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introduzione
quella del diritto romano, grazie alla sua fortuna secolare. Ma centinaia di al-
tre comunità restano un’incognita sul piano giuridico e amministrativo, e le
stesse megalopoli dell’antichità presentano notevoli problemi documentari.2
Ad esempio, per la difficoltà di effettuare scavi estensivi ad Antiochia o Ales-
sandria, non è possibile integrare i pur abbondanti dati della documentazio-
ne letteraria con la documentazione archeologica. Viceversa, abbiamo casi
(come a Marsiglia) in cui le fonti letterarie sono molto meno eloquenti e
dobbiamo limitarci a esaminare i dati di scavo, che certo forniscono dati im-
portanti sull’economia e i commerci di questo grande centro, ma non per-
mettono, almeno allo stato attuale, di giungere a risultati definitivi sulla fun-
zione della città nell’equilibrio del Mediterraneo occidentale.
Oggi, molti storici sfidano la concezione evoluzionistica della storia e la
mettono alla prova con tentativi suggestivi e complessi. Lo sviluppo del sape-
re in rete determina visioni per cosí dire ipertestuali, che mettono in discus-
sione la centralità di una civiltà, e la conseguente perifericità di altre culture.
Ma lo studioso del mondo antico, che forse piú degli altri si sente un “nano
sulle spalle di giganti”, prova un certo disagio quando esce dai sentieri battu-
ti. Un esempio interessante è la ricezione, da parte della comunità scientifica,
della monumentale Hannibal’s Legacy di Arnold Toynbee (1965). Grande figu-
ra intellettuale, dopo un lungo percorso consacrato alla storia comparata uni-
versale, in età ormai avanzata l’autore era tornato agli originari studi classici
per elaborare un grande affresco dell’Italia dopo la seconda guerra punica,
dove inseriva la penisola nel suo contesto mediterraneo. Come è noto, la sua
tesi di fondo – le radici della “questione meridionale” italiana risalirebbero
alle devastazioni di Annibale – si è rivelata sostanzialmente errata; alcuni dei
primi recensori lo misero in evidenza, e gli studi piú recenti hanno finito per
confermare l’errore di Toynbee.3 Ma è interessante vedere come pochi ab-
biano notato l’importanza del taglio metodologico del libro, e soprattutto la
sua prospettiva globale: se il libro è familiare agli storici di Roma, lo è molto
meno a quelli del mondo ellenistico. Eppure, e non a caso, in appendice al
volume si trova una dettagliata cronologia sinottica, dove gli eventi del Me-
2. Si vedano i risultati dell’importante progetto (di taglio diacronico) sulle megalopoli del Me-
diterraneo, pubblicati in Mégapoles méditerranéennes. Géographie urbaine rétrospective, a cura di C. Ni-
colet, R. Ilbert, J.-Ch. Depaule, Paris, Maisonneuve et Larose, 2000.
3. Vd. Modalità insediative e strutture agrarie nell’Italia meridionale in età romana, a cura di E. Lo Ca-
scio, A. Storchi Marino, Bari, Edipuglia, 2001. Sulla ricezione dell’opera di Toynbee, vd. an-
che le riflessioni di J. Thornton, in questo volume, pp. 563 sgg.
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4. History of Humanity, iii. From the Seventh Century BC to the Seventh Century AD, a cura di †E.
Condurachi, J. Herrmann, E. Zürcher, London-New York, Unesco/Routledge, 2005.
5. In questo senso possiamo parlare effettivamente di « storia spezzata », secondo l’ormai cele-
bre definizione di A. Schiavone, La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno, Roma-Bari,
Laterza, 1996.
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6. G. Clemente, “Esperti”, ambasciatori del senato e la formazione della politica estera romana tra il III
e il II secolo a.C., in « Athenaeum », a. liv 1976, pp. 19-52; G. Brizzi, I sistemi informativi dei Romani:
principi e realtà nell’età delle conquiste oltremare (218-168 a.C.), Wiesbaden, Steiner, 1982. Sul concetto
di esperti vd. C. Moatti, Experts, mémoire et pouvoir à Rome, à la fin de la République, in « Revue hi-
storique », vol. 626 2003, pp. 303-25.
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regni ellenistici indicava una sorta di governatore, che però, in regioni di tra-
dizione iranica come l’Armenia, può indicare in via eccezionale una sorta di
principe vassallo. Sia Artaxias che Zariadris sono nomi iranici, e mostrano
evidentemente come i Seleucidi (del resto abbastanza rispettosi delle tradi-
zioni iraniche) non potessero imporre governanti esterni sulle “strategie” ar-
mene.7 Certo i due “strateghi” Artaxias e Zariadris, resi basileís dal trattato di
Apamea, non erano sgraditi a Roma. Forse avevano ottenuto il favore di Ro-
ma nella fase finale della guerra con Antioco; in ogni caso la crescita di un
regno periferico non poteva che danneggiare l’impero seleucide, a tutto van-
taggio dei Romani.
Piú difficile dire quanto queste scelte fossero oculate. In fondo, una delle
prime mosse di Artaxias fu la costruzione di una nuova capitale, Artaxata,
con la consulenza militare di Annibale, il grande nemico di Roma, esule in
Anatolia (Strabone, xi 14 6; Plutarco, Vita di Lucullo, xxxii 4). Non a caso, una
ventina d’anni dopo dopo il regno di Artaxias fu minacciato dalla ripresa del-
le ostilità da parte seleucide. Nel 168, i Romani avevano dissuaso Antioco IV
dall’invasione dell’Egitto, con il celebre ultimatum di Popilio Lenate, ma cer-
to non erano contrari a una sua spedizione contro Artaxias, interrotta dalla
morte del sovrano seleucide. Nello stesso periodo, Roma paralizzava l’eco-
nomia di Rodi con l’istituzione di un porto franco a Delo. Certo, questi atti
accrebbero il potere e il prestigio di Roma, allontanando dall’Egeo la flotta
seleucide e riducendo drasticamente quella rodia. Ma il risultato finale fu un
incremento della pirateria, a scapito dei mercanti romani e italici.
Col passare del tempo, i Romani appresero a servirsi delle informazioni
geografiche ed etnografiche in modo piú raffinato, e questo permise loro di
evitare molte situazioni difficili e superare gli errori precedenti. I comandan-
ti, formati nell’ambito dell’ordine senatorio, impararono a esprimersi anche
in greco, e a sfruttare abilmente il bagaglio culturale del mondo ellenistico.
L’uso di circondarsi di letterati greci non era inusuale presso i condottieri ro-
mani della tarda repubblica: nelle sue campagne asiatiche, Pompeo si era fat-
to accompagnare dallo storico Teofane di Mitilene, e da uno studioso d’ec-
cezione come Posidonio di Apamea. Prima di lui, Lucullo era stato accom-
pagnato dal filosofo Antioco di Ascalona, e dal poeta greco Archia, origina-
rio di Antiochia, incaricato di cantare le sue gesta. Come i re ellenistici, che
7. Per gli aspetti interni vd. ora G. Capdetrey, Le pouvoir séleucide. Territoire, administration, fi-
nances d’un royaume hellénistique (312-129 avant J.-C.), Rennes, Presses Univ. de Rennes, 2007.
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E da quelle stesse terre abitate e conosciute, il tuo nome o quello di chiunque altro di
noi è forse mai riuscito a superare quel Caucaso, che stai vedendo, oppure ad attra-
versare quel Gange? Nelle altre terre remote dell’Oriente e dell’Occidente e nelle
plaghe del Settentrione e del Meridione, chi sentirà mai pronunciare il tuo nome?
Escludi queste regioni, e vedi concretamente quanto ristretti siano i confini entro cui
pretende di estendersi questa vostra gloria (La repubblica, vi 22).10
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ben piú pericoloso delle guerre esterne e di altre calamità (vd. iv 9 3). Quan-
do Annibale, nel 195, dovette rifugiarsi in Oriente, e si era sparsa la voce di
una sua uccisione a tradimento da parte dei Romani, Livio riporta le reazio-
ni eterogenee nell’espressione dei Cartaginesi (varios voltus), e considera ciò
come una reazione usuale « in una città dove le divisioni delle fazioni porta-
vano la gente a prendere chi una parte, chi un’altra » (xxxiii 48 6).
Il concetto chiave per la comprensione della seconda guerra punica è quel-
lo della fides, soprattutto quella tra Roma e gli Italici, che Livio ben definisce
a xxii 13 11: « La potenza che li controllava era una potenza giusta e mode-
rata, ed essi non disdegnavano di servire i migliori. Solo questa ragione può
mantener salda un’alleanza! ». D’altronde, la posizione geografica dell’Urbe
rendeva piú facili le cose. In questo periodo le popolazioni dell’Italia si tro-
varono di fronte a un bivio: si trattava, di fatto, di scegliere tra l’universo ap-
penninico dei Sanniti e quello “civico” dell’alleanza con la comunità roma-
na. A questo proposito si può riprendere una suggestiva intuizione di Ar-
nold Toynbee, secondo il quale Roma avrebbe battuto la sfida dei Sanniti
proprio grazie all’appoggio di quelle città che, malgrado la diversa identità
etnica, condividevano con Roma le istituzioni “civiche”. Lo storico inglese
faceva l’esempio di Capua, ma non è difficile estendere la definizione a cen-
tri di minore importanza.
Non possiamo però seguire Toynbee quando afferma che queste comuni-
tà preferivano scegliere Roma, perdendo l’indipendenza, piuttosto che ac-
cettare lo stile di vita piú rozzo e incolto dei Sanniti. È piú ragionevole sup-
porre anzitutto la presenza di fazioni opposte nell’ambito delle singole co-
munità: in ogni caso furono i successi di Roma a condizionare la scelta dei
centri minori, troppo deboli per aver voce in capitolo. Per fare un esempio,
Formia poté avvicinarsi a Roma appena in tempo per ottenere almeno la
condizione di città semi-alleata, e la scelta le fu decisamente favorevole. In-
fatti, la vittoria di Roma sui Sanniti segnò in qualche modo una vittoria del-
l’economia di questa polis, che integrava i commerci marittimi alla produzio-
ne agricola di pianura, sull’economia silvo-pastorale che piú caratterizzava la
componente italica. Le fonti ricordano la peculiare angoscia dei Romani nel
momento in cui affrontavano i paesaggi ostili delle regioni appenniniche. I
Romani perdevano qui i consueti punti di riferimento e, come nella celebre
sconfitta delle Forche Caudine, finivano per soccombere malgrado la supe-
riore organizzazione militare. Non a caso, secondo Livio, Formia aveva otte-
nuto la cittadinanza senza suffragio « perché il passaggio nel loro territorio
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era stato sempre sicuro e pacificato » (viii 14 10). Dietro questo assunto va ri-
conosciuta la preoccupazione dei Romani nei confronti di questo territorio:
di fatto, era necessario mantenere un saldo controllo sulla comunità formia-
na, ma anche creare i presupposti per un’alleanza duratura, affinché questa
regione restasse un sicuro punto di riferimento.
La scelta di valorizzare la regione costiera (di fatto ai danni dell’entroter-
ra) fu uno dei risultati delle guerre sannitiche, e fu certo caldeggiata da quei
gruppi politici che insistevano soprattutto sulla necessità di dare a Roma una
prospettiva marittima. Formia, pur non potendo intervenire nelle scelte elet-
torali romane, ottenne comunque un vero e proprio decollo economico. La
crescente influenza di Roma sulle rotte commerciali mediterranee tutelava
affaristi e mercanti, e una comunità dotata di un discreto porto poteva trar-
ne un qualche usufrutto. È probabile che il porto di Formia abbia poi man-
tenuto una certa importanza fino agli inizi del II a.C., quando Pozzuoli si im-
pose come base indiscussa dei traffici mediterranei e soprattutto orientali.
Quindi non possiamo seguire Livio (come fece, ad esempio, André Piga-
niol), e ritenere che la concessione della civitas sine suffragio fosse il premio di
Roma a Fondi e Formia per aver consentito la libertà di passaggio dal Lazio
alla Campania; in realtà, i fatti dimostrano che Roma tendeva quasi sempre a
ottenere queste libertà senza troppi scrupoli. Tuttavia i Formiani, pur viven-
do un regime oggettivamente punitivo che ne limitava l’autonomia decisio-
nale, usufruivano di indubbi vantaggi.
Insomma, i Romani avevano un particolare interesse a eludere le aree
montane e a potenziare le regioni costiere. Ciò contribuisce a spiegare il lo-
ro particolare impegno nella costruzione della via Appia, che per collegarsi
alla Campania passava necessariamente per il territorio formiano, con le sue
aree acquitrinose e le sue alture impervie: il basso Lazio fu cosí uno dei pri-
mi banchi di prova della tecnica stradale romana. L’Appia, imponendosi sul
territorio laziale e campano, aveva la principale funzione di rendere piú ve-
loci le comunicazioni; la sua costruzione segnò il definitivo controllo di Ro-
ma sulla Campania e sui territori limitrofi.11 Non meno significativo fu l’ap-
porto di questa arteria stradale al processo di romanizzazione: infatti l’Appia,
rendendo la presenza di Roma piú vicina, modificava profondamente le an-
11. Sul promotore della “ regina delle strade ” romane, il censore Appio Claudio Cieco, vd. M.
Humm, Appius Claudius Caecus. La République accomplie, Rome, École Française de Rome, 2005, e
il suo intervento in questo volume, pp. 467-520.
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tiche alleanze tra le comunità. Con questo nuovo asse viario, Roma si impo-
neva come il maggior punto di riferimento per i singoli insediamenti, e di
fatto, ponendosi come il principale interlocutore dei singoli centri, finiva per
disgregare l’antica unità territoriale delle comunità, mentre le identità etni-
che finirono gradualmente per diluirsi nel processo di integrazione promos-
so dai vantaggi della cittadinanza romana.
12. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1961 (piú volte ristampato), pp. 35-
72; G. Traina, Paradigmi per antichisti. La “Storia del paesaggio agrario italiano”, in Ambienti e storie del-
la Liguria. Studi in ricordo di Emilio Sereni, Bari, Dedalo, 2000 (= « Annali Ist. Alcide Cervi », a. xix
1997 [ma 2000]), pp. 175-82.
13. E. Lepore, Conclusioni, in La romanisation du Samnium aux IIème et Ier siècles av. J.-C. Actes du
colloque, Naples, 4-5 novembre 1988, Napoli, Centre Jean Bérard, 1991, pp. 261-64, in partic. p.
263.
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mani come gli antenati della moderna razionalità agraria. In effetti, il sugge-
stivo palinsesto dei reticoli centuriati e la sua visibilità nei secoli hanno fatto
pensare che la centuriazione fosse un vero e proprio “fattore di civiltà”.14 In
realtà, a differenza di quanto pensava Lepore, Sereni era contrario a questa
visione, e anzi osservava che i sistemi ortogonali a reticolato, oltre a non co-
stituire un’innovazione romana, avevano perso ogni utilità pratica già a par-
tire dall’età tardoromana. Tutto sommato, i Romani non sarebbero stati in-
gegneri migliori dei Greci e degli Etruschi; infine, la sopravvivenza topo-
grafica delle centuriazioni era il risultato di una « “legge d’inerzia” del pae-
saggio agrario ».15 Ma, soprattutto, il merito di Sereni era quello di proporre
un laboratorio storico basato sull’esame della memoria primordiale del pae-
saggio.
Certo, è bene prendere le distanze dal dogmatismo materialistico che per-
vadeva l’opera di Sereni, ma sarebbe un errore non apprezzare la sua lungi-
miranza, che ha permesso, con grande anticipo sui tempi, di introdurre una
storia agraria fatta anche di memoria. Gli storici dell’agricoltura si sono attar-
dati sui fattori economici, rifiutando come irrazionale questo approccio et-
nologico. E lo stesso Sereni, senatore comunista e marxista “creativo” ma
non meno dogmatico, avrebbe aspramente criticato un’opera come Landsca-
pe and Memory di Simon Schama, opera che suggerisce nuovi accostamenti
alle forme visibili del paesaggio e della sua memoria storica.16 Tuttavia, pro-
prio come Sereni, Schama ricercava la struttura nascosta del paesaggio, par-
tendo dalle realtà marginalizzate dalla civiltà urbana, e dalla consueta rap-
presentazione della città come elemento formatore della campagna.
Basti pensare alle zone umide come le lagune e le paludi, oggi prosciuga-
te ma ampiamente diffuse nell’antichità, fino alle porte delle grandi città e
della stessa Roma. Strabone osservava: « Come avviene nella zona del Basso
Egitto, si provvede all’irrigazione attraverso canali e argini e cosí il paese in
parte viene prosciugato e coltivato, in parte è navigabile. Delle città che si
trovano lí, alcune sono come isole, altre sono parzialmente circondate dal-
l’acqua » (v 1 5).17 La “civiltà padana”, che alcuni movimenti politici oggi esal-
tano in nome di un idealizzato celtismo, per Strabone non era molto diversa
14. E. Gabba, Per un’interpretazione storica della centuriazione romana (1985), in Id., Italia romana,
Como, New Press, 1994, pp. 177-96.
15. Sereni, Storia, cit., p. 52.
16. S. Schama, Paesaggio e memoria, Milano, Mondadori, 1997 (ed. or. New York, Knopf, 1995).
17. Trad. di A.M. Biraschi, in Strabone, Geografia. L’Italia, Libri v-vi, Milano, Rizzoli, 1988.
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imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.
dalla civiltà mediterranea dei paesaggi nilotici. Del resto, le paludi erano de-
gli ecosistemi dove si praticavano attività economiche importanti come la
caccia, la pesca, l’allevamento e lo sfruttamento di colture particolari. Nella
sua esposizione degli alberi, Plinio il Vecchio indicava: « Esclusivamente in
terreni ricchi d’acqua crescono il salice, l’ontano, il pioppo, il siler, il ligustro
(che è molto adatto per le tavolette da intarsio), cosí come il mirtillo, che in
Italia si coltiva nei luoghi in cui si pratica la caccia agli uccelli, mentre in Gal-
lia se ne ricava anche una tintura purpurea per le vesti degli schiavi ». Un
breve inventario delle varietà elencate da Plinio e da altri autori mostra la
molteplice utilità dei giunchi palustri per l’architettura rurale e la fabbrica-
zione di stuoie, torce o anche di vele, utilizzate nella navigazione del Po (Pli-
nio, Storia naturale, xvi 178).18 Altra coltura palustre erano gli asparagi, coltiva-
ti insieme a certi vigneti nelle paludi ravennati, dove si allevavano anche al-
cune specie di suini. Infine, le “messi di canne” erano descritte come il cam-
po di battaglia del cacciatore. Nelle zone umide costiere si estraeva il sale,
destinato al commercio interno e mediterraneo; in vari luoghi, il pesce di al-
levamento era salato sul posto.
Il bosco era l’altro elemento marginale del paesaggio. Di solito, la nostra
visione del mondo romano esclude le foreste, accostate piú facilmente al Me-
dioevo o, comunque, al mondo dai barbari. Eppure, l’Italia antica era una
delle regioni piú selvose del Mediterraneo. L’Appennino e la Liguria, ma an-
che la pianura padana, e le grandi isole come la Sicilia o la Sardegna erano
coperte dalle foreste. Strabone presenta cosí lo stile di vita degli antichi Li-
guri: « Vivono soprattutto di pastorizia, di latte e di una bevanda a base d’or-
zo: occupano le terre verso il mare, ma soprattutto le montagne. Possiedono
in abbondanza legno per costruire le navi e alberi cosí grandi che se ne pos-
sono trovare anche alcuni di otto piedi di diametro: molti per il colore del le-
gno risultano non meno adatti dei cedri per fabbricare tavole. Li trasportano
al mercato di Genua, insieme a pecore, pelli e miele, procurandosi in cambio
olio e vino provenienti dall’Italia: il vino che si trova presso di loro infatti è
poco, resinoso e asprigno » (iv 6 2).19
La vita dei boschi era austera. Chi vive in questi spazi, come il capraio,
18. Trad. di F. Lechi, in Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale, iii. Botanica, i. Libri 12-19, a cura
di G.B. Conte, Torino, Einaudi, 1984.
19. Trad. di F. Trotta, in Strabone, Geografia. Italia e Gallia, Libri iii e iv, Milano, Rizzoli,
1996. Su queste fonti vd. l’inedito di Sereni (ora pubblicato a cura di A. Giardina): E. Sereni,
Vita e tecniche forestali nella Liguria antica, in Ambienti e storie della Liguria, cit., pp. 25-139.
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« deve essere vivo, duro, attento, capace di sopportare la fatica, alacre, auda-
ce, tanto da saper andare con facilità fra dirupi e macchie e nei luoghi solita-
ri; e non segua le sue bestie, come per lo piú fanno i pastori degli altri greg-
gi, ma le preceda. La capra è un animale molto ardito, che corre avanti; e
continuamente quella che corre va subito frenata, perché non si allontani,
ma bruchi placida e lenta, e gonfi la mammella di latte e non sia troppo ma-
gra » (Columella, vi 6 7).20 Ma le foreste portavano anche ricchezza. La mac-
chia mediterranea, oltre alla caccia e all’allevamento, era ampiamente sfrut-
tata per ricavare la resina, impiegata per calafatare gli scafi delle navi. Altri
prodotti del bosco erano il miele, le piante officinali, le castagne e le ghian-
de, che nutrivano i suini ma, nei periodi di magra o di guerra, anche gli uo-
mini: il “pane nero” di guerra, spiacevole ricordo dei nostri anziani, era una
realtà molto antica (Plinio, Storia naturale, xvi 15).
Insomma, il paesaggio dell’Italia antica era complesso e diversificato. Tut-
tavia, i Romani hanno finito per oscurarne la realtà, soprattutto a partire dal-
l’età augustea, che ha elaborato un processo di idealizzazione delle campa-
gne. Ma già in Età repubblicana, nella celebre iscrizione del cippo miliario di
San Pietro di Polla, in provincia di Salerno, un magistrato romano dichiarava
di essere stato « il primo a far sí che i pastori si allontanassero dall’agro pub-
blico, a favore dei coltivatori » (Inscriptiones Latinae Liberae Rei Publicae, 454, ll.
13-14). Cominciava a farsi strada una visione del mondo dei pastori come un
universo rustico, marginale e pericoloso.
Simili stereotipi hanno accompagnato l’espansione di Roma nei territori
appenninici. I Romani ebbero buon gioco a elaborare le categorie dell’etno-
grafia ellenistica, che prestava grande importanza al clima e all’habitat natu-
rale. I montanari, pur se forti e schietti, erano al tempo stesso incolti e feri-
ni.21 Il primato sembra spettare ai Liguri, impegnati contro i Romani tra il III
e il II secolo, descritti come un popolo rozzo e selvatico proiettato verso le
montagne (Cicerone, Sulla legge agraria, ii 95; Dionigi di Alicarnasso, Storia di
Roma arcaica, vii 72 12 sg.). La loro cattiva fama dipendeva anche dal loro pro-
filo etnico per cosí dire misto: forti, resistenti e bellicosi come i popoli del
Nord, i Liguri non condividevano però la semplicità attribuita a Celti e Ger-
20. Trad. di R. Calzecchi Onesti, in Lucio Giunio Moderato Columella, L’arte degli agri-
coltori, Torino, Einaudi, 1977.
