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Sappiamo che la parola “archaiologhia” la troviamo negli autori antichi col suo
senso letterale di DISCORSO, INDAGINE SULLE COSE DEL PASSATO, antiche.
Quest’opera del Winckelmann era la “Storia delle arti e del disegno presso gli
antichi’ che, pubblicata 1764, doveva costituire l’ATTO DI NASCITA DELLA
MODERNA ARCHEOLOGIA. L’archeologia ebbe da allora come tema precipuo lo
STUDIO DELL’ARTE CLASSICA: ma il pensiero del Winckelmann venne frainteso
in ciò che aveva di più vitale, e seguito in ciò che in esso era di più caduco, di più
legato al suo tempo. Infatti, il grande salto di qualità che egli aveva fatto compiere
agli studi di antiquaria consisteva nel passaggio all’erudizione ne a se stessa,
supporto di piccole ambizioni personali, mera curiosità letteraria e accademica, ad
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una PRIMA RICERCA E DISTINZIONE CRONOLOGICA DI VARIE FASI DELL’ARTE
DEL MONDO ANTICO e alla ricerca di SUPPOSTE LEGGI che presidiassero al
raggiungimento della BELLEZZA ASSOLUTA nell’arte.
1. Storicistica;
2. Di de nizione estetica.
1. Dallo Storicismo che era andato a ermandosi nei ultimi due decenni dell’800
(pur con indirizzi e accenti diversi) nella cultura europea;
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L’archeologia preistorica ci ha insegnato che non ci sono doppioni super ui, ma ci
ha anche confermato che NON VI SONO PEZZZI UNICI. La produzione di
manufatti da parte dell’uomo ha una continuità e una variazione, che si
susseguono per secoli, e che si interrompono solo per cause esteriori di estrema
gravità: invasione di altri popoli, cataclismi, ecc…
Attraverso questi METODI si sono avuti risultati di grande importanza storica nella
esplorazione dell’Anatolia.
La data storica più remota, è quella fondazione della I dinastia dell’Egitto attorno al
3100 a.C. Dalle liste numeriche non si risale al di là del 2400.
Oggi possiamo risalire sino alle prime fasi dell’associazione umana in comunità
stabili e datarle tra l’8000 e il 7000 a.C. Tracce di tali insediamenti sono apparse a
Gerico nella valle del Giordano, a Jarmo in Iraq, Argissa in Tessaglia.
Qui è stata messa in luce una vera e propria città dall’estensione di 12 ETTARI, con
vere e proprie case a pianta rettangolare , costruite con mattoni crudi sorretti da
INTELAIATURE DI LEGNO. Alle case si accede dall’altro, dal tetto mediante scale
di legno, non sse.
Nei sacelli di culto (strati dal V al III) pitture con combattimenti di animali e cacce a
tori, cervi, cinghiali, scene di corse, danze e un’impressionante scena di morte,
con avvoltoi che divorano cadaveri privi di testa.
Nei livelli nali cessano le tracce dell’esercizio della caccia e le pitture di animali.
L’archeologia, oltre che i documenti dei ceti politici dirigenti, ha posto in evidenza
strutture provinciali e periferiche che le fonti storiche trascurano, conferendo ad
esse un valore per se stesse e non solo comparativo con le fasi di civiltà più
avanzate.
Ciò non vale solo per quella storia di quelle età che siamo soliti chiamare
‘preistoriche’ perché mancano di fonti scritte, ma sono età in cui gli uomini ebbero
una storia; ciò vale anche per l’età più vicine, giacché le fonti letterarie sono
sempre in doppio modo parziali: parziali nel senso che si limitano a determinati
periodi, parziali nel senso che rappresentano una stessa interpretazione dei fatti.
Negli immediati dintorni di Roma sono emersi dati storici nuovi attraverso la ricerca
archeologica.
A sud di Roma, il fatto che una necropoli è ricostruibile attraverso vasi importati
dalla Sicilia orientale (THAPSOS) cessa bruscamente di esistere appare indizio di
uno spostamento della popolazione, che si può ricollegare alla tradizione al re
ANCO MARZIO la distruzione di alcuni centri locali e la degli abitanti a Roma,
sull’Aventino.
Le lamine d’oro trovate nel santuario di Pyrgi, porto di Caere, alcune scritte in
etrusco, altre in fenicio, databili al 500 a.C, hanno rivelato contatti etrusco-punici
che le fonti storiche lasciavano a malapena intravedere e hanno reso più credibile
la tradizione annalistica relativa ad un primo e antico trattato fra Roma e Cartagine.
A Roma, gli scavi del Palatino, del Foro Romano e all’area di S. Omobono hanno
rivelato situazioni storiche prima non pensabili. E’ di questi anni, raggiunta a Ostia
attraverso un’indagine sui “cocci”, la constatazione che la maggior parte della
ceramica da mensa di età imperiale romana proveniva da fabbriche dell’Africa
settentrionale (attuali ALGERIA e TUNISIA), dove le forza di lavoro impiegate nella
coltivazione dei latifondi potevano venir impiegate nelle OFFICINE CERAMICHE. E’
tutto un quadro socio-economico sinora ignorato, che si inserisce come dato di
fatto nella storia di età imperiale. Si parla molto di INTERDISCIPLINARITÀ, oggi nel
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mondo della Scuola. Ma tra storici dell’antichità e archeologi, dovremmo parlare di
STRETTA COLLABORAZIONE (più che di interdisciplinarità) in un’unica materia di
ricerca, la Storia. Tale stretta collaborazione è augurabile che possa estendersi
anche oltre il mondo antico e comprendere anche le antichità medievali.
Fra storici dell’antichità e archeologi, gli uni non possono fare a meno degli altri: il
dato archeologico va CONFRONTATO, col documento storico e il dato storico, col
documento archeologico. Si viene così a creare una vera SCIENZA STORICA, che
lascia nell’oblio le ricerche antiquarie degli archeologi settecenteschi (ancora
viventi), sia la speculazione di quegli storici che, partendo da INTELAIATURE
TEORICHE ASTRATTE, niscono per adattare a queste i fatti. A tal modo di
procedere è preferibile, quel tanto di empirismo che permette di aderire sempre
agli elementi concreti e umani che si incontrano, individuando nei fatti il
RAPPORTO tra l’economico e il sociale, nel che, si articola la STORIA.
Ma gia il vecchio Droysen (nel Sommario di Istorica) insegnava che “non sono le
cose passate, che con la ricerca storica, diventano chiare, ma diventa chiaro quello
che di esse , non è ancora tramontato, sia che si tratti di memorie di ciò che fu ed
avvenne, sia di avanzi di ciò che non è stato ed è avvenuto.”
PREMESSA
L’archeologia per molto tempo non è esistita come disciplina autonoma, se come
parola corrente. Il termine archeologia si trova nelle fonti antiche ma con signi cato
generico i DISCORSO, NOTIZIE SUI TEMPI ANTICHI. Ci sono già presso gli antichi
esempi di studiosi che si sono interessati della civiltà di genti remote: così come
ad esempio Erodoto quando scrive il capitolo sugli egiziani nelle sue “Storie”, così
come Pausania nella sua “Periegesi della Grecia” scritta nel II secolo d.C.
Va anche detto subito che questa disciplina ha sensibilmente mutato volto nel
corso degli anni:
- In Epoca moderna, gli studiosi che si dissero “di antichità” furono fondati
soprattutto sull’epigra a e, attraverso questa, sulla ricostruzione delle norme e
delle leggi che regolavano la vita civile e religiosa, nonché sulla ricostruzione
della “PROSOPOGRAFIA”, cioè la de nizione della PERSONALITÀ STORICHE,
menzionate nelle epigra e le loro funzioni u ciali. Questi studi, costituenti
sicuramente un importante MEZZO AUSILIARE di documentazione storica,
andarono distinguendosi nettamente da quelli di archeologia che si andarono
sempre più rivolgendo al FATTO ARTISTICO tanto che il termine si identi cò
spesso con quello di “storia dell’arte greca e romana”.
- Nella prima metà del ‘700 una tta schiera di uomini, più o meno eruditi, si
danno agli studi di “antiquaria”, favoriti dai mecenati ecclesiastici o secolari, che
amavano raccogliere oggetti di scavo. In questo periodo l’opera d’arte antica è
considerata solo come un DOCUMENTO (per cui, per esempio, una statua
togata interessa solo per lo studio della toga e del costume, non per se stessa
come opera d’arte). Così ancora la Colonna Antonina a Roma, con il loro
RILIEVO sorgenti a nastro, interessano solo come documenti per studiare i
costumi militari e gli episodi delle guerre in esse rappresentate. Gli antiquari
persero ben vista il vero scopo del loro studio e nirono per cercare nei
monumenti soprattutto una conferma a determinare ipotesi.
- Alla ne del XVIII/ inizi del XIX secolo si di use un fervente classicismo che
segnò l’inizio dell’archeologia ( espressione del Goethe del 1826 che nella
ricerca dell’antico, anche se ancora idealizzato, trovava una ricerca della realtà
del mondo concreto). Nonostante l’IDEALIZZAZIONE DELL’ANTICO, ancora
presente del Goethe, e il principio dell’imitazione dell’arte antica insito nel
neoclassicismo , fu in questo periodo che furono poste le PRIME BASI per una
conoscenza storica dell’antichità.
