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ARCHEOLOGIA:

L’archeologia ha subito negli ultimi cinquant’anni , e specialmente, a partire dalla


seconda metà del ‘900 trasformazioni profonde del suo METODO e sul suo FINE.
Vale quindi la pena di riandare tracciando le varie fasi, i vari ASPETTI che questa
disciplina ha trascorso, per arrivare a comprendere meglio che cosa essa può
rappresentare oggi nel contesto della nostra cultura. Non più di certo, quanto
diceva della lologia un maestro del passato (il WILAMOWITZ) che essa ha come
scopo la “contemplazione pura e felice della vita antica, con in più la
soddisfazione che deriva dal fatto che essa è studio accessibile a pochissimi”, in
quanto una tale impostazione è al tempo stesso esclusivistica e meramente
edonistica ma occorre comunque tenerla presente per comprendere alcuni aspetti
degli studi che hanno rappresentato, nella cultura moderna, un momento
conservatore, legato ad una concezione che si proclamava umanistica, ma che
del vero umanesimo conservava solo aspetti deleteri.

Sappiamo che la parola “archaiologhia” la troviamo negli autori antichi col suo
senso letterale di DISCORSO, INDAGINE SULLE COSE DEL PASSATO, antiche.

In particolare nell’introduzione dell’opera (‘LE STORIE’) del grande storico greco


Teucidide, (V sec a.C) , che appunto è detta ‘archaiologhia’ noi troviamo un preciso
esempio di DEDUZIONE STORICA DA UN DATO ARCHEOLOGICO: Teucidide
infatti sostiene che FENICI e CARI erano i pirati che abitavano in età più remota le
isole dell’Egeo e prosegue : “ed eccone la prova. Quando durante questa
guerra (Guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta) gli Ateniesi puri carono
Delo e tolsero tutte le tombe dall’isola, oltre metà delle salme apparvero di
CARI, riconoscibili dall’ARMATURA SEPOLTA CON ESSI e dal SISTEMA COL
QUALE SEPPELLISCONO ancora adesso”. Quindi SUPPELLETTILE (armatura) e
RITO FUNEBRE, chiari elementi archeologici, portati a supporto di una TESI
STORICA.

L’unità della ricerca storca (avviata da Teucidide) si frantumò quando il termine


‘archeologia’ si applicò allo studio delle ANTICHITÀ IN SE’ PER SE STESSE,
indipendentemente dal periodo storico che le aveva prodotte, abbassandole a
MERO OGGETTO DI CURIOSITÀ. Questa ricerca minuta e PRIVA DI METODO
degenerò nelle DISPUTE individuali che riempivano le tante accademie sorte in
Europa della Riforma e dell’età Barocca e specialmente in Italia. E sicuramente
sussistono ancora oggi i continuatori di questa archeologia, che possiamo de nire
ARCHEOLOGIA ANTIQUARIA settecentesca, che fece scrivere al WINCKELMANN,
in una lettera a GENMAR del 1757, che un ne collaterale dell’opera alla quale
attendeva “era di mandare a gambe all’ aria gli studi dei miserabili antiquarium
romani.”

Quest’opera del Winckelmann era la “Storia delle arti e del disegno presso gli
antichi’ che, pubblicata 1764, doveva costituire l’ATTO DI NASCITA DELLA
MODERNA ARCHEOLOGIA. L’archeologia ebbe da allora come tema precipuo lo
STUDIO DELL’ARTE CLASSICA: ma il pensiero del Winckelmann venne frainteso
in ciò che aveva di più vitale, e seguito in ciò che in esso era di più caduco, di più
legato al suo tempo. Infatti, il grande salto di qualità che egli aveva fatto compiere
agli studi di antiquaria consisteva nel passaggio all’erudizione ne a se stessa,
supporto di piccole ambizioni personali, mera curiosità letteraria e accademica, ad
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una PRIMA RICERCA E DISTINZIONE CRONOLOGICA DI VARIE FASI DELL’ARTE
DEL MONDO ANTICO e alla ricerca di SUPPOSTE LEGGI che presidiassero al
raggiungimento della BELLEZZA ASSOLUTA nell’arte.

L’antichità cessò in tal modo di essere considerata un TUTTO OMOGENEO e


indistintamente diverso dell’età moderna , e si introdussero in questi studi DUE
ESIGENZE DI RICERCA:

1. Storicistica;

2. Di de nizione estetica.

Purtroppo fu quest’ultima esigenza a PREVALERE per oltre un secolo, facendo


avanzare lo studio dell’arte antica lungo un solco di ACCADEMICA
INCOMPRENSIONE verso tutto ciò che NON corrispondeva ai canoni di quel
NEOCLASSICISMO che già i predecessori del Winckekmann (come GIAAN
PIETRO BELLORI) avevano creduto di poter desumere dalle sopravvivenza della
scultura antica. E tanta fu l’autorità di quei precetti neoclassici da non farli mutare
nemmeno quando fu chiaro che la scultura antica, dalla quale essi erano stati
desunti e in base alla erano stati formulati, NON ERA VERA SCULTURA GRECA,
come si credeva, ma era costruita dalle COPIE, più o meno infedeli, di quelle opere
che la tarda cultura ellenistica, rivolta nostalgicamente al passato, aveva ritenuto
essere più nobili e quindi di riproduzione. Avvenne quindi che si continuò a
studiare l’arte greca sulle copie che un’INDUSTRIA ARTISTICA COMMERCIALE
aveva approntata per gli appassionati collezionisti dell’antica Roma. E su questa
via si continuò anche quando gli archeologi inglesi, tedeschi e francesi ebbero
dato inizio alla scoperta degli antichi centri in Asia Minore e della Grecia ed ebbero
portato alla luce OPERE D’ARTE ORIGINALI della scultura greca.

L’archeologia venne quindi inter come STORIA DELL’ARTE GRECA BASATA


SULLE FONTI LETTERARIE. Essa quindi appariva glia diretta della FIlOLOGIA,
che approntava proprio la carica sulle fonti mentre lo scavo archeologico era
inteso soprattutto quale RECUPERO DI PEZZI DI COLLEZIONE (Bismark che
taglia i fondi per la missione di scavo ad Olimpia perché non erano state poste in
luce sculture che “saltassero abbastanza agli occhi”).

questa archeologia di SPURIA DERIVAZIONE WINCKELMANNIANA fu posta in


crisi e superata da DUE FATTORI, che conviene analizzare separatamente:

1. Dallo Storicismo che era andato a ermandosi nei ultimi due decenni dell’800
(pur con indirizzi e accenti diversi) nella cultura europea;

2. dall’accresciuta importanza, nel campo della ricerca archeologica sul terreno


(cioè dello scavo) , dell’indagine sulla preistoria.

I. Lo storicismo fece , in questo campo, una sua apparizione, anche se in forma


NON ESPLICITA e nel suo aspetto IDEALISTICO, negli scritti del massimo
rappresentante della ‘SCUOLA VIENNESE’ alla quale si dovette sicuramente
una SVOLTA NELLA STORIOGRAFIA ARTISTICA DELL’ ANTICHITA’, ovvero
ALOIS RIEGL. Nel suo volume ‘INDUSTRIA ARTISTICA’ (1901) egli si oppose
all’opimo comune degli altri studiosi, i quali consideravano (sulla scia della
teoria di Winckelmann) l’arte successiva all’età degli imperatori Antonini, cioè
posteriore negli anni 80 del II sec. d.C. come un fenomeno irresistibile di
DECADENZA, e dimostrò come essa andasse considerata espressione di un
DIVERSO “GUSTO”, di una diversa volontà artistica che doveva essere
VALUTATA PER SE’, e non come si era fatto sino ad allora (per pregiudizio
estetico Winkelmanniano) in confronto con l’arte greca di 7-8 secoli innanzi.
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Tuttavia , il linguaggio critico di Riegl apparve così insulto agli archeologi
winckelmanniani, che il massimo rappresentante dell’ ARCHEOLOGIA
FILOLOGICA (Adolf Furtwaengler) confessava di aver letto tre volte il libro di
Riegl e di non averci capito nulla. Ci vollero, molti anni, quasi una generazione
intera perché l’impostazione data dalla scuola viennese venisse accolta e
frutti casse. E un’altra generazione ancora, perché ci si accorgesse, come
oggi ci risulta chiaro, che l’IMPOSTAZIONE IDEALISTICA del Riegl non era
su ciente a spiegare il fenomeno di una rottura nella tradizione artistica
dell’ellenismo, una rottura che creava una NUOVA TRADIZIONE FORMALE, la
quale sostanzialmente dal III sec. d.C. arriva al XIV. Intanto nuove correnti dello
storicismo, contrapponendosi all’interpretazione del processo storico come
realizzazione di un principio spirituale in nito, riportavano la storia ai suoi
termini umani. In questo senso è sicuramente emblematico il pensiero di Max
Weber, il quale riteneva che la storia fosse OPERA DEGLI UOMINI e quindi si
sforzò di ricondurre la ricerca storica dalle astrazioni dei principi universali a
quello che poteva apparire concreto processo e concatenato dei fatti. Su
questa via, la ricerca storico-artistica del mondo antico si è enormemente
allargata nell’ultimo quarto del ‘900. Liberatasi dall’IPOTECA CLASSICA, la
stessa arte greca non è apparsa più come un MODELLO FISSO E
IMMUTABILE, ma è stata STORICIZZATA, è stata vista in un quadro
immensamente più ampio e se ne è avviata una più coerente e RAZIONALE
COMPRENSIONE. Al tempo stesso è stato a rontato su nuove basi il
problema dell’ ARTE ROMANA, alla cui retta comprensione avevano fatto
sicuramente impedimento sia i pregiudizi classicisti sia le rozze esaltazioni
nazionalistiche. Al tempo stesso la STORICIZZAZIONE della ricerca artistica
aveva aperto la via anche alla comprensione della CIVILTTA’ ESTRANEE AL
MONDO CLASSICO: dell’arte Mesopotamia e di quella egiziana o anche
dell’arte iranica.

II. E qui si innesta il secondo punto, cioè l’archeologia come DOCUMENTAZIONE


per mezzo della ricerca di SCAVO sul terreno. Come già detto, l’archeologia
deve agli studiosi di PREISTORIA e di PROTOSTORIA di aver rinnovato e
approfondito, in questo campo, il proprio metodo e le proprie nalità. Un
tempo , gli archeologi classici, eri dei propri legami con la lologia,
ironizzavano sull’attività degli studiosi di preistoria chiamandola “SCIENZA
DEGLI ANALFABETI”, perché PRIVA DI FONTI SCRITTE. Ora, sono stati
proprio questi ‘analfabeti’ a rinnovare la ricerca archeologica. Costretti a
ricostruire tutto sul DATO OGGETTIVO, a interpretare una INDAGINE TUTTA
INDIZIARIA, gli studiosi di preistoria hanno sviluppato METODI DI SCAVO di
estrema oculatezza , ben sapendo che ogni scavo archeologico distrugge una
documentazione accumulatasi nei millenni. Perciò questa
documentazione deve essere RILEVATA VIA VIA CHE VIENE ALLA LUCE e
che viene asportata, con estrema esattezza, in modo che la situazione
originaria di ogni minimo oggetto reperito possa in qualunque momento essere
RICONOSCIUTA a tavolino e interpretata, anche a distanza di anni, sotto nuovi
punti di vita. Perciò ogni scavo clandestino , ogni scavo non scienti co è
deprecabile non tanto perché sottrae alla collettività oggetti più o meno
preziosi, ma soprattutto perché distrugge una documentazione ; il che equivale
all’incendio di un archivio, senza che ne siano state mai lette le carte.

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L’archeologia preistorica ci ha insegnato che non ci sono doppioni super ui, ma ci
ha anche confermato che NON VI SONO PEZZZI UNICI. La produzione di
manufatti da parte dell’uomo ha una continuità e una variazione, che si
susseguono per secoli, e che si interrompono solo per cause esteriori di estrema
gravità: invasione di altri popoli, cataclismi, ecc…

Si è andato perfezionando lo scavo STRATIGRAFICO con l’esatta osservazione


delle varie successioni e lo studio dei reperti ceramici, anche privi di qualsiasi
ornamento.

Studiando la forma di una serie di vasi di terracotta di uso comune, si riesce a


stabilire lo svolgimento di una produzione, la sua di usione mercantile, e a risalire
a CONDIZIONI SOCIO-ECONOMICHE prima ignote.

Accanto a questa tecnica si sono a ancate tecniche scienti che , quali le


INDICAZIONI CRONOLOGICHE mediante il rilevamento dei RADIOCARBONIO
C\14 residuato nei materiali organici; lo studio dei depositi di polline nei bacini
lacustri, l’esplorazione mediante la fotogra a aerea.

Attraverso questi METODI si sono avuti risultati di grande importanza storica nella
esplorazione dell’Anatolia.

La data storica più remota, è quella fondazione della I dinastia dell’Egitto attorno al
3100 a.C. Dalle liste numeriche non si risale al di là del 2400.

Oggi possiamo risalire sino alle prime fasi dell’associazione umana in comunità
stabili e datarle tra l’8000 e il 7000 a.C. Tracce di tali insediamenti sono apparse a
Gerico nella valle del Giordano, a Jarmo in Iraq, Argissa in Tessaglia.

Il luogo più importante è quello di çATAL-HUYUK in Anatolia, nella pianura di


Konya, la cui vita si è potuta seguire attraverso 13 STATI ARCHEOLOGICI per un
periodo di 3000, dal 7000 al 5700 a.C.

Qui è stata messa in luce una vera e propria città dall’estensione di 12 ETTARI, con
vere e proprie case a pianta rettangolare , costruite con mattoni crudi sorretti da
INTELAIATURE DI LEGNO. Alle case si accede dall’altro, dal tetto mediante scale
di legno, non sse.

Si sono rinvenuti utensili di selce e di ossidiana e vasi di uso domestico in marmo


e in lava, STOFFE IN LANA E IN FIBRE DI TAGLIO E LINO, ma anche PITTURE
SULLE PARETI INTERNE DELLE CASE e nei livelli più recenti IMMAGINI IN
ARGILLA DI UNA DEA madre antropomorfa, accompagnata da una gura maschile
(sposo o glio) con aspetto, in parte di animale (toro o ariete).

Nei sacelli di culto (strati dal V al III) pitture con combattimenti di animali e cacce a
tori, cervi, cinghiali, scene di corse, danze e un’impressionante scena di morte,
con avvoltoi che divorano cadaveri privi di testa.

Nei livelli nali cessano le tracce dell’esercizio della caccia e le pitture di animali.

Si è potuto dunque constatare l’esistenza di una civiltà complessa e avanzata e


a ermare, riunendo tutti i dati, che è stato nel Vicino Oriente che si è svolta quella
che viene chiamata la “la rivoluzione neolitica”, termine nato come parallelo a
quello di “rivoluzione industriale” in uso per indicare l’inizio delle moderne industrie
meccaniche alla ne del XVIII secolo.

Si trattava, anche nel caso della rivoluzione neolitica, di un profondo mutamento


nelle strutture della società primitiva a seguito alla scoperta di nuovi metodi di
produzione.

Questa rivoluzione si compì nel territorio, tra l’altopiano anatolico e i deserti


dell’Asia centrale, tra il Caucaso e la Palestina, anche perché solo qui si trovavano
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le premesse necessarie; ovvero: gli animali addomesticabili (pecore, bovini, suini) e
gli antenati selvatici del grano, orzo, lenticchie, piselli ecc…

Questa constatazione ha fatto rinunciare all’idea che la Mesopotamia e l’Egitto


furono le culle della nostra civiltà, avendo iniziata una grande agricoltura lungo le
sponde dei due umi. Ciò, corrisponde ad una fase successiva.

L’archeologia, oltre che i documenti dei ceti politici dirigenti, ha posto in evidenza
strutture provinciali e periferiche che le fonti storiche trascurano, conferendo ad
esse un valore per se stesse e non solo comparativo con le fasi di civiltà più
avanzate.

L’archeologia si è maturata così a vera e propria SCIENZA STORICA, e non più


“scienza ausiliaria” della storia. Essa rappresenta un modo diverso, di indagine
storica; ma il ne è il medesimo, dopo che anche la storia non è più solo la storia
DEI GRANDI UOMINI E LE LORO GUERRE, MA LA STORIA DEI POPOLI. Anziché
sulle fonti scritte, essa si basa sui dati materiali che una civiltà produce e lascia
dietro di se.

Ciò non vale solo per quella storia di quelle età che siamo soliti chiamare
‘preistoriche’ perché mancano di fonti scritte, ma sono età in cui gli uomini ebbero
una storia; ciò vale anche per l’età più vicine, giacché le fonti letterarie sono
sempre in doppio modo parziali: parziali nel senso che si limitano a determinati
periodi, parziali nel senso che rappresentano una stessa interpretazione dei fatti.

Il dato archeologico è per sé IMPARZIALE , ma si tratta di saperlo interpretare. Più


volte è avvenuto che certi problemi storici sono emersi solo attraverso l’indagine
archeologica. Sono stati spesso gli archeologi a proporre problemi storici, perché,
spinti dal metodo comparativo e dal contatto diretto con i documenti materiali,
vengono condotti a porsi problemi concreti di produzione e quindi di associazione,
cioè, di STORIA.

Negli immediati dintorni di Roma sono emersi dati storici nuovi attraverso la ricerca
archeologica.

A Lavinio non si è avuta soltanto la conferma dell’antichità di una leggenda


(ENEA)ma la documentazione di contatti diretti del Lazio, quindi di Roma, con il
mondo greco.

A sud di Roma, il fatto che una necropoli è ricostruibile attraverso vasi importati
dalla Sicilia orientale (THAPSOS) cessa bruscamente di esistere appare indizio di
uno spostamento della popolazione, che si può ricollegare alla tradizione al re
ANCO MARZIO la distruzione di alcuni centri locali e la degli abitanti a Roma,
sull’Aventino.

Le lamine d’oro trovate nel santuario di Pyrgi, porto di Caere, alcune scritte in
etrusco, altre in fenicio, databili al 500 a.C, hanno rivelato contatti etrusco-punici
che le fonti storiche lasciavano a malapena intravedere e hanno reso più credibile
la tradizione annalistica relativa ad un primo e antico trattato fra Roma e Cartagine.

A Roma, gli scavi del Palatino, del Foro Romano e all’area di S. Omobono hanno
rivelato situazioni storiche prima non pensabili. E’ di questi anni, raggiunta a Ostia
attraverso un’indagine sui “cocci”, la constatazione che la maggior parte della
ceramica da mensa di età imperiale romana proveniva da fabbriche dell’Africa
settentrionale (attuali ALGERIA e TUNISIA), dove le forza di lavoro impiegate nella
coltivazione dei latifondi potevano venir impiegate nelle OFFICINE CERAMICHE. E’
tutto un quadro socio-economico sinora ignorato, che si inserisce come dato di
fatto nella storia di età imperiale. Si parla molto di INTERDISCIPLINARITÀ, oggi nel
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mondo della Scuola. Ma tra storici dell’antichità e archeologi, dovremmo parlare di
STRETTA COLLABORAZIONE (più che di interdisciplinarità) in un’unica materia di
ricerca, la Storia. Tale stretta collaborazione è augurabile che possa estendersi
anche oltre il mondo antico e comprendere anche le antichità medievali.

