittura che sa far
trasparire l'anima dei colori. Egli scrive la Carta del Navegar Pitoresco (1660) in cui tesse
l’elogio di Tiziano come apice della scuola veneta e della pittura, rinnega l'idea della
congiunzione di diverse maniere.
Di Boschini è anche Ricche miniere della pittura veneziana qui la questione non è più il
diritto di chi non è pittore a giudicare le opere ma la possibilità di individuare delle
sfumature tra intendenti in grado di esercitare un'intelligenza dello stile e dilettanti. Le
figure appaiono idealmente divise da un cristallo che consente ai dilettanti di osservare
solamente la mensa con le prelibatezze di cui si nutrono gli intendenti, che hanno
maturato un contatto diretto con le opere.
Vi è un proliferare nel 600 di storiografie artistiche regionali.
Si tende ad una storicizzazione del presente e si è alla ricerca di nuove forme di
periodizzazione.

Giovanni Baglione (1573-1644) nelle sue Vite de’ pittori, scultori ed architetti sceglie di
ordinare gli artisti contemporanei in base alla successione dei papi, da Gregorio XIII a
Urbano VIII. Ambisce a valorizzare l’ambiente romano sostenendo che solo a Roma è
possibile perfezionarsi in quella «maniera buona italiana», in questo caso con Rubens.

Giovanni Battista Passeri nelle Vite de’ pittori scultori ed architetti ordina gli artisti in base
alla loro data di morte.
Francesco Scannelli propone un sistema storiografico alternativo in cui elimina totalmente
le vite degli artisti descrivendo solo le opere, da collocare nelle varie scuole pittoriche.
Secondo lui, così come le opere, anche gli scritti e i giudizi sulla pittura vanno osservati
dalla debita distanza e vanno comparati con la diretta osservazione delle opere. La
necessità di poter esercitare un esame diretto sulle opere, porta la preoccupazione e il
disappunto per gli incontrollabili spostamenti delle opere verso le grandi collezioni. Nello
stesso tempo la formula del viaggio assicura credibilità agli itinerari visivi.
Scannelli ha delle teorie molto eccentriche, egli sostiene che esiste un Microcosmo della
pittura in cui le varie scuole pittoriche sono parti del corpo umano: Michelangelo è la spina
dorsale, gli organi vitali sono i veri maestri universali: Raffaello il fegato, filtra e restituisce
nutrimento, lui tra dalla madre antichità la sostanza del sapere; Tiziano il cuore, vera
naturalezza che riceve il sangue dal fegato e lo perfeziona; e Correggio il cervello, l'organo
più nobile nel quale risiede il pensiero che controlla sentimenti ed azioni.

Pietro Bellori (1613-1696) si situa nel contesto di una necessità di un rinnovamento della
cultura figurativa contemporanea che doveva trarre ispirazione dall’antico.
In lui si rintraccia la continuazione delle Vite di Vasari, stessi principi: centralità del disegno,
organizzazione delle vite, concetto di “campioni”.
Bellori esalta la scuola romana di Carracci, in particolare Annibale. Una scuola che
sapeva guardare alla natura, emendandone il brutto attraverso i classici del
Rinascimento, mossa dallo spirito unificatore della pittura di Raffaello.
La sua opera L'idea del pittore, dello scultore e dell'architetto scelta dalle bellezze
naturali superiore alla Natura è costituita da singole biografie, che nell’edizione del
1672 sono 12: Annibale Carracci, Agostino Carracci, Domenico Fontana, Federico
Barocci, Michelangelo da Caravaggio, Rubens, Van Dyck, Duquesnoy, Domenichino,
Lanfranco, Algardi, Poussin, Maratta, Guido Reni e Andrea Sacchi.
Egli dà un ruolo predominante ad Annibale Carracci, restauratore della pittura, esempio di
progresso delle arti, compresenza di maestri antichi e i moderni. Annibale rappresenta
l’apice e il progresso ereditati da Raffaello.
Bellori afferma il primato dell’invenzione e declassa il colore, è l'intelletto non l'occhio a
giudicare.

Carlo Cesare Malvasia (1616-1693) sceglie di aderire al modello delle Vite del Vasari,
rinnovandolo alla luce di piú aggiornate esigenze storiografiche. La biografia si trasforma
cosí in un “racconto aperto”, un “appassionato” montaggio di documenti, carteggi,
testimonianze orali tagliati e inseriti in modo da risultare funzionali a un racconto che
restituisse dignità e autonomia alla scuola bolognese. Malvasia mutua dal Vasari anche la
suddivisione del volume in quattro età. Il punto di partenza è ancora una volta quello della
rinascita dell’arte dopo la cesura con l’antichità.
Cos’è che a Malvasia non piace? Innanzi tutto l’idea di storia che sottende le Vite; la visione
della storia come “frattura”: l’arte che, a causa delle invasioni barbariche, fatalmente
muore e che poi resuscita quando nacque a Firenze Cimabue. Cimabue che poi a sua volta
viene superato da Giotto e così via. Malvasia non concepisce la storia come frattura, come
scomparsa e rinascita; per lui la storia è innanzi tutto tradizione e memoria. Anche l’arte è
tradizione e memoria, e procede per stratificazioni. È certo vero che i secoli bui segnano
un declino del fare artistico, ma la ripresa qualitativa del mondo dell’arte avviene a Firenze
come a Bologna, come in molte altre città d’Italia. L’idea di Malvasia, dunque, non è quella
di sostituire la supremazia toscana con quella bolognese, ma di proporre un modo diverso
di vedere il divenire dell’arte: nessuna frattura, nessuna scomparsa, ma tradizione e
sviluppo.

Filippo Baldinucci (1625-1696) si rivolge a un contesto europeo e oltrepassa i confini e le


rivalità delle scuole. Egli realizza degli elenchi del patrimonio con valutazioni sulla
quantità e sulla qualità delle opere da annoverare nelle collezioni medicee. Come il Vasari
mostra una prospettiva toscano centrica, conferisce il primato toscano di Cimabue.
Compone nel 1686 la prima testimonianza autonoma di una storia della calcografia, in
parallelo dispone la stampa del “vocabolario toscano dell'arte del disegno” che gli varrà
il riconoscimento come accademico della crusca.

1681-1814
La Repubblica delle Lettere e il dibattito sul metodo storico
- Fine 600

Il dibattito intorno all’attendibilità delle fonti storiche, che coinvolse anche le opere d’arte,
era andato intensificandosi negli ultimi decenni del Seicento.
Tre personaggi importanti riguardo il rapporto con la storia e le fonti furono Bianchini,
Montfaucon e Maffei.

Francesco Bianchini (1662-1729) esprime questa questione cruciale tra la fine del 600 e
l’inizio del 700: il rapporto tra scienza e antiquaria, tra scienza e storia.
Bianchini studiò il pensiero di Newton e fu fautore del rinnovamento del pensiero
scientifico italiano. La sua Istoria universale del 1697, aveva l’obiettivo ambizioso di
stabilire la verità delle storie e fornire una idea chiara della storia del Mondo.
Bianchini attua un metodo opposto a quello degli antiquari del suo tempo, che puntavano
a raccolte quanto piú possibile estese, in favore invece di una selezione degli elementi
significativi.
Nel 1703 fu nominato Presidente delle antichità di Roma con il compito di tutelare il
patrimonio artistico della città. Allestì il Museo Ecclesiastico in Vaticano, un progetto con
finalità didattiche che doveva ordinare tutte le opere d’arte conservate nel territorio
pontificio per illustrare la storia della Chiesa primitiva. I disegni preparatori testimoniano il
valore documentario attribuito ai singoli oggetti e la ricerca di accostamenti che
rendessero visibile il percorso storico. Si interessò anche a problemi di restauro, come nel
caso del Pantheon, e agli scavi archeologici.

Bernard de Montfaucon analizzò il rapporto tra storia, arte e critica del testo, scrisse
Diarium Italicum. Egli criticava gli antiquari che raccoglievano senza selezionare, la
sua raccolta proponeva invece una selezione delle sole testimonianze che avessero
precisi riscontri nelle fonti.
La classificazione sistematica degli oggetti combinata con il racconto storico produsse
un’opera decisamente diversa dalle raccolte antiquarie o dalle storie illustrate della
monarchia.
Montfaucon lavorava in parallelo fra testo e immagine con l’obiettivo prioritario di narrare
i fatti storici.

Scipione Maffei (1675-1755) fu impegnato per tutta la vita nel rinnovamento del metodo
storico. Contrario all’erudizione antiquaria compiaciuta delle proprie classificazioni, Maffei
usa diversi strumenti storiografici, dalla critica del testo all’epigrafia, coniugandoli con
l’analisi diretta sulle opere d’arte sia antiche che moderne.

Bianchini, Montfaucon e Maffei dunque rappresentano emblematicamente quel fitto


movimento di studiosi che, mossisi inizialmente alla ricerca di prove concrete per la
ricostruzione storica, coltivarono un’attenzione analitica diretta sulle opere d’arte,
ampliando cosí gli strumenti critici e modificando progressivamente i parametri di giudizio.

I conoscitori e il «catalogo ragionato»


- Inizio 700 conoscitore con approccio storico

Jonathan Richardson (1665-1745) sollevò la polemica sulla legittimità del giudizio artistico
da parte del conoscitore. Il conoscitore, ora, doveva dimostrare ciò che pubblicava
pertanto crebbe parallelamente il dibattito sulla qualità e attendibilità delle riproduzioni.
Nel 1719 Richardson poneva il connoisseur al centro dei suoi scritti. In The Connoisseur
rivendicava la possibilità di acquisire capacità di giudizio a chiunque sapesse esercitare la
razionalità e intendeva provare come ogni inglese colto e illuminato potesse acquisire
queste capacità con una buona conoscenza della storia generale e in particolare della
Storia delle Arti e specialmente della Pittura.

Pierre-Jean Mariette (1694-1774) dispose le stampe per scuole e cronologie. Ebbe un


ruolo cruciale nella promozione culturale di questi anni e si impegnò nell’attività
storiografica.
Il suo metodo mette a punto una nuova tipologia di catalogo d’arte: non piú solo raccolta
di incisioni per illustrare la grandezza di un collezionista o la superiorità di una scuola
pittorica, ma strumento critico, composto di testo e immagini, indispensabile nella
costruzione storiografica.
Insieme a Pierre Crozat (1665-1740), facoltoso banchiere immaginò una pubblicazione che
unisse incisioni della migliore qualità con la riflessione storiografica sugli artisti e la
descrizione puntuale delle loro opere. È proprio lo stretto legame fra testo e immagine,
elaborati l’uno in riferimento all’altra, che costituì l’aspetto innovativo del Recueil
(Collezione). Il progetto si rivolgeva «agli amatori e alla gente d’arte». Il Recueil
diventava un catalogo ragionato di tutte le cose degne di attenzione, primo libro d’arte,
autentico antenato dei moderni cataloghi illustrati.

Antoine-Joseph d’Argenville (1680-1765) difendeva la classificazione di dipinti e disegni


per generi, contro la pratica ormai dominante di ordinarli secondo le scuole, recuperava il
modello biografico. Anche in questo caso il libro si presentava come un agile strumento di
facile uso, scritto in francese, che ripercorreva tutte le principali scuole europee, con
particolare attenzione a quella tedesca, a suo avviso molto trascurata.

Metà 700

La Galleria di Dresda tra gli anni Quaranta e Sessanta del 700 diventa un luogo
importante per la cultura cosmopolita grazie al mecenatismo di Federico Augusto I di
Sassonia. Nelle sale della pinacoteca si alternarono cosí alcuni tra i conoscitori piú
accreditati dell’epoca e la Galleria rappresentò un luogo significativo nella carriera di
molti, non ultimo nella formazione di Winckelmann.

Nel 1742 arrivò a Dresda Francesco Algarotti (1712-1764) conoscitore e collezionista


impegnato nella divulgazione del pensiero scientifico. Entrato in contatto con il pensiero di
Newton, Algarotti si era avvicinato alla pittura classicista. Negli anni Trenta Algarotti
incontrò Scipione Maffei e diventò amico di Voltaire. Fu chiamato a sovrintendere alla
Galleria di Dresda e il suo Progetto testimonia la rilevanza del lavoro dei conoscitori nella
costruzione della storia dell’arte.
Con frequenza Algarotti discuteva dello stato di conservazione di un dipinto, si indignava
per la scarsa cura prestata in Italia alla tutela dei capolavori.

Gaetano Bòttari eseguì un progetto per l’ampliamento delle vite vasariane con una serie
di illustrazioni delle opere trattate nel testo, vi troviamo quindi l'importanza delle incisioni
per la documentazione delle opere.
Molto attento alla conservazione e documentazione mediante la raccolta di lettere: le
lettere degli artisti assumevano per la prima volta un rinnovato valore di prova storica.
Intorno alla metà del secolo il dibattito sulle competenze dei restauratori divenne
progressivamente piú acceso, incrociandosi con la riflessione dei conoscitori.
L’esercizio dell’attribuzione non era esente da clamorosi errori dovuti alle modifiche
che le opere subivano nel tempo.

Nel 1746 Pietro Guarienti (1678 ca. - 1753), pittore allievo di Giuseppe Maria Crespi, operò
una lucida difesa delle qualità del conoscitore, dava anche indicazioni per smascherare i
falsi.

Nel 1750 arrivò a Dresda anche Ludovico Bianconi (1717-1781), disseminava osservazioni
sulle modalità di esposizione delle opere. Bianconi polemizzava in particolare con Luigi
Crespi. Il confronto sulla legittimità del giudizio vedeva ancora una volta contrapposti un
intenditore a un artista.

Tra il 1753 e il 1757 alla collezione di dipinti di Dresda veniva dedicata una raccolta
di stampe curata da Carl Heinrich von Heineken (1707-1791) che applicò il modello
del Recueil Crozat, inaugurando una nuova tipologia di catalogo illustrato.

Nel 1764 direttore generale delle collezioni e delle Accademie di Sassonia veniva nominato
Christian Ludwig von Hagedorn (1712-1780) fine conoscitore, aveva come obiettivo
scardinare un pregiudizio nei confronti dell’arte tedesca, infatti contestava
l’assimilazione del «gusto tedesco» al «gusto gotico» fatta da Roger de Piles e mirava a
individuarne le caratteristiche peculiari.

Il confronto tra conoscitori (Caylus) e storici (Winckelmann)


- Inizio 700

A portare il metodo dei conoscitori sul terreno degli antiquari fu il conte di Caylus
(1692- 1765), incisore, collezionista e studioso oggi celebrato come uno dei padri
fondatori della moderna archeologia.
Il Grand Tour lo portò prima in Italia e poi fino in Asia Minore, un’esperienza che giocò un
ruolo rilevante per il suo metodo, influendo sullo sguardo molto ampio che riservò a tutti
i popoli dell’antichità.
Caylus ripropose la formula del Recueil con l’obiettivo di studiare fedelmente lo spirito e la
mano dell’Artista guardando le opere come la prova e l’espressione del gusto che
dominava in un secolo e in un paese. Il suo metodo era l’osservazione diretta delle opere.
Il gusto di un popolo per Caylus differisce da quello di un altro popolo. La tecnica e lo stile
costituivano quindi gli elementi fondanti dell’analisi.
La critica verso gli antiquari riguardava anche la qualità delle riproduzioni:
Caylus rivendicava di aver riprodotto solo opere che aveva visto personalmente,
spesso presentandole da più punti di vista.
Oggi è noto che Caylus si ritrovò spesso a lavorare su opere di scarso valore, talvolta false,
ma questo non sminuisce la portata delle sue scelte innovativa di metodo, che lo
condussero ad occuparsi di materiale minuto, oggetti di vita quotidiana e reperti
frammentari.
La ricerca sulle tecniche esecutive antiche e sui materiali costitutivi era questione cruciale
per Caylus, per questo si avvaleva della collaborazione di medici e chimici, con cui
riconosceva anche se le opere erano state sottoposte a restauri. Dal punto di vista della
narrazione storica, lo studioso concordava con quanti vedevano un percorso evolutivo
dall’origine presso gli Egizi fino all’apogeo dell’arte greca, per poi leggere un inevitabile
declino. All’interno di questo schema Caylus sottolineava però le peculiarità di ciascun
popolo e i legami trasversali tra le diverse culture.
Il metodo di Caylus era vagliare i documenti storici, appurare la verità dei fatti, riuscendo a
restituirli in una narrazione storica dal carattere didattico.
Dunque con il conte di Caylus si passa dall’Antiquaria alla Storia dell’arte. L’antiquaria è un
modo di sfruttare un catalogo, un inventario, una lista: per esempio Caylus scrive 40
volumi che raccolgono antichità greche, etrusche e romane. L’antiquario non fa la storia, fa
elenchi, cataloghi, inventari, mentre lo storico sente invece la necessità di mettere a
sistema i dati di fatto, per ricavare da essi delle leggi che gli consentano di fare una storia.

A questo modello storico sembra fare riferimento Johann Joachim Winckelmann (1717-
1768) nato a Sassonia nel 1717, all'inizio si dedicò alla medicina e alla matematica. Ebbe
anche modo di studiare diverse lingue quando dal 1748 al 1754 fu impegnato come
bibliotecario vicino Desdra. Qui strinse legami con vari conoscitori che aumenteranno il
suo interesse per la pittura italiana, in particolare la pittura classicista del 600 che spesso
metterà a paragone con gli antichi. Tale interesse rimarrà costante anche dopo il
trasferimento a Roma.
La sua prima importante opera fu Pensieri sull'imitazione delle opere greche in pittura e
scultura, qui dimostrava l’assoluta unicità dell’arte greca fondandola su alcuni fattori
determinanti: la temperatura, la qualità fisica data dagli esercizi ginnici, la libertà politica e
quella dei costumi erano le motivazioni che spiegavano la superiorità dell’arte greca,
prescritta come modello per il gusto contemporaneo.
In questo saggio, compare un passo essenziale per la comprensione del neoclassicismo.
Eccolo qua per intero:
“La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una
quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare
che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle
figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata”

Per comprende al meglio queste parole perciò calarci nella realtà del contesto artistico del
Settecento. Una realtà in grande fermento, soprattutto dopo i ritrovamenti, avvenuti
rispettivamente nel 1738 e nel 1748, delle rovine di Ercolano ed Pompei, che
risvegliarono la passione per l’antichità negli artisti e negli intellettuali del tempo. L’eco di
tale scoperta pervase l’intera Europa, attirando in questa zona d’Italia viaggiatori
provenienti da tutto il continente. Lo stesso Winckelmann si recò a Pompei e a Ercolano,
benché solo alla fine degli anni Cinquanta del secolo, quindi dopo aver pubblicato i suoi
Pensieri: la visita, tuttavia, sarà per lui fondamentale per la stesura delle sue opere
successive. Uno dei risvolti positivi di questo rinnovato amore per l’antichità, fu
l’approccio scientifico all’arte del passato: gli studiosi iniziarono a redigere catalogazioni,
a condurre campagne di scavo, a studiare le testimonianze dell’arte classica con criterio
filologico. E tali interessi non riguardarono soltanto l’arte romana, che per secoli aveva
costituito lo “standard” al quale gli artisti si rifacevano: gli intellettuali iniziarono a
occuparsi in modo esteso e sistematico delle produzioni artistiche di altre civiltà, come
quella greca, quella egizia, quella etrusca, e non solo.
Fino ad allora, guardare alla classicità significava, essenzialmente, guardare all’arte
romana: il giudizio degli intellettuali, a partire dal Cinquecento, fu condizionato da Giorgio
Vasari, che nella sua Vita di Andrea Pisano affermò che l’arte romana fosse “la migliore,
anzi la più divina di tutte l’altre”. Il clima culturale che si sviluppò nel Settecento mise in
discussione il primato fino ad allora riconosciuto all’arte romana: in precedenza, nessuno
si era preoccupato di fare distinzioni tra arte greca e arte romana, dal momento che era
tutto ricondotto sotto la “categoria” della classicità. Gli studiosi del XVIII secolo
cominciarono pertanto a domandarsi quali fossero le differenze tra arte greca e arte
romana e, dunque, in quale modo le due civiltà declinassero la classicità. Fu proprio
Winckelmann a rivisitare profondamente il giudizio di Vasari: lo storico dell’arte tedesco
riteneva infatti che i greci fossero superiori ai romani. Per inciso, lo stesso giudizio di
Winckelmann condizionò i gusti estetici almeno fino agli inizi del Novecento (con
l’eccezione, però, del romanticismo), quando ci fu una completa rivalutazione dell’arte
romana.
Ma per quale motivo Winckelmann fu un deciso assertore della superiorità dell’arte greca
nei confronti dell’arte romana? Winckelmann riteneva che l’arte nascesse in clima
di libertà, e dal momento che riteneva anche che i greci fossero uomini veramente liberi in
quanto vivevano, al contrario dei romani, in uno stato basato su un vero ed efficace
sistema democratico, l’arte greca, secondo la logica di Winckelmann, non poteva che
essere più libera e detenere quindi il primato su quella romana. Lo storico tedesco era
convinto inoltre che il fiorire delle arti nella Grecia antica abbia avuto il suo inizio in un
momento ben preciso: quello della cacciata dei tiranni e della susseguente nascita della
forma di governo democratica nell’Atene antica. È dunque questo il motivo principale per
cui Winckelmann era un acceso fautore della superiorità dell’arte greca su quella romana:
quest’ultima non poteva che consistere in una copia, decadente e priva di valori, di quella
greca. Così come decadente, secondo Winckelmann, era l’arte a lui contemporanea, che
dipendeva dalla volontà di un sovrano, della sua corte, e dei mecenati che la
frequentavano: ricordiamo che Winckelmann era nato nel regno di Prussia. Anzi: è
possibile che il suo pensiero sostanzialmente illuminista e quindi la sua avversione per i
regimi monarchici (i quali spesso e volentieri si ispiravano al modello dell’Impero Romano)
avesse contribuito a formare il suo parere sulla superiorità dell’arte greca nei confronti di
quella romana.

Si aggiunga poi un altro dato importante: Roma è la sede del papato, che all’epoca di
Winckelmann era una delle monarchie più influenti (e probabilmente anche più dispotiche)
d’Europa. La Chiesa aveva dettato il gusto artistico europeo di tutto il Seicento,
promuovendo l’arte barocca. Winckelmann fu sempre estremamente critico nei confronti
dell’arte barocca, che era vista come un’arte degenerata, fondata sul virtuosismo tecnico e
sulla bizzarria. Bizzarro e armonia sono due concetti che non possono andare d’accordo. E
dal momento che Roma in quanto sede del papato poteva essere paragonata alla Roma
sede dell’Impero Romano, veniva spontaneo fare paragoni tra l’arte barocca e l’arte
imperiale.
Questo pensiero sull’arte greca non poteva non investire, ovviamente, la concezione del
bello dell’arte greca. I greci, secondo Winckelmann, furono la civiltà che più di ogni altra
riuscì nel realizzare un’arte caratterizzata da purezza formale, armonia, equilibrio e assenza
di turbamento: e questo, proprio in virtù della loro elevatissima libertà. Ed è pertanto qui
che si inserisce la definizione dei capolavori dell’arte greca come capolavori caratterizzati
da nobile semplicità e quieta grandezza. Per comprendere al meglio questo concetto,
possiamo utilizzare lo stesso esempio proposto da Winckelmann nella sua opera: il
celeberrimo Laocoonte. Si tratta di una scultura, di datazione incerta (sono state proposte
date che vanno dal primo secolo avanti Cristo, al primo dopo Cristo), conosciuta attraverso
una copia romana datata al primo secolo dopo Cristo, che raffigura il famoso episodio
dell’Eneide di Virgilio in cui si narra del sacerdote troiano Laocoonte che fu trascinato in
mare, assieme a entrambi i suoi figli, da due enormi serpenti marini mandati da Atena
affinché Laocoonte non ostacolasse il piano dei Greci per la conquista di Troia. Laocoonte,
infatti, aveva ammonito i suoi concittadini di non fidarsi del cavallo inviato in dono dai loro
rivali.
Nei suoi Pensieri, Winckelmann mette in contrapposizione i muscoli in tensione
del Laocoonte nel tentativo di divincolarsi dai serpenti, con la sua espressione che è sì
sofferente, ma non è scomposta: il dolore, nel volto di Laocoonte, si concretizza, dice
Winckelmann, in una bocca che lascia uscire solo un respiro affannoso e non grida orribili,
come quelle che Virgilio attribuisce al suo Laocoonte dell’Eneide. È dunque questo che
Winckelmann intende per quieta grandezza: la capacità di controllare le pulsioni, l’abilità
nel riuscire a comunicare in modo misurato ed equilibrato le sensazioni come, in questo
caso, il dolore di Laocoonte. Winckelmann paragona i capolavori dell’arte greca al mare:
per quanto possa essere turbata la superficie dalle onde, il fondo rimarrà sempre
tranquillo.
Allo stesso modo i greci, in mezzo alle passioni più turbolente, riuscivano comunque a
comunicare l’idea di una equilibrata grandezza dell’anima: e tale anima pervade tutta
l’opera, nel senso che la grandezza dell’anima di Laocoonte, che sopporta il dolore, si
percepisce proprio dal contrasto tra l’espressione e il movimento dei muscoli.
La quieta grandezza del personaggio si riflette quindi anche nella posa che l’artista sceglie
per rappresentarlo: anche in questo caso, si evitano pose eccessivamente bizzarre,
virtuose, scomposte, incontrollate. Si preferiscono pose semplici ma che al contempo
riescano a comunicare, anch’esse, la grandezza di un’anima nobile: ecco quindi
perché nobile semplicità. È comunque doveroso evidenziare che al giorno d’oggi si tende a
leggere il Laocoonte non tanto attraverso l’interpretazione di Winckelmann, bensì
attraverso quella di Aby Warburg che, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento,
ribaltò il giudizio di Winckelmann ritenendo che il Laocoonte fosse invece una scultura
dotata di un’enorme e travolgente forza drammatica espressa da movimenti convulsi e
nervosi.
Tornando a Winckelmann, è importante sottolineare come lo storico sostenesse che ci fu
anche un artista moderno in grado di distinguersi per nobile semplicità e quieta grandezza:
si trattava di Raffaello, l’artista che operando una estrema semplificazione degli schemi
compositivi del primo Rinascimento, arrivò a vette di armonia e di equilibrio fino ad allora
non toccate.
Ma Raffaello non era un uomo dell’antichità: era un moderno. Dunque, come era possibile,
secondo Winckelmann, far sì che l’opera realizzata da un artista moderno raggiungesse
quella nobile semplicità e quella quieta grandezza che contraddistinguevano le opere
dell’arte greca antica? La risposta non poteva essere che una: mediante l’imitazione.
Imitare gli antichi era infatti, secondo Winckelmann, l’unico modo per diventare grandi,
per il fatto che l’arte greca aveva raggiunto il massimo grado di perfezione formale e
nessuno avrebbe potuto superarla o fare di meglio. Imitare, tuttavia, non voleva dir
copiare: significava produrre opere originali, in modo creativo, ispirandosi però ai principi
che regolavano l’arte greca classica, facendo dunque in modo che le linee e le pose fossero
semplici e che i soggetti non fossero turbati dalle passioni. Le indicazioni di Winckelmann
costituirono la base su cui si mossero gli scultori neoclassici. L’artista che seguì più da
vicino il pensiero di Winckelmann non fu, come si potrebbe pensare, Antonio Canova, le
cui opere spesso lasciano intravedere un cuore pulsante di passione, bensì il danese Bertel
Thorvaldsen, che riuscì a produrre un’arte in cui le linee sono semplificate all’estremo e
dove non si scorge traccia di sentimento. Thorvaldsen si poneva quindi come l’artista che
più di ogni altro incarnava i concetti dello storico dell’arte tedesco, anche perché l’estetica
winckelmanniana costituì una delle basi della sua formazione: peccato solo che
Winckelmann non poté mai vedere le opere dell’artista che meglio aderì ai concetti
di nobile semplicità e quieta grandezza.
Il contatto diretto con le antichità di Roma rappresentò un elemento di svolta nel metodo
infatti scriveva quanto fosse impegnato ad “osservare e guardare” visitando scavi,
collezioni, atelier, restauratori. La difesa dell'importanza dell'autopsia divenne un
elemento di consapevolezza sempre più rilevante e i legami con artisti come Anton
Raphael Mengs facilitarono la sua comprensione della realtà materiale delle opere.
L'incarico come Prefetto delle Antichità, Antiquariato Apostolico e Commissario delle
antichità, assegnatogli dal papa nel 1763, includeva l'occuparsi delle licenze di
esportazione in merito al problema dei restauri e della loro riconoscibilità. Winckelmann
giudicava negativamente gli interventi che modificavano le opere per adattarle al gusto
contemporaneo.
Fin dai primi mesi progettò di scrivere sul restauro delle sculture antiche, proposito
rimasto incompiuto e realizzato poi dal suo restauratore di fiducia Cavaceppi.
Bartolomeo Cavaceppi è proprio un restauratore di scultura antica, tanto famoso nel suo
tempo che pubblica un catalogo delle sculture presenti nella sua raccolta privata che lui
esponeva anche al pubblico nel suo atelier o per venderle ai collezionisti nella sua bottega.
Cavaceppi si può permettere di fare il catalogo della sua collezione e mettere come
frontespizio l’immagine della sua bottega, con i suoi collaboratori a lavoro, con gente in
visita, con sculture, cioè egli si può consentire un’autocelebrazione non da poco perché il
suo studio romano veniva frequentato dal papa, dai sovrani, dagli aristocratici di
tutt’Europa che sapevano che lì potevano vedere sculture importanti e acquistarle
naturalmente integrate da Cavaceppi che integrava alla scultura antica. Winckelmann
insieme a Cavaceppi quando arriva a Roma può risistemare la raccolta del cardinale Albani:
così lavora insieme ad un tecnico che conosce stili e materiali della scultura antica, cosa
che consente a Winckelmann un approccio immediato agli stili della scultura antica,
cosicché può avviare quella raccolta di dati da cui può ricavare le leggi del suo sistema
della storia dell’arte dell'antichità.

