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DIRITTO PROCESSUALE CIVILE


1. PARTE GENERALE

CAPITOLO 1
LE FONTI DEL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE
1. Il significato dell’accoglimento nella Costituzione dei principi generali del processo.
I caratteri del processo seguono l’evoluzione storica dell’ordinamento di cui fa parte.
Possiamo dire che attualmente il processo è retto dai seguenti principi:
a) Nessuno può essere giudice se non è sufficientemente distaccato dal caso che
deve trattare (nemo judex in re sua);
b) Non è possibile che il giudice inizi egli stesso il processo (nemo judex sine actor);
c) Deve essere garantito alle parti il diritto di difesa: la possibilità di difendersi (audiatur et
altera pars);
d) Il giudice, nel risolvere la controversia, si deve rifare a canoni precostituiti: non li crea
arbitrariamente (jura novit curia).
A questa configurazione del processo si è arrivati dopo una lenta evoluzione storica, che ha
ricevuto il suo riconoscimento nella Carta Costituzionale. Se l’ossatura essenziale del
processo è costituita dai punti fondamentali appena accennati, la Costituzione ha aggiunto
ulteriori elementi che fanno capire quanto il nostro sistema sia sensibile ed attento al tema
delle “garanzie”. Per citare alcuni di questi elementi, basta ricordare l’obbligo della
motivazione dei provvedimenti giudiziari, la previsione del ricorso per Cassazione, il divieto
di istituire giudici speciali e l’inserimento dei Pubblici Ministeri nell’ordine della
magistratura.
L’esperienza di questi anni ha però evidenziato che, nonostante l’attenzione alle garanzie,
il processo, civile o penale, ha una vita caratterizzata da patologica lentezza per cui la
risposta arriva tardi, traducendosi spesso in diniego di giustizia.
Il problema principale, o sicuramente tra i principali, consiste nella durata del processo
che appare, alle volte, insopportabile e tutto questo si traduceva in un malfunzionamento
della giustizia, inaccettabile in un sistema evoluto come il nostro.
Conseguenza di questo stato di cose è stata la riforma dell’art.111 Cost. nel 1999, che ha
inserito alcuni commi al testo originario. Tale riforma viene ricordata con la locuzione legge
sul giusto processo: questa legge ha elevato a rango di precetti costituzionali alcune
disposizioni, penali e civili, in tema di garanzie processuali. La riforma ha solennemente
proclamato che la legge, che è l’unico strumento utilizzabile per regolare il processo, deve
essere formulata in maniera da assicurarne una ragionevole durata.
Art. 111 Costituzione.
La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a
giudiceterzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.
Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve
tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a
suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa;
abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che
rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di
persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo
di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua
impiegata nel processo.

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Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della
prova. La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni
rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da
parte dell'imputato o delsuo difensore.
La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per
consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di
provata condotta illecita.
Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.
Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi
giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di
legge.
Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra.
Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è
ammessoper i soli motivi inerenti alla giurisdizione.

È una riforma che non ha mai particolarmente entusiasmato, dal momento che sarebbe
stato forse più utile inserire le disposizioni nella legislazione ordinaria, visto che il problema
sarebbe di più facile soluzione se si rendesse più duttile ed elastico il modello processuale.
[Questa è davvero una particolarità del nostro sistema, che sembra muoversi verso
l’opposta direzione rispetto alle altre legislazioni che hanno la nostra stessa tradizione;
mentre questi si spingono verso modelli più “flessibili”, tali cioè da lasciare al giudice – in
collaborazione con le parti – la possibilità di organizzare il processo in relazione alle
esigenze della singola controversia, noi non riusciamo a distaccarci dall’idea di un modello
processuale unico e regolato nei minimi dettagli. L’unica spiegazione plausibile potrebbe
risiedere nella tradizionale sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, che si
traduce qui nella sfiducia delle parti e dei difensori nei confronti del giudice, il cui
inevitabile potere discrezionale nella conduzione del processo si vuole escludere o limitare
nella massima misura possibile.]
La conseguenza della elevazione a rango costituzionale dei principi che reggono il processo
sta nel fatto che le leggi processuali ordinarie devono essere in armonia con gli stessi e che
eventuali contrasti possono essere portati dinanzi la Suprema Corte, la quale può
dichiarare l’illegittimità delle leggi. Poiché secondo la Costituzione il giudice non può
disapplicare la legge ordinaria ritenuta in contrasto con la CEDU e siccome la norma della
CEDU in contrasto con la Costituzione dovrebbe essere espunta dal nostro ordinamento,
risulta oggi che i giudici ordinari, cui è affidato il compito di “filtrare” le questioni di
costituzionalità ex art.137 Costituzione, devono esaminare la compatibilità delle norme
“interne” non solo con la Costituzione, ma anche con la CEDU, potendo il contrasto tra le
disposizioni dare luogo ad una questione di illegittimità costituzionale per eventuale
violazione dell’art.117 1°co Costituzione.
Art. 117 Costituzione.
La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione,
nonchédei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Infatti, non dobbiamo dimenticare che il nostro ordinamento non permette alle persone di
sollevare direttamente le questioni di costituzionalità; è il giudice del processo che, su
sollecitazione di parte o d’ufficio, può rimettere alla Corte Costituzionale la questione che
ritenga rilevante e non manifestamente infondata. La Corte ha così da condurre una
duplice valutazione preliminare di ammissibilità: valutare se la questione è rilevante ai fini
della decisione della lite, valutare se chi ha sollevato la questione sia legittimato.

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2. Analisi dei principi fondamentali del processo accolti nella Costituzione.


I principi fondamentali di cui abbiamo parlato costituiscono ciò che è essenziale perché un
processo si svolga correttamente. La garanzia del processo “giusto”, infatti, costituisce
l’insieme di ciò che nel processo deve essere assicurato. Prima ancora, si pone la necessità
della garanzia del processo, ovvero del diritto dei singoli ad ottenere tutela. È quanto la
Costituzione garantisce, in particolare all’art.24 Costituzione, riconoscendo un generale
diritto di azione “per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”.
Art. 24 Costituzione.
Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto
inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni
giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.
Oltre che nella Carta, il principio è imposto anche dalle Corti Europee di Strasburgo e
Lussemburgo ai Paesi della UE che tutela il diritto di ogni persona non solo ad adire il
giudice, ma anche ad ottenere un “rimedio effettivo”.
Diamo ora qualche indicazione in ordine ai principi fondamentali validi nel processo. Il
divieto per il giudice di iniziare d’ufficio il processo è il riflesso dell’esigenza di garantire la
sua posizione neutrale, la quale presuppone a sua volta che il giudice sia pienamente
autonomo e indipendente. Al tempo stesso il giudice deve seguire dei canoni
precostituiti sia durante il processo, in cui le parti possono far valere le loro ragioni, sia
dopo la conclusione del processo, quando le parti possono proporre impugnazione sulla
base dei motivi che il giudice deve rendere noti non solo per la soddisfazione delle parti, ma
per dare alla collettività un parametro sulla base del quale questa possa valutare il corretto
esercizio della funzione giurisdizionale. Possiamo dunque dire che hanno direttamente la
funzione di garantire la neutralità del giudice, oggi espressamente sancita dall’art.111
2°co Costituzione, secondo cui “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in
condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole
durata”, le norme che prevedono:
a) Il divieto di iniziativa processuale d’ufficio ex art.24 1°co Costituzione: “Tutti
possonoagire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”.
b) La garanzia del giudice naturale ex art.25 1°co Costituzione: “Nessuno può
esseredistolto dal giudice naturale precostituito per legge”.
c) Il divieto di istituire giudici straordinari o speciali ex art.102 Costituzione.
d) La soggezione dei giudici alla legge ex art.101 2°co Costituzione: “I giudici sono
soggetti soltanto alla legge”.
Art. 111 2°comma Costituzione.
Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a
giudiceterzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.
Art. 24 1°comma Costituzione.
Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
Art. 25 1°comma Costituzione.
Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
Art. 102 Costituzione.
La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati
dalle normesull'ordinamento giudiziario.
Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto
istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie,

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anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura.


La legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo
all'amministrazione dellagiustizia.
Art. 101 2°comma Costituzione.
I giudici sono soggetti soltanto alla legge.

Riguardo al punto sub a, si ritiene che il divieto di iniziativa ufficiosa del processo esprime
sia il fondamentale principio secondo il quale non è possibile porre, per nessuna ragione, ai
cittadini limitazioni od ostacoli alla loro difesa nel processo delle posizioni sostanziali –
siano esse di diritto soggettivo od interesse legittimo – che l’ordinamento abbia loro
riconosciute; sia il principio che soltanto chi si afferma portatore della situazione
sostanziale possa decidere se ricorrere o meno alla tutela giurisdizionale.
Quanto ai punti sub b e c, non sarebbe mai sentito come neutrale dalla collettività quel giudice
che venga scelto dopo la nascita della controversia o dell’affare giudiziario o che, comunque,
sia scelto sulla base di criteri elaborati dopo tale nascita. È “naturale” il giudice che sia
scelto in virtù di criteri oggettivi preesistenti alla nascita del processo. L’art.102 2°co
Costituzione a norma del quale “non possono essere istituiti giudici speciali o giudici
straordinari”, fa divieto di creazione di giudici speciali, che sono quelli ai quali si attribuiscono
competenze specifiche e delimitate. A nostro avviso, questo non ha nulla a che vedere con il
principio del giudice naturale. Di conseguenza, quando il legislatore affida competenze
specifiche a giudici “diversi”, questi non possono che essere definiti come giudici speciali in
contrapposizione algiudice ordinario; e la Costituzione ha voluto solo affermare il principio che
non possono essere sottratte materie al giudice ordinario per affidarle ad un organo diverso,
a meno che non si trattidi giudici particolari che abbiamo avuto riconoscimento espresso nella
Costituzione, e tali sono i giudici amministrativi, i giudici contabili e i giudici militari.
Per quanto riguarda il punto sub d, esso è in funzione dell’esigenza di garantire
l’autonomia e l’indipendenza del giudice, che è reso immune dalle pressioni degli altri
organi costituzionali, la cui unica soggezione è soltanto nei confronti della legge. Al tempo
stesso, questa garanzia si trasforma in un limite perché, se è vero che i giudici sono
soggetti soltanto alla legge, è altrettanto vero che non possono oltrepassarla e che nella
legge essi devono ricercare e trovare il canone di valutazione precostituito dei singoli casi
concreti. Una conferma di questo aspetto risiede nella garanzia della motivazione ex
art.111 6°co Costituzione, secondo il quale “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono
essere motivati, e art.111 7°co Costituzione, per il quale “contro le sentenze e contro i
provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso il ricorso per Cassazione”.
È necessario ribadire che la motivazione adempie alla sua funzione non solo nei confronti
delle parti, ma anche nei confronti della collettività.

3. La riserva di legge processuale.


La Costituzione fissa la regola di competenza nella produzione delle norme processuali
stabilendo che si tratti di legge (art.111, 1°comma Costituzione), la cui formazione deriva
dalla “attività esercitata collettivamente dalle due Camere” (art.70 Costituzione) che,
inoltre, consiste non soltanto nella legge in senso stretto, ma ricomprende anche i decreti
legislativi e i decreti legge (artt.76 e 77 Costituzione).

Art. 111 1°comma Costituzione.


La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. (Pag 1)

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Art. 70 Costituzione.
La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.
Art. 76 Costituzione.
L'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con
determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti
definiti.
Art. 77 Costituzione.
Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di
leggeordinaria.
Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta, sotto la sua
responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli
per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si
riuniscono entro cinquegiorni.
I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta
giorni dallaloro pubblicazione.
Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti
nonconvertiti.
La riserva si evince in via generale dalla lettura dell’art.117 2°co lett. l Costituzione, che
attribuisce allo Stato la “potestà esclusiva” del legislatore per “giurisdizione e norme
processuali”.

Art. 117 2°comma lettera l costituzione.


Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:
l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;
L’essenza della garanzia prestata dalla riserva di legge sta nell’impedire l’ingresso, tra le
fonti del diritto processuale civile, del “potere regolamentare del Governo”, così da
preservare l’indipendenza anche del singolo giudice e assicurare che l’amministrazione
della giustizia proceda pienamente “in nome del popolo”, ex art.101 1°co costituzionale.
Art. 101 Costituzione.
La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.
Se tutto questo ci serve ad escludere dal novero delle fonti i regolamenti e le fonti
amministrative, stesso discorso non vale per quei casi di “integrazione legislativa”:
pensiamo ai “protocolli” redatti di intesa fra avvocati e magistrati nel foro locale, che
codificano una peculiare gestione del processo negli spazi lasciati da norme elastiche,
alimentando il ruolo della prassi nel sistema delle fonti; pensiamo anche alle “misure
organizzative” che “gli organi di autogoverno delle magistrature” sono autorizzati a
prendere e così ad incidere su tempi e modi di compimento degli atti processuali. Come è
chiaro, si tratta di fonti di disciplina del processo che, pur non essendo nel rango della
legge, trovano un crescente spazio nella progressiva relativizzazione della riserva. Questo
processo si è già avviato in Francia e pare essere destinato a diffondersi almeno a livello
europeo, dal momento che appare necessario un avvicinamento dei vari sistemi, come tra
le altre cose raccomandano e auspicano gli organi sovranazionali.

4. Le fonti dell’ordinamento comunitario e gli altri obblighi internazionali.


È la Costituzione che, imponendo la garanzia del “giusto processo”, logicamente ammette
la possibilità che a dettarne la regolamentazione sia anche una norma ulteriore alla legge
ordinaria, ovvero la Costituzione stessa, l’Ordinamento Comunitario, i trattati
internazionali o le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute che, a

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norma dell’art.10 Costituzione, costituiscono obblighi per l’ordinamento giuridico italiano.


Art. 10 Costituzione.
L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale
generalmentericonosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle
norme e deitrattati internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della
Repubblica secondo lecondizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici.
Conviene soffermarsi sulle fonti di produzione non interamente domestiche. In particolare,
l’UE sviluppa una cooperazione giudiziaria nelle materie civili con implicazioni
transnazionali, fondata sul principio del riconoscimento delle decisioni giudiziarie ed
extragiudiziali. Questa cooperazione può includere l’adozione di misure intese a ravvicinare
le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. La cooperazione consiste
nell’adozione congiunta di un regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del
Parlamento europeo e del Consiglio su proposta della Commissione.
Bisogna dire da subito che non è derogato il principio per cui il processo è regolato dalla
legge italiana, poiché la direttiva richiede sempre l’interposizione legislativa per rendere
cogente la norma. Le decisioni invece possono essere trattate quali possibili fonti anche
del diritto processuale, come nel caso delle decisioni del consiglio d’Europa sugli accordi
di libero scambio che vincolano gli Stati membri a regolare eventuali controversie
seguendo determinate procedure. È più diffusa l’evenienza del regolamento quale diretta
ed immediata fonte di governo del processo che si tiene in Italia: numerosi sono quelli
emanati in materia civile, come quelli per il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni o
nel settore dell’assunzione delle prove. NON possono essere annoverate tra le fonti del
diritto processuale le sentenze della Corte di Giustizia dell’UE (con sede a Lussemburgo), in
materia di interpretazione dei trattati e sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti
dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione. Esaurite così le fonti
dell’ordinamento comunitario, basta un rapido cenno alla consuetudine internazionale,
che non costituisce fonte, e al trattato internazionale che potrebbe essere
immediatamente costitutivo di norme processuali. Tali fonti sono destinate a prevalere sul
diritto processuale interno, così che, qualora le due discipline non siano omogenee, il
diritto processuale interno sarà recessivo.
Particolare menzione merita la CEDU, entrata in vigore in Italia nel 1955: questa prevede la
possibilità del ricorso individuale all’unica Corte di Strasburgo e le Alti Parti contraenti si
impegnano a conformarsi alla sentenza definitiva della Corte per le controversie di cui sono
parti. Attualmente si ritiene che verso il giudice nazionale le pronunce di questa Corte
siano pienamente vincolanti al modo della cosa giudicata, e cioè esse concorrono alla
produzione di una norma nuova che riguarda direttamente il caso deciso.

5. La giurisprudenza fonte del diritto processuale?


Si va diffondendo l’idea che nel novero delle fonti debba farsi spazio anche alla
giurisprudenza. Per fare un esempio possiamo citare l’art.360 bis cpc, introdotto nel 2009,
che consente che sia dichiarato inammissibile e, quindi, non esaminato nel merito, il
ricorso in Cassazione, qualora non siano offerti elementi per confermare o mutare la
“giurisprudenza della Corte” alla quale il giudice della decisione impugnata si sia adeguato.

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Art. 360-bis. (Inammissibilità del ricorso)


Il ricorso è inammissibile:
1)quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla
giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare
l’orientamento della stessa;
2)quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei princìpi regolatori del
giusto processo.
Inoltre, è ormai pacifica la tendenza per cui, tra due o più possibili interpretazioni di una
disposizione, è da preferire quella sulla cui base si è formata già una certa stabilità di
applicazione della norma processuale.
Ad ogni modo parlare della giurisprudenza come fonte del diritto sembra eccessivo, anche
perché non dobbiamo dimenticare il precetto fondamentale della Cassazione secondo cui
è proprio la soggezione del giudice alla legge che impedisce di attribuire all’interpretazione
della giurisprudenza il valore di fonte del diritto; in ordine al rapporto tra giudice e legge, la
Corte costituzionale ha inteso ribadire che è comunque la legge che occasionalmente
“eleva” il giudice a fonte del diritto, come avviene nel caso del giudizio “secondo equità”.
La Corte di Cassazione ha puntualmente riconosciuto che è proprio il precetto
fondamentale della soggezione del giudice alla legge che impedisce di attribuire
all’interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto.
Quale è allora il ruolo che la legge deve riservare alla giurisprudenza? Se la
“giurisprudenza” è quella della Corte di Cassazione, le spetta senz’altro di assicurare
l’esatta osservanza della legge (che regola il processo) ma anche la sua “uniforme
interpretazione” (nel tempo), in ogni caso evitando di procurare risultati contrari a
“giustizia”. È tuttavia evidente che il confine tra l’esatta osservanza e l’uniforme
interpretazione della legge e l’integrazione della legge, finisce con l’essere assai labile.

6. I caratteri del (-le norme di) diritto processuale civile.


La giurisdizione civile nasce come giurisdizione ordinaria tendenzialmente estesa a
qualsiasi questione o controversia che non richieda l’irrogazione della sanzione penale. Ne
deriva che, esclusa la materia penale, la giurisdizione civile è tendenzialmente
onnicomprensiva. La “giurisdizione civile” non ha bisogno di disposizioni espressamente
attributive della propria materia, e la relativa funzione appare, conclusivamente, quella di
amministrare la giustizia per l’intera materia (non penale), che “speciali disposizioni di
legge” (art.1 cpc) non abbiano provveduto a riservare ad uno degli ordini di soggetti
indipendenti che, oltre alla “magistratura” (art.104 Costituzione), sono parimenti incaricati
della “giurisdizione” (art.111 Costituzione).
Art. 1. (Giurisdizione dei giudici ordinari)
La giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le
norme del presente codice.
Art. 104 Costituzione.
La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Il Consiglio
superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica.
Ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione.
Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle
varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di
università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio.
Il Consiglio elegge un vice presidente fra i componenti designati dal Parlamento.

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I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente
rieleggibili.
Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del
Parlamento o di un Consiglio regionale.
Art. 111 Costituzione.
La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. (Pag 1)
Il loro essere “ordinari” di questi giudici si manifesta in molti modi, a partire da ciò che
soltanto per loro la Costituzione ha previsto un organo di autogoverno: se, ad esempio, la
giurisdizione dovesse rimanere incerta sotto il profilo dell’attribuzione a questo o
quell’ordine di giudici, il giudice del riparto sarebbe comunque il giudice civile; ed è la
Corte Suprema di Cassazione che, in ultimo, stabilisce l’ordine al quale appartiene in
concreto la giurisdizione; oggi possiamo affermare che la giurisdizione del giudice civile
“ordinario” è residuale, nel senso che si estende là dove la legge non abbia attribuito la
competenza ad altro giudice.
Fatta tale precisazione, il perimetro della nostra disciplina può essere tracciato facendo
centro sul rapporto costituzionalmente stabilito tra “processo” e “giurisdizione”. Se la
giurisdizione postula il processo (non è vero il contrario), il processo a sua volta
presuppone una regolazione propria: questo circolo si schiude verso l’affermazione più
lineare per cui il diritto processuale costituisce il tipo di regole che consentono di attuare la
funzione giurisdizionale, e pertanto il diritto processuale civile l’insieme delle “norme”
applicabili (anche) dai “giudici ordinari” per esercitare la “giurisdizione civile”. Si tratta, in
parole più chiare, delle norme chiamate a concretare il diritto alla tutela giurisdizionale, che
“è tra quelli inviolabili dell’uomo”, “tra i principi supremi del nostro ordinamento
costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia
l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio”.
Nel 1999 fu modificato l’art.111 Costituzione e fu inserito un primo comma che ha
accolto il principio del giusto processo regolato dalla legge. La disposizione recita: “La
giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”, ed è proprio il
termine “giusto” che da noi pone un problema: è giusto il processo che si svolga nel
rispetto delle prescrizioni di legge ovvero è giusto il processo che tenda ad un risultato
giusto? È giusto il processo secondo legge o secondo diritto? Se si accoglie questa
seconda opzione – che è quella preferita – è da ritenere che un processo legittimo
(svolto secondo la legge) abbia bisogno di ulteriori norme, ad esempio dell’applicazione
di superiori “principi regolatori” (che precedono la fonte diretta di regolazione). Dobbiamo
considerare che mediante un processo si attuano anche forme di “giudizio” che non
sono “giudiziarie”, cioè espressione dell’autorità della “magistratura”; pensiamo
all’arbitrato che,anche nel nostro ordinamento, dà la possibilità ai privati di istituire un
procedimento retto da “arbitri” volto alla soluzione di questioni e controversie civili con
effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria, così venendosi anche qui a
trattare di “giurisdizione civile”.
Si comprende, allora, che l’insieme di tutte queste “norme”, complessivamente serventi
rispetto alla funzione di giudizio, conviene di definire più appropriatamente come diritto
processuale civile, costituendone la “legge” la parte indispensabile. Infatti, la legge gioca un
ruolo esaustivo della disciplina del processo e, proprio in virtù della connotazione che
prende la legalità processuale, è possibile affermare una serie di caratteristiche ulteriori
del (-le norme di) diritto processuale civile.
Il principio di legalità implica la tipicità degli atti, la tassatività e la determinatezza delle
relative fattispecie, il divieto di irretroattività e di analogia. Non sarebbe governato dalla

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legge un fenomeno che ammettesse la rilevanza di atti estranei all’ordine chiuso, completo
e autosufficiente che il legislatore deve predeterminare; allo stesso modo, se la legge
descrivesse la fattispecie di un atto in termini vaghi da impedirne la conoscibilità dei suoi
effetti. La tipicità diviene così concetto di sintesi delle fondamentali garanzie di tassatività
e determinatezza, caratteristiche intese ad evitare l’arbitrio del giudice; diventano anche
essenziali fattori di orientamento della condotta delle parti ed è anche per questo che la
norma processuale deve essere di immediata applicazione, valendo dunque quella vigente
al momento della causa; e, per altro verso, essa “non dispone che per l’avvenire” e, quindi,
deve essere irretroattiva poiché è soltanto la norma cogente al tempo di compimento
dell’attività quella normalmente valida.
Come abbiamo visto, la riserva di legge non opera in esclusivo favore del Codice di Procedura
Civile, siccome le norme che regolano il processo possono derivare dalla legge in genere, rimane
tuttavia indubbio il valore di “prototipo” che il modello fissato da questo testo viene a prendere
per il corrispondente atto processuale da svolgere presso altri che non sia uno dei “giudici
ordinari”. Ma questo non dipende da tecniche di estensione analogica; il Codice di Procedura Civile
rimane naturalmente cogente per via diretta del suo art.1 cpc, a norma del quale: Art. 1.
(Giurisdizione dei giudici ordinari) La giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è
esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del presente codice. La disposizione ha una
notevole vis expansiva, dal momento che se il processo non dovesse svolgersi dinanzi ai giudici
ordinari troverà comunque applicazione il Codice di Procedura Civile, a meno che non subentrino
“speciali disposizioni di legge”, come adesso avviene per il Codice del processo amministrativo.

7. L’organizzazione dei giudici civili in Italia.


In senso proprio e stretto i giudici civili sono:
a) Giudice di pace
b) Tribunale ordinario
c) Corte di appello
d) Corte di cassazione
Giudice di pace – è un ufficio composto da un magistrato onorario (perché non ha un
rapporto di impego con lo Stato), che svolge funzioni giurisdizionali di primo grado in un
territorio che comprendere uno o più comuni ovvero essere limitato ad una o più
circoscrizioni dello stesso comune.
Tribunale ordinario – è un ufficio al quale sono addetti magistrati ordinari e onorari, che si
compone variabilmente di uno o tre magistrati e si articola in 135 sedi sul territorio
nazionale. Esso svolge funzioni giurisdizionali di primo o secondo grado (queste ultime nei
confronti delle decisioni del giudice di pace). Il tribunale quando giudica in composizione
collegiale, decide con numero invariabile di tre componenti.
Corte di appello – è composta invariabilmente da tre componenti, che formano sempre un
collegio. La Corte di appello, dunque, giudica in un unico ovvero in secondo grado presso
26 distretti. La giurisdizione civile è esercitata pure da sezioni specializzate del tribunale e
della corte di appello che giudicano, “per determinate materie”, anche con la
partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura.
Corte di cassazione – svolge in via esclusiva funzioni di impugnazione, ed è stabilmente
composta in forma collegiale, con sede a Roma. È la Costituzione stessa a delineare la
“Cassazione” come ufficio caratterizzato da unicità, collegialità e supremazia. È costituita in
sezioni e ciascuna sezione vota in numero di cinque votanti, nel caso di “sezioni unite” i
votanti sono nove.

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CAPITOLO 2 - LA GIURISDIZIONE
1.I caratteri della funzione giurisdizionale.
La divisione dei poteri dello Stato ha posto le basi per una concezione della giurisdizione
non come esercizio di un potere, ma come erogazione di un servizio, al quale lo Stato è
tenuto.
I nostri codici e la nostra Costituzione sintetizzano questa idea in poche e concise
disposizioni normative. “La giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è
esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del presente codice”, troviamo scritto
nell’art.1 cpc. Non diversamente recita la Costituzione all’art.102 1°co Costituzione,
secondo il quale “la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari istituiti e
regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”. Art. 102 Costituzione. (pag 3)
In entrambe le disposizioni è presente il termine ordinari riferito ai giudici. E se il codice di
rito non individua il giudice, la Costituzione lancia un messaggio: è giudice chi è “istituito e
regolato” dalle norme sull’ordinamento giudiziario, che distingue i giudici di carriera e i
giudici onorari.
Quanto detto fino a ora ci può spingere ad alcune deduzioni, vediamole. La giurisdizione come
servizio – La funzione giurisdizionale è un servizio. Questa definizione è in linea con l’art.104
1°co Costituzione a norma del quale la magistratura costituisce un “ordine”. Art. 104
Costituzione. (pag. 7) Ma aggiunge anche che è un ordine autonomo e indipendente “da ogni
altro potere”. Ordine o potere? Per conto nostro l’idea che costituisce un ordine va associata
all’idea che il giudice è chiamato ad applicare la legge, che costituisce il limite oltre il quale non
può andare e dentro il quale deve svolgere la sua attività in piena autonomia (art.101 2° co
Costituzione).
Tuttavia, benchè la giurisprudenza non sia annoverata nel nostro Paese tra le fonti del diritto,
non si può negare che partecipa, e in misura sempre crescente, alla sua formazione. Seguendo
questa linea evolutiva, la magistratura va sempre più delineandosi come un potere, seppure
“neutro” poiché esercitato in maniera imparziale.
Esiste un monopolio statale della giurisdizione? – Anche in questo campo, l’evoluzione ha
avuto il suo peso. Con l’avvento degli Stati-nazione si affievolisce l’idea che il giudice possa
essere soltanto chi riceve l’investitura autoritaria e, di contro, si afferma l’esigenza di
esaminare i contenuti della funzione, distinguendo ciò che può fare un qualsiasi soggetto
“terzo ed imparziale”, cui sia affidato il compito di risolvere una controversia e ciò che può
fare soltanto un soggetto investito di autorità. Per questa strada si è ammessa la rilevanza
immediata nel nostro ordinamento delle decisioni dei giudici stranieri (che nel nostro
ordinamento non hanno investitura autoritaria) e la possibilità di ricorso all’arbitrato.
Senza dimenticare che la costituzione europea ha portato ad una indubbia contrazione
della sovranità degli Stati-membri anche nel settore della giustizia.
La giurisdizione affidata alla magistratura ordinaria – L’idea del costituente è stata quella
di assegnare alla magistratura ordinaria una funzione di assoluto rilievo; ne è la prova sia la
distinzione tra “giudici ordinari” e “giudici speciali”, ma soprattutto la previsione della
Corte di Cassazione, come organo di vertice della magistratura ordinaria e giudice di
conflitti anche tra il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti.
Anche in questo caso l’evoluzione ha rotto l’originario equilibrio: la Corte di Conti, infatti,
ha visto allargarsi l’area delle sue competenze in conseguenza delle riforme
sull’organizzazione dei servizi pubblici, ai quali si accompagna, ovviamente, il costante
finanziamento con danaro pubblico.
Per quanto riguarda il giudice amministrativo, la vicenda è più complessa; i costituenti
erano partiti dall’idea di tenere ferma la giurisdizione amministrativa che si era rivelata una

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strumento prezioso di tutela, avendo consentito il controllo della discrezionalità


amministrativa in particolare grazie all’uso accorto del vizio dell’eccesso di potere; tutto
questo perché, all’epoca, si riteneva del tutto esaustiva una tutela di mero annullamento.
Sul caso delle espropriazioni illegittime, però, tale tutela di annullamento non appariva
esaustiva. Di conseguenza, appariva del tutto naturale che fosse necessario il ricorso al
giudice amministrativo che, annullando l’atto, ripristinasse la situazione di diritto del
soggetto, il quale, a sua volta, solo in questo momento poteva agire dinanzi al giudice
ordinario per la tutela risarcitoria. Il sistema è entrato in crisi quando si è avvertito che la
tutela di annullamento non era esaustiva e che, pertanto, anche la violazione degli
interessi legittimi può dare luogo a pretese risarcitorie o, perfino, reintegratorie. Così, la
Suprema Corte ha affermato il principio della risarcibilità anche degli interessi legittimi
violati. C’era da scegliere tra due diverse soluzioni:
a) Concentrare tutta la giurisdizione dinanzi al giudice ordinario;
b) Concentrare tutta la giurisdizione dinanzi al giudice amministrativo;
Si scartò la prima soluzione dal momento che avrebbe portato, sostanzialmente, alla
soppressione del giudice amministrativo, e si è scelta la seconda, affidando così al giudice
amministrativo la giurisdizione per blocchi di materie (urbanistica, edilizia e servizi
pubblici), a prescindere dalla natura della situazione giuridica dedotta in giudizio,
rendendolo inoltre giudice della reintegrazione e del risarcimento anche quando è giudice
di sola legittimità (mentre in capo al giudice ordinario si concentrava la giurisdizione in
materia di impiego pubblico).
In questo modo, però, si era aperto un nuovo contrasto tra giudice ordinario e giudice
amministrativo. Infatti, mentre quest’ultimo continuava a ritenere che l’azione risarcitoria
dovesse essere preceduta dalla tempestiva impugnazione dell’atto amministrativo
illegittimo al quale si faceva risalire il danno (pregiudiziale amministrativa), il giudice
ordinario statuiva la possibilità di proporre l’azione risarcitoria in via automatica e diretta,
configurando la decisione del Consiglio di Stato che avesse dichiarato l’inammissibilità
dell’azione risarcitoria per mancanza di preventiva azione di annullamento, come una
violazione sulla giurisdizione.
Il conflitto ha trovato soluzione con il d.lgs. 2 luglio 2010 n°104 Codice del Processo
Amministrativo, che stabilisce che l’azione di condanna per lesione di interessi legittimi
può essere esercitata anche in via autonoma, ma che la relativa domanda va proposta
entro 120 giorni da quello in cui si è verificato l’evento o dalla conoscenza del
provvedimento. In tal modo, l’azione di condanna diventa improponibile in via autonoma
quando l’atto amministrativo non può più essere annullato in via giurisdizionale, essendo
decorso il termine di qualsiasi impugnativa; ed il termine dei 120 giorni finisce per essere
un termine assai breve per l’esercizio del diritto al risarcimento, così sancendo un favor per
l’amministrazione.
Verso la giurisdizione unica? – Sembra chiaro che l’originario disegno, che contrapponeva
a una giurisdizione ordinaria una giurisdizione speciale, è stato compromesso e la
giurisdizione del giudice amministrativo (e di quello contabile) ha finito con l’essere non
più speciale, ma col costituire una diversa maniera di esercitare un’unica funzione. Non
dimentichiamo che la Costituzione aveva collocato il giudice amministrativo in “particolari
materie”, dandogli una giurisdizione sostanzialmente “residuale”. La Costituzione ha
chiarito il punto nel riconoscere al giudice amministrativo la giurisdizione, purchè non lo si
trasformi in giudice “dell’amministrazione”, ossia in un giudice competente a decidere per
il solo fatto che nella controversia si coinvolta una pubblica amministrazione.