Fra storici dell’antichità e archeologi, gli uni non possono fare a meno degli altri: il
dato archeologico va CONFRONTATO, col documento storico e il dato storico, col
documento archeologico. Si viene così a creare una vera SCIENZA STORICA, che
lascia nell’oblio le ricerche antiquarie degli archeologi settecenteschi (ancora
viventi), sia la speculazione di quegli storici che, partendo da INTELAIATURE
TEORICHE ASTRATTE, niscono per adattare a queste i fatti. A tal modo di
procedere è preferibile, quel tanto di empirismo che permette di aderire sempre
agli elementi concreti e umani che si incontrano, individuando nei fatti il
RAPPORTO tra l’economico e il sociale, nel che, si articola la STORIA.

Ma gia il vecchio Droysen (nel Sommario di Istorica) insegnava che “non sono le
cose passate, che con la ricerca storica, diventano chiare, ma diventa chiaro quello
che di esse , non è ancora tramontato, sia che si tratti di memorie di ciò che fu ed
avvenne, sia di avanzi di ciò che non è stato ed è avvenuto.”

PREMESSA

L’archeologia per molto tempo non è esistita come disciplina autonoma, se come
parola corrente. Il termine archeologia si trova nelle fonti antiche ma con signi cato
generico i DISCORSO, NOTIZIE SUI TEMPI ANTICHI. Ci sono già presso gli antichi
esempi di studiosi che si sono interessati della civiltà di genti remote: così come
ad esempio Erodoto quando scrive il capitolo sugli egiziani nelle sue “Storie”, così
come Pausania nella sua “Periegesi della Grecia” scritta nel II secolo d.C.

Va anche detto subito che questa disciplina ha sensibilmente mutato volto nel
corso degli anni:

• Archeologia Filologica: ‘800 no alla prima guerra mondiale (1914-18)

• Archeologia Storico-artistico: periodo intermedio tra le due guerre (1919-1939)

• Archeologia storica: con particolare interesse per le età preistoriche e


protostoriche e a ermatasi dopo la ne della seconda guerra, cioè no ai giorni
nostri.

Inoltre dobbiamo porci un’altra domanda importante: come si è studiato il mondo


antico nel corso della storia?

- Nel Rinascimento si ebbe una ricerca appassionata del mondo antico: i


maggiori artisti del Rinascimento si recarono a Roma, per studiare e misurare i
monumenti antichi di architettura e per scoprire gli avanzi degli edi ci sepolti le
pitture che poi saranno imitate nelle ‘grottesche’. E in merito a ciò è ben noto il
racconto del VASARI fa, nella vita del BRUNELLESCHI, di come questi, avendo
sentito lodare di un SARCOFAGO ROMANO esistente nella Cattedrale di
Cortona si partì così com’era nella bottega, a piedi, e si lasciò portare a Cortona
dalla volontà e dall’amore che recava all’arte e ne ritornò col disegno del
sarcofago. Ma questa non era ‘archeologia’, anche se ne costituisce
sicuramente un punto di partenza. Questa ricerca però era volta alla
CONOSCENZA di quell’arte antica, che era considerata come un limite da
ritrovare e da raggiungere, e come un ESEMPIO nel quale riconoscere se stessi
ad esprimere i nuovi tempi. Aveva dunque un VALORE ATTUALE, non storico.
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Accanto a questa ricerca sorge anche il gusto per le raccolte di OGGETTI
ANTICHI, artistici e non, e uno studio “antiquario” in un senso però diverso dal
senso corrente. Gli “antiquari” rinascimentali erano gli studiosi degli USI e dei
COSTUMI e soprattutto della MITOGRAFIA , e il loro scopo era da un lato
interpretare i monumenti gurati e dall’altro di ricostruire gli usi e i costumi degli
antichi; entrambe le cose, però, venivano fatte con poco senso critico e
assenza totale di metodo.

- In Epoca moderna, gli studiosi che si dissero “di antichità” furono fondati
soprattutto sull’epigra a e, attraverso questa, sulla ricostruzione delle norme e
delle leggi che regolavano la vita civile e religiosa, nonché sulla ricostruzione
della “PROSOPOGRAFIA”, cioè la de nizione della PERSONALITÀ STORICHE,
menzionate nelle epigra e le loro funzioni u ciali. Questi studi, costituenti
sicuramente un importante MEZZO AUSILIARE di documentazione storica,
andarono distinguendosi nettamente da quelli di archeologia che si andarono
sempre più rivolgendo al FATTO ARTISTICO tanto che il termine si identi cò
spesso con quello di “storia dell’arte greca e romana”.

- Nella prima metà del ‘700 una tta schiera di uomini, più o meno eruditi, si
danno agli studi di “antiquaria”, favoriti dai mecenati ecclesiastici o secolari, che
amavano raccogliere oggetti di scavo. In questo periodo l’opera d’arte antica è
considerata solo come un DOCUMENTO (per cui, per esempio, una statua
togata interessa solo per lo studio della toga e del costume, non per se stessa
come opera d’arte). Così ancora la Colonna Antonina a Roma, con il loro
RILIEVO sorgenti a nastro, interessano solo come documenti per studiare i
costumi militari e gli episodi delle guerre in esse rappresentate. Gli antiquari
persero ben vista il vero scopo del loro studio e nirono per cercare nei
monumenti soprattutto una conferma a determinare ipotesi.

- Alla ne del XVIII/ inizi del XIX secolo si di use un fervente classicismo che
segnò l’inizio dell’archeologia ( espressione del Goethe del 1826 che nella
ricerca dell’antico, anche se ancora idealizzato, trovava una ricerca della realtà
del mondo concreto). Nonostante l’IDEALIZZAZIONE DELL’ANTICO, ancora
presente del Goethe, e il principio dell’imitazione dell’arte antica insito nel
neoclassicismo , fu in questo periodo che furono poste le PRIME BASI per una
conoscenza storica dell’antichità.

WINCKELMANN (1717-1768)

La nascita dell’archeologia dell’arte che studia i monumenti NON più come


documenti illustrativi, ma come OPERE D’ARTE IN SE STESSE e come
DOCUMENTO di civiltà e cultura, possiamo attribuirla a Johann Joachim
Winckelmann. Winckelmann nacque Stendal, nella Sassonia prussiana, nel 1717,
glio di un povero maestro calzolaio. Frequentò il ginnasio a Berlino e il liceo a
Salzwedel: nel 1738 si trasferì nella città di Halle come studente di teologia
dedicandosi tuttavia ben resto e con grande entusiasmo alla letteratura e all’arte
greca. Diventò BIBLIOTECARIO di un nobile tedesco e attraverso la LETTURA
DELLE FONTI classiche si innamorò della BELLEZZA DEL MONDO ANTICO e,
superando non lievi di coltà, da luterano facendosi opportunamente cattolico,
giunse a Roma nel 1755. A Roma riuscì a trovare un magro stipendio e venne
ospitato come servo al palazzo della Cancelleria Apostolica; ma poi riuscì con
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tenacia a poco a poco a imporsi all’ambiente dei poco dotti eruditi romani e a
divenire CONSERVATORE DELL’ANTICHITA di Roma. Ma possiamo a ermare che
egli NON si limito agli studi di antiquaria e cercò di costruire per la prima volta una
vera STORIA DELL’ARTE che intitola “Storia delle arti e del disegno presso gli
antichi” (1764). Oggi sicuramente quest’opera risulta superata ma resta a
Winckelmann il merito di aver trasportato lo studio dell’arte antica dalla mera
erudizione e dalla disputa accademica in un campo più vasto, verso CONCETTI
GENERALI, che fossero di guida alla ricostruzione del TESSUTO CRONOLOGICO
dell’arte antica, alla comprensione dell’opera dell’arte in se stessa, e al ricavarne
elementi di vitale interesse per il proprio tempo. Il Winkelmann scriveva infatti di
cercare di scoprire “l’essenza dell’arte” attraverso lo studio degli antichi. Il suo ne
era dunque, soprattutto, di rintracciare le SUPPOSTE LEGGI che regolano la
PERFEZIONE di un’opera d’arte e ne fanno un ESEMPIO DI BELLEZZA; era, cioè,
la ricerca di un’ESTETICA ASSOLUTA, basata sulla supposta perfezione assoluta
delle opere antiche.

Occorre sicuramente tener presente che la ricostruzione della cronologia è uno dei
problemi che, nel campo antico, o riva e o re ancora oggi maggiori di coltà data
l’incertezza e la lacunosità della tradizione. Considerando l’archeologia uno degli
strumenti fondamentali dell’indagine storica, è evidente che il riconoscere,
attraverso i DATI ESTERIORI, indizi cronologici diviene essenziale. D’altra parte
essa è indispensabile per lo studio dell’opera d’arte, se vogliamo dare su di essa
un giudizio che sia storico, e non di gusto personale. La comprensione dell’opera
d’arte ha inizio, dunque, proprio attraverso la FISSAZIONE DELLA CRONOLOGIA,
la quale nella storia dell’arte moderna e contemporanea raramente o re problemi
altrettanto gravi, trattandosi per lo più di questioni cronologiche interne all’ambito
della vita di un singolo artista, mentre nel campo antico si tratta a volte anche di
OSCILLAZIONE DI SECOLI.

Al tempo del Winckelmann, l’arte antica si presentava come un TUTTO


OMOGENEO, un AMMASSO DI OPERE di scultura (in quanto la pittura ancora
doveva venire alla luce dai primi scavi di Ercolano 1838), di statue frammentarie, di
sarcofagi ornati di rilievi, trovati per caso specialmente a Roma, senza che ci fosse
un criterio di cronologia tranne per alcune opere di età imperiale romana come le
colonne di Traiano e di Marco Aurelio, documentate dalle iscrizioni dedicatorie. Il
mondo dell’arte antica appariva come un BLOCCO UNICO SENZA PROSPETTIVA
STORICA: erano, quelle opere d’arte creazione “degli Antichi” senza distinzione fra
i secoli della Grecia e i secoli di Roma. Occorreva dunque trovare un criterio per
stabilire una cronologia. Le fonti antiche , specialmente Plinio, riferivano la
CRONOLOGIA DEI MAGGIORI ARTISTI: ma occorreva comunque trovare un
criterio per identi care le opere di questi artisti con attribuzioni MENO CASUALI di
quelle che, per esempio, avevano fatto iscrivere sotto ai piedistalli dei due gemelli
DIOSCURI sulla piazza del Quirinale “opus Fidae” per l’uno e “opus Praxitelis”
sull’altro, cioè i nomi di due artisti (Fidia e Prassistele) separati tra loro da un
secolo di distanza.

Ma ancora più complicato era il problema che circa il 98% delle statue trovate a
Roma NON ERANO ORIGINALI, ma copie di età romana da originali greci perduti.
(Ciò che il Wincklelmann NON SAPEVA). In genere il copista di età romana è un
copista commerciale: Ad Atene e a Roma si era, infatti, formata una SPECIE DI
INDUSTRIA, un artigianato specializzato e tecnicamente abilissimo. Ma in genere
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tali opere avevano una funzione puramente decorativa, erano quindi COPIE
DOZZINALI, che davano un ri esso di uniformità a tutte le opere e particolarmente
alle più famose perché più spesso ripetute senza più riferirsi all’originale.

Il principio che si potesse usare il criterio dell’ANALISI STILISTICA per fondare una
cronologia non era ancora sorto: esso sorse partendo appunto da criteri proposti
da Winckelmann. Fu proprio egli, ad adottare per la prima volta il criterio
STILISTICO e a so ermarsi sull’indagine formale delle opere d’arte. Egli distinse 4
GRANDI DIVISIONI (4 stili) caratterizzate da un andamento PARABOLICO:

1. Stile ANTICO: periodo ARCAICO;

2. Stile SUBLIME o del PERIODO AUREO: periodo di massima oritura dell’arte


greca, di FIDIA e successori (V-IV sec a.C.);

3. Stile bello: periodo che inizia con PRASSITELE e culmina con LISIPPO
(seconda metà del IV sec ed Ellenismo);

4. Periodo della DECADENZA: ultimo secolo a.C. ed età imperiale ROMANA.

Oltre a stabilire la divisione in quattro periodi dell’arte antica, il Winckelmann non


trascurò il criterio di ricercare e coordinare le notizie sulle opere d’arte trattate dalle
FONTI LETTERARIE, il cui valore per la ricostruzione dell’arte antica è innegabile
non solo in quegli autori, che, come PLINIO e PAUSANIA hanno descritto “ex
professo” opere d’arte, ma anche in quelli che all’arte fanno solo riferimenti
casuali.

Ma l’elemento più importante nella ricerca del Winckelmann fu questo principio


fondamentale: QUELLO CHE DEVE IMPORTARE ALLO STUDIOSO” è DI CAPIRE
L’INTIMA ESSENZA DELL’OPERA D’ARTE.

Il Winckelmann, quindi, poneva alla storia dell’arte non solo un fondamentale


criterio estetico di selezione, ma addirittura il ne dell’acquisizione di un’estetica.
Fu proprio questo il motivo al quale la sua opera dovette la sua grande fortuna
contribuendo a determinare tutta una CORRENTE del gusto. Il gusto neoclassico,
ha come uno dei fondamentali punti di partenza proprio l’opera del Winckelmann,
accanto ai precedenti scritti dell’italiano GIAN PIERO BELLORI e a quelli del
contemporaneo MENGS. Questo criterio eretico del Winckelmann che lo aiutò ad
usare dall’antiquaria e a superarla, era la molla che dette la spinta ai suoi studi, ma
sicuramente rappresenta anche il LIMITE ad essi, perché, mutando il criterio
estetico, muta tutta l’impostazione e la valutazione dell’opera d’arte e ci si accorge
che ciò che su di esso si era costruito non la STORIA ma era soltanto un MITO del
proprio tempo.

Con l’inizio dell’800 si hanno le prime CAMPAGNE DI SCAVO: tale fase “militante”
dell’archeologia culminerà nei secoli DOPO il 1870 e porrà in luce una larga messe
di OPERE GRECHE ORIGINALI. Intanto si sviluppava, attraverso la critica delle
opere di età romana, la fase “ lologica” dell’archeologia. Nè archeologi lologi, né
archeologi militanti si preoccuparono di RIVEDERE il criterio estetico che il
Winckelmann aveva posto a fondamento della storia dell’arte antica. Perciò lo
SPIRITO INFORMATORE della storia dell’arte greca e romana rimase, si può dire,
immutato ne al ‘900. Questo avvenne perché il giudizio estetico del Winckelmann
coincideva coi giudizi trasmessici dalle fonti letterarie antiche. Ma le fonti classiche
(Plinio e Pausania in particolare) sono tarde e si riconnettono a tutte una serie di
scritti retorici del tardo ellenismo, quando, nella Grecia in declino economico, si
era formato un medio ceto e una media cultura conservatrice e rivolta al passato.

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Questo stato di cose ha contribuito al perdurare del concetto stabilito dal
Winckelmann che la storia dell’arte antica avesse avuto uno svolgimento
parabolico che tocca il suo culmine nel periodo “aureo” con Fidia, per poi
decadere. E di questo grandissimo FIDIA, in realtà, non si conosceva nulla; esso
era un’ENTITA’ ASTRATTA magni cata dalle fonti letterarie soprattutto per due
opere irrimediabilmente perdute: lo ZEUS di Olimpia e l’ATHENA del Partenone.

C’è voluto il lavorio critico del ‘900 per mettere in lue che tale giudizio
winckelmanniano non poteva avere un valore NE STORICO NE ASSOLUTO, ma
solo quello di un giudizio relativo all’età nella quale venne a formarsi. E molti
equivoci sono nati rispetto all’arte greca proprio dal persistere di una tale
concezione, primo fra tutti quello che l’arte greca sia un’arte essenzialmente volta
all’IDEALIZZAZIONE DEL VERO, mentre da tempo è ormai evidente che si debba
riconoscere come l’arte greca sia stata più di ogni altra arte del mondo antico
rivolta alla ricerca di un sostanziale realismo. Essa è l’unica , che abbandona la
ripetizione di semi gurativi FISSI E SIMBOLICI; l’unica che inventa lo scorcio e la
prospettiva e il colore locale, per a ermare proprio l’aspetto realistico delle cose.
Essa, in ne, si pone precocemente sulla via del NATURALISMO, per realizzarlo poi
pienamente in età ellenistica.

Per lungo tempo ,dunque, ha avuto volere la suddivisione winckelmanniana


dell’arte antica in periodi collegati tra loro da una linea parabolica di svolgimento.
Pur riconoscendo i grandi meriti del Winckelmann, l’errore di questa concezione e
dell’identi cazione di un determinato periodo dell’arte greca con l’assoluto nell’arte
, che nisce per sottrarre l’arte greca al suo processo storico e sostituirvi un
“MITO”, fu avvertito assai presto, anche se, non dargli archeologi.

Il primo ad avvertirlo du Federico Schlegel, uno degli iniziatori del movimento di


idee che porterà allo STORICISMO. In un quaderno di note degli ultimi anni del
‘700 egli scrisse che l’errore di Winckelmann fu il misticismo estetico e che proprio
di questo egli trovò seguito. Sicuramente una critica molto acuta ed esatta, dove
per “misticismo estetico” si intende il fatto che il Wincklemann ha visto l’arte greca
attraverso un PROCESSO DI IDEALIZZAZIONE DELL’ARTE STESSA, quasi volta a
creare, specialmente nella scultura, con dei “modelli” di astratta perfezione,
qualcosa di analogo al MONDO DELLE IDEE DI PLATONE. Da qui discendeva la
conseguenza che solo quelle opere d’arte che rispecchiavano questo IDEALE DI
BELLEZZA ASSOLUTA erano da considerarsi vere opere d’arte greca, che si
di erenziavano da questo ideale, erano considerate o una PREPARAZIONE per
arrivare a tale ideale o una manifestazione di DECADENZA. Restava in tal modo
evidentemente preclusa la via a una valutazione non relativa, ma assoluta, di per
se stessa, di ciascuna di quelle fasi artistiche che precedono l’età ritenuta
“classica” e quelle che la seguono.Le conseguenze culturali di quella formula che il
Winckelmann aveva teorizzato per l’arte greca (ovvero quel misticismo estetico,
che gli fu criticato da Schlegel, fatto di candore, perfezione formale e
idealizzazione e mancanza di pathos) furono molto tipiche. Sicuramente è
emblematico in tal senso il fatto che quando Lord Elgin, un diplomatico britannico,
staccò i marmi del massimo tempio di Atene, il Partenone, dove, come si
sapeva della fonti, la decorazione scultorea era stata eseguita sotto la
direzione del maestro FIDIA, considerato il sommo degli artisti classici, gli
archeologi negarono che i marmi portati da Lord Elgin potessero essere quelli
diaci; anzi addirittura dubitarono che fossero opera d’arte greca e pensarono a
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RIFACIMENTI DI ETA’ ROMANA, il che signi ca attribuirle al periodo ritenuto
dal Winckelmann della peggiore DECADENZA. Furono gli artisti inglesi a
patrocinare l’acquisto e fu in particolare il Canova che, pur essendo
permeato di teorie neoclassiche, con la sua sensibilità per la qualità artistica
capì e a ermò di trovarsi di fronte a capolavori degni del nome di Fidia.
Questo avveniva nel 1819 quando, dopo molte peripezie, tali marmi furono
acquistati a Londra per il Museo Britannico rendendo a Lord Elgin meno della
metà di quanto aveva speso per il loro distacco e trasporto. Qualcosa di simile
si ripete anche in tempi relativamente più recenti. Nel 1877-82 il governo
tedesco fece condurre i grandi scavi nel santuario di Olimpia, dai quali venne
posto alla luce il più importante complesso di sculture dopo quelle del Partenone
(sono però più complete di quelle del Partenone perché i frontoni di Olimpia, caduti
giù per un terremoto e coperti dal terreno alluvionale, sono rimasti quasi intatti).
Quando questi marmi di Olimpia furono resi noti essi delusero gli
archeologi, che li giudicarono opera d’arte provinciale di una scuola
secondaria. Alcune pose delle sculture vennero ritenute volgari e sconvenienti
e si criticò, per esempio, il soggetto nella gura dello STALLIERE SEDUTO
che si tocca il piede con la mano, gesto che alla FALSA VISIONE che si
aveva della “sublime” arte greca, apparve TROPPO REALISTICO e volgare. Questi
due episodi dimostrano che l’immagine che la critica archeologica si era fatta
dell’arte greca, non corrispondeva a atto alla realtà e che quindi occorreva
accostarsi alla comprensione di quest’arte con concetti diversi. Ciò nonostante,
restano innegabili i meriti del Winckelmann, che giustamente può considerarsi
il padre dell’archeologia intesa come storia dell’arte.

