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INTRODUZIONE *

IMPERI, CITTÀ E SPAZIO MEDITERRANEO


DAL 343 AL 27 A.C.
di GIUSTO TRAINA

1. Storia di Roma e storia globale


La tripartizione della storia antica che separa e definisce le tre “civiltà” di
Oriente, Grecia e Roma, prevista anche dal piano editoriale della presente
opera, risale a una tradizione ben affermata, che annovera tra i suoi padri
fondatori la filosofia hegeliana della storia (dove però Grecia e Roma rien-
travano in una civiltà unitaria, posta a metà strada fra l’antico Oriente e il
mondo cristiano-germanico). La prevalenza delle civiltà dominanti era riba-
dita dalla netta contrapposizione con i “popoli senza storia”, in una visione
adottata dai trattati e manuali di storia, e rappresentata anche negli allesti-
menti museali. Un esempio eloquente è costituito dalle collezioni imperiali
del Museumsquartier di Vienna, dove due musei contrapposti, quello di Storia
dell’Arte e quello di Storia Naturale, ospitano rispettivamente le collezioni
orientali e classiche, e quelle preistoriche e “barbariche”.
I progressi della ricerca archeologica, i nuovi approcci sociologici e antro-
pologici, e una maggior apertura a problematiche di carattere geopolitico
hanno contribuito a svecchiare l’approccio tradizionale.1 Ma, pur con le mi-
gliori intenzioni, la prospettiva globale della storia antica è frenata da ogget-
tivi problemi di documentazione. Anche nell’ambito dei contesti “civilizza-
ti”, non tutte le comunità hanno lasciato una memoria sufficiente per rico-
struirne la storia. Grazie alle fonti letterarie ed epigrafiche, e all’attività degli
archeologi, possiamo ricostruire nei dettagli le vicende dell’Atene classica o
della Roma tardorepubblicana; ma tante altre situazioni sono meno eviden-
ti, quando non addirittura oscurate. Grazie agli oratori del IV secolo, e a va-
ri altri testi, riusciamo a farci un’idea del diritto attico, e ancora migliore è

* Il par. 4 della presente Introduzione è di John Thornton.


1. Per l’Europa occidentale, si veda la sintesi di P.S. Wells, La parola ai barbari. Come i popoli
conquistati hanno disegnato l’Europa romana, Milano, Il Saggiatore, 2007 (ed. or. Princeton, Prince-
ton Univ. Press, 1999); vd. anche Roman Imperialism: Readings and Sources, a cura di C.B. Cham-
pion, Malden-Oxford, Blackwell, 2004.

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introduzione

quella del diritto romano, grazie alla sua fortuna secolare. Ma centinaia di al-
tre comunità restano un’incognita sul piano giuridico e amministrativo, e le
stesse megalopoli dell’antichità presentano notevoli problemi documentari.2
Ad esempio, per la difficoltà di effettuare scavi estensivi ad Antiochia o Ales-
sandria, non è possibile integrare i pur abbondanti dati della documentazio-
ne letteraria con la documentazione archeologica. Viceversa, abbiamo casi
(come a Marsiglia) in cui le fonti letterarie sono molto meno eloquenti e
dobbiamo limitarci a esaminare i dati di scavo, che certo forniscono dati im-
portanti sull’economia e i commerci di questo grande centro, ma non per-
mettono, almeno allo stato attuale, di giungere a risultati definitivi sulla fun-
zione della città nell’equilibrio del Mediterraneo occidentale.
Oggi, molti storici sfidano la concezione evoluzionistica della storia e la
mettono alla prova con tentativi suggestivi e complessi. Lo sviluppo del sape-
re in rete determina visioni per cosí dire ipertestuali, che mettono in discus-
sione la centralità di una civiltà, e la conseguente perifericità di altre culture.
Ma lo studioso del mondo antico, che forse piú degli altri si sente un “nano
sulle spalle di giganti”, prova un certo disagio quando esce dai sentieri battu-
ti. Un esempio interessante è la ricezione, da parte della comunità scientifica,
della monumentale Hannibal’s Legacy di Arnold Toynbee (1965). Grande figu-
ra intellettuale, dopo un lungo percorso consacrato alla storia comparata uni-
versale, in età ormai avanzata l’autore era tornato agli originari studi classici
per elaborare un grande affresco dell’Italia dopo la seconda guerra punica,
dove inseriva la penisola nel suo contesto mediterraneo. Come è noto, la sua
tesi di fondo – le radici della “questione meridionale” italiana risalirebbero
alle devastazioni di Annibale – si è rivelata sostanzialmente errata; alcuni dei
primi recensori lo misero in evidenza, e gli studi piú recenti hanno finito per
confermare l’errore di Toynbee.3 Ma è interessante vedere come pochi ab-
biano notato l’importanza del taglio metodologico del libro, e soprattutto la
sua prospettiva globale: se il libro è familiare agli storici di Roma, lo è molto
meno a quelli del mondo ellenistico. Eppure, e non a caso, in appendice al
volume si trova una dettagliata cronologia sinottica, dove gli eventi del Me-

2. Si vedano i risultati dell’importante progetto (di taglio diacronico) sulle megalopoli del Me-
diterraneo, pubblicati in Mégapoles méditerranéennes. Géographie urbaine rétrospective, a cura di C. Ni-
colet, R. Ilbert, J.-Ch. Depaule, Paris, Maisonneuve et Larose, 2000.
3. Vd. Modalità insediative e strutture agrarie nell’Italia meridionale in età romana, a cura di E. Lo Ca-
scio, A. Storchi Marino, Bari, Edipuglia, 2001. Sulla ricezione dell’opera di Toynbee, vd. an-
che le riflessioni di J. Thornton, in questo volume, pp. 563 sgg.

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imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.

diterraneo postannibalico sono affiancati dalle date parallele del Vecchio


Mondo, fino all’India e alla Cina. Una simile apertura non ha avuto grande
fortuna negli studi classici, nonostante gli illustri esempi di Eduard Meyer e
Santo Mazzarino, o anche di uno studioso piú discutibile, ma non meno in-
teressante, come Franz Altheim. Ma questi grandi maestri guardavano trop-
po in avanti per ottenere il consenso della tradizione conservatrice degli stu-
di classici. All’epoca, la cronologia allargata di Hannibal’s Legacy deve essere
sembrata ai piú come il vezzo di uno studioso rispettato ma eccentrico.
Certo, Toynbee non intendeva delineare tanto una storia globale, quanto
evidenziare il processo storico nei termini di ascesa e caduta dei popoli. Og-
gi è piú facile apprezzare la prospettiva eurasiatica di Toynbee, tenendo con-
to che all’indomani della battaglia di Zama, alla fine del III secolo, l’impero
seleucide si estendeva ancora fino all’Asia centrale. Forse, in un prossimo fu-
turo, potremo considerare in chiave comparativa, tenendo conto delle arma-
ture e dell’ordine di battaglia, il complesso dei guerrieri in terracotta sepolti
accanto alle spoglie di Qin Shi Huang, il primo imperatore della Cina, che
aveva unificato i Regni combattenti nel 221, alla vigilia della spedizione di
Annibale. Ed è già utile una lettura d’insieme del III volume della History of
Humanity, che affronta il continuum tra VII a.C. e VII d.C., seguendo peraltro
una prospettiva già messa in atto dagli studiosi sovietici.4 Non a caso, sul pia-
no geografico l’antichista resta piú lungimirante del medievista. Se quest’ul-
timo è orientato verso una prospettiva europea e occidentale, per lo storico
dell’antichità è piú facile pensare in una prospettiva geografica aperta all’in-
tero bacino mediterraneo.5
Ma, al di là di questo colpo d’occhio geografico, gli incontri e gli scontri
fra popoli nel Mediterraneo restano difficili da interpretare in una prospetti-
va globale, e sono ancora in molti a non sentire il bisogno di una storia del
mondo antico impostata secondo questa opzione. Del resto, gli steccati disci-
plinari intralciano ormai anche il dialogo fra i cultori del mondo greco e
quelli del mondo romano. Curiosamente, capita che gli storici della Grecia
piú aperti alla pluridisciplinarità si rivolgano piú facilmente a etnologi, an-

4. History of Humanity, iii. From the Seventh Century BC to the Seventh Century AD, a cura di †E.
Condurachi, J. Herrmann, E. Zürcher, London-New York, Unesco/Routledge, 2005.
5. In questo senso possiamo parlare effettivamente di « storia spezzata », secondo l’ormai cele-
bre definizione di A. Schiavone, La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno, Roma-Bari,
Laterza, 1996.

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introduzione

tropologi e perfino storici contemporanei, trascurando invece il mondo ro-


mano, dove teoricamente dovrebbero aver maggiori punti di contatto. Dove
gli archeologi riescono piú facilmente a trovare elementi di contatto grazie
allo studio dei manufatti, gli storici sono piú a disagio, e riesce tuttora diffi-
cile collegare le vicende di Roma nella seconda metà del IV secolo con gli
eventi contemporanei che hanno portato alla caduta del grande impero ache-
menide, all’irresistibile anabasi di Alessandro e alla formazione dei regni el-
lenistici.
Le interpretazioni “conservatrici” dell’imperialismo romano hanno alimen-
tato l’idea che la politica del senato fosse ben poco lungimirante, e si muo-
vesse senza avere una chiara idea dello scenario internazionale. In un certo
senso, molti studiosi hanno creduto alla lettera a Polibio, convinto che l’in-
gresso di Roma nello scenario internazionale fosse dovuto alla týché. In real-
tà, la generazione dell’imperialismo non sarebbe stata possibile senza l’elabo-
razione di una rete di contatti diplomatici e di “clientele straniere”, e la for-
mazione di “esperti”.6 Cosí, è probabile che la nascita di un regno indipen-
dente in Armenia dopo il trattato di Apamea del 188 a.C. non sia solo una
conseguenza “spontanea” dell’indebolimento del potere seleucide. L’Arme-
nia, regno destinato a durare fino al 428 d.C., nacque da un ribaltamento del-
lo scenario internazionale seguito a forti movimenti geopolitici, e questo ri-
baltamento fu dovuto in massima parte all’operato dei Romani. Già vincitri-
ce di Cartagine e della Macedonia, Roma sconfiggeva il monarca seleucide
Antioco III, instaurava una politica “imperialistica” di controllo sull’Orien-
te ellenistico, affacciandosi gradualmente dall’Egeo ellenizzato verso le terre
dell’Anatolia, dove l’elemento greco coabitava con quello iranico e con le
forti tradizioni locali. Tra gli effetti del ridimensionamento dei Seleucidi va
considerata appunto la progressiva indipendenza del mondo armeno, che
nel corso del II secolo assunse una connotazione ben definita. Del resto, do-
po Apamea, i due regni di Grande Armenia e di Sofene vennero affidati agli
stessi dinasti che avevano amministrato, per conto di Antioco III, le terre ar-
mene in qualità di strategoí; il termine “stratego”, letteralmente ‘generale’, nei

6. G. Clemente, “Esperti”, ambasciatori del senato e la formazione della politica estera romana tra il III
e il II secolo a.C., in « Athenaeum », a. liv 1976, pp. 19-52; G. Brizzi, I sistemi informativi dei Romani:
principi e realtà nell’età delle conquiste oltremare (218-168 a.C.), Wiesbaden, Steiner, 1982. Sul concetto
di esperti vd. C. Moatti, Experts, mémoire et pouvoir à Rome, à la fin de la République, in « Revue hi-
storique », vol. 626 2003, pp. 303-25.

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regni ellenistici indicava una sorta di governatore, che però, in regioni di tra-
dizione iranica come l’Armenia, può indicare in via eccezionale una sorta di
principe vassallo. Sia Artaxias che Zariadris sono nomi iranici, e mostrano
evidentemente come i Seleucidi (del resto abbastanza rispettosi delle tradi-
zioni iraniche) non potessero imporre governanti esterni sulle “strategie” ar-
mene.7 Certo i due “strateghi” Artaxias e Zariadris, resi basileís dal trattato di
Apamea, non erano sgraditi a Roma. Forse avevano ottenuto il favore di Ro-
ma nella fase finale della guerra con Antioco; in ogni caso la crescita di un
regno periferico non poteva che danneggiare l’impero seleucide, a tutto van-
taggio dei Romani.
Piú difficile dire quanto queste scelte fossero oculate. In fondo, una delle
prime mosse di Artaxias fu la costruzione di una nuova capitale, Artaxata,
con la consulenza militare di Annibale, il grande nemico di Roma, esule in
Anatolia (Strabone, xi 14 6; Plutarco, Vita di Lucullo, xxxii 4). Non a caso, una
ventina d’anni dopo dopo il regno di Artaxias fu minacciato dalla ripresa del-
le ostilità da parte seleucide. Nel 168, i Romani avevano dissuaso Antioco IV
dall’invasione dell’Egitto, con il celebre ultimatum di Popilio Lenate, ma cer-
to non erano contrari a una sua spedizione contro Artaxias, interrotta dalla
morte del sovrano seleucide. Nello stesso periodo, Roma paralizzava l’eco-
nomia di Rodi con l’istituzione di un porto franco a Delo. Certo, questi atti
accrebbero il potere e il prestigio di Roma, allontanando dall’Egeo la flotta
seleucide e riducendo drasticamente quella rodia. Ma il risultato finale fu un
incremento della pirateria, a scapito dei mercanti romani e italici.
Col passare del tempo, i Romani appresero a servirsi delle informazioni
geografiche ed etnografiche in modo piú raffinato, e questo permise loro di
evitare molte situazioni difficili e superare gli errori precedenti. I comandan-
ti, formati nell’ambito dell’ordine senatorio, impararono a esprimersi anche
in greco, e a sfruttare abilmente il bagaglio culturale del mondo ellenistico.
L’uso di circondarsi di letterati greci non era inusuale presso i condottieri ro-
mani della tarda repubblica: nelle sue campagne asiatiche, Pompeo si era fat-
to accompagnare dallo storico Teofane di Mitilene, e da uno studioso d’ec-
cezione come Posidonio di Apamea. Prima di lui, Lucullo era stato accom-
pagnato dal filosofo Antioco di Ascalona, e dal poeta greco Archia, origina-
rio di Antiochia, incaricato di cantare le sue gesta. Come i re ellenistici, che

7. Per gli aspetti interni vd. ora G. Capdetrey, Le pouvoir séleucide. Territoire, administration, fi-
nances d’un royaume hellénistique (312-129 avant J.-C.), Rennes, Presses Univ. de Rennes, 2007.

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introduzione

invitavano esperti e uomini di cultura come consiglieri e collaboratori, mol-


ti protagonisti della tarda repubblica sapevano che la presenza di questi
“amici” non era solo un vezzo ellenofilo, ma aiutava a garantire la buona ri-
uscita di una spedizione. I Greci giocavano il ruolo fondamentale di inter-
mediari con le comunità greche, diffuse in tutta l’Asia. La diplomazia e gli
accordi con le aristocrazie locali era fondamentale per evitare i rischi della
propaganda avversaria. Poco tempo prima, il re Mitridate VI del Ponto ave-
va potuto sollevare una buona parte dell’Asia e della Grecia contro Roma,
esasperando gli animi delle comunità greche contro la rapacità dei publicani.
I massacri di Romani non erano solo il risultato del malcontento popolare,
ma anche di un’abile propaganda orchestrata da intellettuali e demagoghi.
È possibile, su queste premesse, esaminare le vicende storiche in base alla
dimensione geografica romana nell’età dell’imperialismo? La ricerca è ardua,
poiché il periodo compreso fra il III e il II secolo ha determinato senza dub-
bio un nuovo modo di vedere il mondo, ma i testi fondamentali per la di-
mensione geografica romana sono piú tardi (I secolo d.C), e per l’età prece-
dente restano pochi esempi, come la celebre riflessione di Polibio sul rap-
porto fra storia e geografia.8 Nel pensiero romano, il confronto con Alessan-
dro Magno resta una costante irrisolta, e non è un caso che una tendenza al-
la storia universale cominci a riscontrarsi solo in età augustea, con le Storie fi-
lippiche del gallo-romano Pompeo Trogo.9
Un testo scritto alcuni anni prima dell’opera di Trogo sembra confermare
che, alla fine del periodo in questione, almeno gli intellettuali romani erano
consapevoli dell’ampiezza del mondo abitato, e della presenza di altre civiltà
e imperi al di là del “lago romano”, quale il Mediterraneo era gradualmente
diventato. Tra il 54 e il 51 a.C., Cicerone scrisse il trattato De re publica; un ce-
lebre excursus di quest’opera è noto come il Somnium Scipionis, all’insegna di
due grandi personaggi delle conquiste romane del passato: Scipione Emilia-
no vede in sogno il nonno adottivo Scipione Africano, che lo porta sulla Via
Lattea a contemplare la Terra dall’alto. L’Africano lo invita quindi a conside-
rare quanto sia ridotta l’area abitata rispetto al resto del pianeta:

8. Vd. F. Prontera, La geografia di Polibio: tradizione e innovazione, in Polibio y la Península Ibérica,


a cura di E. Torregaray Pagola, J. Santos Yanguas, Bilbao, Universidad del Pais Vasco, 2005,
pp. 103-11. Per l’età successiva vd. sempre C. Nicolet, L’inventario del mondo. Geografia e politica al-
le origini dell’impero romano, Roma-Bari Laterza, 1989 (ed. or. Paris, Fayard, 1988).
9. Vd. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, Bari, Laterza, 1966, vol. ii/1 pp. 385 sgg.

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E da quelle stesse terre abitate e conosciute, il tuo nome o quello di chiunque altro di
noi è forse mai riuscito a superare quel Caucaso, che stai vedendo, oppure ad attra-
versare quel Gange? Nelle altre terre remote dell’Oriente e dell’Occidente e nelle
plaghe del Settentrione e del Meridione, chi sentirà mai pronunciare il tuo nome?
Escludi queste regioni, e vedi concretamente quanto ristretti siano i confini entro cui
pretende di estendersi questa vostra gloria (La repubblica, vi 22).10

Insomma, a nessuno era data la gloria eterna, né tantomeno il potere sul


mondo intero. E poi, chiedeva l’Africano all’Emiliano, « che importa che par-
lino di te coloro che nasceranno in futuro, quando non ne hanno parlato co-
loro che sono nati in passato, che non sono stati meno numerosi degli altri,
e che furono certamente uomini migliori? » (ivi, vi 23). Cicerone vuole qui
ridimensionare la baldanza dei condottieri suoi contemporanei, come il vit-
torioso Cesare e lo sconfitto Crasso, ma anche la gloria dei grandi conqui-
statori del passato. La sua riflessione filosofica sull’immensità del mondo gli
forniva un argomento per ridimensionare i piú o meno fortunati imitatori
romani di Alessandro: in fondo, lo spazio a lui piú congeniale era il Foro,
con la Curia del senato e i Rostra, la tribuna degli oratori poco distante. Iro-
nia della sorte, poco dopo aver scritto il De re publica, Cicerone fu inviato in
Cilicia come proconsole, dove non si distinse eccessivamente per le sue atti-
vità militari, a due passi dalla minaccia partica alla frontiera. Qualche anno
dopo, la sua testa e la sua mano destra, mozzate dai sicari di Marco Antonio,
vennero affisse sui Rostra per mostrare che la toga non aveva avuto la meglio
sulle armi.

2. Vicende dell’espansione romana in Italia


In attesa di una futura e auspicabile revisione dei paradigmi geopolitici,
resteremo quindi entro i limiti del Mediterraneo, visto fin dall’antichità co-
me scenario dell’espansione di Roma. Il paradigma espansionistico della po-
tenza romana è stato fissato graficamente dagli atlanti storici, che riportano
immancabilmente la cartina dell’impero alla fine del principato di Traiano,
al tempo della “massima espansione” del governo provinciale. Oggi, sulla via
dei Fori Imperiali, a Roma, si possono ancora osservare tre dei quattro pan-
nelli eseguiti negli anni ’30 del secolo scorso per immortalare le tappe dell’e-

10. Trad. di F. Stok, in Cicerone, Il sogno di Scipione, Venezia, Marsilio, 19942.

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spansione. Il quarto, che raffigurava l’impero coloniale di Mussolini, è stato


opportunamente rimosso, ma l’idea dell’impero romano come un organi-
smo in evoluzione resta ampiamente radicata nell’immaginario storico.
La storia di Roma è anzitutto la storia di una città e del suo crescente do-
minio su altre città, dominio che ha spesso implicato distruzioni, massacri e
deportazioni. L’approccio tradizionale dell’espansione romana risente in gran
parte dei filtri dalla storiografia imperiale. Uno dei testi fondamentali è
l’opera storiografica dell’augusteo Tito Livio, che nei suoi 142 libri presenta-
va la storia di Roma come quella di una città che espande continuamente
dapprima il proprio territorio, quindi la propria zona di influenza, ai danni
di altre città che, una dopo l’altra, cadono e si piegano, e in alcuni casi ven-
gono distrutte. Alcuni esempi importanti si ritrovano nella terza Deca, una
sorta di lunga monografia sulla seconda guerra punica, che rappresenta un
po’ meno di un terzo dell’opera superstite di Livio. I libri xxi-xxx segnano
l’ascesa del Mediterraneo occidentale nello scacchiere politico. In Livio
manca però quella visione d’insieme geopolitica che caratterizza la grandez-
za di un Polibio, come del resto manca anche una visione sincronica degli
eventi.
Quando Livio considera le altre civitates, in qualche modo le romanizza,
attribuendo loro un sistema politico ispirato soprattutto a eventi piú recen-
ti. La caratterizzazione degli organismi cittadini come democrazie divise in
due gruppi, dall’evidente analogia con il contrasto optimates/populares della so-
cietà repubblicana, è tipica della narrazione liviana, sia essa piú o meno me-
diata dalle sue fonti “annalistiche”; ciò non vale solo per i centri italici e ma-
gnogreci, ma addirittura per Cartagine, che spesso appare come una vera e
propria immagine speculare di Roma. L’esercito punico, con la sua divisione
in socii e Carthaginienses, è speculare a quello romano (xxi 44 2).
Analogamente, il senato cartaginese è diviso in due factiones, quella favo-
revole alla famiglia dei Barca e quella ostile, il cui rappresentante piú auto-
revole era il “senatore” Annone (xxi 3 2). Questi combatte la guerra contro
Roma, ma è il parere opposto a prevalere: allora, Livio sembra porre Anno-
ne sullo stesso piano di quella parte dell’aristocrazia che preferiva investire
nella colonizzazione dell’Italia piuttosto che nel commercio oltremare. In
ogni caso, lo storico prende posizione a favore degli “ottimati” punici: « Dal-
la parte di Annone stavano i pochi, piú o meno i migliori. Ma, come al soli-
to, la maggioranza ebbe la meglio sui buoni » (xxi 4 1). Livio crede che la
contrapposizione di due factiones sia un male insito nei governi cittadini, e

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ben piú pericoloso delle guerre esterne e di altre calamità (vd. iv 9 3). Quan-
do Annibale, nel 195, dovette rifugiarsi in Oriente, e si era sparsa la voce di
una sua uccisione a tradimento da parte dei Romani, Livio riporta le reazio-
ni eterogenee nell’espressione dei Cartaginesi (varios voltus), e considera ciò
come una reazione usuale « in una città dove le divisioni delle fazioni porta-
vano la gente a prendere chi una parte, chi un’altra » (xxxiii 48 6).
Il concetto chiave per la comprensione della seconda guerra punica è quel-
lo della fides, soprattutto quella tra Roma e gli Italici, che Livio ben definisce
a xxii 13 11: « La potenza che li controllava era una potenza giusta e mode-
rata, ed essi non disdegnavano di servire i migliori. Solo questa ragione può
mantener salda un’alleanza! ». D’altronde, la posizione geografica dell’Urbe
rendeva piú facili le cose. In questo periodo le popolazioni dell’Italia si tro-
varono di fronte a un bivio: si trattava, di fatto, di scegliere tra l’universo ap-
penninico dei Sanniti e quello “civico” dell’alleanza con la comunità roma-
na. A questo proposito si può riprendere una suggestiva intuizione di Ar-
nold Toynbee, secondo il quale Roma avrebbe battuto la sfida dei Sanniti
proprio grazie all’appoggio di quelle città che, malgrado la diversa identità
etnica, condividevano con Roma le istituzioni “civiche”. Lo storico inglese
faceva l’esempio di Capua, ma non è difficile estendere la definizione a cen-
tri di minore importanza.
Non possiamo però seguire Toynbee quando afferma che queste comuni-
tà preferivano scegliere Roma, perdendo l’indipendenza, piuttosto che ac-
cettare lo stile di vita piú rozzo e incolto dei Sanniti. È piú ragionevole sup-
porre anzitutto la presenza di fazioni opposte nell’ambito delle singole co-
munità: in ogni caso furono i successi di Roma a condizionare la scelta dei
centri minori, troppo deboli per aver voce in capitolo. Per fare un esempio,
Formia poté avvicinarsi a Roma appena in tempo per ottenere almeno la
condizione di città semi-alleata, e la scelta le fu decisamente favorevole. In-
fatti, la vittoria di Roma sui Sanniti segnò in qualche modo una vittoria del-
l’economia di questa polis, che integrava i commerci marittimi alla produzio-
ne agricola di pianura, sull’economia silvo-pastorale che piú caratterizzava la
componente italica. Le fonti ricordano la peculiare angoscia dei Romani nel
momento in cui affrontavano i paesaggi ostili delle regioni appenniniche. I
Romani perdevano qui i consueti punti di riferimento e, come nella celebre
sconfitta delle Forche Caudine, finivano per soccombere malgrado la supe-
riore organizzazione militare. Non a caso, secondo Livio, Formia aveva otte-
nuto la cittadinanza senza suffragio « perché il passaggio nel loro territorio

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introduzione

era stato sempre sicuro e pacificato » (viii 14 10). Dietro questo assunto va ri-
conosciuta la preoccupazione dei Romani nei confronti di questo territorio:
di fatto, era necessario mantenere un saldo controllo sulla comunità formia-
na, ma anche creare i presupposti per un’alleanza duratura, affinché questa
regione restasse un sicuro punto di riferimento.
La scelta di valorizzare la regione costiera (di fatto ai danni dell’entroter-
ra) fu uno dei risultati delle guerre sannitiche, e fu certo caldeggiata da quei
gruppi politici che insistevano soprattutto sulla necessità di dare a Roma una
prospettiva marittima. Formia, pur non potendo intervenire nelle scelte elet-
torali romane, ottenne comunque un vero e proprio decollo economico. La
crescente influenza di Roma sulle rotte commerciali mediterranee tutelava
affaristi e mercanti, e una comunità dotata di un discreto porto poteva trar-
ne un qualche usufrutto. È probabile che il porto di Formia abbia poi man-
tenuto una certa importanza fino agli inizi del II a.C., quando Pozzuoli si im-
pose come base indiscussa dei traffici mediterranei e soprattutto orientali.
Quindi non possiamo seguire Livio (come fece, ad esempio, André Piga-
niol), e ritenere che la concessione della civitas sine suffragio fosse il premio di
Roma a Fondi e Formia per aver consentito la libertà di passaggio dal Lazio
alla Campania; in realtà, i fatti dimostrano che Roma tendeva quasi sempre a
ottenere queste libertà senza troppi scrupoli. Tuttavia i Formiani, pur viven-
do un regime oggettivamente punitivo che ne limitava l’autonomia decisio-
nale, usufruivano di indubbi vantaggi.
Insomma, i Romani avevano un particolare interesse a eludere le aree
montane e a potenziare le regioni costiere. Ciò contribuisce a spiegare il lo-
ro particolare impegno nella costruzione della via Appia, che per collegarsi
alla Campania passava necessariamente per il territorio formiano, con le sue
aree acquitrinose e le sue alture impervie: il basso Lazio fu cosí uno dei pri-
mi banchi di prova della tecnica stradale romana. L’Appia, imponendosi sul
territorio laziale e campano, aveva la principale funzione di rendere piú ve-
loci le comunicazioni; la sua costruzione segnò il definitivo controllo di Ro-
ma sulla Campania e sui territori limitrofi.11 Non meno significativo fu l’ap-
porto di questa arteria stradale al processo di romanizzazione: infatti l’Appia,
rendendo la presenza di Roma piú vicina, modificava profondamente le an-

11. Sul promotore della “ regina delle strade ” romane, il censore Appio Claudio Cieco, vd. M.
Humm, Appius Claudius Caecus. La République accomplie, Rome, École Française de Rome, 2005, e
il suo intervento in questo volume, pp. 467-520.

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tiche alleanze tra le comunità. Con questo nuovo asse viario, Roma si impo-
neva come il maggior punto di riferimento per i singoli insediamenti, e di
fatto, ponendosi come il principale interlocutore dei singoli centri, finiva per
disgregare l’antica unità territoriale delle comunità, mentre le identità etni-
che finirono gradualmente per diluirsi nel processo di integrazione promos-
so dai vantaggi della cittadinanza romana.

3. Paesaggio e memoria nell’Italia romana


Nella sua fortunata Storia del paesaggio agrario italiano, Emilio Sereni presen-
tava un quadro schematico quanto accattivante, in cui si contrapponevano
paesaggio « agrario » e paesaggio « naturale ». Il modello originario della co-
munità rurale italica sarebbe stato soppiantato dalla colonizzazione romana,
con l’introduzione di tecniche agricole piú efficaci e pratiche razionali di sud-
divisione e limitazione dei lotti di terreno (la cosiddetta « centuriazione »).12
Gli studi sull’Italia preromana e sulla romanizzazione dell’Italia hanno con-
tribuito a ridimensionare questo quadro. In un intervento segnato da un evi-
dente meridionalismo, Ettore Lepore osservava: « Non vorrei che, sotto sot-
to, quel famoso adagio “la romanizzazione è sempre buona” venisse a coin-
cidere con un presupposto che fu, addirittura, di Emilio Sereni; a proposito
del paesaggio agrario, egli si poneva il problema della centuriazione romana
come il meglio che potesse crearsi in un regime agrario. Qui purtroppo de-
vo dire che Sereni, come molti italiani, peccava un tantino di etnocentrismo;
seguiva l’influsso di questo mito romano che naturalmente gli veniva anche
dai suoi studi giuridici, economici, ecc. ».13 Lepore si riferiva al successo del-
l’immagine tradizionale della centuriazione romana, che si ritrova ancor og-
gi in vari studi archeologici. La scoperta di suddivisioni geometriche nella
pianura padana e in varie altre aree della penisola ha suggerito un’analogia
tra le bonifiche di Età moderna e le sistemazioni territoriali romane, sulla
scia di una tradizione che risaliva almeno al Settecento e considerava i Ro-

12. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1961 (piú volte ristampato), pp. 35-
72; G. Traina, Paradigmi per antichisti. La “Storia del paesaggio agrario italiano”, in Ambienti e storie del-
la Liguria. Studi in ricordo di Emilio Sereni, Bari, Dedalo, 2000 (= « Annali Ist. Alcide Cervi », a. xix
1997 [ma 2000]), pp. 175-82.
13. E. Lepore, Conclusioni, in La romanisation du Samnium aux IIème et Ier siècles av. J.-C. Actes du
colloque, Naples, 4-5 novembre 1988, Napoli, Centre Jean Bérard, 1991, pp. 261-64, in partic. p.
263.

27
introduzione

mani come gli antenati della moderna razionalità agraria. In effetti, il sugge-
stivo palinsesto dei reticoli centuriati e la sua visibilità nei secoli hanno fatto
pensare che la centuriazione fosse un vero e proprio “fattore di civiltà”.14 In
realtà, a differenza di quanto pensava Lepore, Sereni era contrario a questa
visione, e anzi osservava che i sistemi ortogonali a reticolato, oltre a non co-
stituire un’innovazione romana, avevano perso ogni utilità pratica già a par-
tire dall’età tardoromana. Tutto sommato, i Romani non sarebbero stati in-
gegneri migliori dei Greci e degli Etruschi; infine, la sopravvivenza topo-
grafica delle centuriazioni era il risultato di una « “legge d’inerzia” del pae-
saggio agrario ».15 Ma, soprattutto, il merito di Sereni era quello di proporre
un laboratorio storico basato sull’esame della memoria primordiale del pae-
saggio.
Certo, è bene prendere le distanze dal dogmatismo materialistico che per-
vadeva l’opera di Sereni, ma sarebbe un errore non apprezzare la sua lungi-
miranza, che ha permesso, con grande anticipo sui tempi, di introdurre una
storia agraria fatta anche di memoria. Gli storici dell’agricoltura si sono attar-
dati sui fattori economici, rifiutando come irrazionale questo approccio et-
nologico. E lo stesso Sereni, senatore comunista e marxista “creativo” ma
non meno dogmatico, avrebbe aspramente criticato un’opera come Landsca-
pe and Memory di Simon Schama, opera che suggerisce nuovi accostamenti
alle forme visibili del paesaggio e della sua memoria storica.16 Tuttavia, pro-
prio come Sereni, Schama ricercava la struttura nascosta del paesaggio, par-
tendo dalle realtà marginalizzate dalla civiltà urbana, e dalla consueta rap-
presentazione della città come elemento formatore della campagna.
Basti pensare alle zone umide come le lagune e le paludi, oggi prosciuga-
te ma ampiamente diffuse nell’antichità, fino alle porte delle grandi città e
della stessa Roma. Strabone osservava: « Come avviene nella zona del Basso
Egitto, si provvede all’irrigazione attraverso canali e argini e cosí il paese in
parte viene prosciugato e coltivato, in parte è navigabile. Delle città che si
trovano lí, alcune sono come isole, altre sono parzialmente circondate dal-
l’acqua » (v 1 5).17 La “civiltà padana”, che alcuni movimenti politici oggi esal-
tano in nome di un idealizzato celtismo, per Strabone non era molto diversa

14. E. Gabba, Per un’interpretazione storica della centuriazione romana (1985), in Id., Italia romana,
Como, New Press, 1994, pp. 177-96.
15. Sereni, Storia, cit., p. 52.
16. S. Schama, Paesaggio e memoria, Milano, Mondadori, 1997 (ed. or. New York, Knopf, 1995).
17. Trad. di A.M. Biraschi, in Strabone, Geografia. L’Italia, Libri v-vi, Milano, Rizzoli, 1988.

28
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.

dalla civiltà mediterranea dei paesaggi nilotici. Del resto, le paludi erano de-
gli ecosistemi dove si praticavano attività economiche importanti come la
caccia, la pesca, l’allevamento e lo sfruttamento di colture particolari. Nella
sua esposizione degli alberi, Plinio il Vecchio indicava: « Esclusivamente in
terreni ricchi d’acqua crescono il salice, l’ontano, il pioppo, il siler, il ligustro
(che è molto adatto per le tavolette da intarsio), cosí come il mirtillo, che in
Italia si coltiva nei luoghi in cui si pratica la caccia agli uccelli, mentre in Gal-
lia se ne ricava anche una tintura purpurea per le vesti degli schiavi ». Un
breve inventario delle varietà elencate da Plinio e da altri autori mostra la
molteplice utilità dei giunchi palustri per l’architettura rurale e la fabbrica-
zione di stuoie, torce o anche di vele, utilizzate nella navigazione del Po (Pli-
nio, Storia naturale, xvi 178).18 Altra coltura palustre erano gli asparagi, coltiva-
ti insieme a certi vigneti nelle paludi ravennati, dove si allevavano anche al-
cune specie di suini. Infine, le “messi di canne” erano descritte come il cam-
po di battaglia del cacciatore. Nelle zone umide costiere si estraeva il sale,
destinato al commercio interno e mediterraneo; in vari luoghi, il pesce di al-
levamento era salato sul posto.
Il bosco era l’altro elemento marginale del paesaggio. Di solito, la nostra
visione del mondo romano esclude le foreste, accostate piú facilmente al Me-
dioevo o, comunque, al mondo dai barbari. Eppure, l’Italia antica era una
delle regioni piú selvose del Mediterraneo. L’Appennino e la Liguria, ma an-
che la pianura padana, e le grandi isole come la Sicilia o la Sardegna erano
coperte dalle foreste. Strabone presenta cosí lo stile di vita degli antichi Li-
guri: « Vivono soprattutto di pastorizia, di latte e di una bevanda a base d’or-
zo: occupano le terre verso il mare, ma soprattutto le montagne. Possiedono
in abbondanza legno per costruire le navi e alberi cosí grandi che se ne pos-
sono trovare anche alcuni di otto piedi di diametro: molti per il colore del le-
gno risultano non meno adatti dei cedri per fabbricare tavole. Li trasportano
al mercato di Genua, insieme a pecore, pelli e miele, procurandosi in cambio
olio e vino provenienti dall’Italia: il vino che si trova presso di loro infatti è
poco, resinoso e asprigno » (iv 6 2).19
La vita dei boschi era austera. Chi vive in questi spazi, come il capraio,

18. Trad. di F. Lechi, in Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale, iii. Botanica, i. Libri 12-19, a cura
di G.B. Conte, Torino, Einaudi, 1984.
19. Trad. di F. Trotta, in Strabone, Geografia. Italia e Gallia, Libri iii e iv, Milano, Rizzoli,
1996. Su queste fonti vd. l’inedito di Sereni (ora pubblicato a cura di A. Giardina): E. Sereni,
Vita e tecniche forestali nella Liguria antica, in Ambienti e storie della Liguria, cit., pp. 25-139.

29
introduzione

« deve essere vivo, duro, attento, capace di sopportare la fatica, alacre, auda-
ce, tanto da saper andare con facilità fra dirupi e macchie e nei luoghi solita-
ri; e non segua le sue bestie, come per lo piú fanno i pastori degli altri greg-
gi, ma le preceda. La capra è un animale molto ardito, che corre avanti; e
continuamente quella che corre va subito frenata, perché non si allontani,
ma bruchi placida e lenta, e gonfi la mammella di latte e non sia troppo ma-
gra » (Columella, vi 6 7).20 Ma le foreste portavano anche ricchezza. La mac-
chia mediterranea, oltre alla caccia e all’allevamento, era ampiamente sfrut-
tata per ricavare la resina, impiegata per calafatare gli scafi delle navi. Altri
prodotti del bosco erano il miele, le piante officinali, le castagne e le ghian-
de, che nutrivano i suini ma, nei periodi di magra o di guerra, anche gli uo-
mini: il “pane nero” di guerra, spiacevole ricordo dei nostri anziani, era una
realtà molto antica (Plinio, Storia naturale, xvi 15).
Insomma, il paesaggio dell’Italia antica era complesso e diversificato. Tut-
tavia, i Romani hanno finito per oscurarne la realtà, soprattutto a partire dal-
l’età augustea, che ha elaborato un processo di idealizzazione delle campa-
gne. Ma già in Età repubblicana, nella celebre iscrizione del cippo miliario di
San Pietro di Polla, in provincia di Salerno, un magistrato romano dichiarava
di essere stato « il primo a far sí che i pastori si allontanassero dall’agro pub-
blico, a favore dei coltivatori » (Inscriptiones Latinae Liberae Rei Publicae, 454, ll.
13-14). Cominciava a farsi strada una visione del mondo dei pastori come un
universo rustico, marginale e pericoloso.
Simili stereotipi hanno accompagnato l’espansione di Roma nei territori
appenninici. I Romani ebbero buon gioco a elaborare le categorie dell’etno-
grafia ellenistica, che prestava grande importanza al clima e all’habitat natu-
rale. I montanari, pur se forti e schietti, erano al tempo stesso incolti e feri-
ni.21 Il primato sembra spettare ai Liguri, impegnati contro i Romani tra il III
e il II secolo, descritti come un popolo rozzo e selvatico proiettato verso le
montagne (Cicerone, Sulla legge agraria, ii 95; Dionigi di Alicarnasso, Storia di
Roma arcaica, vii 72 12 sg.). La loro cattiva fama dipendeva anche dal loro pro-
filo etnico per cosí dire misto: forti, resistenti e bellicosi come i popoli del
Nord, i Liguri non condividevano però la semplicità attribuita a Celti e Ger-

20. Trad. di R. Calzecchi Onesti, in Lucio Giunio Moderato Columella, L’arte degli agri-
coltori, Torino, Einaudi, 1977.
21. Vd. A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Roma-Bari, Laterza, 1997,
pp. 193-232.