Nel 1764 pubblica quello che è considerato il suo capolavoro storiografico: Storia dell'arte
nell'antichità in cui l’aspetto innovativo fu la sua capacità di sintesi e di narrazione. Lo
stesso aspetto del libro in formato tascabile testimonia il desiderio di diffondere le
conoscenze sull’arte rendendole comprensibili a un vasto pubblico, inoltre volle
rinnovare il linguaggio della storia dell’arte usando spesso neologismi.
L'opera era articolata in due parti: prima c'è l'Esame dell'arte relativo alla sua essenza, poi
l'analisi della produzione di Egizi, Fenici, Persiani, Etruschi, Greci e Romani. Così per ogni
popolo e periodo storico la produzione artistica era letta come il frutto dell'ambiente fisico
e della struttura politica e sociale. Alla Grecia era affidato un ruolo di
eccezione,culminante con Fidia. La storia dell’arte era raccontata come un processo in
evoluzione, mentre lo stile veniva letto attraverso le differenze territoriali.
Winckelmann intendeva cosí distaccarsi dal metodo degli antiquari: il pensiero
storiografico e quello scientifico si fondavano sulla lettura della realtà.

Il rapporto tra Winckelmann e Caylus si articolò a distanza: Winckelmann era piú giovane
di 25 anni e i due non si incontrarono mai personalmente.
Lo stile era per entrambi lo strumento privilegiato di analisi dell’opera, mentre la
differenza è sulla metodologia e sull’obiettivo finale: Caylus esaminò nel dettaglio
moltissime opere,
fondando il proprio metodo sulla prova dell’osservazione diretta, Winckelmann elaborò un
sistema di sintesi dove l’ipotesi era il metodo.

La critica militante. (dibattito tra metodo storico e definizione del bello e del gusto)
- Seconda metà del 700

Quando nel 1765 il conte Caylus morì. Denis Diderot osservò: “la morte ci ha liberato di
uno dei più crudeli amatori”. Questa forte affermazione ci dà l'idea di quanto si fosse
consumata la polemica tra i filosofi e i conoscitori intorno al giudizio artistico.
Mentre l'estetica diventava una disciplina autonoma tra gli studenti filosofici, definita la
scienza del bello , nel mondo dell'arte si riprendeva la polemica sull'autorevolezza del
giudizio.
Diderot contestava ai conoscitori di essere a digiuno di filosofia pertanto non avrebbero
mai potuto comprendere la verità dell’arte e quindi esprimere una libera valutazione, oltre
al fatto che un collezionista sarebbe stato condizionato dal mercato. Solo un filosofo,
completamente libero da vincoli esterni, poteva invece penetrare la verità sull’arte.
Proprio questa differenza diventerà uno dei temi portanti della storia dell’arte fino ai primi
decenni dell’Ottocento.
Veniva messa a fuoco in questo periodo una distanza sia dal punto di vista del metodo
che degli obiettivi: da un lato la ricostruzione storica, dall’altro il problema della
definizione del bello e del gusto.
Rappresentativa di questo clima è la polemica innescata nel 1764 tra Mariette e
Giovanni Battista Piranesi (1720-1770) a suon di lettere pubbliche.
Piranesi si era formato a Venezia ed aveva viaggiato a Napoli per poi trasferirsi a Roma,
in contrasto con Winckelmann, difendeva l’autonomia dell’arte romana rispetto al
modello greco. Mariette invece sosteneva il debito dell'arte romana verso l'arte greca.
Sullo sfondo si dibattevano considerazioni sul ruolo della storia dell’arte del passato
rispetto all’arte contemporanea e in questa direzione le Accademie ponevano la centralità
di riferirsi all’antico e i canoni di tradizione belloriana.
L’esigenza di riformare e rilanciare queste istituzioni percorse l’Europa durante tutto il
secolo, Hagedorn nel 1763 si occupò dell’Accademia di Dresda, a Madrid e Roma si schierò
Mengs (1728-1779) che si cimentò come storiografo per legittimare cosí le proprie scelte
come pittore.
Raphael Mengs nato in Boemia nel 1746 si stabilì a Roma, dove si legò a Winckelmann e
divenne uno dei pittori piú celebrati dell’Accademia di San Luca. Pubblicò un unico testo
nel 1762: Pensieri sulla bellezza e sul gusto nella pittura, dedicato a Winckelmann.
L’obiettivo era spiegare cosa sia la Bellezza e cosa sia il Gusto.
Collaboratore di Mengs fu Francesco Milizia (1725-1798). Originario della terra d’Otranto
si stabilì nel 1761 a Roma, entrando in contatto con Bottari, Winckelmann e lo stesso
Mengs. Pubblicò nel 1768 le Vite de’ piú celebri architetti , riproponendo il modello
vasariano, ma con ampi riferimenti a Félibien. Egli biasimava aspramente Bottari per aver
preteso di commentare e correggere il grande modello storiografico. Ciò che lo metteva in
sintonia con Vasari era la scelta di usare la stesura delle vite per proporre una severa
selezione degli artisti e veicolare i propri giudizi estetici.
Milizia rappresenta un caso emblematico per testimoniare quanto la storiografia artistica
nella seconda metà del Settecento fosse così tipologicamente varia. Il suo Roma nelle
belle arti del disegno è un esempio delle nuove forme di divulgazione, edito in forma
anonima e tascabile, senza immagini: gli edifici della città venivano presentati in ordine
cronologico.
La costruzione della storia dell’arte stava percorrendo molte e diverse strade: il
dizionario, la lettera pubblica e il discorso accademico.
Nacquero i periodici: le «Efemeridi letterarie» recensirono piú di cinquemila libri italiani
e stranieri, le recensioni veicolavano precisi orientamenti estetici, discutevano di modelli
e canoni del buon gusto.

Rispetto a Parigi, piú orientata alla modernità, nel contesto romano critica d’arte e storia
dell’arte rimanevano spesso unite, perché il canone del passato era percepito come
vincolo e fondamento del canone del presente.
Cosí i periodici seguivano con tempestività le novità dei pittori contemporanei, ma anche
notizie degli scavi o dell’allestimento dei musei, rilanciando le questioni polemiche piú
scottanti.
Animati da diversi indirizzi critici questi giornali rappresentarono un canale di diffusione,
contribuendo al consolidamento di un lessico specifico.
Possiamo citarne alcuni come: “Il giornale delle belle arti”, “Le memorie per le belle arti” e
“Monumenti antichi inediti ovvero notizie sulle antichità e belle arti”.

La molteplicità dell’antico. (La ricerca si allarga anche alle opere medievali)

Nel Settecento i resoconti degli scavi e delle esplorazioni ampliarono enormemente le


conoscenze sull’antico. Gli scavi di Ercolano e Pompei avevano indotto il ministro Tanucci
e il soprintendente Marcello Venuti a controllare direttamente la pubblicazione di Le
antichità di Ercolano. La lussuosa edizione coinvolse numerosi disegnatori ed incisori ma i
promotori dell'iniziativa contrariamente a quanti caldeggiavano la diffusione della
conoscenza, preferirono esercitare il diritto esclusivo sulle immagini e gestirne con
parsimonia la distribuzione, tanto che i volumi non potevano essere acquistati. Tuttavia
l'interesse della comunità internazionale per l'arte ercolanese non si fermò davanti alla
scarsità di riproduzioni e mosse una gran quantità di pubblicazioni, per lo più senza
illustrazioni, che commentavano e analizzavano le scoperte.
Nel dibattito entrò anche Winckelmann, che riuscì a visitare il museo di Portici piú volte
tra il 1758 e il 1767, egli mosse severe critiche alla condotta degli scavi che gli procurarono
l’astio dell’ambiente partenopeo.

La scoperta delle tombe di Tarquinia nel 1756 avviò una discussione sempre piú
articolata, Luigi Lanzi dedicò una serie di scritti agli Etruschi.
Si diffuse l’approccio filologico-antiquario anche nell’indagine sulle opere medievali.
Nelle ricerche storico-religiose si erano distinti Bianchini e Montfaucon: il diverso
metodo di ricerca favorì un crescente apprezzamento anche delle intrinseche qualità
formali.
L’apprezzamento per l’arte medievale aveva anche un risvolto collezionistico.
Una rivalutazione critica del Trecento italiano non piú sul piano storico-religioso, ma con
aperture sul fronte della storia dell’arte arrivò con Gaetano Bòttari. L’attenzione di Bòttari
alle questioni di conservazione delle opere medievali e alla loro collocazione nei contesti
originari fu condivisa da diversi studiosi di quell’epoca, come il veneziano Anton Maria
Zanetti il Giovane (1706-1778) o il bolognese Giampietro Zanotti (1674-
1765). La questione dell’architettura gotica diventò uno dei temi dominanti, soprattutto
nell’ambiente anglosassone con numerose produzioni di stampe. Il problema della tutela
delle opere medievali suscitava crescente attenzione.

Una storia dell’arte visibile: musei e cataloghi. (intento didattico dei musei e libri
tascabili) fine 700

Musei e collezioni diventarono i luoghi privilegiati per attuare il dibattito sull’arte, anche i
cataloghi si arricchirono di schede delle opere, sempre piú dettagliate. Il formato e il
linguaggio dei cataloghi diventò più accessibile.
Negli stessi anni si difendeva l’utilità dell’attività del conoscitore per liberare l’opera d’arte
dal segreto delle raccolte private, sostenendo una dimensione pubblica del godimento
dell’arte.

Come si è visto, il Recueil Crozat aveva indicato una strada per coniugare testo e
immagini. Il metodo fu applicato alla collezione di dipinti di Dresda da Carl Heinrich von
Heineken.
Il catalogo era rivolto a un pubblico ampio, non necessariamente di conoscitori.
L’intento didattico dei nuovi allestimenti e l’attenzione verso un pubblico non piú
esclusivamente di artisti e intenditori divenne in questi anni una questione cruciale per i
nuovi musei, modificando di conseguenza le strategie editoriali. Sempre piú frequenti
furono i cataloghi tascabili.

Nelle polemiche di quest’epoca si può leggere una contrapposizione crescente tra l’idea di
una collezione come piacere per l’occhio ed esposizione di modelli per gli artisti secondo
gli insegnamenti accademici e quella di una collezione istruttiva sul piano della storia
dell’arte per conoscitori, amatori e un pubblico piú ampio.

Storie generali e museo universale. Fine 700

Nel 1782, mentre ordinava i disegni della collezione degli Uffizi, il direttore Giuseppe Pelli
Bencivenni lamentava: “quanti libri abbiamo sopra quest'arte, ma quanto siamo ancora
mancanti di una storia perfetta, che indichi senza passione il merito e le doti di ciascuno!”.
Questo desiderio di raccontare una storia generale dell’arte mosse la nascita di alcune
opere.
Il primo fu Luigi Lanzi (1732-1810), che maturò il suo nuovo e ambizioso progetto di una
storia della pittura in Italia dalla fine dell’epoca antica fino alla soglia della
contemporaneità. Privilegiò un formato piccolo, senza illustrazioni (edizione in sei volumi
tascabili).
La prima edizione si intitolava “Storia pittorica dell'Italia inferiore” e si limitava alla scuola
fiorentina, senese, romana e napoletana. Lanzi registra il passaggio dalla mentalità
antiquaria a una visione storicizzante della storia dell’arte. Il suo obiettivo era scrivere una
storia generale della pittura, nella consapevolezza che la storia della pittura è simile alla
letteraria e criticava gli storiografi precedenti per la mancanza della visione d’insieme.
Voleva fare una sintesi capace di narrare attraverso l’evoluzione degli stili le molteplici
influenze culturali. Realizzare una storia come compendio, voleva dire scegliere
rielaborando. Lanzi fondò il proprio operato sulla verifica autoptica delle opere,
acquisita durante numerosi viaggi. I taccuini testimoniano il passaggio dalla cultura
antiquaria alla storia dell’arte.

Superando la storiografia per medaglioni biografici, dominata dal provincialismo,


organizzò la versione definitiva dell'opera, “Storia dell'Italia pittorica”, per "scuole"
pittoriche regionali, inaugurando un nuovo disegno storico dell'arte italiana. Anche se
legato ai canoni estetici del classicismo, rivalutò i primitivi come momento iniziale di una
storia unitaria, culminata nel Rinascimento e giunta fino ai suoi giorni. Al compendio
esaustivo della letteratura artistica edita e inedita unì la visione diretta delle opere (a
eccezione di quelle nel Regno di Napoli), che permise verifiche e rettifiche importanti;
perciò l'opera è ancora oggi indispensabile fonte per documentare la situazione dell'arte
italiana prima delle dispersioni napoleoniche.
Lanzi dice nella premessa alla Storia pittorica dell’Italia dal risorgimento delle belle arti fin
presso la fine del XVIII secolo (il suo tempo; il risorgimento delle arti è il rinascimento che
però non è ancora il rinascimento maturo) che non vuole scrivere storie, anzi, lui vuole
scrivere proprio il compendio, cioè gli interessa la sintesi di tutte quelle cose che sono
state scritte e che sono state dette anche con eccessiva novizia di dettagli da vasari nelle
vite. Ma non intende neanche lui fare un elenco di tutto ciò che è stato fatto. Vuole fare
una storia di storie, un compendio semplicemente, perché il tempo di Lanzi è il tempo
dell’illuminismo, il tempo dell’ENCYCLOPEDIE, cioè il tempo della sistematizzazione del
sapere. L’Encyclopedie infatti non è un elenco, lista o inventario, ma è un’organizzazione
ragionata. Il tempo di lanzi è il tempo degli enciclopedisti, cioè dell’organizzazione
ragionata, non della raccolta, dell’inventario, dei repertori, ma invece del compendio,
inteso non come diminuzione, ma come invece sintesi ragionata di dati. Lui ha a
disposizione tante storie, ma dice che è finito il tempo delle storie lunghe ed è tempo delle
storie brevi. Con storia breve si intende un racconto sistematico che tenga presente bene
una prospettiva sintetica.
Con la storia pittorica Luigi Lanzi risponde all’esigenza del suo tempo di una storia perfetta
dell’arte italiana:
“QUANDO LE STORIE PARTICOLARI SON GIUNTE A UN NUMERO CHE NON SI POSSON
TUTTE RACCOGLIERE NE’ LEGGERE FACILMENTE, ALLORA E’ CHE SI DESTA NEL PUBBLICO
IL DESIDERIO DI UNO SCRITTORE CHE LE RIUNISCA E LE ORDINI E DIA LORO ASPETTO E
FORMA DI STORIA GENERALE; NON GIA’ RIFERENDO MINUTAMENTE QUANTO IN ESSE
SI TROVA, MA SEGUENDO DA CIASCUNA CIO CHE POSSA INTERESSARE
MAGGIORMENTE E ISTRUIRE: CIO ABBIENE D’ORDINARIO CHE A’ SECOLI DELLE LUNGHE
ISTORIE SUCCEDA POI IL SECOLO DE’COMPENDI.”
L. Lanzi, STORIA PITTORICA DELLA ITALIA. DAL RISORGIMENTO DELLE BELLE ARTI FIN
PRESSO LA FINE DEL XVIII SECOLO, 6 voll., Bassano 1809, vol. 1, p. I.
1815-1873 Epoche, nazioni, stili Parigi 1815 età dei musei – si afferma lo storicismo

A seguito della decisione del Congresso di Vienna nel 1815 di restituire le opere
“conquistate” dalle truppe napoleoniche ai loro paesi di appartenenza fu di fatto sciolto il
Musée Napoléon che ebbe se non altro il merito di aver proposto una visione d’insieme
delle diverse scuole artistiche europee. Al loro ritorno in patria le opere diventarono
simboli del patrimonio della nazione. Vennero aperti nelle città europee vari musei: a
Madrid il Museo del Prado; in Prussia l’Altes Museum, a Monaco l’Alte Pinacothek, a
Roma il Braccio Nuovo dei Musei Vaticani, a San Pietroburgo l’Hermitage, a Parigi il
Louvre, a Londra la National Gallery. Le esposizioni universali, iniziate con quella di Londra
del 1851, a loro volta portarono alla fondazione di musei per le arti applicate. Durante
quella che è stata definita “l’età dei musei” risultava ormai codificato un sistema di
epoche storico- stilistiche che avrebbe costituito la base di partenza per le ricerche dei
secoli successivi. Si affermava lo storicismo, ovvero l’analisi del passato su base positivista
e il curvare la storia alle esigenze del contemporaneo. Si avviò una crescente
professionalizzazione degli addetti ai lavori, tra i quali persero sempre più peso gli artisti.
Tale processo portò anche ad una forte differenziazione di competenze tra amministratori
museali, conoscitori e storici dell'arte impegnati nella ricerca di archivio e nella
costruzione di sintesi storiche rivolte al grande pubblico.

Dopo il 1815: storia dell’arte, musei e archivi.


Scuola di Berlino indirizzo scientifico filologico

Nel 1815, le opere d’arte prussiane furono esposte nelle sale dell’Accademia di Belle Arti
di Berlino. All’università il filosofo Hegel (Fenomenologia dello spirito, 1807) vi insegnò a
partire dal 1817. Emergeva quindi nel contesto berlinese la particolare importanza della
“Storia”, attraverso il pensiero hegeliano e il metodo filologico-critico di Leopold von
Ranke e di Georg Niebuhr. Secondo il nuovo paradigma scientifico positivista, il compito
dello storico non era né giudicare, né atteggiarsi a magister vitae ma solo mostrare la
storia esattamente «cosí come è stata». Il museo parigino influenzò molto il museo di
Berlino (Altes Museum), esso fu inteso innanzitutto come luogo di studio “scientifico”. Nel
1823 una commissione presieduta da Wilhelm von Humboldt, Schinkel, Waagen e Rumohr
formulò un indirizzo profondamente diverso: una nuova concezione di museo, non più un
luogo dove esporre l’evoluzione storica dell’arte ma un luogo dove sperimentare la
bellezza, un luogo di diletto e poi di insegnamento. Waagen (1794-1868)rappresentava un
nuovo tipo di specialista che collegava lo studio scientifico con il lavoro di funzionario
museale. Egli basandosi sull’analisi delle fonti e sull’autopsia delle opere tentò di
interpretare l’arte dei Van Eyck nel contesto storico del loro tempo. L’arte dei Van Eyck
veniva cosí proposta come esempio massimo di naturalismo in quanto espressione dello
spirito nordico. Tra università e museo si formò cosí un gruppo di studiosi, la cosiddetta
“scuola di Berlino”, che portò avanti una serrata discussione sui metodi e sulle
competenze degli storici dell’arte, anche in concorrenza/separazione con altre discipline
come la filosofia, la storia e l’archeologia. Si contrapponevano quindi due metodi: il
modello scientifico-filologico (autopsia dell’opera e critica delle fonti) e il modello
illuministico enciclopedico ampliato con storiografie a carattere universale (Lanzi, Fiorillo,
D’Agincourt). I
collezionisti di arte tedesca sottolinearono l’importanza di suddividere la storia dell’arte in
modo cronologico (e non per scuole). Leopoldo Cicognara si pose in questa scia
costruendo il percorso per cronologie, proponendo una divisione in quattro epoche,
(alimenta spirito nazionale italiano con apice degli artisti Canova). Giovan Battista
Cavalcaselle e Joseph A. Crowe reimposteranno la storia della pittura italiana su rinnovate
basi metodologiche e storiografiche con un dichiarato intento didattico. Gli storici dell’arte
cominciavano a scrivere anche per il pubblico della media e piccola borghesia, che
conosceva l’arte solo dai musei e dai volumi illustrati, a differenza dei collezionisti e dei
viaggiatori appartenenti alle élites . Si apriva, dunque, un nuovo ambito di attività per gli
storici, finalizzato alla formazione di un pubblico vasto attraverso scritti pensati per una
diffusione ampia, differenziandosi in questo dalle “storie generali” di fine Settecento e di
inizio Ottocento. Tra i primi esempi di questa tipologia di manualistica sono da ricordare gli
Handbücher pubblicati da Franz Kugler (1800-1858) che trattava in meno di mille pagine la
storia artistica del mondo intero.

Il metodo storico-critico e la Augenphilologie (filologia visiva, connoisseurship)

La nascita e l’incremento delle collezioni pubbliche nelle capitali europee e il progressivo


inserimento degli storici dell’arte nelle università portarono a una intensificazione degli
studi storico-artistici cui erano richiesti standard sempre piú elevati di “scientificità”. In
particolare la gara tra i musei pubblici europei richiedeva la collaborazione di
professionisti, autorevoli e affidabili, per orientarsi in un mercato d’arte non privo di
insidie. La costruzione di cataloghi di singole personalità artistiche, la distinzione tra scuole
e stili, la capacità di discernere falsi e copie dagli “originali” diventarono competenze
professionalizzanti. Si consolidò una “internazionale dei conoscitori” tra Parigi, Londra e
Berlino. La questione che si poneva ora nell’800 era come integrare le informazioni
acquisite con procedimenti di tipo storico-artistico autorevole e verificabile. In alternativa
alla connoisseurship legata ai meccanismi del mercato e una “polverosa” ricerca negli
archivi vi furono approcci metodologici che cercavano di coniugare queste due linee. Il
gruppo di studiosi di Berlino insistevano sull’incrocio di entrambi i dati, infatti Rumohr e
Waagen rappresentarono i fondatori del sistema storico-critico con un approccio
fortemente storicista dovute alle tesi di Niebuhr. Emergeva la necessità di una
reimpostazione metodologica della storia dell’arte basata sulla nuova filologia delle fonti.
Diventa sostanziale la ricerca negli ARCHIVI. In Italia aveva questo indirizzo metodologico
Carlo Milanesi (1816-1867) che vedeva un’auspicabile unione tra “erudito” e “pratico
conoscitore”, vagliava i documenti per confutare errori storici e false attribuzioni. Intorno
alla metà del secolo si profilava una figura professionale che trovava la sua
documentazione per eccellenza nei taccuini di viaggio: tra questi Waagen. Waagen può
essere considerato una figura centrale nella “professionalizzazione” dello storico dell’arte
verso la metà del XIX secolo. A Londra si trovava anche un giovane italiano, Giovan
Battista Cavalcaselle (1819-1897), pittore di formazione. Giovan Battista Cavalcaselle
(coniuga ricerca storica con connoisseurship) tra il 1857 e il 1863 condusse una serie di
capillari ricognizioni nella penisola italiana e nelle gallerie europee, documentate nei suoi
taccuini di viaggio. Tali taccuini consentono di cogliere dal vivo il metodo conoscitivo dello
studioso. Esso si distingueva per la lettura minuziosa degli aspetti tecnici e dello stato di
conservazione, per l’utilizzo del disegno al fine di indagare le particolarità stilistiche e gli
elementi morfologici (occhi, nasi, piedi ecc.) mai però estrapolati dal contesto figurativo.
Egli attuava una filologia visiva: una Augenphilologie, non tesa solo all’apprezzamento
estetico dei particolari drammatici ma a tutti quegli elementi che possono essere rivelatori
per il conoscitore, drappeggi, mani, dati compositivi. La quantità del materiale raccolto
durante i viaggi portò nel 1864 alla New History. L’opera era fondamentalmente
organizzata per biografie, ampliando però notevolmente lo schema cronologico delle Vite
vasariane con l’inclusione dei secoli non comprese da quest’ultimo. L’opera era il frutto di
una indagine delle fonti letterarie e archivistiche amplissima e di una autopsia diretta delle
opere. Compì i suoi viaggi insieme a Giovanni Morelli noto esperto d’arte, nei territori
umbri e marchigiani con lo scopo di catalogare gli oggetti artistici per la conservazione del
patrimonio al fine di ostacolarne l’esportazione.

