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Irene Varrasi – A.A.

2018-2019

DIRITTO PROCESSUALE CIVILE – Prof. Giuliano Scarselli

CAP.1 - INTRODUZIONE

Il Codice di Procedura Civile nasce nel 1865, dopo l’Unità d’Italia (1860), quando viene
spostata la capitale da Torino a Firenze con grandi disappunti e contrasti; nel 1865 vengono
fatte molte nuove legislazioni che dovevano riguardare il nuovo regno, tra cui proprio il
Codice del 1865, promulgato a Firenze. Non è un codice fiorentino, tuttavia, in quanto è
sostanzialmente ripreso dal Codice del Regno Sabaudo, un po’ rimaneggiato dai giuristi del
periodo. Si tratta di un Codice c.d. liberale; non vi erano sensibilità ideologiche di sinistra, per
il sociale. Se si deve tradurre questo concetto nel c.p.c., bisogna dire che vi è sempre una
contrapposizione di bisogni, nel processo civile, tra pubblico e privato. Ci si chiede, infatti, se
il c.p.c. rientri nel diritto privato o nel pubblico: certamente, per quanto sia di procedura
civile, si tratta di diritto pubblico, in quanto le parti non possono derogare alle norme del
c.p.c., e questa è la diversità rispetto al c.c., che può essere derogato in certa misura dalle
parti. Chi ha una visione del processo civile più pubblicistica mette al centro del processo il
giudice e lo Stato; se viceversa ho una mentalità liberale, privatistica, il processo ruoterà più
attorno alle parti. Nel 1865 questo codice era di tipo liberale, quindi al centro del processo
stavano le parti e i loro difensori, non c’erano grandi interventi o forme di sussidio di tipo
sociale, che troviamo solo in periodi storici più avanzati.

Il codice del 1865 ha vita lunga, infatti dura fino al 1940, ovvero quello attuale. Entra in crisi,
appunto, con l’avvento del Fascismo: la visione fascista dello Stato non tollerava l’idea
liberale del codice del 1865, per cui Mussolini fece una serie di riforme in molti ambiti per
mettere al centro di tutto lo Stato (si vedano riforme del c.p., del diritto del lavoro etc.);
meno importante ritiene quella del c.p.c., ma nonostante ciò si iniziò a parlare di una riforma
anche in questo settore, togliendo l’impostazione liberale del codice del 1865 per attribuire
maggiori poteri al giudice. Si arriva al 1940 quando diventa Ministro della Giustizia Dino
Grandi, che riprese grossi processualisti del periodo (tra cui Calamandrei e Carnelutti) e
riformò il c.p.c. Questo codice nasce quindi come codice fascista. Rispetto al 1865, il codice
del 1940 è un codice sicuramente più completo e più dotto, tant’è che lievita anche il
numero degli articoli: quello del 1865 è quantitativamente più piccolo, perché nel frattempo
erano andati avanti gli studi di procedura civile, che fino ad allora venivano fatti solo in modo
comparatistico con la Francia; il giurista Giuseppe Chiovenda, invece, iniziando a studiare il
codice austriaco, inizia una nuova epoca di studi sulla procedura civile. Inoltre, nel rapporto
fra privato e pubblico, questo codice prende una svolta autoritaria.

Quando scoppia la Seconda Guerra Mondiale, questo codice non entra in applicazione; nel
momento della fine della Guerra, arriva la Repubblica con il referendum, viene promulgata la
Carta Costituzionale e si apre una discussione a partire dal 1946 per stabilire se questo codice
dovesse essere il nuovo codice dello Stato Repubblicano o se si dovesse tornare al codice del
1865; alcuni giuristi di mentalità più pubblicista erano dell’idea di mantenerlo, in quanto non
troppo legato al fascismo, altri si opponevano, e tra questi vi era tutta l’avvocatura, a cui

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erano stati tolti sostanzialmente tutti i poteri per via dell’impostazione autoritaria del codice
del 1940. In questo contesto si inserisce la Legge del 1950 che dà luogo ad un compromesso:
si mantiene il codice del 1940, in quanto più completo e scientificamente avanzato, ma lo si
epura da tutto ciò che di più autoritario era stato inserito nella versione originale.

Le tappe importanti dopo il 1950 sono diverse. Gli anni ’70 erano la conseguenza, non solo in
Italia, dei movimenti del ’68, e non solo in ambito giuslavoristico ma anche civilistico,
penalistico etc.: nel 1973 quindi si riforma il processo del lavoro, diverso da quello ordinario,
pensato proprio in ragione dello squilibrio economico tra le parti, che non c’è nel processo
civile tendenzialmente. Questo processo del lavoro viene considerato un modello, anche
questo in senso pubblico, perché lo squilibrio tra le parti si riequilibra dando maggiori poteri
al giudice, ma in una logica totalmente diversa da quella dello Stato fascista: poiché il
lavoratore è più debole, si danno maggiori poteri al giudice per sopperire. Questo modello
viene considerato il migliore nella processualistica di quel periodo, e questo per tutti gli anni
’80, e si comincia a lavorare in quel periodo anche ad una riforma del processo civile che
prenda a modello il processo del lavoro; Andrea Proto-Pisani condivideva proprio questo
processo di riforma. A seguito viene fatta una nuova riforma nel 1990, che ancora oggi è
vigente, che non è puramente estensiva del processo del lavoro anche alle conseguenze
civilistiche, ma prende spunto proprio da lì; questa riforma entra in applicazione solo nel
1996. Nel 1998 vengono soppresse le preture, di origine romanistica, perché inizia un
fenomeno nuovo: quello del sovraccarico degli uffici giudiziari e della durata dei processi.
Quindi la soppressione delle preture avviene per un motivo pratico, quello di risparmiare
tempo sostanzialmente, affidando il giudizio al Tribunale monocratico. Dagli anni 2000 vi è
stata quasi tutti gli anni una riforma del processo civile; l’ultima riforma, quella del 2009,
introduce nel c.p.c. un processo sommario, per ragioni anche qui di risparmio di tempo, per
le cause più semplici, in cui il giudice ha una totale arbitrarietà, quindi non ci sono
praticamente regole processuali e si può giungere più facilmente e celermente al nocciolo
della questione, ma solo le parti potevano decidere se avviare questo processo sommario.
L’idea che hanno avuto molti è quella di rendere il processo sommario non l’eccezione, ma la
regola, anche se per ora questo progetto non è mai stato attuato.

Da un punto di vista tecnico, il c.p.c. è diviso in 4 libri: questa culla sistematica fu scelta nel
1940. Il primo libro è dedicato alle disposizioni del processo in generale, il secondo al
processo di cognizione, il terzo al processo di esecuzione forzata, e il quarto ai c.d. processi
speciali, in chiusura del codice. Il processo civile è uno strumento per attuare il diritto privato
sostanziale in assenza di collaborazione spontanea delle parti (c.d. crisi di cooperazione); per
attuare il diritto sostanziale, il processo civile ha bisogno di due momenti: il processo di
cognizione, che è finalizzato ad accertare chi ha ragione e chi ha torto e si disciplina nel
secondo libro, e il processo di esecuzione forzata, disciplinato nel terzo libro, che serve a
dare attuazione al provvedimento del giudice nel caso in cui il soggetto non adempia alla

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propria obbligazione neanche dopo l’emissione della sentenza. Chiaramente il processo di


esecuzione segue cronologicamente quello di cognizione.

Il nostro codice è ripartito in quattro libri perché l’idea del codice del 1940, idea non solo
italiana, è quella di ricomprendere nel primo libro i principi generali del processo: al di là di
ciò che succede nelle dinamiche del processo civile, ci sono principi generali che si applicano
a qualunque processo civile, che sono se vogliamo nelle regole più teoriche che riguardano
per es. la competenza, le regole degli atti giudiziari etc., con l’idea che appunto queste
norme si applicano a tutti i processi e non solo ad alcuni. Poi il quarto libro è dedicato ai
processi speciali, i quali hanno delle regole di cognizione dei diritti non ordinaria, come nel
secondo libro, ma avendo delle esigenze diversificate sono retti da regole differenti: per es.
se Tizio ha un debito di 10.000.000 con Caio e sta portando questi soldi in Svizzera, Caio si
rivolge al giudice per bloccare con urgenza questo trasferimento (esigenza di urgenza, non di
sapere se si ha ragione o torto), quindi si ha bisogno del processo speciale di sequestro della
somma; oppure per es. una figlia vuole i soldi del mantenimento dal padre, che non glieli
fornisce, per cui ha bisogno per urgenza di un processo speciale per far valere quel tipo di
diritto. Quindi ci sono ragioni di urgenza che fanno sì che certi diritti vengano accertati in via
speciale, e non ordinaria, e poi ci sono nel quarto libro processi speciali non legati
all’urgenza, ma perché per tradizioni storiche sono nati come processi speciali e tutt’oggi lo
sono (per es. decreto ingiuntivo, sfratto etc.). Il quarto libro, si noti, comprende processi
speciali ma tutti di cognizione, in quanto i processi di esecuzione del terzo libro valgono sia
per i processi di cognizione ordinari che per quelli speciali.

CAP.2 – IL PROCESSO ORDINARIO DI COGNIZIONE

FASE DI TRATTAZIONE

ATTO DI CITAZIONE

Il processo ordinario di cognizione si utilizza normalmente per introdurre il processo civile. La


prima disposizione che apre il secondo libro è l’art.163 c.p.c., che è dedicato all’atto
introduttivo del processo di cognizione. Il processo civile, a differenza di quello penale, è
scritto: si fa tutto prevalentemente per iscritto, nonostante vi siano udienze ma nelle quali
non c’è grande spazio per discutere. L’atto che dà impulso al processo civile è l’atto di
citazione; citare significa, dal latino, “chiamare”, infatti è l’atto con cui si chiama la
controparte nel processo, in quanto nessun processo può essere dato senza il rispetto del
principio del contraddittorio (come da Costituzione). Chi promuove il processo prende il
nome di attore, mentre chi viene chiamato in giudizio è il convenuto.

La citazione è divisa in due parti sostanziali: una è l’edictio actionis (esercizio dell’azione) e
l’altra si definisce vocatio in ius (chiamata in giudizio). Con l’atto introduttivo quindi si deve
esercitare l’azione, dicendo cosa si vuole ottenere e perché, e poi chiamare in giudizio il

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convenuto. Il momento dell’edictio actionis è scomposto in due altri momenti: petitum e


causa petendi, rispettivamente ciò che viene domandato al giudice e la ragione giuridica per
cui lo si domanda. La causa petendi poi è scomposta in elementi di fatto ed elementi di
diritto. Per esercitare in concreto la vocatio in ius, si deve ovviamente indicare nell’atto, a
suo completamento, il nome delle parti, l’ufficio giudiziario dove la parte si deve presentare,
il giorno dell’udienza di comparizione. L’indicazione delle parti serve anche per integrare
l’edictio actionis, sin dai tempi del diritto romano, mentre tempo e luogo dell’udienza
servono solo ai fini della vocatio in ius. L’art.163 indica in 7 punti ciò che deve contenere
l’atto di citazione, che nient’altro sono che le concretizzazioni di quanto detto finora.

La vocatio in ius consiste nel chiamare la controparte in udienza; il giorno dell’udienza è


indicato dall’avvocato (art.163 n.7 c.p.c.). I termini per chiamare in giudizio il convenuto sono
fissati in primo luogo dalla legge: i termini minimi a comparire che l’avvocato deve rispettare
sono dati nell’art.163-bis c.p.c., i quali sono divisi tra chi risiede in Italia (90 gg) e chi sta
all’estero (150 gg); da non confondere con la cittadinanza, ciò che conta è dove ci si trova. Se
io per esempio faccio partire una notificazione di una citazione oggi 26.09.2018, devono
trascorrere 90 gg minimi per la citazione. Il processo civile non ci interessa tanto per la sua
fisiologia, quanto per la sua patologia: so che devo dare un termine minimo di 90 gg, ma
cosa succede se ne do di meno? Ad ogni patologia il sistema cerca di dare un rimedio. I 90
gg, che ad alcuni sono sembrati molti per organizzare la difesa, sono a garanzia del diritto
alla difesa (in realtà i giorni sono 70 perché il convenuto deve costituirsi 20 gg prima). Cosa
succede però se, per perdere tempo e bloccare l’iniziativa giudiziaria, l’attore cita il
convenuto per un termine molto maggiore rispetto ai 90 gg? Nei commi successivi del 163-
bis, si dice che il convenuto, costituendosi prima della scadenza del termine, può fare
un’istanza al presidente del tribunale, che può fissare un termine in modo congruo. Ciò serve
appunto ad evitare situazioni dilatorie.

Per far partire il processo concretamente, si mette in notifica l’atto di citazione. La


notificazione è uno strumento tecnico processuale che serve per portare a conoscenza della
controparte un atto processuale; è proprio dalla notifica che decorrono i 90 gg minimi. La
notificazione è ricompresa tra le attività compiute dagli ufficiali giudiziari, ovvero degli
ausiliari di giustizia con compiti minori che si affiancano ai cancellieri. Solo gli ufficiali
giudiziari possono quindi notificare alla controparte l’atto di citazione. L’atto di citazione
deve essere rilasciato in due copie, di cui una va all’attore (la c.d. relata di notifica, che è un
atto pubblico che dà prova della consegna dell’atto al convenuto) e una al convenuto. Se
l’ufficiale giudiziario non trova il convenuto o l’indirizzo è irreperibile, sopperiscono le regole
di cui alle disposizioni seguenti al 136. La disciplina della notificazione si rinviene agli artt.136
ss. c.p.c.: sono disposizioni del primo libro in quanto sono regole generali che valgono per
tutti i processi. La notificazione è un’operazione tecnica; queste norme risentono del periodo
storico in cui sono state scritte, ovvero nel 1940, quando i mezzi tecnici erano ben diversi da
oggi; oggi il mezzo più utilizzato è la PEC (posta elettronica certificata), che è il mezzo
attraverso il quale si fanno tutte le notificazioni. La PEC dà dei vantaggi perché le notificazioni

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si possono fare a distanza, in qualunque momento. Oggi quindi una buona parte di queste
norme è sostanzialmente desueta.

Dopo la notifica dell’atto e la ripresa dell’originale da parte dell’attore, questi ha la prova del
fatto che la controparte ha preso conoscenza della chiamata in giudizio. Il passaggio
successivo consiste nel rendere edotto di ciò anche l’ufficio giudiziale, effettuando
l’iscrizione al ruolo della causa (artt.165, 168 e 168-bis c.p.c.). L’attore deve costituirsi,
ovvero presentarsi al tribunale per dire che ha intentato una causa e richiede un’udienza:
l’iscrizione della causa al ruolo avviene andando alla cancelleria generale del tribunale
portando il fascicolo di parte, contenente l’originale della citazione, la procura e i documenti
offerti in comunicazione. I fascicoli di parte verranno poi inseriti nel fascicolo d’ufficio.
Inoltre si inserisce la nota di iscrizione al ruolo, in cui si chiede che il tribunale prenda ad
ufficio la propria causa, e a cui segue la dazione di un numero di ruolo generale, progressivo
e in relazione all’anno. Bisogna ovviamente pagare un’imposta, che si chiama contributo
unificato, affinché il cancelliere prenda al ruolo la causa. Una volta iscritta al ruolo la causa,
ai sensi del 168 il cancelliere, senza ritardo, porta il fascicolo al presidente del tribunale, il
quale assegna la causa ad un giudice scelto con criterio oggettivo, senza potere discrezionale
(secondo il principio del giudice naturale precostituito per legge ex art.25 Cost.), ma appunto
sulla base di criteri chiamati tabelle giudiziari, redatte dal presidente del tribunale e
approvate dal CSM, che servono a nominare il giudice per una causa. Il fascicolo a questo
punto arriva al giudice; oggi anche se le parti fissano una data, il giudice può cambiarla in
forza dei commi 4-5 del 168-bis. Muovendo dal presupposto che i magistrati non tengano
udienza tutti i giorni, è possibile che il magistrato assegnatario di quella controversia non
tenga udienza il giorno fissato dalle parti; allora il magistrato farà un provvedimento dove
dice che il giorno fissato dalle parti non terrà udienza, quindi la causa viene rinviata al primo
giorno utile in cui il magistrato terrà udienza (4° comma). Nell’idea pubblicistica del fascismo,
cioè nel codice del 1940, c’era la contrapposizione tra chi istruiva la causa e chi la decideva:
chi la istruiva prendeva il nome di giudice istruttore, mentre chi la decideva era un collegio
giudiziale; il giudice istruttore faceva anche da filtro tra il cittadino e l’autorità giudiziale. La
dicitura di giudice istruttore si ritrova anche oggi nel c.p.c. anche se oggi non ha senso
perché questa figura è venuta meno nel tempo per modifiche del c.p.c., soprattutto quando
nel 1998 sono state soppresse le preture e quando fu stabilito che il giudice della causa è
monocratico, istruisce e decide. Vi è anche una seconda possibilità, ovvero quella che il
magistrato, a prescindere dal fatto che il giorno fissato abbia udienza, abbia un carico di
lavoro tale da ritenere di non poter prendere subito in carico questa nuova causa; allora la
rinvia alla data possibile, secondo la sua agenda, ai sensi del quinto comma del 168-bis. Il
giudice deve provvedere entro 5 giorni e non può differire di oltre 45 giorni; in realtà però il
processualista Enrico Redenti diceva che i termini per i giudici sono canzonatori, nel senso
che possono anche non rispettarli, e ciò è anche vero, perché bisogna calare questo discorso
nella pratica: questa disposizione infatti è interpretata in senso libero, per cui i termini sono
spesso derogati dal giudice, che ridetermina il giorno dell’udienza in modo pressoché libero.

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Il convenuto deve costituirsi 20 gg prima; ma da quando? Es. io ho citato Tizio per l’8 di
gennaio ma il giudice l’ha rifissata al 9 settembre. Da quando si calcolano i 20 gg? È una
domanda a cui neanche il codice dà risposta. In concreto dipende se il rinvio è dal quarto o
dal quinto comma del 168-bis, di modo che se il rinvio è dal quarto comma i 20 gg decorrono
dal giorno dell’udienza indicata in citazione, mentre se è dal 5° comma i 20 gg si calcolano
dal giorno dell’udienza effettiva.

Si è fatto quindi il percorso che porta dalla citazione all’udienza del giudice; la prima udienza
è disciplinata dall’art.183, che descrive le caratteristiche che essa deve avere.

Torniamo all’art.163 c.p.c., che disciplina l’atto di citazione, per aggiungere una cosa: ci si
potrebbe chiedere per quale motivo l’avvocato indichi il giorno dell’udienza, se poi esso può
essere fissato in concreto dal giudice. Bisogna quindi capire il motivo per cui bisogna
continuare ad immaginare che l’atto introduttivo del processo sia una citazione anche se
essa ha perso importanza in concreto. Molti processi, nei periodi più recenti, prevedono che
l’atto introduttivo sia non una citazione, ma un ricorso, che è l’altro atto con cui si può
introdurre una controversia, e in particolare questa è la scelta fatta nel 1973 per introdurre il
processo del lavoro. A questo proposito, gli artt.409 ss. descrivono il processo del lavoro:
l’art.414 dice che la domanda si propone con ricorso, che deve contenere sostanzialmente le
stesse cose che sono inserite nella citazione, ma ciò che fa la differenza è che nel ricorso
manca la vocatio in ius. Mentre la citazione è fatta di edictio actionis e la vocatio in ius, il
ricorso ha solo l’edictio actionis. Il meccanismo del ricorso ha percorso inverso rispetto alla
citazione: prima si porta all’ufficio e poi alla controparte. Il giudice fissa la prima udienza con
un provvedimento che ha la forma di un decreto; l’avvocato dell’attore poi porterà il decreto
e il ricorso all’ufficiale giudiziario. Da anni si dice che non ha più senso che ci siano processi
che si introducono con ricorso e altri con citazione, perché ciò può essere anche foriero di
errori per gli avvocati; per semplificazione si dice che si dovrebbe fare una riforma generale
per cui tutti i processi si introducono con ricorso, che è uno strumento se vogliamo più
moderno rispetto alla citazione. Gli avvocati sono tendenzialmente contrari a questo
progetto di riforma, perché è un residuo storico liberale che attribuisce maggiori poteri alle
parti. Tuttavia, non essendo entrata in vigore questa riforma, oggi è ancora la citazione il
modello di introduzione del processo e quindi la regola generale.

AZIONI: DI MERO ACCERTAMENTO, DI CONDANNA E COSTITUTIVE

Quali tipi di azioni si possono far valere in giudizio (cioè cosa può essere compreso nel
petitum)? Le azioni sono di tre tipi: l’azione di mero accertamento, le azioni di condanna e le
azioni costitutive. Poiché esiste il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato,
parlare di azione o di sentenza è la stessa cosa, quindi è analogo ad es. dire azione costitutiva
o di sentenza costitutiva. Le disposizioni di riferimento sono gli artt. 99, 112 e 115 c.p.c., di
stampo liberale, che sono tre principi generali che riguardano il principio della domanda

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(art.99), cioè il giudice può pronunciarsi solo se c’è una domanda; il principio di
corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art.112), che rafforza il principio della domanda, e
che significa che il giudice non può andare oltre i limiti della domanda medesima; infine il
principio dispositivo (art.115), che stabilisce con quali mezzi di prova il giudice deve
pronunciarsi.

 L’azione di accertamento mira a chiedere al giudice di accertare o dichiarare se esiste


o meno un diritto. Ovviamente si chiede accertamento quando un diritto è
controverso. L’accertamento principe riguarda l’accertamento dei diritti reali.
 L’azione di condanna è finalizzata a chiedere la condanna della controparte a tenere
un comportamento consequenziale all’accertamento. Dunque la condanna è un
ordine comportamentale; questi ordini sono tendenzialmente di pagare una somma
di denaro, di rilasciare un bene immobile (per es. nello sfratto), di consegnare un
bene mobile, di fare o non fare qualcosa.
 L’azione costitutiva è un’azione con la quale si chiede al giudice la costituzione,
modificazione o estinzione di una relazione giuridica. La sentenza è costitutiva
quando il giudice, su domanda di parte, con la sentenza costituisce, modifica o
estingue un rapporto giuridico. È una fase intermedia e diversa tra l’accertamento e
la condanna: non si può costituire senza accertare, ma dall’altra parte non si
condanna a fare nulla; il giudice però modifica la relazione fra le parti. La sentenza
costitutiva per eccellenza è quella del 2932 c.c., che è l’obbligo di fare un contratto
nel caso in cui vi sia un preliminare: la sentenza si pone quasi come un surrogato del
contratto. Diceva Chiovenda che il processo deve dare a chi ha un diritto
praticamente tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire, ed è
importante ciò perché se il processo civile non fosse in grado di adempiere a questo
compito, noi non avremmo nemmeno i diritti soggettivi. Tutte le sentenze che girano
attorno ai contratti sono sentenze costitutive (annullamento per vizio della volontà,
rescissione, risoluzione etc.). Altra sentenza costitutiva per eccellenza è quella di
divorzio.

L’azione di accertamento mira ad accertare la sussistenza o meno di un diritto soggettivo


controverso. Un esempio può essere l’azione di nullità del contratto. Il problema è di capire
fino a che punto si può chiedere solo il mero accertamento di un diritto soggettivo; per
rispondere a questa domanda dobbiamo vedere le azioni di accertamento tipiche presenti
nel sistema. Nel nostro sistema attuale esiste un principio di atipicità delle azioni: basta che
io affermi che ho un diritto sostanziale perché io abbia automaticamente un’azione per farlo
valere, anche ai sensi della Cost. all’art.24. Questo contrasta però con il diritto romano, che
prevedeva le azioni tipiche: si può far valere un diritto in giudizio solo se vi sia una rispettiva
azione. Per tradizioni storiche noi abbiamo tutt’oggi nel c.c. delle azioni tipiche, che oggi
però non hanno molto senso, perché in base all’art.24 Cost. e in base al principio di atipicità
dell’azione non si ha bisogno della norma che disciplina l’azione tipica per presentarsi di
fronte al giudice. Quindi queste azioni sono meri residui storici, e ciò vale in particolare per

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le azioni di accertamento, disciplinate agli artt.948-949-1079 c.c.: essi riguardano


rispettivamente l’azione di rivendicazione della proprietà, residuo tradizionale del diritto
romano; l’azione negatoria, che mira a far dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri
sulla cosa; l’azione di accertamento della servitù e i provvedimenti di tutela. Sono tre azioni
di mero accertamento che riguardano i diritti reali, ma vi possono essere tanti altri
accertamenti di diritti reali non compresi in queste azioni; allora il cittadino ha la possibilità
di esperire un’azione di accertamento solo su questi, o anche su altri diritti reali? Senz’altro
anche su altri, nel senso che è possibile presentare al giudice un’azione di accertamento di
altri diritti reali sulla base del solo dettame costituzionale dell’art.24.

Questa posizione è rafforzata dalla lettura di un’altra disposizione del c.c., l’art.2653 n.1:
siamo in materia di trascrizione delle domande giudiziali. Tutti gli atti soggetti a trascrizione,
se controversi e quindi oggetto di una causa, sono parimenti soggetti a trascrizione della
domanda giudiziale: l’avvocato può trascrivere l’atto di citazione, poi se arriva la sentenza si
trascrive la sentenza. Da questa disposizione si deduce che posso non solo trascrivere le
azioni di proprietà, ma anche di tutti gli altri diritti reali; se ne deve dedurre che senz’altro
posso chiedere l’accertamento di ogni diritto reale, altrimenti la disposizione non avrebbe
senso. Le azioni di accertamento, quindi, sono sempre esperibili dinanzi all’autorità
giudiziaria se hanno ad oggetto l’accertamento di un diritto reale: alcune sono previste dal
codice e altre no, ma sono ugualmente esperibili in forza del principio di atipicità dell’azione
e, ad abundantiam, dall’esegesi dell’art.2653 c.c. Un’altra disposizione che conferma questa
tesi è l’art.34 c.p.c.: se una parte fa valere un accertamento, tutta la causa deve andare ad
un altro giudice. Nella misura in cui in via generale c’è una competenza sugli accertamenti
giudiziali, implicitamente si dice che questi accertamenti si possono fare valere in giudizio.
Insieme ai diritti reali possiamo mettere anche i diritti assoluti (per es. quelli della
personalità: posso fare valere che il nome Irene Varrasi è il mio); il problema è relativo ai c.d.
diritti di credito: posso chiedere solo l’accertamento di questo diritto, e non anche la
condanna? Ciò non si ricava da nessuna norma, per cui si deve ritenere, in forza del principio
dell’atipicità delle azioni, io posso chiedere anche solo il mero accertamento di un diritto di
credito, a condizione che dimostri di avere un interesse. L’interesse ad agire è condizione
essenziale per rivolgersi al giudice, ai sensi dell’art.100 c.p.c., in qualunque tipo di azione;
questa disposizione non ha grande applicazione pratica al di fuori di queste ipotesi di
accertamento dei crediti, perché se faccio valere un diritto è ovvio che ne ho interesse, ma
nel caso del diritto di credito devo fornire la prova di questo interesse, altrimenti la domanda
sarà ritenuta inammissibile.

In conclusione l’accertamento è sempre possibile se nel processo vengono fatti valere diritti
reali o assoluti della persona; è viceversa ammissibile anche per i diritti di credito a
condizione che si dia dimostrazione dell’interesse concreto all’accertamento, nel rispetto del
principio dell’interesse ad agire ex art.100 c.p.c.

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La tutela di condanna accerta il diritto, ma affianca all’accertamento l’ordine di tenere un


comportamento; ordine che può avere ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, la
consegna di un bene mobile, il rilascio di un bene immobile, un obbligo di fare o di non fare.
Noi possiamo individuare tre elementi in più dell’azione di condanna rispetto a quella di mero
accertamento dati da tre disposizioni:

1. Art.474 c.p.c.: disciplina i titoli esecutivi. Si è già detto che l’esecuzione forzata è la
possibilità di una parte di aggredire in via di esecuzione un’altra parte; per farlo, il
creditore deve avere un titolo esecutivo. Per es. per riscuotere una somma di denaro,
il creditore può pignorare i beni del debitore. I titoli esecutivi sono tassativamente
indicati dal legislatore in questa disposizione. L’azione di condanna vale come titolo
esecutivo, cioè consente l’esecuzione forzata del creditore nei confronti del debitore,
forza che invece non ha la sentenza dichiarativa.
2. Art.2818 c.c.: questa disposizione riguarda l’ipoteca giudiziale. Se la sentenza è di
condanna, questa non vale solo come titolo esecutivo, ma consente al creditore
anche di iscrivere ipoteca contro il debitore. Questa è una differenza rispetto alla
sentenza di accertamento perché, solo con quest’ultima, non si ha titolo per iscrivere
ipoteca.
3. Art.2953 c.c.: disciplina gli effetti del giudicato sulle prescrizioni brevi. Se fatto valere
un diritto a prescrizione breve (inferiore a 10 anni; per es. pagamento canone di
locazione o diritto al risarcimento del danno da fatto illecito), se la parte viene
condannata al risarcimento del danno la prescrizione si converte in prescrizione
decennale. Il processo sospende e interrompe i termini di prescrizione. Per es. io
faccio valere contro Tizio un illecito extracontrattuale (prescrizione quinquennale) a 3
anni dal fatto; nel momento in cui notifico la citazione il processo sospende i termini
di prescrizione. Quando la prescrizione dovrà riprendersi alla fine del processo, se è
intervenuta sentenza di condanna, la prescrizione si converte da quinquennale a
decennale. Ciò non vale invece per le sentenze di mero accertamento.

La sentenza di condanna rispetto a quella di mero accertamento, in sintesi, ha l’idoneità ad


essere titolo esecutivo, a valere come titolo per l’iscrizione ipotecaria e a convertire in
prescrizione decennale quei diritti che, ab origine, avevano prescrizione breve.

Il compito del giudice è accertare se sussiste o meno l’an e poi verificare la quantificazione.
Nelle dinamiche processuali, accertare il quantum può essere più complesso rispetto ad
accertare l’an, e comunque da un punto di vista logico viene dopo. Pertanto può succedere
che l’accertamento dell’an sia chiaro e il processo deve proseguire solo per l’accertamento
del quantum; se si arriva a questa situazione il giudice, su istanza di parte, può dare
condanna generica, ovvero quella condanna con la quale il giudice genericamente
attribuisce ad un soggetto l’esistenza di un rapporto di debito-credito, e il processo prosegue
per la sua quantificazione. Tutto ciò è disciplinato dall’art.278 c.p.c. La consequenziale
domanda è quale sia la differenza tra la sentenza di mero accertamento, in cui si accerta

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

l’esistenza di un credito, e la condanna generica: la differenza è che in ogni caso, da un punto


di vista formale, la condanna generica continua ad essere una sentenza di condanna, e non di
mero accertamento; quindi, rispetto alla condanna tout-court, siamo a cavallo con
l’accertamento, ma questa sentenza – essendo di condanna – varrà come titolo per
l’iscrizione ipotecaria e converte la prescrizione in decennale se la prescrizione del diritto
fatto valere in giudizio è più breve; ma, a differenza delle altre sentenze di condanna, non
essendoci una somma quantificata di riferimento, non vale come titolo esecutivo. Questo
provvedimento, peraltro, non chiude il processo dinanzi al giudice, ed è strano essendo una
sentenza e non invece un’ordinanza. Nonostante il tenore letterario di questa disposizione,
in realtà, la condanna generica può essere anche la domanda principale, e non per forza
quella interinale: normalmente, seguendo la logica del 278, funziona che la condanna
generica è un provvedimento interinale di un processo in cui ho chiesto la condanna con la
quantificazione, però può avvenire anche che la domanda principale sia relativa alla
condanna generica a pagare una somma di denaro, con riserva di quantificare la somma di
denaro in una causa separata se non si trova accordo sul quantum tra le parti. È un
fenomeno di scarsissima applicazione pratica.

La condanna provvisionale, disciplinata dal 278 comma 2, si tratta sempre di un


provvedimento interinale che però dà un appunto sul dovuto: nel processo non emerge solo
l’an, ma anche una parte del quantum, cioè il debitore deve dare sicuramente almeno un tot
al creditore, per cui la condanna è relativa al solo pagamento di quell’importo, che però non
è quello definitivo. Essendo provvisionale, siamo dinanzi ad una condanna sotto tutti i profili,
per cui sarà titolo esecutivo, titolo per l’iscrizione giudiziale e potrà convertire la prescrizione
breve in decennale.

Infine la condanna in futuro: posto che il processo segue l’inadempimento, nel caso in cui
ancora il debitore non fosse ancora inadempiente non si può chiedere una condanna in
futuro, perché essa non avrebbe senso logico dato che la condanna presuppone l’illecito.
L’esempio concreto potrebbe essere quello di due parti che stipulano un contratto
sottoposto a termine o condizione; il creditore non può andare dal giudice a chiedere la
condanna perché non vi è ancora un inadempimento. Ciò che può fare il creditore è chiedere
una condanna anticipata nel caso in cui in futuro vi sia inadempimento; se esso non si
verifica, la condanna non verrà chiaramente eseguita. In linea generale, quindi, la condanna
in futuro non può essere ammessa perché viene in contrasto col principio per cui, se non c’è
inadempimento, non vi può essere condanna; tuttavia ci sono ipotesi tipiche di condanna in
futuro, disciplinate dagli artt.657 e 664 c.p.c. e art.148 c.c.: queste disposizioni, in via
d’eccezione, prevedono la condanna in futuro. Trattandosi di ipotesi tipiche e speciali, esse
non possono essere applicate per analogia ma queste norme possono essere applicate solo
per queste ipotesi.

Le ipotesi tipiche di condanna in futuro sono:

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

 Art.657 c.p.c.: riguarda la convalida di sfratto. Il proprietario dell’immobile, al


termine del contratto di locazione, può chiedere la liberazione dell’immobile e, se il
conduttore non se ne va, può usufruire della procedura di convalida di sfratto. Qui c’è
la condanna in futuro perché, per agevolare il proprietario immobiliare, si era
previsto di consentire lo sfratto anche prima della scadenza della locazione. Ciò è
possibile in realtà anche oggi: per es. il contratto di locazione scade nel 2022; si
chiede al Tribunale la procedura di sfratto per il momento del termine. è una
condanna in futuro nel senso che è anticipata.
 Art.664 c.p.c.: regola il pagamento dei canoni sempre in tema di sfratto. Se il
conduttore smette di pagare il canone, il proprietario può richiedere lo sfratto: in
questo caso viene chiesto per morosità, che sarà nella data in cui il proprietario si è
rivolto al Tribunale. La condanna in futuro qui si ha perché il proprietario può
richiedere che il conduttore paghi tutti i futuri canoni, finché l’immobile non viene
restituito.
 Art.148 c.c.: riguarda il diritto di famiglia e in particolare il mantenimento dei figli. Se
uno dei genitori si rende inadempiente rispetto alla sua obbligazione al
mantenimento, l’altro genitore può chiedere la condanna anche per i mesi futuri, con
la stessa logica della norma precedente: non avendo pagato alcuni mesi, si presume
che non pagherà neanche i mesi futuri.

Infine parliamo delle sentenze costitutive. Una sentenza è costitutiva quando costituisce,
modifica o estingue un rapporto giuridico tra le parti; è ciò che fa un contratto, in realtà,
perché il giudice non potrebbe agire in questa maniera, ma questo tipo di sentenze sono
state introdotte dal ’40 e oggi sono la regola. Una sentenza costitutiva tipica è quella di
divorzio o quella di interdizione o, nell’ambito contrattuale, quella di risoluzione o
rescissione. L’art.2908 c.c., inserita per la prima volta nel c.c. del ’40, regola gli effetti
costitutivi delle sentenze e prevede che esse possano essere emesse solo nei casi previsti
dalla legge: questo è un punto sul quale va riflettuto, perché in generale noi abbiamo un
sistema di atipicità dell’azione, ma questo ha delle eccezioni. La sentenza costitutiva infatti,
andando un po’ oltre il potere giurisdizionale strettamente inteso, è prevista solo per casi
tipici. L’azione costitutiva vincola le parti, i loro eredi e gli aventi causa, e questa stessa
espressione la troviamo nel 2909 che riguarda gli effetti del giudicato.

Sulle sentenze costitutive vi sono delle classificazioni; la prima è tra sentenze costitutive
necessarie e non necessarie. È necessaria quando, per ottenere l’effetto giuridico di
costituzione, modificazione o estinzione, devo necessariamente rivolgermi al giudice; in altri
casi non è necessaria perché potrei ottenere quell’effetto anche senza il giudice. Per es. la
sentenza di divorzio è costitutiva necessaria, mentre l’annullamento del contratto non
prevede per forza un’azione costitutiva, perché le parti, se si trovano d’accordo, possono
sciogliere consensualmente il vincolo contrattuale. È interessante questa distinzione perché

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queste azioni si atteggiano in modo diverso a seconda che esse siano necessarie o non; nel
senso che, se non sono necessarie, l’azione si atteggia come un’azione di accertamento
perché presuppone la lite, perché se la lite non ci fosse le parti avrebbero potuto, nell’es.,
sciogliere il contratto anche senza l’intervento del giudice. Nell’azione costitutiva necessaria
vado invece dal giudice anche senza controversia.

Un’altra classificazione è quella delle sentenze costitutive determinative: in queste non solo
il giudice può costituire, estinguere o modificare una relazione giuridica, ma può anche
determinarla, dando lui le regole. Questo è un passo ulteriore perché abbiamo detto che già
costituire un rapporto giuridico non rientrerebbe nelle prerogative del giudice, ma
addirittura attribuirgli la possibilità di dettare lui le regole è un’eccezione nell’eccezione. Es.
l’art.844 c.c. che riguarda le immissioni che superano la normale tollerabilità; oppure
l’art.1051 c.c., che riguarda il passaggio sulla servitù coattiva per i fondi interclusi; o ancora
l’art.1374 c.c. sull’integrazione del contratto. Prendiamo l’azione per le immissioni: accanto a
casa mia c’è un’industria i cui fumi eccedono la normale tollerabilità e io mi rivolgo al giudice
perché questo comportamento sia inibito, ordinando una condanna di non fare, ma il giudice
può ordinare anche le modalità con le quali dare attuazione e rispetto all’844.

COMPARSA DI RISPOSTA

Riprendendo il discorso sull’iter processuale, andiamo all’art.167 c.p.c. sulla comparsa di


risposta, cioè l’atto di difesa del convenuto, preceduta dall’art.166 che riguarda la
costituzione del convenuto. Così come l’attore introduce il processo civile con l’atto di
citazione, il convenuto si difende con la comparsa di risposta, che è sempre un atto scritto. Il
convenuto si deve costituire 20 gg prima della prima udienza, dopodiché deve scrivere un
atto per opporsi alle richieste dell’attore, con diversi strumenti difensivi, che possono anche
essere cumulati all’interno della medesima comparsa di risposta:

1. La mera difesa: si intende una difesa con la quale il convenuto non amplia la materia
del contendere, cioè si difende solo sulla base di ciò che è stato esposto dall’attore
nell’atto di citazione. Ovviamente è un tipo di difesa infrequente. Qui però il
convenuto contesta il fatto o il diritto, ma senza aggiungere elementi in più. Per es. se
l’attore dice che ha stipulato con me un contratto, io mi difendo limitandomi a
negare di aver sottoscritto quel contratto; oppure, anche dati quei fatti, sostengo che
erra l’attore a trarre delle conseguenze giuridiche, perché si applicano altre norme
giuridiche (difficile che ciò avvenga in Tribunale; più spesso avviene in Cassazione).
2. Le eccezioni: è uno strumento difensivo con cui il convenuto adduce l’allegazione di
un fatto estintivo, impeditivo o modificativo del diritto fatto valere in giudizio
dall’attore. L’eccezione, a differenza della mera difesa, consente al convenuto di
portare alla conoscenza del giudice un fatto, nuovo rispetto a quelli addotti
dall’attore, a patto che questo fatto sia in grado di estinguere, modificare o impedire
il diritto fatto valere dall’attore. Per es. il fatto estintivo nel diritto delle obbligazioni:
io chiedo 10.000 euro al convenuto, che si costituisce dicendo di avere già

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adempiuto. Per quanto riguarda la modificazione, potrebbe essere nel diritto dei
contratti la novazione o la transazione: per es. è vero che il convenuto doveva 10.000
euro, ma poi s’è fatto un nuovo contratto che prevedeva altre cose quindi quei
10.000 euro non li deve più. Per quanto concerne l’impedimento, un’eccezione può
essere il vizio della merce: io vendo a Tizio una merce e pretendo il pagamento; Tizio
eccepisce che la merce era viziata. Sono tutti fatti nuovi che il convenuto porta alla
conoscenza del giudice e che possono cambiare le carte in tavola rispetto a ciò che
era stato addotto dall’attore. Le eccezioni si dividono poi in:
 Processuali o di merito. Sono processuali le eccezioni che attengono alle
norme processuali (per es. eccepisco la competenza del giudice), mentre
quelle di merito attengono al merito (per es. gli esempi di cui sopra).
 Ad istanza di parte o rilevabili d’ufficio. Normalmente le eccezioni
processuali sono rilevabili d’ufficio perché le norme processuali sono di diritto
pubblico, quindi se c’è un vizio processuale è rilevabile dal giudice a
prescindere dall’eccezione che solleva la parte. Se l’eccezione è di merito,
ovvero attiene al diritto sostanziale fatto valere in giudizio, esse possono
essere rilevabili d’ufficio, ovvero a prescindere dal fatto che la parte le abbia
sollevate, o ad istanza di parte, ovvero che il giudice può rilevare solo se la
parte le ha fatte valere. Per l’avvocato, se l’eccezione è a istanza di parte,
questa può essere sollevata –a pena di decadenza – nella comparsa di
risposta; dopo il termine di 20 gg prima dell’udienza, nessuna eccezione ad
istanza di parte può essere fatta valere; se l’eccezione è rilevabile d’ufficio
non ci sono termini di decadenza, perché il giudice può rilevarla d’ufficio in
qualunque momento. Questa distinzione è anche importante dal punto di
vista del giudice.
Come si distinguono eccezioni ad istanza di parte e rilevabili d’ufficio? Bisogna
vedere la regola generale dell’art.112 c.p.c., che riguarda la corrispondenza
tra chiesto e pronunciato: si dice infatti che il giudice “non può pronunciare
d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti”. Quindi
non c’è esattamente la stessa corrispondenza tra chiesto e pronunciato che
c’è nei confronti della domanda dell’attore, perché il giudice non può rilevare
d’ufficio solo le eccezioni ad istanza di parte, ma se la legge niente dice su una
data eccezione, allora il giudice può rilevarla d’ufficio. L’art.112, così dicendo,
fissa che la regola è la rilevabilità ufficiosa delle eccezioni; ove niente la legge
sostanziale dica, le eccezioni sono rilevabili d’ufficio. Bisogna quindi capire
quali sono le eccezioni che la legge classifica come ad istanza di parte, e
questo non c’è detto da nessuna norma, ma bisogna andare a vedere norma
per norma. Queste eccezioni sono:
 La prescrizione (art.2938 c.c.): “Il giudice non può rilevare d’ufficio la
prescrizione non opposta”. È una norma semplicissima perché
chiarisce già subito la irrilevabilità d’ufficio della prescrizione.

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

 La decadenza (art.2969 c.c.): “La decadenza non può essere rilevata


d’ufficio dal giudice, salvo che, trattandosi di materia sottratta alla
disponibilità delle parti, il giudice debba rilevare le cause
dell’improponibilità dell’azione”. A differenza della prescrizione, nella
decadenza ci sono dei casi marginali in cui il giudice può rilevare
d’ufficio la decadenza.
 La compensazione (art.1242 c.c.): la compensazione non può essere
che rilevata su istanza di parte.
 L’annullamento del contratto (art.1442 c.c.): la disposizione qui non è
così chiara come quelle lette finora, ma la giurisprudenza considera da
sempre che anche in questo caso la rilevabilità sia solo ad istanza di
parte perché la disposizione fa riferimento alla prescrizione dell’azione
di annullamento, per cui se ne ricava che non è rilevabile d’ufficio dal
giudice.
 Art.1495 comma 3 c.c.: siamo nella disciplina del contratto di vendita;
un’eccezione sollevabile è quella della garanzia nella vendita. Anche
qui, facendo riferimento alla prescrizione, si ritiene che l’eccezione sia
rilevabile solo ad istanza di parte.
 Art.1667 comma 3: contratto d’appalto; c’è sempre il riferimento alla
prescrizione che trascina con sé la irrilevabilità d’ufficio.
 Art.1944 comma 2: in materia di fideiussione; l’eccezione del
beneficium excussionis è sollevabile solo ad istanza di parte.

Queste sono le principali eccezioni ad istanza di parte ma ve ne sono altre.

3. La domanda riconvenzionale: il convenuto, per difendersi, contrattacca, non


limitandosi quindi a richiedere il rigetto della domanda – come nell’eccezione – ma
chiedendo invece qualcosa oltre a quello che l’attore sta chiedendo nei suoi
confronti. In questo senso, il convenuto diventa attore. In quest’ipotesi, oltre alla
diversa causa petendi, ci sarà anche un diverso petitum, non limitandosi a rigettare la
domanda dell’attore ma, per es., chiedendo una condanna a fare qualcosa. Per es.
l’attore chiede 10.000 euro al convenuto, che però oppone di essere creditore per
15.000 euro; la compensazione qui può agire sia come eccezione (chiedendo quindi
solo il rigetto della domanda), ma anche come domanda riconvenzionale, perché il
convenuto può chiedere la condanna dell’attore a pagare i 5.000 euro rimanenti. Così
come la domanda principale può essere di accertamento, di condanna o costitutiva,
allo stesso modo può esserlo quella riconvenzionale; e così come il giudice è tenuto al
rispetto del principio tra chiesto e pronunciato sulla domanda principale, allo stesso
modo lo è tenuto nei riguardi di quella riconvenzionale. In sostanza, la
riconvenzionale è una domanda a tutti gli effetti. La domanda riconvenzionale può
essere compatibile o incompatibile con l’accoglimento della domanda principale;
quando è incompatibile, la riconvenzionale ha una funzione difensiva tout-court,

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come l’eccezione, mentre se è compatibile non ha funzione difensiva, ma è la


possibilità che si dà al convenuto di far valere più diritti all’interno dello stesso
rapporto giuridico (per es. io ho venduto a Tizio una merce per 10.000 euro e non ho
ancora consegnato la merce; domando a Tizio il pagamento dei 10.000 euro. Tizio si
difende dicendo che non ha pagato i 10.000 euro solo perché la merce non è stata
ancora consegnata, quindi chiede in riconvenzionale la consegna della merce). In ogni
caso la domanda riconvenzionale, come la domanda principale, è sottoposta ad un
termine di decadenza, per cui dev’essere proposta 20 gg prima dell’udienza.
4. La chiamata di un terzo in causa: estende la lite ad un terzo, che a sua volta può
chiamare un altro terzo con un meccanismo che tendenzialmente potrebbe non
avere fine, dando luogo ad un c.d. processo a pluralità di parte. Es. io concessionario
vendo un’automobile Audi viziata a Tizio, il quale mi fa causa; io addurrò a mia difesa
che l’auto non presenta vizi e, dato che la macchina mi è arrivata così in
concessionaria, chiamo l’Audi Italia in causa a mia difesa. Il mezzo di difesa consiste
nel coinvolgere un altro soggetto. Spesso nella pratica il terzo chiamato in causa è
una compagnia assicurativa. Nella comparsa di risposta, il convenuto deve indicare
che vuol chiamare un terzo in causa, il suo nome e i motivi per cui vuol chiamarlo (ai
sensi dell’art.167 c.p.c.), e deve farlo in prima udienza a pena di decadenza.

Il 167 è stato modificato più volte, perché nel sistema liberale ci sono meno preclusioni nel
processo, cosa che invece è opposta in un modello più pubblicistico come quello attuale.

Ricapitolando: il processo si introduce con l’atto di citazione, indirizzato al convenuto, che si


costituisce (art.166) formando un suo fascicolo di parte che contiene la comparsa di risposta,
la procura e i documenti che servono alla sua difesa, e lo deposita in cancelleria. La
comparsa di risposta non si notifica all’attore, a differenza dell’atto di citazione. Tutto ciò
deve avvenire 20 gg prima della prima udienza, perché l’idea del nostro legislatore era che il
giudice potesse utilizzare il tempo restante per studiare le carte e arrivare preparato
all’udienza.

PRIMA UDIENZA, FASE ISTRUTTORIA E DECISORIA

La prima udienza è disciplinata all’art.183 c.p.c.; anche questa norma è stata rimaneggiata
molte volte. Qui si contrappongono due opinioni: chi ritiene che il processo si debba fare
totalmente per iscritto (sostenuta da una visione più liberale) e chi sostiene invece il
principio dell’oralità, asserendo l’importanza dell’udienza e anche del contatto diretto tra
magistrato e parte senza il filtro dell’avvocato (mentalità un po’ più pubblicistica). Nel 1950
non c’erano le preclusioni dell’art.167, mentre la riforma del 1990 voleva che le parti si
presentassero davanti al giudice che liberamente le interrogava, proprio per saltare
l’interpretazione dell’avvocato, che comunque era in udienza, e il giudice poteva sentire le
parti, chiedere chiarimenti, in modo da farsi un’idea non solo attraverso gli atti scritti ma
anche dalle stesse parti. Dopo il ’90, l’art.183 è stato ritoccato diverse volte perché, se un
giudice avesse dovuto fare ciò, non avrebbe potuto tenere, per ogni mattina, più di 4-5

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udienze. Oggi pertanto la comparizione personale delle parti non esiste, ma anzi ciò avviene
soltanto se richiesto dalle parti e ai fini della conciliazione (ai sensi dell’art.185 c.p.c.). è una
possibilità residuale, ma non la regola, finalizzata alla conciliazione, solo qualora vi sia
richiesta congiunta delle parti; si noti però che è difficile che le parti, che stanno litigando, si
trovino d’accordo su questa richiesta. Per com’è stato riformato il 183, oggi è lunghissimo in
quanto si è accorpato anche una parte degli artt.180 e 184. La prima udienza è divisibile in
tre momenti:

 Nel primo, il giudice deve solo verificare le “questioni preliminari”, cioè verificare che
il processo possa andare avanti. Dovrà quindi controllare se il contradditorio è
regolare, se ha la giurisdizione o la competenza, se è un’ipotesi di litisconsorzio
necessario etc.;
 In un secondo momento, è possibile che l’attore, per rispondere al convenuto, abbia
bisogno di fare anche lui una domanda riconvenzionale o di chiamare un terzo in
causa, se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Questo tipo di attività
dev’essere fatta, a pena di decadenza, nella prima udienza; per questo dev’essere
autorizzato dal giudice, che deve verificare se è vero o no che l’esigenza è sorta dalla
difesa del convenuto, in quanto altrimenti le esigenze dell’attore devono rientrare
assolutamente nell’atto di citazione.
 Il punto principale del 183 risiede nelle memorie del 6° comma; il meccanismo
attuale del 183 è quello per cui le parti richiedono le memorie: il giudice, se richiesto,
rinvia la causa ad una seconda udienza (senza potere discrezionale: se richiesto non
può negarli) e dà i termini per le memorie, che sono 3 fissate dalla legge. Molti hanno
criticato questa scelta del legislatore perché ritengono che il processo si appesantisca
con tutti questi atti scritti.
Con la prima memoria le parti si replicheranno a vicenda, perché l’attore dovrà
rispondere al convenuto (non potendolo fare in udienza), e inoltre può “correggere il
tiro”, nel senso che integrano o completano l’impostazione difensiva discendente
rispettivamente dalla citazione o dalla comparsa, motivando le modifiche apportate.
Ovviamente non si possono proporre nuove domande o nuove eccezioni, ma si
possono solo precisare o modificare; tuttavia nella pratica non sempre è facile
distinguere una modificazione (emendatio libelli) dall’introduzione di una domanda
nuova (mutatio libelli), e anche su questo possono sorgere nuove controversie tra le
parti. La giurisprudenza ha elaborato dei criteri per distinguere la mutatio
dall’emendatio, ma sono difficilmente applicabili nella fattispecie concreta con
nettezza. È sempre ammessa, comunque, la riduzione della domanda o la rinuncia ad
un’eccezione.
Per quanto riguarda la seconda e terza memoria, partiamo dal presupposto che la
deduzione dei mezzi istruttori (ovvero delle prove) non avviene con gli atti
introduttivi del giudizio. Allora il legislatore ha previsto che tutti i mezzi istruttori
possono essere fatti valere con le memorie 2 e 3 del 183, e normalmente le parti

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fanno così. La seconda memoria, al di là del replicarsi, serve quindi a chiedere i mezzi
di prova, e la terza per chiederne eventualmente altri. Le parti quindi procureranno i
documenti e chiederanno i mezzi istruttori. Con l’avvertimento che, dopo le
memorie, non si possono produrre nuovi documenti o chiedere nuovi mezzi di prova.
Le memorie per i mezzi di prova sono due perché, innanzitutto, le parti devono avere
la possibilità di replicare ai mezzi di prova proposti dalla controparte, e questo lo si
può fare solo se viene loro concessa un’altra memoria; e inoltre il secondo problema
è legato all’onere della prova (art.2697), per cui l’attore deve provare il fatto
costitutivo, mentre il convenuto deve provare quelli modificativi, estintivi etc., quindi
la seconda memoria serve per dare la prova “in positivo”, mentre la terza serve per la
c.d. “controprova”, cioè la prova che ostacola quella addotta dall’avversario.

Dopo il deposito delle memorie, cosa succede in seconda udienza? Si entra nella fase
istruttoria (artt.191 ss.), che è la seconda fase del processo civile, e il punto d’accordo è dato
dall’ordinanza del giudice, che segue le memorie istruttorie, con la quale egli stabilisce cosa
ammettere tra i mezzi di prova addotti dalle parti. Questa seconda fase può durare più o
meno tempo, e si può snodare in più o meno udienze a seconda della complessità della
controversia. Finita la fase istruttoria, il giudice rinvia la causa all’udienza di precisazione
delle conclusioni e si entra nella terza fase, la fase decisoria (artt.189-190): applicando il
diritto al fatto, il giudice stabilisce con sentenza chi ha ragione e chi ha torto. L’udienza di
precisazione delle conclusioni serve a dare alle parti la possibilità di ribadire ulteriormente le
domande che rivolgono al magistrato; è importante, nella pratica, per il magistrato, perché
da questa udienza decorrono dei termini perentori: 1) 60 gg per gli avvocati per scrivere la
comparsa conclusionale; 2) 20 gg per gli avvocati per scrivere una comparsa di replica; 3) 30
gg per il magistrato per depositare la sentenza o, nell’ipotesi di decisione collegiale, 60 gg.
Per il magistrato è importante appunto l’udienza di precisazione delle conclusioni perché, a
seconda del carico del giudice, egli può fissarla più o meno lontano per darsi la possibilità di
scrivere le sentenze senza fretta e senza sovraccaricarsi.

GIURISDIZIONE E COMPETENZA

Perché un magistrato possa decidere una causa, deve avere giurisdizione e competenza, alle
quali sono dedicate circa le prime 50 disposizioni del c.p.c.; il magistrato deve controllare,
come questione preliminare, di avere giurisdizione e competenza della prima udienza.

Per quanto concerne la giurisdizione, si tratta di un tema vastissimo e complesso;


sinteticamente, si tratta del potere giudiziario, di “ius dicere”, ovvero di risolvere la
controversia tra parti su un caso specifico. Il potere giudiziario è legato all’ordinamento
giudiziario, ovvero un corpo di magistrati che esercita il potere giudiziario, a cui si accede
tramite concorso. La competenza è invece un criterio di riparto della giurisdizione, ovvero il
potere in concreto del giudice di decidere su una determinata controversia, e ciò non è solo

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un problema tecnico ma è importante perché è sorretto dall’art.25 Cost., che enuncia il


principio del giudice naturale precostituito per legge. In pratica, al magistrato interessa il c.d.
difetto di giurisdizione o incompetenza del giudice, cioè si interessa del fenomeno a
contrario: cioè al magistrato interessa verificare se ha la giurisdizione o la competenza
perché potrebbe esserci un difetto. Il giudice non ha giurisdizione o non ha competenza ai
sensi degli artt.37-38 c.p.c.

Si ha difetto di giurisdizione in tre casi, cioè quando il giudice non può decidere perché la
questione spetta a:

- Il giudice speciale
- La pubblica amministrazione
- Il giudice straniero

Si ha invece difetto di competenza se essa per quel caso singolo spetta a qualche altro
magistrato ordinario. Per es. il rapporto fra il Tribunale di Siena e il Tribunale di Arezzo, nel
nostro ordinamento, è un problema di competenza, mentre si ha problema di giurisdizione
tra il Tribunale di Roma e quello di Parigi.

Quella sulla giurisdizione è una delle indagini preliminari che il magistrato deve compiere,
sollevandola anche d’ufficio, ma può essere anche un’eccezione processuale, cioè un
comportamento difensivo del convenuto che eccepisce il difetto di giurisdizione.

Il primo conflitto di giurisdizione l’abbiamo tra giudice ordinario e speciale: il giudice


ordinario è un magistrato che fa parte dell’ordinamento giudiziario, ovvero tutti i giudici di
Tribunale, delle Corti d’Appello e della Cassazione, nonché i giudici onorari di Tribunale e i
giudici di pace; il giudice speciale, invece, ovviamente non rientra tra i giudici ordinari.
Storicamente fu fatto un certo abuso del giudice speciale durante il Fascismo, perché egli
viene nominato dal governo ed è dipendente da esso. L’uso del giudice speciale, in questo
senso, dà la misura del livello di democraticità di un Paese, perché appunto la funzione
giurisdizionale dev’essere indipendente dal potere esecutivo. In Assemblea Costituente si
era proposto di eliminare per questo motivo la figura del giudice speciale, ed era un progetto
fortemente voluto da Piero Calamandrei e Giovanni Leone, ma molti si sono opposti per
ragioni sostanzialmente storiche, e si arrivò al compromesso da cui derivano gli artt.102-103
Cost.: il primo prevede che la giurisdizione spetta ai giudici ordinari, e non possono essere
istituiti nuovi giudici speciali; l’art.103 invece costituzionalizza tre giudici speciali, ovvero i
giudici amministrativi (TAR e Consiglio di Stato), la Corte dei Conti e i tribunali militari. Vi
sono altre due giurisdizioni speciali non costituzionalizzate, ma che preesistevano alla nostra
carta costituzionale, che sono le commissioni tributarie e i giudici ecclesiastici. In un conflitto
tra giudice ordinario e speciale, la prima cosa che deve fare il magistrato ordinario è
verificare se la controversia spetta alla sua giurisdizione o a quella di un giudice speciale.

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

Il rapporto tra giudice speciale e giudice ordinario ci interessa in particolare per quanto
riguarda il giudice amministrativo, perché è il giudice speciale con cui ci sono maggiori
conflitti di giurisdizione. Il discrimine è dato dal riparto tra diritto soggettivo e interesse
legittimo, che è la prima cosa che si deve valutare per capire se ha giurisdizione il giudice
ordinario o quello amministrativo; questa è stata la scelta anche dei nostri costituzionalisti
del 1948. Poi però è stata fatta una riforma amministrativa in base alla quale i giudici
amministrativi hanno competenza anche su certi diritti soggettivi. Non basta però questo: il
giudice ordinario ha giurisdizione non solo se si verte su un diritto soggettivo, ma anche
bisogna controllare se quel diritto soggettivo non rientra nei diritti soggettivi di competenza
esclusiva del giudice amministrativo. Oggi questi diritti sono pochi, tant’è che le cause contro
la p.a. si fanno quasi sempre dinanzi al TAR, perché si è voluto fare del giudice
amministrativo il giudice della p.a.

Il secondo conflitto è non col giudice amministrativo, ma direttamente con la p.a., e questo è
anche scritto all’art.37 c.p.c. che regola il difetto di giurisdizione; in origine non c’era il
concetto dell’interesse legittimo, e non si poteva nemmeno andare contro gli atti della p.a.,
per cui quello che faceva la p.a. non era nemmeno sotto il controllo giurisdizionale, per il
principio della separazione dei poteri per cui il potere giurisdizionale – si riteneva – non
poteva controllare il potere esecutivo. Per la prima volta questo viene ammesso con la legge
del 1965, che crea il concetto di interesse legittimo e il Consiglio di Stato. Residua però una
situazione – il c.d. interesse semplice - , che non assurge nemmeno ad interesse legittimo,
perché è un potere assoluto dell’amministrazione che non è neanche soggetto a controllo;
anche in questo caso il giudice ordinario è carente di giurisdizione, ma non perché ce l’abbia
il giudice speciale, ma perché c’è un difetto assoluto di giurisdizione. Per es. il prof mette un
appello l’8 gennaio 2019 alle 14; se a qualcuno questo non va bene e la impugna di fronte al
giudice, è soggetto a controllo giurisdizionale o no? Chiaramente no, perché si tratta di un
potere assoluto della p.a. che non è sindacabile. Sarebbe sindacabile se il prof non fissasse
gli appelli, ma se li fissa non si può sindacare ad es. il giorno o l’ora.

Il terzo conflitto di giurisdizione è dinanzi al giudice straniero; per straniero si intende non
italiano, quindi non rileva che rientri o non nell’UE. Il problema del giudice straniero, nel
periodo del fascismo, si risolveva dicendo che la giurisdizione in questi casi era sempre del
giudice italiano, per venire incontro all’idea nazionalista fascista. Oggi abbiamo una legge
che regola questo fenomeno, che rientra nel diritto internazionale privato processuale, ed è
la l.218/1995. I primi artt. ci dicono quando ha giurisdizione il giudice italiano (1-4-5-8-9), e
in particolare la giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente
in Italia. La giurisdizione non può essere mai italiana se riguarda un immobile sito all’estero
(art.5). Infine l’art.11 riguarda la rilevabilità del difetto di giurisdizione, che dev’essere vista
contestualmente all’art.37 c.p.c.; in tutti i casi di conflitti tra giudice ordinario e speciale o
straniero possono sorgere conflitti.

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

L’art.37 ci dice che il difetto di giurisdizione del giudice ordinario può essere sollevato, anche
d’ufficio, in ogni stato e grado del processo: ciò significa che la giurisdizione è considerata
così importante che, per quanto la parte possa sollevarla come eccezione, il giudice può in
ogni momento – se ritiene di non avere giurisdizione – sollevarla lui stesso d’ufficio. Se la
solleva la parte, non è un’eccezione in senso stretto, bensì un’eccezione rilevabile d’ufficio,
non solo perché è un’eccezione processuale (e come tale sempre rilevabile d’ufficio) ma
soprattutto perché c’è scritto nell’art.37. Questo si può fare in ogni stato e grado del
processo: è un’espressione di massima libertà data dall’importanza della giurisdizione.
Siccome però si è reputato troppo lassista questo art.37, si è detto in Cassazione che, se in
primo grado si è formato giudicato senza che sia stato sollevato il difetto di giurisdizione, la
giurisdizione non è più discutibile in Appello o in Cassazione. È un’interpretazione che forza
un po’ il senso dell’art.37, che dice “in ogni stato e grado del processo”.

L’art.11 della legge 218/1995 pone delle limitazioni al difetto di giurisdizione che nell’art.37
c.p.c. non ci sono; dice infatti che “il difetto di giurisdizione può essere rilevato, in qualunque
stato e grado del processo, soltanto dal convenuto costituito che non abbia espressamente o
tacitamente accettato la giurisdizione italiana. È rilevato dal giudice d'ufficio, sempre in
qualunque stato e grado del processo, se il convenuto è contumace, se ricorre l'ipotesi di cui
all'articolo 5, ovvero se la giurisdizione italiana è esclusa per effetto di una norma
internazionale”. Sembra più una disposizione di diritto privato che non pubblico. L’ipotesi è
quella di un cittadino francese che si costituisce, dicendo che va bene che la giurisdizione sia
quella italiana, ovvero con accettazione espressa, oppure tacita, non sollevando il difetto di
giurisdizione. Anche se la giurisdizione in realtà non vi è (ai sensi dell’art.4), se c’è
accettazione da parte del convenuto – espressa o tacita – non importa. C’è quindi un gap tra
l’art.37 c.p.c. e l’art.11 della l.218/1995.

Il giudice, se ritiene di non avere giurisdizione, chiude il processo e non va avanti. Se ritiene
invece di avere giurisdizione, deve andare avanti facendo il secondo controllo: quello di
competenza. Per far ciò il giudice deve controllare tutte le norme del c.p.c. che stanno agli
artt.7 ss.: i criteri per individuare la competenza sono tre, ovvero valore della causa,
materia e territorio. Il criterio del valore e della materia attengono al rapporto tra Tribunale
e Giudice di Pace, mentre tutto il resto riguarda il criterio territoriale. Per quanto riguarda il
valore della causa, lo spartiacque in questo momento è 5.000 euro: al di sotto è di
competenza del GdP, al di sopra è del Tribunale. L’art.9 fissa la competenza del Tribunale
come una competenza residuale, che si ha per tutte le cause che non sono di competenza di
altro giudice. Per quanto concerne la materia, è un criterio anch’esso per fissare il discrimine
tra GdP e Tribunale. Inoltre c’è un criterio misto valore e materia, per cui si dice che per una
certa materia è competente un certo giudice fino ad un certo valore, sopra quel valore è
competente un altro giudice (es. sinistri automobilistici). Residua però il problema della
competenza territoriale (artt.18 ss.). Gli artt.18-19 fissano le regole generali per cui è
competente il giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio, e, se questi
sono sconosciuti, quello del luogo in cui il convenuto ha la dimora. Se il convenuto non ha

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residenza, né domicilio, né dimora nello Stato o se la dimora è sconosciuta, è competente il


giudice del luogo in cui risiede l'attore. qualora sia convenuta una persona giuridica, è
competente il giudice del luogo dove essa ha sede. La logica è quella di dare un favore al
convenuto. poi abbiamo l’art.20, che ci dice che al di là delle disposizioni degli artt.18-19, per
le cause relative a diritti di obbligazione è anche competente il giudice del luogo in cui è
sorta o deve eseguirsi l'obbligazione dedotta in giudizio. È possibile quindi che una causa sia
di competenza di più giudici, e in questo caso è l’attore che sceglie dove fare la causa.