30
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.

mani, in quanto si attribuiva loro anche il carattere mendace e inaffidabile


dei levantini e dei meridionali, e in genere degli uomini di mare (e di fatto
Strabone, iv 6 2, attribuiva loro un’origine greca). Forse i Romani hanno vo-
luto reagire all’alleanza dei Liguri con i Cartaginesi durante la seconda guer-
ra punica, accomunandoli al popolo perfido per eccellenza. Del resto, l’astu-
zia militare del Ligure « agile, svelto e repentino » era ben nota ai Romani, te-
nuti a lungo sotto scacco in un territorio selvoso e propizio agli agguati (Li-
vio, xxxix 1). Del resto, questi esperti combattenti furono anche alleati dei
Romani, che fruirono del loro savoir-faire fondato sul coraggio e l’astuzia (vd.
l’episodio narrato da Sallustio nella Guerra giugurtina, 92-94), che permise a
questo popolo di passare, almeno per questo episodio, « dalla “marginalità” al
protagonismo ».22
Gli episodi di guerra davano la misura di una sorta di identità del paesag-
gio romano. Livio ricorda espressamente: « Quanto ai Galli, la loro era una
guerriglia piú che una guerra » (xxi 16 4). Questo giudizio sbrigativo sull’at-
tività militare romana tra le due guerre puniche rispecchia in parte le « chiac-
chiere da barbiere » denunciate da Polibio (iii 205), e diffuse dalla storiografia
annibalica per evidenziare come l’esercito punico fosse il primo vero nemi-
co incontrato da Roma. Il sistematico disprezzo di Livio per i Galli, e per il
loro modo di combattere, non si limita però a recepire quanto raccontavano
le sue fonti, in parte per ridimensionare i Romani che avevano trionfato su
queste popolazioni. I Galli sono caratterizzati dall’avidità, sia di armi che d’o-
ro (xxi 16 6; 20 8); la loro tattica di combattimento è legata piú al tumultus che
alla battaglia in campo aperto, e inoltre non sono pratici di poliorcetica (xxi
25 6). Quando, in Cisalpina, si trovano stretti fra due potenze, Livio non
compatisce la loro sorte (come invece fa in altri contesti in cui si parla di im-
perialismo romano), e al contrario sottolinea la loro doppiezza (xxi 54 3).
Al tempo stesso, i Galli sono signori incontrastati del paesaggio ostile e
barbaro delle foreste. La Cisalpina è ancora coperta di boschi, dove gli eser-
citi romani sono costretti a passare, cadendo regolarmente vittima di agguati
(xxi 25 8; xxiii). Per Livio, la sola guerra da raccontare è quella degli scontri
in campo aperto, dove i Romani possono applicare la loro ineguagliabile di-
sciplina, che consente loro di applicare alla perfezione le tecniche di schiera-
mento.

22. G. Brescia, La scalata del Ligure. Saggio di commento a Sallustio, ‘Bellum Iugurthinum’ 92-94, Ba-
ri, Edipuglia, 1997, pp. 69-101.

31
introduzione

D’altra parte, il punto debole di questa tattica era la visibilità: lontane dal
campo aperto, dove avevano libertà di manovra e le insegne militari erano
sempre ben visibili, le legioni romane rischiavano continuamente quando si
muovevano in territori coperti e ostili, e spesso soccombevano alla guerriglia
barbarica. Certo, episodi come il massacro nella Litana silva della pianura pa-
dana, avvenuto nel corso della seconda guerra punica (Livio, xxxiii 4), ri-
chiamavano fatti piú antichi come le Forche Caudine, e soprattutto eventi
recentissimi come il massacro di Teutoburgo (9 d.C.); ma anche in episodi
bellici minori, Livio mostra una notevole sensibilità per il rapporto con il
paesaggio e l’etnografia, come quando, in un combattimento sui monti della
Ciociaria, contrappone gli snelli Ispanici al legionario romano « abituato alle
pianure, carico d’armi e portato a combattere da fermo » (xxii 18 3).
Anche se il principale scenario della terza Deca resta l’Italia, Livio scrive
però pagine di grande suggestione nel descrivere il contrasto fra i territori a
lui familiari e quelli da lui considerati come barbarici. Si pensi alla sua de-
scrizione delle aspre montagne alpine, considerate come “mura dell’Italia”,
descritte come paesaggi inaccessibili; dopo la traversata, solo nelle valli preal-
pine Annibale comincia a intravedere « luoghi piú consoni all’insediamento
umano » (xxi 37 6). L’idea di un paesaggio come no man’s land doveva essere
già espressa da fonti pressoché contemporanee, dal momento che Polibio
critica gli storici annibalici per la loro descrizione delle Alpi come luoghi
fuor dall’ordinario (iii 47 6: tópon paradoxología). Punto fermo di questa con-
cezione era l’ostilità per i territori marginali e incolti. Cosí, la stessa barba-
rie gallica che predilige la guerra silvestre interrompe il lavoro degli agri-
mensori che stavano per mettere in atto la prima esperienza di colonizza-
zione cisalpina, e probabilmente anche di attuazione di un reticolo “centu-
riato” (xxi 25).
Beninteso, il paesaggio dell’Italia romana non può piú essere studiato nei
limiti di una storia nazionale, come in fondo faceva ancora Sereni, bensí su
una base estesa allo spazio mediterraneo. Grazie all’ambiziosa trattazione di
Peregrine Horden e Nicholas Purcell, oggi è possibile riflettere sulle moda-
lità di incontro e interazione di diverse esperienze economiche e territoriali,
evitando di immaginare un Mediterraneo in chiave meramente retorica.23 Il
recente libro curato da William Harris, Rethinking the Mediterranean, ne costi-

23. P. Horden-N. Purcell, The Corrupting Sea. A Study in Mediterranean History, Oxford, Black-
well, 2000.

32
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.

tuisce il momento piú alto, ma possiamo osservare già un volume “gemello”


curato da Irad Malkin, dove lo stesso Purcell indica l’importanza di una revi-
sione della storia antica nei termini di una « connected world history ».24 La
questione chiave di Harris è la mancanza di una dimensione mediterranea
negli enunciati delle lingue antiche, dal momento che l’ecumene (in greco
oikouméne6) si riferiva a un mondo piú ampio.25 La sua critica è forse eccessi-
va, come quando revisiona lo stesso concetto di connectivity, peraltro di una
certa utilità per la riflessione sull’economia antica. Ma certamente è nel giu-
sto quando osserva l’esigenza di « alternative al mediterraneismo » da porre
sulla base di comparazioni piú ardite.26 La scelta di Harris, nel commentare
l’opera di Horden e Purcell, è quella di privilegiare la lunga durata come ele-
mento portante. Alcune notazioni sono illuminanti: ad esempio la critica a
quanti, Braudel compreso, vedono nelle campagne mediterranee i segni di
un fallace immobilismo derivato piú dai cliché intellettuali che da un reale
esame delle dinamiche economiche nella lunga durata.

4. Rome the Aggressor? Il dibattito sull’imperialismo romano27

Sempre William Harris, quasi trent’anni fa, aveva aperto il dibattito sui
presupposti politici dell’espansione romana, attaccando con vigore polemico
la tesi tradizionale del carattere difensivo dell’imperialismo romano, e della
riluttanza del senato a procedere all’annessione dei paesi vinti. All’origine
delle guerre di Roma Harris poneva non una serie di allarmate risposte a mi-
nacce provenienti dall’esterno, ma una consapevole volontà espansionistica,
riconducibile a due aspetti: il militarismo della società romana, in cui solo il
successo militare poteva garantire il potere politico ai membri della nobilitas,

24. Rethinking the Mediterranean, a cura di W.V. Harris, Oxford, Oxford Univ. Press, 2005; N.
Purcell, The Boundless Sea of Unlikeness? On defining the Mediterranean, in Mediterranean Paradigms
and Classical Antiquity, a cura di I. Malkin, London-New York, Routledge, 2005, pp. 9-29.
25. W.V. Harris, The Mediterranean and Ancient History, in Rethinking, cit., pp. 1-42, a p. 15:
« What did the inhabitants of the ancient Mediterranean region think was the identity of the
part of the world in which they lived? [ . . . ]. As for the Mediterranean world, however, nei-
ther Greek nor Latin had a special expression for it: Greeks could call it the oikoumene but
they also used that word for the entire world, which of course they knew to be much lar-
ger ».
26. Ivi, p. 39.
27. Vd. oltre, pp. 123-76.

33
introduzione

e il perseguimento di finalità economiche, che contribuiva a spiegare anche


la disponibilità dei cittadini comuni a prestare il servizio militare.28
Nel vivace dibattito suscitato da un’opera che, come fu subito riconosciu-
to, si proponeva l’audace obiettivo di rovesciare una communis opinio quasi in-
contrastata, che poggiava sull’autorità di Mommsen e sulla sconfinata eru-
dizione di Maurice Holleaux, Harris fu dichiarato vincitore: a caldo, John
North gli riconobbe il merito di aver reso insostenibile la tesi che negava ai
Romani ogni aspirazione alla conquista, al dominio e all’annessione.29 A di-
stanza di una quindicina d’anni, John Rich ha riconosciuto le ragioni della
vittoria di Harris nel carattere paradossale della teoria dell’imperialismo di-
fensivo e nella consonanza tra la denuncia dell’aggressività della politica ro-
mana e il clima culturale dell’età della decolonizzazione.30 In un contributo
ormai classico, Jerzy Linderski aveva esaminato i presupposti ideologici di
tre alfieri della teoria dell’imperialismo difensivo, Mommsen, Holleaux e
Tenney Frank, mostrando con finezza gli echi contemporanei dell’apprezza-
mento per l’espansione di Roma nell’Occidente barbarico.31 Contempora-
neamente, anche Edmond Frézouls rilevava nella giustificazione della con-
quista romana il prototipo della giustificazione degli imperi coloniali, e de-
nunciava i rischi di una piú o meno consapevole identificazione con gli inte-
ressi di Roma.32
Accanto ai riconoscimenti, non sono mancate però obiezioni, puntualiz-
zazioni e tentativi di rifar posto alla paura, sia pure in forme ed entro limiti
nuovi, fra le motivazioni delle guerre romane. Sherwin-White e North criti-
carono l’analisi delle cause delle guerre romane dal 327 al 70 a.C., che costi-
tuisce circa un terzo del volume di Harris: l’uno vi rilevava l’estremismo en-

28. W.V. Harris, War and Imperialism in Republican Rome 327-70 B.C., Oxford, Clarendon Press,
1979; vd. Id., The Italians and the Empire, in The Imperialism of Mid-Republican Rome, a cura di W.V.
Harris, in « Papers and Memoirs of the American Academy in Rome », a. xxix 1984, pp. 89-109.
29. J.A. North, The Development of Roman Imperialism, in « Journal of Roman Studies », a. lxxi
1981, pp. 1-9.
30. J. Rich, Fear, Greed, and Glory: the Causes of Roman War-making in the Middle Republic, in War
and Society in the Roman World, a cura di J. Rich, G. Shipley, London-New York, Routledge,
1993, pp. 38-68.
31. J. Linderski, « Si vis pacem, para bellum »: Concepts of Defensive Imperialism, in The Imperialism of
Mid-Republican Rome, cit., pp. 133-64.
32. E. Frézouls, Sur l’historiographie de l’impérialisme romain, in « Ktèma », a. viii 1983, pp. 141-62.
Quattro anni prima del libro di Harris, un saggio di Paul Veyne riprendeva già il dibattito: P.
Veyne, Y a-t-il eu un impérialisme romain?, in « Melanges de l’École Française de Rome-Antiqui-
té », a. lxxxvii 1975, pp. 793-855.

34
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.

tusiastico ed eccessivo tipico delle reazioni, mentre l’altro riteneva necessario


spostare l’attenzione, piú di quanto non avesse fatto Harris, dall’analisi mi-
nuta volta a individuare le ragioni di ogni singola decisione del senato alle
caratteristiche strutturali del sistema, che avrebbero fortemente limitato la li-
bertà di queste decisioni (che i senatori ne fossero o meno consapevoli).33
Fra questi fattori, il carattere del sistema politico romano, in cui l’aspirazione
della nobilitas alla gloria e all’arricchimento avrebbe contribuito alla frequen-
za della discesa in guerra della repubblica (tema già individuato da Montes-
quieu, e centrale nella tesi di Harris), era stato contestato da Sherwin-White,
le cui posizioni sono state riprese piú di recente da Rich. A loro giudizio, dal
momento che a trarre direttamente profitto da ogni singola guerra sarebbe
stato solo un ristretto gruppo di persone, e il loro successo avrebbe indeboli-
to il resto del senato, la competitività interna alla nobilitas avrebbe ostacolato
decisioni di guerra non dettate dal pubblico interesse; il senato si sarebbe la-
sciato guidare in primo luogo dalla considerazione della sicurezza dello sta-
to, in quanto per larga parte non avrebbe tratto alcun vantaggio da guerre
non necessarie.34
North ha ribadito invece l’armonia nel funzionamento del sistema: alme-
no nella media repubblica, e fino al 140, la competizione interna alla nobilitas
non avrebbe prodotto gravi contrasti, portando i Romani a combattere, qua-
si anno per anno, per decenni di seguito. Il particolare rapporto con gli allea-
ti italici è un altro elemento strutturale, enfatizzato da North riprendendo
un’intuizione di Momigliano: gli Italici non pagavano tributi, ma dovevano
fornire a Roma contingenti ausiliari; cosí, la guerra era per la potenza ege-
mone l’unico modo di sfruttare la sua posizione dominante, e costituiva il
collante dell’alleanza italica, per i vantaggi che apriva anche agli alleati. Que-
sta situazione, che fosse o meno percepita con chiarezza, avrebbe comunque
spinto il sistema alla ricerca di occasioni di guerra. L’argomento fu in seguito
respinto da Harris, che riaffermò con forza la possibilità di spiegare l’aggres-
sività romana in base al sistema politico romano, senza introdurre elementi
esterni.
Molto si è discusso anche delle motivazioni economiche dell’imperiali-

33. North, op. cit.; A.N. Sherwin-White, Rome the Aggressor?, in « Journal of Roman Stu-
dies », a. lxx 1980, pp. 177-81.
34. Sherwin-White, op. cit.; Id., Roman Foreign Policy in the East 168 B.C. to A.D. 1, London,
Duckworth, 1984.

35
introduzione

smo romano, negate con sdegno da una vasta schiera di studiosi, disposti a ri-
conoscere i vantaggi economici della conquista, ma fermi nel ritenerli sem-
plici conseguenze di scelte politiche dettate da considerazioni di ordine
completamente diverso. Attento a distinguersi da posizioni marxiste, Harris
riportava le finalità economiche perseguite dalla nobilitas alle tre forme ele-
mentari dell’appropriazione di bottino, di terra e di schiavi (senza attribuire
alcuna preminenza a quest’ultimo fattore), e negava invece la possibilità che
la politica estera romana fosse stata dettata da interessi commerciali e finan-
ziari. Ad affaristi e publicani Sherwin-White era disposto a riconoscere un’in-
fluenza maggiore, e una costante pressione in favore dell’annessione (vizio
imperialistico da cui i senatori, nella sua prospettiva, sarebbero stati in gran
parte esenti).
I tentativi di riaffermare il ruolo delle esigenze difensive fra i fattori che
avrebbero determinato le decisioni di guerra romane comportano talora una
critica piú radicale della semplice attribuzione di una residuale « neurosis of
fear » a un popolo che nel III secolo, contro Pirro, Annibale e i Celti, aveva
combattuto per la sopravvivenza, e mettono in discussione l’approccio di
Harris al problema dell’imperialismo romano.35 Si è denunciata l’inadegua-
tezza di una spiegazione dei fenomeni imperialistici che si limiti ad esami-
nare le spinte all’espansione operanti all’interno della società impegnata nel-
la conquista, con prospettiva “metrocentrica”: alla costruzione (involontaria)
di un impero, hanno rilevato di recente Champion e Eckstein, contribuireb-
bero anche iniziative provenienti dalla “periferia”, come appelli contro mi-
nacce esterne da parte di stati minori, richieste di intervento da parte di una
delle fazioni che si contendono il potere all’interno di una comunità, aggres-
sioni da parte di medie potenze che richiedono una reazione.36 L’esemplifica-
zione scelta per questi fenomeni (rispettivamente: Vietnam del Sud, El Sal-
vador e Nicaragua, Iraq) rivela quanto la riflessione sull’imperialismo roma-
no sia ancora inestricabilmente connessa alla contemporaneità, e ricorda, sia
pure con maggior sobrietà, il modo in cui la Roma di Tenney Frank rispec-
chiava l’America di McKinley e Theodore Roosevelt: se si arriva alla costru-

35. L’espressione è di Sherwin-White, op. cit.; vd. Rich, op. cit., e K.A. Raaflaub, Born to Be
Wolves? Origins of Roman Imperialism, in Transitions to Empire. Essays in Greco-Roman History, 360-146
B.C., in Honor of E. Badian, a cura di R.W. Wallace, E.M. Harris, Norman-London, Univ. of
Oklahoma Press, 1996, pp. 273-314.
36. C.B. Champion-A.M. Eckstein, Introduction: The Study of Roman Imperialism, in Roman Im-
perialism. Readings and Sources, a cura di C.B. Champion, Blackwell, Oxford, 2004, pp. 1-10.

36
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.

zione di un impero, ciò non avviene però « by the planning of the metropo-
lis ».37 Si è inoltre affermata la necessità di analizzare il processo della con-
quista all’interno di una piú generale considerazione del sistema interstatale
in cui essa si svolge, caratterizzato da una feroce competizione per il potere
e la sicurezza; in questo contesto, la guerra non sarebbe l’eccezione, ma la
regola; a richiedere di essere spiegata dunque non sarebbe l’aggressività del-
la repubblica romana, ma piuttosto il successo di Roma fra potenze non me-
no aggressive. In questo modo, rilevano Champion e Eckstein, si tornerebbe
ad un approccio incentrato sulla posizione dell’Urbe, ma con una differen-
za: non ci si dovrebbe piú interrogare su « the alleged distortions within the
society, economy, and/or politics of the imperial power » che ne avrebbe-
ro prodotto la spinta espansionistica, ma ci si dovrebbe chiedere piuttosto
« what were the strengths that allowed Rome to survive and then prevail in its
harsh environment ». La chiave del problema non sarebbe piú dunque l’avi-
dità di gloria, di terra e di bottino della nobilitas, ma un aspetto assai piú posi-
tivo del sistema romano, la capacità di integrazione dei vinti, che assicurò al-
la repubblica le risorse umane che le consentirono di superare la terribile
prova della guerra annibalica e di affermarsi poi nella competizione con le
monarchie ellenistiche.
Certo, non si possono negare i vantaggi derivanti dalla considerazione
delle varie ambizioni egemoniche, sia livello regionale sia a livello ecumeni-
co. Al tempo stesso, a un quarto di secolo dalla ripresa del dibattito da par-
te di Harris, la recente Introduction di Champion e Eckstein (2004),38 sembra
mostrare un cambiamento di rotta, in una certa misura legato alla ripresa
delle ideologie conservatrici. Da un giudizio che fu subito avvertito, a torto
o a ragione, come una condanna di Rome the Aggressor, si è tornati ad una ri-
affermazione dell’innocenza del senato, che in questa prospettiva apologeti-
ca non avrebbe nutrito alcuna autonoma volontà di conquista e sarebbe usci-
to vincitore da una competizione spietata grazie alla sua disponibilità all’ac-
coglienza e all’integrazione dei vinti. Sembrerebbe dunque continuare ad
avverarsi la profezia di Holleaux rilanciata da Linderski, che si era dichiarato
convinto che il guanto di sfida lanciato da Harris sarebbe stato raccolto dai
sostenitori della tesi difensiva.
Naturalmente, il dibattito non può considerarsi chiuso, e sarebbe forse

37. Linderski, op. cit.


38. Champion - Eckstein, op. cit.

37
introduzione

troppo pessimistico ritenere che si debba esaurire nell’eterna oscillazione fra


posizioni inconciliabili. Recentemente, l’attenzione sembra essersi spostata
dalla fase della conquista a quella della gestione del dominio (si potrebbe qua-
si dire, dall’imperialismo della repubblica al colonialismo dell’impero); esula
dunque dai limiti di questa sezione. Si può comunque rilevare che i concetti
di discrepant experiences e di public transcript/hidden transcript, elaborati rispet-
tivamente da Edward Said e James Scott, e invocati da David Mattingly co-
me strumenti di un opportuno rinnovamento della considerazione dei rap-
porti fra potenza e cultura egemoni e culture locali nell’impero romano,
possono applicarsi anche all’indagine della fase della conquista.39 La conside-
razione pluralistica delle diverse, sovrapposte e interconnesse esperienze del
passato coloniale, da giustapporre e far interagire per arrivare attraverso una
lettura contrappuntistica alla ricomposizione di una storia unitaria, è un mo-
dello utile anche a una ricostruzione dell’età della conquista romana, che si
sottragga all’unilateralità e ai rischi dell’identificazione con la potenza domi-
nante e che faccia spazio non solo alla sofferenza delle società sottomesse,
ma anche alle loro valutazioni dell’esperienza imperialistica. La riflessione
di James Scott può indirizzare a un lavoro di scavo nelle fonti che consenta
di recuperare le tracce della visione dei vinti; o, ove questo non sia possibi-
le, deve almeno mettere in guardia dal rischio di chiedere ai documenti uf-
ficiali delle relazioni imperiali piú di quanto essi possano dare, e di trarne
prova del sincero entusiasmo dei popoli subordinati per la loro stessa subor-
dinazione.

5. Carre, o i limiti della conquista

In un bel saggio sui sistemi informativi romani, N.J.E. Austin e Boris Ran-
kov hanno concluso che « la caratteristica principale della Roma repubblica-
na era l’ignoranza e non la conoscenza del mondo che tentava di conquista-

39. E. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Milano, Feltrinelli, 20054 (ed. or. New
York, Pantheon Books, 1978); Id., Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale
dell’Occidente, Roma, Gamberetti, 1998 (ed. or. London, Vintage, 1994); J.C. Scott, Domination
and the Arts of Resistance. Hidden Transcripts, New Haven-London, Yale Univ. Press, 1990; D.J.
Mattingly, Dialogues of Power and Experience in the Roman Empire, in Dialogues in Roman Imperia-
lism. Power, Discourse, and discrepant Experience in the Roman Empire, a cura di D.J. Mattingly, Ports-
mouth, Jra, 1997, pp. 7-24.

38
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.

re ».40 È questa la causa piú probabile della catastrofe del 9 giugno del 53 a.C.
quando, nei pressi della città di Carre (oggi Harran, nell’Alta Mesopotamia
turca), l’esercito romano subí una delle sue piú grandi sconfitte. Nelle pia-
nure circostanti trovarono la morte migliaia di legionari, mentre i sopravvis-
suti furono presi prigionieri dai vincitori, i cavalieri iranici al comando del
dignitario partico Surena.41 Massima onta, i nemici si impossessarono delle
insegne legionarie, che vennero restituite solo dopo molti anni e laboriosi
negoziati. Il comandante della spedizione, Marco Licinio Crasso, fu ucciso
poco dopo la battaglia.
Per molto tempo, Carre non è stata presa in considerazione come una
battaglia significativa. Nei libri sulle “battaglie decisive”, impostati secondo
la formula fortunata di Edward S. Creasy,42 l’evento è stato preso in scarsa
considerazione: né il capitano Liddel Hart, né il capitano Fuller, né tanto-
meno Victor Davis Hanson hanno ritenuto utile lo studio di uno scontro de-
cisamente anomalo sul piano militare. Per gli schemi di Hanson, Carre co-
stituisce un’eccezione particolarmente scomoda per il suo modello di un
Occidente sempre imbattuto sul piano militare. Egli cerca in questo modo di
rispondere a una possibile critica: « anche dei disastri orribili come quello di
Carre (53 a.C.) non hanno smentito la superiorità definitiva delle forze occi-
dentali (sic). La Partia si trova oltre l’Eufrate, e le legioni che perirono a mi-
gliaia di chilometri da casa non rappresentavano che un quinto delle truppe
di cui disponeva Roma ».43
Nella tradizione romana, Carre ha rappresentato una sorta di luogo di
memoria negativo, e soprattutto un esempio da non seguire. Altre grandi
sconfitte sono state interpretate come sciagure collettive, volute dagli dèi o
determinate da errori tattici o strategici, ma in ogni caso hanno fornito ai
Romani elementi utili per meditare sui propri sbagli. Nell’intento di molti
storici, il ricordo del disonore avrebbe dovuto scongiurare il ripetersi di si-

40. N.J.E. Austin-N.B. Rankov, « Exploratio ». Military and political Intelligence in the Roman
World from the Second Punic War to the Battle of Adrianople, London-New York, Routledge, 1995, p.
108. Osservazioni intelligenti, pur se eccessivamente idiosincratiche, in L. Loreto, Per la storia
militare del mondo antico. Prospettive retrospettive, Napoli, Jovene, 2006.
41. Per l’impero partico, vd. il contributo di C.G. Cereti nel vol. vi di questa Storia d’Europa e
del Mediterraneo (in preparazione).
42. The Fifteen Decisive Battles of the World from Marathon to Waterloo, New York, Hovendon
Company, 1851.
43. V.D. Hanson, Carnage et culture. Les grandes batailles qui ont fait l’Occident, trad. fr. Paris, Flam-
marion, 2002 (ed. or. New York, Doubleday, 2001), p. 27.

39
introduzione

mili sciagure, vissute come la sconfitta di un intero popolo. Per Carre, il ca-
so era diverso. La vulgata storiografica, sviluppatasi durante la prima Età im-
periale, ha scaricato sul solo Crasso tutta la responsabilità della disfatta, ridu-
cendo il fatto d’arme all’errore del singolo. Lo sconfitto di Carre fu dipinto
come un comandante dozzinale, un uomo d’affari che, per brama d’oro e
potere, aveva coinvolto migliaia di soldati in un disastro. Qualcuno si è spin-
to fino a considerare queste motivazioni come “ragioni soggettive” per giu-
stificare lo scoppio di una guerra.
Anche se non tutti hanno accettato questa visione, molti storici moderni
continuano ad accettare il cliché di un Crasso « insufficiente in materia di lo-
gistica, addestramento e informazione », come ricorda un recentissimo, e pe-
raltro pregevole, manuale universitario sull’esercito romano.44 E anche se si
comincia a rivalutare la strategia di Crasso, sulla base di un riesame critico
delle fonti, l’immagine tradizionale resta tuttora ben radicata.45
Eppure, le fonti non consentono di descrivere cosa sia realmente accadu-
to sul campo di battaglia. I racconti di Plutarco e Cassio Dione si contraddi-
cono, e soprattutto non tengono conto di tutte le forze in campo. La docu-
mentazione non permette quindi di ricostruire del tutto la tattica di Crasso,
né tantomeno quella dei Parti. Nonostante questa oggettiva difficoltà, molti
hanno descritto la battaglia sintetizzandone le fasi principali. La recentissima
ricostruzione grafica di Gareth Sampson, che si basa su una lettura empirica
delle fonti nel tentativo di recuperare gli elementi piú attendibili, è suggesti-
va ma del tutto ipotetica.46
Nonostante l’importanza dell’evento, la disfatta di Carre ha avuto minor
fortuna rispetto ad altri eventi di eguale o anche minor impatto. Una recen-
te raccolta di saggi sui Lieux de mémoire di Roma antica, curata da Elke Stein-
Hölkeskamp e Karl-Joachim Hölkeskamp, ha dato il giusto peso agli eventi
militari nella costruzione della memoria romana, ma ha preso in considera-
zione altri episodi di varia entità. La scelta ha una sua logica, dato che gli
eventi prescelti – Canne, la guerra gallica, la rivolta di Spartaco, la sconfitta
di Teutoburgo – hanno avuto enormi ripercussioni sia nella memoria dei

44. P. Cosme, L’armée romaine. VIIIe s. av. J.-C.-Ve s. ap. J.-C., Paris, Colin, 2007, p. 60.
45. P. Arnaud, Les guerres parthiques de Gabinius et de Crassus et la politique occidentale des Parthes
Arsacides entre 70 et 53 av. J.-C., in Ancient Iran and the Mediterranean World, a cura di E. D“browa,
Kraków, Jagellonian Univ. Press, 1998, pp. 13-34.
46. G. Sampson, The Defeat of Rome. Crassus, Carrhae and the Invasion of the East, Barnsley, Pen &
Sword, 2008, p. 126 sg.

40
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.

Romani che nella coscienza moderna.47 Possiamo aggiungere a questi episo-


di un altro disastro “epocale” come la sconfitta di Adrianopoli del 378 d.C.,
che Alessandro Barbero ha riproposto come uno degli eventi fondatori del
Medioevo.48
L’attualità ha riportato alla ribalta l’immagine della battaglia. In un recen-
te intervento, Eric Margolis ha definito l’attuale politica statunitense in Iraq
come la « Carre americana ».49 L’ignoranza arrogante attribuita a Crasso dal-
le fonti antiche è qui paragonata alla politica di George W. Bush, incapace di
credere ai consigli degli esperti, e disposto a credere ai consiglieri piú scredi-
tati pur di continuare una politica assurdamente guerrafondaia. Soprattutto,
Carre è stata considerata come la negazione del bellum iustum, espressione
tecnica che per i Romani non significa “guerra giusta”, ma “guerra legale” o,
per traslato, “guerra legittima”. Ma simili paragoni a effetto sono poco utili,
e tutto sommato non fanno che riproporre in negativo le enunciazioni piú
superficiali di stampo neocon sull’ordine imperiale romano e sui paragoni con
quello americano.
Queste interpretazioni superficiali derivano da una lettura affrettata de-
gli eventi, ma certo risentono dell’interpretazione negativa della strategia di
Crasso. Per molti storici dell’Età moderna, l’errore di Crasso determinò un
passo indietro nella lotta dell’Occidente contro l’Oriente, fermando la spinta
conquistatrice della potenza romana. Certo, non è del tutto errato dire che,
in Età imperiale, la battaglia assunse il valore simbolico di scontro tra Occi-
dente e Oriente. Ma l’idea dello scontro di civiltà, tornata ora alla ribalta,
non è la chiave migliore per interpretare i rapporti fra Romani e Iranici, an-
ché perché i mutamenti attualmente in atto stanno modificando profonda-
mente le categorie geopolitiche tradizionali, elaborate dagli imperialismi oc-
cidentali del XIX secolo. Del resto, è difficile scrivere una storia ‘bilaterale’,
dato lo squilibrio della documentazione. Di fatto, le fonti orientali partiche
sono pressoché inesistenti, e occorre ricostruire il quadro sulla base delle
fonti romane. I pregiudizi, o almeno il disinteresse nei confronti dell’Orien-
te, hanno completato il quadro.

47. Erinnerungsorte der Antike. Die römische Welt, a cura di E. Stein-Hölkeskamp, K.-J. Hölkes-
kamp, München, Beck, 2006.
48. A. Barbero, 9 agosto 378. Il giorno dei barbari, Roma-Bari, Laterza, 2005.
49. E. Margolis, America’s Carrhae (aprile 2006), in http://www.lewrockwell.com/margolis/
margolis26.html.

41
introduzione

I Romani non ignoravano del tutto il modo di combattere dei Parti. Ca-
tullo, in un carme composto durante o subito dopo la campagna di Gabinio
(ca. 55 a.C.), li definisce sagittiferos, ‘portatori di frecce’ (xi 6). Le frecce e gli
archi dei Parti divennero ben presto un vero e proprio topos letterario, Il cor-
po della freccia partica era ricavato da una canna acquatica. Nella sezione bo-
tanica della Storia naturale dedicata alle canne, Plinio il Vecchio (xvi 159 sg.)
osserva che: « Le canne sono il mezzo con cui le genti d’Oriente decidono le
guerre; con le canne, a cui applicano delle penne, rendono rapida la morte;
alle canne aggiungono letali punte uncinate, che non si possono estrarre e si
spezzano dentro la ferita, come un ulteriore dardo. Con queste armi arriva-
no a oscurare il sole ». Plinio elenca una serie di popoli che si servono del-
l’arco, dagli Etiopi ai Sarmati, concludendo la lista con la menzione di « tutti
i regni dei Parti », e con l’osservazione che « nel mondo, circa metà delle gen-
ti vive sotto il dominio delle canne ».
Lo storico cinese Sima Qian (145-85 a.C.) nel trattato Shiji ricorda che i no-
madi dell’Asia centrale noti come Xiong-nu erano abituati fin dalla piú te-
nera età a montare a cavallo e tirare con l’arco: i bambini si impratichivano
cavalcando le pecore.50 Analogamente, Seneca osserva che « un bambino na-
to in Partia subito tenderà l’arco » (Lettere a Lucilio, xxxvi 7). L’arco in que-
stione era ben diverso da quello conosciuto dai guerrieri mediterranei. Si trat-
tava del temibile arco composto, che poteva scoccare delle frecce a una di-
stanza almeno doppia rispetto a quelli utilizzati dagli arcieri ellenistici e ro-
mani. Il graduale perfezionamento di quest’arma micidiale fu decisivo per le
vittorie dei Parti, e, successivamente, dei Sasanidi e degli Unni. L’arco com-
posto di tipo partico aveva i flettenti ricavati da un corno di capro selvatico,
legno e colla, mentre la forte tensione della corda era assicurata da tendini di
cervo o gazzella. Le monete partiche raffigurano questo tipo di arco, utiliz-
zato ancora in Iran fino agli inizi dell’Ottocento; la sua forma è analoga a
quella dell’arco scitico.
Ma l’osservazione di Plinio non era solo di carattere tecnico. Per i popoli
iranici, l’arco era un simbolo di regalità, e a maggior ragione per i Parti, la cui
stirpe era di origine nomade. Nell’88 a.C. il re del Ponto Mitridate VI, che si
vantava di discendere dai grandi re achemenidi, si esibí con il lancio di una
freccia alla distanza di oltre uno stadio (177 metri, una distanza irrisoria per

50. Records of the Great Historian, trad. di B. Watson, New York, Columbia Univ. Press-Chi-
nese Univ. of Hong Kong, 1993, vol. ii p. 153.

42
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.

un arciere persiano) per delimitare il perimetro del santuario di Artemide a


Efeso (Strabone, xiv 1 23). Le monete di diversi re parti li raffigurano seduti
in trono, nell’atto di reggere un arco. Nel I d.C., Seneca evocava l’immagine
del Gran Re, un signore dei popoli costretto a mantenere la vigilanza « sen-
za mai allentare l’arco » (La fermezza del saggio, xiii 4).
Gli arcieri a cavallo (hippotoxótai in greco) eccellevano in una tecnica nota
ancor oggi con il nome di “freccia del Parto”, che consisteva nel fingere la fu-
ga, voltarsi indietro e colpire l’avversario. Questa pratica risale a tempi abba-
stanza antichi, ed è attestata già da raffigurazioni di età neoassira, dell’VIII
a.C. L’arte classica ha piú volte rappresentato guerrieri sciti in questo atto, sia
sui vasi attici che sulle gemme. E gli scavi della cittadella partica di Mithra-
datakert (Nisa vecchia, nell’attuale Turkmenistan), hanno portato alla luce i
frammenti di una grande pittura murale, dove due gruppi di cavalieri, en-
trambi armati all’uso partico, si affrontano utilizzando questa particolare tec-
nica di combattimento, impiegata anche nella caccia.51
I legionari romani erano equipaggiati con le armi tradizionali, il gladio e il
giavellotto (pilum). Ma queste armi potevano ben poco contro i rapidi movi-
menti degli arcieri a cavallo e le pesanti armature dei “catafratti”, la cavalleria
pesante corazzata. La lorica hamata, la tipica cotta di maglia del legionario,
non riusciva a frenare l’urto delle frecce nemiche. Al tempo stesso, i Roma-
ni disponevano di un’efficacissima tattica difensiva, la formazione a “testug-
gine”, che permetteva anche a grandi unità di formare un quadrato difensivo,
reso impenetrabile da una barriera costituita dagli scudi. Tuttavia, questo ti-
po di formazione metteva la legione nell’impossibilità di manovrare, ridu-
cendone quindi le potenzialità offensive. Inoltre, queste armi finivano per
rompersi se usate eccessivamente (Cassio Dione, xl 24 1).
A Carre, i Romani furono presi alla sprovvista: il comandante era con-
vinto che l’esercito di Surena fosse una semplice avanguardia, e decise di
ascoltare il figlio Publio e gli altri cavalieri, che intendevano ingaggiare su-
bito il combattimento. In effetti, non si vedeva il bagliore delle armi, che
erano state opportunamente coperte con mantelli e guaine di pelle. Con
uno dei suoi consueti pezzi di bravura, Plutarco narra l’inizio dei combatti-
menti: « Ma appena furono vicini, e all’ordine del comandante si alzò il se-
gnale, la pianura fu prontamente invasa da un suono greve e da uno strepi-

51. A. Invernizzi, Arsacid Dynastic Art, in « Parthica », a. iii 2001, pp. 133-57, alle pp. 152 sg.

43
introduzione

to agghiacciante. I Parti non si incitano alla battaglia con corni e trombe, ma


hanno certi tambuti di pelle, vuoti internamente e con campanelli di bron-
zo appesi intorno, che fanno crepitare contemporaneamente da molti pun-
ti. Ne deriva un suono cupo e spaventoso, un urlo di belva, fuso allo scop-
pio di un tuono. Hanno ben capito che di tutti i sensi l’udito è piú sconvol-
gente per l’animo; ne suscita piú di ogni altra cosa il discernimento » (Vita di
Crasso, xxiii 8-9).
I Romani ritenevano che fosse soprattutto la vista, e non l’udito, a influi-
re psicologicamente sulle conseguenze di uno scontro (Tacito, Germania,
xliii 6). A Carre prevalsero invece i tamburi di guerra dei Parti, che Tro-
go/Giustino considera come uno degli elementi distintivi del loro modo di
combattere (xli 2 8). Non disponiamo di resoconti orientali della battaglia,
ma il poema Wı6s u6 Ramini, scritto nell’XI secolo, sulla base di tradizioni par-
tiche, descrive con efficacia l’atmosfera e soprattutto il fragore di un com-
battimento:
Quando si levò da oriente il re delle stelle,
Re cui la luna è vizir, e il cielo trono,
Dai due accampamenti tuonarono i due tamburi dell’odio,
E davanti ai due re vennero i due eserciti a guerra.
Ma non eran tamburi di guerra: essi erano i demoni dell’odio,
Il cui fracasso chiunque udisse si riempiva d’odio.
Il flauto urlante si fece pari alla Tromba [del Giudizio],
Il timpano i morti rendeva vivi.
[...]
Il fronte dei catafratti si stendeva sulla piana
Come un monte in mezzo alle onde del mare,
E tra le onde gli eroi come coccodrilli,
Sul monte i cavalieri come leopardi.
Quegli uomini che altrove erano saggi,
Divenivano pazzi sulla piana di guerra.
[...]
Per gli stendardi, la piana era divenuta un bosco di cipressi,
E luccicante la luna per il broccato degli stendardi,
Sulla cima di ciascuno un uccello d’oro,
Aquila o falco, pavone o simorgh.
Sotto il falco un leone dai bei colori,
Avresti detto che il falco tiene il leone tra gli artigli.
[...]
Quando i due eserciti si fecero l’un l’altro vicini,

44
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.