WINCKELMANN (1717-1768)
Occorre sicuramente tener presente che la ricostruzione della cronologia è uno dei
problemi che, nel campo antico, o riva e o re ancora oggi maggiori di coltà data
l’incertezza e la lacunosità della tradizione. Considerando l’archeologia uno degli
strumenti fondamentali dell’indagine storica, è evidente che il riconoscere,
attraverso i DATI ESTERIORI, indizi cronologici diviene essenziale. D’altra parte
essa è indispensabile per lo studio dell’opera d’arte, se vogliamo dare su di essa
un giudizio che sia storico, e non di gusto personale. La comprensione dell’opera
d’arte ha inizio, dunque, proprio attraverso la FISSAZIONE DELLA CRONOLOGIA,
la quale nella storia dell’arte moderna e contemporanea raramente o re problemi
altrettanto gravi, trattandosi per lo più di questioni cronologiche interne all’ambito
della vita di un singolo artista, mentre nel campo antico si tratta a volte anche di
OSCILLAZIONE DI SECOLI.
Ma ancora più complicato era il problema che circa il 98% delle statue trovate a
Roma NON ERANO ORIGINALI, ma copie di età romana da originali greci perduti.
(Ciò che il Wincklelmann NON SAPEVA). In genere il copista di età romana è un
copista commerciale: Ad Atene e a Roma si era, infatti, formata una SPECIE DI
INDUSTRIA, un artigianato specializzato e tecnicamente abilissimo. Ma in genere
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tali opere avevano una funzione puramente decorativa, erano quindi COPIE
DOZZINALI, che davano un ri esso di uniformità a tutte le opere e particolarmente
alle più famose perché più spesso ripetute senza più riferirsi all’originale.
Il principio che si potesse usare il criterio dell’ANALISI STILISTICA per fondare una
cronologia non era ancora sorto: esso sorse partendo appunto da criteri proposti
da Winckelmann. Fu proprio egli, ad adottare per la prima volta il criterio
STILISTICO e a so ermarsi sull’indagine formale delle opere d’arte. Egli distinse 4
GRANDI DIVISIONI (4 stili) caratterizzate da un andamento PARABOLICO:
3. Stile bello: periodo che inizia con PRASSITELE e culmina con LISIPPO
(seconda metà del IV sec ed Ellenismo);
Con l’inizio dell’800 si hanno le prime CAMPAGNE DI SCAVO: tale fase “militante”
dell’archeologia culminerà nei secoli DOPO il 1870 e porrà in luce una larga messe
di OPERE GRECHE ORIGINALI. Intanto si sviluppava, attraverso la critica delle
opere di età romana, la fase “ lologica” dell’archeologia. Nè archeologi lologi, né
archeologi militanti si preoccuparono di RIVEDERE il criterio estetico che il
Winckelmann aveva posto a fondamento della storia dell’arte antica. Perciò lo
SPIRITO INFORMATORE della storia dell’arte greca e romana rimase, si può dire,
immutato ne al ‘900. Questo avvenne perché il giudizio estetico del Winckelmann
coincideva coi giudizi trasmessici dalle fonti letterarie antiche. Ma le fonti classiche
(Plinio e Pausania in particolare) sono tarde e si riconnettono a tutte una serie di
scritti retorici del tardo ellenismo, quando, nella Grecia in declino economico, si
era formato un medio ceto e una media cultura conservatrice e rivolta al passato.
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Questo stato di cose ha contribuito al perdurare del concetto stabilito dal
Winckelmann che la storia dell’arte antica avesse avuto uno svolgimento
parabolico che tocca il suo culmine nel periodo “aureo” con Fidia, per poi
decadere. E di questo grandissimo FIDIA, in realtà, non si conosceva nulla; esso
era un’ENTITA’ ASTRATTA magni cata dalle fonti letterarie soprattutto per due
opere irrimediabilmente perdute: lo ZEUS di Olimpia e l’ATHENA del Partenone.
C’è voluto il lavorio critico del ‘900 per mettere in lue che tale giudizio
winckelmanniano non poteva avere un valore NE STORICO NE ASSOLUTO, ma
solo quello di un giudizio relativo all’età nella quale venne a formarsi. E molti
equivoci sono nati rispetto all’arte greca proprio dal persistere di una tale
concezione, primo fra tutti quello che l’arte greca sia un’arte essenzialmente volta
all’IDEALIZZAZIONE DEL VERO, mentre da tempo è ormai evidente che si debba
riconoscere come l’arte greca sia stata più di ogni altra arte del mondo antico
rivolta alla ricerca di un sostanziale realismo. Essa è l’unica , che abbandona la
ripetizione di semi gurativi FISSI E SIMBOLICI; l’unica che inventa lo scorcio e la
prospettiva e il colore locale, per a ermare proprio l’aspetto realistico delle cose.
Essa, in ne, si pone precocemente sulla via del NATURALISMO, per realizzarlo poi
pienamente in età ellenistica.
ARCHEOLOGIA FILOLOGICA
1.Grammatica comparata;
Fu appunto il metodo sviluppato per la critica dei testi quello che indirizzò la
ricerca archeologica volta a ricostruire la storia della scultura greca.
Questo tipo di ricerca si basa sui metodi della lologia in due modi:
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•Studia i TESTI ANTICHI per trarne le informazioni necessarie relative alla
ricostruzione della storia dell’arte
•il Friederichs: identi cò una serie di copie romane, tra tutte il Doriforo di
Policleto, cioè la statua che era considerata il canone della formazione CLASSICA;
•il Brunn: tracciò, basandosi sulle fonti letterarie, la prima vera storia dell’arte
greca che intitolò “Storia degli artisti greci” (1853)
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L’identi cazione dell’Apoxyomenos insegnò anche che le statue in bronzo
potevano essere copiate in marmo, ma che qualche traccia tuttavia
rimaneva della tecnica diversa usata (particolare incisività dei capelli).
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Come potè il Friederichs giungere all’identi cazione?
Viene riconosciuta giusta la ricostruzione del copista di Napoli, che aveva messo in
mano alla statua una LANCIA (Doriforo= portatore di lancia)
Il pericolo maggiore di tale impostazione di studi era dato dal fatto che si
niva per ricostruire tutta l’arte greca attraverso le copie, trascurando gli originali
anche là dove essi esistono e che si perpetuava, attraverso le copie, una visione
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fredda e accademica, la visione NEOCLASSICA, dell’arte greca, ben lontana dalla
potente energia interiore che anima gli originali greci. Così si parla dell’Athena
Lemnia ricostruita dal Furtwaengler per studiare la personalità di Fidia e si
pongono in secondo piano i rilievi del Partenone. Questo fatto ha portato tutto uno
svisamento nello studio dell’arte greca, svisamento che si è cominciato a
retti care a partire da circa gli anni ’20 del 900. Quindi i LIMITI fondamentali di tale
impostazione lologica sono:
In altri casi, invece, talune attribuzioni, che furono faticosamente raggiunte e poi
apparvero per qualche tempo assicurate, son tornate a essere messe
autorevolmente in dubbio, contribuendo a far scadere la ducia in quella
RICERCA COMBINATORIA E ATTRIBUZIONISTICA che aveva costituito,
nell’ambito dell’archeologia lologica, la principale o almeno la più ricercata attività
degli studiosi.
Uno di questi casi è di usamente descritto da Andreas Rumpf, uno degli ultimi
rappresentanti di storia dell’arte nell’archeologia germanica: è la vicenda della
cosiddetta “Eirene e Ploutos” di Kephisodotos.
Eppure non tutte le incertezze sono state superate. A parte qualche isolata
opinione che proponeva di spostare la data della statua alla pace del 403 a.C e
alla proposta del Furtwaengler che Kephisodotos sia da ritenersi piuttosto
fratello maggiore e non padre di Prassitele date le STRETTE SOMIGLIANZE
STILISTICHE, vi sono, riproposte dal Rumpf, alcune osservazioni che
rendono assai di cile il collocare quest’opera entro i caratteri stilistici degli
anni attorno al 375 a.C. Invece una più stretta somiglianza viene notata tra la
Eirene e i rilievi delle basi delle colonne del secondo Artemision di Efeso. La
ricostruzione del famoso tempio, una delle “meraviglie del mondo”, dopo
l’incendio, cade nell’età di Alessandro Magno e cioè intorno al 340-330 a.C. E una
tale cronologia, raggiunta soltanto in base a elementi stilistici, esclude sia
Kephisodotos I che Kephisodotos II e quindi anche l’identi cazione della
statua. In conclusione, il Rumpf propone di interpretare la gura come “Tyche” e di
attribuire l’originale a Prassitele stesso, del quale alle fonti sono note TRE immagini
di Tyche, una a Megara, una ad Atene, una trasportata a ROMA della quale si sa
che era accompagnata dall’immagine infantile di Bonus Eventus (corrispondente al
greco Agathodaimon, che ha come attributo proprio una CORNUCOPIA, solito
attributo della stessa Tyche). Vediamo così come una ricostruzione storico-
artistica basata sull’analisi STILISTICA possa scuotere i fondamenti anche di
attribuzioni puramente lologiche che sembravano costituire una certezza.
