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Sistemi giuridici comparati

Varano Barsotti La tradizione giuridica occidentale

INDICE
pag.
Premessa alla sesta edizione XIX
Premessa alla prima edizione XXI
CAPITOLO I
INTRODUZIONE AL DIRITTO COMPARATO
1. L’evoluzione del diritto comparato e del suo insegnamento 1
2. Natura del diritto comparato 6
Diritto comparato e diritto positivo 6
Diritto comparato e diritto straniero 9
Rapporti fra diritto comparato e altri rami della scienza giuridica 9
3. Funzioni e fini del diritto comparato 10
Diritto comparato e conoscenza 10
Diritto comparato e universalità della scienza giuridica 12
Diritto comparato e comprensione 13
Diritto comparato e comunicazione 14
Diritto comparato e politica legislativa 15
Diritto comparato e interpretazione del diritto nazionale: un dialogo
tra corti? 17
Diritto comparato, globalizzazione e armonizzazione del diritto 22
4. La varietà dei diritti positivi 29
Forme e manifestazioni della varietà 30
Fattori di avvicinamento 33
5. Comparazione giuridica e classificazioni: le famiglie giuridiche 34
Il carattere relativo di ogni classificazione 36
Le classificazioni proposte 37
Qualche riflessione conclusiva sul tema delle classificazioni 42
VI Indice
pag.
APPENDICE I
1 THE COMMISSION ON EUROPEAN CONTRACT LAW, CHAIRMAN: O.
LANDO, Principles of European Contract Law, Parts I and II, Combined
and Revised. Art. 1:101, in Europa e diritto privato, n. 2, 2000,
p. 249 ss. 45
2 UNIDROIT, Principi Unidroit dei contratti commerciali internazionali.
Preambolo, Milano, Giuffrè, 2011 46
3 Court of Appeal, The Square Mile Partnership Ltd v. Fitzmaurice
McCall Ltd [2006] EWCA Civ 1690  I, 3 47
4 ALI/UNIDROIT, Principles of Transnational Civil Procedure (2004).
Indice. Principles 1, 3-5, 7, 9, 10, 14, 16. Da A LI/UNIDROIT, Principles
of Transnational Civil Procedure, As Adopted and Promulgated
by the American Law Institute (May 2004) and by the International
Institute for the Unification of Private Law (April 2004), Cambridge,
Cambridge University Press, 2006  I, 4 49
5 R. SACCO, Introduzione al diritto comparato, Torino, UTET, 1992,
pp. 3-5, 10-14, 16-18 53
6 «Le Tesi di Trento». Da A. GAMBARO, P.G. MONATERI, R. SACCO,
voce Comparazione giuridica, in Digesto IV, sezione civile, vol. III, Torino,
UTET, 1988, p. 48 ss. 57
7 M. CAPPELLETTI, Metodo e finalità degli studi comparativi sulla giustizia.
Da M. CAPPELLETTI, Dimensioni della giustizia nella società
contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 11 ss. 58
8 V. DENTI, Diritto comparato e scienza del processo, in Riv. dir. proc.,
vol. XXXIV (1979), pp. 336-337 60
9 M. TARUFFO, Il processo civile di “civil law” e di “common law”:
aspetti fondamentali, in Foro it., 2001, V, cc. 345-346 61
a G. GORLA, voce Diritto comparato e straniero, in Enciclopedia Giuridica
Treccani, vol. XI, 1988, pp. 2-5 63
b R. DAVID, C. JAUFFRET-SPINOSI, I grandi sistemi giuridici contemporanei,
Padova, Cedam, 2004, pp. 2-3, 15 65
c K. ZWEIGERT, H. KÖTZ, Introduzione al diritto comparato. Volume I:
Principi fondamentali, Milano, Giuffrè, 1998, pp. 17-18 66
d U. MATTEI, T. RUSKOLA, A. GIDI, Schlesinger’s Comparative Law, 7th
ed., New York, Thomson-Foundation Press, 2009, pp. 7, 48-50 
I, 13 67
e Corte Suprema di Cassazione, sez. I civile, 16 ottobre 2007, n. 21748,
in Giust. civ., 2007, 11, 2366 69
f Corte costituzionale, 7 marzo 2017, n. 123, in Foro it., 2017, I, 2180 74
Indice
VII
pag.
g House of Lords, White v. Jones, [1995] 1 All E.R. 691 [HL]. Da G.
AJANI, P.G. MONATERI, Casi e materiali di diritto comparato, Torino,
Giappichelli, 2001, p. 332 ss.  I, 16 79
h Corte costituzionale ungherese, sentenza n. 48/1998 (XI. 23.) Da
Alkotmánybírósági Határozatok 1998, Budapest, Magyar Hivatalos
Közlönykiadó, 1999, pp. 333-371 83
i Corte Suprema degli Stati Uniti, Muller v. State of Oregon, 208 U.S.
412 (1908)  I, 18 90
j Corte Suprema del New Jersey, Greenspan v. Slate (1953), 12 N.J.
426, 97 A. 2d. 390. Da R.B. SCHLESINGER et al., Comparative Law,
6th ed., New York, Foundation Press, 1998, p. 3  I, 19 93
k Corte Federale d’Appello, II Circuito, United States v. Then, 55 F.
3rd 464, 466 (2nd Cir. 1995), opinione concorrente del giudice Calabresi
 I, 20 94
l Corte Suprema degli Stati Uniti, Lawrence v. Texas, 539 U.S. 558
(2003) 95
m 108th Congress, 2nd Session, House of Representatives, 17 marzo 2004,
Risoluzione 568. Da http://thomas.loc.gov  I, 22 101
n A. WATSON, A proposito di “legal transplants”. Da R.B. SCHLESINGER
et al., Comparative Law, 6th ed., New York, Foundation Press,
1998, pp. 13-14  I, 23 104
o Riduzione grafica della tripartizione non eurocentrica dei sistemi
giuridici. Da U. MATTEI, Verso una tripartizione non eurocentrica dei
sistemi giuridici, in AA.VV., Scintillae Iuris. Studi in memoria di Gino
Gorla, I, Milano, Giuffrè, 1994, p. 775 ss., p. 797 105
CAPITOLO II
LA TRADIZIONE DI CIVIL LAW
Sezione I. LE ORIGINI
1.1. La formazione storica 108
Il diritto, e la sua crisi, nei secoli VI-XI 108
Il rinascimento giuridico 109
Il ruolo e la struttura delle università 111
Le scuole di giuristi fiorite nelle università 112
1.2. Il fenomeno della recezione 117
Le consuetudini e il loro ruolo nella diffusione del diritto romano 118
La legislazione e il suo ruolo nella diffusione del diritto romano 118
La giurisprudenza e il suo ruolo nella diffusione del diritto romano 119
1.3. Premesse storiche della codificazione 120
VIII Indice
pag.
Sezione II. L’EPOCA DELLE CODIFICAZIONI
2.1. Premessa 124
2.2. Il Code civil des Français del 1804 124
Alle radici del Code 125
La Rivoluzione e il droit intermédiaire 126
L’impulso di Napoleone alla codificazione 127
Stile e struttura del Code 128
Il processo di adeguamento del Code: l’opera del legislatore 130
La diffusione del modello Code civil 134
2.3. L’Allgemeines Landrecht prussiano del 1794 (ALR) 135
2.4. Il codice civile austriaco del 1811 (Allgemeines bürgerliches Gesetzbuch
für die deutschen Erblande, ABGB) 137
2.5. Il codice civile tedesco del 1900 (Bürgerliches Gesetzbuch, BGB) 140
Premessa 140
La «scienza giuridica»: la Scuola storica e la Pandettistica 140
Il processo di codificazione. Struttura del BGB 143
Filosofia del BGB 144
L’evoluzione del diritto tedesco dopo la codificazione 146
La diffusione del modello BGB 149
2.6. Il codice civile svizzero del 1912 (Zivilgesetzbuch, ZGB) 149
Premessa 149
La codificazione svizzera 150
Struttura e caratteristiche dello ZGB 151
Successo e diffusione dello ZGB 152
2.7. Le codificazioni italiane 153
Il codice del 1865 153
Il codice del 1942 155
Sezione III. LE FONTI DEL DIRITTO
3.1. Premessa. La nozione di norma giuridica 161
3.2. La gerarchia delle fonti 162
3.3. Le costituzioni 163
Le procedure di revisione 164
Il controllo di costituzionalità delle leggi 164
3.4. Il diritto dell’Unione europea 168
3.5. Il diritto internazionale e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo
171
3.6. Le leggi 172
3.7. I regolamenti 173
3.8. Le consuetudini 174
Indice
IX
pag.
3.9. L’organizzazione giudiziaria e il ruolo della giurisprudenza 174
L’organizzazione giudiziaria 174
Il ruolo della giurisprudenza nel sistema delle fonti 177
3.10. Il ruolo della dottrina 180
Sezione IV. I SISTEMI GIURIDICI DELL’EUROPA ORIENTALE
4.1. L’Europa orientale: un’area geografica o una famiglia giuridica? 182
Premessa 182
Quale Europa orientale? 183
Suddivisione interna 184
4.2. Cenni di storia del diritto 185
Premessa 185
Le origini 185
Le prime codificazioni 186
Il diritto socialista 188
4.3. L’eredità del sistema socialista. Le peculiarità dei sistemi giuridici
est-europei 190
Premessa 190
La transizione democratica 191
Tracce del periodo socialista nel diritto dei paesi est-europei 192
4.4. Le fonti del diritto 194
Premessa 194
Le costituzioni 194
Il diritto europeo 197
Le leggi 197
4.5. L’organizzazione giudiziaria e il ruolo della giurisprudenza 199
4.6. Il ruolo della dottrina 200
APPENDICE II
1 Ordonnance de Montils les Tours (1454). Da A. C ANNATA, A. GAMBARO,
Lineamenti di storia della giurisprudenza europea, vol. II, Dal
Medioevo all’epoca contemporanea, Torino, Giappichelli, 1984, pp.
123-124  II, 1 202
2 Code civil (1804). Indice. Da http://gallica.bnf.fr 203
3 Il ruolo della giurisprudenza nella tradizione di civil law. Il caso francese 212
Code civil (1804). Artt. 1382-1386. Da Code civil, 93a ed., Paris, Dalloz,
1993  II, 3 212
Grange c. Compagnie Générale Transatlantique. Cour de cassation,
Chambre des requêtes, 30 Mars 1897. Da D. 1897.I.433 212
X Indice
pag.
Goffin c. Compagnie des Mines de Béthune, Cour de cassation,
Chambre des requêtes, 22 Mars 1911. Da D. 1911.I.354 213
Chemins de Fer de L’Ouest c. Marcault, Cour de cassation,
Chambre Civile, 21 Janvier 1919. Da D. 1922.I.25 214
Bessières c. Compagnie des Voitures L’Abeille, Cour de cassation,
Chambre Civile, 21 Juillet 1924. Da D. 1925.I.5 215
Jand’heur c. Les Galeries Belfortaises, Cour de cassation, Chambres
Réunies, 13 Février 1930. Da D. 1930.I.57 216
4 Allgemeines bürgerliches Gesetzbuch für die deutschen Erblande
(1811). Indice. Da Collezione completa dei moderni codici civili degli
Stati d’Italia, Torino, Libreria della Minerva Subalpina, 1845 217
5 Bürgerliches Gesetzbuch (1896-1900). Da Codice Civile dell’Impero
Germanico, traduzione italiana a cura di L. EUSEBIO, Torino, UTET,
1897 218
6 Il ruolo della giurisprudenza nella tradizione di civil law. Il caso tedesco.
Reichsgericht, V Sez. civile, sentenza 28 novembre 1923. Da
107 RGZ 78 221
7 Codice civile svizzero (1912). Indice. Da http://www.admin.ch/ch/i/
rs/210/index.html 223
Codice delle obbligazioni, 1881 (e successive modifiche). Indice. Da
http://www.admin.ch/ch/i/rs/220/index1.html 225
8 Il caso Soraya. Bundesverfassungsgericht (Prima Sezione), 14 febbraio
1973. Da BverfGE 34, 269 e NJW 1973, 1221 228
9 Il ruolo della giurisprudenza italiana nell’adeguamento del codice ai
valori costituzionali 235
Corte costituzionale, 14 luglio 1986, n. 184, in Foro it., 1986, I, 2053 235
a Neuergasthof G.m.b.H. et al. v. K., Reichsgericht (Seconda sezione
civile), 14 dicembre 1928. Da 123 RGZ 102 242
b Legge Fondamentale della Repubblica Federale Tedesca (1949). Art.
20. Da http://www.gesetze-im-internet.de/gg/index.html, tr. it. a cura di
E. PALICI DI SUNI PRAT, F. CASSELLA, M. COMBA, Le costituzioni dei
Paesi dell’Unione Europea, 2a ed., Padova, Cedam, 2001, pp. 341-342 244
c Cartina dell’Europa orientale. Da https://commons.wikimedia.org/ -

wiki/File:Central_and_Eastern_Europe_Map.png 245
d Tribunale costituzionale polacco, 11 maggio 2005, n. K 18/04. Da http:
//www.trybunal.gov.pl/eng/summaries/documents/K_18_04_GB.pdf 246
Indice
XI
pag.
CAPITOLO III
LA TRADIZIONE DI COMMON LAW
Sezione I. LE ORIGINI
1.1. Common law: significato e natura 250
Common law/civil law 250
Common law/equity 252
Common law/statute law 253
Il «diritto inglese» 253
1.2. Le origini della common law e l’affermazione delle corti centrali di
Westminster 254
Le corti regie di Westminster 255
Le corti speciali 258
La giustizia itinerante 259
1.3. Il sistema dei writs 259
Il funzionamento del sistema dei writs 260
La crisi del sistema dei writs 262
Il superamento della crisi e l’evoluzione del writ of trespass 263
1.4. La Court of Chancery e lo sviluppo dell’equity 267
Le ragioni dell’affermazione dell’equity 267
Caratteristiche essenziali dell’equity 268
Esempi di rimedi elaborati dall’equity 269
Sezione II. L’AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA
2.1. Le grandi riforme della giustizia: dalla seconda metà del XIX secolo
all’inizio del terzo millennio 272
Le prime riforme e i Judicature Acts 1873-1875 272
Il Constitutional Reform Act 2005 e la nuova Supreme Court 277
2.2. Il ceto dei giuristi e la magistratura laica 278
Barristers e solicitors 278
I giudici: la tradizione e il rinnovamento del Constitutional Reform
Act 2005 280
La magistratura laica 284
2.3. Le linee essenziali del processo adversary e le riforme della giustizia
civile (1990-1999) 287
Le linee essenziali del modello adversary di processo 287
Le riforme recenti 289
Sezione III. LE FONTI DEL DIRITTO
3.1. Premessa 293
3.2. La gerarchia delle fonti e la nozione inglese di costituzione 293
XII Indice
pag.
3.3. La giurisprudenza e il principio stare decisis 295
L’affermazione della regola stare decisis 296
Teoria e prassi della regola stare decisis 299
3.4. La legge e la sua interpretazione 305
Il rapporto tra la legge e la giurisprudenza 305
Lo stile della legge e la sua interpretazione 309
3.5. La consuetudine 311
3.6. Il ruolo della dottrina 312
Sezione IV. LA COMMON LAW NEGLI STATI UNITI
4.1. Premessa 314
4.2. La recezione della common law nelle colonie e l’indipendenza 314
4.3. L’importanza della costituzione e del Bill of Rights 316
Gli articoli originari della costituzione 316
Il Bill of Rights 320
La due process clause 321
Il X emendamento 324
4.4. L’articolo III della costituzione e l’organizzazione giudiziaria 325
Le corti federali 325
Le corti statali 329
I giudici federali 329
I giudici statali 331
4.5. Marbury v. Madison e il controllo giurisdizionale di costituzionalità
delle leggi 332
4.6. La complessità del federalismo americano e il rapporto tra giurisdizione
federale e statale 335
4.7. Fattori di semplificazione e uniformazione del diritto americano 338
Le law schools e la dottrina 338
Le law schools e la professione legale 342
Il Restatement e l’idea di codificazione 343
Lo Uniform Commercial Code 344
4.8. Ancora qualche osservazione in tema di fonti del diritto 345
La regola stare decisis 345
Gli statutes 347
Indice
XIII
pag.
APPENDICE III
1 Magna Charta Libertatum (1215). Preambolo, artt. 34, 39-40, 60-61.
Da http://www.homolaicus.com/storia/moderna/monarchie_nazionali/ -

magna_charta.htm 349
2 Provisions of Oxford (1258). Da Sources of English Constitutional
History, edited and translated by C. STEPHENSON, F.G. MARCHAM,
New York, Evanston and London, Harper & Row Publishers, 1937.
Da http://www.constitution.org/sech/sech_047.htm  III, 2 351
3 Statute of Westminster II (1285), CH 24. Da T.F.T. P LUCKNETT, A
Concise History of the Common Law, London, Butterworth & Co.,
1956, p. 28 353
4 Trespass vi et armis: schema classico del writ. Da G. A JANI, P.G.
MONATERI, Casi e materiali di diritto comparato, Torino, Giappichelli,
2001, p. 160 354
5 Il passaggio dal trespass al trespass on the case. Da J.H. B AKER,
S.F.C. MILSOM, Sources of English Legal History, London, Butterworths,
1986, pp. 297 e 298-299  III, 5 355
6 Writ of trespass upon the case: schema classico del writ. Da G.
AJANI, P.G. MONATERI, Casi e materiali di diritto comparato, Torino,
Giappichelli, 2001, p. 161 357
7 The Farrier’s case (1372). Da J.H. BAKER, S.F.C. MILSOM, Sources of
English Legal History, London, Butterworths, 1986, p. 341  III, 7 358
8 Trespass on the case in assumpsit. Da G. A JANI, P.G. MONATERI, Casi e
materiali di sistemi giuridici comparati, Torino, Giappichelli, 1998, p. 130 359
9 Bill of subpoena. Da G. AJANI, P.G. MONATERI, Casi e materiali di
diritto comparato, Torino, Giappichelli, 2001, p. 165 360
a Tavola sull’organizzazione delle corti in Inghilterra. Da https://
-

www.judiciary.gov.uk/wp-content/uploads/2012/08/courts-structure-
0715.pdf 361
b Constitutional Reform Act 2005. Da Constitutional Reform Act 2005,
London, The Stationery Office, 2005. Explanatory Notes da http:
//www.opsi.gov.uk/acts/acts2005/en/ukpgaen_20050004_en_1 
III, 11 362
c Human Rights Act 1998. Artt. 2-4, 6, 10, 19. Da Quaderni costituzionali,
2000, 1, p. 241 ss. 365
d Act of Settlement (1701). Da E. PALICI DI SUNI PRAT, F. CASSELLA,
M. COMBA, Le Costituzioni dei Paesi dell’Unione Europea, 2a ed., Padova,
Cedam, 2001, pp. 737-738 368
e Access to Justice, Final Report. Indice, Sezione I, §§ 1-3, 7-9. Da The
Right Honourable The LORD WOOLF, Master of the Rolls, Access to
Justice, Final Report, London, The Stationery Office, 1996  III, 14 369
XIV Indice
pag.
f Civil Procedure Rules. Part 1 – Overriding Objective. Part 3 – The
general powers of management. Da http://www.justice.gov.uk/civil/
procrules_fin/menus/rules.htm  III, 15 373
g M. TARUFFO, Il processo civile di “civil law” e di “common law”:
aspetti fondamentali, in Foro it., 2001, V, cc. 347-355 375
h Bill of Rights (1689). Da E. PALICI DI SUNI PRAT, F. CASSELLA, M.
COMBA, Le Costituzioni dei Paesi dell’Unione Europea, 2a ed., Padova,
Cedam, 2001, pp. 759-761 379
i A.V. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Constitution,
10th ed., London, MacMillan, 1961, pp. 23-24, 39-41, 60-61, 145
 III, 18 381
j Corte Suprema del Regno Unito, R. (on the application of Miller and
Dos Santos) v. The Secretary of State for Exiting the European Union
and others, [2016] EWHC 2768  III, 19 383
k Corte Suprema del Regno Unito, R. (on the application of Miller and
Dos Santos) (Respondents) v. The Secretary of State for Exiting the
European Union and others (Appellants)[2017] UKSC 5, Press
Summary. Da https://www.supremecourt.uk/cases/docs/uksc-2016-
0196-press-summary.pdf  III, 20 391
l House of Lords, Miliangos v. George Frank (Textiles) Ltd. [1975] 3
All E.R. 801 395
m Court of Appeal, Gallie v. Lee, [1969] 1 All E.R. 1062 399
n House of Lords, Pepper (Inspector of Taxes) v. Hart, [1993] 1 All
E.R. 42, HL 400
o House of Lords, H.P. Bulmer Ltd. and Another v. J. Bollinger Sa
and Others, [1974] 2 All E.R. 1226, CA 402
p W. BLACKSTONE, Commentaries on the Laws of England (1765). Da
K.L. HALL, W.M. WIECEK, P. FINKELMAN, American Legal History.
Cases and Materials, New York, Oxford University Press, 1991, p. 24
 III, 25 403
q Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776). Da
A. JAYNE, Jefferson’s Declaration of Independence. Origins, Philosophy
and Theology, Lexington, Univ. Press of Kentucky, 1998, pp.
175-178  III, 26 404
r Articles of Confederation (1781). Da K.L. H ALL, W.M. WIECEK, P.
FINKELMAN, American Legal History. Cases and Materials, New York,
Oxford University Press, 1991, p. 80  III, 27 408
s Costituzione degli Stati Uniti (1787). Da http://www.politicaonline.
net/america/costituzione.html e da http://www.associazionedeicosti -

tuzionalisti.it/materiali/normativa/file/CostituzioneUSA.html 409
Indice
XV
pag.
t A. DE TOCQUEVILLE, De la démocratie en Amérique (1835), ed. it. La
democrazia in America, a cura di G. CANDELORO, Milano, Biblioteca
Universale Rizzoli, 1992, pp. 101-105 421
u Corte Suprema degli Stati Uniti, Griswold v. Connecticut, 381 U.S.
479 (1965) 424
v Corte Suprema degli Stati Uniti, Roe v. Wade, 410 U.S. 113 (1973) 427
w Corte Suprema degli Stati Uniti, Obergefell v. Hodges, 576
U.S._(2015) 433
x Tavola riassuntiva dell’organizzazione delle corti statali e federali
americane. Da G.C. HAZARD JR., M. TARUFFO, American Civil Procedure,
New Haven and London, Yale University Press, 1993, p. 50 440
y I circuiti di Corte d’appello negli U.S.A. Da J.D. M EADOR, American
Courts, 2nd ed., St. Paul, Minn., 2000, p. 23 441
z Corte Suprema degli Stati Uniti, Citizens United v. Federal Election
Commission, 558 U.S. 310 (2010) 442
A Corte Suprema degli Stati Uniti, Marbury v. Madison, 5 U.S. (1
Cranch) 137 (1803) 449
B A. HAMILTON, Il Federalista, n. 78 (1788). Da A. HAMILTON, J. JAY,
J. MADISON, Il Federalista, a cura di G. SACERDOTI MARIANI, Torino,
Giappichelli, 1997, pp. 391-395 454
C Corte Suprema degli Stati Uniti, Swift v. Tyson, 41 U.S. 1 (16 Pet.)
1842 457
D Corte Suprema degli Stati Uniti, Erie Railroad Co. v. Tompkins, 304
U.S. 64 (1938) 459
E C.C. Langdell, A Selection of Cases on the Laws of Contracts, in K.L.
HALL, W.M. WIECEK, P. FINKELMAN, American Legal History. Cases
and Materials, New York, Oxford University Press, 1991, p. 337
 III, 40 461
F O.W. HOLMES JR., The Common Law (1881), Boston, Little Brown
& Co., 1923, pp. 159-161  III, 41 463
CAPITOLO IV
LA TRADIZIONE GIURIDICA DEI PAESI NORDICI
1. Premessa 465
2. La suddivisione interna della «famiglia» nordica e la lingua come
elemento unificante 466
3. La precoce affermazione delle fonti legislative e la loro evoluzione 468
La «codificazione mancata» in Svezia 471
L’avvio della cooperazione legislativa nordica 472
4. Le peculiarità nordiche nella struttura e nei caratteri della legislazione 475
XVI Indice
pag.
Lo stile delle leggi 475
Il peso dei lavori preparatori nel sistema delle fonti 476
5. La costituzione nel sistema delle fonti del diritto: prospettive di cambiamento
480
La tutela dei diritti fondamentali 483
6. Corti, giudici e processo 485
APPENDICE IV
1 Legge del Regno di Svezia (Sveriges rikes lag) 490
2 Svezia – Legge (1972:5) sulla responsabilità civile (Skadeståndslag)
496
CAPITOLO V
INCONTRI DELLA TRADIZIONE
GIURIDICA OCCIDENTALE
Premessa 501
Sezione I. L’INCONTRO CON L’AMERICA LATINA
1.1. Premessa 503
1.2. Lo sviluppo di un sistema giuridico latinoamericano 505
L’indipendenza e la codificazione 505
L’evoluzione del diritto privato nel XX secolo 507
1.3. Il costituzionalismo in America Latina tra teoria e prassi 509
Il periodo successivo alle guerre di indipendenza 509
Il costituzionalismo del XX secolo 511
Il neocostituzionalismo latinoamericano 513
1.4. Corti, giudici e processo 514
Sezione II. L’INCONTRO CON LA CINA
2.1. Premessa 518
2.2. Il diritto cinese autoctono 518
La prospettiva cinese 518
La prospettiva occidentale 521
2.3. Le prime tracce della tradizione giuridica occidentale 523
L’impatto delle guerre dell’oppio: i patti diseguali 523
Le prime riforme ed il declino dell’impero 524
2.4. L’influenza del diritto tedesco 527
I Sei Codici del Partito nazionalista 527
Indice
XVII
pag.