Si lanciarono l’un contro l’altro all’assalto gli eroi,


E avresti detto che improvvisamente due monti d’acciaio
Si erano scontrati l’un l’altro in quella piana.52

I due autori fondamentali, Plutarco e Cassio Dione, non concordano sull’e-


sposizione delle ostilità, se non su un punto chiave: la fanteria romana non
poté dar luogo a un combattimento ravvicinato, a causa dell’incessante piog-
gia di frecce a cui la esposero i cavalieri parti. Come è stato osservato in un
altro contesto (la battaglia di Azincourt del 1415), « la pioggia di frecce com-
porta anche un impatto psicologico, se non altro a causa del suono, una sor-
ta di cacofonia che rimbombava sulle corazze e sulle teste ».53
I Romani erano in un certo senso affascinati dagli archi partici, ed è inte-
ressante vedere come questa fissazione li distogliesse dalla considerazione
dell’aspetto principale della tattica del nemico, l’uso combinato di forze di
cavalleria leggera e pesante. Questa manovra sembra aver perfezionato delle
forme di combattimento già attestate in Asia centrale, in particolare il ricor-
so alla pioggia di frecce, impiegato dai nomadi contro l’esercito cinese all’ini-
zio del I a.C. (Ban Gu, Han-Shu, liv 12a). Giovanni Brizzi ha osservato che,
« almeno in origine, erano i caroselli degli arcieri che, simili a cani da pasto-
re, costringevano il nemico ad ammassarsi in ricerca istintiva di un riparo e
favorivano cosí l’attacco irresistibile e micidiale dei cavalieri corazzati ».54 Era
la tecnica già utilizzata dagli Sciti contro l’imperatore persiano Dario, e ri-
proposta nel Medioevo dai Turchi Selgiuchidi e dalle orde mongole.
I Parti pensarono di sfondare le linee romane con i catafratti, ma si accor-
sero presto della struttura delle legioni, e allora mandarono contro gli ar-
cieri a cavallo, che applicarono la consueta tattica del movimento avvolgen-
te. I Romani tentarono di attaccare, ma vennero respinti dalle frecce. Publio
Crasso, il figlio del comandante, commise l’errore di inseguire i cavalieri ne-
mici, ma venne accerchiato e ucciso. Alla fine della giornata, i Parti lanciaro-
no finalmente la cavalleria pesante contro i fanti romani. L’attacco fu deva-
stante, contro dei legionari esausti, al comando di un Crasso sconvolto dalla

52. Wı6s u6 Ramini, a cura di M.A. Todua, A.A. Gwakharia, Tehran, Iranian Culture Founda-
tion, 1970, pp. 66 sgg. La traduzione è di Mario Casari, che ringrazio.
53. J. Keegan, Anatomie de la bataille, Paris, Laffont, 1993 (ed. or. London, Cape, 1976), p. 64.
54. Vd. G. Brizzi, Note sulla battaglia di Carre, in Id., Studi militari romani, Bologna, Pàtron, 1983,
pp. 9-30; Id., Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico, Bologna, Il Mulino, 2002,
pp. 156-65.

45
introduzione

perdita del figlio, che commise l’errore di dispiegare lo schieramento per


reagire ai catafratti, con risultati disastrosi.
Plutarco ha messo in evidenza le fasi principali della battaglia, ma per ra-
gioni di eleganza letteraria ha evitato un resoconto dell’ultima fase dello scon-
tro, che avrebbe appesantito la narrazione. Ma è evidente che, una volta at-
testate le posizioni dei contendenti, il seguito fu essenzialmente una batta-
glia di logoramento; a Roma si riteneva che i Parti, come in genere i “barba-
ri”, fossero incapaci di reggere un combattimento prolungato (Trogo/Giusti-
no, xli 2 8), ma si trattava evidentemente di un pregiudizio. Le legioni ro-
mane erano ben addestrate e ben armate, e sarebbe stato impossibile travol-
gerne lo schieramento. La battaglia fu decisa dall’intelligenza tattica di Sure-
na. Anziché attaccare subito la legione con i catafratti, il comandante dell’e-
sercito partico decise di continuare a stancare il nemico con gli arcieri legge-
ri, e di ordinare la carica dei catafratti solo al momento opportuno. Le con-
dizioni meteorologiche favorirono l’attacco degli arcieri: come ricorda Pli-
nio, il punto debole dell’arco erano le giornate di vento e pioggia, che co-
stringevano i Parti a restare in pace (Storia naturale, xvi 159).
Il seguito è storia nota. Col passare del tempo, i Romani finirono per attri-
buire al solo Crasso la sconfitta di Carre. In realtà la sua ambizione era esage-
rata, ma non assurda. Il comandante conosceva bene la storia (Plutarco, Vita
di Crasso, iii 6). Il suo maestro si chiamava Alessandro, ed era probabilmente
quello stesso Alessandro detto « il Poliistore », giunto a Roma nell’82, e noto
per la sua erudizione in svariati campi. Crasso avrebbe appreso la storia e la fi-
losofia da Alessandro, che lo accompagnava regolarmente nelle sue missioni
(ivi, iii 7). È quindi probabile che lo avesse seguito in Siria e in Mesopotamia,
con l’incarico di narrare le sue gesta. In effetti, i frammenti del Poliistore
comprendono anche varie indicazioni di ordine geografico, nonché alcuni ri-
mandi a trattati di carattere storico-antiquario sui Caldei, gli Assiri e gli Ebrei.
Il comandante non sottovalutava il nemico, come si volle far credere in segui-
to. Egli sperava di ottenere il favore delle comunità alleate, approfittando dei
contrasti interni alla corte partica (Cassio Dione, xl 12 1). Ma aveva sottovalu-
tato le capacità di ripresa dell’impero iranico. Come è stato acutamente osser-
vato: « Crasso non viene massacrato per aver fatto un salto nel buio, ma per non
aver saputo rischiarare in modo sufficientemente adeguato questo buio, cioè
per non aver saputo utilizzare in modo adeguato le informazioni acquisite ».55

55. Loreto, Per la storia militare, cit., p. 110 n. 1; piú avanti, p. 117 n. 23, considera le informazio-

46
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.

Un’idea diffusa tra i moderni storici dell’antichità è che, dopo Carre, il


modo di combattere dei Romani sia cambiato. Di certo, i Romani si dotaro-
no di armi piú efficaci, migliorando la qualità delle corazze e rendendo piú
pesanti i giavellotti, per il combattimento contro cavalieri catafratti. E i gene-
rali appresero una grande lezione di tattica, che misero in pratica non solo
per difendersi dai Parti, ma anche per imitarla. Probabilmente, nel 48 a.C.
Cesare vinse Pompeo a Farsàlo replicando proprio la tattica di Surena. D’al-
tronde, anche i Parti sembrano aver acquisito nuove tecniche. A partire dal I
sec. d.C., i cavalieri iranici vengono rappresentati con una sella “cornuta” per
cui si trovano confronti nella Gallia romanizzata.56 Forse, la forma dei corre-
di dei cavalli di Publio Crasso aveva ispirato i nemici a modificare parte del
loro equipaggiamento in favore di una sella piú stabile, sostituendo la sem-
plice gualdrappa della tradizione orientale.
Con una delle sue brillanti intuizioni, Theodor Mommsen ha commenta-
to la tattica dei Parti a Carre: « L’irresistibile superiorità della fanteria romana
nel combattimento ravvicinato sembra aver portato i nemici di Roma a op-
porre un combattimento a distanza con la cavalleria. Essi lo fecero indipen-
dentemente l’uno dall’altro, ma nello stesso momento, in varie parti del mon-
do, e con analoghi successi. Cassivellauno vi era riuscito pienamente in Bri-
tannia, e Vercingetorige parzialmente in Gallia, mentre Mitridate aveva già
tentato di farlo in certa misura. Anche il visir (sic) di Orode portò questo
piano a esecuzione, ma in scala piú ampia e completa ».57 Secondo Momm-
sen, lo scontro presentava un modo di combattere inedito, almeno per il
mondo classico: sulla pianura di Carre sarebbero venuti a conflitto due eser-
citi del tutto diversi per armamento e formazione.
Ma, in realtà, Carre era stato un episodio isolato. Dopo la riforma di Ma-
rio, l’esercito tardorepubblicano non aveva conosciuto particolari sconfitte,
se non quando il nemico era numericamente superiore. E, soprattutto, l’e-
quilibrio fra le due potenze non era sostanzialmente cambiato.58 Inoltre, a

ni di Crasso sufficienti, ed essenzialmente analoghe a quelle di cui disponevano gli Inglesi in


India nel XVIII secolo.
56. G. Herrmann, Parthian and Sasanian Saddlery. New Light from the Roman West, in Archaeologia
Iranica et Orientalis. Miscellanea in honorem Louis Vanden Berghe, a cura di L. De Meyer, E. Hae-
rinck, Leuven/Gent, Peeters, 1989, pp. 757-809.
57. T. Mommsen, Römische Geschichte. iii, Von Sullas Tod bis zur Schlacht von Thapsus, Berlin,
Weidmann, 19049, p. 345.
58. K. Schippmann, Grundzüge der parthischen Geschichte, Darmstadt, Wissenschaftliche Buch-
gesellschaft, 1980, p. 40.

47
introduzione

partire da questo momento, i Parti ingaggiarono raramente grandi scontri


campali. In definitiva, nonostante l’esito della vittoria, i Parti non avrebbero
cercato di ripetere la medesima tattica. Quanto ai Romani, essi continuaro-
no a servirsi delle stesse tecniche militari, ricorrendo a tempo e a luogo alla
cavalleria ausiliaria, come del resto avevano sempre fatto. Tuttavia, col passa-
re del tempo, gli imperatori sembravano aver assimilato nuovi modelli per la
loro immagine di guerriero, come Domiziano, che volle apparire un arciere
provetto (Svetonio, Vita di Domiziano, 19).

48
INTRODUZIONE

I M PERIUM, ROMANIZZAZIONE, ESPANSIONE


di GIUSTO TRAINA

1. Prologo. La mano di Cicerone


S econdo la corrente periodizzazione, il passaggio dalla “repubblica” all’ “im-
pero” avvenne nel gennaio del 27 a.C. Fu allora che Gaio Giulio Cesare figlio
(egli non amava farsi chiamare Ottaviano, e avrebbe apprezzato ben poco l’u-
so corrente del nome negli odierni manuali)1 prese il cognomen di Augusto. La
propaganda da lui ispirata teneva a presentare il suo governo come la restaura-
zione delle tradizioni repubblicane dopo le derive delle guerre civili, ma di fat-
to, se tecnicamente le istituzioni romane venivano solo ritoccate, si trattava di
una Wende autoritaria, che mirava alla monarchia: una “rivoluzione”, secondo
la celebre definizione di R. Syme.2 Ma il tramonto delle istituzioni repubbli-
cane era iniziato ben prima, e si potrebbero proporre varie date alternative, piú
o meno simboliche. Una di esse potrebbe essere la morte di Cicerone, ucciso
dai sicari dei triumviri il 7 dicembre 43. Nemmeno otto mesi prima, in occa-
sione del Natale di Roma, Cicerone aveva scritto l’ultima delle sue Filippiche (il
nome, forse originario, alludeva ovviamente a Demostene) contro Antonio.
Piú tardi si disse che la condanna di Cicerone era stata determinata dalla sua
opera « divina e di fama cospicua » (Giovenale, x 114 sgg.). Secondo il sangui-
noso rituale già messo in atto ai tempi delle proscrizioni sillane, la testa moz-
zata del grande uomo politico fu prelevata per documentare l’avvenuta esecu-
zione. Il macabro trofeo venne esposto sui Rostra, la tribuna degli oratori nel
Foro: anni prima, ai tempi della guerra tra Mario e Silla, aveva avuto la stessa
sorte la testa di un altro grande oratore, il nonno di Marco Antonio.
Ma per Cicerone era stato applicato un diverso codice simbolico: oltre alla
testa era stata recisa, ed esposta sulla tribuna, anche la mano destra. Un fram-

1. C. Rubincam, The Nomenclature of Julius Caesar and the Later Augustus in the Triumviral Period, in
« Historia », a. lxi 1992, pp. 88-103.
2. The Roman Revolution apparve nell’estate del 1939, pubblicato a Oxford, Clarendon Press
(trad. it. La rivoluzione romana, Torino, Einaudi, 1962): sulle ripercussioni dell’opera e sulla figura di
Syme vd. G.W. Bowersock, The Emperor of Roman History, in « New York Review of Books », a.
xxvii 1980.

13
introduzione

mento di Livio parla addirittura di entrambe le mani: dopo la decapitazione,


« non fu abbastanza per la stolida crudeltà dei soldati: recisero anche le mani,
per punire il fatto che avesse scritto contro Antonio. Cosí il capo fu portato ad
Antonio e, per suo ordine, posto sui Rostri tra le due mani: proprio nel luogo
in cui egli aveva fatto sentire la sua voce da console e spesso come ex console.
Proprio in quel luogo aveva parlato in quello stesso anno contro Antonio, e la
sua eloquenza era stata tanto degna di ammirazione quanto mai era accaduto a
voce umana. La gente, per le lacrime, a fatica alzava gli occhi e cosí poteva ve-
dere le sue membra mozzate » (Livio, cxx, fr. 50 ed. Weissenborn = Seneca il
Vecchio, Suasorie, vi 17).
Il brano di Livio, di grandissimo effetto, rientra in una vulgata sulla fine di Ci-
cerone che conobbe una notevole fortuna letteraria: il rapporto tra gli scritti
contro Antonio e la fine dell’oratore fu ripreso con insistenza in numerose de-
clamazioni a sfondo storico, della quali si ha notizia dalla citata raccolta di Sene-
ca il Vecchio (Suasorie, 6 e 7). Ma le cruente circostanze della morte interessaro-
no biografi e storici, anche di origine greca: oltre a Plutarco (Vita di Cicerone, 47-
48; Vita di Antonio, xx 3), la vicenda è narrata ad esempio, con abbondanza di
particolari macabri, dallo storico Appiano (Guerre civili, iv 20). Tra le differenti
narrazioni, alcuni particolari divergono, come quello relativo alle mani: proba-
bilmente, è piú prudente attenersi alla versione di Cassio Dione, autore piú tar-
do ma molto ben documentato, secondo cui Antonio « ordinò che la testa fosse
esposta sui Rostri, in modo piú palese delle altre, perché i cittadini la potessero
vedere, insieme alla mano destra cosí com’era stata tagliata, su quella stessa tri-
buna da dove lo avevano sentito parlare contro di lui » (lxvii 8 3). Il dato contra-
sta quindi con la tradizione di Livio/Seneca retore: esso conferma l’esposizio-
ne della testa di Cicerone sui Rostri, aggiungendo il particolare della speciale
modalità con cui essa fu esposta, ma nega la suggestiva immagine delle due ma-
ni, in mezzo alle quali appunto la testa recisa sarebbe stata sistemata. Come Ap-
piano, anche Cassio Dione si limita a indicare la sola destra, e ne giustifica il ta-
glio con una ragione differente: la mano era incriminata non perché Cicerone
l’avesse adoperata per redigere le Filippiche (del resto, questo lavoro manuale era
affidato ai segretari) bensí come simbolo della sua gestualità oratoria. In ogni
caso allora si disse, e si ama ripetere ancor oggi, che la mutilazione supplemen-
tare voleva essere un’allusione all’attività oratoria dell’autore delle Filippiche.3

3. S. Butler, The Hand of Cicero, London-New York, Routledge, 2002; E. Narducci, Cicerone. La
parola e la politica, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 3 sgg.

14
imperium, romanizzazione, espansione

In realtà, queste ragioni “letterarie” rappresentano una lectio facilior, e non


corrispondevano alla vera ragione di un oltraggio apparentemente gratuito.
Con quell’argomento gli autori antichi cercarono di giustificare un’operazio-
ne come il taglio della mano, che era una punizione solitamente inflitta ai mi-
litari traditori o ladri, ma insolita per un cadavere: e dimenticavano che dieci
anni prima, dopo la sconfitta di Carre, i Parti avevano inflitto lo stesso tratta-
mento al cadavere di Crasso (Plutarco, Vita di Crasso, xxxii 1). Si trattava in ef-
fetti di un’usanza orientale, già documentata nell’Egitto del secondo millen-
nio. La mano destra era un simbolo di potere: nella tradizione indoeuropea, il
re era tenuto a mantenersi integro nel corpo, e il suo potere era legittimato dal-
la mano destra.4 È probabile che la mutilazione alludesse a questo: non a caso,
il medesimo trattamento era stato inferto a Ciro il giovane (Senofonte, Anaba-
si, i 10 1). In definitiva, l’uso non romano di considerare la testa e la mano come
spoglie simboliche faceva parte del bagaglio di particolari esotici che carat-
terizzavano lo stile di Antonio, ben prima del suo prolungato soggiorno in
Oriente.5
È difficile stabilire quanto vi sia di verosimile sulle efferatezze compiute sul-
le spoglie dei nemici da Antonio, e da sua moglie Fulvia. Ma non è improbabi-
le la tradizione secondo cui Antonio si fece portare la testa del proscritto, men-
tre sedeva regalmente a banchetto (Appiano, Guerre civili, iv 20): del resto, Gaio
Mario aveva fatto lo stesso con la testa di suo nonno. Se la tradizione di Appia-
no è vera, allora dopo l’esposizione sui Rostra la testa di Cicerone costituí per
qualche tempo un elemento dei banchetti del triumviro: anche un accenno di
Plutarco sembra confermarlo (Vita di Antonio, xx 4). Si può quindi riscontrare
una certa analogia con la sorte della testa di Crasso dopo Carre, portata a Oro-
de mentre stava seduto a banchetto, e quindi utilizzata per una macabra rivisi-
tazione di un episodio delle Baccanti di Euripide.6
La sorte della mano di Cicerone si rivela un elemento importante per defi-
nire il mutamento in atto. Ai tempi eroici dell’affermazione di Roma nel Me-

4. B. Lincoln, Death, War and Sacrifice. Studies in Ideology and Practice, Chicago-London, Univ. of
Chicago Press, 1991, pp. 248 sgg., con bibliografia.
5. Sulla presunta flagellazione di senatori nel corso di un banchetto nel 44 a.C. (rivisitazione dei
banchetti regali partici?) vd. G. Traina, Notes classico-orientales 4-5, in Electrum, x, a cura di E.
D“browa, Kraków, Jagiellonian Univ. Press, 2005, pp. 89-93.
6. G. Traina, Plutarque et le théâtre grec dans l’Arménie ancienne, in Between Paris and Fresno. Armenian
Studies in Honour of Dickran Kouymjian, a cura di B. Der Mugrdechian, Costa Mesa, Mazda Pu-
blishers, 2008, pp. 311-19.

15
introduzione

diterraneo, non tutti i Romani potevano dirsi realmente “esperti” del mondo
esterno, e molti di essi continuavano a ignorare, magari per scelta ideologica,
anche la cultura dei Greci. Ma il mondo era cambiato, e almeno il bilinguismo
greco-latino si era affermato come condizione necessaria per i dirigenti della
massima potenza mondiale. A partire dalla stagione della tarda repubblica
(che Claudia Moatti ha definito felicemente l’epoca della « ragione di Ro-
ma »), gran parte dell’aristocrazia romana riceveva un’educazione bilingue.
Anche se non diffusa universalmente, la conoscenza del greco segnava la su-
periorità della classe dirigente repubblicana (Cicerone, I limiti del bene e del ma-
le, i 3 8).7 A differenza degli Elleni, che tendevano a non comprendere la lingua
degli altri (quello che Arnaldo Momigliano individuava come l’« errore dei
Greci »),8 i Romani, come del resto anche i Parti, si servivano del greco per i lo-
ro intenti “imperialistici”. Se la lingua ufficiale del diritto e dell’amministra-
zione rimase il latino, il greco era impiegato correntemente in ampi settori
dell’educazione e della cultura, dalla filosofia all’architettura.
Insomma, anche se non tutti ricorrevano all’esotismo come Marco Anto-
nio, di certo la dimensione culturale romana aveva conosciuto un’espansione
senza precedenti. Certo, non tutti coglievano il macabro codice utilizzato, do-
ve la testa di Cicerone inchiodata ai Rostra era un trofeo di guerra (o, meglio, di
caccia), e la mano il simbolo del potere usurpato. Curiosamente, proprio nel-
l’autunno 44, mentre preparava la sua riscossa contro Antonio, Cicerone scri-
veva I doveri, un trattato di ispirazione stoica dove fra l’altro esponeva la sua
dottrina del bellum iustum (che, all’epoca, con buona pace di Carl Schmitt, non
aveva ancora assunto l’accezione moderna di “guerra giusta”: vd. I doveri, i 11):9
nell’opera Cicerone giustificava la violenza e l’aggressività contro i nemici non
romani, invitando alla concordia interna e alla clemenza verso chi non si era
macchiato di atti malvagi. Ma gli elementi di orientalismo non sarebbero sfug-
giti a Cicerone stesso, attento lettore di Senofonte (vd. Lettere agli amici, ix 25 1),

7. C. Moatti, La raison de Rome. Naissance de l’esprit critique à la fin de la République, Paris, Seuil, 1997.
Vd. C. Ciancaglini-S. Kaczko, Greco e Latino, lingue dell’Ellenismo, in Storia d’Europa e del Mediterra-
neo, v. La ‘res publica’ e il Mediterraneo, a cura di G. Traina, Roma, Salerno Editrice, 2008, pp. 655-96.
8. A. Momigliano, Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture, Torino, Einaudi, 1975 (ed. or.
Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1975), pp. 157 sgg.
9. Prima della riformulazione del concetto da parte di Agostino di Ippona, il bellum iustum è la
guerra legittima in quanto (posta in essere in modo) conforme all’ordinamento vigente (ovvero
interno a Roma) in materia di guerra. A tale ordinamento Cicerone fa espressamente e precisa-
mente riferimento, richiamando come parte per il tutto il complesso normativo del ius fetiale che
richiede l’adempimento della procedura indicata per l’introduzione di uno stato di guerra.

16
imperium, romanizzazione, espansione

o ai suoi amici piú colti. Di fatto, al finire del I secolo a.C., il potere dei Roma-
ni non poteva piú interpretarsi come l’anomala ascesa di una città, bensí anda-
va inserito nella tradizione ellenistica, ormai assimilata anche dagli autori lati-
ni, della translatio imperii dove Roma veniva dopo i Persiani e i Macedoni, sen-
za peraltro negare la presenza dell’altro grande impero iranico.10 Dunque, con
Cicerone non era morta soltanto la libertà: l’intero sistema repubblicano era
sottoposto a un mutamento radicale. Roma era ormai « terrarum caput » (Pli-
nio, Storia naturale, iii 8), e come tale destinata dalla profezia virgiliana a « rege-
re imperio populos » (Eneide, vi 851).

2. Le contraddizioni di un impero multietnico


Beninteso, l’esotismo non ebbe mai il sopravvento sull’identità romana, ma
nel corso dei decenni i segni della sua presenza si intensificano. Nel 65 d.C., un
secolo dopo la morte di Cicerone, a Roma venne sepolta la moglie di Nerone,
Poppea Sabina, e le sue spoglie furono poste nel tumulus Iuliorum, con ogni pro-
babilità il Mausoleo di Augusto (Tacito, Annali, xvi 6 2). Poppea fu sepolta co-
me si addiceva a un’imperatrice, onori divini compresi. Il fatto suscitò certa-
mente scandalo presso i senatori piú conservatori: un difensore della libertà
come Trasea Peto, ad esempio, non si presentò alla cerimonia. Trasea era da
tempo persona non grata, e fin dal 62 non si presentava alle riunioni del sena-
to: ma cosa spinse il senatore a un simile gesto, che accelerò la decisione impe-
riale di eliminare il capofila dell’opposizione? Di sicuro il rifiuto di onorare
Poppea come una divinità, ma probabilmente anche il rito particolare della
sua sepoltura: contrariamente alla tradizione romana, Poppea fu imbalsamata
anziché cremata. A Roma l’imbalsamazione era una pratica ancora insolita,
ma doveva allora rientrare nel quadro di un’egittofilia già da tempo sperimen-
tata, e mai del tutto tramontata.11 Ma altro era farsi deporre imbalsamato in un
comune sepolcro, altro era farsi seppellire « come sogliono fare i re stranieri »
accanto alle ceneri dei altri Giulio-Claudi, tutti cremati more Romano. Non si sa

10. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, Bari, Laterza, 1966, vol. ii/1 pp. 489 sgg.
11. Risale al II secolo la mummia della bambina rivenuta a Grottarossa, nella periferia romana:
vd. A. Ascenzi et al., The Roman Mummy of Grottarossa, in Human Mummies. A Global Survey of their
Status and the Techniques of Conservation, a cura di K. Spindler et al., Wien, Springer, 1996, pp. 209-
17. Per un analogo ritrovamento del II secolo presso Salonicco, vd. C. Papageorgopoulou et al.,
Indications of Embalming in Roman Greece by physical, chemical and histological Analysis, in « Journal of
Archaeological Science », a. xxxvi 2009, pp. 35-42.

17
introduzione

se Nerone volesse qui operare un’ennesima provocazione: il filtro ideologico


di Tacito, storico dalla parte dei senatori, non permette di verificarlo. Ma l’at-
teggiamento dell’imperatore sembra proprio di una tendenza culturale “o-
rientalizzante” della corte, secondo una linea che discendeva proprio da Mar-
co Antonio, e che era stata proseguita da Germanico e da suo figlio, l’impera-
tore Caligola. E comunque, per quanto multietnico e, entri certi limiti, multi-
culturale, l’impero restò sempre un impero “greco-romano”:12 non a caso, an-
che quando venivano deportati dai territori barbari, gli schiavi prendevano per
la maggior parte con un nome latino o molto spesso greco, una moda e forse
anche un modo di esorcizzare l’ansia esercitata dalla presenza di popoli stra-
nieri (nationes) nell’ambito delle familiae degli schiavi (vd. Tacito, Annali, xiv
44).13
Come è noto, tra i cardini dell’identità romana vi è l’importanza giuridica
della famiglia, e dell’influenza che questa esercitava, come tanti altri aspetti del
privato, nella vita pubblica.14 Tra le proibizioni definite dal diritto romano,
una delle piú interessanti è quella di sposare i consanguinei: in effetti, è dai
Romani, tramite il Medioevo cristiano, che la modernità ha ereditato il con-
cetto di « incesto ».15 Ora, presso molti popoli mediterranei vigeva la pratica
del close-kin marriage: uno studio di Keith Hopkins mostra chiaramente come
ad esempio in Egitto, per tutto il periodo del principato, si continuasse la pra-
tica tradizionale delle nozze tra fratello e sorella.16 Lo studio di Hopkins si fer-
ma all’epoca della constitutio Antoniniana, e sarebbe ragionevole pensare che il
passaggio alla cittadinanza romana avesse necessariamente obbligato gli Egi-
ziani a sottostare alle nuove disposizioni. Ora, in realtà, la repressione sembra
avere toccato in modo molto marginale ampie fasce della popolazione. Ed è

12. P. Veyne, L’impero greco-romano, Milano, Rizzoli, 2007 (ed. or. Paris, Seuil, 2005), su cui vd. P.
Le Roux, L’Empire gréco-romain de Paul Veyne ou le retour à l’histoire des civilisations, in « Revue histori-
que », vol. cccx 2008, pp. 85-97.
13. D’altra parte, solo i liberi facevano parte del populus Romanus. Nelle società antiche, lo schia-
vo rappresenta una categoria particolare di straniero.
14. Vd. il saggio di F. Lamberti, in questo volume, pp. 00000.
15. P. Moreau, Incestus et prohibitae nuptiae. L’inceste à Rome, Paris, Les Belles Lettres, 2002.
16. K. Hopkins, Brother-Sister Marriage in Roman Egypt, in « Comparative Studies in Society and
History », a. xxii 1980, pp. 303-54 (che la ritiene erroneamente una pratica diffusa a livello popola-
re solo in Egitto). Per l’Età ellenistica vd. S.L. Ager, The Power of Excess: Royal Incest and the Ptolemaic
Dynasty, in « Anthropologica », a. xlviii 2006, pp. 165-86, e la successiva discussione con M.J. Fi-
scher, ivi, a. xlix 2007, pp. 295-310. Per l’Età romana vd. ora S. Remijsen-W. Clarysse, Incest or
Adoption? Brother-Sister Marriage in Roman Egypt Revisited, in « Journal of Roman Studies », a. xcviii
2008, pp. 53-61.

18
imperium, romanizzazione, espansione

interessante vedere la distanza tra i testi giuridici e gli autori letterari: ai seve-
rissimi attacchi dei legislatori contro le pratiche incestuose, che indicano im-
plicitamente la loro diffusione, non corrisponde un’uguale riprovazione nella
morale comune diffusa dai letterati. Di fatto, la piú forte opposizione contro
questa pratica verrà essenzialmente dai Cristiani. E del resto, basterà pensare a
certi close-kin marriages celebrati nell’ambito della famiglia imperiale romana
(per esempio tra Claudio e la nipote Agrippina: Tacito, Annali, xii 5-6) per ca-
pire come la situazione fosse particolarmente contraddittoria.
Se vi era una particolare preoccupazione per i barbari incestuosi, i Romani
la esternavano essenzialmente nei confronti dei Persiani. Poco prima delle
spedizioni di Gabinio e Crasso contro i Parti, il poeta Catullo evocò la « sacri-
lega superstizione dei Persiani », che permetteva dei rapporti incestuosi alme-
no ai « Magi », la casta sacerdotale zoroastriana (Catullo, 90). In effetti questa
pratica, detta xva6etadaua in avestico e xwe6do6dah in medio-persiano, è ben nota,
almeno presso gli specialisti.17 Anche i Persiani si sposavano tra fratello e sorel-
la. Gli autori classici piú antichi si limitano a ricordare gli esempi della famiglia
reale, ma, almeno a partire da un certo periodo, matrimoni del genere sono
piuttosto diffusi e in qualche modo “benedetti” dalle prescrizioni della lettera-
tura religiosa pahlavi.18 Come si è visto, l’« incesto » era perpetrato in varie al-
tre regioni, e non legato necessariamente ai precetti dei Magi. Ma gli autori
classici e cristiani finiranno per imputarne ai soli Persiani la diffusione. In un
mondo che stava per aprirsi al Cristianesimo, il tópos classico contro l’incesto
dei Persiani acquisiva caratteri giuridici e religiosi. Verso la metà del III secolo,
il problema era stato già evocato da un Siro di Edessa, lo Pseudo-Bardesane,
nel Libro delle leggi e dei paesi: i Persiani e i Magi, osserva questo autore di fron-
tiera, non si limitavano a sposare le figlie e le sorelle all’interno della loro “re-
gione climatica”, ma praticavano la legge dei loro padri e conservavano le pra-
tiche religiose (Catullo, 40). Viceversa, i cristiani residenti nell’impero sasani-
de non si darebbero dati a queste pratiche disdicevoli (ivi, 46).

17. Tra i lavori piú recenti vd. M.O. García, “Xwe6do6dah”: el matrimonio consanguíneo en la Persia Sá-
sanida. Una comparación entre fuentes pahlavíes y greco-latinas, in « Revista de la Antigüedad », a. iv 2001,
pp. 181-97; A. Panaino, The Zoroastrian incestuous Unions in Christian Sources and canonical Laws: their
(distorted) Aetiology and some other Problems, in Controverses des Chrétiens dans l’Iran sassanide. Actes du
Colloque, Paris, 27 Septembre 2006, a cura di C. Jullien, Louvain, Peeters, 2008, pp. 69-87.
18. Per una traduzione francese, vd. J. de Menasce, La « Riva6yat d’E6 me6t i ašavahišta6n » (1962), in
Id., Études Iraniennes, Paris, Association pour l’avancement des Études iraniennes, 1985, pp. 125-44,
alle pp. 139 sgg.

19
introduzione

In definitiva, sono i cliché del mondo classico a mettere in scena lo “scontro


di civiltà”. I costumi degli Orientali e degli altri barbari, o anche certe infor-
mazioni, venivano filtrati in base alla paideía classica, con il risultato di un’ap-
parente invisibilità dello straniero e dei suoi sistemi di comunicazione. In real-
tà, all’interno dell’impero romano le varie culture coesistevano. È inutile
quanto pericoloso applicare al mondo antico modelli interpretativi come
quello di Samuel Huntington, che del resto si sono rivelati fallaci anche per
l’Età moderna.19 Tuttavia, le manifestazioni di sciovinismo non mancavano, e
talvolta erano ravvivate dal contesto politico e militare: uno storico notevole
come Benjamin Isaac è arrivato a parlare di « proto-razzismo », e la digressio-
ne di Tacito sui Giudei (Storie, v 2-8) potrebbe essere un buon esempio.20
Anche le biografie di condottieri romani contenute nelle Vite parallele di
Plutarco riportano considerazioni sull’Oriente, in particolare iranico, che non
si limitano a esprimere un generico disprezzo per il barbaro, ma riflettono l’at-
mosfera di ostilità che preparò nella propaganda la campagna orientale di
Traiano. Ma la distanza tra il mondo greco-romano e un “Oriente” sempre
meno lontano trapela pure in pagine marginali, non meno significative. Tra i
personaggi del Satiricon di Petronio vi sono alcuni liberti di origine orientale.
Uno di essi, il ricchissimo Trimalcione, reca un nome di remota ma chiara ra-
dice semitica. Appare dunque notevole il fatto che quest’uomo, desideroso di
mettere in mostra la propria cultura di fronte a degli invitati “colti” ammessi
alla sua tavola, si vanti dicendo: « Ho tre biblioteche: una greca, l’altra latina »
(xlviii 4). I dettagli sulla vita di Trimalcione che si deducono dal testo del ro-
manzo sono spesso realistici, e hanno invitato all’analisi storica;21 ma in questo
caso la battuta che Petronio attribuisce al suo personaggio riflette un punto di
vista (e un umorismo) decisamente greco-romano: la “terza” biblioteca, ov-
viamente, non esisteva, o meglio, se esisteva, risultava negata e rimossa dal bi-
linguismo imperiale.22
Rispetto a questa gerarchia, che conferiva dignità solo alla cultura greco-ro-
mana, poco importa se nell’Asia Minore (e, del resto, anche nell’Italia impe-
riale) sopravvivevano ancora le antiche lingue locali, se nell’Africa del Nord si

19. G. Bowersock, The Roman Empire and the Clash of Civilizations, in « The Berlin Journal », a.
xiv 2007, pp. 6-11.
20. B. Isaac, The Invention of Racism in Classical Antiquity, Princeton, Princeton Univ. Press, 2004.
21. P. Veyne, Vita di Trimalcione, in Id., La società romana, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 3-43.
22. Vd. P. Vidal-Naquet, Il buon uso del tradimento, Roma, Editori Riuniti, 1992 (ed. or. Paris, Mi-
nuit, 1977).

20
imperium, romanizzazione, espansione

utilizzava ancora il punico e si scriveva saltuariamente in berbero, se in Egitto


i sacerdoti mantenevano l’uso dei geroglifici e la popolazione continuava a
esprimersi nell’antica lingua locale, se nel Vicino Oriente si parlava e si comu-
nicava in aramaico. Ed è molto probabile che, nell’immaginazione di Petro-
nio, Trimalcione parlasse come lingua madre l’aramaico. Il liberto piú celebre,
per quanto fittizio, del mondo romano viveva in Campania: poco lontano, in-
torno alla stessa epoca in cui fu scritto il Satiricon, dei visitatori provenienti dal-
l’Arabia (non si sa se mercanti o schiavi) lasciarono la firma su un muro inter-
no dell’anfiteatro di Pompei. Per segnare il loro passaggio, essi utilizzarono la
scrittura nordarabica detta « safaita ». Per un paio di secoli dalla riscoperta di
Pompei, questi singolari graffiti passarono inosservati, e vennero riconosciuti
solo per caso da una specialista di passaggio.23 Qualche tempo dopo, ben tre
graffiti aramaici, in una scrittura corsiva non conosciuta altrove, sono stati
identificati su una delle pareti dipinte della Casa del Criptoportico.24 Non è
escluso che altre iscrizioni del genere, o di altre scritture estranee all’impero
romano, siano ancora in attesa di uno scopritore. In un certo senso, si trattava
della “terza biblioteca” di Trimalcione. Un paio di generazioni piú tardi, nel
Foro di Traiano veniva realizzata la colonna ancor oggi esistente, dove il lungo
fregio a spirale rappresentava le guerre dell’imperatore contro i Daci. La nar-
razione visiva della colonna, con la sconfitta dei barbari e l’affermazione del-
l’optimus princeps, poteva essere ammirata dai due edifici che la affiancavano, la
biblioteca greca e quella latina, che componevano la Bibliotheca Ulpia. Piú che
scontro di civiltà, si trattava di un procedimento di emarginazione e rimozio-
ne della cultura dello straniero, poco importa se discendente di imperi secola-
ri o rappresentante di un “popolo senza storia”.
La rimozione della “terza biblioteca” era una conseguenza della visione
della classe dirigente romana, da sempre preoccupata di un’eccessiva contami-
nazione dei mores tradizionali. Gli stessi provinciali preferivano adeguarsi al
modello: negli anni in cui Apollodoro, un greco di Damasco, allestiva il gran-
de complesso del Foro di Traiano, nasceva in un centro dell’Africa “profonda”,
a Madauros (presso l’odierna M’daourouch, in Algeria), il grande letterato

23. J. Calzini Gysens, Safaitic Graffiti from Pompeii, in « Proceedings of the Seminar for Arabian
Studies », a. xx 1990, pp. 1-7. Secondo alcuni, la scrittura safaita era impiegata prevalentemente da
nomadi e beduini; secondo altri, invece, era questa la vera scrittura degli Arabi Nabatei. Ringrazio
Gianfranco Lacerenza per le sue preziose precisazioni.
24. G. Lacerenza, Graffiti aramaici nella Casa del Criptoportico a Pompei (Regio i, insula vi, 2), in « An-
nali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli », a. lvi 1996, pp. 166-88.