Quindi possiamo a ermare che l’archeologia lologica costituì una prima base di
CHIARIMENTO e di ORDINAMENTO del materiale monumentale superstite; ma
scadde quando divenne mero gioco attribuzionistico con ni più di carriera
accademica che non di concreta ricerca storica, e quando procedette in
modo privo di comprensione per i valori formali, cioè per il linguaggio
artistico vero e proprio. Inoltre, attraverso questa ricerca e lo studio delle
varie copie romane si può stabilire l’iconogra a, cioè l’ASPETTO ESTERIORE
dell’originale greco; ma ciò NON serve per studiare il linguaggio formale dei
singoli artisti.
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Anche per la pittura antica si cadde nello stesso equivoco, quando, ad un certo
momento, si pretese di ricostruire la pittura classica andata perduta per mezzo
della pittura di età romana, solitamente detta “POMPEIANA” perché, dato il
carattere della distruzione subita da Pompei e da Ercolano, SOLO QUI è stato
possibile ritrovarla conservata (ma è evidente che Pompei e le città
vesuviane NON ERANO GLI UNICI LUOGHI DOVE TALE GENERE DI PITTURA
ESISTEVA: anzi, da quello che si è trovato a Roma e a Ostia e altrove, si è potuto
constatare che questa pittura, di usa in tutto l’impero, si presenta talora in
esemplari qualitativamente migliori che a Pompei, piccola città di provincia).
Per esempio, si partì dal concetto che nella pittura greca NON potessero
esserci SFONDI PAESISTICI, perché si considerava che essa seguisse gli STESSI
CRITERI FORMALI, accademici, di chiarezza lineare e di equilibrio plastico e
compositivo, che l’estetica winckelmanniana aveva attribuito (ERRONEAMENTE)
alla scultura, considerata l’arte maggiore della civiltà greca (E invece oggi
sappiamo che l’ARTE-GUIDA fu, nella Grecia antica no alla crisi
classicistica del II secolo a.C, la PITTURA). Seguendo questo concetto,
laddove nelle pitture pompeiane si apriva uno SFONDO, si a ermava che si
trattava di un’INTERPOLAZIONE ROMANA. In qualche caso, interpolazioni di
questo genere sono accettabili, ma la pittura di paesaggio risulta ormai
chiaramente essere una conquista ellenistica.
LE FONTI LETTERARIE
- LUCIANO DI SAMOSATA ;
- ATENEO DI ALESSANDRIA.
Per quanto riguarda queste fonti letterarie, esse sono state raccolte dall’Overbeck
nel 1868 e pubblicate in un volume intitolato “Le fonti letterarie antiche per la
storia dell’arte greca e romana”. Questa raccolta di fonti è un libro che, per
quanto annoso, ci serve ancora continuamente. Si tratta infatti di una raccolta
QUASI COMPLETA dei passi tratti dalla letteratura greca e latina, nei quali
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si trova un accenno ad un’opera d’arte o ad un artista. Come già detto, esso
segue lo SPOGLIO fatto dal Brunn. Inoltre, bisogna usarlo con cautela,
considerandolo piuttosto come un INDICE che come un testo, perché le fonti
citate dall’Overbeck si riducono a degli excerpta con la sola citazione dell’opera
d’arte, mentre spesso nel contesto dell’opera il passo acquistava un signi cato
e un valore diverso e ben più preciso. Occorre quindi SEMPRE risalire
dall’Overbeck alla lettura del TESTO ORIGINALE.
Plinio il Vecchio con la sua “Naturalis historia” rimane la nostra fonte più
COMPLETA e preziosa, nonostante tutti i suoi evidenti limiti. In una LETTERA
DI PRESENTAZIONE della sua opera all’imperatore Vespasiano (69-70 d.C),
Plinio parla del carattere del suo lavoro e dice alcune cose di cui si deve tenere
conto: mette in risalto innanzitutto la novità della sua opera, che raccoglie,
egli dice, una congerie di notizie, che non sono né piacevoli né divertenti, ma sono
una raccolta di dati di fatto relativi a tutto il mondo della NATURA (circa 20.000
notizie degne di memoria tratte dalla lettura di circa 2000 volumi). Quindi
quella di Plinio è una posizione che sta a metà tra una mentalità scienti ca,
in quanto vuol rendere preciso conto delle sue letture, ed una impostazione
dilettantistica, in quanto riconosce egli stesso di NON essere uno studioso di
professione e di raccogliere piuttosto le curiosità. Come procedesse nel suo
lavoro ce lo dice il nipote Plinio il Giovane nella epistola a Bebio Macrone,
relativa alle opere dello zio, in cui lo descrive come un uomo molto intelligente e
incredibilmente studioso, che leggeva continuamente. Quindi si capisce come è
nata l’opera di Plinio, attraverso la LETTURA di molte opere da cui via via prendeva
quello che gli pareva interessante; è un’opera, quindi, nata da un grande schedario
di notizie, poi messe insieme. I libri della Naturalis Historia che ci interessano
particolarmente sono:
•il XXXIV (34) in cui, parlando delle pietre e dei marmi e della loro natura, tratta
della SCULTURA;
•il XXXV (35) in cui, parlando dei metalli, tratta del BRONZO e della
METALLOTECNICA;
•il XXXVI (36) in cui, parlando delle terre colorate, tratta della PITTURA.
Così, in questi libri, Plinio ha raccolto ciò che si conosceva al suo tempo delle
arti gurative. Però a questa compilazione è mancata una REVISIONE e un
coordinamento delle notizie, che talora si contraddicono le une con le altre,
e quindi dobbiamo e ettuare noi tale lavoro di critica nell’usare questa fonte.
Inoltre Plinio ha attinto a scritti del tardo ellenismo di carattere retorico, di tendenze
molto diverse:
di qui le contraddizioni del suo testo. Quindi egli si è trovato nella di coltà
di riportare in latino espressioni retoriche del tardo ellenismo; talvolta, nei
casi più fortunati, egli lo ha fatto semplicemente LATINIZZANDO LA
DESINENZA dei termini greci; altre volte, invece, ha voluto TRADURLI
cercando NUOVI TERMINI e ciò ha dato origine ad equivoci.
Diversi studiosi si sono occupati dello studio del testo di Plinio, ma due ricerche
vanno menzionate in modo particolare:
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•quella di Bernardt Schweitzer su Xenocrates di Atene (una delle fonti a cui attinge
Plinio)
•quella di Silvio Ferri sul problema della statua policletea e della terminologia
relativa, nonché la traduzione dello stesso Ferri del testo di Plinio corredato di
annotazioni critiche.
loro informazioni da scritti nati nel periodo del tardo ellenismo, cioè nella
SECONDA META’ DEL II SECOLO A.C., quando nella cultura greca, sia ad
Alessandria che ad Atene, si era formata una visione retrospettiva, NOSTALGICA,
del passato e delle antiche glorie, a seguito della perdita dell’indipendenza e
della libertà prima sotto il dominio macedone e poi sotto quello di Roma.
Perciò tali fonti mettevano in particolare risalto gli artisti del V e del IV secolo a.C,
ignorando quasi del tutto l’arte ellenistica. Tale è l’impostazione che Plinio quindi
trova nelle sue fonti, tra le quali le principali sono:
•Xenocrates ateniese: scultore egli stesso e, oltre che scrittore di cose d’arte,
discepolo di Lisippo, vissuto alla metà del III secolo. Per lui, Lisippo rappresenta il
culmine, il massimo punto d’arrivo dell’arte greca e dobbiamo tener presente
che da Lisippo deriva la spinta iniziale verso lo stile che diciamo “ellenistico”.
Lisippo era stato tuttavia un vero “rivoluzionario”, e non era certo da prendere ad
esempio come la norma dell’arte greca!
Altra fonte principale per la conoscenza dell’arte antica è Pausania, autore greco
che visse nel periodo romano, ovvero nel II secolo dell’era volgare, nativo
di Magnesia al Sipylos in Asia Minore. La sua opera rientra in un genere di scritti
del tardo ellenismo, i cui autori venivano detti “periegeti”, cioè DESCRITTORI DI
VIAGGI, autori di guide per il forestiero che visitava i grandi santuari.
Nell’età del tardo ellenismo, la Periegetica diviene un “genere” coltivato
volentieri in armonia con quelle TENDENZE RETROSPETTIVE che già
abbiamo avuto occasione di notare, nelle quali rientrava anche il desiderio
di raccogliere e volgere a uso di erudizione il patrimonio del passato. Della
“Periegesi della Grecia” di Pausania ci restano 10 libri, privi di proemio e di
chiusura, ma forse lasciati interrotti dall’autore. Il X libro è stato composto dopo il
175 d.C e le indicazioni contenute nel I libro portano l’inizio dell’opera al 143 d.C.