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In conclusione, il criterio di riparto fissato dai costituenti è venuto meno, così che
l’impianto originario ne esce modificato. Da ora in avanti, i problemi sempre meno quelli
relativi al riparto di giurisdizione, essendo il legislatore ordinario libero di risolverli come
crede, ma quelli delle garanzie della giurisdizione e del processo, essendo evidente che se
siamo di fronte ad un’unica funzione giurisdizionale non c’è ragione per distinguere i
modelli processuali, così come non c’è ragione per immaginare giudici diversi e
diversamente regolati e organizzati. Insomma, siamo di fronte ad un processo di osmosi e,
per tale motivo, si dovrebbe adottare il sistema della giurisdizione unica già propugnato,
ma non accolto.

2. Distinzione della funzione giurisdizionale dalle altre funzioni dello Stato.


Le tradizionali funzioni dello Stato, secondo il pensiero illuministico, erano tre e ben
distinte fra loro: Esecutivo, Legislativo e Giudiziario. Una tale netta separazione, però,
appariva uno schema astratto nello Stato moderno. Così, da un lato si dubita che le
funzioni dello Stato siano soltanto tre e, dall’altro, è sempre più difficile stabilire i confini
tra l’una e l’altra. Solitamente, si assume che la funzione legislativa consiste nella
produzione delle norme che vanno a comporre l’ordinamento giuridico, con la produzione
di atti a contenuto astratto e generale, mentre la funzione giurisdizionale si pone, rispetto
a questa, come continuazione o specificazione in quanto si esplica con atti a contenuto
concreto, nei quali la norma giuridica diventa criterio di giudizio. E si precisa che l’attività
amministrativa – e quella di governo - pur svolgendosi con atti di contenuto concreto e di
esecuzione della legge (al pari della giurisdizione), si caratterizza per la specifica finalità
degli atti, che perseguono sempre la cura di determinati interessi pubblici (sicurezza,
salute, istruzione, etc.), rispetto ai quali la legge fornisce soltanto la disciplina del
comportamento dell’autorità amministrativa, regolando il quando e il come della sua
attività. Ma, come abbiamo visto, si tratta di definizioni che hanno inevitabilmente
carattere relativo, soprattutto con riferimento alla giurisdizione, dove si è sempre più
consapevoli che non è possibile demarcare con uno staccato i confini tra attività legislativa
e attività giurisdizionale, la seconda integrando la prima seguendo una linea di continuità
che non può interrompersi. La dottrina ha così tentato di elaborare una definizione
unitaria sotto l’aspetto contenutistico e strutturale, ma tutte le definizioni appaiono
lacunose. Si perviene, in tal modo, alla conclusione, condivisibile, che l’unica definizione
possibile è quella che fa leva sull’aspetto soggettivo, così ripetendo l’incontestabile verità
contenuta nella formula nell’art.1 cpc, secondo cui è giurisdizione l’attività esercitata dai
giudici. Da questa prospettiva diventano rilevanti i requisiti che devono accompagnare la
posizione del giudice, che è tale se terzo, indipendente ed imparziale, e la sua azione nel
processo, che si svolge su impulso delle parti e nel rispetto del contraddittorio e si
conclude con una decisione emessa sulla base di prove analitiche e razionali e che dà conto
delle ragioni per cui è stata emessa. Questa conclusione esprime con precisione il modo di
sentire coerente con il grado di civiltà al quale siamo pervenuti.

3. Le varie forme di giurisdizione.


Attualmente si distinguono 5 tipi di giurisdizione:
1. Penale
2. Civile
3. Amministrativa
4. Contabile
5. Costituzionale

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La giurisdizione penale è la funzione dello Stato preposta all’attuazione delle norme penali,
caratterizzate dal fatto di essere accompagnate dalla sanzione penale. Il campo affidato alla
giurisdizione civile viene ricavato per differenza, nel senso che vi rientrano tutte le materie
che la legge non affida alla giurisdizione penale, a quella amministrativa e a quella contabile.
L’introduzione di un sistema costituzionale rigido, secondo il quale le norme non possono
contrastare con le disposizioni costituzionali, ha imposto l’introduzione della Corte
Costituzionale, il cui compito più rilevante è quello di sindacare la conformità delle leggi e
degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni alle norme della Costituzione.
Accanto a questo, l’art.134 Costituzione, affida alla Corte la funzione di giudicare sui conflitti di
attribuzione fra i poteri dello Stato e su quelli tra Stato e Regioni e tra le Regioni, nonché sulle
accuse mosse al Presidente delle Repubblica, a norma della Costituzione.
Art. 134 Costituzione.
La Corte costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimità costituzionale
delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni; sui conflitti di
attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni;
sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione.

4. Le varie forme di giurisdizione civile (in particolare la c.d. volontaria giurisdizione).


In linea di massima approssimazione, si può dire che esiste una giurisdizione contenziosa,
caratterizzata dall’esservi una controversia tra più soggetti che si presentano davanti al
giudice in posizione contrapposta; una giurisdizione esecutiva, che ha la funzione di
tradurre in atto e, quindi, di realizzare anche in modo coattivo determinati comandi ai
quali l’ordinamento riconosce particolare efficacia; una giurisdizione volontaria, nella
quale non vi è controversia da risolvere, ma da gestire un negozio o un affare che per
svariate ragioni richiede l’intervento (partecipativo) di un terzo estraneo ed imparziale.
Se prendiamo in esame la contrapposizione tra giurisdizione contenziosa e volontaria,
viene fuori la prima differenza fondamentale: nel decidere una controversia, in sede
contenziosa i giudici tendono ad emettere un provvedimento che sia in grado di regolare
con stabilità il rapporto controverso tra le parti in lite. Ciò vuol dire che il provvedimento
diviene stabile, ex art.324 cpc – cosa giudicata formale, in modo da porsi da questo
momento in poi come fonte della normativa che disciplina il rapporto sostanziale (c.d.
art.2909 cc – cosa giudicata sostanziale).
Art. 324. (Cosa giudicata formale)
Si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di
competenza, né ad appello, ne' a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai
numeri 4 e 5 dell'articolo 395.
Art. 2909 codice civile. (Cosa giudicata).
L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i
loro eredi o aventi causa.
Nulla di tutto questo è previsto e necessario nell’ambito della giurisdizione volontaria,
dove i provvedimenti del giudice sono emessi sulla base di una valutazione di opportunità,
per la miglioregestione di negozi o affari, che può anche mutare nel tempo.

5. L’arbitrato.
Abbiamo visto che la funzione giurisdizionale è affidata a magistrati di carriera, inseriti
nell’organizzazione dello Stato. La Costituzione all’art.24 Costituzione, garantisce il diritto
di azione esercitato sia dinanzi al giudice statale, sia dinanzi al giudice privato, sia che non
sia affatto esercitato.

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Art. 24 Costituzione.
Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto
inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni
giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.
Bisogna però stabilire quando ciò sia possibile. Non lo è per tutte le forme di processo
volontario, che sono contrassegnate dall’essere affidate a un magistrato di carriera. È più
facile da ipotizzare nel campo della giurisdizione contenziosa, dove nulla sembra
ostacolare i soggetti che vogliano far decidere la controversia non dai giudici dello Stato
ma da persone di loro fiducia. Questo tradizionale istituto prende il nome di arbitrato,
regolato dagli artt.806 ss. cpc.
Art. 806. (Controversie arbitrabili)
Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per
oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge.
Le controversie di cui all'articolo 409 possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o
nei contratti o accordi collettivi di lavoro.
Art. 807. (Compromesso)
Il compromesso deve, a pena di nullità, essere fatto per iscritto e determinare l'oggetto della
controversia.
La forma scritta s'intende rispettata anche quando la volontà delle parti è espressa per telegrafo,
telescrivente, telefacsimile o messaggio telematico nel rispetto della normativa, anche
regolamentare, concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti teletrasmessi.
Possiamo sintetizzarlo così: le parti hanno la possibilità di fare ricorso all’arbitrato
mediante un contratto, da redigere per iscritto, con il quale convengono di far decidere
dagli arbitri una controversia già insorta e ben individuata (o anche controversie future
relative ai rapporti non contrattuali) che abbia ad oggetto diritti disponibili. Le stesse
possono stabilire con una clausola di un più complesso contratto che stipulano o con atto
successivo che si collega ad esso, di far decidere dagli arbitri le controversie (future)
scaturenti dal contratto stesso. Una volta investiti della controversia, gli arbitri emettono la
decisione. La pronuncia prende il nome di lodo, al quale l’art.824 bis cpc attribuisce gli
“effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”.
824-bis. (Efficacia del lodo)
Salvo quanto disposto dall'articolo 825, il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli
effetti della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria.

6. Le questioni di giurisdizione.
A) La nozione di giurisdizione secondo il codice: la giurisdizione ha per oggetto la sfera di
potere giurisdizionale attribuita ai giudici nei rapporti con i giudici di ordine diverso
(mentre a competenzaè la misura del potere giurisdizionale attribuita ai giudici nei rapporti
con altri giudici appartenenti allo stesso ordine). Questa era l’impostazione data dal
legislatore oltre mezzo secolo fa, ma oggi è ancora attuale? La riforma del 1995 ha
abrogato l’art.2 cpc, che era l’unica disposizione dalla quale si desumeva il divieto di patti in
deroga alla giurisdizione;
Art. 2. (abrogato) (Inderogabilità convenzionale della giurisdizione)
L'articolo che recitava: "La giurisdizione italiana non può essere convenzionalmente derogata a
favore di una giurisdizione straniera, né di arbitri che pronuncino all'estero, salvo che si tratti di
causa relativa ad obbligazioni tra stranieri o tra uno straniero e un cittadino non residente né

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domiciliato nella Repubblica e la deroga risulti da atto scritto." è stato abrogato dall'art. 73, L. 31
maggio 1995, n. 218.
Oggi si prevede espressamente la possibilità delle convenzioni in deroga , purchè siano
fatte per iscritto, vertano su diritti disponibili, subordinando la sola efficacia delle
convenzioni a una sorta di consenso del giudice. Sempre più spesso, il legislatore delinea le
sfere di competenza dei giudici di diverso ordine per blocchi di materie. Il d.lgs. 30 marzo
2001 n°165 ha attribuito al giudice ordinario tutte le controversie in materia di pubblico
impiego e al giudice amministrativo tutte le controversie in materia di servizi pubblici, di
urbanistica, di edilizia, comprese quelle per il risarcimento del danno e comunque relative
ai diritti patrimoniali consequenziali.
Di questi mutamenti non si è ancora del tutto consapevoli, tanto che fino a poco tempo fa
si continuava a ritenere che il difetto di giurisdizione avesse effetto caducatorio del
processo. In realtà, l’unica disposizione da cui si desume ciò e che il difetto di giurisdizione
può essere rilevato anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, è contenuta
nell’art.37 cpc – difetto di giurisdizione.
Art. 37. (Difetto di giurisdizione)
Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei
giudici speciali è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo.
Siccome le basi oggi sono ampiamente mutate, ci piace di pensare che l’evoluzione del
nostro ordinamento sia nel senso di restringere la portata dell’art.37 cpc – difetto di
giurisdizione, limitandola al suo tenore letterale, ovvero quello di norma destinata a
regolare il fenomeno all’interno del processo. Dopotutto, la convenzione dell’arbitrato
consente alla parti di rinunciare alla giurisdizione dello Stato, derogando a tale principio.
Ovviamente, quando l’evoluzione degli istituti porta a risultati diversi da quelli sperati, si
evidenziano nel sistema fratture e contraddizioni. La chiave per forzare il significato delle
stesse disposizioni costituzionali e per renderle compatibili con il “diritto vivente” sta
nell’esigenza di offrire una giustizia effettiva in tempi ragionevoli e l’occasione è data
dall’incapacità delle nostre istituzioni di apportare le correzioni, anche a livello
costituzionale, all’organizzazione complessiva del nostro sistema giudiziario. La vicenda
della c.d. translatio judicii è esemplare.
L’art.50 cpc – riassunzione della causa, era stato formulato in considerazione di un sistema
che distingueva nettamente la giurisdizione dalla competenza. Pertanto, si riteneva che,
qualora un giudice fosse stato dichiarato incompetente in ordine alla domanda a lui
proposta, le parti avrebbero potuto trasferire il processo dinanzi al giudice competente in
modo tale che la porzione celebrata dinanzi al primo giudice si saldasse con quella
proseguita dinanzi al secondo giudice senza che si producessero effetti sfavorevoli di alcun
tipo ai danni delle parti. Se, invece, era stato dichiarato il difetto di giurisdizione in favore
di un giudice speciale, la parte avrebbe dovuto cominciare il processo daccapo, con la
proposizione di una nuova domanda, subendo il rischio di preclusioni, decadenze o
prescrizioni nel frattempo verificatesi. Il sistema conosceva un’unica eccezione: l’art.382
cpc – decisione delle questioni di competenza e giurisdizione, che ammetteva la
possibilità di trasferire il processo dal giudice speciale al giudice ordinario, qualora fosse
stata affermata la giurisdizione di quest’ultimo.
Art. 382. (Decisione delle questioni di giurisdizione e di competenza)
La Corte, quando decide una questione di giurisdizione, statuisce su questa, determinando, quando
occorre, il giudice competente.
Quando cassa per violazione delle norme sulla competenza, statuisce su questa.
Se riconosce che il giudice del quale si impugna il provvedimento e ogni altro giudice difettano di

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giurisdizione, cassa senza rinvio. Egualmente provvede in ogni altro caso in cui ritiene che la causa
non poteva essere proposta o il processo proseguito.
La motivazione è che, all’epoca, la giurisdizione dei giudici speciali si poneva come
“residuale” e, inqualche misura, come “eccezionale”.
Questa sistemazione, però è apparsa obsoleta e contrastante con un sistema di tutela
effettivo. La Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione erano così pervenute a risultati
diversi. La prima, aveva dichiarato incostituzionale il non prevedere la conservazione degli
effetti sostanziali e processuali della domanda proposta al giudice incompetente, salvando
così gli effetti della domanda; la Corte di Cassazione era stata ancora più audace,
stabilendo il principio secondo cui è possibile la translatio anche dal giudice civile al giudice
amministrativo, non preoccupandosi di come ciò sarebbe potuto avvenire. Ovviamente, la
decisione della SC era assai discutibile per chi ritiene che compito degli interpreti (quindi
anche quello dei giudici) è quello di applicare le leggi, non quello di crearle. Quello della
Corte Costituzionale lasciava perplessi, perché si risolveva in un intervento manipolativo
del testo di legge assai ardito, oltre tutto limitato ai soli rapporti tra giudice amministrativo
e giudice civile.
Per questi motivi, il legislatore è intervenuto con la l.69/2009, di cui pare utile fissare i
punti principali. In virtù del principio per il quale ciascun giudice è giudice della propria
competenza, se il primo giudice ha declinato la sua giurisdizione, il secondo giudice al quale
la domanda era stata posta ex novo poteva anche egli rifiutare di avere giurisdizione. Vi
era, e vi è, una sola eccezione, quando l’indicazione del giudice sia fatta dalla SC, che, fra le
altre cose, ha anche il compito di regolare la giurisdizione.
Dobbiamo individuare così tre ipotesi:
a) Il giudice originariamente adito dichiara il suo difetto di giurisdizione (nel
qual caso deve indicare quale è il giudice che ne è munito), ma la decisione
è ancora impugnabile.
b) In pendenza del processo originario la SC, investita della questione, ha
regolato la giurisdizione.
c) La pronuncia sulla giurisdizione è passata in giudicato (e ciò quando le parti
non l’abbiano impugnata o abbiano espressamente o tacitamente
rinunziato ad impugnarla.
Nelle ipotesi b) e c) il legislatore ritiene che il processo dinanzi al primo giudice si sia
chiuso. Di conseguenza, non potendosi parlare di riassunzione, la parte potrà soltanto
riproporre la domanda (nelle forme richieste per il processo dinanzi al nuovo giudice) e se
lo fa entro tre mesi salva gli effetti sostanziali e processuali della prima domanda. Dal fatto
che inizia un nuovo processo deriva che: 1) restano ferme le preclusioni e le decadenze
intervenute nel corso del processo chiuso; 2) le prove raccolte dinanzi al primo giudice
possono essere valutate come argomenti di prova; 3) il secondo giudice può, a sua volta,
declinare la sua giurisdizione.
Cosa comporta parlare di riassunzione e non di proposizione di nuova domanda?
Comporta, in primo luogo, che il processo “continua” dinanzi al nuovo giudice; le prove
raccolte restano valide; le parti possono essere rimesse in termini ex art.49, 2°co cpc;
perdurando un conflitto con il primo giudice, il secondo può proporre regolamento
preventivo ad analogia di quanto previsto nell’art.45 cpc – conflitto di competenza.
Art. 49. (Sentenza di regolamento di competenza)
Il regolamento è pronunciato con ordinanza in camera di consiglio entro i venti giorni successivi
alla scadenza del termine previsto nell’articolo 47, ultimo comma.

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Con l’ordinanza la Corte di cassazione statuisce sulla competenza, dà i provvedimenti necessari per
la prosecuzione del processo davanti al giudice che dichiara competente e rimette, quando
occorre, le parti in termini affinché provvedano alla loro difesa.
Art. 45(Conflitto di competenza)
Quando, in seguito alla ordinanza che dichiara la incompetenza del giudice adito per ragione di
materia o per territorio nei casi di cui all’articolo 28, la causa nei termini di cui all’articolo 50 è
riassunta davanti ad altro giudice, questi, se ritiene di essere a sua volta incompetente, richiede
d’ufficio il regolamento di competenza.
B) L’art.37 cpc – difetto di giurisdizione, invece, non richiama più il rapporto tra il giudice
italiano e convenuto straniero, essendo stato abrogato dalla l.218/1995 il suo 2°co. È
discutibile, oramai, che i rapporti fra giudice italiano e giudice straniero siano inquadrabili
nello schema normativo della giurisdizione.
Art. 37. (Difetto di giurisdizione)
Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei
giudici speciali è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo.
C) Restano altre due possibili situazioni:

a) La situazione non è affatto tutelabile in sede giurisdizionale.


b) Essa può rientrare nella sfera di giurisdizione di un giudice straniero.
C’è da dire, quanto alla prima, che essa è ipotizzabile soltanto nei rapporti fra cittadini e
pubblica amministrazione e che situazioni del genere sono destinate sempre più a ridursi.
Quanto ai rapporti col giudice straniero, il problema si pone soltanto nei casi in cui il
soggetto residente all’estero sia convenuto (e non attore). In queste ipotesi il giudice deve
controllare se sussista un criterio di collegamento tra la giurisdizione italiana e la
controversia. Oggi, per stabilire la giurisdizione italiana nella controversia in cui sia parte
convenuta uno straniero basta che: 1) il convenuto sia domiciliato o residente in Italia; 2) o
abbia in Italia un rappresentante autorizzato a stare in giudizio; 3) o vi sia una espressa
disposizione di legge; 4) o ricorrano i criteri stabiliti dalla Convenzione di Bruxelles, anche
quando il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente; 5) o
sussistano, fuori dall’ambito di applicazione della Convenzione, i criteri stabiliti per la
competenza del territorio, salvo che si tratti di azioni reali concernenti immobili situati
all’estero. In materia di giurisdizione volontaria la giurisdizione italiana sussiste quando “il
provvedimento richiesto concerne un cittadino italiano o una persona residente in Italia o
quando riguarda situazioni o rapporti ai quali è applicabile la legge italiana”. Il giudice
italiano può emanare un provvedimento cautelare quando il provvedimento deve essere
eseguito in Italia, anche se non abbia giurisdizione in merito.

7. Il regolamento di giurisdizione.
Il regolamento di giurisdizione è un istituto processuale del ramo civile previsto e
disciplinato dall'art.41 cpc – regolamento di giurisdizione.
Art. 41. (Regolamento di giurisdizione)
Finche' la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle Sezioni
unite della Corte di cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui all'art. 37. L'istanza
si propone con ricorso a norma degli artt. 364 ss., e produce gli effetti di cui all'art. 367.
La pubblica amministrazione che non è parte in causa può chiedere in ogni stato e grado del
processo che sia dichiarato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione il difetto di giurisdizione del
giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti dalla legge all'amministrazione stessa, finché la
giurisdizione non sia stata affermata con sentenza passata in giudicato.

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È lo strumento attraverso il quale possono essere risolte preventivamente, cioè prima che
il giudice stesso decida la causa, le questioni di giurisdizione in caso di conflitto tra giudice
civile, amministrativo, contabile, tributario o giudici speciali. Prevede il ricorso con le forme
definite agli artt.360 ss cpc. L'istanza è proposta dalle parti o dal giudice.
Ai sensi dell'art.41 cpc infatti: “finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado,
ciascuna parte può chiedere alle Sezioni unite della Corte di Cassazione che risolvano le
questioni di giurisdizione di cui all'articolo 37”. Il regolamento cosiddetto "preventivo" di
giurisdizione è strumento atto ad evitare che si proceda davanti ad un giudice sfornito di
giurisdizione e si veda poi cassata la sentenza dalla Corte suprema. Ha una prevalente funzione di
economia processuale. Non si tratta di un mezzo di impugnazione perché non interviene su di una
decisione resa da altro giudice, ma semplicemente rimette il potere di decidere sulla questione di
giurisdizione alla Corte suprema.
Un punto ampiamente dibattuto riguarda il termine ultimo entro cui può essere proposto
il regolamento. L'art.41 cpc dice che la preclusione non scatta "finché la causa non sia
decisa nel merito in primo grado...", ma dottrina e giurisprudenza hanno interpretato
questo dettato estendendo la preclusione alla proponibilità del regolamento a qualunque
sentenza definitiva o non definitiva di merito o processuale in primo grado. Le ragioni sono
chiare, il regolamento non è mezzo d'impugnazione, deve, quindi, essere strumentale a
prevenire decisioni impugnabili. Se il giudice emette sentenza l'ordinamento ha a
disposizione altri mezzi per porre rimedio all'errore.
Il regolamento è proponibile, naturalmente, dal convenuto, ma anche dall'attore che vi ha
dato causa, per ribadire ulteriormente che lo scopo è di prevenire passaggi inutili davanti al
giudice. Le questioni per le quali è previsto il regolamento sono individuate dall'art.37 cpc
– difetto di giurisdizione "difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della
pubblica amministrazione o dei giudici speciali...".
L'istanza di regolamento si propone con ricorso alle Sezioni unite della Corte di Cassazione
con lemodalità previste dall'art.365 ss cpc.
Nota di rilievo meritano tanto il disposto dell'art.367 cpc modificato con la riforma al
codice di procedura civile del 1990, riforma che ha attribuito al giudice davanti al quale
pende la causa la valutazione circa la sospensione del processo, subordinandola al
ricorrere di due presupposti "...sospende il processo se non ritiene l'istanza
manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente
infondata", quanto la riforma del 2009 che ha introdotto la possibilità di operare una
translatio judicii così che se le parti riassumono, entro il termine di tre mesi dal passaggio
in giudicato della pronuncia della cassazione, la causa davanti al giudice indicato dalle
Sezioni unite questa si considera proposta ex tunc. In origine la sospensione era
obbligatoria ed incondizionata e consentiva l'uso del regolamento per mere finalità
dilatorie. Con la translatio judicii non è più necessario riproporre la causa ma è sufficiente
riassumerla in termini perché siano fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della
domanda.
Art. 367. (Sospensione del processo di merito)
Una copia del ricorso per cassazione proposto a norma dell'articolo 41, primo comma, è
depositata, dopo la notificazione alle altre parti, nella cancelleria del giudice davanti a cui pende la
causa, il quale sospende il processo se non ritiene l'istanza manifestamente inammissibile o la
contestazione della giurisdizione manifestamente infondata. Il giudice istruttore o il collegio
provvede con ordinanza.
Se la Corte di cassazione dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, le parti debbono
riassumere il processo entro il termine perentorio di sei mesi dalla comunicazione della sentenza.

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Un problema può sorgere nel caso in cui il processo di merito prosegua davanti al giudice
adito, giungendo a sentenza, nonostante penda il ricorso per il regolamento di
giurisdizione davanti alla Suprema corte. Due sono le possibili e contrarie soluzioni. La
prima è lineare, la Cassazione afferma la giurisdizione del giudice di merito, la sentenza
resa dal giudice a quo è pienamente efficace. La seconda prevede che le due sentenze,
ovviamente opposte, trovino un coordinamento. La Cassazione arriva a negare la
giurisdizione del giudice di merito, il giudice nel frattempo ha reso sentenza di merito. Per
la soluzione trova applicazione analogica l’art.336 – effetti della riforma o della
cassazione, che prevede che "La riforma o la cassazione estende i suoi effetti a
provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata."
Art. 336. (Effetti della riforma o della cassazione)
La riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte
riformata o cassata.
La riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla
sentenza riformata o cassata.
Per quanto riguarda il processo amministrativo, l'art. 10 del Decreto legislativo 2 luglio
2010 n. 104 statuisce la rilevabilità del difetto di giurisdizione d'ufficio in primo grado
davanti al giudice amministrativo, nonché in grado di appello; esso può essere
promosso secondo le norme del codice di procedura civile a cui si rinvia, soltanto a
condizione che non vi sia stata acquiescenza sul capo della sentenza che esplicitamente o
implicitamente abbia pronunciato sulla giurisdizione.
Il regolamento di giurisdizione, sottoscritto da un cassazionista e notificato a tutte le parti
del processo amministrativo, può essere proposto in primo grado solo finché la causa non
sia stata decisa anche se solamente nel rito. Tale preclusione non opera se il giudice abbia
sollevatoquestione pregiudiziale alla Corte di giustizia delle Comunità europee.

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CAPITOLO 3 LA COMPETENZA
1. La nozione di competenza.
Il giudice al quale sia stata presentata la domanda giudiziale, dopo aver stabilito se abbia
giurisdizione, deve stabilire se è competente. La competenza è la quantità di potere
giurisdizionale riconosciuta a ciascun ufficio giudiziario nei confronti degli altri uffici
giudiziari appartenenti allo stesso ordine.
Il legislatore ha previsto 3 criteri di collegamento tra le controversie e gli uffici giudiziari:
1) Per materia – fondato sulla natura della causa.
2) Per valore – fondato sul valore della causa.
3) Per territorio – fondato su determinati elementi di collegamento spaziale tra
la controversia e l’ufficio giudiziario.
Questo presuppone una organizzazione degli uffici giudiziari, in senso orizzontale, dislocati
sul territorio dello Stato in modo che ciascuno eserciti le funzioni giurisdizionali in una
determinata sfera, e in senso verticale, ovvero strutturati in maniera piramidale al cui
vertice è la Cassazione, poi le Corti di Appello, i tribunali e gli uffici del giudice di pace.
L’individuazione del giudice competente non riguarda la persona fisica che potrà decidere
sulla controversia, ma l’ufficio giudiziario nel suo complesso, all’interno del quale saranno
distribuiti gli affari.
Ad ogni modo, bisogna prima risolvere i problemi della competenza verticale, poi
affrontare quelli relativi alla competenza orizzontale. In pratica il giudice o l’avvocato si
comporterà così: esaminerà in primo luogo se la controversia rientri nelle attribuzioni di un
determinato giudice per ragioni di materia e, qualora non vi rientrasse, passa ad esaminare
il valore; ove abbia individuato il giudice competente in primo grado (cioè il giudice di pace
o il tribunale) per materia o per valore, determina quale giudice di pace o tribunale in
concreto sia competente per ragioni di territorio. La competenza per i gradi successivi è
determinata in guisa automatica tenendo conto dei vari scalini della competenza verticale
di cui abbiamo detto poco sopra. È chiaro che, mentre la ripartizione della competenza
secondo criteri territoriali risponde a ragioni prevalentemente organizzative, quella dei
criteri di valore o materia risponde più a valutazioni che attengono all’importanza e alle
caratteristiche intrinseche della lite in virtù delle quali il legislatore stabilisce che
determinate controversie siano decise meglio da alcuni giudici che da altri. La
giustificazione di questo ragionamento la troviamo nell’enunciato dell’art.38 cpc –
incompetenza secondo il quale l’incompetenza per valore e merito danno luogo a vizi più
gravi, mentre l’incompetenza per territorio da luogo a vizio meno grave.
Art. 38. (Incompetenza)
L’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio sono eccepite, a pena di
decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata. L’eccezione di incompetenza
per territorio si ha per non proposta se non contiene l’indicazione del giudice che la parte ritiene
competente.
Fuori dei casi previsti dall’articolo 28, quando le parti costituite aderiscono all’indicazione del
giudice competente per territorio, la competenza del giudice indicato rimane ferma se la causa è
riassunta entro tre mesi dalla cancellazione della stessa dal ruolo.
L’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio nei casi previsti dall’articolo
28 sono rilevate d’ufficio non oltre l’udienza di cui all’articolo 183.
Le questioni di cui ai commi precedenti sono decise, ai soli fini della competenza, in base a quello
che risulta dagli atti e, quando sia reso necessario dall’eccezione del convenuto o dal rilievo del
giudice, assunte sommarie informazioni.

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Questo articolo è stato modificato nel 2009, è così scomparsa la competenza


assolutamente inderogabile, tale cioè che il vizio possa essere rilevato anche d’ufficio in
ogni stato e grado del processo. Tali incompetenze, allora, possono essere rilevate, anche
d’ufficio, non oltre la prima udienza di trattazione, mentre resta immutato il regime della
incompetenza territoriale derogabile, che deve essere eccepita dalla parte interessata nel
primo atto difensivo del giudizio di primo grado con espressa indicazione del giudice che
la parte ritiene competente. Allo stesso modo è rimasto immutato l’art.6 cpc –
inderogabilità convenzionale della competenza, che disciplina il regime degli accordi sulla
competenza anteriori al giudizio.
Art. 6. (Inderogabilità convenzionale della competenza)
La competenza non può essere derogata per accordo delle parti, salvo che nei casi stabiliti dalla
legge.
Tali accordi sono possibili soltanto in relazione alla competenza territoriale derogabile e
con le forme stabilite dal codice di rito.
Il sistema così delineato, è assai vicino a quello creato per le controversie in materia di
lavoro, e se ne discosta perché il giudice del lavoro ha il potere di rilevare d’ufficio
l’incompetenza per tutta l’udienza di discussione (mentre il giudice ordinario deve rilevarla
nella udienza di prima comparizione e di trattazione).

2. Il principio della perpetuatio jurisdictionis.


La distribuzione degli affari giudiziari risponde a esigenze organizzative ma deve essere
effettuata in base a criteri precostituiti in relazione a intere classi di controversie o di affari
giudiziari, per non contrastare con la garanzia del giudice naturale. Diversamente, posto
che uno dei criteri di collegamento territoriali è dato dal domicilio del convenuto, a questi
basterebbe cambiarlo dopo la nascita della controversia per far venire meno il criterio di
collegamento.
Per queste ragioni, l’art.5 cpc – momento determinante della giurisdizione e della
competenza, nella formulazione originaria, disponeva che “la giurisdizione è la
competenza del giudice si determinano con riguardo allo stato di fatto esistente al
momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse
successivi mutamenti dello stato medesimo”, secondo il principio della perpetuatio
jurisdictionis.
Art. 5. (Momento determinante della giurisdizione e della competenza)
La giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto
esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i
successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo.
Questa norma, nella formulazione originaria, prevedeva la irrilevanza per i soli mutamenti
della situazione di fatto, lasciando così fuori i mutamenti legislativi che incidevano
direttamente sulla giurisdizione e sulla competenza.
La nuova formulazione dell’art.5 cpc con l.353/1990 ha riguardo, per fissare la
giurisdizione e la competenza, non solo allo stato di fatto ma anche alla legge vigente al
momento della proposizione della domanda.
Ma, in ogni caso, non tutti i problemi sono stati risolti così.
Il punto più arduo riguarda il caso in cui il mutamento normativo ha per oggetto il rapporto
dedotto in giudizio, in ragione del quale è determinata la giurisdizione o la competenza,
che è un mutamento interno al rapporto mentre, si sostiene, l’art.5 cpc si occupa dei
problemi esterni al rapporto e non si occupa degli elementi costitutivi del diritto dedotto in
giudizio.