21
introduzione

Apuleio. Questo puro prodotto del processo di “romanizzazione” (si dirà piú
avanti come intendere questo termine), a poco piú di trent’anni poteva vantar-
si di essere uno dei piú grandi letterati latini del suo tempo, nonostante le sue
origini indigene.25 Sottoposto a processo nel 158-159 circa, i suoi avversari gli
rimproverarono di essere « mezzo Numida, mezzo Getúlo » (Apologia, 23).26
Questa espressione è stata spesso considerata come una dichiarazione di orgo-
glio, se non di nazionalismo africano.27 In realtà, Apuleio si difende qui dagli
accusatori che cercavano di mettere in cattiva luce il suo profilo eccezionale
per i tempi e i luoghi: bello, colto, spiritoso, eloquente in greco e latino. Se si
presenta « mezzo Numida, mezzo Getúlo » (l’etnia dei Getúli rientrava in
quella nebulosa di popoli definiti in generali “Mauri”), non lo fa certo per ri-
vendicare una superiorità berbera, ma per esaltare il proprio talento indivi-
duale contro i suoi avversari, provinciali quanto lui ma ignoranti (Apologia, 9,
66 e 98), e meno provvisti di amicizie altolocate. Del resto, sarebbe inutilmen-
te irenico continuare a illudersi che il sistema della cittadinanza romana neu-
tralizzasse il sorgere di sciovinismo e « proto-razzismo »: Benjamin Isaac ha di-
mostrato chiaramente che i valori fondamentali della nostra civiltà sono un’e-
redità dai Greci e dai Romani, e che al tempo stesso essi « ci hanno trasmesso
alcuni dei concetti elementari di discriminazione e ineguaglianza che tuttora
ci accompagnano ».28
Apuleio non era un caso isolato. Prima di lui, dall’Africa romanizzata si era
illustrato a Roma il poeta Floro, vincitore ai Ludi Capitolini, che a quanto pare
aveva scatenato la gelosia di Domiziano (Anonimo, Virgilio fu retore o poeta?, i 3-
4). Dopo di lui, e dopo il regno di provinciali venuti dalle Spagne come Traia-
no e Adriano, il giovane Marco Aurelio e il fratello Lucio Vero avevano avuto
come precettore il retore Frontone, originario di Cirta, l’antica residenza dei
re di Numidia; alla stessa epoca, membro influente del consilium principis di An-

25. Qualcosa di simile al percorso di Luciano di Samosata, dal mondo siriaco alla piú integrale
adesione alla paideía ellenica.
26. Sul processo di Apuleio vd. F. Lamberti, « De magia » als rechtsgeschichtliches Dokument, in Apu-
leius, De Magia, a cura di J. Hammerstaedt e al., Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft,
2002, pp. 331-50. Su Apuleio vd. soprattutto A. La Rocca, Il filosofo e la città. Commento storico ai “Flo-
rida” di Apuleio, Roma, « L’Erma » di Bretschneider, 2005. Vd. sull’Africa anche sotto, al par. 4, e per
il contesto il saggio di A. Ibba, in questo volume, alle pp. 00-00.
27. La presenza di “nazionalismi” locali nell’impero romano è ora sottoposta a revisione. Vd. in
generale A. Cameron, Before the Fall, in « The New York Review of Books », a. xlii fasc. 11, june
1995.
28. Isaac, op. cit., p. 516.

22
imperium, romanizzazione, espansione

tonino Pio fu il giurista Salvio Giuliano. Pochi decenni dopo, con la constitutio
Antoniniana, questo processo di integrazione si sarebbe fortemente accelera-
to.29
D’altra parte, la rimozione della “terza biblioteca” di Trimalcione non era
solo un problema linguistico. Di fatto, il limite principale di molti storici di
Roma va ricercato nella sensibilità ridotta per i fenomeni sotterranei: nei ter-
mini di Michel Foucault, per le « attività discorsive » che non hanno ancora
passato la « soglia di apparizione ».30 Un esempio eclatante è la diffusione del
Cristianesimo, un fenomeno che la diversificazione delle discipline ha, se non
rimosso, in qualche maniera accantonato.31 Nella sua nota critica a due impor-
tanti manuali francesi tuttora di riferimento, Aline Rousselle osservava la par-
ticolarità del cristianesimo che, reclutando adepti da tutte le nazioni, « tentava
di costituirsi come un altro popolo con il proprio diritto. Era un ostacolo asso-
luto all’integrazione dei popoli nell’ordine religioso-civico romano ».32 Que-
sta difficile integrazione sembra ripercuotersi anche nelle moderne trattazio-
ni sull’impero romano: sola eccezione (non menzionata dalla Rousselle) è sta-
ta a lungo L’impero romano di Santo Mazzarino: uno strumento ancora indi-
spensabile, nonostante sia stato scritto quasi mezzo secolo fa.33

3. La romanizzazione del mondo


Ora un passo indietro. Qualche tempo dopo l’esposizione delle “reliquie”
di Cicerone nel Foro e la ristrutturazione augustea dei Rostra, un erudito di al-
to livello descrisse Roma dal suo particolare punto di vista. Si tratta di Strabo-
ne di Amaseia, autore di un’opera storica oggi perduta e di una Geografia ini-
ziata sotto Augusto e terminata sotto Tiberio. Strabone scriveva in greco, ed è
comunemente considerato come un Greco a tutti gli effetti, ma almeno da

29. Vd. il saggio di V. Marotta, in questo volume, alle pp. 00-00.


30. M. Foucault, L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1994 (ed. or. Paris, Gallimard, 1969).
31. Sul difficile approccio degli storici al Cristianesimo vd. il saggio di J.-Y. Perrin, in questo vo-
lume, alle pp. 00-00.
32. A. Rousselle, Histoire ancienne et oubli du christianisme, in « Annales. Economie Societé Civili-
sation », 1992, pp. 355-68, a proposito di J. Le Gall-M. Le Glay, L’Empire romain (31 av. 235 apr. J.-C.),
Paris, Puf, 1987; F. Jacques-J. Scheid, Roma e il suo impero. Istituzioni, economia, religione, Bari-Roma,
Laterza, 1990 (ed. or. Paris, Puf, 1990).
33. Pubblicato per la prima volta come seconda parte del Trattato di storia romana di G. Giannel-
li-S. Mazzarino (Roma, Tumminelli, 1962), va consultato nella seconda edizione: S. Mazzarino,
L’impero romano, Bari-Roma, Laterza, 1973.

23
introduzione

parte di madre discendeva dall’aristocrazia iranica del grande Mitridate: un


suo zio materno aveva il nome ben poco ellenico di Moaferne (xi 2 18; xii 3
33).34 D’altra parte, per gusto e cultura egli si inseriva pienamente nella tradi-
zione ellenistica. Nel v libro, dedicato all’Italia centrale, Strabone descrive Ro-
ma e ne presenta essenzialmente la parte che poteva apparire piú familiare a
un Greco: il Campo Marzio fatto ristrutturare da Vipsanio Agrippa, compa-
gno d’arme e genero di Augusto e principale responsabile della sua politica
edilizia (v 3 8). Anzi, l’esame di questa parte della città occupa gran parte dello
spazio dedicato all’Urbe. Certo, sullo sfondo sta il dibattito sull’urbanistica di-
sordinata di Roma e sugli argomenti per giustificarla: affrontando lo stesso te-
ma, Livio si richiamava addirittura al presunto incendio gallico del 390 (v 55 2),
mentre per parte sua Strabone chiama in causa la superiorità pratica dei Ro-
mani, che preferivano costruire cloache e acquedotti, invece di dare priorità al-
la bellezza degli edifici. Il riconoscimento della preferenza accordata dai Ro-
mani all’utilitas, però, non basta ancora a spiegare le scelte di Strabone nella de-
scrizione di Roma: le proporzioni da lui adottate avrebbero suscitato stupore
in un “vero” Romano. Infatti, dopo essersi soffermato sul Campo Marzio,
Strabone chiude la descrizione dell’Urbe con brevissimi cenni al Foro, al
Campidoglio e al Palatino, i veri « luoghi di memoria » della città. Si può cer-
care un’altra spiegazione: se pure Strabone era probabilmente cittadino roma-
no, le sue origini orientali giustificano almeno in parte il fugace accenno al-
l’Arx capitolina, centro della religione tradizionale e quindi vinculum civitatis.
Ma che dire del Foro, chiamato addirittura la « vecchia agorà»? Qui egli allude
forse implicitamente alla decadenza di quello che fino a poco tempo prima era
stato lo spazio della politica, destinato nello spazio di qualche generazione a
venir soppiantato dai nuovi complessi monumentali dei Fori imperiali.
Al di là di queste omissioni, che danno una certa misura del suo approccio
“esterno”, Strabone era ben consapevole della potenza romana. Nella porticus
Vipsania, il grande portico nel Campo Marzio iniziato dalla sorella di Agrippa
e portato a termine da Augusto, Agrippa aveva fatto rappresentare grafica-
mente l’orbis terrarum, il mondo conosciuto (Plinio, Storia naturale, iii 18).35 Gra-

34. Il suo stesso nome era romano, probabile ricordo della concessione della cittadinanza alla
sua famiglia, forse proprio a opera di Pompeo che dopo la vittoria su Mitridate aveva riorganizza-
to l’Asia Minore. Vd. S. Pothecary, Strabo the Geographer: His Name and Its Meaning, in « Mne-
mosyne », a. lii 1999, pp. 691-704.
35. Vd. C. Nicolet, L’inventario del mondo. Geografia e politica alle origini dell’impero romano, Roma-
Bari, Laterza, 1989 (ed. or. Paris, Fayard, 1988).

24
imperium, romanizzazione, espansione

zie ai rapidi progressi delle esplorazioni, non era piú accettabile situare il Cau-
caso in India, e tanto meno trascurare i territori barbari ma nondimeno abitati
da popolazioni che necessitavano di un controllo.36 E queste nuove conoscen-
ze aprirono nuove prospettive: non a caso, il regno di Nerone fu caratterizza-
to da una politica estera particolarmente attenta alle terrae incognitae, e, in senso
lato, alle realtà straniere. In margine a questo processo è notevole il riscontro di
scelte politiche rispettose delle forme di potere locali. Occorre quindi rivalu-
tare la presenza dell’imperium romano in questi contesti “marginali”, e analiz-
zare con attenzione l’operato di militari ed “esperti” inviati in Oriente, senza
peraltro attribuir loro un’eccessiva autonomia di scelta, improponibile a parti-
re da Augusto.
Nella Geografia, Strabone criticava le descrizioni approssimative e ormai
inadeguate degli autori greci che lo avevano preceduto: ormai, la sola geogra-
fia soddisfacente era legata alla logica di conquista dei Romani, dei Parti, o del-
lo stesso Mitridate (i 2 1), in quanto migliorava la conoscenza « dei luoghi e dei
popoli ». Sconfitte come quella di Carre, o quella piú recente di Teutoburgo (9
d.C.), non potevano che consolidare la ricerca di una nuova logica. E quando
Strabone apre la Geografia vantando l’utilità della disciplina « per gli affari poli-
tici e i fatti d’arme » (Geografia, i 1 1) non lo fa semplicemente per valorizzare la
propria opera. Egli guarda a una geografia che sappia trarre profitto dalle espe-
rienze militari, molto piú di quanto non avesse fatto Alessandro, e che non sot-
tovaluti le risorse di barbari e nomadi, ma che contribuisca altresí al progresso
della scienza. Qualche decennio piú tardi, Plinio (anticipando la celebre di-
chiarazione di Yves Lacoste) dichiarava che le fonti del Nilo erano ignote poi-
ché alla loro ricerca era stata inviata della gente « senz’armi » (Storia naturale, v
51). Sotto Augusto la minaccia dei Parti era stata contenuta, ma nel 9 d.C. Ro-
ma era stata scossa dalla sconfitta di Teutoburgo ad opera di una coalizione di
tribú germaniche guidate da Arminio, il capo dei Cherusci che i Tedeschi, a
partire da Martin Lutero, definiscono « Hermann ».37 Tutto ciò non poteva
che suggerire una riflessione sulle potenzialità dei popoli barbari stanziati ai
confini dell'impero.
Chi leggeva la Geografia di Strabone? Curiosamente, l’onnivoro Plinio il

36. Vd. A. Giardina, Roma e il Caucaso, in Il Caucaso. Cerniera fra culture dal Mediterraneo alla Persia
(secoli IV-XI), Atti delle Settimane di Studio, Spoleto, 20-26 aprile 1995, Spoleto, Cisam, 1996, pp.
85-142.
37. H.W. Benario, Arminius into Hermann: History into Legend, in « Greece & Rome », a. li 2004,
pp. 83-94.

25
introduzione

Vecchio non la annovera tra le sue fonti. Ma forse si tratta di un’omissione elo-
quente: in fondo, la rielaborazione della geografia ellenistica operata da Stra-
bone rappresentava una sorta di replica alle ragioni dell’imperialismo roma-
no.38 Pur senza rifiutare le suggestioni a cavallo fra storia e mitologia, proposte
dalla tradizione greca, la nuova generazione romana cercava un “inventario
del mondo” piú consono alle esigenze dei governatori delle province, incari-
cati della gestione politico-amministrativa del territorio. Si è ritenuto che la
scelta di questi ultimi, sia in tempo di pace che in tempo di guerra, dipendesse
almeno in parte dal loro grado di specializzazione: ciò in particolare per l’O-
riente, dove era necessario affrontare situazioni etniche e culturali piú com-
plesse, e dove appunto sono stati individuati dei veri e propri “esperti”. In ef-
fetti, il prestigio di alcuni generali veniva accresciuto dalla loro esperienza sul
campo, come si può verificare ad esempio nel caso di Domizio Corbulone in
Armenia; ma nulla prova una distinzione, anche solo empirica, della carriera
“occidentale” da quella “orientale”. Fino alle divisioni amministrative del tar-
do impero, a Roma non vi fu una differenziazione delle carriere su base regio-
nale; al contrario, un governatore veniva apprezzato proprio in base alla varie-
tà delle sue esperienze provinciali.39
Lo stesso Plinio, nella sua carriera di cavaliere, aveva militato su vari fronti in
Occidente e successivamente rivestito incarichi provinciali superiori in Gallia,
in Spagna e in Africa.40 Di qui la sua particolare sensibilità per mondi visti co-
me lontani dalla cultura greco-romana dominante, e il suo diverso trattamen-
to delle informazioni. I Greci tendevano a storpiare sistematicamente i topo-
nimi “barbari” (come osservava anche Strabone, xvi 4 27). Introducendo la de-
scrizione geografica del mondo, Plinio si propone invece, almeno entro certi
limiti, di esporre i nuda nomina dei luoghi: « I nomi dei luoghi saranno dati sen-
za aggiunta e con la massima brevità. Per gli aspetti e la ragioni della loro even-
tuale rinomanza rinvio alle sezioni specifiche della mia opera. Vorrei quindi
essere inteso, come se i nomi dei singoli luoghi fossero pronunciati separati
dalla fama che li accompagna, quali erano all’inizio, prima di avere una loro
storia; come se, insomma, avessero sí una propria designazione, ma solo in

38. K. Clarke, Between Geography and History. Hellenistic Constructions of the Roman World, Oxford,
Oxford Univ. Press, 1999, pp. 1-76.
39. C. Badel, La spécialisation régionale des gouverneurs romains: le cas de l’Orient au Haut-Empire (27 av.
J.-C.-235 ap. J.-C.), in « Dialogues d’Histoire Ancienne », a. xxx 2004, pp. 57-99.
40. Vd. il classico studio di R. Syme, Pliny the Procurator (1969), in Id., Roman Papers, ii, a cura di E.
Badian, Oxford, Oxford Univ. Press, 1979, pp. 742-73.

26
imperium, romanizzazione, espansione

quanto parti del mondo e della natura » (Storia naturale, iii 2).41 I libri geografici
della Storia naturale si distinguono per la presenza relativamente massiccia di
toponimi e di etnici esotici, ossia barbari, recuperati da Plinio in base a fonti
eterogenee, in gran parte dai documenti ufficiali dei censimenti: egli si sforza
di presentare anche nomi di difficile pronuncia, come per la Liburnia (iii 139),
quando non addirittura impronunciabili (ineffabilia), come per certe tribú del
Nord Africa (v 1) di cui peraltro registra solo una parte, o come anche per le
città della Baetica, dove si lasciano solo « quelle degne di nota o facili da pro-
nunciare in latino » (iii 7).42 Nonostante la selezione operata, Plinio compie
qui comunque una scelta coraggiosa rispetto alle imposizioni dei modelli let-
terari. Non è quindi errato vedere qui, con Dick Whittaker, una vera e propria
carta mentale che riflette una visione dichiaratamente romana. E quindi, in un
certo senso, la catalogazione di questi nomi impronunciabili costituisce una
forma di romanizzazione.43
Un esempio interessante di questa politica è dato da Gaio Licinio Muciano,
un senatore che fu tre volte console e svolse un ruolo essenziale per l’ascesa al
potere di Vespasiano.44 I suoi Commentarii, che si riferivano alla sua attività di
governatore nelle province orientali, riportavano informazioni geografiche ed
etnografiche, e si soffermavano su curiosità e mirabilia. Plinio il Vecchio, che li
utilizzò per la sua Storia Naturale, li cita piú volte come fonte di questo tipo di
informazioni, apparentemente irrilevanti, ma che si ricollegavano a un’attività
di esplorazione e “inventario” attuata probabilmente anche da altri governato-
ri. Muciano, ad esempio, si preoccupava di situare geograficamente le fonti
dell’Eufrate, per cui valutava una distanza diversa da quella fornita poco prima
da un altro autore di Commentarii, Domizio Corbulone (Muciano, fr. 7 ed. Pe-
ter = Plinio, Storia Naturale, v 83).
Per il governo romano la denominazione dei popoli non era solo una

41. Trad. di G. Ranucci, in Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale, a cura di G.B. Conte, Torino,
Einaudi, 1982.
42. Per un piú ampio esame della questione, vd. G. Traina, La géographie entre érudition et politique:
Pline l’Ancien et les frontières de la connaissance du monde, in La invención de una geografía de la Península Ibé-
rica. Actes du colloque, a cura di G. Cruz Andreotti, P. Le Roux, P. Moret, Madrid, Casa de Ve-
lázquez, 2007, vol. ii pp. 95-114.
43. C.R. Whittaker, Mental Maps and Frontiers. Seeing like a Roman, in Id., Rome and Its Frontiers.
The Dynamics of Empire, London-New York, Routledge, pp. 63-87; S. Carey, Pliny’s Catalogue of
Culture. Art and Empire in Natural History, Oxford, Oxford Univ. Press, 2003, p. 36.
44. G. Traina, Il mondo di C. Licinio Muciano, in « Athenaeum », a. lv 1987, pp. 379-406.

27
introduzione

preoccupazione amministrativa, ma anche una procedura fondamentale per


tener conto delle migrazioni di popolazioni autoctone dei barbari alla frontie-
ra. Di qui un progressivo sviluppo del dibattito sulle Origines gentium, che si ri-
trova a cavallo tra I e II secolo nella Germania tacitiana.45 Il conservatorismo
della cultura romana portava però gli autori latini a servirsi ancora dei metodi
dell’etnografia ellenistica pur in un impero profondamente mutato. Di qui an-
che l’incertezza di Tacito (Agricola, 11) nel definire l’origine dei Britanni: gli
stessi barbari, dice, non spiegano se sono immigrati ovvero autoctoni. Di con-
seguenza, lo storico è portato a considerarli sullo stesso piano degli Iberi e dei
Celti. Viceversa, nella Germania egli mostra come la vocazione terrestre e non
marittima dei Germani, considerati come indigenae, ne determini l’identità di
gens priva di mescolanze (Germania, iv 1). Come osserva Jerzy Kolendo, « che
corrispondano o meno alla realtà storica, i resoconti di migrazione permetto-
no di osservare certe regolarità. Fanno conoscere diverse opinioni sui fattori
all’origine di questi movimenti: relativa sovrappopolazione, minaccia di inva-
sioni, ricerca di migliori territori o conflitti sociali e politici. Ci indicano che le
migrazioni si effettuavano spesso su grandi distanze ».46 Per definire l’identità
dei Germani, Tacito era però obbligato a proporre una parvenza di frontiera
geografica rispetto ad altri popoli quali i Sarmati e i Daci: cosí, appoggiandosi
sull’artificio retorico noto come zeugma, spiega che i Germani sono separati da
questi popoli « dal timore reciproco e dalle montagne » (Germania, 1).
Se la cultura politica cercava gli strumenti per interpretare popoli e luoghi
“altri”, per altra via la nuova generazione di governanti imparava a conoscere,
almeno sulla carta, ideali di tolleranza espressi da alcune tendenze del pensie-
ro greco. Anche la riflessione filosofica insegnava il confronto: il retore Dione
di Prusa poteva ancora lodare Zeus, che nella sua veste di Xénios era ricono-
sciuto come un dio dell’ospitalità: « non bisogna trascurare gli stranieri né con-
siderare come straniero un essere umano » (Dione di Prusa, xii 77). Piú tardi,
nel III secolo, il sofista Menandro di Laodicea distingueva la giustizia da eser-
citare nei confronti degli stranieri di passaggio e quella nei confronti dei citta-
dini stessi: « se i cittadini non commettono torti nei confronti degli stranieri e
non si danneggiano a vicenda, essi vivranno nel modo migliore nelle rispetti-

45. Vd. J. Kolendo, Origines antiques des débats modernes sur l’autochtonie, in Histoire, Espaces et Mar-
ges de l’Antiquité, iv. Hommages à Monique Clavel-Lévêque, a cura di M. Garrido-Hory, A. Gonzalès,
Besançon, Presses Univ. de Franche-Comté, 2005, pp. 25-50, alle pp. 44 sgg.
46. Kolendo, op. cit., p. 38.

28
imperium, romanizzazione, espansione

ve città » (Menandro Retore, i 362-63, pp. 62-63 ed. Russell-Wilson). Non va


dimenticata l’idea diffusa che la civiltà greco-romana garantisse l’ospitalità,
laddove la sua mancanza era considerata uno dei tratti caratteristici delle po-
polazioni barbariche. Naturalmente, l’ospitalità finiva nel momento in cui
una determinata comunità veniva ritenuta pericolosa per l’ordine romano, co-
me mostrano le periodiche cacciate dalla città di Roma di Ebrei (e assimilati),
o anche solo di elementi ritenuti come marginali.47
Insomma, le valutazioni della cultura imperiale sullo straniero sono diver-
se, e non sempre coerenti. Se la diffidenza verso le nuove dimensioni indotte
dall’ecumene imperiali si manifesta in celebri scatti di irritazione, come quel-
lo di Giovenale contro Roma “inquinata” dall’Oriente (iii 60 sgg.), la realtà che
emerge dall’analisi storica mostra continui segni di mescolanza e di trasforma-
zione. Ciò implica la necessità di riflettere su un concetto moderno, spesso
usato per render conto di questo lato del problema: il concetto di “romanizza-
zione”. Recenti studi di area anglofona hanno messo in questione una lettura
univoca del fenomeno: l’idea di una affermazione della cultura romana sulle
culture locali, con un adeguato spazio alle reazioni di sostrato, alle assimilazio-
ni e alle resistenze, è stata criticata. Vi si è letta piuttosto un’esigenza post-
coloniale di superamento del concetto di imperialismo: il temine sarebbe per-
ciò da evitare.48 Gli importanti dibattiti teorici sul problema, però, non sono
ancora del tutto recepiti, e la maggioranza degli studiosi utilizza tuttora il ter-
mine “romanizzazione”: una voce Romanisierung è stata accolta dal Neue Pauly,
ma va detto che in tedesco il termine “Romanisierung” è distinto da quello di
“Romanisation”, che corrisponde al self-Romanization della tradizione anglofo-
na.49 Del resto, basta consultare il Realkatalog del Deutsches Archäologisches
Institut per trovare centinaia di articoli e monografie dedicate alla Romaniza-
tion (o Romanisierung, romanização, ecc.: un termine analogo sembra mancare in

47. Su tutti questi aspetti vd. C. Moatti, Le contrôle des gens de passage à Rome aux trois premiers siècles
de notre ère, in Gens de passage en Méditerranée de l’Antiquité à l’époque moderne, a cura di C. Moatti, W.
Kaiser, Paris, Maisonneuve, 2007, pp. 79-116.
48. Bibliografia nei contributi riuniti sotto il titolo di Sur le concept de ‘romanisation’. Paradigmes hi-
storiographiques et perspectives de recherche, a cura di S. Janniard, G. Traina, in « Mélanges de l’École
Française de Rome-Antiquité », a. cxviii 2006, pp. 71-166.
49. In inglese si utilizza anche Romanity, per definire l’acquisizione ovvero l’interpretazione di
modelli romani da parte delle élites locali: W. Spickermann, s.v. Romanisation, in Der neue Pauly, x
2001, pp. 1121-22, e le acute critiche di G.A. Cecconi, Romanizzazione, identità culturale, politicamente
corretto, in « Mélanges de l’École Française de Rome-Antiquité », a. cxviii 2006, pp. 81-94; vd. anche
P. Le Roux, Regarder vers Rome aujourd’hui, ivi, pp. 159-66.

29
introduzione

greco moderno, senza dubbio per ragioni ideologiche) di una città, un sito ar-
cheologico o un intero territorio. Questa continuità non diminuisce l’impor-
tanza del dibattito: oltre alle suddette revisioni “post-coloniali”, il tema è stato
recentemente lanciato in Francia dalle Annales, con ulteriori messe a punto. In
particolare, come Patrick Le Roux ha acutamente osservato, “romanizzazio-
ne” non significa “romanificazione”.50 Gli equilibri e i meticciati non possono
essere considerati come un unico processo: « non è vero [ . . . ] che il miglior cri-
terio per superare o abbandonare il concetto di romanizzazione, come pure è
necessario, sia riconoscere il multiculturalismo dell’impero romano, nel suo
senso piú immediato. Insieme alla nozione-ombrello di identità si finirebbe
per ricadere in quella di originalità, ammettendo che questa categoria rivesta
un forte valore euristico al di là di quello di strumento classificatorio prelimi-
nare per l’interpretazione storica. Al contrario, non sono sicuro che occorra
reinventare un momento storico nel corso del quale la cultura romana ha gio-
cato un ruolo universale identitario e federatore ». Lo stesso concetto di un
sentimento di appartenenza è messo a dura prova.51
Per comprendere l’importanza della questione, è utile ripensare lo sguardo
che i provinciali e i barbari, quando è possibile conoscerne l’autentica prospet-
tiva, rivolgevano all’impero. Ebbene, non è banale osservare che la superiorità
dei Romani era riconosciuta certamente sul piano tecnico. Una tradizione
medievale buddista, di origine sanscrita piú antica, parlava dell’impero roma-
no (Roma-visaya) come di un paese degli automi che produceva « macchine
veicoli di spiriti », i cui magici segreti erano stati carpiti da un avventuroso in-
diano. Come ha osservato Andrea Giardina, questo sguardo da lontano riusci-
va a capire meglio di tanti autori classici una situazione peculiare dove « l’ele-
mento tecnico e quello umano tendevano a compenetrarsi e gli uomini pote-
vano assumere le sembianze di macchine dotate di spirito ».52 Certo, non sem-
pre le macchine svolgevano un ruolo importante, e a volta il potere imperiale
preferiva impiegare e pagare grandi masse di lavoratori per ottenere consensi
(celebre è l’aneddoto si Vespasiano, che congedò un mechanicus con il suo pro-

50. Vd. i contributi riuniti nel dossier dal titolo Romanisation, in « Annales. Histoire, Sciences So-
ciales », a. lix 2004, pp. 285-383, e specialmente P. Le Roux, La romanisation en question, pp. 287-311;
vd. ora anche Id., Regarder vers Rome, cit.
51. Le Roux, La romanisation, cit., pp. 309 sgg. Vd. Dialogues in Roman Imperialism. Power, Discourse,
and discrepant Experiences in the Roman Empire, a cura di D.J. Mattingly, Portsmouth, Jra, 1997.
52. A. Giardina, Uomini e spazi aperti (1989), in Id., L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta,
Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 193-232, alla p. 194 (con bibliografia).

30
imperium, romanizzazione, espansione

getto per trasportare grandi colonne: Svetonio, Vita del Divo Vespasiano, 18). Ma
l’effetto era ugualmente spettacolare, e lo si riscontra anche “dall’interno” del
mondo romano, come mostra l’eco suscitata negli scrittori antichi da lavori
grandiosi, come quelli intrapresi sotto Claudio per drenare il lago Fucino (Ta-
cito, Annali, xii 56-57), o sotto Nerone per lo scavo, poi interrotto, del canale di
Corinto (Pseudo-Luciano, Nerone, 1-5). Fuori di Roma, la percezione sembra
ulteriormente ingrandita: i dotti del Talmud giungevano a dire che « nella
gran città di Roma vi sono 365 strade, in ognuna delle quali vi sono 365 palazzi,
e ognuno di essi ha 365 piani, di cui ognuno contiene di che nutrire l’intero
universo » (Talmud, trattato Pesach, 118b). Ancor piú celebre è il trattato Shab-
bat, risalente al II d.C., che inscena una discussione tra i dottori. Se uno di essi
commenta positivamente l’opera dei Romani, che avevano introdotto anche
in Palestina « mercati, ponti e terme », un altro rabbi replica in termini piú mo-
ralistici: « Tutto ciò che hanno costruito lo hanno fatto solo per il proprio van-
taggio: hanno costruito mercati per collocarvi delle prostitute, bagni per rin-
frescarsi in essi, ponti per imporvi balzelli ». (Talmud Babilonese, trattato
Shabbat, 33b). Secondo un altro trattato, al momento del giudizio divino i Ro-
mani affermeranno di aver costruito terme e mercati « perché Israele possa
studiare la Torà » (Talmud, Aboda Zara, 2b), ma Dio denuncia il loro reale mo-
vente e confonde le loro argomentazioni. E in una sentenza riportata dal Mi-
drash, un altro dotto commentava cosí i benefici del progresso tecnico intro-
dotto da Roma: « Se questo regno malvagio facesse costruire bagni pubblici,
terme e strade vedendo come fine il Cielo, esso sarebbe degno di possedere il
mondo; in realtà lo fa solo per i propri bisogni » (Midrash Hagadol, su Genesi,
xliv 24).53
Per i dotti ebrei che interpretavano le Scritture l’oggettiva superiorità tec-
nica di Roma era oscurata dalla sua ignoranza e crudeltà, che la rendevano a
tutti gli effetti un “Impero del male”. Ma di fatto, si trattava dello stesso mon-
do presentato dal discorso A Roma di Elio Aristide, scritto intorno al 143/44,
secondo cui il progresso e il benessere introdotti dai Romani avevano trasfor-
mato la vita dei sudditi dell’impero, trasformando la natura selvaggia in un
« delizioso giardino », e soprattutto installando ovunque « ginnasi, fontane,
templi, manifatture, scuole ».54 In definitiva cambia il giudizio, ma non il con-

53. M. Hadas-Lebel, Jérusalem contre Rome, Paris, Éditions du Cerf, 1990, pp. 378, 352-53.
54. Vd. A. Schiavone, La storia spezzata, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 6-7.

31
introduzione

tenuto: l’ingegnosità dei Romani non viene mai messa in discussione.55

4. L’imperium Romanum in Africa


Il problema del rapporto tra Roma e le altre cultura appare in modo evi-
dente studiando l’Africa romana. I mutamenti culturali che seguirono alla ca-
duta del potere romano tendono a confinare ai soli specialisti lo studio di un’a-
rea nella quale insistono province, come la Proconsolare, che di fatto rappre-
sentano la parte piú densamente urbanizzata di tutto l’Occidente romano e
che offrono materiali molti ricchi alla riflessione storica.56 Anzitutto per la
possibilità di andare oltre il mondo urbano: i veri protagonisti del processo di
acculturazione non furono infatti tanto i notabili di estrazione cittadina come
Frontone, Apuleio o Salvio Giuliano, bensí le popolazioni di cui Plinio il Gio-
vane selezionava la sua lista di nomi “barbari”. Si è a lungo pensato che questi
popoli, nella fattispecie i barbari, “resistessero” alla romanizzazione ovvero,
nella versione “reazionaria” che poi è la faccia della stessa medaglia, non fosse-
ro in grado di integrarsi realmente, al di là di una semplice vernice di romaniz-
zazione.57 In realtà, a parte di questi modelli astratti, un mondo globalizzato
come quello dell’impero romano era caratterizzato da una buona dose di ibri-
dazione. Il métissage ha la sua ambiguità: lo scrittore messicano Octavio Paz,
parlando dei suoi compatrioti, diceva che ogni messicano ha in sé una parte in-
diana in perenne bisticcio con la parte spagnola. Lucio Apuleio, nel suo latino
« argenteo », avrebbe approvato. E del resto, quale poteva essere il punto di ri-
ferimento? Non certo l’identità, né tanto meno il diritto. Ricorda Aldo Schia-
vone che il diritto romano « non fu mai davvero il diritto di tutto l’Impero: né
in senso geografico, orizzontale; né in quello sociale, verticale. Non fu mai il
diritto delle sterminate periferie del dominio romano, dal Mar Rosso all’O-
ceano Atlantico; e tanto meno, nella stessa Roma, fu mai il diritto di tutti gli
strati sociali, dell’intera società. Esso rimase solo un modello, estremamente
circoscritto nella sua effettività, ma dotato di una carica di esemplarità e di un

55. Anche i successi militari di Roma sarebbero dovuti all’inganno: Hadas-Lebel, cit., pp.
378-79.
56. Vd. in questo volume il capitolo di A. Ibba, pp. 00-00.
57. M. Benabou, La resistance africaine à la romanisation, Paris, La Découverte, 20052. Su questo li-
bro (la prima edizione è del 1975) si vedano le penetranti osservazioni di Y. Thébert, Romanisation
et décolonisation en Afrique: histoire décolonisée et histoire inversée, in « Annales. Histoire, Sciences Socia-
les », a. xxxiii 1978, pp. 64-82, e, piú di recente, M. Sebai, La romanisation en Afrique, retour sur un dé-
bat. La résistance africaine: une approche libératrice?, in « Afrique et Histoire », a. iii 2005, pp. 39-56.

32
imperium, romanizzazione, espansione

prestigio eccezionali ».58 L’impero cercava di creare dei sistemi compatibili con
il proprio governo, come la sedentarizzazione delle gentes e la trasformazione
dell’organizzazione tribale. Cercava soprattutto di razionalizzare il controllo
del territorio e favorire l’economia romana.
Quando un territorio non era direttamente governato da Roma, i cosiddet-
ti « re clienti » (tecnicamente, amici et socii del popolo romano),59 le singole cit-
tà e, per le realtà minori, i “dinasti” pensavano a garantire l’ordine. L’alleanza
con l’impero poteva intensificare il processo di trasformazione del territorio,
che spesso coincideva con un processo di urbanizzazione. Non si deve però
pensare che questo processo fosse stato introdotto dai Romani: occorre anco-
ra una volta un esempio africano, la città di Cesarea di Mauretania. Cesarea era
il nuovo nome di Iol, residenza costiera dei re di Mauretania. Essa era stata co-
sí ribattezzata dal re Iuba II, principe di stirpe numida insediato sul trono da
Augusto. Suo padre Iuba I aveva regnato sulla Numidia, ma aveva commesso
l’errore di schierarsi con Pompeo contro Cesare, e dopo la sconfitta si era dato
la morte. Il giovane principe era stato allevato a Roma da Ottavia, la sorella del
futuro Augusto. Diventato cittadino romano, aveva combattuto con Augusto
e infine, nel 25 aveva ottenuto un nuovo regno (qualche anno dopo sposò una
principessa di stirpe eccezionale: Cleopatra Se6le6́ne6, figlia di Marco Antonio e
di Cleopatra VII). Insediato sul trono, Iuba trasformò radicalmente l’antica re-
sidenza costiera di Iol, facendone in una capitale dalle forme urbanistiche e ar-
chitettoniche squisitamente ellenistiche. Il contrasto della capitale rispetto al
resto del territorio e del regno di Mauretania è particolarmente sorprendente,
e per questo Cesarea è stata considerata come un esempio di romanizzazione
precoce dell’Africa: Philippe Leveau ha definito la città come una « vetrina di
romanizzazione », riferendosi non tanto all’attuale concezione di città-vetrina
elaborata dagli urbanisti, quanto all’epoca dell’Ungheria di Janos Kádár, quan-
do il paese, in seguito alla repressione del 1956, era stato trasformato in una
« vetrina del comunismo ».60 Ma fino a che punto la riorganizzazione di Iol in
Cesarea era un atto consapevole di politica filoromana? In realtà, nonostante
lo stretto rapporto fra Iuba e Augusto, la finalità di questa rifondazione era piú

58. A. Schiavone, Diritto e giuristi nella storia di Roma, in Diritto privato romano. Un profilo storico, a cu-
ra di A. Schiavone, Torino, Einaudi, 2003, pp. 3-61, alla p. 20.
59. La fortunata espressione « re clienti » si trova in Svetonio, Vita del Divo Augusto, 60, dove si
indica che questi re lasciavano spesso il proprio regno per rendere omaggio ad Augusto, senza le
insegne regie, ma vestiti di una toga « come fossero clienti ».
60. Sulle « città-vetrina » in Asia Minore vd. C. Franco, in questo volume, alle pp. 000.

33
introduzione

economica che politica. Insomma, se di vetrina bisogna parlare, si tratta piut-


tosto di una vetrina di “ellenismo internazionale”, analogamente alla tradizio-
ne introdotta da Alessandro Magno e piú volte esercitata dai regni ellenistici, o
da re orientali ellenizzanti come Tigrane il Grande d’Armenia, con il suo ten-
tativo di creare la residenza di Tigranocerta ai confini tra Armenia e Mesopo-
tamia.61
Certo, potevano subentrare momenti di debolezza che spingevano i popo-
li alla rivolta. Sotto Tiberio, il Mauro Takfarinas, capo dei Musulamii, poté uni-
re una coalizione contro Roma: all’epoca lo spazio posto effettivamente sotto
il diretto controllo provinciale era ancora molto ridotto. Ma anche dopo la
provincializzazione delle Mauretanie, i problemi sussistono: poco prima
dell’85, il tribuno militare Publio Velio Rufo fu inviato « a reprimere i popoli
che si trovano nella Mauretania » (Inscriptiones Latinae Selectae, 9200). Non è
sempre chiaro quale fosse la reale estensione dei disordini causati dalle tribú
alla frontiera, ma certe misure eccezionali permettono di capire quando i pro-
blemi si facevano gravi: all’inizio degli anni 140, il governo della Mauretania
Tingitana venne affidato al senatore Uttedius Honoratus anziché a un procura-
tor equestre. Alcune iscrizioni, tra cui l’importante decreto di Sala in onore del
prefetto di cavalleria Marcus Sulpicius Felix (Inscriptions Anciennes du Maroc, ii
30, datato al 28 ottobre 144), mostrano le difficoltà che investirono la regione e
le misure prese dai centri della provincia in quegli anni.62 Piú tardi, sotto Mar-
co Aurelio, i Mauri arrivarono a passare lo stretto di Gibilterra per invadere la
Baetica (Scrittori della Storia Augusta, Marco Aurelio, xxi 2; Settimio Severo, ii 5).