Non era questa l’intenzione di Pausania, che voleva fare essenzialmente un libro di
lettura, fornendo la conoscenza dei luoghi e dei monumenti, pretesto per
ricapitolare in modo variato la storia della Grecia, intercalandovi narrazioni
mitologiche (lògoi). Quest’opera è certamente stata composta per la massima
parte a tavolino, sfruttando opere di argomento localmente più ristretto, dei
perigeti precedenti, e così le opere di storici,poeti, tragici e mitogra . Per alcune
delle località descritte è sorta però la questione se Pausania abbia visitato le zone
personalmente, oppure no. Non era di per sé necessaria la conoscenza diretta
delle località, dato lo scopo pre ssosi; ma è certo che alcuni luoghi di maggiore
importanza Pausania li ha visitati come l’Acropoli di Atene e il santuario di
Olimpia. Infatti realmente in questi luoghi si è potuta riscontrare spesso una
precisa rispondenza tra il testo di Pausania e quanto è stato messo in luce
dagli scavi.
Di tutt’altro carattere come fonte per la storia dell’arte antica sono gli scritti
di Luciano di Samosata, vissuto al tempo degli Antonini, unico e ultimo fra i tardi
scrittori del mondo greco che dimostra di avere gusto e sensibilità artistica.
Luciano non è un compilatore, ma uno scrittore fornito di cultura e di un
discernimento personale, che parla di opere d’arte che egli ha visto e che
egli descrive esprimendo le proprie sensazioni e il proprio giudizio (es.
descrizione del quadro “Le nozze di Rossane e Alessandro” dipinto da Aetion)
Per il resto, però, anche Luciano partecipa al culto per l’età lontana della grande
civiltà artistica della Grecia e menziona soltanto opere di artisti famosi
dell’età classica.
Un’altra fonte che va menzionata in modo particolare è, per taluni passi, Ateneo di
Alessandria (o di Naucrati). Grammatico e so sta nato in Egitto, a Naukratis,
antica colonia greca, poi vissuto ad Alessandria e a Roma verso la metà del
III secolo d.C, compose un’opera erudita intitolata “Deipnosophistai” cioè “I
dotti a convito”, dove i convitati intrecciano COLLOQUI che danno modo all’autore
di raccogliere un’ampia congerie di notizie, per noi spesso preziose, di
carattere enciclopedico. Tra queste vi sono due lunghe descrizioni, oltre a notizie
minori, del padiglione regale e del corteo festivo di Tolomeo II Philadelphos e della
processione trionfale di Antioco IV Epiphanes, documenti di grande interesse per
conoscere in particolare lo splendore e lo SFARZO DELLE CORTI ELLENISTICHE e
la profusione di suppellettili in metalli preziosi lavorati, delle quali le pur sempre
sorprendenti argenterie e ore cerie che ci restano di età romana non sono altro
che un modesto ri esso.
In ne, numerose sono le fonti di ETA’ BIZANTINA (es. Giovanni di Gaza del VI
secolo o Giorgio Kodinos probabilmente del X secolo). Esse ci danno informazioni
talora assai utili come dati di fatto: ma nulla che possa contribuire alla valutazione
dell’arte greca. Dal punto di vista documentario, particolare importanza rivestono
le iscrizioni, che conservano rme di artisti, o documenti.
Accanto alle linee ideali seguite nella ricostruzione della storia dell’arte
dell’antichità, dobbiamo renderci conto anche dei materiali monumentali e del loro
ritrovamento ai ni dello studio dell’arte del mondo classico. Lo studio dell’arte
antica è infatti un tessuto composto da 3 li diversi:
•il criterio metodologico per portare quelle nozioni a giuste conclusioni storiche.
Dal 1738 al 1766 erano stati intrapresi in Italia gli scavi di ERCOLANO e
dal 1748 quelli di POMPEI, che portarono alla luce inattesi tesori di pittura,
e misero di moda uno “STILE POMPEIANO”. Ma gli scavi di Ercolano furono
presto ABBANDONATI per le gravi di coltà che essi presentavano, essendo stata
Ercolano, a di erenza di Pompei (seppellita da uno strato di cenere),
investita da una colata di fango caldo, che poi si è indurito rendendo
di cilissimo lo scavo; i lavori furono poi in seguito ripresi SOLO dopo l’uni cazione
italiana (dal Fiorelli). Infatti, nell’eruzione del 24-25 Agosto 79 d.C Pompei ed
Ercolano furono colpite in modo di erente:
•Pompei: venne sepolta dalle pomici e dai lapilli (ceneri) e quindi non ha restituito
nulla di organico;
Una delle prime, più grandiose, più celebri e più discusse acquisizioni di sculture
greche nell’occidente europeo sono i marmi del Partenone e del tempio di
Nike Apteros, legati dalla tradizione al nome di Fidia e dalla storia delle cultura al
nome di Lord Elgin. Questi fu inviato nel 1799 come AMBASCIATORE a
Costantinopoli e da quel momento cominciarono le sue disgrazie. Si mise presto in
urto con il potente incaricato della Compagnia del Levante e si mise in una
spiacevole posizione diplomatica nei rapporti con la Francia, che gli valse il
risentimento personale di Napoleone e la prigionia presso di lui, quando nel 1803
Elgin lasciò Costantinopoli per tornare a Londra e lo fece attraversando la
Francia. Ma forse il dramma maggiore fu proprio quello dei marmi del
Partenone. Sembra che Elgin avesse intenzione, soprattutto, di far eseguire
disegni e calchi per insegnamento degli artisti e che fu il cappellano
dell’ambasciata, il reverendo Philip Hunt che lo accompagnava, a trasformare la
spedizione in una SPOLIAZIONE, distorcendo l’assai generico permesso
ottenuto dal governo di Costantinopoli (la Grecia era allora occupata dai
Turchi).Non tutti i marmi furono distaccati dal monumento: molti frammenti
frontonali furono recuperati nella demolizione di una CASA sorta presso il
Partenone che Elgin aveva acquistato a questo scopo. Mentre Elgin era
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ancora prigioniero del Bonaparte, il suo agente cominciò a spedire i marmi in
200 ceste: 12 di queste naufragarono al CAPO MALEA e le sculture furono
poi recuperate dai palombari in faticose azioni che si protrassero per 3 anni. I
marmi ancora rimasti ad Atene furono nel 1807 sequestrati dai Francesi ma poi
inclusi negli ACCORDI DI PACE con l’Inghilterra. Le ultime 80 ceste giunsero a
Londra nel 1812.
Le discussioni sull’operato di Lord Elgin non sono chiuse nemmeno oggi e anche
recentemente furono avanzate da parte del governo greco RICHIESTE DI
RESTITUZIONE. Sicuramente se è vero che l’asportazione di opere d’arte dal
loro luogo di origine è sempre un atto lesivo di un contesto storico, dobbiamo
anche ammettere che senza questi trasferimenti la cultura del nostro tempo
non si sarebbe arricchita di tante essenziali conoscenze e sarebbe stata diversa.
Nel 1811 era stata condotta una spedizione all’isola di Egina, dove furono scoperti
i resti di un tempio, le cui sculture frontonali furono vendute a Luigi di Baviera
ed esposte nel museo di Monaco. La scoperta fu molto importante, essendo
questi i PRIMI MARMI che si conobbero del periodo arcaico e questa nuova
esperienza aiutò anche la cultura del tempo a distaccarsi dal gusto neoclassico. I
marmi di Egina furono restaurati e completati SENZA RIGUARDO dal più
accademico degli scultori del tempo, il Thorwaldsen, che purtroppo non usò
alcun rispetto per il documento ed accomodò le statue come riteneva più
opportuno. Nel 1967 i restauri sono stati tolti con una risoluzione che segue giusti
criteri teorici ma incauta applicazione pratica. Il restauro del Thorwaldsen
rappresentava ormai un documento di storia della cultura e i moncherini che
presentano oggi le statue sono sicuramente più o ensivi dei restauri che un occhio
esperto poteva eliminare mentalmente.
Ripresi dopo il 1860 gli scavi a Pompei per opera del Fiorelli, questi scavi (che
furono condotti non con un metodo stratigra co bensì “PER CUNICOLI”) hanno
dato una documentazione e notizie sempre più sicure sulla vita e i costumi del
mondo romano, oltre a procurarci una ineguagliabile quantità di pitture e di
mosaici senza i quali non avremmo alcuna conoscenza della pittura antica. Tra il
1894 e il 1896 fu scoperta la casa dei Vettii, la più ricca di dipinti, e la villa di
Boscoreale con il meraviglioso tesoro di argenteria che fu venduto all’estero; dopo
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il 1918 si sono avute le scoperte di via dell’Abbondanza e si è usato il metodo del
ripristino in situ.