2.5. La momentanea interruzione del “viaggio” di civil law e common
law 528
La fase socialista-maoista e il nichilismo giuridico 528
2.6. Il rinnovato interesse per il diritto occidentale dopo la morte di Mao 529
La costituzione del 1982 al vertice delle fonti del diritto e la “giustizia
costituzionale” cinese 530
L’influenza dell’occidente sulla costituzione 531
L’influenza dell’occidente sul diritto privato 531
L’amministrazione della giustizia e le professioni legali 532
2.7. Recenti riforme dell’ordinamento giuridico cinese 533
Sezione III. L’INCONTRO CON IL GIAPPONE
3.1. Il primo incontro: la Cina 537
3.2. L’apertura ai modelli occidentali e l’incontro con la civil law 538
3.3. Il secondo dopoguerra e l’influenza statunitense 539
L’amministrazione della giustizia 540
Sezione IV. L’INCONTRO CON I PAESI ISLAMICI
4.1. Premessa 543
4.2. La šarīʽa: brevi nozioni introduttive 544
4.3. La recezione del modello occidentale ratione imperii e imperio rationis
546
Acculturazione: la stagione delle riforme nell’Impero ottomano e
nella Turchia repubblicana 547
Gli effetti della colonizzazione sul diritto 549
4.4. La codificazione del diritto civile e l’affermazione del Code civil
francese 553
4.5. Il costituzionalismo 556
Il controllo di costituzionalità delle leggi 557
4.6. Il diritto penale 560
4.7. Il diritto di famiglia 561
Sezione V. L’INCONTRO CON L’INDIA
5.1. Premessa 563
5.2. Il diritto tradizionale personale indù 564
5.3. La dominazione britannica, la deformazione del diritto indù e la
costituzione di un diritto territoriale 565
5.4. L’influenza in India delle idee di Bentham: l’epoca delle codificazioni
567
5.5. L’indipendenza e il diritto vigente: ancora tracce della tradizione
giuridica occidentale 569
XVIII Indice
pag.
APPENDICE V
1 Código Civil de Chile. Mensaje del Ejecutivo al Congreso proponiendo
la aprobación del código civil (1855). Da https://www.-

leychile.cl/Navegar?idNorma=1080094 573
2 Costituzione Politica degli Stati Uniti Messicani (1917). Artt. 39-40,
49-52, 56, 80-81, 89, 94, 96, 103-105, 107, 110, 121, 124, 133, 135.
Da http://www.diputados.gob.mx/LeyesBiblio/pdf/1_150917.pdf 576
3 Corte Interamericana de Derechos Humanos, Trabajadores Cesados
de Petroperù y otros vs. Perù, sentencia de 23 de noviembre de 2017.
Da http://www.corteidh.or.cr/docs/casos/articulos/resumen_344_esp.pdf 583
4 La scuola legista e la scuola confuciana, in J.J.L. DUYVENDAK (a cura
di), Il libro del signore di Shang, Milano, Adelphi, 1989, pp. 216-217
e CONFUCIO, Dialoghi (trad. it. e cura di T. LIPPIELLO), Torino, Einaudi,
2006, pp. 7, 11, 15, 139 586
5 Preambolo della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese (1982).
Da http://www.tuttocina.it/Mondo_cinese/043/043_cost.htm 587
6 C. MINZNER, China After the Reform Era, in Journal of Democracy, 26
[2015], p. 129 ss. 590
7 Costituzione del Giappone (1947). Artt. 1, 6, 9, 31, 76-81. Da http:
//www.servat.unibe.ch/icl/ja00000_.html 594
8 Mecelle-yi aḥkām-i ʿadliyye, in G. YOUNG, Corps de droit ottoman,
Vol. VI, Oxford, Clarendon Press, 1906, pp. 178-185 596
9 La gerarchia delle fonti nel codice civile egiziano e nei suoi derivati 601
a Codice civile della Repubblica Islamica dell’Iran. Traduzione a cura
di R. MAURIELLO, Introduzione di M. PAPA, Roma, Eurilink, 2015 602
b Marocco: legge n. 70 del 2003 detta Mudawwana della famiglia. Da
R. ALUFFI BECK-PECCOZ (a cura di), Persone famiglia diritti. Riforme
legislative nell’Africa Mediterranea, Torino, Giappichelli, 2006,
pp. 163-239 604
c Corte costituzionale suprema egiziana, 15 gennaio 2006, n. 113/XXVI.
Da G. PAROLIN, La sharia nella giurisprudenza della Corte costituzionale
suprema egiziana. La sentenza del 15 gennaio 2006, n. 113/XXVI,
in Il libro e la bilancia. Studi in memoria di Francesco Castro, t. II,
Napoli, Esi, 2011, p. 529 ss. 605
d The Constitution of India (1950). Artt. 44, 141. Da http://indiacode.
nic.in/coiweb/welcome.html  V, 13 607
e Supreme Court of India, A.K. Gopalan v. State of Madras (1950).
Da http://www.indiankanoon.org/doc/1857950/  V, 14 608
Indice delle opere citate 609
Indice dei casi citati 629

Diritto musulmano

APPUNTI DI DIRITTO MUSULMANO*


SOMMARIO
Parte I – Nozioni
generali .............................................................................
...... 3
1.
Introduzione .................................................................................
............................... 3
2. Le
origini ..........................................................................................
........................... 3
3. L’Islām dopo
Maometto .....................................................................................
........ 5
4. I cinque pilastri dell’Islām
......................................................................................... 6
5. Le fonti del
diritto ...........................................................................................
........... 8
5.1. Il
Corano ..................................................................................................
........................ 8
5.2. La Sunna
..............................................................................................................
............ 9
5.3. L’Iğmā’
..............................................................................................................
............. 10
5.4. Il Qiyās
..............................................................................................................
.............. 11
5.5. Le fonti
subordinate ...........................................................................................
........... 12
5.6. Il ra’y
..............................................................................................................
................ 14
6. La scienza
giuridica .......................................................................................
........... 14
6.1. Il fiqh
..............................................................................................................
................ 15
6.2. La chiusura delle porte dell’Iğtihād
............................................................................ 16
6.3. Le principali scuole
giuridiche ..................................................................................... 16
6.3.1. La scuola
malikita ......................................................................................................... 17
6.3.2. La scuola
hanafita .......................................................................................................... 17
6.3.3. La scuola
shafiita ........................................................................................................... 17
6.3.4. La scuola
hanbalita ........................................................................................................ 18
7. Islām e
potere ..........................................................................................
.................. 18
7.1. La legittimazione del potere
politico ........................................................................... 19
7.2. Il potere politico nel succedersi delle
dinastie ............................................................ 21
7.3. L’amministrazione della
giustizia................................................................................ 22
7.3.1. I qādī
............................................................................................................................. 23
7.3.2. I mazalim
....................................................................................................................... 24
*Il presente scritto è il frutto dell’attività di rielaborazione, integrazione ed aggiornamento al
2010 (operata da
Francesca Raia e da Francesco Randone, con la collaborazione di Daniele Ferrari ed il
coordinamento di Paolo
Passaglia) degli appunti tratti dalle lezioni tenute da Kristina Touzenis presso la Facoltà di
Giurisprudenza
dell’Università di Pisa, negli anni accademici 2005-2006 e 2006-2007.
II
8. L’Islām nell’età
contemporanea .............................................................................
24
8.1. La recezione di modelli
europei ................................................................................... 25
8.2. Le dinamiche
costituzionali .........................................................................................
. 27
Parte II – Cenni sui «rami» del
diritto ............................................................ 30
1. «Radici» e «rami» del
diritto ................................................................................... 30
2. Il diritto
privato .........................................................................................
............... 30
2.1. I
soggetti .................................................................................................
........................ 31
2.1.1. La posizione giuridica della
donna ................................................................................ 31
2.1.2. La condizione del
minore .............................................................................................. 33
2.1.3. Le persone
giuridiche .................................................................................................... 34
2.2. Il
matrimonio ............................................................................................
..................... 34
2.2.1. Caratteri
generali ........................................................................................................... 34
2.2.2. Il matrimonio come negozio
giuridico .......................................................................... 35
2.2.3. La
poligamia .................................................................................................................. 37
2.2.4. I rapporti personali e patrimoniali tra i
coniugi ............................................................. 38
2.2.5. Lo scioglimento del
matrimonio ................................................................................... 39
2.3. Le
successioni ............................................................................................
.................... 40
2.3.1. Principi
generali ............................................................................................................ 40
2.3.2. La successione
legittima ................................................................................................ 41
2.3.3. La successione
volontaria .............................................................................................. 42
2.4. I diritti
reali ......................................................................................................
............. 42
2.4.1. I
beni ..............................................................................................................................
42
2.4.2. Il diritto di
proprietà ...................................................................................................... 42
2.4.3. Gli altri diritti
reali ........................................................................................................ 43
2.4.4. Il
possesso ..................................................................................................................... 44
2.5. Le
obbligazioni ...........................................................................................
................... 44
2.5.1. I principi
generali .......................................................................................................... 44
2.5.2. Le obbligazioni
contrattuali ........................................................................................... 44
2.5.3. Le obbligazioni nascenti da atti
unilaterali .................................................................... 46
2.5.4. Le obbligazioni nascenti da fatto
illecito....................................................................... 46
3. Il diritto
penale ..........................................................................................
............... 47
3.1.
Premessa ..............................................................................................
.......................... 47
3.2. Le pene huddud
.............................................................................................................
48
3.3. Le pene qisās
..............................................................................................................
.... 51
3.4. Le pene ta’zīr
..............................................................................................................
... 53
Parte I – Nozioni generali
1. Introduzione
L’Islām («sottomissione a Dio», ma anche «pace» o «via della pace») è una
religione
fondata sul Corano, testo sacro rivelato da Dio (in arabo: Allāh), e
sull’insegnamento di
Maometto (Muhammad), l’ultimo Profeta. L’apparente paradosso per il quale il
fondatore
della religione è anche l’ultimo profeta si spiega con il collegamento dell’Islām
alle altre due
grandi religioni monoteistiche, l’Ebraismo ed il Cristianesimo, di cui l’Islām si
pone come
l’evoluzione definitiva ed il perfezionamento: vengono, quindi, riconosciuti
come profeti
quelli della tradizione ebraico-cristiana, a partire da Abramo fino a Gesù.
Nata nel VII secolo d.C. nella penisola arabica, la religione si è diffusa nel corso
dei secoli
grazie principalmente alle conquiste militari del popolo musulmano (termine,
questo, che
designa i fedeli dell’Islām), divenendo la fede preminente nel Medio Oriente, nel
Nord Africa
ed alcune zone dell’Asia meridionale. Le migrazioni internazionali hanno poi
contribuito a
diffondere la religione anche in Europa (dove, peraltro, i musulmani avevano
conquistato, nel
corso della storia, la penisola iberica e buona parte della penisola balcanica) e,
sia pure in
minor misura, nel Nord e nel Sudamerica. L’Islām è, attualmente, la seconda
religione come
seguito, con oltre un miliardo e mezzo di fedeli (la stima è di fine 2009),
superata solo dal
Cristianesimo (che conta oltre due miliardi di fedeli). Da notare è che il dato
dell’Islām ha
visto una triplicazione negli ultimi quaranta anni (nel 1970, le stime indicavano
circa
cinquecentocinquanta milioni di fedeli), dovuta essenzialmente agli elevati
tassi di crescita
demografica dei paesi a forte presenza musulmana, la cui graduatoria vede, ai
primi posti,
l’Indonesia, il Pakistan, l’India, il Bangladesh, la Nigeria, l’Egitto, l’Iran e la
Turchia. In
Europa, il numero complessivo di musulmani è stimato in circa trentotto milioni,
mentre nelle
Americhe si resta al di sotto dei cinque milioni.
2. Le origini
L’Arabia, la «culla dell’Islām», è una terra che, in principio, era abitata da
pagani e da
tribù di nomadi, i c.d. beduini, «gli abitanti della badia» (ossia della steppa),
dediti
all’allevamento transumante nelle regioni della Penisola araba.
Anche il Profeta Maometto, pur essendo nato a La Mecca intorno al 570 d.C. da
una
famiglia di mercanti, visse la sua infanzia tra i beduini, essendo stato affidato
dalla madre alla
sua balia Halima Bint Abd Allāh, della tribù dei Banu Sa’d, che effettuava
piccolo
nomadismo intorno a Yathrib. Rimasto orfano intorno ai sei anni, Maometto fu
cresciuto dal
nonno paterno (’Abd al-Muttali) e poi dallo zio materno (Abū Tālib). I numerosi
viaggi
intrapresi per via dell’attività mercantile familiare, dapprima con lo zio e poi
come agente
della ricca e colta vedova Khadīğa, dettero a Maometto occasione di ampliare in
maniera
significativa le sue conoscenze in campo religioso e sociale (entrando in
contatto, ad esempio,
4
anche con comunità ebraiche e cristiane). Sposata Khadīğa nel 595, poté
dedicarsi alle sue
riflessioni spirituali in modo pressoché esclusivo.
Intorno al 610 Maometto iniziò ad effettuare regolari ritiri in una caverna presso
il monte
Hirā, vicino a La Mecca, durante i quali, secondo opinione comune, si ritiene
abbia ricevuto
la sua prima rivelazione (all’età di quarant’anni) dopo un periodo di
meditazione nel mese di
ramadān (nel calendario musulmano, il nono mese dell’anno, di 30 giorni: dai
fedeli
musulmani sarà scelto come mese della preghiera islamica e della
meditazione). Durante
questa esperienza gli apparve l’arcangelo Gabriele, che lo esortò a diventare
Messaggero
(rasul) di Allāh. Dopo la rivelazione, Maometto cominciò a predicare a La Mecca,
dove
sempre più persone seguivano i suoi insegnamenti, perché la sua predicazione
era nata come
messaggio di giustizia, verso l’ingiustizia di coloro che regnavano e detenevano
il potere nella
città. Tuttavia, il suo definirsi profeta od inviato da Dio fu accolto dalle famiglie
influenti
come un tentativo di impadronirsi del potere politico della città, senza contare
che le autorità
reagirono con sdegno alla concezione di Allāh come unico vero Dio. La
crescente
opposizione nei suoi confronti portò i regnanti de La Mecca a bandire, che si
recò, con i suoi
adepti, nella città di Medina: la sua fuga o egira (hiğra) avvenne nel 622, data
che ha segnato
il primo anno del calendario islamico.
A Medina il profeta divenne un leader religioso e politico, svolgendo il ruolo di
mediatore
nelle controversie tribali e, in questa veste, fu scelto quale il governatore-
legislatore di una
nuova società costituita su base religiosa, la comunità musulmana (la Umma),
destinata a
superare il tribalismo della società araba.
Negli anni successivi, la comunità musulmana estese sempre di più la sua
influenza sulle
tribù che erano vicine a Medina e nel 630, ormai abbastanza potente,
Maometto ritornò a La
Mecca. Nella città santa entrò nel più importante santuario islamico (il tempio
della Ka’ba) e
lì distrusse tutte le immagini degli idoli pagani, perché solo lui poteva farlo, in
tal modo
dimostrando concretamente e materialmente il rilevante potere che aveva
acquistato, tanto che
ancor oggi il pellegrinaggio dei musulmani alla Mecca rappresenta anche un
modo per
onorare e riconoscere il grande potere di Maometto.
Nel frattempo, la Umma musulmana si era affermata come l’entità più forte e
numerosa
dell’intera penisola araba, tanto che nel 630 la maggior parte delle tribù si
sottomise e a
coloro che erano rimasti pagani fu imposto un ultimatum di quattro mesi: se
non si fossero
convertiti, sarebbe stato possibile ucciderli impunemente. Era, quindi, una
battaglia, non solo
per la conquista del potere, ma anche per diffondere la nuova religione; il
termine che
designava questa lotta è il medesimo che più tardi verrà usato per designare la
«guerra santa»
(Jihād).
La Umma era ormai a tutti gli effetti un ordinamento cementato da vincoli
ideologici e la
sottomissione all’Islām rappresentava il criterio di appartenenza alla Comunità
(il Profeta
Maometto poneva appunto al centro la trasformazione della tribù come
aggregato politico
fondato sul vincolo di sangue, vero o fittizio, in un nuovo aggregato sociale,
basato sul
vincolo religioso, aperto a tutti coloro che via via, accettando il suo messaggio
religioso, si
convertivano all’Islām).
Prima della sua morte, avvenuta nel 632 d.C., il Profeta riuscì ad unificare vaste
regioni
5
dell’Arabia in un solo regno fondato su vincoli religiosi, assai più stringenti degli
antichi
legami tribali e familiari.
3. L’Islām dopo Maometto
Le prime tre generazioni successive alla morte del Profeta rappresentarono un
periodo
assai significativo, in quanto è in quel momento che si definirono molti dei
caratteri peculiari
dell’Islām e la nascente società islamica creò le proprie istituzioni giuridiche.
I diretti successori del Profeta furono i quattro Califfi di Medina, detti anche al-
Khulafā’
al-Rashīdūn, «Califfi ben diretti», ovvero «Luogotenenti [dell’Inviato di Dio] e da
Lui ben
diretti sulla retta via».
I quattro Califfi avevano tutti un rapporto di parentela con Maometto ed erano
appartenuti
alla schiera dei suoi primi discepoli. Si sostiene che il Califfato sia stato un
periodo
particolarmente «illuminato» e «ispirato», perché i Califfi avevano avuto il
contatto diretto
con Maometto.
Tutti i quattro Califfi vennero assassinati. L’ultimo ad essere ucciso, perché
inviso a molti,
fu Alì, che era figlio dello zio di Maometto, Abū Tālib, quindi suo cugino ed allo
stesso
tempo suo genero, in quanto sposato con la figlia Fatima. Con Alì si ebbe la
divisione del
mondo islamico in Sunniti e Sciiti, ma tale spaccatura all’interno dell’Islām non
fu dovuta a
ragioni religiose, bensì a ragioni di tipo politico: lo scisma avvenne proprio in
ordine a chi
dovesse detenere il potere.
Gli Sciiti (un piccolo gruppo di musulmani eterodossi il cui nome deriva da
Shī’a, il partito
di Alì) sosteneva che il capo della Umma dovesse essere un diretto discendente
di Maometto
e, dunque, il ruolo di guida di tutto il gruppo (Imām, «colui che guida la
preghiera») dovesse
spettare ad Alì stesso, quale unico rappresentante della famiglia del Profeta,
nonché alla sua
discendenza. Gli Sciiti hanno avuto undici Imām e il dodicesimo (Muhammad
ibn al-Hasan,
detto al-Mahdī) rimase alla guida di questo gruppo, finché nell’anno 874, all’età
di cinque
anni, decise di nascondersi, continuando a comunicare con la Comunità
attraverso quattro
lettere dove scrisse quello che la Comunità stessa avrebbe dovuto fare, per poi
scomparire
definitivamente. A tal proposito, si ricorda che tra gli Sciiti vi sono varie sette;
la principale è
la c.d. «dodicesima setta» che è, appunto, quella che attende ancora il ritorno
del dodicesimo
Imām per guidare i musulmani.
Di contro, la corrente ortodossa principale dell’Islām, ovvero i Sunniti (il cui
nome deriva
da Sunna, «tradizione»), credevano che fosse necessario individuare nella
Comunità il
Califfo, quale vicario di Maometto, eletto dal popolo (anche se in realtà scelto
da e tra i
potenti della Umma) e non necessariamente discendente del Profeta.
Dopo la morte di Alì, il potere rimase nelle mani delle dinastia sunnita degli
Omayyadi
(661-750), che portò a compimento le tendenze già presenti nella Comunità
musulmana al
tempo del Profeta. Sotto questa prima dinastia la sede del califfato restò, per
un periodo, a
Damasco, finché, nel 749, un movimento di ispirazione sciita portò
all’affermazione di una
nuova dinastia (quella degli Abbàsidi), che trasferì la capitale in Iraq, a
Baghdad, e lì creò il
nuovo «Califfato di Baghdad» (750-1259). All’epoca, però, il territorio era
troppo grande per
6
essere controllato e il potere venne sempre più affidato a piccole dinastie di
principi (gli
emiri) che, pur dipendendo sempre dal potere centrale, guadagnarono nel
tempo una crescente
autonomia.
Dopo il 1258 (anno della conquista di Baghdad da parte dei Mongoli), il mondo
musulmano si spezzò: da una parte il dominio era dei Mongoli, che erano
avanzati fino alla
Siria, dall’altra, dei Mamelucchi (Mamlūk, plurale mamālīk), popolo che si era
affrancato da
una condizione iniziale di schiavitù, andando ad occupare le più alte gerarchie
militari e, poi,
a fondare una dinastia (la cui forza non fu comunque mai paragonabile a quella
dei Mongoli).
La dinastia degli Abbàsidi continuerà, però, a governare in Egitto fino al XVI
secolo.
Nonostante la spaccatura interna, l’Islām si diffuse molto in fretta. Nel secolo
successivo
alla morte di Maometto, iniziò la decadenza del Regno persiano e dell’Impero
bizantino ed i
conquistatori arabi si spinsero dal Nord-Africa all’Europa, attraverso Gibilterra,
arrestandosi a
Poitiers, in Francia. Per molti secoli gli Arabi dominarono il sud della penisola
iberica
(l’Andalusia), dove hanno lasciato marcate tracce della loro cultura. L’Islām è
stata religione
dominante anche del Nord-Africa e da qui si diffuse nell’Africa occidentale ed
orientale. Ad
est, l’Islām, molto diffuso nel sub-continente indiano, è arrivato sino
all’Indonesia (da queste
considerazioni si intuisce che, quando si parla del «mondo musulmano», non ci
si riferisce ad
un mondo omogeneo, poiché vi sono molte diversità, di talché da una zona
geografica all’altra
è possibile incontrare numerose e diverse correnti dell’Islām).
Infine, a partire dal 1517 circa, sotto l’Impero ottomano che dominò gran parte
del mondo
musulmano, califfo della Comunità islamica divenne il Sultano turco e, quindi,
la capitale
venne spostata ad Istanbul. Il Sultanato della dinastia ottomana conobbe la sua
fine dopo la
prima guerra mondiale ed il Califfato ne seguì le sorti nel 1924, data a partire
dalla quale
nessun califfo è stato più a capo delle comunità musulmane.
4. I cinque pilastri dell’Islām
La religione islamica consiste in fede (al-iman) e pratica (al-din). Ogni
musulmano, uomo
o donna, è tenuto ad osservare (pena una sanzione morale o materiale) i doveri
posti dalla
Sharī’a, cioè «la strada giusta» (alla lettera, «via [diritta] rivelata da Dio», ma si
può anche
tradurre con «legge divina»), un corpo di norme che serve a guidare l’intera
vita di un
musulmano, tanto che in essa convivono regole teologiche, morali, rituali e
quelle che
potrebbero definirsi di diritto privato, affiancate da norme fiscali, penali,
processuali e di
diritto bellico. La Sharī’a poggia sui c.d. «cinque pilastri dell’Islām» (arkān al-
Islām).
a. Šahāda (letteralmente «testimonianza»): è la professione di fede islamica,
che consiste
nel rendere testimonianza di credere in Allāh come unico Dio e in Maometto
come ultimo
profeta.
La testimonianza di fede viene fatta attraverso la seguente formula: «Non c’è
altro Dio
all’infuori di Allāh e Maometto è il suo Profeta». La prima parte di questa
dichiarazione
rappresenta il movimento dell’uomo verso il Divino ed il suo distinguere il reale
(Dio) da
tutto ciò che non lo è, ossia che è al di fuori di questa relazione. Nella seconda
parte, invece,
Dio si muove in direzione dell’uomo e attraverso il Profeta Maometto comunica
agli uomini il
7
suo messaggio.
Per diventare musulmani e, quindi, convertirsi all’Islām, basta pronunciare la
Šahāda
davanti a «probi testimoni musulmani» o ad un dottore della legge islamica.
Nello spirito del
Corano, quest’atto personale e volontario ha valore di contratto e nessuno ne
può mettere in
discussione la sincerità, se non con una solenne dichiarazione di abiura.
b. Salāt: è l’adorazione, talvolta tradotta con «preghiera», e consiste in una
prostrazione
rituale in cui la precisione dei movimenti è importante quanto l’esercizio
spirituale che li
accompagna. Essa rappresenta il momento privilegiato del rapporto intimo con
Dio, un
collegamento diretto, non esistendo intermediari tra Allāh e l’adoratore.
I musulmani (in particolare, i Sunniti) devono compiere la Salāt cinque volte al
giorno: al
mattino (al-fajr), a mezzogiorno (ad-zuhr), nel pomeriggio (al-’asr), al tramonto
(al-maghrib)
e la sera (al-’isha).
Le condizioni perché l’adorazione quotidiana sia valida sono: lo stato di purezza
rituale
(wudu), ottenuto mediante un’abluzione maggiore o minore, a seconda del
grado di impurità
provocato da secrezioni corporee, rapporti sessuali, contatto con animali e così
via; l’utilizzo
di un vestiario appropriato; la sua esecuzione nel momento giusto; la scelta del
luogo idoneo
e, infine, l’orientamento in direzione della Ka’ba de La Mecca (qibla).
Ogni venerdì a mezzogiorno si svolge la preghiera collettiva (jumu’ah) che
vede, in
genere, separati uomini e donne, e che è ritenuta obbligatoria per i primi, ma
non per le
seconde.
c. Zakāt: è l’elemosina, la carità obbligatoria. Uno dei principi fondamentali
dell’Islām è,
infatti, il credo che tutte le cose appartengano a Dio e che il benessere
appartenga solo agli
uomini meritevoli di fiducia. Il significato originale della parola Zakāt è sia
«purificazione»
che «crescita» e fare Zakāt significa dare una specifica percentuale di certe
proprietà (c.d.
«imposta coranica») a favore di poveri e bisognosi. In passato la Zakāt era
raccolta dai
governi musulmani e poi ridistribuita secondo meccanismi prestabiliti; oggi,
invece, è rimessa
alla coscienza dei fedeli.
d. Sawm: è il digiuno nel mese di ramādan. Il digiuno consiste nell’astensione
dal
mangiare, dal bere, dal fumare, dai rapporti sessuali e dall’assumere alcun tipo
di sostanze
(anche medicinali) dall’alba sino al tramonto. Tutti i musulmani puberi, maschi
e femmine,
capaci di intendere e di volere sono tenuti all’obbligo del digiuno, tranne che
siano malati o in
viaggio.
Il digiuno è considerato principalmente un momento di purificazione spirituale,
rappresentando la libertà dell’uomo dal proprio «io» e dai desideri che ne
derivano.
Distaccandosi dalle comodità del mondo, una persona che digiuna accresce la
sua vita
spirituale.
e. Hağğ: è il pellegrinaggio annuale alla Mecca. Questo obbligo religioso,
intenso ed
impegnativo, che ha luogo negli ultimi dieci giorni del mese di dhū ’l-Hiğğa (il
dodicesimo
del calendario musulmano), deve essere adempiuto da ogni musulmano adulto
almeno una
volta nella vita, purché sia in grado di affrontarlo fisicamente ed
economicamente.
Il pellegrino deve indossare una tenuta distintiva composta da due pezze di
stoffa non
cucite, per lo più di colore bianco che non mostrino differenze di classe sociale
e di cultura,
8
perché tutti sono uguali davanti a Dio. L’esecuzione del Hağğ coinvolge una
serie di rituali
tra cui il c.d. tawāf, ovvero il giro per sette volte in senso antiorario attorno al
tempio della
Ka’ba situato al centro di una grande spianata sacra (matàf). Dopo aver
percorso sette volte a
passo affrettato il tragitto fra Safā e Marwa (sa’y), altri momenti essenziali sono
rappresentati
dalla sosta (wuqūf) nella pianura di ’Arafāt, qualche chilometro a sud de La
Mecca, dalla ifād
(«corsa vertiginosa») attraverso la stretta gola di Muzdalifa, dalla «lapidazione»
di tre pilastri
rappresentanti il diavolo, dal sacrificio di animali (’id al-adhā) e, infine, dalla
tonsura dei
capelli che esaurisce l’intera cerimonia.