21. Vd. A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Roma-Bari, Laterza, 1997,
pp. 193-232.
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imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.
22. G. Brescia, La scalata del Ligure. Saggio di commento a Sallustio, ‘Bellum Iugurthinum’ 92-94, Ba-
ri, Edipuglia, 1997, pp. 69-101.
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introduzione
D’altra parte, il punto debole di questa tattica era la visibilità: lontane dal
campo aperto, dove avevano libertà di manovra e le insegne militari erano
sempre ben visibili, le legioni romane rischiavano continuamente quando si
muovevano in territori coperti e ostili, e spesso soccombevano alla guerriglia
barbarica. Certo, episodi come il massacro nella Litana silva della pianura pa-
dana, avvenuto nel corso della seconda guerra punica (Livio, xxxiii 4), ri-
chiamavano fatti piú antichi come le Forche Caudine, e soprattutto eventi
recentissimi come il massacro di Teutoburgo (9 d.C.); ma anche in episodi
bellici minori, Livio mostra una notevole sensibilità per il rapporto con il
paesaggio e l’etnografia, come quando, in un combattimento sui monti della
Ciociaria, contrappone gli snelli Ispanici al legionario romano « abituato alle
pianure, carico d’armi e portato a combattere da fermo » (xxii 18 3).
Anche se il principale scenario della terza Deca resta l’Italia, Livio scrive
però pagine di grande suggestione nel descrivere il contrasto fra i territori a
lui familiari e quelli da lui considerati come barbarici. Si pensi alla sua de-
scrizione delle aspre montagne alpine, considerate come “mura dell’Italia”,
descritte come paesaggi inaccessibili; dopo la traversata, solo nelle valli preal-
pine Annibale comincia a intravedere « luoghi piú consoni all’insediamento
umano » (xxi 37 6). L’idea di un paesaggio come no man’s land doveva essere
già espressa da fonti pressoché contemporanee, dal momento che Polibio
critica gli storici annibalici per la loro descrizione delle Alpi come luoghi
fuor dall’ordinario (iii 47 6: tópon paradoxología). Punto fermo di questa con-
cezione era l’ostilità per i territori marginali e incolti. Cosí, la stessa barba-
rie gallica che predilige la guerra silvestre interrompe il lavoro degli agri-
mensori che stavano per mettere in atto la prima esperienza di colonizza-
zione cisalpina, e probabilmente anche di attuazione di un reticolo “centu-
riato” (xxi 25).
Beninteso, il paesaggio dell’Italia romana non può piú essere studiato nei
limiti di una storia nazionale, come in fondo faceva ancora Sereni, bensí su
una base estesa allo spazio mediterraneo. Grazie all’ambiziosa trattazione di
Peregrine Horden e Nicholas Purcell, oggi è possibile riflettere sulle moda-
lità di incontro e interazione di diverse esperienze economiche e territoriali,
evitando di immaginare un Mediterraneo in chiave meramente retorica.23 Il
recente libro curato da William Harris, Rethinking the Mediterranean, ne costi-
23. P. Horden-N. Purcell, The Corrupting Sea. A Study in Mediterranean History, Oxford, Black-
well, 2000.
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imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.
Sempre William Harris, quasi trent’anni fa, aveva aperto il dibattito sui
presupposti politici dell’espansione romana, attaccando con vigore polemico
la tesi tradizionale del carattere difensivo dell’imperialismo romano, e della
riluttanza del senato a procedere all’annessione dei paesi vinti. All’origine
delle guerre di Roma Harris poneva non una serie di allarmate risposte a mi-
nacce provenienti dall’esterno, ma una consapevole volontà espansionistica,
riconducibile a due aspetti: il militarismo della società romana, in cui solo il
successo militare poteva garantire il potere politico ai membri della nobilitas,
24. Rethinking the Mediterranean, a cura di W.V. Harris, Oxford, Oxford Univ. Press, 2005; N.
Purcell, The Boundless Sea of Unlikeness? On defining the Mediterranean, in Mediterranean Paradigms
and Classical Antiquity, a cura di I. Malkin, London-New York, Routledge, 2005, pp. 9-29.
25. W.V. Harris, The Mediterranean and Ancient History, in Rethinking, cit., pp. 1-42, a p. 15:
« What did the inhabitants of the ancient Mediterranean region think was the identity of the
part of the world in which they lived? [ . . . ]. As for the Mediterranean world, however, nei-
ther Greek nor Latin had a special expression for it: Greeks could call it the oikoumene but
they also used that word for the entire world, which of course they knew to be much lar-
ger ».
26. Ivi, p. 39.
27. Vd. oltre, pp. 123-76.
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introduzione
28. W.V. Harris, War and Imperialism in Republican Rome 327-70 B.C., Oxford, Clarendon Press,
1979; vd. Id., The Italians and the Empire, in The Imperialism of Mid-Republican Rome, a cura di W.V.
Harris, in « Papers and Memoirs of the American Academy in Rome », a. xxix 1984, pp. 89-109.
29. J.A. North, The Development of Roman Imperialism, in « Journal of Roman Studies », a. lxxi
1981, pp. 1-9.
30. J. Rich, Fear, Greed, and Glory: the Causes of Roman War-making in the Middle Republic, in War
and Society in the Roman World, a cura di J. Rich, G. Shipley, London-New York, Routledge,
1993, pp. 38-68.
31. J. Linderski, « Si vis pacem, para bellum »: Concepts of Defensive Imperialism, in The Imperialism of
Mid-Republican Rome, cit., pp. 133-64.
32. E. Frézouls, Sur l’historiographie de l’impérialisme romain, in « Ktèma », a. viii 1983, pp. 141-62.
Quattro anni prima del libro di Harris, un saggio di Paul Veyne riprendeva già il dibattito: P.
Veyne, Y a-t-il eu un impérialisme romain?, in « Melanges de l’École Française de Rome-Antiqui-
té », a. lxxxvii 1975, pp. 793-855.
34
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.
33. North, op. cit.; A.N. Sherwin-White, Rome the Aggressor?, in « Journal of Roman Stu-
dies », a. lxx 1980, pp. 177-81.
34. Sherwin-White, op. cit.; Id., Roman Foreign Policy in the East 168 B.C. to A.D. 1, London,
Duckworth, 1984.
35
introduzione
smo romano, negate con sdegno da una vasta schiera di studiosi, disposti a ri-
conoscere i vantaggi economici della conquista, ma fermi nel ritenerli sem-
plici conseguenze di scelte politiche dettate da considerazioni di ordine
completamente diverso. Attento a distinguersi da posizioni marxiste, Harris
riportava le finalità economiche perseguite dalla nobilitas alle tre forme ele-
mentari dell’appropriazione di bottino, di terra e di schiavi (senza attribuire
alcuna preminenza a quest’ultimo fattore), e negava invece la possibilità che
la politica estera romana fosse stata dettata da interessi commerciali e finan-
ziari. Ad affaristi e publicani Sherwin-White era disposto a riconoscere un’in-
fluenza maggiore, e una costante pressione in favore dell’annessione (vizio
imperialistico da cui i senatori, nella sua prospettiva, sarebbero stati in gran
parte esenti).
I tentativi di riaffermare il ruolo delle esigenze difensive fra i fattori che
avrebbero determinato le decisioni di guerra romane comportano talora una
critica piú radicale della semplice attribuzione di una residuale « neurosis of
fear » a un popolo che nel III secolo, contro Pirro, Annibale e i Celti, aveva
combattuto per la sopravvivenza, e mettono in discussione l’approccio di
Harris al problema dell’imperialismo romano.35 Si è denunciata l’inadegua-
tezza di una spiegazione dei fenomeni imperialistici che si limiti ad esami-
nare le spinte all’espansione operanti all’interno della società impegnata nel-
la conquista, con prospettiva “metrocentrica”: alla costruzione (involontaria)
di un impero, hanno rilevato di recente Champion e Eckstein, contribuireb-
bero anche iniziative provenienti dalla “periferia”, come appelli contro mi-
nacce esterne da parte di stati minori, richieste di intervento da parte di una
delle fazioni che si contendono il potere all’interno di una comunità, aggres-
sioni da parte di medie potenze che richiedono una reazione.36 L’esemplifica-
zione scelta per questi fenomeni (rispettivamente: Vietnam del Sud, El Sal-
vador e Nicaragua, Iraq) rivela quanto la riflessione sull’imperialismo roma-
no sia ancora inestricabilmente connessa alla contemporaneità, e ricorda, sia
pure con maggior sobrietà, il modo in cui la Roma di Tenney Frank rispec-
chiava l’America di McKinley e Theodore Roosevelt: se si arriva alla costru-
35. L’espressione è di Sherwin-White, op. cit.; vd. Rich, op. cit., e K.A. Raaflaub, Born to Be
Wolves? Origins of Roman Imperialism, in Transitions to Empire. Essays in Greco-Roman History, 360-146
B.C., in Honor of E. Badian, a cura di R.W. Wallace, E.M. Harris, Norman-London, Univ. of
Oklahoma Press, 1996, pp. 273-314.
36. C.B. Champion-A.M. Eckstein, Introduction: The Study of Roman Imperialism, in Roman Im-
perialism. Readings and Sources, a cura di C.B. Champion, Blackwell, Oxford, 2004, pp. 1-10.
36
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.
zione di un impero, ciò non avviene però « by the planning of the metropo-
lis ».37 Si è inoltre affermata la necessità di analizzare il processo della con-
quista all’interno di una piú generale considerazione del sistema interstatale
in cui essa si svolge, caratterizzato da una feroce competizione per il potere
e la sicurezza; in questo contesto, la guerra non sarebbe l’eccezione, ma la
regola; a richiedere di essere spiegata dunque non sarebbe l’aggressività del-
la repubblica romana, ma piuttosto il successo di Roma fra potenze non me-
no aggressive. In questo modo, rilevano Champion e Eckstein, si tornerebbe
ad un approccio incentrato sulla posizione dell’Urbe, ma con una differen-
za: non ci si dovrebbe piú interrogare su « the alleged distortions within the
society, economy, and/or politics of the imperial power » che ne avrebbe-
ro prodotto la spinta espansionistica, ma ci si dovrebbe chiedere piuttosto
« what were the strengths that allowed Rome to survive and then prevail in its
harsh environment ». La chiave del problema non sarebbe piú dunque l’avi-
dità di gloria, di terra e di bottino della nobilitas, ma un aspetto assai piú posi-
tivo del sistema romano, la capacità di integrazione dei vinti, che assicurò al-
la repubblica le risorse umane che le consentirono di superare la terribile
prova della guerra annibalica e di affermarsi poi nella competizione con le
monarchie ellenistiche.
Certo, non si possono negare i vantaggi derivanti dalla considerazione
delle varie ambizioni egemoniche, sia livello regionale sia a livello ecumeni-
co. Al tempo stesso, a un quarto di secolo dalla ripresa del dibattito da par-
te di Harris, la recente Introduction di Champion e Eckstein (2004),38 sembra
mostrare un cambiamento di rotta, in una certa misura legato alla ripresa
delle ideologie conservatrici. Da un giudizio che fu subito avvertito, a torto
o a ragione, come una condanna di Rome the Aggressor, si è tornati ad una ri-
affermazione dell’innocenza del senato, che in questa prospettiva apologeti-
ca non avrebbe nutrito alcuna autonoma volontà di conquista e sarebbe usci-
to vincitore da una competizione spietata grazie alla sua disponibilità all’ac-
coglienza e all’integrazione dei vinti. Sembrerebbe dunque continuare ad
avverarsi la profezia di Holleaux rilanciata da Linderski, che si era dichiarato
convinto che il guanto di sfida lanciato da Harris sarebbe stato raccolto dai
sostenitori della tesi difensiva.
Naturalmente, il dibattito non può considerarsi chiuso, e sarebbe forse
37
introduzione
In un bel saggio sui sistemi informativi romani, N.J.E. Austin e Boris Ran-
kov hanno concluso che « la caratteristica principale della Roma repubblica-
na era l’ignoranza e non la conoscenza del mondo che tentava di conquista-
39. E. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Milano, Feltrinelli, 20054 (ed. or. New
York, Pantheon Books, 1978); Id., Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale
dell’Occidente, Roma, Gamberetti, 1998 (ed. or. London, Vintage, 1994); J.C. Scott, Domination
and the Arts of Resistance. Hidden Transcripts, New Haven-London, Yale Univ. Press, 1990; D.J.
Mattingly, Dialogues of Power and Experience in the Roman Empire, in Dialogues in Roman Imperia-
lism. Power, Discourse, and discrepant Experience in the Roman Empire, a cura di D.J. Mattingly, Ports-
mouth, Jra, 1997, pp. 7-24.
38
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.
re ».40 È questa la causa piú probabile della catastrofe del 9 giugno del 53 a.C.
quando, nei pressi della città di Carre (oggi Harran, nell’Alta Mesopotamia
turca), l’esercito romano subí una delle sue piú grandi sconfitte. Nelle pia-
nure circostanti trovarono la morte migliaia di legionari, mentre i sopravvis-
suti furono presi prigionieri dai vincitori, i cavalieri iranici al comando del
dignitario partico Surena.41 Massima onta, i nemici si impossessarono delle
insegne legionarie, che vennero restituite solo dopo molti anni e laboriosi
negoziati. Il comandante della spedizione, Marco Licinio Crasso, fu ucciso
poco dopo la battaglia.
Per molto tempo, Carre non è stata presa in considerazione come una
battaglia significativa. Nei libri sulle “battaglie decisive”, impostati secondo
la formula fortunata di Edward S. Creasy,42 l’evento è stato preso in scarsa
considerazione: né il capitano Liddel Hart, né il capitano Fuller, né tanto-
meno Victor Davis Hanson hanno ritenuto utile lo studio di uno scontro de-
cisamente anomalo sul piano militare. Per gli schemi di Hanson, Carre co-
stituisce un’eccezione particolarmente scomoda per il suo modello di un
Occidente sempre imbattuto sul piano militare. Egli cerca in questo modo di
rispondere a una possibile critica: « anche dei disastri orribili come quello di
Carre (53 a.C.) non hanno smentito la superiorità definitiva delle forze occi-
dentali (sic). La Partia si trova oltre l’Eufrate, e le legioni che perirono a mi-
gliaia di chilometri da casa non rappresentavano che un quinto delle truppe
di cui disponeva Roma ».43
Nella tradizione romana, Carre ha rappresentato una sorta di luogo di
memoria negativo, e soprattutto un esempio da non seguire. Altre grandi
sconfitte sono state interpretate come sciagure collettive, volute dagli dèi o
determinate da errori tattici o strategici, ma in ogni caso hanno fornito ai
Romani elementi utili per meditare sui propri sbagli. Nell’intento di molti
storici, il ricordo del disonore avrebbe dovuto scongiurare il ripetersi di si-
40. N.J.E. Austin-N.B. Rankov, « Exploratio ». Military and political Intelligence in the Roman
World from the Second Punic War to the Battle of Adrianople, London-New York, Routledge, 1995, p.
108. Osservazioni intelligenti, pur se eccessivamente idiosincratiche, in L. Loreto, Per la storia
militare del mondo antico. Prospettive retrospettive, Napoli, Jovene, 2006.
41. Per l’impero partico, vd. il contributo di C.G. Cereti nel vol. vi di questa Storia d’Europa e
del Mediterraneo (in preparazione).
42. The Fifteen Decisive Battles of the World from Marathon to Waterloo, New York, Hovendon
Company, 1851.
43. V.D. Hanson, Carnage et culture. Les grandes batailles qui ont fait l’Occident, trad. fr. Paris, Flam-
marion, 2002 (ed. or. New York, Doubleday, 2001), p. 27.
39
introduzione
mili sciagure, vissute come la sconfitta di un intero popolo. Per Carre, il ca-
so era diverso. La vulgata storiografica, sviluppatasi durante la prima Età im-
periale, ha scaricato sul solo Crasso tutta la responsabilità della disfatta, ridu-
cendo il fatto d’arme all’errore del singolo. Lo sconfitto di Carre fu dipinto
come un comandante dozzinale, un uomo d’affari che, per brama d’oro e
potere, aveva coinvolto migliaia di soldati in un disastro. Qualcuno si è spin-
to fino a considerare queste motivazioni come “ragioni soggettive” per giu-
stificare lo scoppio di una guerra.
Anche se non tutti hanno accettato questa visione, molti storici moderni
continuano ad accettare il cliché di un Crasso « insufficiente in materia di lo-
gistica, addestramento e informazione », come ricorda un recentissimo, e pe-
raltro pregevole, manuale universitario sull’esercito romano.44 E anche se si
comincia a rivalutare la strategia di Crasso, sulla base di un riesame critico
delle fonti, l’immagine tradizionale resta tuttora ben radicata.45
Eppure, le fonti non consentono di descrivere cosa sia realmente accadu-
to sul campo di battaglia. I racconti di Plutarco e Cassio Dione si contraddi-
cono, e soprattutto non tengono conto di tutte le forze in campo. La docu-
mentazione non permette quindi di ricostruire del tutto la tattica di Crasso,
né tantomeno quella dei Parti. Nonostante questa oggettiva difficoltà, molti
hanno descritto la battaglia sintetizzandone le fasi principali. La recentissima
ricostruzione grafica di Gareth Sampson, che si basa su una lettura empirica
delle fonti nel tentativo di recuperare gli elementi piú attendibili, è suggesti-
va ma del tutto ipotetica.46
Nonostante l’importanza dell’evento, la disfatta di Carre ha avuto minor
fortuna rispetto ad altri eventi di eguale o anche minor impatto. Una recen-
te raccolta di saggi sui Lieux de mémoire di Roma antica, curata da Elke Stein-
Hölkeskamp e Karl-Joachim Hölkeskamp, ha dato il giusto peso agli eventi
militari nella costruzione della memoria romana, ma ha preso in considera-
zione altri episodi di varia entità. La scelta ha una sua logica, dato che gli
eventi prescelti – Canne, la guerra gallica, la rivolta di Spartaco, la sconfitta
di Teutoburgo – hanno avuto enormi ripercussioni sia nella memoria dei
44. P. Cosme, L’armée romaine. VIIIe s. av. J.-C.-Ve s. ap. J.-C., Paris, Colin, 2007, p. 60.
45. P. Arnaud, Les guerres parthiques de Gabinius et de Crassus et la politique occidentale des Parthes
Arsacides entre 70 et 53 av. J.-C., in Ancient Iran and the Mediterranean World, a cura di E. D“browa,
Kraków, Jagellonian Univ. Press, 1998, pp. 13-34.
46. G. Sampson, The Defeat of Rome. Crassus, Carrhae and the Invasion of the East, Barnsley, Pen &
Sword, 2008, p. 126 sg.
40
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.
47. Erinnerungsorte der Antike. Die römische Welt, a cura di E. Stein-Hölkeskamp, K.-J. Hölkes-
kamp, München, Beck, 2006.
48. A. Barbero, 9 agosto 378. Il giorno dei barbari, Roma-Bari, Laterza, 2005.
49. E. Margolis, America’s Carrhae (aprile 2006), in http://www.lewrockwell.com/margolis/
margolis26.html.
41
introduzione
I Romani non ignoravano del tutto il modo di combattere dei Parti. Ca-
tullo, in un carme composto durante o subito dopo la campagna di Gabinio
(ca. 55 a.C.), li definisce sagittiferos, ‘portatori di frecce’ (xi 6). Le frecce e gli
archi dei Parti divennero ben presto un vero e proprio topos letterario, Il cor-
po della freccia partica era ricavato da una canna acquatica. Nella sezione bo-
tanica della Storia naturale dedicata alle canne, Plinio il Vecchio (xvi 159 sg.)
osserva che: « Le canne sono il mezzo con cui le genti d’Oriente decidono le
guerre; con le canne, a cui applicano delle penne, rendono rapida la morte;
alle canne aggiungono letali punte uncinate, che non si possono estrarre e si
spezzano dentro la ferita, come un ulteriore dardo. Con queste armi arriva-
no a oscurare il sole ». Plinio elenca una serie di popoli che si servono del-
l’arco, dagli Etiopi ai Sarmati, concludendo la lista con la menzione di « tutti
i regni dei Parti », e con l’osservazione che « nel mondo, circa metà delle gen-
ti vive sotto il dominio delle canne ».
Lo storico cinese Sima Qian (145-85 a.C.) nel trattato Shiji ricorda che i no-
madi dell’Asia centrale noti come Xiong-nu erano abituati fin dalla piú te-
nera età a montare a cavallo e tirare con l’arco: i bambini si impratichivano
cavalcando le pecore.50 Analogamente, Seneca osserva che « un bambino na-
to in Partia subito tenderà l’arco » (Lettere a Lucilio, xxxvi 7). L’arco in que-
stione era ben diverso da quello conosciuto dai guerrieri mediterranei. Si trat-
tava del temibile arco composto, che poteva scoccare delle frecce a una di-
stanza almeno doppia rispetto a quelli utilizzati dagli arcieri ellenistici e ro-
mani. Il graduale perfezionamento di quest’arma micidiale fu decisivo per le
vittorie dei Parti, e, successivamente, dei Sasanidi e degli Unni. L’arco com-
posto di tipo partico aveva i flettenti ricavati da un corno di capro selvatico,
legno e colla, mentre la forte tensione della corda era assicurata da tendini di
cervo o gazzella. Le monete partiche raffigurano questo tipo di arco, utiliz-
zato ancora in Iran fino agli inizi dell’Ottocento; la sua forma è analoga a
quella dell’arco scitico.
Ma l’osservazione di Plinio non era solo di carattere tecnico. Per i popoli
iranici, l’arco era un simbolo di regalità, e a maggior ragione per i Parti, la cui
stirpe era di origine nomade. Nell’88 a.C. il re del Ponto Mitridate VI, che si
vantava di discendere dai grandi re achemenidi, si esibí con il lancio di una
freccia alla distanza di oltre uno stadio (177 metri, una distanza irrisoria per
50. Records of the Great Historian, trad. di B. Watson, New York, Columbia Univ. Press-Chi-
nese Univ. of Hong Kong, 1993, vol. ii p. 153.
42
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.
51. A. Invernizzi, Arsacid Dynastic Art, in « Parthica », a. iii 2001, pp. 133-57, alle pp. 152 sg.
43
introduzione
44
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.
52. Wı6s u6 Ramini, a cura di M.A. Todua, A.A. Gwakharia, Tehran, Iranian Culture Founda-
tion, 1970, pp. 66 sgg. La traduzione è di Mario Casari, che ringrazio.