ARCHEOLOGIA FILOLOGICA

La lologia come indagine e sistemazione dei testi letterari e della loro


trasmissione e manoscritta era sorta nel periodo del TARDO ELLENISMO; nel
mondo moderno essa può dirsi nata quando Friedrich August Wolf, nel 1777,
chiese e ottenne di essere immatricolato diciottenne all’università di Gottinga
come studiosus philologiae. Essa si a ermò particolarmente in Germania e si
divise in due grandi rami:

1.Grammatica comparata;

2.Critica dei testi .

Fu appunto il metodo sviluppato per la critica dei testi quello che indirizzò la
ricerca archeologica volta a ricostruire la storia della scultura greca.

Ha iniziò così, dopo il periodo del Winckelmann, il periodo dell’archeologia


lologica. Essa nasce in Germania verso il 1830, epoca in cui la Germania,
nella sua rapida ascesa alla testa delle nazioni europee durante l’800, vide in
se stessa l’erede diretta della grande civiltà della Grecia e quindi lo studio delle
antichità greche fu ampiamente favorito e nanziato dallo Stato prussiano. La
poesia romantica sostiene questa idea tramite Schiller, Goethe e Hölderlin. E fu
proprio la scuola lologica a scoprire per prima che il Winckelmann non aveva
mai visto originali greci, ma solo COPIE ROMANE, perché la maggior parte delle
sculture esistenti a Roma erano appunto copie di età romana di originali greci.

Questo tipo di ricerca si basa sui metodi della lologia in due modi:

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•Studia i TESTI ANTICHI per trarne le informazioni necessarie relative alla
ricostruzione della storia dell’arte

•Come la lologia classica, confronta varie versioni (riproduzioni) di un’opera per


arrivare a de nire le caratteristiche dell’originale.

Fra i protagonisti di questo periodo bisogna ricordare:

•il Friederichs: identi cò una serie di copie romane, tra tutte il Doriforo di
Policleto, cioè la statua che era considerata il canone della formazione CLASSICA;

•il Brunn: tracciò, basandosi sulle fonti letterarie, la prima vera storia dell’arte
greca che intitolò “Storia degli artisti greci” (1853)

•l’Overbeck: raccolse e pubblicò il materiale iconogra co-mitologico e


pubblicò i testi letterari basandosi essenzialmente sulle citazioni fatte
nell’opera del Brunn, formando così una raccolta che rimane ancor oggi
indispensabile strumento di lavoro, nonostante le sue lacune (infatti tralasciò
l’architettura).

•il Furtwaengler: fu l’ultimo e maggiore rappresentante dell’archeologia


lologica. Basandosi sulla neonata tecnica della fotogra a e grazie alla sua
prodigiosa memoria, ebbe mano particolarmente felice nelle identi cazioni.

Da questo momento, cioè da circa il 1830, e all’ingrosso per un secolo,


l’archeologia divenne una scienza essenzialmente diretta dalle SCUOLE DI
STUDIOSI TEDESCHI. In questo periodo ci si volge con metodo critico allo
STUDIO DEI TESTI ANTICHI e se ne traggono fuori tutte le notizie relative agli
artisti, cercando di mettere d’accordo le varie fonti e di correggere
lologicamente i testi corrotti. Da questo doppio processo di indagine
artistica e esame lologico deriva l’ipotesi che forma il nucleo di tutte
queste ricerche: da una parte abbiamo una serie di copie romane di originali
greci, di sculture, che dovevano essere le più famose ed apprezzate dell’antichità;
dall’altra una serie di menzioni di opere di grandi artisti greci, descritti dalle
fonti antiche. E’ da supporsi che le due serie, quella delle sculture conservateci e
quelle delle opere menzionate dalle fonti, debbano COINCIDERE: il problema che
si pone agli studiosi è pertanto di IDENTIFICARE le une nelle altre, mettendo
d’accordo monumenti e fonti. Questo fu il tema fondamentale della scuola
lologica:

Partendo dal concetto di questo parallelismo tra copie conservateci e notizie


delle fonti, la PRIMA IDENTIFICAZIONE fu quella dell’Apoxyomenos di
Lisippo in una copia in marmo allora scoperta (nel 1849) e ora conservata
al Vaticano. Questa identi cazione fu resa più facile per l’atto stesso
compiuto dalla gura, che si pulisce con lo strigile (non essendo ancora entrato
nell’uso il sapone, che si conobbe solo dopo il contatto con i popoli barbarici,
nell’antichità per lavarsi si usava ungersi con olio e con una polvere nissima di
POMICE; per togliersi dalla pelle l’impasto che così si formava, si adoperava lo
strigile, una specie di lungo e stretto raschiatoio a doccia ricurvo).

Questa statua, corrispondente alla descrizione delle fonti, fu di facile


identi cazione e molto utile per quelle successive di altre opere. Ma essa
costituisce in certo modo un caso isolato, perché non ne sono state trovate altre
repliche, mentre noi sappiamo che un indizio che si tratti di un’opera famosa è, di
solito, dato dal fatto di trovare numerose repliche di uno stesso tipo statuario.

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L’identi cazione dell’Apoxyomenos insegnò anche che le statue in bronzo
potevano essere copiate in marmo, ma che qualche traccia tuttavia
rimaneva della tecnica diversa usata (particolare incisività dei capelli).

Elemento assai evidente nella traduzione in marmo di un originale in bronzo è


quello dei puntelli: la statua creata in bronzo si regge anche se è fuori dal suo
equilibrio statico, e il bronzo, infatti, è molto più ELASTICO e LEGGERO e può
sostenere tensioni maggiori senza deformarsi; il copista, invece, PASSANDO
DAL BRONZO AL MARMO, deve aggiungere per la statica della statua dei
punti di appoggio: un tronco d’albero, una colonnetta o, per sorreggere parti
completamente libere o eccessivamente traforate, deve ricorrere a veri PUNTELLI
DI RACCORDO che uniscono per esempio, il braccio proteso al anco; ripieghi
tecnici che disturbano sicuramente la composizione originale, ma che si
rendono necessari per la statica della gura. Perciò, dove ci sono puntelli, le
statue NON sono originali, ma copie.

In seguito, l’identi cazione più importante fu quella del Doriforo di Policleto,


partendo da una replica in marmo del MANN. Il Doriforo di Policleto era
stata la creazione statuaria che risolse il PROBLEMA CENTRALE dell’arte
greca, nel passaggio dall’età arcaica all’età classica; quello cioè di rappresentare
la FIGURE VIRILE NUDA E STANTE, BEN PROPORZIONATA, ferma, non
impegnata in una azione precisa, ma tale da avere la possibilità di movimento.
Nel periodo arcaico il kouros (cioè la statua virile nuda) non rappresentava
un determinato personaggio, né una divinità. Il Kouros (=fanciullo), e così la
kore, suo omologo femminile, può essere dedicato in un santuario come EX-
VOTO; essere eretto sopra una tomba come MNEMA (memoria), senza alcun
rapporto né di contenuto, né sico con la persona dell’o erente o con la divinità
cui è o erto. Lo stesso tipo, però, può essere usato anche per l’immagine di
culto della divinità, e allora ciò che lo caratterizza sono gli ATTRIBUTI
ICONOGRAFICI.

Nel processo di secolarizzazione dell’arte, tra la ne del VI e la metà del V secolo


a.C, il problema fu di non uscire da questo tipo di gura, ma di darle la
possibilità del MOVIMENTO, arricchendola di plasticità e costruendola con un
equilibrato sistema di PROPORZIONI. Questa ricerca durò per tre generazioni
e trovò la sua soluzione proprio con Policleto, soluzione che poi rimarrà
ssa e CANONICA per tutto lo svolgimento dell’arte antica. Per tutto il IV
secolo ed oltre, infatti, si avranno variazioni della statua “canonica” di
Policleto, del Doriforo, da lui stesso illustrato con uno scritto intitolato
“CANONE”. Ancora in età romana l’Augusto detto di Prima Porta, perché
trovato nella villa della consorte LIVIA, nella località di tal nome, non è altro che il
DORIFORO VESTITO DIO CORAZZA E COL BRACCIO SOLLEVATO.
L’identi cazione del Doriforo fu dunque di grande importanza per conoscere
una NORMA fondamentale dell’arte greca. Essa fu dovuta al Friederichs, il quale
in un suo scritto del 1863, nella serie dei “PROGRAMMI FESTIVI PER
WINCKELMANN”, identi cò il Doriforo in una copia in marmo del Museo di Napoli.
Dal punto di vista della fedeltà stilistica, oggi si è visto che la migliore replica è
quella in basalto degli UFFIZI, che si dimostra di tipo meno commerciale per la
durezza e preziosità stessa del materiale nel quale è eseguita e che conserva
ancora qualche traccia di quello “stile severo”, al quale più propriamente
appartiene la giovinezza di Policleto.

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Come potè il Friederichs giungere all’identi cazione?

Egli notò innanzitutto che di questo tipo di statua atletica ci sono


NUMEROSISSIME REPLICHE: perciò doveva trattarsi di una statua famosa. Da
ciò deriva anche la sicurezza che NON si tratta di un originale, ma di una delle
tante copie, fra le quali una in BRONZO, limitata alla sola testa, è stata
trovata ad Ercolano e reca la rma di APOLLONIO DI ARCHIAS, ateniese.

L’originale era in marmo o in bronzo?

Attraverso lo studio accurato della capigliatura, il Friederichs giunge al


convincimento che doveva trattarsi di un BRONZO. Quindi si dovevano togliere i
puntelli, come aggiunte della copia. Studiò poi la composizione della gura, che è
armoniosa e rivela che l’artista cercava l’equilibrio delle varie parti della gura: da
una parte la gamba è tesa, l’altra è leggermente essa e in corrispondenza
all’impiantarsi della gura si ha lo SPOSTAMENTO DEL BUSTO E DELLA
TESTA per creare l’equilibrio della composizione; quindi analizza il chiasmo,
cioè le masse del corpo composto a X, corrispondentisi cioè da un lato
all’altro della gura e dall’alto al basso, e mobili in senso reciproco, che creano il
senso di equilibrio e al tempo stesso di possibilità di movimento nella statua non
impegnata nell’azione. Analizzando tutti questi elementi, il Friederichs trova una
corrispondenza anche tra questo equilibrio e quello descritto dalle fonti rispetto a
Lisippo, che fu il PERFEZIONATORE DI QUESTO TEMA. Qui si nota, però, una
forma più greve, in cui vi è ancora qualche TRACCIA DI ARCAISMO. Perciò non
può essere Lisippo, del quale era già stato identi cato l’Apoxyomenos. Si risale
quindi dal IV al V secolo, il che concorda con l’epoca in cui le fonti pongono
Policleto.

Come si deve ricostruire la gura del Doriforo, giuntaci incompleta?

Viene riconosciuta giusta la ricostruzione del copista di Napoli, che aveva messo in
mano alla statua una LANCIA (Doriforo= portatore di lancia)

Riassumendo tutti questi elementi di indagine stilistica e delle fonti, il Friederichs


arrivò ad identi care il Doriforo, identi cazione che, come quella
dell’Apoxyomenos di Lisippo, non è stata MAI più posta in dubbio e dette una
base alla conoscenza della scultura della metà del V secolo, cioè dell’opera
più prettamente classica, immediatamente precedente alla maturità di Fidia.
Procedendo con sistema analogo a quello del Friederichs altri studiosi
cercarono di identi care numerose copie con gli originali descritti dalle fonti.
Una parte maggiore dell’archeologia dell’800 è impegnata in questo lavoro con
tanto zelo e con tale passione, che si nì per studiare più le copie di età romana
che gli stessi originali greci che venivano messi in luce
contemporaneamente dalle varie campagna di scavo. La tendenza a costruire
una storia dell’arte greca tutta sulle copie trovò la sua massima espressione nel
Furtwaengler il quale, appro ttando, primo tra gli archeologi, dei progressi fatti
dalla FOTOGRAFIA, e dotato di una piena CONOSCENZA DIRETTA di tutti i musei
del mondo e di una FORMIDABILE MEMORIA VISIVA, ebbe mano
particolarmente felice nelle identi cazioni, anche se non tutte le sue ricostruzioni
sono ancora oggi accettate dagli studiosi (tra le più discusse vi è quella
dell’Athena Lemnia di Fidia).

Il pericolo maggiore di tale impostazione di studi era dato dal fatto che si
niva per ricostruire tutta l’arte greca attraverso le copie, trascurando gli originali
anche là dove essi esistono e che si perpetuava, attraverso le copie, una visione
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fredda e accademica, la visione NEOCLASSICA, dell’arte greca, ben lontana dalla
potente energia interiore che anima gli originali greci. Così si parla dell’Athena
Lemnia ricostruita dal Furtwaengler per studiare la personalità di Fidia e si
pongono in secondo piano i rilievi del Partenone. Questo fatto ha portato tutto uno
svisamento nello studio dell’arte greca, svisamento che si è cominciato a
retti care a partire da circa gli anni ’20 del 900. Quindi i LIMITI fondamentali di tale
impostazione lologica sono:

•concentrazione sull’identi cazione di un originale assente, tralasciando lo


studio di originali esistenti, magari mutili o rovinati, però STORICAMENTE più
signi cativi;

•perdere di vista l’analisi della qualità artistica dell’oggetto in esame, a


pro tto dello studio ICONOGRAFICO ;

•questo metodo serve quindi a stabilire l’ICONOGRAFIA, cioè l’aspetto


esteriore dell’originale greco, ma ci dice poco del LINGUAGGIO dei singoli artisti.

In alcuni casi le prime dimostrazioni sono rimaste de nitive, come, per


esempio, quelle delle identi cazioni dei donari dei sovrani pergameni per le
vittorie sui Galati, dovute ad Heinrich Brunn, che fu, tra gli studiosi di arte
antica della seconda metà del XIX secolo, quello più dotato di intelligenza
critica dell’opera d’arte. Più tardi, a questo raggiunto punto fermo della
storia dell’arte greca, egli aggiunse il riconoscimento del cosiddetto “piccolo
donario di Attalo”, sulla cui DATAZIONE si discute ancora, se si debba
trattare di Attalo I o II ( gure di combattenti scolpite in grandezza ridotta,
meno di due terzi del vero, scoperte a Roma nel 1514).

In altri casi, invece, talune attribuzioni, che furono faticosamente raggiunte e poi
apparvero per qualche tempo assicurate, son tornate a essere messe
autorevolmente in dubbio, contribuendo a far scadere la ducia in quella
RICERCA COMBINATORIA E ATTRIBUZIONISTICA che aveva costituito,
nell’ambito dell’archeologia lologica, la principale o almeno la più ricercata attività
degli studiosi.

Uno di questi casi è di usamente descritto da Andreas Rumpf, uno degli ultimi
rappresentanti di storia dell’arte nell’archeologia germanica: è la vicenda della
cosiddetta “Eirene e Ploutos” di Kephisodotos.

Questa statua, ra gurante una donna che tiene un bambino appoggiato al


suo braccio sinistro, pervenuta intorno al 1760 nella raccolta della Villa Albani a
Roma, fu dal Winckelmann interpretata come GIUNONE LUCINA, ma dallo
stesso più tardi detto INO-LEUCOTEA col piccolo BACCO. Lo scultore
Cavaceppi, che restaurò e imitò con grande abilità moltissime statue antiche in
quel tempo, pose perciò una BROCCHETTA in mano al fanciullo, ne rifece le
braccia e usò per completarne la gura una TESTINA ANTICA, ma non
pertinente, e rifece anche il braccio destro della donna. Ennio Quirino
Visconti respinse l’attribuzione del Winckelmann e successivamente fu ritenuta
un ORIGINALE GRECO dell’età di Fidia, poi attribuita (dal Friederichs) al IV secolo
e interpretata come GEA. In base a una moneta ateniese di età imperiale
romana egli poneva anche uno scettro nella destra della donna. Due altri
studiosi (Stephani e Stark) ritennero di collegare sia la moneta sia la statua a
due passi di Pausania dove viene menzionata una statua esistente ad Atene,
ra gurante Eirene (la Pace) con il fanciullo Ploutos (la Ricchezza) sul
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braccio, opera di Kephisodotos. Anche in tale questione intervenne il Brunn
(1867) dimostrando per prima cosa che si trattava di una COPIA DI ETA’ ROMANA
e non di un originale (che sarebbe stato in bronzo) e che il suo stile la collocava nel
trapasso fra il V e il IV secolo a.C (in particolar modo al V si legava il PANNEGGIO
della gura femminile, che potremmo de nire ancora “SEVERO”; al IV secolo
la TESTA). Inoltre egli ritenne anche, confermando l’attribuzione a
Kephisodotos in base ai passi di Pausania, di poter determinare l’occasione
nella quale la statua sarebbe stata creata, e cioè la pace con Sparta del 375. Ma
un’altra fonte autorevole, ovvero Plinio, menzionava DUE artisti di nome
Kephisodotos, ponendo il primo nella CII (102esima) olimpiade (372 a.C), il
secondo, insieme allo scultore Timarchos, nella CXXI (121esima) olimpiade
(296 a.C). E poiché documenti epigra ci ci hanno conservato i nomi di due
scultori, TIMARCHOS e KEPHISODOTOS, gli del grande Prassitele, il che
non disdiceva alla cronologia indicata da Plinio per il Kephisodotos più
recente, il Brunn propose di riconoscere in Kephisodotos il Vecchio un
membro della stessa famiglia, probabilmente il padre di Prassitele. Con
questa attribuzione il gruppo entrò da allora nella manualistica come un
punto fermo della storia dell’arte greca.

Eppure non tutte le incertezze sono state superate. A parte qualche isolata
opinione che proponeva di spostare la data della statua alla pace del 403 a.C e
alla proposta del Furtwaengler che Kephisodotos sia da ritenersi piuttosto
fratello maggiore e non padre di Prassitele date le STRETTE SOMIGLIANZE
STILISTICHE, vi sono, riproposte dal Rumpf, alcune osservazioni che
rendono assai di cile il collocare quest’opera entro i caratteri stilistici degli
anni attorno al 375 a.C. Invece una più stretta somiglianza viene notata tra la
Eirene e i rilievi delle basi delle colonne del secondo Artemision di Efeso. La
ricostruzione del famoso tempio, una delle “meraviglie del mondo”, dopo
l’incendio, cade nell’età di Alessandro Magno e cioè intorno al 340-330 a.C. E una
tale cronologia, raggiunta soltanto in base a elementi stilistici, esclude sia
Kephisodotos I che Kephisodotos II e quindi anche l’identi cazione della
statua. In conclusione, il Rumpf propone di interpretare la gura come “Tyche” e di
attribuire l’originale a Prassitele stesso, del quale alle fonti sono note TRE immagini
di Tyche, una a Megara, una ad Atene, una trasportata a ROMA della quale si sa
che era accompagnata dall’immagine infantile di Bonus Eventus (corrispondente al
greco Agathodaimon, che ha come attributo proprio una CORNUCOPIA, solito
attributo della stessa Tyche). Vediamo così come una ricostruzione storico-
artistica basata sull’analisi STILISTICA possa scuotere i fondamenti anche di
attribuzioni puramente lologiche che sembravano costituire una certezza.