Il pellegrinaggio a La Mecca permette l’incontro della comunità musulmana
mondiale ed è
simbolo di un viaggio interiore all’interno di se stessi.
5. Le fonti del diritto
Secondo la definitiva sistemazione dottrinale, gli usūl al-fiqh (le «radici» o le
basi del
diritto), assimilabili a quelle che definiamo «fonti del diritto», sono quattro, e
segnatamente
(in ordine gerarchico decrescente): il Corano, la Sunna, l’Iğmā’ ed il Qiyās.
A queste fonti si aggiungono poi fonti ulteriori, subordinate alle suddette, quali
la
consuetudine, le presunzioni sussidiarie nel ragionamento giuridico,
l’interpretazione dei
dottori e la giurisprudenza forense.
5.1. Il Corano
La base dell’Islām è il Corano (in arabo Qu’ān), il testo sacro della religione
islamica che
letteralmente può significare sia «la lettura» o «la recitazione salmodiata», sia
il complesso
delle rivelazioni ricevute. Per i musulmani il Corano rappresenta il messaggio
rivelato
quattordici secoli fa da Allāh e destinato ad ogni uomo sulla terra a prescindere
dalla sua
affiliazione religiosa. Tale testo contiene, quindi, la raccolta delle rivelazioni
ricevute da
Maometto nel corso degli anni (nel periodo che va all’incirca dal 613 al 632) e
fu trascritto
per la prima volta dopo la sua morte da parte di alcuni suoi discepoli (la
redazione ufficiale,
cioè quella di un testo definitivo che costituisce sostanzialmente il Corano
accolto da tutti i
musulmani, fu opera di Uthmān, Califfo tra il 644 ed il 656 d.C.). Per la grande
maggioranza
dei musulmani, il Corano è considerato come la «parola di Dio», dettata alla
lettera, come una
fonte che è arrivata «direttamente dal cielo, da Dio», attraverso il profeta
Maometto; in questo
si differenzia dalla Bibbia, che invece è formata da una serie di racconti scritti
dagli uomini
che espongono quello che hanno visto e sentito.
Il libro è diviso in 114 capitoli (detti sūre, letteralmente «righe») disposti
secondo un
ordine decrescente per lunghezza, che rende problematica la comprensione del
testo ad una
lettura superficiale. Alla raccolta così ordinata venne premessa la breve sūra
(Al-Fātiha),
detta «l’Aprente il Libro», che costituisce un’invocazione in sette versetti
ripetuta nel corso
delle cinque preghiere che i musulmani devono recitare ogni giorno e che è
considerata la
quintessenza dell’Islām.
Ogni sūra è a sua volta divisa in versetti (ayah, letteralmente «segni di Dio»),
che da un
minimo di tre vanno ad un massimo di 286, per un totale di 6236. Sono molto
brevi nelle
9
ultime sūre, mentre risultano piuttosto lunghi nelle prime.
Si ritiene che il Corano, presentando uno stile essenzialmente allusivo, si
rivolga a persone
che già conoscono gran parte del suo contenuto. Lungi dall’essere
autoesplicativo, può essere
compreso solo appoggiandosi a materiale esterno al testo e le difficoltà stesse
che presenta
come fonte storica (ad esempio, l’assenza di una coerente struttura narrativa),
costituiscono
senz’altro una prova a favore della sua autenticità e per i musulmani
rappresenta anche un
modello inarrivabile di lingua e di stile.
Le sūre sono divise in «meccane» e «medinesi», a seconda del periodo della
loro
rivelazione: le prime sono state rivelate anteriormente alla fuga del Profeta
Maometto da La
Mecca a Medina, le seconde sono invece quelle successive all’egira. Questa
divisione non
identifica peraltro il luogo della rivelazione, ma il periodo storico. In generale si
può sostenere
che, mentre le sūre meccane, il cui argomento è tutto religioso e morale, sono
più brevi e,
pertanto, di contenuto più intenso ed immediato da un punto di vista emotivo
(si racconta di
conversioni improvvise al solo sentire la loro predicazione), le sūre medinesi
risalgono,
invece, al periodo in cui il profeta Maometto era divenuto anche capo politico
della neonata
Comunità islamica e sono caratterizzate da norme religiose e istruzioni
attinenti alla vita della
Comunità. La materia giuridica del Corano compare proprio nelle rivelazioni del
decennio
medinese.
In senso lato, per i musulmani tutto il Corano è legge, in quanto Dio proclama
se stesso in
un libro in cui ogni versetto può essere ritenuto un precetto divino. Tuttavia,
solo una piccola
parte (circa un decimo) del totale dei versetti contiene prescrizioni che possono
essere tradotte
in precise norme giuridiche.
Troviamo così il divieto di consumare certi cibi e bevande (vino, maiale, animali
uccisi nel
corso di cerimonie pagane), norme sulla testimonianza, norme di diritto
familiare
(matrimonio, divorzio, successioni), di diritto penale (i crimini huddud) e di
diritto
commerciale (come la proibizione dell’usura e varie forme di contratto). Tali
precetti sono,
però, caratterizzati da una certa ambiguità, data la previsione di norme di
carattere
contraddittorio, perché rivelate in epoche diverse: contraddizioni che il Corano
stesso
giustifica asserendo che Dio può abrogare sue precedenti disposizioni e
sostituirle con regole
nuove. Da qui la necessità, in tali casi, di conoscere quale sia il versetto
cronologicamente
anteriore e quale sia quello posteriore abrogante, qualunque sia la loro
rispettiva posizione nel
libro.
Alla frammentarietà e incompiutezza come pure all’oscurità di alcuni vocaboli o
di alcuni
versetti pone rimedio l’altra fonte, rappresentata dalla Sunna.
5.2. La Sunna
Con il termine «Sunna» si designa la «tradizione», il modo abituale di
comportarsi, la
consuetudine ed anche il modello di comportamento. Nell’Arabia preislamica,
designava il
modo abituale di agire degli antenati. Con la diffusione dell’Islām il termine
assunse un
significato tecnico indicante il modo di comportarsi del Profeta nelle varie
circostanze
pubbliche, la sua consuetudine, le sue norme di condotta consistenti in un
detto (qawl), in un
fatto (fi’l) o in un silenzio (sukūt), inteso come assenso, non in quanto profeta,
ma in quanto
10
uomo come tutti gli altri, la cui condotta è ispirata dalla divinità ed alla quale,
di conseguenza,
è stata attribuita dalla Comunità efficacia normativa.
Il concetto di Sunna ha avuto uno sviluppo assai articolato, dato che uno dei
problemi più
complessi di tutta la storia del diritto islamico è quello della sua autenticità,
potendo trovarsi
sovente di fronte a tradizioni fortemente divergenti tra loro. Il concetto è stato
definitivamente
fissato ad opera di Muhammad al-Shāfi’ī, uno dei massimi giuristi dell’Islām e
fondatore
della scuola giuridica Shafiita (v. infra, par. 6.3.3.), il quale avrebbe fatto
prevalere la dottrina
della inderogabilità delle tradizioni risalenti al Profeta rispetto a quelle di
qualsiasi altra
autorità e quella dell’autonomia della stessa fonte rispetto al Corano.
Fonti di cognizione della Sunna sono rappresentate dagli Ahadīth (singolare:
Hadīth),
ovvero racconti o tradizioni che riferiscono un comportamento di Maometto e
che sono stati
trasmessi oralmente da una catena di trasmettitori degni di fede (isnād, ovvero
«sostegno»).
Lo studio delle tradizioni, che riguardano, naturalmente, ogni campo, non solo
quello
giuridico, è oggetto di una particolare scienza che ha posto attenzione, non
tanto al contenuto
del racconto, quanto alla catena dei trasmettitori, in quanto si ritiene che un
racconto sia tanto
più veritiero, quanto più sono degni di fede i trasmettitori del racconto stesso.
Ed è, dunque, in
base alla veridicità, autorevolezza e numero dei trasmettitori che tali tradizioni
sono state
classificate in: Sunna sahīh (sana, esatta), ovvero la tradizione perfetta che non
ha alcun
anello mancante nella catena dei trasmettitori; Sunna hasan (bella), ovvero la
tradizione di
perfezione minore, ma tuttavia con valido carattere normativo; Sunna da ’if
(debole), ovvero
la tradizione con carattere puramente esemplificativo, priva di valore
normativo. È da
evidenziare che la fonte ritenuta più attendibile di numerosi Ahadīth è una
donna, e cioè la
terza moglie del Profeta, Aisha bint Abi Bakr. Aisha, difatti, visse a lungo dopo
la morte di
Maometto e divenne una figura importante nella tradizione orale. Famosa per
la sua
conoscenza, appresa per frequentazione diretta del marito, Aisha fu un punto di
riferimento
per le generazioni successive, ricordando a memoria i detti di Maometto, e
raggiungendo una
posizione di alto rilievo nella società islamica di Medina, tanto che le fu
conferito il titolo
onorifico di Umm al-Mu’minīn, ovvero «Madre dei credenti».
L’altra grande classificazione degli Ahadīth riguarda il numero dei testimoni o
trasmettitori
per ciascun anello della catena, in quanto se sono molti sin dalle origini la
tradizione è detta
«amplissimamente trasmessa» (mutawātir), se i primi trasmettitori sono
parecchi è «notoria»
(mashūr), se il narratore è uno solo è detta «unica» (ahad).
Questa mancanza di linearità nelle fonti di cognizione della Sunna rende
necessario
considerare, ai fini di una coerente comprensione del diritto islamico, anche le
altre due fonti,
ovvero l’Iğmā’ e il Qiyās.
5.3. L’Iğmā’
L’Iğmā’ (abbreviazione dell’espressione Iğmā al-Umma, cioè «accordo di
opinione della
Comunità») è il consenso della Comunità, in una data epoca e su un dato
argomento che
rientri nel campo della Sharī’a.
L’idea che l’Iğmā debba essere considerata una delle radici del diritto è stata
avallata da un
11
Hadīth del Profeta, secondo il quale «la mia Comunità non si troverà mai
d’accordo su un
errore».
Sotto certi aspetti, la funzione dell’Iğmā può apparire superiore a quella dello
stesso
Corano e della Sunna, dato che la autentica interpretazione di queste due fonti
è garantita, agli
occhi dei credenti, proprio dal giudizio concorde delle generazioni di
musulmani. È, pertanto,
molto frequente nei trattati il richiamo all’Iğmā, quale giustificazione di singoli
istituti e
norme.
La religione islamica, mancando di una chiesa docente e di una gerarchia
ecclesiastica, non
ha mai avuto concili o assemblee di dottori per risolvere questioni giuridiche o
teologiche
dubbie. A quest’assenza l’Islām supplisce con il principio di «infallibilità
dell’Iğmā», che si è
costituito spontaneamente nel corso dei secoli. Non a caso, il giurista
Muhammad al-Shāfi’ī
dichiarava che «l’Iğmā è Sunna», nel senso che il consenso opera come la
tradizione.
Un problema che si è posto con riguardo all’Iğmā è quello relativo ai criteri per
consentirne l’identificazione. L’Hadīth attribuito a Maometto fa riferimento al
consenso della
Comunità nel suo insieme; tuttavia, è chiaro che tale requisito, sebbene
potesse avere una sua
ragion d’essere con riguardo alla ristretta comunità di Medina, non poteva e
non può trovare
applicazione nelle complesse e vaste civiltà che si sono succedute nel tempo.
Le teorie degli
studiosi per rinvenire il consenso rispetto ad una determinata regola sono state
fra le più
svariate; tra di esse, la più nota (parimenti poco praticabile) è quella che, per
l’adozione un
Iğmā legittimo, impone la raccolta dei consensi di tutti gli studiosi di una certa
epoca. Occorre
ricordare che esiste, peraltro, un contrasto di opinione fra le scuole giuridiche
teologiche, non
solo sull’Iğmā stesso, ma anche sulla sua limitazione alla sola opinione concorde
dei
compagni del Profeta o, al più, alle prime tre generazioni di musulmani, in
quanto gli unici
ritenuti un modello insuperabile di fede. Gli Sciiti, addirittura, o non ammettono
l’Iğmā o lo
restringono ai discendenti diretti di Maometto seguaci della dottrina sciita e lo
riconoscono
solo in quanto sia da ritenere che rappresenti l’opinione dell’Imām occulto e
infallibile.
Seppure la questione continui a rimanere a tutt’oggi irrisolta, si può registrare
una certa
tendenza a convalidare l’Iğmā quando se ne trovi il fondamento testuale in un
manuale.
Recentemente alcuni autori musulmani modernisti hanno tentato di dare un
significato nuovo
al consenso, facendolo coincidere con la pubblica opinione o con l’accordo di
dottori e
politici in assemblee più o meno elettive, ma tali forme nuove di consenso, così
lontane da
quelle consolidate dalla tradizione, sono state accettate solo sporadicamente e
per breve
tempo.
5.4. Il Qiyās
Il Qiyās è una forma di ragionamento sillogistico o analogico. Il sostantivo in
arabo
significa «comparazione di un termine con un altro, misurazione»; nella logica è
il sillogismo;
nel linguaggio tecnico-giuridico è la deduzione per analogia. Il Qiyās consiste
nell’applicazione della analogia ad un caso o atto nuovo oppure non ancora
esaminato, non
menzionato nel Corano o negli Ahadīth e il presupposto del Qiyās è che fra il
caso nuovo
preso in esame e quello originario di riferimento vi sia una «somiglianza
indubbia ed
evidente», oppure che appaia logico applicare al caso nuovo la causa
determinante della
12
qualificazione giuridica dell’azione o del precetto del caso originario. Più in
particolare, i
concetti basilari da tenere presenti per l’applicazione del Qiyās sono quattro:
far (il caso
nuovo che richiede una soluzione); asl (il caso originario, simile al far ma già
risolto, tratto
spesso da un Hadīth o da un verso del Corano); illa (il ragionamento che
combina far e asl);
huqm (la regola trasferibile, attraverso l’uso della ragione, dall’asl al far – si
tratta di una sorta
di ratio decidendi).
Si distinguono un Qiyās ğalī (analogia palese), se il caso di riferimento è
presente nel
Corano e nella Sunna, e un Qiyās khafī (analogia nascosta), se non è contenuta
né nel Corano
né nella Sunna.
Il Qiyās è, tra le fonti giuridiche, la più contrastata e quella che ha più faticato
ad
affermarsi. Il problema è stato quello di aver spesso confuso il ragionamento
analogico con il
buon senso individuale (ra’y). Vi è, inoltre, divergenza di opinioni sull’ampiezza
maggiore o
minore del ricorso al procedimento analogico, dato che occorre riferirsi a fatti
del Corano o
della Sunna che non si possono generalizzare o estrapolare dal loro contesto
storico. Spesso la
deduzione, infatti, rischia di portare ad una modifica della norma giuridica, se
non addirittura
ad una contraddizione. Esso, in ogni caso, consente l’adeguamento a nuovi
fenomeni,
rappresentando, in tal senso, una forma di interpretazione storico-evolutiva del
diritto
islamico. Gli esempi più noti di ragionamento analogico sono quelli riguardanti
le bevande
alcoliche: mentre alcuni dottori della legge ritengono che vadano considerati
proibiti solo i
prodotti della fermentazione della palma da dattero e della vite, altri,
applicando il Qiyās,
estendono il divieto a tutte le bevande alcoliche, poiché la ragione della
proibizione (vale a
dire la possibilità di ubriacarsi, azione vietata da Maometto) costituisce un
comune
denominatore. Oggi, seguendo lo stesso ragionamento analogico, si applica la
stessa regola
anche alle droghe, per il fatto che danno effetti simili a quelli dell’alcol. In
realtà, occorre
precisare che, se molto spesso queste regole vengono oggi considerate come
divieti imperativi
(per la cui violazione vengono comminate pene assai severe), nel Medioevo la
tendenza era
opposta, in quanto gli espedienti interpretativi servivano per rendere più lievi le
pene
coraniche. Non a caso, molti sostengono che la migliore letteratura islamica di
epoca
medievale sia stata prodotta anche grazie all’uso di certi alcolici.
5.5. Le fonti subordinate
In forma subordinata alle «radici» del diritto ora esposte, la scienza del diritto
musulmano
ha ammesso alcune fonti ulteriori.
a. Una prima fonte è la consuetudine (’urf, ādal), che può essere generale (’urf
āmm),
particolare (khāss) o locale (mahallī). Ricopre un ruolo non indifferente e non
mancano talune
eccezioni a principi generali introdotti ad opera della consuetudine che è stata
in tal modo il
veicolo di penetrazione nell’Islām di elementi stranieri. Naturalmente, per il
riconoscimento
della consuetudine è richiesto che essa non sia in contrasto con la Sharī’a, ma
di fatto tale
richiesta ha avuto valore solo teorico, poiché nella pratica sono state
riscontrate anche
consuetudini contrarie. Si noti che in alcune regioni del mondo islamico la
consuetudine ha
addirittura prevalso sulla Sharī’a, come nelle regioni berbere del Maghreb e in
Indonesia. La
simbiosi fra ’urf e Sharī’a, del resto, è stata fondamentale in quanto la seconda,
molto
13
ideologica e spesso astratta, non trattava tutti gli aspetti della vita quotidiana,
così che la
consuetudine consentiva di completarla e la rendeva più pragmatica. Quel che
si richiedeva
era che l’’urf non fosse in contrasto con la Sharī’a; di fatto, tuttavia, tale
richiesta ha avuto un
valore prevalentemente teorico, visto che nella pratica sono state riconosciute
anche
consuetudini praeter o contra legem.
b. Le presunzioni sussidiarie nel ragionamento giuridico, indicate con diversi
nomi tecnici
a seconda della scuola giuridica (istihsān, maslaha, istishāb) e di cui la dottrina
musulmana si
è largamente servita, hanno impresso al sistema rigido degli usūl al-fiqh una
certa flessibilità
ed adattabilità, anche se talora hanno contribuito, in un certo senso, ad
alimentare le
divergenze di opinioni.
c. Viene poi in rilievo l’interpretazione dei dottori, cioè dei c.d. ’ulamā (da ’ilm,
«scienza,
sapienza»). Secondo la dottrina islamica, poiché le azioni umane non sono
stabilite
dall’uomo, ma prestabilite da Dio, per la qualificazione giuridica delle azioni
stesse si deve
usare uno sforzo interpretativo dell’intelletto (Iğtihād) volto a conoscere la
qualificazione
stessa. Il dottore della legge deve dare fondo alle sue capacità intellettive per
discernere i
particolari della volontà divina. L’attività interpretativa si è largamente
sviluppata intorno al
Corano, utilizzando mezzi diversi, cioè la grammatica, la logica, l’allegoria, ed è
stata
estensiva o restrittiva. Per la Sunna, come è stato rilevato, lo sforzo è stato
prevalentemente
concentrato sulla verifica della autenticità delle tradizioni attraverso la
valutazione della
veridicità dei trasmettitori. Un lavoro intenso di interpretazione è stato
effettuato anche
sull’Iğmā’ e sul Qiyās. Mediante l’attività interpretativa, si è così compiuta
un’opera di vera e
propria creazione, tale da qualificare il diritto musulmano come un diritto
dottrinale in cui la
dottrina è stata, per un lungo periodo storico, creatrice di diritto. L’Iğtihād, se
approvata e
sostenuta dal consenso, può fornire lo strumento per l’adeguamento della
Sharī’a alle
esigenze di società diverse nei tempi e nei luoghi, anch’essa con un ruolo di
interpretazione
evolutiva.
d. La giurisprudenza (’amal) è costituita da un’ampia letteratura specifica, che
consiste in
raccolte di formulari, pareri legali astratti (fatāwa), soluzioni di fattispecie
concrete che
tengono conto della giurisprudenza che vi è, in parte, riassunta. È però la
dottrina che fissa per
scritto la prassi, la quale non rappresenta, a rigori, una vera e propria
giurisprudenza alla
quale si possa far ricorso direttamente e che valga come «precedente».
L’’amal è, dunque, un
prodotto giudiziario e dottrinale al tempo stesso, che contiene alcuni elementi
di innovazione
rispetto ai quali, per i dottori della legge, si pone da sempre il problema della
loro liceità e del
loro valore giuridico. Per alcuni, la soluzione di tale problema potrebbe
consistere
nell’ammettere che un’innovazione possa essere seguita se è fondata
sull’opinione dottrinale
di un esperto qualificato di giurisprudenza islamica (faqih), anche se la sua
opinione differisce
da quella più notoria, oppure ne deve essere dimostrato l’uso con il normale
accertamento
mediante testimoni degni di fede. Ma è sempre la necessità e l’utilità pubblica
che debbono
ispirare la soluzione da adottare.
In quest’ambito rientra la fatwā, l’autorevole opinione di uno studioso (muftī)
sul
particolare comportamento di un individuo. A tale opinione spesso ricorrevano i
giudici, data
la non agevole interpretazione delle fonti del diritto islamico e, dunque, la
difficoltà di trovare
14
una soluzione alle questioni giuridiche.
Tale strumento non ha perso la propria rilevanza neppure nella società islamica
contemporanea: basti pensare al caso di Salman Rushdie, rispetto al quale
pende una fatwā
dello Āyatollāh Khomeyni con cui si condanna per apostasia e blasfemia una
parte della sua
produzione letteraria (ed in particolare I versetti satanici, del 1988, una storia
fantastica, ma
chiaramente allusiva nei confronti della figura di Maometto e, quindi, ritenuta
blasfema).
5.6. Il ra’y
Il ra’y (il ragionamento personale, il buon senso individuale) costituisce un
elemento
centrale nello sviluppo del diritto islamico.
Inizialmente, il ra’y serviva, non tanto per l’elaborazione di regole specifiche,
quanto per
l’elaborazione di «massime», che divennero un mezzo per «spiegare» la legge
in modo che
tutti, anche i meno istruiti, potessero capire quali precetti seguire.
L’accettazione di una
massima avveniva sulla base di prove che ne dimostrassero la provenienza da
consuetudini o
proverbi precedentemente esistenti che, quando avevano origine pre-islamica,
venivano
trasformati ed «islamizzati».
Il ra’y ebbe una grande influenza nel periodo iniziale della creazione del fiqh.
Una parte degli studiosi continuarono a farne largo uso anche quando, con
l’istituzione del
taqlīd, fu definitivamente proclamata la chiusura delle porte
dell’interpretazione indipendente
ed il ra’y divenne un mero strumento attraverso cui sviluppare analogie.
Significativa, al
riguardo, è la dottrina della scuola hanafita (v. infra, par. 6.3.2.), ed in
particolare di Abū
Yūsuf, che usava il ra’y in modo molto «libero». Rispettando in modo solo
formale la
tradizione, che prescriveva di citare l’Hadīth da cui veniva estrapolato il ra’y,
egli formulava
ragionamenti che spesso non avevano alcuna attinenza con i dettami contenuti
nell’Hadīth di
riferimento; si trattava di un modo per creare nuove regole o adeguare le
vecchie al
cambiamento dei tempi, evitando di operare cesure nette con la tradizione (ad
Abū Yūsuf
successe Muhammad al-Shaybānī, che tentò una riorganizzazione della scuola
hanafita, nella
prospettiva di un uso del ra’y più fedele agli Ahadīth citati).
6. La scienza giuridica
Dopo la morte di Maometto, la Sharī’a divenne il comando che, in quanto
proveniente da
Dio, doveva ritenersi eterno ed immutabile. Tuttavia, già pochi anni dopo la
morte del Profeta
la società era cambiata e si poneva la necessità di regole specifiche per tutti i
problemi che si
sarebbero potuti creare. Così la Sharī’a non è rimasta statica, ma è mutata.
In effetti, l’immutabilità del diritto musulmano non è contenuta in un precetto
divino;
tuttavia, visto che non esiste una fonte superiore che impone di seguire l’Iğmā
come regola
immutabile, può darsi che con il passare del tempo venga a mancare il
consenso generale su
quella regola, che viene infine superata. In pratica, è l’Iğmā stesso che, se per
un verso può
attribuire il crisma dell’immutabilità ad una data regola, per un altro verso può
portare a
modificarla.
15
6.1. Il fiqh
La dottrina classica dell’Islām è il risultato di un processo storico complesso,
durato circa
300 anni (tra il VII e il X secolo d.C.), in cui i dottori della legge islamica (gli
’ulamā)
cercano di interpretare la Sharī’a in modo da adattarla alla mutata realtà
storica e sociale,
dando vita al c.d. fiqh, che significa «conoscenza, comprensione, sapere,
intelligenza», ma più
spesso è tradotto come «scienza del diritto religioso dell’Islām»: fiqh è, dunque,
la
conoscenza della ripartizione sciaraitica delle azioni umane, nel senso di atto
obbligatorio
(fard o wāğib), proibito (harām, mahzūr), consigliato (mandūb, mustahabb),
sconsigliato
(makrūh) e libero (ğāi’z, mubāh). Il «cammino della conoscenza» fu intrapreso
dai primi
’ulamā dando forte impulso innanzitutto agli studi grammaticali e linguistici,
specie in
relazione al Corano, necessario passaggio verso una meno ardua comprensione
del testo
sacro. Successivamente, man mano che si diffondeva l’uso della scrittura,
grande cura fu
riservata alla compilazione delle sempre più imponenti raccolte di narrazioni
degli eventi
verificatisi durante le fasi iniziali della storia dell’Islām, a partire dalla
generazione dei
compagni di Maometto e da quella successiva dei suoi seguaci, lette alla luce di
una cauta
interpretazione analogica (Qiyās) e di una prudente interpretazione personale
(Iğtihād) da
parte degli stessi dottori.
Il fiqh è dunque costituito dai numerosi manuali che gli studiosi hanno prodotto
nel corso
degli anni, in particolare dall’VIII al X secolo, per mezzo dei quali si elabora e si
spiega la
Sharī’a. In questi testi si trova l’interpretazione delle regole giuridiche previste
nel Corano e
negli Ahadīth.
Il fiqh, che ha un valore di fonte giurispudenziale, è stato creato dall’uomo ed è
quindi
mutabile, anche se molto spesso è stato incluso nel concetto di Sharī’a,
acquisendo così il
carattere statico tipico delle regole – del Corano e degli Ahadīth – va ad
interpretare. Da
notare è che, attualmente, i modernisti cercano di liberare la Sharī’a da queste
contaminazioni
del fiqh, per individuare la Sharī’a vera e propria.