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A noi comunque sembra di poter condividere la soluzione per la quale il giudice adito può
decidereil merito.
Altro problema riguarda l’applicabilità dell’art.5 cpc ovvero se riguardi solo il processo
civile, ovvero se abbia portata generale. Ci sembra di dover rispondere in questo secondo
senso. Ci si chiede, infine, se l’art.5 cpc valga anche nel caso diverso in cui adito un giudice
carente di giurisdizione o di competenza, i mutamenti successivi sono tali da radicare un
criterio di collegamento originariamente mancante.
La risposta può essere positiva non in applicazione dell’art.5 cpc, che qui non ha rilievo, ma
in applicazione del principio di economia processuale. Infatti, sarebbe un inutile
formalismo cambiare giudice, quando quello adito è, comunque, ritenuto legittimato a
provvedere. Così, finalmente si è posto in rilievo che l’art.5 cpc non si applica se il
mutamento è conseguenza di una pronuncia di incostituzionalità, dato che tali pronunce
hanno efficacia retroattiva.

3. Analisi dei vari tipi di competenza.


La soppressione delle Preture ha comportato che la competenza in senso verticale va
ripartita fra ilgiudice di pace e il tribunale.
GIUDICE DI PACE:
Competenza del giudice di pace per materia:
1. Per le cause relative ad apposizioni di termini ed osservanza delle distanze stabilite
dalla legge, dai regolamenti e dagli usi riguardo al piantamento di alberi e siepi;
2. Per le cause relative alla misura e alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case;
3. Per le cause relative ai rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile
abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori,
scuotimenti e simili propagazioni che superino la normale tollerabilità;
4. Per le cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni
previdenziali o assistenziali.
Competenza del giudice di pace per materia e valore:
1. Per le cause relative a beni mobili (ossia diritti mobiliari) di valore non superiore
a 5000euro;
2. Per le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di
natanti,purchè il valore della controversia non superi i 20000 euro.
TRIBUNALE:
Competenza del tribunale (necessariamente residuale):
Necessariamente residuale poiché il tribunale è competente per tutte le cause che non
sono di competenza di altro giudice, come recita l’art.9 cpc – competenza del tribunale.
Resta una competenza per materia, pur se ricavata con una sorta di operazione per
differenza.
Art. 9. (Competenza del tribunale)
Il tribunale è competente per tutte le cause che non sono di competenza di altro giudice.
Il tribunale è altresì esclusivamente competente per tutte le cause in materia di imposte e tasse,
per quelle relative allo stato e alla capacità delle persone e ai diritti onorifici, per la querela di
falso, per l'esecuzione forzata e, in generale, per ogni causa di valore indeterminabile.
Il 2°co assegna una competenza esclusiva “in materia di imposte e tasse, per quelle relative
allo stato e alla capacità delle persone e ai diritti onorifici, per la querela di falso, per
l’esecuzione forzata e, in generale, per ogni altra causa di valore indeterminabile”.

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La l.353/1990 ha distinto le controversie che sono decise monocraticamente dal giudice


istruttore presso il tribunale da quelle che restano affidate alla decisione collegiale.
IL VALORE DELLA CAUSA. Gli artt.10-17 cpc illustrano i criteri in base ai quali si determina il
valore della causa. Secondo l’art.10 cpc – determinazione del valore il valore della causa si
“determina dalla domanda”, ponendo così un principio generale.
Art. 10. (Determinazione del valore)
Il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda a norma delle
disposizioni seguenti.
A tale effetto le domande proposte nello stesso processo contro la medesima persona si sommano
tra loro, e gli interessi scaduti, le spese e i danni, anteriori alla proposizione si sommano col
capitale.
Questo principio porta due conseguenze:
a) Anche se il valore fissato nella domanda sia tale da radicare la competenza di un
giudice superiore, nulla esclude che, all’atto della decisione, il giudice adito possa
pronunciare una sentenza con la quale si va al di sotto dei limiti minimi della propria
competenza.
b) Una volta proposta la domanda, non è rilevante, ai fini della competenza, una
modificazione in aumento o riduzione in un momento successivo. La disposizione
altro non è che una proiezione della perpetuatio jurisdictionis fissato nell’art.5 cpc
– momento determinante della giurisdizione e della competenza: anche questa
norma cerca di cristallizzare ai fini della competenza la situazione di fatto esistente
al momento della presentazione della domanda giudiziale.
Il principio fissato nell’art.10 cpc si arricchisce di ulteriori specificazioni, in primo luogo è
molto difficile che si proponga una sola domanda, mentre è più frequente il caso in cui
vengano proposte più domande congiuntamente. L’art.10 2°co cpc stabilisce che le
domande proposte nello stesso processo contro la stessa persona “si sommano fra loro” e
quindi, ai fini della competenza, vanno trattate unitariamente. Questa disposizione va
messa in rapporto con quanto disposto dall’art.14 1°co cpc – cause relative a somme di
danaro o beni mobili, che prende in considerazione l’ipotesi in cui l’attore non abbia
potuto o voluto quantificare la domanda sin dalla presentazione dell’atto introduttivo.
Art. 14.(Cause relative a somme di danaro e a beni mobili)
Nelle cause relative a somme di danaro o a beni mobili, il valore si determina in base alla somma
indicata o al valore dichiarato dall'attore; in mancanza di indicazione o dichiarazione, la causa si
presume di competenza del giudice adito.
Il convenuto può contestare, ma soltanto nella prima difesa, il valore come sopra dichiarato o
presunto; in tal caso il giudice decide, ai soli fini della competenza, in base a quello che risulta dagli
atti e senza apposita istruzione.
Se il convenuto non contesta il valore dichiarato o presunto, questo rimane fissato, anche agli
effetti del merito, nei limiti della competenza del giudice adito.
In questa ipotesi, quando la causa riguardi somme di danaro o beni mobili, la “causa si
presume di competenza del giudice adito”. Ciò vuol dire che, qualora l’attore non abbia
indicato il valore della causa, per presunzione di legge, alla domanda va attribuito un
valore pari al massimo della competenza del giudice adito. Di conseguenza, se vengono
proposte più domande tutte indeterminate, combinando fra loro gli art.10 2°co cpc e 14
1°co cpc, si ha che ciascuna domanda deve intendersi proposta per un valore pari al limite
massimo della competenza del giudice adito e che poi le singole domande vanno sommate
fra loro.

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Altra cosa che va segnalata riguarda i rapporti tra competenza per valore e merito;
abbiamo visto, infatti, che la disciplina è stata dettata con riguardo ai problemi della
competenza e senza incidere sul merito. Vi è una eccezione, contenuta nell’art.14 3°co cpc
– cause relative a somme didanaro e beni mobili, secondo il quale:
Art. 14.(Cause relative a somme di danaro e a beni mobili)
Nelle cause relative a somme di danaro o a beni mobili, il valore si determina in base alla somma
indicata o al valore dichiarato dall'attore; in mancanza di indicazione o dichiarazione, la causa si
presume di competenza del giudice adito.
Il convenuto può contestare, ma soltanto nella prima difesa, il valore come sopra dichiarato o
presunto; in tal caso il giudice decide, ai soli fini della competenza, in base a quello che risulta dagli
atti e senza apposita istruzione.
Se il convenuto non contesta il valore dichiarato o presunto, questo rimane fissato, anche agli
effetti del merito, nei limiti della competenza del giudice adito.
La disposizione, qualora l’attore abbia adito un giudice che è competente per controversie
di valore inferiore a quello della controversia effettiva, offre al convenuto la possibilità,
non contestando tale valore, di far sì che il giudice, anche nel caso in cui accolga la
domanda, non possa superarlo. Per questo motivo, la giurisprudenza preferisce
interpretare la norma in maniera restrittiva, sottolineando che l’art.14 1° co cpc distingue
la “somma indicata” delle cause relative a somme di danaro dal “valore dichiarato” dalle
cause relative a beni mobili per trarre la deduzione che, parlando il 3° co di “valore
dichiarato o presunto”, quest’ultimo si è riferito soltanto alle cause relative a beni mobili (e
quindi non a somme di danaro). Questa deduzione però è tutt’altro che sicura.
Infine, va ricordato che l’art.104 cpc – pluralità di domande contro la stessa parte
espressamente richiama l’art.10 2° co cpc – determinazione del valore, nel senso che il
criterio del cumulo del valore può essere applicato anche nel caso della proposizione di più
domande, ancorchè non connesse, contro la stessa persona.

Art. 10. (Determinazione del valore)


Il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda a norma delle
disposizioni seguenti.
A tale effetto le domande proposte nello stesso processo contro la medesima persona si sommano
tra loro, e gli interessi scaduti, le spese e i danni, anteriori alla proposizione si sommano col
capitale.

Art. 104. (Pluralità di domande contro la stessa parte)


Contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo più domande anche non altrimenti
connesse, purché sia osservata la norma dell'articolo 10 secondo comma.
È applicabile la disposizione del secondo comma dell'articolo precedente.

COMPETENZA TERRITORIALE.
La dottrina è solita distinguere i fori (ovvero gli uffici giudiziari territorialmente
competenti) in vario modo: generali sono quelli davanti ai quali ognuno può essere
convenuto in ogni controversia; speciali quelli specificamente riservati per determinate
controversie. A questi deve aggiungersi il foro inderogabile, previsto per le controversie in
cui le parti possono convenzionalmente derogare alla competenza territoriale fissata per
legge, purchè lo abbiano espressamente preveduto come esclusivo.

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4. Le decisioni sulla competenza e il loro regime d’impugnazione.


Dobbiamo innanzitutto tenere presente le varie modifiche che, nel corso del tempo, ha
subìto l’art.38 cpc – incompetenza (pag. 20), nel 1990 prima e nel 2009 dopo.
L’impianto originario del codice, quanto a giurisdizione e competenza, era legato all’idea che il
giudice carente di giurisdizione fosse in una condizione simile a quella del soggetto
giuridicamente incapace, mentre il giudice incompetente si ritrovasse in una situazione
analoga a quella di chi è privo di legittimazione.
In origine, l’incompetenza per materia era rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado
del processo; l’incompetenza per valore era rilevabile anche d’ufficio solo nel corso del
primo grado di giudizio; l’incompetenza per territorio derogabile era rilevabile solo su
eccezione del convenuto, da proporsi nel primo atto difensivo con indicazione del giudice
ritenuto competente.
In tutti i casi di ritenuta incompetenza, in considerazione del fatto che la domanda era
stata comunque proposta a un giudice fornito di giurisdizione, si era stabilito che le parti
potessero riassumere la causa davanti al giudice competente, salvando così gli effetti
sostanziali e processuali della domanda giudiziale.
Il legislatore del 1990 ha riscritto l’art.38 cpc, stabilendo che l’incompetenza per materia,
per territorio inderogabile e per valore, potevano essere rilevate d’ufficio non oltre
l’udienza di prima comparizione e di trattazione, mentre l’incompetenza per territorio
derogabile poteva essere rilevata soltanto in base all’immediata eccezione della parte.
Nel 2009 è intervenuta un’ulteriore modifica, stabilendo che la parte deve eccepire nel
primo atto difensivo, ossia nella comparsa di risposta, anche l’incompetenza per valore,
per materia o territorio inderogabile, conservando però la possibilità che il giudice rilevi
d’ufficio la propria incompetenza, purchè lo faccia non oltre l’udienza di cui all’art.183 cpc
– prima comparizione delle parti e trattazione della causa.
Art. 183. (Prima comparizione delle parti e trattazione della causa)
All'udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione il giudice istruttore verifica
d'ufficio la regolarità del contraddittorio e, quando occorre, pronuncia i provvedimenti previsti
dall'articolo 102, secondo comma, dall'articolo 164, secondo, terzo e quinto comma, dall'articolo
167, secondo e terzo comma, dall'articolo 182 e dall'articolo 291, primo comma.
Quando pronunzia i provvedimenti di cui al primo comma, il giudice fissa una nuova udienza di
trattazione.
Il giudice istruttore fissa altresì una nuova udienza se deve procedere a norma dell'art. 185.
Nell'udienza di trattazione ovvero in quella eventualmente fissata ai sensi del terzo comma, il
giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni
rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione.
Nella stessa udienza l'attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della
domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto. Può altresì chiedere di essere
autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli articoli 106 e 269, terzo comma, se l'esigenza é sorta
dalle difese del convenuto. Le parti possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le
conclusioni già formulate.
Se richiesto, il giudice concede alle parti i seguenti termini perentori:
un termine di ulteriori trenta giorni per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o
modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte;
un termine di ulteriori trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate
dall'altra parte, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni
medesime e per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali;
un termine di ulteriori venti giorni per le sole indicazioni di prova contraria.

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Salva l'applicazione dell'articolo 187, il giudice provvede sulle richieste istruttorie fissando
l'udienza di cui all'articolo 184 per l'assunzione dei mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti. Se
provvede mediante ordinanza emanata fuori udienza, questa deve essere pronunciata entro
trenta giorni.
Nel caso in cui vengano disposti d'ufficio mezzi di prova con l'ordinanza di cui al settimo comma,
ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice con la medesima
ordinanza, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi nonché depositare
memoria di replica nell'ulteriore termine perentorio parimenti assegnato dal giudice, che si riserva
di provvedere ai sensi del settimo comma.
Con l'ordinanza che ammette le prove il giudice può in ogni caso disporre, qualora lo ritenga utile, il
libero interrogatorio delle parti; all'interrogatorio disposto dal giudice istruttore si applicano le
disposizioni di cui al terzo comma.
La riduzione del rilievo della competenza ha creato alcuni problemi di coordinamento. A
parere nostro, si rende così inevitabile un’indagine caso per caso per verificare quale è la
disciplina desumibile dalle disposizioni specificamente dettate, così che l’art.38 cpc finirà di
assumere il carattere di norma residuale, ove non sia possibile attingere ad una diversa
disciplina.
L’originaria formulazione dell’art.38 cpc aveva il pregio della semplicità. Oggi, si pongono
tre ordinidi problemi:
a) quale è l’accertamento che il giudice deve compiere ai fini della decisione,
eventualmente immediata, sulla competenza;
b) che cosa succede se, al momento in cui il giudice decide il merito e, quindi, a istruttoria
chiusa, viene a conoscenza di elementi sconosciuti all’epoca dell’udienza ex art.183 cpc,
per i quali non è competente;
c) come si deve comportare se la parte all’udienza ex art.183 cpc solleva eccezione
di incompetenza che egli ritiene infondata.
Sulla prima questione è intervenuto lo stesso art.38 cpc, il cui ultimo comma prevede che il
giudice decide, ai soli fini della competenza, in base a quello che risulta dagli atti e, quando
sia reso necessario dall’eccezione del convenuto, assunte sommarie informazioni. Sulla
terza questione, invece di contribuire ad una accelerazione del processo, potrebbe
condurre ad un rallentamento, per lo meno quando l’incompetenza sia tempestivamente
eccepita. In questo modo, la parte maliziosa potrebbe avere uno strumento formidabile
per rallentare il processo. Per evitare questo, la dottrina ha sottolineato come l’art.187
3°co cpc – provvedimenti del giudice istruttore, dia al giudice, nella fase istruttoria, il
potere di accantonare le questioni processuali e quindi anche quelle sulla competenza,
rinviando ogni decisione al momento in cui sarà deciso il merito.
Art. 187. (Provvedimenti del giudice istruttore)
Il giudice istruttore, se ritiene che la causa sia matura per la decisione di merito senza bisogno di
assunzione di mezzi di prova, rimette le parti davanti al collegio.
Può rimettere le parti al collegio affinché sia decisa separatamente una questione di merito avente
carattere preliminare, solo quando la decisione di essa può definire il giudizio.
Il giudice provvede analogamente se sorgono questioni attinenti alla giurisdizione o alla
competenza o ad altre pregiudiziali, ma può anche disporre che siano decise unitamente al merito.
Qualora il collegio provveda a norma dell'articolo 279, secondo comma, numero 4), i termini di cui
all'articolo 183, ottavo comma, non concessi prima della rimessione al collegio, sono assegnati dal
giudice istruttore, su istanza di parte, nella prima udienza dinanzi a lui.
Il giudice dà ogni altra disposizione relativa al processo.

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La recente modifica all’art.38 cpc conferma che tale orientamento non è utilizzabile quando il
giudice ritenga “allo stato degli atti” fondata la questione di competenza pur in mancanza di
espressa eccezione. È più difficile dare una risposta alla seconda questione; qui, se vengono in
rilievo criteri di collegamento estranei alla fattispecie sostanziale dedotta in giudizio (es., il
domicilio del convenuto), il giudice deciderà nel merito anche se accerti, successivamente
all’udienza, che il criterio non sussiste (es., il convenuto risiede altrove); se vengono in rilievo
criteri di collegamento interni alla fattispecie sostanziale (es., si tratta di un rapporto agrario e non
di locazione), si potrebbe sostenere che non potendo il giudice decidere della controversia
(nell’esempio fatto dovrebbe essere la sezione agraria), lo stesso debba emanare una decisione
che dia atto della sua mancanza di potestas iudicandi, non preclusiva però della possibilità di
proporre ex novo la domanda. Se questa fosse la soluzione, sarebbe preferibile ritenere che il
giudice possa dichiarare l’incompetenza, così salvando la possibilità di far trasmigrare il processo al
giudice competente.
Prima della recente riforma, il giudice decideva sulla competenza con sentenza, per almeno due
buone ragioni, ovvero la prima per evitare eventuali ripensamenti del giudice poiché le ordinanze
sono revocabili mentre le sentenze non lo sono, e in secondo luogo perché oggetto di
impugnazione di regola sono le sentenze.
Tuttavia, nel 2009 il legislatore ha stabilito che il giudice decida le questioni di competenza con
ordinanza, non dicendo se queste ordinanze non siano revocabili o modificabili. La risposta a tale
quesito dobbiamo ricavarla per implicito, dal momento che le ordinanze continuano ad essere
impugnabili con i regolamenti di competenza. Secondo l’art.187 3°co cpc – provvedimenti del
giudice istruttore, il giudice, qualora ritenga di dover decidere subito della questione di
competenza, deve invitare le parti a precisare le conclusioni e, se la causa è a decisione collegiale,
deve rimettere la causa al collegio. Il fatto è che questa norma è stata formulata sul presupposto
che la questione sia decisa con sentenza. Ci dobbiamo chiedere, allora, se vale anche quando il
provvedimento da emettere ha la forma dell’ordinanza. Secondo un ragionamento implicito, ci
viene in soccorso quanto disposto dall’art.279 1°co cpc – forma dei provvedimenti del collegio il
quale, nella nuova formulazione, ci dice che il collegio, quando decide soltanto questioni di
competenza, pronuncia ordinanza.
Art. 279 comma 1. (Forma dei provvedimenti del collegio)
Il collegio pronuncia ordinanza quando provvede soltanto su questioni relative all’istruzione della
causa, senza definire il giudizio, nonché quando decide soltanto questioni di competenza. In tal
caso, se non definisce il giudizio, impartisce con la stessa ordinanza i provvedimenti per l’ulteriore
istruzione della causa.
Seguendo tale ragionamento, possiamo affermare che la stessa cosa valga anche quando a
decidere sia il giudice singolo, così come ritiene anche la Corte Suprema. Se questa è
l’interpretazione corretta, la modificazione voluta dal legislatore del 2009 è formale, ma
priva di contenuto sostanziale. Cerchiamo di argomentare la questione. Contro le
ordinanze sulla competenza, le parti hanno a disposizione una specifica impugnazione, il
regolamento di competenza che, se diretto contro un’ordinanza che ha deciso solo sulla
competenza, la parte potrà fare ricorso al regolamento, mentre se diretto contro una
sentenza che ha deciso anche sul merito, la parte avrà la possibilità di scegliere fra
l’impugnazione ordinaria e il regolamento; in questa ultima ipotesi, il problema che nasce
riguarda il come regolare i rapporti tra le impugnazioni. Proposta l’una, si può proporre
anche l’altra? Se si, quale avrà la precedenza? A questi interrogativi risponde l’art.43 cpc –
regolamento facoltativo di competenza, fissando il principio secondo cui le impugnazioni
sono compatibili fra loro e dando la precedenza al regolamento di competenza.

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Art. 43. Regolamento facoltativo di competenza


Il provvedimento che ha pronunciato sulla competenza insieme col merito può essere impugnato
con l’istanza di regolamento di competenza, oppure nei modi ordinari quando insieme con la
pronuncia sulla competenza si impugna quella sul merito.
La proposizione dell’impugnazione ordinaria non toglie alle altre parti la facoltà di proporre
l’istanza di regolamento.
Se l’istanza di regolamento è proposta prima dell’impugnazione ordinaria, i termini per la
proposizione di questa riprendono a decorrere dalla comunicazione della ordinanza che regola la
competenza; se è proposta dopo, si applica la disposizione dell’articolo 48.
Di conseguenza, se è stata già proposta l’impugnazione principale, il regolamento di
competenza determina la sospensione del processo nella sua fase di impugnazione; se la
prima non è stata ancora proposta, il regolamento sospende il termine per proporla.
Dal discorso fatto fino a ora, emerge che nel processo ordinario di cognizione in primo grado:
a) La competenza non è considerata dalla legge come un presupposto processuale, la
cui inesistenza determina il venir meno del processo; infatti, dopo la decisione sulla
competenza, il processo non si conclude ma può continuare davanti al nuovo
giudice.
b) La competenza sembra essere costruita dal legislatore come requisito di validità
degli atti del giudice, mentre gli atti processuali delle parti sono validi ed efficaci
anche se compiuti davanti al giudice incompetente.
5. Le modificazioni della competenza per ragioni di connessione.
Il principio generale è nel senso che chi inizia il processo può individuare il giudice
competente. La competenza è disciplinata in senso statico, nel senso che una volta
individuato in maniera corretta il giudice competente, questo rimane giudice della causa
anche se vicende successive potrebbero rendere inutilizzabili i criteri o addirittura
cambiarli.
Art. 5. (Momento determinante della giurisdizione e della competenza)
La giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto
esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i
successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo.
Anche se tale disposizione dà carattere “statico” alla disciplina della competenza,
una interpretazione in senso dinamico sarebbe tuttavia possibile, quando si afferma
che la competenza (e la giurisdizione) del giudice erroneamente adito resta ferma se
sopravvengono fatti o norme che la determinino. Inoltre, sempre in tema di dinamicità, può
accadere che durante il processo sopravvengano eventi che rendono inadeguata la scelta
iniziale del giudice. In particolare, può avvenire per effetto dell’attività del convenuto che
introduce nel processo nuovi oggetti controversi, che possono sfociare in autonome decisioni.
Al tempo stesso, non è da escludere che lo stesso attore, cumulando domande che
apparterrebbero alla competenza di giudici diversi, determini il problema applicativo. È
opportuno, quindi, passare brevemente in rassegna queste situazioni, trattate agli artt.31-
36 cpc.
Art.31 cpc – cause accessorie.
Art. 31.(Cause accessorie)
La domanda accessoria può essere proposta al giudice territorialmente competente per la
domanda principale affinché sia decisa nello stesso processo, osservata, quanto alla competenza
per valore, la disposizione dell'art. 10 secondo comma.

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È accessoria la domanda proposta in modo subordinato ad altra domanda ed il cui


accoglimento dipende dall’accoglimento della domanda principale: ad esempio, la
domanda con cui si chiede la condanna al pagamento degli interessi presuppone la
domanda (principale) con cui si chiede la condanna al pagamento del capitale. Le due
domande si sommano e vanno, quindi, considerate unitariamente. La competenza
territoriale è del foro della domanda principale.
Art.32 cpc – cause di garanzia.
Art. 32. (Cause di garanzia)
La domanda di garanzia può essere proposta al giudice competente per la causa principale
affinché sia decisa nello stesso processo. Qualora essa ecceda la competenza per valore del giudice
adito, questi rimette entrambe le cause al giudice superiore assegnando alle parti un termine
perentorio per la riassunzione.
La garanzia può essere personale (fideiussione) e reale (es, garanzia per l’evizione). Nel
caso della garanzia, le due cause intercorrono fra diversi soggetti (quella principale fra la
parte originaria e il garantito; quella di garanzia fra il garantito e il garante) e per questo le
domande non si possono sommare (ricordiamo che possono sommarsi solo le domande
che intercorrono fra le stesse parti). Il simultaneus processus è realizzato a scapito del
criterio di competenza per valore, nel senso che il giudice della causa principale attrae
presso di sé la causa di garanzia anche se per il valore ecceda la sua competenza.

Art.33 cpc – cumulo soggettivo.


Art. 33. (Cumulo soggettivo)
Le cause contro più persone che a norma degli artt. 18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a
giudici diversi, se sono connesse per l'oggetto o per il titolo possono essere proposte davanti al
giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse, per essere decise nello stesso processo.
Qui mere ragioni di opportunità consigliano la trattazione simultanea, che può avvenire
solo ascapito del foro generale delle persone.

Art.34 cpc – accertamento incidentale.


Art. 34. (Accertamenti incidentali)
Il giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con
efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla
competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest'ultimo, assegnando alle parti un
termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui.
Per capire il concetto è meglio partire da un esempio: l’attore chiede la condanna del
convenuto agli alimenti e questi si oppone perché non legato dal necessario rapporto di
parentela. La questione è una di quelle che possono sorgere in pendenza del processo e
che devono essere risolte dal giudice prima di decidere sulla domanda principale. La
particolarità sta nel fatto che si ritiene che il giudice debba decidere come se si trattasse di
una causa a sé stante, così che la decisione sarà in grado di spiegare effetti non solo nel
processo in corso, ma anche fuori del processo, divenendo sul punto fonte della normativa
che regola il rapporto fra le parti. Altre volte il giudice dovrà decidere in questo modo
non perché obbligato dalla legge, ma perché le partiglielo chiedono. La legge, anche qui,
favorisce la trattazione simultanea, disponendo che qualora sulla causa incidentale vi sia
una competenza per materia o valore di un giudice superiore, il giudice deve rimettere
tutta la causa a quest’ultimo; trattazione simultanea impossibile, qualora per le due cause
valgano diversi criteri di competenza tutti inderogabili.

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Art.35 cpc – eccezione di compensazione.


Art. 35. (Eccezione di compensazione)
Quando e' opposto in compensazione un credito che è contestato ed eccede la competenza per
valore del giudice adito, questi, se la domanda è fondata su titolo non controverso o facilmente
accertabile, può decidere su di essa e rimettere le parti al giudice competente per la decisione
relativa all'eccezione di compensazione, subordinando, quando occorre, l'esecuzione della
sentenza alla prestazione di una cauzione; altrimenti provvede a norma dell'articolo precedente.
Essendo una applicazione del precedente articolo, occorre anche in questo caso partire
con un esempio: l’attore agisce per la condanna del convenuto al pagamento di una
somma di danaro e il convenuto eccepisce un controcredito. In questo caso, secondo
l’art.35 cpc, basta che l’attore non accetti l’eccezione del convenuto perché si abbia
automaticamente la trasformazione della questione pregiudiziale in un accertamento
incidentale. Infatti, se la questione fosse rimasta tale, non ci sarebbe stato alcun bisogno di
regolare il caso come uno di quelli che determinano spostamenti di competenza,
mancando il presupposto della pluralità delle cause tra loro collegate. Ciò posto, è chiaro
che la disciplina della connessione non può che essere identica a quella del precedente
art.34 cpc. L’unica differenza è data dall’ipotesi in cui, eccedendo il controcredito la
competenza per valore del giudice adito, il giudice può decidere subito sulla domanda
principale, essendo questa fondata su titolo non controverso o facilmente accertabile.
Art.36 cpc – domanda riconvenzionale.
Art. 36. (Cause riconvenzionali)
Il giudice competente per la causa principale conosce anche delle domande riconvenzionali che
dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall'attore o da quello che già appartiene alla causa come
mezzo di eccezione, purché non eccedano la sua competenza per materia o valore; altrimenti
applica le disposizioni dei due articoli precedenti.
Il meccanismo processuale è identico a quello fissato nei due articoli precedenti. Basta
pensare a come una eccezione di compensazione si trasforma in domanda riconvenzionale
per comprendere che non poteva essere diversamente. Ad esempio, contro la domanda
dell’attore, il convenuto non si limita ad eccepire il controcredito, ma chiede anche che
l’attore sia condannato al pagamento della differenza. È perciò indubbio che esistono due
cause collegate fra loro e i cui rapporti sono intimi non meno di quelli tra causa
pregiudiziale e principale, così che la disciplina non poteva che rifarsi a tale modello.
La nuova disciplina della competenza, che ha eliminato i fori c.d. inderogabili, e la
soppressione del pretore riducono l’importanza applicativa degli artt.31-36 cpc; oggi, il
simultaneus processus è di regola possibile e si realizza dinanzi al tribunale.

6. Litispendenza, continenza, connessione.


La semplice proposizione della domanda giudiziale determina due effetti processuali: il
primo è la perpetuatio jurisdictionis, mentre il secondo è la litispendenza, regolata
all’art.39 cpc – litispendenza e continenza di cause che prende in considerazione la
contemporanea pendenza, davanti a giudici diversi, di due cause identiche (ovviamente
non si parla di litispendenza se le cause pendono davanti il medesimo ufficio giudiziario).
Art. 39. (Litispendenza e continenza di cause)
Se una stessa causa è proposta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito, in
qualunque stato e grado del processo, anche d’ufficio, dichiara con ordinanza la litispendenza e
dispone la cancellazione della causa dal ruolo.
Nel caso di continenza di cause, se il giudice preventivamente adito è competente anche per la
causa proposta successivamente, il giudice di questa dichiara con ordinanza la continenza e fissa

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un termine perentorio entro il quale le parti debbono riassumere la causa davanti al primo giudice.
Se questi non è competente anche per la causa successivamente proposta, la dichiarazione della
continenza e la fissazione del termine sono da lui pronunciate.
La prevenzione è determinata dalla notificazione della citazione ovvero dal deposito del ricorso.
Le norme sulla litispendenza si applicano anche se i due processi pendono in gradi diversi.
Per stabilire quando si ha litispendenza è necessario sapere quando è che due domande
sono identiche e quando è che il processo pende. Quindi, due domande sono identiche
quando sono uguali gli elementi di identificazione, ovvero i soggetti, il petitum e la causa
petendi; la pendenza del processo, invece, attiene alla questione dei due diversi atti
introduttivi: con l’atto di citazione si notifica prima alla controparte e poi all’ufficio
giudiziario e quindi il processo pende quando la citazione è portata alla conoscenza
dell’altra parte; con il ricorso invece l’atto viene portato prima dinanzi al giudice e dopo
alla controparte e, allora, il processo pende quando è depositato il ricorso nell’ufficio
giudiziario.
Detto questo, nel caso di contemporanea pendenza davanti a giudici diversi di una stessa
causa, è chiaro che ci troviamo difronte ad un doppione che bisogna eliminare. Anche se il
legislatore è partito dal principio secondo il quale il doppione da eliminare deve essere il
secondo processo, non tutti i problemi sono stati risolti; infatti, una delle parti può
contestare che ci sia litispendenza sostenendo, magari, che le cause sono diverse, oppure
può contestare la competenza del primo giudice. È per questo motivo che il legislatore ha
costruito il provvedimento sulla litispendenza sul modello di quello sulla competenza,
dando ad esso la forma di ordinanza impugnabile in Cassazione con il regolamento di
competenza.
Accanto all’ipotesi della litispendenza l’art.39 cpc disciplina anche il caso della continenza,
ovvero quei casi in cui tra una causa e l’altra ricorre un rapporto tra contenuto e
contenente; la causa contenente avrà in sé tutti gli elementi della causa contenuta e, in
più, almeno una diversa domanda ancora.
Anche in questo caso si tratta di eliminare una delle due, ma non si tratta di un doppione
come nella litispendenza. Abbiamo, in sostanza, un processo più ampio dell’altro; bisogna
tenere conto anche dei rapporti fra causa contenente e causa contenuta e soprattutto
bisogna considerare se i giudici investiti della causa siano competenti per il tutto, perché se
uno dei due non è competente per la causa più ampia, si dovrà concentrare l’attività
processuale presso l’altro giudice. Il problema non sorge quando la prima causa è
maggiore ed il giudice adito ha competenza su di essa. Al contrario, se davanti al primo
giudice viene proposta la causa minore o contenuta e questi non sia competente sulla
causa maggiore o contenente, la dichiarazione di continenza dovrà essere emessa da lui
insieme con l’ordinanza che fissa il termine per la riassunzione. Se, infine, la causa che
viene prima sia quella minore o contenuta, ma il giudice adito sia competente ancheper
quella maggiore o contenente, la dichiarazione di continenza deve essere effettuata dal
secondo giudice. La legge prevede che sia disposta la fissazione di un termine per la
riassunzione, giacché le due cause non sono uguali e, quindi, non si tratta di eliminare un
doppione, come nel caso della litispendenza.
L’ordinanza sulla continenza può essere impugnata con regolamento di competenza, così
come quella sulla litispendenza.
Il successivo art.40 cpc – connessione prende in esame il caso in cui due cause connesse
pendano dinanzi a giudici diversi.
Art. 40. (Connessione)
Se sono proposte davanti a giudici diversi più cause le quali, per ragione di connessione possono

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essere decise in un solo processo, il giudice fissa con ordinanza alle parti un termine perentorio
per la riassunzione della causa accessoria, davanti al giudice della causa principale, e negli altri casi
davanti a quello preventivamente adito.
La connessione non può essere eccepita dalle parti né rilevata d'ufficio dopo la prima udienza, e la
rimessione non può essere ordinata quando lo stato della causa principale o preventivamente
proposta non consente l'esauriente trattazione e decisione delle cause connesse.
Nei casi previsti negli artt. 31, 32, 34, 35 e 36, le cause, cumulativamente proposte o
successivamente riunite, debbono essere trattate e decise col rito ordinario, salva l'applicazione
del solo rito speciale quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli artt. 409 e 442.
Qualora le cause connesse siano assoggettate a differenti riti speciali debbono essere trattate e
decise col rito previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la competenza
o, in subordine, col rito previsto per la causa di maggior valore.
Se la causa è stata trattata con un rito diverso da quello divenuto applicabile ai sensi del terzo
comma, il giudice provvede a norma degli artt. 426, 427 e 439.
Se una causa di competenza del giudice di pace sia connessa per i motivi di cui agli articoli 31, 32,
34, 35 e 36 con altra causa di competenza del tribunale, le relative domande possono essere
proposte innanzi al tribunale affinché siano decise nello stesso processo.
Se le cause connesse ai sensi del sesto comma sono proposte davanti al giudice di pace e al
tribunale, il giudice di pace deve pronunziare anche d'ufficio la connessione a favore del tribunale.
La formulazione originaria si limitava a prevedere che il giudice fissa “con sentenza” alle
parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al giudice
della causa principale e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito. La disciplina
è apparsa inadeguata per le sempre più numerose ipotesi di processi a rito speciale, che
spesso dovrebbero essere trattati insieme con cause a rito ordinario.
Con la l.353/1990 si sono aggiunti tre commi all’originario art.40 cpc disponenti:
a) Che, dopo la riunione, prevale il rito ordinario.
b) Che, qualora le cause riunite siano assoggettate a diversi riti speciali, prevale il rito
previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la
competenza o, in subordine, il rito previsto per la causa di maggior valore.
La ipotesi di cause connesse, eguali o continenti si possono verificare anche quando i
diversi procedimenti pendono dinanzi allo stesso ufficio giudiziario o, addirittura, dinanzi
allo stesso giudice. In quest’ultimo caso il giudice, anche d’ufficio, riunisce le cause
identiche e può riunire le cause connesse.