Morelli nasce a Verona nel 1816 e muore a Milano nel 1891, ma in realtà viene da una
famiglia di origine bergamasca che però si era trasferita in svizzera ed è una famiglia per
metà svizzera e per metà italiana e Morelli l’italiano quasi non lo parlava perché la sua
lingua madre è il tedesco. La sua infanzia e giovinezza e la sua formazione è tutta tedesca,
tanto tedesca che l’italiano sicuramente non lo scrive e non lo scrive correttamente, forse
lo parla solo. È medico, studia in Germania con scienziati molto famosi nel suo tempo,
come biologi e geologi, e si laurea in medicina. Partecipa anche a delle spedizioni molto
famose come quella di un glaciologo molto importante che si chiama Luis Agassitz. La sua
formazione è dunque anche militante nel campo delle scienze della natura. A Berlino
frequenta salotti di intellettuali, artisti e il medico non lo farà mai. Nel 1873 circa sconvolge
il contemporaneo mondo dell’arte con un saggio dedicato alla pittura italiana nelle
raccolte dei musei tedeschi. Un paio d’anni dopo scrive un saggio in continuazione del
precedente che invece è dedicato alla pittura italiana nelle famose gallerie italiane (la
galleria borghese e la Doria pamphily). Intorno al 73-75 pubblica in tedesco un saggio che
si chiama LE OPERE DEI MAESTRI ITALIANI NELLE GALLERIE DI MONACO, DRESDA E
BERLINO. I due testi hanno
stesso tema: le opere dei maestri italiani prima nelle gallerie tedesche di Monaco, Dresda e
Berlino e poi invece nella borghese e Doria pamphily di Roma. Morelli non firma il suo
saggio perché scrive saggio critico di Ivan Lermolieff, non di Giovanni Morelli. Utilizza infatti
in questi testi uno pseudonimo misto tra tedesco e russo sulla cui scelta sono stati versati
fiumi d’inchiostro, ma è un po' un anagramma. Tiene dentro un po' tutte le lettere del suo
nome. Dice che poi è tradotto dal tedesco dal dottor Giovanni schwartze, che è sempre lui.
Ci tiene tanto a nascondere la sua identità perché sa già che i suoi saggi faranno grande
scandalo nel mondo dell’arte contemporanea, infatti si attirerà insulti e minacce da varie
personalità nel mondo dell’arte. Anche nella premessa di questi testi parla di se stesso
come un russo che viene dalle steppe come fosse un barbaro che tiene le distanze. Morelli
cambia di nome, attribuzione molti dei dipinti italiani che erano conservati nei musei di
monaco, Dresda e Berlino che alla metà dell’800 erano tra i musei più prestigiosi e ricchi
d’Europa. Riscrive così il catalogo. La maggior parte dei cambiamenti non è a migliorare il
nome dell’artista, non è che un artista raffaellesco di secondo piano diventa Raffaello, ma
perlopiù sono i tanti Raffaello che vengono distribuiti invece agli artisti di secondo piano
della stessa cerchia. Così non solo mette in discussione l’autorità, ma il valore anche
economico della collezione di quel museo di cui parla. Il museo di Dresda contava su una
lunghissima tradizione collezionistica. Qui c’è ad esempio la madonna sistina di Raffaello. Il
museo di Berlino è stato uno dei più interessanti grazie alla collezione di Von Bode che ha
fatto in quegli anni delle straordinarie campagne di acquisti, a Berlino viene costruita l’isola
dei musei per costruire un momento di crescita culturale e di prestigio anche politico della
Germania del tempo. Poi morelli tira le sue conclusioni mettendo in campo ogni metodo di
analisi considerato sovversivo o forse più genericamente rivoluzionario perché analizza le
opere d’arte così come gli scienziati analizzano i loro oggetti di studio. Il suo metodo di
analisi è simile al metodo che utilizza lo zoologo per distinguere tra le specie animali o tra
due individui della stessa specie o che mette in campo il botanico per distinguere le specie
delle piante oppure piante simili nell’ambito della stessa specie. Questo è legato alla sua
formazione. La grande novità per il mondo dell’arte non consiste nel fatto che lui utilizzi
questo metodo perché abbiamo visto che senza parlare esplicitamente di relazione con la
scienza la figura del conoscitore con mancini nasce nell’ambito delle relazioni con le
discipline scientifiche. Se mancini aveva chiarito già la centralità dell’osservazione perché
morelli è tanto scandaloso? Perché è il primo che anticipa questo modello epistemologico
o interpretativo e il primo che dichiara nelle premesse dei suoi due saggi citati prima
ponendo dei principi metodologici di teoria dell’arte in cui esplicita il suo modo di lavorare
una prospettiva, disciplinare che tende ad una scienza dell’arte. Questa cosa non va tanto
giù ai suoi contemporanei. Era difficile da digerire il metodo, cioè la determinazione di
Morelli a fondare un metodo scientifico con cui analizzare le opere d’arte, un’opera che si
modellava proprio sui metodi delle scienze della natura. Dicendolo morelli afferma che gli
oggetti d’arte sono come tutti gli altri oggetti, ossia dei fatti. Tende dunque a sottrarre
l’oggetto d’arte a quell’aura di arte con la A maiuscola di poesia, di distanza dal mondo
reale a cui tradizionalmente ad esempio si assiste con il romanticismo, che però quando
morelli racconta il suo metodo è stato appena spazzato via dal positivismo significa
appunto fare la piazza pulita di una tradizione che dalla fine del settecento fino a un terzo
di ottocento era stata molto vivace, cioè appunto quella romantica per cui l’artista è
l’artista geniale, il talento per eccellenza, che si fa da se, non ha bisogno di niente per
dipingere. Secondo questa tradizione gli oggetti d’arte sono distinti nella pura fattualità
degli oggetti del mondo. E invece morelli dicendo che ci si può occupare di oggetti d’arte
come ci si occupa di animali o piante contraddice questa posizione, cioè vuol dire che gli
oggetti d’arte si possono misurare, confrontare e valutare con lo stesso sguardo positivo,
cioè scientifico, con lo stesso sguardo con cui si misurano, confrontano e valutano altri
oggetti della natura. Se morelli declassa molte opere nei musei tedeschi li risarcisce
trovando un’opera straordinaria perché è il primo a riconoscere la venere dormiente di
Giorgione ed è il primo ad attribuirla a lui: prima di allora passa sotto il nome di
Sassoferrato, pittore umbro molto apprezzato nell’ottocento e anche conosciuto e
collezionato. Il regalo che morelli fa alla galleria di Dresda è doppio perché la galleria di
Dresda si ritrova con un Giorgione che non sapeva di avere ma in particolare giorgione è
un artista che avendo un catalogo molto risicato con notizie biografiche scarsissime, è una
figura difficile da ricostruire a livello di personalità artistica, è una figura evanescente di cui
si sa pochissimo, anche se riconosciamo una forte influenza. A ciò si deve aggiungere che
c’è un momento in cui Giorgione e Tiziano si confondono, cioè Giorgione con Tiziano
giovane, cosa che crea ancora maggiore difficoltà. Nel catalogo di Dresda dunque si
ritrovano opere importanti e soprattutto di un artista il cui catalogo è minimo. Tra l’altro
questa è una delle rare opere di giorgione che sono sempre rimaste nel catalogo del
pittore, perché invece la difficoltà di definire anche dal punto di vista documentario la
personalità del pittore il suo catalogo si apre e si chiude a fisarmonica, cioè ci sono
momenti in cui non contiene più di 10 opere e altri in cui invece ne contiene 25, poi dopo
5, perché è stato sempre un banco di prova per gli storici dell’arte, proprio per queste
difficoltà. Questo riconoscimento fece molto piacere all’opinione pubblica (questo è il
momento in cui si cominciano a seguire un po' in più queste vicende della cultura),
toccando un tassello molto interessante. Il tema dell’orecchio è stato centrale nel
dibattito intorno al metodo di morelli, il quale spiega il suo modo di lavorare. Non troppo
diversamente da mancini anche per la stessa formazione medica e l’identica attenzione ai
dettagli, perché tutte e due utilizzano lo stesso modello interpretativo che è il paradigma
indiziario, cioè cominciano a lavorare attraverso il riconoscimento di tracce che non tutti
vedono. Morelli dedica molto spazio a chiarire come lavora e lo chiarisce al punto tale da
creare molto sconcerto nel mondo dell’arte. Dice morelli che davanti ad un dipinto
dobbiamo comportarci come un botanico o uno zoologo e cominciare a distinguere
selezionando i dettagli di quel dipinto che sono meno interessanti e quasi invisibili per lo
spettatore comune, ma che sono importanti per il conoscitore.

I DETTAGLI DELLA COMPOSIZIONE E IL METODO MORELLIANO


Esistono tre gradi diversi di importanza che ci consentono di organizzare i dettagli della
composizione in tre categorie. La categoria dei dettagli attira l’occhio dello spettatore
comune, riguarda l’espressione dei volti, la costruzione dello spazio ed è poco interessante
per morelli perché raccoglie una serie di dettagli che sono strutturanti dell’opera d’arte,
cioè sono delle cose su cui il pittore ha dovuto ragionare molto quando le ha organizzate e
quindi gli hanno richiesto uno sforzo intellettuale ed esecutivo e soprattutto sono le prime
cose che si vedono. Nella seconda e nella terza classe Morelli inserisce dei dettagli che lui
dice sono quelli che uno spettatore comune non guarda mai e che invece il conoscitore
deve guardare. Sono dei dettagli molto simili a quelli che suggeriva Mancini. Per esempio
lui dice il modo di dipingere i capelli, il modo di atteggiare il drappeggio e soprattutto
alcuni dettagli anatomici delle figure rappresentate. Per esempio la forma dell’orecchio o
quella delle mani, più precisamente la forma delle dita delle mani, più precisamente
ancora la forma delle unghie. Perché tra tanti dettagli anatomici possibili e immaginabili
morelli in questa griglia come categoria isola come fondamentali per il lavoro del
conoscitore questi dettagli anatomici così minuti? Perché è convinto che questi dettagli
che sono dei dettagli non portatori di espressione a differenza della forma della bocca e
degli occhi che sono elementi anatomici su cui l’artista riflette perché devono essere
espressivi e portatori del messaggio della composizione. Su questi elementi il pittore ha
lavorato con molta consapevolezza e potrebbe aver lavorato con altrettanta
consapevolezza anche il falsario di quello stesso pittore. Mentre invece dice morelli che ci
sono dei dettagli che non significano nulla come per esempio la forma dell’orecchio, quella
di una falange o addirittura quella di un’unghia della mano che vengono ripetuti dall’artista
da quando comincia a disegnare a quando muore sempre nello stesso modo. Cioè lui
impara a disegnarli una volta questi dettagli e poi li rifarà sempre uguali per tutta la vita
perché non ha nessuna necessità di cambiarli. Che cambia a fare la forma di un orecchio?
Non è portatore di espressione, non ha senso, e quindi quell’orecchio, quella falange o
quell’unghia sono i caratteri caratteristici del modo di scrivere o dipingere di quell’artista e
quell’artista lo ripeterà affermando di volta in volta inconsapevolmente il suo dipinto per
tutta la sua carriera. Questi dettagli restano sempre uguali e permettono di riconoscere la
mano dell’artista e di riconoscere le falsificazioni, perché nel momento in cui essi non
fossero coerenti con il resto della composizione, perché dice morelli che anche il copista o
falsario fa l’orecchio come ha imparato a farlo, non si preoccuperà per esempio di copiare
precisamente l’orecchio di Raffaello, questo metodo consente di svelare anche la mano
del copista oppure del falsario, perché il modo di disegnare l’orecchio è il carattere, è
caratteristico tanto quanto il carattere della scrittura è caratteristico di chi usa quella
calligrafia. Quest’idea di selezionare e fare un puzzle della composizione, cioè di
smembralo e di farlo a pezzettini e di mettere ogni pezzettino in una sorta di classifica è un
modo di lavorare che gli storici e i conoscitori d’arte non avevano mai pensato di fare di
questa modalità operativa un sistema che servisse a fondare una disciplina della
costruzione del giudizio intorno alle opere d’arte. Morelli descrive il suo metodo con lo
scopo di fondare una scienza dell’arte che abbia la stessa dignità sistematica delle scienze
della natura. Se lui non l’avesse dichiarato ma semplicemente fatto non sarebbe stato per
nulla rivoluzionario, perché anche oggi il conoscitore lavora esattamente nello stesso
modo ma non pensa di fare lo storico dell’arte, invece Morelli pensa non solo di risolvere i
singoli casi attributivi, ma di sfruttare questo metodo e di trasformarlo da una competenza
empirica fatta di competenze acquisite, di esercizi dell’occhio, di pratica in teoria, quindi
dicendo che questo modo di lavorare corrisponde a come lavorano gli scienziati e che gli
oggetti d’arte sono oggetti che possono essere osservati così come tutti gli altri elementi
della natura e quindi commentati, confrontati e misurati. Come uno zoologo scompone lo
scheletro di un animale preistorico, così lo storico dell’arte scompone un dipinto per
cercare di ricostruirne anche la genealogia, per capire chi è l’autore o quale gruppo di
pittura può essere vicino alla mano che egli ha individuato. Naturalmente il risultato di
questo modello può essere ed è anche la creazione di quelli che si chiamano NOMI DI
COMODITA’, cioè quei nomi come il maestro della Maddalena o dell’annuncio ai pastori,
quei nome che non corrispondono a una ricostruibile biografia che però esistono perché
esistono delle opere che sono riconducibili per coerenza ad uno stile individuale che non
ha un nome perché manca la corrispondenza biografica, ma da qualche parte esiste come
stile individuale, e quindi allora diventa il maestro di… si trova un nome di comunità
insomma che consente di tenere insieme questi oggetti che sono coerenti ma non sono
coerenti con le altre personalità artistiche che conosciamo che hanno una precisa identità
storica. Morelli discende da mancini. Di mancini non si preoccupano così tanto come di
morelli perché mancini è uno storico dell’arte reticente mentre invece Giovanni morelli
non è che voglia fare lo storico dell’arte perché i suoi saggi sono cataloghi ragionati con un
lavoro incompiuto da questo punto di vista, ma lui intende mettere a sistema un sapere che
è empirico da mancini in poi: tutti lo facevano ma nessuno aveva pensato di metterlo a
sistema e di trasformare un talento che viene pure dalla pratica invece in un sapere
formalizzato che diventa strutturante di una scienza dell’arte, una vera e propria disciplina
autonoma che tratta gli oggetti d’arte come oggetti della natura.

L’IMPORTANZA DI CARLO GINZBURG, DI MORELLI E DI MANCINI


Il saggio di carlo Ginzburg intitolato spie alle radici del paradigma indiziario del 1979 e
pubblicato da Einaudi in una raccolta intitolata MITI, EMBLEMI, SPIE, MORFOLOGIA E
STORIA ci ha guidati anche per quanto riguarda la figura del conoscitore d’arte. Carlo è uno
storico non uno storico dell’arte e si è occupato molto dei modelli interpretativi della
storia dell’arte. Il suo saggio ha avuto una grande influenza ma è anche vero che dall’86 in
poi molte sono state le voci di studiosi che hanno contestato il riferimento per esempio
che abbiamo trovato chiarissimo in carlo e che secondo lui animerebbe tanto il metodo di
mancini quanto quello di morelli, cioè la scienza medica, altri studiosi hanno preferito che i
modelli disciplinari siano diversi, legati ad esempio alla geologia. Morelli lavorava per
segni, tracce. Secondo Ginzburg il risultato del metodo indiziario in tutte queste figure è
l’idea di ricostruzione alla personalità, all’individuo, a chi ha lasciato quella traccia. Per
esempio Sherlok Holmes individua indizi che gli altri personaggi non riescono a vedere, ma
che invece lui individua come caratteri caratteristici di una determinata personalità, quindi
riesce a ricostruire per esempio l’identità dell’assassino, Freud attraverso la lettura dei
simboli ricostruirebbe la personalità di un paziente e le sue patologie, Morelli attraverso
una lettura di segni, segnali, tracce, indizi che non sono evidenti allo spettatore comune è
in grado di risalire alla mano dell’artista che ha dipinto il quadro di cui si sta occupando.
Intorno agli anni 70 e a partire dal 1873 morelli, che si forma in Germania con gli scienziati
soprattutto ma che si dedica per tutta la sua vita alla critica, irrompe nel mondo dell’arte
del suo tempo con due saggi, uno dedicato alla riscrittura dei cataloghi della pittura
italiana nelle raccolte dei musei tedeschi, cioè dei musei di monaco di Dresda e di Berlino e
poi con un saggio gemello dedicato alla riscrittura del catalogo dei dipinti italiani
conservati nelle raccolte romane della galleria borghese e Doria pamphily. Morelli con uno
pseudonimo che richiama la Russia si firma per far finta di essere estraneo a un sistema
dell’arte molto ben consolidato come le professionalità, ma soprattutto perché il suo
metodo venne considerato se non eversivo, sovversivo delle regole del sistema dell’arte
per qualcuno, sicuramente rivoluzionario. Perché in realtà morelli non fa nulla di troppo
diverso da quello che già nel 1620 circa aveva suggerito mancini e che avrebbe suggerito
anche lanzi alla fine del XVIII secolo e su cui avrebbero lavorato tanti conoscitori. Morelli
dichiara nelle premesse ai suoi testi di utilizzare un metodo che scompone il dipinto su cui
intende lavorare, isolando almeno tre categorie mentali. Esiste almeno una categoria
mentale immediatamente percepibile che colpisce l’attenzione e l’immaginazione anche
dello spettatore comune e che ha anche a che fare con la composizione, la
rappresentazione spaziale, gli accordi cromatici, e che attirano l’attenzione dello spettatore
comune, ma che sono anche il risultato dell’attenzione dell’artista nel momento in cui li ha
realizzati, perché sono quei dettagli, quei momenti carichi di espressività, per cui non sono
secondo lui veramente rivelatori. Ma secondo morelli esistono altre due categorie di
dettagli che sono invece rivelatori della personalità dell’artista. La prima categoria riguarda
i dettagli per esempio della resa anatomica, suscitando grande scandalo per dargli ad
esempio la forma delle orecchie, della mano, delle falangi, delle unghie e così via e un’altra
che morelli definisce ghirigori. Sono le bizzarrie, sono per dirla alla maniera freudiana i tic
dell’artista, ossia quelle ripetizioni, idiosincrasie del disegno che corrispondono alle
idiosincrasie che noi abbiamo quando parliamo, scriviamo e che sono proprio
caratteristiche della nostra personalità. Nel parlare noi con le ripetizioni spesso vogliamo
definire una determinata situazione anche in modo idiosincratico, ad es, e secondo morelli
questo succede allo stesso modo nel disegno degli artisti, ci sono dei passaggi che sono del
tutto inconsapevoli,
a cui l’artista non riesce a resistere, sono delle bizzarrie, sono delle stranezze che come
nella lingua parlata e scritta tutti abbiamo, gli artisti ce l’hanno nel loro linguaggio, che è
quello del disegno. Questo è uno degli aspetti che ha interessato moltissimo Freud, perché
lui è stato lettore di Morelli e ce lo ricorda Ginzburg nel suo saggio, Freud stesso dice di
averlo letto e apprezzato e sicuramente questo passaggio lo ha interessato maggiormente,
sebbene ci sia una differenza tra i segni e i sintomi psicanalitici. In realtà c’è una gradualità
anche in profondità che doveva apparire a freud mentre leggeva morelli e che era molto
diversa da quella che morelli immaginava. In realtà lo stesso Ginzburg nel suo saggio cita
dei passaggi della considerazione della pittura di mancini, ma lo farà anche lanzi, che
richiamano molto anche la tipologia che morelli seleziona come gli altri rivelatori della
personalità di un artista. Se appunto morelli della seconda categoria che è rappresentata
da questi dettagli anatomici dice che in realtà se noi guardiamo dettagli della resa della
figura umana come la forma dell’orecchio, della mano, delle unghie ecc ritroveremo la
personalità dell’artista perché in realtà lui per tutta la sua vita disegnerà queste forme
sempre nello stesso modo, perché non essendo portatrici di espressione non conferiscono
il tono, non sono cioè importanti nella composizione, e quindi su quegli elementi l’artista
non avrà la necessità di controllare il suo modo di lavorare e quindi denuncia in qualche
modo se stesso. Ginzburg isola alcuni passaggi delle considerazioni della pittura di Giulio
mancini, il quale di fatto non troppo diversamente considerando i secoli che passano da
l’uno e l’altro (morelli è in piena età positivista, ha appena superato il romanticismo ed è in
piena espansione del pensiero positivista), in cui Giulio mancini dice che alcuni dettagli
della composizione del disegno come per esempio il modo di rendere la barba o il
drappeggio, il modo di sistemare i piedi, cioè dei dettagli minuti della composizione, dice
mancini che sono il carattere, cioè una cifra che ci consente di conoscere la mano di un
artista rispetto a quella di un’altra così come noi distinguiamo dai caratteri della scrittura
differenti personalità.

SCIENZA DELL’ARTE
Morelli è uno che vuole portare questa modalità di lavoro da mancini in poi, utilizzata da
tutti coloro che si occupano di valutare oggetti d’arte, che si occupano di consigliare i
collezionisti o quelli che in qualche modo partecipano al discorso sull’arte, è uno che vuole
sistematizzare questo sapere. Dire che queste modalità costituiscono in realtà un sistema
fa assimilare la storia dell’arte a una scienza dell’arte. Così come la botanica e la zoologia si
occupano di distinguere specie animali e i singoli oggetti che si trovano dentro alla specie,
allo stesso modo la storia dell’arte lavorerà partendo dalla centralità dell’osservazione per
riconoscere scuole pittoriche, botteghe e artisti. La storia dell’arte può essere una scienza
dell’arte il cui oggetto sono le opere d’arte che sono osservabili come tutti gli altri
fenomeni di natura. Quindi l’arte non è l’arte con la A dei romantici, ma invece è composta
da una serie di oggetti che sono misurabili, analizzabili e confrontabili e questo modo di
lavoro produce giudizio di valore sulla qualità degli oggetti d’arte, così come per le scienze
della natura si lavorano, si osservano, si confrontano, si misurano gli oggetti nel loro ciclo.

LA RIVOLUZIONE MORELLIANA METTE IN CRISI MOLTI COLLEZIONISTI


La scelta dello pseudonimo di Morelli è un elemento anche di cultura romantica, ma il
risultato dei suoi studi era stato tanto rivoluzionario e sovversivo quanto il metodo
morelliano. I due saggi da lui scritti sono una riscrittura dei cataloghi dei più importanti
musei occidentali, in particolare dei musei tedeschi. Si vedevano improvvisamente
declassati oggetti che tradizionalmente appartenevano alle loro collezioni e che invece
venivano passati sotto altri nomi perlopiù inferiori nella valutazione e nella considerazione
generale di secondo piano rispetto al nome a cui erano personalmente attribuiti dal
catalogo del museo. Questo significa anche uno scambio economico perché le opere
d’arte sono un patrimonio di prestigio e di cultura, e quindi nessuno è contento di sapere
o che ha investito male i denari del museo o è stato sempre convinto di avere un
patrimonio che dev’essere monetizzato sul mercato dell’arte in un certo modo e poi
invece si trova svalutato dall’intervento anche dello storico dell’arte. Morelli aveva
lavorato a lungo e lavorerà a lungo nella sua carriera su un taccuino di disegni di Raffaello
che si trova in parte all’accademia di venezia, lavora molto su questi disegni e
progressivamente questo grande corpus di disegni viene da morelli progressivamente
smontato e attribuito a molti raffaelleschi. Grazie a morelli si ritrova la collezione di Dresda
e c’è la venere di giorgione, un’opera che da allora non uscirà dal catalogo dell’artista,
problematico perché non avendo una grande definizione documentale ma perlopiù sulle
opere ha sempre avuto un’aura un po' magica. Che il conoscitore debba lavorare come
uno scienziato è perfettamente in linea con gli orientamenti del tempo di morelli. Questo
metodo ebbe un impatto fortissimo sul mercato dell’arte.