53. J. Keegan, Anatomie de la bataille, Paris, Laffont, 1993 (ed. or. London, Cape, 1976), p. 64.
54. Vd. G. Brizzi, Note sulla battaglia di Carre, in Id., Studi militari romani, Bologna, Pàtron, 1983,
pp. 9-30; Id., Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico, Bologna, Il Mulino, 2002,
pp. 156-65.
45
introduzione
55. Loreto, Per la storia militare, cit., p. 110 n. 1; piú avanti, p. 117 n. 23, considera le informazio-
46
imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.c.
47
introduzione
48
INTRODUZIONE
1. C. Rubincam, The Nomenclature of Julius Caesar and the Later Augustus in the Triumviral Period, in
« Historia », a. lxi 1992, pp. 88-103.
2. The Roman Revolution apparve nell’estate del 1939, pubblicato a Oxford, Clarendon Press
(trad. it. La rivoluzione romana, Torino, Einaudi, 1962): sulle ripercussioni dell’opera e sulla figura di
Syme vd. G.W. Bowersock, The Emperor of Roman History, in « New York Review of Books », a.
xxvii 1980.
13
introduzione
3. S. Butler, The Hand of Cicero, London-New York, Routledge, 2002; E. Narducci, Cicerone. La
parola e la politica, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 3 sgg.
14
imperium, romanizzazione, espansione
4. B. Lincoln, Death, War and Sacrifice. Studies in Ideology and Practice, Chicago-London, Univ. of
Chicago Press, 1991, pp. 248 sgg., con bibliografia.
5. Sulla presunta flagellazione di senatori nel corso di un banchetto nel 44 a.C. (rivisitazione dei
banchetti regali partici?) vd. G. Traina, Notes classico-orientales 4-5, in Electrum, x, a cura di E.
D“browa, Kraków, Jagiellonian Univ. Press, 2005, pp. 89-93.
6. G. Traina, Plutarque et le théâtre grec dans l’Arménie ancienne, in Between Paris and Fresno. Armenian
Studies in Honour of Dickran Kouymjian, a cura di B. Der Mugrdechian, Costa Mesa, Mazda Pu-
blishers, 2008, pp. 311-19.
15
introduzione
diterraneo, non tutti i Romani potevano dirsi realmente “esperti” del mondo
esterno, e molti di essi continuavano a ignorare, magari per scelta ideologica,
anche la cultura dei Greci. Ma il mondo era cambiato, e almeno il bilinguismo
greco-latino si era affermato come condizione necessaria per i dirigenti della
massima potenza mondiale. A partire dalla stagione della tarda repubblica
(che Claudia Moatti ha definito felicemente l’epoca della « ragione di Ro-
ma »), gran parte dell’aristocrazia romana riceveva un’educazione bilingue.
Anche se non diffusa universalmente, la conoscenza del greco segnava la su-
periorità della classe dirigente repubblicana (Cicerone, I limiti del bene e del ma-
le, i 3 8).7 A differenza degli Elleni, che tendevano a non comprendere la lingua
degli altri (quello che Arnaldo Momigliano individuava come l’« errore dei
Greci »),8 i Romani, come del resto anche i Parti, si servivano del greco per i lo-
ro intenti “imperialistici”. Se la lingua ufficiale del diritto e dell’amministra-
zione rimase il latino, il greco era impiegato correntemente in ampi settori
dell’educazione e della cultura, dalla filosofia all’architettura.
Insomma, anche se non tutti ricorrevano all’esotismo come Marco Anto-
nio, di certo la dimensione culturale romana aveva conosciuto un’espansione
senza precedenti. Certo, non tutti coglievano il macabro codice utilizzato, do-
ve la testa di Cicerone inchiodata ai Rostra era un trofeo di guerra (o, meglio, di
caccia), e la mano il simbolo del potere usurpato. Curiosamente, proprio nel-
l’autunno 44, mentre preparava la sua riscossa contro Antonio, Cicerone scri-
veva I doveri, un trattato di ispirazione stoica dove fra l’altro esponeva la sua
dottrina del bellum iustum (che, all’epoca, con buona pace di Carl Schmitt, non
aveva ancora assunto l’accezione moderna di “guerra giusta”: vd. I doveri, i 11):9
nell’opera Cicerone giustificava la violenza e l’aggressività contro i nemici non
romani, invitando alla concordia interna e alla clemenza verso chi non si era
macchiato di atti malvagi. Ma gli elementi di orientalismo non sarebbero sfug-
giti a Cicerone stesso, attento lettore di Senofonte (vd. Lettere agli amici, ix 25 1),
7. C. Moatti, La raison de Rome. Naissance de l’esprit critique à la fin de la République, Paris, Seuil, 1997.
Vd. C. Ciancaglini-S. Kaczko, Greco e Latino, lingue dell’Ellenismo, in Storia d’Europa e del Mediterra-
neo, v. La ‘res publica’ e il Mediterraneo, a cura di G. Traina, Roma, Salerno Editrice, 2008, pp. 655-96.
8. A. Momigliano, Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture, Torino, Einaudi, 1975 (ed. or.
Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1975), pp. 157 sgg.
9. Prima della riformulazione del concetto da parte di Agostino di Ippona, il bellum iustum è la
guerra legittima in quanto (posta in essere in modo) conforme all’ordinamento vigente (ovvero
interno a Roma) in materia di guerra. A tale ordinamento Cicerone fa espressamente e precisa-
mente riferimento, richiamando come parte per il tutto il complesso normativo del ius fetiale che
richiede l’adempimento della procedura indicata per l’introduzione di uno stato di guerra.
16
imperium, romanizzazione, espansione
o ai suoi amici piú colti. Di fatto, al finire del I secolo a.C., il potere dei Roma-
ni non poteva piú interpretarsi come l’anomala ascesa di una città, bensí anda-
va inserito nella tradizione ellenistica, ormai assimilata anche dagli autori lati-
ni, della translatio imperii dove Roma veniva dopo i Persiani e i Macedoni, sen-
za peraltro negare la presenza dell’altro grande impero iranico.10 Dunque, con
Cicerone non era morta soltanto la libertà: l’intero sistema repubblicano era
sottoposto a un mutamento radicale. Roma era ormai « terrarum caput » (Pli-
nio, Storia naturale, iii 8), e come tale destinata dalla profezia virgiliana a « rege-
re imperio populos » (Eneide, vi 851).
10. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, Bari, Laterza, 1966, vol. ii/1 pp. 489 sgg.
11. Risale al II secolo la mummia della bambina rivenuta a Grottarossa, nella periferia romana:
vd. A. Ascenzi et al., The Roman Mummy of Grottarossa, in Human Mummies. A Global Survey of their
Status and the Techniques of Conservation, a cura di K. Spindler et al., Wien, Springer, 1996, pp. 209-
17. Per un analogo ritrovamento del II secolo presso Salonicco, vd. C. Papageorgopoulou et al.,
Indications of Embalming in Roman Greece by physical, chemical and histological Analysis, in « Journal of
Archaeological Science », a. xxxvi 2009, pp. 35-42.
17
introduzione
12. P. Veyne, L’impero greco-romano, Milano, Rizzoli, 2007 (ed. or. Paris, Seuil, 2005), su cui vd. P.
Le Roux, L’Empire gréco-romain de Paul Veyne ou le retour à l’histoire des civilisations, in « Revue histori-
que », vol. cccx 2008, pp. 85-97.
13. D’altra parte, solo i liberi facevano parte del populus Romanus. Nelle società antiche, lo schia-
vo rappresenta una categoria particolare di straniero.
14. Vd. il saggio di F. Lamberti, in questo volume, pp. 00000.
15. P. Moreau, Incestus et prohibitae nuptiae. L’inceste à Rome, Paris, Les Belles Lettres, 2002.
16. K. Hopkins, Brother-Sister Marriage in Roman Egypt, in « Comparative Studies in Society and
History », a. xxii 1980, pp. 303-54 (che la ritiene erroneamente una pratica diffusa a livello popola-
re solo in Egitto). Per l’Età ellenistica vd. S.L. Ager, The Power of Excess: Royal Incest and the Ptolemaic
Dynasty, in « Anthropologica », a. xlviii 2006, pp. 165-86, e la successiva discussione con M.J. Fi-
scher, ivi, a. xlix 2007, pp. 295-310. Per l’Età romana vd. ora S. Remijsen-W. Clarysse, Incest or
Adoption? Brother-Sister Marriage in Roman Egypt Revisited, in « Journal of Roman Studies », a. xcviii
2008, pp. 53-61.
18
imperium, romanizzazione, espansione
interessante vedere la distanza tra i testi giuridici e gli autori letterari: ai seve-
rissimi attacchi dei legislatori contro le pratiche incestuose, che indicano im-
plicitamente la loro diffusione, non corrisponde un’uguale riprovazione nella
morale comune diffusa dai letterati. Di fatto, la piú forte opposizione contro
questa pratica verrà essenzialmente dai Cristiani. E del resto, basterà pensare a
certi close-kin marriages celebrati nell’ambito della famiglia imperiale romana
(per esempio tra Claudio e la nipote Agrippina: Tacito, Annali, xii 5-6) per ca-
pire come la situazione fosse particolarmente contraddittoria.
Se vi era una particolare preoccupazione per i barbari incestuosi, i Romani
la esternavano essenzialmente nei confronti dei Persiani. Poco prima delle
spedizioni di Gabinio e Crasso contro i Parti, il poeta Catullo evocò la « sacri-
lega superstizione dei Persiani », che permetteva dei rapporti incestuosi alme-
no ai « Magi », la casta sacerdotale zoroastriana (Catullo, 90). In effetti questa
pratica, detta xva6etadaua in avestico e xwe6do6dah in medio-persiano, è ben nota,
almeno presso gli specialisti.17 Anche i Persiani si sposavano tra fratello e sorel-
la. Gli autori classici piú antichi si limitano a ricordare gli esempi della famiglia
reale, ma, almeno a partire da un certo periodo, matrimoni del genere sono
piuttosto diffusi e in qualche modo “benedetti” dalle prescrizioni della lettera-
tura religiosa pahlavi.18 Come si è visto, l’« incesto » era perpetrato in varie al-
tre regioni, e non legato necessariamente ai precetti dei Magi. Ma gli autori
classici e cristiani finiranno per imputarne ai soli Persiani la diffusione. In un
mondo che stava per aprirsi al Cristianesimo, il tópos classico contro l’incesto
dei Persiani acquisiva caratteri giuridici e religiosi. Verso la metà del III secolo,
il problema era stato già evocato da un Siro di Edessa, lo Pseudo-Bardesane,
nel Libro delle leggi e dei paesi: i Persiani e i Magi, osserva questo autore di fron-
tiera, non si limitavano a sposare le figlie e le sorelle all’interno della loro “re-
gione climatica”, ma praticavano la legge dei loro padri e conservavano le pra-
tiche religiose (Catullo, 40). Viceversa, i cristiani residenti nell’impero sasani-
de non si darebbero dati a queste pratiche disdicevoli (ivi, 46).
17. Tra i lavori piú recenti vd. M.O. García, “Xwe6do6dah”: el matrimonio consanguíneo en la Persia Sá-
sanida. Una comparación entre fuentes pahlavíes y greco-latinas, in « Revista de la Antigüedad », a. iv 2001,
pp. 181-97; A. Panaino, The Zoroastrian incestuous Unions in Christian Sources and canonical Laws: their
(distorted) Aetiology and some other Problems, in Controverses des Chrétiens dans l’Iran sassanide. Actes du
Colloque, Paris, 27 Septembre 2006, a cura di C. Jullien, Louvain, Peeters, 2008, pp. 69-87.
18. Per una traduzione francese, vd. J. de Menasce, La « Riva6yat d’E6 me6t i ašavahišta6n » (1962), in
Id., Études Iraniennes, Paris, Association pour l’avancement des Études iraniennes, 1985, pp. 125-44,
alle pp. 139 sgg.
19
introduzione
19. G. Bowersock, The Roman Empire and the Clash of Civilizations, in « The Berlin Journal », a.
xiv 2007, pp. 6-11.
20. B. Isaac, The Invention of Racism in Classical Antiquity, Princeton, Princeton Univ. Press, 2004.
21. P. Veyne, Vita di Trimalcione, in Id., La società romana, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 3-43.
22. Vd. P. Vidal-Naquet, Il buon uso del tradimento, Roma, Editori Riuniti, 1992 (ed. or. Paris, Mi-
nuit, 1977).
20
imperium, romanizzazione, espansione
23. J. Calzini Gysens, Safaitic Graffiti from Pompeii, in « Proceedings of the Seminar for Arabian
Studies », a. xx 1990, pp. 1-7. Secondo alcuni, la scrittura safaita era impiegata prevalentemente da
nomadi e beduini; secondo altri, invece, era questa la vera scrittura degli Arabi Nabatei. Ringrazio
Gianfranco Lacerenza per le sue preziose precisazioni.
24. G. Lacerenza, Graffiti aramaici nella Casa del Criptoportico a Pompei (Regio i, insula vi, 2), in « An-
nali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli », a. lvi 1996, pp. 166-88.
21
introduzione
Apuleio. Questo puro prodotto del processo di “romanizzazione” (si dirà piú
avanti come intendere questo termine), a poco piú di trent’anni poteva vantar-
si di essere uno dei piú grandi letterati latini del suo tempo, nonostante le sue
origini indigene.25 Sottoposto a processo nel 158-159 circa, i suoi avversari gli
rimproverarono di essere « mezzo Numida, mezzo Getúlo » (Apologia, 23).26
Questa espressione è stata spesso considerata come una dichiarazione di orgo-
glio, se non di nazionalismo africano.27 In realtà, Apuleio si difende qui dagli
accusatori che cercavano di mettere in cattiva luce il suo profilo eccezionale
per i tempi e i luoghi: bello, colto, spiritoso, eloquente in greco e latino. Se si
presenta « mezzo Numida, mezzo Getúlo » (l’etnia dei Getúli rientrava in
quella nebulosa di popoli definiti in generali “Mauri”), non lo fa certo per ri-
vendicare una superiorità berbera, ma per esaltare il proprio talento indivi-
duale contro i suoi avversari, provinciali quanto lui ma ignoranti (Apologia, 9,
66 e 98), e meno provvisti di amicizie altolocate. Del resto, sarebbe inutilmen-
te irenico continuare a illudersi che il sistema della cittadinanza romana neu-
tralizzasse il sorgere di sciovinismo e « proto-razzismo »: Benjamin Isaac ha di-
mostrato chiaramente che i valori fondamentali della nostra civiltà sono un’e-
redità dai Greci e dai Romani, e che al tempo stesso essi « ci hanno trasmesso
alcuni dei concetti elementari di discriminazione e ineguaglianza che tuttora
ci accompagnano ».28
Apuleio non era un caso isolato. Prima di lui, dall’Africa romanizzata si era
illustrato a Roma il poeta Floro, vincitore ai Ludi Capitolini, che a quanto pare
aveva scatenato la gelosia di Domiziano (Anonimo, Virgilio fu retore o poeta?, i 3-
4). Dopo di lui, e dopo il regno di provinciali venuti dalle Spagne come Traia-
no e Adriano, il giovane Marco Aurelio e il fratello Lucio Vero avevano avuto
come precettore il retore Frontone, originario di Cirta, l’antica residenza dei
re di Numidia; alla stessa epoca, membro influente del consilium principis di An-
25. Qualcosa di simile al percorso di Luciano di Samosata, dal mondo siriaco alla piú integrale
adesione alla paideía ellenica.
26. Sul processo di Apuleio vd. F. Lamberti, « De magia » als rechtsgeschichtliches Dokument, in Apu-
leius, De Magia, a cura di J. Hammerstaedt e al., Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft,
2002, pp. 331-50. Su Apuleio vd. soprattutto A. La Rocca, Il filosofo e la città. Commento storico ai “Flo-
rida” di Apuleio, Roma, « L’Erma » di Bretschneider, 2005. Vd. sull’Africa anche sotto, al par. 4, e per
il contesto il saggio di A. Ibba, in questo volume, alle pp. 00-00.
27. La presenza di “nazionalismi” locali nell’impero romano è ora sottoposta a revisione. Vd. in
generale A. Cameron, Before the Fall, in « The New York Review of Books », a. xlii fasc. 11, june
1995.
28. Isaac, op. cit., p. 516.
22
imperium, romanizzazione, espansione
tonino Pio fu il giurista Salvio Giuliano. Pochi decenni dopo, con la constitutio
Antoniniana, questo processo di integrazione si sarebbe fortemente accelera-
to.29
D’altra parte, la rimozione della “terza biblioteca” di Trimalcione non era
solo un problema linguistico. Di fatto, il limite principale di molti storici di
Roma va ricercato nella sensibilità ridotta per i fenomeni sotterranei: nei ter-
mini di Michel Foucault, per le « attività discorsive » che non hanno ancora
passato la « soglia di apparizione ».30 Un esempio eclatante è la diffusione del
Cristianesimo, un fenomeno che la diversificazione delle discipline ha, se non
rimosso, in qualche maniera accantonato.31 Nella sua nota critica a due impor-
tanti manuali francesi tuttora di riferimento, Aline Rousselle osservava la par-
ticolarità del cristianesimo che, reclutando adepti da tutte le nazioni, « tentava
di costituirsi come un altro popolo con il proprio diritto. Era un ostacolo asso-
luto all’integrazione dei popoli nell’ordine religioso-civico romano ».32 Que-
sta difficile integrazione sembra ripercuotersi anche nelle moderne trattazio-
ni sull’impero romano: sola eccezione (non menzionata dalla Rousselle) è sta-
ta a lungo L’impero romano di Santo Mazzarino: uno strumento ancora indi-
spensabile, nonostante sia stato scritto quasi mezzo secolo fa.33
23
introduzione
34. Il suo stesso nome era romano, probabile ricordo della concessione della cittadinanza alla
sua famiglia, forse proprio a opera di Pompeo che dopo la vittoria su Mitridate aveva riorganizza-
to l’Asia Minore. Vd. S. Pothecary, Strabo the Geographer: His Name and Its Meaning, in « Mne-
mosyne », a. lii 1999, pp. 691-704.
35. Vd. C. Nicolet, L’inventario del mondo. Geografia e politica alle origini dell’impero romano, Roma-
Bari, Laterza, 1989 (ed. or. Paris, Fayard, 1988).
24
imperium, romanizzazione, espansione
zie ai rapidi progressi delle esplorazioni, non era piú accettabile situare il Cau-
caso in India, e tanto meno trascurare i territori barbari ma nondimeno abitati
da popolazioni che necessitavano di un controllo.36 E queste nuove conoscen-
ze aprirono nuove prospettive: non a caso, il regno di Nerone fu caratterizza-
to da una politica estera particolarmente attenta alle terrae incognitae, e, in senso
lato, alle realtà straniere. In margine a questo processo è notevole il riscontro di
scelte politiche rispettose delle forme di potere locali. Occorre quindi rivalu-
tare la presenza dell’imperium romano in questi contesti “marginali”, e analiz-
zare con attenzione l’operato di militari ed “esperti” inviati in Oriente, senza
peraltro attribuir loro un’eccessiva autonomia di scelta, improponibile a parti-
re da Augusto.
Nella Geografia, Strabone criticava le descrizioni approssimative e ormai
inadeguate degli autori greci che lo avevano preceduto: ormai, la sola geogra-
fia soddisfacente era legata alla logica di conquista dei Romani, dei Parti, o del-
lo stesso Mitridate (i 2 1), in quanto migliorava la conoscenza « dei luoghi e dei
popoli ». Sconfitte come quella di Carre, o quella piú recente di Teutoburgo (9
d.C.), non potevano che consolidare la ricerca di una nuova logica. E quando
Strabone apre la Geografia vantando l’utilità della disciplina « per gli affari poli-
tici e i fatti d’arme » (Geografia, i 1 1) non lo fa semplicemente per valorizzare la
propria opera. Egli guarda a una geografia che sappia trarre profitto dalle espe-
rienze militari, molto piú di quanto non avesse fatto Alessandro, e che non sot-
tovaluti le risorse di barbari e nomadi, ma che contribuisca altresí al progresso
della scienza. Qualche decennio piú tardi, Plinio (anticipando la celebre di-
chiarazione di Yves Lacoste) dichiarava che le fonti del Nilo erano ignote poi-
ché alla loro ricerca era stata inviata della gente « senz’armi » (Storia naturale, v
51). Sotto Augusto la minaccia dei Parti era stata contenuta, ma nel 9 d.C. Ro-
ma era stata scossa dalla sconfitta di Teutoburgo ad opera di una coalizione di
tribú germaniche guidate da Arminio, il capo dei Cherusci che i Tedeschi, a
partire da Martin Lutero, definiscono « Hermann ».37 Tutto ciò non poteva
che suggerire una riflessione sulle potenzialità dei popoli barbari stanziati ai
confini dell'impero.
Chi leggeva la Geografia di Strabone? Curiosamente, l’onnivoro Plinio il
36. Vd. A. Giardina, Roma e il Caucaso, in Il Caucaso. Cerniera fra culture dal Mediterraneo alla Persia
(secoli IV-XI), Atti delle Settimane di Studio, Spoleto, 20-26 aprile 1995, Spoleto, Cisam, 1996, pp.
85-142.
37. H.W. Benario, Arminius into Hermann: History into Legend, in « Greece & Rome », a. li 2004,
pp. 83-94.
25
introduzione
Vecchio non la annovera tra le sue fonti. Ma forse si tratta di un’omissione elo-
quente: in fondo, la rielaborazione della geografia ellenistica operata da Stra-
bone rappresentava una sorta di replica alle ragioni dell’imperialismo roma-
no.38 Pur senza rifiutare le suggestioni a cavallo fra storia e mitologia, proposte
dalla tradizione greca, la nuova generazione romana cercava un “inventario
del mondo” piú consono alle esigenze dei governatori delle province, incari-
cati della gestione politico-amministrativa del territorio. Si è ritenuto che la
scelta di questi ultimi, sia in tempo di pace che in tempo di guerra, dipendesse
almeno in parte dal loro grado di specializzazione: ciò in particolare per l’O-
riente, dove era necessario affrontare situazioni etniche e culturali piú com-
plesse, e dove appunto sono stati individuati dei veri e propri “esperti”. In ef-
fetti, il prestigio di alcuni generali veniva accresciuto dalla loro esperienza sul
campo, come si può verificare ad esempio nel caso di Domizio Corbulone in
Armenia; ma nulla prova una distinzione, anche solo empirica, della carriera
“occidentale” da quella “orientale”. Fino alle divisioni amministrative del tar-
do impero, a Roma non vi fu una differenziazione delle carriere su base regio-
nale; al contrario, un governatore veniva apprezzato proprio in base alla varie-
tà delle sue esperienze provinciali.39
Lo stesso Plinio, nella sua carriera di cavaliere, aveva militato su vari fronti in
Occidente e successivamente rivestito incarichi provinciali superiori in Gallia,
in Spagna e in Africa.40 Di qui la sua particolare sensibilità per mondi visti co-
me lontani dalla cultura greco-romana dominante, e il suo diverso trattamen-
to delle informazioni. I Greci tendevano a storpiare sistematicamente i topo-
nimi “barbari” (come osservava anche Strabone, xvi 4 27). Introducendo la de-
scrizione geografica del mondo, Plinio si propone invece, almeno entro certi
limiti, di esporre i nuda nomina dei luoghi: « I nomi dei luoghi saranno dati sen-
za aggiunta e con la massima brevità. Per gli aspetti e la ragioni della loro even-
tuale rinomanza rinvio alle sezioni specifiche della mia opera. Vorrei quindi
essere inteso, come se i nomi dei singoli luoghi fossero pronunciati separati
dalla fama che li accompagna, quali erano all’inizio, prima di avere una loro
storia; come se, insomma, avessero sí una propria designazione, ma solo in
38. K. Clarke, Between Geography and History. Hellenistic Constructions of the Roman World, Oxford,
Oxford Univ. Press, 1999, pp. 1-76.