Il processo di creazione del fiqh può farsi iniziare con l’avvento della dinastia
sunnita degli
Omayyadi (661-750) che, intorno al 720, rappresentava la dinastia dominante.
Lo sviluppo della scienza giuridica fu originato dal risveglio del sentimento
religioso
discendente dal progressivo allontanamento dai precetti islamici di cui venne
accusata la
dinastia omayyade. In particolare, si contestò la mancata applicazione dei
principi
«universalistici» del messaggio islamico, che non faceva distinzione fra le varie
etnie e
culture che avessero abbracciato l’Islām: i convertiti non-arabi (i c.d. mawālī),
ovvero i
persiani, i greci, i mesopotamici, i berberi e persino gli ebrei, erano, infatti,
rimasti esclusi
dalle più significative e lucrose cariche politiche e venivano discriminati anche
all’interno
delle compagini militari che proseguivano nella potente spinta conquistatrice in
direzione
delle aree asiatiche, africane ed europee aperte all’islamizzazione.
Si diffuse, quindi, nella Umma, la comunità musulmana, l’idea della necessità di
valorizzare l’elemento religioso ed i principi ad esso collegati, piuttosto che
quello etnico.
Una tale esigenza dottrinale venne supportata dalla nuova dinastia regnante,
quella degli
Abbàsidi (750-1258), sotto la quale si dichiarò di voler dare origine ad una
società
16
musulmana giusta con l’aiuto dei dottori della legge, che avrebbero dovuto
precisare le regole
ed i modelli di comportamento da seguire al fine di conformarsi ai principi
religiosi. Il
carattere utopistico di questa aspirazione sarebbe stato ben dimostrato
dall’evoluzione del
sistema di governo imposto dagli Abbàsidi.
6.2. La chiusura delle porte dell’Iğtihād
In corrispondenza all’allontanamento tra potere e religione, il dinamismo
dottrinale
derivante dallo studio diretto sulle fonti, cioè sugli usūl al-fiqh, ha lasciato
spazio alla
proclamazione da parte degli stessi ’ulamā della c.d. «chiusura delle porte
dell’Iğtihād»,
ovvero dell’interpretazione indipendente: gli studiosi si sono così impegnati ad
attenersi al
solo criterio dell’imitazione (taqlīd), in base al quale il giurista stesso non deve
rifarsi
direttamente alle fonti, ma alla precedente dottrina.
Il vitale processo esegetico veniva bloccato (in particolare per i Sunniti), a far
tempo
dall’855 d.C., anno in cui era morto colui che fu dai più ritenuto l’ultimo grande
«dotto»,
l’iracheno Ahmad Ibn Hanbal. Si pensò allora che il lavoro esegetico non
avrebbe più
potuto conoscere significativi apporti e fu dunque proclamata la «chiusura delle
porte
dell’Iğtihād», con la necessità per i dotti di attenersi al solo criterio del taqlīd,
all’interno
della cornice oramai definitivamente fissata: tale era la giustificazione teorica
dell’avvertita
opportunità di impedire pro futuro interpretazioni troppo libere dei precetti
religiosi, poste in
essere ad uso del potere politico.
In buona sostanza, questa chiusura, consolidatasi intorno al X sec. d.C., ha
portato a
riconoscere come conclusa l’esperienza dell’Iğtihād e avviata l’era del taqlīd:
ormai tutto era
stabilito e perciò non si poteva più cambiare alcunché; l’unica cosa che gli
studiosi potevano
fare era imitare quello che i loro predecessori avevano fatto.
6.3. Le principali scuole giuridiche
Fin dal I secolo dell’Islām (cioè il VII-VIII secolo d.C.), i sapienti dediti allo studio
della
legge religiosa (detti anche «dottori della legge») presero a riunirsi in scuole o
indirizzi
giuridici. Le scuole, che inizialmente si distinguevano sulla base della
connotazione
geografica, in seguito sono state qualificate con il nome del giurista più
autorevole.
Quattro sono le scuole principali nelle quali ancora oggi si riconoscono i
musulmani, o,
meglio, i musulmani sunniti (che costituiscono la grande maggioranza della
Umma): quella
malikita, quella hanafita, quella shafiita e quella hanbalita (le denominazioni
risalgono all’XIXII
secolo). Oltre a queste quattro scuole, si annoverava, fino alla sua scomparsa
attorno alla
metà del Medioevo, la scuola degli zahiris.
Nel corso del tempo, le scuole si sono differenziate, non solo per
l’interpretazione di
singoli istituti, ma anche per l’individuazione delle stesse fonti del diritto.
Dato che le quattro scuole sono tutte considerate ortodosse, le differenze sono
ritenute
«doni» di Dio, che ha lasciato agli uomini più possibilità. Ciascun musulmano,
infatti, se deve
appartenere ad una delle scuole e seguirne i precetti, allo stesso tempo può
passare da una
scuola ad un’altra.
17
6.3.1. La scuola malikita
La scuola malikita prende il nome dal medinese Mālik ibn Anas, autore della più
antica
compilazione di diritto islamico, il Kitab al-Muwatta («Libro della strada
spianata»),
un’opera, contenente dottrina e tradizioni (la maggior parte delle quali non
risalgono al
profeta Maometto, ma ad alcune autorità appartenenti alle prime generazioni
di musulmani),
che riflette un periodo di contraddizioni, di instabilità e di confusione, tanto da
non chiarire
quali regole fossero da ritenersi valide e quali no. Tale scuola, la primogenita
fra le scuole di
giurisprudenza musulmana, nasce a Medina e si caratterizza per aver fatto
largo ricorso alla
Sunna, al Qiyās e ad alcuni criteri ermeneutici sussidiari, per aver riconosciuto,
diversamente
da altre scuole, l’Iğmā e per aver utilizzato in misura ridotta il ra’y (il
ragionamento
individuale).
La scuola malikita, originariamente diffusasi soprattutto nel Maghreb ed in
Andalusia (e,
durante la dominazione musulmana, anche in Sicilia), è oggi la scuola
dominante in Marocco,
Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto e risulta essere quella che ha supportato i più
riusciti tentativi
di modernizzazione del diritto islamico.
6.3.2. La scuola hanafita
La scuola hanafita deriva il proprio nome da Abū Hanīfa. Si tratta di una scuola
nata in una
città commerciale (Kufa), caratterizzata dagli scambi e dalle interazioni fra
arabi e non arabi,
fra musulmani e non musulmani. Il risultato è stato quello di una scuola tanto
aperta da
permettere alle donne di contrattare il proprio matrimonio senza
l’intermediazione di un
uomo, come invece richiedono tutte le altre scuole; una scuola
tendenzialmente libera, che
spesso ritiene illegittimi gli Ahadīth, prediligendo il ragionamento individuale
(ra’y) e quello
analogico (Qiyās), quest’ultimo svolto in una forma più rudimentale rispetto alle
elaborazioni
della dottrina successiva.
Gli hanafiti hanno sviluppato il concetto dell’istihsān (la «preferenza dei
giuristi»),
secondo cui il giurista è libero di scegliere, tra molteplici regole ed opinioni
diverse, quella
maggiormente rispondente alla singola fattispecie che si trova ad esaminare. Si
tratta di un
modo per creare nuove regole e per superare la rigidità del sistema delle fonti
musulmane.
Una delle caratteristiche che gli hanafiti hanno sempre mantenuto inalterata è
consistita nel
fatto che, mentre le altre scuole si sono professate rigidamente legate alla
propria dottrina (che
addirittura hanno qualificato come immutabile), per poi trovarsi inevitabilmente
costrette a
cedere a numerosi compromessi dovuti al passare del tempo, gli hanafiti hanno
apertamente
dichiarato che la loro dottrina sarebbe potuta cambiare in futuro.
La scuola hanafita, che da sempre si propone come la scuola più liberale, si è
dapprima
affermata in Iraq, per poi diffondersi in altre zone, fra cui l’Iran, il Maghreb e la
Sicilia,
imponendosi addirittura, sotto la dominazione ottomana, come scuola ufficiale.
Ancora oggi,
quella hanafita è la scuola giuridica più seguita tra i musulmani dei Balcani, nel
Caucaso, in
Asia centrale, in Afghanistan, in Pakistan, in India ed in Cina.
6.3.3. La scuola shafiita
Verso la fine dell’VIII secolo, le due prime scuole si trovarono in aperto conflitto,
un
18
conflitto riconducibile alla netta alternativa – che segna un aspetto
caratteristico della scienza
islamica – tra coloro che danno preminenza al ra’y e coloro che seguono
prevalentemente
l’Hadīth.
Per trovare un punto d’incontro tra le due impostazioni, superando con ciò gli
ostacoli alla
creazione di una teoria uniforme dell’Islām, è intervenuto Muhammad al-Shāfi’ī,
il fondatore
della scuola shafiita, il quale era stato, a Medina, diretto discepolo di Mālik.
Alla scuola shafiita – che ha inciso, più che sui contenuti del diritto islamico, sul
metodo
utilizzato dalla giurisprudenza – va riconosciuto il merito di aver dato una
sistemazione
razionale alle disorganiche regole dottrinali preesistenti, con ciò sviluppando
una solida teoria
sulle fonti del diritto islamico: proprio sulla base di questa teoria, del resto, si
propugnava la
convergenza tra le diverse scuole.
Al-Shāfi’ī attribuì grande importanza al Corano, inteso quale fonte in cui è
possibile
trovare la risposta a qualunque problema e le indicazioni per la sua stessa
interpretazione. Egli
riconobbe, altresì, un grande peso alla Sunna, percepita come fonte divina di
completamento
del Corano: il presupposto teorico della valenza della Sunna è stato rinvenuto
in un verso
della scrittura in cui si afferma il dovere, per i musulmani, di «obbedire ad Allāh
ed al suo
Profeta»; la scuola shafiita è stata quindi la prima ad aver sostenuto l’origine
divina del
pensiero di Maometto.
La scuola shafiita riconosce anche il Qiyās ed ammette il ricorso alla
presunzione di diritto,
secondo la quale, in presenza di uno stato di fatto, si presume che tale stato
perduri sino a
prova contraria.
Le fonti, con Al-Shāfi’ī, vengono indicate in maniera dettagliata e devono essere
seguite
nell’ordine in cui sono elencate.
La teoria di Al-Shāfi’ī lascia, tuttavia, poco spazio al ragionamento individuale
(ra’y).
In concreto, le due precedenti scuole hanno trovato, nella teorica shafiita, un
punto di
convergenza solo parziale, perché se è vero che il sistema delle fonti elaborato
è stato, in
qualche modo, canonizzato (con la contestuale accettazione dell’autorità della
scuola shafiita),
è altrettanto vero che la scuola malikita e quella hanafita hanno mantenuto (e
mantengono) la
centralità de facto di fonti diverse: rispettivamente, il consenso della Comunità
ed il
ragionamento dei giuristi.
La scuola shafiita è oggi diffusa in Bahrein, Yemen, Pakistan, Giordania,
Palestina, India,
Indonesia ed Egitto.
6.3.4. La scuola hanbalita
La scuola hanbalita, prende il nome da Ahmad Ibn Hanbal, discepolo di Al-
Shāfi’ī, e si
caratterizza per il fatto di rifiutare, quanto meno formalmente, ogni tipo di
ragionamento
umano. Gli hanbaliti, pur non ammettendo il Qiyās ed il ra’y, in realtà utilizzano
l’analogia ed
adattano la legge alla società. Fra le fonti riconosciute dalla scuola hanbalita,
quelle più
importanti sono, anche a livello di utilizzazione pratica, il Corano e la Sunna.
7. Islām e potere
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Sin dalle origini, nell’Islām la dimensione religiosa si è intersecata con quella
del potere
temporale, legittimandolo e condizionandolo. Non sono mancati, tuttavia, casi
di reciproca
influenza, donde l’opportunità di dar conto, sia pure in estrema sintesi, dei
rapporti tra le due
sfere.
7.1. La legittimazione del potere politico
L’autorità del Profeta Maometto era di tipo personale, assoluta, teocratica,
unitaria e
pienamente riconosciuta dai suoi seguaci, che mostravano di voler così
rinunciare, pur con
qualche resistenza, al particolarismo tribale, accettando l’Islām e con questo
l’autorità
prestabilita da Dio. Con gli immediati successori del Profeta nel ruolo politico,
ovviamente, la
sovranità continuava ad essere diretta e personale, ma aveva, al contempo,
un’origine umana e
contrattualistica, giacché nessuno poteva congiungere all’autorità politica
quella religiosa che
era propria del solo Maometto.
Tuttavia, con il passare del tempo, l’autorità politica diventò particolarmente
potente, pur
rimanendo del tutto pacifico che la Sharī’a costituisse vincolo insormontabile e
fattore di
legittimazione per ogni potere politico. La concezione di Stato autoreferenziale
e sovrano era
contraria ai principi ed ai valori di fondo dell’Islām, secondo cui l’origine della
sovranità era
imputabile unicamente a Dio. In questa prospettiva, la Sharī’a diventava
strumento della
sovranità divina ed i governi traevano legittimazione solo dall’obbedienza a
Dio, con la
conseguenza che le varie forme di manifestazione della sovranità erano del
tutto neutre e
indifferenti, purché rispettassero le regole della Sharī’a: proprio a causa della
derivazione
divina del potere non trovava applicazione il principio del princeps legibus
solutus.
Il condizionamento di matrice religiosa fa sì che manchi, nella tradizione
islamica, l’idea di
Stato, nel senso che oggi si dà a questo termine, essendo la comunità dei
credenti unica in
quanto unita dalla sottomissione a Dio (Islām), anche se può essere divisa in
entità politiche
diverse. È la Sharī’a, fondamentalmente, a costituire il formante dell’intera
comunità
musulmana e quindi anche dello Stato e del suo diritto. Lo Stato islamico, nella
sua versione
tradizionale, è – diversamente da quanto avviene in Occidente – «ideologico e
non
territoriale».
Da quanto detto, non può sorprendere l’assenza, nella Sharī’a, di una vera e
propria teoria
dello Stato che ne costituisca il fondamento giuridico, anche se oggi si è soliti
rintracciarlo
nella Sunna in base alla quale Maometto riuniva i suoi compagni laddove vi
fosse stata la
necessità di decidere su questioni riguardanti l’intera comunità. Nel versetto
coranico 4,59,
poi, si invitano i credenti ad obbedire a Dio, al Suo Messaggero e a «quelli di voi
che
detengono l’autorità», ed un hadīth, sorto presumibilmente dopo la morte di
Maometto, ha poi
desunto il principio di obbedienza del popolo nei confronti del potere politico,
impersonato
dal Califfo.
Il concetto di «obbedienza a Dio» è, del resto, riscontrabile nello stesso termine
Islām, ma
nel significato più ristretto secondo cui Dio sarebbe l’«unica» entità cui il
singolo dovrebbe
essere subordinato, non essendo consentito ad alcun uomo di sottomettere un
altro uomo, né
tanto meno di porsi come intermediario necessario tra i fedeli e Dio. È
evidente, però, come
questo precetto, di natura astratta e facilmente adattabile al mondo islamico
delle origini, non
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potesse che incontrare serie difficoltà di applicazione nel momento in cui la
comunità, una
volta espansa, necessitava di uno o più centri politico-decisionali, diversi
dall’entità divina
seppur ad essa ricollegabili, in quanto da questa derivanti la propria
legittimazione. Ecco
quindi giustificate le «manipolazioni» che hanno portato all’impostazione della
teoria dello
Stato incentrata sull’obbedienza al capo della comunità.
Il principio dell’obbedienza al governante veniva, però, spesso temperato dalla
convinzione in base alla quale, se il capo non avesse agito da buon musulmano
ed in maniera
«giusta», sarebbe stato consentito al popolo ribellarsi e rovesciare il proprio
governo, ciò che
non mancò di provocare periodi di notevole tensione tra i gruppi nei quali la
comunità
musulmana si era divisa, e segnatamente tra i Karijiti ed i Sunniti, con i primi,
sottomessi ai
secondi, che davano luogo a rivolte (motivate dalla violazione dei principi della
Sharī’a da
parte dei governanti) che venivano sovente represse nel sangue.
Intorno al XII secolo nacque una dottrina (Siyasah Shariyyah) secondo la quale
il ruolo
fondamentale del governo doveva essere quello di proteggere e tutelare il
benessere collettivo.
L’idea da cui questa teoria muoveva era che il governo potesse stabilire alcune
regole che
limitassero in qualche modo la libertà del popolo, al fine di meglio garantire il
benessere
complessivo di quest’ultimo e sempre, ovviamente, nei limiti dei principi guida
della Sharī’a.
Ma il governo abusò anche di questo spazio di autonomia, inizialmente pensato
come
ulteriore strumento di garanzia del bene pubblico.
Sul tema, un cenno merita, per i suoi caratteri del tutto innovativi, la dottrina di
uno
studioso vissuto nella prima metà del XIV secolo, Ibn Taimiya. Egli definiva
l’autorità
politica in relazione alla sua funzione specifica e non alle qualificazioni
personali del capo.
Secondo la concezione tradizionale, il leader doveva essere un uomo virtuoso e
saggio,
profondo conoscitore della Sharī’a e, preferibilmente, appartenente alla tribù
del profeta
Maometto: «capo infallibile», rappresentava una sorta di modello di perfezione
cui tutto il
popolo doveva tendere. Secondo Ibn Taimiya, era invece necessario
abbandonare questo
approccio che portava a vagheggiare il modello ideale di califfo virtuoso, in
nome di una
visione del potere che fosse, al contrario, pragmatica e funzionale, in quanto
strettamente
ancorata alle diverse situazioni pratiche ed ai diversi contesti specifici che di
volta in volta si
fossero presentanti e, per questo, più rispondente alle esigenze ed al
benessere della comunità.
In quest’ottica, non assumeva rilevanza alcuna il fatto che il califfo provenisse
o meno da
Medina o che incarnasse tutte le virtù del buon musulmano, né costituiva
elemento
imprescindibile il sesso maschile: ciò che non poteva mancare erano le
capacità di governo
adeguate al contesto storico-sociale. Il capo non era, quindi, un predestinato,
ma una qualsiasi
persona capace di perseguire unicamente il bene del popolo.
Il realismo estremo di Taimiya non era incompatibile con i principi della Sharī’a,
la quale
era anzi considerata il sostrato indispensabile per tenere lontana la corruzione
dilagante nei
palazzi del potere. Per la stessa ragione, egli arrivò a teorizzare la liceità della
Jihād nei
confronti dei governanti che, pur dichiarandosi musulmani, non si
comportassero come tali e
caldeggiò la guerra santa contro quei governanti che non seguivano i dettami
della Sharī’a.
Storicamente, però, l’avvertita esigenza di assicurare una stabilità politica
portò al
consolidamento del principio per cui il popolo era tenuto ad obbedire sempre e
comunque al
21
proprio capo: il contesto storico ha portato allo stravolgimento della teoria di
nonsottomissione
inizialmente sviluppata da Maometto.
Del resto, durante i regni dei Mongoli e dei Mamelucchi, la teoria secondo la
quale sarebbe
un diritto del popolo quello di ribellarsi ai governanti ingiusti e miscredenti
acquistò sempre
maggior peso, soprattutto alla luce del fatto che i Mongoli non erano
originariamente
musulmani e che si erano convertititi all’Islām per motivi essenzialmente
politici. Questo
precetto costituì, quindi, un’arma in più a favore dei Mamelucchi che ambivano
alla conquista
del territorio. In quanto discendente di una dinastia musulmana, il khalīfa
Mameluk divenne
ben presto incontestabile e inamovibile (è proprio da tali principi di
inamovibilità e non
contestazione del potere che si andarono imponendo nel tempo, che si fa
spesso discendere,
nei dibattiti contemporanei, la intrinseca non-democraticità dell’Islām; ad una
analisi meno
superficiale, è sufficiente rievocare queste vicende storiche per comprendere
quanto le
contingenze storiche abbiano pesato sull’interpretazione della Sharī’a).
Conseguenza ultima di queste affermazioni è stato l’avallo di politiche anche
scarsamente
consonanti con le regole religiose.
Gli studiosi del diritto, nella maggioranza dei casi, non sono stati quindi in
grado di
vincolare il potere politico al rispetto dei principi della Sharī’a.
La principale causa di questa tendenza va ricercata, oltre che nella già rilevata
limitatezza
di principi riconducibili al diritto pubblico all’interno del Corano e della Sunna,
nel
progressivo affermarsi, in via di prassi, di un tacito accordo tra studiosi e potere
politico: gli
studiosi riconoscevano piena legittimità al leader ed alle norme da questi
emanate, a
condizione che lo Stato continuasse, almeno formalmente, a considerare il
diritto religioso
come fondamentale e preminente rispetto a quello statale, ma, soprattutto, a
condizione che
gli studiosi potessero conservare il prestigio di cui godevano in seno alla
società e mantenere
gli incarichi pubblici che detenevano.
Accanto a queste degenerazioni, non mancano esempi di illustri studiosi che si
dimostrarono incorruttibili, rifiutando di ricoprire cariche giuridicamente molto
influenti pur
di preservare la libertà di elaborare le proprie teorie fedelmente alla Sharī’a:
anche questo
aspetto ha contribuito a rafforzare il perenne divario tra teoria e pratica, che ha
rappresentato
una costante nel mondo islamico.
Ancora oggi, l’alternativa tra obbedienza assoluta al potere e obbedienza
condizionata al
rispetto dei precetti religiosi ha una grande influenza, nella misura in cui, da un
lato, molti
governi propugnano la regola dell’obbedienza quale strumento di «ricatto» nei
confronti della
popolazione, sulla base dell’assunto per cui chi non segue i capi non è un buon
musulmano, in
quanto contravviene ad una regola della Sharī’a; dall’altro, invece, le frange
estremiste o
ribelli, per lo più costituite da integralisti, allo scopo di fare pressione sui
politici, tentano
(non di rado espressamente rifacendosi alla teoria di Ibn Taimiya) di imporre
l’idea per cui il
governo non è legittimo in quanto poco rispettoso dell’Islām e per questo va
abbattuto.
7.2. Il potere politico nel succedersi delle dinastie
Come detto, un versetto coranico invita i credenti ad obbedire a Dio, al Suo
Messaggero ed
22
a «quelli di voi che detengono l’autorità». L’espressione «quelli di voi»
(minkum) è stata
interpretata, non solo nel senso – ovvio – che il capo della comunità debba
essere un fedele
dell’Islām, ma anche come indizio del fatto che l’autorità debba in ultima analisi
provenire
dal popolo. In linea di principio, in effetti, l’Islām propone per l’individuazione
del capo
l’idea della libera scelta (ikhtiyar), principio che, tuttavia, è stato in larga
misura corretto e
adattato dalla dottrina, preoccupata che il principio di legittimazione popolare,
per il fatto di
investire il popolo di un ruolo particolarmente incisivo, potesse determinare di
fatto periodi di
forte instabilità politica. Questo potere di libera scelta – hanno sostenuto i
trattatisti – deve
essere collegato ad una scelta oculata e non può quindi essere affidato a tutti
indiscriminatamente, ma va riservato a coloro che per affidabilità morale,
cultura religiosa e
posizione sociale meglio si fanno interpreti delle esigenze complessive della
Umma. Si è
arrivati, in tal modo, a definire l’investitura del capo come un vero e proprio
contratto, col
quale i maggiorenti della comunità giuridica (coloro che hanno il potere di
legare e sciogliere:
ahl al-hall wa ’l-aqd) prestavano un giuramento d’obbedienza all’eletto (bay’a)
a nome di
tutto il popolo, mentre la persona investita si impegnava, a sua volta, ad
osservare ed a far
osservare la legge, ad amministrare correttamente la giustizia ed a promuovere
il benessere
generale.
Il capo, cioè il Califfo (khalīfa), era unico per tutto il territorio sotto la dinastia
degli
Omayyadi; tuttavia, questa regola fu poi parzialmente derogata dagli Abbàsidi,
i quali, dopo
aver conquistato anche parte della penisola iberica, si videro costretti ad
insediare un altro
khalīfa nei nuovi territori, per poter più efficacemente amministrare il regno. Da
qui
l’affermarsi della regola secondo la quale, nel caso in cui il territorio fosse
diviso in più parti
da un mare, era consentito istituire più khalīfa.
Durante il periodo degli Abbàsidi si assistette anche ad un’ulteriore importante
evoluzione
in tema di istituzioni di governo: già prima della conquista mongola di Baghdad,
avvenuta nel
1258, in conseguenza della quale gli Abbàsidi persero il potere, iniziò un
periodo di
decadenza, durante il quale essi disseminarono il loro territorio di sultan,
ovvero di vicekhalīfa,
cui competeva il governo delle province. Mentre il khalīfa riassumeva i caratteri
di
guida sia temporale che religiosa della comunità, il sultan era detentore del
solo potere
temporale, ma il potere dei sultan andò progressivamente espandendosi in
ambito locale, tanto
che essi spesso riuscivano ad ottenere l’incarico dal khalīfa centrale, in cambio
della garanzia,
per quest’ultimo, di poter emettere la propria moneta nella provincia di
riferimento e di essere
sempre menzionato nella preghiera del venerdì.
Gli Abbàsidi furono l’ultima vera dinastia musulmana. Dopo di loro, si spezzò,
come si è
visto (supra, par. 3.) l’unità politica della comunità musulmana.
7.3. L’amministrazione della giustizia
La stretta interrelazione tra Sharī’a e dimensione temporale è ulteriormente
testimoniata
dalle modalità attraverso cui veniva amministrata la giustizia. Il sistema era
incentrato sulla
figura del qādī, cui si aggiungeva una giurisdizione direttamente riconducibile
al capo
politico, cioè quella del mazalim.
23
7.3.1. I qādī
A garantire il rispetto del diritto erano preposti, in linea di principio, i qādī, che
sostituirono la figura dell’hakam (arbitro) presente nella società preislamica. Il
qādī aveva
giurisdizione esclusiva sui musulmani e limitata ad alcune materie per i non
musulmani, i
quali avevano (e in alcuni paesi islamici ancora hanno) propri tribunali,
ecclesiastici o
rabbinici. I non musulmani potevano comunque adire il qādī anche in materie
riservate alle
proprie giurisdizioni confessionali: in tal caso, il qādī fungeva da arbitro e il suo
giudizio
veniva reso secondo equità.
Secondo le fonti disponibili, i qādī devono aver svolto un ruolo di primaria
importanza,
con la loro giurisprudenza, nella formazione del diritto musulmano classico,
contribuendo in
modo determinante al processo di adattamento delle tradizioni e delle prassi
preislamiche al
messaggio coranico.
L’ufficio del qādī si affermò definitivamente verso la fine del Califfato omayyade
(prima
metà del VIII secolo d.C.).