MORELLI E CAVALCASELLE: RAPPORTO


Morelli si occupa innanzitutto dei musei tedeschi, soprattutto perché era di lingua tedesca.
È di famiglia italiana, ma vive e cresce in svizzera, studia tutta la vita in germania, tant’è
vero che i suoi saggi escono sempre prima in tedesco e poi quando appaiono in italiano
sono tradotti e non scritti da lui in italiano, perché morelli non ha mai posseduto
particolarmente la lingua italiana, a differenza invece di quello che in questi stessi anni
viene considerato in Italia il suo diretto antagonista che si chiama Giovan Battista
Cavalcaselle, che invece è italiano, che avrà in comune con Morelli un certo impegno
politico, che sarà esule in Inghilterra per la maggior parte della sua vita e che in Inghilterra
lavorerà alla riscrittura dei cataloghi delle collezioni d’arte italiana e gli si riconoscerà in
Inghilterra il metodo di questo lavoro, sottolineando il fatto che lui essendo italiano,
possedendo la lingua italiana è in grado di comprendere la pittura italiana meglio per
esempio degli inglesi o degli stranieri. Questo merito a morelli non si poteva dare, perché
quando le opere di morelli escono in italiano perché tradotte dal suo discepolo più fedele,
Gustavo Fitzburg. Cavalcaselle è l’antagonista in italia di morelli, ma lavora moltissimo in
Inghilterra. Il piano nei confronti delle dispute delle personalità nel discorso sull’arte
nell’800 è internazionale, europeo. Le controversie a distanza tra morelli e cavalcaselle
nella seconda metà dell’800 sono su un piano internazionale, cioè riguardano il loro lavoro
per collezioni europee (le tedesche per morelli e in parte solo quelle italiane e le inglesi
per cavalcaselle), così come su un piano europeo si deve leggere il rapporto di morelli con
un altro antagonista, che era individuato nel sistema dell’arte come altro suo antagonista,
che invece è tedesco e che è Von Bode, il direttore generale dei musei di Berlino dal 1905
al 1920.
UN PIANO EUROPEO
Morelli scrive le considerazioni sulla pittura perché si sta consolidando un sistema dell’arte
più complesso. Roma diventa un centro di un sistema dell’arte più complesso, perché ci
sono collezionisti italiani e stranieri, c’è il mercato dell’arte. Quando si arriva a giocare
tutto su un piano europeo ed internazionale il sistema dell’arte diventa ancora più
complesso, ma tra qualche anno sarà anche americano, ed è un piano che vede una
moltiplicazione del volume di scambi sul mercato dell’arte, dovuta in larga parte anche alla
necessità delle nazioni europee di costituire dei grandi musei nazionali, cioè quei musei
che servono per sottolineare e rappresentare il prestigio prima culturale, poi politico ed
economico, e poi l’identità della nazione. Questo è un processo che più o meno coinvolge
contemporaneamente le nazioni europee e che è anche caratteristico della politica di
espansione economica e ideologica della nuova Germania che tenta uno stato unitario più
o meno quando anche l’Italia completa il suo processo di unificazione nazionale. E quindi è
un investimento politico che però è anche culturale.

SCONTRI ARTISTICI D’INTERESSI


Una delle figure più rappresentative del processo è Von Bode, che era già molto attivo
prima di diventare direttore generale dei musei di Berlino. Lui spesso si scontra con Morelli
per iscritto o sul mercato dell’arte perché i termini in cui avviene tale scontro sono
ideologici e culturali, cioè Bode ha la necessità di acquisire oggetti per le collezioni che
stanno alimentando la costituzione dei grandi musei nazionali tedeschi e rappresenta in
qualche modo gli interessi pubblici e politici della nuova Germania. Morelli sarà per
esempio il consulente di molti collezionisti, sia italiani sia stranieri (soprattutto inglesi) sul
mercato dell’arte, e quindi in qualche modo rappresentano interessi diversi che però si
scontrano tutti sullo stesso piano, a partire dalla seconda metà dell’800: il campo del
mercato dell’arte è quello attraverso il quale passa anche il prestigio che è appunto
culturale, ma anche politico, e anche attraverso la capacità economica di incidere sul
mercato dell’arte. Questa è una questione anche centrale nell’Italia post-unitaria, perché
questo scontro di interessi è uno scontro di interessi che ha come oggetto perlopiù l’arte
italiana e l’arte italiana del Rinascimento. I maggiori volumi di scambi in questi anni
riguarda sostanzialmente la pittura italiana nel rinascimento. È questo l’oggetto del
desiderio di questi collezionisti di cui stiamo parlando e se quest’oggetto del desiderio
diventa centrale per l’autorappresentazione delle altre nazioni europee, a maggior ragione
diventa centrale per esempio per l’Italia post-unitaria, che rischia in queste idee di perdere
costantemente pezzi del suo patrimonio, soprattutto a causa della dispersione delle grandi
collezioni aristocratiche che non possono essere più sostenute dalle grandi famiglie che
tradizionalmente le sostenevano e che quindi progressivamente se ne liberano sul
mercato dell’arte più o meno legalmente. Sull’arte italiana del rinascimento si scontrano
interessi di gruppi che sono perlopiù nazionali, che vogliono far passare attraverso
l’egemonia sul mercato dell’arte questioni che riguardano l’economia, la politica e anche la
cultura. Per questo morelli e von bode sostanzialmente aldilà di questioni metodologiche
si scontrano e per questo per esempio in Gran Bretagna la figura di morelli avrà fortuna,
perché lui è legato a un gruppo di collezionisti che a loro volta hanno interessi a sostenere
la national gallery di londra, ad es. Per questo stesso motivo morelli e cavalcaselle
apparentemente litigano per questioni metodologiche, ma in realtà in gioco non è tanto il
metodo, ma la
questione che per esempio morelli e cavalcaselle lavorano legati tutti e due al mondo
anglosassone e soprattutto hanno tutti e due una visione diversa del futuro del patrimonio
della nuova Italia. Mentre tutti gli altri paesi costituiscono queste collezioni che sono
nazionali e ne costituiscono anche a spese del patrimonio italiano, l’Italia comincia quel
percorso così complicato della definizione della legge di tutela del patrimonio, perché in
realtà è un percorso legislativo che comincia immediatamente con il regno dell’Italia unita
e che si compirà solo nel 1939 con il ministro Bottai e quindi con il fascismo. Anche l’Italia
si pone il problema di far nascere grandi gallerie nazionali che potrebbero per esempio
accentrare il patrimonio che è diffuso sul territorio, perché l’Italia ha una configurazione
molto differente rispetto alle nazioni di cui stiamo parlando, ha la necessità di controllare
un patrimonio estremamente diffuso sul suo territorio di cui il nuovo governo dell’Italia
unita di fatto non ha una reale prontezza, perché non lo conosce.

MORELLI E CAVALCASELLE LAVORANO INSIEME


Subito dopo l'unità d’Italia c’è stata anche la soppressione degli ordini religiosi e ciò
significa moltiplicare le possibilità di dispersione del patrimonio che tutto sommato era
ancora conservato nei conventi e nelle chiese sotto il minimo controllo della comunità
ecclesiastica e che potrebbe divenire una terra di rapina, perché non si sa che cosa c’è,
non esiste realtà al momento dell'unità d’Italia e di fatto non esisterà un catalogo, un
inventario del patrimonio nazionale e questo vuol dire naturalmente essere esposti
all’impoverimento del patrimonio stesso e per questo per esempio morelli nel 1863,
subito dopo l’unità, viene chiamato a lavorare con cavalcaselle con il quale non andava
d’accordo, viene chiamato dal governo dell’Italia unita a fare il primo tentativo di catalogo
del patrimonio di interesse storico-artistico delle due prime regioni (marche e Umbria) che
avevano applicato subito la legge della soppressione degli ordini religiosi. Quindi morelli e
cavalcaselle parlandosi forse pochissimo e detestandosi forse per tutto il viaggio sono
costretti a fare insieme questa ricognizione nelle marche e nell’Umbria del patrimonio
diffuso sul territorio. Il risultato sono dei taccuini interessantissimi che sono molto
rivelatori del loro metodo di lavoro, il risultato sono gli elenchi e anche un’attenzione ad
artisti e oggetti d’arte che non avevano un posto nel canone della storia dell’arte italiana e
che invece vengono recuperati grazie alla loro attenzione e poi soprattutto sono rivelatori
di un’altra questione che questi signori che tanto si detastavano in questo sistema
complesso dell’arte in cui il mercato era molto importante in realtà i taccuini rivelano che
lavoravano pressoché allo stesso modo. Questi due per tenere la memoria di ciò che
vedevano disegnavano tutto sommato in modo tale che misurando e confrontando i
disegni di morelli e di cavalacaselle realizzati in occasione di questo viaggio nelle marche e
in Umbria abbiamo l’impressione reale che questi due studiosi non lavorassero
diversamente: entrambi erano attenti alla registrazione dei dettagli, al commento degli
stessi aspetti della composizione. Cambia però che cavalcaselle era attento a riportare
sempre il soggetto sul dipinto di cui si occupa, mentre Morelli mai, ma lui era protestante,
quindi di fatto iconoclasta, non attento alla storia sacra e al suo soggetto (proprio per
formazione non conosce i santi). Il patrimonio italiano era il territorio privilegiato di questo
nuovo complesso sistema dell’arte in cui si muovono queste due figure diverse, spesso
l’uno contro l’altro, ma non tanto per questioni metodologiche, quanto per questioni
invece di egemonia in un momento in cui attraverso il discorso sul patrimonio passa la
soluzione del prestigio e della rappresentazione dell’immagine
nazionale. I cataloghi di morelli sono scritti in tedesco e poi tradotti una decina di anni
dopo, ma prima in inglese. Sia morelli sia cavalcaselle infatti erano molto sostenuti da
alcuni gruppi di collezionisti in Inghilterra che spesso erano pure gli stessi, cioè erano
quelli che ad esempio lavoravano all’aumento delle raccolte della national gallery, che
erano quindi di riferimento nel mondo dell’arte inglese e che avevano prima appoggiato
cavalcaselle e poi ad un certo punto cominciavano ad interessarsi a morelli, ed è
attraverso di loro che poi questi due signori trovano gli editori. Cavalcaselle italiano scrive
prima in inglese, perché lavora insieme ad un giornalista, scrittore e saggista inglese di
nome Crow, che lo aiuta nella scrittura. Questa cosa della lingua va anche nella direzione
del processo che stiamo descrivendo dell’egemonia culturale, perché è evidente che sono
anni in cui forse scrivere in tedesco o in inglese è più importante che scrivere in italiano,
nel senso che ci si riferisce immediatamente a dei gruppi che sono più attivi sul mercato
dell’arte di quanto invece non accade in italia, e quindi non è necessario che le traduzioni
italiane siano immediate. L’editore di riferimento di cavalcaselle è marrell, che è un
grande editore che fa anche un grande progetto di editoria d’arte in Inghilterra in questi
anni, perché c’è un pubblico, più attenzione e scambio da questo punto di vista.

IL BODE MUSEUM DI BERLINO (QUANDO VIENE ALLESTITO E’ INTITOLATO NON A SE


STESSO DA BODE MA AL KAISER FEDERICO GUGLIELMO) UN TEMPO KAISER MUSEUM
E' in Germania la figura più rappresentativa di tale processo è Von Bode a cui viene poi
intitolato il Bode Museum di Berlino, uno di quelli dell’isola dei musei il quale Von Bode
aveva immaginato con il progetto di una grande aula centrale che viene chiamata basilica
e come quindi la restituzione di una chiesa rinascimentale fiorentina. Bode allestisce le
sale di questo museo, perché gran parte della collezione anche italiana riguarda il
rinascimento, soprattutto il primo rinascimento, come delle stanze di ambientazione, per
cui si ricostruisce anche il contesto degli oggetti, il cui allestimento riguarda una coerenza
cronologica, ma in qualche modo anche una coerenza d’ambiente, perché lui restituisce
anche l’ambiente di questi oggetti perché nel momento in cui furono realizzati dovevano
essere collocati in quel modo specifico. Federico Guglielmo kaiser è il motore politico del
processo di cui stiamo parlando in Germania.

La molteplicità del Medioevo (riscoperta del Medioevo). 1815/1845


Nei primi decenni dell’Ottocento molti studiosi vollero concepire un nuovo approccio
storiografico verso l’arte medievale, dovuto alla svolta romantica che cercava nell’arte
anticlassica nuovi riferimenti estetici ed etici. Il movimento romantico conferiva al
Medioevo rinnovati contenuti ideologici contro la filosofia dei Lumi. Successivamente si
creò un mito del Medioevo, della sua religiosità e della sua arte contrapposto
dialetticamente al positivismo, al progresso scientifico-tecnologico, al materialismo
promosso dalla industrializzazione. L’arte medievale diventava il terreno di ricerca di nuovi
modelli artistici, bisognava dunque individuarne gli stili tra l’età di Costantino e l’età di
Raffaello. I circa mille anni di produzione artistica, soprattutto in campo architettonico,
venivano suddivisi in epoche, scuole, stili ma il troppo vasto contenitore dell’epoca
medievale risultava ora decisamente ingestibile. A Parigi, il ritorno dei Borbone nel 1815
provocò l’immediata chiusura forzata del museo parigino dei Monuments Français di
Alexandre Lenoir ma la memoria del museo di Lenoir continuava però a essere viva e dette
un forte stimolo al collezionismo di opere medievali, sia tra i privati sia in altri musei
pubblici. E proprio a un collezionista, Alexandre du Sommerard, si deve la creazione di una
raccolta interamente dedicata all’arte medievale. Nacque cosí il museo di Cluny (oggi
Musée National du Moyen Âge), considerato sin dall’inizio il successore naturale di quello
di Lenoir. Le riflessioni nella Francia postnapoleonica riguardava i monumenti, la loro
storia e la loro salvaguardia. Nel 1832 Victor Hugo pubblicava il suo Notre-Dame de Paris,
scritto per salvare la cattedrale parigina dal degrado in cui versava. Nel 1837 fu creata la
Commission des Monuments Historiques determinando un nuovo bisogno di classificare
per importanza storica i monumenti. A occupare il posto di ispettore generale fu chiamato
il giovane storico Ludovic Vitet e poi il suo successore, dal 1834 al 1860, Prosper Merimée
(1803-1870). La Commission des Monuments Historiques era stata creata anche per porre
in qualche modo un argine alle troppo frequenti demolizioni di edifici medievali,
determinate dall’esigenza di far posto a strade e architetture moderne o a causa di
malintesi restauri: una sorta di nuovo vandalismo, come ebbero a denunciare molti
intellettuali. Nel 1832 Victor Hugo aveva scritto un appassionato articolo, Guerre aux
démolisseurs che invocava la protezione dei monumenti medievali. Nella stessa direzione
si muoveva anche Alexandre de Laborde con venti volumi pubblicati tra il 1818 e il 1878 ai
quali collaborò anche Viollet-le-Duc, contenente centinaia di incisioni di monumenti
medievali atti a documentare ricchezza e varietà delle diverse regioni della Francia. Il
problema del romanico venne ripreso da Arcisse de Caumont autore di una ricca serie di
manuali finalizzati all’insegnamento dell’arte medievale nelle scuole elementari, nella
convinzione che la sensibilizzazione di un ampio pubblico fosse una componente
importante per salvare i monumenti dalla distruzione. Caumont si batteva per una
organizzazione decentralizzata della tutela del patrimonio monumentale, che non mancò
di entrare in conflitto, malgrado molte condivisioni, con la visione nazionale e centralizzata
dei primi ispettori generali, in particolare con Merimée. Nei suoi studi Caumont proponeva
un innovativo sistema di classificazione dei monumenti romanici per scuole regionali,
secondo criteri formali, con l’obiettivo di fondare una “archeologia scientifica” basata
sull’osservazione degli oggetti e l’analisi seriale. Alla classificazione geografica
giustapponeva una suddivisione cronologica degli stili architettonici: romanico, gotico,
rinascimentale e moderno. Siamo nei decenni del revival gotico in Francia, di cui era
importante animatore Didron dedito agli studi sul gotico e che pose le basi della scienza
iconografica come disciplina. Viollet-le-Duc (1814-1874) individuava nello stile francese
consolidatosi tra l’ XI e il XIV secolo la chiave di volta per una nuova generale teoria
dell’architettura. Un modello funzionale contemporaneamente alla lettura dei monumenti
del passato e alla progettazione di una architettura contemporanea in antitesi con i
modelli classici e in sintonia con il moderno sviluppo industriale. Aveva acquisito una
conoscenza diretta e analitica dei monumenti medievali, soprattutto gotici, nella sua
qualità di restauratore al servizio della commissione presieduta da Merimée. Viollet-le-Duc
strutturò il materiale raccolto in due grandi opere a carattere enciclopedico: il Dictionnaire
raisonné de l’architecture française du XI e au XVI e siècle e il Dictionnaire raisonné du
mobilier français de l’époque carolingienne à la Renaissance. Il dizionario dell’architettura
proponeva un’analisi in termini razionalistici finalizzata alla comunicazione visiva di
dettagli tecnici, funzionali e tipologici. Il gotico, caricato di valori morali, diventava simbolo
della laicità, della libertà democratica e linguaggio comune della nazione. La vasta attività
di
restauratore di Viollet-le-Duc, basata sulla comprensione piena dell’edificio mirava a
«ristabilirlo in uno stato completo che può non essere mai esistito in un momento
storico». Il restauro dei monumenti medievali fu un campo in cui le nazioni proponevano il
proprio patrimonio artistico come linguaggio architettonico autoctono e unificato a fronte
di una nazione ancora divisa. All’inizio del secolo venne allestita la Alte Pinakothek di
Monaco, facendo in tal modo della capitale bavarese uno dei centri piú vivaci nel
panorama tedesco per lo studio della pittura del Trecento e del Quattrocento. Wilhelm
von Schlegel individuò nella pittura prerinascimentale (e nei suoi contenuti cristiani) i punti
di riferimento ideali per un rinnovamento spirituale e artistico che nell’arte dei Nazareni a
Roma trovava il suo interlocutore ideale e nel movimento patriottico tedesco la sua
cornice politica di riferimento. Anche nel campo della ricerca sulla pittura, Rumohr
propose una rivalutazione positiva della pittura dei “primitivi” italiani. In Italia, grazie alla
fiorente ricerca storica e artistica dei decenni compresi tra la fine del Settecento e l’inizio
dell’Ottocento il patrimonio artistico medievale era stato ampiamente “riscoperto” e
studiato. Le ultime campagne di requisizioni napoleoniche avevano sancito la fortuna
critica della pittura dei “primitivi”. Per evitare le continue dispersioni del patrimonio
artistico, gli eruditi italiani avviarono una piú capillare e scientifica documentazione del
patrimonio.

Il “battesimo” del Rinascimento e la storia della cultura. (relazione tra stile e cultura)
1855
In Francia il termine renaissance era già stato usato da alcuni autori dell’illuminismo, tra
cui Voltaire, ed era stato poi ripreso da d’Agincourt. Qualche anno dopo lo storico svizzero
Jacob Burckhardt riproponeva il concetto di Renaissance e la formula «della scoperta del
mondo e dell’uomo», incentrandoli nella cultura fiorentina del XV secolo. Veniva cosí
codificata l’idea di Rinascimento come “epoca” che aveva dato avvio alla modernità.
Pertanto il rapporto tra cultura e stile artistico di un determinato periodo storico per
fornire il quadro di un’epoca diventava un nuovo paradigma storiografico. Burckhardt era
stato influenzato dallo storicismo positivista di Ranke e di Droysen, teneva anche lezioni
pubbliche pensate per un pubblico ampio, ben al di là del ristretto mondo accademico,
lettori di tutti i ceti sociali. Ma l’opera che rese famoso lo studioso svizzero fu Il Cicerone:
guida al godimento delle opere d’arte in Italia del 1855, un libro concepito per i viaggiatori
tedeschi in Italia, che univa la tradizione del manuale storico-artistico con quella delle
guide. Un testo di successo che ha profondamente influenzato, per almeno un secolo, la
percezione dell’arte e della cultura italiane da parte dei viaggiatori e dei turisti provenienti
dal Nord Europa. Nella Civiltà del Rinascimento in Italia Burckhardt delineò alcuni aspetti
della storia e della cultura del Quattro e del Cinquecento italiano con capitoli sulla vita
politica nelle città e nei principati italiani; la formazione dell’individuo moderno distinto da
quello medievale. Con questa opera Burckhardt ha dato un contributo fondamentale alla
“scoperta del Rinascimento italiano”. A partire dalla metà dell’Ottocento anche altri
studiosi cercarono di ripensare la storia dell’arte come parte di un processo culturale piú
ampio e complesso. Le questioni affrontate erano, fondamentalmente, quelle del rapporto
causale tra i mutamenti di stile, di forme e i coevi cambiamenti sociali, religiosi,
tecnologici. In Francia il filosofo e storico Hippolyte Taine (1828-1893) sosteneva che
un’opera d’arte in quanto fatto storico era il risultato di una serie di circostanze ambientali
ben determinate, quali il clima, la razza, l’ambiente, il momento storico. John Ruskin
(1819-1900) fu il critico
d’arte piú influente dell’Inghilterra vittoriana e un attento osservatore dei fenomeni sociali
determinati dall’industrializzazione. Per Ruskin il moderno sistema produttivo aveva
causato una netta separazione tra intellettuali e lavoratori, in antitesi al mondo medievale.
Anche Ruskin, come William Morris e il movimento Arts and Crafts, vedeva nell’arte uno
strumento di trasformazione sociale. In opere come Le sette lampade dell’architettura del
1849, o nei tre volumi di Le pietre di Venezia del 1851 e 1853, Ruskin affrontò il tema
dell’architettura: attribuiva all’arte gotica una supremazia morale. Nel gotico Ruskin vedeva
realizzato il modello medievale di produzione artigianale e individuale che la rivoluzione
industriale aveva distrutto. Vedeva il restauro «la peggiore delle distruzioni, in contrasto
diretto con la concezione del restauro di Viollet-le-Duc.

I PRERAFFAELLITI E LE ARTS AND CRAFTS


In Inghilterra Ruskin è uno dei sostenitori di un movimento artistico: quello dei
PRERAFFAELLITI, il più noto della storia dell’arte inglese. Questo movimento si definisce
come confraternita, sceglie di ispirarsi a tutti quegli artisti che hanno lavorato in Italia ma
prima di Raffaello, quindi che hanno elaborato il loro stile prima del trionfo del
rinascimento maturo perché attribuiscono a questi artisti una sincerità e un senso morale
del fare arte in una maniera artigianale e devota che poi si perderà anche a loro avviso con
l’affermazione delle personalità del rinascimento maturo. L’idea della confraternita è
legata anche all’idea di una divisione del lavoro. Ruskin è uno degli interlocutori privilegiati
anche di un altro movimento dell’Inghilterra della seconda metà dell’800 e cioè quello
delle ARTS AND CRAFTS con William Morris per esempio. L’idea del movimento è quella di
un lavoro artigianale.

FORME MEDIEVALI E FORME RINASCIMENTALI PER RUSKIN


Contemporaneamente ancora in Gran Bretagna le posizioni di Ruskin sono sicuramente
egemoniche nel discorso sull’arte, e fa il saggio del discorso sull’arte inglese di tali anni.
Ruskin interpreta perfettamente e sostiene quella che è tradizionalmente considerata una
caratteristica del discorso sull’arte anglosassone, cioè una certa passione per il contenuto
e il soggetto più che per il linguaggio specifico della forma. Culturalmente il discorso
sull’arte in Inghilterra è sempre stato sostenuto più da valori di narrazione che da valori
della forma. Con ruskin si presuppone un giudizio di valore sulla produzione artistica che è
morale, perché quello che giudica ruskin è l’intenzionalità, l’eticità della produzione
artistica. Le forme del medioevo per ruskin sono superiori alle forme del rinascimento
perché incarnano una dimensione del mondo che è egalitaria, religiosa e non materialista,
esprime più sinceramente un rapporto immediato con la natura e dio, valori che vede
sovvertiti nel rinascimento e la sovversione di tutto ciò secondo lui appare evidente nelle
forme del rinascimento maturo, le quali per esempio a Venezia con Tiziano e Tintoretto
incarnano proprio questo sovvertimento di valori rispetto al Medioevo. Quindi il giudizio
critico di Ruskin è un giudizio critico che più che altro giudica la produzione artistica alla
luce di valori che sono essenzialmente morali. Da questo punto di vista non ci deve
sorprendere per Ruskin una grande attenzione al soggetto rappresentato più che al modo
in cui esso è rappresentato, nel caso che fermo restando che per lui esiste un rapporto
molto stretto tra la forma e il contenuto, anche la scelta dei soggetti corrisponde
all’atteggiamento morale degli artisti e di un’epoca. Il progressivo moltiplicarsi ad esempio
nel rinascimento maturo
di pittura profana o a soggetto mitologico per Ruskin diventa ancora la chiave evidente di
questo allontanamento progressivo dell’uomo dai valori della fede, della comunità,
dell’egualitarismo.

IL RAPPORTO CON TURNER E WHISTLER


Le pagine di Ruskin sono un esempio d’interpretazione profonda del rapporto che Turner
c’ha con la natura ed è un rapporto un po' difficile perché anche la sua attenzione per
Turner sembra contraddire, perché uno come fa ad amare i preraffaelliti e Turner
contemporaneamente, sostenendo il progetto di artisti che sono anche ossessivi nei
soggetti, anche nella ricerca da botanici per gli sfondi naturali, e contemporaneamente
Turner? Però a lui piacciono entrambi. Il romanticismo è vicino a Ruskin ed è proprio il
romanticismo di Turner che gli piace perché proprio attraverso il romanticismo che Turner
recupera un rapporto più immediato con la natura. Un pittore che sicuramente Ruskin non
può accettare è Whistler, un artista che va verso l’astrazione e che dà generalmente titoli
che riguardano il rapporto cromatico e non il soggetto rappresentato. Ruskin lo distrugge.

UNA PARTICOLARITA’ TUTTA INGLESE


Il discorso sull’arte che è trasferito nella sfera pubblica ampia è una cosa che caratterizza
molto la cultura inglese. In Inghilterra si tende a portare tutto sotto l’attenzione del
pubblico.