39. C. Badel, La spécialisation régionale des gouverneurs romains: le cas de l’Orient au Haut-Empire (27 av.
J.-C.-235 ap. J.-C.), in « Dialogues d’Histoire Ancienne », a. xxx 2004, pp. 57-99.
40. Vd. il classico studio di R. Syme, Pliny the Procurator (1969), in Id., Roman Papers, ii, a cura di E.
Badian, Oxford, Oxford Univ. Press, 1979, pp. 742-73.
26
imperium, romanizzazione, espansione
quanto parti del mondo e della natura » (Storia naturale, iii 2).41 I libri geografici
della Storia naturale si distinguono per la presenza relativamente massiccia di
toponimi e di etnici esotici, ossia barbari, recuperati da Plinio in base a fonti
eterogenee, in gran parte dai documenti ufficiali dei censimenti: egli si sforza
di presentare anche nomi di difficile pronuncia, come per la Liburnia (iii 139),
quando non addirittura impronunciabili (ineffabilia), come per certe tribú del
Nord Africa (v 1) di cui peraltro registra solo una parte, o come anche per le
città della Baetica, dove si lasciano solo « quelle degne di nota o facili da pro-
nunciare in latino » (iii 7).42 Nonostante la selezione operata, Plinio compie
qui comunque una scelta coraggiosa rispetto alle imposizioni dei modelli let-
terari. Non è quindi errato vedere qui, con Dick Whittaker, una vera e propria
carta mentale che riflette una visione dichiaratamente romana. E quindi, in un
certo senso, la catalogazione di questi nomi impronunciabili costituisce una
forma di romanizzazione.43
Un esempio interessante di questa politica è dato da Gaio Licinio Muciano,
un senatore che fu tre volte console e svolse un ruolo essenziale per l’ascesa al
potere di Vespasiano.44 I suoi Commentarii, che si riferivano alla sua attività di
governatore nelle province orientali, riportavano informazioni geografiche ed
etnografiche, e si soffermavano su curiosità e mirabilia. Plinio il Vecchio, che li
utilizzò per la sua Storia Naturale, li cita piú volte come fonte di questo tipo di
informazioni, apparentemente irrilevanti, ma che si ricollegavano a un’attività
di esplorazione e “inventario” attuata probabilmente anche da altri governato-
ri. Muciano, ad esempio, si preoccupava di situare geograficamente le fonti
dell’Eufrate, per cui valutava una distanza diversa da quella fornita poco prima
da un altro autore di Commentarii, Domizio Corbulone (Muciano, fr. 7 ed. Pe-
ter = Plinio, Storia Naturale, v 83).
Per il governo romano la denominazione dei popoli non era solo una
41. Trad. di G. Ranucci, in Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale, a cura di G.B. Conte, Torino,
Einaudi, 1982.
42. Per un piú ampio esame della questione, vd. G. Traina, La géographie entre érudition et politique:
Pline l’Ancien et les frontières de la connaissance du monde, in La invención de una geografía de la Península Ibé-
rica. Actes du colloque, a cura di G. Cruz Andreotti, P. Le Roux, P. Moret, Madrid, Casa de Ve-
lázquez, 2007, vol. ii pp. 95-114.
43. C.R. Whittaker, Mental Maps and Frontiers. Seeing like a Roman, in Id., Rome and Its Frontiers.
The Dynamics of Empire, London-New York, Routledge, pp. 63-87; S. Carey, Pliny’s Catalogue of
Culture. Art and Empire in Natural History, Oxford, Oxford Univ. Press, 2003, p. 36.
44. G. Traina, Il mondo di C. Licinio Muciano, in « Athenaeum », a. lv 1987, pp. 379-406.
27
introduzione
45. Vd. J. Kolendo, Origines antiques des débats modernes sur l’autochtonie, in Histoire, Espaces et Mar-
ges de l’Antiquité, iv. Hommages à Monique Clavel-Lévêque, a cura di M. Garrido-Hory, A. Gonzalès,
Besançon, Presses Univ. de Franche-Comté, 2005, pp. 25-50, alle pp. 44 sgg.
46. Kolendo, op. cit., p. 38.
28
imperium, romanizzazione, espansione
47. Su tutti questi aspetti vd. C. Moatti, Le contrôle des gens de passage à Rome aux trois premiers siècles
de notre ère, in Gens de passage en Méditerranée de l’Antiquité à l’époque moderne, a cura di C. Moatti, W.
Kaiser, Paris, Maisonneuve, 2007, pp. 79-116.
48. Bibliografia nei contributi riuniti sotto il titolo di Sur le concept de ‘romanisation’. Paradigmes hi-
storiographiques et perspectives de recherche, a cura di S. Janniard, G. Traina, in « Mélanges de l’École
Française de Rome-Antiquité », a. cxviii 2006, pp. 71-166.
49. In inglese si utilizza anche Romanity, per definire l’acquisizione ovvero l’interpretazione di
modelli romani da parte delle élites locali: W. Spickermann, s.v. Romanisation, in Der neue Pauly, x
2001, pp. 1121-22, e le acute critiche di G.A. Cecconi, Romanizzazione, identità culturale, politicamente
corretto, in « Mélanges de l’École Française de Rome-Antiquité », a. cxviii 2006, pp. 81-94; vd. anche
P. Le Roux, Regarder vers Rome aujourd’hui, ivi, pp. 159-66.
29
introduzione
greco moderno, senza dubbio per ragioni ideologiche) di una città, un sito ar-
cheologico o un intero territorio. Questa continuità non diminuisce l’impor-
tanza del dibattito: oltre alle suddette revisioni “post-coloniali”, il tema è stato
recentemente lanciato in Francia dalle Annales, con ulteriori messe a punto. In
particolare, come Patrick Le Roux ha acutamente osservato, “romanizzazio-
ne” non significa “romanificazione”.50 Gli equilibri e i meticciati non possono
essere considerati come un unico processo: « non è vero [ . . . ] che il miglior cri-
terio per superare o abbandonare il concetto di romanizzazione, come pure è
necessario, sia riconoscere il multiculturalismo dell’impero romano, nel suo
senso piú immediato. Insieme alla nozione-ombrello di identità si finirebbe
per ricadere in quella di originalità, ammettendo che questa categoria rivesta
un forte valore euristico al di là di quello di strumento classificatorio prelimi-
nare per l’interpretazione storica. Al contrario, non sono sicuro che occorra
reinventare un momento storico nel corso del quale la cultura romana ha gio-
cato un ruolo universale identitario e federatore ». Lo stesso concetto di un
sentimento di appartenenza è messo a dura prova.51
Per comprendere l’importanza della questione, è utile ripensare lo sguardo
che i provinciali e i barbari, quando è possibile conoscerne l’autentica prospet-
tiva, rivolgevano all’impero. Ebbene, non è banale osservare che la superiorità
dei Romani era riconosciuta certamente sul piano tecnico. Una tradizione
medievale buddista, di origine sanscrita piú antica, parlava dell’impero roma-
no (Roma-visaya) come di un paese degli automi che produceva « macchine
veicoli di spiriti », i cui magici segreti erano stati carpiti da un avventuroso in-
diano. Come ha osservato Andrea Giardina, questo sguardo da lontano riusci-
va a capire meglio di tanti autori classici una situazione peculiare dove « l’ele-
mento tecnico e quello umano tendevano a compenetrarsi e gli uomini pote-
vano assumere le sembianze di macchine dotate di spirito ».52 Certo, non sem-
pre le macchine svolgevano un ruolo importante, e a volta il potere imperiale
preferiva impiegare e pagare grandi masse di lavoratori per ottenere consensi
(celebre è l’aneddoto si Vespasiano, che congedò un mechanicus con il suo pro-
50. Vd. i contributi riuniti nel dossier dal titolo Romanisation, in « Annales. Histoire, Sciences So-
ciales », a. lix 2004, pp. 285-383, e specialmente P. Le Roux, La romanisation en question, pp. 287-311;
vd. ora anche Id., Regarder vers Rome, cit.
51. Le Roux, La romanisation, cit., pp. 309 sgg. Vd. Dialogues in Roman Imperialism. Power, Discourse,
and discrepant Experiences in the Roman Empire, a cura di D.J. Mattingly, Portsmouth, Jra, 1997.
52. A. Giardina, Uomini e spazi aperti (1989), in Id., L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta,
Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 193-232, alla p. 194 (con bibliografia).
30
imperium, romanizzazione, espansione
getto per trasportare grandi colonne: Svetonio, Vita del Divo Vespasiano, 18). Ma
l’effetto era ugualmente spettacolare, e lo si riscontra anche “dall’interno” del
mondo romano, come mostra l’eco suscitata negli scrittori antichi da lavori
grandiosi, come quelli intrapresi sotto Claudio per drenare il lago Fucino (Ta-
cito, Annali, xii 56-57), o sotto Nerone per lo scavo, poi interrotto, del canale di
Corinto (Pseudo-Luciano, Nerone, 1-5). Fuori di Roma, la percezione sembra
ulteriormente ingrandita: i dotti del Talmud giungevano a dire che « nella
gran città di Roma vi sono 365 strade, in ognuna delle quali vi sono 365 palazzi,
e ognuno di essi ha 365 piani, di cui ognuno contiene di che nutrire l’intero
universo » (Talmud, trattato Pesach, 118b). Ancor piú celebre è il trattato Shab-
bat, risalente al II d.C., che inscena una discussione tra i dottori. Se uno di essi
commenta positivamente l’opera dei Romani, che avevano introdotto anche
in Palestina « mercati, ponti e terme », un altro rabbi replica in termini piú mo-
ralistici: « Tutto ciò che hanno costruito lo hanno fatto solo per il proprio van-
taggio: hanno costruito mercati per collocarvi delle prostitute, bagni per rin-
frescarsi in essi, ponti per imporvi balzelli ». (Talmud Babilonese, trattato
Shabbat, 33b). Secondo un altro trattato, al momento del giudizio divino i Ro-
mani affermeranno di aver costruito terme e mercati « perché Israele possa
studiare la Torà » (Talmud, Aboda Zara, 2b), ma Dio denuncia il loro reale mo-
vente e confonde le loro argomentazioni. E in una sentenza riportata dal Mi-
drash, un altro dotto commentava cosí i benefici del progresso tecnico intro-
dotto da Roma: « Se questo regno malvagio facesse costruire bagni pubblici,
terme e strade vedendo come fine il Cielo, esso sarebbe degno di possedere il
mondo; in realtà lo fa solo per i propri bisogni » (Midrash Hagadol, su Genesi,
xliv 24).53
Per i dotti ebrei che interpretavano le Scritture l’oggettiva superiorità tec-
nica di Roma era oscurata dalla sua ignoranza e crudeltà, che la rendevano a
tutti gli effetti un “Impero del male”. Ma di fatto, si trattava dello stesso mon-
do presentato dal discorso A Roma di Elio Aristide, scritto intorno al 143/44,
secondo cui il progresso e il benessere introdotti dai Romani avevano trasfor-
mato la vita dei sudditi dell’impero, trasformando la natura selvaggia in un
« delizioso giardino », e soprattutto installando ovunque « ginnasi, fontane,
templi, manifatture, scuole ».54 In definitiva cambia il giudizio, ma non il con-
53. M. Hadas-Lebel, Jérusalem contre Rome, Paris, Éditions du Cerf, 1990, pp. 378, 352-53.
54. Vd. A. Schiavone, La storia spezzata, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 6-7.
31
introduzione
55. Anche i successi militari di Roma sarebbero dovuti all’inganno: Hadas-Lebel, cit., pp.
378-79.
56. Vd. in questo volume il capitolo di A. Ibba, pp. 00-00.
57. M. Benabou, La resistance africaine à la romanisation, Paris, La Découverte, 20052. Su questo li-
bro (la prima edizione è del 1975) si vedano le penetranti osservazioni di Y. Thébert, Romanisation
et décolonisation en Afrique: histoire décolonisée et histoire inversée, in « Annales. Histoire, Sciences Socia-
les », a. xxxiii 1978, pp. 64-82, e, piú di recente, M. Sebai, La romanisation en Afrique, retour sur un dé-
bat. La résistance africaine: une approche libératrice?, in « Afrique et Histoire », a. iii 2005, pp. 39-56.
32
imperium, romanizzazione, espansione
prestigio eccezionali ».58 L’impero cercava di creare dei sistemi compatibili con
il proprio governo, come la sedentarizzazione delle gentes e la trasformazione
dell’organizzazione tribale. Cercava soprattutto di razionalizzare il controllo
del territorio e favorire l’economia romana.
Quando un territorio non era direttamente governato da Roma, i cosiddet-
ti « re clienti » (tecnicamente, amici et socii del popolo romano),59 le singole cit-
tà e, per le realtà minori, i “dinasti” pensavano a garantire l’ordine. L’alleanza
con l’impero poteva intensificare il processo di trasformazione del territorio,
che spesso coincideva con un processo di urbanizzazione. Non si deve però
pensare che questo processo fosse stato introdotto dai Romani: occorre anco-
ra una volta un esempio africano, la città di Cesarea di Mauretania. Cesarea era
il nuovo nome di Iol, residenza costiera dei re di Mauretania. Essa era stata co-
sí ribattezzata dal re Iuba II, principe di stirpe numida insediato sul trono da
Augusto. Suo padre Iuba I aveva regnato sulla Numidia, ma aveva commesso
l’errore di schierarsi con Pompeo contro Cesare, e dopo la sconfitta si era dato
la morte. Il giovane principe era stato allevato a Roma da Ottavia, la sorella del
futuro Augusto. Diventato cittadino romano, aveva combattuto con Augusto
e infine, nel 25 aveva ottenuto un nuovo regno (qualche anno dopo sposò una
principessa di stirpe eccezionale: Cleopatra Se6le6́ne6, figlia di Marco Antonio e
di Cleopatra VII). Insediato sul trono, Iuba trasformò radicalmente l’antica re-
sidenza costiera di Iol, facendone in una capitale dalle forme urbanistiche e ar-
chitettoniche squisitamente ellenistiche. Il contrasto della capitale rispetto al
resto del territorio e del regno di Mauretania è particolarmente sorprendente,
e per questo Cesarea è stata considerata come un esempio di romanizzazione
precoce dell’Africa: Philippe Leveau ha definito la città come una « vetrina di
romanizzazione », riferendosi non tanto all’attuale concezione di città-vetrina
elaborata dagli urbanisti, quanto all’epoca dell’Ungheria di Janos Kádár, quan-
do il paese, in seguito alla repressione del 1956, era stato trasformato in una
« vetrina del comunismo ».60 Ma fino a che punto la riorganizzazione di Iol in
Cesarea era un atto consapevole di politica filoromana? In realtà, nonostante
lo stretto rapporto fra Iuba e Augusto, la finalità di questa rifondazione era piú
58. A. Schiavone, Diritto e giuristi nella storia di Roma, in Diritto privato romano. Un profilo storico, a cu-
ra di A. Schiavone, Torino, Einaudi, 2003, pp. 3-61, alla p. 20.
59. La fortunata espressione « re clienti » si trova in Svetonio, Vita del Divo Augusto, 60, dove si
indica che questi re lasciavano spesso il proprio regno per rendere omaggio ad Augusto, senza le
insegne regie, ma vestiti di una toga « come fossero clienti ».
60. Sulle « città-vetrina » in Asia Minore vd. C. Franco, in questo volume, alle pp. 000.
33
introduzione
5. La questione armena
Uno sguardo ora verso l’altra estremità dell’impero. La questione armena fu
uno dei problemi ricorrenti della politica estera romana, e i rapporti tra Roma
e il regno d’Armenia sono documentati essenzialmente per avvenimenti di ca-
rattere militare.63 Dal punto di vista romano, questo aspetto sembra confer-
mare la tendenza storiografica che attribuisce alle frontiere dell’impero fun-
34
imperium, romanizzazione, espansione
64. Bibliografia in G. Traina, Moïse de Khorène et l’Empire sassanide, in Des Indo-Grecs aux Sassani-
des: données pour l’histoire et la géographie historique, a cura di R. Gyselen, Paris-Bures-sur-Yvette,
Groupe pour l’Étude de la Civilisation du Moyen-Orient, 2006 (ma 2007), pp. 158-79.
65. E. Luttwak, La grande strategia dell’impero romano, Milano, Rizzoli, 1991 (ed. or. Baltimore,
Johns Hopkins University Press, 1976); B. Isaac, The Limits of Empire. The Roman Army in the East,
Oxford, Oxford Univ. Press, 1990 (= 19922, con un Postscript); E.L. Wheeler, Methodological Limits
and the Mirage of Roman Strategy, in « Journal of Military History », a. lvii 1993, pp. 7-41 e 215-40; C.R.
Whittaker, Frontiers of the Roman Empire. A Social and Economic Study, Baltimore-London, Johns
Hopkins Univ. Press, 1994. Vd. ora S. Janniard, in questo volume, alle pp. 00-00.
35
introduzione
estendono fin nel cuore delle terre persiane. Cosí, posti a metà tra le piú gran-
di potenze, molto spesso non sanno se per loro sia piú forte l’odio contro i Ro-
mani o l’antipatia contro i Parti » (Tacito, Annali, ii 56). Tacito si riferiva qui al-
l’educazione di Zenone, figlio di Polemone del Ponto, che Tiberio aveva desi-
gnato come re d’Armenia nel 18 d.C. ed era stato incoronato da Germanico ad
Artaxata. Zenone, dice Tacito, sarebbe stato gradito ai suoi sudditi « perché fin
dalla prima infanzia aveva perseguito il modo di vita e il gusto degli Armeni, e
grazie alla caccia, ai banchetti e alle altre attività praticate dai barbari, si era le-
gato a sé popolo e notabili ». Zenone si mostrava addirittura piú “iranizzante”
del re partico Vonone, che secondo Tacito era disprezzato dal suo popolo in
quanto « allontanatosi dagli usi degli antenati », e irriso per i suoi Graeci comites
(Annali, ii 2). Le usanze dei Parti in questione riguardavano l’abitudine orien-
tale a ricorrere alla lettiga, ma in primo luogo la caccia e l’equitazione: questi
elementi, che avvicinavano alle tradizioni iraniche, corrispondevano alla per-
cezione romana del cultus Armeniorum.
La situazione geopolitica del regno armeno tra Roma e l’Iran si protrasse fi-
no alla spartizione del suo territorio (ca. 387 d.C.), chiudendo il “capitolo ar-
meno” ricorrente nei manuali di storia romana.66 Si tratta di una storia di equi-
libri periferici, di continui passaggi di campo e strategie di alleanze esercitate
dal popolo armeno, una gens che Tacito, come si è visto, definiva come ambigua
per natura. Non vi è qui lo spazio per ripercorrere le tappe di una storia essen-
zialmente militare e dinastica, dai continui colpi di scena, spesso occultati da
una documentazione scritta non sempre all’altezza delle nostre aspettative. Di
fatto, i Romani continuarono a considerare l’Armenia con le consuete catego-
rie approssimative, e solo l’importante esperienza neroniana introdusse una
valutazione piú attenta della questione orientale. Certo, il problema della lo-
gistica e delle conoscenze geografiche fu basilare per le campagne militari in
Anatolia e nel Caucaso; l’esperienza di Marco Antonio in Armenia aveva la-
sciato il segno. Tuttavia, l’analisi della politica neroniana in Oriente, della sua
“originalità” e del ruolo di Corbulone, non può limitarsi a considerare la
« grand strategy » di Nerone e dei suoi possibili consiglieri. Ad esempio, di fat-
to, non si può capire la soluzione del 63 d.C., (l’incoronazione di Tiridate I, con
le complesse connessioni religiose), in base ai semplici concetti di « attacco »,
66. Ultimamente G. Greatrex, Deux notes sur Théodose II et les Perses, in « Antiquité Tardive », a.
xvi 2008, pp. 85-91.
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imperium, romanizzazione, espansione
« difesa » ovvero « indecisione », con cui molti storici hanno definito le scelte di
Roma in campo armeno.
È importante vedere come la controparte armena vivesse il periodo della
massima ingerenza romana, e soprattutto capire l’evoluzione della politica ro-
mana in Armenia da Nerone a Traiano. I vuoti delle fonti classiche possono es-
sere integrati dalla Storia dell’Armenia di Mosé di Khoren. Come è noto, la tra-
dizione di Mosé è particolarmente complessa: in particolare, egli propone una
successione cronologica dei re d’Armenia spesso inverosimile. Tuttavia, se la
sua opera non può essere elevata a fonte-guida, resta possibile “decodificare” il
suo sistema e desumerne dati preziosi, come nel caso degli eventi tra I e II se-
colo. Mosé narra che Artashes d’Armenia (per i Greci, Artaxias), approfittan-
do dei disordini in Occidente, avrebbe smesso di concedere il tributo a Roma;
l’imperatore Domiziano avrebbe però reagito, combattendo contro i figli del
re, Tiran e Artavazd, e contro il saggio Smbat, il vecchio dayeak (sorta di digni-
tario precettore) dello stesso Artashes, comandante dell’esercito del Sud del-
l’Armenia. La campagna, conclusasi con un arretramento dei Romani fino a
Cesarea, sarebbe stata cosí immortalata dai “miti cantati” locali: « Quando vo-
gliono cantare questi fatti nei loro miti dicono “venne un certo Domet”, e si
tratta dello stesso Cesare Domiziano. Non che fosse venuto lui di persona;
con il suo nome definiscono, allegorizzando, anche l’esercito ai suoi ordini »
(Mosé di Khoren, ii 54).
Il seguito del racconto di Mosé conferma il fondo storico del contesto: « Ar-
tashes », favorito dalla morte di Domiziano e dalla breve durata del regno di
Nerva, in principio si sarebbe comportato con baldanza; gli eserciti armeni e
persiani avrebbero compiuto vari raid in terra « greca ». Successivamente però,
di fronte all’avanzata di Traiano, si precipitò a carpirne la benevolenza offren-
do doni e pagando i tributi arretrati; poi, per il resto del suo regno, si dimostrò
fedele al tributo sia sotto Traiano che sotto Adriano. Il contesto suggerisce l’e-
sistenza di un tributo annuale previsto per l’Armenia, e inoltre di un calcolo
degli arretrati. Del resto, al tempo di Traiano l’Armenia non era il solo regno
vassallo con problemi di tributi: per la fine del regno di Domiziano, Mosé pro-
spetta una sorta di “disobbedienza fiscale” estesa a tutto l’Oriente romano, ori-
ginata dall’esempio di Artashes e dai disordini creati dalle scaramucce armene
e persiane. La disobbedienza sarebbe stata imitata dagli « Egizi e dai territori
dei Palestinesi ».