Ci sono delle competenze per delle particolari controversie: oltre l’art.20 che riguarda le
obbligazioni, abbiamo il 21, il 22, il 23 e il 24 che stabiliscono delle competenze per territorio
speciali a seconda della materia. Una riflessione in più la facciamo sull’art.25 e l’art.28; il
primo riguarda il caso in cui nel processo viene convenuta una p.a. (nelle ipotesi di
giurisdizione del giudice ordinario ovviamente): in questo caso la causa si fa nel luogo in cui
la p.a. ha la sua avvocatura. È una deroga in favor della p.a. Il territorio è diviso in
circoscrizioni (che sono i territori che stanno sotto il tribunale) e distretti (che stanno sotto la
corte d’appello); normalmente la circoscrizione corrisponde alla provincia, mentre il distretto
corrisponde tendenzialmente con il capoluogo di regione. L’avvocatura dello Stato non sta in
tutte le città ma ha un ufficio in ogni distretto, quindi l’art.25 si riferisce appunto a questa
situazione. Se io litigo con la p.a. in una città che non è sede di distretto, la causa si sposta
per competenza per territorio nella sede distrettuale. L’art.28 regola invece la deroga della
competenza: le parti hanno la possibilità per contratto di derogare alla competenza per
territorio, che quindi non è regolata dalla legge ma da una convenzione derivante appunto
dal contratto. Ciò è possibile in maniera limitata, cioè salvo i casi espressamente previsti
dallo stesso art.28, e comunque solo nei casi in cui l’inderogabilità non sia prevista da legge.
Quindi innanzitutto se il diritto è indisponibile, è indisponibile anche la determinazione
contrattuale del foro; e poi in alcune ipotesi particolari tipo la tutela cautelare, l’esecuzione
forzata etc. La giurisprudenza considera come clausola vessatoria la clausola contrattuale
che deroga alla competenza del foro, per cui è necessaria una specifica sottoscrizione della
parte contraente; se la parte è un consumatore, peraltro, questa deroga è sempre nulla.

L’art.30-bis è stato dichiarato incostituzionale: regolava, prima della sua dichiarazione di


incostituzionalità, l’ipotesi in cui il convenuto fosse un magistrato. Cosa simile è prevista per
i processi penali. Supponiamo che mia moglie sia un magistrato; io chiedo a Siena il divorzio
da mia moglie e lo devo chiedere al collega della porta accanto, che deve giudicare in una
situazione di discutibile terzietà. Per non creare delle situazioni di imbarazzo e di mancanza
di equidistanza dalle parti, si era previsto che la competenza fosse di tribunale diverso. La
norma è stata dichiarata incostituzionale, perché alle volte si arrivava a delle soluzioni anche
eccessive. La sentenza costituzionale è, secondo il prof, discutibile, perché un minimo di
filtro avrebbe dovuto essere mantenuto.

Anche la competenza, come la giurisdizione, può essere utilizzata come eccezione


processuale. La giurisdizione può essere sollevata in ogni stato e grado del processo, mentre

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per la competenza ci sono delle preclusioni, diverse a seconda che l’eccezione sia sollevata
dalle parti o d’ufficio dal giudice. Questa materia è disciplinata dall’art.38 c.p.c.: dalle parti
va eccepita nella comparsa di risposta (segue le preclusioni delle eccezioni di merito ad
istanza di parte), e va peraltro indicato il giudice che la parte ritiene competente, se no si ha
per non proposta; dal giudice può essere eccepita d’ufficio non oltre la prima udienza ex
art.183 c.p.c. C’è una sfumatura tra ciò che possono fare le parti e ciò che può fare il giudice:
mentre se la parte non eccepisce il difetto di competenza nella comparsa di risposta, non
può più farlo, il giudice lo può fare anche nella prima udienza, perché rientra tra gli
adempimenti preliminari cui è tenuto. Il giudice può dunque dichiararsi incompetente per
materia, valore o territorio se inderogabile, perché se il territorio è derogabile non può più
farlo neanche il giudice perché rimane la preclusione dei 20 gg.

Se vi è lite sulla competenza, il giudice deve decidere se è o non competente; questa


decisione è preliminare rispetto al merito. Per far ciò, dovrà fare probabilmente degli
accertamenti di fatto: per es. io cito Tizio a Siena perché lui sta a Siena; costituendosi egli
dice di non stare più a Siena ma ad Arezzo; io controreplico sostenendo che è un
trasferimento di residenza fittizio per cui continuo a sostenere che il giudice competente sta
a Siena. Per capire chi effettivamente abbia competenza, il giudice è tenuto ad un
accertamento dei fatti, il che pone due problemi consequenziali: il primo è quello di vedere
se può fare una vera e propria istruttoria come sarebbe per il merito (per es. assunzione di
testi, di documenti etc.); il secondo è se quanto stabilisce ai fini della competenza è
vincolante per il giudice anche quando va a decidere per il merito oppure no (per es. nell’es.
di cui sopra, il giudice deve stabilire se Tizio sta a Siena o ad Arezzo; sulla base degli
accertamenti preliminari, accerta che sta a Siena; può cambiare idea dopo?). Queste due
questioni sono risolte dall’ultimo comma dell’art.38: se è controverso un fatto che serve ai
fini della competenza, il giudice non può fare attività istruttoria ma deve decidere allo stato
degli atti, o tutt’al più può assumere sommarie informazioni, ma comunque ai soli fini della
competenza, per cui non c’è vincolatività nell’accertamento del fatto per il giudice nel
momento in cui va a decidere con sentenza nel merito.

LITISPENDENZA, CONTINENZA E CONNESSIONE

Gli artt.31 ss. riguardano le modificazioni di competenza per ragioni di connessione.


Quando parliamo di connessione, dobbiamo parlare necessariamente della comparazione
tra azioni. Se io comparo due azioni, l’analisi comparativa mi può dare questi risultati:

1. che le cause siano identiche (fenomeno della litispendenza);

2. che l’una è più ampia dell’altra, e la seconda è tale che contiene tutti gli elementi
dell’altra più qualcosa (rapporto di continente a contenuto; il fenomeno processuale
lo chiamiamo continenza);

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3. che l’una ha un elemento in comune con l’altra (il fenomeno si chiama connessione).
I tre elementi costitutivi dell’azione sono i soggetti, il petitum e la causa petendi, per
cui nell’ipotesi della connessione si ha che le due azioni hanno uno di questi elementi
in comune.

4. che l’una e l’altra causa non hanno niente in comune, allora siamo fuori dal
fenomeno perché sono cause totalmente indipendenti.

L’art.39 c.p.c. riguarda la disciplina della litispendenza e continenza di cause; l’art.40 riguarda
invece la connessione. Tutti gli artt. da 31 a 36 disciplinano anch’essi la connessione.
Abbiamo litispendenza quando tra due azioni c’è identità: es. io faccio due volte la stessa
causa presso due Tribunali diversi. È un fenomeno piuttosto raro ovviamente. Può avere ad
oggetto anche lo stesso fenomeno in senso rovesciato: per es. io faccio causa a Tizio per
avere 10.000 euro; Tizio fa causa a me per non darmi 10.000 euro. Questo può succedere
più frequentemente per l’accertamento della proprietà di un bene. Il criterio è che,
comparate due azioni, se queste corrispondono da un punto di vista quantomeno
sostanziale, vi è identità e quindi si ha il fenomeno della litispendenza ex art.39. In questi casi
la cosa logica è che non si può fare due volte un processo che abbia ad oggetto la stessa
causa, per due principi: quello dell’economia processuale e quello di evitare il potenziale
giudicato contraddittorio, cioè due giudicati diversi sulla stessa causa. Per es. io cito in
giudizio a Siena Tizio per la proprietà di un bene e il Tribunale di Siena dice che è mio,
mentre Tizio mi cita a Firenze e il Tribunale di Firenze dice che è suo. Se traduciamo questo
concetto da un punto di vista normativo, l’art.39 dice che il secondo giudice (quello
successivamente adito) non deve procedere per il merito, ma chiudere il rito con una
sentenza con cui si dichiara la litispendenza.

L’esigenza del sistema in caso di litispendenza è quella di bloccare uno dei due processi,
ovvero quello successivamente adito, come si evince dall’art.39 c.p.c. Se il secondo adito
vede che la causa è pendente e uguale ad un’altra, blocca la propria con una sentenza in cui
afferma che vi è litispendenza. La litispendenza è anche un’eccezione processuale ad istanza
di parte, oltre a poter essere sollevata dal giudice d’ufficio. La differenza con la giurisdizione,
anch’essa eccezione processuale, difficilmente può essere rilevata d’ufficio dal giudice
perché al giudice deve risultare la pendenza dell’altra causa dal fascicolo, se no non può
essere consapevole del fatto che vi è un'altra causa identica, a differenza di quanto avviene
con la giurisdizione. I problemi posti dalla litispendenza sono due:

1. Il primo è quello del “preventivamente adito”: come si fa a stabilire fra due cause
qual è quella successiva? Questo problema ha dato in passato una serie di
discussioni in dottrina. Prima si guardava alla notificazione della citazione, invece oggi
è stato riscritto il 3° comma dell’art.39 c.p.c., dove si è aggiunto il ricorso, quindi nel
caso in cui il processo si introduca con ricorso la prevenzione è determinata dal

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deposito del ricorso, mentre nel caso della citazione è determinata sempre dalla
notificazione.

2. Il secondo è cosa significhi “giudici diversi” e se è possibile proporre la stessa causa


anche davanti allo stesso giudice. “Giudici diversi” significa uffici giudiziari diversi,
quindi Siena o Firenze per es., ma non se due cause uguali vengono introdotte di
fronte allo stesso ufficio giudiziario in momenti diversi. In questo caso il fenomeno
non è di litispendenza ma, ai sensi dell’art.273 c.p.c., il processo va riunito.

Un altro fenomeno possibile nella comparazione di azioni è quello della continenza: per es.
un’azione ha tutti gli elementi dell’altra, più qualcosa che l’altra non ha. Questa azione è
continente dell’altra, che invece è contenuta. La giurisprudenza ha condotto peraltro alla
continenza alcune ipotesi che, ontologicamente, sarebbero riconducibili meramente alla
connessione. Le ipotesi di continenza sono abbastanza rare: per es. nella prima causa chiedo
a Tizio il pagamento del capitale; nella seconda, oltre al pagamento del capitale, chiedo
anche gli interessi. Se si ha continenza, l’esigenza da risolvere è quella di vedere se la causa
più ampia è stata introdotta prima o dopo: se infatti è stata introdotta per prima, si ritorna
ad un’ipotesi di litispendenza parziale (perché le cause non sono identiche, ma la successiva
è identica ad una parte della precedente) da un punto di vista logico, ma non pratico, quindi
qui l’esigenza è quella di cancellare la seconda causa dal ruolo perché non ha senso di
esistere, dato che la causa contenente esprime già la medesima pretesa. Un vero e proprio
fenomeno di continenza si ha quando la contenente è la causa successivamente adita: qui il
problema è che non posso cancellare la prima causa, perché la prima, la seconda invece non
può essere cancellata perché contiene degli elementi in più, che la prima non ha. Si deve
allora procedere alla riunione delle cause, come chiarisce l’art.39 comma 2.

La terza ipotesi è quella della connessione fra cause; normalmente si fa riferimento alla
connessione in senso oggettivo, perché la connessione fra soggetti non rileva in quanto le
due cause non c’entrano niente l’una con l’altra. Si ha connessione in senso oggettivo
quando due cause hanno in comune o la causa petendi o il petitum. Hanno in comune la
causa petendi quando, sulla base delle stesse ragioni di fatto o di diritto, si chiedono due
cose diverse: per es. se su un certo contratto una parte chiede la risoluzione e l’altra
l’adempimento, ciò che viene chiesto è diverso ma c’è una stessa causa petendi, consistente
nel contratto. Se invece hanno in comune il petitum, cosa meno frequente, viene chiesta la
stessa cosa per due ragioni diverse: per es. io mi sono legato tramite contratto ad una clinica
privata per un intervento chirurgico, che va poi male; chiedo il risarcimento del danno per
responsabilità medica sulla base di due diverse causae petendi: contrattuale ed
extracontrattuale. La connessione più importante e più forte che abbiamo nel sistema,
tuttavia, è quella che intreccia la causa petendi col petitum, ovvero quella in cui il petitum di
una causa è causa petendi di un’altra causa; questo fenomeno prende il nome di

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pregiudizialità di pendenza. Per es. si immaginino due cause tra un padre e un figlio, l’una
per il pagamento degli alimenti o per il mantenimento, e l’altra per l’accertamento della
paternità. Nell’una si chiede di accertare se tra le parti si chiede un rapporto filiale, e in ciò
consiste il petitum; nell’altra, il rapporto padre-figlio è la ragione in forza della quale si
chiedono gli alimenti o il mantenimento, per cui diventa la causa petendi. Questo tipo di
connessione prende il nome di pregiudizialità di pendenza proprio perché l’una causa è
pregiudiziale all’altra. Altre ipotesi di connessione sono state ritrovate da alcuni giuristi ma
sono di second’ordine. Se abbiamo connessione, allora, si deve applicare l’art.40 c.p.c.: in
questi casi non vi è più un problema di litispendenza o di continenza, perché sono solo dei
punti in comune ma ciascuna causa ha una sua specificità; è comunque opportuno operare
una riunione fra le cause per evitare i giudicati contradditori ma soprattutto per venire
incontro all’esigenza dell’economia processuale. L’art.40 allora prevede che si debbano
riunire secondo alcune regole, dettate dalla stessa disposizione: se le cause sono proposte
dinanzi a giudici diversi si riuniscono dinanzi al giudice preventivamente adito; se non sono
proposte dinanzi a giudici diversi, si usa l’art.274 c.p.c. La connessione è sempre un rapporto
fra cause, ma più debole rispetto alla continenza, per cui nonostante si debba procedere in
entrambi i casi con la riunione, nel caso della connessione ci sono dei temperamenti che non
troviamo per la continenza, indicati all’art.40 comma 2:

 la riunione si può fare solo nella prima udienza (ex art.183 c.p.c.);

 la rimessione non può essere ordinata quando lo stato della causa principale o
preventivamente proposta non consente l’esauriente trattazione e decisione delle
cause connesse: se una causa è molto avanti e l’altra no, la decisione sulla riunione
potrebbe ritardare la decisione sul processo che è già ad uno stato avanzato.

Se le cause connesse non si riuniscono, si distingue a seconda dell’elemento in forza del


quale sono connesse:

 Se sono connesse per petitum o causa petendi, proseguono separatamente;


considerato che il legame tra le cause non è così forte, il giudice ha ritenuto di non
doverle riunire e quindi possono procedere indipendentemente;

 Se invece sono connesse per pregiudizialità di pendenza, si può dare la sospensione


di un processo in attesa della definizione dell’altro ai sensi dell’art.295 c.p.c.

Per quanto concerne gli artt.31-36, riguardano le modificazioni della competenza per ragioni
di connessione. Sono disposizioni con scarsa applicazione pratica. Noi abbiamo fatto esempi
su cause già pendenti di fronte ad un giudice, e il giudice deve rimediare a queste situazioni.
Le disposizioni dal 31 al 36 sono pensate per un momento precedente, quello dell’attivazione
della causa, di modo tale che si possa unire una causa ad un’altra facendole già partire
riunite, perché fin dall’inizio l’avvocato le cumula in un unico processo, sfruttando queste
agevolazioni in deroga al processo. È una disciplina a livello preventivo per favorire la

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riunione in ipotesi di connessione; se non sussiste e quindi vi sono ipotesi di cause pendenti,
ci sono comunque i rimedi del 39 e del 40.

PROCESSO A PLURALITÀ DI PARTI

Il processo è normalmente tra due litiganti, ma può essere anche fra più parti e questo
fenomeno si chiama processo a pluralità di parti o litisconsorzio, il quale può essere
necessario (art.102 ss. c.p.c.) o facoltativo (art.103 c.p.c.): ciò vuol dire che in alcuni casi le
più parti devono essere necessariamente presenti nel processo, perché altrimenti non può
proseguire nel processo stesso; in altri casi, non è necessaria la presenza di tutte le parti.
Una seconda distinzione è quella che la pluralità di parti si può avere ab origine, fin dall’inizio
del processo (per es. con pluralità di attori o di convenuti sin dalla citazione), o in limine litis,
ovvero terzi si aggiungono al processo tramite alcuni strumenti quali la chiamata in causa da
parte del convenuto o dell’attore (art.106 c.p.c.), oppure per intervento volontario (art.105
c.p.c.) o del giudice (art.107 c.p.c.). A loro volta questi litisconsorzi possono essere necessari
o facoltativi.

Partiamo dall’art.102 che riguarda il litisconsorzio necessario, che apre due questioni: 1) in
quali ipotesi concretamente abbiamo litisconsorzio necessario; 2) qual è la disciplina
applicabile. Per quanto riguarda il primo aspetto, più sostanziale, l’art.102 contiene infatti
una tautologia, perché si dice che “se la decisione non può pronunciarsi che in confronto tra
più parti, tutte debbono agire o essere convenute nello stesso processo”, ma ciò non risolve
nulla. Per quanto riguarda l’aspetto più procedurale, il nodo è sciolto dal 2° comma, che
prevede l’integrazione da parte del giudice con termine perentorio. L’ipotesi più importante
di litisconsorzio necessario è l’azione di divisione (sia essa di comunione dei beni o
ereditaria) ex art.784 c.p.c.

Se vi sono litisconsorti pretermessi, in prima udienza ex art.183 il giudice deve verificare che
si tratti di un’ipotesi di litisconsorzio necessario, oppure il convenuto può eccepire il
litisconsorzio necessario se per es. è stato chiamato come unico convenuto in un’azione di
divisione su un bene nella quale ci dovrebbero essere gli altri comproprietari. Allora il giudice
ordina la reintegrazione del contraddittorio, rinviando ad altra udienza. La parte che ne ha
interesse deve citare, dando 90 gg a difesa, gli altri partecipi del litisconsorzio necessario con
citazione. All’udienza successiva, il giudice verifica che il litisconsorzio sia rispettato e si può
procedere al contraddittorio. Questa è la soluzione classica; ci sono però due varianti
patologiche:

 che il convenuto non eccepisca nulla e che il magistrato non si accorga dell’ipotesi di
litisconsorzio necessario, mandando avanti il processo con litisconsorti necessari
pretermessi. Non ci sono preclusioni per rilevare l’assenza di un litisconsorte
necessario, quindi lo si può fare in qualunque momento del processo; ovviamente è
opportuno che il giudice lo faccia in prima udienza, perché è una delle questioni

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preliminari alle attività giudiziarie ma, ove questo non accada, il giudice lo può fare in
qualunque momento se ne renda conto. Al che con ordinanza ordina l’integrazione
del contraddittorio. Ma così il processo va rifatto tutto, se per es. è arrivato già ad un
momento piuttosto avanzato? Tutte le attività eventualmente effettuate sono state
fatte a contraddittorio non integro, cioè in mancanza di un litisconsorte necessario. Il
principio generale che scioglie questo nodo è nell’art.268 c.p.c.: il terzo che
intervenga per la prima volta nel processo può farlo anche in uno stadio avanzato di
esso, ma interviene nello stato in cui il processo si trova; questo principio però trova
deroga nel caso in cui il terzo sia un litisconsorte necessario pretermesso, per cui in
tal caso non vi sono preclusioni, perché lui non è stato incolpevolmente chiamato in
giudizio; l’attività processuale posta in essere con litisconsorte necessario
pretermesso è nulla.

 che il convenuto eccepisca o il magistrato rilevi, ma l’attore non integri il


contraddittorio chiamando gli altri litisconsorti nonostante l’ordinanza del giudice. Se
la parte attrice non ha provveduto a citare in giudizio gli altri litisconsorti, il giudice
dichiara l’estinzione del processo ai sensi degli art.307 ss. c.p.c. (c’è anche un’altra
ipotesi di estinzione nel 306, ma non c’entra con questo caso perché è derivante dalla
rinuncia agli atti del giudizio da parte dei litiganti). La ratio è che si vuole dare una
forte tutela al litisconsorte pretermesso.

Il sistema tutela molto il litisconsorzio necessario. Potrebbe darsi addirittura l’ipotesi che
nessuno si accorga di questa violazione in tutto il giudizio di primo grado: manca il
litisconsorte necessario, le parti non lo eccepiscono, il giudice non se ne accorge ed emana
una sentenza a contraddittorio non integro. L’assenza del litisconsorte può essere motivo di
impugnazione in Appello ma anche in Cassazione. La tutela del litisconsorte necessario
pretermesso è così forte che, se anche si rilevasse l’assenza di un litisconsorte pretermesso
nei gradi di giudizio successivi, i giudici di Appello o Cassazione hanno il potere di rimettere
la causa al primo giudice (ipotesi disciplinata negli artt. 354 c.p.c. per l’Appello e 383 per la
Cassazione) e il processo riparte da capo. Può succedere ancora che non se ne accorga
nemmeno la Cassazione, o che non venga fatta impugnazione: in questi casi abbiamo un
provvedimento definitivo, che ha provveduto a contraddittorio non integro. In questo caso
deve prevalere il diritto del litisconsorte necessario pretermesso o il giudicato che ormai si è
formato? Il 161, che riguarda il tema della nullità della sentenza, scioglie il problema: se la
sentenza è nulla, si può far valere questa nullità con i mezzi di impugnazione, ma se non si
impugna, si ha il principio per cui il giudicato sana la nullità; pertanto anche la sentenza nulla
diventa valida se non viene impugnata. Questo principio generale trova l’eccezione del
secondo comma, che è quello della mancata sottoscrizione del giudice nella sentenza. La
giurisprudenza pacifica ritiene che, nell’ipotesi di litisconsorte necessario pretermesso,
questa sentenza non è nulla ma è “inutiliter data”, per cui la sentenza non è nulla ma è data
inutilmente, e il giudicato non sana il vizio.

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Questa è la disciplina generale del litisconsorzio necessario. Per quanto riguarda però le
fattispecie concrete di litisconsorzio necessario, non possiamo guardare al c.p.c. perché non
ci dice nulla al riguardo, quindi va ricostruito. Su questo argomento è stato molto scritto in
dottrina e in giurisprudenza, ma non sempre vi è stato un orientamento pacifico. Le ipotesi si
possono dividere in tre categorie:

1. Ipotesi ex lege, previste espressamente dalla legge. Queste norme si trovano tuttavia
non nel c.p.c., ma nel diritto sostanziale del c.c.;

2. Ipotesi in connessione col tema della legittimazione al processo. Sono una variante
della prima, nel senso che anch’esse sono a volte previste da legge, ma dipendenti
dall’istituto della legittimazione ad agire;

3. Ipotesi propter oportunitate. È la categoria più discussa, perché sono ipotesi in base
alle quali, per opportunità, si ritiene che vi sia un litisconsorzio necessario, ma non
c’è una base nella legge.

Facciamo alcuni esempi:

 Art.748 c.p.c. che riguarda le divisioni. In qualunque caso di divisioni di beni comuni,
il litisconsorzio è necessario.

 Art.247 c.c. che riguarda l’azione di disconoscimento della paternità. Il presunto


padre, la madre ed il figlio sono litisconsorti necessari nel giudizio di
disconoscimento.

 Art.2900 c.c. che riguarda l’azione di surrogazione: Tizio, creditore di Caio, che a sua
volta è creditore di Sempronio, si surroga nella posizione di Caio per riscuotere il
credito che egli ha nei confronti di Sempronio. Tutti e tre sono litisconsorti necessari
nel processo di Caio contro Sempronio per riscuotere il credito.

 Art. 23 della l.999/69 sui sinistri automobilistici. Le compagnie di assicurazione sono


litisconsorti necessari del processo intentato contro il danneggiante. Questa scelta è
operata dal legislatore solo nei casi di sinistri automobilistici, non in tutti i casi in cui
vi sia copertura assicurativa.

Il secondo fenomeno legato al litisconsorzio necessario è quello della legittimazione ad


agire: non si può agire per un diritto se non si afferma che il diritto è proprio, a prescindere
dalla circostanza che si abbia ragione o torto; per es. io mi affermo proprietario di un
immobile in via Mattioli e chiedo che sia accertata la mia proprietà; posso avere ragione o
torto nel merito, ma sono legittimato ad agire perché ho affermato la mia proprietà sul
bene. Situazione diversa sarebbe se io mi rivolgessi al Tribunale di Siena chiedendo che sia

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

accertato che la proprietà del medesimo immobile sia di altri: non ho legittimazione ad agire
perché non c’è motivo per cui io debba fare valere un diritto di altri. La legittimazione ad
agire, ovvero la possibilità di far valere il diritto nel processo, si fa sulla mera affermazione
della titolarità di un diritto, e non sull’effettiva titolarità, perché questo rientra nel giudizio
di merito. Questo fenomeno prende il nome di legittimazione ordinaria.

Questa regola ha però delle eccezioni (c.d. legittimazione staordinaria): ci sono infatti dei
casi – dati dall’ordinamento - in cui è possibile che la parte faccia valere un diritto che
affermi essere di altri. Il rapporto tra legittimazione ordinaria e straordinaria è che la prima
rientra nel diritto d’azione garantito costituzionalmente e non ha bisogno di essere prevista
per legge; la seconda invece, che consiste nella pretesa di far valere un diritto di altri, ha
bisogno di una legge che autorizzi il soggetto a far valere un diritto che egli affermi essere di
altri. La legittimazione straordinaria prende anche il nome di sostituzione processuale,
perché il legittimato straordinario si sostituisce da un punto di vista processuale ad un altro
soggetto, che si afferma essere titolare di un diritto. La disciplina della legittimazione
straordinaria è contenuta all’art.81 c.p.c.: una parte può fare valere in nome proprio un
diritto altrui solo se c’è una legge che glielo consenta, altrimenti è carente di legittimazione.
Ne consegue che: 1) bisogna verificare quali sono le fattispecie concrete in cui vi è
legittimazione straordinaria; 2) se agisce in processo il legittimato straordinario, il processo è
a litisconsorzio necessario col legittimato ordinario, ovvero il titolare del diritto fatto valere
nel processo. Basta che la legge dia la legittimazione straordinaria perché si dia anche il
litisconsorzio necessario, senza bisogno di una doppia norma. Per questo motivo alcune
ipotesi di legittimazione straordinaria possono anche coincidere, ovviamente, con le ipotesi
sopra indicate di litisconsorzio necessario (per es. quella dell’azione surrogatoria); abbiamo
poi l’art.1012 c.c., che riconosce all’usufruttuario la possibilità di far valere alcuni diritti del
proprietario (2° comma); l’art.117 sulla nullità del matrimonio: se si sta alla legittimazione
ordinaria, possono far valere la nullità i coniugi, ma la legge attribuisce questa legittimazione
anche ad altri (ascendenti prossimi, PM, chiunque ne abbia un interesse); l’art.1421
riguardante la legittimazione per far valere nullità del contratto, che viene attribuita a
chiunque ne abbia interesse. Nella misura in cui la legge dà la legittimazione straordinaria
a certi soggetti, i legittimati ordinari sono litisconsorti necessari. Alcune volte (come nei
casi di cui all’art.117 e all’art.1421) la legge attribuisce la legittimazione a “chi ha interesse”,
quindi ci sono dei casi in cui l’interesse ad agire e la legittimazione ad agire si
sovrappongono, anche se sono due nozioni concettualmente separate.

La legittimazione si dà poi, alle volte, anche al Pubblico Ministero, perché si considera un


interesse di ordine generale: ad es. se il matrimonio è nullo, seppur il PM non dovrebbe
entrarci niente, per una questione di pubblico interesse può sollevare anch’egli la nullità del
matrimonio. Questo perché ci sono dei diritti, seppur di natura civilistica, hanno una
rilevanza pubblica, sociale, super-individuale, e quindi per questi si immagina di avere un PM
anche nel processo civile, anche se è una figura presente nel processo penale. Tutte le volte

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

che il PM agisce nel processo civile, chiaramente, agisce in qualità di legittimato


straordinario. Il c.p.c. prevede, agli artt.69-70, due possibilità per il PM:

1. In alcuni casi (art.69) il PM ha diritto di azione, proponendo lui stesso il processo


come legittimato straordinario (come nell’art.117 c.c. o come nel caso
dell’interdizione di un incapace)

2. In altri casi (art.70) può partecipare a processi anche dove non abbia azione: in
questi casi non può promuovere il processo ma, anche se promosso da altri, può
comunque intervenire. Questi sono i casi ad es. dello scioglimento del matrimonio
per separazione o divorzio. Il PM partecipa altresì in tutte le cause di Cassazione, che
sono considerate a rilevanza pubblica, perché si dice che la Cassazione ha funzione di
nomofilachia, nel senso che dà il giudizio di interpretazione che può essere applicato
in tutti i futuri processi.

L’ultimo fenomeno che riconduciamo alla sostituzione processuale è l’azione diretta, che
muove da un fenomeno di obbligazioni che si intersecano (per es. obbligazione tra A e B e
obbligazione tra B e C: B è il punto di congiunzione tra le due obbligazioni; l’azione diretta è
l’azione che si attribuisce ad A per agire contro C). Questo fenomeno si ha nella locazione
(art.1595 c.c.) e nell’appalto (art.1666 c.c.): nella locazione succede che io ho un immobile
che do in locazione a Tizio, che lo concede in sublocazione a Caio; stessa cosa nell’appalto.
Queste ipotesi danno l’azione diretta rispettivamente al locatore per agire contro il
subconduttore, ma anche viceversa. È ovviamente anch’essa un’ipotesi di legittimazione
straordinaria dell’art.81 c.p.c., che dà luogo a litisconsorzio necessario.

Arriviamo infine alla terza categoria, quella di litisconsorzi necessari “propter oportunitate”.
Sullo sfondo di questo tema sta una questione che ha una sua logica: esistono dei contratti
plurisoggettivi, per es. quelli in cui vi sono obbligazioni solidali, che vedono più concreditori o
condebitori; se si analizza questo fenomeno da un punto di vista processuale, ci si deve
chiedere se al contratto plurisoggettivo corrisponda o meno un processo plurisoggettivo. Se
si risponde di sì, ci si trova davanti un novero di ipotesi di litisconsorzio necessario derivanti
da qualunque ipotesi in cui vi sia un contratto plurisoggettivo; ma se si risponde di no, ci si
deve allora chiede se – e in che misura, e con quali limiti – ho, nei casi di obbligazioni solidali,
l’obbligo di instaurare un litisconsorzio necessario o se il litisconsorzio degradi a facoltativo.

Per rispondere guardiamo l’art.1306 c.c., che riguarda gli effetti di una sentenza pronunciata
per le obbligazioni solidali; questa disposizione è pensata per risolvere il problema attinente
ai limiti soggettivi della cosa giudicata. Questa disposizione esclude che possa darsi una
corrispondenza tra plurisoggettività di diritto sostanziale e processuale, escludendo che vi sia
litisconsorzio necessario ogni qualvolta vi sia obbligazione solidale. Nella misura in cui questa
disposizione ci dice che la sentenza pronunciata nei confronti di un creditore o debitore non

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

ha effetto sugli altri, implicitamente vuol dire che posso fare un processo anche solo contro
uno dei debitori o creditori, il che quindi implica che l’obbligazione solidale non dà
litisconsorzio. Il problema quindi relativo alla corrispondenza della plurisoggettività
sostanziale e processuale è risolto dall’art.1306, che esclude che vi sia corrispondenza.

Data questa regola, però, possiamo immaginare anche un’eccezione; infatti questo tipo di
ragionamento può funzionare per le azioni di condanna, ma se l’azione che faccio valere in
processo è costitutiva (per es. non chiedo il risarcimento, ma la risoluzione del contratto),
essa coinvolge il rapporto in quanto tale. A seguito di una sentenza costitutiva, è difficile dire
che gli effetti della sentenza non investono anche gli altri creditori o debitori. Escluso in linea
generale il litisconsorzio nelle obbligazioni solidali, si può dire che propter oportunitate si
può immaginare un litisconsorzio necessario quando nel processo, in relazione a queste
obbligazioni, viene fatta valere un’azione costitutiva, per un principio di non contraddizione
dell’ordinamento.

Per quanto riguarda il litisconsorzio facoltativo (art.103 c.p.c.), esso consiste nella possibilità
che hanno le parti di cumulare in un unico processo più diritti relativi a più soggetti. Questa
possibilità si ha quando la lite coinvolge più soggetti e vi sono delle connessioni. La legge
prevede una forma atipica di connessione, che è l’identità di questioni: quando ho identità di
questioni non ho connessione, ma è una situazione parificata. Ciò si ha quando la decisione
dipenda dalla risoluzione di un problema giuridico che è comune a tutte le controversie. Per
es. si immagini un datore di lavoro che licenzi contestualmente 10 dipendenti; qui non vi è
connessione in senso proprio, perché ognuno dei lavoratori ha un proprio contratto di lavoro
col datore di lavoro, ma se tutti vengono licenziati per lo stesso motivo e tutti impugnano il
licenziamento, per capire chi ha ragione e chi ha torto bisogna risolvere dei problemi
giuridici di fondo che varranno per la risoluzione di tutte le singole controversie dei
lavoratori con il datore di lavoro. Si ha quindi la possibilità di cumulare le cause in tutte le
ipotesi di connessione o comunque quando vi sia identità di questioni.

Si può porre il problema del se non vi è in alcuni casi l’opportunità di separare le cause che
partano cumulate. La separazione si può chiedere: 1) su istanza congiunta delle parti; 2)
quando il giudice ritiene che il processo renderebbe più gravoso il processo. Può residuare
dunque la possibilità di separare le cause ove il cumulo si ritenga non correttamente dato
(art.103 comma 2 c.p.c.). è una norma scarsamente utilizzata.

Le altre tre figure che danno litisconsorzio sono:

1. Intervento volontario di un terzo (art.105): si riconosce la libertà ai terzi di


intervenire volontariamente nei processi degli altri. Il terzo può intervenire - contro

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

tutti o contro alcuni - solo quando sia titolare di un diritto che sia connesso con quelli
che si fanno valere nel processo. Vi sono tre diverse ipotesi di intervento; i primi due
sono disciplinati dall’art.105 comma 1, mentre il terzo tipo dal comma 2:

 Intervento principale: avviene nei confronti di tutte le parti del processo; es.
io faccio causa a Tizio sostenendo che l’immobile di via Mattioli è mio; Tizio si
costituisce dicendo che è suo. Interviene Caio dicendo che l’immobile è suo. Il
diritto che fa valere l’interveniente lo fa valere contro tutte le parti, perché
esclude i diritti fatti valere dalle altre parti.

 Intervento litisconsortile: avviene nei confronti solo di alcune delle parti del
processo; es. io investo Tizio e Caio per strada; Tizio mi fa causa per il
risarcimento dei danni. Caio, venendo a conoscenza della causa, si unisce a
Tizio e mi fa causa a sua volta. L’intervento è contro solo una delle parti.

 Intervento ad adiuvandum/adesivo-dipendente: avviene quando una parte


sia titolare di una situazione dipendente da quella fatta valere in giudizio e ha
interesse a fare valere le ragioni di una parte, quindi interviene per aiutarla
nell’attività processuale. L’interveniente qui non fa valere un suo diritto, ma si
limita ad aiutare una delle parti nell’esercizio della propria difesa, sperando
che così abbia più chance di ottenere successo, perché anch’egli vi ha
interesse. L’interesse dev’essere in senso proprio, non basta un interesse
generico, per cui anche qui è necessaria una connessione.

Mentre la distinzione tra intervento principale e litisconsortile è una


distinzione teorica, la distinzione con l’intervento ad adiuvandum è netta
perché l’interveniente non fa valere un proprio diritto, ma interviene per
aiutare altri. Allora qui si pone un problema relativo ai poteri processuali che
si possono attribuire all’interventore. Se io intervengo in via principale o
litisconsortile, facendo valere nel processo un mio diritto, divento anch’io
parte del processo, e come tale avrò tutti i poteri processuali delle parti (a
condizione che non siano maturate delle preclusioni); questo stesso discorso
non si può fare per colui che interviene ai sensi del 2° comma, perché egli
interviene non facendo valere un proprio diritto, ma solo per aiutare uno dei
litiganti; costui non avrà quindi tutti i poteri delle parti. Secondo un’idea di
Proto-Pisani, possiamo risolvere il problema dei poteri dell’interventore in
questo secondo caso per analogia dall’art.72 c.p.c., che regola i poteri del PM:
se il PM ha azione, ha tutti i poteri delle parti, mentre se è un processo in cui il
PM ha solo potere di intervento, allora ha i soli poteri previsti dal comma 2
dell’art.72 (produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni nei
limiti delle domande proposte dalle parti). questa disposizione per analogia si
applica anche all’interventore adesivo-dipendente. In sintesi ci dobbiamo

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

chiedere se l’interventore ad adiuvandum, nel caso concreto, abbia o non


azione per quel processo: se rispondiamo di sì, dobbiamo dire che egli ha tutti
i poteri delle parti; se rispondiamo di no, applichiamo per analogia il 2°
comma del 72, come più sovente accade. Tra i poteri che non competono
all’interventore adesivo-dipendente c’è il potere di impugnazione della
sentenza, per cui l’interventore ad adiuvandum non potrà fare ricorso in
Appello o in Cassazione.

Gli artt.267-268 c.p.c. riguardano le modalità di intervento di terzi in una causa: il primo
riguarda la costituzione di un terzo interveniente, che deve redigere una comparsa di
risposta – come il convenuto -. L’intervento può essere fatto in udienza o in cancelleria, nel
quale ultimo caso il cancelliere dà notizia dell’intervento alle altre parti. questa disposizione,
rimasta inalterata, è stata un po’ stravolta dal Processo Civile Telematico, che ha previsto la
costituzione in via telematica, quindi tendenzialmente fuori dall’udienza. La seconda
disposizione riguarda i termini per l’intervento: non esistono termini di preclusione, nel
senso che il terzo interventore può intervenire in qualunque momento del processo, fermo
restando che se interviene in un certo momento del processo in cui sono scattate delle
preclusioni per le parti queste si applicano anche a lui (a meno che non sia un litisconsorte
necessario pretermesso). Si dice infatti che l’intervento può aver luogo sino a che non
vengano precisate le conclusioni (cioè praticamente per tutto il processo). Se noi diciamo
che il terzo ha le stesse preclusioni delle parti, bisogna rivedere quali sono le preclusioni
delle parti: per es. entro quando si possono fare valere delle domande? Per l’attore con
l’atto di citazione, per il convenuto con la comparsa di risposta. Se si sta rigorosamente alla
lettera del 268, di fatto per l’intervento del primo comma (intervento principale), dove vi è
da fare una domanda, si dovrebbe dire che l’interveniente o interviene 20 gg prima
dell’udienza o non può più intervenire perché sono trascorsi i termini per la domanda;
questa rigidità di schema quindi non è fatta propria dalla giurisprudenza, per favorire il
simultaneo processo, perché se no si instaurerebbero due cause diverse per poi chiedere
eventualmente la riunione.

2. Partecipazione del terzo su istanza di parte (art.106): normalmente avviene ad


opera del convenuto. Le fattispecie che legittimano l’intervento (fattispecie di
connessione) sono le stesse che legittimano una parte a chiamare in causa un terzo. Il
primo soggetto che può chiamare un terzo in causa è il convenuto, ma può chiamarlo
anche l’attore in prima udienza quando l’esigenza è sorta dalla difesa del convenuto;
infine però può essere chiamato anche da un terzo che, costituendosi, si costituisce
come convenuto. Per es. Tizio vende un immobile a Caio, che ad un certo punto
ritiene che la compravendita sia nulla. Caio fa causa a Tizio perché sia reso nullo il
contratto. Tizio sostiene che il contratto sia valido e, nell’ipotesi in cui non sia valido,
chiama in causa il notaio, che ha controllato il contratto come atto pubblico. Il notaio
è un terzo ma, costituendosi, diventa al tempo stesso un convenuto. A sua volta può
chiamare anch’egli un terzo, dicendo ad es. che l’atto è valido ma, dato che la

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

scrittura dell’atto avviene sulla base di una perizia tecnica, se l’atto è invalido non è
colpa del notaio ma di chi ha sostenuto la perizia tecnica, quindi il notaio chiama in
causa il geometra.

Il 167, nella parte in cui disciplina la chiamata di un terzo in causa da parte del
convenuto, fa riferimento per la procedura al 269: il convenuto che vuole chiamare in
causa un terzo deve farne dichiarazione nella comparsa di risposta – a pena di
decadenza – e nel contempo deve chiedere al giudice il differimento della data della
prima udienza. Il giudice prende atto che il convenuto vuole chiamare un terzo e
differisce l’udienza, nel rispetto sempre nei 90 gg che sono i termini a comparire per
le parti. Il convenuto che ha chiesto la chiamata di un terzo deve poi, con citazione,
chiamare il terzo in causa e comunicargli la data della prima udienza.

Questa disposizione è riferita al convenuto perché, se il terzo è chiamato dall’attore,


si applica il meccanismo di chiamata del 269 comma 3: mentre nel 2° comma è un
atto dovuto del giudice dare differimento dell’udienza, e la chiamata non è oggetto di
autorizzazione del giudice, nell’ipotesi del 3° comma la chiamata è subordinata ad
un’autorizzazione del giudice, che potrebbe anche non essere concessa.

Se il terzo è chiamato da un terzo (nell’es. il geometra chiamato dal notaio) quale


disciplina si applica? Secondo il prof, dovrebbe essere applicata quella del convenuto
in quanto il terzo, costituendosi, diventa convenuto; tuttavia, contrariamente, per
motivi di controllo del processo perché altrimenti si rischierebbero chiamate a
catena, si ritiene che il terzo che chiami un terzo debba essere sempre autorizzato dal
giudice, così come dev’essere autorizzato l’attore. Ciò si ritrova anche nell’art.271:
pur costituendosi come un convenuto, il terzo può chiamare in causa un altro terzo
solo previa autorizzazione del giudice.

3. Partecipazione del terzo per ordine del giudice (art.107): il giudice può coinvolgere
un terzo nel processo. Il 107 si contrappone al 102 anche se i meccanismi sono
analoghi: infatti il giudice non usa questo strumento se siamo in presenza di un
litisconsorte necessario pretermesso, ma usa i meccanismi del 102; il 107 è utilizzato
per casi in cui non vi è un litisconsorzio necessario ma per questioni di opportunità,
quindi si tratta di una valutazione discrezionale che può fare il magistrato. Sarebbe
corretto che il magistrato motivi l’estensione del contraddittorio, ma spesso non
avviene. Questa disposizione non c’era nel codice del 1865, che era un codice liberale
e quindi più propenso ad attribuire forti poteri al giudice; c’è invece nel nostro
codice, più pubblicistico, e ciò sembra strano, perché sostanzialmente col 107 si
costringe qualcuno ad entrare in una controversia nella quale magari non voleva
nemmeno entrare, in violazione anche ai principi liberali che stanno nel codice
(diritto di azione, corrispondenza tra chiesto e pronunciato etc.). Nessuno ha mai
pensato che attribuire questo potere al magistrato risulti incostituzionale, perché in

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

concreto il magistrato non utilizza mai questo potere per imporre a qualcuno di
litigare con qualcun altro. Spesso invece il magistrato usa questo potere – pur raro –
per accontentare le richieste di una parte che magari nel frattempo ha perso il diritto
di chiamata (perché è trascorso il termine ed è decaduto da questo diritto per es. per
una dimenticanza). Il giudice può chiamare infatti un terzo in causa fino al momento
delle conclusioni, quindi sostanzialmente per tutta la durata del processo. Un’altra
applicazione pratica del 107 si ha quando una parte erra nell’individuazione del
soggetto passivo: per es. in un condominio l’amministratore ha da riscuotere la retta
condominiale e chiama in causa uno dei condomini pensando che non abbia pagato;
in realtà magari chi è tenuto al pagamento non è il condomino in veste di
proprietario, ma l’eventuale usufruttuario. Allora per non obbligare la parte a fare
partire un nuovo processo, il giudice può ordinare l’integrazione del contraddittorio
col soggetto passivo corretto. Il 107, comunque, è stato una disposizione scarsamente
applicata. Quando ciò avviene il giudice rinvia la causa, la parte che è interessata
chiama il terzo e il giudice verifica che vi sia ottemperanza all’ordine di integrazione
del contraddittorio. Il soggetto che interviene, ancorché per ordine del giudice, non
può pretendere che siano ripetute le attività processuali e trova il processo nello
stato in cui è da un punto di vista delle preclusioni e delle decadenze (in quanto non è
un litisconsorte necessario).
Conferma tutto ciò l’art.270 c.p.c. Si noti che, nell’ipotesi in cui la parte non
ottemperi all’ordine di integrazione del contradditorio (ex art.102), il giudice dispone
(ai sensi dell’art.307) l’estinzione del processo; qui invece non si dichiara l’estinzione
del processo, ma si dispone la cancellazione della causa dal ruolo (2° comma art.270).
La differenza è che il processo cancellato dal ruolo è inattivo ma non è estinto, per cui
la parte ha ancora tre mesi per assumere il processo cancellato dal ruolo, che così
riprende vita. Se invece la parte, nei tre mesi successivi alla dichiarazione di
cancellazione dal ruolo, non riattiva la causa, essa viene definitivamente dichiarata
estinta. La riassunzione nei tre mesi dev’essere fatta con il coinvolgimento della parte
di cui il giudice aveva già ordinato la presenza, ma che nessuna delle parti aveva
chiamato.

SUCCESSIONE NEL PROCESSO

Le norme che riguardano il tema della successione nel processo sono gli artt.110-111 c.p.c.,
che trattano rispettivamente successione universale nel processo e successione particolare
nel diritto controverso.

La successione universale si applica quando, pendente il processo, una parte viene meno
(per la parte persona fisica per morte; per la parte persona giuridica per il venir meno della
persona giuridica, ad es. fallimento della società). Un altro esempio può aversi nel caso in cui
inizio una controversia con un minorenne che nel frattempo diventa maggiorenne: mentre
prima il minore stava in giudizio con il genitore o il tutore, da maggiorenne sta in giudizio da

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

solo; oppure nel caso in cui inizio una controversia con un soggetto che viene poi dichiarato
interdetto. È un fenomeno raro ma a volte avviene, per cui in tali casi vi è la disciplina del
110: il processo viene proseguito dal successore universale. Questo meccanismo passa
attraverso l’interruzione del processo (artt.299 ss. c.p.c.): l’interruzione è una delle patologie
del processo (insieme all’estinzione e alla sospensione) legata appunto alla successione
universale. Gli artt.299-300 distinguono il caso della parte non ancora costituita dal caso di
quella costituita o contumace. Nei tre mesi successivi all’interruzione, se il successore
prosegue o riassume il processo, esso riprende vita, altrimenti si estingue per inattività della
parte (art.305 c.p.c.).

Un fenomeno più complesso è la successione a titolo particolare nel diritto controverso


(art.111 c.p.c.): il fenomeno è quello che si ha quando, pendente un processo, viene alienata
la res litigiosa. Per es. lite sull’immobile di via Mattioli tra Tizio e Caio; Tizio vende, pendente
la lite, l’immobile a Sempronio. La res litigiosa, ovvero il bene oggetto della lite, è stato
alienato durante la controversia. A seguito di questo fenomeno si possono fare due cose:
una, più radicale, è di vietare l’alienazione della res litigiosa, ma questa non è stata la scelta
del legislatore; questo perché si rischia così di fare dal danno all’economia. Si potrebbe
altresì operare un’altra scelta radicale, ovvero quella di applicare tout court le regole del
processo, per cui a seguito dell’alienazione si dovrebbe ri-iniziare il processo con
l’acquirente, il che potrebbe creare delle conseguenze di dilazione all’infinito della
controversia. Una soluzione più razionale, intermedia ed equilibrata, è stata operata dal
legislatore nell’art.111: la successione avviene solo sul diritto controverso.

La scelta che il legislatore fa nel 111 è una scelta di compromesso tra il consentire la
negoziazione di beni litigiosi e l’evitare di bloccare e far ripartire il processo. Il primo comma
del 111 dice che, se nel corso del processo avviene l’alienazione di un diritto controverso, il
processo prosegue tra le parti originarie. Il terzo comma aggiunge che in ogni caso il
successore a titolo particolare (chi ha acquistato il bene) può intervenire nel processo o
volontariamente o essendo chiamato dalle parti. La regola è quindi che il processo prosegue
tra le parti originarie ma comunque chi compra può intervenire nel processo. Il quarto
comma prosegue dicendo che la sentenza spiega i suoi effetti anche contro il successore a
titolo particolare: al di là di quello che egli faccia, la sentenza produrrà effetti anche nei suoi
confronti e potrà essere altresì da lui impugnata. Questo è un unicum perché, non
partecipando al processo, non sarebbe tra le sue facoltà quella di impugnare la sentenza, ma
in questo caso si conferisce questo potere anche al successore a titolo particolare perché
viene considerato come fosse una parte. Nel caso in cui intervenga nel processo, nessun
problema perché è effettivamente un processo a pluralità di parte.

Quando abbiamo il trasferimento del diritto controverso tra vivi del diritto particolare?

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

 Per atto tra vivi si intende un negozio – ovviamente – non mortis causa, perché se il
passaggio della proprietà è per causa di morte non si applicherebbero le regole del
111 ma ci sarebbe l’interruzione del processo.

 Per titolo particolare si intende qualcosa che si oppone al titolo universale, e spesso il
titolo particolare si accompagna all’atto tra vivi. Però può succedere che l’atto a titolo
particolare sia anche mortis causa, e in tal caso si parla di legato (per es. Tizio lascia a
Caio in legato un determinato bene oggetto di una controversia). Da un certo punto
di vista questa fattispecie rientrerebbe nel 111, perché è una successione a titolo
particolare, ma non nel disposto del primo comma, bensì del secondo comma: se il
soggetto muore ma l’oggetto della controversia è oggetto di un legato, il legislatore
sceglie che il processo prosegue a carico del successore a titolo universale (quindi
l’erede, non il legatario).

 Infine per diritto controverso si intende il diritto oggetto della lite. Per avere
successione a titolo particolare nel diritto controverso, devo effettivamente alienare
il diritto controverso: essendo rigorosi nell’interpretare questa disposizione, si
afferma che si ha successione nel diritto controverso quando vi è una totale
corrispondenza tra l’oggetto della lite e l’oggetto del negozio, ma questa posizione
ridurrebbe fortemente il campo di applicazione dell’art.111. Secondo un’altra
interpretazione bisogna quindi interpretare più elasticamente questa norma,
ritenendo che vi rientrino tutti i casi in cui vi è una consequenzialità logica tra
l’oggetto della lite e l’oggetto del negozio, ovvero tutti i casi in cui la conseguenza
della lite incide sul diritto di proprietà. Ancorché in queste ipotesi non vi sia perfetta
corrispondenza tra l’oggetto del processo e quello del contratto, l’esito della lite ha
una conseguenza sul contratto, quindi la giurisprudenza estende in maniera più
elastica questa interpretazione del 111. Proto-Pisani la pensa esattamente al
contrario.

Continuando con il quarto comma del 111, si fanno salve le norme sull’acquisto di beni
mobili e sulle trascrizioni: tutto il meccanismo suddetto si applica solo nei casi in cui non sia
da applicare la disciplina sull’acquisto in buona fede dei beni mobili e quello sulla
trascrizione de beni immobili. Se io cedo un bene mobile oggetto del processo, io non
applico il 111 ma il 1153; mentre se cedo un bene immobile, applico la disciplina in punto di
trascrizione. L’art.111 si applica solo quando queste discipline non siano applicabili. Sotto
questo profilo, quindi, la portata applicativa di questa disposizione si riduce fortemente.
L’art.1153 afferma che “possesso vale titolo”: chi possiede un bene mobile si presume
proprietario: per es. Tizio e Caio litigano per un quadro in possesso di Caio, che lo vende a
Sempronio, che lo acquista in buona fede; alla fine del processo il giudice dice che il quadro è
di Tizio. Allora chi è il proprietario effettivamente? In base all’art.111 dovrebbe essere Tizio,
perché il successore a titolo particolare (Sempronio) subisce gli effetti della sentenza; ma
Sempronio, invocando il quarto comma, potrebbe sostenere che questa disciplina non si

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applica in quanto si fanno salvi gli acquisti dei beni mobili in buona fede. Ma allora come si
tutela la parte che ha ragione? Si può certamente chiedere il risarcimento del danno al
venditore (Caio), ma per situazioni di questo tipo esiste un istituto, il sequestro giudiziario
(art.670 c.p.c.), cioè si chiede che il giudice sequestri il bene, lo dia ad un custode e lo
consegni a chi risulti essere vincitore della lite (quindi il sequestro giudiziario si deve
chiedere prima della controversia); questo per evitare situazioni fraudolente. Per i beni
immobili invece vale un’altra disciplina: per i beni immobili esiste la trascrizione delle
domande (art.2652-2653 c.c.): normalmente la domanda giudiziaria si può trascrivere per
tutti i diritti soggetti a trascrizione e anche per tutti gli atti che hanno ad oggetto diritti reali.
Es. Tizio e Caio litigano per l’immobile di via Mattioli, che viene ceduto da Caio a Sempronio,
ma alla fine il giudice dà ragione a Tizio. Ai sensi del 111 il proprietario effettivo dovrebbe
essere Tizio, ma anche qui non si applica il 111 perché per i beni immobili si guarda alla
disciplina della trascrizione, che sostanzialmente attribuisce il diritto a chi ha trascritto per
primo. Trascrivere la domanda, quindi, assicura all’attore l’esito del giudizio.

Ma premesso che i beni o sono mobili o sono immobili, quando si applica allora il 111? Ci
sono una serie di casi che non godono della salvezza del quarto comma, che ricaviamo dagli
orientamenti della giurisprudenza:

 Le universalità di beni mobili, che non soggiacciono alla disciplina del 1153;

 La cessione di un contratto o di un credito;

 La cessione dell’azienda, che è un insieme di beni mobili che stanno in collegamento


per l’attività imprenditoriale, a cui però non si applica la disciplina del 1153; la
cessione dell’azienda può portarsi dietro anche la cessione di altri diritti collegati, per
es. crediti o contratti di lavoratori dipendenti.

 Le obbligazioni propter rem, “che seguono la cosa”: per es. io litigo col mio vicino per
delle piantagioni che egli ha piantato in violazione delle distanze consentite; io ho
chiesto l’abbattimento di queste piante. Pendente questa lite, io vendo l’immobile.
Anche questa è una successione a titolo particolare nel diritto controverso: sarà il
nuovo proprietario a dover continuare questa lite.

FASE ISTRUTTORIA

Il processo civile, come già detto, si divide in tre fasi: 1) trattazione; 2) istruzione; 3)
decisione. La fase istruttoria consiste nell’assunzione dei mezzi di prova; a sua volta essa è
divisa in tre sottofasi, ovvero l’ammissione dei mezzi di prova, l’escussione o assunzione dei
mezzi di prova e la valutazione dei mezzi di prova. I mezzi di prova sono strumenti con cui si
può verificare l’autenticità di un fatto, e sono tipicamente previsti dalla legge.

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

Per quanto riguarda l’ammissione dei mezzi di prova, la trattazione si era conclusa con le
memorie. La palla passa in mano al giudice che deve appunto ammettere i mezzi di prova: il
7° comma dell’art.183 c.p.c. dice che il giudice fissa un’ulteriore udienza, successiva alla
prima udienza ex 183, dove dà inizio all’attività istruttoria, ammettendo le prove ammissibili
e rilevanti. Nel fare questo deve selezionare il materiale, quindi tra tutti i fatti che gli
avvocati hanno scritto tra le memorie deve valutare quali sono quelli rilevanti; in via
generale, il fatto è rilevante in questa fase se il fatto è controverso tra le parti, perché se non
è controverso nel processo civile il giudice lo può dare per vero – in quanto non ha su questi
fatti non controversi potere d’indagine, come il giudice penale -. Se il fatto è controverso,
inoltre, è rilevante il fatto che, a seconda che sia in modo o in un altro, cambia la decisione
del giudice. Il mezzo di prova dev’essere inoltre ammissibile: per ammissibilità si intende
che, nel nostro sistema, i mezzi di prova sono quelli tipici previsti dalla legge, e non sono
ammissibili ulteriori mezzi di prova. L’ammissibilità sta dunque alla tipicità dei mezzi di prova.
Ci sono però delle eccezioni: le prove scientifiche (per es. il DNA), pur non previste nel
codice, sono tuttavia utilizzabili.

Preliminare alla seconda fase è la disciplina dell’onere della prova: vi è un riparto dell’onere
della prova tra l’attore e il convenuto, sulla quale base si fonda il concetto di prova diretta e
prova contraria, e che trova il proprio fondamento nell’art.2697 c.c.: l’attore deve provare i
fatti costitutivi del diritto che fa valere in giudizio; il convenuto deve provare i fatti impeditivi,
estintivi, modificativi del diritto stesso. Questa norma impone la prova alle parti e seconda
del tipo di fatto (costitutivo oppure impeditivo ecc.); questo implica peraltro che, se un fatto
che doveva essere provato non è effettivamente stato provato al termine del processo, il
giudice deve dare ragione alla parte a cui non spettava l’onere della prova. Quindi a norma
da una parte ha valore precettivo, nel senso che impone la prova ad una delle parti, ma
dall’altra fissa anche un criterio di giudizio per il giudice. Questa disposizione serve anche a
stabilire la rilevanza del fatto: il giudice deve ritenere rilevanti quei fatti che abbiano natura
di fatti costitutivi, impeditivi, estintivi o modificativi. L’indagine per stabilire se certi fatti
hanno questa natura compete ovviamente al magistrato; non sempre la cosa è semplice,
infatti su tante questioni non esistono neanche interventi giurisprudenziali uniformi e
pacifici.

1. I fatti costitutivi sono quei fatti che servono per affermare che il diritto esiste; li
ricaviamo dai principi dell’ordinamento sostanziale. Per es. io devo avere da
Tizio 10.000 euro perché un credito nei suoi confronti; il fatto costitutivo è
l’esistenza del credito stesso, quindi devo dimostrare ad es. che c’è un
contratto su cui si basa il mio credito.

2. I fatti estintivi o modificativi si ricavano anch’essi dalla legge sostanziale; più


difficile è l’individuazione di un fatto impeditivo.

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 I fatti estintivi sono quei fatti che estinguono il diritto (per es.
adempimento, remissione del debito, compensazione, confusione,
impossibilità sopravvenuta, prescrizione).

 I fatti modificativi sono fatti che fanno venir meno qualcosa in favore di
qualcosa di diverso (per es. novazione e transazione).

 I fatti impeditivi, che pongono un problema relativo al fatto che spesso


non si sa per certo se il fatto impeditivo in senso affermativo è tale o se la
negazione del fatto costitutivo è tale, e questo ha importanti riflessi
perché l’onere della prova passerebbe dall’una o all’altra parte. Per es. la
buona fede: se in una fattispecie emerge la buona fede, chi la deve
provare? Si può interpretare come prova positiva della presenza della
buona fede o anche in senso negativo come assenza della mala fede.
Oppure ancora la colpa o la gratuità. Per es. appunto la gratuità o
l’onerosità nei contratti di mandato o di deposito: a volte è il diritto
positivo che ci dà la soluzione. L’art.1709 dice che “il mandato si presume
oneroso”; allora l’onerosità non va provata, va provata eventualmente
dall’altra parte il fatto impeditivo che il mandato nel caso specifico fu
convenuto come gratuito. Il 1777 dice invece che “il deposito si presume
gratuito”: anche qui si inverte l’onere della prova, cioè non va provata la
gratuità ma l’onerosità come fatto costitutivo.

Altre due disposizioni da analizzare sono l’art.1146 comma 3 e l’art.534


comma 2 sulla buona fede: secondo il 1146 “la buona fede è presunta”,
quindi eventualmente è la controparte che deve provare che l’attore è in
mala fede (la mala fede diventerebbe così fatto impeditivo); regola inversa
vale nel 534, che dice – nell’ambito dell’acquisto dall’erede apparente -
che si può comprare un bene dall’erede apparente ma si deve provare di
aver fatto il contratto in buona fede (la buona fede quindi diventa fatto
costitutivo).

Anche la colpa va disciplinata diversamente a seconda che essa riguardi la


responsabilità contrattuale (1218) o extracontrattuale (2043): il 2043 dice
che qualunque fatto doloso o colposo che cagioni ad altri un danno
ingiusto obbliga chi ha commesso il fatto a risarcire il danno: in questo
caso si deve provare la colpa, perché altrimenti non si ha il diritto a
risarcire il danno; nel 1218 basta la prova dell’inadempimento, ma la
controparte può al più provare che l’inadempimento non deriva da sua
colpa. La colpa, dunque, nel primo caso è fatto costitutivo, nel secondo è
fatto impeditivo.

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Nelle obbligazioni, i principali fatti impeditivi sono l’annullamento del


contratto, la rescissione o la risoluzione. Se io per es. voglio sostenere che
il contratto è annullabile per incapacità naturale della parte, chi deve
provare l’incapacità? La norma non ci aiuta, allora la giurisprudenza dà un
criterio, quello dell’id quod plerumque accidit: si deve vedere quello che
normalmente accade, e ciò non va provato, in quanto è la regola, mentre
la prova cade sull’eccezione. In questo caso la normalità è che i contratti
siano sani, non viziati; ciò che può essere l’eccezione è che vi sia vizio della
volontà. inoltre la giurisprudenza ha creato un altro criterio, quello della
vicinanza della prova: spesso un fatto attiene maggiormente alla sfera di
una delle due parti, quindi l’onere della prova spetta alla parte a cui il fatto
è più vicino.

Per distinguere i fatti impeditivi da quelli costitutivi, quindi, ci sono volte in


cui ci aiuta la legge e in quei casi non si può fare altro che seguire i dettami
di legge; se l’indicazione non è data dalla legge, si seguono i due criteri
generali dati dalla giurisprudenza. Tutti questi criteri ermeneutici possono
lasciare ovviamente degli spazi di discrezionalità, e questo però rientra
nella discrezionalità del magistrato, che deve usarli con prudenza, serietà
ed equilibrio e soprattutto equidistanza dalle parti.

L’ultima disposizione da analizzare è l’art.2698, che parla dei patti relativi


all’onere della prova. Le disposizioni processuali, pur disciplinando diritto
privato, hanno natura di norme di diritto pubblico, e come tali non
possono essere derogate, ma ci sono delle eccezioni: alcune volte il
legislatore autorizza la parte a derogare anche a norme di diritto pubblico,
si pensi ad es. alla deroga della competenza. È possibile anche invertire le
regole dell’onere della prova nei limiti di cui all’art.2698: nel contratto si
dice che, se le parti si troveranno in una controversia, certi fatti li proverà
una parte piuttosto che un’altra. In quei casi il giudice deve attenersi, nella
sua pronuncia, al rispetto del patto sull’onere della prova. I limiti a questo
patto sono il fatto che non può attenere a diritti indisponibili ma
soprattutto che non può dare il risultato di creare una probatio diabolica.

Tornando all’ammissione della prova, si è detto che il giudice deve valutare la rilevanza e
l’ammissibilità della prova secondo il principio della non contestazione. Troviamo conferma
di ciò nella disposizione che regola in via generale le prove, ovvero l’art.115 c.p.c., rubricato
“Disponibilità delle prove”: il giudice non può ammettere che i mezzi di prova che le parti
hanno chiesto e non può indagare d’ufficio la verità dei fatti. Il giudice non può fare uso della
scienza privata, nel senso che non può porre a fondamento della decisione un fatto
extraprocessuale che pur conosce; può però, ai sensi del 2° comma, utilizzare i fatti notori,
ovvero i fatti di pubblico dominio che, come tali, non hanno bisogno di mezzi di prova. C’è

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ovviamente un margine di relatività, dato dal fatto che ci sono certi fatti comunque
discutibili. Il 115 comma 1 ci dice che il giudice, peraltro, non ha bisogno della prova del fatto
non contestato, come già abbiamo detto. Viceversa, se il fatto non è notorio e non è
controverso, ha bisogno di essere provato secondo i criteri dell’onere della prova; il giudice
può ammettere solo le prove richieste dalle parti, salvo i casi previsti dalla legge. La norma
fornisce quindi sia la regola che l’eccezione: ci sono disposizioni che danno il potere al
giudice di disporre delle prove d’ufficio. I casi nei quali il giudice può ammettere d’ufficio
una prova sono:

 Art.117 c.p.c., che riguarda l’interrogatorio non formale delle parti. Infatti nel nostro
sistema ci sono due tipi di interrogatorio, quello formale e quello non formale o
libero; quello non formale può essere ammesso d’ufficio dal giudice, senza istanza o
sollecitazione delle parti. Ancorché in forma libera, è ovvio che l’interrogatorio avrà
degli effetti sul processo, potendo condizionare il convincimento del giudice sulla
verità di un fatto oppure no.

 Art.118 c.p.c., che riguarda l’ordine di ispezione di persone e cose: può accadere
che, per accertare la verità di un fatto, sia necessario fare un’ispezione; è un potere
che la legge attribuisce in via ufficiosa al giudice.

 Art.213 c.p.c., relativo alla richiesta di informazioni alla p.a.: per accertare un fatto
più compiutamente, alle volte, possono essere d’aiuto delle informazioni che il
giudice può ottenere d’ufficio dalla p.a. L’uso più frequente di questa norma è nei
divorzi, nei quali è necessario per definire l’importo dell’assegno divorzile avere una
documentazione precisa sul reddito di una delle parti.

 Artt.257 comma 2, 254 e 281-ter c.p.c.: queste disposizioni attengono alla prova
testimoniale, prova di particolare importanza. La regola è che può essere disposta
dal giudice solo su istanza di parte, ma in queste tre ipotesi in via d’eccezione il
giudice può ammettere d’ufficio la prova testimoniale. Nel 257 comma 2 si fa
riferimento a prove testimoniali già assunte, su cui però il giudice ha necessità ad es.
di un chiarimento, oppure a prove testimoniali che il giudice non ha assunto in
principio perché le ha ritenute superflue ma sulle quali ha un ripensamento. Nel
primo comma invece si dice che il giudice può disporre d’ufficio una prova
testimoniale nei confronti di una persona cui ha fatto riferimento, per la conoscenza
dei fatti, il teste. Il 254 riguarda la divergenza fra due prove testimoniali già state
effettuate: in tali casi, per valutare meglio, il giudice ha necessità di risentirli e
metterli a confronto, e può fare ciò d’ufficio. Infine il 281-ter è una di quelle
disposizioni (del capo terzo-bis) che sono state inserite quando nel 1998 sono state
soppresse le preture ed è stato stabilito che in Tribunale si giudica in composizione
monocratica, salvo casi eccezionali in cui si continua a decidere con il collegio
giudicante. Queste disposizioni regolano il procedimento in Tribunale quando la

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decisione del Tribunale è monocratica (oggi la regola) e si sommano a quelle vigenti


anche per la decisione di un organo collegiale: il 281-ter in particolare si occupa della
prova testimoniale e dice una cosa pressoché identica a quella del 257, quindi si
potrebbe considerare una sorta di doppione. La differenza è che il 257 fa riferimento
al teste, mentre il 281-ter fa riferimento alle parti: si ammette la prova testimoniale
d’ufficio anche quando il riferimento di una persona terza a conoscenza dei fatti è
fatta non dal teste, ma da una delle parti.