PATER E RUSKIN: CONFRONTI


La voce di un poeta ha molta presa sugli intellettuali inglesi di questi anni ed è la voce di
Walter Pater, un poeta, critico letterario, storico della letteratura, scrittore ed esteta. Più o
meno è perfettamente coetaneo di Ruskin ma diventa il capo di un partito completamente
avverso al discorso sull’arte che è anche sulla società, sulla cultura, sull’economia, sulla
politica per come lo fa Ruskin. Pater si fa portavoce invece di un discorso completamente
diverso, e non a caso anche per lui un modo per mettere insieme gli elementi di tale
discorso deve partire dall’analisi del rinascimento e il suo libro più famoso è raccolta di
saggi, studi della storia del rinascimento che sono pubblicati a partire dalla fine degli anni
50 e l’inizio degli anni sessanta in varie versioni perché questo testo è considerato dai
lettori e recensori contemporanei scandaloso perché pater ci mette una conclusione che
poi più tardi ritira costretto in cui esalta non solo l’arte per l’arte come esperienza come
risultato ed espressione di un’esperienza che non ha nulla a che vedere col mondo reale.
Non solo l’arte vive di una sua vita propria che è quella del linguaggio specifico dell’arte,
del colore anche, ma trova anche per pater la sua manifestazioni più alta nella pittura
veneziana del Rinascimento, in quella grande tradizione del colore inaugurata da Giorgione
che per Pater è il ragazzo magico del Rinascimento Italiano, ma soprattutto l’arte è l’arte
nell’arte e l’esperienza estetica, vale a dire l’esperienza dell’arte è un’esperienza che non
ha nulla a che vedere con tutte le altre esperienze che facciamo quotidianamente nel
mondo. È dunque un’esperienza speciale, piena, profonda, esaltante, ma che è separata da
qualunque esperienza, anche dalla migliore esperienza che noi abbiamo del mondo,
perché il mondo dell’arte è il mondo dell’arte per se stesso, e quindi ci restituisce
un’esperienza che vive in una sfera di per se stessa slegata dalla contemporaneità. Che
distanza c’è tra la visione ideologica, politica, economica di Ruskin che utilizza il passato
per parlare del
presente, che individua nel Rinascimento l’avvio di quelle lacerazioni che sono della
contemporaneità e riconosce per esempio al rinascimento l’avvio di quei processi di
produzione capitalistici che porteranno ai danni della seconda rivoluzione industriale, dal
lavoro comunitario senza una personalità di riferimento a un lavoro industriale. Portano
da una cultura tutto sommato degli scambi di legalità non volta al profitto, alla società
all’indifferenza verso religione e natura, valori che invece lui trova nel medioevo. Lui vuole
parlare del medioevo ma parla invece di rinascimento. Essendo slegata dal soggetto l’arte
per pater non partecipa alle istituzioni della società. Nel momento in cui si è interrotto il
rapporto tra la produzione artistica e l’impegno morale o religioso si è avviato il mondo
moderno con tutte le sue lacerazioni, disuguaglianze e contraddizioni, tant’è vero che
Ruskin scrive una serie di saggi sull’economia dell’arte, saggi interessanti che parlano del
collezionismo, delle commissioni degli artisti perché ha idea che l’arte sia una delle
istituzioni della società per cui l’arte illustra ed è lo specchio dei valori di una società. Per
Pater l’arte non ha nulla a che vedere con le istituzioni della società, con i processi di
evoluzione del mondo in cui viviamo, l’arte vive nell’arte e parla una lingua dell’arte. Così
c’è scarso interesse per il soggetto da parte di pater, perché non si giudica il rapporto
dell’arte col mondo che viviamo, ma la capacità dell’arte di usare i suoi specifici strumenti
e non di restituirci pezzi di esperienze del mondo quotidiano. L’esperienza estetica è
piena, profonda, esaltante per pater, ed è profondamente umana, non è di questo mondo,
è staccata e solleva chi ha quest’esperienza da qualunque relazione con gli accidenti del
mondo. Quindi per pater (e da qui la contrapposizione coi sostenitori di ruskin) l’esteta è
colui che attiva pienamente la sua esperienza estetica, non sta nel mondo, non è utile
perché vive nel mondo dell’arte che non è quello reale e quindi non si impegna nel mondo
perché non è questo ciò che gli interessa. A pater si attribuisce l’eccentricità del vestire e
delle modalità di comportamento. La battaglia culturale mette in luce la possibilità di
svincolare il linguaggio dell’arte dalla relazione con la rappresentazione, cioè
definitivamente dal concetto di imitazione, dal racconto. Ruskin e pater propongono due
visioni e colui che apre di più in tale momento anche all’esperienza della pittura moderna
è più pater che ruskin. Quella che era una vera novità al tempo di Ruskin e Pater è
immaginare che l’arte non debba averlo, ma non è che non deve averlo perché è inutile,
ma non lo deve avere perché sostanzialmente non è copia della realtà, bensì si esprime in
una lingua tutta sua, che è il linguaggio della forma e da questo punto di vista la posizione
di Ruskin è più moderna, perché porta più direttamente verso l’esperienza delle
avanguardie storiche di quanto non sia invece il discorso sull’arte di Ruskin, che è
sicuramente molto più militante, che però in questo momento chiude una tradizione
invece di aprirla. Non a caso per esempio pater è un grande pittore per esempio dei
francesi.

Arte, scienza e industria. Seconda metà dell’800 le esposizioni danno vita storia della
cultura attraverso arti minori
Nel 1851 a Londra si apriva la prima grande Esposizione universale. La quantità e varietà
degli oggetti, provenienti da tutto il mondo univa in un unico sistema prodotti culturali,
industriali e naturali. Le esposizioni universali rappresentarono uno straordinario volano
per la valorizzazione delle “arti minori”. In generale nel corso dell’Ottocento la nuova
tipologia del museo di arti applicate ebbe la funzione di rendere visibile anche la storia
della cultura attraverso gli oggetti esposti. Il vivace panorama espositivo e museale era
accompagnato dalla riflessione sulle cosiddette “arti applicate”. Nella cultura ottocentesca
le arti minori erano chiamati a essere un modello per artisti e artigiani, ma anche oggetti di
piacere estetico per i collezionisti o ancora documenti della vita e della cultura dei tempi
passati. L’esperienza londinese ebbe una forte influenza anche su Gottfried Semper dal
1834 professore all’Accademia di belle arti di Dresda era stato costretto all’esilio. Egli visse
a Londra, dove entrò in contatto con il gruppo degli esuli tedeschi riuniti intorno a Karl
Marx e Friedrich Engels. Egli sosteneva che esiste una quantità di condizionamenti esterni
all’opera che hanno una notevole influenza sulla sua forma per esempio il luogo, il clima,
l’epoca storica, le usanze, il carattere, il ceto sociale di colui a cui l’opera è stata destinata.
Definiva l’arte un linguaggio autonomo. Il “sistema scientifico” semperiano trovò
applicazione nel museo di Vienna, primo museo dedicato alle arti applicate nell’Europa
continentale. Dal 1890 il reparto tessile fu diretto da Alois Riegl, che nei suoi studi partirà
da una revisione critica del rapporto condizionante stabilito tra materiale, tecnica e stile da
Semper. Da Julius von Schlosser in poi, infatti, il museo viene considerato una delle
istituzioni che rese possibile lo sviluppo della tradizione viennese di studi storico-artistici.
La sua fondazione s’inseriva in una precisa riorganizzazione istituzionale e culturale attuata
a Vienna dopo la rivoluzione del 1848. All’interno di un’ampia riforma del sistema
universitario nel 1852 era stato affidato il nuovo insegnamento di Storia dell’arte
medievale e moderna all’Università di Vienna. Tra le premesse per la nascita della scuola di
Vienna va ricordata anche la fondazione dell’Istituto per la ricerca storica austriaca nato
nel 1854 per lo studio “scientifico”. L’Istituto aveva come finalità la formazione diplomatica
e paleografica di archivisti, bibliotecari e personale museale, sul modello dell’École des
Chartes di Parigi. Quasi tutti gli storici dell’arte viennesi durante gli anni della loro
formazione passarono anche per le aule dell’Istituto, acquisendo qui gli strumenti per l’uso
filologicamente corretto delle fonti storiche. Si stabiliva cosí uno stretto legame tra
archivio, museo e università, un legame che avrebbe rappresentato una delle
caratteristiche fondamentali del lavoro e delle ricerche di molti esponenti del gruppo
viennese.

1873-1912 La storia dell’arte tra Nationbuilding e studio della forma (scuola viennese)
Monaco 1909 Negli ultimi decenni dell’800 e l’inizio del 900 la storia dell’arte è stata parte
integrante della fase finale del Nationbuilding . Infatti, anche se con modalità diverse da
paese a paese, gli studi storico-artistici contribuirono alla costruzione di una coscienza
nazionale e alla definizione del suo patrimonio, l’identità nazionale. A Monaco si tenne un
Congresso di storia dell’arte che vide contrapposti Venturi e Warburg: il primo
sottolineava l’importanza di preservare il patrimonio culturale della nazione evitandone la
dispersione attraverso l’acquisto da parte di ricchi mecenati esteri, Warburg d’altro canto
sosteneva anche la interdisciplinarietà tra le nazioni nel conoscere le opere delle varie
nazioni che in effetti si era potuta attuare grazie proprio a questi acquisti e spostamenti
delle opere (in questo caso italiane) da parte della comunità di studiosi internazionali.
Quindi il tema dibattuto nei primi decenni del 900 era proprio questo: considerare le opere
d’arte patrimonio della nazione da proteggere o veicolo di comprensione tra le culture?
Venturi era indirizzato verso una costruzione di una forte identità nazionale, Warburg ne
descriveva le rischiose implicazioni nazionalistiche. Venturi e Warburg, rappresentavano
due concezioni molto diverse della professione di storico dell’arte: il professore Venturi,
già
ispettore delle belle arti, aveva unito tutela, insegnamento, ricerca e amministrazione; lo
studioso privato Warburg, economicamente indipendente, era in quel momento
impegnato a consolidare il suo ruolo all’interno di un esteso network scientifico
internazionale. Il primo incontro internazionale degli storici dell’arte fu convocato a Vienna
nel 1873 in occasione dell’Esposizione universale. Vi presero parte circa 64 studiosi,
prevalentemente di lingua tedesca. Il X Congresso, convocato a Roma nel 1912, è
considerato il primo congresso di storia dell’arte a carattere effettivamente e
programmaticamente internazionale. Emerge complessivamente un quadro molto
differenziato da paese e paese, dovuto in parte anche a diverse tradizioni e organizzazioni
dell’insegnamento accademico e dei profili professionali. Mentre nei paesi di lingua
tedesca e in Austria la formazione degli storici dell’arte era prerogativa delle università, in
Francia, dove la materia era già insegnata agli artisti presso le accademie di belle arti si
sviluppò un sistema articolato di scuole: il Collège de France, l’École du Louvre veniva
introdotto l’insegnamento anche per i futuri direttori di musei. Nel 1891 il primo corso di
Storia dell’arte alla Sorbona. In Italia, nel 1901, veniva creata la prima cattedra di Storia
dell’arte, presso l’Università «La Sapienza» di Roma, affidata a Adolfo Venturi. Pietro
Toesca a Torino (1907). In Spagna il primo professore di Storia dell’arte all’Università di
Madrid fu Monzó che vi insegnò dal 1904. In Gran Bretagna, viceversa, stentò ad
affermarsi una distinzione netta tra istruzione tecnica, critica estetica e storia dell’arte.
Negli Stati Uniti nel 1912 l’arte era materia di insegnamento già in 400 istituzioni. Negli
ultimi anni dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento si assiste, dunque, a un
progressivo inserimento della storia dell’arte nell’insegnamento universitario. Una storia
dell’arte imperiale: la Scuola viennese di storia dell’arte.

La scuola viennese di storia dell'arte è stata un'istituzione accademica che ha dato origine
a un nuovo approccio teorico nello studio della storia dell'arte.
Il termine scuola viennese di storia dell'arte (Wiener Schule der Kunstgeschichte) venne
coniato da Julius von Schlosser in uno dei primi riassunti della storia dell'arte viennese che
abbracciava il periodo dalla metà dell'800 agli anni venti del '900.
Questo termine è oggi usato non tanto per la Scuola, quanto per indicare una successione
sorprendentemente ricca di personaggi eminenti che, portando avanti, correggendo o
anche contraddicendo le basi gettate dai loro maestri, hanno contribuito sostanzialmente
allo studio della Storia dell'arte. Quattro furono i personaggi più significativi: Franz
Wickhoff, Alois Riegl, Max Dvoràk e Julius von Schlosser.
Le caratteristiche di studio di questa nuova storia dell'arte sono:
• Il concetto di oggetto artistico non più come monumento, ma come documento, e
come tale fermamente legato al periodo storico in cui è stato prodotto.
• Il contatto diretto con l'oggetto artistico, in maniera tale che oltre alla valutazione
estetica, tipica del periodo tardo romantico, si possa anche eseguire una valutazione della
tecnica, dei caratteri stilistici, iconografici e altro, attingendo a documenti storici e
filologici.
• L'uguale considerazione di tutti gli oggetti artistici, la parità tra arti minori e
maggiori e il superamento dei concetti di "progresso" e di "decadenza", per cui tutte le
epoche hanno pari dignità.
Negli ultimi tre decenni dell’Ottocento nella capitale austriaca si formò un gruppo di
studiosi noto come Scuola viennese di storia dell’arte. Si trattava di studiosi appartenenti a
generazioni diverse, che tra gli anni Settanta dell’Ottocento e gli anni Trenta del
Novecento contribuirono in modo fondamentale allo sviluppo del discorso storico-
artistico, uniti dalla convinzione che la storia dell’arte fosse parte integrante delle scienze
storiche. Il modello di lavoro viennese consisteva nel legame tra lo studio diretto degli
oggetti nei musei, la riflessione teorica dell’università e lo studio delle fonti, che porterà a
risultati importanti.
L’impegno comune consisteva nel trasformare la storia dell’arte in scienza dell’arte
caratterizzata dall’oggettività scientifica e dall’autonomia disciplinare. Com’è noto, la
monarchia asburgica era segnata da una serie di conflitti interni e dal progressivo calo di
prestigio in campo internazionale, un processo avviatosi con la perdita della Lombardia e la
perdita del Veneto con il conseguente indebolimento del potere centrale. In concomitanza
con l’Esposizione universale si svolse a Vienna un incontro di storici dell’arte. Vi
parteciparono studiosi “specialisti” di storia e di teoria dell’arte, insegnanti di accademie e
politecnici, direttori di musei, l’unico partecipante italiano fu Cavalcaselle. Vennero
discussi il problema dei musei, il problema del restauro e della conservazione;
l’insegnamento scolastico; i criteri per la riproduzione delle opere e per la costituzione di
un repertorio bibliografico. Si possono individuare nella produzione storiografica degli
studiosi viennesi alcuni precisi filoni di ricerca. - Un primo filone di ricerca era incentrato
sullo studio delle fonti letterarie della storia dell’arte. - Un altro importante filone
concerneva lo studio topografico dei monumenti presenti nelle diverse regioni dell’Impero
tesa a documentare la topografia, la storia, la cultura, l’arte e l’economia delle province
dell’Impero asburgico.
Evidenziare la varietà e ricchezza culturale che caratterizzava la monarchia. Agli studi
topografici era dedicata anche la collana pubblicata a partire dal 1907 da Max Dvořák. -
Sul piano metodologico, la centralità dell’oggetto d’arte e dell’autopsia visiva come
fondamento dello studio era uno dei capisaldi di questa stagione di studi, intensificata
dall’incontro con Giovanni Morelli. Il metodo empirico-positivista di Morelli che metteva in
secondo piano la valutazione estetica delle opere e aspirava a un fondamento scientifico
influenzò gli studiosi di Vienna. Schlosser includerà addirittura Morelli tra i membri della
scuola viennese, sottolineando l’ input positivista del suo metodo. Fu Franz Wickhoff
(1853-1909), a mettere a punto un percorso metodologico incentrato sullo studio della
forma morelliana, integrato con il metodo storico-filologico di Sickel («il metodo Sickel-
Morelli» lo definirà Schlosser), basato sulla distinzione tra copia e originale e sul problema
dell’autenticità. Molti degli studiosi della generazione successiva tra cui Dvořák e lo stesso
Schlosser iniziarono il loro percorso partendo dall’impostazione metodologica tardo
positivista di Wickhoff, emancipata da ogni implicazione estetica che aprí la strada a una
storia dell’arte al di fuori del canone classico. Wickhoff fece un lungo studio sull’arte
romana di cui sosteneva l’autonomia contro la tradizionale lettura winckelmanniana, che
la considerava come declino dell’arte greca. Wickhoff ha il grande merito di liberarci da
Winckelmann affermò l’archeologo Ranuccio Bianchi-Bandinelli nel 1961. Una messa in
discussione radicale del canone classicista che si manifestò anche nell’attenzione prestata
da Wickhoff all’arte contemporanea. Tali premesse furono arricchite da Alois Riegl (1858-
1905) che aveva una spiccata attenzione per le identità culturali. Riegl iniziò la sua carriera
lavorando in una istituzione museale e pubblicò i suoi primi studi, dedicati a un gruppo di
opere tessili lì conservate. Probabilmente proprio il materiale, anonimo,
decontestualizzato, con decorazioni puramente ornamentali, dunque privo di contenuto,
lo indusse ad un metodo analitico incentrato sulla evoluzione delle forme. Il problema del
rapporto tra cultura occidentale e cultura orientale fu in seguito ripreso anche in Stilfragen
con particolare attenzione per le contaminazioni tra le culture. In questi anni Riegl
pubblicò un consistente numero di saggi dedicati alla cosiddetta arte popolare, un tema di
grande attualità negli studi austro-ungarici. Alcuni scritti riegliani possono essere letti
come una presa di posizione antiromantica e antinazionalista. Risulta importante
sottolineare che in questo testo Riegl analizzava criticamente i processi produttivi nelle
campagne nella convinzione che la nostalgica e romantica celebrazione dell’arte popolare
non potesse e non dovesse prescindere dalla conoscenza delle condizioni sociali e
materiali in cui si era svolta la produzione. Riegl metteva in discussione il concetto di
“decadenza” e proponeva un superamento del giudizio di valore nella storia dell’arte, a
partire dalla constatazione che non potevano esistere differenze qualitative tra stili diversi,
né tanto meno periodi di declino, in quanto «nell’evoluzione non può esistere un regresso
né un arresto». Le opere d’arte erano, infatti, per Riegl il risultato di un Kunstwollen
preciso e funzionale, inteso come “forza” che dirige/guida l’evoluzione stilistica. Il
Kunstwollen , parola creata da Riegl e di difficile traduzione (“intenzione d’arte”, volontà
d’arte, impulso artistico) permetteva di emancipare l’opera d’arte da ogni approccio
estetico e gettava le basi dello studio della storia dell’arte come disciplina autonoma. Riegl
collegava maggiormente il Kunstwollen alla letteratura, alla filosofia, alla religione e
soprattutto alla struttura economica della società di riferimento. Per poter leggere le
opere del passato anche nelle loro implicazioni sociali e culturali la storia dell’arte doveva
innanzitutto abbandonare ogni giudizio di gusto e successivamente includere nella sua
analisi anche il pubblico per il quale le opere erano state create. Riegl sosteneva che
bisogna cogliere nelle opere il Kunstwollen che le ha prodotte: la storia dell’arte come
storia della percezione, intesa come sintesi della cultura di un’epoca. Nella complessa
dinamica accademico-scientifica della Vienna prima della Grande guerra s’inseriva un altro
esponente della scuola viennese, Josef Strzygowski (1862- 1941), metteva in discussione la
dipendenza dell’arte cristiana egiziana dai modelli romani, bizantini e persiani,
sottolineando viceversa l’importanza della tradizione siriana e dell’antico Egitto. Tuttavia, i
suoi scritti erano caratterizzati da un tono apertamente antisemita e nazionalista che
provocò una profonda spaccatura tra gli studiosi e la creazione di una seconda cattedra
assegnata a Dvořák, cui dopo la morte successe Schlosser. Parte integrante dell’ampia
riflessione di questo gruppo di studiosi intorno alla storia dell’arte fu l’attenzione per lo
studio e per la conservazione del patrimonio monumentale e artistico dell’Impero. Nel
1903 Riegl veniva nominato membro della Commissione Centrale e si oppose al progetto
di “liberazione” radicale degli antichi resti del palazzo di Diocleziano a Spalato, insistendo
sulla necessità di conservare la complessa stratificazione storica della città antica. Scrisse
in Der moderne Denkmalkultus, Il culto moderno dei monumenti, qui Riegl partiva
dall’esigenza di svincolare la tutela dalle preferenze estetiche per giungere a una teoria
conservativa basata sul rispetto del valore attribuito a ogni monumento, inteso come
«opera della mano dell’uomo». In questa ottica viene attribuito da Riegl un ruolo centrale
soprattutto al valore di antichità del monumento. A differenza del valore storico, che è
legato al lavoro degli specialisti, il valore di antichità si rivolge a tutti e dunque anche alle
masse, nuovo attore sociale e storico del
secolo XIX. Riegl operò il superamento di ogni norma estetica attraverso il concetto di
Kunstwollen. Alla morte di Riegl, gli succederà Max Dvo řák, che avrebbe portato avanti
l’impegno del maestro, pubblicando nel 1916, dunque in piena guerra mondiale, il
Catechismo per la tutela dei monumenti.

SCHLOSSER E LA SCUOLA DI VIENNA


La stessa adesione che discende dalla lezione crociana è quella di schlosser nella sua
letteratura artistica, repertorio delle fonti della storia dell’arte che lui pubblica nel 24 ma
che viene tradotto in italiano una decina di anni dopo. Schlosser è austriaco ed è uno
storico dell’arte che appartiene a quel gruppo di storici dell’arte di intellettuali e studiosi
che per convenzione si definisce scuola di vienna. Franz wichoff fa parte della scuola di
vienna. Così come riegler. Schlosser racconta nel 1936 la sua genealogia intellettuale,
scrive una storia della scuola di Vienna che finisce con lui. Racconta le sue relazioni con i
padri fondatori della scuola. Riegler ha lasciato un segno fortissimo di impostazione
metodologica tanto nell’archeologia e per gli stessi motivi. Come per altri suoi colleghi di
questa scuola chiamata così per convenzione riegler ha il merito di cancellare o di iniziare a
cancellare dalla storia dell’arte la nozione di decadenza. Storia dell’arte non è più come un
progresso con dopo un’inevitabile decadenza, ma è in realtà uno sviluppo lineare, una
sequenza, una serie di oggetti e non prevede apogeo e decadenza e quest’orientamento è
fondamentale per il recupero del tardo antico per una nuova lettura dell’alto medioevo e
anche per il recupero dell’arte barocca, perché il barocco rientra a pieno titolo nella storia
dell’arte soltanto nell’800 grazie agli studi degli storici dell’arte della scuola di vienna che
cominciano ad occuparsi di tutti quei momenti della storia dell’arte che erano ritenuti di
decadenza, cioè il manierismo e il barocco. I membri di questa scuola hanno tutti una
formazione direttamente sugli oggetti perché a vienna viene fondato un museo delle arti
industriali, e così loro iniziano subito a lavorare lì oltre che all’università. Hanno a che fare
con delle classi di oggetti di arti decorative ad esempio, anche oggetti che vengono
dell’oriente, e iniziano a lavorare anche nella direzione dello scardinamento delle
gerarchie tra le classi di oggetti e quindi a completare quel lavoro già avviato a partire dalla
seconda metà del 700 di riduzione della distanza tra arti maggiori e arti minori, cioè a
provare ad annullare la distanza tra una scultura e oggetti di arti decorative, industriale,
applicata che nel tempo sono stati chiamati in modo diverso a seconda del ruolo che si
voleva loro attribuire dentro la storia dell’arte. Schlosser è figlio di questa tradizione di
studi, racconta di se stesso di essere epigono di riegler. Si forma dento questa cultura che
è una cultura molto legata all’esperienza diretta degli oggetti nei musei. Lavora a fianco di
storici dell’arte e con colleghi che hanno una formazione più strettamente filologica e che
si occupano di lettura di fonti e documenti di archivio con grande accuratezza filologica:
così comincia ad occuparsi delle fonti per la storia dell’arte ed è uno dei pochi della scuola
di vienna che invece di occuparsi degli oggetti artistici, dei quali si occupa molto
marginalmente, si occupa soprattutto delle fonti della storia dell’arte: scelta che viene da
una sensibilità verso questo secondo filone contemporaneo della scuola di vienna, dove si
lavorava anche alla rilettura dei documenti e delle fonti intorno alle opere d’arte, e verso
l’influenza subita da parte della lezione di benedetto croce, perché anche per schlosser
come per Lionello critica e storia coincidono. E così per schlosser la sua letteratura artistica
potrebbe diventare una storia dell’arte, una storia del discorso sull’arte che in una visione
crociana finisce per
essere storia dell’arte essa stessa. Tra le altre opere di schlosser ricordiamo storia del
ritratto in cera, uno dei suoi pochi lavori sugli oggetti, ma lui sceglie oggetti che sono
marginali e non centrali nella storia dell’arte, li sceglie per un fatto di materiali. Pubblica i
“commentari di Ghiberti” perché sono preparatori, lavora con un importante
collaboratore, su vasari, ghiberti e diventano tutti momenti preparatori alla costruzione
della grande letteratura artistica, che viene pubblicata in tedesco nel 24 e tradotta in
italiano nel 35.
L’opera è dedicata a croce e così chiarisce la sua indipendenza crociana e in realtà
quest’opera è firmata come schlosser magnino, perché Schlosser decide di aggiungere al
suo cognome quello della madre che era italiana come omaggio all’Italia, perché l’Italia
poco tempo prima quasi per metà era stata austriaca. Schlosser scrive “l’arte del
medioevo”, opera pubblicata con l’introduzione di kurz che racconta anche la relazione di
schlosser con l’Italia che è una relazione culturale come gran parte della sua generazione
che si rafforza con la lezione di croce. In quest’opera di schlosser si parla sempre di arte
italiana ma le voci raccolte da lui sono europee, ma l’oggetto loro è sempre l’arte italiana:
l’antichità classica e il rinascimento sono il grande banco di prova per il discorso sull’arte.
C’è nell’opera anche un’idea fortemente unitaria dei caratteri della cultura italiana non
solo figurativa ma proprio in generale della cultura italiana che il carattere fondativo
dell’identità italiana è in un antico sempre presente. L'unità d’italia si è compiuta più o
meno contemporaneamente a quella della germania.