Il passo di Mosé è stato trascurato in quanto si riferirebbe ad Artaxias; d’al-
tra parte, la precisione dei dati relativi agli imperatori romani elimina i dubbi
37
introduzione
sulla datazione di questa campagna alla fine del I d.C., data peraltro conferma-
ta da alcuni indizi delle fonti classiche. Il nome di Artashes è quindi uno dei
tanti anacronismi, piú o meno coscienti, di Mosé: questo personaggio va quin-
di identificato con un il re indicato come Axidares dalle fonti classiche, e come
Artashan dal cronista georgiano Leonti Mroveli. Sempre il contesto storico
conferma che il « Domet » dei canti non era come pure si è immaginato Do-
mizio Corbulone (il vittorioso generale della campagna neroniana), bensí
proprio Domiziano, ovvero, come Mosé indica con notevole precisione, l’e-
sercito romano che marciava agli ordini di questo principe. Del resto, i cantori
armeni narravano epopee di eroi o sovrani, e dal loro punto di vista sarebbe
stato difficile inscenare il racconto di una battaglia tra Artashes e un esercito
anonimo. Mosé lo sapeva bene, anche perché nell’impero d’Oriente del V se-
colo l’imperatore non si esponeva in battaglia. Per lo storico armeno, quindi, è
logico dare il nome dell’imperatore all’esercito che lo rappresenta. Nel caso di
Corbulone, la tradizione avrebbe dovuto menzionare Nerone e non il gene-
rale Corbulone, che si conosce bene grazie a Tacito, ma che agli occhi degli
Armeni restava un semplice emissario del proprio re. In ogni caso, Corbulone
fu un generale vittorioso, mentre Mosé parla di una vittoria armena.
L’analisi della tradizione consente quindi si trarre alcune conclusioni. Mosé
attribuisce a un « Artashes » il dominio sulla Grande Armenia, in un periodo
non ben definito, ma databile almeno tra il 95 e il 120. Mentre Roma è im-
pegnata in Occidente (si può pensare alle campagne pannoniche), Artashes
smette di pagare il tributo a Roma. Domiziano manda delle truppe, e viene
battuto. Successivamente Traiano compie una spedizione in Oriente; Artas-
hes, intimorito, si sottomette di buon grado e consegna i tributi arretrati. Un
esame piú complesso dell’opera di Mosé permette quindi non solo di amplia-
re le nostre conoscenze su uno dei periodi piú oscuri della storia armena, ma
soprattutto di definire come gli Armeni vivevano le tappe dell’ingerenza ro-
mana. In definitiva, il tributo introdotto da Marco Antonio, e ristabilito con
ogni probabilità da Nerone, era stato interrotto dal re d’Armenia alla fine del I
d.C., approfittando di un momento di debolezza di Roma. La differenze per-
cezione del potere si fa qui molto chiara: l’effimera organizzazione dell’Ar-
menia a provincia romana lasciò poche tracce nella memoria storica armena,
mentre il “codice” armeno metteva a fuoco in primo piano il problema del tri-
buto, che di fatto costituiva un fattore di asservimento ben piú tangibile della
presenza di guarnigioni o rectores romani presso le residenze reali.
Era stato Traiano a tentare di introdurre in Armenia il regime provinciale: di
38
imperium, romanizzazione, espansione
fatto, dal 115 al 117 (sulla scia delle vittorie contro i Parti) l’impero romano in-
globò temporaneamente il regno. L’annessione traianea ebbe dal punto di vi-
sta romano un significato simbolico notevole: ancor oggi, gli atlanti storici ri-
portano regolarmente la carta con la massima espansione dell’impero, che per
l’Oriente riporta le province di Armenia, Assiria e Mesopotamia. Traccia evi-
dente di questa conquista a grande iscrizione traianea rinvenuta sulla piana di
Artaxata, risalente alla campagna del 115/16 e trovata accanto a due epigrafi fu-
nerarie di legionari; manca purtroppo un contesto preciso del rinvenimento,
ma non è escluso che il testo possa riferirsi a un trofeo.67 Ma la politica romana
nel Caucaso cambiò dopo pochi anni, e dopo ciò i tentativi di provincializza-
zione dell’Armenia furono abbandonati. Questo abbandono fu certamente
consapevole, dal momento che nel II d.C. la politica romana in Oriente non
era estemporanea, né dettata dall’intuizione di alcuni singoli generali, bensí si
rifaceva a una strategia ben definita e meditata. Oltretutto, i sistemi informati-
vi romani si erano evoluti al punto da consentire un controllo diretto di regio-
ni diverse per cultura, lingua, economia, aprendo al futuro scenario del III se-
colo, con il controllo non solo militare, ma anche fiscale, nei termini di un ve-
ro e proprio “protettorato”.
In questa ottica si può analizzare l’iscrizione di Va¿arsˇapat (II metà del II
d.C.), che testimonia lavori eseguiti da militari romani di stanza presso una
nuova fondazione (Inscriptiones Latinae Selectae, 9117). La presenza di una guarni-
gione romana presso una residenza reale armena costituiva una situazione per
cosí dire di frontiera, decisamente peculiare, anche se già al tempo di Pompeo
Artaxata aveva accolto una phrourá. I militari di Va¿arsˇapat dipendevano in real-
tà dalla provincia di Cappadocia, e la loro presenza in Armenia non andava con-
siderata come occupazione militare. I Romani della guarnigione avevano la
funzione di mantenere una certa stabilità del regno armeno vassallo di Roma,
non soltanto contro eventuali raid esterni di Alani o altre popolazioni, ma anche
contro le tendenze frondiste armene, appoggiate da un governo partico che do-
veva fomentare l’insofferenza dei sovrani armeni nei riguardi dello stretto con-
trollo esercitato da Roma sia sotto Adriano sia sotto Antonino Pio.68
Del resto, per le province romane non si può parlare di frontiere militari sta-
67. G. Traina, Les écritures ‘classiques’. L’utilisation du grec et du latin dans l’Arménie ancienne, in Armé-
nie. La magie de l’écrit. Catalogo della Mostra, Marseille 2007, a cura di C. Mutafian, Paris, Somogy,
2007, pp. 28-33.
68. Sulle iscrizioni romane d’Armenia vd. G. Traina, Rostovcev e l’epigrafia greco-latina dell’Armenia
antica, in Rostovzev e l’Italia, a cura di A. Marcone, Napoli, Esi, 1999, pp. 441-48.
39
introduzione
tiche. Le ricerche piú recenti hanno mostrato come anche il cosiddetto «limes
continuo » avesse soprattutto una funzione organizzativa piú che difensiva:
nondimeno resta assodata la peculiarità della frontiera orientale rispetto alle
altre frontiere imperiali.69 Inoltre, i trattati che stabilivano le aree di influenza
e i confini dei regni si sforzavano spesso di dividere territori etnicamente omo-
genei, creando situazioni di tensione. Ma, se le fonti attestano una « frontiera
aperta » almeno in una prospettiva politico-militare, si dovrebbe quindi pensa-
re che i passaggi di frontiera fossero estremamente liberi, ovvero limitati ai
controlli interni dei signorotti che controllavano i singoli distretti, ma non
concernessero le autorità centrali. Si pensi alla situazione attestata da Proco-
pio, nel VI secolo, nel distretto di montagna della Chorzane, a sud di Erzurum,
che segnava il passaggio tra Mesopotamia e Armenia: « Chi va da Kitharizon a
Theodosioupolis e nell’altra Armenia, trova la terra detta Chorzane, che si
estende per circa tre giorni di cammino, e non è separata dalla terra dei Persia-
ni dalle acque di un lago o dal corso di un fiume né da montagne che segnino
uno stretto valico: le due frontiere restano indistinte. Cosí i suoi abitanti, che
sono soggetti ai Romani o ai Persiani, reciprocamente non si temono né so-
spettano imboscate: al contrario si sposano tra di loro, commerciano in comu-
ne i loro prodotti e coltivano la terra in comune. Se i comandanti degli uni do-
vessero attaccare gli altri, quando glielo ordinasse il loro imperatore, trovereb-
bero il circondario sguarnito da difese » (Procopio, Gli edifici, iii 3 9-11). Il passo
è stato piú volte ricordato come testimone della peculiarità delle società di
frontiera, ed è certamente probabile che la medesima situazione si riscontras-
se anche in epoche piú antiche.70
40
INTRODUZIONE
1. Il concetto di « Basso Impero » risale allo storico Charles Le Beau, che nel 1756 pubblicò il pri-
mo volume di una Histoire du Bas-Empire (conclusasi nel 1817 con il ventottesimo). In origine, l’e-
spressione non aveva una connotazione negativa, ma semplicemente temporale, a distinguere fa-
si successive.
2. Vd. A. Momigliano, La moderna storiografia sull’impero romano (1936), in Id., Contributo alla storia
degli studi classici, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1955, pp. 107-64, partic. pp. 132 sgg.; G.
Giarrizzo, Edward Gibbon e la cultura europea del Settecento, Napoli-Bologna, Ist. Italiano Studi Sto-
rici-Il Mulino, 1954; S. Mazzarino, La fine del mondo antico. Le cause della caduta dell’impero romano,
Milano, Rizzoli 19882 (1a ed. 1959; 3a ed. Torino, Bollati Boringhieri, 2008).
13
introduzione
3. J. Andreau, Antique, moderne et temps présent: la carrière et l’æuvre de Michel Ivanovitch Rostovtseff, in
M. Rostovtseff, Histoire économique et sociale de l’empire romain, Paris, Laffont, 1988, pp. i-lxxxiv.
L’edizione italiana (Firenze, La Nuova Italia, 1933) è stata piú volte ristampata.
4. A. Giardina, Esplosione di tardoantico, in « Studi storici », a. xl 1999, pp. 157-80; G. Fowden, Ele-
fantiasi di tardoantico?, in « Journal of Roman Archaeology », a. xv 2002, pp. 681-85; per una buona
rassegna di problemi e bibliografia, vd. A. Marcone, A Long Late Antiquity? Considerations on a Con-
troversial Periodization, in « Journal of Late Antiquity », a. i 2008, pp. 4-19 (e già Id., La Tarda Antichità
e le sue periodizzazioni, in « Rivista storica italiana », a. cxii 2000, pp. 318-34).
14
fratture e persistenze dell’ecumene romana
5. B. Ward-Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà, Roma-Bari, Laterza, 2008 (ed. or. Ox-
ford, Oxford Univ. Press, 2005); A. Goldsworthy, How Rome Fell: Death of a Superpower, New Ha-
ven, Yale Univ. Press, 2009 (stampato nel Regno Unito con il titolo, The Fall of the West. The Death
of the Roman Superpower, London, [Weidenfeld & Nicolson, 2009). Sui limiti scientifici di questo la-
voro vd. la recensione on line di H. Elton, in « Bryn Mawr Classical Review », marzo 2010, http://
bmcr.brynmawr.edu/2010/2010-03-63.html.
6. C. Wickham, The Inheritance of Rome. A History of Europe from 400 to 1000, London, Allen Lane-
Penguin Books, 2009. Su Id., Framing the Early Middle Ages: Europe and the Mediterranean 400-800,
Oxford, Oxford Univ. Press, 2005, vd. la discussione in « Storica », a. xxxiv 2006, pp. 121-72.
7. A. Piganiol, L’Empire chrétien, a cura di A. Chastagnol, Paris, Puf, 19722; J. Heurgon, Notice
sur la vie et les travaux de M. André Piganiol, Membre de l’Académie, in « Comptes rendus de l’Académie
des Inscriptions et Belles-Lettres », a. cxiv 1970, p. 572-86, partic. p. 582. Sul problema delle inva-
sioni vd. oltre al par. 6; vd. anche A. Barbero, in questo volume, pp. 000-00, e Id., I regni romano-
barbarici, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, viii. Popoli, poteri, dinamiche, a cura di S. Carocci, Roma,
Salerno Editrice, 2006, pp. 167-212.
8. A. Schiavone, La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno, Roma-Bari, Laterza, 1996. Tra
le varie discussioni sul libro, vd. i contributi riuniti in « Studi Storici », a. xxxix 1998, pp. 67-80, e L.
Cracco Ruggini, The Italian City from the Third to the Sixth Century: “broken History” or ever-changing
Kaleidoscope?, in The Past before us. The Challenge of Historiography of Late Antiquity, a cura di C. Straw,
R. Lim, Turnhout, Brepols, 2004, pp. 33-48. Nel frattempo, l’autore ha mostrato una certa apertu-
ra a formule meno perentorie: A. Schiavone, « Only connect », saggio introduttivo a East and West.
15
introduzione
Papers in Ancient History Presented to Glen W. Bowersock, a cura di T. Corey Brennan, H.I. Flower,
Cambridge-London, Harvard Univ. Press, 2008, pp. 1-11.
9. Vd. P. Brown, La formazione dell’Europa cristiana. Universalismo e diversità, 200-1000 d.C., Roma-
Bari, Laterza, 2006 (ed. or. Oxford, Blackwell, 2003). Peraltro, in precedenza Brown ha soprattut-
to proposto e diffuso una visione universale del tardoantico come epoca relativamente omogenea
di trasformazione: vd. i contributi riuniti in Gli spazi del tardoantico, in « Studi storici », a. xlv 2004,
pp. 5-46. Intanto, vi è chi continua a sostenere l’idea che l’impero d’Oriente costituisse una « tarda-
antichità cronica »: vd. C. Meier, Da Atene a Auschwitz, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 79 (ed. or.
München, Beck, 2002).
10. S. Mazzarino, La democratizzazione della cultura nel “Basso Impero” (1960), in Id., Antico, tardoan-
16
fratture e persistenze dell’ecumene romana
tico ed èra costantiniana, 2 voll., Bari, Dedalo, 1974-1976, vol. i pp. 74-98. Sulle implicazioni di questo
importante concetto vd. Antiquité tardive et “démocratisation de la culture”: mise à l’épreuve du paradigme, a
cura di G. Cantino Wataghin, J.-M. Carrié, in « Antiquité Tardive », a. ix 2001, pp. 25-295.
11. Mazzarino, La fine del mondo antico, cit., pp. 165-68; Id., La democratizzazione, cit.; Id., Il pensiero
storico classico, 2 voll., Bari, Laterza, 1965-1966, vol. i p. 316; vol. ii/2 pp. 185, 395-96 n. 508. Su Barde-
sane vd. A. Camplani, Rivisitando Bardesane. Noti sulle fonti siriache del bardesanismo e sulla sua colloca-
zione storico-religiosa, in « Cristianesimo nella Storia », a. xix 1998, pp. 519-96, spec. pp. 543-44 e 586.
Sulla datazione del Libro delle Leggi e dei Paesi vd. L. Cracco Ruggini, Conoscenze e utopie: i popoli del-
l’Africa e dell’Oriente, in Storia di Roma, iii. L’età tardoantica, 1. Crisi e trasformazioni, a cura di A. Schia-
vone, Torino, Einaudi, 1993, pp. 443-86, spec. pp. 471-72.
12. V. Marotta, La cittadinanza romana nell’ecumene imperiale, in Storia d’Europa e del Mediterraneo,
vi. Da Augusto a Diocleziano, a cura di G. Traina, Roma, Salerno Editrice, 2009, pp. 541-94.
13. Vd. S. Mazzarino, L’impero romano, Roma-Bari, Laterza, 19732, pp. 608-13; J.-M. Carrié, in J.-
M. Carrié-A. Rousselle, L’empire romain en mutation, des Sévères à Constantin (192-337), Paris, Seuil,
1999, pp. 60-62.
14. Trad. in Pseudo-Clemente, I ritrovamenti, a cura di S. Cola, Roma, Città Nuova, 1993.
17
introduzione
15. Per una ricca disamina sui “marginali”, vd. V. Neri, I marginali nell’Occidente tardoantico. Poveri,
« Infames » e criminali nella nascente società cristiana, Bari, Edipuglia, 1998. Per l’Oriente protobizantino
(ma in una prospettiva piú ristretta rispetto a quella di Neri), vd. E. Patlagean, Pauvreté économique
et pauvreté sociale à Byzance, IVe-VIIe siècle, Paris-La Haye, Mouton, 1977. Il concetto di « soglia » è sta-
to formulato da M. Foucault, L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1971 (ed. or. Paris, Gallimard,
1969). Sull’importanza di Foucault per lo studio dell’antichità vd. ultimamente P. Veyne, Foucault.
Il pensiero e l’uomo, Milano, Garzanti, 2010 (ed. or. Paris, A. Michel, 2008).
16. C. Franco, Il mondo greco e il principato, in Storia d’Europa, vi, cit., pp. 309-54.
17. D. Vera, Appunti per una storia della proprietà fondiaria nel tardo impero, in Accademia romanistica co-
stantiniana. Atti del ix Convegno internazionale, Perugia-Napoli, Univ. di Perugia-Esi, 1993, pp. 67-90,
spec. pp. 68-69.
18. Vd. in generale Les littératures techniques dans l’Antiquité romaine. Statut, public et destination, tradi-
tion, a cura di C. Nicolet, Genève-Vandœuvres, Fondation Hardt, 1996; Tecnica e scrittura. Le lette-
rature tecnico-scientifiche nello spazio letterario tardolatino, a cura di M. Formisano, Roma, Carocci, 2001.
18
fratture e persistenze dell’ecumene romana
19. A. Fo, Percorsi e sogni geografici tardolatini, in « Annali dell’Istituto Orientale di Napoli-Sezione
linguistica », a. xiii 1991, pp. 51-71, spec. p. 53.
20. Vd. Ulpiano, Digesto, xxxii 11, principium; xlv 1 6. In generale vd. V. Marotta, Ulpiano e l’im-
pero, 2 voll., Napoli, Loffredo, 2000-2004.
21. Mazzarino, La democratizzazione, cit., p. 97.
22. P. Veyne, L’impero greco-romano. Le radici del mondo globale, Milano, Rizzoli, 2009 (ed. or. Paris,
Seuil, 2005); Histoire de la civilisation romaine, a cura di H. Inglebert, Paris, Puf, 2005; F. Millar, A
Greek-Roman Empire: Power and Belief under Theodosius II (408-450), Berkeley-Los Angeles-London,
Univ. of California Press, 2006.
19
introduzione
3. Luoghi di transizione
Fino al III secolo, le fonti classiche restituiscono un solo scenario possibile
per l’attività dell’uomo, il Mediterraneo. Non che fossero ignote le realtà
esterne a questa grande civiltà fondata sull’agricoltura e sui traffici marittimi:
tuttavia l’impero romano, come tutti i grandi imperi della storia, si è preoccu-
pato di elaborare un proprio « inventario del mondo », creando proprie cate-
gorie di paesaggio, che oscuravano tutti quegli spazi che sfuggissero ai suoi co-
dici di rappresentazione. Nei periodi di transizione, però, questi codici entra-
no in crisi, sí da far apparire con maggior evidenza quelle situazioni preceden-
temente occultate, o meglio non enunciate: in questo senso, possiamo defini-
re i paesaggi tardoantichi come scenari di una società “post-tradizionale”.24
Nel IV secolo, Eliodoro di Emesa, autore del “romanzo” Le Etiopiche, mo-
stra come una realtà descritta finora come preoccupante e angosciante potesse
trasformarsi in un bozzetto avventuroso e bucolico: nella sua elaborata prosa,
un ritrovo di briganti diventa infatti una vera e propria città alternativa, un
“Paradiso dei Fratelli della Costa” ante litteram, per certi aspetti non dissimile
dalle sedi dei bucanieri dei Caraibi nel XVI e XVII secolo. La narrazione ini-
zia con il naufragio di Teagene e Cariclea, i due giovani protagonisti, che fini-
scono su una spiaggia del Delta egiziano. La coppia, catturata dai briganti det-
ti boukóloi, ‘pastori di vacche’, viene quindi trasportata nel loro covo situato ol-
tre le alture del Delta, in una regione detta Boukólia, ovvero ‘pascolo d’armen-
ti’, al centro della quale si trova un lago dalle rive paludose: « Qui tutti i brigan-
ti egiziani hanno organizzato una comunità politica » (Eliodoro, i 5), e molti di
essi sono addirittura nati in questa sorta di Tortuga, che considerano come la
loro patria.
Agli occhi di un abitante delle città, l’idea che dei briganti potessero forma-
re una politeía era sorprendente, ma tutto sommato non del tutto irreale: nel
23. P. Athanassiadi, Vers la pensée unique. La montée de l’intolérance dans l’Antiquité tardive, Paris, Les
Belles Lettres, 2010, p 123.
24. Vd. il saggio introduttivo di S.N. Eisenstadt, Post-Traditional Societies and the Continuity and
Reconstruction of Tradition, in « Daedalus », vol. cii 1973, pp. 1-27, e gli altri saggi nel medesimo fasci-
colo.
20
fratture e persistenze dell’ecumene romana
mondo tardo-ellenistico, alcuni secoli prima, strutture “statali” erano state at-
tribuite alle iniziative delle rivolte servili e sociali, nella Sicilia di Euno e nel-
l’Asia Minore di Aristonico.25 Protetti dal paesaggio nilotico, i boukóloi sfuggi-
vano alle rappresaglie delle autorità, proprio come i barbari di frontiera che
trovavano riparo nei boschi o nelle paludi. Ma è soprattutto notevole il “relati-
vismo” con cui Eliodoro presenta la comunità dei banditi, i quali pur sfuggen-
do alle leggi della società civile non vengono da lui moralmente condannati.
Come spesso accadeva anche nella realtà, i boukóloi di Eliodoro erano dei fuo-
rilegge che sceglievano territori lontani e isolati per costruire una comunità
politica conformata sul modello della città dei giusti e degli onesti: un model-
lo ben diverso dal « banditismo sociale » di età moderna, e piú in linea con il
celebre interrogativo di Agostino, per cui ogni formazione politica avrebbe re-
cato in sé la conformazione di brigantaggio: « cosa sono i regni, se non delle
comunità brigantesche su grande scala? » (Agostino, La città di Dio, iv 5). Nel
testo si evidenzia inoltre la peculiarità del paesaggio dei boukóloi, insistendo
sulla funzione del canneto palustre che li isola dal mondo esterno: « [il lago]
basta ai briganti come fortezza, e per questo vi scorre un mondo cosí vivo; e
tutti si servono dell’acqua come di una muraglia, coperti, in luogo dell’aggere,
dall’abbondante canneto. Difatti tagliano sentieri tortuosi, attraversati da mol-
te curve; loro, che li conoscono, li raggiungono facilmente in barca, ma per gli
altri sono inaccessibili. In questo modo ingegnoso si sono allestiti un’enorme
piazzaforte, sí da non subire mai attacchi » (Eliodoro, i 6).