Quindi possiamo a ermare che l’archeologia lologica costituì una prima base di
CHIARIMENTO e di ORDINAMENTO del materiale monumentale superstite; ma
scadde quando divenne mero gioco attribuzionistico con ni più di carriera
accademica che non di concreta ricerca storica, e quando procedette in
modo privo di comprensione per i valori formali, cioè per il linguaggio
artistico vero e proprio. Inoltre, attraverso questa ricerca e lo studio delle
varie copie romane si può stabilire l’iconogra a, cioè l’ASPETTO ESTERIORE
dell’originale greco; ma ciò NON serve per studiare il linguaggio formale dei
singoli artisti.

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Anche per la pittura antica si cadde nello stesso equivoco, quando, ad un certo
momento, si pretese di ricostruire la pittura classica andata perduta per mezzo
della pittura di età romana, solitamente detta “POMPEIANA” perché, dato il
carattere della distruzione subita da Pompei e da Ercolano, SOLO QUI è stato
possibile ritrovarla conservata (ma è evidente che Pompei e le città
vesuviane NON ERANO GLI UNICI LUOGHI DOVE TALE GENERE DI PITTURA
ESISTEVA: anzi, da quello che si è trovato a Roma e a Ostia e altrove, si è potuto
constatare che questa pittura, di usa in tutto l’impero, si presenta talora in
esemplari qualitativamente migliori che a Pompei, piccola città di provincia).

La scuola lologica, dunque, riconobbe giustamente in una serie di quadri,


inseriti come pitture decorative nelle pareti delle case di Pompei, delle
RIPRODUZIONI, più o meno fedeli, di PITTURE ORIGINALI GRECHE, che in
parte corrispondevano a quelle descritte dalle fonti. Ma si trascurò il fatto
che quelle pitture davano innanzitutto testimonianza dell’arte del tempo nel
quale furono eseguite e che si potevano, risalendo da esse, ricostruire non
tanto le singole pitture perdute, RARAMENTE COPIATE CON FEDELTA’, quanto i
problemi formali che erano stati a rontati dalla grande pittura greca, a patto di
saper interpretare intelligentemente e criticamente le fonti. Anche qui si tentò di
ricostruire gli originali attraverso le varie interpolazioni. Ma tale operazione
risultò particolarmente di cile per la pittura, soprattutto senza aver primo cercato
di approfondire quali fossero stati i grandi problemi formali della pittura nel suo
svolgimento dal VII secolo in poi e soprattutto dalla metà del V alla metà del III
secolo a.C. Inoltre, quando fu fatto questo lavoro di esegesi artistica per la pittura
antica, ci si basò su alcuni criteri e presupposti rivelatisi errati.

Per esempio, si partì dal concetto che nella pittura greca NON potessero
esserci SFONDI PAESISTICI, perché si considerava che essa seguisse gli STESSI
CRITERI FORMALI, accademici, di chiarezza lineare e di equilibrio plastico e
compositivo, che l’estetica winckelmanniana aveva attribuito (ERRONEAMENTE)
alla scultura, considerata l’arte maggiore della civiltà greca (E invece oggi
sappiamo che l’ARTE-GUIDA fu, nella Grecia antica no alla crisi
classicistica del II secolo a.C, la PITTURA). Seguendo questo concetto,
laddove nelle pitture pompeiane si apriva uno SFONDO, si a ermava che si
trattava di un’INTERPOLAZIONE ROMANA. In qualche caso, interpolazioni di
questo genere sono accettabili, ma la pittura di paesaggio risulta ormai
chiaramente essere una conquista ellenistica.

Fu sicuramente il Furtwaengler colui che portò al massimo successo il metodo di


ricostruzione degli originali attraverso le copie e di inquadramento delle opere in
una determinata scuola artistica. Oltre alle copie vere e proprie c’era da tenere
conto di una VARIETA’ INFINITA DI IMITAZIONI CON VARIANTI. Un esempio
tra tutti è sicuramente il già citato Augusto di Prima Porta che non è altro che una
variante travestita del Doriforo di Policleto e mostra come queste varianti venissero
eseguite con estrema facilità e libertà. Diventa quindi un’impresa ardua
classi care tutte le varianti e le derivazioni per ricostruire gli originali dell’arte
greca del V e del IV secolo. Non ci si curò, invece, di usare queste copie e varianti
per studiare il GUSTO DI ETA’ ROMANA, dell’età cioè alla quale queste copie
appartengono ma allora l’arte romana non appariva culturalmente feconda.

In realtà il Furtwaengler non ha dato il meglio di sé nella sua opera più


celebrata (“Capolavori della scultura greca” del 1893), ma piuttosto nel testo
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dei TRE VOLUMI che costituiscono un trattato di GLITTICA (sulle gemme
intagliate) intitolato “Die antiken Gemmen” (1900). Questo non è soltanto un
trattato di glittica ancor oggi insostituito ma si può dire che a contatto con
OPERE ORIGINALI, sebbene di artigianato specializzato, il Furtwaengler ha
tracciato una storia dello svolgimento stilistico di tale tecnica. Egli ha lasciato
anche traccia durevole negli studi sulla CERAMICA GRECA: con un disegnatore
assai abile egli pubblicò, sotto il binomio Furtwaengler-Reichhold, una
raccolta di GRANDI TAVOLE con il disegno dei vasi dipinti più belli,
riprodotti a grandezza originale, accompagnata da studi monogra ci vaso per
vaso. Quest’opera, intitolata “Griechische Vasemalerei” (1900), sta a fondamento
degli studi sulla ceramica greca, particolarmente della ceramica attica dei secoli VI
e V, la quale, oltre al suo valore intrinseco, è documento basilare per ricostruire lo
svolgimento stilistico dell’arte greca dello stesso periodo. Ma quest’opera ha
prodotto anche un’EQUIVOCO, in quanto il Reichhold, per quanto abilissimo
disegnatore, rimase sempre inferiore all’originale e soprattutto i suoi disegni
hanno la freddezza delle copie. Data la maggior facilità di riprodurre un vaso
da questi disegni sviluppati sul piano, piuttosto che a rontare le di cili
riproduzioni fotogra che della super cie curva e lucida del vaso, si è a lungo
preferito riprodurre i vasi dai disegni del Furtwaengler-Reichhold piuttosto che
dall’originale. Si di use pertanto un’immagine fredda e accademica della
ceramica greca, sostanzialmente lontana da quella degli originali.

LE FONTI LETTERARIE

La scuola lologica prese come punto di partenza le fonti letterarie,


ricercando nel patrimonio monumentale soprattutto la CONFERMA alle notizie e
alle valutazioni critiche date dalle fonti letterarie antiche, ma non si pose il
problema sul valore critico di tali fonti, generalmente tarde e partecipanti di una
cultura BEN LONTANA da quella che aveva presieduto alla creazione delle opere
più alte dell’arte greca. Anche le GRANDI CAMPAGNE DI SCAVO intraprese
nell’800 imponevano d’altra parte la necessità di una buona conoscenza e di un
continuo controllo delle fonti letterarie.

Le fonti sono molteplici e si divino in:

•fonti dirette: scrittori che ex-professo si sono occupati di cose d’arte;

•fonti indirette: opere letterarie nelle quali incidentalmente è contenuta la menzione


di un’opera o le notizie su un artista, o sono espressi giudizi critici.

Le fonti per noi più importanti, perché le più ampie sono:

- PLINIO con la “Naturalis historia” ;

- PAUSANIA con la “Periegesi della Grecia” ;

- LUCIANO DI SAMOSATA ;

- ATENEO DI ALESSANDRIA.

Per quanto riguarda queste fonti letterarie, esse sono state raccolte dall’Overbeck
nel 1868 e pubblicate in un volume intitolato “Le fonti letterarie antiche per la
storia dell’arte greca e romana”. Questa raccolta di fonti è un libro che, per
quanto annoso, ci serve ancora continuamente. Si tratta infatti di una raccolta
QUASI COMPLETA dei passi tratti dalla letteratura greca e latina, nei quali
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si trova un accenno ad un’opera d’arte o ad un artista. Come già detto, esso
segue lo SPOGLIO fatto dal Brunn. Inoltre, bisogna usarlo con cautela,
considerandolo piuttosto come un INDICE che come un testo, perché le fonti
citate dall’Overbeck si riducono a degli excerpta con la sola citazione dell’opera
d’arte, mentre spesso nel contesto dell’opera il passo acquistava un signi cato
e un valore diverso e ben più preciso. Occorre quindi SEMPRE risalire
dall’Overbeck alla lettura del TESTO ORIGINALE.

PLINIO (23-79 d.C)

Plinio il Vecchio con la sua “Naturalis historia” rimane la nostra fonte più
COMPLETA e preziosa, nonostante tutti i suoi evidenti limiti. In una LETTERA
DI PRESENTAZIONE della sua opera all’imperatore Vespasiano (69-70 d.C),
Plinio parla del carattere del suo lavoro e dice alcune cose di cui si deve tenere
conto: mette in risalto innanzitutto la novità della sua opera, che raccoglie,
egli dice, una congerie di notizie, che non sono né piacevoli né divertenti, ma sono
una raccolta di dati di fatto relativi a tutto il mondo della NATURA (circa 20.000
notizie degne di memoria tratte dalla lettura di circa 2000 volumi). Quindi
quella di Plinio è una posizione che sta a metà tra una mentalità scienti ca,
in quanto vuol rendere preciso conto delle sue letture, ed una impostazione
dilettantistica, in quanto riconosce egli stesso di NON essere uno studioso di
professione e di raccogliere piuttosto le curiosità. Come procedesse nel suo
lavoro ce lo dice il nipote Plinio il Giovane nella epistola a Bebio Macrone,
relativa alle opere dello zio, in cui lo descrive come un uomo molto intelligente e
incredibilmente studioso, che leggeva continuamente. Quindi si capisce come è
nata l’opera di Plinio, attraverso la LETTURA di molte opere da cui via via prendeva
quello che gli pareva interessante; è un’opera, quindi, nata da un grande schedario
di notizie, poi messe insieme. I libri della Naturalis Historia che ci interessano
particolarmente sono:

•il XXXIV (34) in cui, parlando delle pietre e dei marmi e della loro natura, tratta
della SCULTURA;

•il XXXV (35) in cui, parlando dei metalli, tratta del BRONZO e della
METALLOTECNICA;

•il XXXVI (36) in cui, parlando delle terre colorate, tratta della PITTURA.

Così, in questi libri, Plinio ha raccolto ciò che si conosceva al suo tempo delle
arti gurative. Però a questa compilazione è mancata una REVISIONE e un
coordinamento delle notizie, che talora si contraddicono le une con le altre,
e quindi dobbiamo e ettuare noi tale lavoro di critica nell’usare questa fonte.

Inoltre Plinio ha attinto a scritti del tardo ellenismo di carattere retorico, di tendenze
molto diverse:

di qui le contraddizioni del suo testo. Quindi egli si è trovato nella di coltà
di riportare in latino espressioni retoriche del tardo ellenismo; talvolta, nei
casi più fortunati, egli lo ha fatto semplicemente LATINIZZANDO LA
DESINENZA dei termini greci; altre volte, invece, ha voluto TRADURLI
cercando NUOVI TERMINI e ciò ha dato origine ad equivoci.

Diversi studiosi si sono occupati dello studio del testo di Plinio, ma due ricerche
vanno menzionate in modo particolare:

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•quella di Bernardt Schweitzer su Xenocrates di Atene (una delle fonti a cui attinge
Plinio)

•quella di Silvio Ferri sul problema della statua policletea e della terminologia
relativa, nonché la traduzione dello stesso Ferri del testo di Plinio corredato di
annotazioni critiche.

Accostandoci al problema della contaminazione di diverse tendenze critiche


nell’opera di Plinio bisogna ricordare ciò che si è detto del Winckelmann, che egli
ebbe cioè una visione NON STORICA, ma MITICA della storia dell’arte, cioè che,
basando la sua interpretazione su una determinata visione estetica, dette alla
storia dell’arte antica un’impostazione NEOCLASSICA. Questa visione neoclassica
del Winckelmann trovava una conferma nelle fonti antiche, perché per la maggior
parte esse traggono le

loro informazioni da scritti nati nel periodo del tardo ellenismo, cioè nella
SECONDA META’ DEL II SECOLO A.C., quando nella cultura greca, sia ad
Alessandria che ad Atene, si era formata una visione retrospettiva, NOSTALGICA,
del passato e delle antiche glorie, a seguito della perdita dell’indipendenza e
della libertà prima sotto il dominio macedone e poi sotto quello di Roma.

Perciò tali fonti mettevano in particolare risalto gli artisti del V e del IV secolo a.C,
ignorando quasi del tutto l’arte ellenistica. Tale è l’impostazione che Plinio quindi
trova nelle sue fonti, tra le quali le principali sono:

•Apollodoros ateniese: autore di una cronaca enciclopedica in versi


(“Chronikà”) che elencava avvenimenti e personaggi dal tempo della guerra
troiana no a 1040 anni dopo di essa, cioè al 144 a.C. Apollodoros era un
GRAMMATICO, allievo ad Alessandria del grande Aristarco. La sua opera era
dedicata al re di Pergamo, ATTALO II PHILADELPHOS, e doveva contenere anche
biogra e di artisti celebri, di ognuno dei quali sembra che fosse indicata
l’epoca di maggior rilevanza di opere (akmè). Ma Apollodoros ateniese fu anche
il maggior rappresentante del movimento classicistico che si di use nella cultura
greca a partire da circa il 150 a.C. E infatti, per quanto riguarda l’arte, viene fatta
l’esaltazione di FIDIA e PRASSITELE e dopo Lisippo si vede iniziare la decadenza.

•Xenocrates ateniese: scultore egli stesso e, oltre che scrittore di cose d’arte,
discepolo di Lisippo, vissuto alla metà del III secolo. Per lui, Lisippo rappresenta il
culmine, il massimo punto d’arrivo dell’arte greca e dobbiamo tener presente
che da Lisippo deriva la spinta iniziale verso lo stile che diciamo “ellenistico”.
Lisippo era stato tuttavia un vero “rivoluzionario”, e non era certo da prendere ad
esempio come la norma dell’arte greca!

C’è quindi uno sfasamento tra le opinioni di Xenocrates e quelle di Apollodoros,


ma Plinio le riferisce sullo stesso piano. Perciò bisogna rendersi conto, volta
per volta, della fonte da lui usata, per comprendere il valore della notizia
riferita. Lo Schweitzer, inoltre, ha ricostruito i frammenti di Xenocrates inseriti
nel testo di Plinio, lavoro molto utile se vogliamo giungere a una valutazione
più precisa delle fonti, che ne renda migliore l’utilizzazione critica per la
ricostruzione della storia dell’arte greca. Lisippo ci appare, attraverso Xenocrates,
come il SOMMO ARTISTA, il perfezionatore di tutto lo svolgimento artistico no al
suo tempo, così come per il Vasari l’arte culmina in Michelangelo. E’ anche vero,
però, che Lisippo ci mostra una posizione del tutto nuova nel corso
dell’arte antica, e proprio in questo contrasta con i valori esaltati della critica
neoclassica. C’è un detto di Lisippo, divenuto celebre: “gli antichi maestri
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hanno fatto gli uomini COME SONO, io li faccio come SEMBRANO
ESSERE”. Ciò signi ca porre a base della creazione artistica la visione
personale dell’artista e non più la tradizione della scuola; signi ca sostituire
l’IMPRESSIONE OTTICA alla meditata e razionale composizione; signi ca
abbandonarsi all’illusione prospettica che fa rendere gli uomini delle dimensioni
che appaiono essere, e non di quelle che sono.

PAUSANIA (II secolo d.C / 110-180 c.a)

Altra fonte principale per la conoscenza dell’arte antica è Pausania, autore greco
che visse nel periodo romano, ovvero nel II secolo dell’era volgare, nativo
di Magnesia al Sipylos in Asia Minore. La sua opera rientra in un genere di scritti
del tardo ellenismo, i cui autori venivano detti “periegeti”, cioè DESCRITTORI DI
VIAGGI, autori di guide per il forestiero che visitava i grandi santuari.
Nell’età del tardo ellenismo, la Periegetica diviene un “genere” coltivato
volentieri in armonia con quelle TENDENZE RETROSPETTIVE che già
abbiamo avuto occasione di notare, nelle quali rientrava anche il desiderio
di raccogliere e volgere a uso di erudizione il patrimonio del passato. Della
“Periegesi della Grecia” di Pausania ci restano 10 libri, privi di proemio e di
chiusura, ma forse lasciati interrotti dall’autore. Il X libro è stato composto dopo il
175 d.C e le indicazioni contenute nel I libro portano l’inizio dell’opera al 143 d.C.

Quest’opera segue un ordine geogra co molto chiaro: comincia, infatti, dall’Attica,


dal promontorio del Laurion, passa nel Peloponneso, facendo il giro da
sinistra a destra e, chiusa la spirale, passa all’Arcadia, quindi alla Beozia, alla
Focide, alla Locride e si conclude alla zona di Naupaktos. Alla ne dell’opera
l’autore promette di estendere la permettessi al di là della zona considerata e di
considerare anche la Tessaglia, progetto che purtroppo non sarà mai attuato.

Qual è il carattere di quest’opera? Che cosa si propone Pausania? Si deve


considerare la Periegesi come una sorta di “guida per il turista”?

Non era questa l’intenzione di Pausania, che voleva fare essenzialmente un libro di
lettura, fornendo la conoscenza dei luoghi e dei monumenti, pretesto per
ricapitolare in modo variato la storia della Grecia, intercalandovi narrazioni
mitologiche (lògoi). Quest’opera è certamente stata composta per la massima
parte a tavolino, sfruttando opere di argomento localmente più ristretto, dei
perigeti precedenti, e così le opere di storici,poeti, tragici e mitogra . Per alcune
delle località descritte è sorta però la questione se Pausania abbia visitato le zone
personalmente, oppure no. Non era di per sé necessaria la conoscenza diretta
delle località, dato lo scopo pre ssosi; ma è certo che alcuni luoghi di maggiore
importanza Pausania li ha visitati come l’Acropoli di Atene e il santuario di
Olimpia. Infatti realmente in questi luoghi si è potuta riscontrare spesso una
precisa rispondenza tra il testo di Pausania e quanto è stato messo in luce
dagli scavi.