5. La questione armena
Uno sguardo ora verso l’altra estremità dell’impero. La questione armena fu
uno dei problemi ricorrenti della politica estera romana, e i rapporti tra Roma
e il regno d’Armenia sono documentati essenzialmente per avvenimenti di ca-
rattere militare.63 Dal punto di vista romano, questo aspetto sembra confer-
mare la tendenza storiografica che attribuisce alle frontiere dell’impero fun-

61. E un altro esempio potrebbe essere la Cesarea di Erode il Grande.


62. Su tutto il contesto M. Euzennat, Les troubles de Maurétanie, in « Comptes Rendus de l’Aca-
démie des Inscriptions », 1984, pp. 372-93.
63. Non sempre condivisibile, ma tuttora insuperato M.-L. Chaumont, L’Arménie entre Rome et
l’Iran. i. De l’avènement d’Auguste à l’avènement de Dioclétien, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt,
a cura di H. Temporini, W. Haase, Berlin-New York, De Gruyter, 1978, vol ii/8.1 pp. 71-194.

34
imperium, romanizzazione, espansione

zioni esclusivamente strategiche. Ma, a differenza da quanto accade per altri


regni di frontiera dell’area caucasico-anatolica (come l’Iberia, o la vicina Cap-
padocia), le tradizioni classiche sul regno d’Armenia sono integrate da una sto-
riografia locale di un certo livello, sviluppatasi a partire dal V d.C. Essa racco-
glie varie tradizioni in parte risalenti a fonti d’archivio o tradizioni epiche piú
o meno orali, e permette di comprendere, non senza qualche sforzo interpre-
tativo, il punto di vista “interno”. Per le tradizioni e gli eventi anteriori al IV
d.C., la fonte chiave è Mosé di Khoren, che scrisse una storia del suo popolo
datata nella seconda metà del V secolo (ma che molti studiosi, pur senza ne-
garne tutta l’importanza documentaria, preferiscono considerare piú tarda).64
Vi è chi ha voluto, in forma anacronistica, vedere il regno d’Armenia come
“stato cuscinetto” oscillante tra Roma e l’Iran. Si tratta però di un’ipotesi mo-
dernistica: in realtà, le conseguenze dei rapporti intrattenuti tra Roma e l’Iran
dal I a.C. in poi non possono essere comparate con i vari sviluppi geopolitici
del “grande gioco”; in ogni caso, a partire dalla sua formazione (dopo il 188
a.C.), la politica e la posizione del regno d’Armenia mutarono a seconda dei
momenti storici, e non è possibile generalizzare delle situazioni politiche che
spesso vanno ricondotte a contesti estremamente circoscritti. I mutamenti
non riguardarono solo i confini, ma la stessa organizzazione interna di queste
aggregazioni politiche. Il recupero delle complesse sfumature di questi rap-
porti tra le varie formazioni statali permette quindi di eliminare interpretazio-
ni modernistiche della strategia di frontiera romana, in particolare l’ipotesi del
« buffer state », portata all’eccesso nella sintesi di Edward Luttwak, e giusta-
mente ridimensionata dagli studi di Benjamin Isaac e di Dick Whittaker.65
Certo, le fonti sembrerebbero appoggiare questa visione, a cominciare da
un celebre passo di Tacito: « Furono gli Armeni, per antica tradizione, una stir-
pe ambigua. Ciò si deve alla mentalità della gente e alla posizione geografica.
Infatti, essi confinano largamente con le nostre province, e al tempo stesso si

64. Bibliografia in G. Traina, Moïse de Khorène et l’Empire sassanide, in Des Indo-Grecs aux Sassani-
des: données pour l’histoire et la géographie historique, a cura di R. Gyselen, Paris-Bures-sur-Yvette,
Groupe pour l’Étude de la Civilisation du Moyen-Orient, 2006 (ma 2007), pp. 158-79.
65. E. Luttwak, La grande strategia dell’impero romano, Milano, Rizzoli, 1991 (ed. or. Baltimore,
Johns Hopkins University Press, 1976); B. Isaac, The Limits of Empire. The Roman Army in the East,
Oxford, Oxford Univ. Press, 1990 (= 19922, con un Postscript); E.L. Wheeler, Methodological Limits
and the Mirage of Roman Strategy, in « Journal of Military History », a. lvii 1993, pp. 7-41 e 215-40; C.R.
Whittaker, Frontiers of the Roman Empire. A Social and Economic Study, Baltimore-London, Johns
Hopkins Univ. Press, 1994. Vd. ora S. Janniard, in questo volume, alle pp. 00-00.

35
introduzione

estendono fin nel cuore delle terre persiane. Cosí, posti a metà tra le piú gran-
di potenze, molto spesso non sanno se per loro sia piú forte l’odio contro i Ro-
mani o l’antipatia contro i Parti » (Tacito, Annali, ii 56). Tacito si riferiva qui al-
l’educazione di Zenone, figlio di Polemone del Ponto, che Tiberio aveva desi-
gnato come re d’Armenia nel 18 d.C. ed era stato incoronato da Germanico ad
Artaxata. Zenone, dice Tacito, sarebbe stato gradito ai suoi sudditi « perché fin
dalla prima infanzia aveva perseguito il modo di vita e il gusto degli Armeni, e
grazie alla caccia, ai banchetti e alle altre attività praticate dai barbari, si era le-
gato a sé popolo e notabili ». Zenone si mostrava addirittura piú “iranizzante”
del re partico Vonone, che secondo Tacito era disprezzato dal suo popolo in
quanto « allontanatosi dagli usi degli antenati », e irriso per i suoi Graeci comites
(Annali, ii 2). Le usanze dei Parti in questione riguardavano l’abitudine orien-
tale a ricorrere alla lettiga, ma in primo luogo la caccia e l’equitazione: questi
elementi, che avvicinavano alle tradizioni iraniche, corrispondevano alla per-
cezione romana del cultus Armeniorum.
La situazione geopolitica del regno armeno tra Roma e l’Iran si protrasse fi-
no alla spartizione del suo territorio (ca. 387 d.C.), chiudendo il “capitolo ar-
meno” ricorrente nei manuali di storia romana.66 Si tratta di una storia di equi-
libri periferici, di continui passaggi di campo e strategie di alleanze esercitate
dal popolo armeno, una gens che Tacito, come si è visto, definiva come ambigua
per natura. Non vi è qui lo spazio per ripercorrere le tappe di una storia essen-
zialmente militare e dinastica, dai continui colpi di scena, spesso occultati da
una documentazione scritta non sempre all’altezza delle nostre aspettative. Di
fatto, i Romani continuarono a considerare l’Armenia con le consuete catego-
rie approssimative, e solo l’importante esperienza neroniana introdusse una
valutazione piú attenta della questione orientale. Certo, il problema della lo-
gistica e delle conoscenze geografiche fu basilare per le campagne militari in
Anatolia e nel Caucaso; l’esperienza di Marco Antonio in Armenia aveva la-
sciato il segno. Tuttavia, l’analisi della politica neroniana in Oriente, della sua
“originalità” e del ruolo di Corbulone, non può limitarsi a considerare la
« grand strategy » di Nerone e dei suoi possibili consiglieri. Ad esempio, di fat-
to, non si può capire la soluzione del 63 d.C., (l’incoronazione di Tiridate I, con
le complesse connessioni religiose), in base ai semplici concetti di « attacco »,

66. Ultimamente G. Greatrex, Deux notes sur Théodose II et les Perses, in « Antiquité Tardive », a.
xvi 2008, pp. 85-91.

36
imperium, romanizzazione, espansione

« difesa » ovvero « indecisione », con cui molti storici hanno definito le scelte di
Roma in campo armeno.
È importante vedere come la controparte armena vivesse il periodo della
massima ingerenza romana, e soprattutto capire l’evoluzione della politica ro-
mana in Armenia da Nerone a Traiano. I vuoti delle fonti classiche possono es-
sere integrati dalla Storia dell’Armenia di Mosé di Khoren. Come è noto, la tra-
dizione di Mosé è particolarmente complessa: in particolare, egli propone una
successione cronologica dei re d’Armenia spesso inverosimile. Tuttavia, se la
sua opera non può essere elevata a fonte-guida, resta possibile “decodificare” il
suo sistema e desumerne dati preziosi, come nel caso degli eventi tra I e II se-
colo. Mosé narra che Artashes d’Armenia (per i Greci, Artaxias), approfittan-
do dei disordini in Occidente, avrebbe smesso di concedere il tributo a Roma;
l’imperatore Domiziano avrebbe però reagito, combattendo contro i figli del
re, Tiran e Artavazd, e contro il saggio Smbat, il vecchio dayeak (sorta di digni-
tario precettore) dello stesso Artashes, comandante dell’esercito del Sud del-
l’Armenia. La campagna, conclusasi con un arretramento dei Romani fino a
Cesarea, sarebbe stata cosí immortalata dai “miti cantati” locali: « Quando vo-
gliono cantare questi fatti nei loro miti dicono “venne un certo Domet”, e si
tratta dello stesso Cesare Domiziano. Non che fosse venuto lui di persona;
con il suo nome definiscono, allegorizzando, anche l’esercito ai suoi ordini »
(Mosé di Khoren, ii 54).
Il seguito del racconto di Mosé conferma il fondo storico del contesto: « Ar-
tashes », favorito dalla morte di Domiziano e dalla breve durata del regno di
Nerva, in principio si sarebbe comportato con baldanza; gli eserciti armeni e
persiani avrebbero compiuto vari raid in terra « greca ». Successivamente però,
di fronte all’avanzata di Traiano, si precipitò a carpirne la benevolenza offren-
do doni e pagando i tributi arretrati; poi, per il resto del suo regno, si dimostrò
fedele al tributo sia sotto Traiano che sotto Adriano. Il contesto suggerisce l’e-
sistenza di un tributo annuale previsto per l’Armenia, e inoltre di un calcolo
degli arretrati. Del resto, al tempo di Traiano l’Armenia non era il solo regno
vassallo con problemi di tributi: per la fine del regno di Domiziano, Mosé pro-
spetta una sorta di “disobbedienza fiscale” estesa a tutto l’Oriente romano, ori-
ginata dall’esempio di Artashes e dai disordini creati dalle scaramucce armene
e persiane. La disobbedienza sarebbe stata imitata dagli « Egizi e dai territori
dei Palestinesi ».
Il passo di Mosé è stato trascurato in quanto si riferirebbe ad Artaxias; d’al-
tra parte, la precisione dei dati relativi agli imperatori romani elimina i dubbi

37
introduzione

sulla datazione di questa campagna alla fine del I d.C., data peraltro conferma-
ta da alcuni indizi delle fonti classiche. Il nome di Artashes è quindi uno dei
tanti anacronismi, piú o meno coscienti, di Mosé: questo personaggio va quin-
di identificato con un il re indicato come Axidares dalle fonti classiche, e come
Artashan dal cronista georgiano Leonti Mroveli. Sempre il contesto storico
conferma che il « Domet » dei canti non era come pure si è immaginato Do-
mizio Corbulone (il vittorioso generale della campagna neroniana), bensí
proprio Domiziano, ovvero, come Mosé indica con notevole precisione, l’e-
sercito romano che marciava agli ordini di questo principe. Del resto, i cantori
armeni narravano epopee di eroi o sovrani, e dal loro punto di vista sarebbe
stato difficile inscenare il racconto di una battaglia tra Artashes e un esercito
anonimo. Mosé lo sapeva bene, anche perché nell’impero d’Oriente del V se-
colo l’imperatore non si esponeva in battaglia. Per lo storico armeno, quindi, è
logico dare il nome dell’imperatore all’esercito che lo rappresenta. Nel caso di
Corbulone, la tradizione avrebbe dovuto menzionare Nerone e non il gene-
rale Corbulone, che si conosce bene grazie a Tacito, ma che agli occhi degli
Armeni restava un semplice emissario del proprio re. In ogni caso, Corbulone
fu un generale vittorioso, mentre Mosé parla di una vittoria armena.
L’analisi della tradizione consente quindi si trarre alcune conclusioni. Mosé
attribuisce a un « Artashes » il dominio sulla Grande Armenia, in un periodo
non ben definito, ma databile almeno tra il 95 e il 120. Mentre Roma è im-
pegnata in Occidente (si può pensare alle campagne pannoniche), Artashes
smette di pagare il tributo a Roma. Domiziano manda delle truppe, e viene
battuto. Successivamente Traiano compie una spedizione in Oriente; Artas-
hes, intimorito, si sottomette di buon grado e consegna i tributi arretrati. Un
esame piú complesso dell’opera di Mosé permette quindi non solo di amplia-
re le nostre conoscenze su uno dei periodi piú oscuri della storia armena, ma
soprattutto di definire come gli Armeni vivevano le tappe dell’ingerenza ro-
mana. In definitiva, il tributo introdotto da Marco Antonio, e ristabilito con
ogni probabilità da Nerone, era stato interrotto dal re d’Armenia alla fine del I
d.C., approfittando di un momento di debolezza di Roma. La differenze per-
cezione del potere si fa qui molto chiara: l’effimera organizzazione dell’Ar-
menia a provincia romana lasciò poche tracce nella memoria storica armena,
mentre il “codice” armeno metteva a fuoco in primo piano il problema del tri-
buto, che di fatto costituiva un fattore di asservimento ben piú tangibile della
presenza di guarnigioni o rectores romani presso le residenze reali.
Era stato Traiano a tentare di introdurre in Armenia il regime provinciale: di

38
imperium, romanizzazione, espansione

fatto, dal 115 al 117 (sulla scia delle vittorie contro i Parti) l’impero romano in-
globò temporaneamente il regno. L’annessione traianea ebbe dal punto di vi-
sta romano un significato simbolico notevole: ancor oggi, gli atlanti storici ri-
portano regolarmente la carta con la massima espansione dell’impero, che per
l’Oriente riporta le province di Armenia, Assiria e Mesopotamia. Traccia evi-
dente di questa conquista a grande iscrizione traianea rinvenuta sulla piana di
Artaxata, risalente alla campagna del 115/16 e trovata accanto a due epigrafi fu-
nerarie di legionari; manca purtroppo un contesto preciso del rinvenimento,
ma non è escluso che il testo possa riferirsi a un trofeo.67 Ma la politica romana
nel Caucaso cambiò dopo pochi anni, e dopo ciò i tentativi di provincializza-
zione dell’Armenia furono abbandonati. Questo abbandono fu certamente
consapevole, dal momento che nel II d.C. la politica romana in Oriente non
era estemporanea, né dettata dall’intuizione di alcuni singoli generali, bensí si
rifaceva a una strategia ben definita e meditata. Oltretutto, i sistemi informati-
vi romani si erano evoluti al punto da consentire un controllo diretto di regio-
ni diverse per cultura, lingua, economia, aprendo al futuro scenario del III se-
colo, con il controllo non solo militare, ma anche fiscale, nei termini di un ve-
ro e proprio “protettorato”.
In questa ottica si può analizzare l’iscrizione di Va¿arsˇapat (II metà del II
d.C.), che testimonia lavori eseguiti da militari romani di stanza presso una
nuova fondazione (Inscriptiones Latinae Selectae, 9117). La presenza di una guarni-
gione romana presso una residenza reale armena costituiva una situazione per
cosí dire di frontiera, decisamente peculiare, anche se già al tempo di Pompeo
Artaxata aveva accolto una phrourá. I militari di Va¿arsˇapat dipendevano in real-
tà dalla provincia di Cappadocia, e la loro presenza in Armenia non andava con-
siderata come occupazione militare. I Romani della guarnigione avevano la
funzione di mantenere una certa stabilità del regno armeno vassallo di Roma,
non soltanto contro eventuali raid esterni di Alani o altre popolazioni, ma anche
contro le tendenze frondiste armene, appoggiate da un governo partico che do-
veva fomentare l’insofferenza dei sovrani armeni nei riguardi dello stretto con-
trollo esercitato da Roma sia sotto Adriano sia sotto Antonino Pio.68
Del resto, per le province romane non si può parlare di frontiere militari sta-

67. G. Traina, Les écritures ‘classiques’. L’utilisation du grec et du latin dans l’Arménie ancienne, in Armé-
nie. La magie de l’écrit. Catalogo della Mostra, Marseille 2007, a cura di C. Mutafian, Paris, Somogy,
2007, pp. 28-33.
68. Sulle iscrizioni romane d’Armenia vd. G. Traina, Rostovcev e l’epigrafia greco-latina dell’Armenia
antica, in Rostovzev e l’Italia, a cura di A. Marcone, Napoli, Esi, 1999, pp. 441-48.

39
introduzione

tiche. Le ricerche piú recenti hanno mostrato come anche il cosiddetto «limes
continuo » avesse soprattutto una funzione organizzativa piú che difensiva:
nondimeno resta assodata la peculiarità della frontiera orientale rispetto alle
altre frontiere imperiali.69 Inoltre, i trattati che stabilivano le aree di influenza
e i confini dei regni si sforzavano spesso di dividere territori etnicamente omo-
genei, creando situazioni di tensione. Ma, se le fonti attestano una « frontiera
aperta » almeno in una prospettiva politico-militare, si dovrebbe quindi pensa-
re che i passaggi di frontiera fossero estremamente liberi, ovvero limitati ai
controlli interni dei signorotti che controllavano i singoli distretti, ma non
concernessero le autorità centrali. Si pensi alla situazione attestata da Proco-
pio, nel VI secolo, nel distretto di montagna della Chorzane, a sud di Erzurum,
che segnava il passaggio tra Mesopotamia e Armenia: « Chi va da Kitharizon a
Theodosioupolis e nell’altra Armenia, trova la terra detta Chorzane, che si
estende per circa tre giorni di cammino, e non è separata dalla terra dei Persia-
ni dalle acque di un lago o dal corso di un fiume né da montagne che segnino
uno stretto valico: le due frontiere restano indistinte. Cosí i suoi abitanti, che
sono soggetti ai Romani o ai Persiani, reciprocamente non si temono né so-
spettano imboscate: al contrario si sposano tra di loro, commerciano in comu-
ne i loro prodotti e coltivano la terra in comune. Se i comandanti degli uni do-
vessero attaccare gli altri, quando glielo ordinasse il loro imperatore, trovereb-
bero il circondario sguarnito da difese » (Procopio, Gli edifici, iii 3 9-11). Il passo
è stato piú volte ricordato come testimone della peculiarità delle società di
frontiera, ed è certamente probabile che la medesima situazione si riscontras-
se anche in epoche piú antiche.70

69. Vd. Janniard, cit., alle pp. 00-00 sgg.


70. Vd. D.H. Miller, Frontier Societies and the Transition Between Late Antiquity and the Early Middle
Ages, in Shifting Frontiers in Late Antiquity, a cura di R.W. Mathisen, H.S. Sivan, Aldershot, Vario-
rum, 1996, pp. 158-71.

40
INTRODUZIONE

FRATTURE E PERSISTENZE DELL’ECUMENE ROMANA


di GIUSTO TRAINA

1. Una storia spezzata?


U n tempo, il periodo della tarda romanità (IV-VI secolo) veniva chiamato
« Basso Impero », e si parlava senza mezzi termini di decadenza di Roma.1
Queste espressioni, ancor oggi d’uso piuttosto comune, sono state formulate
nel Settecento, e si riferivano a una visione dell’impero romano che risentiva
non solo degli ideali del classicismo, ma anche delle critiche rivolte dagli illu-
ministi all’influenza del cristianesimo: celebre è la frase di Voltaire, formulata
nell’Essai sur les mœurs et l’esprit des Nations (1756), sulla religione cristiana che
« apriva il cielo ma faceva precipitare l’impero ». La storiografia su Roma ha
continuato per questa strada, radicandosi nel pensiero storico e filosofico (un
solo nome per tutti: Montesquieu), e dando vita a opere di notevole spessore,
a cominciare da quel capolavoro che è la History of the Decline and Fall of the Ro-
man Empire (Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano), pubblicata da Ed-
ward Gibbon tra il 1776 e il 1788.2
Questa concezione di un Tardo Impero decadente si è sedimentata a lungo,
affermandosi in vari campi di ricerca. Ad esempio, un personaggio di primo
piano come Mikhail I. Rostovcev, nella sua fondamentale Storia economica e so-
ciale dell’impero romano (1926), rielaborò queste problematiche in chiave econo-
mica, adattandole alla visione dei suoi tempi, ma anche alle sue personali vicis-
situdini. Per l’esule russo, fuggito nel 1918 in Inghilterra e poi in America, la
macchina dell’impero romano sarebbe stata bloccata dalla crisi del III secolo,
originata in gran parte dal crescente contrasto fra città e campagna. L’impero

1. Il concetto di « Basso Impero » risale allo storico Charles Le Beau, che nel 1756 pubblicò il pri-
mo volume di una Histoire du Bas-Empire (conclusasi nel 1817 con il ventottesimo). In origine, l’e-
spressione non aveva una connotazione negativa, ma semplicemente temporale, a distinguere fa-
si successive.
2. Vd. A. Momigliano, La moderna storiografia sull’impero romano (1936), in Id., Contributo alla storia
degli studi classici, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1955, pp. 107-64, partic. pp. 132 sgg.; G.
Giarrizzo, Edward Gibbon e la cultura europea del Settecento, Napoli-Bologna, Ist. Italiano Studi Sto-
rici-Il Mulino, 1954; S. Mazzarino, La fine del mondo antico. Le cause della caduta dell’impero romano,
Milano, Rizzoli 19882 (1a ed. 1959; 3a ed. Torino, Bollati Boringhieri, 2008).

13
introduzione

romano avrebbe conosciuto la medesima crisi che aveva originato la Rivolu-


zione d’Ottobre: il mondo imperiale, che ancora nel II secolo avrebbe vissuto
un’epoca di benessere, espressa dal fiorente sviluppo delle città, sarebbe stato
messo in crisi non tanto dalle pressioni all’esterno, quanto dai contrasti sociali
interni: le masse che vivevano nelle campagne si sarebbero opposte violente-
mente al dominio dei ceti urbani, sostenute in questo dai soldati, anch’essi di
origine contadina. La crisi interna, sommata alla pressione dei barbari, avreb-
be dato il colpo finale alla civiltà greco-romana.3
Tuttavia, nel corso del XX secolo, istanze intellettuali di varia origine han-
no contribuito a una radicale revisione dei paradigmi storici sul Tardo Impero,
esaminato in una prospettiva allargata (talora eccessivamente) nello spazio e
nel tempo, non piú limitata alle strutture imperiali, ma estesa anche a quelle
esperienze politiche e spirituali che si erano maturate al di là delle frontiere.
Capiscuola come Henri-Irénée Marrou, Santo Mazzarino e Peter Brown han-
no stimolato l’interesse per quello che oggi si definisce correntemente « tar-
doantico », provocando una vera e propria « esplosione » di iniziative scientifi-
che: oggi gli studi tardoantichi sono promossi da associazioni, progetti inter-
nazionali di ricerca, riviste specializzate. In questa nuova prospettiva, parlare
di decadenza o caduta sembra quasi politicamente scorretto, e sono in molti a
rifiutare del tutto la tradizionale opposizione tra civiltà e barbarie. Dal « Basso
Impero » dei secoli IV-VI, si è giunti a estendere la cronologia addirittura dal II
all’VIII secolo, esprimendo un forte scetticismo sulla periodizzazione tradi-
zionale che prevede la netta divisione tra antichità e Medioevo.4
Un simile cambiamento di paradigma non ha mancato di suscitare energi-
che reazioni in senso opposto. Cosí, in una brillante sintesi pubblicata di re-
cente, Brian Ward-Perkins ha aggiunto nuovi argomenti a quelli tradizionali
per ribattere al revisionismo dei “continuisti”, e uno dei libri di storia antica at-
tualmente piú venduti sul mercato anglosassone è quello in cui Adrian Golds-
worthy si è ingegnato a spiegare « come cadde Roma » in un modo accessibile

3. J. Andreau, Antique, moderne et temps présent: la carrière et l’æuvre de Michel Ivanovitch Rostovtseff, in
M. Rostovtseff, Histoire économique et sociale de l’empire romain, Paris, Laffont, 1988, pp. i-lxxxiv.
L’edizione italiana (Firenze, La Nuova Italia, 1933) è stata piú volte ristampata.
4. A. Giardina, Esplosione di tardoantico, in « Studi storici », a. xl 1999, pp. 157-80; G. Fowden, Ele-
fantiasi di tardoantico?, in « Journal of Roman Archaeology », a. xv 2002, pp. 681-85; per una buona
rassegna di problemi e bibliografia, vd. A. Marcone, A Long Late Antiquity? Considerations on a Con-
troversial Periodization, in « Journal of Late Antiquity », a. i 2008, pp. 4-19 (e già Id., La Tarda Antichità
e le sue periodizzazioni, in « Rivista storica italiana », a. cxii 2000, pp. 318-34).

14
fratture e persistenze dell’ecumene romana

al grosso pubblico, parlando della « morte di una superpotenza ».5 È interes-


sante come l’editore britannico di Goldsworthy abbia modificato il titolo del
libro in La caduta dell’Occidente, il che è storicamente corretto (nel V secolo,
l’impero romano cadde solo in Occidente), ma denota anche la tendenza a
concentrare l’interesse del lettore sulla sola storia occidentale. Tornando a un
livello piú scientifico, l’operazione forse piú equilibrata si deve al medievista
Chris Wickham, che nel secondo volume della Penguin History of Europe ha sa-
puto integrare i progressi della ricerca nella cornice tradizionale, individuando
l’eredità di Roma nelle fratture come nelle persistenze, e tenendo conto delle
differenze regionali senza per questo perdere di vista l’insieme.6
Il tema resta in qualche modo condizionato dall’attualità: basti pensare alla
fortunata frase con cui il francese André Piganiol concludeva il volume sul-
l’impero nel IV secolo (1947): « la civiltà romana non è morta di morte natura-
le, ma è stata assassinata ». Qualche anno dopo, lo stesso Piganiol ebbe a preci-
sare che quella frase a effetto era stata ispirata dall’avversione per l’occupazio-
ne tedesca del proprio paese, e che in seguito aveva rivisto almeno in parte il
proprio atteggiamento nei confronti del fenomeno delle « invasioni barbari-
che ».7 Ma il modello di frattura resta ben radicato nella tradizione degli studi,
come mostra il grande successo del libro di Aldo Schiavone, il cui titolo La sto-
ria spezzata è già di per sé programmatico.8

5. B. Ward-Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà, Roma-Bari, Laterza, 2008 (ed. or. Ox-
ford, Oxford Univ. Press, 2005); A. Goldsworthy, How Rome Fell: Death of a Superpower, New Ha-
ven, Yale Univ. Press, 2009 (stampato nel Regno Unito con il titolo, The Fall of the West. The Death
of the Roman Superpower, London, [Weidenfeld & Nicolson, 2009). Sui limiti scientifici di questo la-
voro vd. la recensione on line di H. Elton, in « Bryn Mawr Classical Review », marzo 2010, http://
bmcr.brynmawr.edu/2010/2010-03-63.html.
6. C. Wickham, The Inheritance of Rome. A History of Europe from 400 to 1000, London, Allen Lane-
Penguin Books, 2009. Su Id., Framing the Early Middle Ages: Europe and the Mediterranean 400-800,
Oxford, Oxford Univ. Press, 2005, vd. la discussione in « Storica », a. xxxiv 2006, pp. 121-72.
7. A. Piganiol, L’Empire chrétien, a cura di A. Chastagnol, Paris, Puf, 19722; J. Heurgon, Notice
sur la vie et les travaux de M. André Piganiol, Membre de l’Académie, in « Comptes rendus de l’Académie
des Inscriptions et Belles-Lettres », a. cxiv 1970, p. 572-86, partic. p. 582. Sul problema delle inva-
sioni vd. oltre al par. 6; vd. anche A. Barbero, in questo volume, pp. 000-00, e Id., I regni romano-
barbarici, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, viii. Popoli, poteri, dinamiche, a cura di S. Carocci, Roma,
Salerno Editrice, 2006, pp. 167-212.
8. A. Schiavone, La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno, Roma-Bari, Laterza, 1996. Tra
le varie discussioni sul libro, vd. i contributi riuniti in « Studi Storici », a. xxxix 1998, pp. 67-80, e L.
Cracco Ruggini, The Italian City from the Third to the Sixth Century: “broken History” or ever-changing
Kaleidoscope?, in The Past before us. The Challenge of Historiography of Late Antiquity, a cura di C. Straw,
R. Lim, Turnhout, Brepols, 2004, pp. 33-48. Nel frattempo, l’autore ha mostrato una certa apertu-
ra a formule meno perentorie: A. Schiavone, « Only connect », saggio introduttivo a East and West.

15
introduzione

La vitalità del dibattito, e il notevole sviluppo di ricerche specifiche e di sin-


tesi piú o meno generali sull’impero tardoantico, non possono che ribadire
l’importanza, se non addirittura la centralità di questa epoca nel continuum sto-
rico. Al di là delle polemiche sulla continuità o discontinuità tra antichità e
Medioevo, l’« esplosione di tardoantico » ha comunque permesso a questi stu-
di di uscire dal ghetto specialistico, invitando gli storici di altri periodi a riflet-
tere su questo mondo in una prospettiva di lunga durata, non piú soltanto in
base al riesame delle strutture e delle “sovrastrutture” della società, ma rive-
dendo anche la cornice evenemenziale e proponendo una riscrittura della sto-
ria.9
Beninteso, molti problemi restano aperti. Si può ad esempio discutere sulla
reale possibilità di confrontare le varie esperienze particolari sorte dopo la fine
di un impero-mondo di tale durata ed estensione: ed è anche vero che gli stu-
diosi piú sensibili a questi sviluppi restano comunque i medievisti occidentali,
condizionati da una prospettiva eurocentrica. Il presente volume non ha co-
munque la pretesa di suggerire quale sia il migliore modello, ma cerca soprat-
tutto di offrire un panorama sintetico, quanto piú possibile esteso nello spazio,
dell’impero tardoantico. Tuttavia, prima di passare all’esame vero e proprio
degli avvenimenti e delle strutture sociali, sarà forse utile definire alcuni aspet-
ti meno evidenti di questa epoca, insistendo non tanto sulla transizione rispet-
to al Medioevo, bensí sulle differenze che la contraddistinguono rispetto al-
l’antichità per cosí dire classica.

2. Nuovi mondi esterni, nuovi mondi interni


Uno degli aspetti piú interessanti dei mutamenti politici e ideologici del tar-
doantico consiste nel processo di « democratizzazione della cultura », indivi-
duato mezzo secolo fa dal grande storico Santo Mazzarino.10 Grazie alla sua

Papers in Ancient History Presented to Glen W. Bowersock, a cura di T. Corey Brennan, H.I. Flower,
Cambridge-London, Harvard Univ. Press, 2008, pp. 1-11.
9. Vd. P. Brown, La formazione dell’Europa cristiana. Universalismo e diversità, 200-1000 d.C., Roma-
Bari, Laterza, 2006 (ed. or. Oxford, Blackwell, 2003). Peraltro, in precedenza Brown ha soprattut-
to proposto e diffuso una visione universale del tardoantico come epoca relativamente omogenea
di trasformazione: vd. i contributi riuniti in Gli spazi del tardoantico, in « Studi storici », a. xlv 2004,
pp. 5-46. Intanto, vi è chi continua a sostenere l’idea che l’impero d’Oriente costituisse una « tarda-
antichità cronica »: vd. C. Meier, Da Atene a Auschwitz, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 79 (ed. or.
München, Beck, 2002).
10. S. Mazzarino, La democratizzazione della cultura nel “Basso Impero” (1960), in Id., Antico, tardoan-

16
fratture e persistenze dell’ecumene romana

grande erudizione, Mazzarino riusciva a valorizzare opere meno note elevan-


dole a “testi fondamentali”: per definire meglio il concetto di « democratizza-
zione della cultura », anziché un’opera greca o latina egli preferí prendere in
considerazione il Libro delle Leggi e dei Paesi, un dialogo redatto in siriaco nella
prima metà del III secolo, nell’ambito della scuola del pensatore cristiano Bar-
desane di Edessa, noto fino ad allora ai soli specialisti.11 Il testo analizza le dif-
ferenze tra i vari popoli della terra, evidenziando il rapporto fra la loro libertà
e la varietà delle leggi, esprimendo cosí una critica implicita alla minaccia di
globalizzazione costituita dall’impero romano e dalla sua concezione del dirit-
to maturata nel III secolo.12 L’autore aveva a cuore il tema del rapporto fra l’u-
nità del popolo cristiano e la diversità delle nazioni che ne facevano parte, che
si era fatto ancor piú delicato dopo le misure adottate nei confronti dei diritti
locali in seguito all’emanazione della constitutio Antoniniana.13 Argomenti ana-
loghi furono piú avanti sviluppati, in modo ancor piú esplicito, da un autore
vissuto tra il IV e il V secolo: « È alla portata di tutti sapere quanti imperatori
hanno cambiato le leggi e gli ordinamenti dei popoli vinti dopo averli assog-
gettati ai propri. Che i Romani l’abbiano fatto lo sanno tutti: essi hanno fatto
adottare il diritto romano con i suoi ordinamenti civili a quasi tutto il mondo,
a tutti quei popoli che prima vivevano seguendo ciascuno le proprie differenti
leggi e ordinamenti sociali » (Pseudo-Clemente di Roma, I ritrovamenti, ix
27).14
La « democratizzazione della cultura » rientra in un processo piú generale
di trasformazione dei valori classici, tipico della tarda antichità, che implicava

tico ed èra costantiniana, 2 voll., Bari, Dedalo, 1974-1976, vol. i pp. 74-98. Sulle implicazioni di questo
importante concetto vd. Antiquité tardive et “démocratisation de la culture”: mise à l’épreuve du paradigme, a
cura di G. Cantino Wataghin, J.-M. Carrié, in « Antiquité Tardive », a. ix 2001, pp. 25-295.
11. Mazzarino, La fine del mondo antico, cit., pp. 165-68; Id., La democratizzazione, cit.; Id., Il pensiero
storico classico, 2 voll., Bari, Laterza, 1965-1966, vol. i p. 316; vol. ii/2 pp. 185, 395-96 n. 508. Su Barde-
sane vd. A. Camplani, Rivisitando Bardesane. Noti sulle fonti siriache del bardesanismo e sulla sua colloca-
zione storico-religiosa, in « Cristianesimo nella Storia », a. xix 1998, pp. 519-96, spec. pp. 543-44 e 586.
Sulla datazione del Libro delle Leggi e dei Paesi vd. L. Cracco Ruggini, Conoscenze e utopie: i popoli del-
l’Africa e dell’Oriente, in Storia di Roma, iii. L’età tardoantica, 1. Crisi e trasformazioni, a cura di A. Schia-
vone, Torino, Einaudi, 1993, pp. 443-86, spec. pp. 471-72.
12. V. Marotta, La cittadinanza romana nell’ecumene imperiale, in Storia d’Europa e del Mediterraneo,
vi. Da Augusto a Diocleziano, a cura di G. Traina, Roma, Salerno Editrice, 2009, pp. 541-94.
13. Vd. S. Mazzarino, L’impero romano, Roma-Bari, Laterza, 19732, pp. 608-13; J.-M. Carrié, in J.-
M. Carrié-A. Rousselle, L’empire romain en mutation, des Sévères à Constantin (192-337), Paris, Seuil,
1999, pp. 60-62.
14. Trad. in Pseudo-Clemente, I ritrovamenti, a cura di S. Cola, Roma, Città Nuova, 1993.

17
introduzione

un recupero di quei contesti piú umili che le convenzioni classiche avevano


trascurato, se non del tutto oscurato. Cosí, figure sociali finora considerate
marginali, come i poveri o gli stranieri, oltrepassavano la « soglia di emergen-
za » (per ricorrere alla terminologia di Michel Foucault), e diventavano final-
mente visibili, trovando una collocazione anche nei testi letterari.15 Diversi
fattori hanno contribuito a questo fenomeno: già prima della crisi del III seco-
lo, Roma aveva perduto l’antica centralità, in favore delle province. Nei quar-
tieri delle grandi città, ma anche nelle campagne, si respirava un’atmosfera ben
diversa da quella idealizzata ancora nel I-II secolo da intellettuali greci come
Dione di Prusa o Elio Aristide.16 Lo stesso Rostovcev intuí con grande acume
le dinamiche sociali che agitavano questo mondo; tuttavia, come si è visto, la
sua visione della storia lo portò a concludere la sua analisi con la grande crisi
dell’impero.17 Ma è proprio il momento della crisi a rivelarsi il piú interessan-
te, per le importanti dinamiche che scatenava: nuovi popoli si affacciavano sul
Mediterraneo, cominciando a conquistarsi spazi e privilegi in modo piú o me-
no pacifico, e portando con sé nuove esperienze e tradizioni che avrebbero
contribuito a un ulteriore cambiamento sociale. Di pari passo, emergevano a
loro volta le culture locali, rivendicando le proprie tradizioni specifiche; i sin-
goli popoli affermavano la loro diversità, consci che vivere sotto l’imperium non
implicava piú un’accettazione passiva della romanizzazione. Nascevano quin-
di nuove e piú complesse strategie identitarie, che ebbero vari esiti. Da una
parte esse si tradussero nell’emersione di culture “tecniche”, che trovarono
espressione all’interno della cultura greco-latina nella letteratura manualistica,
dall’altra si svilupparono addirittura in nuove lingue letterarie: nel III secolo il
siriaco e il copto, e piú tardi il celtico, il gotico, l’armeno, il georgiano.18

15. Per una ricca disamina sui “marginali”, vd. V. Neri, I marginali nell’Occidente tardoantico. Poveri,
« Infames » e criminali nella nascente società cristiana, Bari, Edipuglia, 1998. Per l’Oriente protobizantino
(ma in una prospettiva piú ristretta rispetto a quella di Neri), vd. E. Patlagean, Pauvreté économique
et pauvreté sociale à Byzance, IVe-VIIe siècle, Paris-La Haye, Mouton, 1977. Il concetto di « soglia » è sta-
to formulato da M. Foucault, L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1971 (ed. or. Paris, Gallimard,
1969). Sull’importanza di Foucault per lo studio dell’antichità vd. ultimamente P. Veyne, Foucault.
Il pensiero e l’uomo, Milano, Garzanti, 2010 (ed. or. Paris, A. Michel, 2008).
16. C. Franco, Il mondo greco e il principato, in Storia d’Europa, vi, cit., pp. 309-54.
17. D. Vera, Appunti per una storia della proprietà fondiaria nel tardo impero, in Accademia romanistica co-
stantiniana. Atti del ix Convegno internazionale, Perugia-Napoli, Univ. di Perugia-Esi, 1993, pp. 67-90,
spec. pp. 68-69.
18. Vd. in generale Les littératures techniques dans l’Antiquité romaine. Statut, public et destination, tradi-
tion, a cura di C. Nicolet, Genève-Vandœuvres, Fondation Hardt, 1996; Tecnica e scrittura. Le lette-
rature tecnico-scientifiche nello spazio letterario tardolatino, a cura di M. Formisano, Roma, Carocci, 2001.