Per comprendere l’in uenza che ha avuto sulla nostra cultura la presa
di contatto con le opere di quest’arte greca che prima di allora si era conosciuta
SOLO attraverso le copie, e poi, soprattutto, per l’enorme ampliamento
dell’orizzonte storico che hanno comportato, acquistano importanza e valore
preminente, dalla metà dell’800 no al primo terzo del 900, le scoperte fatte in
GRECIA. Nella seconda metà dell’800 si organizzarono le prime grandi spedizioni
di scavo da parte di Inglesi, Tedeschi e Francesi.
I primi sono gli scavi in Samotracia, eseguiti dal Conze nel 1863, spedizione a
carattere internazionale, tanto che la famosa NIKE andò al Louvre.
Al tempo stesso furono iniziati gli scavi ad Atene, al Dipylon, dove apparvero per la
prima volta (nel 1871) i vasi di stile geometrico, ponendo in lue i PRIMORDI
dell’arte greca, no ad allora sconosciuti. Questa scoperta ha avuto, anche se
a distanza di tempo, una grande in uenza sugli studi; noi non possiamo,
infatti, capire la FORMAZIONE e lo SVILUPPO della statuaria del VI secolo
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senza tener conto della lunga tradizione dello stile geometrico che è stato
“l’alta scuola” dell’arte greca. Questo stile geometrico si ricollega sicuramente
al primitivo geometrismo che si trova nel vasellame preistorico della regione
danubiana; ma le popolazioni greche, quella ATTICA particolarmente, ne
fanno una creazione artistica, un vero e proprio stile coscientemente
sottoposto a REGOLE. Questa creazione del genio artistico greco sta alla base e
fondamento di tutto lo sviluppo dell’arte greca di tutto il periodo arcaico; non è
quindi, come si credette, un “BALBETTAMENTO INFANTILE”, ma il risultato di
una lunga attività artigiana, che arriva a elevarsi a coscienza d’arte.
Poi vengono i grandi scavi ad Olimpia, iniziati da Ernst Curtius nel 1875. Fin dalla
metà del secolo Ernst Curtius aveva cercato di realizzare il progetto di uno scavo
sistematico, ma questo gli fu possibile solo dopo l’uni cazione prussiana della
Germania. Questi scavi ottennero i più grandi successi tra il 1875 e il 1880 e
furono condotti tenendo Pausania alla mano. Le grandi sculture del tempio di
Zeus, l’Hermes supposto di Prassitele, la Nike di Paionios, le numerose basi
con rme di artisti famosi aprirono una NUOVA FASE alla conoscenza
dell’arte greca di età classica, ma impegnarono gli archeologi tedeschi a un
lungo lavoro di catalogazione e classi cazione.
Nello stesso tempo furono iniziati gli scavi ad Efeso, da parte degli Inglesi, dopo
che con grande faticaera stato identi cato il sito del famoso tempio d’Artemide
che si sapeva rifatto con magni cenza dopo l’incendio di Erostato nel 356 e al
posto del quale si ha oggi niente altro che una palude. Sempre negli anni ’70
dell’800 fu iniziata anche l’esplorazione di Pergamo, già identi cata da studiosi
inglesi. L’esplorazione fu promossa, anche questa, dal Curtius, ma i dirigenti
ne furono A. Conze e l’ingegnere Humann, che da anni viveva sul posto. Qui
si scoprì la scultura ellenistica in una fase particolare, per la quale, dopo che il
WICKHOFF ebbe applicato i termini della storia dell’arte moderna all’arte antica, si
è parlato di “barocco ellenistico” e di “rocòcò”, termini che naturalmente non
vanno intesi con lo stesso valore che hanno nell’arte dell’Europa post-
rinascimentale ma che stanno a indicare genericamente una determinata tendenza
artistica divergente dalla compostezza e semplicità classica. Il grande altare di
Pergamo (ricostruito nei Musei di Berlino) ci fa conoscere l’esistenza di una serie di
scultori, dei quali abbiamo anche i nomi segnati nelle singole parti del fregio, i quali
lavorano con una quasi assoluta IDENTITA’ DI STILE. Essi appartengono ad
una scuola che eseguiva l’opera in collaborazione, lavorando in modo tipico per
tutta la civiltà artistica dell’antichità, con le caratteristiche e i modi di un altissimo
artigianato. Il fatto che si siano segnati i nomi degli artisti sulle varie porzioni del
fregio, indica che questi avevano la consapevolezza della propria relativa
autonomia d’artista e che ciascuno di essi era a capo di una equipe, ma
eseguiva la propria opera secondo un PIANO PRESTABILITO in comune
accordo. Va detto, inoltre, che questi scultori operano già in una fase di
classicismo, perché tutte le tipologie usate risalgono a celebri opere d’arte del V e
del IV secolo. C’è già una mentalità RETROSPETTIVA, per cui motivi di opere
classiche vengono ripresi con particolare gusto di accentuazione del rilievo e
dell’uso del chiaroscuro, e accrescendo e inserendo un’intonazione patetica,
passionale (pathos). A Pergamo, inoltre, fu messa in luce non solo questa
particolare tendenza della scultura ellenistica, ma tutta una CITTA’. Abbiamo
potuto avere, infatti, la visione di un nuovo tipo di città greca e dei suoi problemi
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urbanistici. L’urbanistica di Pergamo, per esempio, si articolava sull’erto anco di
un colle, con un forte dislivello tra la parte bassa e quella alta. In ne, Pergamo fu
un VIVO CENTRO DI CULTURA, la cui eco durò a lungo ed al quale dobbiamo
risalire anche per intendere taluni aspetti della pittura pompeiana.
Gli scavi di Del sono molto più importanti: i risultati di tali scavi furono
pubblicati regolarmente in fascicoli a partire dal 1902. A Del vi era il più grande
santuario dopo quello di Olimpia. Ma, mentre Olimpia era stata abbandonata in
periodo medievale e non vi si era formato un paese “moderno”, anzi le antichità
erano state quasi “protette” dal materiale della alluvioni dei due umi che la
cingono, a Del un piccolo paese si era insediato in mezzo alle rovine del
santuario, distruggendole per sfruttare il materiale da costruzione. Questo
ovviamente rese meno fruttiferi gli scavi, anche per la posizione di Del che
si trova a mezza costa su una montagna di roccia dolomitica dove è impossibile il
formarsi di uno strato di humus protettivo. Sposato e ricostruito più lontano
il villaggio moderno, si sono trovati elementi di fondazione degli edi ci
antichi, in base ai quali si è potuto ricostruire la pianta del santuario, ma
anche frammenti di sculture, dai kouroi arcaici, opera di [Poly]medes argivo,
rappresentanti KLEOBIS e BYTON (due pii gli che si posero al luogo del sacri cio
dei buoi per far giungere la vecchia madre al santuario), alle metope del
tesoro degli Ateniesi, ai fregi del tesoro di Sifni: tutte opere che precisarono la
conoscenza dell’arte greca dall’arcaismo allo “stile severo”.
Ancora non si è parlato delle scoperte che hanno avuto maggiore risonanza anche
al di fuori del cerchio degli archeologi: in particolare quelle dello Schliemann.
Questi, che da modeste origini era diventato un ricco tra cante, n da
ragazzo, quando era apprendista in un modestissimo negozio, si era
innamorato di Omero, alla cui esistenza credeva ciecamente. Su questa cieca
ducia nel testo di Omero, lo Schliemann, fra lo scetticismo di tutto il
mondo accademico, nel 1871 iniziò gli scavi nella Troade, dove non solo
scoprì Troia, la cui ubicazione era discussa (odierna collina di Hissarlik), ma
confermò anche la realtà della distruzione per incendio per le tracce evidenti
che di questo trovò nei resti di uno degli STRATI di insediamento posti in luce.
(integrare appunti) Scavò allora anche a Micene, dove scoprì quello che egli
chiamò il tesoro di Atreo e la tomba di Clitemnestra, mettendo in luce, con un
barbaglio di oggetti d’oro di squisita fattura, la civiltà pre-ellenica di cui no ad
allora si era completamente ignorata la presenza. Questa civiltà polarizzò su di sé
per alcuni decenni l’attenzione degli studiosi, conducendoli ad approfondire i
problemi della PREISTORIA GRECA e mostrando una radice storica a miti e
leggende che si ritenevano, n dai tempi ellenistici, pure fantasie poetiche. Lo
Schliemann ebbe come compagno nelle spedizioni successive l’architetto W.
Dorpfeld, che poi seguitò sempre a studiare gli strati più antichi della civiltà
greca e il volume relativo agli scavi sulla collina di Troia-Hissarlik è dovuto a
lui. La cosa più curiosa è che lo Schliemann, che non era un archeologo,
vedendo realizzarsi il suo sogno, divenne via via più prudente nelle sue
ricerche; il Dorpfeld, invece, divenne sempre più propenso a conclusioni che
possiamo de nire più romantiche che e ettivamente scienti che. Particolarmente
discussa fu l’opera alla quale dedicò gli ultimi anni della sua vita, rivolta a
identi care l’Itaca di Omero, che sarebbe stata, secondo lui, la penisola di
Leucade, mentre altri studiosi hanno sostenuto che era l’isola di Cefalonia. Ad
ogni modo le ricerche del Dorpfeld sono servite a porre in luce per prima la vita di
età “elladica” e micenea nelle isole e nel continente greco e a dimostrare come
essa corrisponda a quegli orizzonti di civiltà che si trovano descritti nell’Odissea.