In tal senso un caso emblematico è contenuto sicuramente all’interno della


descrizione del santuario di Olimpia (libri V e VI). I primi nove capitoli
contengono narrazioni (logoi) sulla storia più antica dell’ELIDE e delle città in
essa comprese. Col c a p i to l o X i n i z i a l a D E S CRI Z ION E DEL
SANTUARIO: si parte dal suo centro, il tempio di Zeus, poi, indicando che si
volge il cammino a nord, si passa al tumulo di Pelope, verso l’Heraion,
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l’antichissimo tempio di HERA, precedente nel tempo quello di Zeus. Qui si
interrompe l’ordine topogra co e si inserisce l’elenco di tutti gli altari presenti
nel s a n t u a r i o c h e s e m b r a b a s a t o s u q u a l c h e DOCUMENTO
u ciale del santuario stesso; poi si riprende il giro topogra co e vi è la
descrizione dell’Heraion. In esso si conservava l’arca di Kypselos, una CASSA DI
LEGNO di cedro con pannelli d’avorio. L’arca viene descritta in tutti i particolari
della decorazione, che ci fornisce un importante repertorio delle gurazioni di
numerosi episodi mitologici, corrispondenti allo stile del secondo venticinquenni
del VI secolo a.C. Anche in questo caso, Pausanias dovette valersi di una
DESCRIZIONE GIA’ REDATTA. All’interno del tempio, dove le colonne unite
alla pareti da tramezzi formavano come una serie di piccoli ambienti o
cappelle, Pausania parla di un Hermes di Prassitele, di cui NON si ha
notizia in nessun altro scrittore antico, tanto che si era dubitato
dell’esattezza della notizia. Invece, facendo gli scavi dell’Heraion, proprio dove
indicava Pausania, nella seconda divisione o “cappella” della navata sinistra del
tempio, si è trovata la statua. Era questa una bella CONFERMA
dell’attendibilità delle notizie di Pausania, che ha indotto a prestare fede al testo.
Ma ecco che subito sorgono nuove di coltà:

La statua, scoperta negli scavi tedeschi del MAGGIO 1877, è quella,


divenuta famosa, dello “Hermes con Dioniso infante”, celebrata dai manuali di
archeologia e dalle guide turistiche come l’unica statua originale di uno dei più
grandi e celebri scultori dell’antichità che sia giunta sino a noi, quasi intatta. La
datazione proposta per tale statua era intorno al 340. Ma l’aspetto
ECCESSIVAMENTE MORBIDO del modellato provocò, via via che ci si allontanava
dal concerto neoclassico che si aveva della scultura greca, sempre maggiore
insoddisfazione. Sicché si arrivò alle osservazioni di un archeologo che fu
anche un valente scultore, Carl Blumel, che nel 1927 osservò che sul dorso
dello Hermes, lasciato non nito, si poteva riconoscere l’uso di FERRI
(soprattutto di uno scalpello a tre punte) mai usati prima del tardo ellenismo e
dell’età romana. Quindi si concludeva per negare che essa potesse essere un
originale di Prassitele bensì una copia romana di straordinaria nezza. Ma
anche questa soluzione NON SODDISFACEVA chi dell’arte di Prassitele aveva
una concezione diversa. Ancora una volta il Blumel, nel 1944, propose una
soluzione: poiché le fonti conoscono ben 4 artisti di nome Prassitele e
poiché sono riscontrabili nella statua modi caratteristici per l’ellenismo,
proponeva di attribuire lo Hermes a un Prassitele della ne del II secolo a.C.
Tornando a Pausania, se la scoperta della statua di Hermes ci confermava
la sua attendibilità topogra ca, altri casi ci o rono esempio della sua non sempre
esatta informazione storico-artistica e della possibilità che noi abbiamo di
correggere, talvolta, i suoi errori. Ad Olimpia, infatti, Pausania descrive i due
frontoni del tempio di Zeus nelle singole gure, che, ritrovate negli scavi, sono
state ricomposte seguendo le indicazioni e la descrizione di Pausania, solo
con qualche incertezza per l’inesattezza dell’espressione “a destra, a sinistra” di
Zeus, perché non sappiamo se Pausanias intenda dire rispetto a chi guarda o
rispetto alla statua del Dio. Ma tolta questa incertezza, ben più grave rimane la
questione dell’attribuzione, poiché Pausania attribuisce un frontone (quello
principale, a est) a PAIONIOS e l’altro ad ALKAMENES, scolaro o collaboratore
di Fidia. La critica moderna ha potuto appurare stilisticamente non solo che i
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due frontoni debbono essere del medesimo autore (che viene citato come il
“Maestro di Olimpia”) ma anche che sono da escludere del tutto Paionios e
Alkamenes.

LUCIANO DI SAMOSATA (II secolo d.C / 125-280 c.a)

Di tutt’altro carattere come fonte per la storia dell’arte antica sono gli scritti
di Luciano di Samosata, vissuto al tempo degli Antonini, unico e ultimo fra i tardi
scrittori del mondo greco che dimostra di avere gusto e sensibilità artistica.
Luciano non è un compilatore, ma uno scrittore fornito di cultura e di un
discernimento personale, che parla di opere d’arte che egli ha visto e che
egli descrive esprimendo le proprie sensazioni e il proprio giudizio (es.
descrizione del quadro “Le nozze di Rossane e Alessandro” dipinto da Aetion)
Per il resto, però, anche Luciano partecipa al culto per l’età lontana della grande
civiltà artistica della Grecia e menziona soltanto opere di artisti famosi
dell’età classica.

ATENEO DI ALESSANDRIA (metà III secolo d.C)

Un’altra fonte che va menzionata in modo particolare è, per taluni passi, Ateneo di
Alessandria (o di Naucrati). Grammatico e so sta nato in Egitto, a Naukratis,
antica colonia greca, poi vissuto ad Alessandria e a Roma verso la metà del
III secolo d.C, compose un’opera erudita intitolata “Deipnosophistai” cioè “I
dotti a convito”, dove i convitati intrecciano COLLOQUI che danno modo all’autore
di raccogliere un’ampia congerie di notizie, per noi spesso preziose, di
carattere enciclopedico. Tra queste vi sono due lunghe descrizioni, oltre a notizie
minori, del padiglione regale e del corteo festivo di Tolomeo II Philadelphos e della
processione trionfale di Antioco IV Epiphanes, documenti di grande interesse per
conoscere in particolare lo splendore e lo SFARZO DELLE CORTI ELLENISTICHE e
la profusione di suppellettili in metalli preziosi lavorati, delle quali le pur sempre
sorprendenti argenterie e ore cerie che ci restano di età romana non sono altro
che un modesto ri esso.

In ne, numerose sono le fonti di ETA’ BIZANTINA (es. Giovanni di Gaza del VI
secolo o Giorgio Kodinos probabilmente del X secolo). Esse ci danno informazioni
talora assai utili come dati di fatto: ma nulla che possa contribuire alla valutazione
dell’arte greca. Dal punto di vista documentario, particolare importanza rivestono
le iscrizioni, che conservano rme di artisti, o documenti.

LE SCOPERTE E LE GRANDI IMPRESE DI SCAVO

Accanto alle linee ideali seguite nella ricostruzione della storia dell’arte
dell’antichità, dobbiamo renderci conto anche dei materiali monumentali e del loro
ritrovamento ai ni dello studio dell’arte del mondo classico. Lo studio dell’arte
antica è infatti un tessuto composto da 3 li diversi:

•conoscenza delle fonti scritte;

•conoscenza dei materiali reperiti dallo scavo ;

•il criterio metodologico per portare quelle nozioni a giuste conclusioni storiche.

Il Winckelmann, quando iniziò la sua opera, si trovava di fronte ad un vero CAOS


DI OPERE D’ARTE, uscite in gran parte dal suolo di Roma e non ancora
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classi cate, alle quali egli tentò di trovare un criterio di ordinamento, ma
scrisse la storia dell’arte greca, senza mai aver visto opere originali e solo copie di
età romana. Però, subito dopo, la scoperta della Grecia e delle opere originali
greche si andò sempre più sviluppando. Dobbiamo quindi vedere come la nostra
conoscenza dell’arte greca abbia fatto progressi notevoli avendo acquisito,
attraverso gli scavi, una grande quantità di materiale grazie al quale è stato
possibile ricostruire almeno nelle sue grandi linee la storia dell’arte antica.

Nel 700 era sorto a Londra un gruppo di uomini di diversa provenienza e


preparazione, dotati di mezzi di fortuna, i quali fondarono (nel 1733) la
“Società dei dilettanti” (dilettanti nel senso migliore del termine, cioè amatori
d’arte). Questi cominciarono più tardi a nanziare viaggi, e poi ad accodarsi a
spedizioni che venivano fatte dal governo inglese. I nomi di Clarke, di Dodwell e
di Cockerell sono connessi alle prime ricerche e alle prime spedizioni in Grecia del
gruppo, con Pausania alla mano. NON ERA ANCORA UN’ATTIVITA’ DI SCAVO,
ma “di scoperta” e spesso riuscivano a comprare dal governo turco pezzi di
notevole bellezza che ora sono conservati al British Museum.

Dal 1738 al 1766 erano stati intrapresi in Italia gli scavi di ERCOLANO e
dal 1748 quelli di POMPEI, che portarono alla luce inattesi tesori di pittura,
e misero di moda uno “STILE POMPEIANO”. Ma gli scavi di Ercolano furono
presto ABBANDONATI per le gravi di coltà che essi presentavano, essendo stata
Ercolano, a di erenza di Pompei (seppellita da uno strato di cenere),
investita da una colata di fango caldo, che poi si è indurito rendendo
di cilissimo lo scavo; i lavori furono poi in seguito ripresi SOLO dopo l’uni cazione
italiana (dal Fiorelli). Infatti, nell’eruzione del 24-25 Agosto 79 d.C Pompei ed
Ercolano furono colpite in modo di erente:

•Pompei: venne sepolta dalle pomici e dai lapilli (ceneri) e quindi non ha restituito
nulla di organico;

•Ercolano: venne colpita dalla seconda ondata eruttiva (fango bollente) e


quindi ha restituito dei ritrovamenti organici.

Una delle prime, più grandiose, più celebri e più discusse acquisizioni di sculture
greche nell’occidente europeo sono i marmi del Partenone e del tempio di
Nike Apteros, legati dalla tradizione al nome di Fidia e dalla storia delle cultura al
nome di Lord Elgin. Questi fu inviato nel 1799 come AMBASCIATORE a
Costantinopoli e da quel momento cominciarono le sue disgrazie. Si mise presto in
urto con il potente incaricato della Compagnia del Levante e si mise in una
spiacevole posizione diplomatica nei rapporti con la Francia, che gli valse il
risentimento personale di Napoleone e la prigionia presso di lui, quando nel 1803
Elgin lasciò Costantinopoli per tornare a Londra e lo fece attraversando la
Francia. Ma forse il dramma maggiore fu proprio quello dei marmi del
Partenone. Sembra che Elgin avesse intenzione, soprattutto, di far eseguire
disegni e calchi per insegnamento degli artisti e che fu il cappellano
dell’ambasciata, il reverendo Philip Hunt che lo accompagnava, a trasformare la
spedizione in una SPOLIAZIONE, distorcendo l’assai generico permesso
ottenuto dal governo di Costantinopoli (la Grecia era allora occupata dai
Turchi).Non tutti i marmi furono distaccati dal monumento: molti frammenti
frontonali furono recuperati nella demolizione di una CASA sorta presso il
Partenone che Elgin aveva acquistato a questo scopo. Mentre Elgin era
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ancora prigioniero del Bonaparte, il suo agente cominciò a spedire i marmi in
200 ceste: 12 di queste naufragarono al CAPO MALEA e le sculture furono
poi recuperate dai palombari in faticose azioni che si protrassero per 3 anni. I
marmi ancora rimasti ad Atene furono nel 1807 sequestrati dai Francesi ma poi
inclusi negli ACCORDI DI PACE con l’Inghilterra. Le ultime 80 ceste giunsero a
Londra nel 1812.

Intanto, in aspre discussioni si scontravano artisti che ammiravano entusiasti le


sculture del Partenone e studiosi ancora “ANTIQUARI” che, pervasi di teorie
winckelmanniane, ri utavano di riconoscere in quei marmi l’arte diaca
ipotizzando addirittura un rifacimento di età romana: il che signi cava, nella
concezione di allora, attribuire quelle sculture a un’epoca di DECADENTE
IMITAZIONE. Per buona sorte, i marmi furono poi nalmente acquistati dal
governo inglese conferendo al British Museum un risalto eccezionale. Ma Elgin
non ne ricavò che la metà delle spese sostenute. In mezzo alle discussioni pro
e contro i “marmi Elgin”, dobbiamo riconoscere l’intelligenza e il BUON
SENSO del Canova (che oggi ci appare come un freddo neoclassico), il
quale si ri utò di restaurarli (cosa che NON fece il suo emulo danese, il
Thorwaldsen, con le sculture arcaiche di EGINA, portate a Monaco di
Baviera). E inoltre dobbiamo riconoscere il merito a Ennio Quirino Visconti di
essere stato, fra gli archeologi, il PRIMO a dichiarare quei marmi e ettivamente
degni del nome di FIDIA.

Le discussioni sull’operato di Lord Elgin non sono chiuse nemmeno oggi e anche
recentemente furono avanzate da parte del governo greco RICHIESTE DI
RESTITUZIONE. Sicuramente se è vero che l’asportazione di opere d’arte dal
loro luogo di origine è sempre un atto lesivo di un contesto storico, dobbiamo
anche ammettere che senza questi trasferimenti la cultura del nostro tempo
non si sarebbe arricchita di tante essenziali conoscenze e sarebbe stata diversa.

Nel 1811 era stata condotta una spedizione all’isola di Egina, dove furono scoperti
i resti di un tempio, le cui sculture frontonali furono vendute a Luigi di Baviera
ed esposte nel museo di Monaco. La scoperta fu molto importante, essendo
questi i PRIMI MARMI che si conobbero del periodo arcaico e questa nuova
esperienza aiutò anche la cultura del tempo a distaccarsi dal gusto neoclassico. I
marmi di Egina furono restaurati e completati SENZA RIGUARDO dal più
accademico degli scultori del tempo, il Thorwaldsen, che purtroppo non usò
alcun rispetto per il documento ed accomodò le statue come riteneva più
opportuno. Nel 1967 i restauri sono stati tolti con una risoluzione che segue giusti
criteri teorici ma incauta applicazione pratica. Il restauro del Thorwaldsen
rappresentava ormai un documento di storia della cultura e i moncherini che
presentano oggi le statue sono sicuramente più o ensivi dei restauri che un occhio
esperto poteva eliminare mentalmente.

Ripresi dopo il 1860 gli scavi a Pompei per opera del Fiorelli, questi scavi (che
furono condotti non con un metodo stratigra co bensì “PER CUNICOLI”) hanno
dato una documentazione e notizie sempre più sicure sulla vita e i costumi del
mondo romano, oltre a procurarci una ineguagliabile quantità di pitture e di
mosaici senza i quali non avremmo alcuna conoscenza della pittura antica. Tra il
1894 e il 1896 fu scoperta la casa dei Vettii, la più ricca di dipinti, e la villa di
Boscoreale con il meraviglioso tesoro di argenteria che fu venduto all’estero; dopo

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il 1918 si sono avute le scoperte di via dell’Abbondanza e si è usato il metodo del
ripristino in situ.

Pompei sono venuti in luce molti monumenti di scultura, la maggior parte


dei quali sono copie di originali greci. Di originali ellenistici si hanno solo alcuni
MOSAICI, portati a Pompei. Ma la maggiore importanza per la storia dell’arte
dei ritrovamenti pompeiani sta nella PITTURA, poiché Pompei ed Ercolano
sono tra i pochissimi centri che ci danno resti di pittura antica originale. In
relazione a tali pitture sono sicuramente da annoverare le teorie del Wickho ,
teorie che in parte sono state riviste e superate in quanto non reggono più alla
critica moderna. Per il Wickho , premesso che l’arte greca NON conosceva il
problema dello spazio, tutto quanto nella pittura pompeiana mostrava uno sfondo
paesistico era detto interpolazione dell’artista romano. Oggi invece si è visto
che non tutte le premesse di paesaggio e gli sfondi prospettici sono
interpolazioni romane, ma che già sono nella tradizione ellenistica, anche se di
questa ci rimane ben poco (infatti della grande oritura artistica di Alessandria
abbiamo purtroppo pochissimi resti). Tuttavia, quanto è stato posto in luce dai più
recenti scavi nella necropoli di Alessandria in tombe del III secolo a.C ci dimostra
che abbiamo qui, e in forma di usa nell’artigianato corrente, diretti precedenti
della pittura illusionistica di Pompei. Questa perciò deve essere considerata
come la continuazione e lo svolgimento in età romana della pittura
ellenistica. La penetrazione di una MENTALITA’ STORICISTICA nell’archeologia è
stata molto lenta e la comprensione dell’e ettiva problematica della forma
artistica sfuggiva a buona parte degli archeologi. Ancora pochi anni or sono
il Maiuri (maggiore competente delle antichità di Pompei) a proposito della
pittura del IV stile pompeiano scriveva che questa pittura di carattere
impressionistico era una CONSEGUENZA LOCALE del gran da are delle
maestranze per la ricostruzione delle case in seguito al terremoto del 62. Ma la
stessa pittura impressionistica di IV stile si trova in esempi molto più belli a Roma,
in Gallia, in Renania ecc; essa non è dunque un fenomeno pompeiano, bensì
investe tutto il mondo artistico ellenistico-romano, e va a rontata come un
problema di forma e di linguaggio artistico a sé.

Per comprendere l’in uenza che ha avuto sulla nostra cultura la presa

di contatto con le opere di quest’arte greca che prima di allora si era conosciuta
SOLO attraverso le copie, e poi, soprattutto, per l’enorme ampliamento
dell’orizzonte storico che hanno comportato, acquistano importanza e valore
preminente, dalla metà dell’800 no al primo terzo del 900, le scoperte fatte in
GRECIA. Nella seconda metà dell’800 si organizzarono le prime grandi spedizioni
di scavo da parte di Inglesi, Tedeschi e Francesi.

I primi sono gli scavi in Samotracia, eseguiti dal Conze nel 1863, spedizione a
carattere internazionale, tanto che la famosa NIKE andò al Louvre.

Al tempo stesso furono iniziati gli scavi ad Atene, al Dipylon, dove apparvero per la
prima volta (nel 1871) i vasi di stile geometrico, ponendo in lue i PRIMORDI
dell’arte greca, no ad allora sconosciuti. Questa scoperta ha avuto, anche se
a distanza di tempo, una grande in uenza sugli studi; noi non possiamo,
infatti, capire la FORMAZIONE e lo SVILUPPO della statuaria del VI secolo
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senza tener conto della lunga tradizione dello stile geometrico che è stato
“l’alta scuola” dell’arte greca. Questo stile geometrico si ricollega sicuramente
al primitivo geometrismo che si trova nel vasellame preistorico della regione
danubiana; ma le popolazioni greche, quella ATTICA particolarmente, ne
fanno una creazione artistica, un vero e proprio stile coscientemente
sottoposto a REGOLE. Questa creazione del genio artistico greco sta alla base e
fondamento di tutto lo sviluppo dell’arte greca di tutto il periodo arcaico; non è
quindi, come si credette, un “BALBETTAMENTO INFANTILE”, ma il risultato di
una lunga attività artigiana, che arriva a elevarsi a coscienza d’arte.

Poi vengono i grandi scavi ad Olimpia, iniziati da Ernst Curtius nel 1875. Fin dalla
metà del secolo Ernst Curtius aveva cercato di realizzare il progetto di uno scavo
sistematico, ma questo gli fu possibile solo dopo l’uni cazione prussiana della
Germania. Questi scavi ottennero i più grandi successi tra il 1875 e il 1880 e
furono condotti tenendo Pausania alla mano. Le grandi sculture del tempio di
Zeus, l’Hermes supposto di Prassitele, la Nike di Paionios, le numerose basi
con rme di artisti famosi aprirono una NUOVA FASE alla conoscenza
dell’arte greca di età classica, ma impegnarono gli archeologi tedeschi a un
lungo lavoro di catalogazione e classi cazione.