«Kunstgeschichte» storia dell’arte e «Kunstwissenschaft» scienza dell’arte in Germania.


Fine 800
Partiamo da un luogo e da due opere. Il luogo è la nuova Gemäldegalerie di Dresda, eretta
su progetto di Semper. Qui il visitatore poteva mettere a confronto la Madonna Sistina di
Raffaello e la Madonna del Borgomastro Meyer di Holbein il Giovane. All’inizio del secolo
successivo, era però apparsa sul mercato un’altra versione del dipinto conservata a
Darmstadt. Dalla seconda metà degli anni Sessanta si sviluppò una vivace discussione su
quale delle due opere fosse l’originale. La controversia fu l’occasione per mettere in campo
tutti gli strumenti della ricerca storico-artistica, dalla connoisseurship all’indagine
archivistica, al contesto storico e a problemi iconografici, e si concluse con un documento
pubblico in cui si dichiarava originale la versione di Darmstadt e copia il quadro di Dresda.
Per l’occasione fu organizzata una mostra che permise un confronto diretto tra le due
opere. La disputa rese evidente un passaggio importante nella storia della disciplina:
giudizio estetico e giudizio sull’autenticità non coincidevano. Questa disputa sancì anche
l’autorevolezza degli storici dell’arte e furono coinvolti nella direzione dei musei (von
Bode). Quindi distanza tra conoscitori in campo museale e la ricerca universitaria.
Conoscitori al servizio dei collezionisti e musei Wilhelm von Bode (1845-1929), formatosi a
Lipsia e a Vienna nel 1872 fu chiamato al museo di Berlino. Egli rappresentava un nuovo
tipo di amministratore museale, con formazione universitaria e indiscusse competenze di
conoscitore. Von Bode prevedeva di esporre insieme pittura, scultura e arti applicate in
sale dedicate allo stile di un’epoca ( Stilräume ) per evocare (non ricostruire) il contesto, e
soprattutto, l’atmosfera ( Stimmung ) in cui le opere erano nate. Ispirato al pensiero di
Burckhardt, il percorso espositivo prevedeva che le opere fossero allestite tenendo conto
dei generi, delle funzioni e delle serie iconografiche: decorazioni degli altari, monumenti
funebri, arredi liturgici. L’audace politica di acquisizioni sulla scena internazionale,
soprattutto in Italia ma anche all’interno della Germania, messa in pratica da Bode e il
sapiente coinvolgimento di collezionisti e mecenati borghesi portarono a un aumento
considerevole dei tesori presenti nei musei berlinesi. Proprio intorno alla questione delle
acquisizioni delle opere del Rinascimento italiano si accese il feroce scontro tra il senatore
del Regno d’Italia Giovanni Morelli e il potente “Bismarck dei musei” Wilhelm von Bode,
che disponeva di ingenti fondi messigli a disposizione dal governo per l’acquisto di
“capolavori” rinascimentali. Morelli criticò aspramente, in nome del suo nuovo metodo
sperimentale, alcune attribuzioni di Bode minandone l’autorevolezza. Infatti, alla base degli
innumerevoli studi e cataloghi pubblicati da Bode sugli scultori fiorentini, sulla scultura
tedesca, sulla pittura olandese e fiamminga, su Rembrandt o sui bronzetti rinascimentali,
stava la questione dell’attribuzione, della individuazione dell’originale e dunque la
metodologia del conoscitore. A differenza del collega italiano, Bode ribadiva l’intuito e
l’impressione d’insieme come istanze ultime del giudizio critico. In Germania,
diversamente da quanto era avvenuto in altri paesi europei, la ricerca universitaria
appariva sempre piú distante dalla realtà dei musei. I decenni intorno all’unificazione
tedesca furono segnati dalla rapida e definitiva affermazione della storia dell’arte tra le
discipline universitarie con la creazione delle prime cattedre. Si passa dalla superiorità di
una storia dell’arte saldamente impostata sui principî della ricerca positivista basata sul
doppio binario dell’analisi formale e stilistica affiancata dalla filologia storica, al progressivo
discredito del metodo filosofico-letterario improntato sull’universalismo hegeliano. Anton
Springer (1825- 1891) cercò di individuare la linea di demarcazione tra conoscitore e
storico dell’arte e insistette sulla non sovrapponibilità delle competenze del conoscitore
con lo storico dell’arte. Tuttavia, «l’attività del conoscitore d’arte rimane un presupposto
imprescindibile per lo storico dell’arte» ai fini della raccolta del materiale. Alla storia
dell’arte veniva, invece, assegnato il compito di presentare una «caratterizzazione
psicologica» degli artisti e
«descrivere lo sfondo storico, specialmente storico-culturale». Sfondo storico da ricostruire
in base a una ricerca impostata positivisticamente su dati empirici, perché lo storico deve
«non generalizzare ma per quanto piú è possibile individualizzare». Un’avvertenza che
segna il passaggio dall’estetica hegeliana a un approccio storico-empirico all’arte del
passato. Gli studi di Springer, pur nella loro diversità, erano improntati sulla ricerca di una
sintesi tra la storia esterna alle opere (il contesto storico) e la loro storia interna, vale a
dire il collegamento formale e iconografico tra opera e opera. È significativo il suo
contributo allo studio dell’iconografia medievale, teso a una comprensione corretta di
immagini apparentemente bizzarre e misteriose perché diventate illeggibili per
l’osservatore moderno. Springer dimostrava, attraverso alcuni esempi, che il Medioevo
era ricco di elementi antichi, contro la teoria che vedeva una separazione netta tra le due
epoche, spunto di riflessione a cui avrebbe attinto Warburg che riprese da Springer il
termine “sopravvivenza” dell’antico. Jacob Burckhardt aveva l’obiettivo di intrecciare la
storia degli artisti con la storia dello sviluppo stilistico e formale, in un racconto capace di
mettere in relazione l’opera d’arte con gli altri campi della cultura e, dunque, in grado di
descrivere la funzione dell’arte all’interno della società, il problema del rapporto tra arte e
religione, la funzione trascendentale dell’arte. Per una corretta comprensione delle opere
risultava dunque imprescindibile la ricostruzione del contesto storico di riferimento,
l’analisi delle premesse sociali e culturali in cui erano nate. Aby Warburg, idea di una
storia dell’arte intesa come ricerca sull’opera, sull’artista creatore e sul suo contesto
storico-culturale.
Lo storico dell’arte che piú di tutti ha legato il suo nome al genere della biografia artistica
è stato Carl Justi (1832-1912) succeduto nel 1872 a Springer sulla cattedra di Bonn. I suoi
testi contribuirono, in modo decisivo, alla rifondazione su basi nuove, rigorosamente
“oggettive” e dunque “scientifiche”, della biografia artistica. Verso la fine dell’Ottocento si
denunciava il predominio assoluto dell’empirismo positivista nella storiografia considerata
colpevole di aver censurato l’esperienza estetica, sepolta sotto un accumulo di fatti storici.
In parallelo con gli studi di Riegl a Vienna, alcuni storici dell’arte avviarono riflessioni sullo
studio della forma con esplicita esclusione dei contesti storico-culturali. In
contrapposizione a questa impostazione estremamente storicista che allontana lo sguardo
dall’opera in quanto soggetto dello studio, Adolf von Hildebrand, autore nel 1893 di Il
problema della Forma nell’arte figurativa aveva sviluppato una teoria della percezione
impostata sulla contrapposizione tra “visione ravvicinata” e visione a distanza.
Complessivamente in questo filone di pensiero si stava delineando una rifondazione
dell’estetica su base psicologica, determinando lo spostamento dell’attenzione dal
processo creativo al processo della percezione. Tuttavia, la polemica metodologica si
accese anche a partire dall’urgenza avvertita da alcuni studiosi di proporre un discorso
storico-artistico rivolto non solo agli esperti ma a un pubblico piú ampio. Le lezioni di
Heinrich Wölfflin (un allievo di Burckhardt da cui riprendeva l’attenzione per la forma non
svincolata dal giudizio estetico), aveva tentato programmaticamente una sintesi tra storia
della cultura e storia della forma sulla base di una estetica della percezione. Obiettivo della
ricerca storico-artistica diventava enucleare, attraverso uno sguardo comparativo, gli
elementi formali che avevano in comune tutti i prodotti artistici di un’epoca, ricondurre il
dato singolo all’universale, a leggi formali, scientificamente fondate, caratterizzanti
un’intera epoca, lo stile del tempo. Da un punto di vista tematico, il campo visivo della
storia dell’arte iniziò ad ampliarsi dal Rinascimento all’arte del Seicento, di volta in volta
descritta come crisi del canone classico o come rinnovamento artistico. In questo contesto
in cui vi erano questi vari approcci metodologici alla disciplina, quindi da una parte
l’empirismo positivista di stampo storico e dall’altra studio della forma (Riegl, Wölfflin) si
inserisce: Aby Warburg (1866-1929) apparteneva a una importante famiglia di banchieri
amburghesi che aveva un ruolo considerevole nella finanza internazionale. Egli intensificò
il suo interesse per il primo Rinascimento fiorentino. Nell’esplicito rifiuto di ogni approccio
estetizzante, Warburg andò sviluppando un metodo che leggeva l’immagine come
“memoria sociale”, attribuendo un valore simbolico, espressivo, anche allo stile. Uno
studio della forma, dunque, distinta sia dalla pratica dei conoscitori estetizzanti sia dal
formalismo che Riegl e Wölfflin stavano elaborando negli stessi anni, che conduceva a una
innovativa Kulturwissenschaft (scienza della cultura), multidisciplinare, basata sull’uso
paritetico di immagini di tutti i tipi senza distinzione qualitativa tra arti maggiori e arti
minori, particolarmente attenta alle contaminazioni, agli scambi tra Nord e Sud del mondo,
tra Oriente e Occidente. La massima espressione di questo aspetto dell’attività di Warburg,
politico della cultura, fu ovviamente la tenace costruzione della sua biblioteca.

La Francia e la volontà di egemonia culturale. Inizio 900


Émile Mâle, professore della Sorbona e studioso di arte medievale di fama internazionale.
Egli compì una ricerca sulle immagini collegata alla storia delle idee, della religione.
Elaborò le proposte piú innovative per lo studio dell’arte medievale, attraverso dettagli
provenienti
da miniature, vetrate, decorazione scultorea, oreficeria e strumenti liturgici, Mâle
cercava di restituire al lettore moderno un’idea del sapere enciclopedico dell’uomo
medievale.
Basata sul superamento della fede positivista nel documento archivistico, poco interessata
alle implicazioni politiche e sociali della cultura figurativa e in evidente contrasto con le
coeve tendenze purovisibiliste la ricerca di Mâle si concentrava sullo studio delle fonti
letterarie del pensiero filosofico-religioso e sulla conoscenza diretta delle opere, osservate
possibilmente nel loro luogo originale. Certamente il lavoro di Mâle fu caratterizzato da un
forte sentimento nazionale: «L’arte del Medioevo costituiva la creazione piú originale della
Francia», affermò nel 1906. La ricerca storico-artistica francese aveva le sue radici nei corsi
di Storia dell’archeologia, dell’arte e di estetica tenuti da Hippolyte Taine e al suo metodo
di leggere l’opera all’interno delle condizioni storiche e del milieu culturale. Tale approccio
segnò a lungo la storiografia artistica francese aprendo la strada agli studi iconografici.
Nella vasta e vivace panoramica degli studi francesi evocata da Mâle, possiamo individuare
alcuni nuclei tematici e metodologici, soprattutto un aspra discussione intorno al tema del
Rinascimento. Le opposte interpretazioni del Rinascimento sono leggibili come “sintomi”
di divergenti concezioni del mondo e della società. Lo studioso piú autorevole del
Rinascimento alla fine dell’Ottocento è stato Eugène Müntz (1845-1902). Egli fu nominato
bibliotecario e conservatore delle collezioni dell’École des Beaux-Arts e dal 1885 al 1893
ebbe l’incarico di tenere il corso di Estetica e di Storia dell’arte come supplente di Taine.
Per Müntz il Rinascimento era connotato dallo studio degli autori antichi, dalla cultura
degli umanisti e dal ritorno all’arte classica e sanciva il primato italiano nell’arte moderna.
Müntz cercò di cogliere l’evoluzione stilistica all’interno dei mutamenti piú generali della
cultura, basandosi sullo studio “scientifico” delle fonti d’archivio, sulla scia di una lunga
tradizione francese. Un approccio che fu duramente criticato prima da Morelli e poi da
Adolfo Venturi: Per leggere nelle forme dell’arte non erano utili i volumi di Eugenio Müntz
il quale trattando della Rinascita discorreva di corti italiane, di umanisti e di carmi, di
condottieri e d’armigeri, di astrologi e buffoni, di filosofi, di sapienti e infine di quei
capiscarichi d’artisti. Della loro anima, pulsante nelle opere, silenzio. La sua opera ha
rappresentato il tentativo piú radicale di ricostruire un Rinascimento nazionale,
rivendicando alla Francia un ruolo di primo piano nell’arte europea. Nel nuovo secolo, la
ricerca delle scuole e dei caratteri nazionali caratterizzava fortemente anche gli studi, e
non solo in Francia, intorno ai cosiddetti primitivi. Queste ricerche trovarono espressione
anche (o forse soprattutto) in una densa attività di mostre dedicate prevalentemente alla
pittura “prima di Raffaello”.

Trasformare i tesori artistici in beni della nazione: l’Italia dopo l’Unità. Seconda metà 800
(1861) All’indomani dell’Unità, in Italia si sviluppò un vivace dibattito intorno alla tutela del
patrimonio storicoartistico e alla sua organizzazione amministrativa. Il confronto fu
caratterizzato dalla richiesta di maggiore autonomia, e quindi di decentralizzazione. 25 Il
patrimonio del nascente Stato risultava essere esposto a molteplici rischi in seguito alla
soppressione dell’asse ecclesiastico. Già nel 1863 Giovanni Battista Cavalcaselle aveva fatto
un precoce tentativo di progettare la gestione e la valorizzazione del patrimonio storico-
artistico italiano, incentrato sul riordinamento delle gallerie e sul censimento del
patrimonio in vista della creazione di un catalogo nazionale. I temi furono ripresi da Adolfo
Venturi che chiese dunque la stesura di nuovi cataloghi delle gallerie italiane e di un
catalogo generale delle regioni italiane; una maggiore sorveglianza dei restauri. Venturi
mirava a rifondare sistematicamente la ricerca storico-artistica italiana e denunciava
soprattutto la scarsa preparazione professionale media degli storici. Vi fu la definitiva
istituzione delle soprintendenze (1907) e l’approvazione delle prime leggi nazionali di
tutela nel 1902 (legge Nasi) e nel 1909. Nei primi decenni dopo l’Unità, le due figure chiave
del panorama storico-artistico italiano erano Giovanni Morelli e Giovanni Battista
Cavalcaselle. Dopo l’Unità, Cavalcaselle, ormai un’autorità nel campo della
connoisseurship e della ricerca storica, nel 1871 venne chiamato a Roma come Ispettore
delle antichità e belle arti del ministero della Pubblica Istruzione. Nello svolgimento di
questa funzione mise a punto metodologie, norme e pratiche rivolte ad assicurare una
maggiore tutela del patrimonio nazionale. In particolare il cantiere dei restauri nella
basilica di Assisi gli offrì l’occasione per stabilire i criteri di un intervento orientato al puro
consolidamento dell’opera-documento, confluiti poi nei Regolamenti sul restauro del
1877. Giovanni Morelli (1816-1891). Nel 1890 veniva edito il primo volume sui maestri
italiani nelle gallerie romane in cui egli usa l’espediente letterario del dialogo. Frutto di una
decennale esperienza acquisita sul campo del mercato artistico internazionale, i suoi studi
sono volti a distinguere tra copie e falsi, ricostruire il lavoro autografo di ogni artista su
basi razionali, quasi “scientificamente” provate. Cosí, utilizzando la personale conoscenza
dell’anatomia comparata acquisita durante gli anni di studio di medicina cominciò a
dissezionare visivamente i dipinti fino a elaborare una tesi destinata a un notevole
successo: gli artisti si impadronivano di una serie di tecniche a imitazione del maestro;
crescendo potevano anche mutare lo stile, ma sempre se ne sarebbe rintracciata la
matrice. Piccoli e insignificanti erano i particolari che sfuggivano alle regole
dell’apprendistato: le unghie, le orecchie, qualche onda nei panneggi e poco altro. Morelli
dava anche molta importanza al disegno come ratto distintivo per riconoscere un artista.
In pieno storicismo, il “metodo sperimentale” di Morelli diminuiva drasticamente il peso
della comprensione storica delle opere attraverso il dato biografico o il contesto culturale,
fino a quasi negarlo ricollegandosi, viceversa, alla tradizione settecentesca dei conoscitori.
L’educazione dell’occhio, non la ricerca del documento archivistico, portano
all’attribuzione scientificamente corretta. Adolfo Venturi celebrò Cavalcaselle come «il
primo storico nazionale dell’arte», contrapponendo il suo metodo positivista, basato sulla
comparazione e l’osservazione, alla numerosa schiera, polverosa e litigiosa, dei ricercatori
interessati esclusivamente alla scoperta di nuovi documenti d’archivio. Gaetano Milanesi,
nella corposa edizione critica delle Vite di Vasari (1878-85), summa della sua attività, fece
confluire i risultati di decenni di ricerca archivistica. Anche Antonio Bertolotti (1834-1893),
docente di paleografia alla Sapienza di Roma, raccoglieva documenti riguardanti la storia
artistica dell’Urbe. In Piemonte, Alessandro Baudi di Vesme (1854-1923) esemplificava lo
stretto nesso esistente tra archivio, museo e tutela del patrimonio. Le sue ricerche
storiche, di assoluta fede tardopositivista nelle fonti e nei documenti d’archivio, si rivolse
esclusivamente alla storia dell’arte piemontese. Adolfo Venturi (1856-1941) era incentrato
sulla esigenza di dare validità scientifica alla Storia dell’arte attraverso la conferma
documentaria. Venturi dopo essere entrato in contatto diretto con studiosi sensibili alle
istanze della connoisseurship morelliana operò una fusione dei due metodi, il “metodo
storico” e “metodo sperimentale”. Una soluzione cioè che integrasse l’educazione visiva
del conoscitore con la frequentazione dell’archivio. Nel 1901 fu finalmente istituita la
cattedra di Storia dell’arte sulla quale fu chiamato. Nello stesso anno fondò la Scuola di
perfezionamento in storia dell’arte medievale e moderna,
finalizzata alla formazione dei futuri funzionari dello Stato. Negli anni successivi, attraverso
l’insegnamento venturiano si formarono nell’ateneo romano i maggiori storici dell’arte del
Novecento italiano. La didattica venturiana era incentrata sulla formazione dell’occhio
attraverso esercizi sul materiale storico-artistico, secondo la celebre formula del «vedere e
rivedere». Sorprende la vastità delle pubblicazioni scientifiche di questo studioso: nella sua
bibliografia figurano oltre 1400 titoli. Fin dagli anni Ottanta, Venturi aveva individuato le
riviste come uno strumento importante per l’aggiornamento, sul modello della “scienza
dell’arte” proposto nel mondo tedesco Volumi dedicati all’arte prerinascimentale,
ricostruzione di personalità artistiche poco note, l’individuazione di scuole, legando opera
a opera in un attento lavoro di confronti. Venturi concentrò l’attenzione su opere e
documenti delle zone periferiche (il Piemonte, la Liguria, il Tirolo, le Isole). Tuttavia la
trattazione in questi volumi smarriva in parte il suo carattere d’insieme per aggregarsi
intorno a singole personalità artistiche. La Storia dell’arte italiana intendeva essere
un’opera di riferimento per la formazione del pubblico e dei giovani studiosi. Corrado Ricci
(1858-1934) si trovò a essere il protagonista incontrastato dell’amministrazione delle Belle
Arti. Nel 1897 gli era stata affidata la prima Soprintendenza istituita in via sperimentale a
Ravenna Insieme a Guido Cagnola e Francesco Malaguzzi Valeri, nel 1901 Ricci fondò la
milanese «Rassegna d’arte».

For Connoisseur. La storiografia artistica in Gran Bretagna.


Esce nel 1903 la rivista Burlington Magazine, Magazine for Connoisseur legata al metodo
morelliano. La rivista si rivolgeva all’amatore ed era basato sulla comprensione storica e
scientifica della produzione artistica antica svincolata dal contemporaneo. La National
Gallery dato il momento di crisi di molti collezionisti acquisì molte opere per evitarne la
dispersione. Gli studi storico artistici della tarda età vittoriana, superando l’attenzione per
i preraffaelliti, si diresse verso lo studio dei grandi maestri del 500. Una svolta decisiva
sugli studi dell’arte rinascimentale fu impressa da un giovane statunitense spostatosi a
Londra, Bernard Berenson, critica stilistica (arte come manifestazione dello spirito).
sommo pontefice dei conoscitori, sosteneva che l’opera dovesse essere osservata
rigorosamente dal vivo. Secondo gli insegnamenti del Morelli egli asseriva la
fondamentale importanza di analizzare lo stile.

1912-1945 La disciplina si consolida e si specializza Dalla connoisseurship alla critica


stilistica.
Agli inizi del 900 l’espansione della disciplina della storia dell’arte nelle università
determinò l’ampliamento degli strumenti metodologici. Anche la connoisseurship fu
investita da questo clima di rinnovamento. Max Friedlander (1867-1958) fu uno di questi
rinnovatori. Egli cercò di elaborare un nuovo metodo per la ricerca delle attribuzioni:
l’occhio era il protagonista nel riconoscere lo stile dell’artista: un occhio assoluto, capace di
memorizzare tutti i dati stilistici di un dipinto, insieme ad una approfondita conoscenza
della produzione artistica presente nei singoli territori. Egli fu anche un esperto nella
conoscenza delle tecniche dei supporti e dei restauri, tutte cose utili a riconoscere un
artista. Era quasi un detective nello scoprire false firme infatti questo procedimento
dell’occhio assoluto doveva anche servire a riconoscere i falsari, i quali avevano raffinato le
loro tecniche nel copiare perfettamente anche lo stile di un autore. Bernard Berenson
(1865-1959) sommo pontefice dei conoscitori, sosteneva che l’opera dovesse essere
osservata rigorosamente dal vivo. Secondo gli insegnamenti del Morelli egli asseriva la
fondamentale importanza di analizzare lo stile. Bisognava apprezzare i meriti intrinseci dei
vari stili superando l’ottica di incentrarsi su singole personalità. Elaborò un concetto quello
dei valori tattili: consisteva, da parte dell’artista, trasformare la bidimensionalità della
pittura nella terza dimensione e in questa capacità il critico poteva intuire la grandezza di
un pittore (ad es. Giotto).