Quello di Eliodoro è solo uno dei tanti esempi di come anche la visione del
paesaggio, in questa epoca di transizione, si fosse modificata.26 Acquistavano
ora visibilità le foreste, le paludi, le isole o le stesse aree montane, laddove in
precedenza, proprio come i popoli di frontiera, anche questi spazi erano esclu-
si. Ora, questi luoghi sembrano acquisire piena cittadinanza non solo nella fin-
zione letteraria, ma anche nella storiografia e persino nei documenti ammini-
strativi: un papiro ravennate del VI secolo menziona due appezzamenti nel
territorio di Padova chiamati palus Micauri e palus Pampiliana (Papyri Italia, iii 2 1
9 s.), che rientravano in un insieme di terreni comprendente anche un saltus,
25. Vd. C. Franco, La società ellenistica, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, v. L’ecumene romana, a
cura di G. Traina, Roma, Salerno Editrice, 2008, pp. 595-653, a p. 642.
26. Vd. G. Traina, Le trasformazioni del paesaggio nell’Italia tardoantica, in Storia della società italiana,
iv. Restaurazione e destrutturazione nella tarda antichità, a cura di G. Cherubini et al., Milano, Teti,
1998, pp. 121-36; E.I. Mineo, Paesaggi e insediamenti, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, ix. Strutture,
preminenze, lessici comuni, a cura di S. Carocci, Roma, Salerno Editrice, 2007, pp. 89-134.
21
introduzione
ovvero una zona boscosa adibita al pascolo. Un altro papiro ravennate, datato
al 551, menziona la vendita di un’altra palude « e di tutte le cose adiacenti » (ivi,
xxxiv). La registrazione di paludi e boschi come elementi effettivi di una pro-
prietà agraria non prefigura necessariamente il passaggio al sistema della curtis
medievale, ma l’evoluzione dei sistemi catastali mostra l’avvenuto riconosci-
mento di queste realtà fondamentali, che del resto costituivano anche prima
parte integrante dell’economia di una città o di un territorio: le canne e le altre
vegetazioni palustri, il legname o le ghiande dei boschi, ovvero il sale degli sta-
gni costieri, rappresentavano infatti una parte non indifferente del ciclo di pro-
duzione.27
Le zone periferiche si integravano quindi nel territorio di una città, mentre
i provvedimenti dell’autorità centrale esprimevano la chiara esigenza di cono-
scere, per controllarli meglio, i territori e le loro potenzialità economiche.
Un’eco di questa politica si avverte nel discorso ai senatori romani pronuncia-
to da Totila, re dei Goti, durante la guerra contro Giustiniano: « Voi che pur
siete cresciuti insieme coi Goti non avete voluto dare a noi, sino a oggi, neppu-
re un qualunque luogo deserto » (Procopio, Guerra gotica, iii 21 15), dove invece
il comandante bizantino Erodiano aveva consegnato loro Roma e Spoleto. Il
Totila di Procopio, visto come l’autore di un tentativo rivoluzionario fallito, ri-
vendicava un ribaltamento della situazione, con i senatori romani ridotti in
schiavitú e i barbari nelle città, anziché nelle campagne abbandonate. Dietro
questa visione, però, si nascondeva una realtà piú complessa: nell’Italia roma-
no-gotica, la sede naturale dell’aristocrazia terriera era considerata quella ur-
bana, come teorizzava Cassiodoro anche in reazione all’esodo nelle campagne
intrapreso da molti proprietari (Lettere, viii 31).
In questa epoca di forti contraddizioni, gli uomini assumono maggior fami-
liarità con il mondo liminare, ovvero con il mondo dei confini e dei passaggi.
In precedenza, la mentalità geografica “cittadina” aveva alimentato volentieri
le pretese dell’uomo mediterraneo di trovarsi al centro del mondo. Verso la fi-
ne del II secolo, un ellenista integrale come Elio Aristide, nel chiedere l’aiuto
imperiale per la ricostruzione di Smirne distrutta da un grave terremoto, si di-
chiarava sconvolto dalla rovina devastante della civiltà urbana, ma indifferente
a ciò che poteva essersi verificato fuori della cerchia delle mura (Discorsi, xix 8).
A maggior ragione ci si disinteressava (o meglio, non si parlava nelle sedi “al-
27. G. Traina, L’uso del bosco e degli incolti, in Storia dell’agricoltura italiana, i. L’età antica, 2. Italia roma-
na, a cura di G. Forni, A. Marcone, Firenze, Polistampa, 2002, pp. 225-58.
22
fratture e persistenze dell’ecumene romana
te”) dei luoghi piú lontani dalla città, progressivamente meno marcati dal se-
gno umano. Cosí, ai confini dello spazio civilizzato si immaginavano deserti
popolati da belve, ovvero gelidi ghiacciai e paludi “infami”: la loro alterità co-
me territorio si concretizzava nell’alterità del popolamento, giacché quegli
spazi offrivano ricettacolo agli infidi barbari. Con il passaggio tra antichità e
Medioevo, affiorano le strutture nascoste del paesaggio antico, che acquista
connotati piú realistici, definiti da descrizioni molto piú circostanziate e parti-
colareggiate che in precedenza. Natura e geografia sembrano qui fondersi, e lo
spazio astratto e idealizzato del mondo classico comincia ad assumere corpo,
acquistando una fisionomia visibile, dove gli elementi della natura, un tempo
trascurati, appaiono ora in una luce piú “umana” e, anche quando non perdo-
no del tutto la loro dimensione inquietante, non vengono piú descritti come
ostacoli insormontabili.
Si prenda, ad esempio, la celebre descrizione del viaggio intrapreso dall’am-
basceria bizantina per recarsi alla corte del re degli Unni Attila. La legazione
avvenne intorno al 449 e fu narrata da uno dei suoi membri, lo storico Prisco di
Panion. Per raggiungere la residenza di Attila, anziché solcare il Mar Nero, gli
ambasciatori scelsero un percorso piú breve ma anche piú rischioso, risalendo
il Danubio che segnava da secoli la frontiera tradizionale tra i Greci e i popoli
delle steppe.28 Lasciata la città di Naissos (oggi Nisˇ, in Serbia), essi raggiunsero
il fiume per trovarsi in una zona « ombrosa, con diverse curve, anse e involu-
zioni. Qui si fece giorno. Poiché il sole sorgeva di fronte a noi, pensavo che
avevamo dovuto viaggiare verso Occidente; in realtà, chi non era esperto del
paesaggio si mise a gridare che il sole aveva preso il cammino contrario, e che
ciò era indizio di altre cose fuori dal comune. Per l’anomalia del terreno, que-
sto pezzo del nostro itinerario sembrava dirigersi verso Oriente » (Prisco di
Panion fr. viii 84 ed. Carolla). 29
Il racconto di Prisco non è esente da immagini letterarie desunte dalla let-
teratura classica (il motivo del « sole a destra » è già in Erodoto, iv 42 4). Tutta-
via, in questa descrizione delle curve del fiume che fanno perdere l’orienta-
mento ai suoi compagni di spedizione, in uno scenario greve di sinistri presa-
gi, vi è una consapevolezza piú profonda: per giungere ai barbari, al « cuor di
tenebra » unnico, occorre eseguire un rito di passaggio, la risalita di un fiume.
28. Il topos del fiume-frontiera ricorre anche in Malco di Filadelfia, fr. xv 69-71, xviii 191-93 ed.
Cresci.
29. Trad. in Prisci Panitae, Fragmenta, a cura di F. Bornmann, Firenze, Le Monnier, 1979.
23
introduzione
30. Citato da E.J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mon-
diale, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 26 (ed. or. Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1979). Un episo-
dio singolarmente analogo alla narrazione di Prisco è riportato nel memoriale del viaggiatore ot-
tocentesco Alexander Kinglake, al momento di passare la Sava transitando dall’Europa austroun-
garica all’Ungheria turca: Id., La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, ivi, id., 1995, pp.
60-61 (ed. or. New York, Basic Books, 1991).
31. Vd. Descrizione del mondo e delle sue genti, a cura di U. Livadiotti, M. Di Branco, Roma, Sa-
lerno Editrice, 2005, e l’analisi di C. Molé, Le tensioni dell’utopia. L’organizzazione dello spazio in alcuni
testi tardoantichi, in Le trasformazioni della cultura nella Tarda Antichità, a cura di M. Mazza, C. Giuffri-
da, Roma, Jouvence, 1986, pp. 691-736.
24
fratture e persistenze dell’ecumene romana
late nella Tabula Peutingeriana (x 2); poco lontano da queste aree, prima del de-
serto, questo celebre itinerarium pictum menziona i « confini dell’esercito della
Siria, e zona del commercio con i barbari » (fines exercitus Syriaticae et conmertium
barbarorum).32
La Tabula riflette la situazione successiva alla sconfitta di Giuliano nel 363,
quando Roma e la Persia stavano cercando di spartirsi le rispettive zone di in-
fluenza sui settori della Mesopotamia e dell’Armenia. Le soluzioni via via
adottate prevedevano anche un regolamento piú accurato dei commerci, che
venne ribadito da una serie di trattati e protocolli. Si conserva il testo di una
legge emanata nel 408/9: in base a questo provvedimento, i mercanti romani
che volessero operare oltre la frontiera erano obbligati a fermarsi in determi-
nati centri di scambio: « I mercanti, sia quelli soggetti al nostro impero che
quelli soggetti al re dei Persiani, non devono tenere mercato al di là di quei luo-
ghi convenuti al tempo del trattato con il suddetto popolo, perché non osser-
vino i segreti del regno straniero, cosa che non è stata convenuta. Pertanto, da
allora, nessuno che sia soggetto al nostro impero osi spingersi oltre Nisibi, Cal-
linicum e Artaxata per comprare o vendere, e non pensi di poter barattare delle
merci con un Persiano, se non nelle suddette città: entrambi i contraenti sono
consapevoli che le singole merci che siano vendute o comprate oltre quei luo-
ghi verranno sequestrate in favore del nostro sacro erario, e che in aggiunta, ol-
tre alla perdita delle merci stesse e della somma con cui sono state pagate, sa-
ranno condannati all’esilio perpetuo. Vi sia inoltre la condanna a pagare trenta
libbre d’oro, ai governatori o ai loro sostituti, per ogni singola transazione ese-
guita oltre i suddetti luoghi, i cui limiti proibiti siano stati oltrepassati da un
Persiano o da un Romano per ragioni commerciali (extra memorata loca per quo-
rum limitem ad inhibita loca mercandi gratia Romanus vel Persa commeaverit). Ovvia-
mente va fatta eccezione per coloro i quali recano merci da scambiare nell’oc-
casione in cui si trovino al seguito delle ambascerie che i Persiani inviano pres-
so la nostra clemenza; per loro ammettiamo, in considerazione dell’indulgen-
za determinata dall’ambasceria, la possibilità di commerciare oltre i luoghi de-
terminati in precedenza, a meno che, se rimanendo troppo a lungo in una
qualsiasi provincia col pretesto di compiere l’ambasceria, [contesto lacunoso]
32. P. Arnaud, Frontière et manipulation géographique: Lucain, les Parthes et les Antipodes, in La frontiè-
re, a cura di Y. Roman, Lyon, Maison de l’Orient, 1993, pp. 45-56, spec. p. 47. In generale, vd. C.R.
Whittaker, Frontiers of the Roman Empire: A social and economic Study, Baltimore, Johns Hopkins
Univ. Press, 1994; Id., Rome and its Frontiers: The Dynamics of Empire, London, Routledge, 2004.
25
introduzione
senza scortare l’ambasciatore nel suo rientro in patria. Infatti, la pena prevista
da questa sanzione deve colpire chi svolge attività commerciali insieme a quel-
li con cui hanno effettuato delle transazioni al momento del loro soggiorno »
(Codice di Giustiniano, iv 63 4).33
In determinati casi si poteva ricorrere alla chiusura della frontiera, anche se
probabilmente questo avveniva solo in caso di guerra.34 Ma in alcune zone piú
difficili da controllare gli indigeni tendevano a ignorare i divieti, come nel ca-
so degli Armeni che vivevano nella regione della Chorzene: in questa terra,
nel VI secolo, Giustiniano aveva fatto costruire la fortezza di Araleson, in fun-
zione difensiva contro i Persiani ma soprattutto per controllare la popolazione
armena che, approfittando dello stato di confusione, ignorava la guerra tra i
due imperi e continuava a esercitare pacificamente i consueti scambi com-
merciali (Procopio, Gli edifici, iii 39-40). Sia i Romani che i Persiani cercarono
invano di imporre le proprie logiche anche nei territori di frontiera piú diffici-
li, mossi dal medesimo proposito che aveva spinto Alessandro Magno e i suoi
successori a esportare il modello mediterraneo di urbanizzazione. Giustinia-
no fu l’ultimo a coltivare questo progetto, che in molti casi si rivelava utopisti-
co, ma che trova riscontro anche nell’impero rivale dei Sasanidi, dove alcuni
sovrani tentarono anch’essi di ricorrere alla fondazione di città per cementare
le diverse realtà etniche del loro impero multinazionale: un martirologio siria-
co del IV secolo, gli Atti di Pusai, testimonia la costruzione del centro di Kar-
ka-d-Ladan da parte di Ša6buhr II, dove però il tentativo di costituire una me-
tropoli multietnica sortí l’effetto non previsto di aprire le porte alla cristianiz-
zazione del paese (Atti di Pusai, in Atti dei Martiri siriaci, ii 209).35
Simili fondazioni richiedevano un grande impegno di manodopera, e in
questi casi era utile ricorrere anche alla forza lavoro dei nemici vinti. Il testo
persiano della Storia dei Profeti e dei Re dello storico arabo T‡ abarı6 tramanda una
singolare versione della vicenda dell’imperatore Valeriano dopo la sua cattura
33. Vd. K.-H. Ziegler, Regeln für den Handelsverkehr in Stäatsvertragen des Altertums, in « Tijdschrift
voor Rechtsgeschiedenis », a. lxx 2002, pp. 55-67, a p. 55.
34. Vd. p. es. la Vita di Malco di San Girolamo, o il par. 20 del Pellegrinaggio di Egeria, e le osserva-
zioni di H. Elton, Defining Romans, Barbarians, and the Roman Frontier, in Shifting Frontiers in Late An-
tiquity, a cura di R.W. Mathisen, H.S. Sivan, Aldershot, Variorum, 1996, pp. 126-35.
35. Il passo è citato da S. Brock, Christians in the Sasanid Empire: A Case of divided Loyalties (1982), in
Id., Syriac Perspectives in Late Antiquity, London, Variorum, 1984, pp. 1-19. Vd. N. Pigulevskaja, Les
villes de l’Etat iranien aux époques parthe et sasanide. Contribution à l’histoire sociale de la Basse Antiquité, Pa-
ris-La Haye, Mouton, 1963.
26
fratture e persistenze dell’ecumene romana
da parte di Ša6buhr I:36 all’Augusto sarebbe stata offerta la libertà se avesse con-
vocato dal « paese di Ru6m », ovvero dall’impero romano, degli esperti romani
per fortificare una grande piazzaforte. « Il re di Ru6m inviò un messo, e gli arti-
giani romani arrivarono. Ša6buhr diede loro quest’ordine: “voglio che voi co-
struiate dei contrafforti tutto attorno a questa città, di modo che il suo suolo
possa riposarvi sopra. Scavate le fondamenta fino a raggiungere l’acqua, poi ri-
empitele di mattoni, calce e pietra, e gettatevi sopra della terra. Queste fonda-
menta dovranno avere una larghezza di mille cubiti e una lunghezza di mille
cubiti, sí ch’io possa costruirvi sopra le mura della città”. Essi eseguirono tutto
il lavoro, che venne fatto a spese del re di Ru6m che era prigioniero, finché l’o-
pera non fu ultimata. Quindi Ša6buhr gli diede la libertà, dopo avergli tagliato il
naso, dicendogli: “occorre assolutamente che tu rechi sul viso il marchio della
cattività”, dopodiché lo lasciò andare ».37
Per quanto romanzato, l’aneddoto presenta un fondo di verità. Già ai tempi
della sconfitta di Crasso a Carre, nel 53 a.C., prigionieri romani erano stati im-
piegati come maestranze specializzate per costruire la fortezza di Merv in Asia
centrale (Plinio il Vecchio, vi 18);38 e un secolo dopo la cattura di Valeriano,
quando Ša6buhr II respinse la spedizione di Giuliano nel 363, una clausola del
trattato stipulato con il successore Gioviano prescriveva che i Romani aiutas-
sero i vincitori a costruire una barriera contro i « barbari sconosciuti » del Nord
(Giovanni Lido, Sulle magistrature, iii 52), presso quel valico noto ancora come
le “porte di Alessandro”.39 In effetti, se i Persiani stimavano gli artefici dell’Oc-
cidente per le loro cognizioni tecniche, al tempo stesso esprimevano il loro
disprezzo per queste arti degne delle caste inferiori e, appunto, dei popoli vas-
salli.40
Naturalmente, queste posizioni ideologiche non coincidevano necessaria-
mente con la realtà, tanto è vero che il principe sasanide Hormisdas, rifugiato-
si alla corte di Costanzo II, venne definito da Ammiano come « grande specia-
36. Vd. T. Gnoli, Da Traiano agli Antonini, in Storia d’Europa, vi, cit., pp. 131-64.
37. T‡ abarı6, Storia dei Profeti e dei Re, dalla trad. francese di H. Zotenberg, riedita in T‡ abarî. La
Chronique. Histoire des prophètes et des rois, i. De la Création à David. De Salomon à la chute des Sassanides,
Arles, Actes Sud, 1984, p. 183-84. La versione araba riporta l’aneddoto con alcune varianti: le mae-
stranze romane sarebbero state impiegate per costruire una diga.
38. Vd. G. Traina, La resa di Roma. Battaglia a Carre, 9 giugno 53 a.C., Roma-Bari, Laterza, 2010.
39. Vd. Girolamo, Lettere, lxxvii 8.
40. Per alcuni esempi tratti dalla letteratura pahlavi, e dalla piú tarda epica neopersiana, vd. G.
Traina, I Romani, maestri di tecnica, in Innovazione tecnica e progresso economico nel mondo romano. Atti
degli Incontri di Capri, 13-16 aprile 2003, a cura di E. Lo Cascio, Bari, Edipuglia, 2006, pp. 253-69.
27
introduzione
lista di architettura ».41 Come del resto gli altri orientali, i Persiani considerava-
no i Romani come depositari di una grande cultura tecnica, che cercavano in
qualche modo di far propria:42 secondo Vegezio, che nel IV secolo scrisse un
trattato militare, essi avrebbero imitato i Romani anche nella pratica di circon-
dare i campi fortificati con un vallo (L’arte della guerra, iii 10 15). Ammiano Mar-
cellino, narrando la marcia di avvicinamento di Giuliano nella regione del Ti-
gri, ricorda: « trovammo una residenza reale costruita all’uso romano, che la-
sciammo intatta in quanto la cosa era stata apprezzata » (xxiv 5 1). La sua testi-
monianza è confermata da precisi riscontri archeologici, con la scoperta di di-
versi forti di tipo “romano”, a pianta quadrata con bastioni tondeggianti, in va-
rie località dell’impero sasanide, in particolare sulla frontiera mesopotamica o
nei pressi delle grandi città.
41. Il passo di Ammiano è oggi perduto, ma a quanto pare era presente in un manoscritto utiliz-
zato dall’umanista Flavio Biondo, secondo le indagini di R. Cappelletto, Recuperi ammianei da
Biondo Flavio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1983; vd. A. Cameron, Biondo’s Ammianus:
Constantius and Hormisdas in Rome, in « Harvard Studies in Classical Philology », a. xcii 1989, pp.
423-36.
42. Vd. G. Traina, Conclusione, in questo volume, pp. 000-00.
43. Sui problemi della città tardoantica vd. P. Porena (per gli aspetti amministrativi), F. Maraz-
zi (per i caratteri urbanistici monumentali) e A. Ibba (per il caso africano), in questo volume, pp.
000-00, 000-00 e 000-00.
44. L’espressione Age of Anxiety, del poeta Winston Auden, è stata riproposta per il tardoantico
da E. Dodds, Pagani e Cristiani in un’epoca di angoscia, Firenze, La Nuova Italia, 1975 (ed. or. Cam-
bridge, Cambridge Univ. Press, 1965), e poi da R. Bianchi Bandinelli, Roma. La fine dell’arte anti-
ca, Milano, Rizzoli, 20052, pp. 23 sgg. (1a ed. 1970).
45. Sul contesto, vd. U. Roberto, in questo volume, pp. 000-00, partic. pp. 000.
28
fratture e persistenze dell’ecumene romana
46. Per una discussione ragionata delle varie interpretazioni del passo vd. ultimamente E. Lo
Cascio, Introduzione, in S. Mazzarino, Aspetti sociali del IV secolo, Milano, Rizzoli, 20022, pp. i-xxix,
spec. p. xxiii n. 54.
47. Mazzarino, La fine del mondo antico, cit., pp. 71 sgg.; M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Mi-
lano, Adelphi, 1994 (20032), p. 40.
29
introduzione
ste opere, che ovviamente davano luogo a speculazioni da parte dei governa-
tori preposti al ritiro delle tasse.48 Piú tardi, sotto Giustiniano, questa politica
conobbe una fortissima spinta, testimoniata dai provvedimenti giuridici, dalle
iscrizioni e in particolare dal singolare trattato Gli edifici, ultimato da Procopio
di Cesarea verso la metà del VI secolo e destinato a illustrare i monumenti e le
fortificazioni promossi con grande impegno del basileús: « Ora, come ho detto,
bisogna passare a illustrare l’opera edilizia dell’imperatore: infatti, non deve
accadere quello che è avvenuto ad altri tempo addietro. Infatti, chi osserva il
numero e la grandezza degli edifici allestiti, stenta a credere che si tratti dell’o-
pera di un sol uomo » (Procopio, Gli edifici, i 1 17). Poco prima, Procopio aveva
affermato in modo ancor piú categorico: « che egli non si limitò ad acquisire
nuovi stati, ma si curò di procurare al potere di Roma dei paesi ch’erano stati
altrui, e creò (dede6mioúrge6ken) innumerevoli città che prima non esistevano »
(ivi, i 1 8).