18
fratture e persistenze dell’ecumene romana

L’equilibrio raggiunto dall’ecumene romana veniva quindi sottoposto a for-


ti spinte centrifughe. Nel IV secolo, un autore per altri versi “scolastico”, come
Ausonio di Bordeaux, introduce elementi di novità nella sua Graduatoria delle
città piú importanti (Ordo urbium nobilium). Al riguardo, è stato acutamente os-
servato che « quello che a prima vista si presenta come sterile catalogo retorico
si apre e si allarga man mano che dalle “città inevitabili” si va verso quelle pa-
trie, cioè Tolosa e soprattutto Bordeaux. Il freddo schema scolastico viene in-
franto dall’ingresso della storia personale e dei sentimenti di Ausonio [ . . . ]. La
vera Roma di Ausonio è Bordeaux, solo quella gli sta veramente a cuore. Sia-
mo in presenza dell’irruzione di una “geografia privata” nella presunta gerar-
chia oggettiva da manualetto epitomatorio, imposta all’autore dalla sua frene-
sia di schedatura retorica del mondo ».19
Non a caso, i giuristi romani del III secolo proposero nuove misure all’inse-
gna della tolleranza per le minoranze linguistiche.20 Questi provvedimenti ri-
spondevano certo a ragioni pratiche, ma riflettevano anche una visione piú
complessa del mondo, quale risultava dai sempre piú frequenti contatti con
l’elemento barbarico. Una simile apertura andava di pari passo con la diffusio-
ne dei valori cristiani, e piú in generale con la rivoluzione spirituale che aveva
contribuito all’emergere delle grandi religioni monoteistiche: del resto, già
nel II secolo Ireneo di Lione aveva predicato il verbo cristiano ai contadini gal-
lici parlando loro in celtico (Ireneo, Contro le eresie, i 3). Tuttavia, l’attaccamen-
to alla tradizione determinava resistenze e ostacoli alla « democratizzazione ».
Mazzarino osservava che « le due parallele – tradizione statale e rivoluzione
cristiana – si incontrano in alcuni punti, per poi divergere nettamente ».21 In al-
tre parole, l’impero romano restava pur sempre un impero greco-romano, e
l’emergenza di culture “altre” come quella celtica, siriaca, armena o berbera
veniva considerata dai rappresentanti delle autorità come un fattore di disgre-
gazione.22 Nel suo tentativo fallito di riportare in auge i valori tradizionali,
l’imperatore Giuliano aveva forse intuito la posta in gioco, e i rischi che impli-

19. A. Fo, Percorsi e sogni geografici tardolatini, in « Annali dell’Istituto Orientale di Napoli-Sezione
linguistica », a. xiii 1991, pp. 51-71, spec. p. 53.
20. Vd. Ulpiano, Digesto, xxxii 11, principium; xlv 1 6. In generale vd. V. Marotta, Ulpiano e l’im-
pero, 2 voll., Napoli, Loffredo, 2000-2004.
21. Mazzarino, La democratizzazione, cit., p. 97.
22. P. Veyne, L’impero greco-romano. Le radici del mondo globale, Milano, Rizzoli, 2009 (ed. or. Paris,
Seuil, 2005); Histoire de la civilisation romaine, a cura di H. Inglebert, Paris, Puf, 2005; F. Millar, A
Greek-Roman Empire: Power and Belief under Theodosius II (408-450), Berkeley-Los Angeles-London,
Univ. of California Press, 2006.

19
introduzione

cava una divisione dell’impero: « il cristianesimo, apparso momentaneamente


come una forza di coesione di culture e mentalità, sarebbe diventato presto l’e-
lemento chiave della loro disunione ».23

3. Luoghi di transizione
Fino al III secolo, le fonti classiche restituiscono un solo scenario possibile
per l’attività dell’uomo, il Mediterraneo. Non che fossero ignote le realtà
esterne a questa grande civiltà fondata sull’agricoltura e sui traffici marittimi:
tuttavia l’impero romano, come tutti i grandi imperi della storia, si è preoccu-
pato di elaborare un proprio « inventario del mondo », creando proprie cate-
gorie di paesaggio, che oscuravano tutti quegli spazi che sfuggissero ai suoi co-
dici di rappresentazione. Nei periodi di transizione, però, questi codici entra-
no in crisi, sí da far apparire con maggior evidenza quelle situazioni preceden-
temente occultate, o meglio non enunciate: in questo senso, possiamo defini-
re i paesaggi tardoantichi come scenari di una società “post-tradizionale”.24
Nel IV secolo, Eliodoro di Emesa, autore del “romanzo” Le Etiopiche, mo-
stra come una realtà descritta finora come preoccupante e angosciante potesse
trasformarsi in un bozzetto avventuroso e bucolico: nella sua elaborata prosa,
un ritrovo di briganti diventa infatti una vera e propria città alternativa, un
“Paradiso dei Fratelli della Costa” ante litteram, per certi aspetti non dissimile
dalle sedi dei bucanieri dei Caraibi nel XVI e XVII secolo. La narrazione ini-
zia con il naufragio di Teagene e Cariclea, i due giovani protagonisti, che fini-
scono su una spiaggia del Delta egiziano. La coppia, catturata dai briganti det-
ti boukóloi, ‘pastori di vacche’, viene quindi trasportata nel loro covo situato ol-
tre le alture del Delta, in una regione detta Boukólia, ovvero ‘pascolo d’armen-
ti’, al centro della quale si trova un lago dalle rive paludose: « Qui tutti i brigan-
ti egiziani hanno organizzato una comunità politica » (Eliodoro, i 5), e molti di
essi sono addirittura nati in questa sorta di Tortuga, che considerano come la
loro patria.
Agli occhi di un abitante delle città, l’idea che dei briganti potessero forma-
re una politeía era sorprendente, ma tutto sommato non del tutto irreale: nel

23. P. Athanassiadi, Vers la pensée unique. La montée de l’intolérance dans l’Antiquité tardive, Paris, Les
Belles Lettres, 2010, p 123.
24. Vd. il saggio introduttivo di S.N. Eisenstadt, Post-Traditional Societies and the Continuity and
Reconstruction of Tradition, in « Daedalus », vol. cii 1973, pp. 1-27, e gli altri saggi nel medesimo fasci-
colo.

20
fratture e persistenze dell’ecumene romana

mondo tardo-ellenistico, alcuni secoli prima, strutture “statali” erano state at-
tribuite alle iniziative delle rivolte servili e sociali, nella Sicilia di Euno e nel-
l’Asia Minore di Aristonico.25 Protetti dal paesaggio nilotico, i boukóloi sfuggi-
vano alle rappresaglie delle autorità, proprio come i barbari di frontiera che
trovavano riparo nei boschi o nelle paludi. Ma è soprattutto notevole il “relati-
vismo” con cui Eliodoro presenta la comunità dei banditi, i quali pur sfuggen-
do alle leggi della società civile non vengono da lui moralmente condannati.
Come spesso accadeva anche nella realtà, i boukóloi di Eliodoro erano dei fuo-
rilegge che sceglievano territori lontani e isolati per costruire una comunità
politica conformata sul modello della città dei giusti e degli onesti: un model-
lo ben diverso dal « banditismo sociale » di età moderna, e piú in linea con il
celebre interrogativo di Agostino, per cui ogni formazione politica avrebbe re-
cato in sé la conformazione di brigantaggio: « cosa sono i regni, se non delle
comunità brigantesche su grande scala? » (Agostino, La città di Dio, iv 5). Nel
testo si evidenzia inoltre la peculiarità del paesaggio dei boukóloi, insistendo
sulla funzione del canneto palustre che li isola dal mondo esterno: « [il lago]
basta ai briganti come fortezza, e per questo vi scorre un mondo cosí vivo; e
tutti si servono dell’acqua come di una muraglia, coperti, in luogo dell’aggere,
dall’abbondante canneto. Difatti tagliano sentieri tortuosi, attraversati da mol-
te curve; loro, che li conoscono, li raggiungono facilmente in barca, ma per gli
altri sono inaccessibili. In questo modo ingegnoso si sono allestiti un’enorme
piazzaforte, sí da non subire mai attacchi » (Eliodoro, i 6).
Quello di Eliodoro è solo uno dei tanti esempi di come anche la visione del
paesaggio, in questa epoca di transizione, si fosse modificata.26 Acquistavano
ora visibilità le foreste, le paludi, le isole o le stesse aree montane, laddove in
precedenza, proprio come i popoli di frontiera, anche questi spazi erano esclu-
si. Ora, questi luoghi sembrano acquisire piena cittadinanza non solo nella fin-
zione letteraria, ma anche nella storiografia e persino nei documenti ammini-
strativi: un papiro ravennate del VI secolo menziona due appezzamenti nel
territorio di Padova chiamati palus Micauri e palus Pampiliana (Papyri Italia, iii 2 1
9 s.), che rientravano in un insieme di terreni comprendente anche un saltus,

25. Vd. C. Franco, La società ellenistica, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, v. L’ecumene romana, a
cura di G. Traina, Roma, Salerno Editrice, 2008, pp. 595-653, a p. 642.
26. Vd. G. Traina, Le trasformazioni del paesaggio nell’Italia tardoantica, in Storia della società italiana,
iv. Restaurazione e destrutturazione nella tarda antichità, a cura di G. Cherubini et al., Milano, Teti,
1998, pp. 121-36; E.I. Mineo, Paesaggi e insediamenti, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, ix. Strutture,
preminenze, lessici comuni, a cura di S. Carocci, Roma, Salerno Editrice, 2007, pp. 89-134.

21
introduzione

ovvero una zona boscosa adibita al pascolo. Un altro papiro ravennate, datato
al 551, menziona la vendita di un’altra palude « e di tutte le cose adiacenti » (ivi,
xxxiv). La registrazione di paludi e boschi come elementi effettivi di una pro-
prietà agraria non prefigura necessariamente il passaggio al sistema della curtis
medievale, ma l’evoluzione dei sistemi catastali mostra l’avvenuto riconosci-
mento di queste realtà fondamentali, che del resto costituivano anche prima
parte integrante dell’economia di una città o di un territorio: le canne e le altre
vegetazioni palustri, il legname o le ghiande dei boschi, ovvero il sale degli sta-
gni costieri, rappresentavano infatti una parte non indifferente del ciclo di pro-
duzione.27
Le zone periferiche si integravano quindi nel territorio di una città, mentre
i provvedimenti dell’autorità centrale esprimevano la chiara esigenza di cono-
scere, per controllarli meglio, i territori e le loro potenzialità economiche.
Un’eco di questa politica si avverte nel discorso ai senatori romani pronuncia-
to da Totila, re dei Goti, durante la guerra contro Giustiniano: « Voi che pur
siete cresciuti insieme coi Goti non avete voluto dare a noi, sino a oggi, neppu-
re un qualunque luogo deserto » (Procopio, Guerra gotica, iii 21 15), dove invece
il comandante bizantino Erodiano aveva consegnato loro Roma e Spoleto. Il
Totila di Procopio, visto come l’autore di un tentativo rivoluzionario fallito, ri-
vendicava un ribaltamento della situazione, con i senatori romani ridotti in
schiavitú e i barbari nelle città, anziché nelle campagne abbandonate. Dietro
questa visione, però, si nascondeva una realtà piú complessa: nell’Italia roma-
no-gotica, la sede naturale dell’aristocrazia terriera era considerata quella ur-
bana, come teorizzava Cassiodoro anche in reazione all’esodo nelle campagne
intrapreso da molti proprietari (Lettere, viii 31).
In questa epoca di forti contraddizioni, gli uomini assumono maggior fami-
liarità con il mondo liminare, ovvero con il mondo dei confini e dei passaggi.
In precedenza, la mentalità geografica “cittadina” aveva alimentato volentieri
le pretese dell’uomo mediterraneo di trovarsi al centro del mondo. Verso la fi-
ne del II secolo, un ellenista integrale come Elio Aristide, nel chiedere l’aiuto
imperiale per la ricostruzione di Smirne distrutta da un grave terremoto, si di-
chiarava sconvolto dalla rovina devastante della civiltà urbana, ma indifferente
a ciò che poteva essersi verificato fuori della cerchia delle mura (Discorsi, xix 8).
A maggior ragione ci si disinteressava (o meglio, non si parlava nelle sedi “al-

27. G. Traina, L’uso del bosco e degli incolti, in Storia dell’agricoltura italiana, i. L’età antica, 2. Italia roma-
na, a cura di G. Forni, A. Marcone, Firenze, Polistampa, 2002, pp. 225-58.

22
fratture e persistenze dell’ecumene romana

te”) dei luoghi piú lontani dalla città, progressivamente meno marcati dal se-
gno umano. Cosí, ai confini dello spazio civilizzato si immaginavano deserti
popolati da belve, ovvero gelidi ghiacciai e paludi “infami”: la loro alterità co-
me territorio si concretizzava nell’alterità del popolamento, giacché quegli
spazi offrivano ricettacolo agli infidi barbari. Con il passaggio tra antichità e
Medioevo, affiorano le strutture nascoste del paesaggio antico, che acquista
connotati piú realistici, definiti da descrizioni molto piú circostanziate e parti-
colareggiate che in precedenza. Natura e geografia sembrano qui fondersi, e lo
spazio astratto e idealizzato del mondo classico comincia ad assumere corpo,
acquistando una fisionomia visibile, dove gli elementi della natura, un tempo
trascurati, appaiono ora in una luce piú “umana” e, anche quando non perdo-
no del tutto la loro dimensione inquietante, non vengono piú descritti come
ostacoli insormontabili.
Si prenda, ad esempio, la celebre descrizione del viaggio intrapreso dall’am-
basceria bizantina per recarsi alla corte del re degli Unni Attila. La legazione
avvenne intorno al 449 e fu narrata da uno dei suoi membri, lo storico Prisco di
Panion. Per raggiungere la residenza di Attila, anziché solcare il Mar Nero, gli
ambasciatori scelsero un percorso piú breve ma anche piú rischioso, risalendo
il Danubio che segnava da secoli la frontiera tradizionale tra i Greci e i popoli
delle steppe.28 Lasciata la città di Naissos (oggi Nisˇ, in Serbia), essi raggiunsero
il fiume per trovarsi in una zona « ombrosa, con diverse curve, anse e involu-
zioni. Qui si fece giorno. Poiché il sole sorgeva di fronte a noi, pensavo che
avevamo dovuto viaggiare verso Occidente; in realtà, chi non era esperto del
paesaggio si mise a gridare che il sole aveva preso il cammino contrario, e che
ciò era indizio di altre cose fuori dal comune. Per l’anomalia del terreno, que-
sto pezzo del nostro itinerario sembrava dirigersi verso Oriente » (Prisco di
Panion fr. viii 84 ed. Carolla). 29
Il racconto di Prisco non è esente da immagini letterarie desunte dalla let-
teratura classica (il motivo del « sole a destra » è già in Erodoto, iv 42 4). Tutta-
via, in questa descrizione delle curve del fiume che fanno perdere l’orienta-
mento ai suoi compagni di spedizione, in uno scenario greve di sinistri presa-
gi, vi è una consapevolezza piú profonda: per giungere ai barbari, al « cuor di
tenebra » unnico, occorre eseguire un rito di passaggio, la risalita di un fiume.

28. Il topos del fiume-frontiera ricorre anche in Malco di Filadelfia, fr. xv 69-71, xviii 191-93 ed.
Cresci.
29. Trad. in Prisci Panitae, Fragmenta, a cura di F. Bornmann, Firenze, Le Monnier, 1979.

23
introduzione

È il debito da pagare alla tradizione classica: per passare il fiume, e accostarsi


alla realtà dell’insediamento barbarico, è necessario cambiare dimensione
spaziale.
L’angoscia di Prisco richiama quella rievocata, nelle sue memorie della pri-
ma guerra mondiale, da Lord Carrington, che a quasi mezzo secolo dalla sua
esperienza in trincea dichiarava di non esser riuscito a liberarsi « dell’ossessio-
ne della Terra di nessuno e del mondo ignoto al di là di essa. Al di qua del reti-
colato ogni cosa è familiare, ogni uomo è un amico; al di là, oltre il reticolato
c’è solo l’ignoto, il perturbante ».30 In realtà, alla fine del suo viaggio, Prisco in-
contrerà un ambiente non interamente barbaro e selvaggio. Infatti, nella citta-
dina-accampamento di Attila, trovavano spazio elementi propri della civiltà
bizantina: il dignitario unno Onegesio, ad esempio, si era fatto costruire addi-
rittura un impianto termale.
Il mondo classico era riuscito a creare l’idea di un’oikouméne6 protetta rispet-
to al mondo esterno, la cui visione perturbante era debitamente esorcizzata
dalla distorsione letteraria che spostava il mondo dei barbari in una dimensio-
ne immaginaria. Nel tardoantico, il frequente contatto con l’elemento barba-
rico scuoteva le basi di questo sapere geografico che, trasformando l’ignoto in
meraviglioso, allontanava la tensione e l’angoscia. La società, sempre piú espo-
sta all’incontro con l’Altro, elaborava risposte complesse.

4. Incontri alla frontiera orientale


Intanto, l’incremento di tensioni e conflitti aveva messo definitivamente in
crisi la distinzione fra civilitas e barbaritas.31 In particolare i popoli di confine,
pur se soggetti all’autorità del diritto romano, apparivano in qualche modo
“bifronti”. Alcuni indizi sembrano alludere a una maggior “porosità” della
frontiera in determinate aree, come nel caso delle areae fines Romanorum segna-

30. Citato da E.J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mon-
diale, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 26 (ed. or. Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1979). Un episo-
dio singolarmente analogo alla narrazione di Prisco è riportato nel memoriale del viaggiatore ot-
tocentesco Alexander Kinglake, al momento di passare la Sava transitando dall’Europa austroun-
garica all’Ungheria turca: Id., La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, ivi, id., 1995, pp.
60-61 (ed. or. New York, Basic Books, 1991).
31. Vd. Descrizione del mondo e delle sue genti, a cura di U. Livadiotti, M. Di Branco, Roma, Sa-
lerno Editrice, 2005, e l’analisi di C. Molé, Le tensioni dell’utopia. L’organizzazione dello spazio in alcuni
testi tardoantichi, in Le trasformazioni della cultura nella Tarda Antichità, a cura di M. Mazza, C. Giuffri-
da, Roma, Jouvence, 1986, pp. 691-736.

24
fratture e persistenze dell’ecumene romana

late nella Tabula Peutingeriana (x 2); poco lontano da queste aree, prima del de-
serto, questo celebre itinerarium pictum menziona i « confini dell’esercito della
Siria, e zona del commercio con i barbari » (fines exercitus Syriaticae et conmertium
barbarorum).32
La Tabula riflette la situazione successiva alla sconfitta di Giuliano nel 363,
quando Roma e la Persia stavano cercando di spartirsi le rispettive zone di in-
fluenza sui settori della Mesopotamia e dell’Armenia. Le soluzioni via via
adottate prevedevano anche un regolamento piú accurato dei commerci, che
venne ribadito da una serie di trattati e protocolli. Si conserva il testo di una
legge emanata nel 408/9: in base a questo provvedimento, i mercanti romani
che volessero operare oltre la frontiera erano obbligati a fermarsi in determi-
nati centri di scambio: « I mercanti, sia quelli soggetti al nostro impero che
quelli soggetti al re dei Persiani, non devono tenere mercato al di là di quei luo-
ghi convenuti al tempo del trattato con il suddetto popolo, perché non osser-
vino i segreti del regno straniero, cosa che non è stata convenuta. Pertanto, da
allora, nessuno che sia soggetto al nostro impero osi spingersi oltre Nisibi, Cal-
linicum e Artaxata per comprare o vendere, e non pensi di poter barattare delle
merci con un Persiano, se non nelle suddette città: entrambi i contraenti sono
consapevoli che le singole merci che siano vendute o comprate oltre quei luo-
ghi verranno sequestrate in favore del nostro sacro erario, e che in aggiunta, ol-
tre alla perdita delle merci stesse e della somma con cui sono state pagate, sa-
ranno condannati all’esilio perpetuo. Vi sia inoltre la condanna a pagare trenta
libbre d’oro, ai governatori o ai loro sostituti, per ogni singola transazione ese-
guita oltre i suddetti luoghi, i cui limiti proibiti siano stati oltrepassati da un
Persiano o da un Romano per ragioni commerciali (extra memorata loca per quo-
rum limitem ad inhibita loca mercandi gratia Romanus vel Persa commeaverit). Ovvia-
mente va fatta eccezione per coloro i quali recano merci da scambiare nell’oc-
casione in cui si trovino al seguito delle ambascerie che i Persiani inviano pres-
so la nostra clemenza; per loro ammettiamo, in considerazione dell’indulgen-
za determinata dall’ambasceria, la possibilità di commerciare oltre i luoghi de-
terminati in precedenza, a meno che, se rimanendo troppo a lungo in una
qualsiasi provincia col pretesto di compiere l’ambasceria, [contesto lacunoso]

32. P. Arnaud, Frontière et manipulation géographique: Lucain, les Parthes et les Antipodes, in La frontiè-
re, a cura di Y. Roman, Lyon, Maison de l’Orient, 1993, pp. 45-56, spec. p. 47. In generale, vd. C.R.
Whittaker, Frontiers of the Roman Empire: A social and economic Study, Baltimore, Johns Hopkins
Univ. Press, 1994; Id., Rome and its Frontiers: The Dynamics of Empire, London, Routledge, 2004.

25
introduzione

senza scortare l’ambasciatore nel suo rientro in patria. Infatti, la pena prevista
da questa sanzione deve colpire chi svolge attività commerciali insieme a quel-
li con cui hanno effettuato delle transazioni al momento del loro soggiorno »
(Codice di Giustiniano, iv 63 4).33
In determinati casi si poteva ricorrere alla chiusura della frontiera, anche se
probabilmente questo avveniva solo in caso di guerra.34 Ma in alcune zone piú
difficili da controllare gli indigeni tendevano a ignorare i divieti, come nel ca-
so degli Armeni che vivevano nella regione della Chorzene: in questa terra,
nel VI secolo, Giustiniano aveva fatto costruire la fortezza di Araleson, in fun-
zione difensiva contro i Persiani ma soprattutto per controllare la popolazione
armena che, approfittando dello stato di confusione, ignorava la guerra tra i
due imperi e continuava a esercitare pacificamente i consueti scambi com-
merciali (Procopio, Gli edifici, iii 39-40). Sia i Romani che i Persiani cercarono
invano di imporre le proprie logiche anche nei territori di frontiera piú diffici-
li, mossi dal medesimo proposito che aveva spinto Alessandro Magno e i suoi
successori a esportare il modello mediterraneo di urbanizzazione. Giustinia-
no fu l’ultimo a coltivare questo progetto, che in molti casi si rivelava utopisti-
co, ma che trova riscontro anche nell’impero rivale dei Sasanidi, dove alcuni
sovrani tentarono anch’essi di ricorrere alla fondazione di città per cementare
le diverse realtà etniche del loro impero multinazionale: un martirologio siria-
co del IV secolo, gli Atti di Pusai, testimonia la costruzione del centro di Kar-
ka-d-Ladan da parte di Ša6buhr II, dove però il tentativo di costituire una me-
tropoli multietnica sortí l’effetto non previsto di aprire le porte alla cristianiz-
zazione del paese (Atti di Pusai, in Atti dei Martiri siriaci, ii 209).35
Simili fondazioni richiedevano un grande impegno di manodopera, e in
questi casi era utile ricorrere anche alla forza lavoro dei nemici vinti. Il testo
persiano della Storia dei Profeti e dei Re dello storico arabo T‡ abarı6 tramanda una
singolare versione della vicenda dell’imperatore Valeriano dopo la sua cattura

33. Vd. K.-H. Ziegler, Regeln für den Handelsverkehr in Stäatsvertragen des Altertums, in « Tijdschrift
voor Rechtsgeschiedenis », a. lxx 2002, pp. 55-67, a p. 55.
34. Vd. p. es. la Vita di Malco di San Girolamo, o il par. 20 del Pellegrinaggio di Egeria, e le osserva-
zioni di H. Elton, Defining Romans, Barbarians, and the Roman Frontier, in Shifting Frontiers in Late An-
tiquity, a cura di R.W. Mathisen, H.S. Sivan, Aldershot, Variorum, 1996, pp. 126-35.
35. Il passo è citato da S. Brock, Christians in the Sasanid Empire: A Case of divided Loyalties (1982), in
Id., Syriac Perspectives in Late Antiquity, London, Variorum, 1984, pp. 1-19. Vd. N. Pigulevskaja, Les
villes de l’Etat iranien aux époques parthe et sasanide. Contribution à l’histoire sociale de la Basse Antiquité, Pa-
ris-La Haye, Mouton, 1963.

26
fratture e persistenze dell’ecumene romana

da parte di Ša6buhr I:36 all’Augusto sarebbe stata offerta la libertà se avesse con-
vocato dal « paese di Ru6m », ovvero dall’impero romano, degli esperti romani
per fortificare una grande piazzaforte. « Il re di Ru6m inviò un messo, e gli arti-
giani romani arrivarono. Ša6buhr diede loro quest’ordine: “voglio che voi co-
struiate dei contrafforti tutto attorno a questa città, di modo che il suo suolo
possa riposarvi sopra. Scavate le fondamenta fino a raggiungere l’acqua, poi ri-
empitele di mattoni, calce e pietra, e gettatevi sopra della terra. Queste fonda-
menta dovranno avere una larghezza di mille cubiti e una lunghezza di mille
cubiti, sí ch’io possa costruirvi sopra le mura della città”. Essi eseguirono tutto
il lavoro, che venne fatto a spese del re di Ru6m che era prigioniero, finché l’o-
pera non fu ultimata. Quindi Ša6buhr gli diede la libertà, dopo avergli tagliato il
naso, dicendogli: “occorre assolutamente che tu rechi sul viso il marchio della
cattività”, dopodiché lo lasciò andare ».37
Per quanto romanzato, l’aneddoto presenta un fondo di verità. Già ai tempi
della sconfitta di Crasso a Carre, nel 53 a.C., prigionieri romani erano stati im-
piegati come maestranze specializzate per costruire la fortezza di Merv in Asia
centrale (Plinio il Vecchio, vi 18);38 e un secolo dopo la cattura di Valeriano,
quando Ša6buhr II respinse la spedizione di Giuliano nel 363, una clausola del
trattato stipulato con il successore Gioviano prescriveva che i Romani aiutas-
sero i vincitori a costruire una barriera contro i « barbari sconosciuti » del Nord
(Giovanni Lido, Sulle magistrature, iii 52), presso quel valico noto ancora come
le “porte di Alessandro”.39 In effetti, se i Persiani stimavano gli artefici dell’Oc-
cidente per le loro cognizioni tecniche, al tempo stesso esprimevano il loro
disprezzo per queste arti degne delle caste inferiori e, appunto, dei popoli vas-
salli.40
Naturalmente, queste posizioni ideologiche non coincidevano necessaria-
mente con la realtà, tanto è vero che il principe sasanide Hormisdas, rifugiato-
si alla corte di Costanzo II, venne definito da Ammiano come « grande specia-

36. Vd. T. Gnoli, Da Traiano agli Antonini, in Storia d’Europa, vi, cit., pp. 131-64.
37. T‡ abarı6, Storia dei Profeti e dei Re, dalla trad. francese di H. Zotenberg, riedita in T‡ abarî. La
Chronique. Histoire des prophètes et des rois, i. De la Création à David. De Salomon à la chute des Sassanides,
Arles, Actes Sud, 1984, p. 183-84. La versione araba riporta l’aneddoto con alcune varianti: le mae-
stranze romane sarebbero state impiegate per costruire una diga.
38. Vd. G. Traina, La resa di Roma. Battaglia a Carre, 9 giugno 53 a.C., Roma-Bari, Laterza, 2010.
39. Vd. Girolamo, Lettere, lxxvii 8.
40. Per alcuni esempi tratti dalla letteratura pahlavi, e dalla piú tarda epica neopersiana, vd. G.
Traina, I Romani, maestri di tecnica, in Innovazione tecnica e progresso economico nel mondo romano. Atti
degli Incontri di Capri, 13-16 aprile 2003, a cura di E. Lo Cascio, Bari, Edipuglia, 2006, pp. 253-69.

27
introduzione

lista di architettura ».41 Come del resto gli altri orientali, i Persiani considerava-
no i Romani come depositari di una grande cultura tecnica, che cercavano in
qualche modo di far propria:42 secondo Vegezio, che nel IV secolo scrisse un
trattato militare, essi avrebbero imitato i Romani anche nella pratica di circon-
dare i campi fortificati con un vallo (L’arte della guerra, iii 10 15). Ammiano Mar-
cellino, narrando la marcia di avvicinamento di Giuliano nella regione del Ti-
gri, ricorda: « trovammo una residenza reale costruita all’uso romano, che la-
sciammo intatta in quanto la cosa era stata apprezzata » (xxiv 5 1). La sua testi-
monianza è confermata da precisi riscontri archeologici, con la scoperta di di-
versi forti di tipo “romano”, a pianta quadrata con bastioni tondeggianti, in va-
rie località dell’impero sasanide, in particolare sulla frontiera mesopotamica o
nei pressi delle grandi città.

5. Vicende della città tardoantica


Con la disgregazione dei modelli culturali del mondo classico, spesso ac-
compagnata da eventi drammatici, il mondo delle campagne entrava nella sto-
ria, diventando molto spesso competitivo con le realtà cittadine, e gli stessi in-
dividui che vivevano nelle aree urbane cominciavano a mettere in discussione
il ruolo di protagonista della civitas.43 Un esempio indicativo di come questa
« epoca di angoscia »44 influisse (perlomeno in Occidente) anche sull’immagi-
ne urbana è l’epistola che Ambrogio inviò nel 387 all’amico Faustino, per con-
solarlo di un recente lutto. In questa lettera egli rievoca la desolazione delle
città dell’Emilia, devastata dal recente conflitto originato dall’usurpazione di
Magno Massimo:45 « Mentre venivi dalla città di Bologna, ti lasciavi alle spalle

41. Il passo di Ammiano è oggi perduto, ma a quanto pare era presente in un manoscritto utiliz-
zato dall’umanista Flavio Biondo, secondo le indagini di R. Cappelletto, Recuperi ammianei da
Biondo Flavio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1983; vd. A. Cameron, Biondo’s Ammianus:
Constantius and Hormisdas in Rome, in « Harvard Studies in Classical Philology », a. xcii 1989, pp.
423-36.
42. Vd. G. Traina, Conclusione, in questo volume, pp. 000-00.
43. Sui problemi della città tardoantica vd. P. Porena (per gli aspetti amministrativi), F. Maraz-
zi (per i caratteri urbanistici monumentali) e A. Ibba (per il caso africano), in questo volume, pp.
000-00, 000-00 e 000-00.
44. L’espressione Age of Anxiety, del poeta Winston Auden, è stata riproposta per il tardoantico
da E. Dodds, Pagani e Cristiani in un’epoca di angoscia, Firenze, La Nuova Italia, 1975 (ed. or. Cam-
bridge, Cambridge Univ. Press, 1965), e poi da R. Bianchi Bandinelli, Roma. La fine dell’arte anti-
ca, Milano, Rizzoli, 20052, pp. 23 sgg. (1a ed. 1970).
45. Sul contesto, vd. U. Roberto, in questo volume, pp. 000-00, partic. pp. 000.

28
fratture e persistenze dell’ecumene romana

Claterna, la stessa Bologna, Modena e Reggio, sulla destra c’era Brescello, di


fronte ti veniva incontro Piacenza che fa risuonare ancora la sua antica nobiltà,
e sulla sinistra provavi pena per le terre incolte degli Appennini, consideravi i
castelli un tempo fiorenti e li passavi in rassegna con un doloroso sentimento.
Orbene, tanti cadaveri di città semidistrutte e il funereo aspetto delle campa-
gne non ti insegnano che bisogna ritenere piú consolante la morte di una don-
na sola per quanto santa e ammirevole? Tanto piú che quelle sono abbattute e
distrutte per sempre, questa, invece, benché tolta a noi per un certo tempo, vi-
ve lassú una vita migliore » (Ambrogio, Lettere, viii 3 ed. Faller). L’espressione
semirutarum cadavera urbium è stata spesso elevata a esempio paradigmatico di
un’effettiva decadenza materiale delle città, laddove in realtà Ambrogio po-
trebbe riferirsi al declino del modello tradizionale della civitas romana, che sta-
va vivendo un’epoca di trasformazioni radicali.46
Beninteso, la distruzione della città non rappresentava solo una metafora,
ma era anche una realtà concreta e materiale. Tuttavia, non tutti gli autori di
quell’epoca si mostravano cosí sensibili. Una generazione piú tardi, rievocan-
do il tremendo shock causato dal sacco di Roma del 410, evento che produsse ri-
percussioni ideologiche su tutto l’impero, Agostino non fa alcun riferimento
alla drammatica devastazione dei monumenti dell’Urbe, soffermandosi esclu-
sivamente sulla sorte dei cittadini, e raccontando che, per salvarsi dalla strage,
molti pagani si erano finti cristiani cosí da potersi rifugiare nelle basiliche, dal
momento che i Goti, barbari ma rispettosi della religione cristiana, risparmia-
vano questi luoghi di culto (Agostino, La città di Dio, i 1 1).47 D’altra parte, se i
pensatori cristiani avevano le loro ragioni per concentrarsi sulle perdite uma-
ne piuttosto che sulla distruzione delle vestigia pagane, le autorità imperiali
non potevano permettersi di trascurare gli aspetti materiali legati a distruzioni
o crolli: i testi ufficiali, le iscrizioni e gli storiografi esprimono la costante
preoccupazione di restaurare o costruire ex novo i moenia, un termine che in ge-
nere designa le fortificazioni, ma spesso, in senso traslato, indica anche le co-
struzioni poste all’interno delle mura cittadine, e soprattutto gli edifici pubbli-
ci. Verso la metà del IV secolo, l’Anonimo autore del trattato su Le cose della
guerra si lamentava delle spese che venivano richieste ai contribuenti per que-

46. Per una discussione ragionata delle varie interpretazioni del passo vd. ultimamente E. Lo
Cascio, Introduzione, in S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV secolo, Milano, Rizzoli, 20022, pp. i-xxix,
spec. p. xxiii n. 54.
47. Mazzarino, La fine del mondo antico, cit., pp. 71 sgg.; M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Mi-
lano, Adelphi, 1994 (20032), p. 40.

29
introduzione

ste opere, che ovviamente davano luogo a speculazioni da parte dei governa-
tori preposti al ritiro delle tasse.48 Piú tardi, sotto Giustiniano, questa politica
conobbe una fortissima spinta, testimoniata dai provvedimenti giuridici, dalle
iscrizioni e in particolare dal singolare trattato Gli edifici, ultimato da Procopio
di Cesarea verso la metà del VI secolo e destinato a illustrare i monumenti e le
fortificazioni promossi con grande impegno del basileús: « Ora, come ho detto,
bisogna passare a illustrare l’opera edilizia dell’imperatore: infatti, non deve
accadere quello che è avvenuto ad altri tempo addietro. Infatti, chi osserva il
numero e la grandezza degli edifici allestiti, stenta a credere che si tratti dell’o-
pera di un sol uomo » (Procopio, Gli edifici, i 1 17). Poco prima, Procopio aveva
affermato in modo ancor piú categorico: « che egli non si limitò ad acquisire
nuovi stati, ma si curò di procurare al potere di Roma dei paesi ch’erano stati
altrui, e creò (dede6mioúrge6ken) innumerevoli città che prima non esistevano »
(ivi, i 1 8).
In realtà, dietro la cortina di adulazione Procopio non riusciva a celare la
propria avversione per gli eccessi propagandistici di Giustiniano. Non è esclu-
so che anche il trattato Gli edifici presentasse delle allusioni ironiche ben nasco-
ste, anche perché tutti i lettori di Procopio sapevano bene che i numerosi in-
terventi di restauro delle varie fortezze della linea di frontiera non erano certo
state opera di un sol uomo, bensí di piú imperatori.49 L’aspetto ideologico è qui
fondamentale: per Giustiniano, le attività di costruzione costituivano un ele-
mento chiave per vincere i barbari e preservare al tempo stesso i commerci, e
di qui nasceva lo sforzo profuso per fondare o rafforzare le città di frontiera,
come in Mesopotamia, in Anatolia e in Africa.50
Del resto, anche le autorità ecclesiastiche dovevano occuparsi degli aspetti
materiali di una città, ormai investita da un processo di cristianizzazione che
implicava anche la trasformazione radicale degli spazi urbani;51 per questa ra-
gione, il vescovo acquistava un potere decisamente superiore rispetto alle an-
tiche aristocrazie curiali. A partire dal IV secolo, le Chiese cristiane comincia-

48. Vd. Anonimo, Le cose della guerra, iv 4, e il commento di A. Giardina, in Anonimo, Le cose del-
la guerra, a cura di A. Giardina, Milano, Mondadori, 1989, pp. 103-4.
49. Vd. B. Croke-J. Crow, Procopius and Dara, in « Journal of Roman Studies », a. lxxiii 1983, pp.
143-59 (che però di Procopio non sembrano cogliere l’ironia, ma solo gli intenti propagandistici).
Sull’opera vd. ora « De aedificiis ». Le texte de Procope et les réalités, a cura di C. Roueché, in « Antiqui-
té Tardive », a. viii 2000, pp. 5-180.
50. Vd. S. Cosentino, in questo volume, pp. 000-00.
51. Vd. l’articolo ormai classico di G. Dagron, Le christianisme dans la ville, in « Dumbarton Oaks
Papers », a. xxxi 1977, pp. 1-25.

30
fratture e persistenze dell’ecumene romana

rono ad assumere la direzione tecnica di varie opere nelle città e nelle campa-
gne, sostituendosi alle élites municipali. Mentre l’impero si preoccupava so-
prattutto di gestire le sue proprietà, controllando e difendendo le regioni piú
esposte al pericolo nemico, nelle regioni “cristianizzate” il vescovo diventava
imprenditore, svolgendo una funzione parallela a quella dei funzionari impe-
riali.52
Alcune realtà urbane mostrano che la variazione dei modelli poteva essere
anche radicale. Ciò scatenava le polemiche dei conservatori, che reagivano al-
le trasformazioni esprimendo ancor piú fortemente il proprio attaccamento ai
valori del passato. L’aristocratico gallico Sidonio Apollinare, interprete e al
tempo stesso protagonista delle ultime battute di un impero d’Occidente or-
mai al suo capolinea, in un’epistola del 468 si abbandona a una feroce critica
della realtà materiale della capitale occidentale, la lagunare Ravenna:
In questa palude, dove ogni norma è sovvertita senza posa, i muri cascano e le acque
stanno ferme, le torri si spostano a pelo d’acqua e le navi non si muovono, nei bagni
pubblici si gela e nelle case private si scoppia dal caldo, gli dèi hanno sete e i sepolti nuo-
tano, i ladri vegliano e le autorità dormono, i chierici prestano a interesse e i Siri canta-
no salmi, i commercianti servono il Signore e i monaci commerciano, i vecchi pensano
a giocare a palla e i giovani ai dadi, gli eunuchi si interessano alle armi e i federati alla
cultura. Tu vedi quale possa essere una città [ . . . ] che piú facilmente può avere un ter-
ritorio che non la terra! (Sidonio Apollinare, Lettere, i 8 2).

Sidonio evoca le peculiarità della città servendosi consapevolmente di uno


schema retorico, ossia capovolgendo ogni aspetto atteso e trasformando Ra-
venna in un paradossale “città alla rovescia”. A Ravenna, dunque, una popola-
zione variopinta e movimentata, e che Sidonio descrive con toni perplessi, vi-
veva in mezzo a curiose innovazioni, come torri che « si spostano a pelo d’ac-
qua » e navi che « non si muovono ». Si trattava in realtà di chiatte ormeggiate
e torri galleggianti, che dovevano servire al funzionamento della capitale lagu-
nare; ma agli occhi di Sidonio, che in un’altra celebre epistola descrisse il pro-
prio latifondo in Gallia come un microcosmo rurale provvisto di ogni « urba-
nità » (ivi, ii 2), questi elementi insoliti e scandalosi costituivano una vera e pro-
pria negazione del modello stesso di città. Ciò che egli non coglieva era la for-
ma di un insediamento, tra acqua e terra, tra il dolce e il salso, particolarmente
adatto, per altro, alle esigenze della difesa. Certo, questa tipologia lontana dal-
lo schema della pólis classica aveva già colpito secoli prima un geografo come

52. Vd. M.-Y. Perrin, in questo volume, pp. 000-00.

31
introduzione

Strabone (v 1 4): ma nell’alto Adriatico, per non richiamare altri esempi piú re-
moti, vi erano altri esempi. Nel “paradosso” di Ravenna non è improprio ve-
dere un anticipo del futuro modello rappresentato da Venezia.

