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A.

MOMIGLIANO, ‘’STORIA ANTICA E ANTIQUARIA’’

INTRODUZIONE

Nel XVIII secolo compare un nuovo Umanesimo non più concentrato nelle
università, ma organizzato in società erudite, composte da gentlemen che
alla scrittura di testi preferivano il viaggio e che ai testi letterari preferivano
monete/iscrizioni.
Un caso eclatante fu quello di Edward Gibbon, che abbandonò Oxford e
acquistò per venti steriline dei volumi riguardanti le iscrizioni del mondo
romano.
L’Italia rimaneva un luogo capace di generare grande curiosità, soprattutto
perché nel giro di pochi anni si sarebbero susseguite le decisive scoperte delle
rovine di Ercolano (1736) e di Pompei (1748); per quanto riguarda invece le
rovine etrusche, queste non contavano ancora molto.
Anche le antichità greche cominciarono ad assumere sempre più importanza,
e così divennero desideratissimi i, costosissimi, libri in cui queste erano
illustrate.
In generale ci troviamo di fronte ad una situazione in cui anche il castello
della propria cittadina o la propria chiesa parrocchiale possono suscitare
poesia: siamo di fronte a quella che Momigliano indica come l’età degli
antiquari.
Quest’ultima fu in effetti fondamentale perché stabilì canoni e pose problemi
di metodo che nessuno oggi potrebbe definire superati.
Il metodo storiografico moderno si basa sulla distinzione tra fonti originali e
derivate: con le prime intendiamo testimoni oculari e documenti
contemporanei ai fatti attestati, mentre con le seconde intendiamo le opere di
storici e cronisti che non hanno assistito direttamente a quello che raccontano.
Questa distinzione così netta emerge proprio grazie agli antiquari , in quanto
essi furono i primi ad utilizzare testimonianze non letterarie.

1. Le origini della ricerca antiquaria

L’‘’antiquario’’ non è effettivamente uno storico secondo Momigliano per due


motivi:

1) Non scrive in ordine cronologico, bensì sistematico.


2) Presenta i fatti legati ad un soggetto non per risolvere una determinata
problematica (come fa lo storico).

Alcuni soggetti sono stati tradizionalmente considerati più adatti alla


descrizione sistematica, piuttosto che a quella cronologica, cosa che ha aiutato
a distinguere antiquari e storici.
Momigliano va poi a chiarire perché si ritiene che i logografi del V secolo
a.C. vennero considerati i precursori degli antiquari moderni.
Egli si rifà ad un celebre passo dell’Ippia maggiore di Platone, in cui si ricorda
come l’operazione di raccogliere liste di magistrati eponimi o quella di
compilare genealogie fosse ‘’archeologia’’ (un termine che per l’autore ha una
chiara origine sofista).
Questo tipo di resoconti ‘’archeologici’’ non erano però dei trattati sistematici,
tuttavia presentano comunque dei tratti di somiglianza.
Queste opere (come i ‘’Sulle stirpi’’), compilate da celebri logografi come
Ippia/Damaste/Polo, già nel V secolo d.C. erano classificabili come ricerca
erudita sul passato, e si distinguevano nettamente dalla storia politica.
Questa separazione tra storia politica ed erudizione, che durò fino alla fine
del XIX secolo.
La ricerca erudita conobbe una nuova fase di splendore dopo la vicenda di
Alessandro il Grande, tuttavia con il termine archeologia si cominciò
soprattutto a riferirsi alla storia a partire dalle origini di un popolo: si pensi
alle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio o a quella di Dionigi di
Alicarnasso.
Gli oggetti di studio privilegiati erano le usanze religiose e quelle politiche; in
questi termini l’attività dei Romani fu realmente imponente, in quanto essi fin
da subito nutrirono interesse per l’origine delle città italiche.
Il primo grande letterato ad occuparsi di materiale erudito in maniera
sistematica fu dunque un romano: Marco Terenzio Varrone, lodato anche da
Cicerone per le sue Antichità divine e romane, in cui illustrava antichi culti e
costumi romani.
Nonostante il grande successo e la profonda ammirazione suscitata, l’opera
di Varrone non si trasformò mai in storia politica.
Anche nel Medioevo permanette l’interesse per iscrizioni e resti archeologici,
tuttavia era venuta meno la mentalità romana di ricostruire la storia di una
civiltà tramite la raccolta delle reliquie.
L’opera che apre la stagione rinascimentale-umanistica degli interessi eruditi
è la monumentale Roma triumphans di Flavio Biondo, anche se merita
considerazione anche il lavoro di Pomponio Leto e Giorgio Merula.
I grandi antiquari del Cinquecento, che nelle loro opere presero a modello il
testo di Biondo, progredirono rispetto a Varrone in quanto furono capaci di
combinare testimonianze letterarie, archeologiche ed epigrafiche.
La storia antica era però ancora parte della storia universale: non c’era
motivo di riscriverla, in quanto nessuno l’avrebbe mai potuto fare meglio di
Livio, dunque si poteva nutrire solo un interesse antiquario per elementi
considerati di contorno come le fonti primarie.
L’antiquaria non godeva però di particolare rispetto in ambito storiografico, e
questo perché si guardava agli interessi degli antiquari come a dei piccoli
dettagli; si pensi al fatto che lo storico olandese Johann Gerhard Vossius
andò ad escludere l’antichità dalla ‘’historia iusta’’.
Dunque l’autorità degli storici antichi era vista come intoccabile, cosa che
però non si poteva riferire alla storiografia medievale, in quanto nessuna
cronaca medievale avrebbe potuto arrogarsi la pretesa di intoccabilità propria
della storiografia antica.
Nacquero così i primi testi sui regni europei (Storia dell’Inghilterra, Storia della
Scozia, Storia della Francia ecc…), che si moltiplicarono a seguito della Riforma
luterana.
Dunque agli inizi del XVII secolo vi erano per il mondo post-classico e non
classico storici e antiquari, mentre per il mondo classico esistevano solo
antiquari.
La situazione cambia solo a metà del Seicento, quando si cominciarono a
produrre testi anche sul mondo classico, come l’opera di Vaillant sui Seleucidi
e sui Tolemei.
Si guardi dunque alla prefazione della Histoire romaine (1725) dei gesuiti
Catrou e Rouillé, che spiegano come i nomi di Tito Livio/Dionigi/Polibio
avevano a lungo impedito agli storici di scrivere di storia antica.
Gli antiquari ebbero dunque il merito di introdurre fonti non letterarie nella
produzione storiografica.