 Art.421 c.p.c. che riguarda i poteri istruttori del giudice nel processo del lavoro: il
processo del lavoro risponde ad una filosofia di fondo completamente diversa da
quella liberale, in cui le parti hanno i poteri più forti, perché qui le parti sono su piani
diseguali quindi c’è la necessità che il giudice abbia maggiori poteri per poter
tutelare più efficacemente il lavoratore come soggetto più debole. Il giudice qui può
ammettere d’ufficio tutti i mezzi di prova che ritiene. È più sentito il dovere di
accertare la verità materiale in senso pieno rispetto che nei normali processi civili, in
cui ci si accontenta della verosimiglianza.

Ai sensi del 7° comma del 183, il giudice può anche non ammettere alcuna prova (come da
art.187) quindi si può andare subito in decisione, perché il giudice non ritiene utile e
necessaria la fase istruttoria.

Una volta ammessi i mezzi di prova, essi vanno assunti. I singoli mezzi di prova sono
disciplinati non solo dal c.p.c. ma anche dal c.c. a partire dall’art.2699: le prime prove
disciplinate sono le prove documentali, seguite dalle presunzioni, dalla confessione, dal
giuramento e la prova testimoniale.

 Le prove documentali si dividono in atti pubblici e scritture private; si chiamano


anche prove precostituite perché preesistono al processo.

 Ci sono poi le prove costituende, che si costituiscono nel processo, e sono la prova
testimoniale, gli interrogatori, la confessione, le presunzioni, il giuramento e la
consulenza tecnica.

1) PROVA TESTIMONIALE (artt.2721 ss c.c. e 244 ss. c.p.c.): c’è una differenza tra prova
testimoniale ed interrogatorio: mentre la prova testimoniale è l’interrogatorio latu sensu
di un terzo, che conosce i fatti di causa ma non è parte in causa, l’interrogatorio riguarda
la parte. Se si interroga la parte, essa è sempre interessata, non può essere obiettiva; il
terzo invece dev’essere imparziale, super partes. Quindi l’ulteriore differenza è che il
teste, essendo terzo ed imparziale, ha l’obbligo di dire la verità e, se non lo fa, risponde
del reato di falsa testimonianza, e si impegna a dire la verità con una formula
prestampata che un tempo consisteva in un giuramento, tutto questo non esiste per la
parte, la quale non si impegna a dire la verità e non ha nemmeno l’obbligo di dire la
verità, potendo anche mentire senza rispondere di alcun reato, perché la parte difende i

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propri interessi. Il bilanciamento di questo è che, mentre il giudice è tenuto a credere al


teste, proprio perché egli è imparziale e giura di dire la verità, non è assolutamente
tenuto invece a credere alla parte per motivi opposti. Il sistema quindi si equilibra nel
senso che il giudice ha diritto di non credere alla parte, con la conseguenza che
l’interrogatorio non serve a niente se non nella misura in cui possa provocare la
confessione, di modo che se la parte nell’interrogatorio fa dichiarazioni “contra se” il
giudice ne deve tenere conto. Calamandrei diceva che l’obbligo di dire la verità sta al
diritto di essere creduti: se il sistema ritiene di non darmi credibilità, io sono libero di non
dire la verità; viceversa, se il sistema mi dà credibilità, io ho l’obbligo di dire la verità. La
prova testimoniale, peraltro, non è libera nel nostro sistema processuale, mentre
l’interrogatorio può essere libero: ciò significa che il giudice non può portare nel
processo civile un teste e interrogarlo liberamente, ma egli deve necessariamente e
soltanto rispondere a delle domande precise formulate dalle parti, con capitoli separati,
nelle memorie istruttorie, che il giudice deve singolarmente ammettere (ex art.244
c.p.c.). Il limite a cui è sottoposta la prova testimoniale è dato dal fatto che il processo
civile è stato costruito su una mentalità privatistico-liberale per non rendere troppo
invasiva la cosa per le parti o i testi, quindi è una sorta di garanzia per le parti per evitare
che il giudice, che non ha il potere di ammettere prove d’ufficio, lo faccia di fatto con la
libertà di interrogare il teste come vuole lui.
Quando il giudice fissa l’udienza per la prova testimoniale, se il teste non è presente
l’avvocato deve depositare l’intimazione per ottenere un differimento, un rinvio della
prova testimoniale; se non lo ha, il giudice lo dichiara decaduto dalla prova. Nel caso in
cui sia presente, il teste deve giurare di dire la verità, dopodiché verrà interrogato sulle
domande predisposte dall’avvocato. Possono essere fatte delle domande ulteriori al
teste, ma ovviamente per coerenza devono essere relative alla chiarificazione di
circostanze relative al capitolo di prova che appaiono poco chiare. Delle risposte si fa
processo verbale.
Sulla prova testimoniale gravano dei limiti soggettivi ed oggettivi: ci sono certe persone
che non possono rendere testimonianza (limite soggettivo) o argomenti e fatti sui quali
non può essere resa testimonianza (limite oggettivo). Essendo la testimonianza una
prova meno attendibile di quella documentale, il sistema pone dei limiti alla prova
testimoniale. Per quanto concerne i limiti soggettivi, un primo era nell’art.247 c.p.c. che
riguardava gli stretti parenti: se si è in causa, non si può pretendere che venga resa
testimonianza da un parente stretto perché egli non avrebbe la terzietà richiesta rispetto
alle parti. Questa disposizione è stata dichiarata incostituzionale da una sentenza del
1974 oggi anche il coniuge, i figli, i genitori etc. possono testimoniare. Quando il teste si
presenta al giudice, oltre le sue generalità, deve anche dichiarare che rapporti ha con le
parti; questo è un elemento di valutazione che ha il magistrato per la ponderazione delle
risposte. Ai fini della valutazione finale della prova, questo rapporto di parentela ha
ovviamente un peso. Il coniuge deve peraltro dichiarare se è in regime di comunione o
separazione dei beni, perché come coniuge può deporre, ma se è in comunione dei beni

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probabilmente no se la lite è di tipo economico, perché il vantaggio che otterrebbe il


coniuge entra anche nel patrimonio dell’altro coniuge. C’è inoltre una norma che
riguarda i minori, ai quali non è vietata la testimonianza se hanno più di 14 anni, mentre
se hanno meno di 14 anni possono rendere testimonianza se è strettamente necessario.
La disposizione principale sull’incapacità a testimoniare è l’art.246 c.p.c.: non possono
testimoniare i soggetti che abbiano un interesse nella causa. L’interesse non è
meramente generico, morale o personale, ma dev’essere un interesse giuridico specifico
che si ha quando il teste potrebbe essere chiamato in causa o intervenire (cioè se sono
titolari di un diritto in connessione con quelli fatti valere nel processo).
Per quanto invece riguarda i limiti oggettivi, essi si ritrovano agli artt.2721-2726 c.c.: qui il
limite sta nel fatto che la prova testimoniale non può andare contro la prova
documentale, in quanto essa è più forte e sicura, e non si può pretendere con un
testimone di smontare una prova documentale da cui risulta un certo fatto. La prova
testimoniale è normalmente non ammessa, dunque, quando ha la funzione di porsi in
contrasto rispetto ad una prova documentale; può servire, invece, per dare prova di fatti
che non sono già stati documentati. Questa ratio è stata interpretata in modo largo ed
elastico, e si è teso ad ammettere la prova testimoniale con l’idea che, eventualmente, si
può poi “scartare”; questo ha comportato che il primo limite, di cui al 2721, che riguarda
il valore della causa, non venga più applicato e sia diventato desueto. La prova
testimoniale non è ammessa, inoltre, se riguarda un patto aggiunto.
L’ultima riflessione riguarda l’art.1417 c.c., che è una disposizione di tipo processuale che
riguarda la prova della simulazione: la simulazione è assoluta o relativa a seconda che io
non abbia voluto fare niente o abbia voluto fare qualche altro contratto c.d. dissimulato.
Un’operazione di questo genere va fatta per iscritto: per es. Tizio, rincorso dai debitori,
ha bisogno di un prestanome e quindi trasferisce un immobile a Caio; Caio però deve
fornire una controdichiarazione, da tenere con Tizio, in cui dice che il negozio è simulato.
Non è un’operazione lecita ovviamente ma serve a tutela di Tizio. L’art.1417, quando va
a regolare la prova della simulazione, distingue a seconda che essa sia data dalle parti o
da terzi: se è data dalle parti del negozio, la prova testimoniale non è ammissibile ma
deve essere data attraverso il documento di controdichiarazione; se invece viene data da
un terzo (nell’es. da uno dei creditori), che ovviamente non può avere alcun documento
di controdichiarazione, può essere ammessa. Nell’ipotesi in cui la prova sia negativa e sia
finalizzata a nascondere un contratto illecito, anche le parti possono utilizzare testimoni,
perché è interesse dell’ordinamento fare emergere un atto dissimulato illecito.
Alle volte la prova testimoniale è subordinata ad un giudizio di verosimiglianza; gli
esempi possono trovarsi all’art.721 c.p.c. e all’art.2723 c.c. Il magistrato non può non
ammettere una prova ritenendo che l’esito di quella prova sia di per sé negativo (cioè per
es. non può dire che il fatto potenzialmente è rilevante, ma secondo la sua discrezione
non può essere vero). Non può dare quindi un giudizio a priori sull’esito della prova, però
ci sono dei casi in cui al giudice è concessa una cosa simile, cioè deve dare appunto un
giudizio di verosimiglianza: solo se la cosa gli sembra verosimile può essere ammessa la

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prova. La norma del 721 riguarda il caso in cui Tizio debba avere dei soldi da Caio, ed
effettua nei suoi riguardi un pignoramento mobiliare; Caio però fa opposizione
all’esecuzione, sostenendo che i mobili non siano i suoi ma di Sempronio, e chiama a
testimoniare dei terzi a suo favore. In questo caso la domanda sorge spontanea: perché i
mobili, pur essendo di Sempronio, erano in casa di Caio? Appare poco credibile; allora il
giudice non può tout-court ammettere la prova testimoniale richiesta da Caio, perché il
fatto appare poco verosimile. Quindi innanzitutto bisogna dimostrare come mai è
avvenuto quel fatto (cioè, nell’es., come mai i mobili di Sempronio sono in casa di Caio);
solo allora il giudice, se convinto, può ammettere la prova testimoniale. Il 2723 invece
riguarda il caso in cui ad un contratto scritto sia stata fatta verbalmente una modifica; in
questo caso il giudice, in linea generale, non può ammettere la prova testimoniale, a
meno che egli non sia convinto da altri fatti che effettivamente la cosa è verosimilmente
avvenuta. Sono casi in cui si conferisce questo potere al magistrato, dovuti
all’eccezionalità del fatto.

2) INTERROGATORIO: l’interrogatorio è disciplinato essenzialmente nel c.p.c. agli artt.117,


185 e 230 ss. Il nostro sistema prevede due tipi di interrogatori: formale e libero.
Tradizionalmente l’interrogatorio è quello formale di cui agli artt.230 ss., che funziona
tendenzialmente come la prova testimoniale, nel senso che non può mai essere
ammesso d’ufficio dal giudice, le parti devono chiedere l’interrogatorio per capitoli
separati e il giudice lo ammette sui singoli capitoli. Questo istituto è finalizzato, come già
accennato, a provocare la confessione: se la parte, rispondendo, confessa facendo una
dichiarazione che va contro il proprio interesse), allora noi abbiamo una confessione che,
come tale, fa piena prova in giudizio. La mancata risposta all’interrogatorio formale si
intende a quiescenza della domanda. Un meccanismo del genere non è molto utilizzato,
perché la parte difficilmente confessa e anzi, tende a dire cose a proprio vantaggio che si
riproducono contro chi ha chiesto il mezzo di prova; è vero che di queste cose il giudice
non deve tenere conto ma comunque sono informazioni e dichiarazioni che vanno agli
atti. Se le parti chiedono interrogatorio, lo possono fare a pena di decadenza con le
memorie del 183.
Il codice del 1865 prevedeva l’interrogatorio formale ma non quello libero; quest’ultimo
fu voluto con il codice del 1940 per rafforzare i poteri del giudice, in quanto invece quello
formale è in mano alle parti, che dispongono le domande etc. Perché il giudice in una
certa misura abbia un contatto diretto con la parte, nel 1940 si pensò di affiancare
l’interrogatorio libero, che può essere disposto d’ufficio dal giudice e in cui il giudice può
liberamente formulare le domande, senza dovere sottostare a quelle formulate dai
litiganti.
Nell’art.185 è previsto un altro tipo di interrogatorio, ove finalizzato alla conciliazione: il
giudice può sempre interrogare liberamente le parti per provocarne la conciliazione,
solo su richiesta congiunta di tutte le parti (quindi non può essere disposto d’ufficio né su

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istanza di una sola delle parti). È un’altra forma di interrogatorio libero rispetto a quello
del 117.
L’interrogatorio è un istituto in connessione con l’istituto della confessione, perché
appunto serve a prendere delle confessioni da parte dei litiganti.

3) CONFESSIONE: la confessione è disciplinata nel c.c. agli artt.2730 ss.: essa è la


dichiarazione che la parte fa della verità dei fatti ad essa sfavorevole e favorevole
all’altra parte. È la massima credibilità che si può dare ad una parte perché dà
dichiarazione di qualcosa di sfavorevole ai propri interessi. La confessione può essere
giudiziale, nel senso che avviene in giudizio, o stragiudiziale, che è quella che si forma
fuori dal processo, attraverso qualunque dichiarazione che la parte faccia di un fatto
sfavorevole in un documento o anche non in un documento (per es. oralmente). Ma
come si prova in processo una confessione stragiudiziale? La confessione normalmente si
prova con documento di contenuto confessorio, ma si può provare anche con testimoni
(per es. se la confessione viene fatta oralmente a qualcuno, viene chiamato quel
qualcuno a testimoniare). Allora il punto è che limiti vi siano alla prova testimoniale alla
confessione stragiudiziale: l’art.2735 dice a tal proposito che questa prova è soggetta ai
soliti limiti della prova testimoniale. Se la confessione è giudiziale, invece, non esiste un
problema di prova perché è stata formata all’interno del processo, per cui il giudice ne ha
prova diretta.
La confessione giudiziale è disciplinata in particolare agli artt.228-229 c.p.c.; la
confessione giudiziale è di due tipi: spontanea o provocata con interrogatorio formale. La
prima si ha in tutti gli atti processuali che abbiano contenuto confessorio, che siano
sottoscritti dalla parte personalmente, ovvero non solo dall’avvocato; se la parte non ha
firmato personalmente l’atto, esso non ha valore confessorio. La parte può firmare anche
il verbale dell’interrogatorio libero; se lo fa, il contenuto del verbale vale come
confessione? No, perché questo è espressamente escluso dal 229, e questo
paradossalmente significa che se una parte confessa in interrogatorio libero col giudice
questa dichiarazione comunque non vale come confessione, mentre avrebbe valore di
prova piena in un interrogatorio formale. Accanto alla confessione, abbiamo altri due
istituti che rilevano ai fini della prova per il giudice, che sono quelli dell’ammissione e
della non contestazione: tutte le volte in cui si ammette un fatto a sé sfavorevoli, ciò
costituisce ammissione, e diventa confessione quando ha certi crismi legali, ma se non li
ha resta comunque come ammissione (per es. nell’interrogatorio libero o nella comparsa
di risposta firmata dall’avvocato); stessa cosa vale per la non contestazione, che dà luogo
ad un fatto non controverso ai sensi dell’art.115 comma 2. Per quanto riguarda gli effetti
giuridici di queste tre situazioni (confessione, ammissione e non contestazione), essi si
differenziano nel senso di dire che, ove ci sia confessione, il fatto è provato da prova
legale; se invece il fatto è ammesso o non contestato, il fatto non è provato ma il giudice
può ritenere che quel fatto non abbia bisogno di prova, e quindi può produrre un effetto
pratico equivalente.

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4) PROVA DOCUMENTALE: i documenti si introducono nei termini delle memorie istruttorie


del 183. La grande ripartizione dei documenti è tra atti pubblici e scritture private
(art.2699 e 2702 c.c.): l’atto pubblico è redatto da un pubblico ufficiale, quindi ha forte
fede e credibilità, mentre la scrittura privata è soltanto tra privati. Il documento fa prova
piena sia che sia privato che pubblico, non cambia sotto questo profilo; la differenza è
soltanto sulla forza di tenuta del documento, perché mentre l’atto pubblico non può
essere contestato se non a querela di falso e dopo un processo penale che l’abbia
dichiarato falso, la scrittura privata può essere disconosciuta, con dei limiti ai sensi del
214 c.p.c. (ad es. va fatto in limine litis), e in tal caso la parte che l’ha prodotta può o
rinunciare al documento o proporre la verificazione. Il disconoscimento fa perdere di
valore probatorio il documento stesso. Il disconoscimento non riguarda tanto il
contenuto, quanto la sottoscrizione del documento; la verificazione invece riguarda la
scrittura, tant’è che viene nominato un perito calligrafo che usa dei documenti di
comparazione attraverso cui stabilisce se il documento è vero o falso. Queste tematiche
sono legate a metodi di scrittura cartacea che ormai si stanno abbandonando a favore
della scrittura digitale; gli strumenti telematici hanno reso obsoleti i mezzi di scrittura
disciplinati dal codice del 1940. Ciò che invece è da sottolineare è la questione della data
(art.2704 c.c.): mentre se un documento è atto pubblico la data è certa – perché è
apposta da un pubblico ufficiale -, se la scrittura è privata non è detto che la data sia
certa, perché per es. su un contratto può essere apposta una data fittizia dalle parti.
Quindi nell’art.2704 il legislatore fa la scelta di contrapporre le parti ai terzi: fra le parti,
la data è sempre certa, per cui anche se le parti si mettono d’accordo per apporre una
data diversa da quella reale si presuppone che vi sia consenso a tale operazione; ciò però
non può valere per i terzi, per i quali può essere importante la determinazione della data,
e per i quali appunto la data non è mai certa, ma lo diventa solo nei casi indicati
dall’art.2704, ovvero i casi in cui al documento diamo una pubblicità tale che si dia una
sorta di effetto pubblico alla scrittura privata (per es. registrazione presso un pubblico
ufficio).
5) CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO: il giudice, avendo una formazione giuridica, alle volte
ha necessità di integrare le proprie conoscenze tecniche attraverso l’ausilio di altri
soggetti con diversa competenza al fine di risolvere la controversia (si pensi a tutte le
ipotesi di responsabilità medica o di sinistro stradale). Il CTU (nominato dal giudice) si
contrappone al CTP (che è il consulente tecnico di parte). La CTU in realtà da un punto di
vista tecnico non è uno strumento probatorio, quindi se vogliamo sta fuori anche dalle
regole generali della prova, e questo perché la prova è uno strumento che serve per
verificare la verità di un fatto, mentre la consulenza tecnica non ha questa caratteristica,
non serve per accertare fatti ma, dati già per accertati certi fatti attraverso mezzi di prova
idonei, è un elaborato tecnico per dare al giudice degli strumenti che non ha. La CTU
interpreta scientificamente fatti già accertati attraverso mezzi di prova. Nella sostanza
il fatto che essa stia fuori dai mezzi di prova significa che il giudice può disporla d’ufficio
in qualunque momento, a prescindere dalle posizioni delle parti. Questo in teoria, perché

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in realtà nella pratica è un po’ diverso: per es. in un caso di responsabilità medica, io
sostengo che il chirurgo ha operato un taglio su un paziente che gli ha causato una grave
lesione, per cui il paziente richiede il risarcimento del danno. Il giudice nomina un altro
medico che fa la CTU; essa mira a stabilire se il taglio andava fatto e in che modo, se
eventualmente è stato fatto in maniera sbagliata etc., quindi la giurisprudenza distingue
la CTU in deducente o percipiente, ma questa distinzione nella pratica ha bassa tenuta
perché le nozioni si sovrappongono. Nonostante dunque la CTU non sia annoverata tra i
mezzi di prova, in realtà ne ha un po’ la sostanza. La CTU è disciplinata in tre blocchi di
disposizioni che sono: 1) artt.61-64 c.p.c.; 2) artt.191 ss. c.p.c.; 3) disposizioni di
attuazione, di cui agli artt.89-92 c.p.c. Le disposizioni che ci interessa sottolineare sono in
primis l’art.191, insieme all’art.193, che prevedono che quando il giudice dispone la CTU
dà dei compiti limitati al consulente tecnico, che quindi deve solo indagare su quei punti
che il giudice gli indica. Il CTU deve prestare giuramento – come il testimone – e assume
la veste di pubblico ufficiale: infatti è vero che la CTU può essere disattesa dal giudice, ma
questo è molto raro, quindi spesso essa ha una funzione determinante nella decisione
finale del giudice, e per questo motivo il compito del CTU è importantissimo. Il CTU ha un
obbligo di astensione pari a quello dei magistrati e può essere ricusato negli stessi casi in
cui può essere ricusato il giudice. È inoltre fondamentale che il diritto al contraddittorio
venga garantito anche in questo caso, per cui l’art.201 c.p.c. dice che, se il giudice
nomina un CTU, le parti possono nominare un proprio CTP ad operare la consulenza
tecnica di parte. Tutte le operazioni devono essere rese note dal CTU alle parti e di esse
dev’essere redatto un verbale, perché poi ne abbia conoscenza il giudice, pena la nullità
della consulenza tecnica. Una volta finiti i lavori, il CTU redige una bozza di relazione che
invia – entro certi termini - alle parti, le quali daranno poi il loro parere – con altri termini
-, sulla base del quale poi il CTU redigerà il verbale definitivo – anch’esso entro certi
termini -. Con questo meccanismo si vuole garantire perfettamente il contraddittorio fra
le parti anche nel momento della stesura della relazione, in cui c’è uno scambio tra CTU e
CTP tale da garantire al meglio la consulenza. Se sorgono dei problemi, il giudice può
disporre anche un’integrazione della consulenza o, in casi rarissimi, la revoca del compito
al CTU e la sua sostituzione con altro consulente. Nel corso del procedimento possono
sorgere controversie tra le parti in ordine alle competenze o sulla metodologia utilizzata
dal CTU: in tal caso le parti, ai sensi dell’art.92, possono rivolgersi al giudice, che con
ordinanza dice quali sono i poteri del consulente e stabilisce se la metodologia che egli
sta adottando è corretta o errata.
6) GIURAMENTO: esso è l’ultimo mezzo di prova ed è disciplinato agli artt.233 ss. c.p.c. Ci
sono tre tipi di giuramento: 1) decisorio, ex artt.233 ss.; 2) suppletorio, ex art.240; 3)
estimatorio o d’estimazione, ex art.241. Oggi è un istituto desueto, perché era più legato
all’onore, tuttavia anche oggi lo spergiuro è un reato quindi può avere importanza per le
sue conseguenze penali. Si può definire una sorta di “aggravante” dell’interrogatorio, per
cui in questi casi la parte sotto giuramento è obbligata a dire la verità e, se non lo fa,
commette il reato di spergiuro. Dev’essere chiesto dall’avvocato ma dev’essere firmato

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dalla parte personalmente. È una prova sottoposta ad un meccanismo di riferibilità, nel


senso che la parte sottoposta a giuramento può “rigirare” a sua volta il giuramento alla
controparte. Ai fini probatori civili, il giuramento fa piena prova (in tutti i casi, anche se è
falso, perché il giudice non va ad indagare sulla veridicità del giuramento; eventualmente
se è falso la controparte può aprire il procedimento penale per spergiuro). Questo è il
giuramento decisorio; il giuramento suppletorio si ha invece quando, arrivati alla fine del
processo, il giudice non è convinto al 100% di un certo fatto quindi chiede un giuramento
che “completa la prova”, mente l’estimatorio è un giuramento mirato a stimare una
quantità di beni che è incerta. Soprattutto questi due sono strumenti caduti in
desuetudine.
7) PRESUNZIONI: sono riconducibili ai mezzi di prova anche le presunzioni (artt.2727 ss.
c.c.), che sono una tecnica logica con la quale, dalla conoscenza di un fatto noto, si
arriva alla conoscenza di un fatto ignoto. Inserita nel processo, questa tecnica può
essere utile anche a distinguere i fatti principali da quelli secondari. Con il meccanismo
della presunzione, infatti, chiedendo la prova di un fatto secondario si può presumere un
fatto principale. Le presunzioni sono legali o giudiziali a seconda che il percorso logico da
un fatto all’altro sia posto in essere dalla stessa legge o dal giudice; nel primo caso nulla
quaestio: è la legge stessa che dice che da un certo fatto noto se ne presume un altro
ignoto. Facendo alcuni esempi di presunzione legale, si hanno ad es. all’art.2 c.c. che
riguarda la capacità d’agire, che si acquisisce con la maggiore età (quindi se si deve
provare che la parte è capace, si può solo provare che essa è maggiorenne); oppure
all’art.232 c.c., che riguarda la presunzione di paternità di un bambino nato nel 180
giorni dopo il matrimonio (per cui si proverà che il soggetto che si presume padre è
sposato da almeno 180 giorni con la madre); infine l’art.1 della legge 7/1963, che
riguarda il licenziamento di una lavoratrice dipendente durante il periodo di gravidanza,
che si presume derivante dalla gravidanza stessa. Poi molte presunzioni ammettono
prova contraria (e si definiscono relative o iuris tantum, in contrapposizione a quelle
assolute o iuris et de iure, che non ammettono prova contraria). Nei casi in cui la
presunzione non sia dettata dalla legge ma dal giudice, questo può essere fatto con dei
limiti ai sensi dell’art.2729 c.c.
8) PROVE ATIPICHE: abbiamo detto che nel nostro ordinamento vige un principio di tipicità
dei mezzi di prova, però in realtà la giurisprudenza ritiene che possano darsi anche prove
atipiche, ovvero strumenti finalizzati a verificare se un fatto è vero o falso, che però non
sono esplicitamente disciplinate dal c.c. o dal c.p.c.; a queste prove però viene attribuita
un’efficacia probatoria “di serie B”. ci sono tre tipi diversi di prova atipica:
 La prova scientifica, che è quella più forte ed importante e spesso trova disciplina
in leggi speciali. Ha particolare significato tant’è che la giurisprudenza spesso le
attribuisce significato di piena prova. Le tipiche prove scientifiche sono la prova
del DNA o la prova del palloncino per valutare il tasso alcolemico.
 La prova illegittima, ovvero una prova acquisita illegittimamente. Qui si pone un
contrasto tra il diritto alla prova e l’illegittimità del comportamento. L’esempio

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più lampante è la sottrazione della corrispondenza. La reazione del magistrato di


fronte a una prova siffatta può essere duplice: da una parte la prova è
incontestabile, è piena sotto questo profilo, ma è acquisita attraverso la
commissione di un reato. Allora qual è il valore prevalente in questa situazione?
Nel nostro sistema non vale il principio per cui “il fine giustifica i mezzi”, quindi si
dice che esse non fanno prova ma in realtà rimane un dibattito aperto in merito
alla ammissibilità di questo mezzo di prova.
 Prove atipiche che siano effettivamente prove da un punto di vista sostanziale,
ma non formale: per es. la prova testimoniale come prova legale e tipica funziona
in una certa maniera al fine di garantire un risultato serio ed attendibile;
immaginiamo che non si seguano le indicazioni di cui al c.p.c. ma la prova
testimoniale venga resa attraverso per es. un biglietto scritto. Qui il problema che
si pone è che la prova testimoniale viene camuffata, perché il giudice non ha la
possibilità di sentire il testimone, non ha ammesso la prova etc., quindi o si
considera questo biglietto praticamente come non prodotto oppure gli si
attribuisce una qualche efficacia probatoria, pur mancando i requisiti formali della
prova testimoniale.
La giurisprudenza ammette tutte queste prove nel processo, attribuendo loro varia
efficacia a seconda sostanzialmente della discrezionalità del giudice.

VALUTAZIONE DELLA PROVA

Dopo aver assunto la prova, il giudice deve valutarla effettivamente; la regola generale in tal
senso è fissata nell’art.116 c.p.c., che divide la gradazione delle prove in tre momenti: 1) il
primo è quello delle prove legali; 2) il secondo è quello delle prove libere o rimesse alla
discrezionalità del giudice; 3) il terzo è quello degli argomenti di prova. Questa disposizione
dice che il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che
la legge disponga altrimenti, e che può desumere argomenti di prova da certi
comportamenti delle parti nel processo. La legge può disporre delle prove legali, ovvero non
rimesse alla discrezionalità del giudice, e che – se presenti – il giudice deve ritenere che
appunto esse provino il fatto. Esse sono i documenti, la confessione e il giuramento. Il
giudice ha invece potere discrezionale di valutare il mezzo di prova (c.d. prove libere) con le
prove testimoniali e con la CTU; ciò significa che il giudice potrà anche disattendere rispetto
alla prova testimoniale ad es., perché è una prova rimessa al suo prudente apprezzamento
(quindi comunque la discrezionalità del giudice non coincide con il libero arbitrio, ma egli
dovrà motivare le ragioni per cui non crede all’attendibilità della prova). Ci si chiede come
faccia il giudice, con percorso logico, ad esercitare il suo potere discrezionale: secondo la
dottrina è un procedimento basato sulle regole del sillogismo aristotelico, per cui si dà una
premessa maggiore (data dall’id quod plerumque accidit), una minore (per es. ciò che è stato
dichiarato in giudizio) e infine delle conclusioni. Il vizio logico si può avere in qualunque di
questi momenti. Da un punto di vista dell’efficacia probatoria, c’è da sottolineare che non c’è

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distinzione tra la prova legale e la prova discrezionale: la differenza è che in un caso il giudice
ha “le mani legate”, nell’altro no. Questa è la distinzione con l’argomento di prova, che
invece si aggiunge al mezzo di prova ma da solo non è in grado di assolvere al compito del
mezzo di prova; se alla fine di un processo, dunque, un certo fatto risulta solo
dall’argomento di prova, il giudice deve considerare quel fatto come non provato. Gli
argomenti di prova sono l’interrogatorio libero, il contegno processuale (ovvero la
correttezza o meno che una parte tiene nel processo, la coerenza degli argomenti difensivi
etc.), il rifiuto di sottoporsi ad ispezioni (per es. rifiuto di sottoporsi alla prova del DNA da
parte di un presunto padre per accertare la paternità) e le prove atipiche. In realtà però la
giurisprudenza alle volte attribuisce a questi argomenti di prova valore di prova piena (come
nel caso di alcune prove atipiche o al rifiuto di sottoporsi alla prova del DNA).

PROVVEDIMENTI: DECRETO, ORDINANZA, SENTENZA

Ci sono tutta una serie di decisioni intermedie nel processo, endoprocessuali, che il giudice
deve prendere. Il nostro processo civile prevede tre diverse forme di provvedimenti con cui il
giudice può prendere una decisione: il decreto, l’ordinanza e la sentenza. Il giudice deve
stare molto attento ad emettere l’uno o l’altro provvedimento perché essi hanno effetti
diversi e soprattutto cambiano i mezzi di impugnazione. Nell’ipotesi di errore del giudice, la
giurisprudenza pacifica ritiene che la sostanza prevalga sulla forma; normalmente questo
errore avviene tra ordinanza e sentenza. In tali casi, se la sostanza è quella ad es. di una
sentenza ma la forma è quella di un’ordinanza, il provvedimento varrà come una sentenza
anche ai fini dell’impugnazione. Il nostro codice sembra affermare il principio della libertà
delle forme dei provvedimenti: l’art.121 c.p.c. apre un titolo rubricato “Degli atti
processuali” e riguarda proprio la libertà di forme nel caso in cui la legge nulla dica in merito
ad una forma prestabilita per un certo atto. Questo principio è rimarcato anche all’art.131
ma ciò che dice l’art.121 in realtà non è esattamente così, nel senso che i provvedimenti in
generale sono le ordinanze, e questo poi è effettivamente detto dall’art.176 c.p.c., al che nei
casi dubbi o non regolati dalla legge il giudice deve pronunciare un’ordinanza. In
giurisprudenza e dottrina è pacifico che, quando la legge vuole che il giudice pronunci
decreto o sentenza, è necessario che lo specifichi mentre, quando non dice niente, vuole che il
giudice pronunci ordinanza. I decreti e le sentenze quindi sono detti provvedimenti tipici. Il
sistema dà quasi una gradazione di importanza e di complessità: il provvedimento più
semplice è il decreto, quello intermedio l’ordinanza e quello più complesso è la sentenza.
Ognuno di questi provvedimenti ha certe caratteristiche ed è disciplinato in via generale con
diverse norme del c.p.c. (decreto 135, ordinanza 134, sentenza 132), ma ovviamente ognuno
di questi provvedimenti trova delle eccezioni.

Il decreto è il provvedimento più semplice; normalmente si pronuncia senza contraddittorio,


ovvero tutte le volte che il giudice può provvedere senza attivare il contraddittorio delle parti
può farlo con decreto, e questo è ovviamente una deroga rispetto alla normalità che prevede
il principio del contraddittorio. Il giudice pronuncia decreto quando il provvedimento non ha

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carattere decisorio, non incidendo su diritti né sostanziali né processuali delle parti, ma è


meramente organizzativo dell’attività processuale, e per questa sua caratteristica è
normalmente privo di motivazione (salvo che la legge non stabilisca diversamente). Il
decreto è un provvedimento tipico perché è previsto dalla legge che il provvedimento sia
emanato con la forma del decreto. In linea generale i decreti non sono soggetti ad
impugnazione. Si ha decreto per es. negli artt.168-bis co.5 e 269; sono due provvedimenti
che concernono le fissazioni delle udienze: se il magistrato deve differire l’udienza perché il
carico di lavoro non gli consente di fare altrimenti, lo fa con decreto. Un esempio totalmente
opposto, e quindi eccezionale, è rappresentato dal decreto ingiuntivo (633 c.p.c.), che ha la
particolarità di avere contenuto decisorio perché ha ad oggetto la condanna a pagare una
somma di denaro, ma si è mantenuta la dicitura di decreto perché è reso dal giudice senza
motivazione e senza contraddittorio. Il 135, che dà la disciplina generale del decreto, dice
che esso può essere pronunciato d’ufficio o su ricorso.

L’ordinanza è una figura intermedia tra decreto e sentenza ed è normalmente il tipo di


provvedimento che il giudice emana nel corso del processo prima di arrivare alla sentenza. È
quindi un provvedimento endoprocessuale, che normalmente non ha carattere decisorio sui
diritti ma è organizzativo dell’attività processuale, ma si differenzia dal decreto perché è reso
normalmente a seguito del contraddittorio delle parti e ha una motivazione, seppur
succinta. Un esempio è l’art.669-sexies ult.co. in punto di tutela cautelare: se io chiedo un
sequestro si scontrano due principi, ovvero l’esercizio del diritto di difesa e l’efficienza della
misura cautelare; fino alla riforma del 1990, tutti ritenevano prioritario il valore
dell’efficienza, e quindi ritenevano che una parte si potesse difendere ma dopo la misura
cautelare; dopo il 1990 cambia la mentalità e si dice che è prevalente il diritto al
contraddittorio, per cui nel 669-sexies si dice che in linea generale il giudice deve prima
rispettare il contraddittorio, di fronte ad una domanda di sequestro, e solo nelle ipotesi in cui
si rischia che il contraddittorio possa pregiudicare l’attuazione della misura, il giudice può
con decreto dare subito il sequestro, e fissare entro 15 gg un’udienza a contraddittorio, al cui
seguito può con ordinanza confermare, modificare o revocare il provvedimento dato. Lo
stesso provvedimento ha la forma del decreto o dell’ordinanza a seconda che il giudice lo dia
con o senza contraddittorio: questo conferma il principio generale per cui i decreti si danno
senza contraddittorio, le ordinanze si danno con contraddittorio. L’ordinanza abbiamo poi
detto che è succintamente motivata: quello della motivazione dei provvedimenti è un tema
importante; certamente quest’espressione implica un obbligo di motivare per il giudice, ma
non così forte perché basta che la motivazione sia succinta. Degli esempi di ordinanza si
ritrovano al 102 (litisconsorzio necessario), 107 (ordine del giudice di chiamata del terzo in
causa) e 183 (prima udienza nella parte dell’assunzione dei mezzi di prova). Si tratta anche
questo di un provvedimento non impugnabile, a differenza del regime che era stato pensato
nel 1940 (si vedano gli artt.176-177-178 che riguardano i provvedimenti con forma di
ordinanza dei processi di cognizione). Peraltro le ordinanze sono provvedimenti che non
legano le mani al giudice, ma sui quali egli può tornare ed eventualmente operare delle

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modifiche quando va a sentenza, perché i provvedimenti dati con ordinanza non hanno una
forza vincolante, non pregiudicando mai la decisione della causa. Conseguenza di ciò è che
questi provvedimenti sono sempre revocabili e modificabili, sia d’ufficio dal giudice che ad
istanza di parte: il meccanismo oggi prevede che le ordinanze non siano impugnabili ma
sono sempre modificabili o revocabili. La parte soccombente rispetto ad un’ordinanza non la
può impugnare (cioè il provvedimento non può essere rivisto da un giudice sovraordinato),
ma può chiedere al medesimo giudice di modificarla o revocarla. Ciò non consiste in un
mezzo di impugnazione perché il soccombente chiede questo rimedio allo stesso giudice,
mentre l’impugnazione presuppone la richiesta ad un giudice sovraordinato. Le ordinanze
dunque non sono impugnabili in linea generale, a meno che in via speciale la loro disciplina
non preveda l’impugnazione: questo avviene ad es. nelle misure cautelari, che si danno con
ordinanza, ma è prevista espressamente l’impugnazione. Fino alla riforma del 1998, che ha
soppresso le preture e i collegi, le ordinanze che ammettevano le prove erano reclamabili
dinanzi al collegio, ma anche nel collegio il relatore era il giudice che aveva preso il
provvedimento reclamato, quindi comunque è difficile che lo stesso giudice si ravveda sul
contenuto di un provvedimento. La possibilità di avere successo con questi reclami era
quindi molto bassa. La soppressione di questa possibilità nel 1998 fu molto criticata perché
fu sostanzialmente tolta una garanzia alle parti, per cui il giudice secondo alcuni diventava
una sorta di “dittatore del primo grado”, perché tutto può fare fino all’Appello. L’unico che è
rimasto nel 178 è il fenomeno dell’estinzione del processo. Le caratteristiche descritte per le
ordinanze possono avere anch’esse le loro eccezioni, per es. ciò si ritrova agli artt.186-bis,
ter e quater, che riguardano le ordinanze per il pagamento di somme non contestate e le
ordinanze in giunzione.

La sentenza è il provvedimento principale; rispetto all’ordinanza e al decreto la differenza è


che è un provvedimento decisorio, che incide sui diritti, e non è mai endoprocessuale ma ha
sempre efficacia extraprocessuale, va oltre il processo e lo chiude, peraltro con efficacia
esterna; va pronunciato senz’altro con il contraddittorio e dev’essere motivato.
Normalmente è il provvedimento che definisce il processo, che può continuare solo nei gradi
successivi di Appello e Cassazione. Le disposizioni che riguardano la sentenza sono l’art.132 e
l’art.279 c.p.c.: il 132 indica la forma-contenuto della sentenza, quindi gli elementi che la
sentenza deve necessariamente contenere, mentre il 279 indica quando il giudice debba
pronunciare sentenza (perché anch’esso è un provvedimento tipico, per cui è necessario che
la legge determini i casi in cui dev’essere emanato).

Ci sono due modi per redigere un provvedimento, di cui uno alla francese ed uno alla latina,
che rispecchiano rispettivamente l’ordinanza e la sentenza. Il provvedimento alla francese
che caratterizza l’ordinanza funziona inserendo delle premesse (indicate con la formula
“premesso che”) e poi segue P.Q.M. (“per questi motivi”) la decisione; la sentenza viceversa
va per momenti separati che vengono anche intitolati, quindi è un prodotto molto più
articolato e complesso anche sotto il punto di vista della veste grafica. Questo modus
operandi tradizionale è venuto meno negli anni per due motivi: da una parte si è ritenuto che

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anche le sentenze, sebbene ben motivate, possano utilizzare lo schema alla francese;
dall’altra il CSM è sempre più orientato sul pensiero che i provvedimenti finali possono avere
la forma dell’ordinanza e non più della sentenza. Per di più si sono previste delle sentenze
pronunciate in forma semplificata (per es. art.281-sexies), quindi si è introdotto un
provvedimento per così dire ibrido. Tutto questo crea un po’ di confusione perché non vi è
più una netta distinzione fra l’ordinanza e la sentenza.

La prima regola sulla sentenza è che essa è pronunciata “in nome del popolo italiano”:
questo primo comma dell’art.132 è importante perché, a prescindere da ogni retorica, è la
sottolineatura dei valori che abbiamo negli artt.101-102 della Cost., che riguardano
l’indipendenza del giudice, che decide secondo sua scienza e coscienza e per questo i suoi
provvedimenti sono pronunciati in nome di nessun altro se non nel nome del popolo
italiano, perché privi di condizionamento di altre istituzioni. Accanto a questo c’è un
bilanciamento che si sostanzia nella motivazione: momento centrale della sentenza, che
altro non è se non l’esercizio del potere giurisdizionale, è proprio quello della motivazione,
che va a chiesta al giudice in cambio della sua indipendenza, altrimenti rischierebbe di
trasformarsi in un arbitrio. La sentenza ha infatti sia funzione endoprocessuale, perché viene
resa nel processo alle parti, ma anche extraprocessuale e quindi pubblica, perché è la
“giustificazione” che il giudice dà del suo potere al popolo, tant’è che tutte le sentenze sono
pubbliche. Ciò è garantito dall’art.111 Cost., che dice che i provvedimenti giurisdizionali
devono essere motivati, e che la legge che consentisse il contrario sarebbe incostituzionale.
La tendenza degli ultimi anni è però che la motivazione richieda tempo, e allora bisogna
ridurla per evitare che le sentenze siano troppo prolisse e che i processi si allunghino troppo
(perché si ritiene che molto tempo processuale sia impiegato dal giudice proprio per la
motivazione); sono stati fatti ritocchi a danno della motivazione, in particolare al punto 4
dell’art.132 prima della riforma degli anni 2000 il giudice doveva riassumere lo svolgimento
del processo e poi motivare la decisione, mentre dopo la riforma ciò non si trova più, quindi
il riassunto dello svolgimento del processo è rimesso alla discrezionalità del giudice. Il
problema è che, se i giudici non riportano lo svolgimento del processo, rischiano di
tralasciare qualche aspetto. Peraltro per quanto riguarda la motivazione, oggi si dice solo che
la sentenza deve contenere la concisa esposizione dei fatti di diritto. Ora però ciò che salta
all’occhio è: qual è la differenza tra una motivazione concisa, caratterizzante la sentenza, ed
una succinta, caratterizzante l’ordinanza? Ovviamente non ce ne sono, in entrambi i casi si
dice che si può scrivere qualcosa di superficiale e che ciò è sufficiente anche per la sentenza.
Quindi questa contrapposizione un tempo ben netta tra ordinanza e sentenza è in gran parte
venuta meno anche in un momento centrale come quello della motivazione.

Altri elementi della sentenza sono: 1) l’indicazione del giudice che l’ha pronunciata, sia come
persona fisica che come indicazione del Tribunale; 2) l’indicazione delle parti e dei difensori;
3) le conclusioni del PM e delle parti; 4) la motivazione; 5) il dispositivo, ovvero la decisione
finale del giudice. Il rapporto tra motivazione e dispositivo è lo stesso che c’è tra causa
petendi e petitum in un atto di citazione. La sentenza dev’essere poi sottoscritta dal giudice e

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deve contenere la data: ciò è ovvio perché la sentenza è un atto pubblico. Tutto questo
avviene oggi telematicamente attraverso la firma digitale del giudice.

L’art.279 c.p.c. stabilisce quali sono le ipotesi tipiche nelle quali si pronuncia sentenza.
Questa disposizione è stata ritoccato rispetto al 1940, per ragioni di economia processuale
(motivo per cui si è stabilito che la motivazione possa essere concisa, anche in relazione al
carico di lavoro che gli uffici giudiziari hanno), sotto il profilo che attualmente tutte le
questioni connesse ai temi della competenza del giudice non si pronunciano più con sentenza,
bensì con ordinanza: c’è un favore maggiore per l’ordinanza piuttosto che per la sentenza.
Decisioni legate alla competenza sono: la litispendenza, la continenza, la connessione, la
sospensione dei processi per pregiudizialità/dipendenza, per cui, ogniqualvolta il giudice si
trova a dover decidere una di queste questioni, pronuncia con ordinanza e non più con
sentenza (il mezzo di impugnazione rimane sempre il medesimo però). L’art.279 c.p.c. recita:
“Il collegio (è un’espressione del 1940 e va letto come giudice) pronuncia ordinanza quando
provvede soltanto su questioni relative all’istruzione della causa, senza definire il
giudizio…”. Si fa dell’ordinanza un provvedimento generale, cioè una categoria residuale:
quando non ci sono altre indicazioni, il giudice pronuncia l’ordinanza. Aggiunge: “…nonché
quando decide soltanto questioni di competenza”. Questo è un inciso più recente: tutte le
questioni di competenza e quelle connesse si pronunciano con ordinanza e non con
sentenza.

Il co.2 prosegue: “Il collegio pronuncia sentenza:…” Si aprono dei numeri, fino a 5:

1. “Quando definisce il giudizio, decidendo questioni di giurisdizione”. Le questioni di


giurisdizione si decidono, viceversa, con sentenza. Esempio: se si eccepisce che il
Tribunale di Siena non ha giurisdizione, e si apre una questione sulla giurisdizione
(perché magari questa l’ha la Corte dei conti o il TAR Toscana), la questione di
giurisdizione deve essere decisa dal giudice con sentenza, perché lo dice l’art. 279
n°1. Maggior valore viene dato, quindi, alle questioni di giurisdizione rispetto a quelle
di competenza, perché la riforma del 2009 ha detto che le questioni di competenza si
decidono con ordinanza, ma non quelle di giurisdizione.
2. “Quando definisce il giudizio, decidendo questioni pregiudiziali attinenti al processo
o questioni preliminari di merito”. Il codice, ma anche la dottrina, usa questa doppia
espressione di “questioni pregiudiziali” o “questioni preliminari”, come se il concetto
di “questione preliminare” fosse diverso da quello di “questione pregiudiziale”. In
realtà, queste due espressioni, da considerare come sinonime, intendono che si
decide la questione che viene prima, da un punto di vista logico, di un’altra, che è
quella che poi essenziale. Si usa preferibilmente l’espressione “pregiudiziale” quando
l’espressione preliminare attiene al rito, cioè al processo; mentre si usa l’espressione
“preliminare” quando attiene al merito. Da un punto di vista logico nulla cambia: si
deve decidere prima, perché altrimenti non si può decidere l’altra, che è dipendente

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

sotto il profilo logico. Le questioni pregiudiziali che attengono al processo sono anche
quelle di competenza e di giurisdizione, perché è chiaro che se si eccepisce,
ad esempio, l’incompetenza del Tribunale di Siena, è pregiudiziale stabilire se ha la
competenza, perché solo se ha questa si può andare avanti, altrimenti deve fermarsi
(dunque, è una questione pregiudiziale). Il codice non si riferisce a queste questioni
pregiudiziali, perché per le questioni pregiudiziali relative alla competenza o la
giurisdizione, si ha già una autonoma disciplina, ma si riferisce ad altre questioni
relative al processo, ad esempio la legittimazione ad agire o l’interesse ad agire.
3. “Quando definisce il giudizio decidendo totalmente il merito”. È ciò che più
frequentemente avviene. Tutte le volte che il giudice decide il merito della causa,
deve farlo con sentenza. Esempio: quando si chiede la condanna al pagamento della
somma: il giudice la dà o non la dà; quando si chiede il rilascio di un immobile: il
giudice lo dà o non lo dà; quando si chiede un contratto definitivo ai sensi dell’art.
2932 c.c.: il giudice lo riconosce o meno. Tutto ciò che una parte può chiedere ad un
giudice - e che questo possa concedere o negare nel processo - è ciò che
normalmente il giudice decide con sentenza, in base all’art.279 n.3.
4. “Quando, decidendo alcune delle questioni di cui ai numeri 1, 2 e 3, non definisce il
giudizio ed impartisce distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa”.
Apre un fenomeno oggi abbastanza caduto in desuetudine, che è quello delle
sentenze non definitive. Il nostro sistema prevede delle sentenze definitive e delle
sentenze non definitive: se la sentenza non definisce il processo è una sentenza non
definitiva. “Definire il processo” non significa che sia concluso con una sentenza di
primo grado (le parti hanno il ricorso all’appello, il ricorso per Cassazione e i mezzi di
impugnazione), ma il fatto che sia definitiva è perché definisce il processo dinanzi al
giudice che l’ha pronunciata. La sentenza è definitiva quando definisce il processo
dinanzi al giudice che l’ha pronunciata; mentre la sentenza è non definitiva quando il
giudice pronuncia sentenza e contestualmente pronuncia anche un’ordinanza con la
quale dispone le regole per la continuazione del processo dinanzi a lui. Quali sono i
casi in cui il giudice può pronunciare sentenza non definitiva ai sensi del numero 4?
Lo può fare in tutti i numeri 1, 2 e 3 quando, appunto, la sentenza non definisce il
processo dinanzi a lui. Abbiamo, quindi, i numeri 1, 2 e 3 che ci danno le ipotesi in cui
il giudice pronuncia sentenza; queste sentenze possono essere definitive, se
definiscono il processo dinanzi a lui, o anche non definitive, se non lo definiscono. In
linea generale, oggi il fenomeno delle sentenze non definitive è caduto in
desuetudine. È anche un bene questo, perché la sentenza non definitiva crea anche
dei problemi tecnici: non solo impegna il giudice a scrivere due o più sentenze, ma
crea anche un problema tecnico perché la conseguenza è che anche questa sentenza
può essere impugnata e, in questo senso, gli artt. 340 e 361 c.p.c. riguardano
l’impugnazione delle sentenze non definitive. Esempio: nell’ipotesi di prescrizione, si
è fatto valere un credito di denaro, mentre l’altra parte ha eccepito la prescrizione
del credito. Se il giudice pronuncia sentenza e dice che la prescrizione non esiste, e

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

manda avanti il processo nel merito: si ha una sentenza che nega la prescrizione.
Allora si può fare ricorso in appello. Il processo allora viene biforcato: attualmente e
contestualmente pende tanto in corte d’appello che in tribunale. In tribunale, va
avanti per il merito sul presupposto che la prescrizione non vi è; in corte d’appello,
viceversa, si discute se la prescrizione vi è o non vi è, perché è stato fatto, appunto,
appello. La corte d’appello deve, quindi, stabilire se vi è prescrizione o meno: può
succedere, dunque, che essa riformi la sentenza di primo grado e possa dire che,
viceversa (a quanto accade nel tribunale), il credito è prescritto: in ipotesi del genere,
tutte le attività processuali fatte dal tribunale in seguito non servono più a nulla. Si
può capire l’imbarazzo che può avere il giudice: egli dovrà fare delle attività
processuali che non si sa se saranno utili oppure no, perché tutto dipende dalla
decisione della Corte d’appello. Se la corte d’appello accoglie l’appello, il credito è
prescritto e tutto ciò che il giudice ha fatto dopo, sul presupposto che il credito non
era prescritto, non serve a niente. Può accadere, poi, che la parte faccia ricorso per
Cassazione: di nuovo non si sa se il credito è prescritto o meno, ma si saprà all’esito
del giudizio di cassazione. Non si sa, ancora, nel frattempo, se le attività del tribunale
o della corte d’appello siano utili oppure no: tutto è rimesso alla decisione della Corte
di Cassazione. Può essere mai logico in un sistema attuale di difficoltà già presenti,
immettere meccanismi come questi (come la sentenza non definitiva), che creano
conseguenze del genere? Oggi il problema è, in gran parte, risolto: i giudici non le
pronunciano e quindi il problema non si pone. Il problema se l’era posto il legislatore
del ’40 e poi del ’50 , con gli artt. 340 e 361 c.p.c., che prevedono che le sentenze non
definitive possono impugnarsi immediatamente come tutte le sentenze, oppure la
parte può, nella prima difesa utile ed entro l’udienza successiva, dichiarare che si
riserva l’impugnazione unitamente alla sentenza definitiva. Il 340 c.p.c. riguarda la
riserva di appello, mentre il 361 riguarda la riserva di Cassazione. Come funziona il
meccanismo? Se il tribunale di Siena dà la sentenza non definitiva sulla prescrizione, il
soccombente ha tre possibilità: 1) la prima è che fa subito appello alla corte d’appello
di Firenze, ed è l’impugnazione immediata della sentenza non definitiva, e si avranno
le complicazioni accennate. Si avrà, infatti, un processo che, anziché essere unico, si
sarà biforcato, in due diversi gradi: perché una parte del processo pende appello e
l’altro in primo grado, con le difficoltà che si risolvono alla luce degli artt. 336 e 337
c.p.c.; 2) la seconda possibilità è che la parte dichiari, nell’udienza successiva, che si
riserva di appellare la sentenza non definitiva unitamente alla sentenza definitiva.
Forse questa è quella preferibile e che normalmente viene fatta dagli avvocati, a
fronte delle sentenze non definitive, e ciò significa che la sentenza non definitiva non
passa in giudicato. Quando il giudice pronuncerà sentenza definitiva, la parte farà
appello all’una e all’altra sentenza unitamente: in questo modo si evitano le
complicazioni della biforcazione del processo di primo grado, che non avviene in
questo caso. Questo, a pena di decadenza, ovviamente, deve essere fatto nella prima
difesa utile (ex 340 per l’appello e 361 per la cassazione). 3) terzo scenario è che la

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parte non faccia né impugnazione immediata né riserva di impugnazione nei termini


previsti dal 340 o dal 361, cioè rimanga inerte e passivo rispetto alla sentenza non
definitiva pronunciata dal giudice. Succede che la sentenza non definitiva passa in
giudicato e, quindi, la statuizione ivi contenuta non è più discutibile, nemmeno a
seguito della pronuncia definitiva. Se il tribunale di Siena, ad esempio, dice che non vi
è prescrizione e la parte non impugna immediatamente la sentenza o non fa riserva
di impugnazione, quella statuizione (cioè l’inesistenza della prescrizione) non è più
soggetta a discussione, nemmeno ove il giudice successivamente pronunci sentenza
definitiva e si vada in appello. La corte d’appello avrà il potere di controllare il merito,
ma non la prescrizione, perché su questa si sarà formato il giudicato, perché la parte,
se avesse voluto metterla in discussione, avrebbe dovuto impugnare
immediatamente o fare riserva di impugnazione.

GIUDICE MONOCRATICO E COLLEGIALE

Analizziamo i casi nei quali il Tribunale pronuncia in composizione monocratica, le ipotesi


che oggi residuano di collegialità e quali sono differenze, sotto il profilo procedurale, quando
le decisioni siano previste monocratiche o collegiali. La regola è posta dall’art.50-ter che
stabilisce, in linea generale, che tutte le controversie in tribunale sono decise dal giudice
monocratico (se nulla si prevede), salvo che non si cada in una delle ipotesi previste dall’art.
50-bis, che costituisce eccezione rispetto all’art. 50-ter. Dall’insieme di queste disposizioni
(50-bis e 50-ter), ricaviamo che il tribunale decide in composizione collegiale nelle ipotesi
dell’art.50-bis, che sono ipotesi tipiche previste espressamente dalla legge. Perché il
legislatore del 1998 ha deciso che in alcuni casi fosse ancora necessaria la pronuncia
collegiale? La scelta risponde a più esigenze, che sono quelle di garantire il collegio quando
la controversia presenta particolari difficoltà tecniche o complessità o quando i diritti fatti
valere nel processo hanno una ricaduta pubblicistica e non sia meramente indisponibile. Il
collegio, infatti, dà delle garanzie maggiori rispetto al giudice singolo; in tutti gli altri casi, dal
1998, però, la decisione, è meramente monocratica.

L’art.50-bis elenca una serie di ipotesi tassative:

1. “nelle cause in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero” (artt. 69-70
c.p.c.). È confermata l’idea della contrapposizione tra diritti indisponibili e disponibili:
normalmente quando il pubblico ministero è presente, significa che il diritto fatto
valere in giudizio ha natura pubblicistica o superindividuale e, quindi, è necessario il
collegio, perché ritenuto come una garanzia (ciò soprattutto nel diritto di famiglia).
Ad esempio, nei casi di separazione o divorzio o anche nei casi di interdizione.
2. “Nelle cause di opposizione, impugnazione, revocazione e in quelle conseguenti a
dichiarazioni tardive di crediti di cui al (…) fallimento, e alle altre leggi speciali
disciplinanti la liquidazione coatta amministrativa”, cioè quelle cause che ruotano
intorno alla disciplina del fallimento. Il fallimento ha delle conseguenze: quando si

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dichiara il fallimento dell’imprenditore, il curatore fallimentare può fare azioni


revocatorie, azioni di responsabilità, ci sono giudizi di opposizione allo stato passivo.
Sono cause che necessitano di una minima specializzazione, in parte considerate
superindividuali (perché il fallimento è sempre considerato come un fenomeno
sociale, che non investe soltanto il rapporto creditore-debitore, ma investe anche il
mercato).
3. “Nelle cause devolute alle sezioni specializzate”. Il giudice speciale non è ordinario e
né sta sotto al CSM e non si riconducono all’ordinamento giudiziario: alcuni esempi
sono la Corte dei Conti, giudici amministrativi, tributari e così via. Altra cosa è la
sezione specializzata, che sta dentro l’ordinamento giudiziario: sono giudici ordinari
che la legge prevede in sezioni specializzate (ad esempio, il tribunale per i minorenni,
che si occupa delle questioni che attengono ai minori; la sezione specializzata agraria;
il tribunale dell’impresa, cioè le controversie che attengono all’impresa o alla società,
come diritti tra soci o quote sociali, o azioni di responsabilità di amministratori; il
tribunale delle acque).
4. “Nelle cause di omologazione del concordato fallimentare e del concordato
preventivo”, cioè attiene sempre alle procedure fallimentari. Attiene alle questioni
societarie.
5. “Nelle cause di impugnazioni dei testamenti di riduzione per lesione di legittima”.
Attiene alle controversie private ereditarie, tra cui le successioni. Queste sono
considerate delle cause delicate e non sempre semplici. Ad esempio, nel caso un
erede chieda il riconoscimento della propria quota in qualità di erede legittimario.

Sintetizzando, questa riserva di collegialità si ha in pochi casi; normalmente in tribunale si


giudica in composizione monocratica.

Una volta che il legislatore ha dato i limiti e il riparto delle competenze tra giudice
monocratico e collegio, si può tuttavia cadere in errore, cioè: che in ipotesi di collegialità,
venga pronunciata sentenza dal giudice monocratico; o viceversa, nelle ipotesi
monocratiche, si pronunci il collegio. Bisogna prendere le disposizioni che vanno dall’art.
281-septies fino all’art. 281-novies, che aprono un Capo “Dei rapporti tra collegio e giudice
monocratico”.

In ipotesi di errore, prima della pronuncia della sentenza, è chiaro che i giudici si debbano
passare la decisione tra di loro: se la decisione è del giudice monocratico e questa viene data
al collegio, e questo, prima di pronunciare sentenza, si accorge di questo errore, rimette al
giudice monocratico (art. 281-septies). Così, viceversa, avviene anche nell’ipotesi in cui la
decisione, per errore, venga data al giudice monocratico, mentre, in realtà, spetterebbe al
collegio (art. 281-octies).

In ipotesi di connessione (art. 281-novies), cioè quando pendano due cause connesse dinanzi
allo stesso giudice o davanti a giudici diversi, una decisione collegiale e l’altra monocratica,

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

prevale la decisione collegiale, e il collegio deciderà l’una e l’altra, perché è chiaro che sia più
forte quella collegiale (è una scelta di buonsenso). Tutto ciò presuppone che i giudici si
avvedano dell’errore prima di completarlo nella loro commissione, cioè prima di pronunciare
sentenza.

Il problema è quando i giudici non si avvedano di questo, e cadono completamente


nell’errore: cioè viene pronunciata sentenza dal giudice monocratico in ipotesi di collegialità
o viceversa.

Se succede questo, come si risolve? Dà risposta l’art. 50-quater: “Le disposizioni di cui agi
artt.50-bis e 50-ter non si considerano attinenti alla costituzione del giudice. Alla nullità
derivante dalla loro inosservanza si applica l’art. 161, co. 1”. Il legislatore ci vuole dire che, se
i giudici sbagliano e violano le norme 50-bis o 50-ter, questo vizio non attiene alla
costituzione del giudice: questo è il caso in cui la pronuncia venga fatta a non iudice, cioè da
chi non è riconducibile alla funzione giurisdizionale, e la sentenza pronunciata, allora, è del
tutto inesistente, perché è pronunciata da chi non è giudice (ad esempio, se la sentenza
venisse scritta dal cancelliere e non dal giudice, la sentenza è inesistente, ed è un vizio
insanabile perché attiene alla costituzione del giudice). Poiché questo vizio, viceversa, non
attiene alla costituzione del giudice, non si può considerare inesistente o radicalmente nulla
la sentenza se pronunciata dal giudice collegiale al posto di quello monocratico e viceversa. Il
vizio, dunque, è relativo, non assoluto e l’art. 50-quater dice che lo si può far valere nei limiti
dell’art. 161 co. 1 c.p.c. Questa disposizione prevede tutti i vizi della sentenza che devono
essere fatti valere con l’impugnazione perché, se la sentenza passa in giudicato, il vizio si
sana. Ciò significa che se abbiamo una sentenza pronunciata dal giudice monocratico anziché
dal collegio, ci si trova di fronte a questa alternativa: o si fa appello e si denuncia questo vizio
(quindi, si impugna ai sensi dell’art. 161 co. 1) e il problema lo vedrà il giudice dell’appello;
oppure non si impugna, e la sentenza passa in giudicato e, a questo punto, la sentenza è
valida perché il vizio è sanato. La norma recita: “La nullità delle sentenze soggette ad appello
o a ricorso per cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole
proprie di questi mezzi di impugnazione. Questa disposizione non si applica quando la
sentenza manca della sottoscrizione del giudice”. Ciò significa che o si fa appello o ricorso per
cassazione o altrimenti il vizio è sanato. Questo fuori dalle ipotesi del co. 2, che sono quelle
della violazione del litisconsorzio necessario o mancata sottoscrizione della sentenza da
parte del giudice. A questo si aggiunge l’art. 158 che riguarda le nullità derivanti dalla
costituzione del giudice, che è sempre implicitamente richiamato dall’art. 50-quater e si dice
che: “la nullità derivante da vizi relativi alla costituzione del giudice o all’intervento del
pubblico ministero è insanabile e deve essere rilevata d’ufficio, salva la disposizione dell’art.
161”. Questa nullità (relativa alla costituzione del giudice) è insanabile, ma il rapporto tra
giudice unico e collegio non è un vizio che attiene alla costituzione del giudice, perché ciò è
escluso espressamente dall’art. 50-quater. Esempio: impugnazione del testamento decisa
dal giudice monocratico, anziché dal collegio, in violazione dell’art. 50-bis. In una situazione
di questo genere, o non si fa nulla e la sentenza passa in giudicato, quindi è valida come se

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l’avesse pronunciata un collegio; oppure si fa appello, dicendo al giudice che la sentenza è


nulla perché non è stata pronunciata da tre giudici, ma da un solo giudice. La corte d’appello,
allora, non può fare molto, perché o rimette la causa al primo giudice, perché sia
pronunciata da un collegio (c.d. remissione della causa al primo giudice), ma ciò si ha solo
nelle ipotesi previste dalla legge, e tra queste non vi rientra quella della violazione dell’art.
50-bis. Per questi casi, il giudice dell’appello, non può rimettere la causa. Allora il giudice
d’appello potrà soltanto deciderla nel merito (di nuovo), ma se la decide solo nel merito,
questa alla fine diventa un vizio di poca o inesistente rilevanza. Al di là del fatto che l’abbia
pronunciata un giudice o il collegio, dinanzi al giudice dell’appello bisognerà anche
lamentarsi di qualcosa nel merito della decisione, perché il giudice non potrà dare una
riforma solo sulla base di questo errore processuale. Si deduce che, alla fine, il legislatore
non considera grave questo vizio, ma lo considera quasi come un peccato, nel senso che non
ci sono rimedi particolari, anche perché se non si fa appello, la sentenza è valida, mentre se
si fa appello, il giudice dell’appello, non potendola rimettere al primo giudice, è tenuto lo
stesso a provvedere nel merito e, provvedendo nel merito, sostanzialmente diventa di poca
importanza questa circostanza (salve alcune ipotesi che attengono alle fasi cautelari
dell’appello).

Il rapporto tra i giudice unico e collegio non riguarda solo la decisione, ma anche la
procedura (art.281-bis e ss.). È un Capo Terzo-bis, aggiunto proprio a seguito della riforma
del ’98, perché fino al 1998 le decisioni erano solo collegiali. A seguito di questa riforma, si
dice che il giudice monocratico applica tutte le norme del giudice collegiale, salvo che poi il
giudice monocratico può dare applicazione anche a queste disposizioni che, viceversa, non
possono essere tenute in considerazione dal giudice collegiale. Il giudice monocratico,
dunque, ha anche delle possibilità in più rispetto al collegio e sono rappresentate da queste
disposizioni. Se la decisione è collegiale, quindi, il collegio applica tutto il codice di procedura
civile, ma non le disposizioni del Capo Terzo-bis; mentre se la decisione è monocratica, il
giudice monocratico applica ugualmente tutto il codice di procedura civile, più queste norme
che sono di possibile applicazione soltanto se la decisione è monocratica. Questo lo si può
leggere all’art.281-bis: “Nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica
si osservano, in quanto applicabili, e disposizioni dei capi precedenti, ove non derogate dalle
disposizioni del presente capo”. L’art.281-quater prosegue: “Le cause nelle quali il tribunale
giudica in composizione monocratica sono decise, con tutti i poteri del collegio, dal giudice
designato a norma dell’articolo 168-bis o dell’articolo 484, secondo comma”. Queste
disposizioni ci confermano che, quando la decisione è monocratica (cioè quasi sempre), il
giudice monocratico ha tutte le norme di procedura civile, ancorché pensate per un collegio,
più queste norme speciali che, viceversa, non possono essere applicate dal collegio.

