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LE FONTI DEL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE

Le fonti del diritto processuale civile sono molte ed hanno diverso valore/diversa efficacia: perché, alla
fonte nazionale, si vanno ad aggiungere quella comunitaria o, addirittura, quella europea.

La PIÙ IMPORTANTE fonte del diritto processuale civile è rappresentata dal CODICE, che è stato approvato
nel 1940 e che è vigente dal 1° aprile 1942.
Questo codice è andato a SOSTITUIRE un altro codice, quello del 1865.

Il CODICE di procedura civile del 1865 (c.d. CODICE PISANELLI), redatto subito dopo l’Unità d’Italia,
REGOLAVA IL PROCESSO nel seguente modo:
La TRATTAZIONE era molto formale ed era frutto esclusivo dell’iniziativa delle parti.
Allora, astrattamente, si pensava che il processo, in qualche modo fosse una cosa delle parti e, pertanto,
non era opportuno che il giudice svolgesse un ruolo determinante.
Tanto è vero che in questo tipo di processo formale, era prevista una trattazione prevalentemente
SCRITTA, in cui le parti si scambiavano delle memorie, ma non erano previste né delle preclusioni né dei
termini: cioè le parti potevano scambiarsi queste memorie, senza che ci fosse un coinvolgimento del
giudice.
Il coinvolgimento del giudice era necessario solo quando si fosse presentata la necessità di una decisione,
con una sentenza anche solo interlocutoria (quindi, con una sentenza che non avrebbe deciso la causa).
Accanto a questo rito formale, riservato alle cause più complesse, era prevista la possibilità di utilizzare
anche un RITO SOMMARIO, che invece era più semplificato, più veloce, nel quale il giudice aveva invece
un ruolo più attivo.

à Questo codice fu OGGETTO DI UN APPROCCIO, da parte della dottrina, di tipo ESEGETICO: cioè si
interpretavano le singole norme senza cercare di dare una struttura sistematica alle stesse.

Alla FINE DELL’800, lo studio del diritto processuale civile, diventa studio di un fenomeno giuridico cruciale
che va ad inserirsi nell’ambito del diritto pubblico: il diritto processuale civile è una branchia del DIRITTO
PUBBLICO.

È a CHIOVEDANA che si deve l’organizzazione sistematica della materia che stiamo studiando, che
abbiamo individuato come diritto processuale civile e non più come procedura civile.
Chiovedana ha creato una scuola importantissima di processualisti ai quali ha trasmesso il suo metodo
scientifico.
Chiovedana ed i suoi allievi hanno cominciato a guardare criticamente il codice del 1865, specialmente
hanno criticato lo svolgimento del processo formale che si svolgeva davanti ad un giudice che era molto
poco coinvolto nella controversia, o meglio, era coinvolto solo quando si trattava di deciderla.

Questo approccio critico ha portato Chiovedana ad ELABORARE DEI PRINCIPI FONDAMENTALI, che sono:
- ORALITÀ: la trattazione della causa deve essere affidata ad un dibattito/discussione orale;
- IMMEDIATEZZA:
a) il giudice deve essere vicino alle prove che assume;
b) ed il convincimento del giudice si deve formare sulla base delle prove assunte nello stesso
processo;
- CONCENTRAZIONE: il processo si deve svolgere in più udienze ravvicinate.

à Questi principi fondamentali affidano al GIUDICE UN RUOLO PIÙ ATTIVO.


Da questa impostazione nacque il progetto di NUOVO CODICE di procedura civile che porta la firma di
CHIOVEDANA, del 1919.
A questo progetto se ne contrapposero altri, ovvero quello di:
- Carnelutti del 1926;
- Redenti del 1934;
- Ministro Solmi del 1939.

à Quindi si avevano tantissimi progetti di Codice di procedura civile scritti dai maggiori studiosi del diritto
processuale.

Con tutto questo materiale a disposizione il MINISTRO GRANDI NOMINA UNA PICCOLA COMMISSIONE,
alla quale presero parte Redenti, Carnelutti e Calamandrei: da questa commissione uscì il CODICE DI
PROCEDURA CIVILE ATTUALE (1° aprile 1942).
Questo codice è stato frutto di 50 anni di studio.

- Il 1° LIBRO del Codice di procedura civile disciplina i PRINCIPI GENERALI, in particolare negli artt. da
1 a 162: siamo di fronte a disposizioni generali che trovano applicazione in tutti i tipi di processo.
In particolare vengono disciplinate:
a) le regole organizzative sugli organi giudiziari;
b) i principi che riguardano le parti del processo;
c) i doveri del giudice;
d) gli atti ed i provvedimenti nei quali si estrinseca il potere delle parti, e per i provvedimeni,
quello del giudice.

- Il 2° LIBRO del Codice tratta del PROCESSO DI COGNIZIONE, cioè del giudizio ordinario a cognizione
piena, che è destinato a concludersi con una sentenza, destinata a passare in giudicato (cioè ad
essere definitiva e non più impugnabile).
Questo libro contiene:
a) la disciplina del procedimento davanti al Tribunale;
b) la disciplina del procedimento davanti al giudice di pace;
c) e la disciplina delle impugnazioni.
d) Il 2° libro contiene anche la disciplina del c.d. rito del lavoro (che non studieremo),
introdotto nel 1973 a seguito dell’affermarsi dello Statuto dei lavoratori: si tratta di una
novità che il legislatore ha introdotto per l’esigenza di mettere a punto una struttura
processuale che fosse consona ad una situazione di rapporti sostanziali che vedeva una delle
parti in una situazioni di debolezza (il lavoratore).