BERENSON E I NUOVI ATTORI SUL MERCATO DELL’ARTE


Un grande lettore di pater molto più che di ruskin è stato il conoscitore e storico dell’arte
che ha segnato molta storia della storia dell’arte del 900 rispetto al rinascimento italiano
ma molto anche l’andamento del mercato dell’arte fino ai primi decenni del 900 ed è
Bernard Berenson, che si trasferisce con la famiglia in America e si laurea ad harward con
l’idea di fare lo scrittore. La formazione specifica dello storico dell’arte è recente, perciò lui
non pensa a diventare tale. Addirittura in Inghilterra un insegnamento che parla solo di
storia dell’arte senza filosofia e letteratura è arrivato solo nel secondo decennio del 900.
Ad Harvard all’epoca di Berenson c’era l’insegnamento di storia dell’arte ma per illustrare
la storia della letteratura. L’insegnante aveva competenze in storia dell’arte ma non solo.
Grazie a mecenati di Boston che mettono insieme soldi per la borsa di studio Berenson
visita Francia, Germania, Inghilterra, ma pater non lo considera affatto. In germania visita
tutti i musei tedeschi utilizzando una guida di eccezione, cioè cataloghi descritti da morelli
sulle collezioni dei musei tedeschi. È proprio quest’esperienza che una volta arrivato in
Italia gli fa venire in mente che forse invece di fare lo scrittore potrebbe occuparsi di fare
storia dell’arte. Berenson lo racconta il suo cambiamento nella sua autobiografia in
maniera molto retorica (ma marginale retorica e secondo il proprio punto di vista). In
realtà tale cambiamento gli dà gli strumenti per diventare uno dei più importanti
conoscitori di arte del rinascimento e anche uno degli storici dell’arte più significativi di
questo tempo. Pater gli consente di mettere insieme l’idea del linguaggio autonomo
dell’arte, cioè idea della forma intesa come linguaggio strutturante dell’arte, arte che
ragiona con un linguaggio tutto suo specifico e che non chiarisce alla luce del suo oggetto
rappresentato, dall’altro lato invece i cataloghi di morelli gli insegnano a guardare forme e
dettagli della composizione in una direzione lontana dall’attenzione del soggetto e che gli
consentono di risolvere i singoli casi attributivi. Così berenson può lavorare
contemporaneamente su due fronti: quello della forma, cioè delle categorie in cui si
organizza il linguaggio strutturante specificatamente delle opere d’arte da un lato, e
dall’altro il catalogo, l’inventario, la registrazione delle fonti e dei dettagli che gli
consentono di risolvere i singoli casi attributivi. Se volessimo sintetizzare per immagini il
pensiero di Berenson basterebbe guardare gli autori e le opere italiane del rinascimento
che sono rappresentati nella collezione della mecenate Isabella Stuard Gardner a Boston.
Ci sono molti dei grandi nomi del rinascimento italiano da botticelli a Tiziano, a Raffaello,
Piero della Francesca, molti quattrocentisti che rispondono anche ad interessi e scoperte
che Berenson fa in quegli anni sul mercato dell’arte. Berenson non smette mai di lavorare
ed è longevo. Con morelli abbiamo una moltiplicazione degli scambi sul mercato dell’arte.
L’importanza di morelli va anche letta dal punto di vista metodologico. Il suo peso sul
mercato dell’arte e il fatto che avesse oppositori così estremi veniva dal fatto che la
seconda metà dell’ottocento aveva
vissuto l’espansione degli scambi sul mercato dell’arte insieme alla nascita dei grandi
musei nazionali e al consolidarsi del progresso tecnologico a cui corrisponde la formazione
di un’identità nazionale. Siamo così in una prospettiva in cui l’egemonia politica ed
economica passa anche attraverso le rappresentazioni culturali che le nazioni europee
stanno costruendo intorno anche ai grandi musei nazionali. Uno degli antagonisti di
Morelli è Van Bode, fondatore del Bode Museum. Un altro degli antagonisti di Morelli
veniva dall’area anglosassone ed era Giovan Battista Cavalcaselle, che vive da esule in
Inghilterra e che è molto legato anche a un’ondata di collezionisti e mecenati che sono
molto vicini alla National Gallery, che lavorano sostenendo anche economicamente gran
parte della ricerca dei funzionari della galleria per acquisire nuove opere della collezione
nazionale e quindi in qualche modo lo scontro in area anglosassone tra Cavalcaselle e
Morelli dev’essere letto dal fatto che in gioco ci sono dinamiche che rappresentano un
mondo in fermento che è questo legato al discorso sull’arte e che passa pure attraverso la
politica, perché molto spesso sono anche i consoli e le rappresentanze diplomatiche
all’estero che consentono il passaggio e il perfezionamento di opere in particolare in Italia.
Quando Berenson comincia ad accreditarsi come conoscitore, e quindi decide di non fare
più romanziere e poeta, ma decide di fare il conoscitore, c’è un nuovo attore sul mercato
dell’arte che però è interessato allo stesso oggetto del desiderio cioè il Rinascimento.
Questo nuovo attore aumenta e moltiplica gli scambi sul mercato dell’arte, anche grazie ad
un maggiore potere economico, perché è quella generazione di tali che hanno formato il
loro patrimonio con la fine della guerra civile in America, che hanno investito ad esempio
nelle miniere, e quindi parliamo di grandi industriali, alcuni dei quali come il marito della
Isabella prima citata che si occupa di esportazioni nel mondo minerario, delle ferrovie e
anche in società che fanno esportazione. Tra questi nuovi collezionisti c’è Morgan, che sarà
uno dei finanziatori cruciali del Metropolitan Museum di New York. Morgan era banchiere
potente al punto tale da salvare Boston dalla bancarotta. Al famoso collezionista Frick è
dedicata la Frick Library a New York, che è una delle più grandi biblioteche di storia
dell’arte. A Baltimora c’è la collezione Walters. A tutti questi nomi sono legate anche le
collezioni dei grandi musei, tutti nomi che mettono insieme le loro collezioni più o meno in
questi anni. Berenson lavora un po' per tutti questi collezionisti, lavora per Frick, Morgan,
Walters, Cress. Se dobbiamo sintetizzare per immagini il lavoro di Berenson la collezione di
pittura italiana dell’Isabella Stuard Gardner Museum è utile; non aderisce perfettamente a
lui, ma restituisce proprio uno scambio che è anche intellettuale, ma anche economico. Su
Berenson ha gravato per lungo tempo anche l’ombra di aver lavorato così tanto sul
mercato dell’arte, e soprattutto di essersi legato alle più importanti case d’asta del tempo,
quindi Kristiss senz’altro, ma soprattutto lui era molto legato al famosissimo mercante
Gavin la cui collezione è stata integrata nella national Gallery di Washington. Il
riconoscimento per Berenson arriva tardi perché ha lavorato molto per i mercanti d’arte.
Famose le lettere tra lui e Berenson perché a lei vengono a dire che lui prende soldi sia dal
mercante sia dal collezionista a cui vende. E lei dice che su questo bisognava un po'
intendersi, non lo faceva solo lui, però questo non rassicurava il collezionista. C’è un
conflitto d’interessi. Il rapporto con il mercato anche in maniera funzionale è stato spesso
utilizzato dagli storici dell’arte italiana per negare la sua possibilità di fare storia dell’arte.
L’impegno accademico tarda perché si poneva come un conoscitore. Berenson va ricordato
per la fortuna del rinascimento e per la capacità di mettere insieme l’interesse per la forma
e l’affinamento
dell’occhio del conoscitore per risolvere i singoli casi attributivi. I libri più famosi suoi sono i
tre volumi dedicati ai pittori italiani del rinascimento ed escono tutti e 6 insieme dal 36 in
un volume unico ma Berenson li pubblica nel 1894 come i saggi dedicati alle singole scuole,
e allora pubblica per primo un libro sulla pittura veneziana, poi ne pubblica un secondo nel
1896 sui pittori fiorentini del rinascimento e poi invece ne pubblica un terzo sui pittori
dell’Italia centrale, ma anche sui pittori dell’Italia settentrionale del rinascimento. Il primo
uscirà nel 1894-95, l’ultimo esce nel 1907-08. Per tutto questo tempo lavora a questo
progetto. Scrive per tutta la vita la biografia su lorenzo lotto che in qualche modo ha
scoperto e riportato all’attenzione degli studi. Scrive una monografia su caravaggio, scrive
su Piero della francesca, scrive una bella monografia su sassetta, ed anche in questo caso è
un’occasione di riscoperta di quest’artista, ma sicuramente il suo nome è legato a quelli
che furono definiti i 4 vangeli della storia dell’arte italiana o come li ricordava longhi
l’orario ferroviario dell’arte italiana, perché questi libri erano organizzati così. A partire dal
1894-95 quando esce il libro sui pittori veneziani del rinascimento Berenson divide il suo
lavoro in due parti che corrispondono a questi due momenti della sua formazione. C’è una
parte che è una sintesi storica, la storia della scuola veneziana in pittura A partire dal primo
400, cioè dalla fine del 300 fino ai grandi maestri del rinascimento maturo con qualche
piccola digressione fino a Tiepolo. Questa storia della scuola pittorica veneziana è
organizzata da berenson intorno ad un concetto chiave che per Berenson caratterizza
quella scuola pittorica e che ha a che fare appunto con il linguaggio specifico della pittura
della scuola veneziana. Il colore diventa una categoria intorno alla quale Berenson
ricostruisce tutta la storia della scuola veneziana. Accanto a questa sintesi storica che
presenta anche una visione, una prospettiva che legge tutti i risultati della scuola veneziana
di pittura, Berenson aggiungeva delle liste, degli elenchi che sono invece il risultato del suo
lavoro di conoscitore, cioè sono degli elenchi che riportano per ciascun artista della scuola
veneziana di pittura il catalogo con le novità attributive. Questa è la parte che longhi
chiamava l’oracolo della pittura italiana, perché sono delle liste, degli elenchi in ordine
alfabetico in cui a ogni nome corrispondono i vari dipinti che Berenson aggiornerà
costantemente dopo decine di edizioni.

LE CATEGORIE DI BERENSON
La storia della pittura del rinascimento di berenson è una storia fatta per scuole regionali.
C’è la macroarea dell’Italia centrale che fa capo a Firenze e poi c’è quella dell’Italia
settentrionale con mantegna ad esempio. Le chiavi più famose del suo discorso sull’arte
sono quelle individuate per la pittura fiorentina del rinascimento. Questa pittura fiorentina
come da tradizione comincia con Giotto e finisce con Michelangelo. Secondo berenson si
articola intorno ad una categoria formale che riguarda lo specifico linguaggio della pittura
che Berenson definisce i valori tattili. Questa formuletta dei valori tattili è la formula per
cui berenson è famoso nella storia dell’arte. È la capacità di rendere col disegno i volumi
dei corpi, la massa e tutta la terza dimensione. Sono valori che parlano alla vista ma che
attraverso la vista stimolano il tatto e dunque la nostra capacità di rendere la terza
dimensione, perché berenson ci ricorda che noi ci orientiamo nello spazio perché agli
stimoli visivi corrispondono stimoli che attivano gli altri sensi. Quando vediamo oggetti si
attiva una specie di tatto immaginario così da riconoscerne le forme tridimensionali e la
consistenza fisica. Ne diamo un peso, un volume. Questa capacità, che è tutta fiorentina
secondo berenson perché naturalmente ha a che fare con la centralità del disegno e con
quel famoso progetto mentale alla base, e cioè la capacità di rendere la terza dimensione e
di farci sentire la massa berenson la sintetizza da questo momento in poi nei valori tattili,
che sono dunque una categoria della forma e riguardano il linguaggio specifico della
pittura e hanno a che fare con il modo in cui l’artista utilizza i suoi propri strumenti della
pittura, cioè il modo in cui è in grado di mettere in forma cose. Si forma su morelli e pater,
scrive cataloghi e inventari Berenson, quindi vere e proprie liste dei pittori italiani del
rinascimento, mentre invece la storia, la sintesi è affidata al saggio vero e proprio che lui
discute in un resoconto, una visione ampia della storia dell’arte e della pittura italiana del
rinascimento che però lui distingue per scuole regionali, immaginando che ogni scuola
regionale si chiarisca alla luce di una chiave, di un concetto, di una categoria che è quella
della forma, perché appunto quella scuola regionale mette in forma in quel modo. I
veneziani per il colore, i fiorentini per i valori tattili, i pittori dell’Italia centrale per la
composizione spaziale come perugino e Raffaello, l’Italia settentrionale per esempio per
un rapporto molto diverso rispetto a quello dei fiorentini con l’antico (per es mantenga che
dice di essere un artista arcaista per i rapporti con l’antico). Insomma ogni scuola regionale
ha una chiave che però è una chiave che identifica le scelte formali e il linguaggio formale
specifico, la capacità specifica di quella particolare scuola pittorica. Ai veneziani non
interessano i valori tattili, ai fiorentini non interessa il colore, i pittori dell’Italia centrale
sono interessati spazialmente alla resa dell’ambiente e del rapporto dell’individuo con
l’ambiente, gli artisti dell’Italia settentrionale sono in dialogo con l’antico che però è un
dialogo speciale. Le liste, l’orario ferroviario viene dalla lettura di morelli, mentre
l’attenzione alle categorie della forma deriva soprattutto dalla lettura di pater, che da non
storico dell’arte se lo inventa il catalogo su Giorgione. Berenson mette insieme invece la
competenza alla luce della sensibilità della forma.

VALORI TATTILI E SPETTATORE: RAPPORTO E FORMALISMO


Nei suoi saggi Berenson dice che le categorie della forma intorno a cui lui costruisce la sua
visione storica di ogni scuola regionale italiana hanno un fondamento anche
nell’esperienza dello spettatore. Non sono solo una scelta che fa l’artista, il quale li mette
in campo, ma quei valori tattili sono quelli che consentono allo spettatore di avere
l’esperienza dell’arte. C’è uno scambio tra il linguaggio della forma che utilizza l’artista e la
fruizione dello spettatore quando riconosce questo linguaggio della forma e lo riconosce
inconsapevolmente (non perché sa che esiste ma perché questo linguaggio della forma
parla alla sua sensibilità). I valori tattili sono quei valori della forma che il pittore sa mettere
in campo perché sono il suo modo di rappresentare la terza dimensione. Nello spettatore,
attivando immediatamente la sensibilità del fatto, cioè della terza dimensione, gli
consentono di avere un’esperienza estetica, cioè gli consentono di comprendere
pienamente non il soggetto rappresentato, ma il linguaggio della forma. Per comprendere
tale linguaggio non c’è bisogno secondo Berenson né di conoscere il soggetto né di esser
colti: tutti noi possiamo avere esperienza estetica perché quando gli artisti mettono in
campo queste categorie fanno appello alla nostra immediata sensibilità. Quello dello
spettatore non è un processo intellettuale (che però porta piacere dell’esperienza
estetica), ma è un processo che parte dall’immediata sensibilità. Noi non sappiamo
nemmeno come si avvia tale processo, ma si ad esempio perché un pittore è stato in grado
di utilizzare i
valori tattili e più è stato bravo in questo, utilizzandoli con competenze, più fa godere
l’osservatore immediatamente del dipinto, non perché ha avuto una formazione specifica
o perché qualcuno gliel’ha spiegato, ma semplicemente perché la sua sensibilità
automaticamente si attiva. Da questo punto di vista gli spettatori più o meno sono tutti
uguali. Se si tratta di rispondere con una sensibilità che non è culturale, ma è proprio una
sensibilità, cioè come il nostro occhio manda segnali ai nostri sensi e quindi al tatto in
particolare. Se funziona così gli spettatori possono tutti avere esperienza piena dell’arte.
Questo principio deriva dai principi cerebrali della fortuna del formalismo, cioè quel
discorso sull’arte che per tutto il 900 si occupa delle categorie della forma come possibilità
democratica di accesso all’arte. Dire che un’opera d’arte è un’opera d’arte non perché
rappresenta un determinato soggetto, ma perché è costruita con un linguaggio che parla
immediatamente ai nostri sensi vuol dire consentire o immaginare l’accesso all’esperienza
dell’arte a tutti quanti, che non necessariamente devono conoscere il soggetto
rappresentato, perché questa è solo una questione culturale. Berenson pensa che questa
possibilità riguardi la produzione dell’arte in generale, non solo quella del Rinascimento,
cioè la possibilità di avere una piena esperienza estetica dell’arte non per quello che
sappiamo ma semplicemente per quello che sentiamo. La nostra esperienza è aiutata dal
riconoscere il soggetto rappresentato. Noi ci sentiamo sempre più confortati quando
conosciamo la storia, ma anche quando non riconosciamo la storia il fatto che ci siano
figure umane, animali, uno spazio più o meno comprensibile e misurabile da parte nostra
ci conforta molto. È anche vero però che questo (e lo si dice dal punto di vista dei
formalisti partendo da berenson ad esempio) è però un fatto culturale, perché questo ci
rende diversi. Se esiste veramente una categoria della forma che accende la nostra
sensibilità, una sensibilità immediata che attiva innanzitutto la nostra psico-fisiologia, cioè
la nostra testa no, ma proprio come funzionano i nostri sensi, dovremmo avere la stessa
esperienza dell’arte, godendone tutti e due, indipendentemente ad esempio dal diverso
credo se io sono cattolico e tu sei buddhista. Il riconoscimento del soggetto aggiunge un
piacere in più perché è anche un piacere culturale, ma in teoria l’idea del formalismo,
l’idea di berenson più in generale del discorso intorno al formalismo che determinerà tutto
il discorso sull’arte da questo momento in poi, coinvolgendo anche le avanguardie e i loro
artisti, è che il linguaggio della forma è più democratico, perché ci rende uguali, dando a
tutti la possibilità di rispondere e non si basa sul soggetto, che c’è ovviamente, dà un
piacere in più ma non è così centrale. Berenson è stato considerato dalla generazione di
intellettuali anglosassoni che andava in Francia a vedere matisse e Cezanne in quegli anni
come un faro perché hanno immaginato che quelle categorie della forma liberassero una
volta per tutte il discorso sull’arte dal problema del soggetto. Con le avanguardie viene
meno la centralità del racconto. Ma non esiste comunque un’arte senza soggetto, mentre
il racconto può non esserci.

COME REAGISCE IL PUBBLICO INGLESE ALLA NUOVA ARTE?


Il pubblico anglosassone nel 1910 ha lo shock della mostra del postimpressionismo. Il
pubblico anglosassone aveva da poco cominciato a digerire gli impressionisti, il movimento
dei quali era già finito all’epoca della sua digestione e del suo ingresso in un canone da
parte del mondo anglosassone, perché fino a poco prima agli impressionisti loro
preferivano ad esempio i pittori della scuola di Barbizon, cioè proprio quelli contro cui
andavano gli impressionisti. Nel 1910 a londra cezanne è famoso, gli si riconosceva una
qualità ma sicuramente non rientrava ancora nei canoni moderni come nel caso del
postimpressionismo, sicuramente prima del 1910 il pubblico ampio a Londra non aveva
immaginato che da Manet si potesse finire a Picasso e Matisse. Manet loro lo conoscevano
bene, ormai nel 1910 era un artista storicizzato e familiare e la grande intelligenza degli
organizzatori di quella mostra è proprio partire da un artista familiare, quindi confortevole
come ormai era diventato Manet nel 1910 e dimostrare che da quello si finisce a Picasso e
Matisse e che il centro di questo è Cezanne, che loro conoscevano, ma che consideravano
per esempio un impressionista, quindi lo mettevano insieme agli impressionisti. E invece
nel 1910 gli spiegano che non è un pittore impressionista, ma che anzi le sue vicende
vanno in un’altra direzione, vanno ad esempio nell’attenzione della forma. Il racconto tutto
sommato è molto confortevole perché parla con familiarità di cose che i collezionisti
stanno raccogliendo. Si misura la qualità di questi nuovi artisti sulla capacità di lavorare
sulle categorie della forma, cioè su un linguaggio specifico della pittura, che rende la
pittura tale e non poesia e letteratura o filosofia. Ecco come i giovani intellettuali che
leggevano berenson dimostrano che tutto il suo discorso detto prima si può applicare non
solo al Rinascimento ma anche alle novità artistiche. Loro infatti avevano letto in Berenson
la possibilità di giustificare con quelle categorie della forma l’arte contemporanea, cioè di
poter raccontare l’arte contemporanea attraverso le categorie della forma, una volta che
queste categorie della forma erano state sdoganate tutto sommato per esperienze così
confortevoli come quelle del rinascimento italiano. E quindi berenson diventa di
riferimento per es per quella generazione di intellettuali che a Londra (come roger fry) si
inventa la mostra dei postimpressionisti. Loro lo leggono, si conoscono, tra l’altro lui è un
grande conoscitore ed esperto del rinascimento italiano prima di impazzire per le
avanguardie (come diranno i suoi ex sostenitori). I giovani in quegli anni pensano che lui
abbia la chiave per spiegare l’arte contemporanea, quello che sta accadendo e che è già
successo in Europa, partendo dalla facile e confortevole posizione del Rinascimento
italiano. Se la gente lo capisce per il rinascimento lo può capire anche per l’arte
contemporanea, un’arte che progressivamente elaborava a distruggere la figurativa.

RAPPORTO TRA BERENSON E FRY


Saggi di storia e teoria dell’arte sono da considerarsi quelli di Berenson perché chiariscono
le ricerche di una determinata scuola pittorica del rinascimento italiano intorno a
categoria formale che secondo lui corrisponde ai problemi della forma che queste
particolari scuole regionali di pittura si sono poste. La categoria dei valori tattili inventa lui
ed è fondata sul disegno e riguarda la capacità di restituire massa, volume e terza
dimensione. Queste categorie della forma chiamano in causa il ruolo dello spettatore,
perché l’idea di berenson è un’idea che piacerà ai giovani che cominciano a propagandare
anche nei paesi anglosassoni le sue teorie. Il riconoscimento del soggetto dell’opera per
berenson si aggiunge all’esperienza estetica ma non è necessario, è solo una possibilità in
più di godere della pittura ma non ha nulla a che vedere con la pienezza dell’esperienza
estetica che passa invece attraverso il meccanismo psico-fisiologico della visione che attiva
gli altri sensi e ci restituisce quindi un’esaltazione vitale, la capacità di sentire la nostra
sensibilità più potente rispetto a tutto quanto ci succede nell’esperienza di vita. Questa
visione è una visione che piace a quegli intellettuali più giovani che per esempio
soprattutto nel mondo
anglosassone stanno lavorando per portare le novità delle avanguardie. Il primo libro di
berenson esce nel 1894-95, il secondo nel 96 (quello sui pittori fiorentini del rinascimento)
e molte esperienze come quella impressionista sono già chiuse, ma il pubblico
anglosassone, inglese e soprattutto americano (quello a cui berenson si riferiva), non
l’aveva ancora del tutto digerito. Più giovani ebbero fiducia in lui, come per esempio gli
organizzatori a londra della prima e della seconda mostra del postimpressionismo, la
prima del 10 e la seconda del 15. L’organizzatore della mostra è Roger Fry che ha una
formazione non troppo diversa da berenson, pur essendone più giovane, si è formato sui
volumi di berenson e anche nella sua biblioteca loro hanno un rapporto diretto. Immagina
di ricavare dalla lezione di berenson anche gli strumenti per mettere a sistema un metodo
di analisi e anche un metodo di parlare delle opere d’arte che possa avvicinare il pubblico
non tanto ai pittori italiani quanto alle novità dell’arte europea tra il 1880 e il 1910.
Berenson per esempio apprezzava moltissimo cezanne ma non sarebbe andato oltre
rispetto a questo tradendo le aspettative di chi come roger Fry immaginava di trovare un
sostenitore accanto a lui per il linguaggio del modernismo e del postimpressionismo.