La prima disposizione che ci riguarda attiene alla prova testimoniale, cioè l’art.281-ter che
riguarda i poteri istruttori del giudice, i quali mutano a seconda la decisione sia collegiale o
monocratica, nel senso che, se la decisione è monocratica, il giudice monocratico può
disporre la prova testimoniale d’ufficio, anche sulla base delle mere dichiarazioni delle parti;

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mentre questo non lo può fare il collegio, perché il collegio può farlo solo sulla dichiarazione
dei testi, non delle parti. Ovviamente le differenze principali che contrappongono la
decisione collegiale a quella monocratica stanno negli artt.281-quinquies e 281-sexies,
soprattutto in quest’ultimo, perché ha avuto una fortuna crescente negli anni (mentre il
quinquies è stato poco applicato) e riguarda la fase decisionale della causa. Già si è detto
della chiusura del processo in base agli artt. 189 e 190 c.p.c., che sono disposizioni che
chiudono il processo in primo grado, sia che la decisione sia collegiale o monocratica. Vi è
un’udienza di precisazione delle conclusioni e, a questo punto, secondo il 190, le parti hanno
60 giorni per depositare le comparse conclusionali (che sono atti scritti), hanno 20 giorni per
depositare le repliche scritte. La palla poi passa al giudice: ha 30 giorni per depositare la
sentenza (se è un giudice monocratico); ne ha 60 se è un giudice collegiale.

L’art. 281-sexies semplifica la chiusura tradizionale del processo di primo grado, e mantiene
per il giudice la forma della sentenza, ma è ancora di più “all’acqua di rose” rispetto alla
sentenza tradizionale (che è già stata annacquata con la riforma dell’art. 132 c.p.c.). In
questo caso si dice che: “Se non dispone a norma dell’articolo 281-quinquies, il giudice, fatte
precisare le conclusioni, può ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza o,
su istanza di parte, in un’udienza successiva e pronunciare sentenza al termine della
discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di
diritto della decisione. In tal caso, la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da
parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria”.

La disposizione dice che, precisate le conclusioni, anziché dare i termini per le comparse
conclusionali, il giudice dispone un’ulteriore udienza per la discussione orale: le conclusioni,
quindi, non si fanno per iscritto come per tradizione, ma si fanno oralmente come nel
processo penale. Il giudice, addirittura, potrebbe disporre ciò nella stessa udienza di
precisazione delle conclusioni, ma qui l’interpretazione non è rigida, perché non esiste nulla
di questo tipo: non avviene perché gli avvocati non sarebbero pronti a discuterla e né i
giudici sarebbero pronti ad emanare in quella stessa udienza la sentenza, quindi si fa ad
un’udienza successiva. Oggi si precisano le conclusioni e il giudice chiude ai sensi
dell’art.281-sexies, non concede termini per le conclusionali e invita ad una discussione orale
ad una data udienza; a seguito della discussione, il giudice dovrebbe, in quella stessa
udienza, pronunciare sentenza, leggere il dispositivo e la concisa motivazione, ma ciò non
avviene mai, perché il giudice si riserva di pronunciare dopo, con comunicazione dalla
cancelleria. Il giudice, se opta per la forma semplificata di definizione del giudizio, concede
un’udienza di discussione e non le comparse conclusionali, e a seguito della discussione
prende una decisione. Questo tipo di semplificazione non è gradita dagli avvocati, perché
non scrivono le comparse conclusionali e, soprattutto, se si prevede che il giudice nella
stessa udienza dia la sentenza, si capisce che questa sentenza non può che essere scritta
prima dell’udienza, perché non si vede come potrebbe farlo, perché scrivere una sentenza
non è cosa da pochi minuti. Se la sentenza, però, è già scritta, allora vuol dire che la
discussione orale non serve a niente. Questa è una svalutazione della funzione del momento

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finale della causa, che può andare bene se la controversia è semplice e scontata, ma va
meno bene se la causa è complessa o anche se richiede approfondimenti (controllo di
numeri o bilanci), e qui la discussione orale non si presta molto bene. In origine è stata
pochissimo applicata, per queste ragioni, dagli avvocati e dai magistrati; nel tempo questa
soluzione, però, ha trovato spazio ed è abbastanza frequente e, addirittura, è stata estesa
come tecnica in giudizio d’appello: oggi si possono chiudere in questo modo anche i giudizi di
appello, ma in origine riguardava solo la decisione del giudice monocratico. Per es.
un’impugnazione del testamento non si può chiudere con l’impugnazione del 281-sexies,
perché ha la riserva di collegialità e, ove vi sia questa, queste norme non trovano
applicazione, perché sono norme scritte per il giudice monocratico, salvo la contraddizione
secondo cui il collegio può farlo in corte d’appello. In appello, in cui è sempre collegiale la
decisione, si può chiudere in questo modo, ma non in tribunale, perché sono disposizioni
approvate in anni diversi senza un minimo coordinamento dal nostro legislatore.

Abbiamo, pertanto, questa schizofrenia per cui, in primo grado, la sentenza semplificata del
281-sexies è possibile solo se è giudice monocratico; però, questa stessa sentenza può
essere pronunciata dal giudice dell’appello, pur essendo questo collegiale.

EFFETTI DELLA SENTENZA

La sentenza produce degli effetti; si tratta di stabilire se la sentenza è definitiva (e si dice


anche “passata in giudicato”), e in tal caso coincide con il giudicato, oppure se essa non sia
ancora passata in giudicato, e in questi casi si dice che la sentenza ha effetti provvisori. La
sentenza non è definitiva quando sono ancora aperti i termini per impugnare, cioè se è
possibile ancora fare appello: si devono riconnettere a questo argomento gli artt.324 ss.
c.p.c., che riguardano proprio questo aspetto. L’altra ipotesi è che la sentenza venga
effettivamente impugnata, quindi pende un appello: finché non si ha l’esito
dell’impugnazione, la sentenza non passa in giudicato ma ha degli effetti provvisori, di cui si
trova la disciplina all’art.282 c.p.c., disposizione rimaneggiata nel 1990. Fino al 1950, alle
sentenze di primo grado non si attribuiva alcun effetto provvisorio, per cui se veniva fatto
appello, ogni effetto era posticipato al momento della sentenza in appello, ovvero nel
secondo grado di giudizio; questo produceva l’effetto collaterale che spesso veniva fatto
appello solo per rinviare l’effettività degli effetti della sentenza, e inoltre si riteneva eccessivo
che tutto il lavoro fatto dal tribunale non dovesse produrre alcun tipo di effetto. Una prima
svolta in questo senso fu fatta col processo del lavoro del 1973, in cui si dice che la sentenza
di primo grado che porti condanna a favore del lavoratore può anch’essa produrre effetti
provvisori, ancorché appellata. Quando si arriva al 1990, si riscrive l’art.282 e si attribuisce a
tutte le sentenze di primo grado, a prescindere dall’esito, un’efficacia provvisoria; questo fu
fatto per un duplice motivo: valorizzare il lavoro dei giudici di primo grado e per impedire
che l’Appello potesse essere proposto solo per fini dilatori. Oggi, per le sentenze non passate
in giudicato, l’art.282 dice semplicemente che la sentenza di primo grado è provvisoriamente
esecutiva. Questa disposizione necessita, pur nella sua chiarezza, di due chiarimenti ulteriori:

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innanzitutto, non si parla di effetti provvisori della sentenza ma di provvisoria esecuzione,


che significa che ha capacità di valere come titolo esecutivo; se questo è, si deve riallacciare
il discorso alle varie tipologie di azioni, cui corrispondono diversi tipi di sentenza, e s’è detto
che tra queste solo le sentenze di condanna valgono come titolo esecutivo. Allora il
problema che si è posto qui è quello di vedere se, con l’espressione utilizzata in modo
improprio dal 282, si voleva dire che tutte le sentenze – anche non di condanna – hanno
efficacia provvisoria, oppure se, valorizzando la lettera, si debba intendere che (dato che il
codice non parla di efficacia provvisoria, ma di provvisoria esecuzione) si deve escludere una
qualsiasi efficacia anticipatoria alle sentenze di accertamento e costitutive, con la
conclusione che solo le sentenze di condanna godono della provvisoria esecuzione. La
Cassazione sostiene che questa attitudine l’abbiano solo le sentenze di condanna, quindi
solo esse possono essere provvisoriamente esecutive; il prof. condivide largamente questa
opinione, non sulla base di un ragionamento di tipo teorico e meramente formale, ma sulla
base di un ragionamento sostanziale, perché attribuire un’efficacia provvisoria ad una
sentenza di condanna significa anticipare l’esecuzione forzata, che di solito è reversibile
(quindi se per es. io perdo in primo grado e sono condannata a pagare una somma di
denaro, e poi in Appello mi viene dato ragione, il denaro mi verrà restituito). Questa logica
non si può però facilmente estendere alle sentenze costitutive: per es. se si attribuisce
efficacia provvisoria ad una sentenza di divorzio, si immetterebbe troppa confusione nel
sistema perché certe situazioni non sono reversibili, cioè se io sono sposata e divorzio con
sentenza di primo grado e mio marito fa appello, se io nel frattempo mi risposo e mio marito
vince in appello, io mi ritrovo bigama. È opportuno dunque, al di là di riflessioni formali, da
un punto di vista pratico che la decisione abbia carattere definitivo, perché ci sono
caratteristiche strutturali di sentenze accertative e costitutive che lo richiedono. In
Cassazione c’è stata una discussione relativa alle condanne dipendenti dalle sentenze
costitutive: ci si chiedeva se, non essendo provvisoriamente esecutiva la costituzione, non lo
fosse neanche la condanna. La Cassazione dice che la condanna ha sempre efficacia
provvisoria, anche se dipendente da una sentenza costitutiva: per es. la condanna a pagare
l’assegno di divorzio dipendente dalla sentenza di divorzio.

Se viceversa la sentenza, perché non impugnata (e quindi sono scaduti i termini per le
impugnazioni), è passata in giudicato, e quindi è definitiva, essa ha altri e diversi effetti.
L’art.324 dà la nozione di giudicato formale, dicendo che la sentenza passa in giudicato
quando non è più soggetta ai mezzi ordinari di impugnazione - perché poi esistono i mezzi
straordinari di impugnazione che sono proponibili anche contro le sentenze passate in
giudicato -. I mezzi ordinari di impugnazione che ci interessano in questo momento sono
l’Appello e la Cassazione. Abbiamo però anche un giudicato sostanziale, disciplinato
dall’art.2909 c.c., rubricato “Cosa giudicata”, che dice che l’accertamento contenuto nella
sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi e gli aventi
causa. Questa disposizione necessita un duplice approfondimento, ovvero la valutazione da
una parte dei limiti oggettivi e dall’altra dei limiti soggettivi del giudicato. Il giudicato è

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quanto le parti sono tenute ad osservare secondo l’ordine del giudice, però bisogna stabilire
in cosa effettivamente esso consiste in senso oggettivo, e tutto questo serve per capire cosa
fa stato ad ogni effetto. L’altro problema è relativo ai limiti soggettivi, ovvero nei confronti di
chi la sentenza produca effetti.

Iniziamo dai limiti oggettivi; es. annullamento del contratto: vi sono più ragioni per cui si può
chiedere l’annullamento del contratto, ad es. per errore o per dolo. Immaginiamo che lo
chiediamo per errore: il tribunale respinge la domanda e la sentenza di rigetto in relazione a
questa azione passa in giudicato; la domanda è: si può fare un secondo processo chiedendo
l’annullamento del contratto per dolo? Se io ritengo che questa sentenza si sia limitata ad
accertare l’inesistenza dell’errore, non c’è motivo per escludere la possibilità di agire per
chiedere l’annullamento per dolo. Se invece si dice che entrambe le azioni sono finalizzate al
raggiungimento del medesimo obiettivo, quello di ottenere l’annullamento, e il tribunale l’ha
negato una volta, non si può chiedere di annullarlo per altro motivo, perché la sentenza era
finalizzata non ad accertare l’errore, ma a stabilire sostanzialmente la validità del contratto.
In questo senso, il 2909 non chiarisce cosa della sentenza faccia stato. Ulteriore esempio può
riguardare l’accertamento della proprietà: io rivendico la proprietà di un immobile nei
confronti di Tizio, ma il giudice respinge la domanda e la sentenza passa in giudicato. Molti
sono i modi di acquisto della proprietà: la vendita, la donazione, il testamento, l’usucapione;
la domanda è: se la mia domanda di accertamento della proprietà è basata su uno di quei
titoli d’acquisto, e questa è stata respinta, ne posso proporre un’altra per diverso titolo
d’acquisto, ma sempre mirata all’accertamento della proprietà? Anche qui, come
nell’esempio precedente, bisogna delimitare oggettivamente su cosa verta il giudicato.
Bisogna quindi capire se gli effetti del giudicato, ai sensi del 2909, si hanno sulla domanda
(cioè sulla coppia petitum-causa petendi) o su tutta la materia che si porta al giudice, cioè
sull’intero rapporto giuridico dedotto nel processo; da ciò dipende una visione più restrittiva
o più ampia del giudicato. A questo proposito, le disposizioni che ci interessano sono gli
artt.112, 12 e 34 del c.p.c.:

 Il 112 prevede il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato: il giudice deve


pronunciare su tutta la domanda, ma non oltre i limiti di essa. Se, riprendendo
l’esempio, io chiedo l’annullamento per errore, non posso dire che si sia formato
giudicato anche sul dolo, perché violerebbe l’art.112 dato che si oltrepasserebbero i
limiti della domanda.
 Il 12 dice che, quando si deduce nel processo solo una parte o una frazione del
rapporto obbligatorio, la competenza del giudice si determina sulla base di quella
frazione, e non di tutto il rapporto. Se io chiedo il pagamento di una rata di 1000 euro
in un contratto di mutuo, si determina la competenza del giudice sulla base di quella
frazione del rapporto messa in contestazione (tant’è che, in questo esempio, la
competenza per valore è del giudice di pace e non del tribunale); se poi si
pretendesse che il giudicato si estenda a tutto il rapporto giuridico, quindi, si
violerebbero anche le norme della competenza.

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 Ciò è ripreso infatti dall’art.34, che è pensato per i meccanismi sulla competenza, e
che è chiarissima nel dare i limiti del giudicato. Nell’es. io vado dal giudice di pace per
il pagamento della rata di mutuo di 1000 euro: il giudice di pace non giudica sulla
validità del rapporto di mutuo, sulla base dell’art.34 che dice che l’accertamento
della validità del rapporto giuridico si può porre in essere o per esplicita domanda di
una delle parti, oppure se lo impone la legge, perché in caso contrario il giudice di
pace deve pronunciarsi solo sulla questione della singola frazione del rapporto
giuridico. Se viceversa le parti chiedono o la legge impone l’accertamento della
validità del rapporto giuridico, il giudice di pace deve rimettere la causa al tribunale,
in quanto non ha competenza per valore in tale materia. Queste questioni
pregiudiziali sono decise “incidenter tantum”: gli accertamenti di percorso non hanno
efficacia di giudicato, che invece hanno solo le domande.

Il giudicato si forma dunque sulla domanda: questa è la scelta fatta dal legislatore del
1940 sulla base degli studi di Chiovenda, che sosteneva questo sui limiti del giudicato.
Tuttavia la giurisprudenza ha totalmente disatteso queste indicazioni codicistiche, a
partire dagli anni ’50 ad oggi, per esigenze di economia processuale: ha infatti esteso
l’efficacia del giudicato, a prescindere dalle tre norme di cui sopra, anche all’antecedente
logico necessario, e inoltre si dice che il giudicato copre sia il dedotto che il deducibile.
Mentre nel nostro codice vi era l’idea che vi fosse precisa corrispondenza tra l’oggetto
della domanda, l’oggetto del processo e l’oggetto del giudicato, questo meccanismo oggi
non esiste perché l’oggetto del processo è sempre più ampio rispetto a quello della
domanda, perché attiene a tutte le relazioni giuridiche che si deducono nel processo.

C’è una triplice distinzione nel giudicato, tra giudicato interno ed esterno; l’eccezione di
cosa giudicata; la preclusione pro iudicato. Per giudicato interno si intende il giudicato
che si forma all’interno del processo; ciò può avvenire in due modi: 1) con le sentenze
non definitive: il giudice pronuncia sentenza non definitiva che non viene impugnata, o
non viene fatta riserva di impugnazione, passa in giudicato e il processo prosegue e si
crea un giudicato interno; 2) quando la sentenza si è pronunciata su più questioni e ne si
impugnano solo alcune: quelle impugnate continuano ad essere oggetto di discussione,
mentre le altre passano in giudicato. Per giudicato esterno invece si intende quello
formatosi all’interno di un altro processo: per il principio del ne bis in idem, non ci si può
più pronunciare su una questione già passata in giudicato in un altro processo. Tutto ciò
ha rilevanza in termini di prova: il giudicato interno non va provato, in quanto è un atto
interno al processo e il giudice ce l’ha già nel fascicolo (e peraltro può ovviamente
rilevarlo anche d’ufficio), mentre il giudicato esterno va provato dalla parte che lo solleva
perché fa parte di un altro processo.

Il giudicato può costituire eccezione (c.d. eccezione di cosa giudicata), quindi può
costituire strumento difensivo: in questo caso, si tratta di giudicato esterno, perché viene
eccepita la cosa giudicata in un diverso processo. Quindi chi eccepisce il giudicato dovrà

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farlo nei limiti e nelle forme previste per le eccezioni, e il problema che si è posto in
giurisprudenza è se l’eccezione di giudicato sia ad istanza di parte o rilevabile d’ufficio. La
giurisprudenza della Cassazione ha avuto dei tentennamenti, ma alla fine ha sostenuto
che sia rilevabile d’ufficio in ogni momento della causa dal giudice, e la parte non ha
preclusioni per sollevare il giudicato (quindi non deve farlo necessariamente nei limiti del
167); questo non è propriamente vero perché il giudicato esterno va provato
depositando la sentenza passata in giudicato, quindi se si deve provare con un
documento resta fermo il principio che i documenti si devono produrre entro le memorie
del 183, quindi non si possono produrre in qualunque momento. Quindi da una parte
l’eccezione di giudicato, rilevabile d’ufficio, non soggiace alle preclusioni del 167, ma
dall’altra il giudice può sollevarla solo se gli risulta dal fascicolo e non per scienza privata.
Può succedere dunque, in casi rari, che non si riesca ad impedire un secondo processo
perché la materia è già stata giudicata, perché la parte non produce il documento e,
dopo la scadenza dei termini, neanche il giudice può rilevare d’ufficio l’eccezione; allora
sulla medesima res litigiosa si forma un secondo giudicato, e in tal senso la
giurisprudenza della Cassazione dice che in questi casi, nel conflitto fra i giudicati, prevale
il secondo giudicato.

La terza precisazione da fare riguarda giudicato e preclusioni pro iudicato; la preclusione


pro iudicato è una preclusione derivante dal giudicato, quindi è una sfumatura di cui
abbiamo già parlato. Questa sfumatura deriva dal fatto che in alcuni casi vi sono
provvedimenti che hanno efficacia definitiva, e tuttavia questi provvedimenti, ancorché
nell’autorità giudiziaria, a monte non hanno un contraddittorio tra le parti; tra questi vi è
il decreto ingiuntivo (qualora non venga opposto). È giusto attribuire una sfumatura di
efficacia tra sentenza definitiva e questo tipo di provvedimenti? Alcuni ritengono di sì, e
quindi introducono questa sfumatura tra preclusione pro iudicato e l’effetto del
giudicato. L’esigenza nasce dal dare un minimo di differenza tra un provvedimento
giurisdizionale senza contraddittorio non opposto e tra una sentenza. L’efficacia che si dà
al provvedimento è diversa a seconda dell’ambito che si attribuisce al giudicato da un
punto di vista oggettivo: ad un’estensione del giudicato, sorge la necessità di avere un
concetto più ristretto e rigoroso di preclusione pro iudicato quando il provvedimento
definitivo non è una sentenza derivante da contraddittorio. I provvedimenti pronunciati
senza contraddittorio e non opposti hanno quindi un’efficacia di giudicato molto
ristretta, come sarebbe stata l’efficacia del giudicato nell’idea del Chiovenda.

Per quanto invece riguarda i limiti soggettivi del giudicato, il problema è vedere nei
confronti di chi il giudicato fa stato. L’art.2909 dà in tal senso un’indicazione più chiara,
dicendo che il giudicato produce effetto tra le parti, gli eredi e gli aventi causa. Le parti
ovviamente sono quelli che hanno partecipato al processo, e quindi sono indicati dalla
sentenza; gli eredi sono indicati dal diritto sostanziale; gli aventi causa sono coloro che
sono subentrati in quel diritto, oggetto della sentenza, perché gliel’ha dato un dante
causa, ovvero la parte. Il rapporto tra questo inciso e quello del 111 sulla successione a

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titolo particolare è che qui la cessione del diritto avviene dopo la sentenza, mentre nel
111 avviene pendente la lite.

Il tema dei limiti soggettivi del giudicato ha assunto grande importanza perché ci si è
chiesto se, al di là dei soggetti indicati dal 2909, il giudicato possa avere effetti anche nei
confronti di terzi, che con il processo non c’entrano nulla: se il terzo è un terzo
indifferente, è chiaro che la risposta è no perché la sentenza non lo riguarda, anche se
tutti la devono rispettare in maniera generale come provvedimento dell’autorità; la
situazione è diversa se invece il terzo è titolare di un diritto dipendente rispetto a quello
fatto valere nel processo, e quindi magari prima del giudicato poteva intervenire nel
processo, ma ciò non è stato fatto. Si immagini che io ottenga una sentenza passata in
giudicato nei confronti di un credito che ho verso Tizio, garantito da Caio; se anziché
aggredire Tizio io aggredissi Caio, come fideiussore, egli può discutere solo del contratto
di fideiussione o potrà mettere in discussione anche il rapporto credito-debito
principale? Cioè la sentenza che ha accertato il credito produce effetti anche verso il
fideiussore? Ciò sarebbe sconveniente perché darebbe luogo alla probabilità di
formazione di giudicati contraddittori; quindi la sentenza produce effetti nei confronti di
terzi quando questi siano titolari di rapporti giuridici connessi o dipendenti. Stando al
2909 si potrebbe dire che questi problemi non sussistono perché la legge ha già
individuato i soggetti verso cui fa stato il giudicato, però ci sono delle norme che vanno in
senso contrario:

 la prima è l’art.404 c.p.c., che dice che il terzo può fare opposizione alla sentenza
qualora questa pregiudichi i suoi diritti: se noi concludiamo che la sentenza non
produce effetti nei confronti di terzi, l’opposizione di terzi non ha senso, perché
non potrebbe in qualche modo pregiudicare i diritti di altri. Il 404 indirettamente,
al di là del 2909, dà quindi contezza del fatto che le sentenze hanno efficacia
anche nei confronti di terzi.

 Altra norma è quella del 105 c.p.c., che riguarda l’intervento di terzi nel processo se
hanno un interesse; è una tutela preventiva rispetto alla sentenza, ma è sempre
uno strumento difensivo per un terzo che quindi dà implicitamente contezza del
fatto che la sentenza può pregiudicare interessi di altri rispetto alle parti.

 Poi ancora ci sono disposizioni che, in via specifica, attribuiscono efficacia della
sentenza a terzi: per es. l’art.1595 comma 3 c.c., disposizione in materia di
locazione che dice che la sentenza pronunciata tra conduttore e subconduttore
ha efficacia anche nei confronti del locatore. Il problema sull’efficacia soggettiva
del giudicato è quello di garantire il coordinamento dei provvedimenti
giurisdizionali, perché se si esclude sempre che la sentenza non abbia efficacia nei
confronti di terzi, si consente al terzo di rimettere in discussione la materia
giudicata e quindi ci sarà maggiore possibilità di giudicati contraddittori.

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Sul giudicato dal punto di vista soggettivo si sono formati tre orientamenti:

1. Un primo fu sviluppato da un processualista di nome Allorio negli anni ’30, che


scrisse la monografia “La cosa giudicata presso terzi”, e che fu ripresa negli anni
’60 da Proto-Pisani e Fabrini: il giudicato può produrre effetti nei confronti dei
terzi se essi ne sono pregiudicati. Questo orientamento, sviluppato prima della
entrata in vigore della Costituzione, è poco rispettoso della Carta Costituzionale
(nonostante Proto-Pisani e Fabrini ne abbiano ridiscusso negli anni ’60), perché
contrasta con l’art.24 che esprime il diritto al contraddittorio, in quanto si crea un
certo conflitto d’interesse tra la coerenza del sistema e il diritto al contraddittorio
e alla difesa.
2. Si forma quindi un orientamento contrapposto, che fa prevalere il diritto alla
difesa. Ciò anche in coerenza col dettato del 2909, che non estende ai terzi gli
effetti della sentenza, e salvo – si aggiunge – i casi previsti dalla legge, perché lì la
dipendenza discende direttamente dal diritto sostanziale.
3. Un terzo orientamento, sostenuto dal processualista Liebman, rende principio
generale una regola che vale solo per la garanzia per evizione. La garanzia per
l’evizione è mirata a garantire il trasferimento della proprietà in una vendita; per
es. io vendo un bene a Tizio e, fatta questa vendita, Caio rivendica la proprietà del
bene, allora Tizio avrà diritto alla garanzia per evizione nei miei confronti. Questo
meccanismo nel 1485 ha una ricaduta processuale perché si tratta di capire se il
venditore partecipa o meno al processo tra l’acquirente e il sedicente proprietario
(nell’es., se io partecipo al processo tra Tizio e Caio). Se questo non succede e
Tizio si difende da solo e perde, chiederà il risarcimento a me venditore; questo
problema è specificamente affrontato dal 1485, che dice che la sentenza
pronunciata produce effetti nei confronti del venditore, ma egli ha sempre la
possibilità di dimostrarne l’ingiustizia, dimostrando che – se fosse stato
chiamato nel processo – avrebbe avuto delle chances per fare respingere la
domanda.

Queste le tesi dottrinali; la giurisprudenza, in linea generale, sposa la seconda tesi,


ritenendo che sia prevalente il diritto alla difesa a scapito anche del coordinamento del
sistema, e pertanto la sentenza non potrebbe produrre effetti nei confronti di terzi perché, in
tal caso, sarebbe contrastante con l’art.24 Cost. La giurisprudenza dà inoltre una lettura
derivante dall’art.1306 c.c. – in tema di obbligazioni solidali –, che dice che la sentenza
pronunciata tra il creditore ed uno dei debitori in solido o viceversa non ha effetto contro gli
altri debitori o creditori. In punto di limiti soggettivi del giudicato, dunque, la sentenza –
rispetto agli assenti nel processo – non produce effetti, quindi in una certa misura conferma
il principio per cui la sentenza produce effetto solo nei confronti delle parti (anche ai sensi
dell’art.2909 e in coerenza con l’art.24 Cost.); la giurisprudenza però valorizza il fatto che sia
detto che la sentenza non ha effetti “contro” i terzi assenti, dicendo che questo
significherebbe che il terzo che ha partecipato al processo non può avere effetti

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pregiudizievoli dalla sentenza, ma può eventualmente avvantaggiarsene qualora ne abbia


interesse. In sintesi, sarebbe possibile che la sentenza dispieghi effetti nei confronti di terzi
solo se questi effetti sono ai terzi favorevoli.

VALIDITÀ DEGLI ATTI PROCESSUALI

Gli atti processuali possono essere nulli se fatti in contrasto con le norme processuali. La
disciplina dell’invalidità degli atti processuali è differente rispetto a quella degli atti negoziali
sostanziali, sotto due profili: 1) nell’atto negoziale, l’elemento essenziale principale è la
volontà, la cui assenza rende l’atto nullo, quindi è sempre necessaria l’indagine della volontà
delle parti, cosa che non esiste negli atti processuali, che sono sempre volontari, e ciò fa sì
che nell’atto processuale il concetto di forma coincida con quello di contenuto (tanto che si
parla, in tal senso, di forma-contenuto); 2) mentre nel negozio si ha contrapposizione tra
nullità ed annullabilità, l’atto processuale non prevede la categoria dell’annullabilità ma solo
quella della nullità. Al più si può parlare di atto inesistente, ma è una categoria creata dalla
dottrina e dalla giurisprudenza. La contrapposizione per gli atti processuali è solo tra atto
valido e atto nullo.

La disciplina della nullità degli atti è contenuta nel Primo Libro del c.p.c., nelle disposizioni
generali, agli artt.156 ss. Il problema della nullità dell’atto processuale si scontra con
esigenze contrapposte, a cui il legislatore deve porre rimedio per trovare equilibrio; qui in
particolare si pone il problema di trovare un equilibrio tra l’esigenza del rispetto delle norme
processuali e il fatto che il processo serve per consentire a chi ha un diritto che gli sia
riconosciuto, quindi il compito del giudice non è quello di perdersi tra i cavilli delle norme
processuali, ma quello di rendere giustizia. Quindi se si esagera con le norme processuali,
trasformando il processo, che è un mezzo, in un fine, si rischia di pregiudicare la giustizia
sostanziale. Alla luce di questo equilibrio, sono venute in soccorso le norme del 156 ss. c.p.c.:
in concreto l’equilibrio è quello di considerare che, se le norme processuali non vengono
rispettare, l’atto è nullo, ma con dei temperamenti e dei limiti, tracciati appunto in queste
norme. Il primo limite si trova proprio al 156, che dice che non può essere pronunciata la
nullità per l’inosservanza di forme per alcun atto del processo se essa non è comminata da
legge: per es. se il 163 dice che l’atto di citazione deve contenere 7 elementi, se ne manca
uno l’atto è nullo in base al 156, perché è la legge stessa che prevede quell’elemento a pena
di nullità. La norma successiva, il 157, dice che la nullità non può pronunciata senza istanza
di parte, a meno che la legge stessa non dica che si può pronunciare d’ufficio; il sistema
subordina quindi la dichiarazione di nullità non solo al vizio dell’atto, ma anche al fatto che la
nullità sia sollevata dalla parte, salvi i casi in cui la legge preveda un potere del giudice di
dichiararla d’ufficio. Il 156 co.3 è la chiave di risoluzione del problema, perché dice che la
nullità non può essere mai pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato: il
principio del raggiungimento dello scopo è il principio cardine per valutare la nullità o meno

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di un atto processuale. Deve prevalere, peraltro, la sostanza sulla forma, perché il processo
deve rendere giustizia sostanziale.

La disciplina delle nullità è pensata dal legislatore contemperando l’esigenza di far rispettare
le regole procedurali, ma anche di non eccedere nei formalismi e di non trasformare il
processo civile, che è un mezzo, in un fine. Il dovere del giudice è quello di andare alla
sostanza delle cose, di vedere chi ha ragione e chi ha torto nel merito, andando anche oltre i
formalismi delle regole processuali, e in questo senso il c.p.c. prevede che solo gli atti per cui
è prevista la nullità, se invalidi, sono nulli. Il principio cardine che regola questo fenomeno,
come si è detto, è il raggiungimento dello scopo processuale per cui l’atto era stato previsto,
per cui se ciò è successo anche possibili nullità vengono sanate. Se l’atto invece non ha
raggiunto lo scopo, il problema non può essere considerato solo formale ed è anche giusto
che il processo si arresti, sia considerato nullo. Ma come si fa in concreto a valutare se un
atto ha o non ha raggiunto lo scopo processuale? Nel concatenarsi di atti nel processo,
normalmente gli scopi sono due: 1) mettere la controparte in condizione di difendersi,
ovvero di fare la “mossa successiva”; 2) mettere il giudice in condizione di decidere. Quindi
se per es. ci interroghiamo su un atto di citazione, al di là di quanto previsto dal c.p.c., se è
un atto che mette in condizione la controparte di difendersi o il giudice di decidere l’oggetto
del contendere, l’atto è sostanzialmente valido perché raggiunge lo scopo cui è prefissato.

Ci sono quindi già 3 temperamenti importanti per la nullità: dev’essere prevista per legge,
sollevata dalle parti e viene meno se c’è il raggiungimento sostanziale dello scopo. Tuttavia
ce ne sono anche altre: l’art.159 c.p.c. riguarda l’estensione della nullità, e dice che la nullità
di un atto non comporta la nullità di quelli precedenti o di quelli successivi che ne sono
indipendenti. Seguono altri due commi. È una situazione che il legislatore ha immaginato per
“salvare il salvabile”. La disposizione dice innanzitutto che la nullità può essere anche
parziale pertanto, secondo il principio di diritto sostanziale per cui la nullità di una clausola
non comporta la nullità di tutto il contratto, anche nel diritto processuale la nullità parziale
di un atto non comporta l’invalidità dell’atto intero. Si salvano anche gli atti anteriori, e
questo è logico perché se per es. si ha la nullità delle memorie del 183, certamente gli effetti
della nullità si potranno produrre per quell’atto ed eventualmente per il futuro, non certo
per il passato, per cui si fanno salvi l’atto di citazione o la comparsa di risposta, ad es.; gli atti
successivi saranno nulli se dipendenti dall’atto anteriore nullo. Il giudice potrebbe non
rilevare la nullità dell’atto, e continuare il processo in contumacia: in questo caso tutti gli atti
sono nulli (perché tutti dipendenti), perché non si può fare il processo senza il rispetto del
contraddittorio.

A chiusura il 161 dice che tutte le nullità, che diventano anche nullità della sentenza, in tanto
continuano a vivere come nullità in quanto io le faccia valere col mezzo di impugnazione: la
sentenza, ancorché nulla, se passa in giudicato, viene sanata. Per es. se il convenuto è
contumace, la parte notifica la sentenza e il contumace si accorge in quel momento che c’è
stato un processo contro di lui; ovviamente la sentenza è nulla per mancanza di

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contraddittorio, ma solo se il convenuto contumace si attiva ed impugna la sentenza, perché


se la sentenza passa in giudicato il 161 dice che il vizio viene sanato.

Queste norme generali sulla nullità valgono per tutti gli atti processuali, ma in alcuni
momenti abbiamo una disciplina speciale per certi atti processuali, per es. per l’atto di
citazione. Alla nullità di questo atto si applicano queste disposizioni, interpretate in modo
non chiaro dalla giurisprudenza, per cui nel ’90 si è intervenuto con una riforma dell’art.164,
disposizione che prevede in modo specifico la nullità dell’atto di citazione. L’art.164
nient’altro fa se non dare concretezza ai principi generali che valgono per tutti gli atti
processuali, e serve anche per avere un riscontro pratico di quanto detto finora. L’art.164
separa l’atto di citazione in due momenti: l’esercizio dell’azione (edictio actionis) e la vocatio
in ius; prevede dunque che si tratta di vedere se la nullità cada su un elemento della vocatio
o su uno dell’edictio actionis. Se cade su un elemento della vocatio in ius è meno grave: si
tratta per es. di una citazione che manca totalmente della vocatio, o che indica una data di
citazione che non tenga conto dei termini minimi a comparire etc.; in questo caso, per il
principio del raggiungimento dello scopo, la prima cosa è vedere se il convenuto in prima
udienza si è costituito o meno perché, nell’ipotesi che si sia costituito, si può passare sopra
alla nullità dell’atto (se relativa al solo profilo della vocatio) perché esso ha comunque
raggiunto lo scopo. Se il convenuto non è costituito e il giudice rileva che c’è un vizio sulla
vocatio, il giudice non può ritenere che sia stato raggiunto lo scopo e dovrebbe chiudere il
processo in rito, ma invece il legislatore dà la possibilità all’attore di sanare il vizio, per cui il
164 prevede un termine per l’attore per sanare il vizio e rinotificare l’atto, fissando una
nuova udienza.

Un problema che potrebbe sorgere è che a questo punto si hanno due atti di citazione: il
primo nullo e il secondo valido. Allora gli effetti sostanziali e processuali della domanda
decorrono dal primo atto nullo o dal secondo atto valido? Cioè la sanatoria ha effetti
retroattivi o l’effetto è ex nunc? Innanzitutto gli effetti processuali della domanda ruotano
attorno all’art.39, 5 e 111 c.p.c.; due di queste tre norme si sono già analizzate, ovvero il 39 e
il 111; il 5 viceversa è una norma che riguarda la perpetuatio iurisdictionis.

 La litispendenza è un ovvio effetto processuale (art.39), perché la data di inizio del


processo si ricava dall’atto di citazione, allora si capisce che la domanda conseguente
è: la data di inizio del processo, nel caso in cui vi siano due atti di citazione, si ricava
da quello nullo o da quello valido?

 Poi vi è il principio della perpetuatio iurisdictionis (art.5), che è un principio secondo


cui, una volta iniziato il processo, qualunque modificazione di fatto o di diritto è
irrilevante ai fini della competenza o della giurisdizione. Questo perché la parte che
ha torto potrebbe cambiare questi fatti per impedire al giudice di pronunciarsi.
L’esempio più lampante è la competenza: se essa è attribuita al Tribunale di Siena
perché il convenuto ha residenza a Siena, il fatto che il convenuto cambi residenza

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

non rileva. Stessa cosa vale se cambia la legge: se il processo inizia ad es. mentre è in
vigore la norma per cui la competenza si ricava dalla residenza del convenuto, e poi
in corso di processo la norma dovesse cambiare, ciò non rileva. Anche qui il problema
è capire da quale atto di citazione decorra questo effetto.

 L’art.111 ha il medesimo effetto processuale: riguarda la successione a titolo


particolare nel diritto controverso pendente la lite. In tanto si può dire che la
successione avvenga nel processo, in quanto si può dire che è pendente la lite; ciò
quindi si ricollega all’art.39, per cui si pone lo stesso problema della pendenza del
processo dall’uno o dall’altro atto di citazione.

Stessa cosa vale per gli effetti sostanziali dell’atto di citazione: il primo effetto è che la
domanda giudiziale interrompe e sospende la prescrizione e impedisce la decadenza
(art.2945 e 2964 c.c.). Inoltre altro effetto è la trascrizione della domanda giudiziale: se la
citazione ha ad oggetto dei diritti che possono essere oggetto di trascrizione, si può
trascrivere la domanda ma bisogna capire quando comincia a decorrere il termine della
domanda nulla. Poi vi sono una serie di effetti contenuti in altre disposizioni (artt.1148, 535,
807, 1283 c.c.), che prevedono che i frutti e gli interessi – a vario titolo – decorrono dal
giorno della domanda. Infine ci sono delle disposizioni dove espressamente si dice che il
diritto decorre dalla domanda (art.445 c.c. che attiene agli alimenti).

In tutta questa serie di casi, in conclusione, l’efficacia sanante è ex tunc: se la nullità della
citazione riguarda la vocatio in ius ed essa viene sanata, la sanatoria ha efficacia retroattiva,
per cui tutti gli effetti si producono dal tempo della prima citazione nulla. Ciò si deduce dallo
stesso art.164 c.p.c.: se il convenuto non si costituisce in giudizio il giudice, rilevata la nullità
della citazione, ne dispone la rinnovazione entro il termine previsto e gli effetti si producono
dalla data della prima domanda. Se l’ordine di sanatoria non è adempiuto dall’attore, il
processo si estingue. La costituzione del convenuto sana tutto ma non il termine minimo a
comparire: il giudice quindi deve rinviare l’udienza per dare la possibilità al convenuto di
esercitare il diritto di difesa.

I commi seguenti del 164 sono dedicati alla nullità dell’edictio actionis, che si ha quando è
incerto o inesistente il petitum e la causa petendi. Qui non ha rilevanza la costituzione o
meno del convenuto: se la nullità cade sull’edictio actionis, il giudice non può considerare
sanato il vizio perché il convenuto si è costituito, in quanto comunque non si è raggiunto lo
scopo. In ogni caso, comunque si dà un termine per sanare ed integrare l’atto, ma la scelta
del legislatore sul punto è che la sanatoria non ha effetto retroattivo, ma solo ex nunc,
quindi a partire dal secondo atto valido. Il processo va avanti e si sana, ma tutti gli effetti
sostanziali e processuali della domanda si hanno a partire dall’atto valido; e anche qui, se
l’attore non provvede a sanare, il processo si estingue. Restano ferme le decadenze
maturate e i diritti quesiti maturati prima della sanatoria.

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

TERMINI PROCESSUALI

È un tema connesso a quello della nullità; per quanto sia un aspetto meramente pratico, è
fondamentale perché tutti gli atti si fanno entro certi termini. La disciplina si trova agli
artt.152 ss. c.p.c.: i termini si dividono in legali, ovvero fissati dalla legge, e giudiziali, ovvero
fissati dal giudice, e possono essere o perentori, ovvero non rinnovabili, o ordinatori, che
possono essere rinnovati o spostati, a condizione che ciò avvenga prima della loro scadenza.
Normalmente si sovrappone il concetto di termine legale con quello perentorio e quello
giudiziale con quello ordinatorio, però è una regola che può sopportare delle eccezioni. Per
es. il convenuto si deve costituire 20 gg prima dell’udienza: è un termine legale e perentorio;
oppure il giudice deve ordinare l’integrazione del contraddittorio nel litisconsorzio
necessario: è un termine giudiziale e ordinatorio perché, motivando, si potrebbe chiedere al
giudice una proroga.

Al di là della decadenza, ci si chiede se si possa chiedere la remissione in termini: fino al ’90


non era un problema che ci si era posti, ma con la riforma si scrive l’art.184-bis, che era nel
secondo libro (quindi atteneva solo al processo ordinario di cognizione), quindi per riferirla a
qualunque tipo di processo si è spostata nel primo libro, con la disposizione del 153 comma
2. Questa disposizione dice che la parte che dimostra di essere incorsa in decadenza per
cause ad esse non imputabile, può chiedere di essere rimessa in termini; questa procedura
può essere estesa a tutti i termini, anche perentori. Ciò perché la decadenza è incorsa per
cause alla parte non imputabili. Per es. io convenuto mi devo costituire 20 gg prima, se no
perdo il diritto a sollevare le eccezioni a istanza di parte; se non mi costituisco nei 20 gg,
posso chiedere al giudice di essere rimesso in termini per costituirmi ed eccepire. Il giudice
può o non rimettere in termini a seconda che ritenga la decadenza a me imputabile o non.
Sono concetti elastici perché cosa sia o non sia imputabile è soggetto a discrezionalità ed
interpretazione del giudice. Il concetto di imputabilità è stato interpretato dalla
giurisprudenza in modo molto rigido, cosicché i giudici quasi mai sono riusciti a rimettere le
parti in termini.

Ultimo aspetto: alle volte il termine è chiaro (per es. 15 gg da oggi), ma solo se si ha chiaro il
momento dal quale decorre il termine; altre volte però (per es. 15 gg dalla cancellazione dal
registro dell’ufficio) si potrebbe non avere effettiva conoscenza del termine. Un’ipotesi è
l’art.305 c.p.c., che è stato dichiarato incostituzionale se non interpretato in un certo modo:
la disposizione dice che il processo dev’essere proseguito o riassunto entro un termine di tre
mesi, altrimenti si estingue. Il termine qui decorre dall’interruzione, e non da un determinato
giorno. Può succedere quindi che il convenuto possa non sapere dell’interruzione del
processo; qui è necessario introdurre la conoscenza legale del termine, con la conseguenza
che tutti i fatti, dai quali decorra un termine, possono fare decorrere il termine in tanto in

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

quanto la parte che ha l’onere di compiere attività processuale entro quel termine ne abbia
legale conoscenza. È un principio generale fissato dalla Corte Costituzionale.

IMPUGNAZIONI

L’art.323 c.p.c. apre un titolo dedicato alle impugnazioni, che stanno tutte nel secondo libro,
ma la tecnica è quella di fare un capo primo delle impugnazioni in generale (323-328) e poi
dei capi successivi che riguardano la disciplina delle singole impugnazioni (Appello 339 ss.;
Cassazione 360 ss.; revocazione 395 ss.; opposizione di terzo 404 ss.). I mezzi di
impugnazione sono appunto Appello, ricorso per Cassazione, la revocazione e l’opposizione
di terzo, e poi ancora abbiamo il regolamento di competenza e infine un istituto ibrido, che
non è un vero e proprio mezzo di impugnazione, che è il regolamento preventivo di
giurisdizione (i quali si fanno entrambi in Cassazione). Ci sono disposizioni che si applicano a
tutti i mezzi di impugnazione e, viceversa, alcune che regolano i singoli mezzi di
impugnazione e quindi solo a quelli possono applicarsi.

Sui mezzi di impugnazione si danno delle distinzioni; la prima è tra impugnazione ordinaria e
straordinaria: le impugnazioni ordinarie sono quelle che si possono esperire per impedire il
passaggio in giudicato della sentenza, e per questo vanno fatte entro certi termini perentori
fissati dalla legge; esempi classici sono Appello e Cassazione. Accanto ai mezzi ordinari ci
sono quelli straordinari, proponibili in qualunque momento anche contro la sentenza
passata in giudicato; costituiscono un’eccezione alla regola e sono scarsamente utilizzati
nella pratica, ma il nostro sistema li prevede perché aiutano a perseguire la giustizia
sostanziale. Una volta che la sentenza è passata in giudicato, essa non può essere più
ridiscussa e dà certezza in merito ad una certa materia, però proprio per questo ci sono alle
volte delle ingiustizie sostanziali che non possono essere taciute, perché ciò contrasterebbe
con il comune senso di giustizia che ognuno ha, quindi per far valere certi fatti eccezionali
contro una decisione formalmente giusta (perché è passata in giudicato) ma non
sostanzialmente giusta, è necessario attribuire certi mezzi di impugnazione straordinari. È un
equilibrio che trova il nostro sistema tra l’esigenza di giustizia sostanziale e la certezza che dà
una sentenza passata in giudicato. I mezzi ordinari di impugnazione sono quelli ricompresi
nell’art.324 c.p.c. e sono quelli che, se non attivati, danno la cosa per giudicata. Oltre i
principali, ovvero Appello e Cassazione, sono impugnazioni ordinarie la revocazione di cui
all’art.395 n.4-5 e il regolamento di competenza; costituiscono invece impugnazioni
straordinarie la revocazione di cui ai numeri 1-2-3-6. Costituisce impugnazione straordinaria
anche l’opposizione di terzo ex art.404 c.p.c.

Quando si impugna, ovviamente, è perché ci si lamenta di qualcosa; se ci si può lamentare di


qualunque cosa per cui si sia stati ritenuti soccombenti, l’impugnazione si dice “a motivi
illimitati”, mentre se il legislatore dice quali sono le doglianze che si possono fare valere di

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fronte al giudice sovraordinato si dice che le impugnazioni sono “a motivi limitati”. L’appello
e l’opposizione di terzo sono a motivi illimitati, mentre Cassazione e revocazione sono a
motivi limitati. Con l’appello ci si può lamentare di qualunque errore si ritenga commesso dal
giudice di primo grado; può al contrario essere proposto il ricorso per cassazione (ex art.360)
solo per 5 motivi ben precisi, e stessa cosa vale per la revocazione, che può essere esperita
solo nei 6 casi stabiliti dalla legge.

Un’ulteriore distinzione riguarda i mezzi di impugnazione rescindenti e rescissori: quelli


rescindenti sono i mezzi di impugnazione finalizzati semplicemente a far venir meno una
sentenza errata; sono invece rescissori i mezzi di impugnazione il cui scopo è sostituire la
sentenza errata con una corretta. È nuovamente una contrapposizione che rispecchia
appello e cassazione: il giudice dell’appello non ha solo il compito di vedere se il giudice di
primo grado ha pronunciato bene o male, ma deve anche sempre provvedere nel merito,
dando l’esatta soluzione se esatta non era quella del tribunale; al contrario, impugnazioni a
carattere meramente rescindente appartengono alla cassazione (tant’è che il termine
“cassare” significa proprio “cancellare”), per cui la Cassazione nient’altro fa se non eliminare
la sentenza ritenuta difforme rispetto alla legge. La Cassazione può pronunciare nel merito
con un ulteriore processo, detto “di rinvio”, quindi cancella la sentenza e manda un altro
giudice nel merito affinché svolga la funzione rescissoria.

Le impugnazioni possono riguardare il merito, e quindi anche il fatto, o soltanto il diritto.


Anche qui si contrappongono appello e cassazione perché con l’appello ci si può dolere
anche dei fatti, mentre in cassazione ci si può dolere solo del diritto. I fatti si fermano
dunque al giudizio in Appello.

IMPUGNAZIONI IN GENERALE

I termini di impugnazione sono importanti perché sempre perentori e fissati dalla legge; se
scadono il mezzo di impugnazione diventa inammissibile. Storicamente c’è una bipartizione
tra termine lungo, che è di un anno dal deposito della sentenza in cancelleria (anche se poi
durante il governo Renzi è stato ridotto a sei mesi), e un termine breve, che decorre da una
notificazione della sentenza, ed è di 30 gg per appello e di 60 per cassazione. Ai termini si
aggiunge una sospensione derivante dai tempi feriali, inizialmente di 45 giorni ma ridotta col
governo Renzi a 31 gg (ovvero il mese di agosto). Se oggi viene depositata una sentenza nella
cancelleria del tribunale di Siena, io ho sei mesi da oggi per impugnarla in appello; questo
termine, per giurisprudenza di cassazione, è dal deposito in cancelleria e non dalla
notificazione. Questo orientamento si è mantenuto anche con la riduzione dei termini col
governo Renzi, ma a parere del prof sarebbe da rivedere perché aveva un senso finché i
termini erano più lunghi, anche perché i termini sarebbe più giusto decorressero da un
elemento di diritto (quale la notificazione) e non da un fatto (quale il deposito). La parte
vittoriosa può notificare la sentenza alla parte soccombente, avvalendosi della

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

collaborazione dell’ufficiale giudiziario o della PEC, perché dalla notificazione derivano i


termini brevi e il soccombente può eventualmente fare impugnazione.

Per proporre una causa, ai sensi dell’art.100 c.p.c., bisogna avere interesse; nelle
impugnazioni è la stessa cosa, ma l’interesse è dato dalla soccombenza, ovverosia in tanto io
posso impugnare in quanto io sia soccombente. La soccombenza dev’essere pratica,
concreta, e non meramente teorica. Per es. nel processo fra me e Tizio, alla fine del
processo, io sono totalmente vittoriosa e lui totalmente soccombente; in tal caso
l’impugnazione potrà essere effettuata solo da Tizio contro di me. Sorgono invece
complicazioni quando la soccombenza sia parziale o quando il processo sia a pluralità di
parte. Mentre un tempo si parlava di effetto devolutivo dell’appello, che significava che,
fatto appello, tutto il contenzioso andava di fronte al giudice di appello che era libero di
riesaminare tutto e di ri-pronunciarsi nel merito, oggi questo non è più così – anche per
motivi di tempo e di concentrazione dell’attività processuale – per cui si dice che l’appello ha
ad oggetto non tutto il processo di primo grado, ma solo le questioni oggetto di
impugnazione. La prima complicazione si può avere in caso di processo sempre a due parti,
ma dove l’esito dia una soccombenza reciproca o parziale: l’es. è che io chiedo 10.000 euro a
Tizio e il giudice me ne ha riconosciuti 5.000. in questa ipotesi io sono soccombente perché
mi è stato riconosciuto meno di quanto io avevo chiesto, ma anche Tizio è soccombente
perché aveva chiesto il rigetto totale della domanda ma invece è stato condannato per 5.000
euro. Entrambi in questo caso possiamo fare appello (diversamente dall’ipotesi precedente);
e allora qui sorge il primo problema perché, se entrambi facciamo appello, il rischio è che da
un processo unico di primo grado sorgano due giudizi in appello relativi alla stessa sentenza.
Il sistema deve evitare nel modo più fermo possibile che si diano più giudizi di impugnazione
relativamente alla stessa sentenza, fermo il fatto che entrambe le parti devono avere il
diritto di impugnare. Questo problema è disciplinato agli artt.333-334-335, che sono
finalizzate da un lato a consentire a tutti i soccombenti di impugnare, ma dall’altro ad evitare
che più impugnazioni sulla stessa sentenza portino a più giudizi di appello. Il meccanismo è il
seguente: nei limiti dei termini per impugnare, tutte le parti soccombenti possono fare
appello e notificare l’impugnazione alla controparte; se la controparte viene a conoscenza
dell’impugnazione, essa ha l’onere di non impugnare in via principale la stessa sentenza, ma
di proporre il suo appello all’interno dell’appello fatto dalla parte principale. In questo caso
distinguiamo una prima parte che si chiama appunto appellante principale, ed è colui che
appella per primo, e l’appellante incidentale, che è colui che appella a seguito
dell’impugnazione della controparte. Con la creazione dell’istituto dell’impugnazione
accidentale si risolve il problema, perché le impugnazioni si propongono all’interno del
medesimo processo. L’atto di appello è sempre un atto di citazione e la parte si costituisce
con una comparsa di risposta; l’impugnazione incidentale sta quindi a questo meccanismo
come una domanda riconvenzionale.

Il 334 riguarda le impugnazioni incidentali tardive, cioè l’impugnazione avvenuta dopo la


scadenza dei termini per l’impugnazione. La legge autorizza le impugnazioni incidentali

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

tardive perché la scadenza del termine per l’impugnazione principale non può incidere sul
diritto ad impugnare della controparte. Il 334 completa il 333 in modo tale da consentire che
le impugnazioni incidentali si possano fare in qualunque momento a condizione che siano
fatte 20 gg prima della prima udienza, come le domande riconvenzionali. Sono ipotesi molto
frequenti, anzi ormai le impugnazioni incidentali tempestive sono praticamente rarissime.
L’impugnazione incidentale è esclusa a fronte dell’acquiescenza (art.329 c.p.c.), ovvero un
comportamento - espresso o tacito - con cui si dichiara o si fa intendere in modo
inequivocabile di non volere impugnare. Se l’acquiescenza è tacita, e quindi si sostanzia in un
comportamento incompatibile con la volontà di impugnare, è più complicato, allora la
giurisprudenza della Cassazione ha selezionato dei comportamenti che fanno acquiescenza
tacita e altri che non lo sono: per es. si esclude l’acquiescenza nel caso di pagamento, perché
una parte può pagare semplicemente per ottemperare all’ordine del giudice e con spirito di
rivalsa, per cui si può comunque proporre successivamente impugnazione. Sempre
nell’ambito dell’impugnazione accidentale, si deve sottolineare che l’acquiescenza ha valore
solo se anche l’altra parte sia acquiescente perché, nel caso non lo sia, essa può impugnare e
dà diritto alla controparte (prima acquiescente) di ri-impugnare a sua volta.

Il 335 infine chiude il sistema, dicendo che tutte le impugnazioni proposte separatamente
contro la stessa sentenza devono essere riunite in un unico processo, anche d’ufficio. Può
succedere infatti che la parte non ottemperi all’invito del codice e faccia comunque
impugnazione principale: ci si trova quindi in appello con due impugnazioni in relazione alla
stessa sentenza, per cui il giudice a questo punto può effettuare egli stesso la riunione delle
cause, anche d’ufficio.

Queste disposizioni servono per risolvere il problema che sorge quando, all’esito del
processo, non vi sia una sola parte soccombente, ma la soccombenza è reciproca o parziale,
e ciò può accadere spesso.

Ulteriore problema da risolvere riguarda il processo a pluralità di parti: in primo grado,


normalmente, i litiganti sono due, ma vi sono anche numerosi casi in cui non è così e in
questo caso si parla di litisconsorzio. Se in primo grado si è avuto un processo di 5 persone,
se il processo si porta in appello, tutte e 5 necessariamente devono andare in appello o è
immaginabile che anche solo due di loro vadano in appello? Si avrebbe un fenomeno, in
quest’ultimo caso, per cui la sentenza passa in giudicato per tre dei litiganti e invece per gli
altri due la controversia continua. Per rispondere a questa domanda si deve verificare se la
causa sia scindibile o inscindibile. Il codice ha optato per una soluzione intermedia: non si
può dire in assoluto che i processi a pluralità di parti siano o non scindibili, perché dipende
dal caso concreto, quindi alle volte bisogna continuare il processo con tutte le parti e altre
volte no, non c’è una regola assoluta. Dal punto di vista normativo, ciò si ritrova negli
artt.331-332, che riguardano rispettivamente le cause inscindibili e scindibili. Il 331 non dà i
casi concreti in cui la causa è inscindibile, ma disciplina processualmente il fenomeno
dell’inscindibilità. Si crea un po’ lo stesso problema che dava il 102 per il litisconsorzio

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

necessario. Non c’è una norma che dica quando una causa è inscindibile, ma il fenomeno
concreto va ricostruito alla luce non solo della dottrina, ma soprattutto degli orientamenti
della giurisprudenza. Sono considerate inscindibili:

 Le cause che in primo grado erano di litisconsorzio necessario;


 Le cause che rientrano nel 107 (intervento per ordine del giudice): si ritiene che se un
soggetto sta nel processo perché il giudice ha ordinato la sua partecipazione, questo
soggetto deve necessariamente partecipare anche ai gradi delle impugnazioni;
 Le cause che rientrano nel 111 (successione a titolo particolare nel diritto
controverso): nelle ipotesi in cui il successore a titolo particolare sia intervenuto in
primo grado, la causa diventa anche nei suoi confronti inscindibile;
 Connessione per pregiudizialità dipendenza: se più soggetti stanno all’interno della
medesima lite per diritti che fra loro stanno in rapporto di pregiudizialità dipendenza
(il petitum dell’una è causa petendi dell’altra), la causa si considera inscindibile;
 Cause di garanzia quando la garanzia è propria. La giurisprudenza distingue tra
garanzia propria, che dà luogo a causa inscindibile, o impropria, che dà luogo a causa
scindibile. Questa creazione giurisprudenziale della garanzia propria e impropria è
criticata dalla dottrina; la distinzione che si fa, quindi, premesso che la causa di
garanzia è una causa in cui si ha la possibilità di coinvolgere terzi nel processo
pretendendo che mi debbano garantire, è tra i casi in cui la garanzia dipende dal
contratto e quelli in cui dipende da atto illecito: se dipende da contratto, la garanzia è
classificabile come propria, mentre se dipende da atto illecito la si deve considerare
come impropria. Per es. la garanzia per evizione, che dipende dal contratto di
vendita, è una garanzia propria; altre ipotesi di garanzie da contratto sono la
fideiussione e l’assicurazione. Le garanzie che invece dipendono da atto illecito sono,
ad es., quelle dei c.d. sinistri a catena: si immagini che in autostrada io tamponi
un’auto davanti a me perché a mia volta sono stata tamponata da un’automobile che
sta dietro me. L’automobilista che sta nel mezzo (io) può pretendere di essere
garantito dalla responsabilità nei confronti di chi gli sta davanti da parte di chi gli sta
dietro, ma questa garanzia non è basata su un contratto, bensì su un atto illecito. La
dottrina tende a fare questa distinzione perché, a seconda che le garanzie siano
considerate proprie o improprie, si ritiene che si stia in ipotesi di causa
rispettivamente inscindibile o scindibile.

Al contrario, le ipotesi di cause scindibili sono:


 Quando le connessioni dei diritti sono deboli, quindi per petitum o causa petendi;
 Casi di identità di questioni (per es. più lavoratori licenziati per lo stesso motivo);
queste ipotesi non raffigurano delle vere e proprie connessioni. In questi casi, dato
che la connessione è ancora più debole, è ovvio che si dà luogo a ipotesi di cause
scindibili;
 Garanzia impropria, legate ad atto illecito.

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

Il giudice dell’appello in prima udienza deve verificare, nell’ipotesi di processo a pluralità di


parte, se sono presenti tutti i litiganti del primo grado e, se sono presenti, nulla quaestio, ma
se viceversa constata che non sono presenti tutti i litiganti del primo grado, bisogna che si
ponga la domanda se la causa è scindibile o meno:
 Se la ritiene inscindibile, e quindi ritenga che i soggetti mancanti necessariamente
devono stare in causa, il giudice deve andare in primo luogo a verificare che le
notifiche siano state fatte correttamente e, se così è, deve ordinare la rinnovazione
della notificazione; se invece non è stata fatta per niente la notificazione perché la
parte non riteneva di dovere coinvolgere altri, il giudice dà un termine per
l’integrazione del contraddittorio, e quindi rinvierà la prima udienza per consentire
l’integrazione e la parte appellante dovrà provvedere all’integrazione, sempre nei
termini minimi a comparire. Infine all’udienza successiva, il giudice verificherà che
l’ordine di integrazione del contraddittorio sia stato ottemperato. È possibile che la
parte non abbia ottemperato all’ordine: qui c’è una piccola diversificazione rispetto al
meccanismo del 102, che prevede a questo punto l’estinzione del processo, ma qui
non si può dichiarare l’estinzione del processo perché siamo in appello, e non
avrebbe senso far venir meno tutto il processo quando c’è già una sentenza di primo
grado. Allora il giudice dichiara inammissibile l’impugnazione, e questa dichiarazione
di ammissibilità non comporta l’estinzione del processo, bensì la definitività della
sentenza appellata. Al più si può fare ricorso in Cassazione per la dichiarazione di
inammissibilità dell’impugnazione (come disciplinato dall’art.338 c.p.c.).
 Se invece la causa è scindibile, non vi sono problemi da risolvere, se non uno preso in
esame dal Codice (art.332 c.p.c.) – che però è un problema meramente teorico – che
riguarda il caso in cui, nel momento in cui si va in udienza, non siano ancora decorsi i
termini per l’impugnazione principale. Il problema a questo punto potrebbe essere
che i litiganti non presenti non lo siano perché ancora non hanno appellato, ma lo
vogliono fare in un secondo momento. Il giudice allora deve anche accertarsi che i
termini per l’impugnazione siano già scaduti; nel caso in cui siano ancora aperti,
ordina le notificazioni per far decorrere questi termini, rinviando ad un’udienza in cui
i termini sono effettivamente scaduti. Nel momento in cui dovessero essere assenti
dei litiganti anche in questa udienza, il giudice ne constata la mancanza di volontà di
impugnare e continua il processo nei riguardi dei litiganti che hanno appellato.

CAP.3 - L’APPELLO

L’appello è disciplinato agli artt.339 ss. c.p.c.; l’art.339 regola l’appellabilità delle sentenze.
L’art.341 disciplina la competenza del giudice dell’Appello: la competenza per l’Appello è
della Corte d’Appello, se la sentenza di primo grado è del Tribunale, o del Tribunale, se la
sentenza di primo grado è del GdP. Quindi anche le sentenze del GdP sono appellabili, ma si
appellano in Tribunale. Ovviamente tutto questo in base ai rapporti tra circoscrizione e

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distretto: se si ha una sentenza del Tribunale di Siena, si appella alla Corte d’Appello di
Firenze. L’unica ipotesi da segnalare è quella dell’impugnazione in Corte d’Appello dei lodi
arbitrali: se si è deciso con clausola compromissoria di affidare la controversia agli arbitri, il
lodo si impugna solo in Corte d’Appello.

L’Appello si fa con atto di citazione e il convenuto si costituisce sempre con comparsa di


risposta; l’art.359 c.p.c. dice che nei procedimenti in Appello si osservano, per quanto
applicabili, le norme che valgono per il primo grado. Quindi ove vi sia disciplina specifica
per l’appello, si applica quella, altrimenti si applicano le norme che valgono anche per il
primo grado. Ciò che cambia rispetto al primo grado è che l’attore si chiama appellante e il
convenuto si chiama appellato. Inoltre la decisione è collegiale, non c’è giudice monocratico
in appello.

Non sono ammessi interventi in appello (art.344 c.p.c.), perché le parti possono andare a
diminuire se la causa è scindibile, ma non ad aumentare. Nell’art.350 sulla trattazione del
giudizio si regola la prima udienza (quindi è il corrispettivo del 183 di primo grado), che
normalmente è anche l’unica udienza di trattazione che abbiamo in appello, perché di solito
mezzi di prova e attività istruttoria non vengono svolte. Dopo questa udienza di trattazione,
la causa va in decisione ai sensi del 352, con le tecniche comuni al giudizio di primo grado: il
giudice fissa l’udienza di precisazione delle conclusioni, dopodiché si hanno 60 gg per la
stesura delle comparse conclusionali, 20 gg per le repliche e altri 60 per i giudici per definire
il giudizio. Una riforma del 2011 prevede che anche il giudice dell’appello possa definire nella
forma abbreviata della sentenza di cui al 281-sexies. Trattenuta la causa in decisione, il
giudice dell’appello deposita la sentenza e a questo punto vi sarà un termine lungo per
ricorrere in Cassazione prima della notificazione della sentenza e un termine breve, se la
sentenza viene notificata, di 60 gg per ricorrere in Cassazione.

Si introduce appello attraverso un atto di citazione: la disposizione di riferimento è l’art. 342


c.p.c., rubricato “Forma dell’appello”. Nonostante il richiamo al 163, è prevista una norma
specifica in ragione delle differenze di fondo tra un atto introduttivo del processo ordinario e
uno introduttivo del giudizio d’appello. Il 342 c.p.c. era scritto in modo diverso quando è
stato redatto il codice, nel 1940-1950, rispetto ad oggi, in quanto nel 2012 è intervenuta una
riforma; il testo originario aveva originato delle discussioni, che la giurisprudenza aveva
interpretato in un certo modo, poi il legislatore del 2012 recepisce questi orientamenti
giurisprudenziali e, anzi, li rafforza e l’art. 342 prende una nuova veste, indicando
espressamente cosa si deve mettere nell’atto di citazione che introduce un atto di appello.
Il problema è che il giudizio di appello si estende su tutta la materia controversa e il giudice
appello si pronuncia nel merito come nel merito si è espresso il tribunale: per es. se si
chiedono 10.000 euro al convenuto, il tribunale li riconosce o li nega e lo stesso fa il giudice
dell’appello. In origine, secondo un principio consolidato anche dalla dottrina, dell’effetto
devolutivo pieno dell’appello, bastava scrivere un atto di appello, devolvendo la

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controversia tra primo e secondo grado e chiedendo che il giudice di appello accogliesse le
domande di merito che erano state fatte valere in primo grado, perché il giudice di appello
dovesse riesaminare tutta la questione. Questo effetto, in questo modo così generico, non
andava bene alla giurisprudenza e, già nel vecchio testo, l’art. 342 diceva che l’atto di appello
deve contenere i motivi di appello. Questo è l’elemento in più che deve avere l’atto di
citazione di appello rispetto all’atto di citazione di primo grado, perché non ci si deve limitare
a insistere sulle ragioni di diritto di merito, che pure devono essere fatte valere nel giudizio di
appello, ma si devono anche dire quali sono i motivi d’appello, che sono le ragioni in forza
delle quali, in fatto o in diritto, secondo il parere di chi appella, il giudice di primo grado ha
commesso degli errori.