Nello stesso tempo furono iniziati gli scavi ad Efeso, da parte degli Inglesi, dopo
che con grande faticaera stato identi cato il sito del famoso tempio d’Artemide
che si sapeva rifatto con magni cenza dopo l’incendio di Erostato nel 356 e al
posto del quale si ha oggi niente altro che una palude. Sempre negli anni ’70
dell’800 fu iniziata anche l’esplorazione di Pergamo, già identi cata da studiosi
inglesi. L’esplorazione fu promossa, anche questa, dal Curtius, ma i dirigenti
ne furono A. Conze e l’ingegnere Humann, che da anni viveva sul posto. Qui
si scoprì la scultura ellenistica in una fase particolare, per la quale, dopo che il
WICKHOFF ebbe applicato i termini della storia dell’arte moderna all’arte antica, si
è parlato di “barocco ellenistico” e di “rocòcò”, termini che naturalmente non
vanno intesi con lo stesso valore che hanno nell’arte dell’Europa post-
rinascimentale ma che stanno a indicare genericamente una determinata tendenza
artistica divergente dalla compostezza e semplicità classica. Il grande altare di
Pergamo (ricostruito nei Musei di Berlino) ci fa conoscere l’esistenza di una serie di
scultori, dei quali abbiamo anche i nomi segnati nelle singole parti del fregio, i quali
lavorano con una quasi assoluta IDENTITA’ DI STILE. Essi appartengono ad
una scuola che eseguiva l’opera in collaborazione, lavorando in modo tipico per
tutta la civiltà artistica dell’antichità, con le caratteristiche e i modi di un altissimo
artigianato. Il fatto che si siano segnati i nomi degli artisti sulle varie porzioni del
fregio, indica che questi avevano la consapevolezza della propria relativa
autonomia d’artista e che ciascuno di essi era a capo di una equipe, ma
eseguiva la propria opera secondo un PIANO PRESTABILITO in comune
accordo. Va detto, inoltre, che questi scultori operano già in una fase di
classicismo, perché tutte le tipologie usate risalgono a celebri opere d’arte del V e
del IV secolo. C’è già una mentalità RETROSPETTIVA, per cui motivi di opere
classiche vengono ripresi con particolare gusto di accentuazione del rilievo e
dell’uso del chiaroscuro, e accrescendo e inserendo un’intonazione patetica,
passionale (pathos). A Pergamo, inoltre, fu messa in luce non solo questa
particolare tendenza della scultura ellenistica, ma tutta una CITTA’. Abbiamo
potuto avere, infatti, la visione di un nuovo tipo di città greca e dei suoi problemi
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urbanistici. L’urbanistica di Pergamo, per esempio, si articolava sull’erto anco di
un colle, con un forte dislivello tra la parte bassa e quella alta. In ne, Pergamo fu
un VIVO CENTRO DI CULTURA, la cui eco durò a lungo ed al quale dobbiamo
risalire anche per intendere taluni aspetti della pittura pompeiana.

Accanto a queste grandiose iniziative di scavo inglesi e tedesche ci sono anche


iniziative francesi: in particolar modo gli scavi di Delo a partire dal 1877 e quelli di
Del dal 1879. Delo era un’isola dedicata al culto di Apollo: per questo fu
proibito di abitarvi; non vi si poteva né nascere né morire. In età romana
invece fu consentito abitarvi, e si formò un villaggio. Questa circostanza è
importante per noi, perché questo dato serve per la ricostruzione della cronologia
di taluni aspetti di questa tarda fase ellenistica, sia per quello che riguarda l’origine
degli “stili” della decorazione parietale pompeiana, che per la storia del ritratto
romano. A Delo, infatti, sono stati ritrovati i precedenti immediati della
decorazione pompeiana di 1° STILE che poi è anche quella descritta da VITRUVIO
(nel capitolo VII della sua opera). Questo è un’ulteriore conferma che la pittura di
Pompei appartiene allo svolgimento artistico del tardo ellenismo.

Gli scavi di Del sono molto più importanti: i risultati di tali scavi furono
pubblicati regolarmente in fascicoli a partire dal 1902. A Del vi era il più grande
santuario dopo quello di Olimpia. Ma, mentre Olimpia era stata abbandonata in
periodo medievale e non vi si era formato un paese “moderno”, anzi le antichità
erano state quasi “protette” dal materiale della alluvioni dei due umi che la
cingono, a Del un piccolo paese si era insediato in mezzo alle rovine del
santuario, distruggendole per sfruttare il materiale da costruzione. Questo
ovviamente rese meno fruttiferi gli scavi, anche per la posizione di Del che
si trova a mezza costa su una montagna di roccia dolomitica dove è impossibile il
formarsi di uno strato di humus protettivo. Sposato e ricostruito più lontano
il villaggio moderno, si sono trovati elementi di fondazione degli edi ci
antichi, in base ai quali si è potuto ricostruire la pianta del santuario, ma
anche frammenti di sculture, dai kouroi arcaici, opera di [Poly]medes argivo,
rappresentanti KLEOBIS e BYTON (due pii gli che si posero al luogo del sacri cio
dei buoi per far giungere la vecchia madre al santuario), alle metope del
tesoro degli Ateniesi, ai fregi del tesoro di Sifni: tutte opere che precisarono la
conoscenza dell’arte greca dall’arcaismo allo “stile severo”.

Fino al IV secolo, cioè no ad Alessandro, si trova nei paesi asiatico-


ellenistici la caratteristica di grandi sepolcri monumentali a forma di piccolo
tempio, espressione tipica di questi sovrani locali, vassalli dell’impero persiano,
i quali si facevano costruire la tomba chiamando artisti GRECI. Così gli artisti greci
si sono trovati di fronte a un TEMA NUOVO, perché in Grecia non esistevano edi ci
simili: ovvero la decorazione di edi ci destinati all’esaltazione del principe defunto.

Il Mausoleo di Alicarnasso è sicuramente l’esempio più clamoroso e famoso


di questo tipo di costruzioni. Le rovine del Mausoleo erano state identi cate a
Budrun (odierna Turchia). Lo scavo fu condotto dagli inglesi e il materiale scultoreo
si trova tutto al British Museum. Le sculture del Mausoleo, oltre all’interesse per la
celebrità del monumento, sono di grande importanza come sculture originali da
attribuire agli scultori Skopas, Bryaxis, Leochares e Timotheos, che secondo le
fonti (in particolare modo PLINIO nella Nat. Historia) avevano decorato il
monumento. Però se si è raggiunto un certo accordo tra gli studiosi per quello che
riguarda le attribuzioni a Skopas, per gli altri artisti, che pure sono tra i principali
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del tempo, si è tuttora in grande incertezza. Il che ci convince quanto poco, in
realtà, si conosca ancora la scultura greca del IV secolo. Un’acuta ipotesi è stata
proposta dal Buschor, il quale, rifacendosi ad un passo di Plinio, pensò che il
lavoro per il Mausoleo rimase interrotto alla morte di Artemisia nel 351 a.C
(moglie e sorella di Mausolo, satrapo di Caria dal 377 al 353) e che sia stato
ripreso solo dopo che Alessandro Magno ebbe restituito, nel 334, il “trono” di
Caria ad Ada, che con saggia mossa politica lo aveva “adottato”, e che era un’altra
sorella di Mausoleo succeduta da Artemisia e poi spodestata. Questa supposta
ripresa dopo circa un ventennio, spiegherebbe talune DIVERGENZE STILISTICHE
altrimenti inconciliabili.

Ancora non si è parlato delle scoperte che hanno avuto maggiore risonanza anche
al di fuori del cerchio degli archeologi: in particolare quelle dello Schliemann.
Questi, che da modeste origini era diventato un ricco tra cante, n da
ragazzo, quando era apprendista in un modestissimo negozio, si era
innamorato di Omero, alla cui esistenza credeva ciecamente. Su questa cieca
ducia nel testo di Omero, lo Schliemann, fra lo scetticismo di tutto il
mondo accademico, nel 1871 iniziò gli scavi nella Troade, dove non solo
scoprì Troia, la cui ubicazione era discussa (odierna collina di Hissarlik), ma
confermò anche la realtà della distruzione per incendio per le tracce evidenti
che di questo trovò nei resti di uno degli STRATI di insediamento posti in luce.
(integrare appunti) Scavò allora anche a Micene, dove scoprì quello che egli
chiamò il tesoro di Atreo e la tomba di Clitemnestra, mettendo in luce, con un
barbaglio di oggetti d’oro di squisita fattura, la civiltà pre-ellenica di cui no ad
allora si era completamente ignorata la presenza. Questa civiltà polarizzò su di sé
per alcuni decenni l’attenzione degli studiosi, conducendoli ad approfondire i
problemi della PREISTORIA GRECA e mostrando una radice storica a miti e
leggende che si ritenevano, n dai tempi ellenistici, pure fantasie poetiche. Lo
Schliemann ebbe come compagno nelle spedizioni successive l’architetto W.
Dorpfeld, che poi seguitò sempre a studiare gli strati più antichi della civiltà
greca e il volume relativo agli scavi sulla collina di Troia-Hissarlik è dovuto a
lui. La cosa più curiosa è che lo Schliemann, che non era un archeologo,
vedendo realizzarsi il suo sogno, divenne via via più prudente nelle sue
ricerche; il Dorpfeld, invece, divenne sempre più propenso a conclusioni che
possiamo de nire più romantiche che e ettivamente scienti che. Particolarmente
discussa fu l’opera alla quale dedicò gli ultimi anni della sua vita, rivolta a
identi care l’Itaca di Omero, che sarebbe stata, secondo lui, la penisola di
Leucade, mentre altri studiosi hanno sostenuto che era l’isola di Cefalonia. Ad
ogni modo le ricerche del Dorpfeld sono servite a porre in luce per prima la vita di
età “elladica” e micenea nelle isole e nel continente greco e a dimostrare come
essa corrisponda a quegli orizzonti di civiltà che si trovano descritti nell’Odissea.

Alle scoperte della civiltà pre-ellenica hanno contribuito anche studiosi italiani con
la missione di scavi a Creta iniziata dal trentino Federico Halbherr, proseguita
dal romano Luigi Pernier e da Luisa Banti e diretta poi, a partire dalla seconda
metà del 900, da Doro Levi. La missione inglese poi dell’Evans si concentrò in
particolare sullo scavo e sul restauro ( n troppo spinto) del palazzo di
Cnosso. Palazzo grandiosissimo ed intricatissimo, che ci riprova come la
leggenda del Labirinto, edi cato per Minosse, mitico re di Creta, avesse un
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fondamento nella realtà storica e che fu conosciuto dai Greci già in rovina. Gli
scavi italiani, invece, hanno messo in luce, nella località di Phaistos, nella
parte meridionale dell’isola, un palazzo meno sontuoso, ma più chiaramente
distinguibile nella varie fasi di costruzione. Tali scavi furono eseguiti dal Pernier
che pubblicò solo il primo volume del materiale di scavo; il secondo è
apparso solo molti anni dopo per opera della Banti, con novità molto importanti,
perché ella si pose il problema di rivedere tutta la cronologia del materiale di
scavo ed è arrivata a conclusioni molto diverse e più convincenti di quelle
dell’Evans sulla cronologia della civiltà pre-ellenica. Altro passo importantissimo
per la ricerca storico-artistica del mondo pre-ellenico fu compiuto nel 1953, con
l’avvenuta decifrazione del più recente degli alfabeti cretesi, quello detto “lineare
B”, da parte dell’architetto M. Ventris. Egli confermò che la lingua usata in
numerose piccole tabelle di creta, coperte di segni in “lineare B”, era quella
GRECA. Il che signi cava quindi che l’ultima fase della civiltà cretese si era svolta,
come quella micenea, dopo l’espansione delle popolazioni di stirpe ellenica. Da
numerose altre scoperte è apparso poi chiaramente che la “lineare B” non è altro
che un adattamento della scrittura cretese “lineare A” alla lingua degli invasori
Achei. Tra la ne dell’800 e l’inizio del 900 si apri dunque un capitolo di
STORIA DELLA CIVILTA’ completamente ignorato no ad allora, che ha
facilitato la spiegazione di una grande quantità di fenomeni culturali e artistici della
Grecia storica e ha dimostrato come queste tribù doriche e achee, che si
ssarono nella Grecia intorno al 1200, si erano trovate di fronte ad una civiltà
molto più ricca e avanzata della loro, per quanto fosse ancora una civiltà limitata
nella sfera culturale dell’età del BRONZO. Sono gli immigrati dorici e achei che
portarono la civiltà del FERRO. Era pertanto inevitabile che le nuove popolazioni
assumessero elementi e motivi della civiltà minoica molto più avanzata, ma è
interessante notare che essi ne hanno ripresi molto meno di quelli che si sarebbe
pensato. Tale questione è stata considerata da molti studiosi e, per quanto
riguarda l’arte, si può concludere che ciò che si è desunto dalla civiltà
precedente è stata la tecnica, più che lo STILE ARTISTICO. La cosa non
deve sembrare strana perché noi sappiamo che l’arte gurativa altro non è che
un’espressione intimamente legata alla società che la produce. E quindi una
società completamente diversa da quella minoica, non poteva non produrre
un’arte COMPLETAMENTE DIVERSA, anche se si è impadronita delle invenzioni
tecniche della civiltà precedente.

Accanto a questi capitoli nuovi, intorno alla ne dell’800 (anche qui con l’intervento
dello Schliemann, che dette i mezzi per nanziare l’impresa), e mentre si stava
compiendo l’unità nazionale turca (guerra greco-turca del 1897), si andava
approfondendo la conoscenza della città greche, particolarmente dell’Acropoli
di Atene, che dopo lo spoglio dei marmi fatto da Lord Elgin, era a poco a poco
tornata a mostrare il proprio aspetto con la demolizione delle costruzioni che
l’avevano trasformata sin dal Medioevo in fortezza. I Propilei erano stati
inclusi entro torri di forti cazione, nella cui demolizione venne alla luce tanto
materiale da poter ricostruire non solo i Propilei, ma anche il tempietto,
quasi completo, di Athena Nike che sorgeva sul bastione. Questo è un piccolo
edi cio molto elegante con un parapetto adoro di gure di VITTORIE, che
sono tra le testimonianze più belle della generazione successiva a Fidia,
intorno al 420 a.C. Si ripresero ancora gli scavi nel cimitero del Dipylon (= le due
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porte) dove si misero in luce le tombe che vanno dal IX alla ne dell’VIII
secolo a.C dalle quali provengono pezzi fra i più belli che si conoscano. Al
tempo stesso, nella sistemazione dell’Acropoli venne posta in luce anche
tutta la documentazione dell’Acropoli arcaica. In particolare, quando nel 480 a.C i
Persiani distrussero l’Acropoli, devastarono tutti i monumenti esistenti, la tomba
del mitico Cecrope, il tempio che sorgeva al posto del Partenone, detto
Hekatompedon (il tempio “di 100 piedi), i resti di altri edi ci precedenti e tutta la
gran massa di ex-voto che erano nel temenos, cioè nel recinto sacro del
santuario. Dopo la vittoria sui Persiani, la nuova generazione di Ateniesi si
accinse alla RICOSTRUZIONE dell’Acropoli, che sarà poi quella di PERICLE: il
primo atto compiuto fu quello di allargare l’area utilizzabile alla sommità
dell’Acropoli mediante un muro; nello spazio intermedio fra il muro e la roccia
furono deposti tutti i resti degli ex-voto danneggiati che, in quanto cose
consacrate, non potevano essere distrutti. Questo riempimento è noto col nome di
“colmata persiana” e i pezzi in esso rinvenuti sono di per se stessi datati al periodo
precedente al 480 a.C. Questa data è assai importante, in quanto segna una
PROFONDA SVOLTA, che incide in tutti gli aspetti della società greca. Infatti
a una società aristocratica succede una società democratica, che crea un tipo
di stato NUOVO nel mondo, uno stato di diritto fondato sul concetto di giustizia e
dove vige il principio dell’ISONOMIA. E di tale società ovviamente è diversa
l’espressione artistica, tanto che questa data (480 a.C) segna, per noi, la ne
del periodo arcaico e l’inizio dello “stile severo”. Fu un trentennio, quello dal
480 al 450, paragonabile per intensità di TRASFORMAZIONE, per ricchezza di
problemi artistici e per numero di artisti attivi solo al periodo del Rinascimento
orentino. In 30 anni, nel giro di una generazione, infatti, si passa dalla rigida
statua arcaica, tutta dominata dalla linea di contorno, all’inaudita ricchezza plastica
di Fidia. Quindi gli scavi della ne dell’800 misero in luce tutti i frammenti
dell’Acropoli, che in parecchi decenni furono catalogati e pubblicati: tale
lavoro si può considerare terminato solo con la pubblicazione da parte di
uno studioso della scuola inglese, il Payne, delle sculture arcaiche
dell’Acropoli (nel 1936).

Il Payne, uno dei pochi archeologi dotati di intelligenza dell’arte, fece alcune
scoperte molto importanti: ad esempio scoprì che un torso di kore
proveniente dalla Francia meridionale e conservata a Lione combinava
perfettamente con la parte inferiore di una statua frammentaria trovata nella
colmata persiana. Quindi la “kore di Lione” o “Afrodite di Marsiglia”, come era
chiamata, si dimostrò proveniente dall’Acropoli, mentre tale scultura no ad allora
era stata ritenuta IONICA, perché rinvenuta in una zona di antica
colonizzazione ionica e vestita col chitone ionico. C’è stato, infatti, nei nostri studi
un periodo di “panionismo”, vista l’importanza avuta dalle colonie ioniche e,
seguendo certe indicazioni delle fonti, si ritenne di arte o comunque di
in uenza ionica tutta la scultura di età arcaica trovata ad Atene. Le scoperte del
Payne, invece, hanno dato un colpo a tale tendenza e posto in evidenza che la
scuola attica rappresenta non solo una produzione di costante qualità altissima,
ma il centro promotore di nuove invenzioni formali e di nuove problematiche
artistiche.

RICERCHE E STORICISMO AGLI ALBORI DEL ‘900

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Alla ne del periodo lologico, tra l’800 e il 900, si trova una gura di

studioso che va posta in particolare evidenza: Emanuel Loewy, austriaco, il

quale fu il primo a coprire una cattedra di ARCHEOLOGIA CLASSICA

all’Università di Roma. A parte questo fatto, signi cativo per la cultura

italiana del tempo, la sua opera è importante, perché è forse il primo

archeologo che cerca di riprendere quello che era stato uno dei motivi

dell’e ettiva grandezza del Winckelmann, cioè la ricerca attorno all’essenza

stessa dell’arte. Egli cerca, cioè, di porre lo studio dell’arte antica sopra un
fondamento teorico generale. Due sono i suoi studi fondamentali: “La

natura dell’arte greca più antica (1900), e l’altro un articolo di carattere


iconogra co, intitolato “Migrazioni tipologiche” (1909). Questi due studi sono
importanti perché toccano i due punti essenziali della storia degli studi di arte
dell’antichità greca:

•quello del rapporto tra l’arte greca e il vero di natura ;

• quello della persistenza iconogra ca.