In realtà, dietro la cortina di adulazione Procopio non riusciva a celare la
propria avversione per gli eccessi propagandistici di Giustiniano. Non è esclu-
so che anche il trattato Gli edifici presentasse delle allusioni ironiche ben nasco-
ste, anche perché tutti i lettori di Procopio sapevano bene che i numerosi in-
terventi di restauro delle varie fortezze della linea di frontiera non erano certo
state opera di un sol uomo, bensí di piú imperatori.49 L’aspetto ideologico è qui
fondamentale: per Giustiniano, le attività di costruzione costituivano un ele-
mento chiave per vincere i barbari e preservare al tempo stesso i commerci, e
di qui nasceva lo sforzo profuso per fondare o rafforzare le città di frontiera,
come in Mesopotamia, in Anatolia e in Africa.50
Del resto, anche le autorità ecclesiastiche dovevano occuparsi degli aspetti
materiali di una città, ormai investita da un processo di cristianizzazione che
implicava anche la trasformazione radicale degli spazi urbani;51 per questa ra-
gione, il vescovo acquistava un potere decisamente superiore rispetto alle an-
tiche aristocrazie curiali. A partire dal IV secolo, le Chiese cristiane comincia-
48. Vd. Anonimo, Le cose della guerra, iv 4, e il commento di A. Giardina, in Anonimo, Le cose del-
la guerra, a cura di A. Giardina, Milano, Mondadori, 1989, pp. 103-4.
49. Vd. B. Croke-J. Crow, Procopius and Dara, in « Journal of Roman Studies », a. lxxiii 1983, pp.
143-59 (che però di Procopio non sembrano cogliere l’ironia, ma solo gli intenti propagandistici).
Sull’opera vd. ora « De aedificiis ». Le texte de Procope et les réalités, a cura di C. Roueché, in « Antiqui-
té Tardive », a. viii 2000, pp. 5-180.
50. Vd. S. Cosentino, in questo volume, pp. 000-00.
51. Vd. l’articolo ormai classico di G. Dagron, Le christianisme dans la ville, in « Dumbarton Oaks
Papers », a. xxxi 1977, pp. 1-25.
30
fratture e persistenze dell’ecumene romana
rono ad assumere la direzione tecnica di varie opere nelle città e nelle campa-
gne, sostituendosi alle élites municipali. Mentre l’impero si preoccupava so-
prattutto di gestire le sue proprietà, controllando e difendendo le regioni piú
esposte al pericolo nemico, nelle regioni “cristianizzate” il vescovo diventava
imprenditore, svolgendo una funzione parallela a quella dei funzionari impe-
riali.52
Alcune realtà urbane mostrano che la variazione dei modelli poteva essere
anche radicale. Ciò scatenava le polemiche dei conservatori, che reagivano al-
le trasformazioni esprimendo ancor piú fortemente il proprio attaccamento ai
valori del passato. L’aristocratico gallico Sidonio Apollinare, interprete e al
tempo stesso protagonista delle ultime battute di un impero d’Occidente or-
mai al suo capolinea, in un’epistola del 468 si abbandona a una feroce critica
della realtà materiale della capitale occidentale, la lagunare Ravenna:
In questa palude, dove ogni norma è sovvertita senza posa, i muri cascano e le acque
stanno ferme, le torri si spostano a pelo d’acqua e le navi non si muovono, nei bagni
pubblici si gela e nelle case private si scoppia dal caldo, gli dèi hanno sete e i sepolti nuo-
tano, i ladri vegliano e le autorità dormono, i chierici prestano a interesse e i Siri canta-
no salmi, i commercianti servono il Signore e i monaci commerciano, i vecchi pensano
a giocare a palla e i giovani ai dadi, gli eunuchi si interessano alle armi e i federati alla
cultura. Tu vedi quale possa essere una città [ . . . ] che piú facilmente può avere un ter-
ritorio che non la terra! (Sidonio Apollinare, Lettere, i 8 2).
31
introduzione
Strabone (v 1 4): ma nell’alto Adriatico, per non richiamare altri esempi piú re-
moti, vi erano altri esempi. Nel “paradosso” di Ravenna non è improprio ve-
dere un anticipo del futuro modello rappresentato da Venezia.
6. Aspettando i barbari
Come è noto, l’espressione « invasioni barbariche » è comune alla maggior
parte delle tradizioni storiografiche, ma con la significativa eccezione degli
studiosi germanici, che a partire dalla fine del Settecento hanno introdotto il
concetto di Völkerwanderung, ‘migrazione di popoli’. In un capitolo dell’Esprit
des Lois (1748), Montesquieu propose una distinzione tra « selvaggi » e « barba-
ri » che rispecchiava l’atteggiamento della cultura del suo tempo e che ha tro-
vato una sua collocazione nella cultura moderna: « i primi sono delle piccole
nazioni disperse, che per particolari ragioni non riescono a riunirsi, mentre di
solito i barbari sono piccole nazioni che riescono a farlo. I primi, di solito, so-
no popoli cacciatori, i secondi popoli pastori » (Montesquieu, L’Esprit des Lois,
xviii 11). Il filosofo francese faceva riferimento alla sua epoca, evidenziando la
differenza tra i selvaggi della Siberia e i barbari Tartari che, a differenza dei pri-
mi, almeno per un certo periodo erano stati in grado di eleggere un capo e at-
tuare cosí una politica efficace di conquista. Ma in un’operetta precedente, le
Considerazioni sulle cause delle conquiste dei Romani e della loro decadenza (1734), egli
aveva utilizzato analoghi argomenti per spiegare come una coalizione di na-
zioni barbare fosse riuscita ad avere il sopravvento sull’impero d’Occidente:
« Roma si era estesa perché non aveva avuto che delle guerre in successione:
con una fortuna incredibile, era stata attaccata da una singola nazione solo
quando quella precedente era stata annientata. Se Roma fu distrutta, questo
accadde perché tutte le nazioni la attaccarono in una sola volta, penetrando
ovunque » (cap. xix). Per Montesquieu, i barbari che fecero cadere Roma ave-
vano avuto una funzione positiva nella costruzione del nuovo mondo, anche
perché apparivano come popoli germanici mossi da un’idea di libertà che i
Romani avevano perduto da tempo.53 Questo mito dei popoli “giovani” e ri-
generatori, che avrebbero gettato le basi dell’Europa, dura ancor oggi, come
dura del resto l’idea che l’impero d’Oriente continuasse a esistere essenzial-
mente per inerzia, proprio perché i barbari non erano riusciti ad attaccare Bi-
53. U. Roberto, Montesquieu, i Germani e l’identità politica europea, in Libertà, necessità e storia. Percor-
si dell’ ‘Esprit des lois’ di Montesquieu, a cura di D. Felice, Napoli, Bibliopolis, 2003, pp. 277-322.
32
fratture e persistenze dell’ecumene romana
54. Vd. la messa a punto di A. Barbero, Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano, Ro-
ma-Bari, Laterza, 2006, e ora P. Heather, La caduta dell’impero romano. Una nuova storia, Milano,
Garzanti, 2008 (ed. or. Oxford, Oxford Univ. Press, 2006), e Id., Empires and Barbarians: Migration,
Development and the Birth of Europe, London, Macmillan, 2009.
55. P. Heather, Disappearing and reappearing Tribes, in Strategies of Distinction. The Construction of eth-
nic Communities, 300-800, a cura di W. Pohl, H. Reimitz, Leiden, Brill, 1998, pp. 95-111.
56. Vd. P.J. Geary, Il mito delle nazioni. Le origini medievali dell’Europa, pref. di G. Sergi, Roma, Ca-
rocci, 2010 (ed. or. Princeton, Princeton Univ. Press, 2002).
33
introduzione
cessi di una nazione barbarica potevano determinare presso gli altri popoli l’a-
dozione di “mode” e di analoghe forme di emulazione. Una certa omogenei-
tà si riscontrava solo nel gruppo dominante, che dava il nome all’etnia. Di fat-
to, i gruppi di “barbari” venivano chiamati con i loro nomi effettivi (Goti, Un-
ni, Svevi, Vandali, Franchi), ovvero con dei nomi dal sapore piú classico quali
“Sciti” o “Massageti”. Ma varie tracce linguistiche mostrano elementi di com-
mistione fra le etnie in contatto, come nel caso dei Burgundi e degli Unni nel-
la prima fase delle migrazioni.
Diversamente da Montesquieu, oggi si sa che i barbari non vinsero solo per
il loro spirito libero e per le circostanze che permisero loro di penetrare in piú
punti dell’impero, ma anche grazie alle cognizioni tecniche che avevano ap-
preso proprio dai Romani; in particolare di quelle militari, grazie allo scambio
di informazioni e all’esperienza maturata militando per una o entrambe le par-
tes imperiali.57 Con questo bagaglio di conoscenze, essi giunsero addirittura a
concepire efficaci macchine da guerra per l’assedio delle città, come fecero già
i Goti nel III secolo (Dexippo, fr. 27 ed. Jacoby), e piú tardi, con risultati ancor
piú soddisfacenti, gli Unni, come per l’assedio di Naissos nel 441:
I barbari, desiderosi di prendere una città cosí popolosa e insieme fortificata, ricorsero
a ogni espediente. Poiché gli assediati non avevano il coraggio di fare una sortita e af-
frontarli in battaglia, i barbari, per rendere piú facile il passaggio al grosso dell’esercito,
costruirono un ponte sul fiume nella parte meridionale, là dove scorre accanto alla cit-
tà, e avvicinarono macchine da guerra alla cinta delle mura, prima di tutto delle travi
montate su ruote, perché cosí fosse piú facile accostarle. Uomini ritti su queste travi
scagliavano frecce contro i difensori sugli spalti, mentre altri uomini che si trovavano
alle due estremità del palo trasversale procedevano a piedi spingendo le ruote (Prisco,
fr. 1b ed. Carolla).58
Per molto tempo, simili brani sono stati considerati con scetticismo, anche
perché gli autori dell’epoca in genere si rifiutavano, persino di fronte all’evi-
denza, di ammettere l’esistenza di una tecnologia barbarica. In realtà, i barbari
non solo erano in grado di assimilare, ma addirittura di perfezionare la tecno-
logia romana.59 Un secolo piú tardi Procopio, un autore solitamente critico,
34
fratture e persistenze dell’ecumene romana
60. Trad. in Procopio, La guerra persiana, vandalica, gotica, a cura di M. Craveri, Torino, Einaudi,
1977.
61. L. Ruggini, Uomini senza terra e terra senza uomini nell’Italia antica, in « Quaderni di sociologia
rurale », a. iii 1963, pp. 20-41; M. De Dominicis, Aspetti della legislazione del Basso Impero sugli “agri de-
serti” (1964), in Id., Scritti romanistici, Padova, Cedam, 1970, pp. 165-79.
62. Vd. B. Luiselli, La società dell’Italia romano-gotica, in Atti del vii Congresso internazionale di studi
sull’Alto Medioevo, Norcia-Subiaco-Montecassino, 29 settembre-5 ottobre 1980, Spoleto, Cisam,
1982, pp. 49-116, spec. pp. 51 sgg.
35
introduzione
36
CONCLUSIONE
UN IMPERO DI TRANSIZIONE
di GIUSTO TRAINA
1. Un bilancio dall’esterno
I Ru6m stabilirono il loro dominio sui Greci in seguito ad avvenimenti che sarebbe
troppo lungo raccontare e che è impossibile esporre in quest’opera. Il primo re dei
Ru6m fu Ma6sa6tu6ha6s, che non è altri che G˛ a6iyus il Giovane, figlio di Ru6m, figlio di Sa-
ma6halı6q, di cui il regno durò ventidue anni; oppure, se bisogna credere ad altre opinio-
ni, Cesare, il cui nome è Gaio Giulio, che regnò diciotto anni. Secondo un altro mano-
scritto, il primo re di Ru6m che regnò a Roma dopo i Greci fu Giulio, che tenne il pote-
re per sette anni e mezzo: Roma esisteva già da quattrocento anni.1
Cosí scriveva il grande storico e geografo del X secolo Abu al-H‡ asan ‘Alı6 ibn al-
H‡ usayn ibn ‘Alı6 al-Mas‘u6dı6, che qui utilizza un’accezione del nome Ru6m ri-
stretta ai soli Romani, laddove molti altri autori la utilizzano per definire il
mondo classico nel suo insieme, e anche quello bizantino.2 Sotto la lente di
questo Erodoto islamico, pur evitando le distorsioni o i toni ostili presenti in
altri autori arabi, il passato di Roma si stempera e si confonde, per apparire co-
me una realtà lontana. Al tempo stesso, la periodizzazione proposta è quella
della successione lineare e inevitabile degli imperi: Roma si impone sulla Gre-
cia, per regnare incontrastata sino all’avvento dell’Islam. Lo scenario può sem-
brare insolito, ma in realtà, se si parlasse di « Medioevo occidentale » anziché di
« Islam », si ritroverebbe una visione familiare.
Introducendo il trittico su Roma della Storia d’Europa e del Mediterraneo, ho
formulato una critica implicita alla tradizionale divisione della storia antica
che prevede l’avvicendamento di Vicino Oriente, Grecia e Roma.3 Giunti alla
fine del percorso, si può concludere che questa divisione non ha piú ragione di
esistere. O meglio, essa continuerà a esistere in attesa di un nuovo paradigma
1. Mas‘u6dı6, I prati d’oro, par. 716, in M. Di Branco, Storie arabe di Greci e di Romani. La Grecia e Ro-
ma nella storiografia arabo-islamica medievale, Pisa, Plus-Pisa Univ. Press, 2009.
2. Su tutta la questione vd. Di Branco, Storie arabe, cit. Il passo di Mas‘u6dı6 è commentato alle pp.
109-10.
3. G. Traina, Imperi, città e spazio mediterraneo dal 343 al 27 a.C., in Storia d’Europa e del Mediterraneo,
v. La “res publica” e il Mediterraneo, a cura di Id., Roma, Salerno Editrice, 2008, pp. 17-48, a p. 17.
699
un impero di transizione
4. Su possibili (e peraltro discutibili) testimonianze precedenti, vd. G. Vanotti, Roma “polis Hel-
lenis”, Roma “polis Tyrrhenis”. Variazioni sul tema, in « Mélanges de l’École Française de Rome-Anti-
quité », a. cxi 1999, p. 217-55, con bibliografia. In generale, vd. L. Canfora, Roma “città greca”, in
« Quaderni di Storia », a. xx 1994, pp. 5-41.
5. Per un punto di vista linguistico, vd. C.A. Ciancaglini-S. Kaczko, Greco e latino, lingue dell’el-
lenismo, in Storia d’Europa, v, cit., pp. 655-96.
700
conclusione
Giuda venne a conoscere la fama dei Romani: che essi erano molto potenti e favoriva-
no tutti quelli che simpatizzavano per loro e accordavano amicizia a quanti si rivolge-
vano a loro e che erano forti e potenti. Gli furono narrate le loro guerre e le loro im-
prese gloriose compiute tra i Galli: come li avessero vinti e sottoposti al tributo. Aveva
saputo quanto avevano compiuto nella Spagna per impadronirsi delle miniere di oro e
di argento che vi sono; e come avevano sottomesso tutta la regione con la loro saggez-
za e costanza, benché il paese fosse assai lontano da loro, e avevano vinto i re che era-
no venuti contro di loro dall’estremità della terra: li avevano sconfitti e avevano inflit-
to loro gravi colpi e gli altri re pagavano loro il tributo ogni anno (Primo libro dei Macca-
bei, viii 1-4).
L’autore del Primo libro dei Maccabei prosegue in una descrizione dell’espansio-
ne romana e della politica estera dei discendenti di Romolo: « Quelli che essi
vogliono aiutare e far regnare, regnano; quelli che essi vogliono, li depongono,
tanto si sono innalzati in potenza » (ivi, viii 13). Arnaldo Momigliano ha osser-
vato che questo testo riflette « meglio di qualsiasi pagina di Polibio la meravi-
glia dell’uomo comune di fronte all’ascesa della potenza romana dalla Spagna
all’Asia minore ».6 Questa immagine impressionava profondamente i popoli
dell’Oriente. Secoli dopo, lo storico armeno Mosé di Khoren utilizza tuttora il
modello letterario di Maccabei per descrivere un presunto contatto fra Roma e
il fondatore dell’impero partico, Arsace I: lo storico riprende quasi alla lettera
il paragrafo 8 del Primo libro dei Maccabei, aggiungendo poi che il re avrebbe in-
viato un’ambasceria ai Romani, offrendo loro una somma in denaro in cambio
della loro alleanza e della promessa di non dare appoggio ai Macedoni (Mosé
di Khoren, Storia dell’Armenia, ii 2).
In ogni caso, nel II secolo a.C., nessuno avrebbe previsto che l’impero ro-
mano sarebbe durato cosí a lungo. Polibio stesso riteneva che il governo di Ro-
ma avrebbe finito per decadere.7 E l’ascesa dei Romani in Oriente fu regolar-
mente accompagnata da voci di opposizione che si richiamavano spesso a vi-
sioni di decadenza. Greci ed Ebrei svilupparono la peculiare forma letteraria
degli Oracoli Sibillini, composizioni poetiche dove i fittizi responsi profetici
delle Sibille promettevano scenari catastrofici contro gli oppressori. Simili te-
sti, rivolti dapprima contro i regni ellenistici, conobbero grande fortuna all’e-
poca dell’espansione romana: fra gli altri, se ne serví per la sua propaganda Mi-
6. A. Momigliano, Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture, Torino, Einaudi, 1980 (ed. or.
Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1975), p. 118.
7. Vd. la discussione di S. Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano, Rizzoli, 19952, pp. 17-32.
701
un impero di transizione
8. Vd. ultimamente A. Mayor, The Poison King: The Life and Legend of Mithradates, Rome’s Deadliest
Enemy, Princeton, Princeton Univ. Press, 2010, p. 35.
9. S.M. Burstein, SEG 33.802 and the Alexander Romance, in « Zeitschrift für Papyrologie und
Epigraphik », vol. lxxvii 1980, pp. 275-76; J-D. Gauger, Orakel und Brief: zu zwei hellenistischen For-
men geistiger Auseinandersetzung mit Rom, in Rom und der griechischen Osten. Festschrift für Hatto H.
Schmitt zum 65. Geburtstag, a cura di C. Schubert, K. Brodersen, U. Huttner, Stuttgart, Steiner,
1995, pp. 51-67, con ulteriore bibliografia.
702
conclusione
loro: « Se non siete capaci di essere superiori, allora dovete pagare il tributo ai
popoli che lo sono ».10 Non si sa a quando risalga l’inserzione nel Romanzo di
questo aneddoto, che mescolando vari elementi di realtà trasforma la storia in
una favola senza tempo, ma il senso del messaggio era chiaro: se la potenza ro-
mana era destinata a maggior gloria, di fronte a un re come Alessandro doveva
anch’essa piegarsi a un rapporto fondato piú sul vassallaggio che su una pari al-
leanza.
All’epoca, l’immagine del potere romano coincideva ancora con quello del-
l’Urbe, che ormai nessuno avrebbe piú potuto definire come una delle tante
città greche, anche se un osservatore come Strabone continua a descriverla co-
sí, utilizzando parametri dettati dalla propria sensibilità ellenistica.11 Non a ca-
so, egli si dilunga sul Campo Marzio, una sorta di agorà che assumeva le fun-
zioni un tempo assolte dal Foro repubblicano, e dedica un minimo spazio ai
luoghi di memoria dell’identità cittadina. Secondo il Geografo, la superiorità
di Roma era soprattutto tecnologica, e in questo non egli si distaccava molto
dagli argomenti sviluppati, pur se in funzione negativa, dai rabbini del Tal-
mud: come quando, ad esempio, Jose ben Halafta affermava che « nella gran
città di Roma vi sono 365 strade, in ognuna delle quali vi sono 365 palazzi, e
ognuno di essi ha 365 piani, di cui ognuno contiene di che nutrire l’intero uni-
verso » (Talmud Babilonese, trattato Pesahim, 118b). Ancor piú celebre è la con-
versazione riportata nel trattato Shabbat: al rabbino Jehudah, che riconosceva
ai Romani l’introduzione di opere pubbliche come « mercati, ponti e terme »
di indubbia utilità, il rabbino Shimon ben Jochai, sostenitore della tradizione,
ribatteva seccamente: « Tutto ciò che hanno costruito lo hanno fatto solo per
il proprio vantaggio: hanno costruito mercati per collocarvi delle prostitute,
bagni per rinfrescarvisi, ponti per imporvi balzelli » (Talmud Babilonese, trat-
tato Shabbat, 33b).12 La critica dei rabbini è senza appello: l’oggettiva superiori-
tà tecnica dei conquistatori è oscurata dalla loro ignoranza e crudeltà, che fa
10. Romanzo di Alessandro, i 30 (trad. in Vita di Alessandro il Macedone, a cura di C. Franco, Paler-
mo, Sellerio, 2001).
11. Strabone, v 7-8: vd. G. Traina, “Imperium”, romanizzazione, espansione, in Storia d’Europa e del
Mediterraneo, vi. Da Augusto a Diocleziano, a cura di Id., Roma, Salerno Editrice, 2009, pp. 13-40, a p.
24.
12. Su tutta la questione vd. M. Hadas-Lebel, Jérusalem contre Rome, Paris, Editions du Cerf, 1990.
Vd. anche G. Traina, I Romani, maestri di tecnica, in Innovazione tecnica e progresso economico nel mondo
romano. Atti degli Incontri capresi di storia dell’economia antica, Capri, 13-16 aprile 2003, a cura di
E. Lo Cascio, Bari, Edipuglia, 2006, pp. 253-69.
703
un impero di transizione
dell’impero un « Impero del Male » a tutti gli effetti. Insomma, erano ormai
lontani i tempi in cui Giuda Maccabeo cercava l’appoggio dei Romani, visti
ancora come un’entità potente ma distante.
Le rimostranze dei popoli soggetti, d’Oriente come d’Occidente, non sfug-
girono agli storiografi romani. Uno dei testi piú celebri è il culmine del discor-
so alle truppe che Tacito fa pronunciare al capo britanno Càlgaco, alla vigilia di
uno scontro con gli occupanti (l’anno è l’85 d.C.): « ladroni del mondo, dopo
che tutte le terre sono venute meno alla loro devastazione, frugano il mare,
avidi se il nemico è ricco, arroganti se è povero. Non si possono saziare né del-
l’Oriente né dell’Occidente: loro soli desiderano possedere con pari smania la
ricchezza e la miseria dei popoli. Passano sotto il falso nome di impero il ruba-
re, trucidare, rapinare: e quando hanno fatto il deserto, lo chiamano pace ».13
La frase finale è stata spesso rievocata, anche in tempi recenti, dai movimenti
pacifisti e antimperialisti.14 In realtà, questo magistrale pezzo di bravura reto-
rica, che ricalca esempi piú antichi come la lettera di Mitridate in Sallustio (Sto-
rie, iv 69) non costituisce in sé una critica all’imperialismo romano, né tanto-
meno al governatore Agricola che sconfisse e massacrò i Britanni nella batta-
glia in questione (si trattava infatti del suocero dello stesso Tacito), ma piutto-
sto un caveat rispetto ai rischi del malgoverno provinciale.