Andando in appello, sia la parte che appella sia il giudice che dà la sentenza devono
contestualmente fare due cose: stabilire se la sentenza di primo grado è giusta o sbagliata e
poi devono anche decidere il merito della causa. Queste due funzioni sono quella
rescindente e quella rescissoria: da una parte, il giudice di appello verifica se la sentenza
contiene errori o no, e dall’altra pronuncia nel merito; lo stesso deve fare l’appellante con
l’atto di appello, cioè non può limitarsi né alla fase rescindente né alla fase rescissoria,
perché non può insistere solo sul merito né limitarsi a dire che la sentenza è sbagliata e che
sia riformata: deve fare l‘una e l’altra cosa, deve argomentare e concludere sia per la fase
rescindente che per quella rescissoria.

L’atto d’appello, quindi, conterrà sia una parte di critica alla sentenza di primo grado, in fatto
o in diritto, perché il giudice dell’appello possa accogliere l’appello nella sua fase
rescindente; poi conterrà un’argomentazione anche di tipo rescissorio, cioè insisterà nel
merito, magari anche per le ragioni già fatte valere in primo grado. A vote questi argomenti
possono l’uno sovrapporsi all’altro, possono intersecarsi tra di loro, ma concettualmente
vanno compresi separatamente, nel senso che una cosa è la critica alla sentenza di primo
grado, l’altra sono le argomentazioni di merito. Dal punto di vista della tecnica dell’avvocato
che scrive l’atto di appello, quando si ragiona sul merito, gli argomenti possono anche essere
ripresi e copiati rispetto agli argomenti già spesi in tribunale, mentre del tutto nuova, invece,
sarà la fase rescindente, perché lì è chiaro che non si conosceva la decisione di primo grado e
le critiche alla sentenza di primo grado saranno gli aspetti nuovi che si devono inserire
nell’appello.

Il vecchio art. 342 diceva che l’appello deve essere motivato, ma niente aggiungeva rispetto
a questo e non diceva quali erano le conseguenze della mancanza delle indicazioni dei motivi
rispetto all’atto di citazione dell’appello. Non si capiva né cosa succedeva se l’appello non
fosse stato motivato né in cosa consisteva il motivare l’appello. La giurisprudenza ha
aggiunto che l’appello deve essere motivato necessariamente e quindi questo effetto
devolutivo pieno, ovvero la possibilità della parte di continuare a ragionare soltanto con il
diritto di merito fatto valere in primo grado senza evidenziare gli errori della sentenza, era un

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

appello che non andava bene, viziato dal punto di vista del 342 c.p.c., perché l’atto di appello
deve contenere entrambi questi elementi:

- la critica alla sentenza di primo grado;


- la riaffermazione del diritto sostanziale che è stato fatto valere.

La giurisprudenza comincia a dire che la motivazione è necessaria; parte della giurisprudenza


e della dottrina più vecchia dicevano che non era necessaria, perché c’era l’effetto
devolutivo in ogni caso.

Il problema ulteriore è di stabilire, se non c’era la motivazione, quali sarebbero state le


conseguenze. Le conseguenze potevano essere o di considerare l’atto nullo oppure di
considerare l’impugnazione inammissibile. Se si considera l’atto nullo, ne consegue che si
applica la disciplina della nullità dell’atto di citazione ex art. 164 c.p.c.; mentre, se si ritiene
che questa carenza comporti l’inammissibilità dell’impugnazione, questo avrebbe
comportato il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. Quindi, fermo che l’atto
di appello deve essere motivato, l’atto di appello senza motivazione poteva essere o nullo
l’atto o inammissibile l’appello e le due cose non sono uguali. Se l’atto era nullo, questa
nullità dell’atto poteva essere integrata sulla base dell’art.164, magari con un ordine del
giudice o con un rinvio della prima udienza; oppure, l’atto poteva essere sanato per il
raggiungimento dello scopo, ex art. 156 co. 3 e, quindi, si poteva dire al giudice dell’appello
che se non si era motivato in modo completo, ma, siccome il giudice capiva ciò che voleva
l’appellante e le ragioni (perché le ragioni sono implicite) e anche perché il diritto doveva
cercarselo da solo, l’appellante diceva che, se l’atto ha raggiunto lo scopo, il giudice doveva
decidere il merito, perché l’atto è comunque sufficiente, al di là delle forme o se manchi una
cosa. Se, invece, la conseguenza è l’inammissibilità dell’impugnazione, si sbircia l’atto per
vedere se certe cose ci stanno no e, ove non ci siano, non si va a vedere il raggiungimento
dello scopo, perché non sarebbero ipotesi di nullità ma di inammissibilità, e si verifica solo se
l’atto è corrispondente e, se non lo è, si dichiara inammissibile l’appello e la sentenza passa
in giudicato. Quindi è molto più pericoloso anche per l’avvocato, perché se è nullo, la
situazione si risolve o si recupera, mentre se è inammissibile rischia anche una responsabilità
professionale per una cosa incerta, perché motivare l’atto d’appello, nella misura in cui il 342
non mi dice cosa significa, risulta cosa ardua: si può trovare il giudice permissivo a cui
bastano due parole e, viceversa, quello che vuole una motivazione molto estesa, a pena di
non considerare l’atto motivato e conseguentemente l’appello ammissibile.

La giurisprudenza della Cassazione era incerta su questo, fino a quando le Sezioni Unite, agli
inizi degli anni 2000, intervengono su questa disposizione dicendo che la motivazione
dell’atto di appello è a pena di inammissibilità, ma a condizione che l’atto sia nullo. Si fa
una scelta di compromesso: prima il giudice deve valutare se l’atto è valido oppure no,
quindi anche col criterio del raggiungimento dello scopo; se, però, ritiene che l’atto sia nullo,
deve dichiarare inammissibile l’impugnazione, e non c’è la salvezza del 164 c.p.c., ovvero la

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Cassazione dice che il 164 non si applica al giudizio di appello (non si può procedere
all’integrazione). Dal 2012, l’art.342 viene riformulato, dicendo che:

- la carenza di motivazione è condizione di inammissibilità, quindi il dilemma nullità o


inammissibilità lo risolve il codice: in mancanza di motivazione, l’atto d’appello è
inammissibile, non nullo;

- si precisa cosa si intende per “atto motivato”, con l’inserimento dei numeri 1 e 2,
dove si dice espressamente cosa va inserito nell’atto di appello e questi costituiscono
la motivazione dell’atto d’appello.

L’art. 342 recita: “L’appello si propone con citazione contenente le indicazioni prescritte
all’art.163. L’appello deve essere motivato (questo c’era già). La motivazione dell’appello
deve contenere a pena di inammissibilità (aggiunta del 2012):

1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche
che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;

2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro
rilevanza ai fini della decisione impugnata.”

Queste disposizioni, quando sono uscite, a nessuno sono sembrate chiare, soprattutto agli
avvocati che erano preoccupati, perché se si fa un appello e il giudice lo dichiara
inammissibile, c’è o ci può essere una responsabilità professionale e non è qualcosa che
riguarda solo il merito. Di questa disposizione subito si sono date due letture, una elastica ed
una rigida: la lettura elastica è quella di interpretare queste due disposizioni come
indicazione dei motivi di fatto (1) e di diritto (2) per i quali ci si lamenta per la decisione di
primo grado. Il numero 1 fa riferimento al fatto e alla ricostruzione del fatto e le pari da
appellare; il numero 2 l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione di legge. Una
prima interpretazione qual è? Il legislatore si è premurato di dire cos’è la motivazione
dell’appello ma, in realtà, dice che si deve indicare in modo chiaro quali sono i fatti per i quali
non torna la decisione del giudice e quali sono le norme che evidentemente questi ha
sbagliato. Ma questo era già implicito così, perché, se si impugna una sentenza, la causa
petendi, cioè la ragione dell’impugnazione, è quella: sono le ragioni di fatto e di diritto per
cui non torna la decisione del giudice. Sostanzialmente questa disposizione è sì esplicativa,
ma non aggiungeva niente rispetto al passato. Si aggiunge che il numero 2 non è
indispensabile indicarlo, perché si può fare appello solo per l’errore di fatto, non è detto che
ci sia un errore di diritto: può darsi che il tribunale di Siena non ha commesso nessun errore
di diritto, ma questo non impedisce di fare l’appello, che si può fare anche per semplici
ragioni di fatto. Questa norma sembrava eccessiva anche nella misura in cui farebbe
intendere che questi due punti 1 e 2 si devono necessariamente mettere, cosa che non è,
perché si possono mettere solo uno o solo l’altro, se si ritiene che il giudice abbia sbagliato
solo sotto il profilo del fatto o solo sotto il profilo del diritto. Molti hanno detto che si

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trattava solo di un’esemplificazione, non cambiava nulla; unica cosa sicura è che, se non si
fanno queste cose, l’appello è inammissibile. Era già così per orientamento della
giurisprudenza, ma ora lo diceva la legge. La lettura rigorosa, fatta da molte Corti d’Appello
per dichiarare inammissibilità di tanti appelli ed alleviare il carico giudiziario, sostiene che
questa norma, letta così, non direbbe niente di nuovo, perché è chiaro che allude ad altro,
altrimenti si fa una lettura tendenzialmente abrogante: ci devono per forza essere delle
novità, altrimenti il legislatore non si sarebbe espresso. Queste novità risiederebbero nel
fatto che la parte doveva indicare espressamente tutte le parti della sentenza che non gli
tornavano, sia nel dispositivo che nella motivazione, e doveva non soltanto porre la
questione, ma dare anche la risoluzione: la parte, secondo questo orientamento, non solo
doveva dire che non gli tornava la decisione del tribunale di Siena (riportando tra virgolette
tutti i pezzi), ma anche argomentare le ragioni di fatto e di diritto per cui non gli tornavano
questi fatti e si doveva scrivere come avrebbe voluto la sentenza. La Corte d’Appello di
Salerno disse che questo favorisce il lavoro del giudice, se l’argomentazione l’avesse
convinto, faceva un semplice copia e incolla (e c’era il rischio di atti d’appello lunghissimi).
Per tradizione, è la parte che fa la domanda e la risposta spetta al giudice: se si rompe il
dualismo tra chiedere e rispondere, tra porre la questione e risolverla, si fa venir meno la
contrapposizione tra avvocato e giudice. La Corte d’Appello di Roma nel 2013 disse che si
doveva fare in questo modo e, se l’appello non era fatto così, l’impugnazione era
inammissibile e, quindi, un avvocato tendeva ad ubbidire anche solo per paura di avere delle
ripercussioni. La Corte di cassazione ha detto che è valida la prima interpretazione, quella
più elastica: non c’è alcun obbligo della parte, appellando una sentenza, di prospettare la
sentenza che vuole rispetto a quella che sta censurando, perché questo è compito del
giudice e va oltre l’obbligo di motivazione; motivare un atto di appello non vuol dire anche
riscrivere la sentenza come si vuole, ma che si devono esplicitare solo le ragioni di fatto e di
diritto (ai sensi dei n.1-2) per le quali si ritiene che la sentenza di primo grado sia errata, ma
niente più di questo. Se l’atto d’appello manca, anche nell’analisi della causa petendi, delle
ragioni di fatto e di diritto per le quali si va a criticare la sentenza di primo grado, è
confermato che l’atto è inammissibile e passa in giudicato la sentenza di primo grado. Le
tecniche di sanatoria della nullità degli atti, anche legate al raggiungimento dello scopo, non
si applicano in appello, perché in appello questa questione non dà nullità dell’atto ma
inammissibilità delle azioni.

La seconda questione da mettere a fuoco è l’art. 345 c.p.c., il fenomeno della “nova in
appello” (domande ed eccezioni nuove), chiedersi se e in che misura in appello si possono
portare cose nuove delle quali non vi è stata discussione e non sono state oggetto del
processo in primo grado.

Se si deve immaginare un appello aperto, nel senso che si possono introdurre delle novità in
appello, o si considera l’appello chiuso, cioè non si possono portare novità, niente si può
dedurre in appello che non sia stato dedotto in primo grado. La nova in appello costituisce
una soluzione intermedia: si possono introdurre novità, ma limitate o circoscritte. L’art. 345

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ha subìto più di una modifica, perché nel tempo il legislatore ha cambiato mentalità: nel
1940 infatti, quando fu fatto il codice, si immaginò un appello chiuso, ovvero l’impossibilità di
introdurre nuovi elementi in appello. Questo fu modificato con la novella del ’50, che
riscrisse l’art. 345, immaginando, viceversa, un appello aperto. Si è avuto, poi, un appello
chiuso con la riforma del processo del lavoro del ’73, ma questo valeva solo per il processo
del lavoro, cosicché, dal 1973 al 1990, si è avuto un processo aperto per le cause civili e
chiuso per le cause di lavoro. Con la riforma del 1990, l’art. 345 è stato riscritto sulla falsariga
di quello del processo di lavoro e, quindi, dal 1990 si ha un processo chiuso sia nel rito civile
che nel rito del lavoro. Dopo il 1990, ci sono stati degli orientamenti giurisprudenziali della
Cassazione, che hanno ridotto quei piccoli spazi di apertura che ancora la riforma del ’90
consentiva: questi orientamenti giurisprudenziali, successivamente, sono stati fatti propri dal
legislatore e, per il 345 (come per il 342), il legislatore ha reso legge quelli che prima erano
solo orientamenti della giurisprudenza. Il legislatore ha chiuso ulteriormente la possibilità di
nova in appello, aderendo ex lege ad orientamenti più restrittivi a partire dal 1990 sul 345,
per cui oggi abbiamo un appello chiusissimo, sbarrato, per il tenore letterale attuale dell’art.
345, maturato su questi orientamenti della giurisprudenza. Per concepire questa
disposizione, bisogna tenere presente che lo scopo dell’appello è quello di rimediare agli
errori eventualmente commessi dal giudice di primo grado; se si rende l’appello chiuso, gli
errori che sono emendabili sono solo quelli del giudici, non quelli della parte, cioè alla parte
non è consentito commettere errori; se, viceversa, si ritiene sia giusto correggere e
rettificare anche gli errori della parte, si deve necessariamente consentire l’introduzione di
nuovi elementi anche in appello. Per es. l’eccezione di prescrizione va sollevata 20 giorni
prima della costituzione in cancelleria, costituendosi il convenuto 20 giorni prima; il
convenuto non fa questa cosa e commette un errore. Lo può fare in appello? No, perché
sarebbe introdurre un elemento nuovo e, a questo punto, l’errore della parte non si può
recuperare con il giudizio d’appello. Diceva Calamandrei che “nell’appello, alla parte si
chiede di essere infallibile”: la parte non può permettersi un errore, perché, se lo commette,
non è recuperabile; mentre, se il giudice di primo grado non si fosse pronunciato sulla
prescrizione, si può fare appello, così interviene il giudice dell’appello per rimediare alla
situazione. Tutti gli errori del giudice, per essere fatti valere in appello, non necessitano
introduzione di elementi nuovi, quindi si possono fare anche con l’appello chiuso; mentre, se
si vuole recuperare l’errore della parte, si ha, seppur con delle regole da dare, la necessità di
consentire l’introduzione di nova in appello.

L’art. 345 è diviso in tre commi: un primo comma, dedicato alle domande; un secondo alle
eccezioni e un terzo ai mezzi di prova. Si disciplina se e come e con quali limiti possano darsi
nuove domande, possano darsi nuove eccezioni e possano darsi nuovi mezzi di prova in
appello. Il comma 1 recita: “Nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e,
se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Possono tuttavia domandarsi
gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il
risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa”. Dalla formulazione della norma si

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evince chiaramente che le domande nuove non possono essere proposte in appello, perché
ciò che non è stato chiesto in primo grado non lo si può chiedere per la prima volta davanti
al giudice, perché, altrimenti, verrebbe meno il doppio grado di giudizio dato che è chiaro
che, se la domanda non è stata fatta in tribunale e si pretende di farla per la prima volta in
appello, il giudice d’appello non è più di secondo grado, ma è, per quella domanda, giudice
di primo grado. Se la funzione dell’appello è controllare se il giudice ha fatto bene o male, è
chiaro che, di fronte ad una domanda nuova, non ha fatto né bene e né male ed è una cosa
che non esisteva in primo grado, quindi, non è proponibile in un giudizio di appello.
Ovviamente, fermo questo principio, esistono delle deroghe: certamente la durata del
processo potrà provocare ulteriori danni, che sono strettamente legati alla durata del
processo e non attengono al diritto sostanziale, e questi possono essere chiesti; inoltre, se
sono già stati richiesti gli interessi e i frutti, questi continueranno a maturare per tutta la
durata dell’appello; non potevano essere chiesti in primo grado per cui, se si chiedono, sono
domande accessorie che possono essere fatte. In primo grado non si può, inoltre,
immaginare quale sarà l’esito del processo, cosa si dovrà fare e quali saranno le conseguenze
pregiudizievoli per la parte, per cui, quest’ultima, potrà chiedere cose nuove strettamente
connesse alla decisione del giudice in primo grado, che non si può conoscere a priori: se la
sentenza ha prodotto un danno, perché scorrettamente o ingiustamente pronunciata, allora
in appello non si chiederà solo la sostituzione della sentenza errata con una giusta, ma anche
la riparazione dei danni e delle conseguenze che la sentenza ingiusta ha apportato. È ovvio
che questa cosa si può fare, invece, in appello per la prima volta, perché non è una
conseguenza che attiene al diritto sostanziale (che si fa valere in primo grado), ma è una
conseguenza della decisione che non si poteva conoscere all’inizio del processo. Questo
avviene sotto un duplice profilo, perché l’art. 345 parla solo di risarcimento del danno; in
realtà, la prima cosa da chiedere sono anche le restituzioni di quanto si è obbligati ad
adempiere in forza della sentenza di primo grado, in quanto questa è provvisoriamente
esecutiva (es: acquiescenza: il pagamento non fa acquiescenza, però è chiaro che se Tizio è
in causa con Caio per 10.000 euro, questi soldi vengono pagati, uno fa appello e chiede non
solo la riforma della sentenza, ma anche la restituzione dei 10.000 euro che ha anticipato e
pagato perché il tribunale così ha deciso). Queste deroghe date dall’art. 345, in realtà, non
costituiscono una rottura del principio secondo il quale domande nuove in appello non
possono essere proposte perché, in realtà, queste domande non attengono al diritto
sostanziale (all’obbligazione che è stata fatta valere in giudizio), ma attiene alle conseguenze
della sentenza del primo grado, cioè fanno riferimento alle posizioni che discendono poi
dalla decisione del giudice di primo grado.

Vi sono una serie di orientamenti giurisprudenziali della Cassazione che dicono quali sono le
domande ammissibili in appello; in primo grado, pur non essendo ammissibili nuove
domande nell’udienza del 183, si può fare la emendatio libelli. La distinzione tra mutatio ed
emendatio libelli non è chiara perché vi sono orientamenti giurisprudenziali che ammettono
alcune cose e altre no, riconducendole all’emendatio, e alcune cose si vietano altre no,

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perché ritenute mutatio. Qualcosa del genere si può immaginare con il 345, che può essere
considerato una continuazione di quel divieto del 183 c.p.c. e anche in appello si potrebbe
dire che la domanda nuova è inammissibile, ma l’emendatio è ammissibile. In linea generale,
questo argomento dovrebbe essere legato a quello dei limiti oggettivi della cosa giudicata,
nel senso che tutto ciò che un domani sarà assorbito dalla decisione del giudice crea un
ambito nel quale, però, ci si può muovere, perché i casi qui sono due: o la domanda nuova
non si può fare, ma si consente di farla in un secondo processo (perché se non la si è fatta in
primo grado, non la si può fare neanche in appello), ma la contropartita di ciò è che, siccome
questa domanda non è stata fatta né in primo grado né in appello, si deve poter fare in un
secondo processo. Se, invece, il sistema dei limiti oggettivi impedisce di fare questa nuova
domanda, neanche in un futuro processo, perché assorbita da quella già giudicata, allora
bisogna consentire di poterla fare all’interno del processo, anche in un secondo momento,
perché oramai sta all’interno del processo, nella materia controversia che si è dedotto. Per
es. se si rivendica la proprietà di una casa in via Mattioli con Tizio per usucapione, e passa in
giudicato la sentenza, poi non si può dire che è di proprietà perché la si è ereditata o
comprata, perché passa in giudicato con la prima azione che si è fatta per usucapione. Se
passa in giudicato anche l’eredità, la donazione, l’acquisto, si può, in primo grado, farlo
valere come usucapione e in appello come acquisto o come eredità? Questo è il problema.
Questo tipo di emendamento, a parere di Scarselli, deve essere possibile (e la Cassazione in
una certa misura lo ritiene possibile), perché è un mutamento di qualche cosa che già sta
virtualmente dentro al processo, perché il processo, una volta chiuso, mi porta il giudicato
anche su quella questione lì: allora si fa valere una questione che non si può considerare in
assoluto nuova, perché è una questione che non si potrebbe far valere in un secondo
momento, perché per la giurisprudenza questa era assorbita, è stata già giocata; se, quindi,
la si è già giocata, bisogna che sia consentita l’emendatio tra una ragione giudica e l’altra, se
tutte passano in giudicato una volta che la sentenza è definitiva. I limiti oggettivi del
giudicato, in una certa misura, devono dare il parametro per stabilire se una domanda è
nuova oppure no, perché se questa domanda si dice essere nuova e, come tale,
inammissibile, ma, in realtà, è un qualche cosa che passa in giudicato già con la domanda che
si è fatta valere nel processo e non la si può far valere in un futuro processo, allora bisogna
che sia riconosciuto che è contenuta nel processo stesso e, come tale, la parte si può
muovere, perché si avrà, allora, l’emendatio e non la mutatio.

Prosegue il comma 2: “Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche
d’ufficio”. Anche le nuove eccezioni sono vietate. Nell’udienza del 183 ci sono due ipotesi:
l’eccezione ad istanza di parte o rilevabile d’ufficio; nel primo caso, l’eccezione è già
preclusa, perché le eccezioni non vanno oltre i 20 giorni prima della prima udienza, mentre
resta spazio per quelle rilevabili d’ufficio, che il giudice può rilevare a prescindere dall’
iniziativa della parte o che, comunque, può sollevare anche di fronte ad un’inerzia della
parte. Questo schema lo si ritrova anche in appello, perché il co. 2 dell’art. 345 dice che non
possono proporsi nuove eccezioni che non siano rilevabili d’ufficio. In prima

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approssimazione, si può concludere che, se l’eccezione è rilevabile d’ufficio, anche la parte


la può far valere per la prima volta in appello; per le eccezioni ad istanza di parte questo,
invece, è impossibile. Ad esempio, la prescrizione è un’eccezione ad istanza di parte: se non
la si fa valere nei 20 giorni avanti la prima udienza, costituendosi tempestivamente con
comparsa in cancelleria, l’eccezione di prescrizione è un diritto che inevitabilmente va perso.
Per quanto riguarda, invece, l’eccezione di giudicato, questa è rilevabile d’ufficio allora si ha
tutto il processo di primo grado per sollevarla e in qualunque momento si può dire al giudice
che, in realtà, si sta discutendo di qualche cosa che è stato già deciso da un altro giudice con
sentenza passata in giudicato. Essendo un’eccezione a istanza di parte, ciò si può fare anche
in Appello. La cosa è più contorta di quanto sembri perché rilevare un’eccezione d’ufficio,
normalmente, comporta anche l’allegare un fatto nuovo che ha bisogno d’essere provato e la
prova dei fatti rimarrà quella che si può dare mediante le regole delle preclusioni e delle
prove, anche se il fatto attiene ad un’eccezione rilevabile d’ufficio. L’esempio è l’eccezione di
giudicato: sollevare l’eccezione di giudicato per la prima volta in appello è astrattamente
possibile ai sensi dell’art. 345; il problema che ne consegue è che al giudice si deve provare
questo giudicato, cioè si deve dare la prova del fatto sempre (ogni eccezione comporta
sempre l’allegazione di un fatto, perché le eccezioni sono fatti impeditivi, estintivi,
modificativi): la prova del fatto che, in questo caso, è la prova del giudicato, si deve dare
depositando la sentenza passata in giudicato, con il timbro della cancelleria che lo attesti. Si
può depositare questo documento per la prima volta in appello? No, perché i documenti
nuovi non si possono produrre dopo l’udienza del 183.

In sintesi, se da una parte è astrattamente vero e possibile sollevare per la prima volta
l’eccezione di giudicato in appello, dall’altra in concreto o si ha già la sentenza nel fascicolo
(e questo può anche succedere e allora nulla quaestio), ma se la si deve produrre, non si può
fare, perché si ha un limite dovuto alla prova dei fatti. Il risultato pratico è che gran parte
delle eccezioni rilevabili d’ufficio non possono essere sollevate in appello per la prima volta o
possono esser sollevate d’ufficio tutte le eccezioni, a condizione che i fatti stiano già tutti in
fascicolo, e quindi non debbano essere provati. Il caso diventa abbastanza “scolastico”,
perché, per l’eccezione di giudicato, bisognerebbe immaginare che la sentenza era già stata
prodotta in primo grado, ma la parte si era dimenticata di sollevare la questione del
giudicato, né i giudici l’hanno rilevata; allora, si fa notare al giudice successivamente che c’è
un’eccezione di giudicato, che la sentenza era già stata depositata in tribunale, ma una cosa
di questo genere è abbastanza rara, perché se la parte deve depositare per la prima volta il
documento, questo non è possibile. Per quanto la norma, in via generale, affermi che le
eccezioni rilevabili d’ufficio sono sempre sollevabili per la prima volta in appello, in realtà,
questa enunciazione non fa i conti con la circostanza che poi vanno provati anche i fatti
relativi all’eccezione e la prova dei fatti continua a darsi con le tecniche di preclusione.

Infine il comma 3: “Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti
nuovi documenti salvo che [il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della
causa ovvero che] la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di

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primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio.”
È molto categorico oggi ritenere che non possano darsi nuove prove in appello; un tempo,
con la riforma del ’90 (ma anche con la riforma del processo del lavoro del ’73), si faceva una
distinzione tra prove precostituite e prove costituende: le prove precostituite sono
sostanzialmente documenti, ovverosia quelle prove che si sono formate fuori dal processo e
basta che vengano allegate o prodotte al momento del processo; le prove costituende sono
quelle che si assumono nel processo e, normalmente, per prova costituenda, si fa
riferimento alla prova testimoniale e alla consulenza tecnica. Per un principio di economia
processuale, allora, si diceva che le prove costituende non sono ammissibili per la prima
volta in appello, perché l’analisi di nuove prove fuoriesce dai compiti del giudice d’appello
che, in quanto giudice di secondo grado, deve solo controllare se la decisione è stata presa
correttamente. Al tempo stesso è possibile produrre nuovi documenti (prove precostituite),
perché ciò non intacca la celerità del giudizio, non allunga i tempi del processo, in quanto
non è necessario valutarle. Questo sistema si è irrigidito nel tempo, prima con la Cassazione,
poi con una vera e propria riforma del 345, e oggi, in modo chiaro, il co. 3 dice che non
possono prodursi per la prima volta in appello nuovi documenti: nessun nuovo mezzo di
prova è possibile in appello. Si parla di mezzi di prova nuovi, ossia non chiesti in primo grado,
non mezzo di prova chiesto in primo grado, ma non ammesso dal giudice perché, se così è,
questo non è un mezzo di prova nuovo, anzi questi sono proprio i casi in cui si fa appello su
mezzo di prova, ovverosia la parte dichiara di aver chiesto in primo grado un mezzo di prova
testimoniale, ma il giudice non gliel’ha concesso, allora chiede al giudice d’appello di
riformare questa sentenza anche sotto questo profilo. Questo è possibile, non è un mezzo di
prova nuovo, a condizione che, come dice la giurisprudenza, sia oggetto di uno specifico
mezzo d’impugnazione, cioè si deve espressamente impugnare anche il profilo istruttorio e
chiederlo espressamente al giudice, però, questa non è prova nuova, ma prova già stata
chiesta, negata dal giudice e impugnata sotto il profilo istruttorio.

Tra i nuovi documenti, possono essercene di “sopravvenuti”, ossia che abbiano delle date
successive ai termini di preclusione delle prove documentali. Ad es. se Tizio deve avere
10.000 euro da Caio, Caio viene condannato a pagare questa somma, si va in appello perché
Caio non vuole pagare e, nel frattempo, dà a Tizio un acconto di 5.000 euro, facendo a Tizio
una ricevuta. In appello Caio può produrre la ricevuta che attesta la dazione dell’acconto a
Tizio? Sarebbe illogico rispondere di no ad una simile domanda, però, dal punto di vista
formale, si tratta della produzione di un nuovo documento e allora si potrebbe dire che, ai
sensi dell’art. 345 terzo comma, è vietato produrre nuovi documenti, quindi Caio non
potrebbe produrre questo nuovo documento. Una cosa del genere sarebbe difficilmente
accettabile da un punto di vista di logica e buonsenso e, quindi, normalmente si ammette
che i documenti sopravvenuti possano essere prodotti in via d’eccezione alla regola.

LA RIMESSIONE DELLA CAUSA AL PRIMO GIUDICE

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Le disposizioni di cui al 353 e 354 c.p.c. prevedono la rimessione della causa al primo
giudice. Se si va dal giudice dell’appello, si chiede che egli rivaluti la causa, la ridecida e
riformi la sentenza che si è impugnata, perché evidentemente non sta bene qualcosa e si
vuole che il giudice dell’appello riformi questa decisione, che si ritiene errata e, di norma,
egli deve pronunciare una seconda sentenza. In via eccezionale, può succedere che, invece,
di far questo, il giudice dell’appello rimetta la causa al primo giudice, cioè ritiene che l’errore
commesso dal tribunale sia talmente grave, che sia totalmente da rifare il processo di primo
grado, negando addirittura il giudizio di secondo grado. Ovviamente si tratta di una norma di
eccezionale applicazione, in quanto, se tutti i giudici dell’appello rimettessero la causa al
primo grado, i tempi del processo si allungherebbero a dismisura. Il 353 e 354 sono norme di
scarsa applicazione dal 1940 ad oggi, e alcuni addirittura ritenevano potessero essere
soppresse, ma, in realtà, sono ancora vigenti, ma poco applicate dai magistrati.

La ratio di queste disposizioni è quella di tutelare il doppio grado di giurisdizione, perché


abbiamo il primo grado in tribunale, il secondo grado in appello e la parte ha diritto ad avere
questi due gradi. Se il primo grado è stato così abnorme da considerarsi addirittura
inesistente e se si consentisse la decisione del merito al giudice dell’appello, in realtà, si
derogherebbe al doppio grado di giurisdizione, in quanto l’unico processo vero, effettivo e
concreto lo si avrebbe dinanzi al giudice dell’appello. Per assicurare il doppio grado di
giurisdizione, quando il primo grado appare fittizio, simbolico, addirittura inesistente, al fine
di garantirlo, il giudice dell’appello rimette la causa al primo giudice. A fronte di questo, che
è stata la logica per la quale il legislatore del 1945 ha inserito gli artt. 353 e 354, vi è da
sottolineare che il doppio grado di giurisdizione non è un valore costituzionale, perché la
nostra carta costituzionale non assicura la tutela giurisdizionale in due gradi di merito, ma
solo il controllo di legalità in Cassazione: mentre il diritto di andare in Cassazione è garantito
costituzionalmente e non può esser sottratto da nessuno (se non previa riforma
costituzionale che metta mano all’art. 111 Cost.), il giudizio d’appello, invece, non è garantito
costituzionalmente e la nostra Costituzione non assicura il doppio grado di giurisdizione.
Allungare eccessivamente i processi, invece, può essere a sua volta una violazione del
principio costituzionale della ragionevole durata del processo, che è stato inserito nel 2001
nell’art.111 Cost. Queste due disposizioni sono state scritte e pensate nel 1940, quindi prima
dell’entrata in vigore della carta costituzionale, per assicurare un principio che è comunque
esistente, che è quello del doppio grado di giurisdizione; oggi si trovano a fare i conti con il
fatto che il doppio grado di giurisdizione non è un principio costituzionale e che, al tempo
stesso, rimettere e far ripartire la causa al primo giudice, quando era già dal giudice
dell’appello, allunga i tempi in modo non secondario e, probabilmente, anche in modo
contrastante con il principio della ragionevole durata del processo e, quindi, con un valore
costituzionale.

Questi casi sono considerati tassativi, non applicabili per analogia o per interpretazione
praeter legem. L’articolo 353 faceva riferimento tanto alla giurisdizione quanto alla
competenza, oggi fa riferimento soltanto alla giurisdizione, perché per ragioni di

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competenza non si può rimettere la causa al primo giudice. Questo fenomeno si ha quando il
tribunale si dichiara carente di giurisdizione: se il giudice d’appello ritiene che il giudice di
primo grado aveva, invece, giurisdizione, sostiene che aveva il dovere di provvedere nel
merito, ma il giudice di primo grado ha soltanto, erroneamente, negato la propria
giurisdizione. Si è in presenza di un processo di primo grado che, in realtà, non vi è stato,
perché il giudice di primo grado non ha accertato né deciso niente in relazione al merito
della causa, ma si è limitato a decidere solo una questione pregiudiziale (che è quella della
giurisdizione), senza andare oltre. Nel rispetto del doppio grado di giurisdizione, si deve
rimettere la causa al primo giudice, perché, se la decidesse il giudice dell’appello, la
deciderebbe per la prima volta, perché sul merito il tribunale non ha detto niente.

I casi dell’art.354 sono di eguale gravità e uno è la violazione del litisconsorzio necessario,
che comporta la rimessione della causa al primo giudice, se fosse stata decisa la causa con la
pretermissione di un litisconsorte necessario. Un’altra ipotesi è la nullità della notificazione
della citazione a fronte della contumacia della parte, perché è un processo che non esiste,
perché il convenuto non ha avuto conoscenza di questo processo perché la notificazione era
nulla o inesistente, ma il giudice è andato avanti lo stesso, pronunciando sentenza. Per
assicurare al convenuto il doppio grado di giudizio, è prevista la rimessione della causa al
primo giudice.Le altre ipotesi previste dall’art. 354 sono ipotesi di scuola.

Per inibitoria (artt.283 e 351 c.p.c.) si intende l’istanza che la parte appellante può fare di
sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado. Il 283 è la logica
conseguenza del 282, che prevede che la sentenza in primo grado è provvisoriamente
esecutiva. Questo vale a dire che, con l’inibitoria, si può impedire che il vittorioso di primo
grado possa aggredire il soccombente appellante. La sospensiva, cioè la possibilità di
sospendere gli effetti, si può avere con l’art. 283 ed è una cosa diffusa, nel senso che è
abbastanza automatico che la parte che appella chieda anche l’inibitoria, cioè chieda
comunque, a livello cautelare, urgente, in via preliminare, che siano sospesi gli effetti della
sentenza di primo grado.

L’art.351 dice che si può chiedere l’inibitoria al giudice dell’appello che, in limine litis, prima
di decidere il merito, sospenda l’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, in via
cautelare, con un provvedimento che ha la forma dell’ordinanza e non pregiudica la
decisione della causa, perché il giudice potrebbe non concedere l’inibitoria e poi accogliere
l’appello o viceversa. Il giudice dell’appello deve esaminare, in prima udienza, ex art. 350
c.p.c., se vi è richiesta da parte dell’appellante (perché se non c’è domanda, nulla fa), se
sospendere o no la decisione di primo grado. L’art.351 esiste perché oggi spesso le prime
udienze, smistate in base al carico di lavoro, si hanno anche dopo anni. Per es. se la corte
d’appello fissa la prima udienza nel 2021, nel frattempo il vittorioso in primo grado avrà già

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espropriato il soccombente e, quindi, non serve a niente il 283. Quindi si dovrà chiedere al
giudice, in una separata udienza, fuori e prima dell’udienza del 350, di provvedere
sull’art.283, cioè sull’inibitoria. È previsto che la parte appellante possa fare un’apposita
istanza al presidente della Corte d’appello, ai sensi dell’art. 351, dove si chiede sia fissata
un’apposita udienza in via d’urgenza (e si danno tre mesi massimo), dove si discuterà non del
merito della causa, ma solo se, in via pregiudiziale, vi siano i presupposti o meno per
sospendere la sentenza di primo grado.

Analizziamo l’art. 283 (“Provvedimenti sull'esecuzione provvisoria in appello”): “Il giudice


dell'appello, su istanza di parte, proposta con l'impugnazione principale o con quella
incidentale, quando sussistono gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di
insolvenza di una delle parti, sospende in tutto o in parte l'efficacia esecutiva o l'esecuzione
della sentenza impugnata, con o senza cauzione. Se l'istanza prevista dal comma che precede
è inammissibile o manifestamente infondata il giudice, con ordinanza non impugnabile, può
condannare la parte che l'ha proposta ad una pena pecuniaria non inferiore ad euro 250 e
non superiore ad euro 10.000. L'ordinanza è revocabile con la sentenza che definisce il
giudizio.” L’art. 283 dice che “devono sussistere gravi e fondati motivi” e fanno riferimento
al concetto di tutela cautelare e può essere concesso in quanto vi siano i due presupposti
tipici delle misure cautelari, che sono il fumus boni iuris e periculum in mora (brevemente
fumus e periculum). Entrambe devono sussistere per ottenere questa sospensione: il fumus
è la probabilità che l’appello sia fondato; è, quindi, un giudizio preliminare e fondato, in base
alla quale il giudice ritiene che l’impugnazione abbia una sua probabilità di fondatezza
(giudizio di fondatezza sull’impugnazione reso in via sommaria), perché, se l’impugnazione
appare infondata, il giudice non sospenderà niente, ma anzi, potrà anche condannare a
pagare le spese dell’appello. La parte, quindi, deve dare dimostrazione di una possibilità di
vittoria nell’appello. Il concetto di periculum non è solo quello in cui l’appellante deve
dimostrare di avere ragione, ma deve anche dimostrare che il soggetto versi in uno stato di
pericolo, che se non si sospende la sentenza il soggetto subirà dei danni ingiusti o
irreversibili. La disposizione, per questo, fa espresso riferimento alla possibilità
dell’insolvenza di una delle parti. Per es. se il convenuto deve 10.000€, ma chiede la
sospensione, deve dimostrare che ha probabilmente ragione (a livello di prova sommaria);
ma deve dimostrare anche che, se dà questa somma, ha un pregiudizio: nel caso, ad
esempio, di un’impresa in stato di devoluzione, che fallisce e restituisce i 10.000€ con
moneta fallimentare. Se il giudice dell’appello riscontra entrambi questi presupposti, allora e
solo allora, potrà concedere la sospensione dell’esecuzione.

È stato aggiunto un secondo comma alla disposizione, che prevede che l’appellante debba
stare attento alla sanzione che potrebbe derivarne da un abuso processuale, nel caso in cui
il giudice ritenga infondata la domanda. Per frenare l’eccesso delle domande inibitorie in
appello, si è previsto che chi non dimostra di essere in grado di chiederle, e non la ottiene,
può essere sanzionato fino a 10.000 euro, sanzione che potrebbe essere incostituzionale,
perché, porre delle sanzioni a chi esercita il diritto d’azione, non sarebbe molto compatibile

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con l’art. 24 Cost.. Non è fatto nemmeno nel rispetto dell’art. 3 Cost., perché questa
sanzione viene data solo nei confronti di chi agisce e perde, e non di chi si difende e perde (la
mera difesa non è sanzionata, ma lo è l’azione).

Questa disposizione sta nel 351, perché l’udienza del 350 avviene spesso dopo anni, per cui
si ha il 351 che sono “provvedimenti sull’esecuzione provvisoria”. Si dice che il giudice
prevede, con ordinanza non impugnabile, nella prima udienza. Si aggiunge che la parte può,
con ricorso al giudice, chiedere che la decisione sulla sospensione sia pronunciata prima
dell’udienza di comparizione. Prosegue, la disposizione, con il procedimento. Per evitare le
lungaggini, allora, si può fare istanza ai sensi del 351, dopodiché l’udienza funziona ai sensi
del 283; il giudice valuta se c’è il fumus e il periculum; concede la sospensione, se sussistono,
ma se non la concede, perché non sussistono, chi la chiede può essere sanzionato fino a
10.000€ (può, non deve: c’è una discrezionalità del giudice dell’appello, anche nell’ipotesi di
rigetto dell’istanza di sospensione, di sanzionare ulteriormente la parte, perché magari si
tratta di un’ipotesi dubbia o non defatigatoria).

È stata fatta la riforma del 2012, che ha riscritto l’art. 342, ma la maggiore è stato
l’inserimento, nel c.p.c., degli artt. 348-bis e 348-ter. Sono state pensate dall’ufficio
legislativo del Ministero della Giustizia sempre nell’ottica di rendere efficiente il giudizio
d’appello, perché è troppo sovraccarico, per ridurre i tempi. Il concetto è consentire ai
giudici di appello, in prima battuta, di valutare la fondatezza degli appelli, perché è vero che
ci sono appelli seri (perché il giudice di primo grado ha effettivamente commesso un errore),
ma ci sono anche appelli infondati o palesemente infondati, proposti solo a scopo
defatigatorio, per stancare l’avversario e perdere tempo, che andrebbero, almeno questi,
tolti velocemente per rendere funzionale l’ufficio. L’idea del 2012 è quella di fare una cernita
preliminare degli appelli. Si è usata l’espressione “ragionevole probabilità di essere accolto”
nell’art. 348-bis: si fa una valutazione preliminare della probabilità ragionevole
dell’accoglibilità dell’appello. Se l’appello è ritenuto senza una ragionevole probabilità di
accoglimento, si dà la procedura di cui all’art. 348-ter, in base alla quale il processo d’appello
si chiude con ordinanza, con un procedimento più semplice, con la quale la corte d’appello
rigetta l’impugnazione, e l’appello è detto inammissibile. Se l’appello ha la ragionevole
probabilità di essere accolto, allora si segue il percorso tradizionale: si dà l’udienza ex art.
350, si dà l’udienza per la precisazione delle conclusioni e il giudice darà la sentenza. Questa
novità è stata vista di buon grado ed è stata abbastanza usata. Altre Corti d’appello, invece,
non hanno considerato questa novità di particolar pregio, ritenendo che non desse vantaggi,
considerando anche il giudice d’appello può chiudere il processo nella forma semplificata
dell’art. 281-sexies, quando si tratta di cause semplici. Sono stati poi posti due limiti, dicendo
che questa tecnica non può essere data (art. 348-bis): quando il processo ha ad oggetto
diritti indisponibili (vi è la presenza del p.m.); quando, in primo grado, è stato usato il
procedimento sommario (di cui all’art. 702-bis e ss.). Se il diritto è indisponibile e ha
partecipato il p.m., non è il caso di dare un appello nelle forme semplificate del 348-bis; lo

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stesso, se è usato il procedimento sommario in primo grado, altrimenti si addiziona


sommarietà alla sommarietà, per cui due volte non può essere sommario il processo.

L’art.348-ter dice come funziona il meccanismo in concreto. Il giudice pronuncia anche sulle
spese, con la forma dell’ordinanza, che deve essere succintamente motivata; si aggiunge
anche “con rinvio agli elementi di fatto e di diritto presenti nel fascicolo”, per facilitare il
lavoro del giudice. Questa ordinanza va fatta in prima udienza; si deve consentire il
contraddittorio alle parti (anche quando il giudice ritiene che l’appello sia infondato). La
chiusura del procedimento tramite ordinanza e non tramite sentenza crea un problema
relativo al come regolare il successivo giudizio in Cassazione, perché non si può impedire alle
parti di ricorrere per Cassazione. Si ha il diritto di ricorrere per Cassazione, perché
quest’ultimo è garantita costituzionalmente; si può, al limite, sottrarre l’appello alle parti, ma
non la Cassazione. Se in appello abbiamo solo un’ordinanza, dove non si dice niente, ma solo
“con motivazione succinta” che l’appello che risulta essere infondato, e il provvedimento ha
la forma dell’ordinanza e non della sentenza, come si va in Cassazione? Il legislatore ha
dovuto trovare un rimedio per far passare questa legge e il rimedio era non tanto prevedere
la ricorribilità per cassazione dell’ordinanza, perché il ricorso per cassazione dell’ordinanza
poteva non essere esaustivo del diritto che era della parte di andare in cassazione, perché
era una sentenza meramente processuale, e non affronta il merito delle questioni. Si è
prevista dunque una cosa singolare: la ricorribilità in Cassazione della sentenza di primo
grado: per garantire il diritto costituzionale al ricorso in cassazione, si è previsto che, nelle
ipotesi in cui il giudice dell’appello chiude il processo con ordinanza, la parte ha diritto di
ricorrere in Cassazione per la sentenza di primo grado e non per l’ordinanza. La sentenza di
primo grado viene impugnata due volte: la prima volta in appello e poi una seconda volta in
Cassazione e ciò è scritto espressamente al co. 4 art. 348-ter.

Questa cosa ha creato dei problemi e il primo problema che ha creato è: l’ordinanza si può
impugnare, se possiede vizi propri? Si è aperto un grande dubbio, in quanto alcuni
ritenevano che, oltre al ricorso per cassazione per la sentenza di primo grado, si potesse
ricorrere per cassazione anche per l’ordinanza della corte di appello, quando anche
l’ordinanza fosse stata pronunciata in violazione di legge. Per es. il tribunale di Siena
commette un errore di merito (chiedo la nullità del contratto, il tribunale lo ritiene valido). La
Corte d’appello dichiara inammissibile l’appello con ordinanza. Nel fare questo, viola la
norma del 348-ter, perché, per fare ciò che ha fatto, deve farlo nell’udienza del 350, sentite
le parti, prima della trattazione. Immaginiamo che la Corte lo fa senza sentire le parti e prima
dell’udienza del 350. C’è un duplice problema: da una parte si vuol far valere la nullità del
contratto e c’è una norma che mi dice che posso andare in Cassazione con la sentenza di
primo grado, facendo così valere la validità del contratto. Ma se si impugna la sentenza del
tribunale, il vizio dell’ordinanza, pronunciata senza il rispetto del 348-ter, come lo si fa valere
in Cassazione, se qui si può solo impugnare la sentenza di primo grado? Si complicano le
cose. Si va in Cassazione per due provvedimenti, anziché uno, di un unico processo. In
questo modo, però, si avrebbero troppi ricorsi in Cassazione, quindi si è pensato di rendere

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inammissibili tutti i ricorsi per cassazione avversi all’ordinanza, perché nel momento in cui la
legge ha dato la ricorribilità alla sentenza di primo grado, non poteva ammettere la
ricorribilità anche dell’ordinanza. Tutto ciò è arrivato alle Sezioni Unite, che hanno deciso in
modo conforme alla Seconda Sezione della Cassazione. La situazione rimane oscura e
soprattutto l’uso degli strumenti.

L’art. 339 disciplina la c.d. appellabilità, ovvero l’idoneità di una sentenza di primo grado ad
essere oggetto di impugnazione in appello. Di regola l’appellabilità compete a tutte le
sentenze; l’ordinanza non è appellabile, a meno che non abbia la sostanza della sentenza,
e quindi immaginiamo che il giudice abbia pronunciato ordinanza in ipotesi in cui doveva
pronunciare sentenza. Solo in questi casi, la Cassazione dice che prevale la sostanza alla
forma, in modo che si possa appellare l’ordinanza dicendo che per errore il giudice ha
pronunciato ordinanza, ma è una sentenza sostanziale, altrimenti l’appello è solo per le
sentenze. Tutte le sentenze sono appellabili, e l’appello è quindi uno strumento di
impugnazione generale, con una sola particolarità: la sentenza può essere definitiva e non
definitiva. Nell’ipotesi in cui sia non definitiva la sentenza resta appellabile, con la
particolarità che si può chiedere la riserva di impugnazione, di modo che l’impugnazione
della sentenza non definitiva avvenga al termine del processo unitamente alla sentenza
definitiva, ma comunque anche le sentenze non definitive possono essere appellate.

Sono rarissimi i casi in cui si danno sentenze non appellabili, anche se la cosa è
astrattamente possibile, perché se leggiamo l’art. 339 vediamo che si dice che: “possono
essere impugnate con appello le sentenze pronunciate in primo grado, purché appello non sia
escluso dalla legge o dall’accordo delle parti a norma dell’art. 360, secondo comma.”

 Il primo riferimento è quello all’appello escluso dalla legge, ma la legge non esclude
quasi mai l’appello: l’unica ipotesi che possiamo fare all’interno del codice di
procedura civile è quella dell’art. 618, articolo che regola l’opposizione agli atti
esecutivi: chi subisce un’esecuzione forzata può fare opposizione all’esecuzione o
agli atti esecutivi, e se fa opposizione agli atti esecutivi questa causa viene conosciuta
dal giudice dell’esecuzione e si conclude con una sentenza che, espressamente ai
sensi dell’articolo 618, non è soggetta ad appello ma è soggetta solo a ricorso per
Cassazione (che non può essere escluso perché garantito costituzionalmente).
L’appello può anche essere escluso anche se formalmente non lo si esclude
praticamente mai, e quello dell’articolo 618 è un caso particolare.

 L’appello può poi essere escluso per accordo delle parti, ma è un’ipotesi
difficilmente praticabile. Tale possibilità deriva da un’idea di Calamandrei che la
inserì nel codice all’art.360 co.2: tale articolo prevede che entrambe le parti
rinuncino all’appello per ricorrere in Cassazione. Questa è una delle pochissime
ipotesi in cui le parti possono negoziare le norme processuali e le vicende

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processuali: questo non era possibile perché il diritto processuale è diritto pubblico,
ma in alcuni casi si danno delle eccezioni. Abbiamo fatto l’esempio dell’eccezione
della competenza per territorio, che in certi limiti può essere derogata per accordo
delle parti ai sensi dell’art. 28; nonché dell’art. 2698 in riferimento all’onere della
prova, che può regolato per contratto nei limiti della legge e infine abbiamo questo
terzo esempio, ma sono tutti fenomeni che le parti non utilizzano. Tutte le parti
ovviamente devono rinunciare, perché basta che una non sia d’accordo e il tutto si
blocca.

Continuando a legge la disposizione di cui all’art.339, comma 2: “sono inappellabili le


sentenze che il giudice ha pronunciato secondo equità norma dell’art. 114”, e tale
disposizione si coordina con l’art. 114, che fa parte delle disposizioni generali: “il giudice sia
in primo grado che in appello decide il merito della causa secondo equità quando esso
riguarda di diritti disponibili delle parti e questi gliene fanno concorde richiesta”. Che cosa si
deduce da tale disposizione, (che poi segue l’art. 113, il quale, invece, fissa il principio
secondo il quale il giudice nel pronunciare sulla causa deve seguire le norme di diritto, salvo
le eccezioni del giudice di pace)? Il giudice decide secondo diritto, deve applicare le leggi per
prendere una decisione; noi siamo in un sistema di legalità sotto questo profilo. Si può
sostituire la legge all’equità a due condizioni:

- se le parti ne fanno concorde richiesta;

- se il diritto controverso è disponibile, perché se il diritto è indisponibile, ovverosia è


uno di quei diritti che ha delle ricadute di tipo pubblicistico, dove si prevede in un
processo l’intervento e la partecipazione del pubblico ministero, in questi casi
l’accordo tra le parti per consentire al giudice di pronunciare secondo equità e non
secondo diritto non sarebbe possibile, anzi sarebbe nullo.

Ovviamente le parti non lo fanno mai e questo fenomeno non si dà e, ove si dovesse dare, le
parti devono anche sapere che la sentenza è inappellabile. Sono due le deroghe che
porrebbero le parti nel fare un accordo di questo genere: la prima è consentire al giudice di
primo grado di decidere la causa non secondo diritto ma secondo equità e la seconda è che
automaticamente rinuncerebbero all’appello, salvo il ricorso per Cassazione, salvo vedere
che l’equità è la contrapposizione del diritto e in cassazione si va solo per violazione di legge
e, quindi, in realtà è anche abbastanza limitata la possibilità di fronte ad una sentenza
pronunciata secondo equità di andare in Cassazione.

L’equità è un aspetto che non riguarda il diritto processuale civile ma riguarda i principi
generali giuridici o le fondamenta del diritto privato. Per equità si intende un senso di
giustizia sostanziale, anche personale se vogliamo, di chi giudica, ma questa giustizia
personale di chi giudica si deve fare sui parametri di quel che normalmente la società sente
giusto in una situazione particolare: si tratta forse di valorizzare il caso di specie anziché la
norma astratta; si tratta di poter derogare alla norma astratta quando la norma astratta la si

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vede come “non giusta” in senso umano, o personale o concreto rispetto alla fattispecie ma
non si va oltre questo, perché andare oltre questo sarebbe andare anche oltre il valore
dell’equità, che non significa che chi decide con equità decide secondo arbitrio. I valori ai
quali deve sottostare sono quei valori vissuti da tutti come valori di giustizia e non si tratta di
abbandonare completamente la legge, in quanto la legge normalmente è fatta su criteri di
equità, perché altrimenti il legislatore detterebbe le norme a prescindere da un senso di
giustizia. La legge dovrebbe anzi essere la “consacrazione scritta” di un sentimento di
giustizia che vi deve essere e che quindi è anche quello dell’equità.

Soprattutto deve essere chiaro un altro aspetto fondamentale: quando si tratta di sostituire
l’equità al diritto, si parla di sostituire il solo aspetto sostanziale, il solo diritto sostanziale, il
merito della causa, e non quello processuale. Le norme processuali restano vigenti anche
quando il giudice deve decidere secondo equità o decide secondo equità, anzi possiamo
quasi dire che a maggiore ragione, perché nella misura in cui il giudice decide secondo
equità, allora ha ancor maggiormente il dovere di rispettare almeno le norme processuali,
altrimenti diventa un arbitrio totale.

Questi discorsi valgono in linea generale e quindi anche con riferimento ad un’ipotesi di cui
al 114 c.p.c., anche se non avviene mai; in concreto servono per il giudice di pace, perché
sappiamo che il giudice di pace per legge decide fino a 2000 euro secondo equità e, quindi,
la decisione del giudice di pace è di equità non per volontà delle parti, ma per legge; decide,
invece, secondo diritto per importi superiori e nei limiti della sua competenze. Quando il
giudice di pace decide secondo equità si deve attenere a questi criteri: equità non è arbitrio
e soprattutto non coinvolge nel suo seno le norme processuali che, viceversa, devono essere
ugualmente rispettate. L’art.339 co.3 prevede l’appello delle sentenze del giudice di pace.
Anche le sentenze del giudice di pace sono appellabili e, richiamando l’art. 341, si è detto che
le sentenze del giudice di pace si appellano in tribunale e quindi che la competenza
dell’appello per il giudice di pace non è della Corte d’appello ma del tribunale.
Sull’appellabilità delle sentenze del giudice di pace c’è stata discussione, perché in origine si
pensava addirittura di escludere l’appello: dato che la competenza del giudice di pace è
inerente a cause di infimo valore, alla luce del fatto che l’appello non era garantito
costituzionalmente, allora si voleva rinunciare all’appello delle sentenze del giudice di pace.
Per alcuni anni fu così e le sentenze del giudice di pace non erano appellabili secondo questa
prima riforma. Questo però ha comportato che chi, soccombente in un giudizio di primo
grado dinanzi al giudice di pace, volesse proporre impugnazione, lo faceva in Cassazione, e
così in Corte Suprema andavano a finire anche cause di valore esiguo, comportando peraltro
un aumento incredibile di lavoro degli uffici giudiziari. Furono allora gli stessi giudici di
Cassazione a voler mantenere l’appello nei confronti delle sentenze del giudice di pace, non
tanto perché sia giustificato rispetto all’oggetto del contendere che è minima e poca cosa,
ma perché fa da filtro al ricorso per Cassazione, perché se la parte fa appello non fa ricorso
per Cassazione, e se fa appello, poi interviene anche la sentenza di un tribunale e magari
anche la voglia di farsi un terzo grado in cassazione diminuisce. Si fa allora una seconda

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riforma di compromesso: da una parte si doveva accontentare la corte di Cassazione, per


evitare che si impugnassero direttamente in Cassazione le sentenze del giudice di pace;
dall’altra parte non si volevano nemmeno aggravare i tribunali degli appelli delle sentenze
dei giudici di pace. Allora si inventa un appello spurio, che non è un vero appello, perché
l’appello è a motivi limitati, perché con l’appello ci si lamenta di ogni decisione in fatto e in
diritto che il giudice di primo grado abbia deciso; questo è, invece, un appello spurio perché
si può fare solo a certe condizioni e per certe ragioni, e ha tutte le caratteristiche di un
giudizio di Cassazione anticipato, tant’è che si dice che le sentenze del giudice di pace
pronunciate secondo equità a norma dell’art. 113 co. 2 “sono appellabili esclusivamente per
violazione di norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie,
ovvero dei principi regolatori della materia” (si fa riferimento alle sentenze del giudice di
pace pronunciate secondo equità, perché per quelle era impedito prima l’appello e si
andava in Cassazione. Le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo diritto sono
appellabili secondo i criteri generali). Il problema è quando il giudice di pace decide secondo
equità, perché, in base al secondo comma dell’art.339, le sentenze pronunciate secondo
equità non sono appellabili normalmente. Il secondo comma non creava nessun problema
alla Cassazione perché erano casi inesistenti, mentre le sentenze del giudice di pace secondo
equità creavano il problema alla Cassazione. Si inventa, allora, questo appello che ha queste
caratteristiche: si può appellare anche una sentenza del giudice di pace in tribunale (perché
la competenza è del tribunale), ma ci si può dolere solo della violazione di norme
processuali, che non sono travolte da equità, perché le norme processuali vanno rispettate
e, se non rispettate, possono essere oggetto di impugnazione; e vi sono poi i principi
regolatori della materia, costituzionali e comunitari, il che sta a significare che decidere
secondo equità non significa decidere arbitrariamente, perché altrimenti questo tipo di
controllo sarebbe inammissibile, ma deve decidere attenendosi comunque ai principi
generali del sistema.

Riprendiamo il procedimento agli artt. 350 e 351. In appello si hanno due udienze: la prima
udienza e quella di precisazione delle conclusioni (art. 352). All’art.350 è scritto qualcosa di
analogo all’art. 183: anche il giudice dell’appello fa delle verifiche preliminari, e anche
davanti alla corte d’appello la trattazione dell’appello è collegiale, cioè non c’è il giudice
unico ma un collegio di tre giudici. Al co.2 si dice che “il giudice verifica la regolare
costituzione del giudizio e, quando occorre, ordina l’integrazione di esso (per i casi da
considerare inscindibili ai sensi dell’art. 331) o la notificazione prevista dall’art. 332, oppure
dispone che si rinnovi la notificazione dell’atto di appello”. Il 351 è la provvisoria esecuzione,
per cui si parla di provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado.

Fatte queste indagini preliminari (che sono simili al primo grado), con l’art.352 si va alla
decisione; la norma recita: “il giudice, ove non provveda a norma dell’articolo 356, invita le
parti a precisare le conclusioni e dispone lo scambio delle comparse conclusionali e delle

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

memorie di replica a norma dell’articolo 190; la sentenza è depositata in cancelleria entro


sessanta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica”. L’ultima
disposizione prevede anche l’art. 281-sexies, per cui si va in decisione con gli schemi del
primo grado o nella forma normale o con la sentenza semplificata, ai sensi dell’art.281-
sexies, e salvo sempre che il giudice dell’appello non voglia dar corso alla riforma
dell’art.348-ter e, quindi, chiudere il processo con ordinanza. Il giudice può anche
ammettere delle prove in appello, e vediamo, infatti, salvo il richiamo all’art.356, che è la
disposizione che prevede che anche in appello possono essere date l’ammissione e
l’assunzione dei mezzi di prova. Questo sta in contrasto con l’art.345, ma quando si ha tale
ipotesi? Si ha quando il mezzo di prova sia già stato chiesto in tribunale e da esso negato e,
quindi, reso oggetto specifico di impugnazione: in questi casi il giudice dell’appello può
ammettere la prova, perché non è una prova nuova e non è in contrasto con l’art. 345, anche
se le prove in appello non sono frequenti e non frequentemente il giudice dell’appello
concede tali prove.

Detto questo, si va in decisione con lo stesso meccanismo: a decidere è il collegio, composto


da un presidente, un giudice relatore e un terzo giudice; essi hanno sessanta giorni
dall’ultima memoria e depositano una sentenza. Una volta depositata la sentenza e chiuso il
giudizio di appello, non resta che il giudizio di Cassazione. Che contenuto può avere la
sentenza dell’appello? Sono tre i contenuti possibili e tre tipi di decisioni che possono essere
presi:

1. improcedibilità e quindi l’appello viene dichiarato improcedibile;

2. inammissibilità e quindi l’appello viene dichiarato inammissibile;

3. decisione di merito, e quindi l’appello viene deciso nel merito, e ovviamente può
essere di accoglimento o di rigetto. Se il giudice di appello rigetta l’appello,
conferma la sentenza di primo grado; se, viceversa, accoglie l’appello riforma la
sentenza di primo grado. Se accoglie l’appello e riforma la sentenza di primo grado,
lo fa nei limiti dell’impugnazione, che è quello della domanda, e quindi nella misura
e nei limiti con cui le parti lo hanno chiesto, e può essere stato chiesto sia con
l’impugnazione principale, sia con quella incidentale.

Quando l’appello è improcedibile? L’improcedibilità dell’appello è disciplinata


espressamente dall’art.348, che prevede due ipotesi di improcedibilità:

1. l’appello è improcedibile quando l’appellante non si costituisce in giudizio, e questo


accade quando si notifica un atto di appello e nei 10 giorni non si iscrive a ruolo la
causa (è questa la costituzione dell’appellante). Così come in primo grado si può e si
deve, nei 10 giorni dalla notifica della citazione, iscrivere la causa nel ruolo del
tribunale, lo stesso vale anche per l’appello. Se non lo si fa, in primo grado, non si
apre il procedimento, perché il giudice non ne viene a conoscenza; mentre in appello

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il tutto si dichiara improcedibile, con la conseguenza che passa in giudicato la


sentenza di primo grado. Le conseguenze dell’improcedibilità e dell’inammissibilità
sono le medesime e sono disciplinate all’art.358 e sono anche scontate, in quanto si
tratta del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, anche se fossero, per
ipotesi, ancora aperti i termini per l’impugnazione, cosa che è concretamente
impossibile. Ad esempio, Tizio cita Caio in appello e non iscrive la causa a ruolo;
nell’udienza indicata si presenta Caio, e il giudice dell’appello dichiara la
improcedibilità dell’appello, ma in quel momento, alla dichiarazione di
improcedibilità, sono ancora aperti i termini per appellare. Non si può appellare lo
stesso una seconda volta, perché si parla di consumazione dei mezzi di impugnazione,
nel senso che si può impugnare solo una volta e, se si fanno dei passi falsi o si è
inattivi, si brucia la possibilità e il diritto di avere l’impugnazione. La prima
improcedibilità che comporta il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado,
anche nelle ipotesi e nella prassi, inesistente, che i termini siano ancora aperti,
l’abbiamo con la mancata iscrizione a ruolo della causa;

2. la seconda ipotesi l’abbiamo nel caso di mancata costituzione in udienza.


L’appellante, infatti, appella una sentenza, iscrive la causa a ruolo e si costituisce in
giudizio, ma in udienza non si presenta, e all’udienza del 350 il giudice constata che
l’appellante non vi è. Il giudice dell’appello allora rinvia la causa ad una successiva
udienza, come si legge dall’articolo 348 co.2. Se nemmeno a tale seconda udienza
l’appellante si presenta, allora il giudice dichiara l’improcedibilità dell’appello che, ai
sensi dell’articolo 358, comporta il passaggio in giudicato della sentenza.

Vi è poi l’inammissibilità dell’appello. Dal punto di vista logico, l’inammissibilità è un


concetto simile all’improcedibilità; tuttavia il legislatore ha voluto distinguere delle ipotesi
che danno improcedibilità ed altre che danno inammissibilità. La conseguenza è sempre la
medesima, ossia che la sentenza di primo grado passa sempre in giudicato. Quando
abbiamo l’inammissibilità? Mentre l’improcedibilità è dettata dall’articolo 348,
l’inammissibilità non ha una norma di riferimento e quindi i casi di inammissibilità si devono
ricostruire dall’insieme delle varie norme processuali che, in un dato fenomeno, dice che la
conseguenza è l’inammissibilità. Ne abbiamo viste alcune:

a. la mancata integrazione del contraddittorio ai sensi dell’articolo 331


nell’ipotesi di cause inscindibili. Il giudice in ipotesi di inscindibilità
della controversia ordina l’integrazione del contraddittorio, ma se la
parte non ottempera agli ordini dichiara inammissibile l’impugnazione;

b. abbiamo poi letto l’art. 345 che dice che non si possono proporre
nuove domande e, se proposte, aggiunge la norma, vengono
dichiarate inammissibili;

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c. altra è quella dell’art. 342, e abbiamo detto che l’appello deve essere
specificatamente motivato ai sensi dei numeri 1 e 2 dell’articolo 342.
Abbiamo detto anche che la riforma del 2012 è stata chiara sotto
questo profilo sostenendo che la nullità dell’atto di appello per
mancanza di motivi specifici, in quanto generico, non comporta la
nullità dell’atto, ma l’inammissibilità dell’impugnazione,
espressamente ai sensi dell’articolo 342. Quindi un’altra ipotesi di
inammissibilità dell’appello è la genericità dello stesso, la mancanza di
motivi specifici nell’atto di impugnazione ai sensi dell’articolo 342.

Quali sono i casi di inammissibilità per antonomasia? Ci riferiamo all’appello della sentenza
inappellabile e quindi il giudice dichiara l’appello inammissibile. Sono casi rari che però si
possono dare: se si fa appello contro una sentenza di cui al 618 (opposizione agli atti
esecutivi), allora il giudice d’appello dichiara l’inammissibilità dell’appello perché non è
appellabile. La stessa cosa avviene se si fa appello contro una sentenza pronunciata
secondo equità o lo stesso ancora se si fa appello contro una sentenza del giudice di pace,
pronunciata secondo equità, fuori dai limiti dell’ultimo comma dell’articolo 339, perché in
quel caso l’appello di nuovo sarebbe inammissibile. Ipotesi più frequente è quella
dell’appello fatto fuori termine. Si hanno 30 giorni per fare appello, e si lasciano decorrere
perché ci si dimentica che ottobre sia di 31 giorni e, quindi, una sentenza del 15 ottobre non
scade il 15 novembre, ma il 14 e quindi si impugna il 15 e l’altra parte di conseguenza vince
facile, perché è inammissibile per tardività. L’impugnazione fuori tempo comporta
l’inammissibilità.