Per quanto riguarda la persistenza iconogra ca, bisogna inizialmente


a ermare che specialmente nell’arte antica si deve tener ben presente che il
fondamento di quella produzione artistica è prettamente artigiano. NON ci
troviamo, infatti, di fronte alla personalità dell’artista isolata e capace di produrre
da sé, estraendo soltanto dalla propria personalità un’opera d’arte distaccata
da qualsiasi legame con la società in cui vive. Questa accentuazione e
concezione della personalità dell’artista è una cosa tipicamente MODERNA.
Nell’antichità l’artista è un’artigiano e le stesse fonti antiche lo considerano come
tale. Come in tutti gli artigianati, si formò un patrimonio di tradizioni tecniche e
iconogra che che rendeva possibile all’artigiano di raggiungere una qualità
elevata. Si lavora fondamentalmente come si è imparato nella BOTTEGA, ma
ogni artigiano di talento aggiungerà piccole varianti, che sono espressione
della sua personale genialità. Con l’andare del tempo si giunge in tal modo a
innovazioni anche profonde. Per esempio, nell’arte arcaica il tipo del kouros, il
“fanciullo”, gura maschile nuda in posizione eretta, non impegnata in azione
determinata, continua dalla metà del VII secolo alla ne del VI secolo, da un punto
di vista ICONOGRAFICO, senza alcun mutamento. Eppure nella sua uniformità
tipologica non c’è un kouros uguale all’altro, e il problema statuario si matura nel
corso di due secoli no alla crisi che si rende manifesta nello scultore attico Kritios,
col quale si apre la fase dello “stile severo”, tra 480 e 460 a.C, e si avvia poi
verso la soluzione policletea che si determina attorno al 450-440. Quindi, si
può in ne a ermare che nchè esiste nell’arte una forte tradizione ARTIGIANA,
come accade nell’arte antica, la persistenza degli schemi iconogra ci è fortissima.

Sicuramente di ciò va tenuto conto per dare un GIUSTO GIUDIZIO e non


confondere derivazione iconogra ca con a nità stilistica. In particolare,
quando si studia una determinata rappresentazione artistica bisogna
esaminare da dove proviene lo schema iconogra co e cercarne i precedenti:
solo dopo tale ricerca si può stabilire la posizione storica dell’opera e
valutare il contributo personale dell’artista. Questo fu uno degli argomenti di
studio del Loewy, che per primo mise in evidenza la persistenza degli schemi
gurativi, mostrando altresì come numerosissimi motivi dell’arte greca arcaica
sono connessi con l’arte del Medio Oriente. Al tempo stesso, bisogna tener
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presente - e questo NON lo fece il Loewy - che una cosa è parlare di schemi
iconogra ci e un’altra invece parlare di forma e di contenuto artistico nuovo. Molti
equivoci, infatti, sono dovuti al fatto di non aver tenuto distinti i due
momenti (es. arte etrusca). Queste considerazioni costituiscono uno dei punti
fondamentali che trassero fuori gli studi di archeologia dalla tradizionale base sulla
quale si erano attestati con la scuola lologica, la quale aveva nito per ridurre la
storia dell’arte a una specie di storia naturale, quasi come se le correnti
artistiche, classi cate meccanicamente come “stili”, nascessero l’una dall’altra
come foglie dallo stelo e perdendo di vista il processo storico continuamente
dialettico dell’arte.

L’altro punto fondamentale esaminato dal Loewy è quello della


rappresentazione della REALTA’, del VERO, della natura, cioè del modo nel
quale l’immagine naturale viene trasformata in immagine artistica. Il
Winckelmann aveva creduto di poter de nire l’essenza dell’arte greca, formulando
quel suo concetto di idealizzazione delle forme reali, cioè della selezione del PIU’
BELLO, del MIGLIORE, per costituire una forma “ideale”, che stesse al di
sopra dell’aspetto contingente della natura, e che alla natura stesse come le
idee platoniche alla realtà. Oggi, invece, a fatica si è fatto strada il riconoscimento
dell’arte greca come la più naturalistica delle civiltà artistiche, profondamente
ed essenzialmente realistica. L’opporre oggi il realismo dell’arte greca, come
un elemento fondamentale della sua struttura, al concetto di idealizzazione che
prima si era ritenuto adeguato, è in stretta connessione da un lato con il
raggiungimento di posizioni storicistiche più precise e dall’altro con un
approfondimento della natura stessa dell’espressione artistica, maturatosi
attraverso l’indagine stilistica e critica.

Alla ne dell’800, la formula dell’estetica winckelmanniana subì una prima revisione


in base alle tendenze positivistiche che ebbero eco negli studi di archeologia.
Prima fu il danese Julius Lange, che si occupò del problema del rapporto tra
l’arte greca e la forma di natura, poi il tema fu ripreso tra noi dallo studioso
Alessandro Della Seta, scolaro del Loewy. Il Lange era stato il primo a osservare e
a de nire alcune delle “leggi” della concezione artistica del periodo più
ARCAICO dell’arte greca: la prima di queste leggi è, per importanza, quella
della frontalità, che si manifesta nel fatto che qualsiasi immagine riprodotta
dall’artista subisce una specie di schiacciamento, come un ore messo a
seccare; perde volume, evita qualsiasi scorcio; la gura non ha profondità, si
muove come tra due lastre di vetro, una di essa costituente il piano di fondo, l’altra
un piano parallelo al primo, col quale vengono in contatto tutte le parti più
sporgenti della gura. E’ una visione LINEARE e SIMMETRICA.

Da queste “leggi” il Lange desumeva le conseguenze, che caratterizzano


quello che si dice stile arcaico. Per esempio, una gura è vista di pro lo nelle
gambe e di fronte nel torso. Questa torsione del busto, che riporta la gura nel
piano in cui si muovono le gambe, forma uno schema gurativo che ha la sua
armonia, anche se è lontanissimo dalla realtà. Per la stessa ragione non troveremo
in un viso di pro lo l’occhio di pro lo, ma di prospetto. Queste convenzioni
sono particolarmente evidenti nell’arte egiziana, dove hanno perdurato
attraverso i millenni. E i Greci le assunsero inizialmente dall’Egitto: ma
questo fatto creò in passato l’equivoco di de nire “STILE EGIZIANO” lo stile
arcaico. Il Lange invece notò che questa “legge della frontalità” domina
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QUALSIASI ARTE PRIMITIVA e si ritrova in tutte le civiltà antiche; nell’arte egiziana,
in particolare, essa non subisce infrazione no al momento del suo
CONTATTO con l’arte greca, che fu l’unica a superarla, scoprendo le regole
dello scorcio.

Il Lange, partecipe del comune equivoco che l’arte consistesse nella migliore
riproduzione del vero di natura, ritenne la frontalità diretta conseguenza della
“incapacità” di avvicinarsi al vero, di esprimere tutte le varietà che il vero porta con
sé: di qui la necessità di tipizzare la varietà, in modo che l’artista abbia una guida e
l’artigiano possa formarsi un repertorio che lo aiuti nel suo lavoro. Tale
formulazione del Lange, interessante perché per la prima volta dopo il
Winckelmann si ricercavano delle categorie generali della produzione artistica,
era strettamente legata alla tendenza positivistico-empirica della seconda
metà dell’800. L’arte, secondo questa tendenza, era vista come qualcosa di
completamente distaccato dalla personalità dell’artista, il che non era meno
erroneo di quel far consistere tutto e unicamente nella personalità, come fu
proclamato più tardi dall’estetica idealistica sulle orme del romanticismo.

Il Lange non si accorse soprattutto di un fatto: che questa frontali e questa


simmetria, comuni a TUTTE le espressioni artistiche infantili o primitive, nell’arte
greca era divenuta un altissimo stile cosciente e coerente. Giudicando la frontali
come un elemento puramente primitivo, di incapacità, si ribadiva il concetto
di “provvisorietà”, per così dire, dell’arte arcaica, di stadio di “preparazione”
all’arte classica, che era stato istituito per primo dalle teorie
winckelmanniane. Così però ci si precludeva la comprensione e la
VALUTAZIONE STORICA di quel periodo arcaico, che è sovente di squisita
produzione artistica. Occorreva quindi superare questo concetto evoluzionistico.
Verso un miglior modo di interpretazione fece un passo notevole il Loewy. Nel suo
volume “La natura dell’arte greca più antica”, egli si sganciò dalla visione del
Lange, capì che la frontali arcaica NON era dovuta all’incapacità, ma ad un
determinato modo di concezione dell’atto artistico. Dimostrò con una serie di
esempi e di confronti, che l’artista primitivo non opera a atto IMITANDO un
determinato oggetto dalla natura, ma crea seguendo un RICORDO,
un’immagine mentale, che gli presenta l’oggetto sotto l’aspetto più semplice,
più chiaramente leggibile e questo aspetto è quello per cui l’oggetto si
presenta nella sua forma più caratteristica. Perciò l’artista primitivo non farà mai un
piede che sia visto di punta e non di pro lo, e l’occhio lo farà sempre
come visto di faccia, cioè di forma ellittica, forma più chiara che quella vista di
pro lo, perché di pro lo se ne vede solo una parte. E così, se l’artista primitivo
vorrà disegnare una foglie di vite, lo farà a MEMORIA, e il risultato sarà una foglia
che avrà tutte le caratteristiche più riconoscibili della sua specie, ma non ne
sarà la copia perfetta: questo è il modo di comporre l’opera d’arte arcaica.
Ecco perché si formano immagini in piano, chiaramente de nite da linee di
contorno. Lo scorcio sarà invece già il risultato di una ri essione e di una volontà
razionale esercitata sull’immagine spontanea e sarà legato ad un rinnovato
interesse per la ricchezza di aspetti della natura, che sorgerà in un ambiente
intellettualizzato che “riscoprirà” la natura come un miracolo. Questa indagine
psicologica del Loewy lo avviò a sganciarsi dalla concezione di “incapacità”
dell’artista e a capire che la concezione dell’arte arcaica era dovuta al
particolare linguaggio dell’artista ed era legata ad un determinato mondo e ad un
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determinato tempo e che poteva cambiare SOLO se ne fossero cambiate le
premesse.

Alessandro Della Seta si occupò invece del problema del superamento della
legge della frontalità nell’arte greca, superamento che noi siamo soliti designare
col passaggio dall’arte arcaica all’arte classica. Egli trovava che la frontali venne
superata grazie a una maggiore conoscenza dell’anatomia ed impostò sulla
conoscenza dell’ANATOMIA tutto lo sviluppo dell’arte greca, cadendo
nell’equivoco e nell’errore di porre lo sviluppo dell’arte greca sotto l’etichetta della
ricerca anatomica, come se essa si proponesse solo tale conoscenza e come
se la più dettagliata osservazione anatomica fosse stata un FINE e non un
MEZZO. Si ha, senza dubbio, un arricchimento di dettagli anatomici nel
passaggio dall’arcaico al periodo classico, ma l’osservazione anatomica era
soltanto un mezzo che serviva a di erenziare i piani nel chiaroscuro, ed è
proprio con l’inserire nella plastica elementi chiaroscurali, che si rompe la
frontalità del mondo arcaico e si cerca di raggiungere la piena CORPOSITA’ di
una gura che si muova in uno spazio non delimitato. Il Della Seta concentrò
per molti anni la sua attività nel volume “Il nudo nell’arte”, dove passa in
rivista tutta la scultura della Grecia, studiandola dal punto di vista della ricerca
anatomica. Egli mostra spesso una ne sensibilità intuitiva nella comprensione
dell’opera d’arte; ma il suo giudizio storico resta sicuramente in ciato dal suo vizio
di impostazione. Con questi tre studiosi, il Lange, il Loewy e il Della Seta,
siamo in un ambiente che ha tuttavia SUPERATO in parte il più stretto
lologismo tedesco; si nota in essi un orientarsi al criterio di indirizzare
l’archeologia vero problemi di carattere non più meramente lologico, ma di
interpretazione del fatto artistico (avvio dell’archeologia storico-artistica).

Agli inizi del 900 si entra in una NUOVA FASE degli studi di archeologia, il cui
processo si accelererà dopo la prima guerra mondiale, che anche a questa
disciplina impose una forzata stasi. Furono interrotti gli scavi e chiusi i musei. Fu
una pausa che indusse a ri ettere sul materiale già esistente per costruire
quell’edi cio per il quale si erano venuti raccogliendo i materiali. Una serie
di opere venute in luce nell’immediato primo dopoguerra presuppongono la
storicizzazione di tali materiali e al tempo stesso una presa in considerazione degli
originali piuttosto che delle copie. Se la storia del Winckelmann era stata concepita
in base alla conoscenza di sole copie, si arriva ora a studi che prendono in esame
solo gli originali, per porsi determinati problemi formali piuttosto che con l’intento
di compilare la storia di tutta l’arte greca. Tipica in questo senso fu l’opera
“Scuole di scultura della prima età greca”, pubblicata nel 1927 da Ernst
Langlotz, nella quale non ci si basava più sulle copie di età neoattica e
romana, ma su piccoli bronzi, opere originali minori, con il ne di ricostruire non
le grandi personalità dei Maestri celebrati dalle fonti, le cui opere originali sono
perdute, ma le varie scuole, le “o cine” artigiane dalle quali i maestri erano
scaturiti e che dai Maestri vengono in uenzate.

Ma dalla ne dell’800 prende inizio anche tutta una NUOVA FASE di ricerche
teoriche intorno alle arti gurative. Un’in uenza diretta sugli studi di
archeologia ebbero in particolare le teoria formulate da quella che fu detta la
scuola viennese. Attorno al 1895, a Vienna, furono particolarmente in evidenza due
studiosi, il Wickho ed il Riegl, entrambi storici dell’arte medievale e
moderna; il Riegl più fondato teoricamente, più sensibile al fenomeno artistico il
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Wickho . Tutti e due questi studiosi viennesi si sono occupati di storia dell’arte
antica per risolvere problemi di arte medievale, per chiarire i rapporti dell’arte
medievale con l’arte romana che l’aveva preceduta. Alois Riegl, per poter
ordinare al museo di Vienna il materiale archeologico romano-barbarico della
regione danubiana, studiò l’artigianato dell’ultimo periodo imperiale nell’opera
“Industria artistica tardoromana”, pubblicata nel 1901. Il suo studio lo portò a una
profonda revisione di tutta l’architettura, la scultura e la pittura romana a partire dal
II secolo, per giungere a una nuova VALUTAZIONE dell’arte romana e specialmente
dei secoli del tardo impero(III-V secolo d.C), allora generalmente considerati
di decadenza. In precedenza il Riegl aveva scritto anche un’opera di
carattere TEORICO intitolata “Problemi di stile”, nella quale aveva cercato di
chiarire le leggi generali che sembrano presiedere alla creazione dei motivi
ornamentali.

Il Riegl formula una teoria che ha avuto grande fortuna no ad oggi ed è


stata motivo innegabile di progresso, perché liberò nalmente la storia
dell’arte dal concetto biologico di decadenza. Egli si accorse dell’impossibilità
di comprendere tanti secoli di arte sotto la de nizione semplicistica di
“decadenza”. Quindi superò tale concezione introducendo il concetto del
Kunstwollen (volontà d’arte) o teoria del gusto. Secondo tale teoria ogni epoca
della storia determina un proprio gusto e lo esprime in determinate manifestazioni
artistiche: non è lecito perciò confrontare il gusto di un’epoca con quello di un’altra
epoca e giudicare in base al gusto di un’età stabilita a priori come esemplare o
“classica”. Si deve cercare pertanto di ricostruire la problematica degli artisti dei
singoli tempi e delle singole epoche e vedere quanto hanno saputo realizzare
di quel gusto. Con lui, quindi, ebbe termine la valutazione dell’arte
dell’antichità che era stata di usa dal Winckelmann e, ri utando il
condizionamento dello stile al materiale, il Riegl aprì le porte alla concezione
idealistica dell’arte.

Tuttavia, egli rimase legato a una concezione antistorica che inquadrava la storia
dell’arte in una linea evolutiva predeterminata e che egli derivò dalle scienze
naturali. Ritenne così di poter articolare tutta l’arte dell’antichità in 3 periodi:

•periodo tattile-ravvicinato (o miope): arte egiziana ;

•periodo tattile a vista normale: che situa le forme in una ragionevole distanza
ambientale —> arte greca classica ;

•periodo ottico-illusionistico (o presbite): arte romana del tardo impero.

La critica che è stata mossa a tale concezione è che essa abolisce ogni giudizio
di qualità: se non si deve valutare un’opera d’arte perché corrisponde al gusto
del proprio tempo, si può facilmente anche passare all’a ermazione che ogni
opera d’arte corrisponde al gusto del suo autore. Ma forse il Riegl stesso
sarebbe stato assai sorpreso di una tale estensione del suo pensiero. Più grave è
sicuramente un’altra obiezione: se è esatto il concetto che ogni epoca
produce un’arte diversa, che trova la sua giusti cazione nel mutarsi della società,
e che noi dobbiamo, per giudicarla storicamente, non tanto riferirla a un modello di
nostra preferenza, ma “rifacendoci contemporanei” del momento della sua
creazione, dobbiamo anche osservar che il Riegl trascurò del tutto lo stretto
rapporto tra arte e società, e pose come “deus ex machina” che regola tutto, il
gusto. Ma non si chiese mai come si formi e si costituisca quel gusto. Il vero
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problema sta invece nel comprendere perché gli artisti di un determinato
periodo abbiamo voluto fare in un determinato modo e non diversamente, e
quali siano le necessità che creano un nuovo gusto. Tuttavia, per una prima
rottura del meccanicismo degli archeologi, le teorie del Riegl ebbero grande
merito, e costituiscono un aspetto dello storicismo che entra nel campo della
storia dell’arte antica.

Franz Wickho , invece, in stretto contatto con le idee del Riegl, ma meno
preparato a formulazioni teoriche, si trovò dinanzi al problema di pubblicare
un famoso manoscritto purpureo di un libro della Bibbia, il libro della
Genesi, adorno di miniature, che si ritenevano allora del IV secolo e di fattura
campana, e quindi di supposta parentela con la pittura pompeiana. Per tale
pubblicazione il Wickho a rontò il problema di COME si fosse giunti al genere di
pittura mostrato dalle numerose illustrazioni del codice. Queste palesavano da
un lato un contatto con la tradizione ellenistica (nota allora SOLO attraverso la
pittura pompeiana) e dall’altro, una sostanziale diversità rispetto a quella
tradizione.

Come prefazione al suo studio, e basandosi sulle idee del Riegl, reagendo
vivacemente alla nulla considerazione nella quale gli archeologi tenevano
l’arte ROMANA, il Wickho , non archeologo, tracciò, quasi di getto, una sintesi
dello svolgimento dell’arte romana, sintesi che per oltre un decennio fu
ignorata dagli archeologi e che più tardi è stata troppo supinamente seguita,
senza sottoporla più a revisione. Egli fu il PRIMO a considerare come un valore
autonomo anche l’arte romana. I Romani, secondo lui, sono stati, sì, gli eredi
confessi del patrimonio artistico ellenistico, ma hanno prodotto anche elementi
artistici nuovi e originali. Tra questi il Wickho credette di poter riconoscere in
primo luogo l’elemento coloristico nella pittura, che egli studiò in modo
particolare, aiutato dal suo interesse per l’impressionismo dell’Ottocento francese.
Anzi, proprio per questa esperienza viva egli fu tratto ad esagerare nel porre in
risalto la “tecnica impressionistica” dell’arte romana in opposizione al classicismo
dell’arte greca.

L’originalità dell’arte romana veniva dunque sostenuta in pieno dal Wickho

e individuata in 3 punti:

•il ritratto realistico;

•la concezione spaziale e prospettica;

•la narrazione continuata.