In ogni caso, gli argomenti attribuiti a Càlgaco non vennero recepiti dalle
aristocrazie locali coinvolte a vario titolo nel processo di romanizzazione. Nel
II d.C., Roma era ormai una realtà onnipresente, e ben poche erano le regioni
del Mediterraneo che non fossero state coinvolte appunto dalla romanizzazio-
ne e dalla crescente urbanizzazione. E il rabbino che si scandalizzava perché i
Romani costruivano luoghi di perdizione come shuk e terme non faceva che
opporsi a una sorta di globalizzazione, che tanti altri vedevano come un mon-
do di progresso e di benessere e, almeno entro certi limiti, di pace. Al di là de-
gli eccessi retorici, è quindi difficile contraddire la visione di progresso propu-
gnata dall’oratore Elio Aristide nel discorso A Roma, pronunciato intorno al
143/4: i Romani avevano trasformato la vita dei sudditi dell’impero, facendo
13. Tacito, Agricola, xxx 4 (trad. in Tacito, Opera Omnia, a cura di R. Oniga, Torino, Einaudi,
2001).
14. Andrebbe pertanto aggiornato lo studio di A. Mehl, « Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant ».
Ein antikes Zitat über römischen, englischen und deutschen Imperialismus, in « Gymnasium », a. lxxxiii
1976, pp. 281-88. Per cenni all’eco contemporanea vd. W. Benario, Tacitus’ View of the Empire and the
Pax Romana, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, a cura di H. Temporini, W. Haase, Ber-
lin-New York, De Gruyter, 1991, vol. ii/33.5 pp. 3332-53, alle pp. 3340-41.
704
conclusione
15. Traduzione, qui e successivamente, in Elio Aristide, A Roma, a cura di F. Fontanella, Pi-
sa, Edizioni della Normale, 2007.
16. Vd. C. Franco, Il mondo greco e il principato, in Storia d’Europa, vi, cit., pp. 309-54.
705
un impero di transizione
17. G. Traina, L’impossibile taglio dell’Istmo (Ps.Luc. Nero 1-5), in « Rivista di Filologia e Istruzione
Classica », a. cxv 1987, pp. 40-49.
18. Vd. R. Preston, Roman Questions, Greek Answers: Plutarch and the Construction of Identity, in
Being Greek under Rome. Cultural Identity, the Second Sophistic and the Development of Empire, a cura di S.
Goldhill, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2001, pp. 86-119.
19. K. Hopkins, Brother-Sister Marriage in Roman Egypt, in « Comparative Studies in Society and
History », a. xxii 1980, pp. 303-54. Vd. G. Traina, “Imperium”, romanizzazione, espansione, cit., pp. 18-
19; V. Marotta, La cittadinanza romana nell’ecumene imperiale, in Storia d’Europa, vi, cit., pp. 541-94, al-
le pp. 584 sgg. Sul contesto vd. C. Salvaterra, L’Egitto romano, ivi, pp. 355-416.
706
conclusione
Scritta piú o meno nello stesso periodo, la Chiave dei sogni di Artemidoro di
Daldi offre una testimonianza meno ufficiale, e proprio per questo piú inte-
ressante, sul rapporto psicologico tra un abitante dell’impero e il potere cen-
trale. Ecco la sua curiosa interpretazione dei sogni relativi in qualche modo al-
l’autorità suprema: « L’imperatore, un tempio, un soldato, una lettera imperia-
le, il denaro e ogni altra cosa del genere si corrispondono a vicenda. Stratonico
sognò di dare una pedata all’imperatore, e uscito di casa trovò una moneta d’o-
ro, calpestandola per caso: infatti non c’era nessuna differenza tra l’imperatore
e la sua immagine, e tra dare una pedata e calpestare » (Artemidoro, iv 31 1-
2).20 Poiché la legge romana non perseguiva i sogni, Stratonico non si era mac-
chiato del reato di maiestas, ma evidentemente a quell’epoca non si respirava
ancora quell’atmosfera di cupa repressione che caratterizzò piú tardi la società
tardoantica.21 Riportando il sogno di un personaggio fittizio, Artemidoro non
faceva che evidenziare il malcontento dei cittadini delle comunità locali ri-
spetto al crescente accentramento del potere imperiale. Un caso analogo si ri-
trova anche nei già citati Oracoli Sibillini, che nell’età del principato non riflet-
tevano piú necessariamente l’espressione di circoli anti-romani, bensí espri-
mevano i sentimenti del comune cittadino e/o suddito dell’impero. In questi
Oracoli, l’imperatore è rappresentato come un uccisore, e non solo di barbari.
Quando non combatte, tende a raccogliere monete, le stesse che recano il suo
20. Trad. in Artemidoro, Il libro dei sogni, a cura di D. Del Corno, Milano, Adelphi, 1975.
21. Ma al tempo del sospettoso Claudio capitò che si venisse messi a morte per un sogno che pa-
reva predire la prossima morte dell’imperatore (Svetonio, Vita di Claudio, xxxvii 2; Tacito, An-
nali, xi 4 1-2): vd. G. Weber, Kaiser, Träume und Visionen in Prinzipat und Spätantike, Stuttgart, Stei-
ner, 2000, pp. 333-36.
707
un impero di transizione
ritratto.22 Non si può qui non pensare alla celebre replica di Gesú ai Farisei
« Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio » (Marco, xii 17),
riferita appunto all’immagine e all’iscrizione di un denarius dell’imperatore re-
gnante Tiberio. In qualche modo, il volto di Roma coincideva con quello del
potere, che in Artemidoro è associato al ritratto dell’imperatore sulle monete
o alla sua firma su una lettera ufficiale. Non a caso, la retorica degli editti im-
periali era accuratamente costruita per dar luogo a un’immagine appropriata.
Le piú importanti lettere ufficiali relative a una comunità locale erano infatti
affisse nei luoghi pubblici (su lastre di bronzo in Occidente, su iscrizioni in
pietra in Oriente), per meglio evidenziare il rapporto fra centro e periferia.
Oltre alle monete e alle lettere, Artemidoro identifica il potere imperiale con
un soldato o un tempio, pensando forse in quest’ultimo caso ai vari « Campi-
dogli » edificati nelle città provinciali che avevano lo statuto di coloniae. Questo
aspetto non va trascurato, e spiega meglio le ragioni che portarono vari impe-
ratori del III secolo a perseguitare i cristiani che si rifiutavano di compiere sa-
crifici agli dèi patrii.23
2. La conversione di Roma
Gli autori cristiani reagirono aspramente a questa forte repressione da parte
dell’autorità imperiale: un caso esemplare si ritrova nel Commento a Daniele, at-
tribuito ad Ippolito di Roma (170-235), che analizza e rielabora la famosa teo-
ria degli imperi sviluppata a partire dall’esegesi dell’opera. Nel capitolo ii, il li-
bro descrive il sogno in cui Nabucodonosor avrebbe visto una statua compo-
sta da quattro parti rispettivamente d’oro, argento, bronzo e ferro, e con le die-
ci dita dei piedi costituite da una mistura di ferro e argilla. La lettura tradizio-
nale identificava l’oro con l’impero babilonese, l’argento con l’impero persia-
no, il ferro (le gambe della statua) con l’impero di Alessandro; le dita dei piedi
sarebbero state invece i regni dei Diadochi (Daniele, ii 33).24 Con una rinnova-
22. D.S. Potter, Prophets and Emperors. Human and Divine Authority from Augustus to Theodosius,
Cambridge (Mass.), Harvard Univ. Press, 1994.
23. Vd. M.-Y. Perrin, in questo volume, alle pp. 000-000.
24. Il tema delle quattro monarchie è riproposto inoltre nella prima visione del profeta (cap. 7);
nell’esegesi tradizionale, le dieci corna della quarta bestia (sempre l’impero di Alessandro) simbo-
leggiano i primi dieci re seleucidi (Ippolito, Commento a Daniele, vii 20). Le ragioni ideologiche
dell’elaborazione del Libro di Daniele sono complicate dalla storia della costituzione del testo, i cui
capitoli si riferiscono a contesti diversi; il cap. 2 sembrerebbe databile al 245 a.C. ca: vd. A. Momi-
708
conclusione
gliano, Daniele e la teoria greca della successione degli imperi (1980), in Id., Settimo contributo alla storia de-
gli studi classici e del mondo antico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1984, pp. 297-304.
25. Mazzarino, La fine del mondo antico, cit., pp. 41 e 168; Id., La democratizzazione della cultura nel
Basso Impero, in Id., Antico, tardoantico ed « èra » costantiniana, 2 voll., Bari, Dedalo, 1974-1976, vol. i pp.
74-98, alle pp. 78-80.
26. Vd. Descrizione del mondo e delle sue genti, a cura di U. Livadiotti, M. Di Branco, Roma, Sa-
lerno Editrice, 2005.
709
un impero di transizione
popolo dalla culla, per cosí dire, sino agli ultimi anni della sua puerizia, periodo di tem-
po che abbraccia circa trecento anni, sostenne guerre attorno alle sue mura; poi, entra-
to nell’adolescenza, dopo i travagli di numerose guerre, passò le Alpi e il mare. Rag-
giunta la giovinezza e l’età virile, riportò allori e trionfi da tutte le regioni che il mondo
abbraccia nella sua immensità; e volgendo ormai alla vecchiaia e vincendo talvolta con
il solo nome, è passato a una vita piú tranquilla (Ammiano, xiv 6 3-4).27
710
conclusione
le » (dove i senatori erano tenuti a portare la toga) con indumenti barbari qua-
li i calzoni (bracae) o gli stivaletti all’orientale (tzangae; Codice Teodosiano, xiv 10
2, vd. anche 10 3). Ma Ammiano non rinnegò per questo l’identità romana, ad-
debitando la responsabilità di questa indignitas alla generazione ormai corrotta
dei senatori. Del resto, se il pagano Ammiano manifestava un simile attacca-
mento alla gloria del passato romano, lo faceva anche per contrapporre l’Urbe
alla nuova capitale di Costantinopoli, che lui considerava implicitamente co-
me una sorta di incidente di percorso della storia, legato all’imbarazzante vit-
toria del cristianesimo.29
Con la sua fedeltà alle glorie del passato, lo storico reagiva ai sempre piú for-
ti attacchi sferrati dai cristiani ai simboli della memoria romana. Il dalmata Gi-
rolamo, che circa due anni dopo Ammiano fu costretto a lasciare Roma (per
altre ragioni), descriveva con toni ben diversi i monumenti della città pagana:
« Il Campidoglio dorato diviene sudicio per l’incuria; la fuliggine e le ragnate-
le hanno ricoperto tutti i templi di Roma. La città si sposta dalle sedi che le so-
no proprie e il popolo romano, riversandosi per i templi semidiroccati, accor-
re alle tombe dei martiri » (Girolamo, Lettere, cvii 1). Questa pur suggestiva
immagine (che già Gibbon aveva addotto come prova di una Roma « sotto-
messa al giogo del Vangelo »),30 è stata smentita dagli studi piú recenti, che
hanno mostrato come la plebs Romana, per farsi plebs Dei, non ebbe bisogno di
spostarsi dalle proprie sedi.31 In realtà, una volta “decodificati”, i testi pagani e
cristiani non sono poi tanto in contraddizione. Di fatto, la cristianizzazione
della città di Roma non può porsi sullo stesso piano di quella avvenuta in altre
città, dato il valore simbolico dei suoi spazi centrali, come i Fori (su cui si con-
centra l’anonima Descrizione), ma anche il Palatino e soprattutto il Campido-
glio, sede del tempio di Giove Ottimo Massimo, che Costanzo II avrebbe rite-
nuto addirittura « piú bello degli altri monumenti, quanto le opere divine del-
le umane » (Ammiano, xvi 10 14). Sempre secondo Ammiano, il santuario ca-
pitolino, « di cui va in eterno superba la venerabile Roma », era superiore allo
stesso tempio di Serapide ad Alessandria (ivi, xxii 16 12), contrastando quindi il
luogo comune (diffuso almeno nella parte orientale dell’impero) che vedeva il
29. Vd. G. Kelly, The New Rome and the Old: Ammianus Marcellinus’ Silences on Constantinople, in
« Classical Quarterly », a. liii 2003, pp. 588-607.
30. E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, 3 voll., Torino, Einaudi, 1967, cap.
xxviii (ed. or. London, Strahan & Cadell, 1776-1778).
31. Stato della questione in A. Fraschetti, La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana, Ro-
ma-Bari, Laterza, 1999.
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un impero di transizione
32. Si veda la pagina di Gibbon riportata da L. Canfora, La biblioteca scomparsa, Palermo, Sellerio,
1986, p. 202.
33. Vd. U. Roberto, L’impero di Teodosio, in questo volume, alle pp. 000-000.
34. Vd. G. Traina, Introduzione, in Id., 428 dopo Cristo. Storia di un anno, Roma-Bari Laterza, 2007,
pp. ix-xvii.
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conclusione
re i tributi nel territorio dell’impero romano. L’impero romano partecipa dell’onore del
regno di Cristo Signore; esso è al di sopra di tutti, per quanto è possibile in questa vita,
e rimane invincibile fino alla fine. « Non sarà distrutto nei secoli », dice Daniele [ . . . ].
Quanto all’impero romano, poiché è sorto con Cristo, non sarà distrutto in questo se-
colo. Sono infatti profondamente convinto che, se i barbari nemici per un po’ si levas-
sero contro la Romània, per punizione dei nostri peccati, tuttavia l’impero rimarrebbe
invincibile per la potenza di Colui che lo sostiene non perché il mondo cristiano si ri-
duca, ma perché si estenda. E infatti questo impero, primo davanti a tutti, credette in
Cristo, e lo stesso impero è sussidiario delle disposizioni di Cristo, perciò il Signore,
Dio dell’universo, lo mantiene invincibile fino alla fine dei secoli.35
3. Epilogo bizantino
La Storia d’Europa e del Mediterraneo mantiene, come il lettore sa, le partizioni
cronologiche familiari, collocando la cesura fra mondo antico e Medioevo al
momento in cui l’impero romano d’Oriente dovette riconoscersi incapace di
ristabilire la sua sovranità sull’Occidente, per poi essere dimezzato dall’inva-
sione araba, con la perdita dell’intero spazio mediorientale e nordafricano. A
partire da allora, tre ambiti politico-culturali, al tempo stesso accomunati dal-
le medesime origini e profondamente estranei per lingua e civiltà, si divisero
l’eredità di Roma: i regni romano-barbarici, l’impero bizantino e l’umma isla-
mica. Tutt’e tre si richiamavano in qualche misura a Roma, ma uno solo pote-
va vantare a tutti gli effetti d’esserne l’erede legittimo: l’impero dei Rho6maíoi,
che oggi vengono chiamati “Bizantini”. Dei tre ambiti, era senza alcun dubbio
il piú ristretto dal punto di vista territoriale, il che spiega la moderna difficoltà
a riconoscerlo come la continuazione di quell’impero romano che s’era esteso
dalla Britannia alla Mesopotamia; ma la sua capitale, sulle rive del Bosforo, era
a tutti gli effetti la “Seconda Roma”.
Ma allora, perché questo mondo risulta cosí lontano ed esotico? Nella cul-
35. Trad. in Cosma Indicopleuste, Topografia cristiana, a cura di A. Garzya, Napoli, D’Auria,
1992, vol. i.
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un impero di transizione
36. D.G. Angelov, Byzantinism: The imaginary and real Heritage of Byzantium in Southeastern Europe,
in New Approaches to Balkan Studies, a cura di D. Keridis, E. Elias-Bursac´, N. Yatromanolakis,
London, Brassey, 2003, pp. 3-23, con ampia bibliografia.
37. Vd. G.A. Cecconi, in questo volume, alle pp. 000-000.
38. Vd. in generale la splendida sintesi di A. Cameron, The Byzantines, Oxford, Blackwell, 2006.
714
conclusione
39. Su Liutprando vd. di recente l’introduzione di P. Squatriti alla sua traduzione di The com-
plete Works of Liutprand of Cremona, Washington, Catholic Univ. of America Press, 2007. Su Theo-
phano vd. H.K. Schulze, Die Heiratsurkunde der Kaiserin Theophanu. Die griechische Kaiserin und das
römisch-deutsche Reich 972-991, Hannover, Hahn, 2007.
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un impero di transizione
tale per rientrare nella nostra memoria storica. L’immagine esotica di Bisanzio
è peraltro ben giustificata dal carattere multietnico di un impero dove la cultu-
ra greca e il diritto romano cementavano l’identità politica di una varietà im-
pressionante di popoli. Non a caso, nei testi bizantini il termine « barbaro »
non designa mai i non-Greci, come nella letteratura greca classica, ma esclusi-
vamente i popoli nemici. Lo straniero pacifico è definito tutt’al piú come allo-
dapós, ‘forestiero’, senza peraltro che questo implichi un’accezione negativa.40
In definitiva, la politica bizantina nei riguardi dello straniero era ben piú tolle-
rante che non in Occidente, in particolare nei contesti diplomatici: risultato
evidente di come l’impero avesse saputo mantenere la concezione universale
ereditata da Roma.41
Gli stessi imperatori della Nuova Roma discendevano spesso da elementi di
origine tutt’altro che greca o romana. Liutprando evoca con disprezzo le origi-
ni cappàdoci di Niceforo II, ma la varietà identitaria dei nuovi Augusti è sor-
prendente fin dalle origini dell’impero: Costantino era originario dei Balcani,
Teodosio II era nipote di un ufficiale franco, molti dei suoi successori erano
Isauri, un popolo bellicoso dell’Anatolia centrale. Piú tardi, nel X secolo, sali-
rono al trono imperatori di famiglia armena; con le loro alleanze matrimonia-
li, la dinastia dei Comneni del XII secolo creò un vero e proprio melting pot; i
loro discendenti del piccolo impero di Trebisonda, ultima propaggine di Bi-
sanzio caduta solo nel 1456, erano addirittura di stirpe circassa. La provenienza
eterogenea si estendeva all’insieme della classe dei notabili, le cui varie com-
ponenti etniche si integravano alle strutture del potere in un sistema definito
opportunamente come « dinamismo verticale ».42 Simili meccanismi si verifi-
cavano malgrado lo sciovinismo delle élites colte che padroneggiavano il greco,
e diedero luogo, in particolare dopo il VII secolo, a un plurilinguismo di fatto
sovrapposto al monolinguismo di diritto. Lo sviluppo dei contatti sociali, mili-
tari e commerciali fra Bisanzio e le culture altre fece poi il resto. Al tempo stes-
so, se si guarda bene al di là della cornice classicheggiante, la letteratura delle
élites restituisce una realtà ben differente rispetto ai modelli classici da cui trae-
va origine: nei testi bizantini, il mondo delle città non è piú anteposto o con-
40. Vd. S. Ronchey, Bisanzio fino alla quarta crociata, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, viii. Popo-
li, poteri, dinamiche, a cura di S. Carocci, Roma, Salerno Editrice, 2006, pp. 215-55, alle pp. 216 sgg.
41. Vd. A. Carile, Teologia politica bizantina, Spoleto, Cisam, 2008, pp. 3-59.
42. Vd. A.P. Kazhdan-S. Ronchey, L’aristocrazia bizantina dal principio dell’XI secolo alla fine del XII
secolo, Palermo, Sellerio, 1995.
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conclusione
43. E. Luttwak, La grande strategia dell’impero bizantino, Milano, Rizzoli, 2009 (ed. or. Cambridge-
London, Belknap Press, 2009).
44. Per un panorama degli studi vd. la bibliografia di Ronchey, Bisanzio, cit., pp. 251-55; vd. ora
anche Il mondo bizantino, i. L’impero romano d’Oriente (330-641), a cura di C. Morrisson, Torino, Ei-
naudi, 2007; Il mondo bizantino, ii. L’impero bizantino (641-1240), a cura di J.-C. Cheynet, ivi, id., 2008
(ed. it. a cura di S. Ronchey; ed. or. Paris, Puf, 2004).
45. R. Beaton, Koraes, Toynbee and the modern Greek Heritage, in « Byzantine and Modern Greek
Studies », a. xv 1991, pp. 1-18.
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un impero di transizione
46. P. Speck, Schlecht geordnete Gedanken zum Philhellenismus, in Der Philhellenismus in der westeuro-
päische Literatur 1780-1830, a cura di A. Noe, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1994, pp. 1-16.
47. J.S. Romanides, Rômaiosynê, Romania, Roumeli, Thessaloniki, Pournara, 1975; Id., Franks, Ro-
mans, Feudalism, and Doctrine. An Interplay between Theology and Society, Brookline (Mass.), Holy Cross
Orthodox Press, 1982. A parte queste posizioni estreme, legate a una prospettiva confessionale, vd.
soprattutto L. Wolff, Inventing Eastern Europe. The Map of Civilization on the Mind of the Enlighten-
ment, Stanford, Stanford Univ. Press, 1994.
48. P. Shashko, What and Where is Byzantium? The Presence and Absence of a Civilization in American
University Textbooks, in Twenty-first Byzantine Studies Conference, New York, November 9-12, 1995, Was-
hington, Dumbarton Oaks, 1995, p. 49.
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conclusione
cide con quella di un’appartenenza alla razza bianca, anzi, caucasica.49 Insom-
ma, secondo Halsall, cercare di estendere a Bisanzio la civiltà occidentale equi-
varrebbe a creare un fossato ancor piú profondo tra l’Europa e le etnie africane
e asiatiche, andando quindi contro le regole del politicamente corretto.
Per quanto ingenuo possa apparire questo genere di dibattito, la questione è
tuttavia importante e resta tuttora aperta. Non a caso, proprio nello stesso pe-
riodo in cui si era accesa la polemica, a Bruxelles una commissione di saggi la-
vorava alacremente nell’inutile tentativo di proporre un programma scolastico
di storia valido per tutti gli stati membri della Comunità europea (e non erano
ancora 27!). Molte obiezioni venivano da parte della Grecia, dove ancor oggi i
manuali scolastici di storia passano agilmente dai fasti della storia classica e di
Alessandro a quelli di Bisanzio, ridimensionando con disinvoltura un impero
romano ridotto a una rapida parentesi. Del resto, dalle nostre parti le cose non
vanno meglio: nelle scuole come all’università, la storia medievale è costituita
in massima parte dal Medioevo occidentale, laddove Bisanzio, esattamente
come il mondo islamico, viene confinata a un breve capitolo che non interfe-
risce col resto della narrazione. Insomma, se il XXI secolo della globalizzazio-
ne si evolve rapidamente, non si può dire lo stesso dei paradigmi storiografici,
che il conservatorismo degli studiosi mantiene ancorati agli scenari ormai tra-
montati del secolo passato. Certo, proporre una rottura di paradigma a freddo
è piú uno slogan che una dichiarazione scientifica d’intenti. I libri di storia del
futuro saranno certamente piú globali di quanto non lo siano ora, ma nell’atte-
sa può essere utile riflettere insieme sul ruolo della globalizzazione bizantina,
e sulla persistenza identitaria delle sue varie componenti, nella formazione
dell’Europa di oggi.
49. I termini del dibattito, e la successiva discussione che ne seguí, si possono leggere sul porta-
le dedicato agli studi bizantini gestito dallo stesso Halsall: http://www.fordham.edu/halsall/
byzantium/texts/byzeur.txt.
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