L’inammissibilità si pronuncia con sentenza, così come anche l’improcedibilità, perché


chiude il processo davanti al giudice di appello che deve quindi deve provvedere con la
forma della sentenza. Oggi però abbiamo un’inammissibilità che si pronuncia anche con
ordinanza che è quella appunto dell’art.348-bis inserito nel codice con la riforma del 2012,
ed è quell’inammissibilità che si pronuncia quando l’appello non ha una ragionevole
probabilità di essere accolto: qui l’inammissibilità si pronuncia con ordinanza. Questa
inammissibilità introdotta nel 2012 ha una doppia particolarità rispetto all’inammissibilità
tradizionale che si pronuncia con sentenza: la doppia particolarità non è legata solo al fatto
che si pronuncia con ordinanza e non con sentenza, ma anche che attiene al merito della
causa perché l’inammissibilità qui dipende da una valutazione sulla fondatezza
dell’impugnazione. L’inammissibilità, infatti, è qualcosa che sta prima del giudizio di merito e
ha a che fare con gli aspetti processuali, tant’è che nell’ipotesi che abbiamo menzionato si fa
riferimento alla sentenza non appellabile, al termine scaduto alla mancanza di una parte e
via dicendo, o alla domanda nuova che non può essere proposta per la prima volta in
appello: sono tutte questioni processuali e l’ammissibilità è sempre dovuta ad un fatto
estrinseco al processo, ma che incide sulla norma processuale, che impedisce la decisione di

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merito, perché si ha una condizione di ammissibilità che non è stata soddisfatta. Sotto
questo profilo è stata una stortura, un’ignoranza del legislatore del 2012 che ha fatto il tutto
per questioni di celerità, ma comunque ha immaginato per la prima volta un’inammissibilità
non solo che si pronuncia con ordinanza, ma che attiene anche ad una valutazione di merito
che non c’entra nulla con l’inammissibilità, perché nell’inammissibilità sono fatti che si
riferiscono al processo e sono pregiudiziali al merito, anzi non si può provvedere al merito
perché il tutto è inammissibile. Si capisce meglio anche il senso del perché il 348-bis inizi
asserendo: “fuori dai casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l‘inammissibilità”,
perché l’inammissibilità si dichiara normalmente con sentenza. Fuori da inammissibilità
tradizionali, l’appello può essere pronunciato e dichiarato inammissibile con ordinanza nelle
ipotesi del 348-bis, cioè quando non vi sia ragionevole probabilità di essere accolto. Il tutto si
chiude ricordando ancora che, se l’appello non è inammissibile, in tutte le forme possibili che
oggi abbiamo di inammissibilità, o non è improcedibile, allora il giudice dell’appello
dovrebbe provvedere nel merito e nel merito accogliere o rigettare l’impugnazione.

CAP. 4 - LA CASSAZIONE

La Cassazione va esaminata sotto due profili: quello che attiene al processo che ivi si svolge,
ai sensi degli artt.360 ss. c.p.c. (c.d. giudizio di Cassazione) e quello che attiene all’ufficio
(c.d. Corte di Cassazione) e alla sua storia, di cui non vi è traccia nel c.p.c. bensì, al più, agli
artt.65 ss. della Legge sull’Ordinamento Giudiziario.

Sotto il profilo storico, la Cassazione è un prodotto della rivoluzione francese. Per l’Ancien
Regime non aveva senso una corte di cassazione, perché il potere era tutto nel sovrano, era
lui a fare le leggi, ad applicarle e a giudicare; l’idea della separazione dei poteri è un’idea
illuminista che sorge con Locke in prima battuta e si concretizza con Montesquieu. A seguito
della rivoluzione francese, con l’idea di attuare l’illuminismo, per la prima volta si dice che il
potere giudiziario è indipendente dagli altri poteri: ed è questa la novità. Le prime
costituzioni che seguono la rivoluzione francese danno indipendenza ai giudici, danno le
prime garanzie alla magistratura e si cerca di attuare tale principio di separazione dei poteri
che garantisce a chi giudica, a chi esercita la funzione giurisdizionale, un’indipendenza dal
potere esecutivo, che era il potere governativo, il potere del sovrano. Qui nasce l’idea della
Corte di Cassazione: l’idea è di mantenere una corte suprema che il sovrano stesso controlla,
all’inizio con giudici di sua nomina, che hanno il potere di “cassare”, cancellare, le sentenze
che alla fine “non gli piacciono”, o comunque quelle che da un punto di vista formale erano
in violazione di legge. L’autorità giudiziaria è sì indipendente, ma comunque il sovrano aveva
una corte che, nel caso in cui qualcosa non fosse andata per il verso giusto, o comunque
qualora i giudici avessero sbagliato ad applicare la legge, avrebbe cassato il provvedimento.
Questo era un buon compromesso tra il sovrano che voleva comunque mantenere il potere
e l’autorità giudiziaria, alla quale, per la prima volta, si dà un’indipendenza di giudizio. La
Corte di Cassazione nasce quindi con queste caratteristiche: sta vicino al potere del sovrano e
in origine gli stessi giudici della cassazione era nominati dal sovrano, e dovevano essere

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anche persone di fiducia; e controllavano la legalità dei provvedimenti, anche se alcune volte
si andava oltre, ma l’idea era quella di cassare tutto ciò che la corte riteneva non conforme
alla legge.

Col passare degli anni, tale corte diventa sempre più una corte giurisdizionale, e non politica,
e quindi sono giudici anche i componenti della corte di cassazione e non più solo fiduciari del
sovrano, ed era una corte che controllava la legalità, il cui compito era “cassare” le decisioni
in violazione di legge, con la possibilità, per gli uffici della procura, che erano gli uffici del
sovrano, di poter impugnare tutte le sentenze e portarle in cassazione, e questo serviva per il
controllo del potere. La terza caratteristica è che la procura ha sempre la possibilità di
impugnare qualsiasi tipo di sentenza conosciuta e portarla in cassazione. Questo modello,
che si diffonde in Europa, rappresentava un gran passo avanti rispetto all’ancien regime,
perché l’indipendenza alla magistratura era stata data, anche se c’erano tali paletti. Questa
corte, con queste caratteristiche, che alla fine nel corso del periodo storico si
giurisdizionalizza e perde la caratteristica di essere un organo politico del sovrano, ma
diviene organo giurisdizionale del controllo delle leggi, dalla Francia arriva anche in Italia,
prima della nostra unificazione, e arriva in Italia in tre Stati e non tutti la adottano e la
introducono:

1. i Savoia, nel Regno di Piemonte dal 1838, il che è abbastanza normale perché i Savoia
erano legati alla Francia, con una corte di Cassazione con sede a Torino;

2. il Granducato di Toscana, che ha avuto sempre legami con la Francia, quantomeno di


simpatia, con una corte di Cassazione con sede a Firenze; la corte la controllava il
Granduca, che poi era appartenente alla famiglia dei Lorena, che erano austriaci, ma i
collegamenti erano rimasti, ma poi il Granduca era un liberale e fu il primo a
eliminare anche la pena di morte;

3. il Regno delle due Sicilie, con i Borbone: addirittura vi era competizione tra Napoli e
Palermo, il che portò i Borbone a creare due corti di Cassazione, una a Napoli e una a
Palermo.

Prima del 1860, vi erano quattro corti di Cassazione in 4 Stati preunitari. Non aderiscono
allo schema il Lombardo-Veneto, sotto gli austriaci, e anche lo Stato Pontificio che aveva un
sistema suo, con una Sacra Rota Romana, per cui il Papa non aderisce a questa idea che era
comunque un’idea che partiva dalla rivoluzione francese. Questo per sottolineare, dal punto
di vista storico, che le corti di cassazione non si hanno né a Milano, né a Roma, che sono ora
le città più importanti.

Si arriva all’unità d’Italia e, a parte la parentesi di Torino e Firenze che diventano capitali
d’Italia e avevano la loro corte di Cassazione, dal 1870 si libera anche Roma dove viene a
trasferirsi la capitale; vi era da stabilire come organizzare la legislazione del nuovo Stato, e
allora si stabilisce che il sistema della Cassazione sia valido per tutto il territorio nazionale,

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ma si lavora con le 4 Cassazioni esistenti, e, quindi, in origine anche l’Italia si muove con le
cassazioni di Torino, Firenze, Napoli e Palermo, e ognuna aveva un territorio di competenza.
Immediatamente si pensa però che Roma Capitale non potesse non avere una Corte di
Cassazione, e nel 1889 viene creata la Corte di Cassazione di Roma, ed è la quinta corte di
cassazione d’Italia, perché le altre non vengono soppresse. In origine, quindi, nel 1800, dopo
l’Unità d’Italia, avevamo 5 corti di cassazione, perché alle quattro esistenti si aggiunge la
romana, che sarebbe stata la principale perché era la corte di Cassazione della Capitale (su
questo scaturirà tutta una discussione, perché, ad esempio, le corti supreme in Germania
non stanno nella capitale, proprio per evitare le commistioni con il potere politico e, se si
vuole l’indipendenza dei giudici, la corte non si mette a Roma, perché lì vi sta il potere
politico: se messa a Roma, è chiaro che i giudici hanno contatti con il governo e
l’indipendenza della magistratura potrebbe essere compromessa). Accanto a questo, alcuni
giuristi di quel periodo, anche se all’epoca erano minoranza e oggi sono la quasi totalità,
iniziano a sostenere che la funzione della cassazione non fosse solo quella di controllare la
legalità, ma svolgere anche una funzione di nomofilachia, con cui si intende la funzione di
dare l’indirizzo per i casi futuri, per cui non si risolve solo il caso, ma si detta un principio di
diritto, che serve alla giurisprudenza di merito in futuro per decidere casi analoghi,
nell’ottica di una uniformità degli orientamenti giurisprudenziali.

Vi sono state tre leggi di ordinamento giudiziario nello stato italiano:

- la prima nel 1865 quando la capitale era a Firenze ed è la prima legge di ordinamento
giudiziario del nostro stato, del Regno d’Italia; fu un anno di grande produzione
legislativo, in cui si fa la legge di riforma del diritto amministrativo e tutta una serie di
altre cose, con codici nuovi che vengono approvati;

- la seconda nel 1923;

- la terza nel 1941, che è quella ancora vigente, che è quella fascista del governo di
Mussolini, anche se integrata e modificata e alcune norme sono state dichiarate
incostituzionali, ma l’intelaiatura è quella fascista.

La funzione di nomofilachia della corte di Cassazione è assente tanto nella legge di


ordinamento giudiziario del 1865, tanto in quella del 1923, e la si ritrova per la prima volta
all’art.65 della legge di ordinamento giudiziario del 1941. Perché si introduce tale funzione
nomofilattica? Perché, nel momento in cui la cassazione ha una funzione nomofilattica, non
si può permettere che vi siano 5 corti di cassazione in Italia, non sono 5 corti di appello (è per
questo che distinguiamo il giudizio dall’istituzione e ragionare analogamente sarebbe
impensabile per i tribunali e le corti di appello). Si possono avere quanti tribunali vogliamo
sul territorio dello stato, ma lo stesso discorso non si può fare per le corti di cassazione,
perché, se deve svolgere una funzione nomofilattica, una può dire una cosa e una un’altra
del tutto diversa con orientamenti diversi. Allora alcuni giuristi, tra ottocento e novecento,
iniziarono a sostenere che le altre corti di Cassazione dovessero essere soppresse in favore di

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quella romana, perché 5 corti di cassazione in Italia non potevano svolgere funzioni
nomofilattiche. Alle posizioni di questi giuristi se ne contrapponevano altri, che sostenevano
che la funzione prima della Cassazione non fosse di nomofilachia (che nemmeno risultava
dalla legge sull’ordinamento giudiziario e che comunque era una funzione secondaria e non
sarebbe stata garantita nemmeno dall’unicità dell’ufficio, perché alcuni giudici e alcune
sezioni potevano essere di diverso avviso), per cui anche avere una sola corte a Roma non
avrebbe risolto il problema, perché la stessa corte di Cassazione romana, che a quel punto
sarebbe stata una corte di tanti giudici, avrebbe potuto avere all’interno giudici di diverso
parere, andando a creare quei contrasti giurisprudenziali che vi potevano essere tra due
diverse corti di cassazione. Poi ovviamente, oltre a questo, vi era una difesa anche
campanilistica, perché ad esempio i torinesi avevano già perso Torino capitale, così come
anche per Firenze e in certa misura per Napoli, i cittadini avrebbero reagito malissimo. Non
solo, ma anche i politici, perché la politica sempre allo stesso modo ha funzionato, dovevano
rispondere ai collegi in cui erano stati eletti. Di tali discorsi non se ne fece nulla fino al 1923.
Il 1923 è la data in cui si sopprimono le altre corti di Cassazione diverse da quella romana, e,
solo dal 1923, abbiamo in Italia una sola corte suprema di Cassazione a Roma. Nel 1923
c’era già Mussolini, aveva già preso il potere il fascismo, per cui la legge che sopprimeva le
corti di cassazione diverse dalla romana era fascista, perché fatta nel periodo del governo del
fascismo. Consideriamo, poi, che fu fatto il tutto con un decreto legislativo in base ad una
legge delega che prevedeva il riordino del sistema tributario: fu proprio un eccesso, perché
al di là se fosse giusto o sbagliato sopprimere le corti di Cassazione di Torino, Firenze, Napoli
e Palermo, se si fa una legge delega per riformare il diritto tributario e con decreto legislativo
si sopprimono le corti di cassazione, ebbene qualcosa non torna. Tale novità del 1923 venne
interpretata da alcuni come conseguenza di un dibattito dottrinale che si era sviluppato
nell’ottocento e come conseguenza di una funzione di nomofilachia che andava
necessariamente attribuita alla corte di Cassazione, per cui non fu letto come un colpo di
autorità fatto dal fascismo appena arrivato al potere. Dall’altra parte, vi era anche da dire
che fino a che non ci fu il fascismo di queste cose si parlava e basta, nessuno vi era riuscito e
il fascismo lo fa subito, in favore della cassazione romana, perché potevano anche
sopprimere le altre e mantenere una lontana dal potere politico; si fa con un decreto
legislativo che non c’entrava niente. Inoltre viene tolto come primo Presidente della
Cassazione Ludovico Mortara, grandissimo giurista dell’ottocento e del novecento. È stato
un grandissimo giurista ed era un cattedratico che lasciò la cattedra per andare in Cassazione
(all’epoca vi era la possibilità per i professori di fare domanda e divenire magistrati). Era
presidente della Cassazione romana quando vi erano le altre cassazioni. Mussolini lo rimosse
dall’incarico e nominò il giudice D’Amelio, che mantenne la presidenza della Cassazione per
tutto il ventennio ed era un bravo magistrato: il tutto, letto con la soppressione delle
cassazioni regionali, contribuisce a far capire che il disegno era abbastanza preciso, perché
sopprimere le corti e mettere a Roma una persona di propria fiducia non era il massimo.

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Per venti anni niente si muove e si arriva ai lavori dell’Assemblea Costituente. La settima
commissione si occupa di tale tema, e i lavori in assemblea hanno avuto ad oggetto il cosa
fare della corte di Cassazione. Le discussioni furono molto vivaci, perché alcuni sostenevano
che ormai si doveva mantenere un’unica corte di cassazione e che doveva avere sede a
Roma, sostenendo che magari questa funzione di nomofilachia meglio veniva svolta da un
unico ufficio centrale a Roma. Altri, viceversa, ritenevano che la legge del 1923, che aveva
soppresso le altre corti di cassazione fosse da considerare fascista e autoritario era
immaginare un unico ufficio centrale su Roma ed erano per il ripristino delle corti lì dove si
erano formate storicamente, riportando la cassazione a Torino, Firenze, Napoli e Palermo. Di
questa posizione furono due personaggi completamente diversi l’uno dall’altro: uno fu
Palmiro Togliatti, del Partito Comunista e l’altro fu Vittorio Emanuele Orlando, vecchio
liberale e conservatore. Era strano che un conservatore, un vecchio signore come Orlando,
potesse avere la stessa posizione di Palmiro Togliatti, ma in realtà fu così: il partito
comunista voleva che la giustizia fosse vicino al popolo, e, quindi, nel luogo più prossimo, ed
era contraria ad una centralizzazione dell’ufficio di questo genere. Consideriamo anche che i
mezzi di trasporto non erano quelli di oggi negli anni quaranta e quindi andare a Roma
significava non poter ricorrere per Cassazione. Vittorio Emanuele Orlando considerava la
legge del 1923 una legge fascista, e nel suo discorso disse che non venne soppressa una
prefettura, né una questura, e furono soppresse invece 4 corti di cassazione, e quindi voleva
il ripristino di queste, secondo un principio liberale, che sotto questo punto di vista non si
distaccava da quello comunista, perché si era contro l’accentramento visto come cosa
autoritaria e la scelta del 1923 non poteva essere sposata dalla costituente in quanto fatta
dal fascismo. Vi erano anche posizioni intermedie che dicevano di fare una corte unica ma
lontana da Roma, che poteva essere la soluzione di compromesso, in modo che
l’intersecazione del potere politico non si potesse dare o comunque si potesse dare in modo
più contenuto. Quando si andò a votare, su proposta di un certo Targetti, egli ebbe
l’illuminazione di non metterla ai voti, perché vi era il rischio di tornare alle cassazioni
regionali, perché probabilmente la maggioranza in assemblea non era per la cassazione
unica, anche se grossi giuristi lo erano, e tra questi Calamandrei, che, sin dagli anni venti, era
per la Corte di Cassazione a Roma, il che non spiega come un fiorentino potesse essere
favorevole alla soppressione della propria corte di Cassazione; per Franco Cipriani
Calamandrei era per questa soppressione per arruffianarsi Mortara, anche se Calamandrei
doveva ancora vincere il concorso, dato che Mortara era per la Cassazione unica, anche se
poi ebbe la sua fregatura con D’Amelio. Questa cosa non va ai voti e si dice che deciderà la
legge sull’ordinamento giudiziario, per cui in costituzione non si mette nulla di tutto questo,
con riferimento alla corte di cassazione, o alla sua unicità o alla sua necessità di stare e di
sedere nella capitale, che era anche questo un problema. Di tutto questo si decide di non
fare nulla, di lasciare tutto com’è e che a questo avrebbe pensato la nuova legge
sull’ordinamento giudiziario, ma l’ironia della sorte è che questa legge del ’41 è ancora
vigente, e oggi abbiamo una corte di cassazione a Roma e una legge di ordinamento
giudiziario fascista, del 1941.

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Dopo l’entrata in funzione della Cassazione, questa ha avuto una serie di riforme ed è
l’istituto più riformato in questi ultimi anni, anche su suggerimento degli stessi giudici della
Cassazione, perché anche i Governi avrebbero un ossequio nel metter mano alla disciplina
della Cassazione. Le riforme avute sono state quattro, che sono tappe non secondarie: la
prima avvenuta nel 2006; una seconda nel 2009; una terza nel 2012 e l’ultima alla fine del
2016. È accaduto che, una volta stabilito che è un ufficio unico che ha sede a Roma e che da
qui deve occuparsi di tutto il territorio nazionale, e stabilito che, essendo un ufficio unico e
una Corte suprema, non può avere un numero di magistrati infinito, sono aumentati i ricorsi
in Cassazione, perché è aumentato il benessere dei cittadini medi italiani, sono migliorate
anche le condizioni di circolazione (che permettono, a differenza del periodo fascista, di
raggiungere con più facilità Roma); sono anche aumentati i diritti e la consapevolezza di
averli. Una riflessione va fatta anche sugli avvocati. Si diceva, quando ancora c’era il
cartaceo, che l’elenco degli avvocati cassazionisti fosse molto lungo, di circa centoventimila
abilitati al patrocinio in Cassazione. Il fatto che, per diventare avvocati cassazionisti in Italia,
non vi siano particolari limiti da assolvere, ha fatto sì che anche per anzianità gli avvocati
diventavano cassazionisti, in grado di ricorrere in Cassazione. Fin dagli anni ‘80 si riflette su
come limitare il numero dei ricorsi in cassazione, perché sono troppi, anche perché
abbiamo un principio costituzionale nell’art. 111 Cost., secondo il quale non si possono
mettere i limiti di accesso alla Cassazione, perché il controllo di legalità dei provvedimenti è
garantito costituzionalmente, ovverosia il nostro sistema garantisce a tutti di andare dinanzi
ad una Corte suprema di legittimità e chiedere se quel provvedimento, che incide su quel
cittadino e che dispone dei suoi diritti, è stato pronunciato nel rispetto della legge oppure no.
Ciò significa che la legge ordinaria non può mettere troppi limiti all’accesso in Cassazione,
perché si porrebbe in contrasto con la Costituzione. O si ha il coraggio di mettere mano
all’art. 111 Cost. e togliere questo diritto di accesso generale e incondizionato alla
Cassazione e allora si possono fare tutte le riforme che si vogliono; ma finché non c’è questo
coraggio (dettato da scelte politiche) si possono apporre dei correttivi all’accesso in
Cassazione, ma nulla di più perché la legge sarebbe incostituzionale. Anche alcune delle
riforme che sono state fatte in questi anni erano considerate, sotto un certo profilo, anche
incostituzionali, però sono state sempre fatte nei limiti della costituzionalità. Le riforme
hanno avuto un unico obiettivo: limitare il numero di ricorsi alla Cassazione, la quale deve
affrontare circa trentamila ricorsi civili l’anno.

La struttura della Corte di cassazione è divisa in cinque Sezioni: le prime tre sono civili,
ripartite per materie (una Sezione si occupa di famiglia, un’altra di diritti reali e una di
questioni societarie); una quarta Sezione è per le cause di lavoro; la quinta Sezione è
tributaria e la sesta Sezione è quella detta filtro, che si occupa di filtrare i ricorsi, senza una
propria autonomia. Tutti i giudici delle cinque Sezioni formano la sesta Sezione, che è stata
creata come un filtro alla massa di ricorsi depositati in Cassazione. I magistrati addetti al
civile sono circa duecento. È necessario, quindi, che duecento consiglieri di cassazione nel
civile producano almeno trentamila sentenze, che in un anno non sono poche, e, a differenza

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di ciò che sosteneva Calamandrei a proposito, cioè di abolire le Corti di cassazione in nome
della nomofilachia, difficilmente si può dire che con un’unica Corte a Roma ci sia un
coordinamento tra le varie sentenze. Intervengono, pertanto, queste riforme che, finalizzate
a ridurre il numero di ricorsi, devono tenere conto del dato costituzionale e finiscono per
introdurre dei correttivi. Nel 2006 si introduce l’art. 366-bis, che fu anche abrogato nel 2009,
perché fu un tentativo che non funzionò. Questa disposizione prevedeva la formulazione dei
motivi e dei quesiti giuridici. Il problema è anche pratico: perché, avendo in Italia
centoventimila avvocati cassazionisti, la maggior parte dei ricorsi sono fatti male, perché
entrano nel merito, non rimanendo esclusivamente sulla violazione della legge. Per risolvere
il problema si disse che, per ogni motivo di ricorso, andava indicato il quesito giuridico, cioè
la questione giuridica sottoposta alla Corte, cioè non solo la violazione della legge, perché
non basta indicare quale articolo è stato violato, ma anche l’aspetto giuridico che secondo il
ricorrente è stato violato e qual è il quesito giuridico che viene posto alla Cassazione, alla
quale questa risponde con un principio giuridico. Siccome spesso i ricorsi nemmeno avevano
questa cosa, l’art. 366-bis introdusse per la prima volta un principio secondo il quale ad ogni
motivo di ricorso doveva essere sintetizzato con un quesito giuridico, e, se non veniva
indicato il quesito giuridico, il ricorso era inammissibile. Ciò con grande disappunto degli
avvocati, in quanto la Corte abusò di questo strumento, perché iniziò a dire che bastava che
il quesito non fosse posto correttamente, poi se dovesse essere posto un quesito per ogni
motivo o se si potevano accorpare più motivi in un unico quesito, se andava messo in testa o
in fondo al motivo di ricorso, quanto dovesse essere chiaro, andando sul dettaglio (oltre il
tenore della legge), per togliersi qualche ricorso e dichiararli inammissibili. Ciò spaventò la
classe forense, perché la dichiarazione di inammissibilità avrebbe anche aperto a
responsabilità professionali, e in quegli anni ci furono orientamenti in contrasto all’interno
della stessa Cassazione, perché alcuni giudici erano più formalisti e rigorosi, mentre altri no,
perché non vollero usare questo strumento in questo modo. Introducendo questo, nessuno
avrebbe dichiarato la violazione dell’art. 111 Cost., perché non si sta impedendo l’accesso in
Cassazione. Gli avvocati, quando hanno capito come funzionava il tutto e quando la
Cassazione indicava obbligatoriamente con le sentenze come fare il quesito di diritto, questo
non era più uno strumento di filtro, cioè di limitare il numero di ricorsi in Cassazione, tant’è
che, da un punto di vista statistico, non si può dire che la novità dell’art.366-bis abbia inciso
sul carico di lavoro o che questo sia diminuito o contenuto. Fu un primo tentativo che creò
varie polemiche, anche tra gli stessi magistrati, ma finì per essere abbandonato con le
riforme successive del 2009.

Nel 2009, il presidente della corte era Vincenzo Carbone, che era fortemente determinato a
limitare il numero dei ricorsi. Si interviene in due modi: sul 360-bis (che sotto un certo
profilo va a sostituire il 366-bis, che viene soppresso) e sul 375 c.p.c. e, poi, si aggiunge l’art.
380-bis. L’art. 375 prevede la decisione in camera di consiglio ed è rubricato “Pronuncia in
camera di consiglio”. Sono indicati dei casi nei quali il giudice in camera di consiglio, e,
mentre gli articoli seguenti (art. 377 “Fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

consiglio”, art. 378 “Deposito di memorie di parte”, art. 379 “Discussione”) specificano
questo tipo di procedura, la regola è che il giudizio in cassazione si fa in udienza pubblica: si
fissa un’udienza, dopo che sono stati scritti gli atti introduttivi, la si discute e la Cassazione
decide e la discussione è in udienza pubblica (art. 379), ma si può anche decidere in camera
di consiglio (art. 375). Che differenza c’è tra la decisione in camera di consiglio e l’udienza
pubblica? La camera di consiglio non prevede l’udienza, perché il tutto avviene nel segreto
della camera di consiglio: i giudici si riuniscono in camera fra di loro, quando vogliono,
discutono e non si sa nulla perché non c’è verbale e si prende una decisione. Il meccanismo
dell’udienza pubblica, ovviamente, è diverso perché bisogna comunicare l’udienza alle parti,
queste possono depositare memorie, intervenire, c’è una discussione pubblica, un relatore
espone la causa e tutto avviene nella luce della pubblicità dell’udienza (mentre nell’altro
caso avviene nella segretezza della camera di consiglio). Da un punto di vista pratico, in un
caso c’è l’udienza e nell’altro no, perché i meccanismi non sono diversissimi: i giudici,
comunque, devono riunirsi in camera di consiglio, in un collegio di cinque magistrati, devono
discutere la causa e deciderla, e ciò avviene sia a seguito di un’udienza pubblica sia in
camera di consiglio. La decisione in camera di consiglio esiste nel codice a partire dal 1940,
perché nel 1865 era prevista solo come cosa creata dalla giurisprudenza (era un’idea di
Ludovico Mortara), ma non c’era una norma. La norma esiste a partire dal 1940 (art. 375) e
prevedeva che in camera di consiglio si potessero decidere le cose non attinenti al diritto
sostanziale (ad esempio, se c’era da dichiarare l’estinzione del procedimento o se, nel
frattempo, le parti avevano conciliato la lite o se c’era da integrare il contraddittorio), ma
quelle meramente procedurali, dove non c’era la decisione sulla fondatezza o meno del
ricorso e, per questo, potevano essere decise in via breve in camera di consiglio. Qual è
l’idea del 2009? L’idea è che, se si decide la causa in camera di consiglio, si risparmia tempo,
perché non si deve fare l’udienza sostanzialmente; allora l’idea è quella di aumentare i casi
di camera di consiglio a scapito delle ipotesi di udienza pubblica e si prevede che in camera
di consiglio si possa decidere, per la prima volta, il merito, quando questi (numero 5 art. 375)
siano manifestamente infondati (un ricorso manifestamente infondato è raro, perché
vorrebbe dire che la sentenza del giudice d’appello è manifestamente errata); in questi casi
non si va in udienza, ma si decide in camera di consiglio. È la prima volta che si crea
un’ipotesi primordiale di filtro, nel senso che i giudici della cassazione, appena arrivano i
ricorsi, distinguono tra quelli manifestamente infondati, che non meritano l’udienza pubblica
e che, quindi, vengono mandati in camera di consiglio e, viceversa, quali sono quelli più seri
che devono seguire l’iter normale. Questa è una novità, perché un tempo sarebbe stata
impensabile una cosa di questo genere, perché la fondatezza è una questione di merito, non
meramente procedurale e, quindi, non poteva andare in camera di consiglio prima del 2009.
Qui si cerca di rispondere ai ricorsi in modo più celere possibile e poteva anche essere
accettato. Contestualmente si solleva un dubbio di incostituzionalità, perché la camera di
consiglio non è processualizzata, quindi non si sanno quali sono le regole, dato che i giudici
possono decidere come vogliono ed è impensabile che la decisione di un ricorso possa
avvenire senza certe regole, perché sarebbe lo stesso incostituzionale (perché non sarebbe

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incostituzionale nella misura in cui si garantisce il ricorso per cassazione, ma il principio


costituzionale coinvolge anche le regole processuali con le quali si risponde al ricorso).

È stato, prudenzialmente, inserito nel codice l’art. 380-bis, che prima non esisteva, il quale
prevedeva quali dovessero essere le regole della camera di consiglio. Se si va in camera di
consiglio, le regole sono nel 380-bis, mentre se si va in udienza pubblica, le regole sono
quelle del 377, 378 e 379: si è processualizzata, quindi, la camera di consiglio, per evitare
che il numero 5 dell’art. 375 potesse essere considerato incostituzionale. Si è, però, di
nuovo all’assurdo perché se si va in camera di consiglio (al di là del fatto della minima
differenza di risparmio di tempo con l’udienza pubblica se comunque vi sono trentamila
ricorsi), se comunque bisogna rispettare le regole procedurali anche qui, alla fine non serve a
niente. Anche quest’idea di aumentare la camera di consiglio a scapito dell’udienza pubblica
non ha migliorato la funzionalità della Corte suprema di cassazione.

Si introduce parallelamente l’art. 360-bis che, nell’ottica della cassazione di allora, doveva
essere molto più forte. Erano stati previsti, inizialmente, addirittura cinque limiti per il
ricorso in cassazione, ma ora ve ne sono solo due, perché non furono approvati. Questa
norma prevede che “il ricorso è inammissibile se”, mentre il testo originale diceva che “il
ricorso è ammissibile se”: la prima bozza, infatti, non passò perché si disse che era in
contrasto con l’art. 111 Cost., perché, se il ricorso in cassazione è libero, non si può dire che
si può andare solo in presenza di cinque condizioni. Fu adottato allora il metodo per cui si
disse allora che il ricorso era di per sé ammissibile, ma poteva essere inammissibile se ci
fossero state alcune condizioni dell’art. 360-bis: si decise di disciplinare le ipotesi di
inammissibilità del ricorso, sempre che queste inammissibilità non siano tali da impedire di
fatto l’accesso in cassazione, perché, se così dovesse essere, ci sarebbe anche in questo caso
un problema di contrasto con l’art. 111 Cost. Allora il ricorso era inammissibile solo in
presenza di queste condizioni, che, data una certa lettura, non sono del tutto nuove, perché
quelle più forti non passarono nel 2009. Si diceva che, se si denuncia in cassazione una
sentenza della corte d’appello, bisogna considerare se questa l’aveva pronunciata
conformemente o difformemente dagli orientamenti giurisprudenziali, ma ciò qualunque
cassazionista lo poteva intuire senza questa norma. Non vi sono particolari problemi circa la
sentenza pronunciata difformemente dagli orientamenti della cassazione, perché si cassa la
sentenza. Delicata era la questione dell’impugnazione della sentenza conforme agli
orientamenti della cassazione: perché allora ci si lamenta dello stesso orientamento della
cassazione, chiedendo a questa di cassare la sentenza mutando l’orientamento
giurisprudenziale. Non si tratta di un errore evidente della corte d’appello che si è discostata
dall’orientamento della Cassazione, ma si chiede il mutamento dell’orientamento alla
Cassazione stessa. Il n.1, allora, prevede che, in questi casi, si debbano fornire le ragioni per
cui la cassazione debba mutare orientamento: ma questa è una cosa ovvia quando si chiede
di mutare orientamento. Il n.2 vale per il giusto processo. Anche circa l’art. 360-bis nessuno
diceva che era incostituzionale, perché era talmente blanda la novità (perché era già di per
sé chiaro che bisognasse inserire una motivazione), che era sì costituzionalmente legittimo,

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ma quella funzione di limitare il numero dei ricorsi in Cassazione ebbe una risposata
negativa. Questa riforma del 2009, in un senso e nell’altro, non ha dato grandi risultati.

Qualcosa di più forte viene fatto nel 2012, perché si hanno due idee importanti. Innanzitutto,
si dice che in Cassazione si va per violazione di legge, ma non è sempre così, perché basta
vedere l’art.360, che ha cinque casi di ricorso per cassazione e un numero riguarda il vizio di
motivazione. In realtà, quindi, in cassazione si va sia per due diverse ragioni: per la
violazione di legge (soprattutto), ma anche per il vizio di motivazione. Molti ricorsi sono per
vizio della motivazione, perché non è che le corti d’appello violino la legge in maniera
frequente e alla leggera, e comunque può accadere. Allora quando il soccombente vuole in
tutti i modi continuare ad impugnare, si attacca al vizio della motivazione, perché non riesce
a trovare altro, incentrandosi sul n.5 dell’art. 360, perché con la motivazione si può portare il
fatto in cassazione, che normalmente è vietato (perché non si discute mai il fatto). Il giudice
d’appello, nello stabilire un fatto, avrà motivato, ma può anche accadere che non abbia
motivato: se non ha motivato, si impugna perché non c’è una motivazione; se ha motivato, si
può impugnare perché magari ha motivato male. In entrambi i casi non si contesta il fatto,
ma si dice che la motivazione, in base alla quale si asserisce quel fatto, non sta bene: si
rimette in discussione il fatto in cassazione con l’escamotage della motivazione, usandolo per
ritornare sulla discussione del fatto deciso in appello. Allora, con la riforma del 2012, si
riscrive il n.5 dell’art. 360, impedendo alle parti di andare in cassazione sul fatto. Questa
riforma è molto più forte: incide davvero sui numeri. Questa idea era forte per limitare il
ricorso in cassazione quando questo aveva ad oggetto la motivazione e vizi della
motivazione. Questo è stato fatto nel 2012, riscrivendo il n.5 dell’art. 360. È costituzionale
qualcosa di questo tipo? C’è sempre il problema dell’art. 111. Si risponde che, in verità, l’art.
111 dice che è sempre ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge: se si
interpreta letteralmente questa espressione letteralmente, è vero che c’è una copertura
costituzionale per l’accesso in cassazione, ma per violazione di legge, e non per vizi della
motivazione. Si può anche dedurre che, per i ricorsi per cassazione attinenti alla motivazione,
uno spazio per contenere questo numero di ricorsi o limitarlo lo si ha, se la garanzia
costituzionale è limitata alla violazione di legge e non si estende a tutti i ricorsi per
cassazione.

L’altra cosa è che il ricorso per cassazione non è condizionato al fatto di aver ottenuto
ragione almeno in un grado di giudizio. L’idea poteva essere quella di dire che il ricorso per
cassazione è ammissibile in quanto la parte non abbia la doppia conforme, cioè non sia stata
soccombente in entrambi i giudizi di merito, perché se lo è stata in entrambi i giudizi di
merito, allora il ricorso in cassazione non si dà, considerando che già due giudici hanno dato
torto a quella parte. Anche questa è un’idea forte, perché, se si dovesse dire che non si può
andare in cassazione per tutti coloro che hanno perso in modo conforme nei due gradi di
giudizio, si riduce fortemente il numero dei ricorsi, perché molte sono le ipotesi che stanno
in questo merito. Sono più rari i casi in cui qualcuno vince in tribunale o in appello, ma non in
entrambi i gradi di giudizio, e allora si giustifica ancora di più un altro grado di giudizio,

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proprio perché c’è stato un contrasto tra decisioni tra i due giudici del merito. Il legislatore,
allora, nell’art. 348-ter (disposizione che sta nell’appello) prevede il principio della doppia
conforme, cioè la non ricorribilità in cassazione se la parte ha perso in modo conforme in
entrambi i gradi del merito, ed è un principio che non è valido in assoluto, ma è valido solo
con la possibilità di utilizzare il n.5 dell’art. 360, che è sempre quello sulla motivazione, non
garantito costituzionalmente. Il principio della doppia conforme, inoltre, è tipico del diritto
canonico: nel diritto canonico, infatti, non si può andare alla Corte Suprema (la Sacra Rota)
se non si hanno pronunce difformi, perché se le pronunce del merito sono entrambe
conformi non c’è accesso alla Corte suprema.

Nel 2016 si fa un’altra cosa nuova: si è tolta l’udienza pubblica. Oggi, però, in Cassazione le
udienze sono ormai rare, perché si fa tutto in camera di consiglio e gli avvocati fanno tutto
per iscritto a distanza. Come funzionava il meccanismo fino al 2016? Depositato il ricorso in
Cassazione, questo andava in sesta Sezione, che era quella filtro, in cui stanno un po’ di
giudici di tutte le altre Sezioni. La Sezione filtro controlla, ai sensi del n.5 dell’art. 375, se il
ricorso è manifestamente infondato oppure no. Se è manifestamente infondato, il ricorso
rimane nella sesta Sezione, che lo decide nella camera di consiglio; ciò significa deciderlo con
ordinanza anziché con sentenza, nel rispetto dell’art. 380-bis c.p.c. che disciplina la camera
di consiglio. I difetti, per il legislatore del 2016, di questa disciplina erano due: un primo era
l’art. 380-bis, che prevedeva una disciplina farraginosa e complessa della camera di consiglio
tale che, andare nella camera di consiglio, non portava alcun vantaggio dal punto di vista
pratico o di tempo per arrivare alla decisione della controversia (era, infatti, stato inserito
per evitare che si dicesse che la camera di consiglio fosse incostituzionale). L’altra questione
era che, se la sesta Sezione non lo riteneva manifestamente infondato, il ricorso andava alle
Sezioni semplici: una volta che il ricorso andava in Sezione semplice, andava deciso
tassativamente nelle forme tradizionali dell’udienza pubblica (377, 378 e 379). Il legislatore,
allora, interviene su questi due difetti che aveva il sistema nel 2009: sopprime l’art. 380-bis,
che viene riscritto in modo completamente diverso, perché si vogliono togliere le
farraginosità; inoltre si mette la camera di consiglio anche alle Sezioni semplici, facendo
della decisione in camera di consiglio la regola e, viceversa, facendo dell’udienza pubblica
un’eccezione. Il 380-bis prevedeva che, se la sesta Sezione riteneva il ricorso
manifestamente infondato, il relatore doveva dare comunicazione alle parti e al pubblico
ministero (che in Cassazione è sempre presente) e doveva argomentare, tramite ordinanza,
le ragioni per le quali riteneva il ricorso manifestamente infondato, con l’indicazione della
data della camera di consiglio. Le parti e il p.m. potevano depositare delle memorie e, in via
eccezionale, potevano essere sentiti in camera di consiglio e, addirittura, la giurisprudenza
della Cassazione era arrivata a dire che, se le parti chiedono di essere sentite in camera di
consiglio, hanno il diritto di essere sentite. I giudici si indispettivano di questa cosa, quindi
non era una mossa molto intelligente, per gli avvocati, chiedere di essere sentiti in camera di
consiglio. Rispetto all’udienza pubblica, quindi, l’unica differenza diventava la toga: in
udienza pubblica, l’avvocato indossa la toga; mentre nella camera di consiglio non c’era

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bisogno. Ma, a parte questo dato formale, non c’era più una differenza se in camera di
consiglio si poteva comunque partecipare e discutere rispetto all’udienza pubblica. Nel
vecchio sistema, addirittura, era meglio andare in camera di consiglio che non in udienza
pubblica, perché in udienza pubblica non si aveva la minima idea sulle idee dei giudici circa il
ricorso, perché nessuno anticipava niente (così come avviene in tribunale o in corte
d’appello) e nulla si sapeva fino alla decisione; mentre, qui, era istituzionalizzata una cosa di
questo genere, perché il relatore doveva motivare le ragioni della manifesta infondatezza e,
quindi, si sapeva in anticipo come era orientato il giudice e, quando si doveva scrivere la
memoria, questa non era scritta solo in contraddizione con la parte, ma anche in
contraddizione con il magistrato, ed è un inedito. Era un vantaggio andare in camera di
consiglio con il 380-bis come era scritto. Tutto questo è stato tolto, anche perché andare in
camera di consiglio a queste condizioni (cioè senza udienza, ma questa poi ci può essere
perché gli avvocati potevano chiedere di essere ascoltati; si doveva leggere una memoria in
più e, in più, dovevano fare un’ordinanza che motivava sulla manifesta infondatezza, poi
un’altra che decideva il ricorso) era chiaro che il meccanismo comportava più tempi lunghi
che non andare nel modo tradizionale in udienza pubblica.

Oggi, dopo il 2016, con l’art. 380-bis per come è stato riscritto, si dice che il ricorso è
trattenuto in sesta Sezione perché manifestamente infondato (al massimo possono essere
indicati dei precedenti), le parti non possono chiedere di essere ascoltate, ma solo
depositare una memoria. Le modifiche sostanziali, quindi, riguardano il fatto che il giudice
non deve anticipare le ragioni della decisione e gli avvocati non possono chiedere di essere
ascoltati se il ricorso è manifestamente infondato. L’altra novità introdotta nel 2016 e che è
la principale novità, è che se il ricorso va alle Sezioni semplici, hanno di nuovo una scelta da
poter fare in base all’art. 380-bis 1 (il 380-bis si applica solo alla sesta Sezione quando il
ricorso è manifestamente infondato; il 380-bis 1 si applica alle Sezioni semplici, quando il
ricorso è considerato “serio” dalla sesta Sezione e, per questo, torna alle Sezioni semplici), il
quale dice che le Sezioni semplici devono valutare se il ricorso ha ad oggetto questioni
giuridiche di particolare rilevanza, con la conseguenza che, se il ricorso non ha ad oggetto
questioni di particolari rilevanza, viene deciso in camera di consiglio anche dalle Sezioni
semplici e la camera di consiglio, di nuovo, in questo caso non si dà né anticipazioni di
decisioni né possibilità alle parti di essere ascoltate, ma solo quello di depositare le memorie
prima della data della camera di consiglio. Se le Sezioni semplici ritengono che la questione
giuridica sia rilevante, solo in questi casi dispone l’udienza pubblica e solo in questi casi si
continua ad applicare le disposizioni che un tempo erano la regola generale: 377, 378 e 379.

La camera di consiglio prevede la pronuncia di un’ordinanza e la pronuncia della sentenza si


ha solo a seguito dell’udienza pubblica: ciò significa che se oggi si guardano tutte le decisioni
della cassazione, sono, nella maggior parte dei casi, delle ordinanze.

Questo, tra l’altro, cozza un po’ con il problema delle Sezioni Unite, perché è rimasto ancora
l’art. 374. La funzione di nomofilachia è svolta dalle Sezioni Unite, che sono un collegio di

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nove magistrati, mentre le Sezioni semplici decidono con un collegio di cinque. Alcune
materie vanno direttamente alle Sezioni Unite: ad esempio, i regolamenti di giurisdizione, i
disciplinari di magistrati e avvocati e casi specifici vanno alle Sezioni Unite. Vanno anche le
questioni su cui le Sezioni semplici si sono pronunciate in modo difforme: in questi casi il
Presidente manda la questione alle SS.UU. L’altro caso è una questione giuridica di
particolare importanza. In base all’art. 374 co. 2 le questioni di particolare importanza
vanno alle Sezioni Unite. Ai sensi, invece, dell’art. 380-bis 1 vanno in udienza pubblica le
questioni di particolare rilevanza. Che differenza c’è tra questioni di particolare rilevanza e
quelle di particolare importanza? Quando il ricorso va alle Sezioni semplici, queste devono
decidere se la questione è di particolare importanza o no (perché devono decidere se si va in
camera di consiglio o in udienza pubblica), ma non c’è un provvedimento con la quale la
Sezione può dire che si tratta di una questione di particolare importanza. La Sezione
semplice, quindi, fa quello che vuole e questa scelta non è formalizzata in un provvedimento
che la Sezione semplice assume, ma una decisione di fatto e priva di motivazione che la
stessa Sezione prende. Si crea, allora, una sovrapposizione con quegli spazi che potevano
essere delle Sezioni Unite un tempo. C’è una grande libertà da parte dei giudici della
Cassazione nello stabilire quando si decide con ordinanza, con sentenza (perché c’è l’udienza
pubblica) o quando si va a Sezioni Unite.

Nel 1770, l’illuminista Mirabeau diceva: “datemi il giudice che volete, anche mio nemico,
anche corrotto, purché debba decidere dinanzi al pubblico (cioè in udienza pubblica)”. Ciò
sottolinea come la pubblicità dell’udienza sia un valore illuminista prima ancora di essere
un valore costituzionale, perché il valore dell’udienza pubblica sta nello Statuto Albertino e
anche nella Carta costituzionale, perché in Assemblea Costituente si discusse anche di
questo: se mettere l’udienza pubblica espressamente in Costituzione. Non fu fatto, perché fu
replicato che era implicito già nell’art. 101, che prevede che la giustizia era amministrata in
nome del popolo e, dunque, non si avvertì l’esigenza di riportare il principio dell’udienza
pubblica, perché era da sempre riconosciuto.

Sopprimere l’udienza pubblica in Cassazione, se non in ipotesi del tutto eccezionali e, in una
qualche misura, in modo anche arbitrario (perché non si capisce come le Sezioni semplici
stabiliscano quando si vada in udienza pubblica), è discutibile perché da un alto si è
soppresso un valore illuminista, mentre dall’altro ci possiamo chiedere che cosa si risparmia
in termini di tempo. Le udienze pubbliche si tenevano, per ogni giudice, una volta ogni
quindici giorni (un magistrato cassazionista faceva due udienze al mese) e le udienze iniziano
alle 10:00 di mattina in Cassazione, per garantire a chi non è di Roma di poterla raggiungere
nella mattinata, e dopo le 13:00 non si andava mai. A conti fatti, l’udienza pubblica erano sei
ore al mese per un magistrato (tre ore ogni quindici giorni): allora, se è per risparmiare sei
ore al mese, ha o ha avuto senso sopprimere un valore illuminista? Il fatto che, però, si
possano decidere i ricorsi con ordinanza anziché con sentenza è un risparmio che va

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considerato, ma ciò non è nemmeno sempre vero, perché vi sono anche delle ordinanze di
venti o trenta pagine.

In Cassazione si va per violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza. Il ricorso


per Cassazione è un’impugnazione a motivi determinati, o chiusa, nel senso che è la legge
che dice i casi e le ipotesi per le quali si può ricorrere in Cassazione e tali ipotesi sono
indicate in modo tassativo all’interno dell’articolo 360 c.p.c.: “Le sentenze pronunciate in
grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione:

1) per motivi attinenti alla giurisdizione;

2) per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di
competenza;

3) per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi
nazionali di lavoro;

4) per nullità della sentenza o del procedimento;

5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione
tra le parti.”

Isoliamo il n.4 relativo alla motivazione, e per la violazione di legge abbiamo quattro diversi
numeri, il che sembra anche eccessivo per dire che, se si va in Cassazione per violazione di
legge, si debba distinguere tra quattro ipotesi per la violazione di legge. Questo si fa un po'
per tradizione, che ci deriva dal codice del 1865, un po' perché si distinguono la violazione
della legge sostanziale dalla violazione di diritto processuale: quando si denuncia una
violazione di legge e tale legge attiene al diritto sostanziale (e per diritto sostanziale
intendiamo il codice civile e tutte le leggi sostanziali che regolano il rapporto), si ha una
denuncia di ricorso per Cassazione ai sensi del n.3 dell’art. 360. È ricompresa al n.4 la
violazione di legge processuale: il processo potrebbe aver avuto delle nullità, che si sia
sviluppato un contrasto con le norme processuali, e se si denuncia una violazione di legge
processuale e non sostanziale, il ricorso si fa ai sensi del n.4. La Cassazione è abbastanza
ondivaga, perché alcune volte dice che “è uguale” e altre volte che il ricorso “è
inammissibile”: se si indica con il n.4 una violazione di diritto sostanziale o viceversa con il
n.3 una violazione di diritto processuale, si potrebbe incorrere in ipotesi di inammissibilità, il
che non sempre avviene, anche perché non ci sono orientamenti fissi. Abbiamo prima un n.1
e un n.2 perché il codice disciplina separatamente le ipotesi della giurisdizione e quella della
competenza. La violazione delle norme in materia di giurisdizione e in materia di
competenza sono violazioni delle norme processuale e, quindi, potevano ricomprendersi al
n.4 dell’articolo 360, ma così non è e non è stato nemmeno in passato, ma sono disciplinate
in autonomia e, quindi, abbiamo: un n.1 che è riferito ai problemi della giurisdizione e alla

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possibilità di andare in cassazione per violazione delle norme sulla giurisdizione; e un n.2
dedicato alla competenza. Riassumendo, i 5 numeri dell’articolo 360 si riferiscono:

1. alla violazione della giurisdizione;

2. alla violazione della competenza;

3. alla violazione della legge sostanziale;

4. alla violazione della legge processuale;

5. alla motivazione.

La Cassazione alle volte cassa con rinvio e altre volte cassa senza rinvio e la disposizione a
riguardo è l’ art. 382 c.p.c. Abbiamo tale problema perché la Cassazione non è un ufficio
rescissorio, ma è un ufficio solo rescindente, nel senso che la Cassazione accerta se ci sia
stata o meno la violazione di legge e, dopo aver fatto tale accertamento, è da vedere se, per
rendere giustizia, vi è necessità di una fase rescissoria, di un nuovo giudizio di merito, perché
se è così queste ipotesi sono di Cassazione con rinvio e a questo provvede un altro giudice
(che normalmente è una corte d’appello di nuovo) nel c.d. “processo di rinvio”. In altri casi,
viceversa, la Cassazione cassa senza rinvio, ovverosia quando non c’è necessità di un
ulteriore processo ed è stata resa giustizia già nella Cassazione, ossia dalla cancellazione
della sentenza di merito. Ovviamente quando cassa con rinvio o senza rinvio, sono entrambe
ipotesi in cui la Cassazione accoglie il ricorso, altrimenti non casserebbe, ma respingerebbe
il ricorso.

N.1 - per motivi attinenti alla giurisdizione: Il conflitto di giurisdizione, nel nostro sistema,
può essere con un giudice ordinario da una parte e un giudice speciale dall’altra, o la
Pubblica Amministrazione o un giudice straniero dall’altra parte. Si può arrivare in
Cassazione per una questione di giurisdizione: l’articolo 360 n.1 fa riferimento al percorso
normale con cui si fa valere una questione di giurisdizione, evidentemente in modo
infondato, o meglio in modo non accolto dal giudice di merito, e si arriva fino in Cassazione.
Ad es. si solleva una questione di giurisdizione al tribunale di Siena; il tribunale di Siena la
respinge; l’attore sostiene che tale tribunale non abbia giurisdizione mentre il tribunale
sostiene di averla, allora si fa appello e si insiste sulla questione di giurisdizione, che viene
respinta anche dalla corte d’appello e decide nel merito. Allora si impugna ai sensi
dell’articolo 360 numero 1) e si arriva in Cassazione con la questione di giurisdizione,
chiedendo alla Cassazione, per la terza volta, per l’ultima volta, se veramente in quella
fattispecie litigiosa il giudice ordinario abbia o meno giurisdizione. Può succedere che la
Cassazione respinga il ricorso, perché si ritiene che correttamente il giudice abbia ritenuto di
avere giurisdizione; oppure accoglie il ricorso, affermando che non ha giurisdizione il giudice
ordinario e che, quindi, i due processi che si sono avuti sono stati dati in modo errato, perché

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il giudice fin dall’inizio doveva avvedersi di non avere giurisdizione. In un’ipotesi del genere,
si tratta di ipotesi di cassazione senza rinvio, perché una volta che il giudice ha negato la
giurisdizione, è chiaro che non ci sia nulla da fare: non andava fatto niente fin dall’inizio e,
invece, è stata fatta qualcosa che è un di più, poiché il giudice non aveva giurisdizione ed è
ovvio che, se la Cassazione interviene e decide che effettivamente il ricorrente ha ragione
perché vi era un difetto di giurisdizione del giudice ordinario, la cassazione è senza rinvio.
Questo lo ritroviamo all’art.382 co.3, che recita: “se [la Cassazione] riconosce che il giudice
del quale si impugna il provvedimento e ogni altro giudice difettano di giurisdizione, cassa
senza rinvio.”

Mentre può succedere anche il fenomeno inverso, ossia può succedere che, in riferimento
all’articolo 382 comma 2, il percorso sia inverso. Ad es. il tribunale di Siena ha negato sin
dall’inizio la giurisdizione per cui non si è avuto un processo di merito. Si va in appello e si
insiste dicendo che il giudice ha giurisdizione, e anche il giudice d’appello lo nega e, quindi, in
questo caso si va in Cassazione, nella situazione capovolta rispetto alla precedente. La
cassazione può rigettare il ricorso e allora passa in giudicato la sentenza della corte
d’appello; ma se accoglie il ricorso, in questo caso afferma la giurisdizione, e, affermandola,
questa è ipotesi di remissione della causa al primo giudice, e in base all’art.382 co.1, “la
Cassazione in questi casi cassa, affermando quale sia il giudice competente e la causa deve
riprendere dal primo grado”. È una cassazione con rinvio, perché a seguito della pronuncia
della cassazione si apre quel giudizio di merito che il giudice di primo grado aveva negato,
negandosi erroneamente la giurisdizione su quel caso.

Sulla giurisdizione esiste un altro fenomeno di cui all’art.41, che è il regolamento preventivo
di giurisdizione. Considerata l’importanza della questione di giurisdizione, si capisce che la
Cassazione è il giudice supremo per stabilire se vi sia o meno giurisdizione, ma può apparire
incongruo che tale pronuncia arrivi dopo tanti anni e dopo che il processo si sia già svolto in
primo e in secondo grado. Si è, quindi, sempre avvertita, di fronte ad un problema di
giurisdizione, la necessità di investire fin dall’inizio la cassazione di una questione del genere,
affinché stabilisca, una volta per tutte e non alla fine del processo, se il giudice abbia o meno
giurisdizione. Questo èil regolamento preventivo di giurisdizione: preventivo perché il
regolamento di giurisdizione, ai sensi dell’art.41 c.p.c., non è considerato un mezzo di
impugnazione, perché non serve per impugnare una sentenza, ma semplicemente, se sorge
conflitto di giurisdizione dinanzi al giudice ordinario, si può fare, fino a quando il giudice non
abbia provveduto sul merito, un’istanza di regolamento di giurisdizione in Cassazione e
chiedere in via preventiva per stabilire se il giudice abbia o meno giurisdizione. In questo
caso la Cassazione statuisce sulla giurisdizione, affermandola o negandola in via preventiva e
a seguito di questo regolamento, ed è ovvio che tale strumento sia alternativo al ricorso per
giurisdizione di cui al n.1 dell’art.360, perché è ovvio che se si utilizza tale strumento non si
possa utilizzare l’altro. Se si fa un regolamento preventivo di giurisdizione alla fine la
Cassazione risponde dicendo che in fin dei conti il tribunale di Siena ha giurisdizione, e allora
il processo riparte dinanzi al tribunale di Siena; oppure che il tribunale di Siena non abbia

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giurisdizione e che nessun giudice italiano ha giurisdizione sulla vicenda e, allora, il processo
finisce lì e non va avanti perché la Cassazione l’ha statuito una volta per tutte.

Si utilizzano ancora questi strumenti (quali il regolamento di giurisdizione), ma una riforma


del 1990 ha tolto la sospensione necessaria del processo di merito in attesa dell’esito del
giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione, perché negli anni ottanta si era abusato di tale
strumento. L’abuso del processo spesso avviene utilizzando uno strumento per raggiungere
un obiettivo diverso da quello per il quale quello strumento è stato posto dal legislatore nel
sistema. Se ci si dovesse chiedere perché esista il regolamento di giurisdizione, allora si
risponderebbe che esiste per consentire alla Corte di Cassazione di stabilire se su una certa
controversia vi sia o meno giurisdizione ed è questa la finalità del sistema. Succedeva, però,
che le vecchie norme prevedevano che, fatto il regolamento di giurisdizione, si sospendeva il
giudizio di merito fino alla decisione della Cassazione (il che poteva richiedere anni). Allora
gli avvocati avevano inventato tale sistema, ed è questo l’uso deviato dello strumento
processuale, che non aveva come finalità quella di chiedere alla giurisdizione se vi fosse o
meno giurisdizione, ma interessava l’effetto secondario che bloccava il processo per anni.
Allora la disposizione che prevedeva la sospensione necessaria del processo di merito, a
seguito del regolamento di giurisdizione, è stata soppressa con la riforma del 1990 e, oggi,
spetta al giudice del merito stabilire se, pendente il regolamento preventivo di giurisdizione,
il processo di merito si debba sospendere oppure no. Il giudice lo sospenderà quando riterrà
che il regolamento è stato fatto in modo serio, per cui le questioni sono probabilmente
fondate, o comunque, da un’analisi di fumus, non appaiono defatigatorie; non sospenderà
quando riterrà lo strumento meramente “strumentale” o infondato.

L’art. 41 recita: “Finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado [per cui l’unica
preclusione per fare un regolamento preventivo di giurisdizione è che non sia stata
pronunciata sentenza di primo grado e, fino a quando non sia stata pronunciata sentenza di
merito, lo si può fare in ogni momento, anche nell’udienza di precisazione delle conclusioni],
ciascuna parte può chiedere alle sezioni unite della Corte di cassazione che risolvano le
questioni di giurisdizione di cui all’articolo 37. L’istanza si propone con ricorso a norma degli
articoli 364 e seguenti, e produce gli effetti di cui all’articolo 367”. Vi è poi il co. 2 art. 41, che
dà questa possibilità alla Pubblica Amministrazione anche quando non è parte in causa. È
un privilegio che è stato riconosciuto alla P.A. fin dall’800 ed è ancora lì, per cui: se si deve
affrontare una questione di giurisdizione tra giudice ordinario e Pubblica Amministrazione,
anche se la PA non è parte, allora si consente alla Pubblica Amministrazione di poter fare
regolamento di giurisdizione, a tutela degli interessi della Pubblica Amministrazione stessa
(art. 41 co. 2).

Altra cosa da sottolineare è che tutte le questioni di giurisdizione vengono decise dalle
Sezioni Unite, come è scritto non solo nell’articolo 41, ma anche nell’art. 374, che disciplina
le ipotesi in cui la Cassazione pronuncia a SS.UU., ossia con un collegio composto da nove
giudici. Questo avviene quando vi è conflitto tra le sezioni semplici o quando è una

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questione di particolare importanza (che viene deciso dal primo presidente della corte di
Cassazione), ma ci sono anche delle pronunce a Sezioni Unite per materie, e una di queste è
la giurisdizione, tant’è che se si legge l’art. 374 insieme all’art. 41 vediamo che: “la corte
pronuncia a sezioni unite nei casi previsti dal numero 1 dell’articolo 360 e dall’articolo 362” e
sono le ipotesi di giurisdizione, cui aggiungiamo il regolamento, in quanto all’art. 41 si
richiamano espressamente le Sezioni Unite.

Si richiama anche il 362, perché il ricorso può essere impugnato per Cassazione anche
quando la sentenza è del giudice speciale, cioè il Consiglio di Stato, perché i conflitti di
giurisdizione sono quasi sempre tra giudice amministrativo e giudice ordinario. Per es. un
processo può iniziare davanti al giudice ordinario, sostenendo che la giurisdizione sia del
giudice amministrativo, oppure inizia davanti al giudice amministrativo e si sostiene che la
giurisdizione sia del giudice ordinario. Il TAR si impugna in Consiglio di Stato, e, quindi,
l’appello del TAR è il Consiglio di Stato; in Cassazione non si può andare se non per motivi di
giurisdizione perché, secondo una scelta dei nostri padri costituenti, il Consiglio di Stato è,
nell’ambito della giustizia amministrativa, una sorta di “corte suprema”, però spetta alla
Corte di Cassazione stabilire quali siano i casi di giurisdizione su cui il giudice amministrativo
può pronunciare e quali, viceversa, spettano al giudice ordinario. Non si può andare in
Cassazione per denunciare una violazione di legge da parte del Consiglio di Stato, perché
non è previsto dal nostro sistema, ma si può andare in cassazione contro una sentenza del
consiglio di stato o comunque contro una sentenza del giudice speciale di secondo grado,
per una questione di giurisdizione, e tale decisione spetta alla Cassazione a Sezioni Unite (in
questo caso il ricorso, se il processo non è partito dal giudice ordinario ma dal giudice
speciale, ai sensi dell’articolo 362), ma egualmente la corte di cassazione decide sulla
giurisdizione.

N.2 - per violazione di norme sulla competenza: ci sono varie possibilità sulle questioni di
competenza. Per es. si va davanti al Tribunale di Siena e non si eccepisce il difetto di
giurisdizione, ma la sua incompetenza, perché, ad esempio, sarà competente il tribunale di
Arezzo. Dinanzi a questa questione abbiamo gli artt. 42 e 43 c.p.c. che sono il regolamento
necessario di competenza (art. 42), e il regolamento facoltativo di competenza (art. 43).
Fino ad alcune riforme che abbiamo avuto, la competenza era una questione che si decideva
con sentenza, ma, ai sensi dell’art.279, le questioni di competenza si decidono con
ordinanza (però i mezzi di impugnazione e le decisioni che incidono sulla competenza sono
rimaste invariate). Tali disposizioni prevedono che, se il giudice decide competenza insieme
al merito, allora abbiamo un regolamento facoltativo di competenza ex art. 43: “il
provvedimento che ha pronunciato sulla competenza insieme col merito può essere
impugnato con l’istanza di regolamento di competenza, oppure nei modi ordinari quando
insieme con la pronuncia sulla competenza si impugna quella sul merito”.

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; mentre se il giudice decide solo sulla competenza, allora quel provvedimento ha possibilità
di essere impugnato solo con il regolamento di competenza ai sensi dell’art. 42: “la
ordinanza che, pronunciando sulla competenza anche ai sensi degli articoli 39 e 40, non
decide il merito della causa e i provvedimenti che dichiarano la sospensione del processo ai
sensi dell’articolo 295 possono essere impugnati soltanto con istanza di regolamento di
competenza.”

Le questioni di competenza si uniscono a quelle della litispendenza, continenza, connessione


e sospensione per pregiudizialità dell’articolo 295. Tutti i provvedimenti che decidono sulla
competenza o su queste altre tematiche (che sono considerate da ricondurre alla
competenza e quindi provvedimenti che decidono sulla litispendenza, sulla continenza, sulla
sospensione o sulla connessione), se il giudice li prende indipendentemente dalla decisione
di merito, e quindi decide solo queste questioni con ordinanza, che è impugnabile ma ai
sensi dell’art. 42 solo con il regolamento necessario di competenza, e vuol dire che tali
provvedimenti si possono impugnare direttamente in Cassazione, con un ricorso per
cassazione (che ha i modi normali del ricorso), e si chiede alla Cassazione se effettivamente il
giudice abbia competenza oppure se sono corretti i provvedimenti che sono stati dati sugli
altri aspetti, che possono essere la litispendenza, la continenza, la connessione e la
sospensione. Anche se si fa questo, è chiaro che il processo prosegua ai sensi dell’art. 50
(riassunzione della causa), se la Cassazione dà il “disco verde”, per cui dice che il Tribunale di
Siena ha competenza; oppure potrebbe fare anche altro, perché la Cassazione deve anche
statuire sulla competenza, e non si può limitare a dire che il giudice non abbia competenza,
ma deve dire chi sia il giudice competente, anche per le eccezioni di incompetenza di cui
all’articolo 38. Non ci si può limitare a dire che il Tribunale di Siena non sia competente, ma
si deve affermare positivamente quale sia il giudice competente. La Cassazione fa la stessa
cosa: dice se il tribunale di Siena sia competente o meno, e se non è competente il Tribunale
di Siena deve dire quale sia il giudice competente. È un problema diverso dalla giurisdizione:
se si mette in discussione la giurisdizione, si mette in discussione anche la possibilità di fare il
processo; mentre se si mette in discussione la competenza non si mette in discussione che si
debba fare il processo, ma solo che non lo può fare quel giudice perché lo deve fare un altro
giudice. In questo caso la Cassazione statuisce sulla competenza, e lo dice anche l’articolo
382 c.p.c., e il processo viene riassunto, dopo il regolamento necessario di competenza, ai
sensi dell’articolo 50, dinanzi al giudice indicato competente dalla Cassazione.

Può succedere, invece, che il tribunale di Siena, nell’esempio dato, non decida
separatamente e anticipatamente la questione di competenza, ma la decide unitamente al
merito e, quando avviene questo, è chiaro che il giudice dichiari una propria competenza,
perché altrimenti non potrebbe decidere anche il merito o la questione di competenza
unitamente al merito. Il tribunale di Siena in limine litis nulla dice ma, quando si va a
sentenza, dice che è stata sollevata questione di competenza, ma è infondata in quanto è
competente, dopodiché dà la soluzione di merito e, quindi, decide la competenza
unitamente al merito. In questo caso è una sentenza, non un’ordinanza, perché è un

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provvedimento che decide anche nel merito e la si può impugnare, ai sensi dell’art. 43, o
sempre con regolamento di competenza, nella parte in cui ha statuito sulla competenza o
nelle forme ordinarie, cioè con l’appello. In questa ipotesi si aprono due strade diverse:

- o si fa lo stesso regolamento di competenza e, quindi, la corte di Cassazione di nuovo


deve statuire se il giudice abbia o meno competenza e, a seguito del regolamento di
competenza, sono sospesi i termini per l’impugnazione nel merito. Si sospende la
causa di merito in attesa della decisione della cassazione sulla questione di
competenza;

- l’alternativa è quella di usare mezzi ordinari, per cui si fa appello e in appello si


continua a far valere la questione di competenza. A questo punto si apre il 360 n.2
perché altrimenti non capiremmo quali siano le ipotesi di cui al 360 n.2. Questo n.2 lo
si ha se, a fronte di una sentenza che ha deciso le questioni di competenza
unitamente al merito, si è fatto appello, e poi arriverà la sentenza dell’appello che, se
di nuovo trova soccombente una delle due parti, la parte soccombente ha la
possibilità di andare in Cassazione ai sensi del 360 n.2,perché, in questi casi, non vi è
stato un previo regolamento di competenza; se, viceversa, ci fosse stato, non
saremmo arrivati al 360 n.2, così come il regolamento preventivo di giurisdizione
escludeva il 360 n.1.