Il fulcro del codice del 1942 è rappresentato dal GIUDIZIO/PROCESSO DAVANTI AL TRIBUNALE, che,
nell’impianto previsto nel 1942, era concepito sempre come un ORGANO COLLEGIALE (cioè era un collegio
composto da 3 giudici).
Inoltre, il codice aveva dato il ruolo dell’istruttoria (la fase istruttoria è la fase di un procedimento
processuale in cui si svolgono indagini o acquisiscono prove e informazioni utili ai fini del giudizio) ad un
solo membro del collegio, che prendeva il nome di giudice istruttore: ed era soprattutto la fase davanti al
giudice istruttore, quella in cui si dovevano realizzare i principi dell’oralità, dell’immediatezza e della
concentrazione.

A CAUSA DEL CARICO DI LAVORO DEI MAGISTRATI, che non consentiva i svolgere il lavoro in tempi
ragionevoli, negli anni ’90 si è previsto che il TRIBUNALE svolga la sua funzione in COMPOSIZIONE
MONOCRATICA (cioè con un solo giudice), salvo alcuni casi tassativamente indicati, previsti dall’art. 50-bis.

à Quindi OGGI la REGOLA GENERALE è che IN PRIMO GRADO IL GIUDICE È MONOCRATICO.


La FASE PROCESSUALE che ha comportato PIÙ PROBLEMI è quella della TRATTAZIONE (che si svolge sotto
la discrezione del giudice istruttore), tanto è vero che vi sono stati molti interventi legislativi.
Il problema è quello di stabilire dei momenti al di là dei quali non si possano più compiere attività
processuali: è il c.d. SISTEMA DELLE PRECLUSIONI.
Negli anni sono proprio queste preclusioni che sono state sempre più ritoccate: ritoccate nel senso di
fissare dei momenti otre i quali le parti decadono dal potere di compiere determinate attività.

Il processo ordinario di cognizione, che si conclude con una sentenza destinata ad acquisire l’autorità di
giudicato, è il processo che comporta il più alto grado di formalità, che si giustifica con gli effetti prodotti
dalla sentenza, che sono effetti destinati, con il passato in giudicato, a diventare immutabili: il giudicato è
il massimo risultato che si può ottenere nell’ambito di un processo civile.

A causa dei tempi eccessivamente lunghi di questo processo civile, il legislatore ha introdotto un processo
del tutto alternativo, ovvero il c.d. RITO SOCIETARIO, cioè un processo che si doveva applicare alle cause
in materia societaria.
Se questo processo avesse funzionato, sarebbe stata generalizzata la sua applicabilità.
Non ha funzionato e quindi è stato abrogato.

Nel frattempo, il legislatore si è reso conto che colui che si rivolge al giudice, non è interessato
necessariamente ad avere una sentenza che produca effetti così impregnanti come quelli tipici del
giudicato, ma si accontenterebbe anche di qualcosa di meno, per esempio della semplice formazione di un
titolo esecutivo.
1) Allora il legislatore è intervenuto ed ha dettato un PROCESSO SOMMARIO DI COGNIZIONE (che
non studieremo): quindi si va verso la sommarizzazione dei processi, cioè l’adozione di processi più
elastici, meno formalistici, quindi iter processuali determinati che sfociano in provvedimenti non
necessariamente dotati dell’autorità del giudicato.
2) L’altro movimento di pensiero è quello del ricorso a STRUMENTI ALTERNATIVI DI RISOLUZIONE
DELLA LITE.
Pensiamo che la lesione di un diritto possa trovare soluzione solo facendo ricorso ad un giudice.
Si è cercato di superare questa idea del primato dell’esercizio giurisdizionale a favore del ricorso a
forme alternative di risoluzione della lite.
Questo movimento di pensiero ha fatto si che in sede comunitaria si è condotto tutto un lavoro che
è sfociato in una DIRETTIVA SULLA MEDIAZIONE, applicata anche in Italia nel marzo 2010.
Di fronte ad un conflitto:
a) il primo strumento che abbiamo a disposizione è quello della NEGOZIAZIONE.
b) Se, attraverso la negoziazione, non si riesce a risolvere la lite, il passaggio successivo è
quello di far intervenire un terzo, il quale avrà il compito di aiutare le parti a raggiungere
un accordo tra loro: CONCILIAZIONE (O MEDIAZIONE).
c) Solo nel caso in cui questi strumenti, che vengono definiti strumenti autonomi di
risoluzione della lite, non diano effetto positivo, allora si potrà ricorrere all’ARBITRATO e, in
ultima istanza, al GIUDICE:
o ARBITRATO: è una forma di giustizia privata, nella quale le parti, contestualmente
tra loro, scelgono come giudice un soggetto privato/un terzo.
È una forma di giustizia di tipo aggiudicativo, perché il lodo pronunciato dagli arbitri
ha gli stessi effetti della sentenza;
o GIUDICE: il ricorso al giudice rappresenta l’ultima possibilità, e non la prima, per
tentare di risolvere la controversia.

à Il nostro legislatore interno, nel dare attuazione alla direttiva CEE, ha posto la condizione
di procedibilità: cioè, in una serie di controversie, per poter adire il giudice, bisogna aver
dimostrato di aver tentato la mediazione.

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