Alle scoperte della civiltà pre-ellenica hanno contribuito anche studiosi italiani con
la missione di scavi a Creta iniziata dal trentino Federico Halbherr, proseguita
dal romano Luigi Pernier e da Luisa Banti e diretta poi, a partire dalla seconda
metà del 900, da Doro Levi. La missione inglese poi dell’Evans si concentrò in
particolare sullo scavo e sul restauro ( n troppo spinto) del palazzo di
Cnosso. Palazzo grandiosissimo ed intricatissimo, che ci riprova come la
leggenda del Labirinto, edi cato per Minosse, mitico re di Creta, avesse un
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fondamento nella realtà storica e che fu conosciuto dai Greci già in rovina. Gli
scavi italiani, invece, hanno messo in luce, nella località di Phaistos, nella
parte meridionale dell’isola, un palazzo meno sontuoso, ma più chiaramente
distinguibile nella varie fasi di costruzione. Tali scavi furono eseguiti dal Pernier
che pubblicò solo il primo volume del materiale di scavo; il secondo è
apparso solo molti anni dopo per opera della Banti, con novità molto importanti,
perché ella si pose il problema di rivedere tutta la cronologia del materiale di
scavo ed è arrivata a conclusioni molto diverse e più convincenti di quelle
dell’Evans sulla cronologia della civiltà pre-ellenica. Altro passo importantissimo
per la ricerca storico-artistica del mondo pre-ellenico fu compiuto nel 1953, con
l’avvenuta decifrazione del più recente degli alfabeti cretesi, quello detto “lineare
B”, da parte dell’architetto M. Ventris. Egli confermò che la lingua usata in
numerose piccole tabelle di creta, coperte di segni in “lineare B”, era quella
GRECA. Il che signi cava quindi che l’ultima fase della civiltà cretese si era svolta,
come quella micenea, dopo l’espansione delle popolazioni di stirpe ellenica. Da
numerose altre scoperte è apparso poi chiaramente che la “lineare B” non è altro
che un adattamento della scrittura cretese “lineare A” alla lingua degli invasori
Achei. Tra la ne dell’800 e l’inizio del 900 si apri dunque un capitolo di
STORIA DELLA CIVILTA’ completamente ignorato no ad allora, che ha
facilitato la spiegazione di una grande quantità di fenomeni culturali e artistici della
Grecia storica e ha dimostrato come queste tribù doriche e achee, che si
ssarono nella Grecia intorno al 1200, si erano trovate di fronte ad una civiltà
molto più ricca e avanzata della loro, per quanto fosse ancora una civiltà limitata
nella sfera culturale dell’età del BRONZO. Sono gli immigrati dorici e achei che
portarono la civiltà del FERRO. Era pertanto inevitabile che le nuove popolazioni
assumessero elementi e motivi della civiltà minoica molto più avanzata, ma è
interessante notare che essi ne hanno ripresi molto meno di quelli che si sarebbe
pensato. Tale questione è stata considerata da molti studiosi e, per quanto
riguarda l’arte, si può concludere che ciò che si è desunto dalla civiltà
precedente è stata la tecnica, più che lo STILE ARTISTICO. La cosa non
deve sembrare strana perché noi sappiamo che l’arte gurativa altro non è che
un’espressione intimamente legata alla società che la produce. E quindi una
società completamente diversa da quella minoica, non poteva non produrre
un’arte COMPLETAMENTE DIVERSA, anche se si è impadronita delle invenzioni
tecniche della civiltà precedente.
Accanto a questi capitoli nuovi, intorno alla ne dell’800 (anche qui con l’intervento
dello Schliemann, che dette i mezzi per nanziare l’impresa), e mentre si stava
compiendo l’unità nazionale turca (guerra greco-turca del 1897), si andava
approfondendo la conoscenza della città greche, particolarmente dell’Acropoli
di Atene, che dopo lo spoglio dei marmi fatto da Lord Elgin, era a poco a poco
tornata a mostrare il proprio aspetto con la demolizione delle costruzioni che
l’avevano trasformata sin dal Medioevo in fortezza. I Propilei erano stati
inclusi entro torri di forti cazione, nella cui demolizione venne alla luce tanto
materiale da poter ricostruire non solo i Propilei, ma anche il tempietto,
quasi completo, di Athena Nike che sorgeva sul bastione. Questo è un piccolo
edi cio molto elegante con un parapetto adoro di gure di VITTORIE, che
sono tra le testimonianze più belle della generazione successiva a Fidia,
intorno al 420 a.C. Si ripresero ancora gli scavi nel cimitero del Dipylon (= le due
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porte) dove si misero in luce le tombe che vanno dal IX alla ne dell’VIII
secolo a.C dalle quali provengono pezzi fra i più belli che si conoscano. Al
tempo stesso, nella sistemazione dell’Acropoli venne posta in luce anche
tutta la documentazione dell’Acropoli arcaica. In particolare, quando nel 480 a.C i
Persiani distrussero l’Acropoli, devastarono tutti i monumenti esistenti, la tomba
del mitico Cecrope, il tempio che sorgeva al posto del Partenone, detto
Hekatompedon (il tempio “di 100 piedi), i resti di altri edi ci precedenti e tutta la
gran massa di ex-voto che erano nel temenos, cioè nel recinto sacro del
santuario. Dopo la vittoria sui Persiani, la nuova generazione di Ateniesi si
accinse alla RICOSTRUZIONE dell’Acropoli, che sarà poi quella di PERICLE: il
primo atto compiuto fu quello di allargare l’area utilizzabile alla sommità
dell’Acropoli mediante un muro; nello spazio intermedio fra il muro e la roccia
furono deposti tutti i resti degli ex-voto danneggiati che, in quanto cose
consacrate, non potevano essere distrutti. Questo riempimento è noto col nome di
“colmata persiana” e i pezzi in esso rinvenuti sono di per se stessi datati al periodo
precedente al 480 a.C. Questa data è assai importante, in quanto segna una
PROFONDA SVOLTA, che incide in tutti gli aspetti della società greca. Infatti
a una società aristocratica succede una società democratica, che crea un tipo
di stato NUOVO nel mondo, uno stato di diritto fondato sul concetto di giustizia e
dove vige il principio dell’ISONOMIA. E di tale società ovviamente è diversa
l’espressione artistica, tanto che questa data (480 a.C) segna, per noi, la ne
del periodo arcaico e l’inizio dello “stile severo”. Fu un trentennio, quello dal
480 al 450, paragonabile per intensità di TRASFORMAZIONE, per ricchezza di
problemi artistici e per numero di artisti attivi solo al periodo del Rinascimento
orentino. In 30 anni, nel giro di una generazione, infatti, si passa dalla rigida
statua arcaica, tutta dominata dalla linea di contorno, all’inaudita ricchezza plastica
di Fidia. Quindi gli scavi della ne dell’800 misero in luce tutti i frammenti
dell’Acropoli, che in parecchi decenni furono catalogati e pubblicati: tale
lavoro si può considerare terminato solo con la pubblicazione da parte di
uno studioso della scuola inglese, il Payne, delle sculture arcaiche
dell’Acropoli (nel 1936).
Il Payne, uno dei pochi archeologi dotati di intelligenza dell’arte, fece alcune
scoperte molto importanti: ad esempio scoprì che un torso di kore
proveniente dalla Francia meridionale e conservata a Lione combinava
perfettamente con la parte inferiore di una statua frammentaria trovata nella
colmata persiana. Quindi la “kore di Lione” o “Afrodite di Marsiglia”, come era
chiamata, si dimostrò proveniente dall’Acropoli, mentre tale scultura no ad allora
era stata ritenuta IONICA, perché rinvenuta in una zona di antica
colonizzazione ionica e vestita col chitone ionico. C’è stato, infatti, nei nostri studi
un periodo di “panionismo”, vista l’importanza avuta dalle colonie ioniche e,
seguendo certe indicazioni delle fonti, si ritenne di arte o comunque di
in uenza ionica tutta la scultura di età arcaica trovata ad Atene. Le scoperte del
Payne, invece, hanno dato un colpo a tale tendenza e posto in evidenza che la
scuola attica rappresenta non solo una produzione di costante qualità altissima,
ma il centro promotore di nuove invenzioni formali e di nuove problematiche
artistiche.
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Alla ne del periodo lologico, tra l’800 e il 900, si trova una gura di
archeologo che cerca di riprendere quello che era stato uno dei motivi
stessa dell’arte. Egli cerca, cioè, di porre lo studio dell’arte antica sopra un
fondamento teorico generale. Due sono i suoi studi fondamentali: “La
Il Lange, partecipe del comune equivoco che l’arte consistesse nella migliore
riproduzione del vero di natura, ritenne la frontalità diretta conseguenza della
“incapacità” di avvicinarsi al vero, di esprimere tutte le varietà che il vero porta con
sé: di qui la necessità di tipizzare la varietà, in modo che l’artista abbia una guida e
l’artigiano possa formarsi un repertorio che lo aiuti nel suo lavoro. Tale
formulazione del Lange, interessante perché per la prima volta dopo il
Winckelmann si ricercavano delle categorie generali della produzione artistica,
era strettamente legata alla tendenza positivistico-empirica della seconda
metà dell’800. L’arte, secondo questa tendenza, era vista come qualcosa di
completamente distaccato dalla personalità dell’artista, il che non era meno
erroneo di quel far consistere tutto e unicamente nella personalità, come fu
proclamato più tardi dall’estetica idealistica sulle orme del romanticismo.