Il Califfo, in quanto capo della Comunità musulmana e titolare di tutti i poteri
giuridicamente necessari per l’amministrazione di questa, rappresentava anche
il vertice del
potere giudiziario e, in questa veste, gli spettava la nomina dei qādī, i quali
agivano come suoi
delegati e rappresentanti, diretti (se nominati direttamente dal califfo) o
indiretti (e a gradi
successivi, se nominati da parte di agenti intermediari).
Molto frequentemente, dietro l’elezione dei qādī c’era anche il consenso degli
studiosi, in
particolare degli ’ulamā, i quali, al fine di preservare la loro indipendenza e
beneficiando del
forte potere comunque conferito dalla loro autorevolezza in fatto di
interpretazione della legge
islamica, tendevano, nella maggior parte dei casi, a mantenersi, almeno
formalmente, al di
fuori dell’apparato statale di governo, che opera nel diverso ambito della
«legge secolare».
L’atto di nomina aveva natura contrattuale e consisteva in un’offerta seguita
ad una
accettazione del qādī in presenza di almeno due testimoni. Attraverso di esso, il
califfo (o un
suo intermediario) nominava colui che, oltre alla formazione culturale
adeguata, possedesse i
requisiti richiesti, e cioè l’essere musulmano, libero, di sesso maschile, pubere,
sano di mente,
integro fisicamente e moralmente ed intellettualmente capace. Da notare è che
l’Islām sunnita
ha ammesso anche l’autorità dei qādī nominati da sovrani non musulmani,
fondando tale
potere di nomina sul principio di necessità (darūra).
La giustizia è sempre stata amministrata, fino ad epoca contemporanea, dal
qādī in quanto
giudice monocratico, giacché si è sempre ritenuto che la pluralità all’interno
dell’organo
giudicante non consentisse di dispiegare l’iğtihād, cioè lo sforzo individuale
necessario per
giungere all’accertamento della verità. Tuttavia, veniva raccomandato al
giudice di ricorrere
ai consigli di giuristi qualificati, che emettevano, se del caso, una fatwā.
La competenza del qādī era generale, estendendosi sia alla materia penale che
a quella
civile; per il carattere religioso della sua funzione, gli erano devolute anche
attribuzioni di
natura amministrativa, quale l’amministrazione di moschee e di beni waqf
(fondazioni pie).
Non esistevano gradi di giurisdizione: il qādī, quale organo monocratico,
statuiva
sovranamente.
24
Il processo si caratterizzava per il fatto che l’impulso processuale spettasse al
giudice,
sempre in diretto contatto con le parti; queste ultime erano in posizione di
rigorosa parità.
Poteva constatarsi uno scarso formalismo (donde il carattere meramente
strumentale delle non
numerose norme processuali) ed una generale rapidità dei giudizi.
Il giudizio si iniziava d’ufficio ovvero, nella generalità dei casi, mediante atto di
citazione
da parte di un privato, trasmesso alla controparte a cura del giudice. Tanto
l’attore quanto il
convenuto – la distinzione tra questi non era sempre agevole, visto che era
effettuata, non solo
in base all’atto introduttivo della causa ma, talora, in base all’oggetto di questa
o all’onere
della prova – dovevano comparire in giudizio personalmente o, quando
ammesso, per mezzo
di un loro rappresentante (wakīl), o del wasī (esecutore testamentario), ovvero,
nel caso di un
incapace, del walī (tutore). Previo, in certi casi, il tentativo di conciliazione da
parte del
giudice, venivano pubblicamente acquisite le prove, vale a dire principalmente
la confessione
(īqrar) o la testimonianza (šahāda), che, insieme con il giuramento, avevano
una
fondamentale importanza; la tradizione eminentemente orale (connessa
all’elevato tasso di
analfabetismo) veniva confermata dalla necessità, affinché un documento
scritto avesse
efficacia probatoria, che il suo contenuto fosse confermato da almeno due
testimoni. In difetto
di prove, si ammetteva il ricorso a presunzioni.
Dopo aver proceduto all’interrogatorio finale, il giudice pronunciava la
sentenza, che
poteva essere scritta, ma che aveva prevalentemente forma orale. La sentenza
non conteneva
mai una motivazione ed era inappellabile, anche se poteva essere soggetta a
revisione (per
errore materiale o di diritto, ma solo per erronea applicazione di norme tratte
da una delle due
fonti fondamentali, ovvero il Corano e la Sunna) da parte del giudice che
l’aveva pronunciata.
7.3.2. I mazalim
Il sistema tradizionale di amministrazione della giustizia, specie nel passaggio
dalla
dinastia degli Omayyadi a quella degli Abbàsidi, mostrò gravi inefficienze. Per
rimediare a
queste, si istituì una corte (mazalim), cui venne attribuita la funzione di
garantire e tutelare i
cittadini nei confronti dei titolari del potere, in modo che anche i funzionari del
governo e gli
uomini influenti potessero essere portati innanzi alla giustizia. Il mazalim,
anche in ragione
dell’oggetto della sua giurisdizione, operava con una certa flessibilità, essendo
vincolato in
misura minore rispetto al qādī alle regole del fiqh.
In concreto, anche l’attività del mazalim venne ben presto piegata
strumentalmente alla
tutela degli interessi del governo, divenendo una vera e propria corte nelle
mani di
quest’ultimo. Da notare è, però, che i principi di tutela dei cittadini nei confronti
degli abusi
del potere, che erano stati alla base dell’istituzione del mazalim, vennero
rivitalizzati intorno
al 1800, quando si sentì nuovamente l’esigenza di offrire ai cittadini una
garanzia di tipo
giurisdizionale nei confronti dei soprusi dei pubblici funzionari e della polizia.
8. L’Islām nell’età contemporanea
A seguito delle pesanti sconfitte patite dall’Impero ottomano nel corso della
prima guerra
mondiale, si giunse, nel 1922, all’abolizione del sultanato ed alla
proclamazione, nell’anno
25
successivo, della Repubblica turca. Sopravvisse per poco la dignità califfale, ma
nel 1924
l’Assemblea nazionale dichiarò conclusa anche questa esperienza, almeno nella
linea
dinastica del casato ottomano.
Con la nascita dello Stato nazione, i mutamenti del modo di essere del diritto
islamico
verificatisi durante l’Impero degli Ottomani andarono progressivamente
rafforzandosi.
Innanzitutto, si fece strada la convinzione per cui era possibile concepire un
diritto ed una
giustizia anche al di fuori della Sharī’a, derivante dalla volontà del governo e
racchiusa in
leggi e codici. Inoltre, nacque l’idea della cittadinanza e dell’uguaglianza di tutti
di fronte alla
legge statale, poco gradita ai non musulmani che nell’Impero ottomano
godevano di ampi
spazi di autonomia. Si venne successivamente a creare un diritto pubblico
distinto dalla
Sharī’a, dalle consuetudini e dalla tradizione, che produsse quale effetto
ulteriore un
sentimento di nazionalismo, talvolta anche molto marcato. Il processo di
codificazione, già
avviato nei decenni precedenti, era imposto dall’alto e si proponeva, in ultima
analisi, di
rispondere all’esigenza d’inserimento del mondo musulmano nello scenario
mondiale. Per il
fatto stesso di possedere questi caratteri, esso incontrò alcune resistenze,
soprattutto
all’interno della nuova classe media, animata da un certo risentimento nei
confronti
dell’Occidente: i membri di questa classe sociale, infatti, consapevoli
dell’arretratezza dei
Paesi islamici rispetto a quelli occidentali, sia dal punto di vista tecnologico che
da quello
politico, percepivano questa situazione come una diretta conseguenza del
lungo dominio
occidentale cui i popoli islamici erano stati sottomessi e che aveva impedito
loro di evolversi.
Ne derivò una sorta di conflitto ideologico interno alla società, che ancora oggi
pare essere
irrisolto e che riguarda il modo in cui si possa conciliare sviluppo tecnologico e
politico, da
un lato, e pregiudiziale rifiuto di tutto ciò che viene da fuori, in quanto
considerato cattivo e
immorale (specie da parte dei fondamentalisti), dall’altro.
Occorre, quindi, verificare in che misura la Sharī’a si sia adattata a quei
fenomeni di
modernizzazione dell’ordinamento che, specie per gli inevitabili influssi
occidentali, si sono
spesso tradotti, oltre che nelle esperienze di codificazione cui si accennava,
anche in veri e
propri processi costituzionali.
8.1. La recezione di modelli europei
Già a partire dalla seconda metà del secolo XIX, si è verificato un processo, più
o meno
significativo a seconda dei territori, di recezione di modelli normativi di natura
romanistica,
che hanno avuto come effetto la diffusione di una cultura giuridica di tipo laico.
Nel 1877 fu promulgato il Codice civile ottomano (Megĕlle), comprendente la
disciplina
dei contratti e delle obbligazioni e la procedura civile. Il suo scopo doveva
essere quello di
fornire ai tribunali civili, appena creati, un’autorevole sintesi della dottrina
giuridica
musulmana e di evitare così il ricorso diretto alle opere dei giuristi, che si erano
dimostrate di
difficile comprensione e dunque scarsamente utilizzabili. La Megĕlle rimase in
vigore anche
negli stati sorti dalle ceneri dell’Impero ottomano dopo il 1918 e venne
applicata quale diritto
civile dai tribunali laici contemporanei, fino a quando non fu sostituito dai nuovi
codici civili.
Il processo di nazionalizzazione imposto dall’alto e del tutto estraneo al mondo
musulmano, di cui la Megĕlle era espressione, necessitava, tuttavia, di una
legittimazione
26
formale, che gli ottomani non tardarono a trovare nel dichiararsi musulmani
«autentici» e
agganciando così la loro idea di Stato ai principi dell’islamismo puro. In realtà,
se si analizza
il Codice, è facile notare come esso fosse fondamentalmente ispirato alla
tradizione europea
più che ai principi della Sharī’a, che venivano utilizzati più che altro in chiave di
legittimazione dell’esercizio del potere normativo da parte dei vertici politici.
Al di fuori dell’Impero ottomano (e dopo la sua fine), durante il colonialismo,
molti Paesi
(ad eccezione di quelli della penisola araba) furono influenzati dal diritto
europeo; per
contrastare tale fenomeno si svilupparono diversi movimenti nazionalistici,
alcuni dei quali
intendevano avvicinare il diritto musulmano a quello europeo, mentre altri
volevano tornare
all’Islām puro, rompendo i contatti con l’occidente.
Al termine del colonialismo, la maggior parte dei Paesi che avevano subito
l’influenza
europea elaborarono dei codici, simili a quelli occidentali.
Al giorno d’oggi, si può dire che il diritto musulmano abbia cessato di avere
applicazione
in Turchia, in Albania, oltre che nelle repubbliche islamiche dell’Asia centrale
già integrate
nell’Unione sovietica. Negli altri paesi, esso coesiste con il diritto «statale» e dà
luogo ad una
pluralità di forme di produzione giuridica, cui si aggiunge, sovente, anche il
diritto di matrice
consuetudinaria.
Il diritto politico è si è concentrato in molti settori dell’ordinamento, tuttavia in
non pochi
casi il diritto religioso ha mostrato una significativa capacità di resistenza. Ad
esempio,
l’istituto matrimoniale è stato oggetto di numerosi interventi, in ordine all’età
minima dei
nubendi ed al consenso della donna, nonché alla forma di celebrazione del
matrimonio ed alla
sua prova. I tentativi che sono stati fatti per limitare il carattere poligamico del
matrimonio
hanno avuto un pieno e formale successo, però, solo in Tunisia ed in Turchia
(quest’ultima a
seguito della recezione del Codice civile svizzero).
D’altro canto, non bisogna neppure trascurare l’impatto che il diritto politico,
con norme di
derivazione europea, ha avuto in ambiti non compiutamente regolati dal diritto
islamico. In
generale, infatti, queste norme hanno occupato spazi che, o erano vuoti, o non
trovavano un
apparato normativo rigidamente riportabile alla Sharī’a, come è avvenuto, in
primo luogo, nel
campo del diritto pubblico, dove la regolazione degli apparati di potere era del
tutto carente, o
del diritto commerciale, dove esigenze economiche imponevano un maggiore
avvicinamento
ad altri modelli.
In altri casi, le regole di derivazione europea hanno addirittura prevalso,
scalzando quelle
già esistenti. Solo per menzionare un caso emblematico, nel sistema
processuale, la prova
sovrana è passata da essere quella testimoniale ad essere quella documentale;
analogamente,
si è ammessa – contrariamente a quanto previsto nel diritto islamico – la difesa
tecnica.
I rapporti tra diritto politico e diritto religioso sono, poi, ulteriormente
complicati là dove –
come in Africa – è forte il diritto consuetudinario, con il che diviene
particolarmente
problematico sceverare gli apporti delle diverse componenti.
In generale, se si può affermare che il diritto musulmano esercita ancora la
propria
attrazione sul diritto degli stati islamici contemporanei, sia su quelli di
orientamento
tradizionalista, come l’Arabia Saudita, in quanto diritto «nazionale», sia su
quelli di
orientamento modernista, in quanto ideale che influenza e pur sempre ispira la
legislazione
27
secolare, è tuttavia innegabile che tendenze innovatrici hanno avuto una
notevole incidenza,
facendo emergere confronti che spesso hanno portato a dinamiche conflittuali.
Queste tendenze hanno determinato un deciso mutamento della fisionomia del
diritto
stesso, segnando il passaggio da un diritto tradizionale islamico non statale ad
un diritto, in
molti casi, di derivazione statale che riconosce comunque la primazia di valori
non statali,
quelli della Sharī’a, assunta quale «supernorma» di riferimento.
In altri casi, l’evoluzione del diritto islamico si è avuta, oltre che per le influenze
occidentali (le c.d. tendenze moderniste), anche per il suo intrinseco
«pragmatismo». Teoria e
pratica, spesso, si sono fuse, ponendo le basi per un equilibrio tra la teoria del
diritto proposta
dagli ’ulamā ed il recepimento, per via legislativa, degli aspetti più pratici
rintracciabili nelle
pieghe della Sharī’a: tutta la storia del diritto islamico si basa, del resto, proprio
sul contrasto
teoria-pratica e sull’influenza del contesto storico-sociale.
A seguito dei processi evolutivi menzionati, il diritto musulmano appare oggi
come un
diritto misto, con pesanti penetrazioni del diritto occidentale in relazione ai
singoli istituti (ad
esempio, il leasing, l’appalto) o alle singole discipline (come il diritto della
navigazione o il
diritto dei titoli di credito), che non intaccano, tuttavia, il nocciolo di valori che
derivano dalle
norme religiosa della Sharī’a.
8.2. Le dinamiche costituzionali
L’evoluzione del diritto islamico ha interessato anche il campo del diritto
pubblico,
costituzionale ed amministrativo.
Emblematico è l’esempio dell’Iran teocratico, sciita rivoluzionario, che ha
adottato una
forma repubblicana molto lontana dalle tradizioni islamiche e, del pari, è
notevole la
recezione di modelli propri della tradizione giuridica occidentale ad opera della
Turchia, che
fa parte, dal 1949, del Consiglio d’Europa e che è tra i paesi candidati
all’adesione all’Unione
europea.
Altri interessanti esempi delle trasformazioni del sistema politico-istituzionale
sono
rappresentati dalle esperienze costituzionali degli stati del Maghreb (Algeria,
Tunisia e
Marocco) che, a seguito della proclamazione dell’indipendenza, hanno
elaborato una
Costituzione, poi approvata con referendum, in cui i principi ispiratori, mutuati
dalla
tradizione francese, avrebbero dovuto essere quelli della sovranità popolare,
della
rappresentanza parlamentare e della separazione dei poteri.
Tuttavia, non si può negare che queste carte costituzionali, al di là
dell’apparente richiamo
a tali principi, abbiano delineato un ordinamento pesantemente sbilanciato a
favore di un solo
organo: il re, nel caso del Marocco, il Presidente della Repubblica, in Algeria, e il
«padre
dell’indipendenza nazionale» in Tunisia.
La recezione da parte degli paesi musulmani dei modelli di governo occidentale
e,
soprattutto, dei principi che li avevano ispirati, dunque, è stata solo parziale,
con l’inevitabile
conseguenza che il sistema di governo ha frequentemente conosciuto episodi
di paralisi o,
viceversa, significative strumentalizzazioni delle nuove regole costituzionali.
Per ovviare a questi effetti negativi, da cui hanno avuto origine anche pesanti
crisi socio28
economiche, molti paesi del sud del Mediterraneo hanno cercato di
intraprendere politiche di
liberalizzazione politica e di maggiore democratizzazione dell’organizzazione
costituzionale
ed amministrativa dello Stato, sia attraverso riforme tese a potenziare il
circuito democratico o
il pluralismo partitico, sia attraverso tentativi di potenziamento del pluralismo
di tipo
territoriale. Accanto a queste modifiche costituzionali, su pressione dell’Unione
europea, sono
anche state introdotte norme tese alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo.
Nei molti Stati che si proclamano islamici, il rapporto che intercorre tra le
istituzioni di
governo e l’individuo si caratterizza in modo tale per cui le autorità pubbliche,
ostili ad ogni
forma di libertà individuale, finiscono per opprimere le differenti opposizioni
attraverso un
forte controllo dei mezzi di comunicazione e delle altre fonti di opinione non
allineate alla
politica governativa.
L’Islām viene così adattato alle esigenze del potere, che tende ad annullare
ogni diversità
d’opinione in quanto potenzialmente pericolosa per il mantenimento dello
stesso, laddove ad
un’attenta lettura del Corano si può constatare come molti siano i versi che
prescrivono il
rispetto per la diversità all’interno di ogni comunità, da quella piccola e locale a
quella
internazionale: un verso assai significativo, ad esempio, recita che l’intera
umanità è un
popolo e che le differenze, che inevitabilmente intercorrono tra gli individui,
non vanno
considerate come un mezzo da cui desumere la superiorità o l’inferiorità tra
esseri umani,
quanto piuttosto come una ricchezza, nella misura in cui tutti possono trarne
beneficio in
termini di crescita personale; ancora, un altro verso, disponendo che Dio ha
creato il mondo in
tribù e nazioni diverse affinché l’una potesse capire l’altra, muove dalla
prospettiva della
comprensione e del dialogo reciproco tra i popoli.
Per comprendere appieno il significato della religione negli Stati
contemporanei, non può
non tenersi conto che essa ha costituito un fattore decisivo, oltre che per
l’affermazione
dell’identità nazionale della popolazione in un contesto di acquisizione
dell’indipendenza
dopo la fase della colonizzazione europea, anche in chiave di legittimazione dei
nuovi poteri
pubblici. Non è un caso, dunque, che, l’aspetto confessionale ricorra in tutte le
costituzioni dei
paesi di religione musulmana; soltanto la Costituzione turca fa eccezione in
questo senso, non
recando alcuna disposizione che ponga l’Islām come religione di Stato.
La maggior parte delle costituzioni islamiche, che hanno recepito il moderno
diritto
pubblico occidentale, sono, dunque, caratterizzate da alcuni principi
confessionali che
proclamano l’Islām «religione di Stato» e la Sharī’a viene spesso considerata la
principale
fonte del diritto.
È abbastanza agevole comprendere come questa particolare connotazione del
sistema di
governo dei paesi di religione musulmana sia, a sua volta, frutto della
caratterizzazione della
Sharī’a all’interno del Corano che compenetra in sé due aspetti: da un lato essa
è «verità»
religiosa rivelata da Dio, dall’altro è «legge», codice di comportamento. Di
questo duplice
modo d’essere della Sharī’a va inevitabilmente tenuto conto anche in sede di
analisi dei
processi costituenti che si sono avuti in questi paesi a seguito del
raggiungimento
dell’indipendenza. Da ciò deriva, in primo luogo, che il principio di laicità dello
Stato, tipico
delle costituzioni occidentali ed inteso quale «irrilevanza per lo stato dei
rapporti derivanti
dalle convinzioni religiose, nel senso di considerarli fatti privati da affidare
esclusivamente
29
alla coscienza dei credenti» (Mortati), è ben lontano dall’affermarsi, con tutte le
conseguenze
che da questa impostazione possono derivare in termini di limitazione della
libertà religiosa
del singolo, essendo molte le previsioni normative che, al contrario,
garantiscono uno status
di assoluto privilegio per i credenti musulmani.
Il problema della libertà religiosa è, anzi, emblematico della perenne difficoltà
di far
coesistere il diritto religioso e quello positivo, di derivazione statale, nei paesi
arabi. La
difficoltà di un incontro tra i due diritti è direttamente riscontrabile nel rapporto
tra poteri
statali e Islām, nella misura in cui le operazioni finalizzate a sostituire
progressivamente le
legge divina con il diritto positivo dello Stato conducono spesso ad inevitabili
conflitti tra la
legittimità del potere politico, espressione della volontà popolare, ed il potere
religioso che
continua ad esercitare un ruolo di prim’ordine in seno alla società. Il più delle
volte, il
conflitto, non risolto, si traduce nella sostanziale convivenza della Sharī’a (che
comprende
quasi esclusivamente regole di diritto privato e penale) ed il diritto statale o
con l’applicazione
del diritto musulmano in via residuale rispetto a quello positivo o, ancora,
attraverso
esperienze di normazione di matrice politica che tengono conto de (e spesso
inglobano) i
principi della Sharī’a.
Anche da questa mescolanza di discipline di origine diversa nascono le notevoli
difficoltà
dell’interprete, che si scontra con una realtà del diritto vivente difficile da
ricostruire.
Parte II – Cenni sui «rami» del diritto
1. «Radici» e «rami» del diritto
La scienza del diritto musulmano (’ilm al fiqh) prevede una summa divisio tra
usūl al-fiqh
(le «radici» del diritto: v. supra, par. 5.), e furū’ al-fiqh, i «rami» del diritto.
I furū’ al-fiqh sono le varie branche del diritto islamico e costituiscono l’insieme
degli
istituti giuridici, rappresentando il vero e proprio corpus delle regole
sciaraitiche. I furū’ alfiqh
vengono suddivisi in ’Ibadāt o regole del culto (anche di natura patrimoniale),
quindi
regole relative al rapporto tra l’uomo e il Creatore, e Mu’āmalāt o regole
giuridiche relative ai
rapporti che si svolgono in dimensione «orizzontale» tra l’uomo e i suoi simili.
L’ordine delle
trattazioni di Mu’āmalāt inizia dal matrimonio, prosegue con i diritti patrimoniali
(suddivisi
in diritti reali e obbligazioni) e si conclude con le successioni.
Una peculiarità del diritto islamico, di cui conviene dar conto sin da ora,
concerne la
classificazione degli atti dal punto di vista della liceità: se il nostro sistema si
basa su un
dualismo lecito-illecito, secondo cui ciò che non è espressamente vietato è
permesso, la
Sharī’a distingue, invece, cinque gradi di liceità degli atti: da un lato c’è
l’harām (ciò che è
proibito), che racchiude tutti i divieti, dall’altro c’è l’halāl (ciò che è permesso),
nel cui
ambito si distinguono quattro diversi tipi di azione in base alla seguente scala
di qualificazioni
religiose: 1) obblighi (riferiti al singolo – es.: la preghiera rituale, il digiuno etc. –
oppure
collettivi, cioè il cui compimento da parte di un certo numero di individui esime
tutti gli altri –
es.: la preghiera per i morti, la guerra santa etc.), 2) azioni raccomandate, 3)
azioni
indifferenti, 4) azioni disapprovate. In ogni caso, come detta uno dei principi
fondamentali
della Sharī’a, solo chi compie un’azione harām è passibile di punizione.
2. Il diritto privato
Un primo profilo relativo alla materia del diritto privato afferisce alla
soggettività
giuridica. Un dato che emerge è relativo al fatto che il diritto islamico sembra
presentare
significative analogie con le categorie del diritto privato di tipo occidentale, in
cui la capacità
di un soggetto si esprime nelle due differenti proiezioni della capacità giuridica
e della
capacità di agire: la prima esprime la capacità del soggetto di essere titolari di
diritti e
obblighi mentre la seconda la capacità di compiere validi atti giuridici.
Maggiormente distanti
dalla tradizione occidentale sono, al contrario, gli aspetti legati al concetto di
«persona
giuridica», del tutto assente nel diritto musulmano, nonché quelli, più in
generale,
riconducibili al diritto di famiglia, dove ancora oggi, nonostante le moderne
sistemazioni
legislative, il diritto musulmano manifesta un forte legame con la tradizione
classica,
scontando la presenza di un evidente tessuto di valori e canoni religiosi. Legata
maggiormente
alla tradizione è, in particolare, la posizione giuridica della donna che,
all’interno dei rapporti
familiari, non gode di una condizione di assoluta parità rispetto all’uomo,
essendo il suo ruolo
31
confinato in una precisa suddivisione dei ruoli. Diversità si colgono, da un punto
di vista
dogmatico, in tema di successioni, mentre, in tema di obbligazioni e diritti reali,
gli istituti
giuridici sembrano richiamare quelli di tipo occidentale, pur nell’ambito di una
disciplina
giuridica dove non mancano, anche qui, forti condizionamenti di tipo religioso.
2.1. I soggetti
La capacità giuridica di un soggetto è l’ahliyya. Secondo il diritto musulmano
tradizionale,
per godere della piena capacità giuridica non è sufficiente essere uomo, ma
occorre anche
essere libero e, soprattutto, musulmano (l’apostasia dall’Islām, oltre ad essere
considerata
come un grave reato, è anche causa di perdita della capacità giuridica). In
generale, la capacità
giuridica si acquisisce con la nascita e si perde con la morte; esiste, tuttavia,
un’interessante
eccezione a questa regola che riguarda la capacità del nascituro: il bambino
non ancora venuto
alla luce può ereditare senza particolari limitazioni, purché l’evento della
nascita si realizzi
entro sei mesi dalla morte del de cuius.
a. La capacità giuridica si concretizza in varie forme e gradi, a seconda del
censo e della
posizione sociale. Il grado più basso della scala era quello assegnato agli
schiavi. Lo schiavo
era considerato una merce, quindi era solo «oggetto di diritto»: tuttavia, il
favor libertatis,
specialmente se si trattava di uno schiavo musulmano, limitava le conseguenze
logicogiuridiche
derivanti dalla sua condizione ed allo schiavo venivano così riconosciuti una
sorta
di diritti attenuati rispetto ai liberi. Si diventava schiavi per nascita o per
prigionia di guerra,
ma non per «autovendita in schiavitù»; la schiavitù poteva cessare per cause
volontarie,
unilaterali o bilaterali (si riconosceva infatti allo schiavo la capacità di
affrancarsi mediante
l’acquisto della libertà) o per cause derivanti dal diritto, tra le quali, ad
esempio, si
annoverava la manomissione della schiava che aveva partorito un figlio al
padrone (la umn
walād, la madre del fanciullo) al momento della morte del padrone. Da notare è
che
comunque, oggi, la schiavitù è vietata in tutto il mondo musulmano
Il grado più alto era invece quello del maschio, adulto, maturo e sano. Si
rammenta, in
questa sede, che il maschio «adulto» è, secondo il diritto musulmano, colui il
quale ha
superato il quindicesimo anno di età.
b. La capacità di agire e di disporre dei propri beni può essere limitata per
cause di varia
natura, quali impubertà, sesso femminile, difetti fisici ed infermità di corpo e
mente, stato di
insolvenza, condotta etica riprovevole e malattia mortale. In conseguenza della
confessionalità del sistema, gli appartenenti alle religioni ebraica e cristiana e,
successivamente, anche zoroastriana e indù potevano godere di una limitata
capacità allorché
acquistavano, stabilmente o temporaneamente, uno status riconosciuto
dall’Islām. Con il
politeisti idolatri v’era, invece, solo un rapporto di natura bellica, cioè di Jihād
(guerra santa).