N.3 - per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi
collettivi nazionali di lavoro: violazione di legge sostanziale, legata al merito. La dicitura
“violazione di legge” è in realtà inesatta, in quanto la violazione non è di legge, ma di diritto
e, infatti, c’è scritto “per violazione o falsa applicazione di norme del diritto”. Ovviamente, la
differenza è che la legge è una della fonti del diritto, ma non è la fonte, perché il diritto ha
tante altre fonti, per cui si può andare in Cassazione non solo perché è stata violata una
legge, ma anche perché è stato violato un decreto legge, un decreto legislativo, una circolare
ministeriale, un regolamento, un decreto del consiglio dei Ministri, una legge regionale, se
non addirittura un uso e un costume, perché anche gli usi e le consuetudini fanno diritto e
sono fonti di diritto per cui, se violate, si può andare in Cassazione. Si dice nella norma “per
violazione o falsa applicazione”, i quali sembrano due concetti diversi, ma in realtà si usano
delle espressioni cercando delle differenze, che poi, a conti fatti, non esistono, o esistono in
modo molto debole, perché alla fine non ci sono problemi di ammissibilità di un ricorso, se si
sostiene che c’è stata una falsa applicazione, e, invece, era una violazione. In linea generale,
si può parlare di violazione, rispetto alla falsa applicazione, a seconda che si applichi male un
articolo di legge, oppure si applichi una norma in luogo di un’altra (ad esempio, il caso
doveva essere risolto dall’art. 12, invece si applica l’art. 25; oppure, è stato applicato l’art.
12, ma lo si è male interpretato: in un caso si parla di violazione di legge, nell’altro di falsa
applicazione, ma nella sostanza non cambia nulla). Da un punto di vista astratto, si può
anche contrapporre una violazione di legge ad una falsa applicazione ma, in realtà, in

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entrambi i casi, in modo equivalente, la parte ha diritto alla cassazione della sentenza che
abbia provveduto in modo scorretto.

La disposizione aggiunge anche i contratti collettivi nazionali di lavoro: questo riguarda


ormai esclusivamente le cause di lavoro e questo, inoltre, era un orientamento
giurisprudenziale, secondo il quale i contratti collettivi nazionali di lavoro erano da
assimilare al diritto, cioè erano fonte di diritto, per cui, se vi era una violazione di questi
contratti, la violazione di essi poteva essere fatta valere ai sensi del n.3 dell’art. 360. Questo,
che era soltanto un orientamento giurisprudenziale, poi si è trasformato in legge, con una
delle tante riforme che si sono avute sulla Cassazione (2006, 2009, 2012, 2016), questa è già
del 2006 e inserisce espressamente nel n.3 dell’art. 360 gli accordi collettivi nazionale di
lavoro, come fonte di diritto.

Il n.3 è particolarmente importante, ed è il punto centrale del ricorso per Cassazione, perché
con esso una parte afferma e sostiene che una corte d’appello abbia violato una certa norma
di diritto. La Cassazione dovrà, dunque, stabilire se ciò è accaduto o meno. Se non è vero,
respinge il ricorso, mentre se è vero, cassa la sentenza per violazione di legge, sempre con
rinvio, perché le parti hanno diritto ad una sentenza pronunciata in modo conforme alla
legge e, se quella che era stata pronunciata non era conforme alla legge, va spazzata via, va
cassata, ma è ovvio che il processo deve terminare con una pronuncia conforme alla legge e,
quindi si ha la necessità di un giudizio di rinvio, che aggiunga, a questa fase rescindente
presso la corte di Cassazione, una fase rescissoria, che decida nel merito e dia ragione o
torto in modo corretto ai litiganti. Questa fase di rinvio è un quarto grado di giudizio, che
può essere di nuovo impugnato in Cassazione (e così si va a cinque), e di nuovo la Cassazione
può cassare, con o senza rinvio. Il processo poi alla fine termina quando la Cassazione
respinge il ricorso (alcune volte ci sono stati dei casi di impugnazione in Cassazione di
sentenze pronunciate su rinvio, ma sono rari anche questi, e non graditi dai giudici della
Cassazione).

Se la Cassazione cassa, deve contestualmente dare un principio di diritto: la corte di


Cassazione non può limitarsi a dire che è illegittimo o contra ius la decisione della corte
d’Appello, ma deve dire su quel caso e per quell’ipotesi, qual è il principio di diritto che va
applicato, cioè la regola giuridica corretta, che poi è una regola giuridica alla quale si deve
attenere in modo fermo il giudice del rinvio. Si impugna in Cassazione una questione
giuridica qualunque, la Cassazione afferma che la corte d’appello ha scorrettamente
provveduto e, cassando con rinvio (cioè attribuendo ad altro giudice di dare la soluzione
corretta), gli impone un principio di diritto, cioè gli dice qual è la regola giuridica ovvero gli
dice, che questo è il modo corretto con cui si interpreta la disposizione. Questo principio di
diritto poi vincola il giudice del rinvio, e il giudice del rinvio deciderà il merito nel rispetto di
questo principio di diritto (per questo abbiamo eventualmente anche la Cassazione del
giudizio di rinvio, qualora uno dovesse poi successivamente denunciare che il giudice del
rinvio non si è attenuto al principio di diritto dato dalla Cassazione). Il principio di diritto

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espresso dalla Corte è la c.d. “massima”. Questo sta “a cavallo” tra la funzione di controllo
della legalità, e funzione di nomofilachia, perché queste massime e principi di diritto, al
tempo stesso, svolgono entrambe queste funzioni perché, nella misura in cui servono per
risolvere quel caso concreto portato all’attenzione della Corte, queste sono il controllo della
legalità che ha il cittadino e, al tempo stesso, il principio che circola come massima della
sentenza e che poi va nei massimali, nelle riviste, e viene conosciuto e reso pubblico a tutti,
ha anche una funzione di nomofilachia. Ciò implica che la massima, per tutti quei casi, dovrà
valere anche nei futuri processi, con la differenza che, mentre per il giudice del rinvio quel
principio è obbligatorio (gli lega le mani, deve necessariamente rispettarlo), in tutti gli altri
casi è soltanto un precedente giurisprudenziale. È un qualche cosa che i giudici di merito
devono tenere conto nell’interpretare la legge, ma non vincola il giudice nel merito, perché è
soltanto un precedente, è un orientamento giurisprudenziale, che va ad inserirsi, magari,
anche in altri orientamenti, e che poi tutti insieme hanno la necessità di essere interpretati.

Presso la Cassazione c’è un ufficio del massimario, nel quale ci sono dei magistrati, che sono
giudici di grado d’appello, non sono Consiglieri di Cassazione e, quindi, coadiuvano il lavoro
dei giudici della Cassazione, e fanno le massime, cioè da tutte le sentenze estraggono queste
massime, che sono i principi generali affermati dalla Cassazione. Queste massime sono il
lavoro dell’ufficio del massimario, per la Cassazione ai numeri 1,2,4,5 dell’art. 360, mentre
per n.3 la massima può essere anche creata dall’ufficio del massimario, ma normalmente
coincide col principio di diritto e in quel caso la stessa sentenza deve ben evidenziare tale
principio, ai fini del giudice del rinvio. L’ufficio del massimario poi ha anche altre funzioni: di
assistenza, in quanto i magistrati preparano i fascicoli e le decisioni alla Cassazione; per tutti
i casi fanno loro la rassegna di giurisprudenza, le ricerche dei precedenti, suggeriscono
soluzioni, fanno un lavoro di collaborazione, che è fondamentale per smaltire tutto il lavoro
della Cassazione. È un lavoro che è sia preliminare alla decisione sia successivo alla
decisione, nella misura in cui fanno le massime dalle quali prende il nome l’ufficio stesso.

L’art. 384 afferma che: “La corte enuncia il principio di diritto quando decide il ricorso
proposto a norma dell’art. 360 co. 1 n.3”. Si denuncia la violazione della legge e la Corte, se
dà ragione, cassa e afferma il principio di diritto, che è anche la massima di questa sentenza.
“… e in ogni altro caso in cui, decidendo su altri motivi del ricorso, risolve una questione di
diritto di particolare importanza”: questa è un’aggiunta che dà questa disposizione; anche se
si hanno questioni di competenza o giurisdizione o anche di motivazione (n.5), normalmente
la Cassazione afferma sempre dei principi di diritto, ma non ha l’obbligo di farlo in modo
chiaro ed espresso e, riportato nella sentenza, il principio è ricostruito dall’ufficio del
Massimario. Nell’ipotesi dell’art. 384 co. 2, sempre con riferimento al n.3 dell’art. 360, la
Cassazione è sempre con rinvio e il giudice del rinvio si deve attenere al principio di diritto
fissato dalla Cassazione.

Con una riforma del 2006, si è sostenuta la possibilità che, in via d’eccezione (il giudizio di
rinvio comporta di tornare alla Corte d’appello, e di perdere normalmente altri 4 anni, con

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un provvedimento che è di nuovo ricorribile per Cassazione, perché anche la sentenza


pronunciata su rinvio, come sentenza di un giudice dell’appello, è ricorribile per Cassazione -
è una prospettiva che potrebbe allungare troppo i tempi), in ipotesi semplici, la corte di
Cassazione può decidere anche il merito, e, ovviamente, se decide il merito, il processo si
chiude lì. Se la corte di Cassazione decide il merito, fa una cosa che non rientra nei suoi
compiti e nemmeno nella sua tradizione storica, perché nella sua tradizione è
semplicemente garante del controllo della legalità e non di decidere nel merito, o meglio, la
funzione della Cassazione è meramente rescindente, non anche rescissoria. Normalmente,
infatti, la Cassazione decide senza nemmeno i fascicoli, quindi il merito non lo conosce; però
la riforma è pensata in taluni casi, per evitare di allungare i tempi processuali. Tutto lo dice
l’art. 384 co.2, dove aggiunge che “la Cassazione decide la causa nel merito, qualora non
siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”. La Cassazione, quindi, può decidere il merito
della causa quando non necessitano ulteriori accertamenti di fatto (salvo poi valutare
l’espressione stessa che è ambigua). Tale decisione nel merito può avvenire solo se la
Cassazione è ai sensi del n°3 del 360, perché così si ricava dallo stesso art. 384, che è
dedicato al n°3 dell’art. 360 c.p.c., cioè alla violazione della norma di diritto sostanziale. A
dispetto di quanto sostenuto all’emanazione del 382 co.2 da molti, che ritenevano che la
Cassazione non avrebbe dato seguito a questa norma, in quanto già oberata da lavoro, la
Suprema Corte, in questi anni, ha smentito questa posizione, poiché ha utilizzato abbastanza
questo strumento e ci sono stati svariati casi nei quali la Cassazione ha deciso anche il merito
della causa e, addirittura, si è spinta anche in casi oltre il numero 3 del 360, perché poi è
iniziato un orientamento giurisprudenziale secondo il quale, se la causa non necessita di
ulteriori accertamenti di fatto, può essere decisa nel merito dalla Cassazione, anche se il
ricorso non era legato al n.3, ma ad altre ipotesi del 360.

N.4 - per nullità della sentenza o del procedimento:, si distingue dal n.3 perché fa
riferimento alla violazione della legge processuale, ovvero alla nullità del procedimento o
della sentenza: la nullità del procedimento ricade sulla nullità della sentenza, perché il
principio della nullità degli atti che comporta la nullità degli atti successivi dipendenti, come
normalmente la sentenza è, e quindi in Cassazione si deve dare quando la nullità è tale da
avere provocato la nullità della sentenza. La nullità dell’atto processuale non si ha mai se non
è espressamente prevista dalle legge, se non è tempestivamente eccepita, o se l’atto non
ha raggiunto lo scopo. Bisogna, quindi, aver eccepito in Tribunale la nullità dell’atto,
affermando anche che l’atto ha violato una legge processuale prevista a pena di nullità,
senza il raggiungimento dello scopo: si devono avere queste tre condizioni, perché altrimenti
la nullità dell’atto è sanata dal corso del procedimento. Se si hanno queste condizioni, che si
sono eccepite, e il giudice in Tribunale ha dato torto, la parte deve aver fatto appello su tale
questione e deve avergli dato torto anche il giudice dell’Appello, e solo allora può far valere
la nullità in Cassazione, ai sensi del n.4. Questo per la nullità del procedimento. Ovviamente,
se si tratta di nullità della sentenza, cioè di un vizio che ha la sentenza del giudice
dell’appello, tutto questo non serve, perché è chiaro che la parte non poteva saperlo. Se,

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quindi, denuncia un vizio procedurale della sentenza d’appello, nulla quaestio, perché la può
far valere per la prima volta in Cassazione, perché è tutto nuovo; se, viceversa, fa riferimento
ad un vizio del procedimento, questo vizio del procedimento si deve incastrare nelle
dinamiche della nullità degli atti processuali (art.156 e seguenti). Allora qui o il ricorso è
infondato, ed è la cosa che normalmente accade, cioè la Cassazione respinge il ricorso;
oppure, se l’accoglie, dichiara la nullità dell’atto della sentenza. Qui la Cassazione non deve
enunciare un principio di diritto però, anche dichiarando la nullità dell’atto, la Cassazione poi
affermerà delle cose giuridiche, che andranno nella massima, a cura del Massimario e, anche
qui, siamo a cavallo tra soluzione del caso e funzione di nomofilachia (sulla regola giuridica
che la Cassazione afferma sulla validità o meno di un atto processuale). Se c’è stato un errore
processuale, di regola il processo va rifatto senza quell’errore processuale, poiché la parte
ha diritto ad una decisione di merito, quindi, si dovrebbe ripartire dal punto dell’errore (dal
punto della nullità processuale), ma è ovvio che la parte ha diritto alla decisione di merito e
altrettanto ovvio è che l’errore processuale fa si che la Cassazione stabilisca quale sia e dia le
disposizioni al giudice del rinvio per riattivare, ma poi il processo deve ripartire e arrivare al
suo scopo naturale, che è quello della sentenza di merito. Impostata così la questione, in
linea generale, la Cassazione ai sensi del 360 n.4 è con rinvio. Quali possono essere le
eccezioni a questo? Possono essere quei vizi processuali, con i quali si denuncia che il
processo non poteva iniziarsi o non poteva proseguirsi, perché, se si denuncia un vizio
processuale dicendo che il processo non poteva nemmeno iniziare o non poteva proseguirsi
e la Cassazione dà ragione, lì è chiaro che non si dà il rinvio, proprio perché il processo non
poteva iniziarsi o proseguirsi.

Si devono distinguere, tra tutti i vizi procedurali, quelli che impedivano al processo di iniziare
o proseguire e quelli che, viceversa, non hanno queste caratteristiche. Al co. 3 dell’art. 382,
si dice che il giudice cassa senza rinvio quando non c’è giurisdizione “ed egualmente
provvede in ogni altro caso in cui ritiene che la causa non poteva essere proposta o il
processo proseguito”. I casi in cui si cassa senza rinvio sono:

1. Se non si ha legittimazione ad agire. Ad esempio, la legittimazione straordinaria: si


fa valere nel processo il diritto di proprietà di Tizio, si ha questa legittimazione?
Probabilmente no, perché si fa valere nel processo un diritto, che non è di terzi, ma di
Tizio, però i giudici ritengono che ha una legittimazione straordinaria, quindi
provvedono nel merito, e lo fa il primo giudice, poi il secondo, fino ad arrivare in
Cassazione, che deve stabilire se si ha oppure no legittimazione, ed è una questione
procedurale, non attiene al merito, perché non si stabilisce se Tizio è proprietario o
no, ma si stabilisce se il terzo ha o non ho la possibilità di far valere questo diritto. La
Cassazione dice che non si ha la legittimazione: questo significa che la causa non
poteva essere proposta ai sensi del co. 3 art. 382. In questo caso si ha una
Cassazione senza rinvio.

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2. L’interesse ad agire. Per es. si pensi ad un’azione di mero accertamento: Tizio non ha
interesse ad agire, il Tribunale gli riconosce però questo interesse, lo stesso fa la
Corte d’appello, e si arriva in Cassazione e la Cassazione dice che questo interesse
non vi è, e cassa la sentenza. Anche in questo caso è una causa che non poteva
essere proposta, per carenza di interesse ad agire, e la conseguenza è che la
Cassazione, in questi casi, cassa senza rinvio.

3. Il processo non poteva essere proseguito. Queste ipotesi sono legate all’estinzione
del processo. Ad esempio, per inattività delle parti, il processo è estinto, oppure per
rinuncia agli atti, o ipotesi di estinzione del processo negli artt. 306 e 307 (di cui la
principale è l’inattività delle parti). Ad esempio, un processo interrotto deve essere
riassunto entro 3 mesi e la parte lo riassume il giorno dopo i 3 mesi, e il giudice non si
accorge di questa cosa, e non dichiara l’estinzione del processo, ma il processo era,
di fatto, estinto. Se si fa valere questa estinzione, si ha torto, e si arriva in Cassazione
e, se la Cassazione cassa, perché afferma che il processo è estinto, qui il problema è
che il processo non poteva essere proseguito. La conseguenza ai sensi del 382 è
sempre una cassazione senza rinvio. Lo stesso vale per l’ipotesi del litisconsorte
necessario pretermesso.

Per tutte le altre nullità processuali, che non hanno queste caratteristiche, la cassazione è
con rinvio: ad esempio, la mancata assunzione di un teste, o di prove o la violazione
dell’onere della prova, o degli effetti errati su un giuramento decisorio, è chiaro che vanno
recuperate, non possono chiudere un processo per motivi di questo genere. Anche in caso di
mancanza di un litisconsorte: non si chiude il processo, ma si rimette al primo giudice perché
lo rifaccia; oppure la nullità dell’atto di citazione, art.164: se l’atto di citazione è nullo può
essere integrato, e non viene meno tutto il processo e, se questo rilievo lo fa per la prima
volta la Cassazione, si riparte, se sono delle nullità che non hanno nel frattempo raggiungo lo
scopo. Queste ipotesi sono molto mitigate dal fatto che l’atto che ha raggiunto lo scopo, e
non fa ripetere l’attività processuale; sono tutte ipotesi di vizi procedurale che non
attengono alla possibilità di iniziare o proseguire un processo e, quindi, una volta
stigmatizzati dalla Cassazione con una sentenza che cassa la sentenza d’appello, comportano
un giudizio di rinvio.

N.5 – per vizio della motivazione: questa norma è stata oggetto di discussione relativamente
alla possibilità o meno di andare in cassazione per un vizio della motivazione; si sono
contrapposte soluzioni affermative e negative, finché la riforma del 2012 ha inciso sulla
modifica di questa norma; da quel momento, per come è scritta la disposizione, si è ritenuto
che non sia ammissibile un ricorso per vizio della motivazione, seppur questo principio
subisca dei temperamenti. Si tratta di valutare la possibilità che ha la Corte di Cassazione di
controllare la motivazione dei provvedimenti; dal punto di vista del cittadino, si tratta di
valutare se la parte ha diritto ad un’adeguata motivazione dei provvedimenti che incidono
sui suoi diritti e, conseguentemente, anche un controllo di questa motivazione da parte del

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giudice della Cassazione. Questa riflessione si pone nel contesto dell’art.111 Cost., che
prevede come costituzionalmente garantita la motivazione dei provvedimenti
giurisdizionali che incidono sui diritti. Qualcosa di corrispondente al n.5 dell’art. 360 non
esisteva nel codice del 1865; era previsto il ricorso per violazione di legge, ma non anche per
vizi della motivazione. Con la fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento la Cassazione
inizia a sostenere che si può proporre un ricorso anche per vizi della motivazione,
consentendo, nonostante l’assenza di una norma specifica che lo prevedesse, il controllo
della motivazione dei provvedimenti in Cassazione. Le Corti di Cassazione di allora
sostenevano ciò in ragione del fatto che la motivazione è una parte fondamentale e
necessaria della sentenza; se la sentenza non ha una motivazione o questa è apparente o
insufficiente (sostanzialmente non ha una corretta motivazione), questo è un vizio della
sentenza, perché questa deve avere una motivazione, e lì dove la legge precisa che la
sentenza debba avere una motivazione, si intende una motivazione congrua, sufficiente e
priva di contraddizioni. Se, quindi, la motivazione presenta questo vizio o non vi è per nulla,
abbiamo un vizio procedurale dell’atto sentenza e si potrebbe ricondurre al n.4 del 360.

Nel codice del ’40 si volle cercare di arginare questo orientamento maturato alla fine
dell’800 in Cassazione ed evitare che si potesse andare in Cassazione anche per un controllo
della motivazione. Allora nella prima stesura del n.5 del 360, nel 1940, si potrebbe trovare
scritto “per omissione di un fatto decisivo per la controversia”, che è un’espressione diversa
da quella che si era sviluppata dalla fine dell’800 in poi, nel senso che una cosa è poter
controllare la motivazione e una cosa è l’omissione del fatto: nel codice del ’40 si prevede
solo se il giudice ha omesso un fatto decisivo, non se la motivazione presenta dei vizi,
omissioni o contraddizioni (perché questo, con l’introduzione di un n.5 in questi termini, non
si poteva più fare ed era proprio l’obiettivo che si erano dati: limitare quelle aperture che la
giurisprudenza dalla fine dell’800 al 1940 aveva avuto). Per es. se la parte passa col rosso, e il
Tribunale di Siena e la Corte d’appello di Firenze dicono che è passata col rosso, in
Cassazione non si può dire di essere passati col verde, ma si può dire che la motivazione in
base alla quale la Corte d’appello ha detto che è passata col rosso è insufficiente,
contraddittoria o meramente apparente e si impugna lo stesso il fatto in Cassazione. Se,
viceversa, si dice “solo per l’omissione di un fatto decisivo” si capisce che la cosa è molto più
ridotta, perché si può impugnare solo se la corte d’appello non abbia preso in considerazione
la circostanza che la parte sia passata col verde o col rosso; ma se la corte d’appello ha
comunque preso in considerazione questo fatto, qualunque cosa abbia motivato o meno non
si potrebbe impugnare, perché l’impugnazione non si fa sulla motivazione, ma sull’esame del
fatto. Si capisce che ciò riduce gli spazi per l’impugnazione, perché in un caso si può
impugnare per vizi della motivazione, mentre nell’altro si può impugnare solo se il fatto non
è stato proprio preso in considerazione, ma, siccome il fatto debba essere decisivo,
trasforma questo in un fenomeno assai raro.

Dopo la guerra, si trattò si stabilire se il codice dovesse essere il nuovo codice della
Repubblica italiana oppure no, perché fascista, e si formarono due gruppi contrapposti.

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Questa disputa si chiude con la novella del ’50, che dette un compromesso: prendere il
codice del ’40 come nuovo codice della Repubblica, ma epurato di quegli elementi autoritari
propri dell’ideologia fascista. Tra queste disposizioni che furono ripulite nel 1950 vi fu
proprio il n.5 dell’art. 360 c.p.c., nel senso che, nel 1950, si decise, invece, di scrivere
espressamente nel codice quello che la Cassazione già dall’800 diceva, cioè che la parte
poteva ricorrere in cassazione per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione. Dal
1950 si può andare tranquillamente in Cassazione per il controllo di motivazione. Salvo una
modifica di tipo formale, questo testo vive fino al 2012.

Parallelamente a questo, la Corte di cassazione, nei primi anni della Repubblica,


intervenendo a Sezioni Unite, stabilisce che non sono solo ricorribili per Cassazione le
sentenze pronunciate in grado d’appello (così come è scritto all’art. 360 co. 1), che sono
denominate come “ordinarie”. La Cassazione crea un orientamento, che ancora oggi è
valido, secondo il quale vi sono anche le impugnazioni in Cassazione “straordinarie”, che si
danno verso provvedimenti che non hanno la forma della sentenza, ma che tuttavia ne
hanno la sostanza. Tutto ciò in base all’art. 111 Cost., il quale assicura il controllo di legalità
in Cassazione, cioè che tutti abbiano diritto e accesso alla Cassazione per la tutela dei propri
diritti. Se un provvedimento ha la sostanza di sentenza, ma non la forma (perché magari è
un decreto o un’ordinanza), è tuttavia ricorribile in Cassazione, non ai sensi dell’art. 360
(impugnazione ordinaria), ma ai sensi dell’art. 111 Cost. (impugnazione straordinaria), in
modo tale da dare piena attuazione a quella copertura costituzionale che assicura, su tutti i
provvedimenti che incidono sui diritti, il controllo di legalità in Cassazione. È un
orientamento, quindi, che estende l’ambito di ricorribilità in Cassazione e che non è stato
smentito, nonostante il carico di lavoro; a volte, però, la stessa Corte è portata a dare delle
interpretazioni più restrittive. La Cassazione, inoltre, ha detto che, perché un provvedimento
non avente una forma della sentenza si possa asserire che ne abbia però la sostanza e che,
sotto questo profilo, sia ricorribile ai sensi dell’art. 111 Cost., deve avere due caratteristiche,
che sono quelle della decisorietà e della definitività, perché altrimenti il ricorso per
cassazione è inammissibile. È decisorio il provvedimento che incide sul diritto sostanziale
delle parti: tutti i provvedimenti che siano di carattere meramente endo-processuali o
organizzativi dell’attività processuale o di mera giurisdizione, non incidono sui diritti e non
hanno il carattere della decisorietà e non sono, quindi, ricorribili per cassazione. Definitività
indica due cose: la prima è che non sia revocabile o modificabile dal giudice che l’ha
pronunciata, perché spesso le ordinanze o i decreti sono revocabili o modificabili e, allora, la
Cassazione dice di fare l’istanza al giudice della revoca o della modifica; la seconda è che non
sia altrimenti impugnabile, perché se il provvedimento, ordinanza o decreto, può essere
impugnato in altro modo, allora è obbligo della parte impugnarlo in quel modo, perché in
cassazione si va se non si hanno altri mezzi di impugnazione.

L’art. 111 Cost. garantisce solo il controllo legale, non anche il vizio della motivazione. Allora
il quadro era: se si impugna una sentenza della corte d’appello, lo si può fare in virtù del
numero 5) dell’art. 360, chiedendo il controllo della motivazione; se, viceversa, si impugna

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un’ordinanza ai sensi dell’art. 111 Cost., si può impugnare anche per vizio di motivazione
(perché questo non è scritto nel 111)? Questa apertura che dà la Cassazione
sull’impugnazione straordinaria vale anche per il vizio di motivazione o solo per la
violazione di legge? La Cassazione, allora, va oltre, dicendo che si può controllare anche la
motivazione, se questa è da considerarsi “apparente”, con cui si intende o una motivazione
che non c’è per niente (e succede raramente), o quando questa motivazione, da un controllo
discrezionale della Corte, appare del tutto formale, cioè non idonea allo scopo del
provvedimento giurisdizionale, che è quello di dare le ragioni di fatto e di diritto per le quali
è stato deciso in un modo piuttosto che in un altro. Se la motivazione non raggiunge lo scopo
per il quale è prevista, la si può considerare apparente. Si consente, quindi, il controllo sulla
motivazione quando questa sia apparente, perché una motivazione concreta, seria e che non
sia solo apparente rientra nel concetto di violazione di legge: il diritto al provvedimento è
anche il diritto alla sua motivazione.

Arrivati al 2012, per ridurre il numero dei ricorsi, considerando che la maggior parte dei
ricorsi per cassazione attengono a vizi della motivazione, si è pensato di togliere questa
possibilità, riscrivendo il n.5 del 360, ripescando con le stesse parole il testo del codice del
1940: in Cassazione si va solo per omesso esame di un fatto, sopprimendo la circostanza che
si possa impugnare per insufficiente o contraddittoria motivazione. In base all’art. 348-ter
(riformato nel 2012) è stato previsto che il n.5 non si potesse usare nemmeno nell’ipotesi di
doppia conforme, che la parte può utilizzare solo se ha vinto in tribunale o in appello, perché
altrimenti, se ha perso con la doppia conforme (sia in tribunale che in corte d’appello), il n.5
non è esperibile.

È conforme a Costituzione questa riforma? Si schierano due opinioni diverse: dal punto di
vista del cittadino e del diritto alla corretta motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, è
una riforma iniqua, perché non si può avere più questo tipo di controllo e ci si può chiedere
se l’assenza di questo controllo poi è conforme all’art. 111 Cost. e alla nostra storia; l’altra
riflessione è vedere il fenomeno oggi, con i trentamila ricorsi civili l’anno in Cassazione, di cui
la maggior parte sono baggianate e sono motivazioni che hanno erroneamente come
obiettivo quello di riportare i fatti in Cassazione. Il problema è anche tecnico, perché a
questo punto, però, riscritto il n.5 si ha sempre il ricorso straordinario con la motivazione
apparente e viene meno anche un coordinamento, perché si hanno più spazi di controllo
della motivazione, quando si impugna in via straordinaria ai sensi dell’art. 111, perché non è
stato ritoccato nulla; quando, viceversa, si passa al controllo ordinario, non si hanno più
controlli della motivazione. Ma è possibile che si abbia meno tutela rispetto ad una sentenza
della corte d’appello perché è stato riscritto il n.5 e, viceversa, si abbia più tutela se si
impugna ai sensi dell’art. 111? La Cassazione, allora, aveva anche un dovere di dire come
stanno effettivamente le cose; oppure si può asserire la considerazione di alcuni avvocati, i
quali hanno indicato un ritorno all’orientamento della Cassazione del secolo scorso, cioè
dare la possibilità di ricorrere ai sensi del n.4 (come vizio processuale) e non del n.5, ed è

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stato ritenuto ammissibile dalla Cassazione fino al 1940 (dopo non ce n’è stato bisogno
perché era comparso il n.5).

A Sezioni Unite, la Cassazione, con sentenza del 2014, ha chiarito questi punti dubbi,
precisando come debba funzionare questa cosa, ritenendo sostanzialmente due cose (anche
conformemente alla scelta del legislatore, il quale voleva ridurre i ricorsi basati sulla
motivazione, altrimenti si andava contro il principio della separazione dei poteri): che non si
può fare più ricorso in Cassazione per omessa o insufficiente motivazione, e non è
incostituzionale questa modifica perché resta comunque l’art. 111 Cost., e che quegli
orientamenti sulla motivazione apparente continuano a valere anche per i ricorsi ordinari.
Quindi, nei ricorsi ordinari, dopo la modifica del n.5 dell’art. 360, non si può ricorrere per
omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, ma se questa è completamente
apparente o inesistente (per cui si rientra in quella serie di casi per cui la Cassazione aveva
dato la ricorribilità ai sensi del 111 fin dagli anni ‘60), allora questo si può ancora fare e si
può ricorrere per Cassazione, perché questo continua ad essere considerata una violazione
di legge, con questi limiti, con un sistema che diventa uguale tanto per i ricorsi ordinari ai
sensi del 360 e per quelli straordinari ai sensi del 111 Cost. Il vizio della motivazione, oggi,
non si può far valere in Cassazione, ma se fatto valere bisogna saperlo far valere perché va
ricondotto in questi limiti disegnati dalle SS. UU. dopo la riforma del 2012, in un contesto in
cui il controllo della motivazione non è venuto meno completamente (e questo è stato fatto
per salvare il tutto da vizi di costituzionalità, perché, in una qualche misura seppur ridotta,
uno spazio è stato lasciato).

Il processo in Cassazione si introduce con ricorso: questo atto è caratterizzato dal fatto che
non ha la vocatio in ius, e, infatti, la controparte non viene chiamata in giudizio. Gli elementi
essenziali del ricorso li troviamo nell’art. 366 c.p.c.; è il corrispettivo del 163 per l’atto di
citazione. Il petitum è la cassazione della sentenza impugnata da parte della Corte; la causa
petendi sono i motivi del 360, cioè le violazioni di legge che vanno spiegati o i vizi di
motivazione, nei limiti stretti della riforma del 2012. Questo ricorso ha un’ulteriore
caratteristica perché è un ibrido: è un ricorso perché non contiene la vocatio in ius, ma non
è un ricorso perché non viene presentato in ufficio e poi notificato alla controparte, secondo
lo schema tipico dei ricorsi in tribunale e in Corte d’appello (perché questi vengono
presentati prima in ufficio, poi il giudice provvede a dare l’udienza e il ricorrente provvede a
notificare il ricorso alla controparte per invitarla a costituirsi nell’udienza indicata dal
giudice), ma viceversa, in Cassazione, viene notificato alla controparte e poi portato nella
cancelleria della Corte di cassazione. L’avvocato, quindi, scrive il ricorso, ma poi lo notifica
come se fosse un atto di citazione.

L’art. 369 c.p.c. prevede questo meccanismo di ricorso notificato alla controparte, per poi
iscrivere a ruolo la causa in Cassazione. I tempi, siccome si parla di una Corte suprema a
livello nazionale con sede a Roma, sono raddoppiati, nel senso che le impugnazioni non si
fanno entra trenta giorni, ma in sessanta e l’iscrizione al ruolo non si fa entro dieci giorni,

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ma entro venti. Dalla notifica del ricorso, quindi, la parte ha venti giorni per iscrivere il
ricorso in Cassazione; deve inoltre portare, oltre all’originale notificato, il proprio fascicolo e
la copia autentica della sentenza impugnata. Il contributo unificato è di 3000€ per le cause
che hanno il valore di 500.000€ o più.

Iscritta la causa al ruolo, la controparte deve difendersi. Qui non vi è un meccanismo (art.
370 e 371) come in tribunale o in appello, in cui ci si costituisce con comparsa di risposta
venti giorni prima dell’udienza, perché in Cassazione non viene data un’udienza in questa
fase. Funziona che la controparte, c.d. controricorrente (non resistente come per il ricorso in
tribunale o in appello), non si costituisce con una memoria in Cancelleria, ma deve a sua
volta notificare al ricorrente un controricorso, un altro atto difensivo (sostanzialmente una
memoria), che non si deposita in Cancelleria, ma si notifica alla controparte come si notifica
il ricorso principale, entro quaranta giorni e, poi, ha anche lui venti giorni dalla notifica per
portare tutto in Cancelleria, cioè fascicolo e controricorso (ma non la sentenza impugnata).
Anche in Cassazione, come in appello, il ricorso può avere un carattere incidentale, ovvero
contenere un’impugnazione incidentale (art. 371), nelle ipotesi di soccombenza parziale o
reciproca: il controricorrente può non soltanto chiedere il rigetto del ricorso principale, ma
anche che sia cassata la sentenza sotto altri profili a proprio vantaggio. Se il controricorrente,
infatti, si limita a dire che il ricorso è infondato e sia confermata la sentenza della Corte
d’appello, questo è un controricorso normale; se, invece, dice che il ricorso sia ritenuto
infondato e venga rigettato, e poi che siano cassate queste ragioni per le quali è
soccombente solo il controricorrente, il controricorso contiene un ricorso incidentale per
Cassazione. Il contenuto dell’atto non cambia, perché sarà un controricorso dove, nelle
prime pagine, si difende sul ricorso principale, mentre nelle pagine successive sono
sviluppati argomenti per impugnare incidentalmente e quando andrà a concludere, non lo
farà solo per il rigetto del ricorso principale, ma anche per l’accoglimento delle impugnazioni
incidentali, che sono state fatte valere col ricorso incidentale. Si prevede inoltre, con l’art.
371 c.p.c., che, se vi è impugnazione incidentale, il ricorrente principale abbia a sua volta
ulteriori quaranta giorni per rinotificare un ricorso sull’impugnazione incidentale. Se il
controricorso non ha un’impugnazione incidentale, ma si limita a richiedere il rigetto del
ricorso principale, finisce là la disputa (con un ricorso e un controricorso); se il controricorso,
viceversa, ha anche un’impugnazione incidentale, il ricorrente può replicare, nella parte (e
non su tutto il controricorso) che contiene l’impugnazione incidentale, con un nuovo
controricorso sempre entro ulteriori quaranta giorni. La Cassazione non ha ancora un
funzionamento telematico a buona tenuta, per cui alcune cose si possono fare
telematicamente, ma altre ancora in via cartacea.

Il meccanismo è negli artt. 375, 376 in prima battuta e 377 e ss. Dopo che sono stati
depositati gli atti introduttivi, tutto è portato dal primo Presidente della Cassazione alla sesta
Sezione, che è la sezione filtro (ai sensi dell’art. 376 c.p.c.). Questa deve valutare se il ricorso
è manifestamente infondato o no (ai sensi dell’art. 375): se è manifestamente infondato, lo
trattiene la sesta Sezione e lo decide con ordinanza, dichiarando l’inammissibilità del ricorso.

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Può avvenire anche nelle ipotesi di manifesta fondatezza del ricorso, ma sono rare, perché
più frequenti sono quelle di manifesta infondatezza. Il ricorso, se manifestamente infondato
o fondato, è comunque trattenuto in sesta Sezione e deciso con ordinanza da questa,
applicando la procedura dell’art. 380-bis per come è stato riformato nel 2016. Arriva un
avviso di Cancelleria alle parti, dove si dice che il ricorso è stato ritenuto dal relatore
manifestamente infondato (alle volte citando un precedente della Cassazione), ma con la
nuova riforma del 2016, l’avviso per cui si rimane in sesta sezione non è motivato e, a quel
punto, poi si danno dei termini alle parti e al pubblico ministero per depositare le memorie;
viene deciso in camera di consiglio non partecipata (senza la possibilità che in udienza vi
siano le parti e il pubblico ministero) con ordinanza con la procedura del 380-bis. Se il ricorso
in sesta Sezione (considerando che tutti i ricorsi passano alla sesta Sezione, perché è quella
filtro), fatta l’analisi preliminare, non è da considerare né manifestamente fondato né
manifestamente infondato (e questo è ciò che avviene nella maggioranza dei casi), la sesta
Sezione, tramite il Primo presidente, lo manda alle Sezioni semplici, perché sia deciso da una
di esse (a meno che non sia un caso da Sezioni Unite).

Se il ricorso va in Sezione semplice, la procedura che si applica, con la riforma del 2016, è
quella dell’art. 380-bis 1. Qui, la Sezione semplice, dal 2016, può valutare se la questione di
diritto da decidere è di particolare importanza o meno. Se è di particolare importanza, si
applicano le disposizioni tradizionali del 1940, che sono gli artt. 377-378-379 c.p.c., ovverosia
viene data comunicazione alle parti che vi sarà un’udienza pubblica di discussione; le parti
possono depositare una memoria cinque giorni prima dell’udienza e possono partecipare
all’udienza, proprio perché pubblica, dove, prima di andare a decisione, la causa viene
discussa. Sono discussioni che si svolgono in tempi brevi, in cui l’avvocato raramente parla
per oltre cinque minuti e deve capire quali sono quei pochi elementi fondamentali che deve
aggiungere, perché c’è già l’atto. Le ipotesi di udienza pubblica, con la riforma del 2016, sono
poche (dieci ricorsi su cento sono discussi in udienza pubblica) e, in questi casi, la Cassazione
decide con sentenza. Oggi, dalla riforma del 2016, in base al 380-bis 1, le Sezioni semplici
possono anche stabilire che la questione da decidere non sia di particolare importanza (cioè
non è una questione che possa servire anche per i futuri processi, cioè non ha carattere
nomofilattico), e allora la può decidere in camera di consiglio, non partecipata e la decide
con ordinanza, nelle forme dell’art. 380-bis 1. Arriva sempre un avviso agli avvocati, nel
quale si dice che la Sezione semplice ha fissato la camera di consiglio, ma questa non è
partecipata, per cui gli avvocati non possono chiedere di parteciparvi, ma possono
depositare una memoria scritta, dieci giorni prima, e il contraddittorio nella fase decisionale
del processo si realizza con queste memorie scritte (depositate dieci giorni prima della
camera di consiglio). La camera di consiglio è segreta, perché decidono i giudici e lo fanno
con ordinanza.

In Cassazione è sempre presente il pubblico ministero. Mentre in tribunale o in appello, la


presenza del p.m. è legata alla materia del contendere (se si discute di un minore, di un
divorzio, di un diritto superindividuale o a ricaduta pubblica o a rilevanza sociale), in

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Cassazione invece c’è la presenza obbligatoria, perché la Cassazione ha sempre in re ipsa la


pubblica rilevanza, in quanto svolge una funzione di nomofilachia, che si addiziona alla
funzione privatistica del controllo di legalità di un provvedimento del singolo cittadino. È
stato previsto nel 1940 che tutte le cause civili abbiano la presenza fissa del pubblico
ministero. Qual è il compito del pubblico ministero oggi? Bisogna separare le cause che
vanno decise in camera di consiglio rispetto a quelle decise in udienza pubblica, perché in
quest’ultima il p.m. prende la parola e, in nome della legge (rappresentando la legge), dice
se il ricorso è fondato o meno, se i motivi sono da accogliere o meno e se la sentenza
impugnata è pronunciata conformemente alla legge o no. Nel vecchio sistema, si dice per
volere di Calamandrei, nell’art. 379 era previsto che il p.m. parlasse per ultimo, il che è
un’anomalia, perché l’ultima parola spetta sempre alla difesa. In Cassazione, per il civile, il
ruolo era invertito e in nome della legge, nella persona della procura generale, aveva l’ultima
parola: prima parlava il giudice relatore che espone la causa, poi la difesa, poi il p.m.,
dopodiché i giudici si riunivano per decidere. Questo sistema era discutibile perché l’ultima
parola non poteva averla il p.m., anche perché non era prevista la replica: se il p.m. diceva
qualcosa di sbagliato (ad esempio, che mancava un documento che invece c’era), la parte
non aveva la possibilità di replicare. Questa cosa andò anche in Corte costituzionale, sia per
la parte relativa al fatto che il p.m. parlasse per ultimo sia per l’impossibilità per l’avvocato di
replicare, e questa disse che il sistema era costituzionale perché nella stessa udienza era
prevista una replica scritta alle conclusioni del pubblico ministero. Nel 2016, accanto alle
riforme che hanno ridotto fortemente l’udienza pubblica e reso la camera di consiglio la
regola generale, è stata fatta un riforma con la quale parla prima il pubblico ministero e poi
il difensore, così come si evince dall’art.379: l’udienza pubblica si svolge con la parola del
relatore, per poi passare alla procura della Repubblica e, infine, ai difensori (prima il
ricorrente e poi il controricorrente), dopodiché l’udienza è conclusa.

Chi c’è sopra la Cassazione? Sopra la Cassazione non c’è nulla, anche perché l’ordinamento
ha bisogno di mettere un punto alla vicenda con il giudicato. Oggi abbiamo un sistema di
nomofilachia diffuso, tant’è che la Corte non è ritenuta completamente Corte suprema,
perché l’aggettivo “suprema” è fuori luogo, anche perché abbiamo la Corte di Strasburgo (e
le norme comunitarie si dice siano prevalenti) e la Corte costituzionale, la quale svolge in
una certa misura la funzione di nomofilachia, che deve indicare la corretta interpretazione
della legge, per essere conforme a Costituzione. Ci sono stati anche conflitti, in alcuni
momenti, tra Cassazione e Corte costituzionale, perché discutevano su chi avesse il potere di
interpretare la legge, ognuno rivendicandolo per sé. Il Consiglio di Stato per la giustizia
amministrativa svolge una funzione di nomofilachia, perché le sentenze del Consiglio di
Stato possono essere impugnate soltanto per conflitti di giurisdizione. Per quanto riguarda
gli aspetti amministrativi, la nomofilachia in quell’ambito è data dal Consiglio di Stato.
Virgilio Andrioli è stato un processualista allievo di Chiovenda e maestro di Proto Pisani e
giudice della Corte costituzionale negli anni ’80. Per la prima volta si pose il problema se

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

potessero essere impugnate con revocazione le sentenze della Cassazione, tenendo conto
del fatto che al di sopra della Cassazione non ci fosse nulla. In questo caso si impugna la
sentenza sempre dinanzi alla stessa Corte di cassazione, ai sensi degli artt. 395 e ss. c.p.c. La
revocazione è un strumento di impugnazione straordinario e si ha quando il giudice decide
con una rappresentazione falsa dei fatti o con documenti falsi o in ipotesi di corruzione o
dolo. Ci si poneva il problema se le sentenze della Cassazione si potessero impugnare per
revocazione, in assenza di disposizioni in questo senso, nonostante fosse una Corte suprema.
Questa cosa andrà in Corte costituzionale e Andrioli (relatore di questa decisione) dichiarò
che anche le sentenze della Corte di cassazione potevano essere impugnate per revocazione,
altrimenti si incorreva nella violazione del diritto alla difesa e degli artt. 3 e 4 Cost. Questa
decisione si consolidò nel tempo, a tal punto che questa fu fatto oggetto di riforma
legislativa e oggi si trova nell’art. 391-bis, che prevede che, per fatti gravi e particolari, anche
le sentenze della Corte di cassazione possono essere impugnate per revocazione, entro certi
termini e certi limiti e sempre dinanzi alla Cassazione, magari con composizione diversa di
giudici.

CAP.5 - PROCESSO SOMMARIO DI COGNIZIONE

I processi speciali (ad es. il decreto ingiuntivo, la convalida di sfratto, la tutela cautelare, i
procedimenti possessori o l’accertamento tecnico) sono nel IV Libro (artt. 702-bis e ss. c.p.c.),
e non nel primo, perché hanno caratteristiche peculiari ed esigenze diverse rispetto a quello
ordinario. Il processo speciale sommario, non a caso inserito nel II libro e non nel IV, cioè in
un ambito in cui si tratta la cognizione ordinaria, è stato pensato come un’alternativa al
processo ordinario di cognizione (artt. 163 e ss.). Questa novità è stata inserita nel 2009: si
ha l’idea, da parte dell’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, di accorciare i tempi,
alla luce del principio della ragionevole durata del processo, e fornire un modello
alternativo al processo ordinario di cognizione, considerato lungo, cavilloso, farraginoso e
pieno di formalismi e, come tale, causa di ritardi. Si è detto, allora, che, quantomeno per le
cause semplici (che molti processualisti hanno sposato, tra cui Proto Pisani, che è convinto
della contrapposizione tra cause semplici e cause complesse, ma che secondo Scarselli lascia
molte perplessità), o di pronta soluzione (o anche dette non complesse), si poteva
immaginare un processo semplificato, diverso dall’ordinario, con il quale arrivare
brevemente a decisone. Nel 2009, per concretizzare quest’idea furono approvati queste tre
disposizioni (702-bis,-ter,-quater). Si prevedeva, intanto, che il processo iniziasse con il
ricorso, anziché con l’atto di citazione; il convenuto si costituisce con una comparsa di
risposta, sulla falsariga del processo del lavoro; il giudice, in prima udienza, valuta se la causa
è da considerarsi semplice o complessa e si capisce che l’idea originaria fosse che questo
procedimento venisse utilizzato dalle parti solo per le cause semplici ed era pensato come
una facoltà rimessa all’attore-ricorrente, o meglio al suo avvocato. Il giudice, secondo
questo schema, faceva due cose: la prima era di verificare se effettivamente la scelta fatta
dall’avvocato del ricorrente era corretta o no, nel senso se effettivamente la causa potesse
considerarsi semplice o complessa. Se il giudice la considerava complessa, e cioè dava un

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giudizio diverso da quello dell’avvocato del ricorrente, aveva la possibilità di convertirla al


processo ordinario, fissando un’udienza successiva ex art. 183, e il processo proseguiva nelle
forme ordinarie; se, invece, il giudice riteneva che la causa fosse semplice (e cioè riteneva
che il ricorrente avesse fatto una scelta corretta di procedere in via sommaria), proseguiva in
via sommaria, applicando una procedura snella dell’art. 702-ter (perché tutto il processo è
in questo articolo), e decideva in base al 702-quater, non più con sentenza ma con
ordinanza, che poi era soggetta ad appello (perché non si toglie anche in questi casi il diritto
ad appellare), ma con dei termini ridotti. Questa sommarietà era data dal fatto che il
processo si iniziava con degli schemi più simili a quelli del processo del lavoro, con ricorso e
comparsa; con un convenuto che si costituisce dieci giorni prima dell’udienza; con un giudice
che era di fronte ad un bivio, tra sommario e ordinario, e, in ipotesi di sommario, procedeva
con una procedura snella e una decisione semplificata.

Questa novità del 2009 non è gradita da nessuno all’entrata e, in particolare, alcuni
processualisti (tra cui Scarselli) hanno criticato questa scelta, dicendo che non si può
procedere in via sommaria se poi la cognizione è piena: nell’attribuzione di un diritto
soggettivo, con un provvedimento finale che, ancorché avente la forma dell’ordinanza, ha
valore di sentenza. Anche questa ordinanza, infatti, ha valore di giudicato, perché definisce
in modo pieno e incontrovertibile sulla statuizione dei diritti soggettivi, così come si fa nella
cognizione ordinaria e non è un processo speciale come quelli del IV Libro, ma è un processo
vero e proprio, dove si attribuiscono o negano diritti soggettivi alle parti. Certe regole,
quindi, sono necessarie, e questa è la critica ideologica, perché non si può non
predeterminare il processo, sommarizzarlo e rimetterlo alla discrezione del giudice, perché
questo processo è caratterizzato, infatti, dal fatto che non ha regole predeterminate, perché
il tutto è deciso dal giudice, il quale decide di volta in volta caso per caso. Si può strutturare
in questi termini un processo di cognizione che sfocia in un provvedimento che attribuisce,
con efficacia di giudicato, un diritto soggettivo o lo nega? Alcuni hanno risposto di no,
perché è in contrasto con l’art. 111 Cost., nella misura in cui si dice che “il processo è
regolato dalla legge”, perché questo inciso significa che la legge deve predeterminare le
regole del processo, perché il cittadino, quando entra in tribunale, deve sapere quali sono le
regole in forza delle quali il giudice prenderà una decisione nei suoi confronti (questo va
bene sul merito, ma non sulle regole processuali). Se le regole non sono predeterminate, ma
si lasciano alla discrezionalità del giudice, l’altro rischio, da un punto di vista costituzionale, è
la rottura del principio di uguaglianza, perché due giudici possono dare due regole del
processo diverse: è impensabile, sotto il profilo dell’art. 3 Cost., che possano darsi disparità
di trattamento sul processo, in questi termini, solo perché il processo è rimesso alla
discrezionalità del giudice. Questa, però, è una critica di carattere ideologico, perché non si
preoccupava, effettivamente, di vedere se questo processo portava a dei benefici effettivi o
meno o se era corretto darli; era una critica a monte che diceva che tutto ciò non era
possibile, perché ci sono altri valori da tutela, anche da un punto di vista costituzionale.

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

È una posizione che ha trovato la dottrina processualistica conforme (sia da destra che da
sinistra). Questa novità non è piaciuta nemmeno agli avvocati e ai giudici e, quindi, non ha
avuto fortuna in origine. Non è piaciuta agli avvocati perché ad un avvocato non piace l’idea
che il processo non abbia regole e che il potere sia troppo nelle mani del giudice, perché si
sente anche frustrato nel suo ruolo, perché non sa cosa dire al cliente perché non sa quali
siano le regole e ha sempre paura che sia pregiudicato il diritto alla difesa e al
contraddittorio, e alla possibilità di articolare al meglio la difesa nell’interesse del cliente. Le
regole che potevano venire meno con la sommarizzazione del processo, infatti, riguardano
l’impossibilità di avere la garanzia sia di poter scrivere una memoria istruttoria, sia di avere
una fase decisionale del processo, perché il giudice può concedere o negare questi diritti; e
non si sa, a questo punto, se si debba dire tutto all’inizio e probabilmente sì, perché è chiaro
che, nel dubbio, si hanno delle preclusioni sin dall’atto introduttivo del giudizio, perché non
si ha la garanzia che alcune cose si possano fare successivamente. Nella misura in cui il
processo è ordinario, si può anche evitare di entrare nell’attività istruttoria con l’atto
introduttivo, perché si sa che si ha diritto alle memorie ex art. 183; e si possono anche non
anticipare certe riflessioni giuridiche o posticiparle ad un momento successivo all’istruzione,
perché si sa che si ha il diritto alle comparse di risposta o, comunque, si ha il diritto alla fase
conclusiva, seppur sommarizzata, dell’art. 281-sexies. Nella misura in cui, però, vengano
meno queste garanzie, perché non si sa più se si avrà una fase decisionale e non si sa se si
avrà un momento istruttorio, nel quale spiegare le ragioni del cliente o chiedere i mezzi o
produrre altri documenti, è ovvio che in questa situazione dubbia si cercherà di fare tutto
all’inizio, per evitare rischi e decadenze, e non è qualcosa che è di gradimento alla classe
forense. Gli avvocati, anche per la necessità di organizzare il proprio lavoro, perché magari
hanno anche più udienze lo stesso giorno, è necessario per loro fare una scelta, e tendono a
non rendere troppo importante il momento dell’udienza in ipotesi di questo genere, perché
non possono garantire di esserci e tendono a preferire il momento dell’atto scritto. L’idea
che tutto si faccia in udienza (in contrasto anche con l’idea tradizionale del processo civile,
perché questo è scritto), e questo modello che pregiudica la scrittura in favore dell’oralità
non sono troppo graditi alla classe forense. Per questo motivo, infatti, non fu utilizzato
spesso il processo sommario; quando veniva usato, il convenuto, che si costituiva, sosteneva
che la causa era complessa e chiedeva lui per primo il mutamento del rito. Una causa in
parte semplice può diventare complessa in forza dell’eccezione che solleva il convenuto,
perché nell’ipotesi in cui questo solleva una domanda riconvenzionale o se vuole chiamare
un terzo in causa, è chiaro che questa causa, ancorché semplice (perché magari poteva
riguardare il pagamento di una somma di denaro), non lo è più, perché c’è da fare una serie
di attività (domanda riconvenzionale, chiamare un terzo) che, fatte senza regole, poteva
sembrare discutibile.

Questo modello non piaceva neanche ai giudici perché, anche a loro, un’eccessiva
concentrazione dell’attività processuale non piace, ma anche per un senso di responsabilità,
sia perché hanno i loro ritmi sia perché, alle volte, anche il contributo dell’avvocato è

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importante. I giudici hanno, infatti, bisogno dei loro tempi, perché portano il fascicolo a casa
e con calma scrivono una sentenza. Tutti questi poteri, senza le regole, aumentano la
responsabilità dei giudici. In quei pochi processi sommari che si sono avuti dopo la riforma
del 2009, i giudici, quasi sempre, convertivano il rito e lo mandavano, col 183, al processo
ordinario. C’è da dire, inoltre, che l’ordinanza non faceva statistica per il magistrato. Per la
produttività, infatti, un giudice deve scrivere ogni anno un certo numero di sentenze, e
queste ordinanze non andavano nella produzione, perché all’epoca non era stata aggiornata
questa cosa e, anche solo per questo, i giudici, nonostante dovessero ugualmente lavorare a
quella causa e deciderla e ciò non entrava nella produttività, convertivano il rito e scrivevano
la sentenza.

Questo processo sommario, invece, è piaciuto al legislatore, perché lo valorizza negli anni
successivi e in più modi, sostanzialmente tre principali. Un primo è che si inserisce nel c.p.c.
un’art.183-bis. Si prevede un percorso inverso, perché, agli inizi, il percorso era che il
processo sommario ordinario è rimesso alla scelta dell’attore e il giudice poteva, se scelto il
sommario, solo convertirlo in ordinario (ai sensi del 702-bis), ma la scelta inversa non era
possibile: se si partiva con un processo ordinario (con l’atto di citazione), il giudice non
poteva dire che la causa era semplice e convertirlo in sommario, ma si poteva dire solo che,
se la cause non era semplice, il rito si convertiva in ordinario. Con la riforma del Governo
Renzi e con l’introduzione dell’art. 183-bis si dà questa possibilità al magistrato: la cosa
cambia di connotato, perché non è più rimessa alla discrezione della parte, ma è rimessa alla
discrezione del giudice, perché questo può convertire in un modo o nell’altro il processo,
rendendo sommario il processo che è partito ordinario e viceversa. Salvo casi sporadici,
questo art. 183-bis non è mai stato usato dai magistrati, ma come possibilità esiste. Il
legislatore ha fatto una seconda scelta, con l’art. 348-bis (di cui si è già parlato, nell’appello).
Questa disposizione dice che quella possibilità di decidere l’appello in forma sommaria, che
si ha quando il giudice dell’appello ritiene che l’appello non abbia probabilità di essere
accolto (tutti gli appelli, infatti, possono essere chiusi in via sommaria quando non hanno la
probabilità di essere accolti, con ordinanza), è esclusa in due casi: quando vi è la presenza
del p.m., cioè la causa ha ad oggetto diritti indisponibili; oppure, quando il processo in primo
grado si è svolto nelle forme sommarie dell’art. 702-bis (riforma 2012, tre anni dopo
l’ingresso della novità). Qui si è detto che, se il processo è sommario in primo grado, non sta
bene fare un altro processo sommario anche in appello, perché due gradi sommari sono
troppi. In realtà, c’è una lettura inversa della scelta del legislatore. La motivazione vera è
quella di dire che finora questo strumento era stato utilizzato soltanto sporadicamente e,
quindi, per evitare che l’appello sia chiuso con ordinanza, allora si deve usare il sommario in
primo grado per aggirare il rischio. È stata la scelta, infatti, di un certo numero di avvocati,
che, proprio al fine di evitare che l’appello potesse chiudersi in modo sbrigativo e sommario,
hanno utilizzato questo procedimento, che impediva questa soluzione al giudice dell’appello.
Era un modo per invogliare, quindi, l’utilizzo del procedimento sommario in primo grado.
L’ultima scelta è stata nel 2016, con la legge finanziaria, in vigore dal 2017, che ha previsto

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un’altra cosa. Esiste una legge, c.d. legge Pinto, che consente alle parti, anche a quelle che
hanno torto, di poter andare in tribunale e chiedere un risarcimento del danno allo Stato
perché il processo ha avuto un’irragionevole durata. Un tempo si faceva ricorso alla Corte
europea, ma per evitare di essere attaccati dall’UE perché la giustizia italiana non
funzionava, era stata prevista questa legge. Questo tipo di causa, a livello interno, si può fare
al distretto di riferimento: in concreto, se c’è un ritardo di una causa nel distretto toscano, è
una causa che si farà poi a Genova. La legge finanziaria del 2016 ha previsto che la Legge
Pinto possa essere applicata, e cioè si possa chiedere il risarcimento del danno, solo se si è
utilizzato il procedimento del 702-bis, perché, se il procedimento è stato ordinario, allora
non ci si può lamentare che il processo sia durato troppo e, quindi, non si ha accesso alla
Legge Pinto. L’accesso, dunque, a questa legge, dal 2017, è possibile in quanto la parte abbia
utilizzato il processo sommario di cognizione; qualora la parte dovesse scegliere di fare una
causa o un’altra con la citazione, secondo i canoni tradizionali, questa scelta preclude la
possibilità di chiedere il risarcimento danni per una durata irragionevole del processo. Il
legislatore ha cercato di invogliare le parti ad utilizzare questo strumento: dicendo che
l’appello non possa essere risolto con ordinanza, con la Legge Pinto e consentendo ai giudici
di andare al sommario, se la causa è iniziata ordinaria.

Accanto a questo, avvicinandoci ai nostri giorni, qualcuno ha fatto un passo ulteriore, nel
senso di dire di voler rendere il procedimento sommario regola generale, non più
eccezione, perché il rapporto tra gli artt. 163 e ss. e del 702-bis e ss. è un rapporto tra regola
ed eccezioni (la regola continua ad essere quella del 163, mentre il 702-bis è un’eccezione -
anche meno gradita); ma l’idea era di capovolgere questo rapporto, in modo da fare del
processo sommario la regola e della citazione l’eccezione. In che modo? Il processo
sommario, fin dall’inizio, è utilizzabile nelle ipotesi in cui la causa va decisa dal giudice
monocratico e non in ipotesi di riserva di collegialità, e si ritorna agli artt. 50-bis e 50-ter, in
base ai quali tutte le cause in tribunale oggi sono decise da un giudice monocratico, salvo le
ipotesi collegiali del 50-bis. Se si è in ipotesi di riserva di collegialità, il processo sommario
non può essere utilizzato. Ad es. se si vuole impugnare un testamento (ipotesi del 50-bis,
ipotesi di collegialità), non si può fare un processo sommario, ma è necessario notificare un
atto di citazione. Il processo sommario si può fare solo quando la decisione è monocratica,
ma quasi sempre la decisione è monocratica, perché sono sporadici i casi di collegialità.
L’ulteriore idea, che non è passata, non era quella di dire che, quando la cognizione è
monocratica, si ha la facoltà di scegliere il processo sommario, come dal 2009 (che era una
scelta dell’attore), ma quella di dire che se il giudice è monocratico, si ha l’obbligo di
utilizzare lo strumento e non la facoltà. La riforma sarebbe nel senso di dire che, tutte le
volte in cui il tribunale decide monocraticamente, deve procedere in modo sommario, e
l’atto di citazione rimane limitato alle ipotesi in cui la decisione è collegiale. Una riforma di
questo genere farebbe si che di regola si scrivano tutti i ricorsi, limitando le citazioni
(quando ci sono cause successorie o fallimentari). Questo era l’idea del Governo del centro-
sinistra col Ministro Orlando, e l’idea era anche quella di ritoccare l’art. 50-bis e di rendere

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ancora più minori i casi di riserva di collegialità. I due ritocchi che andavano fatti, quindi,
erano che, se il processo era monocratico, si usa il processo sommario (riforma 1); e si
riducano i casi di riserva di collegialità del 50-bis (riforma 2).

Questa idea fu osteggiata da tutti, compresa la magistratura, che si schierò contraria, e


l’Associazione Italiana dei Processualisti, e se ne parlò fino a dicembre dello scorso anno, con
la legge finanziaria, perché qui era stata messa la riforma del processo civile, fino a che non
fu stralciata questa riforma, perché il centro-destra era contrario e nemmeno tutto il PD era
favorevole, e quindi non passò.

Cambiano il Governo e il Ministro della Giustizia, e il progetto attuale è quello di: mettere
insieme il processo sommario con alcune regole del processo del lavoro, perché all’inizio
(nella fase introduttiva del processo) sono abbastanza simili, con una riforma più radicale che
prevede la soppressione dell’atto di citazione, il quale non esisterebbe più e molto
probabilmente non esisterebbe nemmeno più il riparto tra giudice monocratico e quello
collegiale. Il processo sommario diverrebbe l’unico processo di primo grado, con alcune
integrazioni necessarie, mutuate dal processo del lavoro, con l’introduzione di una serie di
ulteriori poteri ufficiosi del giudice, sia istruttori (possibilità di ordinare esibizioni di
documenti e cose di questo genere), sia con l’obbligo delle parti di comparire in udienza ed
essere ascoltati dal giudice (cosa che era stata introdotta nel ’90 con l’art. 183 e abrogata
alla fine degli anni ’90, perché i giudici non riuscivano a gestirlo, ma nell’idea della riforma
rientra questa cosa): quindi, in prima udienza, le parti devono comparire ed essere ascoltate
dal magistrato, il quale ha una serie di potere ufficiosi di tipo istruttorio; sono previste,
inoltre, una serie di sanzioni economiche per le parti che non ottemperino agli ordini del
giudice e si prevede che non necessariamente vi sia una fase decisoria vera e propria.

Ai sensi dell’art. 702-bis, il ricorso per introdurre un processo sommario non è utilizzabile
nelle ipotesi di riserva di collegialità, ma solo nelle ipotesi di composizione monocratica. È un
ricorso un po’ spurio, nel senso che non ha una vera e propria citazione, ma un avvertimento
ex n.7 dell’art. 163 (che normalmente è la vocatio in ius); il convenuto non è citato per
un’udienza fissa, ma lo si avverte che si deve costituire entro certi termini, a pena di
decadenza. L’art. 125 dice che gli atti di parte devono essere sottoscritti. A seguito della
presentazione del ricorso, si porta in cancelleria secondo lo schema del ricorso
(diversamente dallo schema del ricorso per Cassazione); si forma il fascicolo d’ufficio e viene
presentato senza ritardo al Presidente del Tribunale. Il giudice designato fissa con decreto
l’udienza di comparizione delle parti, assegnando il termine per la costituzione del
convenuto, che deve avvenire non oltre i dieci giorni prima dell’udienza. Mentre nel
processo ordinario si ha una preclusione a venti giorni dall’udienza indicata in citazione, qui
si ha una preclusione a dieci giorni dall’udienza in base all’udienza indicata dal giudice col
decreto. Il convenuto si deve costituire e deve dire tutto subito; poi, a pena di decadenza, se
deve chiamare un terzo in causa o proporre una domanda riconvenzionale, deve farlo nella
comparsa di risposta, a dieci giorni dall’udienza fissata dal giudice. Nel processo sommario

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può essere chiamato un terzo, perché non può essere negato questo diritto al convenuto. Si
prevede che anche qui si sposti l’udienza, adottando un metodo analogo all’art. 167 e ss.,
con una particolarità: qui si parla di “chiamare un terzo in garanzia”, non più di “chiamata di
un terzo in causa”. Viene in mente, leggendo questa disposizione, che la garanzia è una
delle ipotesi con riferimento alla quale si può chiamare un terzo in causa, ma non esaurisce il
fenomeno: tra terzo in causa e terzo in causa in garanzia vi è un rapporto tra genus e specie,
cioè la garanzia vi rientra, ma non tutti i terzi da chiamare sono chiamati a titolo di garanzia.
Si apre, dunque, un capitolo per capire se questa espressione fosse uno strafalcione del
legislatore e se il convenuto, che chiamasse un terzo, aveva diritto a questo rinvio per
poterlo o fare o semplicemente questo diritto, in questa logica di sommarizzazione, era data
solo a quei terzi che avessero la qualità di garanti.