Alessandro Della Seta si occupò invece del problema del superamento della
legge della frontalità nell’arte greca, superamento che noi siamo soliti designare
col passaggio dall’arte arcaica all’arte classica. Egli trovava che la frontali venne
superata grazie a una maggiore conoscenza dell’anatomia ed impostò sulla
conoscenza dell’ANATOMIA tutto lo sviluppo dell’arte greca, cadendo
nell’equivoco e nell’errore di porre lo sviluppo dell’arte greca sotto l’etichetta della
ricerca anatomica, come se essa si proponesse solo tale conoscenza e come
se la più dettagliata osservazione anatomica fosse stata un FINE e non un
MEZZO. Si ha, senza dubbio, un arricchimento di dettagli anatomici nel
passaggio dall’arcaico al periodo classico, ma l’osservazione anatomica era
soltanto un mezzo che serviva a di erenziare i piani nel chiaroscuro, ed è
proprio con l’inserire nella plastica elementi chiaroscurali, che si rompe la
frontalità del mondo arcaico e si cerca di raggiungere la piena CORPOSITA’ di
una gura che si muova in uno spazio non delimitato. Il Della Seta concentrò
per molti anni la sua attività nel volume “Il nudo nell’arte”, dove passa in
rivista tutta la scultura della Grecia, studiandola dal punto di vista della ricerca
anatomica. Egli mostra spesso una ne sensibilità intuitiva nella comprensione
dell’opera d’arte; ma il suo giudizio storico resta sicuramente in ciato dal suo vizio
di impostazione. Con questi tre studiosi, il Lange, il Loewy e il Della Seta,
siamo in un ambiente che ha tuttavia SUPERATO in parte il più stretto
lologismo tedesco; si nota in essi un orientarsi al criterio di indirizzare
l’archeologia vero problemi di carattere non più meramente lologico, ma di
interpretazione del fatto artistico (avvio dell’archeologia storico-artistica).
Agli inizi del 900 si entra in una NUOVA FASE degli studi di archeologia, il cui
processo si accelererà dopo la prima guerra mondiale, che anche a questa
disciplina impose una forzata stasi. Furono interrotti gli scavi e chiusi i musei. Fu
una pausa che indusse a ri ettere sul materiale già esistente per costruire
quell’edi cio per il quale si erano venuti raccogliendo i materiali. Una serie
di opere venute in luce nell’immediato primo dopoguerra presuppongono la
storicizzazione di tali materiali e al tempo stesso una presa in considerazione degli
originali piuttosto che delle copie. Se la storia del Winckelmann era stata concepita
in base alla conoscenza di sole copie, si arriva ora a studi che prendono in esame
solo gli originali, per porsi determinati problemi formali piuttosto che con l’intento
di compilare la storia di tutta l’arte greca. Tipica in questo senso fu l’opera
“Scuole di scultura della prima età greca”, pubblicata nel 1927 da Ernst
Langlotz, nella quale non ci si basava più sulle copie di età neoattica e
romana, ma su piccoli bronzi, opere originali minori, con il ne di ricostruire non
le grandi personalità dei Maestri celebrati dalle fonti, le cui opere originali sono
perdute, ma le varie scuole, le “o cine” artigiane dalle quali i maestri erano
scaturiti e che dai Maestri vengono in uenzate.
Ma dalla ne dell’800 prende inizio anche tutta una NUOVA FASE di ricerche
teoriche intorno alle arti gurative. Un’in uenza diretta sugli studi di
archeologia ebbero in particolare le teoria formulate da quella che fu detta la
scuola viennese. Attorno al 1895, a Vienna, furono particolarmente in evidenza due
studiosi, il Wickho ed il Riegl, entrambi storici dell’arte medievale e
moderna; il Riegl più fondato teoricamente, più sensibile al fenomeno artistico il
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Wickho . Tutti e due questi studiosi viennesi si sono occupati di storia dell’arte
antica per risolvere problemi di arte medievale, per chiarire i rapporti dell’arte
medievale con l’arte romana che l’aveva preceduta. Alois Riegl, per poter
ordinare al museo di Vienna il materiale archeologico romano-barbarico della
regione danubiana, studiò l’artigianato dell’ultimo periodo imperiale nell’opera
“Industria artistica tardoromana”, pubblicata nel 1901. Il suo studio lo portò a una
profonda revisione di tutta l’architettura, la scultura e la pittura romana a partire dal
II secolo, per giungere a una nuova VALUTAZIONE dell’arte romana e specialmente
dei secoli del tardo impero(III-V secolo d.C), allora generalmente considerati
di decadenza. In precedenza il Riegl aveva scritto anche un’opera di
carattere TEORICO intitolata “Problemi di stile”, nella quale aveva cercato di
chiarire le leggi generali che sembrano presiedere alla creazione dei motivi
ornamentali.
Tuttavia, egli rimase legato a una concezione antistorica che inquadrava la storia
dell’arte in una linea evolutiva predeterminata e che egli derivò dalle scienze
naturali. Ritenne così di poter articolare tutta l’arte dell’antichità in 3 periodi:
•periodo tattile a vista normale: che situa le forme in una ragionevole distanza
ambientale —> arte greca classica ;
La critica che è stata mossa a tale concezione è che essa abolisce ogni giudizio
di qualità: se non si deve valutare un’opera d’arte perché corrisponde al gusto
del proprio tempo, si può facilmente anche passare all’a ermazione che ogni
opera d’arte corrisponde al gusto del suo autore. Ma forse il Riegl stesso
sarebbe stato assai sorpreso di una tale estensione del suo pensiero. Più grave è
sicuramente un’altra obiezione: se è esatto il concetto che ogni epoca
produce un’arte diversa, che trova la sua giusti cazione nel mutarsi della società,
e che noi dobbiamo, per giudicarla storicamente, non tanto riferirla a un modello di
nostra preferenza, ma “rifacendoci contemporanei” del momento della sua
creazione, dobbiamo anche osservar che il Riegl trascurò del tutto lo stretto
rapporto tra arte e società, e pose come “deus ex machina” che regola tutto, il
gusto. Ma non si chiese mai come si formi e si costituisca quel gusto. Il vero
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problema sta invece nel comprendere perché gli artisti di un determinato
periodo abbiamo voluto fare in un determinato modo e non diversamente, e
quali siano le necessità che creano un nuovo gusto. Tuttavia, per una prima
rottura del meccanicismo degli archeologi, le teorie del Riegl ebbero grande
merito, e costituiscono un aspetto dello storicismo che entra nel campo della
storia dell’arte antica.
Franz Wickho , invece, in stretto contatto con le idee del Riegl, ma meno
preparato a formulazioni teoriche, si trovò dinanzi al problema di pubblicare
un famoso manoscritto purpureo di un libro della Bibbia, il libro della
Genesi, adorno di miniature, che si ritenevano allora del IV secolo e di fattura
campana, e quindi di supposta parentela con la pittura pompeiana. Per tale
pubblicazione il Wickho a rontò il problema di COME si fosse giunti al genere di
pittura mostrato dalle numerose illustrazioni del codice. Queste palesavano da
un lato un contatto con la tradizione ellenistica (nota allora SOLO attraverso la
pittura pompeiana) e dall’altro, una sostanziale diversità rispetto a quella
tradizione.
Come prefazione al suo studio, e basandosi sulle idee del Riegl, reagendo
vivacemente alla nulla considerazione nella quale gli archeologi tenevano
l’arte ROMANA, il Wickho , non archeologo, tracciò, quasi di getto, una sintesi
dello svolgimento dell’arte romana, sintesi che per oltre un decennio fu
ignorata dagli archeologi e che più tardi è stata troppo supinamente seguita,
senza sottoporla più a revisione. Egli fu il PRIMO a considerare come un valore
autonomo anche l’arte romana. I Romani, secondo lui, sono stati, sì, gli eredi
confessi del patrimonio artistico ellenistico, ma hanno prodotto anche elementi
artistici nuovi e originali. Tra questi il Wickho credette di poter riconoscere in
primo luogo l’elemento coloristico nella pittura, che egli studiò in modo
particolare, aiutato dal suo interesse per l’impressionismo dell’Ottocento francese.
Anzi, proprio per questa esperienza viva egli fu tratto ad esagerare nel porre in
risalto la “tecnica impressionistica” dell’arte romana in opposizione al classicismo
dell’arte greca.
e individuata in 3 punti:
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Quindi, secondo il Wickho , mentre l’arte greca aveva una tendenza più
plastica e disegnata, l’arte romana aveva tendenze più illusionistiche e
impressionistiche.