6. Aspettando i barbari
Come è noto, l’espressione « invasioni barbariche » è comune alla maggior
parte delle tradizioni storiografiche, ma con la significativa eccezione degli
studiosi germanici, che a partire dalla fine del Settecento hanno introdotto il
concetto di Völkerwanderung, ‘migrazione di popoli’. In un capitolo dell’Esprit
des Lois (1748), Montesquieu propose una distinzione tra « selvaggi » e « barba-
ri » che rispecchiava l’atteggiamento della cultura del suo tempo e che ha tro-
vato una sua collocazione nella cultura moderna: « i primi sono delle piccole
nazioni disperse, che per particolari ragioni non riescono a riunirsi, mentre di
solito i barbari sono piccole nazioni che riescono a farlo. I primi, di solito, so-
no popoli cacciatori, i secondi popoli pastori » (Montesquieu, L’Esprit des Lois,
xviii 11). Il filosofo francese faceva riferimento alla sua epoca, evidenziando la
differenza tra i selvaggi della Siberia e i barbari Tartari che, a differenza dei pri-
mi, almeno per un certo periodo erano stati in grado di eleggere un capo e at-
tuare cosí una politica efficace di conquista. Ma in un’operetta precedente, le
Considerazioni sulle cause delle conquiste dei Romani e della loro decadenza (1734), egli
aveva utilizzato analoghi argomenti per spiegare come una coalizione di na-
zioni barbare fosse riuscita ad avere il sopravvento sull’impero d’Occidente:
« Roma si era estesa perché non aveva avuto che delle guerre in successione:
con una fortuna incredibile, era stata attaccata da una singola nazione solo
quando quella precedente era stata annientata. Se Roma fu distrutta, questo
accadde perché tutte le nazioni la attaccarono in una sola volta, penetrando
ovunque » (cap. xix). Per Montesquieu, i barbari che fecero cadere Roma ave-
vano avuto una funzione positiva nella costruzione del nuovo mondo, anche
perché apparivano come popoli germanici mossi da un’idea di libertà che i
Romani avevano perduto da tempo.53 Questo mito dei popoli “giovani” e ri-
generatori, che avrebbero gettato le basi dell’Europa, dura ancor oggi, come
dura del resto l’idea che l’impero d’Oriente continuasse a esistere essenzial-
mente per inerzia, proprio perché i barbari non erano riusciti ad attaccare Bi-

53. U. Roberto, Montesquieu, i Germani e l’identità politica europea, in Libertà, necessità e storia. Percor-
si dell’ ‘Esprit des lois’ di Montesquieu, a cura di D. Felice, Napoli, Bibliopolis, 2003, pp. 277-322.

32
fratture e persistenze dell’ecumene romana

sanzio: un clima rievocato da uno dei componimenti piú celebri di Konstanti-


nos Kavafis, Aspettando i barbari (1908), dove si vedono i magistrati e i notabili di
Costantinopoli (?) attendere, per accoglierli con tutti gli onori, dei barbari che
non arriveranno mai. Una situazione paradossale, che si conclude con i celebri
versi: « e adesso che sarà di noi, senza barbari? Quelli erano una soluzione ».
Oggi il quadro storico appare ben diverso, e recenti messe a punto permet-
tono di avere un quadro generale del fenomeno, e soprattutto di distinguere le
invasioni vere e proprie dalle semplici scorrerie di popoli nomadi.54 È ormai
assodato che gli invasori non cercavano di stabilirsi nelle province romane per
distruggere e cambiare il sistema, ma soprattutto per fruire dei vantaggi che
offriva la macchina organizzativa imperiale. Il loro insediamento era confer-
mato dalla deditio, un atto giuridico che sanciva la sottomissione spontanea a
Roma. L’impero, a sua volta, garantiva la loro integrazione nel sistema. Peral-
tro i barbari dediticii non erano completamente integrati, dal momento che
non avevano diritto alla cittadinanza romana. Impiegati come coloni e come
soldati, essi costituivano una categoria sociale a parte. In teoria, quindi, si trat-
tava di comunità distinte, isolate dai Romani per le usanze e per lo stile di vita.
In effetti, molti di questi gruppi erano riusciti a preservare una certa identità
etnica, e questo può forse spiegare un fenomeno osservato da Peter Heather
nella documentazione scritta sulle grandi migrazioni: alcune etnie, apparente-
mente scomparse a una data epoca, “riappaiono” dopo alcuni decenni.55 Na-
turalmente, non tutti i gruppi erano dotati di un’identità cosí marcata, e in al-
cuni casi venivano semplicemente assorbiti da altri gruppi piú forti.
Si è ritenuto a lungo che queste coalizioni di popoli possedessero già allora
una caratterizzazione etnica ben definita. Si tratta però di un’interpretazione
moderna, che ha attribuito ai barbari delle precoci identità “nazionali”.56 In
realtà, in questa epoca, l’identificazione etnica era spesso legata alla scelta, da
parte di un guerriero o di un clan di guerrieri, di seguire un comandante. La
stessa identità di popolo e lingua, che per i moderni ha assunto un valore as-
siomatico, presso i popoli migratori era molto meno evidente. Inoltre, i suc-

54. Vd. la messa a punto di A. Barbero, Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano, Ro-
ma-Bari, Laterza, 2006, e ora P. Heather, La caduta dell’impero romano. Una nuova storia, Milano,
Garzanti, 2008 (ed. or. Oxford, Oxford Univ. Press, 2006), e Id., Empires and Barbarians: Migration,
Development and the Birth of Europe, London, Macmillan, 2009.
55. P. Heather, Disappearing and reappearing Tribes, in Strategies of Distinction. The Construction of eth-
nic Communities, 300-800, a cura di W. Pohl, H. Reimitz, Leiden, Brill, 1998, pp. 95-111.
56. Vd. P.J. Geary, Il mito delle nazioni. Le origini medievali dell’Europa, pref. di G. Sergi, Roma, Ca-
rocci, 2010 (ed. or. Princeton, Princeton Univ. Press, 2002).

33
introduzione

cessi di una nazione barbarica potevano determinare presso gli altri popoli l’a-
dozione di “mode” e di analoghe forme di emulazione. Una certa omogenei-
tà si riscontrava solo nel gruppo dominante, che dava il nome all’etnia. Di fat-
to, i gruppi di “barbari” venivano chiamati con i loro nomi effettivi (Goti, Un-
ni, Svevi, Vandali, Franchi), ovvero con dei nomi dal sapore piú classico quali
“Sciti” o “Massageti”. Ma varie tracce linguistiche mostrano elementi di com-
mistione fra le etnie in contatto, come nel caso dei Burgundi e degli Unni nel-
la prima fase delle migrazioni.
Diversamente da Montesquieu, oggi si sa che i barbari non vinsero solo per
il loro spirito libero e per le circostanze che permisero loro di penetrare in piú
punti dell’impero, ma anche grazie alle cognizioni tecniche che avevano ap-
preso proprio dai Romani; in particolare di quelle militari, grazie allo scambio
di informazioni e all’esperienza maturata militando per una o entrambe le par-
tes imperiali.57 Con questo bagaglio di conoscenze, essi giunsero addirittura a
concepire efficaci macchine da guerra per l’assedio delle città, come fecero già
i Goti nel III secolo (Dexippo, fr. 27 ed. Jacoby), e piú tardi, con risultati ancor
piú soddisfacenti, gli Unni, come per l’assedio di Naissos nel 441:
I barbari, desiderosi di prendere una città cosí popolosa e insieme fortificata, ricorsero
a ogni espediente. Poiché gli assediati non avevano il coraggio di fare una sortita e af-
frontarli in battaglia, i barbari, per rendere piú facile il passaggio al grosso dell’esercito,
costruirono un ponte sul fiume nella parte meridionale, là dove scorre accanto alla cit-
tà, e avvicinarono macchine da guerra alla cinta delle mura, prima di tutto delle travi
montate su ruote, perché cosí fosse piú facile accostarle. Uomini ritti su queste travi
scagliavano frecce contro i difensori sugli spalti, mentre altri uomini che si trovavano
alle due estremità del palo trasversale procedevano a piedi spingendo le ruote (Prisco,
fr. 1b ed. Carolla).58

Per molto tempo, simili brani sono stati considerati con scetticismo, anche
perché gli autori dell’epoca in genere si rifiutavano, persino di fronte all’evi-
denza, di ammettere l’esistenza di una tecnologia barbarica. In realtà, i barbari
non solo erano in grado di assimilare, ma addirittura di perfezionare la tecno-
logia romana.59 Un secolo piú tardi Procopio, un autore solitamente critico,

57. Vd. Heather, La caduta dell’impero, cit.


58. Trad. in Prisci Panitae, Fragmenta, cit.
59. Non a caso, una legge del 419 puniva con la morte i fabbricanti di navi che avessero divulga-
to i loro segreti ai barbari (Codice Teodosiano, ix 40 24): ma questo non sembra aver scoraggiato si-
mili scambi di tecnologia, tanto è vero che nel 429 i Vandali allestirono una grande flotta per spo-
starsi dalla Spagna e invadere in massa l’Africa.

34
fratture e persistenze dell’ecumene romana

dovette ammettere l’ingegnosità degli Unni nel concepire un ariete formida-


bile: « fecero un’invenzione quale mai era venuta in mente a nessuno dei Ro-
mani e dei Persiani, da che esiste il mondo, quantunque tanto nell’una che nel-
l’altra nazione vi sia sempre stata, e vi sia tuttora, una grande quantità di esper-
ti tecnici. Sebbene parecchie volte, nel corso della loro storia, ambedue i po-
poli si fossero trovati nella necessità di escogitare qualche accorgimento spe-
ciale per attaccare una fortezza situata in terreni ripidi e di difficile accesso, mai
a nessuno di loro era venuta in mente l’idea che ora ebbero invece quei barba-
ri. Cosí, nel trascorrere dei secoli, la natura umana progredisce facendo sem-
pre nuove scoperte » (Procopio, Guerra gotica, iv 11 27 sgg.).60
Ma questi popoli di « uomini senza terra » erano anche ottimi coltivatori,
tanto da riscattare con il loro lavoro le terre abbandonate dai Romani. Alla fi-
ne del III secolo, un retore della Gallia indicava come essi facessero a gara per
insediarsi in zone tradizionalmente considerate come deserte (solitudines: Pa-
negirici Latini, viii 9 1).61 È probabile che episodi di questo genere fossero dap-
prima sporadici, e venissero evidenziati dagli autori dell’epoca proprio per lo
scalpore che questi barbari agricoltori dovevano destare. Ma è anche possibile
che le autorità incoraggiassero il fenomeno a causa dell’oggettiva difficoltà a
rimettere in funzione certi tipi di terreno abbandonato, che richiedevano l’in-
tervento dell’esercito o appunto di coloni che i Romani consideravano ele-
menti avvezzi a territori selvaggi e difficili. La tendenza a sfruttare questi uo-
mini, impiegandoli nel riscatto dei terreni piú ardui, può quindi essere risulta-
ta conveniente sia per i proprietari sia per l’impero, a parte le strategie di al-
leanza che miravano a controllare i disordini sociali.62 In ogni caso, anche se
questi nuovi coloni avranno certamente portato nuove abitudini e consuetu-
dini rurali, non è il caso di parlare di una « barbarizzazione del territorio » co-
me del resto qualcuno ancora ritiene, dal momento che le strutture agrarie
continuarono a seguire a lungo i sistemi tradizionali.
Un esempio significativo si può individuare in un passo del poeta Flavio

60. Trad. in Procopio, La guerra persiana, vandalica, gotica, a cura di M. Craveri, Torino, Einaudi,
1977.
61. L. Ruggini, Uomini senza terra e terra senza uomini nell’Italia antica, in « Quaderni di sociologia
rurale », a. iii 1963, pp. 20-41; M. De Dominicis, Aspetti della legislazione del Basso Impero sugli “agri de-
serti” (1964), in Id., Scritti romanistici, Padova, Cedam, 1970, pp. 165-79.
62. Vd. B. Luiselli, La società dell’Italia romano-gotica, in Atti del vii Congresso internazionale di studi
sull’Alto Medioevo, Norcia-Subiaco-Montecassino, 29 settembre-5 ottobre 1980, Spoleto, Cisam,
1982, pp. 49-116, spec. pp. 51 sgg.

35
introduzione

Merobaude, che nel V secolo cantò le gesta dell’imperatore Valentiniano III e


del suo generale, il grande Aezio: egli loda il ritorno alla terra in Armorica se-
condo i pacifici costumi di un tempo, e gli abitanti gallici delle campagne che
accettano nuovamente l’autorità della legge romana. E benché i campi siano
arati da « aratri gotici », tuttavia non si accettano piú le « comunanze (consortia)
barbariche con i popoli vicini » (Merobaude, Per il terzo consolato di Aezio, 10
sgg.). Il poema si data al 446, all’indomani delle rivolte dei Bacaudae: i possessores
locali riprendevano la conduzione delle terre, ma per riorganizzare l’agricol-
tura dovevano servirsi di attrezzi, e forse anche di agricoltori di origine barba-
rica. Ciò non è affatto strano, se si pensa che nella Gallia del V secolo circola-
vano carpentieri burgundi (Socrate, Storia ecclesiastica, vii 30): ora, i Burgundi
non si erano installati nell’attuale Savoia come invasori, bensí in qualità di co-
loni, con un’operazione condotta dallo stesso Aezio, che altrove aveva fatto in-
stallare gli Alani, una popolazione di stirpe iranica. Tutto questo avveniva con
il consenso dei grandi proprietari terrieri, che consideravano lo stanziamento
di barbari come un male minore rispetto alla minaccia delle rivolte interne dei
Bacaudae. A differenza dei notabili bizantini nella poesia di Kavafis, in questo
caso le aspettative non erano state deluse: questa volta, i barbari tanto attesi
avrebbero rappresentato la soluzione, e molto piú di quanto non si immagi-
nasse.

36
CONCLUSIONE

UN IMPERO DI TRANSIZIONE
di GIUSTO TRAINA

1. Un bilancio dall’esterno
I Ru6m stabilirono il loro dominio sui Greci in seguito ad avvenimenti che sarebbe
troppo lungo raccontare e che è impossibile esporre in quest’opera. Il primo re dei
Ru6m fu Ma6sa6tu6ha6s, che non è altri che G˛ a6iyus il Giovane, figlio di Ru6m, figlio di Sa-
ma6halı6q, di cui il regno durò ventidue anni; oppure, se bisogna credere ad altre opinio-
ni, Cesare, il cui nome è Gaio Giulio, che regnò diciotto anni. Secondo un altro mano-
scritto, il primo re di Ru6m che regnò a Roma dopo i Greci fu Giulio, che tenne il pote-
re per sette anni e mezzo: Roma esisteva già da quattrocento anni.1

Cosí scriveva il grande storico e geografo del X secolo Abu al-H‡ asan ‘Alı6 ibn al-
H‡ usayn ibn ‘Alı6 al-Mas‘u6dı6, che qui utilizza un’accezione del nome Ru6m ri-
stretta ai soli Romani, laddove molti altri autori la utilizzano per definire il
mondo classico nel suo insieme, e anche quello bizantino.2 Sotto la lente di
questo Erodoto islamico, pur evitando le distorsioni o i toni ostili presenti in
altri autori arabi, il passato di Roma si stempera e si confonde, per apparire co-
me una realtà lontana. Al tempo stesso, la periodizzazione proposta è quella
della successione lineare e inevitabile degli imperi: Roma si impone sulla Gre-
cia, per regnare incontrastata sino all’avvento dell’Islam. Lo scenario può sem-
brare insolito, ma in realtà, se si parlasse di « Medioevo occidentale » anziché di
« Islam », si ritroverebbe una visione familiare.
Introducendo il trittico su Roma della Storia d’Europa e del Mediterraneo, ho
formulato una critica implicita alla tradizionale divisione della storia antica
che prevede l’avvicendamento di Vicino Oriente, Grecia e Roma.3 Giunti alla
fine del percorso, si può concludere che questa divisione non ha piú ragione di
esistere. O meglio, essa continuerà a esistere in attesa di un nuovo paradigma

1. Mas‘u6dı6, I prati d’oro, par. 716, in M. Di Branco, Storie arabe di Greci e di Romani. La Grecia e Ro-
ma nella storiografia arabo-islamica medievale, Pisa, Plus-Pisa Univ. Press, 2009.
2. Su tutta la questione vd. Di Branco, Storie arabe, cit. Il passo di Mas‘u6dı6 è commentato alle pp.
109-10.
3. G. Traina, Imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.C., in Storia d’Europa e del Mediterraneo,
v. La “res publica” e il Mediterraneo, a cura di Id., Roma, Salerno Editrice, 2008, pp. 17-48, a p. 17.

699
un impero di transizione

globale, e di una rielaborazione della storia piú aderente all’evoluzione del


mondo nel XXI secolo. Si può quindi ancora considerare Roma come una
tappa tra la civiltà greca e quella medievale, ma solo a patto di riconoscere la
galassia multietnica e multiculturale su cui l’imperium Romanum si è imposto
per secoli: che la sopportassero o meno, Greci, Aramei, Celti o Berberi rico-
noscevano la potenza romana, pur interpretandola in modo diverso e sulla ba-
se delle rispettive identità.
Gli osservatori piú attenti di Roma furono i Greci. Non a caso, all’epoca in
cui si fa iniziare la storia dell’imperium Romanum, il filosofo Eraclide Pontico,
probabilmente discepolo di Aristotele, parlava di Roma come di una « città
greca » (fr. 102 ed. Wehrli = Plutarco, Camillo xxii 2).4 Gli stessi annalisti e anti-
quari romani svilupparono questa idea, giustificata alla luce del linguaggio co-
mune creato dalla cultura ellenistica, ben radicata presso gli autori latini.5 Ma
l’incontro non fu sempre indolore, come mostra ad esempio il celebre episo-
dio della morte di Archimede, trucidato nel 212 a.C., al momento della presa di
Siracusa da parte di Marcello. Il grande scienziato, totalmente assorto nella ri-
soluzione di un problema, si sarebbe opposto all’ordine del soldato che gli in-
timava di seguirlo, e ne avrebbe provocato cosí l’ira omicida (Plutarco, Marcel-
lo, xix 8-11). Plutarco riporta altre due varianti della leggenda, anch’esse ben
poco lusinghiere nei confronti dell’arroganza romana, ma il senso dell’aned-
doto non varia di molto: nonostante le loro pretese di humanitas, i Romani ave-
vano mantenuto la stessa attitudine che li aveva caratterizzati sin dai primordi.
Tuttavia, i Greci provavano sentimenti contraddittorî. Due secoli e mezzo
prima di Plutarco, lo storico Polibio ammirava « lo spettacolo impressionante
e grandioso » dell’epoca d’oro dell’imperialismo romano, il cui dominio aveva
surclassato i precedenti imperi, estendendosi su uno spazio geografico senza
precedenti e su popolazioni ben piú bellicose (Polibio, i 2). Appassionato di-
fensore della libertà delle città greche, Polibio considerava il dominio romano
come un male minore rispetto a quello dei re ellenistici: non molto prima, in-
torno al 175 a.C., un atteggiamento analogo era già stato espresso dagli opposi-
tori ebrei del regime seleucide:

4. Su possibili (e peraltro discutibili) testimonianze precedenti, vd. G. Vanotti, Roma “polis Hel-
lenis”, Roma “polis Tyrrhenis”. Variazioni sul tema, in « Mélanges de l’École Française de Rome-Anti-
quité », a. cxi 1999, p. 217-55, con bibliografia. In generale, vd. L. Canfora, Roma “città greca”, in
« Quaderni di Storia », a. xx 1994, pp. 5-41.
5. Per un punto di vista linguistico, vd. C.A. Ciancaglini-S. Kaczko, Greco e latino, lingue dell’el-
lenismo, in Storia d’Europa, v, cit., pp. 655-96.

700
conclusione

Giuda venne a conoscere la fama dei Romani: che essi erano molto potenti e favoriva-
no tutti quelli che simpatizzavano per loro e accordavano amicizia a quanti si rivolge-
vano a loro e che erano forti e potenti. Gli furono narrate le loro guerre e le loro im-
prese gloriose compiute tra i Galli: come li avessero vinti e sottoposti al tributo. Aveva
saputo quanto avevano compiuto nella Spagna per impadronirsi delle miniere di oro e
di argento che vi sono; e come avevano sottomesso tutta la regione con la loro saggez-
za e costanza, benché il paese fosse assai lontano da loro, e avevano vinto i re che era-
no venuti contro di loro dall’estremità della terra: li avevano sconfitti e avevano inflit-
to loro gravi colpi e gli altri re pagavano loro il tributo ogni anno (Primo libro dei Macca-
bei, viii 1-4).

L’autore del Primo libro dei Maccabei prosegue in una descrizione dell’espansio-
ne romana e della politica estera dei discendenti di Romolo: « Quelli che essi
vogliono aiutare e far regnare, regnano; quelli che essi vogliono, li depongono,
tanto si sono innalzati in potenza » (ivi, viii 13). Arnaldo Momigliano ha osser-
vato che questo testo riflette « meglio di qualsiasi pagina di Polibio la meravi-
glia dell’uomo comune di fronte all’ascesa della potenza romana dalla Spagna
all’Asia minore ».6 Questa immagine impressionava profondamente i popoli
dell’Oriente. Secoli dopo, lo storico armeno Mosé di Khoren utilizza tuttora il
modello letterario di Maccabei per descrivere un presunto contatto fra Roma e
il fondatore dell’impero partico, Arsace I: lo storico riprende quasi alla lettera
il paragrafo 8 del Primo libro dei Maccabei, aggiungendo poi che il re avrebbe in-
viato un’ambasceria ai Romani, offrendo loro una somma in denaro in cambio
della loro alleanza e della promessa di non dare appoggio ai Macedoni (Mosé
di Khoren, Storia dell’Armenia, ii 2).
In ogni caso, nel II secolo a.C., nessuno avrebbe previsto che l’impero ro-
mano sarebbe durato cosí a lungo. Polibio stesso riteneva che il governo di Ro-
ma avrebbe finito per decadere.7 E l’ascesa dei Romani in Oriente fu regolar-
mente accompagnata da voci di opposizione che si richiamavano spesso a vi-
sioni di decadenza. Greci ed Ebrei svilupparono la peculiare forma letteraria
degli Oracoli Sibillini, composizioni poetiche dove i fittizi responsi profetici
delle Sibille promettevano scenari catastrofici contro gli oppressori. Simili te-
sti, rivolti dapprima contro i regni ellenistici, conobbero grande fortuna all’e-
poca dell’espansione romana: fra gli altri, se ne serví per la sua propaganda Mi-

6. A. Momigliano, Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture, Torino, Einaudi, 1980 (ed. or.
Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1975), p. 118.
7. Vd. la discussione di S. Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano, Rizzoli, 19952, pp. 17-32.

701
un impero di transizione

tridate VI Eupatore.8 Lo stesso Mitridate fu uno degli ultimi re a poter con-


trapporre il proprio prestigio regale alle umili origini dei Romani: questi ulti-
mi, secondo lui, avrebbero avversato l’autorità monarchica in quanto non po-
tevano rivendicare un adeguato pedigree. Infatti, i loro re sarebbero stati dei per-
sonaggi imbarazzanti per estrazione sociale, e oltretutto stranieri, trattandosi
di « pastori aborigeni, aruspici sabini, esuli da Corinto, schiavi e servi nati in ca-
sa etruschi, ovvero Superbi (nome che, per loro, è degno di ogni rispetto!) »
(Giustino, Storie filippiche, xxxviii 6).
Dopo la sconfitta di Mitridate, i Parti divennero il nuovo punto di riferi-
mento della resistenza contro i Romani, e la loro vittoria a Carre riaccese le
aspettative degli oppositori. I termini della propaganda non cambiarono, e la
nostalgia della regalità ellenistica continuò a rappresentare un elemento ideo-
logico efficace. Si sa che alcuni autori greci, definiti da Tito Livio come levissi-
mi ovvero « della massima inconsistenza », non si sarebbero limitati a esaltare i
Parti, ma avrebbero contrapposto ai Romani la mai dimenticata figura di Ales-
sandro Magno: il Macedone, infatti, non aveva mai subito una sconfitta, men-
tre « il popolo romano, pur non avendo perduto alcuna guerra, è stato tuttavia
vinto in molte battaglie » (Livio, ix 1 17). Il rapporto conflittuale tra la gloria del
grande re e la nascente potenza romana si ritrova in un’opera letteraria desti-
nata a una grande fortuna, il cosiddetto Romanzo di Alessandro: il testo definiti-
vo si data al III secolo, ma molte parti sembrano già state composte nel I a.C.,
all’epoca in cui scrivevano i levissimi osteggiati da Livio.9 Secondo questa narra-
zione fantastica, che rielabora peraltro elementi storicamente attendibili, sa-
rebbero stati proprio i Romani a proporre al conquistatore del mondo un’al-
leanza militare, al momento del suo sbarco in Sicilia e poi in Italia. A questo
punto il comandante Marco Emilio avrebbe offerto dei doni e un contingente
di quattrocento soldati: la quantità irrisoria di queste forze era giustificata dal-
la guerra allora in atto con Cartagine. Alessandro si sarebbe poi recato in Afri-
ca, dove dei generali locali gli avrebbero proposto di aiutarli a liberarli una
buona volta dal dominio romano, ma il re avrebbe chiuso il discorso dicendo

8. Vd. ultimamente A. Mayor, The Poison King: The Life and Legend of Mithradates, Rome’s Deadliest
Enemy, Princeton, Princeton Univ. Press, 2010, p. 35.
9. S.M. Burstein, SEG 33.802 and the Alexander Romance, in « Zeitschrift für Papyrologie und
Epigraphik », vol. lxxvii 1980, pp. 275-76; J-D. Gauger, Orakel und Brief: zu zwei hellenistischen For-
men geistiger Auseinandersetzung mit Rom, in Rom und der griechischen Osten. Festschrift für Hatto H.
Schmitt zum 65. Geburtstag, a cura di C. Schubert, K. Brodersen, U. Huttner, Stuttgart, Steiner,
1995, pp. 51-67, con ulteriore bibliografia.

702
conclusione

loro: « Se non siete capaci di essere superiori, allora dovete pagare il tributo ai
popoli che lo sono ».10 Non si sa a quando risalga l’inserzione nel Romanzo di
questo aneddoto, che mescolando vari elementi di realtà trasforma la storia in
una favola senza tempo, ma il senso del messaggio era chiaro: se la potenza ro-
mana era destinata a maggior gloria, di fronte a un re come Alessandro doveva
anch’essa piegarsi a un rapporto fondato piú sul vassallaggio che su una pari al-
leanza.
All’epoca, l’immagine del potere romano coincideva ancora con quello del-
l’Urbe, che ormai nessuno avrebbe piú potuto definire come una delle tante
città greche, anche se un osservatore come Strabone continua a descriverla co-
sí, utilizzando parametri dettati dalla propria sensibilità ellenistica.11 Non a ca-
so, egli si dilunga sul Campo Marzio, una sorta di agorà che assumeva le fun-
zioni un tempo assolte dal Foro repubblicano, e dedica un minimo spazio ai
luoghi di memoria dell’identità cittadina. Secondo il Geografo, la superiorità
di Roma era soprattutto tecnologica, e in questo non egli si distaccava molto
dagli argomenti sviluppati, pur se in funzione negativa, dai rabbini del Tal-
mud: come quando, ad esempio, Jose ben Halafta affermava che « nella gran
città di Roma vi sono 365 strade, in ognuna delle quali vi sono 365 palazzi, e
ognuno di essi ha 365 piani, di cui ognuno contiene di che nutrire l’intero uni-
verso » (Talmud Babilonese, trattato Pesahim, 118b). Ancor piú celebre è la con-
versazione riportata nel trattato Shabbat: al rabbino Jehudah, che riconosceva
ai Romani l’introduzione di opere pubbliche come « mercati, ponti e terme »
di indubbia utilità, il rabbino Shimon ben Jochai, sostenitore della tradizione,
ribatteva seccamente: « Tutto ciò che hanno costruito lo hanno fatto solo per
il proprio vantaggio: hanno costruito mercati per collocarvi delle prostitute,
bagni per rinfrescarvisi, ponti per imporvi balzelli » (Talmud Babilonese, trat-
tato Shabbat, 33b).12 La critica dei rabbini è senza appello: l’oggettiva superiori-
tà tecnica dei conquistatori è oscurata dalla loro ignoranza e crudeltà, che fa

10. Romanzo di Alessandro, i 30 (trad. in Vita di Alessandro il Macedone, a cura di C. Franco, Paler-
mo, Sellerio, 2001).
11. Strabone, v 7-8: vd. G. Traina, “Imperium”, romanizzazione, espansione, in Storia d’Europa e del
Mediterraneo, vi. Da Augusto a Diocleziano, a cura di Id., Roma, Salerno Editrice, 2009, pp. 13-40, a p.
24.
12. Su tutta la questione vd. M. Hadas-Lebel, Jérusalem contre Rome, Paris, Editions du Cerf, 1990.
Vd. anche G. Traina, I Romani, maestri di tecnica, in Innovazione tecnica e progresso economico nel mondo
romano. Atti degli Incontri capresi di storia dell’economia antica, Capri, 13-16 aprile 2003, a cura di
E. Lo Cascio, Bari, Edipuglia, 2006, pp. 253-69.

703
un impero di transizione

dell’impero un « Impero del Male » a tutti gli effetti. Insomma, erano ormai
lontani i tempi in cui Giuda Maccabeo cercava l’appoggio dei Romani, visti
ancora come un’entità potente ma distante.
Le rimostranze dei popoli soggetti, d’Oriente come d’Occidente, non sfug-
girono agli storiografi romani. Uno dei testi piú celebri è il culmine del discor-
so alle truppe che Tacito fa pronunciare al capo britanno Càlgaco, alla vigilia di
uno scontro con gli occupanti (l’anno è l’85 d.C.): « ladroni del mondo, dopo
che tutte le terre sono venute meno alla loro devastazione, frugano il mare,
avidi se il nemico è ricco, arroganti se è povero. Non si possono saziare né del-
l’Oriente né dell’Occidente: loro soli desiderano possedere con pari smania la
ricchezza e la miseria dei popoli. Passano sotto il falso nome di impero il ruba-
re, trucidare, rapinare: e quando hanno fatto il deserto, lo chiamano pace ».13
La frase finale è stata spesso rievocata, anche in tempi recenti, dai movimenti
pacifisti e antimperialisti.14 In realtà, questo magistrale pezzo di bravura reto-
rica, che ricalca esempi piú antichi come la lettera di Mitridate in Sallustio (Sto-
rie, iv 69) non costituisce in sé una critica all’imperialismo romano, né tanto-
meno al governatore Agricola che sconfisse e massacrò i Britanni nella batta-
glia in questione (si trattava infatti del suocero dello stesso Tacito), ma piutto-
sto un caveat rispetto ai rischi del malgoverno provinciale.
In ogni caso, gli argomenti attribuiti a Càlgaco non vennero recepiti dalle
aristocrazie locali coinvolte a vario titolo nel processo di romanizzazione. Nel
II d.C., Roma era ormai una realtà onnipresente, e ben poche erano le regioni
del Mediterraneo che non fossero state coinvolte appunto dalla romanizzazio-
ne e dalla crescente urbanizzazione. E il rabbino che si scandalizzava perché i
Romani costruivano luoghi di perdizione come shuk e terme non faceva che
opporsi a una sorta di globalizzazione, che tanti altri vedevano come un mon-
do di progresso e di benessere e, almeno entro certi limiti, di pace. Al di là de-
gli eccessi retorici, è quindi difficile contraddire la visione di progresso propu-
gnata dall’oratore Elio Aristide nel discorso A Roma, pronunciato intorno al
143/4: i Romani avevano trasformato la vita dei sudditi dell’impero, facendo

13. Tacito, Agricola, xxx 4 (trad. in Tacito, Opera Omnia, a cura di R. Oniga, Torino, Einaudi,
2001).
14. Andrebbe pertanto aggiornato lo studio di A. Mehl, « Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant ».
Ein antikes Zitat über römischen, englischen und deutschen Imperialismus, in « Gymnasium », a. lxxxiii
1976, pp. 281-88. Per cenni all’eco contemporanea vd. W. Benario, Tacitus’ View of the Empire and the
Pax Romana, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, a cura di H. Temporini, W. Haase, Ber-
lin-New York, De Gruyter, 1991, vol. ii/33.5 pp. 3332-53, alle pp. 3340-41.

704
conclusione

della natura selvaggia un giardino, e soprattutto installando ovunque « ginnasi,


fontane, atri, templi, laboratori di artigiani, scuole » (Elio Aristide, A Roma,
97).15 Occorreva tuttavia vigilare sugli squilibri sociali, come ricorda l’epistola
indirizzata ai censori di Roma dal filosofo Apollonio di Tiana (anno 81): « Al-
cuni di voi si sono dati da fare per allestire porti, edifici pubblici, recinzioni e
portici, ma né voi né le vostre leggi mostrano la minima sollecitudine per i
bambini o le donne delle vostre città. Se non fosse cosí, sarebbe una buona co-
sa essere uno dei vostri sudditi » (Apollonio di Tiana, Lettere, 54 ed. Penella).
Anche sotto il principato, i Greci e gli altri popoli continuarono a vivere il
dominio romano in modo contraddittorio.16 L’operazione piú ambiziosa fu
quella di Plutarco, che nelle Vite parallele volle giustapporre (salvo eccezioni) la
vita di un Greco a quella di un Romano, per meglio evidenziare le glorie della
Grecia classica ed ellenistica. Ma non tutti erano di questi avviso, e il già citato
discorso A Roma di Aristide presenta toni ben diversi: di fronte alla riuscita del
modello politico romano, Alessandro Magno viene ora ridotto « piú a un con-
quistatore di un regno che a un re vero e proprio » (Elio Aristide, A Roma, 24),
mentre gli stessi fasti dell’egemonia ateniese vengono ridotti a un’operazione
fallita, attuata in tempi non ancora maturi per la realizzazione di un imperium
degno di questo nome:
si può comunque dire che a quei tempi non esisteva ancora un sistema ordinato di po-
tere imperiale e che quindi si inseguiva il potere senza sapere come; ma, sebbene aves-
sero solo dei piccoli possedimenti, lembi estremi di un territorio e lotti coloniali, [gli
Ateniesi] non ebbero la forza di preservare neppure questi a causa della loro inespe-
rienza e della loro incapacità a governare: non riuscendo a reggere le città con la bene-
volenza, e non essendo in grado di controllarle con la forza, si dimostrarono al tempo
stesso opprimenti e deboli. E alla fine, privati delle piume come la cornacchia di Esopo,
si trovarono a combattere da soli contro tutti (ivi, 57).

Insomma, i Greci erano i peggiori nemici di se stessi, ma i Romani potevano


migliorarne le condizioni. Qualche decennio dopo, agli inizi del III secolo,
uno dei Filostrati sviluppò argomenti analoghi in un contesto tecnico, nel dia-
logo che rievoca il tentativo di Nerone di aprire un canale nell’Istmo di Corin-
to. Un personaggio chiamato Menecrate ne discute con il filosofo Musonio
Rufo, che avrebbe preso parte all’impresa del týrannos (il termine non è neces-

15. Traduzione, qui e successivamente, in Elio Aristide, A Roma, a cura di F. Fontanella, Pi-
sa, Edizioni della Normale, 2007.
16. Vd. C. Franco, Il mondo greco e il principato, in Storia d’Europa, vi, cit., pp. 309-54.

705
un impero di transizione

sariamente negativo), chiedendogli se essa « corrispondesse ai valori ellenici »


(noun échein Helléna). Musonio ribatte che « le intenzioni di Nerone erano an-
che migliori », ovvero migliori di quanto i Greci non potessero aspirare a im-
maginare (Pseudo-Luciano, Nerone, 1s.).17 Insomma, solo un potere imperiale
poteva permettersi di gestire realizzazioni cosí ambiziose per il bene dei citta-
dini.
Al tempo stesso, il dominio e le leggi dei Romani non bastavano a coprire il
divario culturale tra lo stile di vita dei conquistatori e quello degli altri popoli
mediterranei. Malgrado l’assimilazione della cultura greca da parte dell’aristo-
crazia romana, le differenze restavano importanti, e i non-Romani erano spes-
so stupiti dalle tradizioni dell’Urbe. Per cercare di spiegare ai Greci certe stra-
ne abitudini romane, Plutarco scrisse addirittura un’operetta, le Questioni ro-
mane, dove rispondeva (non sempre in modo pertinente) a interrogativi quali
« perché le donne baciano i loro familiari sulle labbra? » « perché considerano
i giorni successivi alle Calende, alle None o alle Idi come inadatti per uscire di
casa o viaggiare? », « Perché non permettono che una tavola sia sparecchiata, e
insistono che qualcosa vi rimanga sopra? », o ancora « Perché gli uomini non
possono sposarsi in maggio? ».18 Se simili precetti erano seguiti solo dai “veri”
Romani, d’altro canto ogni cittadino era tenuto a adeguarsi al diritto, che im-
plicava anche norme di comportamento sociale e familiare. Dopo il 212, alme-
no in via teorica, l’applicazione della constitutio Antoniniana avrebbe dovuto
estendere questi obblighi a tutti i sudditi dell’impero. Ma le tradizioni locali
davano luogo a forme di resistenza: ad esempio, gli Egiziani continuarono a
lungo a sposarsi tra fratello e sorella, malgrado la dura repressione prevista in
materia.19
Nel II secolo, il periodo considerato da Mihail Rostovcev come l’apice del-
la civiltà romana, l’Urbe non era ormai piú vista come un’entità separata dal
resto dell’impero. Nel prologo della sua opera storica, Appiano afferma infat-

17. G. Traina, L’impossibile taglio dell’Istmo (Ps.Luc. Nero 1-5), in « Rivista di Filologia e Istruzione
Classica », a. cxv 1987, pp. 40-49.
18. Vd. R. Preston, Roman Questions, Greek Answers: Plutarch and the Construction of Identity, in
Being Greek under Rome. Cultural Identity, the Second Sophistic and the Development of Empire, a cura di S.
Goldhill, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2001, pp. 86-119.
19. K. Hopkins, Brother-Sister Marriage in Roman Egypt, in « Comparative Studies in Society and
History », a. xxii 1980, pp. 303-54. Vd. G. Traina, “Imperium”, romanizzazione, espansione, cit., pp. 18-
19; V. Marotta, La cittadinanza romana nell’ecumene imperiale, in Storia d’Europa, vi, cit., pp. 541-94, al-
le pp. 584 sgg. Sul contesto vd. C. Salvaterra, L’Egitto romano, ivi, pp. 355-416.