La palla, a questo punto, passa al giudice, in questa prima udienza del 702-ter. In prima
battuta il giudice deve stabilire se la causa è semplice o complessa, perché “se ritiene di
essere incompetente, lo dichiara con ordinanza”, ma ciò succede anche nel processo
ordinario. Se la domanda non rientra tra quelle indicate nell’art. 702-bis, il giudice, con
ordinanza non impugnabile, la dichiara inammissibile. Non rientrano nel 702-bis tutte quelle
ipotesi di riserva di collegialità; sono state poi indicate dalla giurisprudenza altre ipotesi, che
dovevano semplificare ma alla fine hanno solo reso più complesso il sistema. Infatti la
giurisprudenza ha iniziato a chiedersi se si potesse utilizzare questo strumento nel rito del
lavoro: alcuni hanno risposto di sì, ma altri hanno sostenuto che il processo sommario si
applichi solo ai riti ordinari e non a quelli speciali. Non si sa, innanzitutto, se questo processo
si applichi anche alle cause che devono procedere col rito speciale del lavoro e un giudice, in
questo ambito, potrebbe dire che non va bene questa scelta, perché non rientra, secondo
una certa interpretazione (che però è discutibile), nell’ipotesi del 702-bis. Mentre se si va in
ipotesi di riserva di collegialità, non c’è opinione, perché è chiaro che non si possa fare, nel
processo del lavoro è discutibile. Per es. l’opposizione al decreto ingiuntivo: una parte
agisce con decreto ingiuntivo, l’altra ha quaranta giorni per fare opposizione; il codice dice
che “entro quaranta giorni con citazione” si può fare opposizione ed utilizza proprio
l’espressione “con citazione”. Se la causa è semplice, l’opposizione al decreto ingiuntivo la si
può fare col rito sommario? Non è una cosa che si può dare per scontato in un senso o
nell’altro, perché, se si sta alla lettera dell’art. 645, si parla di citazione per opporre un
decreto ingiuntivo, ma è una terminologia impropria del ’40, quando c’era solo la citazione:
quindi, se si dà un’interpretazione non meramente formale, ma concettuale, l’espressione
del 645 è del tutto irrilevante. Se l’opposizione al decreto ingiuntivo è semplice, per quale
motivo non si può fare con processo sommario? Anche in questo caso si potrebbe usare
questo strumento. Per es. dopo la misura cautelare si fa un processo ordinario, entro un
termine che fissa l’art. 669-octies, a pena di perdita della misura cautelare. Se si chiede un
sequestro di un immobile di proprietà, questo sequestro è una misura cautelare e la legge
impone di iniziare la causa di merito, entro un termine. Questa causa si può fare anche con
cognizione sommaria o per forza con citazione perché c’è il sequestro? Anche questo non ha

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una risposta univoca, perché è interpretabile in un modo o in un altro, anche con delle
conseguenze, perché se si sbaglia, si rischia di perdere il sequestro, così come se si sbaglia
nel fare l’opposizione al decreto ingiuntivo, si rischia di consolidare gli effetti del decreto
ingiuntivo. Non è secondario che ci siano delle risposte chiare, precise ed univoche
nell’utilizzo degli strumenti processuali, perché il dubbio può creare confusione e la perdita
di diritti. L’esperibilità di questo processo sommario, al di là delle ipotesi in cui è chiaro che
non può essere utilizzato (ipotesi di riserva di collegialità), è discutibile in altri casi.

Se il giudice ritiene che non si rientra nel 702-bis, dichiara inammissibile la domanda. Si
aggiunge che nello stesso modo il giudice provvede sulla domanda riconvenzionale. Il giudice
deve valutare alla prima udienza, al di là dell’esperibiità o meno ai sensi del 702-bis,
effettuando una valutazione di merito, se è semplice o non è semplice, perché in questo caso
si ritorna al rito ordinario. Si dice che in questi casi “si applicano le disposizioni del Libro II”,
ma qualcuno potrebbe essere tentato, a contrario, di leggere questa disposizione nel senso
che, se si rimane nel sommario, il Libro II non si applica, perché si dice che questo libro II si
applica solo se si ritorna all’ordinario. Si capisce, allora, quanto sia rischioso questo tipo di
interpretazione, cioè l’idea che se si sta nel sommario, le norme del secondo libro non si
applicano, perché le norme non riguardano questi semplici passaggi (delle memorie del 183,
la fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni o le comparse conclusionali), ma
riguardano tutta una serie di questioni che fanno parte della vita del processo. Per es. se una
parte muore, che si fa? Va dichiarata l’interruzione del processo e va riassunto entro tre mesi
(art. 299-300 c.p.c.). Ma se il processo è sommario e se dovesse succedere un fatto di questo
genere, si applicano o no queste disposizioni? Qui, se si deve interpretare che non si
applicano, non si applicano e la domanda conseguente può essere che, se non si applicano,
come si risolve il problema? Ogni giudice può fare come vuole perché non ci sono più le
regole? A ruota, inevitabilmente, si trascinano anche le disposizioni del I Libro, come ad
esempiouna sospensione per una pregiudizialità, una questione di giurisdizione. Ci sono casi,
espressamente disciplinati dal c.p.c. non a caso, che se si dice che il processo è
completamente deregolarizzato, cioè non ha regole, non si ha più una bussola e davvero c’è
il rischio o che tutti i giudici facciano ciò che vogliono e si capisce qual è il prezzo da pagare
in termini di confusione e in termini di art. 3 Cost., perché si rischia davvero di fare un
trattamento differenziato delle parti e che queste non abbiano più garanzia. Il processo serve
anche per difendersi dai giudici, oltre che dagli avvocati e le garanzie processuali ci sono per
questo. Alla fine funziona in due modi sostanzialmente: o si applicano per analogia tutte le
disposizioni del c.p.c., ma allora è inutile dare il sommario, perché sostanzialmente si applica
il secondo libro; oppure non si applica il secondo libro, ma significa che non ci sono regole e
ognuno fa come vuole.

L’altro problema è nella contrapposizione tra causa semplice e complessa (“necessita di


un’istruzione non sommaria”). La complessità, dunque, sta soltanto nell’attività istruttoria,
cioè nell’incertezza dei fatti: se una causa ha bisogno, per l’accertamento dei fatti, di tante
prove testimoniali, di una consulenza tecnica, allora è complessa; se i fatti sono chiari, allora

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

è semplice. Questa distinzione non è convincente al massimo; la complicazione, infatti, può


essere data anche da altre cose processuali, ad es. il numero dei litiganti: se c’è un
litisconsorzio necessario, se il convenuto chiama un terzo in causa; se propone delle
domande riconvenzionali. Ciò fa sì che la contrapposizione tra cause semplici e complesse
tende a sfumarsi.

Prosegue la norma: “Quando la causa relativa alla domanda riconvenzionale richiede


un’istruzione non sommaria, il giudice ne dispone la separazione”. È raro che accada e
davvero qui semplificare vuol dire complicare, perché se, mentre si fa una cognizione
ordinaria, si decide in un unico processo e in modo cumulato tanto la domanda principale
che quella riconvenzionale, qui si dice che, se tutto il processo è complicato, si va
all’ordinario, ma nell’ipotesi in cui la domanda del ricorrente sia semplice, ma non la
riconvenzionale del resistente, si separano: si manda all’ordinario una domanda, al
sommario un’altra domanda.

Il quinto comma è dedicato alla descrizione del rito. Questa disposizione è stata copiata
letteralmente dall’art. 669-sexies (in materia di tutela cautelare), norma del 1990, in cui si
dice: “Omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene
più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del
provvedimento stesso”. Non si tiene, però, conto di una differenza sostanziale, perché una
cosa è immaginare che il giudice possa procedere nel modo che ritiene più opportuno in una
tutela cautelare, cioè in un provvedimento provvisorio, revocabile e modificabile, che non ha
alcuna stabilità o attitudine alla cosa giudicata, cui segue un processo di merito; altra cosa,
viceversa, è riconoscere questo medesimo potere al giudice quando la cognizione è già il
processo di merito e sfocia in un provvedimento che ha attitudine alla cosa giudicata al pari
della sentenza. È ovvio che, in una situazione di questo genere, dare un potere discrezionale
al giudice può essere discutibile, perché può, in questo caso, contrastare col principio
costituzionale della predeterminazione legale del processo, che non è più predeterminato,
ma in cui il giudice procede nel modo in cui ritiene più opportuno, cioè fa quello che vuole.
“nell’istruire la causa” per poi deciderla. È importante capire come funziona l’istruzione. Per
es. la prova testimoniale e la consulenza tecnica, che sono i mezzi di istruzione più comuni
utilizzati nel processo civile. La consulenza tecnica ha certe garanzie: il consulente tecnico
deve prestare giuramento; deve rispondere a certi quesiti; le parti possono nominare un
consulente tecnico di parte; deve svolgere i lavori avvisando le parti e nel rispetto del
contraddittorio; deve presentare una bozza, prima del deposito della relazione finale; può
essere ricusato in tutti i casi in cui può essere ricusato un giudice. Tutto ciò a garanzia della
serietà del lavoro del consulente tecnico e a garanzia del principio del contraddittorio. Ma
queste norme si applicano anche in questo caso, visto che il giudice può procedere nel modo
che ritiene più opportuno? Si può rispondere in due modi:

 Si può dire che certamente il giudice deve rispettare queste regole, perché queste
regole sono assicurate dagli artt. 24 e 111 Cost. e sono le regole del giusto processo,

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

a garanzia della difesa del contraddittorio e non possono essere disattese dal giudice.
Se, invece, si dà questa risposta, al tempo stesso si dice questo processo non serve a
nulla. Si deve, in ogni caso, applicare il II Libro, ma se si deve applicare, a cosa serve il
processo sommario e quali sono i vantaggi concreti che dà in ordine ad un risparmio
di tempo, di energie e di attività lavorative per i giudici e gli avvocati?

 La seconda risposta è che il giudice, invece, non è tenuto al rispetto di queste regole,
perché non è tenuto al secondo libro e perché procede nel modo che ritiene più
opportuno. Ma, allora, si può immaginare davvero un processo che attribuisce un
diritto in via definitiva, con una CTU (consulenza tecnica d’ufficio) che è fatta senza
queste garanzie, senza un CTU (consulente tecnico d’ufficio) che giura, che risponde
ai quesiti, che non si sa come è garantito il contraddittorio, che non manda le
relazioni, perché magari il giudice lo autorizza in questo senso? È una risposta poco
soddisfacente. Allora si capisce la problematicità che può presentare un sistema di
questo genere.

Lo stesso discorso si può fare con le prove testimoniali. Le regole sono nel Secondo Libro:
queste devono essere rispettate in questo processo? Il teste si impegna a dire a verità;
risponde del reato di falsa testimonianza; le domanda devono essere capitolate o si può
interrogarlo liberamente? L’alternativa è o applicare il II Libro e, quindi, il processo non è più
sommario; o dire che non si applica e si fa come si vuole e, allora, si capisce quale tipo di
attendibilità si può attribuire a questo teste.

La disposizione, inoltre, continua: “… e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto


delle domande”. Si prevede non solo che il processo sia definito con ordinanza, ma anche
che non si prevede la garanzia di una fase decisoria, perché non si dice che il giudice, prima
di decidere una cosa, deve fissare un’udienza di discussione, deve consentire alle parti di
scrivere almeno una memoria conclusiva, deve garantire il contraddittorio nella fase
decisionale. Non si nega che ciò non avvenga, perché i giudici, nella maggior parte dei casi,
consentono, anche nella cognizione sommaria, una fase decisionale alle parti, ma può anche
non essere così, perché i giudici trattengono in decisione la questione senza consentire una
discussione finale o una memoria finale, ed è possibile perché la norma lo consente (non lo
sarebbe nella cognizione ordinaria). C’è da chiedersi se tutto ciò è conforme al diritto della
difesa. Per es. se l’attore scrive un ricorso e il convenuto una comparsa di risposta; se il
giudice tiene in decisione la questione senza una fase decisionale, l’effetto pratico è quello
che il ricorrente non ha avuto la possibilità o un momento processuale in cui sviluppare la
replica al convenuto. Ci si può chiedere se allora questo meccanismo sia conforme all’art. 24
Cost., oltre che all’art. 111 Cost., che prevede la predeterminazione legale del processo, che
qui salta in favore della discrezionalità del magistrato.

L’ordinanza ha valore di sentenza, cioè nega o attribuisce il diritto soggettivo al pari della
sentenza; al pari delle sentenze, ha l’efficacia del giudicato, ai sensi dell’art. 2909, e può
essere appellata, ai sensi dell’art. 702-quater. Questa ordinanza è appellabile con questa

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caratteristica: che il termine è di trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione,


mentre la sentenza ha un termine lungo e un termine breve. Se la sentenza è notificata,
allora il termine è quello di breve di trenta giorni; se è semplicemente depositata in
cancelleria o semplicemente comunicata alla cancelleria (non vi è una notificazione), il
termine è quello lungo di sei mesi. Il termine lungo non esiste in questi casi, nel senso che il
processo non è stato soltanto sommario in primo grado, ma è a tempi ridotti anche in
relazione al diritto di impugnazione, perché questo è legato a trenta giorni, anche a
prescindere dalla notificazione, perché a questa qui è equiparata la comunicazione (la
notificazione si fa con l’ufficiale giudiziario su incarico della parte; la comunicazione è una
atto d’ufficio, cioè se lo si riceve dal cancelliere). L’appello non può essere risolto nelle forme
del 348-bis, perché vietato dall’art. 702-quater.

CAP.6 - IL PROCEDIMENTO DINANZI AL GIUDICE DI PACE

La figura del Giudice di Pace è stata introdotta a partire dalla L.353/1990 e poi
successivamente dalla L.364/1991, al posto della figura del conciliatore, entrando in vigore il
primo maggio del 1995, e quindi ormai molto tempo fa. Il Giudice di Pace è intanto un
giudice onorario, ossia non ha fatto il concorso in magistratura come tutti i giudici togati, ma
è un magistrato che viene selezionato purché ne abbia i requisiti. La disciplina della
magistratura onoraria è stata recentemente novellata anche dal d.Lgs.116/2017 e ha visto
ridisegnata la figura del magistrato onorario non solo per i suoi compiti o la durata
dell’incarico (4 anni, rinnovabili una sola volta per 4 anni, e quindi un totale di 8), o per
quanto riguarda gli aspetti lavorativi come maternità o malattia, ma soprattutto per l’aspetto
delle competenze. La competenza del giudice di pace è una competenza ridotta e residuale
rispetto a quella generale di un tribunale o di un ufficio giudiziario: il giudice di pace è stato
concepito per procedimenti più snelli perché considerati meno importanti, di minor valore, e
quindi serviva una magistratura che mediante un procedimento più semplice di quello
celebrato davanti al tribunale potesse decidere con maggior celerità.

La competenza del giudice di pace è disciplinata all’interno dell’art.7 c.p.c.: “Il giudice di pace
è competente per le cause relative a beni mobili di valore non superiore a euro 5.000,00
quando dalla legge non sono attribuite alla competenza di un altro giudice.” Si parla di beni
mobili, e quindi anche di somme di denaro. “Il giudice di pace è altresì competente per le
cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti (i sinistri
stradali), purché il valore della controversia non superi euro 20.000,00”. In questi primi due
casi è la materia che ci indica quando andare davanti al giudice di pace, viceversa a volte è il
valore della controversia. La materia prescinde dall’importo che può essere contenuto nella
richiesta dell’attore. È competente qualunque ne sia il valore: 1) per le cause relative ad
apposizione di termini (art.251 c.c.) ed osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai
regolamenti o dagli usi riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi; 2) per le cause
relative alla misura ed alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case; 3) per le cause
relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia

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di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che


superino la normale tollerabilità (art.44 c.c.) ; 3-bis) per le cause relative agli interessi o
accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali. Oltre a queste
materie, vi sono altre stabilite espressamente dalla legge: ci riferiamo alle opposizioni a
sanzioni amministrative, a ordinanze di ingiunzione, ad ordinanze che dispongono la sola
confisca, salvo per le materie che sono attribuite in via specifica al tribunale. Il tutto viene
disciplinato dal d.Lgs.150/2011, che è il decreto che ha semplificato, dividendoli, i vari limiti.
Altra materia è quella dell’opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice
della strada, l’impugnazione dei provvedimenti in materia di registro dei contesti e
l’espulsione di cittadini extra Unione Europea. È il d.Lgs.150/2011, che disciplina tali materie:

 all’art.6 per le sanzioni amministrative;

 all’art.7 per la violazione del codice della strada;

 all’art.12 per le impugnazioni inerenti al registro dei contesti;

 all’art.18 per l’espulsione dei cittadini extra UE.

La competenza del giudice di pace è stata anche recentemente novellata dal


d.Lgs.116/2017: il legislatore ha deciso di ampliare la competenza che noi abbiamo già nel
nostro codice, per cercare di sgravare i tribunali dal carico di contenziosi che tendono ad
aumentare; il procedimento davanti al tribunale è più complesso e regolamentato,
segmentato, mentre spostando la competenza sul giudice di pace si spera di velocizzare l’iter
della giustizia. Sono state quindi introdotte altre materie che prima non spettavano al
giudice di pace ma al tribunale: tale modifica di competenza entrerà in vigore il 31 ottobre
2021. Ai sensi dell’art.27 del d.Lgs.116/2017, sarà così delineata:

 per valore, si parla di beni mobili per valore non superiore ai 30.000 euro, per cui
aumenta notevolmente, perché per ora abbiamo valori di 5.000 euro e quindi il
contenzioso va molto a spostarsi dal tribunale al giudice di pace;

 per la materia, salvo modifiche o cambiamenti, verrà trattata davanti al giudice di


pace la causa che riguarda il pagamento a qualsiasi titolo di somme di denaro di
importo di 50.000 euro; risarcimento di danno derivante dalla circolazione di veicoli o
di natanti per un valore non superiore a 50.000 euro (passando dagli attuali 20.000 ai
50.000); in materia di condominio, si parla di pignoramenti mobiliari, e quindi viene
assegnato per la prima volta al giudice di pace il giudizio di esecuzione; l’usucapione
di beni immobili e diritti reali immobiliari per un valore non superiore ai 30.000 euro;
il riordinamento della proprietà rurale di valore non superiore ai 30.000 euro;
l’accessione se di valore non superiore ai 30.000 euro; le cause attinenti al diritto di
superficie per valore non superiore ai 30.000 euro; le materie di cui al libro III, titolo
II, capo II, sezione VI, ossia distanze tra costruzioni e piantagioni, fossi, siepi, scavi,
fondi, e successiva sezione II cause afferenti lo stillicidio, le acque, specificazione,

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l’occupazione, invenzione, commistione, enfiteusi, esercizio delle servitù prediali,


impugnazioni dei regolamenti e delle delibere di cui agli artt.1107 e 1109, diritti e
obblighi del possessore nella restituzione della cosa e nell’espropriazione forzata di
cose.

Il legislatore ha pensato che, per le cause che riguardano in qualche modo i diritti reali, la
trattazione sarà affidata al giudice di pace. Le disposizioni che riguardano il procedimento
davanti al giudice di pace sono gli artt.311 ss. c.p.c. La procedura è un po' più semplificata
rispetto a quella che noi abbiamo davanti al tribunale, intanto perché in primo luogo la parte
può stare in giudizio in alcuni casi anche personalmente, senza l’assistenza di un legale, ma
solo a determinate condizioni, ossia quando il valore della causa non eccede il 1.100 euro
(art.80 c.p.c.) oppure, anche se superiore a 1.100 euro, qualora la parte abbia presentato
istanza al giudice di pace che lo abbia autorizzato con decreto a stare in giudizio
personalmente, purché compatibile con la natura della identità della causa, oppure nelle
opposizioni alle ordinanze di ingiunzione.

L’atto introduttivo del processo dinanzi al giudice di pace può essere ugualmente un atto di
citazione o un ricorso. L’atto di citazione è un atto scritto attraverso il quale la parte deve
indicare una serie di elementi al giudice affinché egli decida su quella determinata
controversia. La disposizione che espone il contenuto dell’atto di citazione in maniera
generale (riferibile, dunque, anche ai procedimenti dinanzi al giudice di pace) è l’art.163;
esso deve indicare:

1. l’ufficio giudiziale presso il quale viene rivolta la domanda;

2. l’indicazione delle parti, e quindi l’indicazione della parte che attiva la causa, nome,
cognome, residenza, elezione di domicilio dell’attore e dell’avvocato che difende,
luogo dello studio. Il domicilio si elegge nel comune dove ha luogo la circoscrizione
del tribunale e questo perché le segnalazioni che vengono fatte avvengono in quel
luogo: alla fine della causa, la decisione del giudice si conosce mediante la
pubblicazione della sentenza e mediante le comunicazioni che avvengono nel luogo
in cui si elegge domicilio. Inoltre, mentre nel caso del tribunale si deve dichiarare la
PEC, la posta elettronica certificata che tutti gli avvocati devono avere, ebbene la
stessa cosa non si ha nel caso del giudice di pace perché ad oggi, purtroppo, tutti i
procedimenti davanti al giudice di pace non fanno parte del processo civile
telematico. Il processo civile telematico ha modificato le attività processuali poste in
essere dagli avvocati: mentre prima quando si doveva depositare una memoria si
doveva andare fisicamente in tribunale, oggi si può fare telematicamente, con un
apposito programma, la cancelleria riceve una mail e la deposita. Ora, purtroppo, il
giudice di pace non è entrato in questo meccanismo e quindi continua l’attività di
scambio cartaceo della documentazione e di conseguenza, anche quando si arriva
alla sentenza che viene emessa dal giudice e resa pubblica dal cancelliere, l’avvocato
che rappresenta la parte non ha altro modo di conoscerla se non con il biglietto di

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cancelleria. Mentre nel tribunale si accede quindi ad un’area riservata in cui si vede
telematicamente il fascicolo, allo stesso modo non succede nel caso del giudice di
pace. Ovviamente l’indicazione e la presenza dell’avvocato non c’è qualora la parte
sia stata autorizzata a stare in giudizio personalmente. La parte elegge domicilio nel
luogo in cui ha sede l’ufficio del giudice di pace prestabilito, e in mancanza le parti
possono eleggere domicilio o dichiarare residenza anche con dichiarazione ricevuta in
processo verbale al momento della loro costituzione, per cui la si può fare dopo,
perché l’atto di citazione ha un iter diverso: esso infatti è un atto che redige
l’avvocato, lo notifica davanti all’ufficiale giudiziario; dopo la notifica, quando l’atto
ritorna con relata di notifica, è lì che l’ufficio giudiziario conosce che è stata avviata la
causa, in quanto l’avvocato porta l’atto di citazione in cancelleria e chiede l’iscrizione
a ruolo. Il fascicolo dell’ufficio giudiziario si forma quando l’avvocato ha già fatto
l’atto, l’ha firmato, l’ha copiato e si porta con il fascicolo e con i documenti in
cancelleria con l’iscrizione a ruolo dell’attore. Il ricorso è invece completamente
diverso: è l’inverso, in quanto con il ricorso prima si fa l’atto, si sottoscrive, si forma il
fascicolo, si deposita, e quindi il convenuto ancora non sa che l’ufficio giudiziario è
stato attenzionato di quella problematica. Allora il giudice fissa con decreto l’udienza,
si fa copia del ricorso, copia del decreto e la si notifica dopo. Mentre quindi la notifica
nell’atto di citazione precede l’iscrizione a ruolo della causa e l’effettiva iscrizione
davanti all’ufficio giudiziario della lite, con il ricorso prima si deposita il tutto, e poi il
convenuto saprà, sarà edotto e sarà notificato il tutto dopo che il giudice avrà fissato
l’udienza (che nell’atto di citazione è il privato a fissare);

3. si espongono i fatti su cui si basa la domanda, circostanze, ipotesi, e si uniscono


oggetto e conclusioni. Le conclusioni, che sia ricorso o citazione, vanno sempre messi
negli atti introduttivi: è quello che viene chiesto al giudice, il c.d. petitum, la pretesa.

4. si indica il valore della controversia, ai fini non solo dell’inquadramento del


pagamento del contributo previsto dal D.P.R.115/2000 per pagare appunto quel
contributo unificato, ossia la tassazione che hanno tutte le cause, con un quid chiesto
dallo Stato per il servizio di giustizia che andiamo a richiedere, ma anche per capire
se abbiamo fatto bene o meno ad andare dal giudice di pace, in quanto se è una
causa di 80.000 euro si deve andare in tribunale.

5. i mezzi di prova alla base della pretesa.

6. l’udienza di comparizione che nell’atto di citazione viene indicata dall’attore, mentre


nel ricorso si fa solo una richiesta con delle pretese e sarà il giudice a fissare la data
con decreto che sarà notificato con il ricorso al convenuto. Per quanto riguarda anche
l’udienza di comparizione ci sono anche delle regole diverse rispetto al tribunale:
mentre davanti al tribunale tra il giorno della notifica e quello dell’udienza devono
intercorrere 90 giorni, davanti al giudice di pace il termine è dimezzato e si parla di 45
giorni. Ulteriormente sul punto è intervenuta anche una sentenza per quanto

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riguarda le prove, della Corte Costituzionale, ossia la 110/1997, in cui si dice che
l’art.318, che riguarda il contenuto della domanda nell’atto di citazione o ricorso, e
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art.318 co.1 c.p.c. nella parte in cui non
prevede che l'atto introduttivo del giudizio dinanzi al giudice di pace debba contenere
l'indicazione della scrittura privata che l'attore offre in comunicazione. Ad esempio,
se c’è una scrittura privata da allegare a sostegno della pretesa, in quanto la parte ha
un onere probatorio per provare la fondatezza della domanda, in quanto chi instaura
la causa ha tale onere e si può fare sia con prove documentali che sono precedenti
all’instaurazione del processo, ma anche con prove endoprocessuali. È ovvio che la
prova testimoniale, ad esempio, viene assunta durante la causa. Nell’ipotesi di una
scrittura privata la Corte Costituzionale dice che deve essere esibita, perché se l’altra
parte la vuole disconoscere e non la si allega nell’elenco dei documenti, non siamo in
grado di effettuare il disconoscimento che deve essere fatto entro la prima udienza
utile.

L’elemento che differenzia la domanda davanti al giudice di pace rispetto a quella davanti al
tribunale è il fatto di non dover fare alcuni avvertimenti che imporrebbe l’art.163 davanti al
tribunale, in quanto non dobbiamo avvisare il convenuto che se non si costituisce 20 giorni
prima dell’udienza che noi andiamo ad indicare, egli non potrà più chiamare in causa un
terzo, proporre eccezioni processuali di merito non rilevate d’ufficio, solo da una parte, o
eccezioni di incompetenza territoriale (art.38). Non c’è bisogno di tali avvertimenti perché
davanti al giudice di pace la procedura è più snella e meno formale e quindi tutta questa
attività si può fare anche in udienza, mentre davanti al tribunale no, in quanto si deve fare
nella comparsa, nell’atto difensivo del convenuto: l’attore ha atto di citazione e ricorso, il
convenuto ha solo e sempre la comparsa di costituzione e risposta, che è il primo atto del
convenuto. Davanti al giudice di pace abbiamo un margine di tempo in più rispetto al
tribunale. L’ulteriore particolarità rispetto agli atti introduttivi davanti al tribunale è che è
possibile che la parte la faccia verbalmente: se è vero che la causa davanti al giudice di pace
può essere incardinata anche dal cittadino senza l’ausilio dell’avvocato, è altrettanto certo
che bisogna consentire al cittadino degli strumenti per poter attivare tale causa, e quindi
l’art.316 dice che la domanda si può proporre verbalmente. Di essa il giudice fa redigere
processo verbale che, a cura dell’attore, è notificato con citazione a comparire a udienza
fissa. Il cittadino va nell’ufficio del giudice di pace e quest’ultimo fa scrivere tutto quello che
attiene ai fatti, alle richieste del cittadino attore e il processo verbale altro non è che una
citazione redatta davanti al giudice che poi verrà notificata. La stessa cosa può avvenire per il
convenuto che potrà anch’egli costituirsi andando fisicamente all’udienza e ci sarà traccia nel
verbale di udienza, perché tutte le udienze, davanti a qualunque magistrato avvengano,
hanno un verbale in cui si riporta esattamente quello che succede, con le richieste delle
parti, le ordinanze del giudice.

L’art.317 poi, che riguarda la rappresentanza davanti al giudice di pace, dice che davanti al
giudice di pace possono farsi rappresentare da persona munita di mandato scritto in calce

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alla citazione o in atto separato, salvo che il giudice ordini la loro comparizione personale. Il
mandato a rappresentare comprende sempre quello a transigere e a conciliare. Quindi, una
cosa è la procura fatta al legale, all’art.82, per cui l’avvocato va in giudizio con un documento
in cui si dice che egli rappresenta il cliente, mentre diversa è la rappresentanza, per cui ci fa
rappresentante, non va l’attore, ma il proprio rappresentante, e quindi un soggetto diverso
rispetto all’avvocato. Il mandato a rappresentare comprende sempre quello a transigere e a
conciliare, in quanto il giudice di pace per tradizione, per retaggio storico e culturale è anche
un giudice conciliatore, e il procedimento è imperniato su questa peculiarità.

L’attore redige atto di citazione o ricorso, fa avviare la causa. Arriviamo all’udienza: il


convenuto come può entrare in questo processo? Costituendosi, ossia depositando in
cancelleria intanto la citazione o il processo verbale che l’attore ha fatto e poi ha notificato
con la relazione di notifica, cui si aggiunge la procura, a meno che non ci rappresenti da solo,
e presentando i documenti in udienza al giudice. Ci si costituisce con la comparsa di
costituzione in risposta, ossia quel documento mediante il quale la parte convenuta deve
prendere posizione sui fatti posti a fondamento della domanda dell’attore.

La prima udienza segna il termine di decadenza per tutta una serie di attività; si pensi alla
chiamata in causa di un terzo: immaginiamo che la causa debba o possa essere estesa ad
altri soggetti, è possibile che ci sia un litisconsorzio necessario, per cui ci sono più convenuti
(come due comproprietari) o viceversa immaginiamo che ci sia una chiamata in garanzia,
come nel caso di un sinistro con richiesta di risarcimento del danno, per cui si cita il
proprietario del veicolo, però si cita anche il conducente e la macchina è assicurata, e quindi
si chiama l’assicurazione affinché rilevi indenne il convenuto, e quindi paghi al suo posto.
Immaginiamo ancora un eventuale eccezione di incompetenza: davanti al tribunale ci si deve
costituire 20 giorni prima per dire che il tribunale è incompetente, mentre davanti al giudice
di pace si può dire nel corso della prima udienza. Davanti al giudice di pace si può sollevare in
udienza un’eccezione processuale non rilevabile d’ufficio, mentre in tribunale sempre 20
giorni prima. Eccezione di nullità è la prescrizione che non è rilevabile del giudice, perché la
parte deve sollevarla ma può anche decidere di non avvalersi, e se non rilevabile deve farlo
immediatamente. Questo perché se il diritto è prescritto non ha senso stare in causa per
anni se poi la sentenza deve riconoscere che il diritto è prescritto.

Arriviamo davanti al giudice nella prima udienza, l’art.320 dice che il giudice di pace
interroga liberamente le parti e tenta la conciliazione. Da qui si evince quel ruolo di
conciliatore del giudice di pace, di questa figura decisionale. Se la conciliazione riesce le parti
hanno trovato una soluzione, il giudice redige un processo verbale e finisce la causa, e
questo processo verbale ha anche un valore aggiunto, non è solo un documento in cui le
parti dichiarano di aver trovato un accordo, ma ha valore di titolo esecutivo e quindi è come
una sentenza, per cui se uno dei due non rispetta l’accordo raggiunto con il processo
verbale, non si deve tornare davanti al giudice di cognizione, ma si va direttamente davanti
al giudice di esecuzione chiedendo ad esempio il pignoramento. È forte tanto quanto una

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sentenza. Se la conciliazione non riesce, il giudice invita le parti a precisare definitivamente i


fatti che ciascuna pone a fondamento delle domande, difese ed eccezioni, a produrre i
documenti e a richiedere i mezzi di prova da assumere. Quando sia reso necessario dalle
attività svolte dalle parti in prima udienza, il giudice di pace fissa per una sola volta una
nuova udienza per ulteriori produzioni e richieste di prova. Questo perché l’attore avvia la
causa conoscendo i propri documenti, ma non sa che cosa scriverà il convenuto nella sua
comparsa, non sa che documenti potrà richiedere, depositare o allegare alla sua comparsa,
se e quali testimoni potrà invitare per fare la prova testimoniale. È evidente che – cosa che
nella prassi avviene sempre - le memorie ex art.320 vengono sempre richieste e il giudice le
concede sempre perché all’inizio della causa non si può sapere la strategia difensiva
dell’avversario, e quindi parte l’effettivo contraddittorio che garantisce l’equa posizione dei
soggetti coinvolti nel processo. I documenti prodotti dalle parti possono essere inseriti nel
fascicolo di ufficio ed ivi conservati fino alla definizione del giudizio, e questo perché l’attore
fa il suo fascicolo e ci mette l’atto introduttivo con i documenti che devono essere allegati, e
stessa cosa il convenuto, che deve allegare l’atto con cui è stato chiamato in giudizio e i
documenti. I fascicoli delle parti entrano a far parte del fascicolo d’ufficio, che sta nella
cancelleria dell’ufficio giudiziario. È lo strumento del magistrato per conoscere, studiare e
decidere la causa.

Ora, in realtà, l’art.320 dice che viene rinviata la causa un’altra volta; questa dicitura è vera a
metà, in quanto si riferisce al fatto che il giudice può rinviare la prima udienza per i
medesimi incombenti solo una volta, il che significa che all’udienza successiva di fatto si
possono svolgere delle attività senza le decadenze di quella precedente. Per es. se io
convenuto chiedo di chiamare in causa l’assicurazione, cosa che il convenuto può fare alla
prima udienza, è chiaro che la seconda udienza sarà la prima per l’assicurazione, e quindi il
rinvio lo si fa per i medesimi incombenti per quella parte, ma non è che le udienze davanti al
giudice di pace sono due e basta, in quanto poi il giudice (e ricordiamo le memorie di cui
all’art.320) dà le memorie per prendere posizione ed eventualmente fornire mezzi di prova,
in quanto l’attore conosce il contenuto della comparsa solo in udienza, vedendo quello che
ha scritto, chiedendo l’interrogatorio formale che è la prova che mira a raggiungere la
confessione, e si chiederà al 90% dei casi l’assunzione della prova per teste. Cosa succede? Il
giudice fissa l’udienza successiva nella quale deciderà se ammettere le prove che devono
essere assunte nel giudizio, con i relativi documenti, e poi ci saranno una o più udienze per
ascoltare i testimoni. La durata del processo varia a seconda della complessità e della
quantità delle attività processuali che devono essere poste in essere, per cui se il testimone è
uno di conseguenza basta un’udienza, se sono 30 è difficile che ci si riesca in una sola
udienza. Allora ci saranno tutta una serie di rinvii ma sempre per la medesima attività, per
cui si ascoltano i testi sempre redigendo processi verbali.

Il giudice a questo punto ha esaurito la fase istruttoria, e quindi può maturare una decisione
sulla controversia. L’art.321 c.p.c. dice che il giudice di pace, quando ritiene matura la causa
per la decisione, invita le parti a precisare le conclusioni e a discutere la causa. Il giudice

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

invita cioè le parti a prendere una definitiva decisione, a riepilogare quello che è successo
nella discussione, a rinnovare le richieste formulate, e poi trattiene la causa in decisione.
Questa decisione sarà orale. In realtà il giudice di pace può anche concedere dei termini, che
sono quelli dell’art.190 per cui la decisione slitta per il deposito di una memoria
conclusionale e successivamente di una memoria di replica. In queste memorie ogni parte
riepiloga, e quindi la discussione è scritta in questo caso, con un riassunto delle richieste,
delle attività processuali svolte, rinnova, ripropone e precisa ulteriormente le proprie
conclusioni, che non possono essere più modificate rispetto a quanto prospettato nell’atto
introduttivo: la regola è che le domande non possono essere modificate, per cui è quasi una
precisazione. Le richieste, le posizioni delle parti oltre la prima udienza, sono cristallizzate,
immodificabili, e se si fa questo non viene ammesso. Il giudice, quando le parti hanno
precisato le proprie conclusioni, con un termine eventuale per una memoria
conclusiva/conclusionale, allora trattiene la causa in decisione, il che significa che le parti
non andranno più davanti al magistrato, ma il giudice nella sua stanza studierà il fascicolo
d’ufficio e fa la sentenza. Il nostro codice dice che dovrebbe fare questa attività entro trenta
giorni, ma è un termine ordinatorio e non perentorio. Presa la decisione e scritta la sentenza,
il giudice la deposita in cancelleria, rendendola pubblica; il momento del deposito segna il
dies a quo per la decorrenza del termine per impugnare. Poiché davanti al giudice di pace
non c’è la comodità del processo telematico, abbiamo il biglietto di cancelleria, ossia la
comunicazione all’avvocato dell’avvenuto deposito della sentenza. Le cause e le sentenze
hanno una numerazione progressiva data dall’iscrizione al ruolo.

Ovviamente il giudice prende la decisione in base al diritto, in quanto il giudice è soggetto


alla legge, ma può succedere che il giudice renda una sentenza secondo equità nei casi
previsti dall’art.113. Decidere secondo equità significa che il giudice può assumere una
decisione che, seppure non alienante rispetto ai principi fondamentali dell’ordinamento, può
valutare più aspetti, fare un giudizio di ponderazione; questo lo può fare quando il valore
della causa non supera i 1100 euro, ossia quello stesso scaglione di valore previsto per la
possibilità di ogni parte di non farsi assistere dall’avvocato. L’ordinamento dice che non solo
si può andare da soli, ma è possibile anche che si decida secondo equità, specie nel caso di
cause bagatellari, il cui valore è molto basso. L’eccezione è quella del rapporto di consumo,
per cui il contraente è il soggetto più debole. Le sentenze entro questi limiti di valore devono
essere decise secondo equità anche quando il giudice applica una norma di legge o l’oggetto
verte su diritti disponibili e siano le parti a chiedere un giudizio secondo equità. La
particolarità del diritto secondo equità è che il giudice non può decidere, con questo metro di
valutazione, le questioni che sono di carattere processuale e deve comunque rispettare
anche nel decidere secondo equità le norme costituzionali e comunitarie se di rango
superiore a quelle ordinarie. Deve quindi comunque osservare principi regolatori e
informatori della materia applicabili alla fattispecie concreta. Equità non significa derogare al
diritto e avere carta bianca, in quanto sarebbe un abuso di potere da parte del magistrato,
ma significa cercare di adattare i principi dell’ordinamento al caso concreto con il giudizio

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

di ponderazione. Il criterio dell’equità è utilizzato spesso per quanto riguarda la


quantificazione del danno, quando non è facile quantificare l’ammontare del danno, di un
risarcimento, ma lo prevede il codice civile stesso. Questo per cercare di contemperare le
esigenze di giustizia con quelle di praticità.

Le sentenze del giudice di pace possono essere appellate entro i termini ordinari:

 30 giorni dalla notifica della sentenza, e questo perché la parte viene avvisata e se
vuole accelerare i tempi per l’impugnazione, magari con una sentenza favorevole,
con un interesse di arrivare quanto prima alla soddisfazione, anche se dalla sentenza
alla soddisfazione non è un tutt’uno; può accadere che il soccombente adempia
spontaneamente ma se non lo fa si arriva ad un giudizio di esecuzione; dal
perfezionamento della notifica inizia a decorrere il termine;

 qualora non ci sia stata la notifica, che non è obbligatoria, il termine è di sei mesi dal
deposito, ossia da quando il cancelliere mette il timbro “depositato il”; il momento
della pubblicazione è fondamentale: decorsi i sei mesi, se la parte non si attiva, allora
perde il diritto ad impugnare, e quindi la sentenza passa in giudicato e non può
essere toccata.

Per quanto riguarda la competenza, le sentenze del giudice di pace si impugnano davanti al
tribunale, per cui si passa dal giudice onorario al giudice togato, mentre quelle in tribunale
vanno in Corte d’Appello. È una sorta di scala di importanza nel nostro ordinamento degli
uffici giudiziari. Veniamo alla differenza delle impugnazioni:

 per le cause di valore superiori a 1100:

a) se decise secondo diritto l’appello si fa in tribunale;

b) se decise secondo equità, si fa ricorso in Cassazione ex articolo 111;

 per le cause di valore inferiore a 1100, e quindi la parte può stare anche senza
competenza dell’avvocato:

a) ricorso in Cassazione sempre;

b) appello in tribunale, in alternativa, solo per violazione delle norme sul


procedimento, per cui nell’iter processuale c’è stato un error in procedendo, o
per violazione di norme costituzionali o di norme comunitarie o di principi
regolatori della materia, come riconosce l’art.339.

Il legislatore, laddove ha dato più elasticità in primo grado, fa avere delle limitazioni per
quanto riguarda l’appello. Se la sentenza è stata resa secondo equità, il vaglio che deve fare
il giudice dell’appello è molto difficoltoso, in quanto la ponderazione che può fare non è

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

simile a quella del giudice di primo grado. Le sentenze pronunciate secondo equità sono
quelle in cui si rinuncia al diritto ma il tutto si sconta ai fini dell’appello.

Il giudice di pace altro non è che l’evoluzione del conciliatore che avevamo venti anni fa,
ossia un magistrato non togato che doveva cercare di risolvere le controversie attraverso
una mediazione tra le parti. L’art.322 disciplina la conciliazione in sede non contenziosa: si
va dal giudice di pace non investendolo di una causa, ma solo per arrivare ad una
conciliazione, senza il procedimento. Quindi l’istanza per la conciliazione non contenziosa è
proposta anche verbalmente al giudice di pace competente per territorio, per cui succede
che le parti andranno ad esporre al giudice quale sia la problematica che le ha messe in
contrapposizione; il giudice redige sempre un processo verbale, che costituisce titolo
esecutivo a norma dell'art.185 ult.co., come succede nella prima udienza se le parti arrivano
ad un accordo se la controversia rientra nella competenza del giudice di pace. A questo
documento si dà lo stesso titolo della sentenza, arrivando ad attivare il processo esecutivo se
il soccombente non farà quanto previsto. Negli altri casi, ossia quando la causa non
rientrerebbe tra quelle del giudice di pace per materia o per valore, ha valore di scrittura
privata riconosciuta in giudizio, e quindi si dovrà in qualche modo azionare il procedimento
davanti al giudice di pace, ma si ha comunque un documento in cui si dice che un rapporto
c’è.

Ulteriore particolarità è la querela di falso: essa si ha quando all’interno di una causa civile
una parte dice all’altra che il documento prodotto è un falso. Se è proposta querela di falso, il
giudice di pace, quando ritiene il documento impugnato rilevante per la decisione, sospende
il giudizio e rimette le parti davanti al tribunale per il relativo procedimento. Essa è di
competenza esclusiva del tribunale, per cui il giudice di pace non può decidere la questione
afferente la querela di falso. Può anche disporre della norma dell’art.225 co.2 staccando le
questioni: può accadere che in una causa vengano sottoposte all’attenzione del giudice
numerose questioni da decidere in maniera diversa; in questo caso, quando la querela di
falso non abbraccia tutte le questioni, allora in quel caso il giudice può sospendere
preventivamente e mettere le parti davanti al tribunale per la querela di parte o anche
proseguire per ciò che non è bloccato dalla querela. Sulla querela di falso pronuncia sempre
il collegio. Il giudice istruttore può rimettere le parti al collegio per la decisione sulla querela
indipendentemente dal merito. In tal caso, su istanza di parte, può disporre che la
trattazione della causa continui davanti a sé relativamente a quelle domande che possono
essere decise indipendentemente dal documento impugnato. Se la querela di falso blocca
l’analisi del merito il giudice deve sospendere e rimettere le parti davanti al tribunale,
mentre qualora la decisione sulla querela non riguardi tutto il merito, allora il giudizio può
proseguire fermo restando il congelamento, la sospensione delle questioni legate alla
querela.

Ulteriore smembramento può accadere nell’ipotesi della domanda riconvenzionale. Essa è


una di quelle cose da fare davanti al tribunale nei venti giorni prima dell’udienza, mentre

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davanti al giudice di pace si può fare nel corso della prima udienza. È la domanda che il
convenuto fa ed è qualcosa di ulteriore rispetto alla comparsa, in cui lui si difende, per cui
egli diventa attore. Se la riconvenzionale per materia o per valore non rientra nella
competenza di un giudice di pace, il giudice di pace può separare le questioni, trattenendo la
causa relativa alla questione presente nell’atto di citazione, mentre rimette la domanda
riconvenzionale davanti al tribunale in modo tale che così ogni giudice decide ovviamente in
base alla propria competenza.

CAP.7 - MEDIAZIONE E NEGOZIAZIONE ASSISTITA

Il nostro ordinamento prevede che le parti possano anche fare un percorso diverso,
alternativo rispetto all’instaurazione di una causa, come ad es. rivolgersi ad un organismo di
mediazione, fare un procedimento di negoziazione assistita o una conciliazione; questo al
fine di deflazionare il carico del giudice. In alcuni casi questi metodi alternativi sono
presupposti per poter agire in giudizio.

La negoziazione assistita è stata introdotta con d.l.132/2014, convertito in l.162/2014. È


successiva alla mediazione e ha rivoluzionato l’attività che precede alcuni tipi di cause. È
esperibile solo per controversie che riguardano i diritti disponibili; in alcuni casi è
obbligatoria (per es. nelle cause che riguardano il risarcimento danni derivante da
circolazione di veicoli; il pagamento di somme al di sotto dei 50.000 euro; i contratti di
trasporto e subtrasporto). La negoziazione assistita può essere non attuata nell’ipotesi di
procedimenti sommari o in materia di consulenza tecnica, perché sono casi in cui si procede
più celermente. La negoziazione assistita è un percorso – obbligatorio o facoltativo – attuato
dalle parti e consiste in un’attività di tentativo di composizione bonaria della controversia.
Essa comincia con un invito alla negoziazione, consistente in una lettera che la parte invia
alla propria controparte, nella quale si espongono i fatti oggetto della controversia,
l’avvertimento che la mancata risposta all’invito entro 30 gg dalla ricezione equivale al
rifiuto, e che tale rifiuto può essere valutato dal giudice. Questa lettera viene firmata
personalmente dalla parte e dall’avvocato, che certifica la firma del proprio cliente. A questo
punto la controparte riceve la comunicazione, che dev’essere inviata in modo tale che ci sia
la certezza della ricezione, ovvero con raccomandata con ricevuta di ritorno oppure con PEC.
La data certa di ricezione è importantissima perché la negoziazione interrompe la
prescrizione del diritto oggetto della controversia, che ricomincerà a decorrere o una volta
trascorsi i 30 gg oppure, se si instaura il procedimento di negoziazione, alla chiusura dello
stesso se ha esito negativo; inoltre impedisce la decadenza, se c’è un termine, ma questo
impedimento può durare soltanto per una volta. La particolarità della negoziazione è che
essa parte sempre dall’avvocato difensore della parte. La raccomandata non si manda
all’altro avvocato, ma va mandata alla parte personalmente, perché è un atto stragiudiziale.

A questo punto o il destinatario non aderisce all’invito (e può farlo o non rispondendo entro i
30 gg oppure rispondendo negativamente) oppure, in senso positivo, risponde di voler

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cominciare il percorso di composizione bonaria della controversia. In caso di rifiuto o


mancata adesione all’invito, questo atteggiamento della parte potrà essere valutato dal
giudice nel successivo giudizio, per es. per la decisione delle spese di giustizia. Se non
aderisce dopo i 30 gg o se rifiuta, si può subito azionare la causa. Il mancato esperimento
della negoziazione, nelle materie in cui essa è obbligatoria, è causa della improcedibilità
della causa.

Nell’ipotesi in cui la parte aderisca all’invito fa a sua volta una dichiarazione firmata e
certificata come autentica dal proprio avvocato; anche qui è fondamentale la presenza
dell’avvocato. È evidente che le parti, in questo tipo di procedura, vogliono mettersi a
tavolino e discutere. È una procedura regolamentata solo nelle fasi iniziali, ma poi l’iter vero
e proprio non è cadenzato in particolar modo. In questa ipotesi positiva di adesione, gli
avvocati delle parti predispongono una convenzione di negoziazione, ovvero un contratto
con cui le parti si obbligano reciprocamente a negoziare la controversia: non siamo ancora
nell’accordo, ma è un impegno che le parti si assumono di cercare una soluzione alla loro
lite. Il procedimento di negoziazione si articola quindi in due fasi:

1)nella prima si predispone una convenzione, che viene firmata dalle parti e
sottoscritta dagli avvocati. La convenzione deve avere nel proprio contenuto un
termine, entro il quale si deve concludere la procedura, che non può essere
superiore a 30 mesi, prorogabili di ulteriori 30 gg. Inoltre bisogna indicare il
contenuto della controversia, delimitando l’oggetto della trattativa. Essendo
sottoscritta dalle parti e certificata dagli avvocati, la convenzione deve avere
comunque una forma scritta a pena di nullità. Le dichiarazioni rese e le
informazioni acquisite tra le parti non potranno essere utilizzate in un successivo
giudizio, e gli avvocati e coloro che partecipano al procedimento non possono
essere obbligati a deporre sul loro contenuto. Questo per essere sicuri che le parti
siano libere di interfacciarsi completamente nella procedura di negoziazione (e la
stessa cosa avviene in mediazione).

2) Per questi tre mesi le parti si incontreranno per fare trattative – di cui
decideranno a seconda dei casi il contenuto e le modalità -; se effettivamente si
raggiunge l’accordo, ci sarà un ulteriore atto che chiude la negoziazione e va a
definire in via bonaria la controversia. Questo accordo verrà redatto dagli
avvocati e sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che li assistono, che ne devono
certificare l’autenticità della sottoscrizione. La particolarità è che questo contratto
ha efficacia di titolo esecutivo: se non viene osservato il contenuto dell’accordo,
l’altra parte potrà direttamente agire in esecuzione. La ratio è che, con la
negoziazione assistita, si ottiene anche un vaglio per l’accordo da parte degli
avvocati, che quando sottoscrivono l’accordo attestano che esso non è contrario
alle norme imperative e norme di ordine pubblico. La presenza dell’avvocato non
ha solo funzione certificativa e di assistenza, ma anche di vaglio sull’accordo

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

concluso dalle parti. Ovviamente ciò non toglie che esso possa essere impugnato,
ma non per queste circostanze. L’agevolazione che il legislatore ha dato alla
negoziazione è che le parti che raggiungono un accordo, anche parziale, hanno
un’agevolazione sul compenso di risposta degli avvocati. Viceversa, qualora le
parti comincino la negoziazione senza trovare un accordo, se ne darà atto in
forma scritta o si lasceranno trascorrere i tre mesi senza nessun esito.

Nei casi in cui la mediazione è obbligatoria, cosa succede se le parti non la fanno? In questo
caso, il mancato step della negoziazione dev’essere eccepito in giudizio dal convenuto o può
essere rilevato d’ufficio dal giudice entro e non oltre la prima udienza. Il giudice fisserà
un’altra udienza, fissando un termine di 15 gg per le parti per fissare l’inizio della
negoziazione. Se invece si rileva che la negoziazione è iniziata ma non si è conclusa, fisserà
questa udienza dopo la scadenza del termine fissato dalle parti nella convenzione di
negoziazione. Nell’ipotesi di improcedibilità, cioè quando non si esperisca la negoziazione
nemmeno dopo l’ordinanza del giudice, il giudice emetterà un’udienza di improcedibilità. La
convenzione di negoziazione è uno strumento che ha qualcosa in più rispetto alle trattative
che gli avvocati fanno sempre quando un cliente gli si rivolge.

La negoziazione può essere ulteriormente utilizzata in materia di divorzio e separazione, il


che è stato un notevole vantaggio per lo snellimento delle attività giudiziarie. In questo caso
la convenzione di negoziazione avviene tra coniugi che vogliono separarsi, sciogliere il
matrimonio, modificare le condizioni di separazione o divorzio già avvenuti ma senza andare
dal giudice. L’iter è un po’ diverso a seconda che abbiano figli minori, portatori di handicap o
non autosufficienti economicamente: se non ci sono figli di queste categorie, l’accordo
raggiunto a seguito della convenzione è trasmesso al PM del tribunale competente per
territorio, il quale comunica agli avvocati il nullaosta per gli adempimenti, se non ne ravvisa
l’irregolarità. Quindi oltre al vaglio degli avvocati, sempre presente in qualunque
convenzione di negoziazione, c’è anche un ulteriore vaglio del PM. Se però ci sono figli
minori o delle altre categorie di cui sopra, il PM rilascia un’autorizzazione, ovvero un
provvedimento espresso di conformità degli accordi. Qualora invece ritenga che questo
accordo non risponde agli interessi dei figli – che è lo scopo primario dell’accordo – allora il
PM trasmette entro 5 gg al Presidente del Tribunale, che fissa entro altri 30 gg un’udienza di
comparizione dei coniugi, per procedere e valutare la situazione al fine di cercare di
correggere le irregolarità dell’accordo di negoziazione. Nell’ipotesi in cui invece l’accordo
abbia ricevuto il nullaosta o l’autorizzazione del PM, l’avvocato deve trasmettere all’ufficio di
Stato Civile del comune in cui il matrimonio fu trascritto l’accordo stesso, munito di
certificazione dell’avvocato che attesta l’autografia della firma delle parti. La particolarità
della negoziazione assistita in materia di famiglia è che, mentre negli altri casi è possibile che
entrambe le parti che si trovano in contrapposizione siano assistite dallo stesso avvocato, in
questo caso la mancanza dell’assistenza di un avvocato per entrambi non è consentita. Ciò
non è vietato espressamente dalla legge, ma da un punto di vista pratico il CNF ha indicato
che è più opportuno, perché si possono creare situazioni di conflitto che un unico avvocato

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non può risolvere. Questa regola non vale in caso di separazione consensuale di fronte al
giudice, perché il vaglio verrà effettuato dal giudice stesso.

La mediazione è diversa rispetto alla negoziazione, perché vede la partecipazione di un


soggetto terzo ed imparziale: il mediatore, che dirige la procedura. La disciplina si trova nel
d.lgs.28/2010 successivamente modificato con Decreto Ministeriale 139/2014. In alcuni casi,
come la negoziazione, è obbligatoria mentre in altri è facoltativa; un altro punto di contatto
è che è prevista solo per diritti disponibili di ambito civile o commerciale. È obbligatoria per
controversie riguardanti condominio, diritti reali, divisione, successione ereditaria, patti di
famiglia, locazione, comodato, affitti d’azienda, risarcimento danno da responsabilità medica
o sanitaria, risarcimento danno per diffamazione a mezzo stampa, contratti assicurativi e
bancari. Quando si verte su queste materie, la parte può anche fare una domanda di
mediazione che riguardi ulteriori materie, perché magari possono sussistere tra le parti più
questioni contestualmente. Nella mediazione è prevista l’assistenza dell’avvocato, che ha
degli stringenti obblighi deontologici: quello di informare il suo cliente, in forma scritta, che
può esperire il procedimento di mediazione (o che è obbligatorio in certe materie), e che il
procedimento è improcedibile senza questo iter stragiudiziale. La stessa informativa
dev’essere data anche per la negoziazione.

I mediatori sono quelli iscritti nell’elenco degli organismi di mediazione accreditati presso il
Ministero della Giustizia; tutti gli avvocati sono, di diritto, mediatori, mentre altri possono
formarsi da esterni attraverso corsi. C’è un obbligo di aggiornamento biennale che il
legislatore impone per mantenere “allenato” il mediatore, per garantire quanto più possibile
la sua idoneità professionale.

La procedura si attiva con un’istanza all’organismo di mediazione, ovvero una domanda


nella quale la parte deve indicare i suoi dati, la controversia insorta e magari allegare dei
documenti che aiutino il mediatore a capire e conoscere la controversia. L’organismo di
mediazione nomina allora un mediatore, fissando altresì la data del primo incontro di
mediazione. Il procedimento non ha nessuna particolare formalità, e comunque deve durare
tre mesi dalla data di deposito dell’istanza di mediazione; si tratta però di un termine
derogabile dalle parti, nel senso di prorogabile a discrezione delle parti (non di 30 gg come
nella negoziazione). Le attività di negoziazione e mediazione non vanno in sospensione dei
termini nel mese di agosto, essendo attività stragiudiziale. Effettuato il deposito e nominato
il mediatore, si dà comunicazione con mezzo idoneo alla controparte: dal momento della
comunicazione alla controparte, così come avveniva all’invito nella negoziazione, si
interrompe la prescrizione e si impedisce la decadenza, anche qui per una sola volta affinché
la mediazione non possa diventare uno strumento dilatorio. Si ha quindi il primo incontro, o
incontro preliminare, durante il quale il mediatore si presenta esponendo i suoi doveri nei
confronti delle parti e spiegando come funziona il procedimento di mediazione; spiegherà
che diventerà incompatibile con il ruolo di avvocato di una delle due parti, per es., o che non
potrà avere alcun tipo di contatto con le parti (i contatti si mantengono con l’organismo di

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mediazione e non col mediatore) al fine di farlo rimanere quanto più imparziale possibile.
L’imparzialità non solo ci dev’essere di fatto, ma dev’essere espressamente dichiarata dal
mediatore nel momento in cui si assume l’incarico; l’incarico viene peraltro meno se, in
corso della mediazione, subentra imparzialità. Il mediatore ha obbligo di segretezza e
mediatezza sia all’interno che all’esterno della mediazione: potrà quindi rivelare ad una
parte durante gli incontri di mediazione quello che ha prodotto o quello che ha riferito l’altra
parte solo se è autorizzato. Questo perché in mediazione emergono gli interessi sottesi alla
mediazione, quegli aspetti nascosti che riguardano ad es. i rapporti personali, che in giudizio
non emergeranno mai perché spesso non ci sono neanche le parti, bensì gli avvocati. Spesso
quindi le sessioni separate con le parti fanno capire al mediatore tutte le problematiche
sottese al procedimento medesimo. L’obbligo di riservatezza e segretezza opera anche
all’esterno: il mediatore quindi non può essere, ad es., chiamato a testimoniare (come non
può esserlo l’avvocato nella negoziazione). Questo garantisce alle parti la possibilità di
potersi esprimere con libertà, al fine di agevolare l’esperimento di queste procedure. Il
mediatore può persino nominare degli ausiliari, per esempio consulenti tecnici (si pensi per
es. ad un caso di divisione di eredità: si nomina un perito estimatore), il cui costo sarà a
carico delle parti, come il resto del procedimento di mediazione.

Può succedere che: 1) o la parte dopo il primo incontro decide di non entrare in mediazione;
2) o, non essendo obbligatoria la partecipazione, la parte non si presenti nemmeno al primo
incontro. Se la parte invitata non partecipa al primo incontro senza giustificato motivo, il
giudice potrà desumere da questa assenza elementi di prova; se invece partecipa ma non
entra in mediazione, il giudice deve condannare la parte costituita che non ha partecipato
alla mediazione al versamento di una somma di denaro che corrisponde all’importo del
contributo unificato di iscrizione al ruolo, ovvero la spesa che la parte sopporta quando
instaura un procedimento giudiziario (anche qualora per es. risulti vincente in giudizio).

Durante il primo incontro, dopo aver esposto i suoi doveri ed obblighi, il mediatore chiede
alle parti se vogliono entrare in mediazione o no, e redige un verbale con la decisione delle
parti. Se a seguito della mediazione le parti raggiungono un accordo e sanano il conflitto,
nel verbale si attesterà che si è raggiunto l’accordo, ed esso verrà sottoscritto dalle parti,
dagli avvocati e dal mediatore. L’accordo non è nel verbale ma è un atto separato, che le
parti vanno a concludere grazie all’intervento del mediatore, ma verrà poi allegato al
verbale. Questo accordo ha la stessa forza dell’accordo di negoziazione, perché è titolo
esecutivo; questo solo qualora le parti aderenti siano state assistite dall’avvocato perché è
l’avvocato che attesta, nell’accordo, che lo stesso non è contrario a norme imperative e
all’ordine pubblico. Quando le parti invece non siano assistite, è necessaria l’omologa da
parte del Presidente del Tribunale, perché appunto è mancato il vaglio degli avvocati; il
Presidente del Tribunale, con decreto, può disporre o negare l’omologa – non essendo
ammessa l’omologa parziale dell’accordo -, e se nega trasmette il decreto all’organismo di
mediazione perché ne prenda visione. In caso di diniego, è possibile proporre reclamo in
Corte d’Appello.

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

La mediazione può concludersi anche con esito negativo, non raggiungendo l’accordo: a
questo punto il mediatore dà atto nel verbale dell’esito negativo, e può addirittura
succedere che, su propria iniziativa o qualora entrambe le parti lo richiedano, il mediatore
può formulare una proposta di mediazione. Questo significa che, se le parti raggiungono una
situazione di stallo, non smuovendosi dalle proprie posizioni, il mediatore può effettuare una
proposta di mediazione che deve avvenire per iscritto in un nuovo incontro di mediazione.
Prima di formulare la proposta, il mediatore deve informare le parti circa i rischi di questa
proposta: infatti, nel caso in cui la proposta venga rifiutata ma corrisponda successivamente
all’intero contenuto del provvedimento che definisce il giudizio, la parte che rifiuta paga le
spese di soccombenza. Se la sentenza corrisponde alla proposta, essendosi rivelata l’attività
giudiziale inutile, se la parte che ha vinto ha rifiutato la proposta corrispondente alla
sentenza paga comunque le spese che spetterebbero al soccombente (secondo il principio di
soccombenza che regge tutto il diritto processuale). Questo perché tutta la causa non ci
sarebbe stata se il vittorioso avesse accettato la proposta di mediazione, quindi si vuole
“punire” questo comportamento di rifiuto di una proposta del mediatore che si è rivelata
logica, fondata e legittima.

Il problema della mediazione ha riguardato i costi: era partita come a pagamento; c’è stata
poi una sentenza del TAR che l’ha ritenuta gratuita perché si è ritenuto che non si potesse
mettere a pagamento una condizione di procedibilità, per poi in secondo grado in Consiglio
di Stato ritrattare e tornare al pagamento di 40 o 80 euro a seconda del valore della
controversia. Questo perché spesso gli organismi di mediazione sono privati e hanno delle
spese che vanno sopportate.

Dopo la proposta del mediatore, le parti hanno 7 gg per comunicare l’accettazione o il


rifiuto; non è possibile un’accettazione parziale. Nel caso di rifiuto, esso dev’essere
comunicato espressamente, o in caso di silenzio esso vale come dissenso. Il mediatore
redigerà anche qui un verbale, dando esito negativo della proposta, e il verbale verrà
sottoscritto dalle parti e dal mediatore. Il verbale viene depositato presso la segreteria
dell’organismo di mediazione e rilasciato alla parte che ne richiede la copia.

Nel caso in cui non vi sia stata mediazione obbligatoria antecedente alla causa, il mancato
esperimento della mediazione obbligatoria va eccepito dal convenuto o rilevato d’ufficio dal
giudice entro la prima udienza. Il giudice fisserà una nuova udienza, successiva allo scadere
dei 3 mesi, ed assegna alle parti un termine di 15 gg per avviare il procedimento di
mediazione. Può succedere poi che le parti abbiano avviato la causa e, fra l’avvio e la prima
udienza, abbiano avviato il processo di mediazione; in questo caso il giudice, dato che la
mediazione non si è conclusa, rinvia l’udienza osservando il termine dei 3 mesi per la
mediazione, rinviando la fissazione della data dell’udienza. Se le parti avviano questa
conciliazione e raggiungono effettivamente l’accordo, il giudice dichiara con sentenza la
cessazione della materia del contendere: è un provvedimento nel rito (non nel merito),
perché il giudice non entra nel vivo della questione. Può succedere altresì che su certe cose

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Irene Varrasi – A.A. 2018-2019

si sia raggiunto l’accordo e su altre no: per le prime si dichiarerà la cessazione della materia
del contendere, mentre per il resto si proseguirà il giudizio.

La mediazione può essere anche facoltativa, cioè derivante dalla libera scelta delle parti o al
momento di inizio del conflitto o addirittura come clausola contrattuale, quindi prima del
sorgere del conflitto stesso. Se la parte vincolata dalla clausola promuove comunque il
giudizio, l’altra parte può eccepire il mancato esperimento della mediazione; non si ha però
la rilevabilità d’ufficio, anche se la mediazione era stata fissata in via contrattuale, perché
non è obbligatoria. Ciò che cambia rispetto alla mediazione obbligatoria è che: 1) non è
obbligatoria l’assistenza dell’avvocato; 2) non è ovviamente condizione di procedibilità; 3) le
conseguenze derivanti dalla corrispondenza della proposta rifiutata alla successiva sentenza
non ci sono, quindi non ci sarà obbligo di informazione delle parti da parte del mediatore; 4)
il giudice non assumerà argomenti di prova dalla mancata adesione al primo incontro.

Ulteriore ipotesi di mediazione è quella delegata, ovvero l’ipotesi in cui il giudice stesso
disponga la mediazione per le parti, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il
comportamento delle parti, ritenendo che esse possano raggiungere l’accordo in via
stragiudiziale. Dal momento in cui il giudice dispone la mediazione, essa diventa condizione
di procedibilità. Può essere disposta fino all’ultima udienza di precisazione, e anche se è
stato addirittura concluso negativamente un precedente procedimento di mediazione. In
questo caso la causa proseguirà fissando un termine in là nel tempo per dare la possibilità
alle parti di effettuare il procedimento di mediazione. Può essere anche delegata in sede
d’Appello e, se non viene esperita, diventa improcedibile in Appello e la sentenza passa in
giudicato.

Infine la conciliazione è un altro metodo di risoluzione alternativa delle controversie e può


essere giudiziale o, di regola, stragiudiziale. Il tentativo obbligatorio di conciliazione c’era
prima in materia di lavoro, ora è solo limitato ad alcuni casi di licenziamento, oppure per
controversie in materia di subfornitura e di contratti agrari. Si può svolgere davanti a vari
enti, per es. le Camere di Commercio. L’iter è molto simile a quello della mediazione: la parte
interessata avvia la procedura, l’ente nomina il conciliatore (che è tenuto agli obblighi di
riservatezza e segretezza), e se la conciliazione ha successo il conciliatore redige l’accordo
che prende il nome di verbale di conciliazione, ed equivale ad un vero e proprio contratto,
mentre in caso di esito negativo redige un verbale che dà atto dell’esito negativo. Esiste un
tipo di conciliazione detto conciliazione giudiziale (art.185 c.p.c.): è possibile attuale un
percorso di conciliazione davanti al giudice, nel quale è possibile farsi rappresentare da
qualcuno che abbia procura e conoscenza effettiva dei fatti. Nell’ipotesi del 185-bis
addirittura il giudice può fare la proposta di conciliazione.

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