Quest’ultima (la narrazione continuata) consiste nel disporre vari episodi di


una narrazione, storica o mitologica, uno accanto all’altro sullo stesso sfondo
paesistico, e senza nessun distacco, senza un elemento gurativo di
separazione (es. fregio della Colonna Traiana). Come abbiamo detto, in un primo
tempo gli archeologi non si accorsero delle tesi “rivoluzionarie” del Wickho . I
primi a prendere le mosse da lui, furono la Strong per la storia della Scultura
romana e il Rodenwaldt in uno studio, frutto della sua tesi di laurea, sulla pittura
pompeiana. Purtroppo, proprio per aver seguito uno dei punti delle tesi poste
in luce dal Wickho , cioè quello che gli elementi prospettici nella pittura
pompeiana sono patrimonio dell’originalità romana e non della tradizione
ellenistica, egli compose un’opera che oggi è del tutto superata. In realtà il
Wickho partì da presupposti erronei, perché era rimasto legato alla visione
PLINIANA (e winckelmanniana) dell’arte greca, cioè a una visione classicista,
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che ignorava gli apporti dell’età ellenistica. Quindi gli elementi di spazialità
della pittura pompeiana e del rilievo traianeo apparivano cose nuove: ma in
realtà non erano altro che dirette derivazioni da modelli ellenistici nella pittura, e
ripresa di contatto col primo e secondo ellenismo nel rilievo. Invece nell’arte greca
noi troviamo posto al problema dello SPAZIO PITTORICO n dalla pittura della
ceramica proto-attica, alla metà del VII secolo a.C. E’ questo anzi
l’elemento distintivo precipuo dell’arte greca rispetto a tutte le altre civiltà
artistiche del bacino del Mediterraneo: quello che porterà appunto l’arte greca alla
scoperta dello scorcio e della prospettiva e poi al naturalismo organico dell’età
ellenistica. Per quanto riguarda invece il RITRATTO ROMANO, esso si basa su
premesse sociali, e quindi anche politico-religiose, del tutto diverse da quelle
che presiedettero al tardo sorgere del ritratto nell’arte greca. Esso non poteva
essere senz’altro un’imitazione di quello, ma è probabile che siano stati artisti greci
al servizio del patriziato romano a far sorgere quel lone della ritrattistica
repubblicana che riconosciamo come tipicamente romano e che ha inizio a partire
dall’età sillana, a ermandosi accanto al ritratto di tipo ellenistico che si produceva
anche a Roma.

In ne, per quanto riguarda la NARRAZIONE CONTINUATA, si è a lungo discusso


se ce ne fossero esempi anche nel mondo greco. Ne esiste e ettivamente
qualche motivo nel fregio superiore dell’altare di Pergamo, in una serie di rilievi
che formavano un recinto al di sopra del grande altare, narranti il mito di
Telefo. Ma è certo che nel mondo greco una rappresentazione continua così
grandiosa e completa come nelle colonne coclidi romane NON ESISTEVA. Il
Wickho ne ha visto tutte le implicazioni di novità stilistiche, per esempio,
nella rappresentazione del paesaggio, che non è più inteso in modo
simbolico. Nell’arte classica si aveva un albero o una colonna per signi care
che la scena si svolgeva in un luogo aperto o chiuso, ma non si rappresenta MAI
la scena dentro un paesaggio, come se fosse una scena presa dal vero. Però
alla ne dell’età classica si ha già qualche accenno naturalistico (es. l’albero
secco nel mosaico della battaglia di Alessandro, al MANN) e nell’età
ellenistica vi sono numerosi esempi di “paesaggio bucolico”. Perciò si deve
ammettere che la rappresentazione continuata ebbe delle radici nell’arte
ellenistica, ma fu sviluppata e resa forma compositiva corrente durante l’età
romana, dove servì egregiamente alla tematica narrativa e celebrativa delle
imprese militari e civili.

Il Wickho , invece, vide in tale narrazione un elemento del tutto NUOVO,


romano, strettamente connesso con il diverso punto di vista dello spettatore:
in Grecia lo spettatore è ESTRANEO alla scena e vede da un punto esterno
le gure che si muovono parallele al fondo del rilievo, che è piano come un
muro; invece in un rilievo come quello della colonna traiana lo spettatore si trova
nello stesso spazio delle gure, perché alcune vengono verso di noi, altre vanno
verso dentro. Questo aspetto viene de nito dal Wickho (seguendo il Riegl)
“illusionismo ottico”.

Si hanno dunque nella Roma augustea due tipi di rilievi:

•di tipo classico ;

•di tipo illusionistico (es. rilievi GRIMANI dell’età augustea).

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Quindi, secondo il Wickho , mentre l’arte greca aveva una tendenza più
plastica e disegnata, l’arte romana aveva tendenze più illusionistiche e
impressionistiche.

Tuttavia, dopo il Wickho , si comincia, anche nel campo degli studi di


archeologia, a parlare di categorie dell’arte, quelle “categorie” che verranno
poi, un ventennio dopo, de nite dallo storico dell’arte svizzero Wo in,
attraverso le lo studio delle vicende dell’arte europea. Si entra dunque, con la
scuola di Vienna, in una NUOVA FASE della storia dell’arte antica.

Anche la storia dell’arte antica, infatti, rivolge adesso la sua attenzione a fatti
formali: ci si comincia a persuadere che attraverso la lettura della FORMA artistica
si può arrivare a stabilire la CRONOLOGIA delle opere più esattamente che
attraverso i documenti. Tutto questo appare ovvio oggi: ma per queste
a ermazioni si veniva guardati con molto sospetto ancora attorno

al 1920-25, e addirittura con qualche biasimo morale. Si ebbe, tuttavia, uno stacco
netto dall’archeologia come era intesa in precedenza, in cui ci si proponeva
innanzitutto l’interpretazione del soggetto e del mito, e l’illustrazione di una fonte
letteraria. Ci si pose ora in modo autonomo il problema formale dell’opera d’arte.
Si arriva così a estendere e approfondire quanto Giovanni Morelli aveva già
scoperto nella storia dell’arte moderna, quando richiamò l’attenzione degli
storici dell’arte su quelli che furono detti gli “elementi morelliani”, cioè sul
fatto che ogni artista ha una specie di cifrario, usa nelle sue opere
particolari secondari sempre uguali, per esempio una pennellata mossa in un
determinato modo, la rappresentazione di un occhio in una maniera caratteristica.
Questi particolari tecnici e pratici possono e ettivamente aiutarci a ritrovare e a
determinare la paternità di un’opera d’arte, anche laddove manchino i
documenti per stabilire il nome dell’artista. Tuttavia, in conclusione, l’in uenza
della scuola di Vienna e delle conseguenti ricerche, nonostante il pericolo di
cadere in formulazioni teoriche astratte, meta siche e formalistiche, fu un
avvicinarsi alle tendenze che lo STORICISMO aveva introdotto nella cultura
europea e un ampliarsi dell’orizzonte, prima esclusivamente classicistico, degli
archeologi, in quanto storici dell’arte antica.

PROBLEMI DI METODO

Il Winckelmann fu sicuramente l’iniziatore della storia dell’arte entro


l’ambiente culturale dell’illuminismo antifeudale. Abbiamo visto come i suoi limiti
consistono nell’aver stabilito un periodo particolare, quello dell’arte classica del V
e IV secolo, come un VALORE ASSOLUTO, il che nisce per isolare quel periodo e
toglierlo dalla storia facendone una specie di mito. Questa visione mitica e NON
storica ha però continuato a sussistere anche durante il periodo lologico
dell’archeologia dell’800, quando gli archeologi si sono accorti che le basi
ideologiche del Winckelmann non erano su cienti e hanno voluto, quindi, porre
un rigoroso e impersonale metodo di indagine (fonti) alla base delle loro
conclusioni. In quel periodo, l’archeologia ha studiato lologicamente non solo le
fonti, ma anche il monumento, studiando le varie copie di età romana per risalire
all’originale, procedendo con lo stesso metodo lologico di quando si cerca di
ricostruire il testo attraverso le varie lezioni dei diversi codici. Al tempo stesso si
riscopre materialmente il mondo greco mediante grande imprese di scavo. Questo
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periodo si chiude con il Furtwaengler. E’ la fase di ricerca cui siamo debitori
dell’ampliamento e della sistematicità della nostra conoscenza dei documenti per
la storia dell’arte antica. Il Winckelmann, ad esempio, non sapeva che quasi
tutte le statue da lui studiate erano copie di età romana, mentre oggi si è
riusciti a datare, in base al solo STILE, le serie delle sculture arcaiche di
quinquennio in quinquennio. Questo si è ottenuto anche perché l’indagine
stilistica si è a nata in conseguenza dell’impostazione teorica del fatto artistico,
iniziata dal Riegl e dal Wickho della scuola viennese e proseguita dal Wol in.
Questa indagine faceva in partenza astrazione dalla posizione cronologica o
storica dell’opera d’arte; essa esamina l’opera d’arte nella sua QUALITA’
ARTISTICA e ssa di essa le caratteristiche formali. In una serie di opere a ni,
prive di documentazione, è sempre possibile stabilire quali vengono a collocarsi
prima e quali dopo attraverso tale indagine stilistica.

A questo punto occorre accennare alla posizione che in questo sviluppo storico
hanno assunto le teorie e la metodologia dell’estetica crociana, anche se essa
non ha avuto nel complesso grande in uenza nell’archeologia.
Nell’archeologia tedesca, inglese e francese è penetrata soprattutto l’indagine
delle categorie artistiche del Wol in, che non contraddice sostanzialmente
all’estetica crociana anche se questa ha de nito i limiti di tale indagine. Si
de nisce “estetica crociana” la concezione formulata da Benedetto Croce,
secondo cui tutti gli elementi della vita quotidiana, tra cui anche l’arte,
erano espressione di un’ESTETICA. Tuttavia, nel quadro della cultura europea
della prima metà del XX secolo, l’Italia ha dato alla storia dell’arte un suo
contributo proprio in rapporto all’estetica crociana, quel contributo che altre
nazioni hanno dato attraverso altre tendenze, tutte facenti capo, più o meno
direttamente, all’idealismo di derivazione hegeliana.

E dall’estetica crociana prese le mosse anche uno dei maggiori teorici della
storia dell’arte antica del 900: Ranuccio Bianchi Bandinelli. Nell’Enciclopedia
Italia 1938-1948 si scriveva di lui: “movendo dal pensiero crociano, ha
a ermato e sviluppato una sua concezione teoretica nel campo estetico e
storico, segnando un profondo RINNOVAMENTO negli studi dell’arte classica,
superando la fase lologica e archeologica in una VALUTAZIONE CRITICA della
genesi dell’opera d’arte e della personalità dell’artista creatore” Il contributo di
Bianchi Bandinelli a questa fase della ricerca novecentesca si può
compendiare in una serie di lavori, condotti tra il 1930 e il 1942 e raccolti nel
volume “Storicità dell’arte classica”. In Italia l’archeologia aveva sentito ben poco
l’eco della scuola viennese e per niente l’in uenza del Wol in. Era quindi
rimasta alla fase lologica e al Furtwaengler. I rappresentanti tipici di questa
condizione italiana, ma che stanno al Furtwaengler solo come dei modesti
epigoni, furono Pericle Ducati e Giulio Emanuele Rizzo, i quali furono i docenti che
ebbero maggior seguito nel ventennio 1920-1940 nel campo dell’archeologia.
Ranuccio Bianchi Bandinelli si era posto il problema di AGGIORNARE la posizione
teorica degli studi di storia dell’arte antica, inserendola nella corrente
storiogra ca del Croce e cercando di arrivare a comprendere la storia dell’arte
nella sua concretezza e nelle personalità che la costituiscono. Fino ad allora,
infatti, la de nizione di una PERSONALITA’ artistica era stata particolarmente
trascurata: infatti, legati a una concezione di evoluzione artistica di tipo
“biologico”, si parlava sempre di “arte” e mai di “ARTISTI”. Quindi per rompere i
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residui dell’estetica winckelmanniana bisognava compiere una ricerca della
personalità ponendo in risalto il carattere autonomo di alcuni aspetti del fatto
artistico.

Inoltre, per la storia dell’arte antica, si ripetevano i giudizi critici del Winckelmann,
che a loro volta erano quelli di Plinio. Bandinella ha quindi cercato di dimostrare
innanzitutto come NON si potessero più accettare acriticamente tali giudizi e che si
dovesse fare una storia dell’arte antica in base a giudizi dati da noi, pur nella
convinzione che non si tratti di giudizi immutabili ed eterni. Secondo Bandinelli, la
cultura italiana tra il 1920 e il 1940, cioè fra le due guerre mondiali, è stata
sottoposta a 2 DITTATURE, non paragonabili tra loro, ma pur sempre
limitative verso l’orizzonte europeo:

•il fascismo;

•il crocianesimo.

Ma un ulteriore passo in avanti presupponeva di sapersi liberare interamente


di entrambe. Per quanto riguarda la posizione di Bandinelli, pur inserendosi nella
via segnata da Croce, si avvide ben presto che quella via non poteva essere
seguita no in fondo. L’identità tra il giudizio critico e il fare storia, proclamata
dal crocianesimo, appare subito insostenibile di fronte alla produzione
artistica dell’antichità, dove anche il Maestro si trova inserito in un tessuto culturale
di carattere artigiano, che determina molti aspetti della sua opera. Il far consistere
il ne della nostra ricerca storico-artistica nel determinare il grado di “poeticità” di
un’opera attraverso l’analisi del suo CONTENUTO-FORMA si dimostra presto
insu ciente di fronte al legame strettissimo che nell’arte antica appare con
estrema evidenza tra l’opera d’arte e le premesse politiche e sociali che ne
determinano e ne dirigono la creazione. E appunto la parola più appropriata è
“PRODUZIONE”, anziché “CREAZIONE”, mentre la concezione crociana sembrava
presupporre una creazione artistica che non conosceva limiti alla propria intuizione
poetica. Ma artisti che creano liberamente, distaccati da ogni preoccupazione
materiale, avulsi dalla quotidiana esperienza della vita, NON SONO MAI ESISTITI.

Secondo Bandinelli, invece, la storia dell’arte consiste nel de nire le singole opere
nella loro storicità individuale e nel legarle con la storia della cultura de nendo
il rapporto dell’opera d’arte con il suo determinato “ambiente”. In ogni opera
d’arte dell’antichità, riconosciuto il forte legame delle tradizioni artigiane delle
singole o cine o scuole, la ricerca da condurre, limitandosi al problema
artistico-formale è duplice:

•da quali preesistenti schemi iconogra ci discende una data opera d’arte e
in che cosa tali schemi vengono (o non vengono) innovati;

•da quali premesse ideologiche, programmatiche o non, ne viene determinato il


contenuto.

In ne, secondo la concezione storico-artistica di Bianchi Bandinelli, l’arte è sempre


espressione della libertà dei gruppi socialmente attivi in quel tempo. “Gruppi
socialmente attivi” e NON “gruppi dominanti”, perché avviene che vi siano in
uno stesso tempo (ad esempio, durante l’impero romano) più correnti artistiche, di
indirizzo e gusto diversi, ognuna delle quali non è certo casuale, ma fa capo a un
GRUPPO SOCIALE, che agisce entro la compagine della società del tempo ma ha
le proprie premesse ed esigenze culturali. Quando uno di questi gruppi sociali
diventa poi politicamente egemone, si assiste allora a una ricostituita UNITA’
ARTISTICA (es. età augustea, età di Costantino).

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In ne, va spiegato quello che è avvenuto, negli stessi anni, in Germania. In
Germania, l’estetica crociana ebbe scarsissima in uenza sugli studi di storia
dell’arte, non perché se ne erano scorti i limiti, ma perché per la larga parte degli
studiosi tedeschi egli apparve “poco sistematico”. L’archeologia tedesca era
apparsa, per tutto il corso dell’800, metodologicamente all’avanguardia e
veramente dominatrice in questo campo. Dopo quel periodo brillante, durante
il orire della scuola lologica, l’archeologia tedesca, nel passare dalla
raccolta e della catalogazione dei fatti all’interpretazione dell’opera d’arte,
non è stata più sorretta da una METODOLOGIA che le permettesse di
approfondire meglio il fatto storico. In luogo di ciò, è avvenuta una fuga verso
l’irrazionale, il mitologico, che ha invaso tutta la cultura germanica.

Questo particolare carattere degli studi archeologici tedeschi nel campo


dell’arte è possibile trovarlo sicuramente negli studi di Ernst Buschor,
maggiore esponente della cosiddetta scuola morfologico-culturale, che nel 1942
pubblicò l’opera “Del senso delle statue greche”. In questo scritto, il
Buschor presentava il cammino dell’arte diviso in 6 CICLI, rigorosamente
successivi nell’ordine prestabilito e chiusi ciascuno in sé: comprendere
storicamente l’opera d’arte signi ca, quindi, incasellarla nel ciclo ad essa
pertinente, da cui le derivano forma e contenuto.

I sei cicli (categorie), con la cronologia relativa al mondo classico, sono i seguenti:

•Mondo della prescienza: no a tutto il secolo VIII a.C ;

•Mondo della realtà esistente: secoli VII-VI a.C ;

•Mondo della eccelsa determinatezza: secoli V-IV a.C no ad Alessandro ;

•Mondo dell’immagine e dell’apparenza: ne IV secolo - I secolo a.C ;

•Mondo dell’arti zio: secoli I a.C - III d.C ;

•Mondo dei segni o simboli: secoli III-V d.C.

Secondo questa costruzione pseudo-storica, ogni civiltà passa


NECESSARIAMENTE attraverso questi sei cicli ed in uno di essi trova la sua più
compiuta espressione. Dopo il sesto stadio, il ciclo ricomincia daccapo. Questo
irrazionalismo retto da una razionalità logica appartiene a una delle tante
costruzioni fatalistiche della storia, in cui è caduta così spesso la cultura
germanica. Questo tentativo del Buschor rientra nell’indirizzo della scuola
morfologico-culturale, secondo il quale ogni civiltà esprime un determinato
aspetto del mondo, e l’uomo viene a errato da determinati aspetti
dell’esistenza ai quali egli allora da forma.

Pur tuttavia in questo “mitizzare la storia” dell’opera di Buschor, non mancano nel
suo scritto singole osservazioni interessanti e acute, degne di un profondo
conoscitore dell’arte greca. Ad esempio felici osservazioni vengono fatte sul
problema del ritratto greco: il Buschor riconosce che nel terzo periodo (secoli V e
IV) si formano le PREMESSE per il ritratto e per il quarto periodo (da Alessandro al
I secolo a.C) nota come caratteristico il fatto che i ritratti più caratterizzati
sono quelli creati dall’immaginazione, senza il modello (cioè i cosiddetti
“ritratti di ricostruzione”). Giustamente poi vengono individuate alcune delle
cause per cui soltanto nel periodo ellenistico si giunge alla rappresentazione
di gure non intere (busti), perché la statua non è più sentita come cosa
viva, ma come “oggetto d’arte”. E felicemente è anche individuato il contenuto
delle statue della tarda antichità, che, come egli stesso dice, tornano a divenire
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statici monumenti, perché non esprimono più né la vita esteriore né la molteplice
vita dello spirito, ma solo la situazione SOCIALE e la dignità di chi domina.
Particolarmente interessante è l’osservazione che ad un certo momento l’arte
greca, quando diviene soprattutto arte al servizio della corte dei vari regni
ellenistici, cessando la sua concezione religiosa, diventa un’arte cosciente del
proprio ARTIFIZIO: si produce allora l’opera d’arte che serve ad esempio a ornare
la casa, o per il semplice piacere di avere tra le mani un bell’oggetto. Tutte le
felici osservazioni del Buschor, dovute alla sua diretta intelligenza dell’opera
d’arte, sono annegate e rese storicamente ine caci quando come loro
presupposto e loro causa, si prende il fatto di “appartenere” a un determinato
ciclo.

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