706
conclusione

ti: « Volendo scrivere la storia dei Romani, ho ritenuto necessario cominciare


dai confini delle nazioni che essi controllano » (Appiano, Storia romana, Prefa-
zione, 1). A questa dichiarazione seguono una descrizione geografica dell’im-
pero, e un breve resoconto degli sforzi compiuti per prendere il potere e so-
prattutto mantenerlo. Secondo lo storico
L’impero dei Romani si è esteso ed è durato grazie alla prudenza e alla buona sorte; per
ottenere questo, essi sono stati superiori a tutti gli altri per coraggio, pazienza e fatica.
Non si sono mai imbaldanziti per il loro successo finché non hanno saldamente assicu-
rato la propria potenza, e d’altra parte non si sono mai lasciati scoraggiare dalla mala-
sorte [ . . . ], né le carestie, né le ricorrenti pestilenze, né le sedizioni, né un concorso di
tutte queste cose insieme hanno mai potuto diminuire il loro ardore » (ivi, 11).

Scritta piú o meno nello stesso periodo, la Chiave dei sogni di Artemidoro di
Daldi offre una testimonianza meno ufficiale, e proprio per questo piú inte-
ressante, sul rapporto psicologico tra un abitante dell’impero e il potere cen-
trale. Ecco la sua curiosa interpretazione dei sogni relativi in qualche modo al-
l’autorità suprema: « L’imperatore, un tempio, un soldato, una lettera imperia-
le, il denaro e ogni altra cosa del genere si corrispondono a vicenda. Stratonico
sognò di dare una pedata all’imperatore, e uscito di casa trovò una moneta d’o-
ro, calpestandola per caso: infatti non c’era nessuna differenza tra l’imperatore
e la sua immagine, e tra dare una pedata e calpestare » (Artemidoro, iv 31 1-
2).20 Poiché la legge romana non perseguiva i sogni, Stratonico non si era mac-
chiato del reato di maiestas, ma evidentemente a quell’epoca non si respirava
ancora quell’atmosfera di cupa repressione che caratterizzò piú tardi la società
tardoantica.21 Riportando il sogno di un personaggio fittizio, Artemidoro non
faceva che evidenziare il malcontento dei cittadini delle comunità locali ri-
spetto al crescente accentramento del potere imperiale. Un caso analogo si ri-
trova anche nei già citati Oracoli Sibillini, che nell’età del principato non riflet-
tevano piú necessariamente l’espressione di circoli anti-romani, bensí espri-
mevano i sentimenti del comune cittadino e/o suddito dell’impero. In questi
Oracoli, l’imperatore è rappresentato come un uccisore, e non solo di barbari.
Quando non combatte, tende a raccogliere monete, le stesse che recano il suo

20. Trad. in Artemidoro, Il libro dei sogni, a cura di D. Del Corno, Milano, Adelphi, 1975.
21. Ma al tempo del sospettoso Claudio capitò che si venisse messi a morte per un sogno che pa-
reva predire la prossima morte dell’imperatore (Svetonio, Vita di Claudio, xxxvii 2; Tacito, An-
nali, xi 4 1-2): vd. G. Weber, Kaiser, Träume und Visionen in Prinzipat und Spätantike, Stuttgart, Stei-
ner, 2000, pp. 333-36.

707
un impero di transizione

ritratto.22 Non si può qui non pensare alla celebre replica di Gesú ai Farisei
« Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio » (Marco, xii 17),
riferita appunto all’immagine e all’iscrizione di un denarius dell’imperatore re-
gnante Tiberio. In qualche modo, il volto di Roma coincideva con quello del
potere, che in Artemidoro è associato al ritratto dell’imperatore sulle monete
o alla sua firma su una lettera ufficiale. Non a caso, la retorica degli editti im-
periali era accuratamente costruita per dar luogo a un’immagine appropriata.
Le piú importanti lettere ufficiali relative a una comunità locale erano infatti
affisse nei luoghi pubblici (su lastre di bronzo in Occidente, su iscrizioni in
pietra in Oriente), per meglio evidenziare il rapporto fra centro e periferia.
Oltre alle monete e alle lettere, Artemidoro identifica il potere imperiale con
un soldato o un tempio, pensando forse in quest’ultimo caso ai vari « Campi-
dogli » edificati nelle città provinciali che avevano lo statuto di coloniae. Questo
aspetto non va trascurato, e spiega meglio le ragioni che portarono vari impe-
ratori del III secolo a perseguitare i cristiani che si rifiutavano di compiere sa-
crifici agli dèi patrii.23

2. La conversione di Roma
Gli autori cristiani reagirono aspramente a questa forte repressione da parte
dell’autorità imperiale: un caso esemplare si ritrova nel Commento a Daniele, at-
tribuito ad Ippolito di Roma (170-235), che analizza e rielabora la famosa teo-
ria degli imperi sviluppata a partire dall’esegesi dell’opera. Nel capitolo ii, il li-
bro descrive il sogno in cui Nabucodonosor avrebbe visto una statua compo-
sta da quattro parti rispettivamente d’oro, argento, bronzo e ferro, e con le die-
ci dita dei piedi costituite da una mistura di ferro e argilla. La lettura tradizio-
nale identificava l’oro con l’impero babilonese, l’argento con l’impero persia-
no, il ferro (le gambe della statua) con l’impero di Alessandro; le dita dei piedi
sarebbero state invece i regni dei Diadochi (Daniele, ii 33).24 Con una rinnova-

22. D.S. Potter, Prophets and Emperors. Human and Divine Authority from Augustus to Theodosius,
Cambridge (Mass.), Harvard Univ. Press, 1994.
23. Vd. M.-Y. Perrin, in questo volume, alle pp. 000-000.
24. Il tema delle quattro monarchie è riproposto inoltre nella prima visione del profeta (cap. 7);
nell’esegesi tradizionale, le dieci corna della quarta bestia (sempre l’impero di Alessandro) simbo-
leggiano i primi dieci re seleucidi (Ippolito, Commento a Daniele, vii 20). Le ragioni ideologiche
dell’elaborazione del Libro di Daniele sono complicate dalla storia della costituzione del testo, i cui
capitoli si riferiscono a contesti diversi; il cap. 2 sembrerebbe databile al 245 a.C. ca: vd. A. Momi-

708
conclusione

ta interpretazione politica del libro biblico, Ippolito identifica la quarta mo-


narchia con l’impero romano: le dieci dita di ferro e argilla sarebbero state a lo-
ro volta delle de6mokratíai sorte dalla scissione dell’impero, a sua volta ripartito
secondo éthne6.25 L’impero romano era quindi destinato a perire, e Ippolito in-
dicava anche una data precisa per la sua fine, ovvero l’anno 6000 dalla creazio-
ne del mondo, che secondo i suoi calcoli equivaleva all’anno 500 dell’èra cri-
stiana.
Intanto, cosa era accaduto alla Città Eterna? Un anonimo retore della parte
orientale dell’impero, autore di un singolare “inventario del mondo” redatto
intorno alla metà del IV secolo, la descrive cosí:
Dunque l’Italia, che abbonda in tutto, possiede inoltre questo massimo bene: una gran-
dissima, eminentissima e regia città, il cui nome basta a indicarne il valore, e si chiama
Roma; dicono che la fondò il fanciullo Romolo. È dunque di enormi dimensioni, e or-
nata di costruzioni imperiali, giacché tutti i precedenti imperatori, o quelli dei nostri
tempi, vollero costruirvi qualcosa. Ognuno vi edifica ogni tipo d’opera, in suo nome.
Cosí, a cercare Antonino, troverai innumerevoli monumenti. Lo stesso vale per l’area
monumentale detta “foro di Traiano”, che possiede una basilica notevole e rinomata.
Ha poi un circo, ben situato e ornato con molti bronzi. A Roma si trovano anche sette
vergini di nobile famiglia senatoria, che compiono i riti sacri degli dèi per salvaguarda-
re la città, secondo l’uso antico, e si chiamano vergini di Vesta [ . . . ]. Onorano gli dèi, in
particolare Giove e il Sole, ma si dice che non trascurino i riti della Madre degli dèe, ed
è certo che hanno aruspici (Descrizione del mondo e dei popoli, 55).26

Una trentina d’anni dopo, lo storico Ammiano Marcellino descrisse i monu-


menti di Roma nei dettagli, facendo inoltre un collegamento fra la loro impo-
nenza e la grandezza della storia dell’impero, che assume la fisionomia di un
vero e proprio corpo vivente:
Nel tempo in cui Roma, che vivrà finché ci saranno gli uomini, cominciò a elevarsi al-
lo splendore universale, perché s’ingrandisse con gloria sublime, la Virtú e la Fortuna,
che spesso sono in contrasto tra loro, si unirono in un patto di pace eterna. Infatti se una
di esse fosse mancata, Roma non avrebbe conquistato la completa supremazia. Il suo

gliano, Daniele e la teoria greca della successione degli imperi (1980), in Id., Settimo contributo alla storia de-
gli studi classici e del mondo antico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1984, pp. 297-304.
25. Mazzarino, La fine del mondo antico, cit., pp. 41 e 168; Id., La democratizzazione della cultura nel
Basso Impero, in Id., Antico, tardoantico ed « èra » costantiniana, 2 voll., Bari, Dedalo, 1974-1976, vol. i pp.
74-98, alle pp. 78-80.
26. Vd. Descrizione del mondo e delle sue genti, a cura di U. Livadiotti, M. Di Branco, Roma, Sa-
lerno Editrice, 2005.

709
un impero di transizione

popolo dalla culla, per cosí dire, sino agli ultimi anni della sua puerizia, periodo di tem-
po che abbraccia circa trecento anni, sostenne guerre attorno alle sue mura; poi, entra-
to nell’adolescenza, dopo i travagli di numerose guerre, passò le Alpi e il mare. Rag-
giunta la giovinezza e l’età virile, riportò allori e trionfi da tutte le regioni che il mondo
abbraccia nella sua immensità; e volgendo ormai alla vecchiaia e vincendo talvolta con
il solo nome, è passato a una vita piú tranquilla (Ammiano, xiv 6 3-4).27

È sempre Ammiano a descrivere lo stupore del cristianissimo imperatore Co-


stanzo II, durante la sua visita ufficiale nel 357:
Entrato quindi a Roma, centro dell’impero e di tutte le virtú, rimase meravigliato alla
vista dei Rostri, il famosissimo Foro dell’antica potenza, e, dovunque volgesse le sguar-
do, era colpito dalla bellezza delle numerose opere d’arte. [ . . . ]. Di poi, visitando le di-
verse parti della città, poste sulle cime, sui pendii dei sette colli o in pianura, e i quartie-
ri suburbani, tutto ciò che vedeva per la prima volta, riteneva insuperabile per magnifi-
cenza [ . . . ]. Ma quando giunse al Foro di Traiano, costruzione, a nostro avviso, unica
nel suo genere e ammirabile anche a giudizio degli dèi, rimase attonito e volse gli
sguardi a quel gigantesco complesso di edifici, che non può essere descritto con parole
umane né imitato da un mortale. Pertanto, poiché disperava di poter tentare qualcosa
di simile, diceva di voler e di poter imitare solo il cavallo di Traiano, che, posto al centro
dell’atrio, porta sul dorso l’imperatore stesso (ivi, xvi 10 13 e 15).

Ammiano era un orientale di Antiochia, che si era trasferito a Roma intor-


no al 380, dopo un’esperienza amministrativa e militare che comprendeva la
partecipazione alla sfortunata spedizione di Giuliano contro la Persia. Nel 383,
quando Roma fu colpita da una carestia, le autorità emisero un decreto per
espellere gli stranieri, e lo storico osserva amaramente che il provvedimento
colpí tutti « i seguaci delle discipline liberali », e quindi anche lui, mentre ben
tremila ballerine, e una gran quantità di musicisti, mime e altri stranieri impie-
gati negli spettacoli, poterono restare (ivi, xiv 6 19).28 In tempo di crisi, come
del resto tuttora accade, si cercava un capro espiatorio, e gli stranieri risponde-
vano perfettamente a questa esigenza: una legge della fine del IV secolo pre-
vedeva gravissime sanzioni per chi circolasse « all’interno dell’Urbe venerabi-

27. Traduzione, qui e successivamente, in Ammiano Marcellino, Le storie, a cura di A. Selem,


Torino, Utet, 19732. Vd. J. Matthews, Ammianus and the Eternity of Rome, in The Inheritance of Hi-
storiography, 350-900, a cura di C.J. Holdsworth, T.P. Wiseman, Exeter, Exeter Univ. Press, 1986,
pp. 17-29.
28. Un simile provvedimento colpí anche i mercanti stranieri: vd. A. Giardina, Aristocrazie ter-
riere e piccola mercatura: sui rapporti fra potere politico e formazione dei prezzi nel Tardo Impero, in « Quader-
ni Urbinati di Cultura Classica », vol. xxxvi 1981, pp. 123-45.

710
conclusione

le » (dove i senatori erano tenuti a portare la toga) con indumenti barbari qua-
li i calzoni (bracae) o gli stivaletti all’orientale (tzangae; Codice Teodosiano, xiv 10
2, vd. anche 10 3). Ma Ammiano non rinnegò per questo l’identità romana, ad-
debitando la responsabilità di questa indignitas alla generazione ormai corrotta
dei senatori. Del resto, se il pagano Ammiano manifestava un simile attacca-
mento alla gloria del passato romano, lo faceva anche per contrapporre l’Urbe
alla nuova capitale di Costantinopoli, che lui considerava implicitamente co-
me una sorta di incidente di percorso della storia, legato all’imbarazzante vit-
toria del cristianesimo.29
Con la sua fedeltà alle glorie del passato, lo storico reagiva ai sempre piú for-
ti attacchi sferrati dai cristiani ai simboli della memoria romana. Il dalmata Gi-
rolamo, che circa due anni dopo Ammiano fu costretto a lasciare Roma (per
altre ragioni), descriveva con toni ben diversi i monumenti della città pagana:
« Il Campidoglio dorato diviene sudicio per l’incuria; la fuliggine e le ragnate-
le hanno ricoperto tutti i templi di Roma. La città si sposta dalle sedi che le so-
no proprie e il popolo romano, riversandosi per i templi semidiroccati, accor-
re alle tombe dei martiri » (Girolamo, Lettere, cvii 1). Questa pur suggestiva
immagine (che già Gibbon aveva addotto come prova di una Roma « sotto-
messa al giogo del Vangelo »),30 è stata smentita dagli studi piú recenti, che
hanno mostrato come la plebs Romana, per farsi plebs Dei, non ebbe bisogno di
spostarsi dalle proprie sedi.31 In realtà, una volta “decodificati”, i testi pagani e
cristiani non sono poi tanto in contraddizione. Di fatto, la cristianizzazione
della città di Roma non può porsi sullo stesso piano di quella avvenuta in altre
città, dato il valore simbolico dei suoi spazi centrali, come i Fori (su cui si con-
centra l’anonima Descrizione), ma anche il Palatino e soprattutto il Campido-
glio, sede del tempio di Giove Ottimo Massimo, che Costanzo II avrebbe rite-
nuto addirittura « piú bello degli altri monumenti, quanto le opere divine del-
le umane » (Ammiano, xvi 10 14). Sempre secondo Ammiano, il santuario ca-
pitolino, « di cui va in eterno superba la venerabile Roma », era superiore allo
stesso tempio di Serapide ad Alessandria (ivi, xxii 16 12), contrastando quindi il
luogo comune (diffuso almeno nella parte orientale dell’impero) che vedeva il

29. Vd. G. Kelly, The New Rome and the Old: Ammianus Marcellinus’ Silences on Constantinople, in
« Classical Quarterly », a. liii 2003, pp. 588-607.
30. E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, 3 voll., Torino, Einaudi, 1967, cap.
xxviii (ed. or. London, Strahan & Cadell, 1776-1778).
31. Stato della questione in A. Fraschetti, La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana, Ro-
ma-Bari, Laterza, 1999.

711
un impero di transizione

Serapeo come « unum et solum spectaculum in omni mundo » (Descrizione,


35). Questo complesso spettacolare, ultima sede della celebre biblioteca di
Alessandria, sarebbe scomparso ben presto, saccheggiato e demolito per ordi-
ne del patriarca Teofilo, che applicò con zelo i provvedimenti antipagani del-
l’imperatore Teodosio I.32
Con il passaggio all’impero cristiano, Roma mantenne certo il suo prestigio,
ribadito oltretutto da luoghi santi come le tombe di Pietro e Paolo, ma il sacco
di Alarico nel 410 diede all’Urbe un duro colpo.33 Con una certa fatica, la città
riuscí a riprendersi, ma da questo momento in poi la sua eternità fu messa in
dubbio, e Roma, che del resto non era piú sede imperiale da molto tempo, di-
venne sempre piú un concetto ideale che non un concreto centro di potere.34
Con la caduta dell’impero d’Occidente, il riferimento ideologico a Roma de-
cadde. Nel VI secolo, l’impero romano esisteva realmente solo a est della Dri-
na, e la profezia di Ippolito sembrava essersi realizzata. A Oriente, tuttavia, i
sudditi di un impero ormai da tempo cristianizzato cercavano di difendere al-
meno l’idea di Roma, anche a costo di reinterpretare le antiche profezie bibli-
che con una certa leggerezza. È il caso del mercante del VI secolo Cosma In-
dicopleuste, che in un passo della sua curiosa Topografia cristiana (ii 74-75) si lan-
cia in un excursus che, partendo da considerazioni piuttosto confuse sulla storia
dei re ellenistici, sembrerebbe avere il fine principale di sconfessare le profezie
di Ippolito sulla fine dell’impero romano:
Sull’impero romano, non è scritto chiaramente nel profeta; né infatti proviene dalla
successione di Nabucodonosor, né è gradito al regime politico dei Giudei, o meglio al-
le loro leggi, ma piuttosto ne è il distruttore; né deriva dalla successione dei Macedoni.
Ma Daniele dice « Il Dio del cielo farà sorgere un regno che non sarà mai distrutto »
[Daniele, ii 44]. Qui parlando di Cristo Signore, comprende, in modo oscuro, anche
l’impero romano sorto insieme a quello di Cristo Signore. Infatti, mentre Cristo era an-
cora nel seno materno, l’impero romano ricevette potenza da Dio, in quanto sussidia-
rio delle disposizioni di Cristo; è in quest’epoca infatti che gli Augusti furono chiamati
anche eterni e ordinarono, in quanto sovrani, un censimento in tutta la terra. Di fatto
l’Evangelista dichiara che questo primo censimento avvenne sotto Cesare Augusto
[Luca, ii 1], quando Cristo Signore nacque e giudicò cosa giusta essere registrato e paga-

32. Si veda la pagina di Gibbon riportata da L. Canfora, La biblioteca scomparsa, Palermo, Sellerio,
1986, p. 202.
33. Vd. U. Roberto, L’impero di Teodosio, in questo volume, alle pp. 000-000.
34. Vd. G. Traina, Introduzione, in Id., 428 dopo Cristo. Storia di un anno, Roma-Bari Laterza, 2007,
pp. ix-xvii.

712
conclusione

re i tributi nel territorio dell’impero romano. L’impero romano partecipa dell’onore del
regno di Cristo Signore; esso è al di sopra di tutti, per quanto è possibile in questa vita,
e rimane invincibile fino alla fine. « Non sarà distrutto nei secoli », dice Daniele [ . . . ].
Quanto all’impero romano, poiché è sorto con Cristo, non sarà distrutto in questo se-
colo. Sono infatti profondamente convinto che, se i barbari nemici per un po’ si levas-
sero contro la Romània, per punizione dei nostri peccati, tuttavia l’impero rimarrebbe
invincibile per la potenza di Colui che lo sostiene non perché il mondo cristiano si ri-
duca, ma perché si estenda. E infatti questo impero, primo davanti a tutti, credette in
Cristo, e lo stesso impero è sussidiario delle disposizioni di Cristo, perciò il Signore,
Dio dell’universo, lo mantiene invincibile fino alla fine dei secoli.35

Cosma era un geografo quantomeno sconcertante, che andando contro ogni


logica scientifica cercava di riformulare la geografia della terra applicando alla
lettera le dottrine espresse dalla Bibbia, ma in questo contesto si limitava a ri-
prendere i dettami ideologici dell’età di Giustiniano: il richiamo alla tradizio-
ne romana era la condizione necessaria per la sopravvivenza dell’impero.

3. Epilogo bizantino
La Storia d’Europa e del Mediterraneo mantiene, come il lettore sa, le partizioni
cronologiche familiari, collocando la cesura fra mondo antico e Medioevo al
momento in cui l’impero romano d’Oriente dovette riconoscersi incapace di
ristabilire la sua sovranità sull’Occidente, per poi essere dimezzato dall’inva-
sione araba, con la perdita dell’intero spazio mediorientale e nordafricano. A
partire da allora, tre ambiti politico-culturali, al tempo stesso accomunati dal-
le medesime origini e profondamente estranei per lingua e civiltà, si divisero
l’eredità di Roma: i regni romano-barbarici, l’impero bizantino e l’umma isla-
mica. Tutt’e tre si richiamavano in qualche misura a Roma, ma uno solo pote-
va vantare a tutti gli effetti d’esserne l’erede legittimo: l’impero dei Rho6maíoi,
che oggi vengono chiamati “Bizantini”. Dei tre ambiti, era senza alcun dubbio
il piú ristretto dal punto di vista territoriale, il che spiega la moderna difficoltà
a riconoscerlo come la continuazione di quell’impero romano che s’era esteso
dalla Britannia alla Mesopotamia; ma la sua capitale, sulle rive del Bosforo, era
a tutti gli effetti la “Seconda Roma”.
Ma allora, perché questo mondo risulta cosí lontano ed esotico? Nella cul-

35. Trad. in Cosma Indicopleuste, Topografia cristiana, a cura di A. Garzya, Napoli, D’Auria,
1992, vol. i.

713
un impero di transizione

tura occidentale, il nome di Bisanzio richiama anzitutto alla mente lo sfarzo


della corte di Costantinopoli, con il suo puntiglioso cerimoniale: e non a caso
il termine italiano « bizantinismo », se applicato a un contesto letterario o arti-
stico, è sinonimo di preziosa astruseria. Andando però piú a fondo, ci si rende
conto che il bizantinismo è una categoria non solo estetica, ma anche politica.
L’impero d’Oriente fu uno stato autocratico fondato della sovranità universa-
le, che controllava i suoi sudditi con l’autorità e molto spesso con il terrore.
Come tutti gli imperi multietnici, esso era retto su un sistema di notevole
complessità, e fu proprio questa complessità ad assicurarne la continuità anche
dopo la presa di Costantinopoli da parte dei Turchi, avvenuta nel 1453. Il bi-
zantinismo politico sopravvisse infatti nelle strutture degli imperi ottomano e
russo, oltre che negli stati balcanici.36
Perché si chiama « bizantino » l’impero romano d’Oriente? La risposta è ap-
parentemente semplice: la capitale di Costantino aveva occupato uno spazio
che comprendeva anche il sito dell’antica colonia greca di Byzántion.37 La città
fu battezzata con il nome dell’imperatore, e chi viaggia oggi in automobile per
le strade della Grecia ogni tanto troverà un cartello rosso, con le insegne del-
l’aquila imperiale bizantina, che indica la distanza verso « Costantinopoli »,
quasi a rivendicarne il carattere ellenico, negando l’attuale nome turco di
I˛stanbul. Nome che peraltro deriva a sua volta la distorsione dal greco stén Pó-
lin, ovvero, « nella Città », la Città per eccellenza (nell’impero ottomano, il no-
me ufficiale era Kostantiniyye, in uso fino al 1923).
Ma come mai, ancor oggi, si parla piú facilmente di Bisanzio che non di
Costantinopoli? In effetti, per tutta la durata dell’impero d’Oriente, i suoi
sudditi non si autodefinivano come “Bizantini”, bensí come Rho6maíoi. Per lo-
ro, il potere e il carisma di Roma erano stati assorbiti dalla nuova capitale: gli
abitanti dell’Europa occidentale che reclamavano a buon diritto un’origine
romana venivano bollati né piú né meno come barbari. Dopo la caduta del-
l’impero d’Occidente, Roma non rappresentava piú la matrice originaria da
cui aveva preso vita anche l’impero d’Oriente. Gli sviluppi politici contribui-
rono a rafforzare la convinzione dei “Bizantini” di essere diventati i veri Ro-
mani.38

36. D.G. Angelov, Byzantinism: The imaginary and real Heritage of Byzantium in Southeastern Europe,
in New Approaches to Balkan Studies, a cura di D. Keridis, E. Elias-Bursac´, N. Yatromanolakis,
London, Brassey, 2003, pp. 3-23, con ampia bibliografia.
37. Vd. G.A. Cecconi, in questo volume, alle pp. 000-000.
38. Vd. in generale la splendida sintesi di A. Cameron, The Byzantines, Oxford, Blackwell, 2006.

714
conclusione

L’esempio piú celebre di questo atteggiamento è l’episodio dell’ambasceria


a Costantinopoli di Liutprando, avvenuta nell’anno 968. Liutprando, vescovo
di Cremona, era stato inviato alla corte orientale da Ottone II, salito da poco
sul trono del Sacro Romano Impero. Il sovrano chiedeva al basileús Niceforo II
Phokas la mano di Theophano, una fanciulla di nobile famiglia, all’epoca an-
cora una bambina; in un momento critico del negoziato, Niceforo rinfacciò a
Liutprando le scarse capacità militari degli occidentali, e aggiunse con dis-
prezzo: « voi non siete Romani, siete dei Longobardi! » (Liutprando, Relazio-
ne dell’ambasceria a Costantinopoli, 12) a voler sminuire le rivendicazioni di un
impero che pur si voleva sacro e romano. Liutprando gli avrebbe risposto per
le rime, minacciando addirittura venti di guerra, ma è ben probabile che gran
parte delle sue osservazioni colorite, che fanno della sua relazione diplomati-
ca una lettura ancor oggi godibile, siano frutto di uno sfogo successivo all’u-
miliazione costante da lui subita a corte. Nella relatio di Liuprando si vede ad
esempio sfilare Niceforo in processione, mentre i cortigiani cantano le sue lo-
di: « Vieni, stella del mattino, aurora, astro che offusca il sole, terrore e morte
dei Saraceni ecc. » Ed ecco il commento del vescovo di Cremona: « Quanto
avrebbero fatto meglio a cantare: vieni, carbone spento, dall’incedere di vec-
chia e dal volto di Silvano, bifolco, vagabondo, piede di caprone, cornuto
ecc. » (ivi, 10). Il resto della storia è noto: Liutprando morí nel viaggio di ritor-
no, Ottone inviò un nuovo ambasciatore, e nel 972 si fecero le nozze a Roma,
nella basilica di San Pietro. Alla morte del marito, Theophano governò in no-
me del figlio minore Ottone III, fino alla sua morte. Le sue spoglie si trovano
oggi a Colonia.39
A differenza di Teodora, Teophano non può essere presa ad esempio per un
discorso piú generale su Bisanzio: la sua vicenda resta un episodio marginale
nell’insieme delle relazioni tra l’impero romano d’Oriente e gli imperi occi-
dentali che si rifacevano ugualmente all’eredità di Roma. E qui si ritorna al
problema principale: il fatto stesso di denominare « Bisanzio » l’impero d’O-
riente non è altro che il riflesso di una coscienza storiografica occidentale che
ha voluto fare di quest’impero un’assenza, o al massimo una realtà immagina-
ria e lontana, cristiana e al tempo stesso esotica, in qualche modo troppo orien-

39. Su Liutprando vd. di recente l’introduzione di P. Squatriti alla sua traduzione di The com-
plete Works of Liutprand of Cremona, Washington, Catholic Univ. of America Press, 2007. Su Theo-
phano vd. H.K. Schulze, Die Heiratsurkunde der Kaiserin Theophanu. Die griechische Kaiserin und das
römisch-deutsche Reich 972-991, Hannover, Hahn, 2007.

715
un impero di transizione

tale per rientrare nella nostra memoria storica. L’immagine esotica di Bisanzio
è peraltro ben giustificata dal carattere multietnico di un impero dove la cultu-
ra greca e il diritto romano cementavano l’identità politica di una varietà im-
pressionante di popoli. Non a caso, nei testi bizantini il termine « barbaro »
non designa mai i non-Greci, come nella letteratura greca classica, ma esclusi-
vamente i popoli nemici. Lo straniero pacifico è definito tutt’al piú come allo-
dapós, ‘forestiero’, senza peraltro che questo implichi un’accezione negativa.40
In definitiva, la politica bizantina nei riguardi dello straniero era ben piú tolle-
rante che non in Occidente, in particolare nei contesti diplomatici: risultato
evidente di come l’impero avesse saputo mantenere la concezione universale
ereditata da Roma.41
Gli stessi imperatori della Nuova Roma discendevano spesso da elementi di
origine tutt’altro che greca o romana. Liutprando evoca con disprezzo le origi-
ni cappàdoci di Niceforo II, ma la varietà identitaria dei nuovi Augusti è sor-
prendente fin dalle origini dell’impero: Costantino era originario dei Balcani,
Teodosio II era nipote di un ufficiale franco, molti dei suoi successori erano
Isauri, un popolo bellicoso dell’Anatolia centrale. Piú tardi, nel X secolo, sali-
rono al trono imperatori di famiglia armena; con le loro alleanze matrimonia-
li, la dinastia dei Comneni del XII secolo creò un vero e proprio melting pot; i
loro discendenti del piccolo impero di Trebisonda, ultima propaggine di Bi-
sanzio caduta solo nel 1456, erano addirittura di stirpe circassa. La provenienza
eterogenea si estendeva all’insieme della classe dei notabili, le cui varie com-
ponenti etniche si integravano alle strutture del potere in un sistema definito
opportunamente come « dinamismo verticale ».42 Simili meccanismi si verifi-
cavano malgrado lo sciovinismo delle élites colte che padroneggiavano il greco,
e diedero luogo, in particolare dopo il VII secolo, a un plurilinguismo di fatto
sovrapposto al monolinguismo di diritto. Lo sviluppo dei contatti sociali, mili-
tari e commerciali fra Bisanzio e le culture altre fece poi il resto. Al tempo stes-
so, se si guarda bene al di là della cornice classicheggiante, la letteratura delle
élites restituisce una realtà ben differente rispetto ai modelli classici da cui trae-
va origine: nei testi bizantini, il mondo delle città non è piú anteposto o con-

40. Vd. S. Ronchey, Bisanzio fino alla quarta crociata, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, viii. Popo-
li, poteri, dinamiche, a cura di S. Carocci, Roma, Salerno Editrice, 2006, pp. 215-55, alle pp. 216 sgg.
41. Vd. A. Carile, Teologia politica bizantina, Spoleto, Cisam, 2008, pp. 3-59.
42. Vd. A.P. Kazhdan-S. Ronchey, L’aristocrazia bizantina dal principio dell’XI secolo alla fine del XII
secolo, Palermo, Sellerio, 1995.

716
conclusione

trapposto a quella rurale, e le stesse istituzioni militari rivelano una maggiore


apertura e un’assimilazione delle innovazioni che potevano venire dal mondo
esterno dei barbari.43
Il quadro ora delineato rispecchia i progressi piú recenti degli studi bizanti-
ni, la cui vitalità oggi permette, almeno entro certi termini, di mitigare la con-
dizione di isolamento in cui versa questa disciplina nel canone degli studi oc-
cidentali.44 La tradizione della bizantinistica porta peraltro con sé il peso di
una tradizione conflittuale, segnata da due differenti interpretazioni della
composizione etnica dell’impero d’Oriente. Da una parte sono gli storici che
concepiscono Bisanzio come un commonwealth che ingloba diversi popoli e lin-
gue, e che tiene conto di una piú ampia visione geopolitica, anche alla luce del-
le concezioni trasmesse poi all’impero ottomano e alle nazioni dell’Europa
orientale. Dall’altra, vi sono gli specialisti degli aspetti letterari e culturali, che
si sono concentrati soprattutto sull’eredità ellenica e romana, e vedono di con-
seguenza in Bisanzio l’erede naturale della civiltà classica.
I due approcci, pur se contraddittorî, continuano a condizionare l’immagi-
ne della civiltà bizantina, proseguendo un dibattito risalente almeno al XVIII
secolo, che ha coinvolto gli spiriti di greci e filelleni, in particolare all’epoca
della guerra d’Indipendenza greca e subito dopo la proclamazione del nuovo
stato ellenico nel 1832. Gli intellettuali impegnati nella costruzione del nuovo
stato discussero ampiamente sulle origini greche, romane e bizantine del po-
polo greco, ma con risultati controversi e spesso sorprendenti. Cosí, un prota-
gonista della rinascita culturale greca come Adamantios Korais (a sua volta in-
fluenzato da autori romantici come Herder) riteneva che proporre un revival
bizantino nella Grecia appena liberata dai Turchi fosse assolutamente fuori
luogo, dal momento che i Bizantini erano piú romani che greci in senso stret-
to, e che il loro impero multietnico, governato da imperatori di stirpe barbara,
non poteva considerarsi come un modello per la nazione ellenica.45 Nello
stesso periodo, mosso da un analogo filellenismo, lo storico tedesco Johann Ja-

43. E. Luttwak, La grande strategia dell’impero bizantino, Milano, Rizzoli, 2009 (ed. or. Cambridge-
London, Belknap Press, 2009).
44. Per un panorama degli studi vd. la bibliografia di Ronchey, Bisanzio, cit., pp. 251-55; vd. ora
anche Il mondo bizantino, i. L’impero romano d’Oriente (330-641), a cura di C. Morrisson, Torino, Ei-
naudi, 2007; Il mondo bizantino, ii. L’impero bizantino (641-1240), a cura di J.-C. Cheynet, ivi, id., 2008
(ed. it. a cura di S. Ronchey; ed. or. Paris, Puf, 2004).
45. R. Beaton, Koraes, Toynbee and the modern Greek Heritage, in « Byzantine and Modern Greek
Studies », a. xv 1991, pp. 1-18.

717
un impero di transizione

kob Fallmerayer, nato nel villaggio di Pairdorf, presso Bressanone, si spinse a


dire che le invasioni slave avrebbero privato la Grecia della componente elle-
nica originaria, attirandosi i fulmini dei Greci e dei filelleni.46
Va da sé che queste posizioni dipendono dalle tendenze ideologiche otto-
centesche, ereditate da un romanticismo che faceva coincidere l’identità na-
zionale con l’identità etnica: oggi l’insieme di queste tendenze è sottoposto a
una radicale revisione, e qualcuno è arrivato a considerare la stessa definizione
di « impero bizantino » come una falsificazione storica, architettata dalle po-
tenze occidentali per balcanizzare la Rumelia ottomana.47 Senza spingersi a
queste posizioni radicali, resta evidente la difficoltà di conciliare le due ten-
denze identitarie dell’impero: l’Helle6nismós, che interessa la sfera culturale, e la
Rho6maiosýne6, la « romanitudine », che abbraccia la sfera politica e giuridica.
Senza contare che gli storici tradizionalisti continuano ancor oggi a considera-
re Bisanzio come un mondo a parte, dove non si sarebbero verificate le stesse
fratture economico-sociali che in Occidente avrebbero segnato il passaggio
dall’antichità al Medioevo.
Senza pretendere di ripercorrere le tappe della costruzione di questa divi-
sione fra il Medioevo e Bisanzio, può essere interessante ricordare un dibatti-
to svoltosi negli Stati Uniti una quindicina di anni fa, in occasione di un con-
gresso di studi medievali. Un ricercatore originario dell’Europa centrale, Phi-
lip Shashko, aveva passato in rassegna i manuali dove gli studenti americani
studiano la « civiltà occidentale », ovvero le linee principali di storia europea, e
aveva notato con un certo rammarico l’assenza di Bisanzio, rimarcando l’op-
portunità di dare a questo impero un ruolo piú importante nell’ambito della
storia d’Europa.48 L’intervento fu duramente attaccato da un giovane collega
wasp, Paul Halsall, che si spinse ad accusare Shashko nientemeno che di sciovi-
nismo. La cosa potrà apparire come bizzarra, laddove non stupirebbe affatto
un pubblico americano, per cui la rivendicazione di un’identità europea coin-

46. P. Speck, Schlecht geordnete Gedanken zum Philhellenismus, in Der Philhellenismus in der westeuro-
päische Literatur 1780-1830, a cura di A. Noe, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1994, pp. 1-16.
47. J.S. Romanides, Rômaiosynê, Romania, Roumeli, Thessaloniki, Pournara, 1975; Id., Franks, Ro-
mans, Feudalism, and Doctrine. An Interplay between Theology and Society, Brookline (Mass.), Holy Cross
Orthodox Press, 1982. A parte queste posizioni estreme, legate a una prospettiva confessionale, vd.
soprattutto L. Wolff, Inventing Eastern Europe. The Map of Civilization on the Mind of the Enlighten-
ment, Stanford, Stanford Univ. Press, 1994.
48. P. Shashko, What and Where is Byzantium? The Presence and Absence of a Civilization in American
University Textbooks, in Twenty-first Byzantine Studies Conference, New York, November 9-12, 1995, Was-
hington, Dumbarton Oaks, 1995, p. 49.

718
conclusione

cide con quella di un’appartenenza alla razza bianca, anzi, caucasica.49 Insom-
ma, secondo Halsall, cercare di estendere a Bisanzio la civiltà occidentale equi-
varrebbe a creare un fossato ancor piú profondo tra l’Europa e le etnie africane
e asiatiche, andando quindi contro le regole del politicamente corretto.
Per quanto ingenuo possa apparire questo genere di dibattito, la questione è
tuttavia importante e resta tuttora aperta. Non a caso, proprio nello stesso pe-
riodo in cui si era accesa la polemica, a Bruxelles una commissione di saggi la-
vorava alacremente nell’inutile tentativo di proporre un programma scolastico
di storia valido per tutti gli stati membri della Comunità europea (e non erano
ancora 27!). Molte obiezioni venivano da parte della Grecia, dove ancor oggi i
manuali scolastici di storia passano agilmente dai fasti della storia classica e di
Alessandro a quelli di Bisanzio, ridimensionando con disinvoltura un impero
romano ridotto a una rapida parentesi. Del resto, dalle nostre parti le cose non
vanno meglio: nelle scuole come all’università, la storia medievale è costituita
in massima parte dal Medioevo occidentale, laddove Bisanzio, esattamente
come il mondo islamico, viene confinata a un breve capitolo che non interfe-
risce col resto della narrazione. Insomma, se il XXI secolo della globalizzazio-
ne si evolve rapidamente, non si può dire lo stesso dei paradigmi storiografici,
che il conservatorismo degli studiosi mantiene ancorati agli scenari ormai tra-
montati del secolo passato. Certo, proporre una rottura di paradigma a freddo
è piú uno slogan che una dichiarazione scientifica d’intenti. I libri di storia del
futuro saranno certamente piú globali di quanto non lo siano ora, ma nell’atte-
sa può essere utile riflettere insieme sul ruolo della globalizzazione bizantina,
e sulla persistenza identitaria delle sue varie componenti, nella formazione
dell’Europa di oggi.

49. I termini del dibattito, e la successiva discussione che ne seguí, si possono leggere sul porta-
le dedicato agli studi bizantini gestito dallo stesso Halsall: http://www.fordham.edu/halsall/
byzantium/texts/byzeur.txt.

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