Berenson esercitò una vasta influenza sugli studiosi del tempo a villa Tatti a Settignano
Firenze, tra cui Pietro Toesca. In questo momento storico però le riflessioni sull’arte
erano cambiate: l’arte era sempre più vista come una manifestazione dello spirito. Pietro
Toesca (1877-1962), un medievista molto interessato alla storia. La sua teoria consisteva
nella necessità di analizzare l’opera sia nella sua forma ma anche nella sua interezza,
ovvero nello spirito. Coniugò la tradizione del Cavalcaselle e di Luigi Lanzi della
connoisseurship insieme allo studio delle fonti antiche. Di Morelli condivideva l’assioma
prima conoscitori poi storici. Ricorreva allo studio dello stile e alla ricerca iconografica,
ma anche ai contesti. Era anche lui ispirato alle teorie crociane sull’arte: unione tra
percezione estetica e ricostruzione storica. Secondo T. lo stile cambia in continuazione e
rifiuta il concetto di decadenza. Inoltre rifuggiva dall’esprimere giudizi di valore. Il suo
volume "La pittura e la miniatura nella Lombardia fino alla metà del quattrocento"
ricostruì per la prima volta il quadro dell'arte figurativa lombarda del medioevo,
definendone l'importanza riguardo all'intera Europa.. Riteneva che le invasioni
barbariche non fossero state così determinanti nell’arte del medioevo, piuttosto il
cristianesimo. Egli individuò (come Schlosser) che la genesi dell’arte del medioevo (lo
stile internazionale) andasse ricercata nell’area lombarda e i rapporti di questa con la
Francia. Si profila una ricerca che vede un nesso tra arte e sentimento religioso e
soprattutto un superamento dell’apologia dei fatti. Roberto Longhi (1890-1970) (vedi
pdf) grande protagonista della critica stilistica del 900, aveva studiato alla scuola di
Adolfo Venturi ma ampliando la sua ricerca all’arte lombarda come Toesca, distaccandosi
quindi dalla visione fiorinocentrica. Rivendicava la grandezza di pittori al di fuori di questo
canone. Per Longhi l’opera d’arte era pura forma, era la materializzazione dello spirito in
un quadro. Il suo primo obiettivo era rintracciare l’intuizione profonda che aveva portato
l’artista a formare la sua opera comprendendone a fondo la cultura. Ogni indagine
muoveva dalla storia della critica per capire il contesto anche critico in cui era vissuto un
artista. Contestava quella visione monolitica che univa rinascimento a classicismo e anzi
era alla ricerca delle correnti anticlassiche del 400 e 500. Partiva dallo stile per decifrare
tutto il resto. Identificò opere di autori marginali (attribuzione dell’Annunciazione a Carlo
Braccesco, pittore ligure). Il suo studio comunque non mirava
solo alle attribuzioni ma piuttosto quello che lo interessava maggiormente era il linguaggio
letterario in grado di descrivere l’opera d’arte. La storiografia artistica del tempo era molto
criticata e per questo definita critica estetizzante (cioè priva di contenuti). Egli cerco di
superare questa vulnerabilità con un linguaggio espressivo e meno evocativo con una
folgorante equivalenza tra immagine e scrittura. Molti furono gli studiosi che si
avvicinarono all’arte Rinascimentale italiana, due grandi conoscitori furono Popham,
britannico e Wilde ungherese, essi guardavano molto anche ai restauri secondo gli
insegnamenti di Friedlander. Essi promossero uno stile di storiografia molto attenta
all’osservazione diretta delle opere. La grammatica delle forme: pluralità di percorsi. Nella
prima metà del 900 cresce la partecipazione alle mostre e ai musei e crescente è la figura
dell’intermediario: era urgente creare un metodo per coinvolgere un pubblico colto ma
non necessariamente esperto. Roger Fry (1866-1934): in questo fu un maestro, le sue
conferenze accrebbero di molto l’amore per l’arte. Prima di lui solo Ruskin aveva inciso
profondamente sulla mentalità del pubblico. Fry attuava un analisi formale: cercava di
analizzare i dipinti da un punto di vista formale per delinearne l’aspetto qualitativo
escludendo in questa analisi il soggetto, ovvero il contenuto. Per lui la forma aveva un
significato, la forma trasmetteva un emozione: appunto la forma-significante. In questo
modo trovava corrispondenze anche tra artisti lontani nel tempo, come ad esempio gli
antichi maestri e le avanguardie artistiche del 900. Lionello Venturi (1885-1961) figlio di
Adolfo, era sicuramente un conoscitore, ciò che reputava un requisito di base per un
critico d’arte. Egli si specializzò molto nell’arte contemporanea. Come Berenson intravide
un profondo collegamento tra l’arte dei primitivi (Giotto, Botticelli) con gli artisti della
seconda metà dell’800 (impressionisti, postimpressionisti) ciò che li accomunava era la
libertà creativa, il rifuggire dall’imitazione della natura per esprimere umanità, vita, poesia.
Una sua opera fu Il gusto dei primitivi (1926). Il gusto per L. Venturi era la sintesi delle
preferenze di un artista nei confronti della cultura visiva del proprio tempo quindi il gusto
era il fattore che legava gli artisti alla propria epoca. Venturi fece suo un assunto di Croce e
cioè che la storia della critica d’arte fosse legata indissolubilmente alla storia dell’arte. Fu
molto attratto anche dagli schemi di Wölfflin soprattutto per interpretare l’opera ma non
per fare delle categorie estetiche. Scrisse la Storia della critica d’arte nel 1936, una storia
delle idee estetico-critiche sull’arte. Nonostante queste innovazioni da parte della
moderna critica d’arte, la cultura ufficiale in Europa seguitava a celebrare il classicismo e la
tradizione. Solo negli Stati Uniti il clima culturale era diverso. A New York vennero aperte
molte gallerie private: Le mogli e le figli dei banchieri e degli imprenditori delle industrie
dell’arte americana (Rockefeller, Mary Sullivan e Lillie Bliss) fondarono il MOMA,
inizialmente affidato ad Alfred Barr, giovane critico d’arte. Il museo ospitava opere di
pittura, scultura, disegni, stampe, fotografie, design e arte industriale etc. prima mostra su
Cezanne, Van Gogh, Seurat e Gauguin. BARR studia ad Harvard, legato all’estetica di
Ruskin, legato al formalismo. Autopsia delle opere dal vivo. Seguiva il metodo Fogg
prestava molta attenzione al materiale, al colore e alla composizione delle opere; l’analisi
era condotta tramite i raggi X (per la prima volta usati al Fogg Museum). Anche Barr si
soffermò sulla sintonia formale tra i “primitivi”, gli espressionisti tedeschi, Kokoschka,
Durer e Holbein.
Negli anni ’20, il Nordamerica diventa un polo di attrazione per l’intellighenzia europea
antifascista.
LA “STORIA DELLA CRITICA D’ARTE” DI LIONELLO VENTURI, SUO PADRE ADOLFO E
SCHLOSSER
Il ruolo che svolgono le istituzioni nella storia dell’arte è presente nella storia delle storie
dell’arte di pinelli, il nostro manuale, cioè esso tiene conto della storia delle istituzioni
dentro cui questo contesto del discorso sull’arte si muove. È una visione che corrisponde
alla disciplina della storia della critica d’arte che nasce come disciplina accademica alla
normale di Pisa con paola barocchi nel 1978. C’è un’attenzione tra il rapporto tra arte e
società, arte e politica con la crisi della storia dell’arte dagli anni cinquanta in poi. A partire
dall’immediato dopoguerra la casa editrice intensamente aperta alle novità dell’arte era
Einaudi che fa pubblicare il manuale di riferimento per ricostruire il discorso sull’arte
dall’antichità al novecento, di Lionello venturi: storia della critica d’arte. La disciplina è
tanto legata alla storia dell’arte che è difficile ricostruire chiaramente i confini rispetto a
quella considerata tradizionalmente la disciplina madre. Le due discipline si corrispondono
nella maniera più equilibrata. Gli storici dell’arte fanno sempre e comunque la storia della
critica d’arte. La storia delle attribuzioni legate ad un determinato dipinto diventano
necessariamente storia della critica d’arte o storia del discorso sull’arte. Lionello venturi è
figlio di adolfo venturi, il padre della storia dell’arte italiana e della sua trasformazione in
disciplina accademica. Ha una formazione filologico-storica, cioè è formato sul metodo che
è quello dei conoscitori del metodo attributivo, cioè del filone degli storici dell’arte che si
occupano delle questioni dello stile, del riconoscimento delle mani per costruire le serie
cronologiche con anche una grande attenzione alla lettura dei documenti di archivio per
esempio. Adolfo Venturi è il padre di una sistematizzazione in italia della storia dell’arte
secondo un metodo filologico-storico, cioè da un lato analisi dello stile e dall’altro lettura
di documenti d’archivio accurata a sostegno delle ricostruzioni storiche. Adolfo ha
collaborato con la riforma di gentile che rende l’arte obbligatoria nelle scuole di secondo
grado, fonda a roma contemporaneamente la prima scuola di perfezionamento in storia
dell’arte, una svolta non da poco, perché a questo perfezionamento romano sotto la guida
di adolfo si formano i primi quadri dell’amministrazione di quelli che oggi chiamiamo beni
culturali e che prima erano belle arti e si formano con competenze specifiche di questo
lavoro con formazione necessaria per un funzionario della soprintendenza o per un
professore dei storia dell’arte all’uni, ad es., le competenze sono precise sia a livello
metodologico sia con una scelta precisa degli oggetti di studio. Da quando è attivo il
perfezionamento della storia dell’arte guidato a roma da adolfo i direttori, conservatori dei
musei in italia saranno storici dell’arte e non più poeti o artisti. Si moltiplicano anche le
cattedre universitarie e la ricerca: abbiamo così i primi storici dell’arte formati in maniera
scientifica, nascono le prime riviste scientifiche legate alla storia dell’arte. Lionello è figlio
di adolfo venturi e appartiene alla seconda generazione di allievi della scuola del
perfezionamento di roma. Segue gli insegnamenti del perfezionamento di Roma insieme a
Longhi: sono coetanei, hanno una formazione simile ma faranno scelte di metodo diverse.
Dopo il perfezionamento diventa scrittore, soprintendente e poi comincia ad insegnare
storia dell’arte all’università di torino secondo proprio quella definizione di carriera di
storico dell’arte che si viene a definire a partire proprio dalla scuola di perfezionamento di
roma. Lionello è antifascista per cui deve emigrare prima in Francia e poi all'università di
roma fonda una vera e propria scuola di storia dell’arte che parte proprio dal suo
orientamento e che arriverà fino ad argan che si forma proprio nella tradizione di Lionello
venturi e anche fino a pinelli autrice del nostro
Manuale. Lionello si forma col metodo filologico storico come storico dell’arte e
appartiene a quella generazione di intellettuali italiani che non si sono sottratti alla lezione
di benedetto croce, alla sua lezione estetica. Nella monografia su “giorgione e il
giorgionismo” venturi codifica la lezione di tono come elemento distintivo della pittura di
colore, in particolare della pittura veneziana e inventa la nozione “giorgionismo” per
indicare una vasta area di influenza di scelte giorgionesche di artisti anche lontani da
giorgione che però hanno assimilato da lui le modalità di dipingere e l’affezione del tono.
Poi scrive nel 36 due volumi su cezanne, perché Lionello si occupa anche dell’arte a lui
contemporanea. Gli studi su cezanne sono un enorme catalogo ragionato del pittore
francese. Si occupa dell’impressionismo, pubblica in francese gli archivi
dell’impressionismo, si occupa anche dell’educazione del pubblico a guardare la pittura
con l’opera come si guarda un quadro. "Da giotto a chagall”: gli interessi vanno dall’arte
Veneziana del rinascimento fino alla pittura moderna (impressionismo e cezanne) e lavora
a sostenere artisti a lui contemporanei scrivendo molto a lungo su di loro e crea
orientamenti all’arte italiana a lui contemporanea. “Il gusto dei primitivi” è un suo libro
famosissimo del 26 che mette in campo una nozione, quella di gusto, che vediamo tornare
declinata diversamente rispetto alla sua proposta anche dentro la nostra storia del
discorso sull’arte. Parlando di storia del gusto pensiamo a qualcosa di soggettivo o al gusto
collettivo legato alla fortuna o sfortuna di determinati artisti, quindi il gusto è
l’apprezzamento estetico ed esiste anche una storia del gusto. In questo volume venturi
non intende il gusto del pubblico, ma quello degli artisti come una nozione fondativa
anche dei processi artistici. Secondo Lionello quel gusto a cui lui pensa è un’attitudine degli
artisti verso le immagini dell’arte a loro contemporanea o del passato che istruiscono il
loro processo creativo. Quindi è il gusto degli artisti inteso come uno dei momenti centrali
intorno a cui si costruisce poi il processo creativo di un’opera d’arte e che può essere
rivolto tanto alla loro contemporaneità quanto invece alla rilettura di opere del passato.
Anche la letteratura artistica di schlosser è molto legata alla lezione di croce, la cui filosofia
è influente anche a livello europeo. Quindi venturi si lega a schlosser. Croce sarà tradotto
in tedesco anche grazie alla mediazione di schlosser e viceversa accade per schlosser.
Lionello ha una carriera tipica della sua generazione, visto che si forma alla scuola di
perfezionamento di roma, per cui prima si iscrive alle belle arti, poi è soprintendente, poi è
professore all’università di storia dell’arte. Vive a lungo in esilio da antifascista. Scrive il
gusto dei primitivi del 1926 in cui venturi fonda la nozione di gusto come un momento
centrale del processo creativo, gusto inteso come adesione alle immagini create da altri
artisti nel presente e nel passato che avviano il processo creativo di ciascun artista. La
frase nella foto di sopra è della rossi pinelli. Qualunque storia è sempre una selezione e
anche venturi ha un’idea in testa ben precisa quindi e la critica d’arte per lui sono idee
esteticocritiche. Seleziona voci di storici dell’arte che gli interessano. Il suo percorso
storico e teorico mirava a definire i canoni più adatti per esprimere i giudizi di valore, cioè
LA STORIA DELLA CRITICA D’ARTE di venturi per la pinelli è una storia di idee estetico-
critiche dall’antichità fino ai giorni di Lionello che vengono selezionate da lui con lo scopo
di fondare i principi quanto più possibile generali per la costruzione del giudizio critico, un
giudizio critico che sono principi che sono selezionati da venturi in base all’influenza che su
di lui ha l’estetica crociana e la sua formazione filologico-storica.
COINCIDENZA TRA CRITICA E STORIA E INFLUENZA CROCIANA IN LIONELLO VENTURI E
LONGHI
Longhi e lionello venturi appartengono a quella prima generazione strutturata di storici
dell’arte che si era formata presso la scuola del perfezionamento di Roma e che avviano
una carriera specialistica o nell’amministrazione di quelle che allora si chiamavano le belle
arti, o nell’università o in entrambe. Come lionello longhi fa parte della schiera degli
spiritualisti che subirono fortissima l’influenza innovatrice di Benedetto croce, e in
particolare con Lionello Longhi condivide (ma come tutta la sua generazione e quella
successiva, perché l’onda d’urto crociana in Italia si è sentita fino agli anni settanta) del
pensiero crociano quella corrispondenza e identificazione tra critica e storia. Per entrambi
critica e storia sotto il segno di croce si identificano, perché qualunque giudizio critico è
sempre storico e il giudizio storico è sempre presente e qualunque giudizio critico è anche
storico. Perciò storia e critica si identificano. Da questo punto di vista si giustifica la scelta
di venturi di scrivere il primo manuale di storia di critica d’arte. Inghilterra, Francia e USA
sono le tappe dell’esiliato venturi che era antifascista. Venturi si è occupato di arte antica
quanto di arte contemporanea orientando alcune delle tendenze, si è occupato di
impressionismo; tra i lavori più celebri suoi abbiamo quelli degli archivi
dell’impressionismo, una monumentale monografia su cezanne in due volumi e l’opera il
gusto dei primitivi. Sia venturi sia Longhi sono attivi sulle prime riviste specialistiche di
storia dell’arte legate sempre alle attività di ricerca, insegnamento e perfezionamento di
Roma. Venturi inizia a scrivere sull’archivio storico dell’arte, una rivista fondata e diretta a
lungo da Adolfo venturi che poi in continuità cambierà nome in l’arte e venturi sarà
associato alla sua direzione ad adolfo venturi e su tale rivista scriverà anche longhi. Il
cambiamento del nome della rivista riflette la forte influenza di croce su questa
generazione. Adolfo venturi immagina questa nuova rivista specialistica che gli serve anche
come banco di prova per le ricerche sue e dei suoi allievi con una rigorosa metodologia che
è quella da noi definita filologico-storica, cioè attenzione al dato di stile e alla lettura dei
documenti. Venturi sceglie un nome per la rivista che è archivio storico dell’arte italiana
che definisce subito la direzione metodologica, cioè archivio e metodo filologico storico.
Filologia nel senso di filologia intorno alle fonti e filologia dello stile, cioè confronti di tutto
ciò che è in una dimensione attributiva, confronto tra oggetti che hanno la stessa
dimensione cronologica e geografica fino a riconoscere la mano dell’artista. Archivio
perché chiama questa dimensione di studi filologico-storici che appartiene anche ad altre
discipline come lo studio della letteratura.
Ad un certo punto all’altezza dell’affermazione della generazione di venturi e Longhi la
rivista interrompe le pubblicazioni, cambia nome e si chiama l’Arte: cambiamento dietro
il quale c’è anche un cambiamento metodologico, perché alla ricongiunzione sui dati si
sostituisce un’idea di Arte che richiama molto a quella visione crociana per cui oggetti
d’arte non sono altro che la momentanea concretizzazione di un’immagine che però
appartiene al mondo dello spirito. Da questo punto di vista è anche incorruttibile e non
fa parte dell’attualità delle cose l’arte. Non è un caso che proprio sull’arte cominciano ad
uscire i primi interventi e le prime ricerche di lionello di storia della critica d’arte, perché
ormai questo cambiamento di nome della stessa rivista rispecchia anche un
cambiamento d’attenzione, un cambiamento metodologico, un nuovo atteggiamento
culturale che sostituisce in qualche modo l’atteggiamento ancora ottocentesco positivista
del metodo filologico-storico, cioè ricognizione dei dati, analisi dei dati, una ricognizione
di tipo
filologico-storico che serve per attribuire un determinato oggetto in una dimensione
appunto cronologica e spaziale, quindi ancora di impostazione positivista, con un diverso
atteggiamento culturale che ha a che fare proprio con la forte influenza di Benedetto croce
che va in una direzione più sensibile alle teorie dell’arte per esempio. Non a caso all’arte
verrà associato come direttore lionello venturi da un certo punto in poi, sull’arte scrive
anche longhi e sull’arte appaiono i primi studi di lionello venturi di storia della critica
d’arte. Ma longhi è molto attivo su tutte le rivista più e meno specialistiche. Dopo la
seconda guerra mondiale sarà uno degli intellettuali più sensibili alla necessità di
diffondere i risultati della ricerca (es- grandi mostre su Caravaggio e caravaggisti,
partecipazione sua ad un’impresa editoriale per il pubblico ampio come I MAESTRI DEL
COLORE).

Henri Focillon (1881-1943) era un formalista e aveva trovato un punto di riferimento


nell’estetica di Ruskin. Le sue analisi si concentravano sugli aspetti formali dell’opera in cui
vedeva l’espressione di una serie di stratificazioni storiche che la condizionavano. Quindi
l’immagine dell’opera cioè la sua forma era condizionata dai materiali, dalla tecnica, dalla
destinazione d’uso. Egli così contraddiceva la diffusa certezza del tempo che vedeva ogni
epoca connotata da uno stile che ne esprimeva lo spirito poiché considerava la storia
appunto piena di stratificazioni quindi sosteneva che parecchi stili possono convivere
contemporaneamente. Fece una analisi molto innovativa dell’arte romanica in cui vedeva
un rapporto tra scultura e architettura in cui la scultura era condizionata dall’architettura
nel proprio stile (es. i capitelli). Nella sua ricerca erano fondamentali la cronologia e la
natura del tempo storico. Insieme al fattore tempo, vi era anche il fattore spazio e forma al
centro delle sue riflessioni. Era in linea con Croce per la repulsa dei nazionalismi culturali e
dell’equivalenza razza-produzione artistica di un popolo. Successe a Male alla cattedra
della Sorbonne per la storia dell’arte medievale. F. riteneva che gli storici dell’arte erano i
soli a dover gestire i musei per le loro competenze. Egli ricercava dunque una terza via:
destinare i musei a un ampio pubblico, non solo artisti e storici, non erano sufficienti
cartellini e pannelli esplicativi; si esigeva un a più adeguata esposizione espositiva;
andavano aboliti tessuti e decori dalle pareti e sostituiti da quelli chiari per non distrarre lo
sguardo e differenziazione del museo per percorsi a seconda delle esigenze del pubblico. Il
modello finora usato era quello di Von Bode di Berlino, in cui si mettevano dipinti su due
registri e sale che accoglievano sculture, arredi, oggetti, quadri appartenenti allo stesso
stile. Proust infatti diceva che erano troppo simili alle dimore private e che, al contrario,
dovevano essere essenti di ogni particolarità. Focillon scriveva anche di arte
contemporanea. Heinrich Wölfflin (1864-1945) svizzero tedesco, fu uno dei massimi teorici
dell’arte come forma tra 800 e 900. Nella sua opera Concetti fondamentali della storia
dell’arte, egli sosteneva l’evoluzione degli stili in relazione al susseguirsi di differenti modi
di vedere il mondo, la Weltanschauung. Analizzò le trasformazioni avvenute tra
Rinascimento e Barocco attraverso cinque coppie di schemi formali, in antitesi tra loro: dal
lineare-pittorico alla superficie-profondità, dalla forma chiusa alla forma aperta, chiarezza
assoluta e chiarezza relativa. Il Rinascimento era lineare, il Barocco era pittorico. Egli
aspirava alla scientificità.
Ribadiva che il barocco era profondamente anticlassico e per questo molto vicino allo
spirito “nordico” (ricerca di una corrispondenza tra razza e cultura molto di stampo
tedesco).
il metodo storico nel cuore della ricerca.
Primo trentennio del 900 In seguito alla Grande depressione (1929-31)
la connoisseurship conobbe una fase di crisi. I grandi collezionisti cominciarono a diffidare
delle attribuzioni e si rivolsero a dipinti più sicuri come quelli degli impressionisti. Nel
campo della storia dell’arte era già abbastanza consolidato il metodo storico ovvero una
ricerca fatta sui documenti d’archivio. Affianco a questa vi erano altri indirizzi articolati in
varie direzioni. Uno di questi fu quello di Jean Locquin che si era opposto all’enfatizzazione
degli artisti di particolare genialità come gli unici in grado di determinare uno stile,
dimostrando al contrario che ciò avveniva anche in modo corale. Analizzò le opere di David
che era considerato dagli studiosi colui che aveva dato inizio alla modernità. Egli dimostro
che l’opera del pittore era il risultato di una particolare congiuntura storica che aveva
radici lontane. Nei primi decenni del 900 comunque stava maturando un gran
cambiamento delle discipline storiche: insofferenza verso la supremazia della storia politica
ed espansione di altre discipline come la sociologia, l’antropologia, la filologia, storia della
cultura (es. Max Weber, Durkheim). In Francia Lucien Febvre e Marc Bloch si posero
criticamente verso la storiografia tradizionale e fonderanno una rivista (ANNALES) che
segnò tutta la storiografia del 900 in cui proponevano un approccio multidisciplinare.
Quindi si moltiplicavano gli indirizzi della storiografia e così anche per la storia dell’arte.
Emile Male poneva al centro dell’attenzione il fatto che le iconografie sacre che erano
molto influenzate dal contesto religioso di una determinata epoca in un determinato luogo
le opere infatti dovevano essere osservate nei loro contesti (come un secolo prima aveva
sostenuto Quatrèmere de Quincy). La storia dell’arte quindi cominciava a vedere una forte
connessione tra storia delle idee e produzione artistica. Max Dvorak (1874-1921) boemo
ma opera in ambito viennese, spingeva per un ampliamento degli strumenti di ricerca.
Condannava la storiografia positivistica. Era un eccellente conoscitore, e l’osservazione
delle opere partiva da un analisi stilistico formale (vicini a lui Wickhoff e Riegl). Sosteneva
che non bisognava dare giudizi di valore: l’arte è in primis espressione delle idee che
dominano l’umanità. Il metodo doveva analizzare gli aspetti formali per arrivare a
percepire la visione del mondo in esse contenuta. Egli metteva in relazione gli aspetti
formali con quelli legati alla storia culturale. A lui stava a cuore soprattutto la storia delle
idee. Sostenne che la visione del mondo (Weltanschauung) del Medioevo era rilevante
come le epoche precedenti e successive. D. quindi segnò profondamente la visione del
Medioevo che avevano i contemporanei e anche del manierismo. Julius von Schlosser
subentrò a Dvorák nell’insegnamento nel 1922. Fu uno dei storiografi più completi del 900
e a lui si deve la realizzazione della storiografia artistica molto ampia e dettagliata. Vicino a
Croce, egli apportò un profondo mutamento al concetto di fonte. Egli le analizzava non
solo da un punto di vista delle informazioni ma anche sul piano formale, cioè per quanto
riguarda le implicazioni teoriche ed estetiche in relazione ai contesti storici di provenienza.
Il suo testo La letteratura artistica consisteva in una storia della storiografia e della teoria
dell’arte dall’antichità fino al 700, concepito con spirito filosofico. Vi erano forti legami tra
gli studiosi di Vienna e quelli attivi ad Amburgo. Qui era presente Warburg e la sua
biblioteca. Aby Warburg (1866-1929) era allievo di Dvorak e di Schlosser. La sua attenzione
per documenti e materiali che normalmente non rientrano nello studio della storia
dell’arte, e un metodo che supera i tradizionali confini fra discipline, contro una lettura
puramente estetizzante dell’opera artistica, inaugurano il filone di studi dell’iconologia. Egli
intravedeva
una continuità ininterrotta nelle diverse fasi della storia dell’umanità. Le forme erano
portatrici di significati affermava, immagine e significato erano un'unica cosa. La sua
biblioteca fu un vivacissimo crocevia di incontri e riflessioni. La biblioteca ha caratteristiche
peculiari, perché è organizzata secondo un ordine a scaffale che non rispetta i normali
criteri, ma è basato sulle associazioni di idee. Vicino a un libro, dunque, non troviamo libri
dello stesso argomento, ma libri legati a 30 quello da nessi associativi che è nostro compito
riconoscere se vogliamo svolgere una ricerca. La biblioteca consiste, infatti, nel lasciarsi
guidare dalla biblioteca stessa attraverso le associazioni di idee, il che porta anche a creare
nessi che si sarebbero altrimenti tralasciati. Gli studiosi legati all’ambiente warburghiano
sostenevano studi umanistici, interdisciplinarietà della ricerca, iconografia e studio del
significato simbolico. Fu definita la Scuola di Amburgo. Diaspore e rinascite intorno al 1945

Stati Uniti: proficui innesti culturali tra profughi e studiosi locali


Gli USA aprirono le porte agli esuli del nazismo, si creò così un gruppo di intellettuali storici
dell’arte profughi in collaborazione con gli studiosi locali. Erwin Panofsky 1892-1962 fu
uno di questi. Chiamato da Walter W.S. Cook alla New York University. Cook sosteneva che
Hitler fosse il suo miglior collaboratore in quanto scrollava l'albero, e lui raccoglieva le
mele. Il cosìdetto “dono di Hitler all'america”. Panofsky è considerato il fondatore della
disciplina dell'iconologia, un continuatore dell’opera di Aby Warburg. I due punti chiave
della sua dottrina: la critica nei confronti della critica formalista e delle teorie di Wölfflin, e
la considerazione secondo la quale un’opera d’arte racchiude elementi che rimandano al
sostrato culturale di una società. In sostanza, per Wölfflin sarebbe l’evoluzione del modo di
vedere di una società che porterebbe all’evoluzione delle forme artistiche: lo stile,
insomma, sarebbe guidato dai mutamenti delle epoche e dei luoghi, che cambiano il modo
in cui gli artisti vedono la realtà. Per Panofsky, tuttavia, si pone un problema: l’occhio, in
quanto mero strumento percettivo che registra ciò che vede, non è in grado di rielaborare
da solo ciò che ha davanti a sé. L’occhio, in altri termini, non può conoscere da solo le
cinque categorie di opposti introdotte da Wölfflin. Si rende perciò necessario l’intervento
di una sorta di “intermediario” tra l’occhio e l’opera d’arte: questo elemento è ciò che
Panofsky chiama la “psiche”, il mezzo che consente all’artista di interpretare le immagini
che l’occhio gli invia. L’opera è pertanto il risultato di un’interpretazione individuale che
combina le inclinazioni personali di un artista, il modo in cui l’artista vede il mondo, e le
forme che sono proprie di una società, tali per il fatto che in un’epoca sarebbe prevalente
una certa inclinazione della psiche (e non dell’occhio). Di conseguenza, se Wölfflin e i
formalisti si soffermavano sulla forma, Panofsky ritiene che l’opera consti di un legame
indissolubile tra forma e contenuto, e la sua analisi dell’opera d’arte non può prescindere,
appunto, dai temi affrontati da un artista nella sua opera. Se dunque Wölfflin si concentra
sullo stile, Panofsky, valuta anche il contenuto dell’opera Panofsky chiarisce anche la
differenza tra iconografia e iconologia, l’iconologia è quel ramo della storia dell’arte che si
occupa del soggetto o significato delle opere d’arte contrapposto a quelli che sono i valori
formali. Panofsky indicava tre fasi distinte nell’analisi dell’opera: un primo livello pre-
iconografico: registrazione mentale di ciò che è rappresentato, ancor prima del
riconoscimento del soggetto. Ci si pone di fronte all'opera in maniera acritica, e si
riconoscono solo le forme come risultano dall'esperienza visiva pratica di ciascuno (forme,
linee, colori). Determina il soggetto naturale o principale, ad esempio un uomo che ne
porti
un altro piu vecchio sulle spalle e rechi con se un bambino; o un uomo con un garofano in
mano. Il livello successivo è quello iconografico, che consente di riconoscere i soggetti.
Tramite la conoscenza di fonti letterarie e la familiarità con temi e concetti, si comprende
il significato che è dietro la mera forma e dietro ogni immagine, storia, allegoria. Enea con
Anchise e il piccolo Ascanio; un ritratto di Dürer. Infine abbiamo un terzo livello, quello
iconologico. Il livello iconologico è il più complesso perché vi si ricerca il messaggio più
profondo dell’immagine, cioè il suo significato simbolico, che non viene sempre
comunicato con chiarezza dall’artista. Solo a questo punto si può giungere
all'identificazione di tutti quei principi interni che evidenziano «l'atteggiamento
fondamentale di una nazione, di un'epoca, di una classe, di una convinzione religiosa o
filosofica: principi che una singola personalità inconsapevolmente qualifica e condensa in
una singola opera». Vede, ad esempio, nel tema di Enea e di Anchise un esempio di pietà
filiale; mostra come il garofano rappresenti Dürer come un uomo innamorato. Entra in
campo, quindi, un aspetto soggettivo, che si fonda sulla conoscenza della tradizione
simbolica dell’immagine e sulla sensibilità dell’esegèta (critico).
Negli USA scrisse tantissimo, in particolare “Tre decenni di storia dell'arte negli stati uniti:
impressioni di un europeo trapiantato” .
Uno scritto che in cui ricostruiva lo stato della storia dell'arte in Germania e in America, le
contaminazioni tra le due tradizioni. (vedi pdf)

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