II. LA CONTROVERSIA DEL XVII E DEL XVIII SECOLO SUL VALORE


DELLE TESTIMONIANZE STORICHE

1. I termini della controversia.

Nel XVII secolo gli storici cercarono di impossessarsi di un metodo storico


solido, attraverso il quale arrivare ad una conoscenza storica che avesse delle
basi più sicure.
Questa necessità emerse in primo luogo con l’emergere di uno spirito scettico
nei confronti delle reali capacità della storia di ricostruire in modo veritiero le
vicende.
Il recupero del pensiero scettico (si fa riferimento a quella scuola ellenistica
nata con Pirrone) si può cogliere nel fondamentale testo del fondatore dello
scetticismo moderno, Françoise La Mothe le Vayer (1588-1672), Du peu de
certitude qu’il y a dans l’histoire (1725).
I successori di La Mothe le Vayer portarono avanti le sue posizioni,
servendosi anche della riflessione dell’erudito calvinista Pierre Bayle.
Per Momigliano a salvare la storia da questo attacco fu proprio l’antiquaria,
che fornì agli storici nuove fonti, quelle primarie sopra tutte le altre; si arrivò
così dunque ad un nuovo modo di scrivere la storia, che andava oltre la
semplice stesura a partire dallo studio e dalla riflessione sulle fonti letterarie.

2. La preferenza per le testimonianze non letterarie.

Nel 1671 Ezechiel Spanheim, fondatore della numismatica moderna, allude al


discredito in cui erano caduti gli storici, dal quale però sarebbe stato possibile
per loro salvarsi grazie ad un nuovo metodo.
Questo metodo doveva privilegiare in primo luogo le testimonianze non
letterarie, soprattutto quelle archeologiche, che erano simbolo e prova degli
avvenimenti passati.
I pirronisti però si opponevano anche a questa posizione, poiché secondo loro
anche le iscrizioni/le monete/i monumenti non erano al di là di ogni dubbio o
sospetto.
I pirronisti non riuscirono però ad imporsi come egemoni in ambito culturale,
e di fatto già nel 1746 la comparazione tra testimonianze letterarie e non
letterarie era accettata come criterio ortodosso: si pensi all’opus magnum di
Gibbon (‘’Decline and fall of the Roman Empire’’, 1776), in cui si assiste ad un
uso imponente di fonti letterarie coadiuvate da fonti primarie.
Questo nuovo modo di guardare alla storia spiega come mai si fece fronte
unito contro le folli posizioni di Père Hardouin (1646-1729), secondo cui tutti
i testi antichi (e persino la Commedia di Dante) sarebbero stati prodotti da una
banda di letterati italiani del tardo XV secolo.

3. Un esempio dell’uso estensivo di testimonianze non letterarie.

Un caso particolarmente interessante di utilizzo di fonti non letterarie è


rappresentato dall’opera dello scozzese emigrato in Italia Thomas Dempster
(1579-1625), autore di un’opera monumentale sulla civiltà etrusca, il De
Etruria Regali Libri Semptem (1720-1726), commissionato dal granduca Cosimo
II (1609-1621).
La pubblicazione dell’opera di Dempster favorì in primo luogo la rinascita
dell’archeologia (che dalla Toscana si spostò verso le altre parti d’Italia), ma
anche ribadì l’importanza delle fonti primarie nella stesura di opere storiche
(che ora potevano divenire testi ‘’sulle civiltà’’, ovvero su tutta la vicenda
culturale e materiale di una società).

III. I CONFLITTI TRA ANTIQUARI E STORICI NEI SECOLI XVIII E XIX

Nel corso del Settecento gli storici cercarono soprattutto di arrivare come
detto al miglior metodo di ricerca, che conducesse alla verità reale.
Il XVIII secolo era però anche quello in cui gli storici ‘’filosofici’’, come
Voltaire e Montesquieu, cominciarono ad attaccare l’erudizione, attraverso i
loro testi in cui si ponevano soprattutto problematiche riguardanti il presente,
e che ritenevano inutili i dettagli delle opere erudite e degli storici ‘’dotti’’.
Tuttavia questa posizione venne criticata già da Gibbon, secondo cui ‘’il
sapere e la lingua della Grecia e di Roma erano trascurati da un’età filosofica’’.
Il conflitto proseguì anche nel XIX secolo, quando gli antiquari presero
coscienza del fatto che potevano intervenire soprattutto dove le opere degli
storici si arrestavano per timore di danneggiare la successione cronologica.
In conclusione Momigliano afferma che l’antiquario salvò lo storico dallo
scetticismo, portando ad esso la preferenza per i documenti originali, la
sagacia nella scoperta delle falsificazioni, l’abilità nel raccogliere le fonti e
l’amore sconfinato per la cultura.

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