Un ulteriore requisito veniva richiesto ai testimoni nei processi: l’essere «buoni
musulmani», potendo però tale regola essere derogata per mezzo di
un’autorizzazione del
qādī.
2.1.1. La posizione giuridica della donna
Dal punto di vista meramente giuridico e per quanto riguarda obblighi, diritti e
dignità
32
umana, per uomini e donne il diritto musulmano classico sembra prospettare,
in linea teorica,
una condizione di parità, essendo la comunità islamica fondata sul principio
dell’eguaglianza
dei credenti e della loro fratellanza nella fede. Questo principio sembra essersi
consolidato
anche tra le correnti più integraliste della scienza giuridica, salvo poi l’insistere
da parte di
queste ultime su una diversa attribuzione di diritti, naturale conseguenza di
una sostanziale
differenza di ruolo riconosciuta a uomini e donne all’interno della società.
Anche muovendo da un’analisi di quanto il Corano prescrive in proposito, è
utile
considerare come molti versi di contenuto etico-morale, considerati eterni e
pronunciati alla
Mecca tendano, in più occasioni, a garantire l’assoluta parità tra i sessi,
determinando così
una netta cesura rispetto alle civiltà pre-islamiche, in cui quella del genere
femminile era,
senza dubbio, una condizione di assoluta inferiorità e sottomissione.
Oltre a quanto si vedrà in ordine al matrimonio, un aspetto di indubbio
interesse, che segna
una diversità con la tradizione pregressa, è rappresentato dalla capacità della
donna in tema di
successioni. Nelle tribù pre-islamiche le donne erano escluse dalla successione:
solo i
discendenti in linea maschile potevano ereditare; nel diritto islamico, al
contrario, le donne
possono ottenere fino alla metà dell’eredità.
Nonostante queste considerazioni, è innegabile che nell’Islām, ed anche in
quello
contemporaneo, in talune situazioni particolari, la donna non sembra ancora
aver raggiunto
quella pienezza di diritti e facoltà che invece è assicurata negli ordinamenti
occidentali.
Se la condizione di parità tra uomo e donna assume un significato pregnante in
riferimento
alla comunità musulmana nel suo complesso, intesa quale comunità dei
credenti, di diversa
natura è la valutazione in ordine ai rapporti scaturenti dall’unione
matrimoniale. In questo
ristretto ambito, come si vedrà, l’uomo gode di una posizione di sostanziale
preminenza, cui
si associa anche un rilevante potere correttivo nei riguardi della moglie, che
trova la sua
principale ratio nel sinallagma derivante dal negozio giuridico tra i coniugi.
Ulteriore elemento di diseguaglianza attiene al campo del processo penale: la
donna ha,
infatti, una capacità di testimoniare ridotta rispetto a quella dell’uomo. La sua
testimonianza
vale la metà: se per la costituzione di una prova valida ai fini processuali è
imposta la
concordanza delle dichiarazioni rese da due testimoni maschi, ne servono
invece quattro per
raggiungere lo stesso risultato nel caso in cui vi sia disponibilità di soli
testimoni di sesso
femminile.
Altro esempio di una non perfetta parità tra i sessi, che tuttavia tende ad
essere superato
dalle interpretazioni più moderne, riguarda l’esercizio del potere giurisdizionale
e attiene, in
particolare, alla capacità della donna di ricoprire l’ufficio di qādī. La Sharī’a non
lo esclude
espressamente, ma tale eventualità ha incontrato grosse resistenze da parte
della dottrina in
base all’assunto per cui la donna sarebbe «non razionale» e quindi inidonea a
giudicare. Al
contrario, va segnalata la presa di posizione dei modernisti, fortemente critici al
riguardo, in
quanto considerare la donna non razionale svilirebbe l’opera di Dio.
Gli interpreti del diritto si sono divisi, più in generale, sulla possibilità o meno
per il genere
femminile di raggiungere posizioni di potere e prestigio sociale: in senso
negativo, i
tradizionalisti evidenziano come non sia mai esistita una profetessa nel mondo
islamico. A
fronte di questa opinione, i modernisti hanno, al contrario, interpretato tale
circostanza da un
33
punto di vista storico-sociale e non, dunque, propriamente religioso. Le varie
società
islamiche si erano fondate, infatti, su modelli tipicamente patriarcali tali, per
cui sarebbe stato
impossibile, da parte dell’intera collettività, riconoscere ad una donna
autorevolezza e
prestigio sociale in virtù delle parole da questa pronunciate.
2.1.2. La condizione del minore
Uno dei primi diritti dei soggetti minori è quello ad avere un padre.
L’attribuzione della
paternità di un bambino è il dato che costituisce la base di tutti i diritti del
bambino stesso: dal
diritto di essere nutrito, educato e protetto al diritto di avere un tutore che,
eventualmente,
gestisca il suo patrimonio.
L’attribuzione di paternità discende automaticamente dall’esistenza di un
matrimonio
valido: il padre diviene così immediatamente responsabile del bambino nato.
Questo principio rappresenta il presupposto per l’attribuzione della paternità,
anche
qualora possano sussistere dubbi circa l’effettività di questa. Si ritiene infatti
che, anche nel
caso in cui due coniugi abbiano divorziato, il bambino nato entro i nove mesi
successivi a tale
divorzio sia figlio legittimo dell’ex-marito della donna.
La durata riconosciuta per lo stato di gravidanza varia da sei mesi a due anni:
ciò significa
che il marito può riconoscere come proprio un bambino nato entro due anni
dallo
scioglimento del matrimonio ed il suo rifiuto potrebbe dar luogo ad un’accusa
di adulterio.
Tale termine tuttavia non ha natura perentoria, in quanto si registrano casi in
cui il minore é
stato riconosciuto, anche se nato dopo il periodo indicato come massimo.
Lo stesso principio di automatica attribuzione della paternità sulla base
dell’esistenza di un
matrimonio valido implica che, qualora una donna commetta adulterio
(considerato uno dei
crimini più gravi nell’ordinamento islamico), ciò non comporti l’attribuzione
della paternità
del bambino eventualmente nato da tal rapporto extra-coniugale a persona
diversa dal
legittimo marito della donna, a meno che egli non rifiuti espressamente
qualsiasi
responsabilità. La ragione fondante di questo principio sembra riposare sulla
volontà di
assicurare in ogni caso un padre legittimo.
Sebbene il riconoscimento di paternità di una persona di origini sconosciute
equivalga di
fatto ad un’adozione, l’istituto dell’adozione in quanto tale non esiste, perché
negato dal
Corano. Il bambino abbandonato in tenera età può venir dichiarato proprio
figlio da chiunque
lo voglia e, fino a prova contraria, egli è libero e musulmano, a meno che non
sia stato trovato
in un quartiere non musulmano. Se nessuno lo reclama, chi lo ha trovato può
esercitare su di
lui una sorta di potestà genitoriale, tuttavia limitata rispetto a quella che
potrebbe esercitare il
genitore legittimo.
Per quanto riguarda la cura e la tutela dei minori, si distinguono tre diverse
tipologie di
legittimi tutori (wilāya), avuto riguardo alla crescita, all’educazione spirituale ed
alla gestione
del patrimonio.
a. Una prima tipologia di tutore che si prende cura della crescita e dello
sviluppo
complessivi del bambino, durante tutto il periodo di Hadana, che comprende
sostanzialmente
tutta l’infanzia, e termina per le femmine con la pubertà (verso i quindici anni,
a meno che
queste non contraggano matrimonio prima), mentre, per i maschi, fra i sette ed
i nove anni.
34
Normalmente tali funzioni tutorie sono affidate alle donne della famiglia,
considerate più
adatte a prendersi cura dei bambini. Peraltro, non si tratta di un dovere, ma
solo di un diritto,
che la madre perde se contrae un successivo matrimonio con una persona che
non sia parente
del minore: in questo caso, come in quello in cui la madre muoia, il diritto
passa alla parente
più prossima, innanzitutto della madre, ed in secondo luogo del padre.
b. La seconda figura di tutore rappresenta una sorta di guida spirituale per il
bambino,
all’interno di tutto il suo percorso di crescita, fino al raggiungimento della
pubertà. Si ritiene
che gli uomini della famiglia (padre, nonni) siano le figure più indicate per
assolvere a questo
compito. Questo ruolo di mentore del fanciullo deve essere contemperato con
una peculiarità
della cultura islamica, che ha sempre riconosciuto ai bambini il diritto di avere
proprie
opinioni e responsabilità in ragione della loro crescita. Tale pedagogia del
mondo islamico,
capace di valorizzare la volontà del fanciullo, appare innovativa, anche rispetto
alla cultura
occidentale, che, tradizionalmente, e fino a tempi recenti, non ha riconosciuto
ai minori alcuna
capacità di scelta.
c. Il terzo tutore rileva, rispetto al minore, da un punto di vista patrimoniale, in
quanto è la
persona responsabile della gestione di eventuali proprietà del bambino, che è,
perciò, anche
capace di ricevere eredità. Anche per quanto riguarda i compiti di
amministrazione del
patrimonio, gli uomini sono indicati come le persone più idonee. Qualora il
bambino sia
orfano, sarà il qādī ad amministrare il patrimonio diligentemente e nel modo più
favorevole
per il minore stesso.
2.1.3. Le persone giuridiche
In tema di soggetti giuridici, una notevole differenza con il diritto occidentale è
rappresentata dalla sostanziale assenza, nel diritto musulmano, del concetto di
persona
giuridica; un corollario di questa concezione è rappresentato dal fatto che
anche l’erario (bayt
al-māl) viene considerato quale il complesso dei beni di proprietà dell’intera
comunità
musulmana.
Particolare rilievo assume, per la vicinanza rispetto al concetto di persona
giuridica,
l’istituto del waqf (fondazione pia, manomorta), costituito mediante
immobilizzazione della
«sostanza» (’ayn) di un bene di proprietà del fondatore e contestuale
destinazione dei proventi
a scopo caritatevole. Un carattere essenziale del waqf è la permanenza dello
scopo che, in
ogni caso, deve essere conforme ai principi dell’Islām: di conseguenza, in caso
di morte dei
beneficiari, per esempio, occorrerà nominare ulteriori beneficiari. Oggetto del
waqf sono, per
lo più, beni immobili ma anche, per consuetudine, determinati beni mobili,
come ad esempio i
libri. Infine, risultano particolarmente dettagliate sia le regole relative
all’amministrazione del
waqf, sia quelle concernenti il suo uso per uno scopo diverso da quello indicato
dal fondatore.
2.2. Il matrimonio
2.2.1. Caratteri generali
Il diritto di famiglia costituisce il ramo del diritto musulmano maggiormente
ancorato alla
legge divina, essendo lo stesso regolamentato, per molti tratti, nella rivelazione
coranica. Gran
35
parte dei versetti giuridici del Corano, infatti, prescrizioni volte a disciplinare la
materia delle
relazioni familiari che si instaurano successivamente al matrimonio.
Tuttavia, anche queste norme presentano significativi limiti, che hanno favorito
un’opera
di complessiva sistemazione ed adattamento degli interpreti anche in questo
settore. Da un
lato, infatti, va considerato che anche le norme coraniche si presentano spesso
oscure e per
certi aspetti contraddittorie, dall’altro, sono del tutto assenti formulazioni
tecniche relative
agli effetti giuridici di fatti o atti rilevanti. Queste due circostanze spiegano,
dunque, il motivo
per cui, sebbene il matrimonio e le istituzioni ad esso correlate trovino un
preciso riferimento
nella legge divina, la loro completa definizione debba attribuirsi all’opera degli
interpreti delle
scuole giuridiche.
Quanto all’ampiezza dell’attività interpretativa, il fondamento coranico ha
portato, per
molto tempo, a ritenere queste disposizioni come assolutamente intangibili ed
immutabili,
favorendo un tipo di interpretazione rigorosa che non lasciava spazio a
modifiche ed
adattamenti. Solo dalla fine del diciannovesimo secolo, in concomitanza con i
processi di
modernizzazione dei paesi islamici, anche il nucleo del diritto sciaraitico
rappresentato dal
diritto di famiglia ha conosciuto una nuova interpretazione, volta, in generale, a
temperare la
severità della normativa religiosa.
L’attività interpretativa ha così portato ad una riformulazione delle norme
sciaraitiche nei
codici di diritto di famiglia, denominati «statuto personale», caratterizzati
comunque da
rilevanti differenze sia nello stile che nei contenuti.
Il peso delle diverse scuole si fa sentire, in effetti, principalmente nell’ambito
del diritto di
famiglia.
2.2.2. Il matrimonio come negozio giuridico
Tutte le scuole, in accordo alla tradizione della Sharī’a, considerano il
matrimonio (nikāh)
quale un contratto sanzionato dalla legge divina, e non un sacramento religioso
(come per la
religione cristiana).
Nonostante questa configurazione, il matrimonio rientra negli atti fortemente
raccomandati, in quanto è, in primo luogo, un’istituzione giuridica volta a
regolare l’ordine
sociale. Al matrimonio sono, infatti, intrinsecamente legati gli obiettivi della
cura della prole
legittima e delle legalizzazioni dei rapporti sessuali. In secondo luogo, la
famiglia costituisce
per ogni musulmano l’ambiente più consono per realizzare e professare al
meglio la fede
musulmana.
Al fine di descrivere l’istituto matrimoniale, si possono evidenziare le diverse
fasi di
formazione del negozio matrimoniale e la loro disciplina.
a. Il matrimonio è preceduto dal fidanzamento, in cui entrambe le parti
esprimono la
volontà di contrarre il matrimonio. In qualsiasi momento, durante detto
periodo, ciascun
contraente può sottrarsi alla promessa fatta, salvo il diritto della controparte di
chiedere un
compenso per eventuali danni subiti dal mancato rispetto dell’impegno preso. Il
contratto
prematrimoniale si conclude per mezzo di un’offerta (Ijab) e di un’accettazione
(Qabul), che
devono essere manifestate contestualmente da due persone «adulte» e
«mentalmente sane».
b. Oltre alla sussistenza dei due elementi essenziali del contratto
prematrimoniale (età
36
adulta, sanità di mente), ai fini della validità del matrimonio è necessaria la
presenza di tre
ulteriori requisiti fondamentali. Innanzi tutto, non devono rintracciarsi elementi
nel negozio
che rendano il vincolo temporaneo e non duraturo nel tempo: il matrimonio
musulmano,
infatti, nonostante sia comunque previsto lo scioglimento, è concluso per
essere durevole. In
secondo luogo, l’atto deve essere pubblico: sono necessari almeno due
testimoni al momento
dello scambio dei consensi (offerta e accettazione); tali testimoni devono
essere liberi, due
uomini oppure un uomo e due donne. Infine, si individua una serie di divieti,
parziali o totali,
a contrarre matrimonio: a. non sussistenza di alcun legame, in primo luogo di
tipo familiare,
tra i due soggetti che possa impedire il matrimonio: in particolare, un uomo
non può sposare
né un antenato di sesso femminile (madre, nonna, zia), né una figlia o una
nipote, una sorella
o una sorellastra; un uomo non può nemmeno congiungersi con donne che
siano legate alle
parenti di una moglie e quindi acquisite; inoltre, non possono sposarsi due
persone che sono
state allattate allo stesso seno (fratelli di latte nutriti per almeno quindici giorni
dalla stessa
nutrice); b. tra le parti non deve essere stato sciolto un precedente matrimonio
per triplice
ripudio (a meno che la donna non abbia nel frattempo contratto un matrimonio
effettivamente
consumato con un altro uomo, che viene denominato «colui che rende
nuovamente lecita la
donna»); c. i nubendi non debbono trovarsi in stato di malattia mortale, donde
la proibizione
di contrarre matrimonio nell’imminenza della morte; d. . un uomo non può
sposare una donna
che professi una religione pagana, cioè diversa da quella musulmana, ebraica o
cristiana (per
l’uomo è, dunque, lecito sposare solo donne che, benché non musulmane,
appartengano
all’ahl al-kitāb – letteralmente: Gente del libro – , siano cioè ebree o cristiane; la
donna,
invece, può sposare solo un uomo musulmano: quest’ultima regola, che
differenzia
nettamente l’uomo dalla donna, deriva dalla posizione di preminenza assunta
nella famiglia
musulmana fondata sul vincolo di sangue, dall’uomo capofamiglia, che ha un
diritto di
coercizione domestica sulla moglie e sui figli; e. all’uomo è consentito sposarsi
con una
donna di condizione economica pari o inferiore alla propria, ma non più elevata
(ciò perché si
ritiene che l’uomo sia in grado di arricchire la donna, ma che essa non possa
fare altrettanto);
f. vi sono, infine, alcuni impedimenti «temporanei» alla validità del matrimonio,
il più
significativo dei quali è rappresentato dalla condizione della donna che divorzia
da un altro
uomo (quando una coppia divorzia, infatti, la donna deve osservare un periodo
(Idda) durante
il quale non può sposarsi con un altro uomo; il periodo di «ritiro legale» della
donna a seguito
dello scioglimento di un matrimonio consumato, per una donna incinta, dura
fino alla nascita
del bambino; se la donna non è incinta, lo stesso dura quattro mesi e dieci
giorni, nel caso in
cui il marito sia morto, mentre in tutti gli altri casi esso dura l’arco di tre
mestruazioni,
ovvero, se è una donna non mestruata, tre mesi).
Qualora siano state rispettate tutte le limitazioni descritte, il matrimonio è
valido, senza la
necessità di alcuna cerimonia religiosa. Questo negozio giuridico è, del resto, il
solo atto
giuridicamente rilevante nella conclusione del matrimonio: né l’intimità tra
uomo e donna, né
la consumazione sono elementi essenziali per la conclusione del matrimonio,
ma sono fatti
che possono acquisire una loro rilevanza giuridica solo al momento dello
scioglimento.
c. Requisito essenziale del contratto di matrimonio è l’obbligo dell’uomo di
pagare una
somma, detta Mahr (o donativo nuziale), quale simbolo della serietà delle sue
intenzioni e
segno della legittimità dell’unione. Il Mahr può anche non avere contenuto
patrimoniale ed
37
essere, perciò, puramente simbolico. Inoltre, va precisato che la moglie può
permettere al
marito di stabilire l’entità del Mahr, il che può anche significare la rinuncia al
suo diritto.
L’ammontare minimo del Mahr è di dieci dirham e, se non viene fissato, il
marito dovrà
pagare un Mahr equo, tenendo conto di alcune qualità personali della sposa, in
primis della
sua posizione sociale.
Quanto alle modalità di pagamento del dono, è consuetudine effettuarne parte
subito e
rinviare il restante ad un momento successivo, ma è possibile anche versare
subito l’intera
somma o rimandare del tutto il versamento: la parte non ancora pagata è
dovuta in caso di
morte di uno degli sposi ed in caso di ripudio, se il matrimonio è stato
consumato; se, al
contrario, il ripudio avviene prima della consumazione del matrimonio, la
moglie ha diritto
alla metà del dono pattuito. È evidente come l’obbligazione del marito di
pagare il Mahr in
caso di ripudio limiti fortemente la sua libertà di decisione in tal senso.
d. Per quanto attiene al momento della conclusione del contratto, va tenuto
conto di una
divergenza fra le scuole giuridiche circa i soggetti del contratto matrimoniale:
secondo gli
shafiiti, soggetti sono l’uomo e l’agnate maschio più vicino alla donna, che
funge da curatore
matrimoniale (walī), esprimendo per lei il consenso (in mancanza di agnati il
curatore è
nominato dal giudice), mentre la donna è solo l’oggetto del contratto; per altre
scuole, invece,
la donna è soggetto, pur essendo richiesta, a pena di nullità, la presenza del
curatore
matrimoniale che deve «integrare» con la propria dichiarazione la volontà che
la donna è
chiamata a manifestare. Anche su tale aspetto, e sul ruolo del walī, vi sono,
però, alcuni
elementi di novità nelle legislazioni civili dei paesi arabi. Si tende, innanzitutto,
a ridurre la
funzione svolta dal walī, sino ad eliminare, o per lo meno ridurre, la possibilità
di contrarre
matrimonio in età precoce. In alcuni paesi, infatti, sono state introdotte norme
che prevedono
una soglia di età al di sotto della quale è proibito sposarsi ed una soglia di età
prima della
quale è prevista un’autorizzazione giudiziaria. Altri paesi hanno adottato,
invece, la soluzione
di non rendere azionabili i diritti derivanti da un matrimonio non registrato, per
cui il
matrimonio concluso ad un’età inferiore a quella consentita mantiene la propria
validità, ma
non viene rilasciata la certificazione necessaria affinché il giudice conosca della
causa
matrimoniale. In alcuni ordinamenti, si è del tutto eliminata la figura del walī,
mentre in altri
si riconosce comunque validità ad un matrimonio concluso senza il suo
intervento.
La scuola di pensiero hanafita è l’unica che riconosce alla donna libertà
assoluta sia nello
scegliere il proprio marito sia nel concludere il contratto di matrimonio da sola;
ma, se si
mostra tanto liberale nel concedere alla donna la piena facoltà di scelta del
coniuge, la stessa
scuola pone condizioni molto rigorose in tema di compatibilità tra uomo e
donna. A
quest’ultimo fine, infatti, rilevano elementi quali la situazione economica
dell’uomo, la
professione che esercita, la condizione sociale dei coniugi (che devono essere
liberi: la teoria
risale al periodo in cui esisteva ancora la categoria degli schiavi) e la religione
professata.
Quanto alla religione, infatti, è preferibile (anche se, come detto, non tassativo)
che sia
l’uomo che la donna siano musulmani.
2.2.3. La poligamia
Con riferimento alla posizione giuridica della donna, un elemento di
differenziazione
38
rispetto alle civiltà preislamiche concerne il differente approccio rispetto alla
poligamia e, in
particolare, al numero delle mogli. Se prima dell’affermarsi dall’Islām non si
avevano
limitazioni di sorta, il Corano fissa il numero massimo in quattro. Nonostante
questa
evoluzione, è indubbio, tuttavia, che la poligamia sia considerata, ancora oggi,
un forte
elemento di squilibrio tra i sessi e di destabilizzazione della famiglia, tant’è che
essa è stata
oggetto di una profonda riflessione critica anche all’interno del mondo
musulmano fin dal
diciannovesimo secolo. Il versetto coranico che consente ad un uomo di
sposare fino a quattro
mogli è stato così riletto alla luce di un altro versetto, in cui si stabiliva che gli
uomini non
potessero comunque mai agire con assoluta equità con le loro mogli, in quanto
solo Maometto
sarebbe stato un marito tanto giusto e capace da garantire alle sue quattro
mogli un
trattamento paritario.
Queste interpretazioni hanno, inevitabilmente, sortito un effetto rilevante da un
punto di
vista della prassi. Ad oggi, infatti, la pratica della poligamia è stata di fatto
abolita in buona
parte dei popoli musulmani. Tuttavia, nonostante queste recenti evoluzioni
favorite dalla
scienza del diritto, negli strati sociali medio-bassi delle popolazioni, ancora oggi
essa continua
ad avere diffusione.
2.2.4. I rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi
Il principale obbligo di natura patrimoniale gravante sul marito e derivante dal
negozio
giuridico consiste nel mantenimento della moglie, che deve comprendere cibo,
vestiario e
alloggio, ovvero una casa o almeno una stanza separata che possa essere
chiusa a chiave e, per
le benestanti, anche una persona addetta al suo servizio. La corrispettività
delle prestazioni
trova ulteriore riscontro nella circostanza per cui il marito non è obbligato ad
assicurare alla
moglie il mantenimento fino a quando il matrimonio non sia stato consumato.
La moglie non è tenuta a sostenere alcuna spesa relativa alla conduzione del
matrimonio;
tuttavia, il suo diritto al mantenimento viene sospeso se è minorenne, se è
disobbediente (in
particolare, se lascia la casa senza autorizzazione o se rifiuta il rapporto
coniugale), se viene
incarcerata per debiti, se compie il pellegrinaggio non in compagnia del marito
o se viene
rapita. Se il marito si assenta senza provvedere al mantenimento della moglie,
il qādī può
autorizzarla a provvedervi autonomamente, ma il marito risulta comunque
coinvolto nelle
attività che essa pone in essere per il proprio mantenimento, poiché queste
vengono compiute
attraverso la spendita del suo nome.
Il diritto al mantenimento persiste anche durante la ’idda (il periodo di «ritiro
legale»),
purché il matrimonio non sia stato sciolto per colpa della moglie.
Al di là dell’obbligo di mantenimento da parte del marito, nei rapporti
patrimoniali tra
coniugi vige il sistema della netta separazione dei beni. La donna può
amministrare il suo
patrimonio, disponendone liberamente, fatta eccezione per gli atti di liberalità,
che richiedono
il consenso del marito, il quale amministra anche i beni oggetto di donativo
nuziale.
Per quanto riguarda i rapporti personali, emerge un quadro fortemente
squilibrato a favore
del marito. Tale supremazia si fa risalire ad una specifica disposizione coranica
dove viene
previsto esplicitamente che «gli uomini hanno autorità sulle donne, in virtù
della preferenza
che Dio ha loro accordato su di esse ed a causa delle spese che sostengono per
assicurarne il
39
mantenimento». L’obbligo del mantenimento, si configura, dunque, come
espressione di un
sinallagma contrattuale che costituisce il principale fondamento giuridico di
una sostanziale
disparità a livello personale, in una dimensione che unisce profili religiosi e
contrattuali,
riversandosi, in ultima analisi, sulla condizione giuridica personale.
Il potere del marito è piuttosto ampio e comprende anche un limitato diritto di
correzione:
alla donna può essere proibito di uscire e le possono essere imposti dei limiti
con riguardo
all’accesso di ospiti in casa. La moglie disobbediente, poi, può incorrere in
provvedimenti
correzionali da parte del marito e perdere il diritto al mantenimento. Dal canto
suo, la moglie
può rifiutare, sia per sé che per i figli, di accompagnare il marito nei viaggi. Alla
moglie, più
in generale, fa capo l’obbligo di prestare obbedienza al marito e di mettersi a
sua
disposizione.