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CAPITOLO 4 - PRINCIPI DEL PROCESSO SECONDO IL CODICE DI PROCEDURA CIVILE


1. Il principio della ragionevole durata del processo.
Andiamo ora ad analizzare la struttura generale del processo civile, partendo dal principio
della ragionevole durata del processo, che la legge deve assicurare sancito dall’art.111
2°co Costituzione. Questa disposizione è legata alle indicazioni delle Corti Europee,
secondo le quali gli Stati devono garantire alle persone l’accesso alla giustizia con la
necessità collegata che le tutele siano effettive. L’effettività della tutela consiste in misure
adeguate rispetto alle concrete esigenze sottoposte all’attenzione del giudice, ma il
rimedio non sarà mai effettivo se è tardivo. Di conseguenza, l’intervento del giudice in
tempi ragionevoli finisce con l’essere il principale criterio di valutazione per stabilire se un
sistema giudiziario è in linea con i principi comunitari. Il problema della ragionevole durata
riguarda sia l’efficienza del sistema, sia i modelli processuali e i riti. Sotto questo profilo,
mentre il legislatore dovrebbe eliminare le garanzie eccessive e/o inutili, i giudici
dovrebbero abbandonare le interpretazioni delle leggi in vigore che non siano funzionali a
una giustizia effettiva. Il problema che si è posto, forse più degli altri, è quello dell’abuso
del processo, quella situazione cioè di ricorso alla giustizia processuale nel suo complesso,
quando gli atti processuali sono impiegati per una funzione diversa rispetto a quella per la
quale sono stati predisposti dalla legge. Per questo motivo si è giunti ad una
riformulazione dell’art.111 Costituzione nella parte in cui si stabilisce che il processo
debba essere giusto. Si è così finito per assegnare al termine “giusto” un significato non
solo formale, ma sostanziale, in quanto il processo può non essere giusto anche se le parti
rispettano le regole poste dal legislatore, qualora dietro (e oltre) il rispetto formale l’atto
processuale miri:
a) ad ostacolare che la giustizia sia resa in maniera effettiva;
b) ad impedire la ragionevole durata del processo.
Un processo è giusto se garantisce l’accesso alla giustizia, la difesa, il diritto alla prova e la
terzietà del giudice. Un processo che offra tali garanzie può, nei singoli casi, divenire
ingiusto, magari se il giudice decide in tempi eccessivamente lunghi. Ma questo dipende
dal modo in cui il servizio è organizzato, così che il problema riguarda principalmente lo
Stato e non può essere addossato ai giudici, ai quali compete soltanto di scegliere quella
legge che impedisca inutili perdite di tempo. Se poi la dilatazione dei tempi processuali è
provocata, nei singoli casi, dal comportamento dei soggetti del processo, i quali
formalmente rispettano le regole, non per questo il processo diventa ingiusto.
Eventualmente si tratta di sanzionare i comportamenti strumentalmente dilatori.
Si va sempre più consapevoli che i comportamenti abusivi nel processo debbano essere
combattuti soprattutto ora che il problema dell’effettività della giustizia e con esso della
ragionevole durata dei processi è venuto alla ribalta. Non crediamo che le attività abusive
delle parti debbano essere sanzionate con la nullità e l’inammissibilità nel processo; le
attività processuali non hanno come destinatarie dirette le parti, infatti l’attività
processuale è necessariamente filtrata dal giudice. Ciò comporta che spetta al legislatore, e
solo a lui, di stabilire le conseguenze del comportamento processuale abusivo, dal
momento che il nostro sistema non permette al giudice di fare le leggi. Così, in mancanza
di una previsione espressa, le conseguenze derivabili dal sistema non possono che
concretarsi in sanzioni per colpire i comportamenti.

2. Il principio della domanda e quello della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.


Partiamo con il principio della domanda: quando l’art.99 cpc – principio della domanda
specifica il precetto disposto all’art.24 Costituzione, secondo il quale tutti possono agire

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in giudizio per la tutela dei propri interessi. Vediamo le due disposizioni.


Art. 99.(Principio della domanda)
Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente.

Art. 24 Costituzione.
Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto
inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni
giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.
Con la proposizione della domanda, allora, può essere esercitato il relativo diritto.
L’importanza della riaffermazione di tale principio va in due direzioni: è lo strumento
migliore per garantire che il giudice sia terzo ed imparziale di fronte alla controversia
(infatti non dà inizio lui al processo) e, perché, l’azione è il mezzo per far valere il diritto che
trova tutela in giudizio.
Da tutto questo si capisce perché eventuali eccezioni al principio della domanda sono
guardate con diffidenza. Tuttavia, una possibilità di trovare un contemperamento fra
opposte esigenze si ha tutte le volte in cui, pur mantenendo fermo il principio che il giudice
non può iniziare d’ufficio il processo, si cerca di allargare la sfera dei soggetti che sono
capaci (legittimati a) proporre domanda. Siamo nelle situazioni che non interessano un
solo soggetto particolare, ma la collettività. A questo fenomeno fa riferimento l’art.2907 cc
– attività giurisdizionale, nel punto in cui accenna a un potere d’azione del PM, che è
organo pubblico al quale, in determinate ipotesi, viene riconosciuto il potere di azione in
sostituzione dei privati e proprio per sopperire alla loro inerzia.
Art. 2907 Codice Civile.Attività giurisdizionale.
Alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l'autorità giudiziaria su domanda di parte e, quando la
legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d'ufficio.
Accanto a questa ipotesi, vanno segnalate quelle in cui si allarga la sfera dei legittimati
all’azione come nel caso del matrimonio o quello che costruisce l’azione come potere
pubblico riconosciuto al soggetto in quanto membro di una collettività.
Tornando al principio della domanda nel processo, ci rendiamo conto che l’art.99 cpc –
principio della domanda non ci basta più e va necessariamente collegato con quanto
dispone l’art.112 cpc – corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Rivediamole
entrambe.
Art. 112.(Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato)
Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare
d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti.
Secondo la combinazione di queste due disposizioni, non solo le parti possono scegliere se
adire o non il magistrato, ma hanno anche il monopolio in ordine alla determinazione del
tema decisionale, ossia dell’oggetto sul quale il giudice dovrà decidere. In che senso le parti
possono condizionare il giudice in ordine al tema decisionale? Il soggetto che propone la
domanda giudiziale dovrà fare tre cose:
1) esporre un avvenimento o episodio di vita (posizione del fatto);
2) ricondurlo ad una o più disposizioni di legge (posizione della norma);
3) ricavare conseguenze favorevoli (deduzione delle conseguenze giuridiche).
Il giudice, nel momento in cui deve emanare il provvedimento, deve collegarsi a queste tre
posizioni fondamentali. Ma è vincolato a queste? Possiamo iniziare a rispondere col notare
che esistono norme che prevedono l’obbligo del giudice di giudicare anche quando le parti

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non abbiano indicato le norme giuridiche da loro ritenute applicabili. In linea generale poi,
il giudice non è vincolato alla prospettazione giuridica proposta dalle parti, mentre è legato
alla prospettazione dell’episodio di vita, e quindi del fatto. Qui occorre una necessaria
precisazione: le parti, nella esposizione del fatto, lo arricchiscono di particolari e lo
pongono in collegamento con gli elementi probatori che dovrebbero convincere il giudice
della sua veridicità. Questa è la attività assertiva, composta da fatti principali e da fatti
secondari ed è a questa che il giudice è vincolato, cioè all’inserzione di fatti nel processo;
non gli riguarda invece la attività asseverativa, ovvero l’acquisizione del materiale
probatorio. Appare fondamentale, a riguardo, il potere del giudice di chiedere quelle
integrazioni nella narrazione dell’episodio sul quale dovrà giudicare, che siano
indispensabili (fatti principali) o anche soltanto utili (fatti secondari) per l’emanazione della
giusta pronuncia. Di questo si è reso conto il legislatore soprattutto in materia di
controversie sul lavoro, ribadendo per tali controversie la necessità di provocare la
comparizione delle parti davanti al giudice, tanto che la mancata comparizione costituisce
comportamento valutabile in sede decisionale.
Il nuovo testo delll’art.183 5°co cpc – prima comparizione delle parti e trattazione della
causa,(pag 25), prevede che mentre l’attore può proporre nuove domande o eccezioni,
quando tale necessità sorga dalle richieste e difese del convenuto, entrambe “le parti
possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate”.
In ogni caso resta fermo l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale le nuove
aggiunte non devono mai concretarsi in un mutamento della domanda originaria. Deve
trattarsi di emendatio e non di mutatio.
Nella individuazione del voluto abbiamo parlato per lo più della posizione dell’attore,
senza considerare che anche il convenuto concorre alla definizione di esso, soprattutto
quando non si limiti a negare i fatti contestatigli, ma anzi introduca nel processo fatti che
servano a togliere valore a quelli introdotti dall’attore. Di conseguenza, il giudice deve
guardare non solo all’attività dell’attore, ma anche a quella del convenuto. Per questo
motivo, la seconda parte dell’art.112 cpc
– corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato dispone che il giudice “non può
pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti”.
La formulazione di questo articolo lascia intendere che l’eccezione è rilevabile d’ufficio,
tranne che la legge non preveda espressamente la necessità dell’eccezione della parte.
Dobbiamo chiarire che, nel caso di eccezioni rilevabili d’ufficio, il giudice non può
introdurre nel processo i fatti che sono alla base della eccezione: il giudice non può fare
uso della sua scienza privata e, di conseguenza, potrà porre a fondamento della decisione
fatti che integrano un’eccezione rilevabile d’ufficio, anche se la parte interessata non
l’abbia sollevata, a condizione che i detti fatti comunque risultino inseriti nel processo. Se
poniamo l’attenzione alle eccezioni più frequenti, si ha che rilevabile d’ufficio resta solo
quella di pagamento. Per le altre situazioni la soluzione varicercata di volta in volta.
Abbiamo detto che il giudice non è vincolato alle richieste delle parti nell’individuazione e
nella interpretazione delle norme applicabili. Questo deriva dall’esigenza di garantire che
colui che individua e applica la legge sia un soggetto imparziale, ovvero il giudice.
Di solito, deve dirsi che se sulla base di un determinato fatto la parte ha chiesto il
riconoscimento di determinate conseguenze, mentre il giudice ritiene che lo stesso fatto ne
giustifichi altre, quest’ultimo non possa sostituirsi alla parte nella derivazione delle diverse
conseguenze, tranne che si tratti di conseguenze dichiarabili d’ufficio (ad esempio la nullità
del contratto) o di conseguenze dedotte in via alternativa da una stessa fattispecie. Allo
stesso modo, se la parte ha posto a base dell’effetto giuridico un determinato fatto e il

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giudice ritiene che questo effetto è giustificato sulla base di altro fatto pure risultante dal
processo, non può egli sostituire l’un fatto all’altro, tranne che l’effetto sia derivabile
d’ufficio. La giurisprudenza, a riguardo, non sempre dimostra chiarezza di idee.
Resta da considerare cosa succede se il giudice non rispetti il vincolo che gli deriva dai
principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. A questo
riguardo, ci sono duepossibilità:
a) il giudice provvede senza tener conto di tutte le richieste delle parti e quindi omettendo
di pronunciare su alcune di esse (difetto di pronuncia);
b) il giudice modifica o addirittura pronunzia senza che siano state formulate apposite
istanze (eccesso di pronuncia).
In entrambe le ipotesi il provvedimento è contrario alla legge e quindi è viziato. Quali sono
i rimedi contro tali vizi? Posto che il provvedimento sia una sentenza, quando questa
eccede le richieste delle parti, si ha una decisione, come si è detto, viziata e poiché i vizi
della sentenza devono farsi valere con le impugnazioni, altrimenti la sentenza passa in
giudicato, e la parte, se vuole far valere il vizio e impedire che si sani con il passaggio in
giudicato, deve proporre impugnazione. Più delicato è il caso in cui il giudice abbia omesso
di pronunciare: taluni ritengono che la mancata impugnazione, comportando il passaggio
in giudicato della sentenza, precluda alla parte la possibilità di ripetere la richiesta davanti
al giudice; altri osservano che invece non può passare in giudicato ciò che non c’è, una
pronunzia che non esiste. In questo modo, riconoscono alla parte la possibilità di
riproporre la richiesta in un successivo giudizio, salva comunque la possibilità della
impugnazione.
Il legislatore prende in considerazione il principio della domanda e quello (collegato) della
corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato soprattutto con riferimento agli elementi
oggettivi della controversia. Infatti, in relazione agli elementi soggettivi vi è maggiore
elasticità.
Il giudice, nelle controversie in cui ritiene necessaria la partecipazione di ulteriori soggetti,
deve disporre l’integrazione del contraddittorio e può persino ordinare la chiamata in
causa del terzo al quale ritenga la causa comune, con una chiara eccezione al potere
dispositivo delle parti.
In estrema sintesi possiamo dire che la cultura giuridica italiana ha sempre più
abbandonato l’idea che il processo civile sia una vicenda gestita dalle parti sotto il controllo
del giudice e ha sempre con maggiore convinzione condiviso un’impostazione pubblicistica
della giustizia anche nelle controversie tra privati e relative a diritti disponibili.
Per questa via si dà nuovo e maggiore valore a uno degli slogans di maggiore successo,
quale è quello secondo il quale il processo serve a dare ragione o torto, ed è per questa
ragione che si è, ad esempio, riconosciuto al giudice il potere di intervenire in caso di
mancata integrazione del contraddittorio.

3. Il principio del contraddittorio.


Il momento del contraddittorio riguarda i problemi di tecnica processuale. Il primo
principio da considerare è quello contenuto nell’art.101 cpc – principio del
contraddittorio, secondo cui il giudice non può emettere alcun provvedimento se la parte
contro la quale è stata avanzata domanda non è regolarmente citata e non è comparsa.
Art. 101.(Principio del contraddittorio)
Il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti, non può statuire sopra alcuna domanda, se la
parte contro la quale è proposta non è stata regolarmente citata e non è comparsa.
Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, il giudice riserva

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la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti giorni e non
superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie
contenenti osservazioni sulla medesima questione.
Questo principio sembra dimenticare che nel nostro ordinamento esiste il processo
contumaciale; al tempo stesso è una proiezione dei principi costituzionali enunciati
all’art.24 Costituzione e all’art.111 Costituzione, a mente dei quali la difesa è un diritto
inviolabile e ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti. Il principio del
contraddittorio caratterizza lo stesso modo di essere del processo: lento, costoso e
tecnicamente complesso, quindi lontano dal popolo che spesso non riesce ad utilizzarlo al
meglio. Così appare chiaro come sia rispettato il problema formale, ma non la sostanza del
problema. Sarebbe allora preferibile ricorrere alla collaborazione fra le parti e il giudice,
come tre persone poste sullo stesso piano e cooperanti per la ricerca della verità e della
giustizia sostanziale. Si realizzerebbe in questo modo una radicale trasformazione del
processo, ma sarebbe possibile solo incrementando i poteri d’ufficio del giudice e
trasformando il contraddittorio da potere delle parti di condizionare con le loro richieste le
iniziative giudiziali, in potere di esserne informati e di esprimere la loro opinione prima che
il giudice possa provvedere. Questo, ovviamente, presupporrebbe anche un diverso
atteggiamento delle parti sulla gestione della loro difesa, in ossequio al principio secondo
cui esse devono tenere un contegno probo e leale ex art.88 cpc – dovere di lealtà e
probità.
Art. 88.(Dovere di lealtà e di probità)
Le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità.
In caso di mancanza dei difensori a tale dovere, il giudice deve riferirne alle autorità che esercitano
il potere disciplinare su di essi.
Da quanto detto fino ad ora, sembra che non siano possibili eccezioni al principio del
contraddittorio. In realtà, l’art.101 cpc – principio del contraddittorio, quando dice “salvo che la
legge disponga altrimenti”, sembra ammetterli. Le eccezioni possibili sono relative a due ipotesi:
1) a condizione che si possa instaurare il contraddittorio in un momento successivo;
2) quando la situazione ha bisogno di una tutela immediata.
Riguardo allora alla realizzazione eventuale e differita del contraddittorio, il meccanismo
tecnicoutilizzato dal legislatore può essere triplice:
1) lo stesso giudice, che emana il provvedimento senza aver sentito l’altra parte, deve
disporre la convocazione delle parti in contraddittorio, dando vita ad un procedimento che
si conclude con la conferma o la revoca del provvedimento;
2) la parte che ha ottenuto il provvedimento deve dare inizio, in un termine perentorio, al
procedimento a contraddittorio pieno;
3) la parte, contro la quale è stato emesso il provvedimento senza essere stata sentita,
deve proporre opposizione entro un termine perentorio, instaurando un processo a
contraddittorio pieno.
Questi tre modelli sono stato ritenuti compatibili con la Costituzione.
Resta ora da stabilire quando è che si ha violazione del contraddittorio e quale è la disciplina
delcorrelativo vizio del provvedimento. Abbiamo due ipotesi:
a) il giudice ritiene la parte contumace, senza rilevare un vizio della notificazione che
avrebbe imposto la rinotificazione dell’atto (contumacia involontaria);
b) nel processo la parte è rappresentata da un rappresentante senza potere (falso
procuratore). Nel primo caso, si applica il principio richiamato all’art.161 cpc – nullità
della sentenza, secondo il quale si ha trasformazione dei vizi della sentenza in motivi di
gravame.

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Art. 161 (Nullità della sentenza)


La nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere
soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione.
Questa disposizione non si applica quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice.

Peraltro, poiché il contumace può essere ignaro del processo, vi è il correttivo, quanto alla
decorrenza dei termini ex art.327 2° co cpc – decadenza dell’impugnazione.
Art. 327.(Decadenza dall'impugnazione)
Indipendentemente dalla notificazione l’appello, il ricorso per Cassazione e la revocazione per i
motivi indicati nei numeri 4 e 5 dell’articolo 395 non possono proporsi dopo decorsi sei mesi dalla
pubblicazione della sentenza
Questa disposizione non si applica quando la parte contumace dimostra di non aver avuto
conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa, e per nullità della
notificazione degli atti di cui all’art. 292.
Nel secondo caso non è chiaro quale regime sia applicabile: inopponibilità della sentenza
al falsorappresentato, parificazione di questi al contumace involontario.
Lo svolgimento del processo deve essere rispettoso, nella sua interezza, delle esigenze
della piena difesa. In considerazione di ciò, la dottrina aveva da tempo segnalato che si
aveva violazione del contraddittorio quante volte il giudice avesse deciso la
controversia con riferimento a questioni che non avevano formato oggetto di
dibattito processuale (la c.d. terza via di risoluzione della lite). Questa è ammessa
dall’art.101 2°co cpc – principio del contraddittorio, nella parte in cui “il giudice ritiene
di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio…”. La disposizione
è formulata nell’ipotesi in cui il giudice rilevi la questione prima di riservare la decisione.
Potrebbe avvenire che egli si renda conto della questione quando si è già riservato di
decidere. In questa ipotesi, dovrà rimettere la causa in istruttoria, per consentire
l’effettivo esercizio del diritto di difesa, anche se ciò pagherà il prezzo di un notevole
allungamento dei tempi processuali. Se poi si hanno violazioni del contraddittorio nel
corso del processo e in relazione a singoli atti, queste si traducono in vizi della
sentenza rilevabili con l’impugnazione.

4. Il principio dispositivo (in senso stretto) e il principio inquisitorio.


Per poter provvedere, il giudice deve accertare che i fatti rilevanti ai fini della decisione
siano veri: in questo modo il giudice istruisce la causa. Questo è il problema della prova.
Anche qui riscontriamo due tendenze: c’è chi ritiene preferibile lasciare alle parti l’iniziativa
probatoria e chi, al contrario, ritiene che debba essere il giudice a dover assumere in prima
persona il compito della ricerca della verità senza essere condizionato dalle parti. Il
dibattito in questi anni ha riguardato soprattutto il processo penale ed è sfociato nella già
richiamata modificazione dell’art.111 Costituzione, il quale dispone che il sapere altrui
raccolto fuori del processo (quindi dal PM o dagli organi di polizia giudiziaria) è
inutilizzabile, tranne nei casi in cui c’è il consenso dell’imputato o è accertata l’impossibilità
oggettiva e per effetto di provata condotta illecita. È ovvio che la soluzione accolta mira ad
evitare che i giudici penali esercitino i loro poteri in maniera autoritaria, ma paga il prezzo
di una minore sicurezza sociale. Questa modificazione, però, non dovrebbe avere
ripercussioni sulla disciplina del processo civile. L’impostazione data al problema dal nostro
codice trova la sua norma fondamentale nell’art.115 cpc – disponibilità delle prove, a
norma del quale “salvo i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della
decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non
specificamente contestati dalla parte costituita”.

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Art. 115.(Disponibilità delle prove)


Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove
proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla
parte costituita.
Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di
fatto che rientrano nella comune esperienza.
In dottrina si sostiene che nel nostro ordinamento valgono sia il principio dispositivo in
senso stretto, che ha per oggetto il potere delle parti di produrre prove e di far decidere
solo sulla loro base, sia il principio dispositivo in senso ampio, che ha per oggetto il potere
delle parti di proporre la domanda, di fissare il tema di decisione e di produrre le prove.
Tuttavia, il principio dispositivo in senso stretto non è realizzato in modo integrale, così che
può dirsi che i due principi agiscono in combinazione e sono entrambi egualmente
rappresentati. Dobbiamo osservare ora le eccezioni che l’art.115 cpc espressamente
richiama e che danno la possibilità al giudice di intervenire e controllare le parti nella
indagine istruttoria, evitando così il loro monopolio nella ricerca della verità. Esse sono:
1) Il potere di disporre d’ufficio l’interrogatorio non formale delle parti.
2) L’ordine di ispezione di persone o cose, strumentale all’accertamento dei fatti.
3) Il potere di disporre la consulenza tecnica e di nominare il consulente.
4) Il potere di richiedere informazioni alla pubblica amministrazione relative ad
atti e documenti dell’amministrazione stessa.
5) Il potere di deferire il giuramento suppletorio e il giuramento d’estimazione.
6) Una volta che le parti abbiano ottenuto di essere ammesse alla prova testimoniale,
il potere ufficioso del giudice di proporre domande “utili a chiarire i fatti” intorno
ai quali il teste è chiamato a deporre, di disporre il confronto fra i testimoni, di
assumere altri testie di rinnovarne l’esame.
L’art.115 cpc – disponibilità delle prove si conclude con la norma che dal giudice il potere
di porre a fondamento della decisione, senza bisogno di prova, le nozioni di fatto che
rientrano nella comune esperienza. Questa disposizione regola i c.d. fatti notori che
sarebbero quelli che non hanno bisogno di prova. In parole povere, deve trattarsi di quei
fatti conosciuti dalla collettività, per cui il giudice, facendo anch’egli parte della collettività,
ne è a conoscenza, così li può prendere in considerazione senza che rechi alcun attentato
all’imparzialità e alle regole della assunzione delle prove in contraddittorio tra le parti (ad
esempio la svalutazione della moneta o il terremoto del 1980 in Campania). Infine, occorre
dire che, anche se il 2°co art.115 cpc anche se da un potere al giudice, sarebbe più
corretto parlare di potere-dovere, il cui mancato esercizio dovrebbe viziare il
provvedimento. La possibilità di tenere conto dei fatti in quanto notori è la base positiva
sufficiente per escludere, argomentando a contrario, che il giudice possa far ricorso alle
sue conoscenze personali (c.d. divieto di scienza privata). È quindi ammessa solo la
conoscenza pubblica, così che l’operazione del giudice sia sottoposta, per così dire, a
controllo preventivo della collettività.

5. La (libera) valutazione delle prove.


Vediamo ora come il giudice deve valutare le prove. Partiamo con quanto disposto dall’art.116
cpc - valutazione delle prove.
Art. 116. (Valutazione delle prove)
Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge
disponga altrimenti.

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Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma
dell'articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e,
in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo.
Concentriamoci sul 1°co e notiamo subito che il giudice deve valutare le prove secondo il
suo prudente apprezzamento (prova libera) ed eccezionalmente può non valutarle in
questo modo (prova legale). Il giudice, nel primo caso, deve valutare le prove secondo la
sua capacità critica ovvero secondo criteri razionali che gli consentano di stabilire se e in
quale limite la prova è utilizzabile ai fini della ricostruzione del fatto. In sostanza, la
conclusione del giudice è tratta da una premessa minore (la testimonianza) e da una
premessa maggiore (il criterio razionale di cui il giudice si serve per valutarla). Questa
premessa maggiore è in sostanza una massima d’esperienza.
Al contrario, nel caso della prova legale, è il legislatore che ha cristallizzato la massima
d’esperienza, rendendola regola giuridica: ad esempio, nel caso in cui una parte dichiara
fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra, tranne nella ipotesi di follia, dice il vero e allora il
legislatore conclude che la dichiarazione confessoria deve sempre essere ritenuta valida
dal giudice (il quale, così, non può liberamente valutarla). Allo stesso modo il giudice è
tenuto a credere a quantorisulta dal giuramento. Fondata sicuramente è la critica mossa al
giuramento, principalmente perché la massima d’esperienza da cui è partito il legislatore
non è più tanto sentita dalla collettività, presso la quale il vincolo morale e religioso è
scemato, e inoltre perché l’ineluttabilità delle conseguenze (la sentenza resta ferma anche
in caso di condanna delle parti per falso giuramento, potendosi in tal caso agire solo per il
risarcimento del danno) non è assolutamente giustificabile.
D’altro canto, la stessa concezione della prova libera può essere accolta a condizione che si
ritenga possibile il controllo delle valutazioni razionali del giudice. Viene fuori che dietro il
fenomeno della prova legale c’è un atteggiamento di (parziale) sfiducia del legislatore nei
confronti del giudice e che la prova libera, invece, presuppone la massima fiducia nelle
capacità e nel corretto uso di tali capacità da parte dello stesso. In questa prospettiva, il
fenomeno della prova legale può essere valutato positivamente quando la possibilità di
soluzioni arbitrarie per effetto della prevalutazione legislativa della prova sia minima o
socialmente irrilevante (è il caso della confessione) o quando l’intero sistema dei rapporti
di diritto sostanziale preferisce fondare sullo scritto piuttosto che sulla parola.
È stato sostenuto da alcuni che la razionalità del ragionamento del giudice non è
dimostrabile; che i giudici decidono sulla base di impulsi istintivi, di intuizioni, sensazioni
non oggettivabili; che con le motivazioni delle sentenze si cerca di contestare decisioni già
prese; che le massime d’esperienza non hanno alcuna validità scientifica. Se questo fosse
accettato, dovremmo concludere che l’attività del giudice è arbitraria, soggettiva e
incontrollabile. Il nostro legislatore non la pensa così e una prova è costituita
dall’orientamento espresso all’art.111 6°co Costituzione, che impone l’obbligo della
motivazione (tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati). Si tratti o meno
di una riproduzione fedele del ragionamento del giudice per la decisione, è ad essa
che parti, giudici e collettività devono e possono far riferimento per stabilire se il giudice ha
deciso secondo il suo “prudente apprezzamento”. La conferma si ha nella circostanza che
non a caso tra i motivi di ricorso per Cassazione sia annoverato quello derivante da errori
nella soluzione della questione di fatto e che contro i tentativi di restituire alla Cassazione il
suo originario compito di giudice del diritto, la prassi ha sempre reagito nel senso di
ottenere un allargamento del sindacato, sottolineando come fatto e diritto siano in una
correlazione di reciproca influenza di cui anche il giudice del diritto non può non tenere
conto.

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L’art.116 2° co cpc – valutazione delle prove, accanto alle prove annovera gli argomenti di prova.
Art. 116. (Valutazione delle prove)
Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge
disponga altrimenti.
Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma
dell'articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e,
in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo.
Esistono alcuni fatti che, di per sé, non avrebbero alcun rilievo nella ricostruzione ai fini
della decisione e che, tuttavia, devono in qualche modo essere tenuti in conto. Questi sono
le risposte delle parti in sede di interrogatorio non formale, il loro rifiuto ingiustificato a
consentire le ispezioni e, in generale il loro contegno. Secondo il legislatore, tali fatti
possono servire ad interpretare le prove altrimenti acquisite, in modo che il giudice può
pervenire alla esatta valutazione critica delle prove vere e proprie. È questo il senso che
deve darsi all’art.420 1° e 2° co cpc – udienza di discussione della causa, in materia di
controversie di lavoro, quando afferma che la mancata comparizione o la mancata
conoscenza dei fatti sono “comportamenti valutabili” ai fini della decisione. Il legislatore,
senza ripetersi, ha voluto sottolineare che là dove l’obbligo di lealtà e probità è incentivato,
il comportamento delle parti deve essere tenuto presente dal giudice nel massimo grado.

6. La regola di giudizio fondata sull’onere della prova.


Bisogna chiedersi come deve comportarsi il giudice quando non si convinca che un fatto,
necessario per dichiarare un determinato effetto giuridico, si sia realmente verificato. La
risposta più ovvia è che debba pronunciare un non liquet, ovvero una “non decisione”, che
lascerebbe le cose al punto di partenza, lasciando salva la possibilità per le parti di
riproporre la questione. Questo non sembra ammesso nel nostro sistema e si potrebbe,
allora, pensare che il giudice sia libero di accogliere o rigettare la richiesta sulla base di
personali convinzioni ma, non possiamo muoversi neanche in questo senso. Il principio di
legalità e certezza del diritto, intesi come prevedibilità e controllabilità delle decisioni
giudiziarie, sono contrari a tale soluzione. L’unica via, allora, è quella di precostituire un
canone di valutazione per il caso di incertezza. Questa regola si ritrova in quanto disposto
dall’art.2697 codice civile – onere della prova secondo il quale “chi vuole far valere un
diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.
Art. 2697 Codice Civile. Onere della prova.
Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve
provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.
Questa disposizione sembra il riflesso del principio dispositivo: se spetta alle parti il potere
di introdurre le prove nel processo, è chiaro che il mancato esercizio di questo potere cade
a danno delle parti. Tuttavia, il vero significato della disposizione sta nel suo profilo
oggettivo, che si ricava chiedendosi che cosa deve fare il giudice quando la parte non abbia
fornito prove sufficienti; e la risposta implicita nella norma è che il giudice deve rigettare
l’istanza. Poiché, poi, non c’è condizionamento assoluto tra prova delle parti e decisione
del giudice, la regola dell’art.2697 Codice Civile, può essere tradotta in termini più generali
e oggettivi: il giudice deve rigettare le istanze quando non risulti acquisita al processo una
prova sufficiente dell’esistenza dei fatti su cui sono fondate. Pare preferibile sostenere
l’indirizzo che impone al giudice di accogliere la domanda o l’eccezione solo quando sia del
tutto convinto che i fatti posti a fondamento dell’una o dell’altra si sono verificati.