Anche la storia dell’arte antica, infatti, rivolge adesso la sua attenzione a fatti
formali: ci si comincia a persuadere che attraverso la lettura della FORMA artistica
si può arrivare a stabilire la CRONOLOGIA delle opere più esattamente che
attraverso i documenti. Tutto questo appare ovvio oggi: ma per queste
a ermazioni si veniva guardati con molto sospetto ancora attorno
al 1920-25, e addirittura con qualche biasimo morale. Si ebbe, tuttavia, uno stacco
netto dall’archeologia come era intesa in precedenza, in cui ci si proponeva
innanzitutto l’interpretazione del soggetto e del mito, e l’illustrazione di una fonte
letteraria. Ci si pose ora in modo autonomo il problema formale dell’opera d’arte.
Si arriva così a estendere e approfondire quanto Giovanni Morelli aveva già
scoperto nella storia dell’arte moderna, quando richiamò l’attenzione degli
storici dell’arte su quelli che furono detti gli “elementi morelliani”, cioè sul
fatto che ogni artista ha una specie di cifrario, usa nelle sue opere
particolari secondari sempre uguali, per esempio una pennellata mossa in un
determinato modo, la rappresentazione di un occhio in una maniera caratteristica.
Questi particolari tecnici e pratici possono e ettivamente aiutarci a ritrovare e a
determinare la paternità di un’opera d’arte, anche laddove manchino i
documenti per stabilire il nome dell’artista. Tuttavia, in conclusione, l’in uenza
della scuola di Vienna e delle conseguenti ricerche, nonostante il pericolo di
cadere in formulazioni teoriche astratte, meta siche e formalistiche, fu un
avvicinarsi alle tendenze che lo STORICISMO aveva introdotto nella cultura
europea e un ampliarsi dell’orizzonte, prima esclusivamente classicistico, degli
archeologi, in quanto storici dell’arte antica.
PROBLEMI DI METODO
A questo punto occorre accennare alla posizione che in questo sviluppo storico
hanno assunto le teorie e la metodologia dell’estetica crociana, anche se essa
non ha avuto nel complesso grande in uenza nell’archeologia.
Nell’archeologia tedesca, inglese e francese è penetrata soprattutto l’indagine
delle categorie artistiche del Wol in, che non contraddice sostanzialmente
all’estetica crociana anche se questa ha de nito i limiti di tale indagine. Si
de nisce “estetica crociana” la concezione formulata da Benedetto Croce,
secondo cui tutti gli elementi della vita quotidiana, tra cui anche l’arte,
erano espressione di un’ESTETICA. Tuttavia, nel quadro della cultura europea
della prima metà del XX secolo, l’Italia ha dato alla storia dell’arte un suo
contributo proprio in rapporto all’estetica crociana, quel contributo che altre
nazioni hanno dato attraverso altre tendenze, tutte facenti capo, più o meno
direttamente, all’idealismo di derivazione hegeliana.
E dall’estetica crociana prese le mosse anche uno dei maggiori teorici della
storia dell’arte antica del 900: Ranuccio Bianchi Bandinelli. Nell’Enciclopedia
Italia 1938-1948 si scriveva di lui: “movendo dal pensiero crociano, ha
a ermato e sviluppato una sua concezione teoretica nel campo estetico e
storico, segnando un profondo RINNOVAMENTO negli studi dell’arte classica,
superando la fase lologica e archeologica in una VALUTAZIONE CRITICA della
genesi dell’opera d’arte e della personalità dell’artista creatore” Il contributo di
Bianchi Bandinelli a questa fase della ricerca novecentesca si può
compendiare in una serie di lavori, condotti tra il 1930 e il 1942 e raccolti nel
volume “Storicità dell’arte classica”. In Italia l’archeologia aveva sentito ben poco
l’eco della scuola viennese e per niente l’in uenza del Wol in. Era quindi
rimasta alla fase lologica e al Furtwaengler. I rappresentanti tipici di questa
condizione italiana, ma che stanno al Furtwaengler solo come dei modesti
epigoni, furono Pericle Ducati e Giulio Emanuele Rizzo, i quali furono i docenti che
ebbero maggior seguito nel ventennio 1920-1940 nel campo dell’archeologia.
Ranuccio Bianchi Bandinelli si era posto il problema di AGGIORNARE la posizione
teorica degli studi di storia dell’arte antica, inserendola nella corrente
storiogra ca del Croce e cercando di arrivare a comprendere la storia dell’arte
nella sua concretezza e nelle personalità che la costituiscono. Fino ad allora,
infatti, la de nizione di una PERSONALITA’ artistica era stata particolarmente
trascurata: infatti, legati a una concezione di evoluzione artistica di tipo
“biologico”, si parlava sempre di “arte” e mai di “ARTISTI”. Quindi per rompere i
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residui dell’estetica winckelmanniana bisognava compiere una ricerca della
personalità ponendo in risalto il carattere autonomo di alcuni aspetti del fatto
artistico.
Inoltre, per la storia dell’arte antica, si ripetevano i giudizi critici del Winckelmann,
che a loro volta erano quelli di Plinio. Bandinella ha quindi cercato di dimostrare
innanzitutto come NON si potessero più accettare acriticamente tali giudizi e che si
dovesse fare una storia dell’arte antica in base a giudizi dati da noi, pur nella
convinzione che non si tratti di giudizi immutabili ed eterni. Secondo Bandinelli, la
cultura italiana tra il 1920 e il 1940, cioè fra le due guerre mondiali, è stata
sottoposta a 2 DITTATURE, non paragonabili tra loro, ma pur sempre
limitative verso l’orizzonte europeo:
•il fascismo;
•il crocianesimo.
Secondo Bandinelli, invece, la storia dell’arte consiste nel de nire le singole opere
nella loro storicità individuale e nel legarle con la storia della cultura de nendo
il rapporto dell’opera d’arte con il suo determinato “ambiente”. In ogni opera
d’arte dell’antichità, riconosciuto il forte legame delle tradizioni artigiane delle
singole o cine o scuole, la ricerca da condurre, limitandosi al problema
artistico-formale è duplice:
•da quali preesistenti schemi iconogra ci discende una data opera d’arte e
in che cosa tali schemi vengono (o non vengono) innovati;
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In ne, va spiegato quello che è avvenuto, negli stessi anni, in Germania. In
Germania, l’estetica crociana ebbe scarsissima in uenza sugli studi di storia
dell’arte, non perché se ne erano scorti i limiti, ma perché per la larga parte degli
studiosi tedeschi egli apparve “poco sistematico”. L’archeologia tedesca era
apparsa, per tutto il corso dell’800, metodologicamente all’avanguardia e
veramente dominatrice in questo campo. Dopo quel periodo brillante, durante
il orire della scuola lologica, l’archeologia tedesca, nel passare dalla
raccolta e della catalogazione dei fatti all’interpretazione dell’opera d’arte,
non è stata più sorretta da una METODOLOGIA che le permettesse di
approfondire meglio il fatto storico. In luogo di ciò, è avvenuta una fuga verso
l’irrazionale, il mitologico, che ha invaso tutta la cultura germanica.
I sei cicli (categorie), con la cronologia relativa al mondo classico, sono i seguenti:
Pur tuttavia in questo “mitizzare la storia” dell’opera di Buschor, non mancano nel
suo scritto singole osservazioni interessanti e acute, degne di un profondo
conoscitore dell’arte greca. Ad esempio felici osservazioni vengono fatte sul
problema del ritratto greco: il Buschor riconosce che nel terzo periodo (secoli V e
IV) si formano le PREMESSE per il ritratto e per il quarto periodo (da Alessandro al
I secolo a.C) nota come caratteristico il fatto che i ritratti più caratterizzati
sono quelli creati dall’immaginazione, senza il modello (cioè i cosiddetti
“ritratti di ricostruzione”). Giustamente poi vengono individuate alcune delle
cause per cui soltanto nel periodo ellenistico si giunge alla rappresentazione
di gure non intere (busti), perché la statua non è più sentita come cosa
viva, ma come “oggetto d’arte”. E felicemente è anche individuato il contenuto
delle statue della tarda antichità, che, come egli stesso dice, tornano a divenire
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statici monumenti, perché non esprimono più né la vita esteriore né la molteplice
vita dello spirito, ma solo la situazione SOCIALE e la dignità di chi domina.
Particolarmente interessante è l’osservazione che ad un certo momento l’arte
greca, quando diviene soprattutto arte al servizio della corte dei vari regni
ellenistici, cessando la sua concezione religiosa, diventa un’arte cosciente del
proprio ARTIFIZIO: si produce allora l’opera d’arte che serve ad esempio a ornare
la casa, o per il semplice piacere di avere tra le mani un bell’oggetto. Tutte le
felici osservazioni del Buschor, dovute alla sua diretta intelligenza dell’opera
d’arte, sono annegate e rese storicamente ine caci quando come loro
presupposto e loro causa, si prende il fatto di “appartenere” a un determinato
ciclo.
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