2.2.5. Lo scioglimento del matrimonio
Tre sono i tipi di scioglimento del matrimonio cui le parti possono ricorrere
senza
l’intervento del qādī. Ad essi si aggiungono altre fattispecie che conducono al
medesimo
effetto.
a. Il primo tipo è il divorzio Talaq (alla lettera, «ti ripudio»). La formula vuole
che, perché
il divorzio sia definitivo, il marito debba pronunciare la parola Talaq per tre
volte. Dopo il
primo Talaq inizia l’Idda (periodo di tre mesi), durante il quale è possibile un
ripensamento
da parte dell’uomo e, quindi, il ricongiungimento. Quando l’uomo pronuncia il
secondo
Talaq, è ammesso ancora un suo ripensamento nei tre mesi successivi, ma, in
questo caso, è
necessaria la stipulazione di un nuovo contratto e il contestuale versamento
del Mahr. Con il
terzo Talaq il divorzio diviene definitivo e i due coniugi non possono tornare
insieme se non
dopo che la donna si sia sposata e poi divorziata da un altro uomo ed in questa
eventualità è
necessario, ovviamente, concludere un ulteriore contratto di matrimonio. Il
fatto che il ripudio
debba avvenire in tre fasi e richieda un arco temporale piuttosto lungo assolve,
come è chiaro,
a finalità disincentivanti.
Da quanto detto, si evince, dunque, che il ripudio può essere revocabile o
definitivo e la
differenza deriva dal modo in cui viene formulato. Nella prassi, il triplice ripudio
è divenuto
la più comune forma di divorzio e, se il marito è tenuto a pronunciare tre
distinti ripudi nel
corso di tre successivi stati di purità da mestruazioni della moglie, si è, tuttavia,
sviluppata la
consuetudine di pronunciare il triplice ripudio con una sola dichiarazione.
Alle varianti del ripudio appartengono la mubāra’a, che è lo scioglimento del
matrimonio
di comune accordo, con la reciproca rinuncia ad ogni obbligazione finanziaria, e
la īlā’, lo
scioglimento del matrimonio per giuramento del marito di astenersi dal
rapporto sessuale per
quattro mesi; se il marito mantiene il giuramento ciò ha l’effetto di un ripudio
definitivo ma,
come in ogni altro giuramento, la īlā’ può essere ritirata facendo ricorso alla
kaffāra
(espiazione religiosa) o ad una pena autoimposta, a seconda dei casi.
b. Il secondo tipo di divorzio è il Tafwid. È la donna, in questo caso, a ripudiare
l’uomo,
dopo però che quest’ultimo le ha concesso la facoltà di farlo.
c. Il terzo tipo è il divorzio Hul: la donna abbandona la casa del marito, senza
prendere
però il resto del Mahr. In un certo senso, è come se la donna comprasse la
propria libertà.
40
Quest’ultimo è spesso usato oggi dalle donne come via giuridicamente
riconosciuta per
divorziare (in assenza di uno dei requisiti richiesti, elencati di seguito, per il
divorzio legale a
mezzo del qādī).
d. Altre forme di divorzio sono considerati i giuramenti imprecatori, con i quali
la moglie
viene indicata come donna con la quale è proibito il matrimonio.
Il matrimonio può venir sciolto anche dal li´ān, istituto del diritto penale, in
base al quale il
marito afferma, sotto giuramento, che la moglie ha avuto rapporti sessuali
illeciti o di non
essere il padre del figlio che le è nato; la moglie, se si presenta l’occasione,
afferma sotto
giuramento il contrario. Tali affermazioni sono espresse in formule rigorose dal
carattere
magico.
Inoltre, il matrimonio termina se diviene invalido in seguito ad apostasia
dell’Islām di uno
dei coniugi.
e. Vi è poi lo scioglimento del matrimonio solitamente pronunciato dal qādī, di
sua
iniziativa, nei casi di serio impedimento al matrimonio, o su richiesta di uno
degli sposi,
eccezionalmente dal walī (curatore matrimoniale), nell’esercizio del suo diritto
di obiezione, o
dalla moglie.
L’uomo può rivolgersi al qādī ed ottenere il divorzio in vari casi: se la moglie
presenta
gravi difetti fisici o è mentalmente disturbata e se egli si converte e la donna
no. La donna, a
sua volta, può ottenere il divorzio se il marito soffre di gravi difetti fisici o
mentali, se la
accusa in modo infondato di non essere pura, se è scomparso, se ella si
converte e il marito
rifiuta di farlo, se il marito non è in grado di mantenerla in maniera adeguata
(questo motivo
non è riconosciuto valido dalla scuola hanafita), se la maltratta (motivo
riconosciuto solo dalle
scuole malikita e hanbalita), se rifiuta l’ordine del qādī di divorziare, se non può
o non vuole
avere rapporti sessuali o se la tratta diversamente rispetto alle altre mogli.
Il contratto di matrimonio può anche essere sottoposto a condizione risolutiva.
In questo
caso il vincolo si scioglie automaticamente, qualora si verifichi l’evento dedotto
in
condizione.
Altra causa di scioglimento automatico del matrimonio è il cambiamento del
domicilio da
parte di uno dei due coniugi. Questa ipotesi si verifica, di regola, nel caso di
matrimoni non
musulmani. Per i musulmani, infatti, è molto più difficile, dal momento che, in
teoria, la
donna dovrebbe sempre seguire l’uomo che decide di cambiare domicilio.
La condizione della donna, comunque, anche una volta divorziata, non è quella
di una
persona libera: dovrà tornare infatti a casa del padre e dipendere nuovamente
da un uomo.
Quanto al destino dei figli maschi a seguito di divorzio, questi restano con la
madre fino ai
sette-nove anni, mentre le figlie femmine fino all’adolescenza, ma, se la donna
si risposa o si
trasferisce in un luogo lontano, rinuncia indirettamente al suo diritto e i figli
tornano dal
padre.
2.3. Le successioni
2.3.1. Principi generali
Nel diritto musulmano, esiste la figura giuridica dell’erede solamente
nell’ipotesi di
41
successione legittima, cioè nei casi in cui è la legge ad istituire tale figura
precisandone le
caratteristiche nonché la misura dei diritti sul patrimonio del de cuius, che ha,
quindi, una
limitata possibilità di destinare i propri beni a soggetti terzi, estranei a quelli
legittimati dalla
legge. Le ragioni dell’esclusione dalla successione sono: l’essere schiavo, l’aver
causato la
morte del defunto, la differenza di religione e di domicilio, mentre motivi di
attribuzione della
qualità di erede sono la consanguineità, il matrimonio e la clientela. Da notare
è altresì che
non esiste la successione a titolo universale.
Per quel che attiene al patrimonio del defunto, da esso vengono dedotti innanzi
tutto i costi
del funerale e, in secondo luogo, i debiti che la morte del debitore rende
immediatamente
esigibili. Per converso, i crediti del defunto entrano a far parte del suo
patrimonio. Molti
contratti sono sciolti alla morte di uno dei contraenti. Quanto all’oggetto
dell’eredità, può
essere ereditato non solo ciò che ha un valore pecuniario ma anche altri diritti,
come ad
esempio quello di esigere la legge del taglione.
2.3.2. La successione legittima
Il diritto stabilisce quote fisse per la successione con un ordine di precedenza
dal parente
più prossimo ai restanti. È questa la successione legittima che si apre sui due
terzi del
patrimonio che, pertanto, sono indisponibili. Dunque, i due terzi del patrimonio
ereditario
spettano agli eredi legittimi. Al marito spetta un quarto dell’intero patrimonio
se ha figli o
nipoti, metà se non ha figli, mentre alla moglie un ottavo se ha figli (in
presenza di più mogli,
esse devono dividersi quell’ottavo), un quarto se non ha figli, e così via. Da
quanto appena
detto, emerge il privilegio del sesso maschile nell’ambito della successione,
espressione di
una tendenza che, differentemente dalle tradizioni europee, tende a frazionare
il patrimonio
più che a conservarlo intatto. In questo senso, vanno anche lette le regole
relative alla
successione che prevedono un ordine di soggetti qualificati come eredi e
presuppongono
un’organizzazione patriarcale della famiglia.
In generale, il parente più prossimo esclude il più distante: i parenti da parte di
padre e di
madre escludono quelli dalla sola parte di padre, e una persona che ha diritto a
una quota
ereditaria esclude tutti coloro che sono imparentati con il deceduto attraverso
questa persona.
Chi è escluso per aver causato la morte del defunto non esclude gli altri: i suoi
figli, ad
esempio, non perdono il diritto alla successione.
Il testamento può inoltre contenere la designazione di un esecutore e/o di un
tutore (wasī).
Le disposizioni testamentarie sono, quindi, limitate, nella successione legittima,
alla nomina
di un esecutore e/o tutore testamentario (wasī). Il wasī deve accettare
l’incarico, prima o dopo
la morte del disponente, e la sua funzione principale è, in primo luogo, quella di
ripartire
l’eredità. Il wasī, nominato con tale atto, è anche un rappresentante degli eredi
minori o
assenti e amministra la loro parte di eredità, ma, a quest’ultimo scopo, può
essere nominata
un’altra persona. La sua responsabilità è limitata, ed il suo operato è sottoposto
al controllo
del qādī, che può autonominarsi wasī o rimuoverlo dall’incarico per incapacità o
disonestà. In
nessun modo è possibile ereditare un debito, che ha la precedenza su qualsiasi
quota
ereditaria: se il patrimonio del defunto non è sufficiente a saldare il debito,
questo si estingue,
senza gravare sugli eredi.
42
2.3.3. La successione volontaria
Del terzo del patrimonio che residua dalla successione legittima il de cuius può
disporre
mediante atto di ultima volontà (wasiyya), la cui efficacia è comunque
subordinata al
consenso degli eredi o alla loro inesistenza. Tale atto non è assimilabile al
testamento, in
quanto con esso non può costituirsi alcun erede. Da questo punto di vista la
wasiyya crea un
diritto in rem e non un semplice diritto da far valere contro gli eredi. Qualora le
disposizioni
di ultima volontà superino un terzo del patrimonio ereditario, salvo il consenso
degli eredi, il
totale viene ridotto ad un terzo, in base ad un complicato sistema di computo
basato sulle
priorità. Le questioni concernenti tali disposizioni sono interpretate in base alla
casistica, con
tendenza a considerarle valide ogniqualvolta sia possibile. Esse possono essere
revocate con
una dichiarazione o attraverso un comportamento, in particolare mediante
l’alienazione del
loro oggetto, o mediante un atto. La disposizione di ultima volontà diventa
nulla se il
beneficiario premuore, mentre se questi muore successivamente al disponente,
ma prima
dell’accettazione formale, il suo diritto viene trasferito agli eredi suoi.
2.4. I diritti reali
2.4.1. I beni
Nel diritto islamico si è soliti ripartire il concetto di proprietà in ayn (la proprietà
di una
cosa specifica, concretamente esistente), dayn (la proprietà di una cosa
fungibile o di una cosa
di cui si deve ancora entrare in possesso) e manfa’a (il reddito). Quest’ultima,
in particolare,
consiste nel diritto all’uso del bene, che è considerato come scindibile e
alienabile
indipendentemente dalla proprietà. Nel concetto giuridico di cosa (māl), si
individuano due
elementi economici: il capitale (raqaba) e il reddito (manfa’a). Tale distinzione
permette agli
esperti del fiqh di distinguere e classificare i numerosi istituti giuridici nella
sfera dei diritti
patrimoniali. Ad esempio, il caso del waqf, come si è visto, comporta
l’immobilizzazione di
una raqada con la devoluzione della manfa’a per uno scopo pio (qurba). Oltre
tale
distinzione, che è intrinseca al bene stesso e al di là delle classiche categorie
romanistiche, la
scienza del fiqh è solita anche distinguere tra cose utili ed inutili, nascondibili e
non
nascondibili, pure ed impure. I beni sono, inoltre, suddivisi in tre categorie, a
seconda di ciò
che si può misurare, pesare, contare. Alcune categorie di beni, poi, non sono
commerciabili, a
causa della loro stessa natura. Si tratta di ciò che non appartiene a nessuno
(es. animali
selvatici), l’acqua (che è considerata così sacra che non è possibile negare ad
alcuno di poter
bere da un pozzo di proprietà altrui), le proprietà di Dio (il suolo de La Mecca), i
beni futuri,
le cose che sono parte di altri beni (es. la chiave di una casa), le cose che non
sono sotto la
custodia del venditore o non di sua proprietà e, infine, le cose sacre.
2.4.2. Il diritto di proprietà
Una prima sintetica disamina in merito ai diritti sui beni va fatta con riguardo al
diritto di
proprietà e, in particolare, ai modi di acquisto di essa.
Rispetto a questa tematica, si nota una certa analogia con il diritto di
derivazione
romanistica. Anche nel diritto islamico, infatti, si annoverano: l’occupazione
(istilā), la
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specificazione (fawāt), la bonifica delle terre morte (ihyā al-mawāt) e
l’accessione. In
riferimento a queste, causa di acquisto della proprietà è il lavoro, nonché la
traditio (taslīm) e
il retratto (shuf’a), che per gli hanafiti è concesso anche al proprietario
viciniore (in analogia
con quanto previsto dal diritto bizantino). Inoltre, il possesso di un oggetto, in
presenza di un
titolo giustificativo (hawz bil-haqq) e della buona fede, se protratto
ininterrottamente per un
certo periodo di tempo, per i soli malikiti è causa di acquisto della proprietà (in
modo
analogo, dunque, all’istituto romanistico dell’usucapione).
Il diritto di proprietà può avere ad oggetto anche cose che prima erano res
nullius. In
questo caso, assume una forte rilevanza l’intenzione di possedere una cosa
(miyya). Quale
esempio di tale fattispecie si può far riferimento alla distinzione tra proprietà
della miniera
(ma’din) e tesoro (rikāz) in essa rinvenuto: la miniera appartiene al proprietario
del terreno, al
suo scopritore solo quando il terreno non sia di nessuno, mentre il tesoro
appartiene, in ogni
caso, a chi lo trova.
Sulle cose smarrite da altri, si acquista la sola custodia, tuttavia il pragmatismo
tipico del
diritto islamico consente al custode di acquisire la proprietà del bene,
attraverso una
donazione del bene a se stesso, a seguito di un pubblico annuncio del
ritrovamento.
Al fine di prevenire eventuali dispute sulla titolarità di un bene, lo stesso
pragmatismo
sembra essere alla base della regola secondo cui, al fine della titolarità del
bene, si è soliti fare
riferimento al criterio della «fattura», secondo cui chi ha creato la cosa prevale
su chi l’abbia
usata. Nell’ipotesi in cui, viceversa, un soggetto abbia utilizzato un bene
ritenendolo
erroneamente di sua proprietà, quand’anche da quest’uso non sia derivato un
danneggiamento
del bene, il diritto musulmano consente al vero proprietario di chiedere un
risarcimento.
Sempre in tema di proprietà, singolare è la qualificazione dell’istituto del
«condominio»
(shirkat al-milk), in quanto viene concepito come una proprietà plurima
parziale.
Quale ulteriore esempio di una declinazione più ampia del diritto di proprietà in
ragione di
una più ampia platea di titolari, va accennato al fatto che lo stesso diritto può
essere
riconosciuto anche in capo ad intere collettività (villaggi, tribù, etc.) ovvero
all’intera
comunità islamica nel suo complesso (Umma): in questi casi si parla di
«proprietà collettiva».
2.4.3. Gli altri diritti reali
Con riferimento agli altri diritti reali viene in considerazione, innanzitutto,
l’istituto
dell’usufrutto (milk al-manfa’a). In riferimento ad esso, seppur si debba rilevare
la mancanza
di una precisa casistica, è comunque possibile desumere una nozione generale
del diritto, che
consiste nella facoltà di usare il bene e di percepirne i frutti, lasciandone
inalterata la raqaba
(il capitale). Le facoltà in cui si sostanzia il diritto d’usufrutto sono temporanee
ed è possibile
trasferirne l’esercizio, ma non la titolarità. Possono essere oggetto di usufrutto
solo i beni
mobili inconsumabili; tuttavia, con riguardo ai beni consumabili e, quindi,
suscettibili di un
uso ripetuto, è previsto un istituto similare al «quasi-usufrutto» giustinianeo.
Analogamente al diritto romanistico, poi, anche nel diritto islamico si è soliti
operare la
distinzione tra diritto di uso e diritto di abitazione e si riconoscono istituti del
tutto identici
alle servitù, senza, tuttavia, che esista un corrispondente concetto generale.
È interessante, infine, rilevare la caratterizzazione del diritto di superficie
(inqād), il quale
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è concepito come una contitolarità dell’area e della costruzione.
2.4.4. Il possesso
Il possesso (variamente indicato da vocaboli polisensi quali yad, qabd, hiyāza,
etc., che ne
possono indicare anche un elemento costitutivo immateriale ovvero ricollegarsi
alla
«detenzione»), sempre che il possessore del bene sia munito di un titolo
astrattamente idoneo,
è un mezzo di acquisto della proprietà. A sua volta, il possesso può essere
acquistato
direttamente o indirettamente, ma, in ogni caso, perché possa realizzarsi
l’acquisto, è
necessaria la sussistenza dell’animus possidendi (niyya).
Il possesso di un bene può esercitarsi personalmente o indirettamente per
mezzo di uno
schiavo o di coloro che detengono il bene in nome di altri. Quest’ultimo è il
caso del locatario
(musta ’ğir), del depositario (mūda’) o del comodatario (musta’ir), che
detengono il bene per
il tramite delle rispettive controparti. Coloro ai quali siano imposte limitazioni
alla capacità di
agire possono possedere un bene per mezzo di un soggetto nominato quale
«tutore» (il walī),
che può ben essere il padre ovvero un soggetto terzo.
Con riferimento alle categorie di beni oggetto del possesso, questi possono
essere cose
corporali ed incorporali (come la servitù, l’usufrutto ovvero le opere dello
schiavo).
Riguardo ai mezzi per la tutela del possesso, infine, si può dire che risultano
distinti da
quelli posti a tutela della proprietà ma, in generale, il concetto di tutela del
possesso è assente
nel diritto musulmano e spesso le dispute relative al possesso, che possono
influenzare
l’attribuzione della proprietà, vengono risolte in modo casuale.
2.5. Le obbligazioni
2.5.1. I principi generali
Benché nel diritto islamico manchi una definizione generale di «obbligazione»,
parte della
dottrina ha cercato di ricavare dalla casistica delle fonti una sorta di «teoria
generale delle
obbligazioni». Da tale operazione ermeneutica non emerge alcuna
caratteristica peculiare del
diritto islamico per quanto riguarda le fonti e le cause di estinzione delle
obbligazioni, e così
pure in materia di adempimento contrattuale. In modo analogo a quanto
accade nel diritto di
origine romanistica è, infatti, possibile operare un’ontologica distinzione tra le
obbligazioni in
base alla loro fonte in: obbligazioni derivanti da fatto lecito (iltizām) e
obbligazioni derivanti
da fatto illecito (dhimma).
Gli hanafiti, operando un’ulteriore distinzione, articolano la classificazione, in
base alla
fonte (asbāb), in dichiarazioni di volontà (tasarruf qawlī), ripartite in
dichiarazioni unilaterali
(come nella promessa) o bilaterale (come nel contratto) e in fatto illecito
(tasarrf fi’lī).
2.5.2. Le obbligazioni contrattuali
Essendo la società pre-islamica una società (anche) di mercanti, il diritto civile
islamico è,
tendenzialmente, un diritto dei contratti e del commercio e come tale
incentrato,
sostanzialmente, sull’accordo, nascente dalla volontà delle parti (aqd), e sul
concetto
economico di scambio. La centralità dell’elemento del consenso, quale fase di
formazione del
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contenuto negoziale, è particolarmente evidente nei contratti commutativi
della proprietà
(milk), che hanno per oggetto il capitale (raqaba) e il reddito (manfa’a), tra i
quali è
preminente la posizione della compravendita (bay’). Infatti, il relativo contratto
si perfeziona
con lo scambio del consenso, che può consistere anche in una mera stretta di
mano.
Analogamente avviene per la permuta.
Nell’ambito del sistema bancario, la tipologia contrattuale appare invece più
complessa, in
quanto caratterizzata da clausole particolari relative al prezzo della vendita,
secondo lo
schema per cui la rivendita della cosa avviene a prezzo fisso e anticipatamente
concordato con
l’acquirente, al fine, anche, di aggirare il divieto di usura, tutt’ora vigente
(marābaha). Pur
persistendo un divieto di usura a carattere generale, si registra comunque la
presenza di
tecniche finanziarie in base alle quali si può lucrare sui prestiti di denaro o di
beni. Ad
esempio, una particolare forma di contratto associativo di capitale e lavoro è il
qirād (per
malikiti e shafiiti), o mudāraba (per hanafiti e hanbaliti), che si presenta come
una
«accomandita» e, pur non essendo una società vera e propria, consiste in un
rapporto
fiduciario che si instaura tra un investitore o un gruppo di investitori che
affidano un capitale
o una mercanzia ad un agente che commercia per conto di essi. È un contratto
di natura
societaria, ma solo con riguardo alla distribuzione dei profitti, in quanto è solo
l’accomandante (l’investitore) che subisce perdite finanziarie. Tale forma di
contratto è oggi
particolarmente in uso nel settore degli investimenti finanziari. Relativamente
ai contratti di
società, i modelli originari che prevedevano cessione sia del capitale (raqaba)
che del reddito
(manfa’a) sono stati quasi completamente sostituiti dai modelli contrattuali
societari, di
regolamentazione statuale, desunti dalle esperienze europee di common law
(company,
corporation e partnership) e dai modelli dell’Europa continentale. I contratti
associativi di
capitale e lavoro, al contrario, sono stati quasi totalmente assorbiti dai recenti
tentativi di
codificazione. Tra queste, in particolare, le figure di contratti agrari hanno
mantenuto
l’originario impianto. Si ricordano, a mero titolo di esempio, le società di
seminagione
(muzāra’a), le società di irrigazione (musāqā) e le società di piantagione
(mughārasa). Per
quanto riguarda il settore commerciale, nel diritto del commercio e dei trasporti
si distingue la
locazione (iğāra in senso lato), come contratto commutativo del solo reddito
(manfa’a), nelle
tre figure della locatio conductio rei (kirā), della locatio conductio operarum
(iğāra in senso
stretto) e la locatio conductio operis (ğu’l). È interessante rilevare come le
diverse scuole
giuridiche riconducano il trasporto delle merci in una categoria ovvero in
un’altra: la scuola
malikita, ad esempio, fa rientrare il contratto di trasporto nella locatio rei, se
effettuato
mediante animali o cose inanimate, viceversa, se effettuato da uno schiavo, è
ricondotto nella
locatio operarum.
Con riferimento alla fase di stipula di un contratto ed ai fini della validità dello
stesso non
vi possono essere dubbi sul tipo di cosa (genere e specie), sulla quantità e
qualità, sulla data
della consegna, sul luogo in cui si effettuerà la consegna e sull’eventuale
necessità di
trasporto.
Ogni disposizione ritenuta non equa, così come ogni interesse calcolato sul
bene, rende
nullo il contratto per la parte che viene toccata dal vizio.
Quanto alla voluntas, requisito indefettibile per la valida conclusione di un
accordo
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contrattuale, alcuni giuristi ritengono sia essenziale la volontà interiore, per
altri sono
sufficienti solo alcune manifestazioni esteriori della volontà. Ad ogni modo,
come nel sistema
occidentale dei contratti, si è soliti guardare allo stato mentale della persona
(costringimento
fisico o psichico, stato di coscienza alterato dall’assunzione di droghe o alcol,
volontaria o
meno).
Le parti devono concordare sui termini della pattuizione, ma il consenso può
essere
stabilito anche da comportamenti concludenti.
Perché un contratto sia valido è necessario avere l’adeguata maturità: il minore
(fino ai 7-9
anni) non è ritenuto capace di stipulare validamente un contratto. La maturità
si raggiunge alla
pubertà, per le donne al compimento dei 15 anni ovvero alla prima
mestruazione. Per i
malikiti, una donna non sposata non è capace, quando è sposata, le viene
viceversa
riconosciuta una parziale capacità. Inoltre, non sono permessi pagamenti
anticipati, ma la
dazione del corrispettivo può avvenire solo al momento della consegna. Nei
casi in cui la
consegna sia tardiva o abbia ad oggetto merce difettosa, è possibile la
restituzione richiedendo
una nuova consegna, ovvero, in alternativa, l’annullamento del contratto.
Degna di attenzione è la disciplina della mora nell’adempimento (matl), in
quanto presenta
soluzioni completamente diverse rispetto quelle romanistiche, anche e
soprattutto in
considerazione del divieto di porre interessi. Al debitore moroso, pertanto, nulla
potrà esser
chiesto a titolo di risarcimento per il ritardo o il mancato adempimento. Nella
concezione
islamica, che lega profondamente le vicende della vita terrena a quelle
spirituali,
l’inadempimento contrattuale senza giusta causa rende l’inadempiente
responsabile solo nei
confronti di Allāh e della propria coscienza.
In tempi più recenti, tuttavia, l’evoluzione della dottrina ha attribuito alla mora i
caratteri di
un vero e proprio fatto illecito, ammettendo così una tutela di tipo risarcitorio
del danno
cagionato al creditore; tale risarcimento andrà quindi ad aggiungersi
all’obbligazione
originaria.
Per quanto attiene al profilo della responsabilità, il diritto islamico, non
riconoscendo il
concetto di «persona giuridica», prevede che il soggetto che prenda parte a
qualsiasi forma di
società o cooperazione sia responsabile unicamente delle proprie azioni.
2.5.3. Le obbligazioni nascenti da atti unilaterali
Accanto ai contratti di scambio, il diritto islamico conosce gli atti unilaterali, i
quali si
perfezionano con la materiale presa di possesso del bene da parte del soggetto
beneficiario;
requisito che non può mancare in capo a quest’ultimo è l’animus di ricevere.
Tra questi si
enumerano la donazione (hiba), il mutuo, il comodato (’āriyya), il deposito (’idā)
ed il
contratto di mandato (wikalā).
2.5.4. Le obbligazioni nascenti da fatto illecito
Le obbligazioni da fatto illecito derivano tendenzialmente dal furto (sariqa,
inteso come
appropriazione non violenta della cosa), dal danneggiamento (ta’addī, che
comprende anche il
ritardo senza giusta causa nell’adempimento) e da tutte le ipotesi di
usurpazione della cosa (in
sé o del suo godimento). Dal fatto illecito, sorge l’obbligo di risarcimento del
danno patito
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(ghurm).