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Il vero problema sta nella individuazione dei fatti bisognosi di prova ai fini
dell’accoglimento della richiesta. Il legislatore ha distinto i fatti in due categorie, sulla base
del già citato art.2697 codice civile, ovvero:
Art.2697 1°co Codice Civile – fatti costitutivi che sono a base della situazione giuridica
fatta valerein giudizio.
Art.2697 2°co Codice Civile – fatti estintivi, modificativi o impeditivi sono quelli che
hanno il potere di estinguere, modificare o impedire gli effetti che i primi hanno prodotto o
sono idonei a produrre.
In questo modo il rischio per la mancata prova deve essere ripartito fra le parti del
processo: il provvedimento richiesto sarà rifiutato se la parte richiedente non prova i fatti
costitutivi; qualora la parte dia tale prova, sarà concesso, se l’altra parte non prova i fatti
estintivi, modificativi o impeditivi. Facciamo un esempio: il creditore dovrà provare di aver
dato il denaro a titolo di mutuo; il convenuto, ove l’attore dia tale prova, dovrà dimostrare
di aver restituito la somma in tutto (fatto estintivo) o in parte (fatto modificativo) ovvero
che la restituzione era subordinata ad un termine non scaduto o ad una condizione non
verificata (fatto impeditivo). Il giudice, a sua volta, dovrà individuare quali sono i fatti
costitutivi della pretesa; qualora questi non risultino provati, dovrà rigettare la domanda;
se, invece, risultino provati dovrà accertare se sono stati allegati fatti estintivi, modificativi
o impeditivi; qualora questi sono provati, rigetterà la richiesta; se, invece, non risultino
provati, accoglierà la domanda (rigettando l’eccezione).

7. L’applicazione del diritto e il giudizio di equità.


Ricapitoliamo i poteri del giudice: questi può provvedere soltanto se sollecitato dalle
domande delle parti e in relazione al fatto quale risulta specificato dalle loro contrapposte
allegazioni; può provvedere soltanto se sia stato realizzato un soddisfacente
contraddittorio; deve poi accertare sei fatti si siano svolti nella maniera indicata dalle parti
e, comunque, deve provvedere anche se l’indagine istruttoria non lo abbia condotto ad
alcun risultato positivo. Nel momento della decisione egli dovrà valutare il fatto così come
accertato o ricostruito nel processo, secondo criteri di valutazione precostituiti. Questi
criteri egli li rinviene nella legge. Di conseguenza, l’art.113 1°co cpc – pronuncia secondo
diritto, nel prevedere che “il giudice deve seguire le norme di diritto, salvo che la legge gli
attribuisca il potere di decidere secondo equità”, finisce con l’essere la puntuale attuazione
di una esigenza già espressa nella Costituzione.
Art. 113. (Pronuncia secondo diritto)
Nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto, salvo che la legge gli
attribuisca il potere di decidere secondo equità.
Il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede millecento euro, salvo
quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui
all'articolo 1342 del codice civile.
Normalmente il giudice decide soltanto secondo diritto e in casi eccezionali secondo equità,
quindi, occorre analizzare il giudizio di diritto e quello di equità. Prima cosa di tutto, il giudice
non può esimersi dal giudicare sostenendo di non conoscere la norma da applicare, deve
risolvere il problema da solo, servendosi delle raccolte di legge dello Stato, delle Regioni, degli
atti normativi delle Province e dei Comuni, reperendo gli “usi “ e le “consuetudini” e
ricercando, d’ufficio, il diritto straniero. Per il diritto antico si può servire della consulenza.

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In ordine al giudizio di equità si è soliti distinguere tre forme:


1. Equità formativa – quando esistono lacune nell’ordinamento e il legislatore offre
la possibilità di colmarle facendo ricorso al procedimento equitativo.
2. Equità suppletiva – che ricorre più di frequente, si ha quando le disposizioni di
legge si limitano a prevedere l’ipotesi, ma non collegano ad essa precise
conseguenze, lasciandole alla determinazione equitativa del giudice.
3. Equità sostitutiva – si ha quando il giudice può valutare il caso concreto in modo
diverso da come è stato valutato in astratto dalla legge. In questa ipotesi si tiene
conto del fatto che le leggi sono formulate in relazione ad intere classi di casi, così
che esse non sempre possono prendere in adeguata considerazione ipotesi
concrete che, pur rientrando nella classe, presentano aspetti particolari che
esigerebbero una diversa valutazione. Quando si fa ricorso al giudizio di equità si
tiene conto di questa esigenza e si abilita il giudice a superare la barriera della
legge scritta, a creare una norma che sia adeguata alla particolarità del caso da
risolvere.
A quale di questi tipi di equità si riferisce l’art.113 cpc – pronuncia secondo diritto?
Ovviamente all’equità sostitutiva, prevedendo che il giudice decida secondo equità nelle
ipotesi in cui vi siano norme giuridiche che non si adattano perfettamente ad esse. In
conclusione, il giudizio di equità formativa si ha quando la legge espressamente prevede
che il giudice decida equitativamente in settori non regolati dal diritto; il giudizio di equità
suppletiva si risolve in un giudizio di diritto; il giudizio di equità sostitutiva ha luogo nei
limiti fissati dalla legge.
A norma dell’art.114 cpc – pronuncia secondo equità a richiesta di parte, che ovviamente
non riguarda le controversie di valore non superiore a millecento euro di competenza del
giudice di pace, il giudizio di equità è possibile a condizione che la controversia riguardi
diritti disponibili e che le parti ne abbiamo fatto concorde richiesta al giudice.
Art. 114. (Pronuncia secondo equità a richiesta di parte)
Il giudice, sia in primo grado che in appello, decide il merito della causa secondo equità quando
esso riguarda diritti disponibili delle parti e queste gliene fanno concorde richiesta.

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CAPITOLO 5 - LA PROBLEMATICA DELL’AZIONE


1. La nozione di azione in generale.
La parte, nel dare impulso al processo, esercita senza dubbio un “potere”. Tale potere si
individua nel concetto di “azione”.
Abbiamo tre principali teorie sull’azione, la prima sostiene che si tratti di un potere di
fatto, in quanto è interamente disciplinato dal diritto sostanziale; secondo un’altra teoria,
si tratterebbe invece di un potere processuale, poiché è rilevante solamente se viene
dedotto nel corso del processo; una terza teoria si pone come elemento di raccordo tra le
due appena esposte.
Ad ogni modo, è utile partire con il dettato dell’art.24 Costituzione e le norme ad esso
collegate. Tale disposizione, dal significato fortemente garantista, mira ad assicurare, in
positivo, al singolo un generico potere d’azione per la tutela dei propri diritti ed interessi
legittimi, mentre in negativoimpone al legislatore di non manovrare la disciplina del processo e
della azione rendendo difficoltosa o impossibile la tutela nel processo delle posizioni
sostanziali.
La Corte Costituzionale nel 2014 è intervenuta a ribadire alcuni concetti fondamentali,
sottolineando il collegamento tra diritto di azione e giusto processo: fra i principi
fondamentali dell’ordinamento costituzionale, vi è il diritto di agire e di resistere in
giudizio a difesa di quanto riconosciuto dall’art.24, in breve il diritto al giudice e alla tutela
giurisdizionale, ovvero di assicurare sempre un giudice e un giudizio; inoltre la Corte ha
osservato che al riconoscimento della titolarità di diritti non può non accompagnarsi il
riconoscimento di farli valere dinanzi ad un giudice in un procedimento di natura
giurisdizionale; pertanto l’azione in giudizio per la difesa dei propri diritti è essa stessa il
contenuto di un diritto, protetto dal’art.24 e dall’art.113 Costituzione e da annoverarsi tra
quelli inviolabili e caratterizzanti lo stato democratico di diritto.
Art. 113.
Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti
e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa.
Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o
per determinate categorie di atti.
La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica
amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa.

Cerchiamo ora di capire quali sono le caratteristiche del diritto di azione secondo le tre
tendenze di fondo che definiscono la struttura e il contenuto del diritto-potere d’azione:
1. Diritto ad ottenere un provvedimento qualsiasi.
2. Diritto ad ottenere un provvedimento di merito qualsiasi.
3. Diritto ad ottenere un provvedimento di merito favorevole.
Nell’individuare quale delle tre sia stata scelta nel nostro ordinamento, occorre fare
alcune precisazioni partendo da deduzioni.
Sul primo punto, ovvero il diritto ad ottenere un provvedimento qualsiasi (astratto),
dobbiamo dire che nessuno può impedire a un soggetto di porre in essere attività
processuali del tutto inconcludenti, ma è chiaro che non sono indifferenti per il diritto, che
le valuta e le disciplina (chi propone anticipa le spese processuali, nel processo le parti
sono comunque tenute ad un contegno probo e leale, la parti non possono essere sentite
come testimoni, se la domanda è dichiarata improponibile o inammissibile il soccombente
paga le spese del processo, etc).

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Sul secondo punto, ovvero il diritto ad ottenere un provvedimento di merito qualsiasi,


dobbiamo dire che l’intero fenomeno processuale è visto in funzione dello scopo di
rendere giustizia, il che significa che esso, dovendo tendere all’emanazione di
provvedimenti di merito (accoglimento o rigetto), è costituito prevalentemente in funzione
dell’azione come diritto a provvedimenti di merito di qualsiasi contenuto, e questo spiega
perché il nostro ordinamento ha scelto questa nozione di azione. Un esempio è dato dalle
pronunce di incompetenza, che non chiudono il processo, ma consentono la sua
trasmigrazione davanti al giudice dichiarato competente con la salvezza degli atti di parte
compiuti. La giustificazione a questa tendenza la troviamo anche nel fatto che il processo è
visto come un servizio organizzato per rendere giustizia e che provvedimenti di mero
contenuto processuale si risolvono in perdite di tempo, quindi un processo così concepito
ed organizzato ha per base il diritto delle parti di ottenere un provvedimento di merito, e
quindi quel particolare tipo di azione di cui stiamo discorrendo.
Sul terzo punto, il diritto ad ottenere un provvedimento di merito favorevole, possiamo
individuare la tendenza del legislatore a realizzare quel principio (Chiovenda) secondo il
quale la durata del processo non deve danneggiare l’attore che ha ragione, situazione che
si crea quando chi è effettivamente titolare di una situazione giuridica favorevole è
costretto ad agire in giudizio per tutelarla per cui gli effetti collegati alla inevitabile durata
del processo non devono essere da lui subiti. Esistono allora alcuni istituti che, partendo
dal presupposto che l’attore abbia ragione e quindi che la sua domanda sia fondata,
cercano di evitare che questi subisca pregiudizio per la durata del processo (pensiamo alla
norma che obbliga il possessore in buona fede a restituire i frutti dal momento della
proposizione della domanda).
Riguardo agli effetti dell’atto di esercizio dell’azione, il problema sorge perché la
proposizione della domanda giudiziale produce:
1. Interruzione dei termini di prescrizione (i termini ricominciano a decorrere da
principio).
2. Sospensione delle prescrizioni per tutta la durata del processo.
La sospensione è utile per evitare che il giudice, al momento della decisione, si trovi a
provvedere su diritti ormai estinti.
La formulazione delle disposizioni ha reso necessario stabilire alcune cose:
a) occorre identificare gli atti iniziali del processo;
b) non è chiaro se l’effetto interruttivo va collegato anche a domande che non
contengano
tale affermazione;
c) non si sa se l’interruzione-sospensione sia collegata ad una sentenza di merito
ovvero aduna sentenza qualsiasi.
La lettura del disposto normativo potrebbe aiutare a capire:
Art. 2943 Codice Civile. Interruzione da parte del titolare.
La prescrizione è interrotta dalla notificazione dell'atto con il quale si inizia un giudizio, sia questo
di cognizione ovvero conservativo o esecutivo.
È pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un giudizio.
L'interruzione si verifica anche se il giudice adito è incompetente.
La prescrizione è inoltre interrotta da ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore e
dall'atto notificato con il quale una parte, in presenza di compromesso o clausola compromissoria,
dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale, propone la domanda e
procede, per quanto le spetta, alla nomina degli arbitri.

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Art. 2944 Codice Civile. Interruzione per effetto di riconoscimento.


La prescrizione è interrotta dal riconoscimento del diritto da parte di colui contro il quale il diritto
stesso può essere fatto valere.

Art. 2945 Codice Civile. Effetti e durata dell'interruzione.


Per effetto dell'interruzione s'inizia un nuovo periodo di prescrizione.
Se l'interruzione è avvenuta mediante uno degli atti indicati dai primi due commi dell'articolo
2943, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisceil
giudizio.
Se il processo si estingue, rimane fermo l'effetto interruttivo e il nuovo periodo di prescrizione
comincia dalla data dell'atto interruttivo.
Nel caso di arbitrato la prescrizione non corre dal momento della notificazione dell'atto
contenente la domanda di arbitrato sino al momento in cui il lodo che definisce il giudizio non è più
impugnabile o passa in giudicato la sentenza resa sull'impugnazione.
La dottrina tradizionale, evidenziando il comma 2, aveva dedotto che il riferimento fosse
alle sentenze di merito, e di conseguenza la norma si ispirerebbe al principio chiovendiano
secondo il quale la durata del processo non deve danneggiare l’attore che ha ragione. La
conferma starebbe nel comma 3, secondo il quale “se il processo si estingue, rimane fermo
l’effetto interruttivo e il nuovo periodo di prescrizione comincia dalla data dell’atto
interruttivo”. Questa dottrina, infatti, interpretava la disposizione come se avesse detto
che l’effetto sospensivo viene meno tutte le volte in cui il processo non si chiude con una
decisione di merito.
Altri hanno preferito interpretare le disposizioni contenute nell’articolo in questione in
senso più letterale: infatti, mentre il 2°comma non contiene riferimento alcuno alle
sentenze di merito, il 3°comma si riferisce solamente all’ipotesi in cui venga dichiarata
l’estinzione del processo, e non alle altre sentenze processuali. È la giustificazione c’è,
poiché alla dichiarazione di estinzione si arriva dopo un comportamento inattivo della
parte o dopo la sua rinunzia agli atti, così che la norma ha voluto sanzionare l’inerzia o il
disinteresse. Su questa base si è affermato che l’effetto interruttivo-sospensivo si verifica
anche quando il processo termina con una sentenza di carattere processuale e sempre che
nella domanda giudiziale, che ha provocato il processo, vi sia un’affermazione del diritto
idonea a incidere sulla prescrizione. Nella sostanza si finisce per ancorare quanto disposto
dagli artt.2943.2945 cc ad una nozione dell’azione in senso astratto.
Se si accoglie la tesi ora riassunta, l’art.2945 cc si applicherà solo quando il processo si
estingue, anche se per dichiarare l’estinzione potrà essere necessaria una sentenza: esso si
pone, quindi, come lex specialis.

2. Gli elementi distintivi delle azioni.


Si è soliti identificare l’azione sulla base degli elementi essenziali che la compongono,
ovvero il petitum (o oggetto), la causa petendi (o ragione) e i soggetti. Per il momento
soffermiamoci sui primi due, dal momento che riguardo ai soggetti ora basta dire che sono
quelli che si pongono come destinatari degli effetti del provvedimento giudiziale.
Il petitum o oggetto può essere inteso in due modi, come oggetto diretto o immediato
della domanda giudiziale che è il provvedimento di giustizia richiesto (la sentenza di
condanna, il decreto ingiuntivo, il provvedimento cautelare, etc.), o come oggetto
indiretto o mediato che è il bene della vita o l’utilità concreta che si cerca di ottenere
attraverso il provvedimento (la somma di danaro, la certezza, il trasferimento, etc.). Anche
se è necessario non dissociare l’uno dall’altro tipo di oggetto per conoscere con certezza

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cosa la parte ha voluto, la legge sembra dare maggiore importanza all’oggetto indiretto o
mediato dal momento che individua come requisito essenziale la “determinazione della
cosa oggetto della domanda”.
La causa petendi è la ragione in base alla quale si ritiene di avere una determinata pretesa
e quindi di poter ottenere un determinato provvedimento e si individua facendo
riferimento alla struttura del diritto posto a base della pretesa, ovvero se parliamo di diritti
assoluti, relativi e potestativi. Per quanto riguarda i diritti assoluti, quelli che possono
esistere in capo ad un solo soggetto, la causa petendi finisce con l’identificarsi con la
fattispecie acquisitiva (esempio è il diritto di proprietà in cui se mi affermo proprietario di
un bene, o lo sono o non lo sono, non c’è alternativa). Nel campo dei diritti relativi, i quali
possono coesistere in capo ad una stessa persona più volte nel medesimo tempo, possiamo
procedere ad un esempio: se ho un credito di restituzione, posso anche vantare un credito
di risarcimento. Se ho un danno da circolazione stradale, posso bene averne subito un
secondo. È chiaro che in questi casi l’attore dovrà evidenziare il titolo della richiesta
(l’adempimento contrattuale ad esempio), ma soprattutto dovrà indicare i fatti specifici che
integrano la fattispecie legale dedotta in giudizio: il contratto inadempiuto; l’incidente
automobilistico che gli ha causato danno. Accanto a questi fatti essenziali (principali)
l’attore dovrà indicare le circostanze in base alle quali egli ascrive il fatto a colpa del
convenuto (il mancato rispetto dello stop); mentre i primi servono a identificare la
domanda e non possono essere cambiati senza mutarla, i secondi servono a supportare il
fondamento della domanda e, entro certi limiti, possono essere mutati. Restano i diritti
potestativi che indicano quella situazione giuridica soggettiva che consiste
nell'attribuzione di un potere ad un soggetto allo scopo di tutelare un suo interesse. È
una categoria discussa in dottrina, poiché potenzia, in certo modo, la tutela del soggetto
dandogli la possibilità, in sostanza, di richiedere al giudice una modificazione della
situazione giuridica altrui, anche se quest’ultimo è contrario. È chiaro come si tratti di una
ipotesi che comprime l’autonomia privata e che quindi deve essere prevista dalla legge,
come ricorda l’art.2908 cc.
Art. 2908 Codice Civile. Effetti costitutivi delle sentenze.
Nei casi previsti dalla legge, l'autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti
giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa.
Vediamo che è l’ipotesi in cui il giudice si sostituisce alle parti quando, nei casi previsti dalla
legge, può “costituire, modificare o estinguere” rapporti giuridici che sono parte
dell’autonomia privata, come stabilito dall’art.1321 cc.
Art. 1321 Codice Civile. Nozione.
Il contratto è l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto
giuridico patrimoniale.
Nel cercare di giustificare questa compressione dell’autonomia privata, il legislatore ha
operato un’analisi che spesso crea problemi applicativi. Procediamo con un esempio: la
legge offre alla parte contraente di richiedere l’annullamento del contratto per dolo, errore
o violenza. Primo dubbio: posto a fondamento della domanda, dovranno essere specificati
i fatti che dimostrano che il dolo si è effettivamente verificato, oppure basta la mera
enunciazione del vizio? Ancora: se si agisce sulla base del dolo, successivamente si potrà
agire per violenza o errore? È possibile proporre una nuova domanda o inserire la nuova
pretesa nel processo pendente?
La risposta non è affatto semplice. La necessità di una analisi del caso singolo costituisce, a
nostro avviso, la ragione per la quale è difficile, e forse inutile, cercare di individuare un
orientamento giurisprudenziale unitario, anche se di recente la S.C. sembra preferire un

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obbligo di deduzione “globale”, rapportando cioè l’oggetto del processo al rapporto


giuridico nella sua interezza (quali che ne siano i fatti posti a fondamento), e non all’effetto
giuridico deducibile dai fatti dedotti nel processo.

3. Le azioni di cognizione.
All’esercizio del potere di azione fin qui esaminato, corrispondono varie forme di tutela
giurisdizionale che l’ordinamento assicura e che si realizzano in tre tipi di processo:
1. processo di cognizione (azione di cognizione)
2. processo di esecuzione (azione esecutiva)
3. processo cautelare (azione cautelare)
Per una corretta comprensione dell’argomento, partiamo da alcuni esempi che meglio
chiariscono la materia.
Art. 269 Codice Civile. Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità.
La paternità e la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il
riconoscimento è ammesso.
La prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo.
La maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che
fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre.
La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre
all'epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità.
La norma qui individua un fatto, la genitura naturale, a cui si collega effetti, quelli riferiti
allo status di figlio naturale; il giudice, conosciuto il fatto, applica la disposizione giuridica e
dichiara le conseguenze. Si ha, così, una azione dichiarativa o di accertamento.
Art. 948 Codice Civile. Azione di rivendicazione.
Il proprietario può rivendicare la cosa, da chiunque la possiede o detiene e può proseguire
l'esercizio dell'azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di
possedere o detenere la cosa. In tal caso il convenuto è obbligato a recuperarla per l'attore a
proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno.
Il proprietario, se consegue direttamente dal nuovo possessore o detentore la restituzione della
cosa, è tenuto a restituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo di
essa.
L'azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti dell'acquisto della proprietà da parte di
altri per usucapione.
Questa norma dà la possibilità al proprietario di “rivendicare la cosa da chiunque la
possiede o la detiene…”. La disposizione individua un fatto (l’essere proprietario), e da
questa situazione fa discendere una conseguenza (la possibilità per il proprietario di
recuperare il possesso della cosa). Anche in questo caso il giudice, accertati i fatti, li
qualifica giuridicamente come idonei a giustificare in capo alla parte la situazione di
proprietario. Ma questo potrebbe non bastare al proprietario, il quale volesse recuperare
materialmente il possesso della cosa. Allora la legge dà al giudice il potere di aggiungere
alla sua pronuncia un altro elemento, cioè la condanna del convenuto a restituire il bene,
parlandosi in questi casi di tutela di condanna.

Art. 1427 Codice Civile.Errore, violenza e dolo.


Il contraente, il cui consenso fu dato per errore, estorto con violenza, o carpito con dolo, può
chiedere l'annullamento del contratto, secondo le disposizioni seguenti.

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Qui la norma individua il fatto (l’errore, la violenza o il dolo) a cui collega determinate
conseguenze (invalidità del contratto) e anche in questo caso il giudice non dovrebbe fare
altro che dichiarare l’effetto (con sentenza di accertamento). La conclusione, a nostro
avviso, non può essere condivisa. Al riguardo, basta mettere a confronto la disciplina
dell’annullabilità con quella della nullità: infatti, mentre un contratto nullo non può essere
convalidato e quindi non può spiegare effetti, un contratto annullabile può essere
convalidato e, quindi, il giudice in questo caso non accerta che si è verificato il fatto
previsto dalla norma, ma accerta che vi siano le situazioni di fatto per l’esercizio di un
potere di modificare la situazione esistente che la norma riconosce in capo al privato. In
questo caso si parlerà di azione costitutiva perché, con la sua pronuncia, il giudice immette
nel mondo giuridico beni o utilità ulteriori, intervenendo nell’accordo originariamente
formatosi tra le parti.
Chiarito tutto questo, passiamo ad esaminare singolarmente le tre forme di tutela di
cognizione.

L’azione di accertamento – essa ha per funzione quella di dare certezza al cittadino che
con tale azione si rivolge ai giudici per conseguire, attraverso un provvedimento
giurisdizionale, la certezza in ordine al diritto o alla situazione giuridica dedotti nel
processo. Basta il bisogno di certezza per dare vita al processo? Che tipo di certezza si può
perseguire attraverso il processo? Non esiste una risposta sicura a questo genere di quesiti,
dal momento che non esiste nel nostro ordinamento una norma che riconosca
espressamente questo tipo di azione. C’è chi ritrova l’esistenza di tale forma di tutela
tramite l’azione di accertamento nell’art.100 cpc – interesse ad agire, a mente del quale
“per proporre una domanda è necessario avervi interesse”.
Art. 100. (Interesse ad agire)
Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse.
Logica vuole che se è necessario l’interesse, e di questo solo si parla nel disposto, questo è
sufficiente a proporre una domanda di accertamento. Questa lettura risulta però
arbitraria: la norma, infatti, si limita a disporre che non si può agire inutilmente davanti al
giudice e che per poter adire la giustizia è necessario che se ne abbia bisogno. In altre
parole, l’art.100 cpc ci dice solo che l’interesse è necessario, non che è sufficiente. Per
questo motivo dobbiamo spostare la nostra ricerca nel Codice civile, nel quale esistono
disposizioni che fanno riferimento all’azione di accertamento, soprattutto nel campo dei
diritti reali, dove l’ordinamento ritiene ammissibile l’azione di accertamento in relazione a
situazioni giuridiche che si svolgono fuori dalla collaborazione di altri soggetti (il
proprietario del diritto reale gode del diritto immediatamente e gli altri devono astenersi
dal recargli molestia). Leggiamo l’art.949 cc – azione negatoria.
Art. 949 Codice Civile. Azione negatoria.
Il proprietario può agire per far dichiarare l'inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando
ha motivo di temerne pregiudizio.
Se sussistono anche turbative o molestie, il proprietario può chiedere che se ne ordini la
cessazione, oltre la condanna al risarcimento del danno.
La tutela prevista in questa ipotesi è coordinata ad atti di terzi lesivi dei quali si chiede la
cessazione, oltre all’eventuale risarcimento dei danni; in tal modo, il giudice non potrebbe
limitarsi ad accertare l’esistenza di tali atti e dovrebbe pronunciare anche un
provvedimento di condanna. Ad ogni modo è possibile che la parte si limiti solo a richiedere
l’accertamento del fatto lesivo.

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Dove, invece, l’ammissibilità dell’azione di accertamento generale sembra non reggere è


nel campo dei diritti di credito, dove la situazione giuridica conforme al diritto deve
svolgersi con la collaborazione del soggetto obbligato, così che la tutela sembra evocabile
solo al fine di realizzare coattivamente ciò che l’obbligato non ha voluto adempiere
spontaneamente. In altre parole, solo la legge potrebbe ammettere, in questo settore,
l’azione di accertamento, perché il creditore insoddisfatto di regola deve chiedere la
condanna del suo debitore. Per la stessa ragione la legge ammette l’azione di
accertamento quando si tratta di stabilire la non esistenza di un diritto o di una situazione
giuridica. Ad ogni modo, anche se mancano dati testuali utili ad una soluzione certa, ve ne
sono abbastanza per poter sostenere che il nostro sistema è compatibile con una azione
generale di accertamento. A nostro parere, il problema dell’azione in esame diventa
quello dei requisiti che deve possedere la situazione di incertezza perché possa dare vita
ad un processo; in primo luogo, si deve trattare di una incertezza che riguardi diritti o
situazioni giuridiche; in secondo luogo, l’incertezza deve essere non meramente ipotetica.
La conferma di questo la troviamo nelle disposizioni che disciplinano sicuramente l’azione
di accertamento. Nell’art.949 cc “il proprietario può agire per far dichiarare l’inesistenza di
diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio”; per questa
disposizione è necessario che vi sia una controversia in atto e che da questa possa derivare
un pregiudizio per l’attore. Crediamo di poter generalizzare il nucleo essenziale di questa
disposizione. È qui che risiede il delicatissimo compito della giurisprudenza, ovvero quello
di cogliere le situazioni meritevoli di tutela con l’azione di accertamento; stabilire quando è
che si versa in una situazione di incertezza tale da legittimare il ricorso alla tutela
giurisdizionale.

L’azione di condanna – abbiamo visto che quando si agisce in via di accertamento si


deduce nel processo una situazione giuridica assoluta. Alla base dell’azione di condanna,
invece, c’è un diritto di credito non soddisfatto contro il quale vi è un obbligo che non è
stato spontaneamente adempiuto. In questa situazione il giudice dovrà accertare
l’esistenza dei presupposti alla base della domanda ed emanare un provvedimento che
non solo riconosca tale situazione ma che imponga anche all’altra parte di adempiere alla
obbligazione di cui è debitrice. In pratica, la sentenza di condanna non servirebbe a nulla
se non fosse anche esecutiva nel caso in cui il debitore continui a non adempiere. Questa è
la ragione per cui il legislatore tende a potenziare l’efficacia degli strumenti di tutela, anche
con mezzi di coercizione indiretta, che spingano il debitore ad adempiere spontaneamente
per evitare conseguenza svantaggiose collegate alla sua inadempienza.
A nostro avviso la tutela prevista dal codice è soddisfacente quando si tratta di dare
esecuzione a crediti già definiti e liquidati. Al contrario di quanto succede nel caso in cui il
giudice emetta ingiunzioni (che riguardano comportamenti del debitore futuri e continuati
nel tempo) oppure condanne a facere infungibili (cose che deve fare per forza il debitore
personalmente).
Per colmare la lacuna il legislatore nel 2009 ha introdotto l’art.614 bis cpc – attuazione
degli obblighi di fare infungibili e di non fare, rafforzando così notevolmente la tutela di
condanna.
Art. 614-bis. (Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare)
Con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su
richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza
successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di
condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o

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inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro
subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui
all’articolo 409.
Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della
controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra
circostanza utile.
La possibilità di esecuzione non significa però che tutte le sentenze di condanna siano
esecutive. Per il nostro codice le sentenze di condanna, anche se di primo grado, sono
normalmente esecutive, mentre in precedenza non lo erano.
Alle sentenze di condanna l’ordinamento collega altre due utilità:
1. la sentenza di condanna è titolo per iscrivere ipoteca giudiziale sui beni del
debitore exart.2818 cc;
2. la sentenza di condanna trasforma le prescrizioni brevi in lunghe ex art.2953 cc.
Accanto alla condanna vera e propria, il codice prevede una sentenza di carattere
particolare, la sentenza di condanna generica, con la quale il giudice riconosce l’an
debeatur (se è dovuto qualcosa), ma non determina il quantum debeatur (quanto è
dovuto), ipotesi disciplinata all’art.278 cpc – condanna generica. Provvisionale.

Art. 278. (Condanna generica. Provvisionale)


Quando è già accertata la sussistenza di un diritto, ma è ancora controversa la quantità della
prestazione dovuta, il collegio, su istanza di parte, può limitarsi a pronunciare con sentenza la
condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la
liquidazione.
In tal caso il collegio, con la stessa sentenza e sempre su istanza di parte, può altresì condannare il
debitore al pagamento di una provvisionale, nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la
prova.
In pratica, la situazione è la seguente: si agisce in giudizio per ottenere la condanna
dell’obbligato ma, essendo sorte nel corso del processo difficoltà nella determinazione del
quantum, si chiede provvisoriamente l’emanazione di una sentenza parziale e non
definitiva sull’an, mentre il processo prosegue per la determinazione del quantum.
Addirittura, la prassi ha ampliato le potenzialità applicative dell’art.278 cpc, ammettendo
che l’attore possa iniziare il processo per chiedere la condanna generica, per poi chiedere
in un successivo processo la liquidazione del quantum. Ci si è chiesti se la condanna
generica produce gli effetti della sentenza di condanna vera e propria e la riposta è
negativa, ovvero non può essere esecutiva dal momento che, a norma dell’art.474
1°comma cpc – titolo esecutivo, il titolo per essere esecutivo deve rappresentare un
credito certo, liquido ed esigibile, mentre nel nostro caso il credito è certo perché è stato
fissatodal giudice, ma non ancora liquido e non ancora esigibile
Art. 474. (Titolo esecutivo)
L'esecuzione forzata non può avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo,
liquido ed esigibile. Sono titoli esecutivi:
-le sentenze, i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia
esecutiva;
-le scritture private autenticate, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esse
contenute, le cambiali, nonché gli altri titoli di credito ai quali la legge attribuisce espressamente la
sua stessa efficacia;

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-gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli.
L'esecuzione forzata per consegna o rilascio non può aver luogo che in virtù dei titoli esecutivi di
cui ai numeri 1) e 3) del secondo comma. Il precetto deve contenere trascrizione integrale, ai sensi
dell'articolo 480, secondo comma, delle scritture private autenticate di cui al numero 2) del
secondo comma.
Un ultimo problema sta riguardo il tempo in cui nasce l’interesse ad iniziare un processo. Si
deve aspettare che l’obbligo sia inadempiuto o l’azione si può proporre anche prima e in
previsione dell’inadempimento? Rispondere positivamente significherebbe ammettere la
condanne in futuro ma il nostro ordinamento manca di precisi riferimenti. Per questa
ragione l’azione di condanna in futuro sembra ammissibile solo nei casi previsti dalla
legge, come nell’ipotesi all’art.657 1°comma cpc - intimazione di licenza per finita
locazione che tratta del procedimento con il quale il locatore o il concedente intima il
rilascio dell'immobile manifestando, prima della scadenza del contratto, la volontà di non
rinnovarlo e di riottenere, così, la disponibilità del bene alla scadenza del rapporto
contrattuale. Il locatore o il concedente utilizzano tale procedimento giudiziale al fine di
ottenere la pronuncia di una sentenza utilizzabile in futuro, qualora alla scadenza del
contratto, il conduttore non rilasci spontaneamente l'immobile.

L’azione costitutiva – questa, a differenza delle azioni di accertamento e di condanna, è


disciplinata dalla legge, infatti l’art.2908 cc – effetti costitutivi delle sentenze stabilisce che
“nei casi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere
rapporti giuridici”.
Art. 2908 Codice Civile Effetti costitutivi delle sentenze.
Nei casi previsti dalla legge, l'autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti
giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa.
In pratica la legge dà al giudice il potere di intervenire sulla situazione giuridica di un
soggetto limitando così la sfera della sua autonomia privata. Con l’azione costitutiva si fa
valere un potere o un diritto potestativo in virtù del quale il soggetto è in grado di
provocare effetti sulla situazione giuridica di un altro soggetto a prescindere dalla
collaborazione di quest’ultimo.
Tra i casi dell’azione costitutiva si è soliti segnalare quello previsto dall’art.2932 cc –
esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, sull’esecuzione dell’obbligo
di contrarre assuntocon un contratto preliminare.

Art. 2932 Codice Civile. Esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto.


Se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l'altra parte,
qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti
del contratto non concluso.
Se si tratta di contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa
determinata o la costituzione o il trasferimento di un altro diritto, la domanda non può essere
accolta, se la parte che l'ha proposta non esegue la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di
legge, a meno che la prestazione non sia ancora esigibile.
Il caso è quello dei contraenti che con un contratto preliminare si siano obbligati a
concludere un contratto definitivo, ad esempio una compravendita, tutte le volte in cui
uno dei contraenti non voglia poi spontaneamente addivenire alla stipulazione del
contratto definitivo. In questo caso, il giudice deve emanare una sentenza che faccia le veci
del contratto definitivo non concluso e, pertanto, non condannerà la parte inadempiente a

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concludere il contratto, ma disporrà direttamente gli effetti del contratto definitivo;


nell’esempio della compravendita traferirà il bene dal venditore al compratore alle
condizioni pattuite.

4.Le c.d. condizioni dell’azione.


Interesse ad agire. L’art.100 cpc – interesse ad agire prevede che “per proporre una
domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse”. Quindi appare chiaro
che per agire davanti al giudice, non basta affermarsi titolari di una situazione giuridica ma
è necessario che vi sia un interesse. Allora occorre capire la sostanza di tale interesse.
Nelle azioni costitutive, quelle ammesse nei casi previsti dalla legge, quello che occorre è
che si sia realizzata l’ipotesi legislativa e non sembra necessario altro. Facciamo l’esempio
dell’art.119 cc – interdizione che prevede l’annullabilità del matrimonio per interdizione.
Art. 119 Codice Civile. Interdizione.
Il matrimonio di chi è stato interdetto per infermità di mente può essere impugnato dal tutore, dal
pubblico ministero e da tutti coloro che abbiano un interesse legittimo se, al tempo del
matrimonio, vi era già sentenza di interdizione passata in giudicato, ovvero se la interdizione è
stata pronunziata posteriormente ma l'infermità esisteva al tempo del matrimonio. Può essere
impugnato, dopo revocata l'interdizione, anche dalla persona che era interdetta.
L'azione non può essere proposta se, dopo revocata l'interdizione, vi è stata coabitazione per un
anno.
Se il giudice ritiene che si sia realizzata l’ipotesi, annulla il matrimonio; se non la ritiene
realizzata, rigetta la domanda non perché manca l’interesse, ma perché manca il diritto.
Nelle azioni di condanna, l’interesse forse ha uno spazio maggiore perché siamo fuori dalle
ipotesi tipiche di legge, dal momento che tale azione ha carattere generale. Basta, come
abbiamo visto, che vi siano un diritto di credito insoddisfatto e un obbligo inadempiuto. Se
si ha riguardo alla situazione standard dell’azione di condanna notiamo che è sempre
uguale e, quindi, l’interesse finisce col diventare irrilevante anche se esistente, dal
momento che la proposizione dell’azione è giustificata dal credito insoddisfatto cui
corrisponde l’obbligo inadempiuto.
Nelle azioni di accertamento l’interesse gioca un ruolo di enorme importanza,
concorrendo a definire quando il ricorso al giudice non è una inutile provocazione. Questa
valutazione va fatta sulla base della prospettazione, perché può esservi interesse ma poi
l’istanza può risultare infondata nel merito, e può essere operata in ogni stato e grado del
processo, salvo il caso in cui si sia formato un giudicato.

La legittimazione ad agire. È opportuno partire da un esempio: l’attore chiede la condanna


del convenuto al pagamento di una somma di danaro, assumendo di esserne creditore.
Dobbiamo tenere distinti due aspetti: la reale esistenza del credito e la possibilità che il
provvedimento richiesto sia emanato producendo effetti per l’attore e per il convenuto. È
già in questo momento che il giudice deve chiedersi se il provvedimento richiesto,
ammesso che sia fondata la domanda giudiziale, possa essere concesso a favore dell’attore
e contro il convenuto. Se la risposta è positiva, possiamo dire che la domanda è stata
proposta da persona legittimata (attivamente) e contro persona legittimata
(passivamente).
Di solito chi propone la domanda assume di essere titolare del diritto ed assume anche che
colui contro il quale la domanda è proposta è titolare della posizione giuridica passiva.
Questo basta perché l’attore sia legittimato attivo e il convenuto legittimato passivo.
La legittimazione è un problema, quindi, che coincide con quello dei destinatari del

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provvedimento giudiziale ed è regolato indirettamente, dal punto di vista attivo,


dall’art.81 cpc – sostituzione processuale, e dal punto di vista passivo, dall’art.102 cpc –
litisconsorzio necessario.
Art. 81. (Sostituzione processuale)
Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome
proprio un diritto altrui.
Art. 102. (Litisconsorzio necessario)
Se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere
convenute nello stesso processo.
Se questo è promosso da alcune o contro alcune soltanto di esse, il giudice ordina l'integrazionedel
contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito.
Dalla prima disposizione si ricava che le ipotesi in cui l’azione può essere proposta da chi
non assume di essere titolare del diritto azionato sono eccezionali, ovvero devono essere
previsti per legge e si tratta delle ipotesi di sostituzione processuale. Dalla seconda
disposizione si ricava che il processo non può pervenire ad un provvedimento sul merito
della pretesa se non sia stato convenuto in giudizio il destinatario (o i destinatari) del
provvedimento giurisdizionale.

La possibilità del provvedimento richiesto e l’esistenza del diritto. Il giudice, prima di


esaminare se esiste o non il diritto dedotto in giudizio, deve risolvere una serie di problemi,
che non sono di carattere processuale e che consentono di passare alla trattazione del
merito. Le decisioni che ritengono inesistenti tali condizioni non precludono la possibilità di
riproporre, quando tali condizioni si siano verificate, una nuova e identica domanda.

5.L’azione esecutiva.
Abbiamo visto che la sentenza di condanna, oltre ad accertare l’esistenza del credito
azionato, offre la possibilità all’attore di ottenere la soddisfazione del proprio diritto.
Possibilità di ottenere soddisfazione non vuol dire soddisfazione: se l’attore era creditore
di una somma di danaro, con la sentenza di condanna non avrà ottenuto il danaro, ma solo
il diritto ad ottenerlo. L’ordinamento ha dovuto perciò prevedere un meccanismo,
utilizzando il quale il creditore possa tradurre in atto la potenzialità espressa nella
sentenza di condanna. Questa è l’azione esecutiva, che si pone come necessario
completamento della tutela assicurata con l’azione di condanna, la quale risulta non
essere autosufficiente, poiché non consente al soggetto di conseguire il bene che voleva
conseguire attraverso il processo.
Anche se l’azione esecutiva è completamento necessario al processo di condanna, tuttavia
non ne è necessariamente vincolata, dal momento che il nostro ordinamento prevede altre
possibilità di ricorso al processo di esecuzione senza il preventivo passaggio attraverso il
processo di cognizione. Il legislatore riconosce efficacia esecutiva a provvedimenti diversi
dalla sentenza con la valutazioneoperata all’art.474 cpc – titolo esecutivo. (pag. 51)
Il titolo esecutivo è il presupposto essenziale perché si possa procedere ad esecuzione
forzata.Questa norma, oltre alle sentenze, attribuisce efficacia esecutiva:
1. ai provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente
efficaciaesecutiva;
2. le scritture private autenticate, cambiali, altri titoli ai quali la legge attribuisce
espressamente la stessa efficacia;
3. gli atti ricevuti da notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli.

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L’intervento del legislatore è creativo, visto che l’elenco potrebbe poi essere integrato da
altri titoli, purchè la legge gli ricolleghi l’efficacia necessaria.
Questa precisazione ci porta ad escludere che i provvedimenti cautelari possano essere
consideratititoli esecutivi, dato che sono emessi in base ad una cognizione sommaria e non
riguardano diritti “certi” (mentre il titolo esecutivo ha per oggetto “crediti certi”).
Al tempo stesso è evidente che se questi provvedimenti non potessero essere portati ad
esecuzione, verrebbe meno la funzione per la quale sono stati creati. Per questo motivo il
legislatore nel 1990 è intervenuto con l’art.669 duodecies cpc – attuazione, con
il quale “l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto somme di denaro avviene
nelle forme degli articoli 491 e seguenti in quanto compatibili”.
Art. 669-duodecies.(Attuazione)
Salvo quanto disposto dagli articoli 677 e seguenti in ordine ai sequestri, l'attuazione delle misure
cautelari aventi ad oggetto somme di denaro avviene nelle forme degli articoli 491 e seguenti in
quanto compatibili, mentre l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di
consegna, rilascio, fare o non fare avviene sotto il controllo del giudice che ha emanato il
provvedimento cautelare il quale ne determina anche le modalità di attuazione e, ove sorgano
difficoltà o contestazioni, dà con ordinanza i provvedimenti opportuni, sentite le parti. Ogni altra
questione va proposta nel giudizio di merito.
Art. 491. (Inizio dell'espropriazione)
Salva l'ipotesi prevista nell'art. 502, l'espropriazione forzata si inizia col pignoramento.

6. La tutela cautelare e i procedimenti sommari.


Nel nostro ordinamento le azioni cautelari sono disciplinate nel Libro IV agli artt.669 bis ss.
L’azione cautelare è subordinata essenzialmente a due condizioni:
1. è necessario dimostrare che il diritto sostanziale, che si vuole cautelare, molto
probabilmente esiste;
2. è necessario provare che nel tempo necessario per ottenere un provvedimento
definitivo si possono verificare pregiudizi alla situazione giuridica o di fatto del
soggetto interessato al provvedimento stesso.
La funzione dell’azione tende all’emanazione di provvedimenti che hanno per scopo quello
di assicurare la situazione di fatto e/o di diritto come è attualmente, in vista di un futuro
provvedimento di cognizione o di un futuro provvedimento esecutivo.
L’indagine del giudice in ordine all’esistenza del diritto che si intende proteggere è
necessariamente sommaria, perché se fosse una indagine completa ed esauriente il
procedimento cautelare coinciderebbe con il procedimento di merito: il giudice dovrà
limitarsi ad accertare che il diritto ha buone probabilità di essere riconosciuto esistente dal
giudice della cognizione. Il giudice, inoltre, deve anche rendersi conto che il pericolo esiste
realmente e cioè che esistono rilevanti possibilità che si abbiano i temuti mutamenti della
situazione materiale e/o giuridica.
Accenniamo qualcosa ai c.d. provvedimenti d’urgenza che possono essere concessi alle
seguenti condizioni:
1. quando non sia possibile il ricorso ad altra azione cautelare (hanno quindi carattere
sussidiario);
2. quando si ha il fondato motivo di temere che, durante il tempo occorrente per far
valere il diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio “imminente
ed irreparabile”.
Hanno per definizione carattere atipico e devono essere eccezionali, ossia utilizzabili

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raramente. Ciò risulta anche chiaro dal fatto che essi sono collegati a una condizione assai
rigorosa, ossia al pregiudizio imminente e irreparabile. Nei primi tempi tale giudizio
praticamente non si verificava mai, dal momento che non si vedevano situazioni che non
potessero essere riparate; anche in casodi danno era previsto comunque il risarcimento. Si
è iniziato ad osservare che quando il pregiudizio riguarda la persona o un diritto della
personalità, il ristoro del risarcimento del danno in forma pecuniaria, non riusciva ad
essere pienamente satisfattivo. Per queste ragioni si è pensato ad un ampliamento della
sfera di applicazione, in particolare nell’ambito del processo del lavoro, dove le
controversie si protraevano per lungo tempo e i lavoratori erano costretti ad accettare
transazioni da fame. Ne deriva che anche quando il lavoratore fa valere un diritto di
credito avente per oggetto somme di danaro, questo diritto deve essere soddisfatto
prontamente, perché destinato a consentire al lavoratore e alla sua famiglia una esistenza
“libera e dignitosa”. La mancata tempestiva soddisfazione del diritto, quindi, non può mai
essere interamente riparata con il risarcimento dei danni e dà vita ad un pregiudizio
“irreparabile”. È stato così che in questi ultimi anni si è sempre più frequentemente
ammesso il ricorso al provvedimento di urgenza anche nel campo delle controversie di
lavoro.
La conseguenza, però, è che la linea di demarcazione tra le misure cautelari e i
provvedimenti sommari si è resa assai incerta. L’unico tratto differenziale sta nel
persistente collegamento tra la misura cautelare e il successivo giudizio di merito, che nei
procedimenti di tipo sommario di regolamanca.

7. Le attività del convenuto.


Vediamo ora quali sono i poteri riconosciuti dall’ordinamento al convenuto nel corso del
processo. La contumacia. Questo è il caso in cui il convenuto, per un qualsiasi motivo,
decide di non costituirsi in giudizio e di non presentarsi dinanzi al giudice. Il legislatore è del
tutto indifferente a tale atteggiamento. Il convenuto è padrone di rimanere contumace;
l’attore deve fornire la prova del suo diritto e se non assolve a tale onere la domanda deve
essere rigettata. La contumacia può essere equiparata alla mancata comparizione
personale, che costituisce “un comportamento valutabile dal giudice ai fini della decisione”
e quindi argomento di prova deducibile “dal contegno delle parti al processo”.
L’assenza. Il convenuto si costituisce dichiarando di aver ricevuto notizia della lite e di voler
resistere ad essa tuttavia, dopo questa attività iniziale, rimane inerte e non compare più
dinanzi al giudice. La situazione non è molto dissimile dalla ipotesi della contumacia.
La contestazione della domanda. Il convenuto, oltre a costituirsi ed a essere presente,
svolge ulteriori attività processuali, contesta che i fatti dell’attore siano in tutto o in parte
veri e nega che siano comunque idonei a produrre le conseguenze da questo volute.
L’attore così riuscirà ad avere ragione solo se darà sufficiente prova dei fatti che sono alla
base della sua pretesa e/o riuscirà a convincere il giudice che le conseguenze collegate ad
essi sono quelle esatte. Probabilmente si avrà un dibattito probatorio, nel corso del quale
il convenuto si industrierà a portare prove contrarie all’assunto dell’attore. Sarà poi il
giudice a dover valutare le prove addotte dall’una e dall’altra parte.
L’eccezione. Solitamente, il convenuto non si limita a negare la pretesa dell’attore, ma
introduce nel processo altri fatti che arricchiscono la vicenda prospettata dall’attore. Di
questi fatti, alcuni sono rilevanti, altri non lo sono. Per capire cerchiamo di proporre un
esempio: l’attore sostiene di aver dato in prestito 5.000 euro al convenuto nel gennaio del
2007, il convenuto risponde di aver conosciuto l’attore solo nel giugno del 2007. Questo
fatto non è rilevante, ma soltanto strumentale perché se provato renderebbe impossibile

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l’assunto dell’attore (fatto secondario); se invece risponde di aver pagato, allega un fatto
rilevante che, se provato, ha l’effetto immediato di estinguere quello addotto dall’attore
(fatto principale). In queste ipotesi si dice che il convenuto allega delle eccezioni che,
senza modificare il tema decisionale fissato dall’originaria domanda, arricchiscono la
vicenda storica concretandosi in circostanze che hanno l’efficacia di estinguere, modificare
o impedire quella dei fatti dedotti nel processo dal primo. In tal modo, la nozione di
eccezione finisce con l’essere ricavata dall’art.2697 cc – onere della prova, cosicchè
l’onere di allegazione tendenzialmente si modella sull’onere della prova.
Art. 2697 Codice Civile. Onere della prova.
Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve
provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.
L’attore, infatti, nel narrare la vicenda che ha dato origine alla controversia si limita
solitamente ad esporre i fatti costitutivi della pretesa. Una volta che la domanda sia stata
concepita nei suoi termini essenziali, le vicende ulteriori che mirano a far venir meno
l’efficacia del fatto costitutivo, a modificarla o a paralizzarla costituiscono eccezioni, della cui
prova è onerata la parte che le allega. Esistono anche eccezioni rilevabili d’ufficio e l’eccezione
di pagamento è tradizionalmente tra queste. In altri termini, anche se la parte interessata non
dovesse dedurre l’avvenuto pagamento, qualora dagli atti di causa dovesse emergere che il
credito è stato soddisfatto, il giudice dovrebbe rigettare la domanda. Bisogna fare attenzione:
il giudice non può fare uso della sua scienza privata, per cui non può rigettare la domanda se sa
personalmente che il debito è stato pagato.
La domanda riconvenzionale. Con l’eccezione il convenuto arricchisce il fatto sul quale il
giudice deve giudicare restando nel rapporto o nella situazione giuridica dedotta
dall’attore, ma nulla esclude il fatto che possa allegare circostanze che introducano nel
processo un nuovo rapporto o una nuova situazione giuridica collegata con quella dedotta
nell’atto introduttivo. In questi casi il convenuto propone domanda riconvenzionale.
Procediamo con un esempio: l’attore agisce per ottenere una somma di danaro; il
convenuto oppone un controcredito di importo maggiore; se questi, sulla base del dedotto
controcredito, chiede che il giudice condanni l’attore al pagamento della differenza,
introduce nel processo una nuova situazione giuridica sulla quale chiede un autonomo
provvedimento (proponendo, appunto, una domanda riconvenzionale).
Il convenuto, a ben vedere, ha approfittato della pendenza del processo per introdurvi una
propria azione, che avrebbe potuto anche esercitare in via autonoma. Questo è reso
possibile dal fatto che fra la domanda originaria e quella successiva esiste un collegamento
ex art.36 cpc – cause riconvenzionali.

Art. 36. (Cause riconvenzionali)


Il giudice competente per la causa principale conosce anche delle domande riconvenzionali che
dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall'attore o da quello che già appartiene alla causa come
mezzo di eccezione, purché non eccedano la sua competenza per materia o valore; altrimenti
applica le disposizioni dei due articoli precedenti.
L’accertamento incidentale. L'accertamento incidentale regolato dall'art.34 cpc –
accertamenti incidentali, è un argomento essenziale, in quanto fa luce sul fatto che i diritti
sono spesso connessi tra di loro in maniera del tutto particolare, ovvero attraverso il c.d.
vincolo di pregiudizialità- dipendenza.
Questa situazione produce delle profonde conseguenze dal punto di vista processuale,

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perché se un giudice viene a conoscenza che un altro giudice civile sta trattando una
questione pregiudiziale rispetto a quella dedotta nel suo giudizio, deve sospendere il
giudizio in corso, ed attendere l'esito della causa relativa alla questione pregiudiziale.
Art. 34. (Accertamenti incidentali)
Il giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con
efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla
competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest'ultimo, assegnando alle parti un
termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui.
L'art.34 cpc – accertamenti incidentali si riferisce all'ipotesi in cui la questione
pregiudiziale si presenti davanti allo stesso giudice che sta trattando la questione
dipendente, e quindi all'ipotesi in cui il convenuto chiede che la questione sia risolta con
efficacia di giudicato, oppure nel caso in cui la legge imponga al giudice di risolvere tale
questione con efficacia di giudicato. In questi casi se si tratta di vera pregiudizialità, il
giudice dovrà necessariamente sospendere la questione dipendente, e iniziare una nuova
causa sulla questione pregiudiziale. Viene da chiedersi, però, che differenza c'è tra una
questione pregiudiziale che porta ad un accertamento incidentale, e una normale
questione che, seppure pregiudiziale, non è un accertamento incidentale e quindi non
conduce alla sospensione processo. È bene quindi chiarire questo punto: dobbiamo dire
che non tutti i punti che il giudice deve superare per giungere alla decisione sono
considerati allo stesso modo.
Nell’iter logico che il giudice deve seguire per giungere alla decisione si distinguono tre
attività;
1) punti pregiudiziali: sono tutte le situazioni che il giudice deve fissare nella sentenza per
giungere alla decisione finale (che sarà enunciata nel dispositivo) senza che su di essa vi sia
stata contestazione tra le parti.
2) le questioni: sono quei punti che devono essere risolti dal giudice per giungere alla
decisione finale ma che, a differenza del primo caso, sono stati oggetto di controversia tra
le parti.
3) gli accertamenti incidentali: si hanno quando le parti non solo non sono d’accordo su
una questione (e quindi su un punto controverso) ma chiedono che il giudice la isoli dalle
altre e chiedendo che sia oggetto di una decisione automa anche se collegata, per il suo
carattere pregiudiziale, alla controversia originaria.
Attenzione però! La questione si trasforma in accertamento incidentale solo se le parti (o
la legge) chiedono che quel fatto venga deciso con efficacia di giudicato e non conservi
efficacia interna al processo.
L’accertamento negativo. L'accertamento può anche essere in negativo. È ovvio che, se il
giudice rigetta la domanda nella quale l'attore si è affermato titolare di un diritto, il
contenuto dell'accertamento consisterà in una negazione, in quanto, appunto, mancando
la prova del diritto affermato, la sentenza ne negherà l'esistenza. Ma, è anche possibile che
lo stesso attore miri ad una negazione, ossia che egli nella domanda non si affermi titolare
di un diritto, ma affermi l'inesistenza di un diritto del convenuto.
Anche qui, a monte della vicenda processuale, c'è la provocazione dell'incertezza in
riferimento ad una realtà giuridica, ma ciò è avvenuto in termini diversi da quelli descritti
sopra, perché colui che è citato in giudizio, lungi dal negare il diritto dell'altro, si è, invece,
affermato titolare di un diritto nei suoi confronti.
Il presupposto dell'azione non è, dunque, la contestazione di un diritto, ma il vanto: Tizio,
futuro convenuto, non contesta il diritto di Caio, futuro attore, ma si vanta di avere nei
suoi confronti un diritto. Ecco che, allora, Caio subisce un'intromissione nella sua sfera

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giuridica, perché, in virtù di fatti tangibili, Tizio pretende di assoggettarlo all'esistenza di


una sua situazione giuridica so- stanziale ed ecco che può egli esercitare un'azione di mero
accertamento negativo. Un esempio è il caso previsto dalla legge nell'art.949 Codice Civile
, della c.d. negatoria servitutis, nella quale il proprietario “può agire per far dichiarare
l'inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne
pregiudizio”.

Art. 949 Codice Civile. Azione negatoria.


Il proprietario può agire per far dichiarare l'inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando
ha motivo di temerne pregiudizio.
Se sussistono anche turbative o molestie, il proprietario può chiedere che se ne ordini la
cessazione, oltre la condanna al risarcimento del danno.
In definitiva, la domanda rivolta ad ottenere la tutela di mero accertamento può contenere
l'affermazione di un diritto di chi agisce o la negazione di un diritto di colui contro il quale si
agisce.

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CAPITOLO 6-LE PARTI


1.La capacità di essere parte e la capacità processuale.
La capacità di essere parte. È capace di essere parte chi è soggetto di diritto, così che la
capacità di essere parte finisce con l’essere la trasposizione della capacità giuridica sulla
quale è possibile modellarla, visto che il legislatore non dedica alcuna disposizione
espressa nel codice di rito. Oltre che per le persone fisiche, stesso discorso vale anche per
le persone giuridiche le quali, tramite rappresentanti, sono capaci di essere parti nel
processo e che, quindi, sono trattate come autonomi soggetti di diritto.
La capacità processuale. Non è detto che chi è capace di essere parte sia anche capace di
stare in giudizio, dato che capacità di essere parte e capacità processuale sono concetti
distinti anche se collegati. Anche in questo caso possiamo fare riferimento al diritto
sostanziale, formulando una sorta di equazione che ci aiuta a comprendere il problema. La
capacità giuridica sta alla capacità di essere parte, come la capacità di agire sta alla
capacità processuale. In questo modo, possiamo dire che la capacità processuale è la
capacità di agire nel processo, essendo parte di esso.
Capacità giuridica - capacità di essere parte = capacità di agire - capacità processuale
Il discorso fatto fino a ora serve ad affrontare i problemi ad esso collegato. Il pericolo che
sta in ogni lite è che il processo inizi e magari sia proseguito da un soggetto che non è
processualmente capace o da chi non la legale rappresentanza. Per evitare questo il
legislatore ha imposto al giudice di esaminare i problemi relativi alla capacità processuale
delle parti sin dalla prima udienza.
Nel 2009 è stato riscritto l’art.182 cpc – difetto di rappresentanza o di autorizzazione, con
il quale il giudice deve disporre la sanatoria nel caso in cui rilevi un vizio in materia,
assegnando alle parti un termine perentorio che salva gli effetti sostanziali e processuali
della domanda con effetto retroattivo pieno, ovvero fin dal momento della prima
notificazione.

Art. 182. (Difetto di rappresentanza o di autorizzazione)


Il giudice istruttore verifica d’ufficio la regolarità della costituzione delle parti e, quando occorre, le
invita a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi.
Quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che
determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio
per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio
delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione
della stessa. L’osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della
domanda si producono fin dal momento della prima notificazione.

2. La rappresentanza processuale e la negotiorum gestio processuale.


Solitamente la parte sta nel processo personalmente, tuttavia può avvenire che debba
servirsi dell’intermediazione di un altro soggetto (rappresentanza legale o necessaria) o
che voglia servirsene (rappresentanza volontaria). La prima ipotesi riguarda i casi dei
soggetti che, pur essendo capaci di essere parti, sono sfornite della capacità processuale
(minori, interdetti, etc.).
La seconda ipotesi si verifica quando un soggetto, per una serie di ragioni ma senza alcuna
necessità, dà incarico ad un altro soggetto di stare in giudizio in suo nome e per suo conto.
Prima le figure erano due, ovvero l’avvocato difensore e il procuratore legale. Oggi la
seconda figura è stata soppressa e, anche se alcune disposizioni continuano a nominarlo,
occorre farlo confluire nel magistero del difensore legale. Un’ultima precisazione da fare è

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che anche se siamo portati a pensare che sia necessario stare in giudizio con un difensore,
in realtà se ne può anche fare a meno; la funzione di rappresentanza di cui stiamo
parlando è di carattere strettamente tecnico, legata alla necessità o all’opportunità che la
parte abbia a disposizione qualcuno che, in un certo senso, parli la stessa lingua del
giudice, e nulla ha a che vedere con la rappresentanza volontaria. Per comprendere
meglio la differenza procediamo con un esempio: Tizio, emigrato all’estero, ha lasciato
beni al suo paese, che devono essere amministrati; quindi, ha concesso la procura a
persona di sua fiducia; nel caso in cui debba iniziare un processo o debba costituirsi come
convenuto, potrà iniziare il processo o costituirsi se sarà munito anche di procura
processuale e, quindi, si rivolgerà ad un avvocato che lo rappresenti dinanzi al giudice e
che lo assista.
Anche se il nostro sistema favorisce e preferisce che in giudizio si stia personalmente,
questa eventualità è prevista nel codice di rito all’art.77 cpc – rappresentanza del
procuratore e dell’institore, che cerca di ridurre l’ambito nel quale l’istituto è destinato ad
operare. Infatti, non pochi sono i casi giurisprudenziali del falsus procurator, così che sono
richieste dalla legge prescrizioni essenziali.

Art. 77. (Rappresentanza del procuratore e dell'institore)


Il procuratore generale e quello preposto a determinati affari non possono stare in giudizio per il
preponente, quando questo potere non è stato loro conferito espressamente per iscritto, tranne
che per gli atti urgenti e per le misure cautelari.
Tale potere si presume conferito al procuratore generale di chi non ha residenza o domicilio nello
Stato e all'institore
Quindi notiamo che gli aspetti fondamentali sono due: la procura deve essere conferita
per iscritto e deve essere limitata alla rappresentanza sostanziale, mentre la salvezza è nel
disposto secondo il quale può stare in giudizio anche senza procura per gli atti urgenti e le
misure cautelari, urgenti oggettivamente però quindi che non dipendano dal
comportamento del rappresentante.
Alla fine potremmo pensare che il terzo, abbia o no la rappresentanza sostanziale, sia
autorizzato a comportarsi come un gestori di affari altrui e che possa agire
processualmente solo per il fatto di essersi dato cura degli interessi di un’altra persona; ma
proprio il riferimento alla natura dell’urgenza di cui sopra, che legittima il rappresentante
sostanziale ad agire nel processo senza procura, è la base per escludere l’ammissibilità
della negotiorum gestio processuale.
Per le stesse ragioni dobbiamo assolutamente escludere la possibilità di un mandato senza
rappresentanza, che rischierebbe di dar vita ad un processo che non si sa bene contro chi
produrrà effetti e celebrato senza la partecipazione del vero interessato. In pratica, non
possiamo alterare uno dei principi fondamentali del processo quale è quello del
contraddittorio.

3.La sostituzione processuale.


Rappresentanza processuale – il rappresentante agisce in nome e per conto del rappresentato.
Sostituzione processuale – il sostituto agisce in nome proprio e per conto del sostituito.
Vista la differenza fondamentale, si capisce perché le ipotesi di sostituzione processuale
non possono che essere tipiche e quindi eccezionali. Ricordiamo un attimo quanto disposto
dall’art.24 Costituzione. Questo principio stabilisce la correlazione necessaria tra la
titolarità dell’azione e la titolarità della situazione sostanziale, e appare chiaro come la
sostituzione processuale operi una specie di deroga. Per questo motivo, le ipotesi di
sostituzione processuale non possono essere una creazione della giurisprudenza, ma

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devono necessariamente risultare dalla legge; infatti, collegato al disposto costituzionale


appena richiamato, poniamo l’art.81 cpc – sostituzione processuale, il quale stabilisce:
Art. 81. (Sostituzione processuale)
Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome
proprio un diritto altrui.
Da questo emerge la tassatività della previsione secondo la legge ma, se leggiamo i due
articoli in combinazione notiamo una caratteristica comune: entrambe le disposizioni,
infatti, fanno riferimento a rapporti giuridici sostanziali intercorrenti fra soggetti bene
individuati. Il problema allora sorge oggi, dove sempre più frequenti sono le ipotesi di
controversie che coinvolgono un numero imprecisato di persone, creando così l’esigenza di
trovare un sistema che consenta la possibilità di celebrare un unico processo che si
concluda con una decisione idonea a regolare le situazioni dell’intera categoria interessata.
La disposizione dell’art.81 cpc è sintetica, poiché fa riferimento solo al “far valere” nel
processo un diritto altrui, ma il “far valere un diritto” ha un contenuto più ampio; si
potrebbe pensare alla possibilità di proporre la domanda per contro altrui e anche di
proseguire il processo e, addirittura, potrebbe riguardare anche il potere di difesa, perché
anche il convenuto che resiste in giudizio “fa valere un suo diritto”. Siamo dell’idea di
escludere questa lettura, in quanto il legislatore ha voluto intendere il modo tipico di “far
valere” in giudizio un diritto con la proposizione della domanda ex art.99 cpc – principio
della domanda.
Art. 99. (Principio della domanda)
Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente.

Diversamente la disposizione avrebbe genericamente parlato di “stare nel processo” e,


riguardo all’obiezione che anche il convenuto resistendo “fa valere un suo diritto” (alla
negazione della domanda) questo riguarda il diritto alla difesa. In pratica, “far valere un
diritto altrui” può immaginarsi soltanto dalla parte di chi afferma o pretende, non da chi
resiste e si difende. I casi di sostituzione dal lato passivo sono ravvisati in quelle
disposizioni in cui è consentita l’estromissione della parte originaria; è evidente, in questi
casi, che sono le parti originarie (e soprattutto la parte estromessa) a consentire che il
processo prosegua con la partecipazione di chi è subentrato, così che quest’ultimo finisce
col gestire il processo anche in nome e per conto dell’estromesso, che soltanto di fatto non
è interessato alla prosecuzione del medesimo. In conclusione, l’art.81 cpc – sostituzione
processuale, riguarda il fenomeno che il legislatore ha regolato pensando al sostituto-
attore.
Un esempio di sostituzione va segnalato all’art.273 cc – azione nell’interesse del minore o
dell’interdetto, che legittima il genitore o il tutore a promuovere, nell’interesse del
minore, l’azione per la dichiarazione di maternità o paternità naturale (attenzione: non
siamo nel caso della rappresentanza poiché siamo in tema di diritti indisponibili).
La posizione processuale di sostituto. Il problema sorge perché questi è parte nel processo
peruna situazione giuridica sostanziale che non gli appartiene e, di conseguenza, è soltanto
relativamente interessato alle vicende del processo e non può compiere atti che
comportino la disposizione del diritto. Al sostituto sicuramente si indirizzano tutte le
norme che posizione formale di parte; tuttavia, non può rendere confessione su fatti che
riguardano il diritto del sostituito e, per analoghe ragioni non può deferire o riferire il
giuramento.
La sentenza produce effetti principalmente sul sostituito, anche se questi non ha

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partecipato al processo; di conseguenza, bisogna riconoscere il potere di impugnazione sia


al sostituito, in quanto è soggetto direttamente colpito dall’efficacia della sentenza, sia al
sostituto, che è stato parte processuale e nei cui confronti la sentenza è destinata a
spiegare efficacia diretta o indiretta.