Alcuni giuristi riconducono in tale categoria le obbligazioni nascenti dai delitti
commessi
contro la persona (omicidio e lesioni personali), le cui conseguenze patrimoniali
si
confondono con la stessa sanzione penale, come alternativa all’applicazione
della legge del
taglione (qisās).
3. Il diritto penale
3.1. Premessa
In via preliminare, si deve rilevare che, per il diritto islamico, il divieto di
commettere
reati, nonché la loro punizione, é ascrivibile direttamente al volere di Allāh. Nel
Corano,
infatti, un versetto recita che Allāh chiede al proprio popolo di far del bene a
tutti, non solo ai
propri familiari, e proibisce tutti gli atti vergognosi, ingiusti e di ribellione.
Questa
considerazione, che costituisce anche il fondamento del potere punitivo
riconosciuto allo
Stato, evidenzia la stretta correlazione esistente tra fattispecie criminosa e
peccato.
Con riferimento alle fonti di produzione delle fattispecie penali, il diritto
islamico è solito
riconoscere l’esistenza di due fonti: l’una derivante dalla vendetta personale,
l’altra relativa
alla punibilità per i crimini commessi avverso la religione.
Tuttavia, la distinzione dei reati (ğināyāt) è operata in base alle modalità
sanzionatorie e
non, come accade nei sistemi penali occidentali, con riguardo alle tipologie
della condotta
posta in essere.
Le pene (e quindi i reati) sono distinti in: pene huddud, previste direttamente
nel Corano;
pene qisās, punite secondo il principio del taglione; pene ta’zīr, rimesse alla
discrezionalità
del giudice.
È opportuno ricordare che nella concezione islamica si enumera tra i compiti
dello Stato e
della società civile l’impegno ad evitare che si commettano reati huddud, in
una generale e
superiore prospettiva di protezione della sicurezza pubblica e di tutela
dell’individuo.
Un ruolo importante, ai fini dell’esclusione dell’elemento soggettivo nella
commissione di
un reato, viene riconosciuto allo shubba, ovvero alla «somiglianza» che si può
configurare tra
un atto illegale ed uno legale. In questo caso la condotta viene scriminata,
completamente o
parzialmente, proprio in ragione della convinzione da parte del soggetto agente
della liceità
della condotta posta in essere.
A precisazione, infine, di quanto si dirà – in particolare a proposito del sistema
sanzionatorio – va premesso che, al giorno d’oggi, solo in Arabia Saudita le
pene sono quelle
descritte. A titolo esemplificativo, in Yemen è necessario il previo assenso del
Governo o
della Corte per dar luogo a punizioni fisiche; in Pakistan, che per molto tempo
ha seguito
regole simili a quelle della Gran Bretagna, a partire dal 1979 sono state
reintrodotte alcune
punizioni fisiche da parte del nuovo regime; in Turchia, Egitto, Siria e Libano le
punizioni
fisiche sono poco applicate. Altri paesi sono a metà strada: per esempio, in
Malesia si registra
la convivenza del diritto islamico classico con regole tratte dal diritto penale
occidentale.
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3.2. Le pene huddud
Le offese punite con le pene huddud sono offese contro Allāh e contro l’ordine
costituito e
sono represse per il tramite dell’apparato statuale che, materialmente, infligge
le punizioni.
L’hadd (singolare di huddud) è un diritto o rivendicazione di Allāh, per cui non è
possibile
alcun perdono o alcuna composizione pacifica della controversia, possibili,
invece, per le altre
categorie di pene. Tuttavia, il carattere profondamente religioso della pena è
tale da
riconoscere un importante ruolo al pentimento attivo del colpevole.
Le fattispecie punite con le huddud comprendono: l’adulterio (zina); la falsa
accusa di aver
commesso adulterio (qadhf); il bere vino (shurb al-khamr); il furto (sariqa); la
rapina (kat’altarīk);
l’apostasia (riddah); la ribellione (baghi).
In generale, va ricordato che tutte le pene huddud sono frutto di elaborazione
successiva di
pene già esistenti durante la fase pre-islamica. Inoltre, ognuna di queste offese
comporta una
punizione molto severa, anche se la fattispecie viene ad essere integrata solo
in presenza di
specifici elementi; e proprio la presenza di tali previsioni per l’integrazione della
fattispecie
penalmente rilevante ha consentito che nella maggior parte delle situazioni
venissero
comminate pene ta’zīr, invece di quelle huddud. Inoltre, va precisato come sia
la stessa
società islamica, oltre al suo apparato statale, a scoraggiare la commissione di
fatti lesivi delle
previsioni coraniche. In tal senso, vanno interpretati, per esempio, la
consuetudine di sposarsi
molto presto (per osteggiare la commissione di adulterio), la fornitura a tutti i
cittadini dei
mezzi primari di sostentamento (al fine di limitare la commissione di furti), le
limitazioni
relative la vendita di sostanze stupefacenti o alcoliche (per scongiurare la
tentazione di bere).
Per quanto concerne le punizioni previste per le offese in esame, queste
consistono nella
pena capitale a mezzo di lapidazione o decapitazione, il taglio delle mani o
altre parti del
corpo e le frustate. Queste punizioni, particolarmente severe, sono tuttavia
caratterizzate da
talune limitazioni, tali che, sulla base di alcuni elementi di fatto, le punizioni
possono essere
notevolmente attenuate. Ci sono, innanzitutto, dei limiti temporali ristretti
entro cui il qādī
può accettare testimonianze (di solito entro un mese dall’offesa) e, anche
qualora l’imputato
confessi di aver commesso un’offesa hadd, se successivamente ritratta, non
può essere punito.
In questo senso, è utile precisare che, affinché un’offesa hadd possa essere
punita, la regola
che vale per qualunque reato è che l’imputato ammetta di averlo commesso o
che due
testimoni (quattro nel caso di zina) fossero presenti all’atto e riportino la
descrizione di quanto
visto. Qualora invece risultasse che anche uno solo dei quattro testimoni di un
caso di zina
abbia ritrattato o mentito, tutti e quattro saranno puniti per qadhf.
Venendo ad esaminare più direttamente alcune delle fattispecie penali sopra
richiamate,
con riferimento all’adulterio (zina), nel caso in cui chi commette l’offesa risulti
sposato, è
prevista come punizione la lapidazione, altrimenti una serie di cento frustate .
La particolare
severità delle pene previste trova giustificazione nel forte radicamento, nel
mondo islamico,
del principio della tutela della famiglia.
Relativamente a questa previsione, in seguito alla «islamizzazione» del
Pakistan (dal 1979)
sono sorti alcuni problemi per quanto riguarda le fattispecie di violenza
sessuale. L’uomo che
commette tale reato è punito analogamente al reato di zina, ma solo se egli
confessa o se si
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presentano i quattro testimoni. Allorché nessuno dei due elementi sussista,
sarà la donna che
ha denunciato la violenza a rischiare di essere punita per zina.
Si deve comunque precisare che l’originale previsione del reato di zina nella
Sharī’a solo
indirettamente comprendeva anche episodi di violenza sessuale, trattandosi
all’epoca di un
fenomeno molto meno diffuso rispetto ad oggi (per una serie di motivi di ordine
sociale, ad
esempio l’età matrimoniale molto inferiore rispetto alle consuetudini
contemporanee, o la
possibilità di avere concubine).
Le conseguenze distorte dell’applicazione concreta di tale previsione (es. la
mancata
punizione dei testimoni che hanno omesso soccorso, o l’eventuale ingiusta
punizione della
stessa vittima della violenza) non vanno quindi attribuite ad originari intenti
della Sharī’a,
ma, piuttosto, a forti strumentalizzazioni da parte del potere politico pakistano
onde infondere
un clima di paura e creare una situazione di ancor più forte sottomissione delle
donne.
I casi di omosessualità sono puniti analogamente a casi di zina.
È molto difficile raggiungere il livello di prova (quattro testimoni) per il crimine
di zina e il
fatto che esista la punizione per qadhf limita molto la possibilità di applicare la
punizione
hadd, almeno secondo la Sharī’a.
Si segnala, infine, che il fondatore della scuola malikita introdusse la pena
detentiva, in
luogo della pena capitale o delle frustate.
Per quanto riguarda, invece, la diffamazione, la punizione prevista per tale
reato consiste
in ottanta frustate, quaranta se commessa da uno schiavo.
Il reato è integrato allorquando, asserendo di aver di assistito a violenza
sessuale o
adulterio, manchi la testimonianza ovvero, sussistendo la testimonianza, uno o
più testimoni
cambino o ritirino la propria deposizione.
L’uso di sostanze alcoliche è un reato che non mira a punire il bere in sé,
ma, piuttosto lo
stato di ubriachezza, che induce il soggetto a perdere il controllo e a non
rendersi conto di
quanto sta facendo.
La punizione prevista è costituita da una serie di ottanta frustate (per la scuola
shafiita solo
quaranta).
Sussiste però la regola per cui non si possa applicare alcuna punizione qualora
non si
avverta più odore di alcol nella persona che ha commesso l’offesa.
L’Islām, inoltre, non punisce i dipendenti dall’alcol i quali, al contrario, vengono
messi in
cura e puniti solo se ricadono nell’alcolismo.
Il furto consiste, per definizione, nel sottrarre un bene di proprietà altrui. La
sariqa si ha
quando un mukallaf (un soggetto adulto e sano di mente), che può anche
essere uno schiavo,
si impadronisce di nascosto di qualcosa del valore di almeno 10 dirham su cui
egli non ha
diritto di proprietà (milk) o la sua presunzione (subhat milk) e che sia custodito.
È necessario che l’autore del furto riesca ad ottenere il pieno e totale possesso
della cosa in
modo segreto, senza avere sulla cosa stessa né la proprietà né la custodia.
La commissione di un furto prevede l’amputazione di una mano, solitamente la
destra, ma
tale operazione non deve risultare inutilmente crudele e, per questo motivo, si
prevede che sia
eseguita da un medico autorizzato.
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Qualora il furto venga ripetuto una seconda volta dalla stessa persona, è
prevista
l’amputazione dell’altra mano. Ad un terzo episodio segue invece quella di un
piede e così
via.
Il furto è punito così severamente al fine di proteggere la proprietà, uno dei
principi cardine
della società islamica e, ovviamente, al fine di tutelare l’ordine pubblico,
affinché non regni
un clima di generale sospetto e diffidenza.
Vi è poi una teoria che afferma che, prima di punire un furto con una pena
hadd, è
necessario accertarsi che non sia stato compiuto per grave necessità, perché,
altrimenti, non
può essere applicata la suddetta punizione.
Il furto di alcune particolari categorie di beni non è punito con pena hadd, bensì
con pena
ta’zīr, ovvero secondo discrezionalità del giudice. Trattasi dei beni immobili, dei
beni
disponibili in ingenti quantità (frutta, pesci, legname…), delle res nullius, delle
cose
consumabili (per es. il cibo), dei simboli e dei testi religiosi, delle proprietà
considerate senza
valore (maiali, alcol, strumenti musicali, …), di tutto ciò che non è solitamente
qualificato
come proprietà (l’esempio più ricorrente è quello dei bambini, ma vi rientrano
anche la
moglie, il marito ed i familiari stretti), qualsiasi cosa sottratta con l’inganno.
Alla luce di questo lungo elenco, è evidente come sia, nella realtà, assai
ristretto il campo
di applicazione delle pene huddud per il furto.
Il carattere della segretezza del furto esclude l’applicabilità della pena hadd
alle ipotesi di
furto manifesto o per gli scippi; mentre quello della custodia esclude che il furto
hadd possa
essere integrato da un congiunto o un soggetto che aveva la piena disponibilità
di accedere al
luogo in cui il bene è custodito.
La fattispecie è pienamente integrata allorquando si ravvisi la concreta
sottrazione del bene
dal luogo in cui essa è custodita, mentre è esclusa allorquando il soggetto si
trovi nelle
vicinanze del luogo in cui è custodito il bene o in ipotesi di tentativo.
Quanto alla rapina, essendo considerata un reato più violento del furto, poiché
sostanzialmente consiste in un furto a mano armata, essa è punita con la
decapitazione, nel
caso in cui a causa della rapina vi sia stato un omicidio; in caso contrario, si
procede
all’amputazione della mano destra e del piede sinistro. Talora la rapina è punita
anche con
l’espulsione dal paese senza possibilità di ritornare, in quanto il rischio
cagionato alla
sicurezza pubblica potrebbe danneggiare irrimediabilmente le attività
commerciali. Qualora,
invece, un soggetto sia arrestato subito prima di compiere la rapina, sarà
scarcerato solo a
seguito del suo pentimento. È proprio l’interferenza della rapina con il
commercio a costituire
il principale fondamento della particolare asprezza delle pene previste.
Il reato di apostasia (riddah) è punito con la decapitazione, se commesso da
un uomo, con
la reclusione (finché non sopraggiunga il pentimento), se commesso da una
donna. Occorre
puntualizzare che, per il carattere religioso dello Stato islamico, il reato in
questione acquista
anche il significato di un tradimento nei confronti dello Stato.
Tuttavia, vige la regola per cui, anche se si tratta di un uomo, egli deve essere
comunque
segregato in un luogo dove verrà tentata una sua riconversione religiosa, che,
qualora si
verificasse, lo salverebbe dalla decapitazione.
È fondamentale ricordare che si tratta sempre e comunque di un atto
volontario, tanto nella
51
commissione del reato quanto nel perdono conseguente al pentimento.
Il reato di ribellione consiste sostanzialmente in un colpo di Stato, ovvero un
tentativo di
far cadere con la forza il governo legittimo.
Si devono preventivamente considerare le richieste dei ribelli; se queste sono
inammissibili, si deve cercare di sopire la ribellione senza ricorrere alla forza.
Se questo tentativo si dimostra vano, si possono legittimamente inviare le forze
armate per
reprimere i ribelli.
Se un soggetto viene arrestato durante un episodio di ribellione sarà ucciso
solo se mostri
resistenza, altrimenti si procederà ad una punizione stabilita dal qādī (e che
pertanto sarà una
pena ta’zīr).
Ad ogni modo, qualora il soggetto rimanga ucciso durante la repressione
dell’episodio, si
ritiene che ciò rappresenti una giusta punizione.
In teoria, se le richieste avanzate dai ribelli risultassero meritevoli, il governo
dovrebbe
cadere, in quanto non conforme ai principi islamici, ed i suoi componenti essere
sottoposti ad
una punizione ta’zīr.
3.3. Le pene qisās
Le offese punite con le qisās, pur essendo in gran parte eredità del diritto pre-
islamico,
hanno comunque subito vari adattamenti nella società islamica.
Si tratta di reati di sangue e, in particolare, di offese dirette alla persona o alla
sua integrità
fisica, come l’omicidio e qualsiasi violenza o lesione fisica. Essi vengono puniti
mediante
pene previste per lo più dal Corano e dalla Sunna, che circoscrivono molto,
dunque, la
discrezionalità del giudice. La punizione consiste, principalmente, nella legge
del taglione,
che riconosce la possibilità ad una persona che abbia ricevuto un’offesa di
infliggere
all’offensore una pena uguale all’offesa ricevuta. La pena da infliggere – a
discrezione della
vittima o della sua famiglia – può essere sostituita dal prezzo del sangue o del
perdono.
Esistono varie tipologie di lesione. Esse possono essere classificate secondo un
ordine di
gravità: l’omicidio premeditato; l’omicidio doloso; l’omicidio colposo; la lesione
fisica
intenzionale; la lesione fisica non intenzionale.
Quanto alla corretta individuazione della fattispecie, essa non si basa sulla
determinazione
del dato intenzionale, ma su un criterio estremamente pragmatico, ovvero la
determinazione
dell’arma o dello strumento usato. Ad esempio, qualora sia stata uccisa una
persona con uno
strumento non usato abitualmente per uccidere, si ritiene che non si tratti di
omicidio
intenzionale.
L’omicidio premeditato è considerato l’offesa più grave.
In tale ipotesi, il diritto islamico contempla, come accennato, la schema della
vendetta
privata: chi uccide può essere ucciso da chi ne ha il diritto, senza che questo
ulteriore
omicidio sia punibile, purché sia operato nei confronti dell’effettivo colpevole e
si sia trattato
di un atto deliberato ed ingiusto sulla base di una valutazione dei tribunali. In
questo senso, un
omicidio per legittima difesa da un attacco ingiusto, o per soccorrere qualcuno,
non può in
alcun modo essere punito. La presenza di cause di giustificazione che
escludono la punibilità
52
rappresenta, dunque, un importante approdo del diritto islamico rispetto alla
tradizione del
periodo pre-islamico, in cui spesso da un omicidio derivavano vendette
personali a catena e
faide tribali.
Chi ha il diritto di uccidere un assassino può, in via alternativa, chiedere al
colpevole un
risarcimento pecuniario (dyya), il cui ammontare sarà direttamente
proporzionale alla gravità
dell’omicidio.
La persona che ha il diritto o di uccidere l’assassino o di chiedergli un
risarcimento è il
familiare più stretto della vittima. Qualora si tratti di un minore, sarà il suo
tutore a scegliere
per lui. In ogni caso, sussiste sempre la possibilità, per la famiglia della vittima,
di perdonare:
non verrà quindi eseguita alcuna vendetta né sarà attuata alcuna
compensazione finanziaria.
L’assassino, ad ogni modo, perde il suo eventuale diritto all’eredità della
vittima.
A proposito dello schema della vendetta privata, va ricordato che vi è stato un
dibattito
giurisprudenziale relativo al riconoscimento del valore da riconoscere alla
dichiarazione della
vittima che, immediatamente prima di morire, chieda che non sia fatta
vendetta; si tratterebbe,
infatti, di un’ultima volontà, che per alcuni implica l’obbligo di poter ricevere
unicamente un
risarcimento.
Le vittime non hanno tutte il medesimo «valore». La diversità della disciplina
riflette,
ancora una volta, la diversità tra i generi: una donna vale, infatti, la metà di un
uomo, per cui,
qualora sia uccisa da un uomo ed i familiari chiedano il risarcimento, questo è
equivalente alla
metà di quello previsto per la morte di un uomo.
Il criterio è analogo per quanto riguarda quei fatti che coinvolgono i musulmani
e non
musulmani. Questi ultimi vengono equiparati alle donne ma, a differenza di
quanto avviene
nel caso in cui la vittima sia una donna, il musulmano che ha ucciso un non
musulmano può
essere punito solo tramite pagamento del risarcimento.
Nel caso di omicidio commesso da più persone, non potendosi definire il grado
di
responsabilità per ciascuno, si prevede il solo risarcimento a titolo
compensativo del danno
cagionato (diyya).
L’omicidio doloso e l’omicidio colposo sono sanzionati con un risarcimento
pecuniario o
tramite una punizione religiosa scelta dallo stesso colpevole (digiuno,
preghiera, etc.), definita
kaffara.
Anche in questi casi è comunque prevista l’eventuale esclusione dall’eredità
della vittima e
in alcuni casi si contempla anche la possibilità di una multa decisa dal qādī.
Nel caso specifico di omicidio colposo, esiste un’attenuante: qualora, infatti, si
tratti solo di
un incidente avvenuto non per diretto coinvolgimento della persona, si ritiene
che l’unica
pena possibile sia un pagamento a titolo risarcitorio. A titolo di esempio si può
citare la
fattispecie in cui la morte è avvenuta a seguito della caduta accidentale in un
pozzo costruito
entro la proprietà del soggetto responsabile.
Esiste un dibattito tra giuristi in merito all’ipotesi di un omicidio commesso da
un uomo
che abbia sorpreso la propria sorella, moglie o figlia a commettere adulterio.
Alcuni
sostengono che tale atto sia sempre legittimo e non punibile, anche qualora
abbia
semplicemente visto i due adulteri in circostanze sospette; altri ritengono che
sia necessario
aver assistito in prima persona al compimento dell’atto.
53
L’omicidio può configurarsi anche in relazione a comportamenti omissivi, come,
ad
esempio, il rifiuto di dare da bere o da mangiare. Sulla fattispecie vi sono
comunque opinioni
contrastanti in dottrina: per alcuni, questa integra l’ipotesi di omicidio
deliberato, per il
fondatore della scuola hanafita, non lo è.
Con riferimento, invece, al reato di lesioni, colui il quale ha recato
intenzionalmente una
lesione fisica a qualcuno è punito con la medesima lesione, quando ciò sia
possibile;
altrimenti è tenuto al pagamento di una somma di denaro a titolo di
risarcimento, in misura
minore rispetto al normale risarcimento previsto per il reato di omicidio.
Una lesione non intenzionale può invece essere punita solo tramite
risarcimento.
Non possono essere considerati responsabili per questa categoria di reati, e
non possono
pertanto essere puniti per l’atto commesso, i minori, i malati di mente ed i
soggetti che hanno
agito sotto l’effetto di droghe assunte involontariamente o comunque sotto
l’effetto collaterale
di medicinali assunti, in quanto in queste tre ipotesi si rileva il difetto di
volontarietà dell’atto.
Anche per i reati previsti in questa categoria è, infine, contemplata la
possibilità che la
vittima o, a seconda dei casi, un familiare, perdonino il colpevole, sottraendolo
così alla
punizione.
3.4. Le pene ta’zīr
Le punizioni ta’zīr sono decise dal qādī. Letteralmente ta’zīr significa
«disapprovazione,
rieducazione». Si tratta di offese che mettono in pericolo la pratica religiosa, lo
sviluppo della
mente, il diritto di procreare, la sicurezza personale e la proprietà.
Questi sono diritti e principi protetti anche dai sistemi di pene huddud e qisās,
ma, qualora
l’offesa non sia abbastanza grave per rientrare in una di queste ipotesi, essa
sarà punita con
pena ta’zīr. Analogamente accade qualora vi siano prove insufficienti o
testimonianze
discordanti.
Infine, sono inclusi in questa categoria di reati anche i crimini contrari all’ordine
pubblico,
atti che violano norme dell’Islām (come gli atti osceni, la disubbidienza della
moglie, etc.).
Perché tali atti vengano puniti è necessario che la persona danneggiata si
rivolga al qādī
denunciando l’accaduto. Prima di stabilire la pena, il qādī dovrà valutarne la
gravità e
accertarne la veridicità, e potranno risultare rilevanti, per la sua decisione,
eventuali
precedenti simili compiuti dalla stessa persona.
Le pene previste consistono in multe, nella reclusione, in frustate e nella pena
capitale (per
casi di sodomia, in analogia con casi di zina).
La vittima ha un ruolo centrale, in quanto ha la possibilità anche in questi casi
di scegliere
di perdonare il colpevole, sottraendolo alla pena.
Una punizione ta’zīr può essere evitata anche con il sincero pentimento del
colpevole, che
deve pure dimostrare di riconoscere e volersi pienamente conformare ai giusti
principi
dell’Islām.

Lezioni Paolo Passaglia Angioletta Sperti

Lezioni
1. Lun 25/02/2019 10:30-12:15 (2:0 h) lezione: Introduzione generale al corso. La nozione di
diritto comparato (Paolo Passaglia)
2. Mar 26/02/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: Il metodo e l'oggetto della comparazione
(Paolo Passaglia)
3. Mer 27/02/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: La classificazione in famiglie dei sistemi
giuridici. Le prime classificazioni e la classificazione di René David (Paolo Passaglia)
4. Lun 04/03/2019 10:30-12:15 (2:0 h) lezione: Segue: le critiche alla classificazione di David
e le proposte di classificazione di Zweigert e Kotz e di Malmstrom (Paolo Passaglia)
5. Mar 05/03/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: Segue: la classificazione di Mattei e Monateri
(Paolo Passaglia)
6. Mer 06/03/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: La teoria dei formanti; introduzione
all'appoccio post-moderno al diritto comparato (Paolo Passaglia)
7. Lun 11/03/2019 10:30-12:15 (2:0 h) lezione: Presentazione del modulo. Common law e civil
law. Definizioni e principali differenze (Angioletta Sperti)
8. Mar 12/03/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: Ancora sulle differenze tra common law e civil
law. L'attualità della distinzione (Angioletta Sperti)
9. Mer 13/03/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: La omogeneizzazione dei sistemi giuridici: i
presupposti storici, economici e sociali (Paolo Passaglia)
10.Lun 18/03/2019 10:30-12:15 (2:0 h) lezione: La evoluzione storica della civil law
(Angioletta Sperti)
11.Mar 19/03/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: Evoluzione storica della civil law. La
codificazione e le differenze con la codificazione nell'area di common law (Angioletta
Sperti)
12.Mer 20/03/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: I trapianti giuridici: l'analisi teorica (Paolo
Passaglia)
13.Lun 25/03/2019 10:30-12:15 (2:0 h) lezione: Storia della common law. Le peculiarità del
feudalesimo inglese e le sue conseguenze sul piano dell'evoluzione giuridica. Writs e corti di
common law (Angioletta Sperti)
14.Mar 26/03/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: Common law ed equity nell'esperienza inglese
e degli Stati Uniti (Angioletta Sperti)
15.Mer 27/03/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: I trapianti giuridici: l'analisi empirica (Paolo
Passaglia)
16.Lun 01/04/2019 10:30-12:15 (2:0 h) lezione: L'organizzazione delle Corti attuale in
Inghilterra. La Corte Suprema. L'avvocatura inglese (barristers e solicitors) e le ragioni
storiche della distinzione tra le due figure professionali (Angioletta Sperti)
17.Mar 02/04/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: Il diritto comparato come fonte di ispirazione
nella ricerca di soluzioni autoctone (in particolare, l'utilizzo della comparazione da parte
delle corti) (Paolo Passaglia)
18.Mer 03/04/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: La nozione inglese di costituzione. Le ragioni
storiche dell'assenza di una costituzione in senso formale. Costituzione e convenzioni della
costituzione. (Angioletta Sperti)
19.Lun 08/04/2019 10:30-12:15 (2:0 h) lezione: La statute law. La struttura del testo legislativo
e le differenze con la nostra esperienza. Le tecniche di interpretazione della legge
(Angioletta Sperti)
20.Mar 09/04/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: L'uso del precendente e i vantaggi del case law
dalla prospettiva di common law. Rapporti tra custom e common law (Angioletta Sperti)
21.Mer 10/04/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: L'omogeneizzazione dei sistemi giuridici: la
convergenza e l'integrazione (Paolo Passaglia)
22.Lun 15/04/2019 10:30-12:15 (2:0 h) lezione: Stati Uniti: Costituzione e Bill of Rights
(Angioletta Sperti)
23.Mar 16/04/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: Il sistema giudiziario federale e quello statale.
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24.Mer 17/04/2019 08:45-10:30 (2:0 h) lezione: L'omogeneizzazione dei sistemi giuridici: la
transnazionalizzazione del diritto, la globalizzazione del costituzionalismo (Paolo Passaglia)

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