4.Il pubblico ministero.


Nel quadro della sostituzione processuale va inquadrata l’attività del pubblico ministero
nel processo civile. Questi doveva assolvere a una duplice funzione:
1. non lasciare al monopolio esclusivo dei privati la possibilità di agire in giudizio nei
casi cheinteressino non solo le parti ma anche la collettività;
2. evitare che l’iniziativa processuale possa essere affidata al giudice, che è meglio resti
terzo.
Già nel 1942 il legislatore aveva avvertito che in alcuni casi il processo si poneva come
strumento di protezione di gruppi collettivi e aveva pensato che il miglior modo per
provvedere a una tutela fosse la previsione di un potere di intervento o di iniziativa
nelle mani di un organo pubblico. Primo punto che possiamo fissare allora è che il PM
assume la veste di parte e agisce come parte, pur essendo destinato a tutelare interessi
non propri ma della collettività.
È ovvio che valga lo stesso principio di tassatività o tipicità alla base della sostituzione
processuale e così, come l’art.81 cpc – sostituzione processuale serve l’ipotesi di
sostituzione, gli artt.69 ss cpc rinviano alla legge per l’individuazione dei casi in cui il PM
può assumere l’iniziativa processuale.

Art. 69. (Azione del pubblico ministero)


Il pubblico ministero esercita l'azione civile nei casi stabiliti dalla legge.
Art. 70. (Intervento in causa del pubblico ministero)
Il pubblico ministero deve intervenire, a pena di nullità rilevabile d'ufficio:
1-nelle cause che egli stesso potrebbe proporre;
2-nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi;
3-nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone; (...)
4-negli altri casi previsti dalla legge.
Deve intervenire nelle cause davanti alla corte di cassazione nei casi stabiliti dalla legge. Può infine
intervenire in ogni altra causa in cui ravvisa un pubblico interesse.
Art. 71. (Comunicazione degli atti processuali al pubblico ministero)
Il giudice, davanti al quale è proposta una delle cause indicate nel primo comma dell'articolo
precedente, ordina la comunicazione degli atti al pubblico ministero affinché possa intervenire. Lo
stesso ordine il giudice può dare ogni volta che ravvisi uno dei casi previsti nell'ultimo comma
dell'articolo precedente.
Art. 72. (Poteri del pubblico ministero)
Il pubblico ministero, che interviene nelle cause che avrebbe potuto proporre, ha gli stessi poteri
che competono alle parti e li esercita nelle forme che la legge stabilisce per queste ultime.
Negli altri casi di intervento previsti nell'art. 70, tranne che nelle cause davanti alla Corte di
cassazione, il pubblico ministero può produrre documenti, dedurre prove, prendere conclusioni
nei limiti delle domande proposte dalle parti.
Il pubblico ministero può proporre impugnazioni contro le sentenze relative a cause matrimoniali,
salvo che per quelle di separazione personale dei coniugi.

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Lo stesso potere spetta al pubblico ministero contro le sentenze che dichiarino l'efficacia o
l'inefficacia di sentenze straniere relative a cause matrimoniali, salvo che per quelle di separazione
personale dei coniugi.
Nelle ipotesi prevedute nei commi terzo e quarto, la facoltà di impugnazione spetta tanto al
pubblico ministero presso il giudice che ha pronunciato la sentenza quanto a quello presso il
giudice competente a decidere sull'impugnazione.
Il termine decorre dalla comunicazione della sentenza a norma dell'art. 133. Restano salve le
disposizioni dell'art. 397.

Art. 73. (Astensione del pubblico ministero)


Ai magistrati del pubblico ministero che intervengono nel processo civile si applicano le
disposizioni del presente codice relative all'astensione dei giudici, ma non quelle relative alla
ricusazione.
In via di prima approssimazione possiamo dire che quando il PM venga a conoscenza di
fatti che integrino una delle ipotesi in cui può proporre domanda giudiziale, egli deve
proporla; allo stesso modo, quando viene a conoscenza di un processo nel quale è
obbligatorio il suo intervento, se non interviene viene meno al suo dovere.
PM attore – può proporre domanda giudiziale dando vita al processo funzione
propulsiva PM interventore – prende parte ad un processo già iniziato da altri
funzione di controllo.
Ipotesi di azione e di intervento del PM. Il settore nel quale è più facile rinvenire ipotesi di
azione del PM è quello della disciplina della famiglia e dello stato e delle persone.
Pensiamo ad un soggetto non sano di mente, la sua interdizione o inabilitazione non è
interesse della parte, ma della collettività che, in tal modo, organizza protezione ed
assistenza.
In altri casi è sufficiente che il PM intervenga nel processo e, non esistendo una
elencazione precisa, possiamo individuare una classe di giudizi ovvero: quelli che avrebbe
dovuto iniziare, le cause matrimoniali e di separazione, le cause riguardanti lo stato di
capacità delle persone e gli altri casi previsti dalla legge.
Importante è distinguere il caso in cui ha il potere d'azione (PM agente) voi è quello in cui
può solo intervenire (PM interveniente). La posizione processuale del PM agente. Ha tutti i
poteri della parte. La posizione processuale del PM interventore. Può produrre
documenti, dedurre prove, prendere conclusioni nei limiti delle domande proposte dalle
parti. Bisogna precisare che gli sono precluse le possibilità di intervento in ordine
all’attività assertiva (inserimento di fatti nel processo), mentre ha ampie facoltà in ordine
all’attività asseverativa (esatta ricostruzione del fatto, quale risulta fissato dalle richieste
delle parti). Secondo l'art 3 disp. Att. C.p.c. “il pubblico ministero può spiegare il suo
intervento anche quando la causa si trova davanti al collegio”. Tale disposizione porta
deroga al principio fissato dall'art 268, secondo il quale il terzo non può intervenire, dopo
che siano precisate le conclusioni, ed è formulata in maniera da valere sia quando il pm sia
parte necessaria sia quando svolgono intervento facoltativo.
Che cosa succede se il pm non è posto in condizioni di intervenire nel processo?
Il legislatore nel riformare il processo del lavoro, ha soppresso il n. quattro dell'art. 70 che
prevedeva il potere dovere del pm di intervenire nelle cause individuali di lavoro in grado
di appello. L’iniziativa del legislatore è in contrasto con lo spirito della legge 533/1973,
perché riguardando il processo del lavoro diritti in prevalenza indisponibili ed essendo
inizio accentuata l'importanza del ruolo svolto dal giudice, sarebbe stato logico attendersi
un potenziamento dei poteri del pm, e non la sua abolizione.

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5.La tutela degli interessi superindividuali.


La tutela degli interessi superindividuali è venuta in considerazione con l’evoluzione della
società, quando si è assistito allo scontro inevitabile di istanze di protezione individuale
con istanze di protezione collettiva. Pensiamo al diritto alla salute e all’ambiente salubre
che spesso cozza con il progresso materiale e scientifico della società. Per questo motivo
gli interventi del legislatore sono sempre stati in relazione a singoli settori e per tutele ben
definite, non essendosi ritenuto opportuno introdurre un’azione generale a tutela degli
interessi superindividuali, come magari si fa in altre realtà, come quella USA, in cui sono
previste forme di azioni di classe (class actions).
I problemi processuali sono molteplici e occorre individuare innanzitutto “chi” si possa fare
portatore nel processo degli interessi del gruppo, con un meccanismo che renda
ragionevole ed accettabile la sua sostituzione (o la sua aggiunta) a quella del singolo
interessato; in secondo luogo, bisogna stabilire quale sia l’efficacia della decisione nei
riguardi dei singoli che non abbiano partecipato al processo.
Infatti, fondamentale è tener conto di alcune importanti esigenze:
1. che l’estensione dell’efficacia della sentenza nei confronti di chi non ha partecipato
al processo non deve essere lesiva del diritto di difesa (costituzionalmente
garantito all’art.24);
2. che una efficacia della sentenza non preclusiva delle azioni individuali, da un lato,
ridurrebbe l’utilità dell’azione seriale e, dall’altro, sarebbe eccessivamente
gravatoria per il convenuto che dal giudicato formatosi in base all’azione di gruppo
subirebbe gli effetti solamente sfavorevoli, non potendosi giovare delle decisioni di
rigetto;
3. che non è da sottovalutare il problema dei poteri processuali di chi agisce facendo
valere interessi superindividuali.
I principali modelli introdotti dal legislatore sono:
1. azione a tutela dei diritti sindacali
2. azione a tutela dell’ambiente
3. azione a tutela dei consumatori
4. intervento nel processo dinanzi al giudice amministrativo

6.La successione a titolo universale nel processo.


Partiamo dalla lettura del disposto normativo all’art.110 cpc – successione nel processo.
Art. 110. (Successione nel processo)
Quando la parte vien meno per morte o per altra causa, il processo è proseguito dal successore
universale o in suo confronto.
La prima parte della disposizione non è particolarmente problematica, dal momento che fa
riferimento alle persone fisiche, la cui morte fa venire meno la capacità giuridica e quindi la
capacità di essere parte nel processo.
Discorso diverso quando la norma parla di altra causa, riferendosi ovviamente alle persone
giuridiche e alla loro possibilità di estinzione. Occorre allora fare capo al diritto sostanziale.
L’originaria formulazione riteneva che la fusione e l’incorporazione fossero casi tipici di
successione a titolo universale fra enti e di conseguenza, in tali ipotesi, il processo si
interrompeva e doveva essere riassunto nei confronti della società, col rischio di estinzione
se la causa non fosse stata riassunta tempestivamente dinanzi al giudice. La nuova

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formulazione dell’art.2504 bis cc – effetti della fusione dispone nel senso che la nuova
società assume “i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in
tutti i loro rapporti, anche processuali anteriori alla fusione”.
Art. 2504-bis Codice Civile.Effetti della fusione.
La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle
società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori
alla fusione.
La fusione ha effetto quando è stata eseguita l'ultima delle iscrizioni prescritte dall'articolo 2504.
Nella fusione mediante incorporazione può tuttavia essere stabilita una data successiva.
Per gli effetti ai quali si riferisce il primo comma dell'articolo 2501-ter, numeri 5) e 6), possono
essere stabilite date anche anteriori.
Nel primo bilancio successivo alla fusione le attività e le passività sono iscritte ai valori risultanti
dalle scritture contabili alla data di efficacia della fusione medesima; se dalla fusione emerge un
disavanzo, esso deve essere imputato, ove possibile, agli elementi dell'attivo e del passivo delle
società partecipanti alla fusione e, per la differenza e nel rispetto delle condizioni previste dal
numero 6 dell'articolo 2426, ad avviamento. Quando si tratta di società che fa ricorso al mercato
del capitale di rischio, devono altresì essere allegati alla nota integrativa prospetti contabili
indicanti i valori attribuiti alle attività e passività delle società che hanno partecipato alla fusione e
la relazione di cui all'articolo 2501-sexies. Se dalla fusione emerge un avanzo, esso è iscritto ad
apposita voce del patrimonio netto, ovvero, quando sia dovuto a previsione di risultati economici
sfavorevoli, in una voce dei fondi per rischi ed oneri.
La fusione attuata mediante costituzione di una nuova società di capitali ovvero mediante
incorporazione in una società di capitali non libera i soci a responsabilità illimitata dalla
responsabilità per le obbligazioni delle rispettive società partecipanti alla fusione anteriori
all'ultima delle iscrizioni prescritte dall'articolo 2504, se non risulta che i creditori hanno dato il loro
consenso.
In pratica, il processo prosegue, senza interruzioni, nei confronti del nuovo soggetto, in
quanto la fusione altro non opera che una modificazione evolutiva, non certo una
estinzione. Si garantisce, così, la continuità del processo. Anche nel caso della liquidazione
si ritiene che non si abbia successione a titolo universale; con la liquidazione il soggetto
rimane lo stesso, anche se cambiano i rappresentanti che saranno i liquidatori al posto
degli amministratori con una deliberazione che non ha effetto nei processi eventualmente
in corso. Dopo la cancellazione della società non si ha alcun fenomeno successorio, ma solo
i pagamenti delle quote di riparto a favore dei soci. Questo discorso vale sia per la
successione a titolo universale che particolare. Difficoltà particolari presenta la successione
nel capo del diritto pubblico. Vi è la tendenza ad escludere una successione a titolo
universale e resta un problema da risolvere caso per caso, escludendo una successione,
comunque, tutte le volte in cui il legislatore, disponendo che un ente subentri ad un altro,
abbia previsto una specifica fase di liquidazione e quando la successione avvenga senza
estinzione dell’ente cui si subentra. La ricerca in concreto si presenta tutt’altro che facile.

7.La successione a titolo particolare nel diritto controverso.


Questo caso è regolato all’art.111 cpc – successione a titolo particolare nel diritto
controverso.
Art. 111. (Successione a titolo particolare nel diritto controverso)
Se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il
processo prosegue tra le parti originarie.

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Se il trasferimento a titolo particolare avviene a causa di morte il processo è proseguito dal


successore universale o in suo confronto.
In ogni caso il successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e, se
le altre parti vi consentono, l'alienante o il successore universale può esserne estromesso.
La sentenza pronunciata contro questi ultimi spiega sempre i suoi effetti anche contro il
successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui, salve le norme sull'acquisto in buona
fede dei mobili e sulla trascrizione.
Per comprendere meglio quale sia l’esigenza alla quale il legislatore ha inteso provvedere,
procediamo con un esempio: Tizio rivendica il bene X da Caio il quale, in pendenza del
processo, lo aliena a Sempronio. Il problema da risolvere è il seguente: il processo continua
o no tra le parti originarie? Il contrasto è fra due esigenze, quella di tutelare la parte
originaria e quella di fare in modo che il processo continui fra i soggetti realmente
interessati e che il provvedimento spieghi i suoi effetti nei confronti di costoro.
Il nostro sistema ha accettato il principio dell’alienabilità dei beni litigiosi e, al contempo, il
principio che il processo possa continuare fra le parti originarie, non potendo consentire
che l’alienazione pregiudichi la situazione processuale dell’altro soggetto che è, e rimane,
estraneo ad essa.
Riassumendo, l’art.111 cpc stabilisce che:
1. il processo può proseguire tra le parti originarie;
2. la sentenza spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare.
La disposizione appare troppo sintetica e lascia scoperti numerosi problemi applicativi.
Viene così in rilievo l’ambito di operatività della disposizione.
In primo luogo, bisogna chiedersi se l’art.111 cpc riguarda soltanto il caso in cui autore
dell’atto sia l’attore o se riguardi anche il convenuto; la lettera della disposizione non
distingue, dal momento che recita “se nel corso del processo si trasferisce…”, ed è chiaro
che se il legislatore avesse voluto essere più preciso lo avrebbe fatto.
Procediamo ad un esempio in cui sia l’attore ad alienare: A rivendica il bene X contro B; in
pendenza del processo, A aliena il preteso diritto di proprietà sul bene X a C. se
applichiamo l’art.111 cpc si deve pervenire alla conclusione che A è legittimato a
proseguire il giudizio e che la sentenza estenderà i suoi effetti a C; la situazione è
sicuramente singolare, poiché A non è più titolare della situazione giuridica pretesa e, di
conseguenza, se continua il processo tra le parti originarie, chiede una pronuncia a suo
favore per un diritto che non esiste più e il giudice emanerà una decisione che avrà ad
oggetto un diritto che non esiste più. Se allega nel processo la prova dell’avvenuto
trasferimento, dovrebbe cambiare domanda e far valere “in nome proprio un diritto altrui”
secondo la formula dell’art.81 cpc – sostituzione processuale. Ma qui siamo nell’ambito
dell'art.111 cpc nel quale è previsto un meccanismo automatico – il processo prosegue e la
sentenza estende i suoi effetti – che sembra escludere la possibilità di mutare domanda a
favore del successore.
Quanto detto fino a ora, ci induce a pensare che l’art.111 cpc sia espressione del principio
chiovendiano secondo cui la durata del processo non deve danneggiare l’attore che ha
ragione e, di conseguenza, riteniamo che lo stesso riguardi il caso in cui, pendente lite, il
convenuto compia atti di disposizione del diritto controverso. Per tornare agli esempi già
fatti: A rivendica il bene X contro B il quale, in corso di causa, lo aliena a favore di C.
La necessità è che l’attore, che ha ragione, non sia esposto, nella prosecuzione del
processo, a subire le conseguenze dei comportamenti del convenuto.
Il meccanismo posto in essere dal legislatore è semplice: l’atto di disposizione è irrilevante

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rispetto al processo, nel senso che il processo prosegue tra le parti originarie e che la
sentenza spiega i suoi effetti nei confronti del successore, anche quelli esecutivi. Così, A
avrà una decisione che inciderà direttamente su C. Una conferma di questo la troviamo nel
diritto sostanziale, all’art.948 comma 2 cc – azione di rivendicazione che prevede
espressamente il caso in cui il proprietario consegue “direttamente” dal nuovo possessore
o detentore la restituzione della cosa.
Art. 948 comma 2 Codice Civile. Azione di rivendicazione.
Il proprietario, se consegue direttamente dal nuovo possessore o detentore la restituzione della
cosa, è tenuto a restituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo di
essa.
Il convenuto che cede non sta, si badi bene, in giudizio come sostituto, dal momento che
la vicenda successoria non interessa il processo, cosicchè la domanda contro il convenuto
originario è automaticamente estesa nei confronti del successore e spetta soltanto a
quest’ultimo stabilire se gli convenga o meno intervenire nel processo (possibilità di
intervento che comunque deve essergli garantita essendo in ogni caso destinatario del
provvedimento).

8.Il litisconsorzio necessario.


Prima di stabilire chi ha ragione e chi ha torto, il giudice deve chiedersi se il processo penda
fra le giuste parti e cioè fra le persone che si pongono come destinatarie degli effetti dei
provvedimenti giurisdizionali. In questa indagine, utilizzerà l’art.81 cpc – sostituzione
processuale e farà ricorso all’art.102 cpc – litisconsorzio necessario quando vi sia una
complicazione nello schema normale di individuazione dei legittimati, essendo legittimate
non due, ma più parti.
Art. 81. (Sostituzione processuale)
Fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome
proprio un diritto altrui.
Art. 102. (Litisconsorzio necessario)
Se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere
convenute nello stesso processo.
Se questo è promosso da alcune o contro alcune soltanto di esse, il giudice ordina l'integrazione
del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito.
Esistono situazioni giuridiche nelle quali i soggetti coinvolti direttamente sono più di due e
che il processo che le riguarda deve avvenire tra questi. Questa è la situazione di base del
litisconsorzio necessario, caratterizzato da:
- situazioni giuridiche inscindibili
- pluralità di soggetti
Tutto questo viene portato all’interno del processo, dove viene soddisfatta l’esigenza della
difesa e quella del contraddittorio.
Facciamo un esempio: esiste un bene in comunione fra 5 soggetti che vogliono procedere
alla divisione; dopo la divisione sarà proprietario esclusivo di 1/5. L’operazione non può
avvenire senza la partecipazione di tutti i comproprietari. Da qui la necessità che tutti
partecipino al processo e che il giudice non possa provvedere (validamente) nel merito se il
contraddittorio non è integro. Questa è l’ipotesi della divisione della comunione prevista
all’art.784 cpc – litisconsorzio necessario.

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Art. 784. (Litisconsorzio necessario)


Le domande di divisione ereditaria o di scioglimento di qualsiasi altra comunione debbono
proporsi in confronto di tutti gli eredi o condomini e dei creditori opponenti se vi sono.
Se riflettiamo sul fatto che, sul piano giuridico sostanziale, non esistono situazioni
soggettivamente plurime che siano uniche ed inscindibili, qualche dubbio in materia sorge.
Ad ogni modo, ci sembra corretto seguire la tesi tradizionale, dal momento che l’art.102
cpc – litisconsorzio necessario rende il giudice responsabile del fatto che la sentenza
produca effetti nei confronti di tutte le parti della situazione sostanziale dedotta nel
processo, così che a quest’ultima il giudice deve riferirsi per individuare chi è legittimato.
Comunque, la dottrina segnale che la necessità del litisconsorzio è collegata almeno a due
ordini di situazioni:
a) quella in cui si riconosca la legittimazione straordinaria ad agire a un soggetto
che non èparte della situazione o del rapporto controverso;
b) quelle in cui sono ragioni di opportunità a consigliare un processo a più parti, che
comunque si sarebbe potuto svolgere anche senza litisconsorzio.
Il primo gruppo lo possiamo spiegare ricorrendo all’esempio dell’azione di nullità del
matrimonio che può essere esercitata, tra gli altri, da “chiunque ne abbia interesse”
(legittimato straordinario),nel qual caso dovranno parteciparvi anche i due coniugi.
Quanto al secondo gruppo di ipotesi, dobbiamo rifarci alla disciplina positiva per
rintracciare i casi in cui il litisconsorzio sia opportuno e l’esempio lo abbiamo già visto
all’inizio, quello della divisione della comunione, in cui il legislatore ha ritenuto necessaria,
per ragioni di opportunità, la partecipazione al processo dei creditori opponenti al giudizio
di divisione ex art.784 cpc.
Riassumendo, possiamo dire che il litisconsorzio nasce:
a) dalla configurazione della controversia
b) da episodi di legittimazione straordinaria
c) da ragioni di opportunità
Nella tutela costitutiva non possiamo escludere il litisconsorzio, dal momento che è
difficile immaginare che l’effetto costitutivo, estintivo o modificativo possa verificarsi
senza la partecipazione al processo di tutti i soggetti direttamente coinvolti nella
situazione.
Nella tutela di condanna abbiamo ipotesi di litisconsorzio tutte le volte in cui siamo di
fronte ad obbligazioni indivisibili, come nel caso dell’azione di condanna all’abbattimento
di una costruzione condominiale.
Nella tutela di accertamento è chiaro che la certezza vale per tutti quanti, così un
contratto fra piùsoggetti non può essere nullo per alcuni e per altri no.
Che deve fare il giudice quando ravvisa un difetto di integrità del contraddittorio? Qui il
giudice ha un potere-dovere, nel senso che fin dalle prime battute deve controllare se
nel processo vi sono le giuste parti e, qualora non sia così, deve ordinarne l’integrazione
entro un termine perentorio a pena di estinzione del processo. Quando l’ordine di
integrazione è puntualmente eseguito, il processo prosegue normalmente, sanando la
domanda giudiziale con effetto retroattivo.

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9.Il litisconsorzio facoltativo.


Chiariamo un attimo la prima differenza: Nel litisconsorzio necessario la causa è unica con più
parti. Nel litisconsorzio facoltativo, invece, le cause sono molteplici e nel processo già
instauratosi si inserisce un nuovo soggetto che vi abbia un sufficiente interesse.
Il litisconsorzio facoltativo sarà originario, quando il processo nasce sin dall’inizio con più di
due parti, senza che la partecipazione sia dettata da legge o necessità. Mentre nel
litisconsorzio necessario non si può pervenire ad una valida decisione nel merito se non
partecipano tutti gli interessati, nel litisconsorzio facoltativo si può pervenire ad una
decisione valida anche senza la partecipazione delle parti aggiunte, sempre che nel giudizio
siano stati chiamati tutti i soggetti legittimati. Il litisconsorzio facoltativo originario ha le
sue basi nel legame tra cause connesse che rendono possibile o consigliato raccoglierle
insieme. Per far questo occorre determinare quale possa essere un legame sufficiente,
riferendoci all’oggetto o al titolo dal quale due o più cause dipendono, oppure al fatto che
la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni ex
art.103 cpc – litisconsorzio facoltativo.
Art. 103. (Litisconsorzio facoltativo)
Più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si
propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la
decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni.
Il giudice può disporre, nel corso della istruzione o nella decisione, la separazione delle cause, se vi
è istanza di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o
renderebbe più gravoso il processo, e può rimettere al giudice inferiore le cause di sua
competenza.
Facciamo un esempio: due persone trasportate su un autoveicolo subiscono danni a causa
di un incidente stradale. Se decidono di agire contro il conducente responsabile del sinistro
per il risarcimento dei danni, possono riunirsi e proporre un unico atto di citazione; allo
stesso modo potrebbero agire ognuno per conto proprio e, addirittura, uno potrebbe
anche rinunciare ad agire, senza che questo implichi impedimento a chi decide di agire;
inoltre, giudici diversi potrebbero anche pervenire a decisioni diverse. Queste ipotesi
spiegano il motivo per cui il legislatore abbia previsto e in qualche modo favorito la
trattazione unitaria. Vediamo cosa c’è alla base di questa esigenza:
 il titolo della domanda (causa petendi) è identico nelle varie azioni (l’illecito
prodotto dall’atto del sinistro stradale).
Nello stesso esempio, può darsi che il danneggiato chiede il risarcimento sia al conducente
che al proprietario del veicolo:
 le due domande sono collegate perché l’oggetto è identico (il risarcimento del
danno), ma la causa petendi è parzialmente diversa, in quanto per il conducente
sta nel fatto colposo dell’incidente e per il proprietario del veicolo sta
nell’affidamento della vettura al conducente.
Esistono situazioni più complicate, legate al fatto che in uno stesso processo si trovano a
convivere più cause fornite ciascuna di propria individualità. Facciamo un esempio
collegandoci alla situazione esposta poco sopra: il soggetto agisce contro il conducente e
contro il proprietario e poi non si costituisce in giudizio; a questo punto solo il conducente
chiede al giudice di procedere in assenza dell’attore ai sensi dell’art.290 cpc – contumacia
dell’attore.

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Art. 290. (Contumacia dell'attore)


Nel dichiarare la contumacia dell'attore a norma dell'articolo 171 ultimo comma, il giudice
istruttore, se il convenuto ne fa richiesta, ordina che sia proseguito il giudizio e dà le disposizioni
previste nell'articolo 187, altrimenti dispone che la causa sia cancellata dal ruolo, e il processo si
estingue.
A questo punto, quale causa procede: l’intera causa o solo quella tra l’attore e la parte che
ha chiesto di procedere? Stesso problema potrebbe porsi se sopraggiunge un fatto
interruttivo, tipo la morte del conducente o del proprietario. Il conducente confessa la sua
piena responsabilità, e questa dichiarazione avrà effetti anche nei confronti del
proprietario?
La disciplina positiva è lacunosa, per cui il criterio da seguire è quello indicato all’art.103
2°comma cpc – litisconsorzio facoltativo, che consente al giudice, nel processo
formalmente unico, di disporre la separazione facoltativa delle cause sostanzialmente
autonome, sulla base di valutazioni di opportunità che le cause o alcune di esse procedano
distintamente.
Art. 103. (Litisconsorzio facoltativo)
Più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si
propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la
decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni.
Il giudice può disporre, nel corso della istruzione o nella decisione, la separazione delle cause, se vi
è istanza di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o
renderebbe più gravoso il processo, e può rimettere al giudice inferiore le cause di sua
competenza.
Tornando agli esempi fatti, il giudice ordinerà che la causa prosegua con l’attore
contumace; l’evento interruttivo colpirà si l’intero processo, ma la riassunzione potrà avere
luogo solo nei confronti di alcune parti originarie.
Riguardo la disciplina delle prove, occorre stabilire se i fatti da accertare sono comuni a
tutti i litisconsorti o se riguardano soltanto alcune delle cause cumulate.
Se riguarda solo alcune delle cause cumulate, la prova potrà essere chiesta solo dalla parte
interessata e avrà effetto solo nei suoi confronti.
Se il fatto da accertare è comune a tutti i litisconsorti, la prova è ovvio che valga per tutti
allo stesso modo.
La dottrina ha individuato una ipotesi intermedia tra il litisconsorzio necessario e quello
facoltativo, denominato litisconsorzio unitario o del cumulo necessario, il cui caso
emblematico è quello delle delibere assembleari: secondo l’art.2378 5°comma cc –
procedimento di impugnazione, ciascuno dei soci assenti o dissenzienti può impugnare
per proprio conto la deliberazione, ma le impugnazioni della medesima deliberazione
devono essere istruite congiuntamente e decise con un'unica sentenza.

Art. 2378 5° comma Codice Civile.Procedimento d'impugnazione.


Tutte le impugnazioni relative alla medesima deliberazione, anche se separatamente proposte ed
ivi comprese le domande proposte ai sensi del quarto comma dell'articolo 2377, devono essere
istruite congiuntamente e decise con unica sentenza. Salvo quanto disposto dal quarto comma del
presente articolo, la trattazione della causa di merito ha inizio trascorso il termine stabilito nel
sesto comma dell'articolo 2377.
Sembra che il legislatore abbia delineato una sorta di litisconsorzio necessario successivo.

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10.Gli interventi volontari.


La pluralità delle parti può anche essere successiva rispetto all’atto iniziale del processo.
Dove si ha una realizzazione successiva e meramente eventuale della pluralità di parti è nel
caso degli interventi che sono contrassegnati appunto dal fatto che:
 il processo già pende fra le parti legittimate;
 terze persone si inseriscono in questo processo di propria iniziativa (intervento
volontario)o vengono chiamate perché vi si inseriscano (intervento coatto).
Abbiamo tre tipi di interventi volontari nel processo:
a) intervento principale;
b) intervento adesivo autonomo o litisconsortile;
c) intervento adesivo dipendente o semplice.
A) Intervento principale.
Secondo l’art.105 1°comma cpc – intervento volontario “ciascuno può intervenire nel
processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte la parti…, un diritto relativo
all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo”.
Art. 105. (Intervento volontario)
Ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le
parti o di alcune di esse, un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo
medesimo.
Può altresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio
interesse.
Esempio: Tizio agisce in giudizio contro Caio rivendicando la proprietà del bene x; nel
processo interviene Sempronio affermando, quindi rivendicando, che la proprietà del bene
x in questione è sua. In questo caso egli interviene per far valere nei confronti di tutte le
parti originarie un diritto relativo all’oggetto della lite pendente. L’intervento è facoltativo
perché il terzo non subirebbe pregiudizio dalla sentenza fra le parti originarie e potrebbe
far valere il suo diritto esercitando un’autonoma azione.
B) Intervento adesivo autonomo o litisconsortile.
Tenendo sempre presente l’art.105 1°comma cpc – intervento volontario, tiriamo
l’esempio: Sempronio interviene nel processo in cui Tizio ha chiesto la condanna di Caio al
risarcimento del danno, facendo valere una propria domanda di risarcimento basata sullo
stesso atto illecito. Appare chiaro che in questo caso, il terzo interviene per far valere un
diritto dipendente dal titolo dedotto nel processo originario.
C) Intervento adesivo semplice o dipendente.
Qui occorre tenere in considerazione l’art.105 2°comma cpc – intervento volontario che
afferma che il terzo “può altresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti,
quando vi ha un proprio interesse”.
Art. 105. (Intervento volontario)
Ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le
parti o di alcune di esse, un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo
medesimo.
Puo' altresi' intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio
interesse.
Il discorso qui deve partire dalla constatazione che alle volte la sentenza svolge una
efficacia ultra partes, che è efficacia indiretta o riflessa; i terzi possono essere pregiudicati

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da tale efficacia e, non disponendo di una autonoma azione, possono partecipare al


processo tra le parti originarie per svolgere una sorta di controllo affinchè il processo si
svolga regolarmente; dal momento che sono portatori di un interesse e non di un diritto
sono parti subordinate e secondarie con poteri processuali necessariamente limitati.
Tra le altre cose, l’efficacia riflessa del giudicato nei confronti dei terzi è soggetta a
numerose critiche, essendosi osservato che l’intangibilità della sfera giuridica dei terzi è
protetta dalla legge eanche dalla costituzione.
Art. 2909 Codice Civile. Cosa giudicata.
L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i
loro eredi o aventi causa.
Il Codice Civile riguardo alla portata degli effetti della sentenza è chiarissimo, limitandola
alle “parti, i loro eredi o aventi causa”. Non di meno fa la Costituzione all’art.24 e
111,2°comma Costituzione, secondo i quali non è possibile che la sentenza pregiudichi la
posizione di chi non ha partecipato al processo.
Anche se non esiste una previsione che distingua un’efficacia diretta e una riflessa, ciò non
vuol dire che i terzi non subiscano alcun effetto dalla sentenza resa fra terzi. Proprio per
evitare questa eventualità, l’interveniente tutela un suo diritto, partecipando al processo
nel quale si discute del rapporto giuridico che lo condiziona e lo pregiudica, aderendo alla
posizione di una delle parti originarie. In questo modo, egli rende possibile che gli si
estenda l’efficacia di un giudicato, che altrimenti non gli sarebbe opponibile. Siamo
d’accordo su questa scelta del legislatore.
I poteri processuali degli interventori. Esiste uno stretto parallelismo tra la prima
parte dell’art.103 cpc – litisconsorzio facoltativo e l’art.105 1°comma cpc – intervento
volontario.
Art. 103 prima parte (Litisconsorzio facoltativo)
Più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si
propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la
decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni.
Qui si realizza la trattazione unitaria di più cause connesse tra loro fin dall’origine.
Art. 105. (Intervento volontario)
Ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le
parti o di alcune di esse, un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo
medesimo.
Qui, invece, l’unitarietà viene realizzata successivamente.
In entrambe le disposizioni la ragione risiede nell’esigenza di economia processuale.
 L’interveniente principale e l’interveniente litisconsortile hanno perciò i poteri
processuali
della parte e possono esercitare l’azione con autonoma domanda.
 I poteri dell’interveniente adesivo dipendente devono essere desunti dai principi
generali,per cui:
- il tema della lite può essere fissato solo dalle parti originarie;
- il terzo non può proporre eccezioni di merito o processuali (poteri che sono delle
parti);
- può produrre documenti, assumere prove e prendere conclusioni;

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- non può influire sullo stesso svolgimento del rapporto processuale (non può
impedirne
l’estinzione);
- non può compiere atti che importino direttamente o indirettamente
disposizione deldiritto sostanziale;
- non è legittimato a proporre impugnazione della sentenza.
Tempi modi e forme dell’intervento.
L’intervento avviene mediante una comparsa formale ai sensi dell’art.167 cpc –
comparsa dirisposta depositata in udienza o in cancelleria.
L’intervento può avere luogo “sino a che non vengano precisate le conclusioni” ex
art.2681°comma cpc – termine per l’intervento.

11.Gli interventi coatti.


La partecipazione al processo di terzi può anche essere provocata da una iniziativa delle
parti originarie (intervento coatto a istanza di parte) o da una iniziativa del giudice
(intervento iussu judicis).
A) Intervento coatto a istanza di parte. L’istituto è disciplinato all’art.106 cpc – intervento
su istanza di parte, secondo il quale “ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al
quale ritiene comune la causa o dal quale pretende di essere garantita”.

Art. 106. (Intervento su istanza di parte)


Ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale
pretende essere garantita.
La disposizione ha ritenuto di fissare l’ambito di applicazione della norma facendo ricorso
al concetto di comunanza della causa. Tale concetto è vago e generico, per cui sarebbe
meglio collegare l’art.106 cpc con quanto disposto agli artt.103 e 105 cpc.
Art. 103. (Litisconsorzio facoltativo) [con seconda parte]
Più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si
propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la
decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni.
Il giudice può disporre, nel corso della istruzione o nella decisione, la separazione delle cause, se vi
è istanza di tutte le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o
renderebbe piu' gravoso il processo, e può rimettere al giudice inferiore le cause di sua
competenza.

Art. 105. (Intervento volontario)


Ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le
parti o di alcune di esse, un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo
medesimo.
Puo' altresi' intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio
interesse.
Alcuni ritengono che la comunanza vada ravvisata nella connessione tra oggetto e causa
petendi,mentre altri ritengono sia sufficiente la connessione tra oggetto o causa petendi.
Le recenti innovazioni processuali rendono difficile che l’attore possa chiamare in giudizio
il terzo, e gli sarebbe consentito solo quando il suo interesse alla chiamata non sia
originario, ma sia conseguenza delle difese svolte dal convenuto. Più di frequente
l’iniziativa della chiamata è assunta dal convenuto e, in questo caso, la chiamata del terzo

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serve solo ad estendere al terzo l’efficacia della sentenza.


Dal momento che la formulazione dell’art.106 cpc è generica, potrebbe consentire un uso
irragionevole dello strumento processuale, che finirebbe per favorire tattiche dilatori e
rischierebbe di appesantire i processi; per questo motivo, sarebbe opportuno pretendere
che la parte giustifichi il proprio interesse ad estendere l’efficacia di accertamento della
sentenza al terzo.
Perché allora, almeno quando la chiamata è chiesta dal convenuto, il giudice non può fare
una preventiva valutazione dell’interesse? A rispondere basta la consapevolezza del
duplice principio, secondo il quale, la parte che chiama inutilmente il terzo nel processo è
tenuta a rifondere le spese, e che una valutazione preventiva, da risolvere con sentenza,
avrebbe comportato il rischio di un allungamento del processo e di un parallelo aumento
dei costi.
La prassi negli ultimi tempi è ricorsa all’istituto della chiamata coatta a istanza di parte,
soprattutto in relazione a una ipotesi particolare, quella della contestazione della
legittimazione passiva: il caso in cui il convenuto originario non contesta la domanda nella
sua interezza, ma si limita ad eccepire di non essere egli il titolare della situazione giuridica
passiva. In pratica, non nega il diritto dell’attore, ma dice che non lo ha contro di lui.
Stessa situazione, ma a parti invertite, sia ha nella c.d. chiamata in causa del terzo
pretendente, regolata all’art.109 cpc – estromissione dell’obbligato.
Art. 109. (Estromissione dell'obbligato)
Se si contende a quale di più parti spetta una prestazione e l'obbligato si dichiara pronto a
eseguirla a favore di chi ne ha diritto, il giudice può ordinare il deposito della cosa o della somma
dovuta e, dopo il deposito, puo' estromettere l'obbligato dal processo.
In questo caso siamo dalla parte dell’attore-creditore, infatti non si contesta chi sia il
debitore né l’esistenza del debito, ma si contesta chi sia la persona alla quale spetti il
credito. Il convenuto non oppone che altri è il debitore, ma che un terzo vanta lo stesso
diritto preteso dall’attore. Non possiamo, così, disconoscere l’interesse del debitore alla
chiamata per sapere a chi debba effettuare il pagamento.
Riguardo la disciplina processuale della chiamata del terzo, l’esigenza è quella che non si
può imporre al terzo di partecipare ad un processo nel quale egli non possa esercitare
tutte le sua facoltà processuali. Per questa ragione le parti originarie hanno l’onere di
citare il terzo a comparire per l’udienza fissata dal giudice istruttore, osservando i termini
previsti nell’art.163 bis cpc – termini per comparire.

Art. 163-bis. (Termini per comparire)


Tra il giorno della notificazione della citazione e quello dell'udienza di comparizione debbono
intercorrere termini liberi non minori di novanta (1) giorni se il luogo della notificazione si trova in
Italia e di centocinquanta (1) giorni se si trova all'estero.
Nelle cause che richiedono pronta spedizione il presidente può, su istanza dell'attore e con
decreto motivato in calce all'atto originale e delle copie della citazione, abbreviare fino alla metà i
termini indicati dal primo comma.
Se il termine assegnato dall'attore eccede il minimo indicato dal primo comma, il convenuto,
costituendosi prima della scadenza del termine minimo, può chiedere al presidente del tribunale
che, sempre osservata la misura di quest'ultimo termine, l'udienza per la comparizione delle parti
sia fissata con congruo anticipo su quella indicata dall'attore. Il presidente provvede con decreto,
che deve essere comunicato dal cancelliere all'attore, almeno cinque giorni liberi prima
dell'udienza fissata dal presidente.

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L’esigenza di chiamare il terzo può essere avvertita dal convenuto e in questo caso egli
deve farne richiesta nella comparsa di risposta ex art.167 3°comma cpc – comparsa di
risposta e deve anche chiedere al giudice istruttore “lo spostamento della prima udienza
allo scopo di consentire la citazione del terzo con il rispetto del termini dell’art.163 bis
cpc”.
Art. 167. (Comparsa di risposta)
Nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui
fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, indicare le proprie generalità e il codice fiscale,
i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione, formulare le
conclusioni.
A pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni
processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio. (3) Se è omesso o risulta assolutamente
incerto l'oggetto o il titolo della domanda riconvenzionale, il giudice, rilevata la nullità, fissa al
convenuto un termine perentorio per integrarla. Restano ferme le decadenze maturate e salvi i
diritti acquisiti anteriormente alla integrazione.
Se intende chiamare un terzo in causa, deve farne dichiarazione nella stessa comparsa e
provvedere ai sensi dell'articolo 269.
Anche l’attore può aver bisogno di chiamare il terzo, ma se tale bisogno era presente già al
tempo dell’atto introduttivo, egli non può farne richiesta in corso di causa
(rallenterebbe ingiustificatamente il processo). Può farne richiesta nella prima udienza
solamente se la necessità della chiamata sorga dalle “difese del convenuto”.
Nulla esclude che sia lo stesso terzo ad avere bisogno di chiamare altri in giudizio, nel qual
caso deve farne dichiarazione a pena di decadenza nella comparsa di risposta e chiedere al
giudice l’autorizzazione.
B) La chiamata in garanzia. Come si evince dalla lettura dell’art.106 cpc – intervento su
istanza di parte, la parte può chiamare nel processo il terzo “dal quale pretende di essere
garantita”.
Art. 106. (Intervento su istanza di parte)
Ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale
pretende essere garantita.
Procediamo per esempi:
a) Tizio, cha ha acquistato da Caio il bene X, è convenuto in giudizio da Sempronio
che assume di esserne proprietario o di averne diritto. Ai sensi dell’art.1483 cc –
evizione totale della cosa Caio è tenuto a risarcire Tizio del danno.

Art. 1483 Codice Civile. Evizione totale della cosa.


Se il compratore subisce l'evizione totale della cosa per effetto di diritti che un terzo ha fatti
valere su di essa, il venditore è tenuto a risarcirlo del danno a norma dell'articolo 1479.
Egli deve inoltre corrispondere al compratore il valore dei frutti che questi sia tenuto a restituire a
colui dal quale è evitto, le spese che egli abbia fatte per la denunzia della lite e quelle che abbia
dovuto rimborsare all'attore.

b) Tizio, cha ha garantito a Sempronio il pagamento del debito di Caio (art.1936 cc –


nozione di fideiussione), viene convenuto in giudizio da Sempronio che non è stato
pagato. Ai sensi dell’art.1950 cc – regresso contro il debitore principale egli ha
regresso nei confronti di Caio.

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Art. 1936 Codice Civile. Nozione di fideiussione.


È fideiussore colui che, obbligandosi personalmente verso il creditore, garantiscel'adempimento di
un'obbligazione altrui.
La fideiussione è efficace anche se il debitore non ne ha conoscenza.

Art. 1950 Codice Civile. Regresso contro il debitore principale.


Il fideiussore che ha pagato ha regresso contro il debitore principale, benché questi non fosse
consapevole della prestata fideiussione.
Il regresso comprende il capitale, gli interessi e le spese che il fideiussore ha fatte dopo che ha
denunziato al debitore principale le istanze proposte contro di lui.
Il fideiussore inoltre ha diritto agli interessi legali sulle somme pagate dal giorno del
pagamento. Se il debito principale produceva interessi in misura superiore al saggio legale, il
fideiussore ha diritto a questi fino al rimborso del capitale.
Se il debitore è incapace, il regresso del fideiussore è ammesso solo nei limiti di ciò che sia
stato rivolto a suo vantaggio.

c) Tizio si è obbligato con un contratto di appalto ad eseguire un manufatto per conto


di Sempronio e si è rivolto a Caio per la fornitura del materiali. Sempronio
conviene in giudizio Caio perché il manufatto non è stato costruito nei termini
pattuiti, e Tizio chiede che Caio sia condannato a rivalerlo di quanto dovrà dare a
Sempronio perché il ritardo è dipeso dalla mancata tempestiva fornitura dei
materiali.
In tutte e tre gli esempi fatti, troviamo un soggetto che, convenuto in giudizio, tende a
scaricare su un altro soggetto (Caio) le conseguenze sfavorevoli di una eventuale sconfitta
processuale. Tuttavia i tre casi presentano delle notevoli differenze: nel caso a) l’obbligo
nasce dalla legge, nel caso b) nasce da un contratto tra debitore e garante, mentre nel
caso c) nasce da un legame economico tra due distinti contratti di appalto e fornitura.
Per questo motivo nei casi a) e b) si parla di garanzia propria, mentre nel terzo caso c) si
parla di garanzia impropria, in quanto frutto dell’elaborazione giurisprudenziale.
La differenza tra garanzia propria ed impropria rileva in relazione alla modificazione della
competenza per ragioni di connessione, dove la dottrina ritiene che l’art.32 cpc – cause di
garanzia si applica solo nei casi di garanzia propria.
Art. 32.(Cause di garanzia)
La domanda di garanzia può essere proposta al giudice competente per la causa principale
affinché sia decisa nello stesso processo. Qualora essa ecceda la competenza per valore del giudice
adito, questi rimette entrambe le cause al giudice superiore assegnando alle parti un termine
perentorio per la riassunzione.
La differenza, a nostro parere, rileva anche in relazione alla estromissione. Chiariamo la
faccenda: quando il convenuto chiama in giudizio il terzo per un rapporto di garanzia
propria, può farlo indue modi:
1) per ottenere soltanto la sua partecipazione al processo in modo che l’accertamento
relativo al rapporto che ha dato occasione alla causa originaria si estenda anche a lui, così
da impedirgli nel futuro di sollevare eccezioni che avrebbe potuto far valere nel giudizio in
corso;
2) per ottenere la condanna in via di regresso del terzo, così che questi sia tenuto a
rivalere il convenuto per tutto o per parte di quanto andrà a pagare per effetto della
condanna.

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Appare chiaro che solo nel primo caso sarà possibile che l’originario convenuto sia
estromesso e solo in questo caso la causa pendente resta una e unica (quella di Tizio
contro Sempronio più Caio). Nel secondo caso, nel quale si ha una causa di Tizio contro
Sempronio e una di Sempronio contro Caio, non si può far mancare ad una delle due
cause uno dei necessari contraddittori.
Quando, oltre alla chiamata in garanzia, è esercitata l’azione di regresso non è possibile
l’estromissione.
Nell’ipotesi della garanzia impropria non ci sembra possibile l’estromissione del convenuto
originario, perché è difficile immaginare la chiamata del terzo senza contemporaneo
esercizio di un’azione di condanna nei suoi confronti.
Nell’ipotesi in cui l’estromissione è ammessa, il garante ha pienezza di poteri processuali,
proprio perché riceve l’investitura non dalla legge, ma dalle parti originarie, così che fa sua
la posizione e l’attività processuale del garantito.
C) L’intervento jussu judicis. La “chiamata per ordine del giudice” è fissata all’art.107 cpc
– intervento per ordine del giudice, in quale recita che “il giudice, quando ritiene
opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo al quale la causa è comune, ne
ordina l’intervento”. La disposizione è alquanto sintetica.
Art. 107. (Intervento per ordine del giudice)
Il giudice, quando ritiene opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo al quale la
causa è comune, ne ordina l'intervento.
La disposizione in esame concede al giudice un potere che può esercitare per porre
rimedio alle imprevedibili situazioni del processo, ma è anche estremamente difficile
definirne con precisione l’ambito di applicazione. La difficoltà sta anche nel fatto che tale
strumento è in palese contrasto con una dei principi fondamentali del processo, ovvero
quello della domanda.
Il punto chiave sta nell’espressione causa comune, presente anche all’art.106 cpc –
intervento su istanza di parte, quindi ritorna il problema di stabilire se occorra una
connessione per il titolo e per l’oggetto, ovvero se sia sufficiente una connessione per il
titolo o per l’oggetto.
A nostro avviso il campo dei rapporti alternativi può costituire un luogo di applicazione
dell’art.107cpc . Questo è il caso in cui il convenuto dichiara che altri è il reale destinatario
degli effetti del provvedimento richiesto. Ricordiamo l’esempio: Tizio conviene in giudizio
Caio, il quale non oppone che il diritto di Caio esista, ma che l’obbligato è Sempronio. Si
dovrebbe arrivare alla conclusione che il giudice deve accogliere la domanda se ritiene
infondata l’opposizione di Caio e respingerla nel merito. È una soluzione non appagante,
perché l’individuazione del vero obbligato dovrebbe avvenire preferibilmente in
contraddittorio fra tutte le persone che sono coinvolte nella situazione controversa. È
quanto è stato sostenuto da chi ritiene applicabile a questo caso l’art.102 cpc –
litisconsorzio necessario.
L’applicazione di tale norma sembra una forzatura, dal momento che, a conclusione del
processo, le parti legittimate sono due e non più di due. Così che, ove l’iniziativa non sia
presa dalle parti, è auspicabile che sia il giudice a prenderla, avvalendosi del potere
concessogli dall’art.107 cpc – intervento per ordine del giudice.
Quanto ai rapporti pregiudiziali è più difficile giustificare l’applicazione dell’istituto; alcuni
giudici hanno richiamato gli artt.102 e 107 cpc, richiamando così rispettivamente lo
strumento dell’integrazione del contraddittorio e quello della chiamata del terzo. La verità
è che si riconosce al giudice una posizione sempre più attiva anche a danno del potere

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monopolistico delle parti di fissare i termini chiave della lite. In questa ottica è facile
inserire nall’art.107 cpc un potere di chiamata del terzo da parte del giudice anche per i
rapporti pregiudiziali. Dobbiamo solo augurarci che i giudici sappiano fare un uso saggio di
tale potere.
Dobbiamo chiederci ora se l’art.107 cpc sia utilizzabile per la chiamata del terzo titolare di
un rapporto giuridico dipendente. Ad esempio, nel caso di nullità di un contratto per vizio
di forma, il giudice ordina la chiamata del notaio che potrebbe essere responsabile di tale
nullità. Qualcuno ritiene che questo sia l’unico campo di applicazione della norma, poiché
solo in questo caso il terzoverrebbe chiamato non per iniziare nei suoi confronti una causa,
ma per estendere nei suoi confronti gli effetti della sentenza. In questo modo sarebbe
salvo il principio della domanda.
A nostro avviso questa impostazione non può essere condivisa. Il problema, non
diversamente dalle ipotesi pregiudiziali, si risolve in una scelta tra l’esigenza che le parti
siano arbitre di delineare i limiti oggettivi e soggettivi della controversia e l’esigenza che il
giudice possa incidere su questo potere monopolistico per assicurare un corretto uso degli
strumenti di tutela giurisdizionali.
Resta da accennare alla disciplina processuale della chiamata del terzo:
1- mentre nell’ipotesi prevista dall’art.106 cpc – intervento su istanza di parte la
valutazione che il processo si svolga nei confronti anche del terzo è successiva, quella
prevista dall’art.107 cpc – intervento per ordine del giudice è preventiva;
2- la chiamata è sempre atto di parte in forma di citazione;
3- la chiamata per ordine del giudice, a differenza di quella su istanza di parte, può essere
disposta in ogni momento dal giudice istruttore;
4- se nessuna delle parti originarie chiama il terzo nel termine fissato dal giudice, la causa è
cancellata dal ruolo.
È evidente che è il giudice a chiamare il terzo, ma spetta alla parte dare un contenuto alla
chiamata.

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CAPITOLO 7 - GLI ATTI PROCESSUALI


1. Procedimento e processo.
Il Titolo VI del libro I del c.p.c. Si compone degli articoli 121-162, dedicati alla disciplina
degli atti processuali. I tre Capi sono intitolati alle “forme di atti e dei provvedimenti”, ai
“termini” e alla “nullità degli atti”. Il Capo I, che consta di 30 articoli, è suddiviso in tre
sezioni: sugli atti in generale, sulle ordinanze e sulle comunicazioni e notificazioni. Con tale
impostazione il legislatore ha inteso disegnare l'ossatura del processo civile: una sorta di
modello astratto ed essenziale adattabile a tutti i processi, e cioè sia il processo di
cognizione, sia al processo di esecuzione, sia ai processi speciali
Il processo è costituito da una serie di atti, coordinati secondo criteri prestabiliti,
provenienti da soggetti diversi e indirizzati all’emanazione di un atto finale, che prende il
nome di provvedimento. Partendo da questa idea-base, si prendono in considerazione
prima gli atti delle parti, poi gli atti del giudice e, infine, si esaminano le cause di invalidità
degli atti e soprattutto si stabilisce quali siano le ripercussioni che esse hanno sugli altri atti
e sul provvedimento finale.

2. Le preclusioni (cenni sulla cosa giudicata).


Abbiamo definito il processo come un qualcosa di dinamico, una serie di atti legati fra loro
sia cronologicamente che logicamente. L’ordine cronologico pretende che gli atti siano
compiuti secondo una data successione temporale che, se non rispettata, porta a
decadenza per inutile decorso dei termini. L’ordine logico, invece, pretende che gli atti
siano compiuti secondo uno schema per il quale l’uno presuppone ed è, al tempo stesso,
validato da un altro. A questo aspetto ci riferiamo quando parliamo di preclusioni.
In pratica il legislatore si preoccupa che gli atti siano coerenti fra loro, di conseguenza
quando manchi tale coerenza o, meglio, quando fra due o più atti ci sia incompatibilità,
l’atto successivo non può essere compiuto e, qualora sia stato compiuto, non può essere
preso in considerazione.
Un esempio di preclusione lo ritroviamo nell’art.38 1°comma cpc – incompetenza, che
impone al convenuto di eccepire immediatamente l’incompetenza territoriale derogabile e
di indicare il giudice da lui ritenuto competente, altrimenti la questione non può più essere
rilevata neppure dalgiudice.
Abbiamo visto che il processo è una serie di atti progressivamente ordinati che mirano alla
emanazione di un provvedimento finale, e quindi si presume che ci sia un momento
conclusivo, una fine; come si individua questa fine? E cosa succede quando questo
momento si realizza? Normalmente, nel processo di cognizione la fine del processo è data
dalla sentenza, ma il legislatore all’art.279 cpc – forma dei provvedimenti del collegio,
ammettendo la possibilità di sentenze non definitive, ha ammesso che non sempre la
sentenza chiude il processo e che dalla controversia possano diramarsi più processi tra loro
collegati. Ovviamente questo non vuol dire che la parte possa iniziare un identico
procedimento magari perché non soddisfatta dell’esito del primo. A questo è posto il
principio del ne bis in idem, secondo il quale il giudice, emanato un provvedimento
conclusivo, consuma il suo potere in relazione alla controversia e non può più giudicare de
eadem re. Questa è una regola sicuramente valida nel processo contenzioso giacchè, in
questo tipo di processo, le parti e il giudice hanno avuto la possibilità di compiere tutte le
indagini e di utilizzare tutti gli strumenti per pervenire alla emanazione dell’esatto
provvedimento; così che, se non lo hanno fatto ed è stato emanato il provvedimento
conclusivo, si ha la consumazione delle facoltà processuali per avvenuto o mancato
esercizio delle stesse, che è la caratteristica tipica delle preclusioni.

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Quello che dobbiamo però tenere presente è che, nel processo contenzioso, il
provvedimento conclusivo si coordina con un sistema di rimedi esperibile dinanzi a giudici
sovraordinati (si badi non davanti lo stesso giudice), verso i quali si possono far valere i vizi
e le irregolarità del precedente processo e del conseguente provvedimento giudiziale.
Allora occorre chiarire che non si ha una ripetizione del processo, ma le parti sollecitano un
controllo del giudice dell’impugnazione che, se non avviene in determinati termini di legge,
è precluso.
Il momento finale del processo lo abbiamo identificato con la sentenza. Al tempo stesso
questa impostazione ha bisogno di ulteriori chiarimenti. La sentenza chiude il processo, ne
segna la fine solo se leghiamo il concetto di fine alla certezza della decisione. In altre
parole, la certezza della sentenza, della decisione quindi, segna la barriera che preclude
ogni contestazione. Quindi, certezza–immutabilità assoluta della decisione (preclusione).
In realtà questa affermazione è da dimostrare, in quanto gli ordinamenti contemporanei si
accontentano di un “alto grado di stabilità” delle decisioni; resta fuori discussione che il
giudicato presuppone una certezza stabile, ma non immutabile. Questa è la cosa giudicata
in senso formale a norma dell’art.324 cpc – cosa giudicata formale.
Art. 324. (Cosa giudicata formale)
Si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di
competenza, né ad appello, ne' a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai
numeri 4 e 5 dell'articolo 395.
In altre parole, possiamo dire che l’efficacia delle decisioni giudiziali acquista una
particolare stabilità quando non siano più esperibili o quando siano stati sperimentati i
mezzi di impugnazione ordinari. Questa precisazione è d’obbligo perché, come vedremo,
esistono anche mezzi di impugnazione straordinari che possono essere proposti anche
dopo il passaggio in giudicato della sentenza.
Per usare le parole del legislatore, il passare in giudicato esprime come e quando la
sentenza acquista il grado di stabilità che è il massimo consentito da un ordinamento in un
determinato momento storico. Il risultato si proietta in due direzioni: scolpisce una legge
del processo secondo la quale lo stesso giudice non può tornare (ne bis in idem) e neanche
altro giudice vi può intervenire; individua la legge del rapporto controverso. Questo è
l’aspetto della cosa giudicata in senso sostanziale, previsto all’art.2909 Codice Civile –
cosa giudicata, secondo il quale l’accertamento contenuto nella sentenza passata in
giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa.

Art. 2909 Codice Civile. Cosa giudicata.


L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i
loro eredi o aventi causa.
In pratica le linee di pensiero sugli effetti della sentenza sono due, seppur collegate fra
loro: c’è chi fa leva sul dato formale per cui ritiene che gli effetti immediati della sentenza
non passata in giudicato “anticipano” in un certo senso gli effetti di una fattispecie non
ancora totalmente realizzata; chi fa leva sul dato sostanziale invece pensa che la sentenza
di per sé spieghi i suoi effetti che il passato in giudicato rende, poi, stabili e duraturi.
In questa direzione sembra muovere l’ordinamento attuale, quando è stato modificato
l’art.282 cpc – esecuzione provvisoria che dispone la provvisoria esecutività tra le parti di
qualsiasi sentenza di primo grado, volendo dire che l’efficacia della sentenza prescinde dal
giudicato.

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Art. 282. (Esecuzione provvisoria)


La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti.

La nostra opinione esprime preferenza per chi dà maggiore rilievo all’aspetto preclusivo
proprio dell’accertamento sottostante a qualsiasi sentenza. Sappiamo, infatti, che il
processo di cognizione si caratterizza proprio per il dato costante dell’accertamento, che
talora completa la tutela richiesta, talaltra è la premessa per l’attribuzione di ulteriori
utilità. Quando, perciò, l’art.282cpc – esecuzione provvisoria stabilisce che la sentenza ha
efficacia esecutiva immediata, la più corretta lettura del medesimo è quella secondo cui
l’ordinamento anticipa gli effetti ulteriori che presuppongono l’accertamento giudiziale,
senza toccare quest’ultimo nella sua essenza.

3. I termini.
L’altro mezzo che il legislatore ha a disposizione per dare ordine al procedimento è il
termine. La funzione è duplice:
1. mantenere le attività processuali sufficientemente concentrate;
2. offrire ai soggetti uno spazio temporale per poter adeguatamente compiere gli
atti di loropertinenza.
Quando prevali la prima funzione, il termine è congegnato in modo che l'attività
processuale non può compiersi dopo un determinato momento; quando prevale la
seconda funzione, il termine è disciplinato in modo che l'attività processuale non può
compiersi prima di un determinato momento. Nel primo caso, il termine si dice
acceleratorio o finale, nel secondo, si dice dilatorio. Nel primo caso, l'inutile decorso del
termine comporta decadenza, nel secondo, il tempestivo compimento dell'atto comporta
irricevibilità dello stesso.
I termini finali si distinguono in termini perentori e ordinatori. I primi sono stabiliti a pena
di decadenza, per cui l'attività processuale non può essere compiuta dopo che essi siano
scaduti e, si è compiuta, è assolutamente nulla; e in considerazione della gravità della
sanzione, la legge vuole che il termine sia perentorio soltanto se ciò è espressamente
previsto. Invece, i secondi sono prorogabili per una durata non superiore al termine
originario e, per motivi particolari, anche una seconda volta, purché il provvedimento di
proroga sia anteriore alla scadenza del termine: il compimento dell'atto dopo la scadenza o
dopo la proroga del termine dal luogo a una nullità relativa, rilevabile su eccezione della
parte. La legge prevede altri termini alla cui inosservanza non sono collegati decadenze, ma
effetti minori (la concessione di un contro termine, un maggiore carico di spese). Si parla di
termini combinatori. Inoltre, la legge detta una disposizione analitica sul computo dei
termini, per il cui calcolo non si tiene conto né del giorno iniziale e neppure di quello finale:
in tal caso il termine si dice libero.
Pertanto, vedremo come l'intera disciplina dei termini è caratterizzata da una insufficiente
coerenza: soltanto la legge può individuare quali siano i termini perentori e fissarne la
durata, peraltro, fuori dall'area di questi ultimi, rivive la discrezionalità giudiziale, la quale,
si da un lato, assicura il processo un indispensabile coefficiente di elasticità, dall'altro lato
consente che i termini si allunghino spesso in maniera intollerabili.
Del resto, il meccanismo di termini può costituire un'arma efficace per costruire un
processo di ragionevole durata se si è in grado di ridurre soprattutto i tempi morti del
processo, che sono quelli di cui i giudici dispongono per cadenzare i propri atti.

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4. La rimessione in termini.
I termini processuali sono uno strumento utilissimo alla corretta conduzione del processo e
ad una razionale erogazione della giustizia. Tuttavia, alle volte possono cozzare con la
garanzia del diritto alla difesa, fondamentale nel nostro ordinamento, nelle ipotesi in
cui il termine è scaduto per causa non imputabile a una delle parti. È chiaro che in questa
ipotesi la difesa dalla parte risulta colpita da un fatto che non era sotto la sua
responsabilità. Di questa esigenza si è accorto il legislatore, prevedendo così la possibilità
della rimessione in termini della parte che, incorsa in decadenza per il mancato rispetto di
un qualsiasi termine perentorio, dimostri la causa non imputabile. In questo modo si può
mettere in discussione anche la sentenza, dimostrando di non aver potuto proporre
impugnazione tempestiva per causa non imputabile. È questo il prezzo che l’ordinamento è
disposto a pagare pure di assicurare il pieno diritto alla difesa.
Art. 153. (Improrogabilità dei termini perentori)
I termini perentori non possono essere abbreviati o prorogati, nemmeno sull’accordo delle parti.
La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può
chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’articolo 294,
secondo e terzo comma.
Tuttavia, la disposizione crea qualche problema. In primo luogo, occorre chiedersi chi sia il
giudice competente quando l’istanza non è proposta durante l’istruzione; a nostro avviso,
competente è il giudice dell’impugnazione e non quello che ha emesso il provvedimento,
poiché il controllo qui è sull’ammissibilità dell’impugnazione.
Quanto alla forma dell’istanza, è da ritenere che sia il ricorso e che il giudice debba
disporre l’udienza per la comparizione delle parti, dando a chi propone l’istanza un termine
per la notificazione (infatti il giudice provvede con ordinanza, quindi dopo aver sentito
preliminarmente le parti).
Nulla è detto sui termini e sul regime del procedimento. Bisogna allora ricercare un
“termine ragionevole” e questo potrebbe essere desunto dall’art.157 2°comma cpc –
rilevabilità e sanatoria della nullità, e dire che come la nullità deve essere eccepita nella
prima fase della difesa, così la rimessione deve essere richiesta nel primo atto successivo a
quello rispetto al quale si chiede la rimessione.
Art. 157. (Rilevabilità e sanatoria della nullità)
Non può pronunciarsi la nullità senza istanza di parte, se la legge non dispone che sia pronunciata
d'ufficio. Soltanto la parte nel cui interesse è stabilito un requisito può opporre la nullità dell'atto
per la mancanza del requisito stesso, ma deve farlo nella prima istanza o difesa successiva all'atto
o alla notizia di esso. La nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, né da
quella che vi ha rinunciato anche tacitamente.
Il legislatore non fornisce alcuna indicazione su ciò che costituisce “causa non imputabile
alla parte”, quindi l’individuazione va fatta caso per caso ed è rimessa al “prudente
apprezzamento delgiudice”.

5. Gli atti processuali di parte.


Le unità che compongono il processo sono gli atti processuali, disciplinati agli artt.121 ss
cpc e si dividono in due categorie:
1. Atti di parte
2. Atti dell’ufficio giudiziario
Riguardo alla forma degli atti, la legge ne descrive i modelli generali a seconda della fase

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processuale; avremo così la citazione, la comparsa di risposta, il ricorso, l’atto di


impugnazione e via discorrendo.
Riguardo al contenuto degli atti, che riempie la forma, questo dipende dall’atto a cui si
riferisce ed è quindi chiaro che se non dovesse esserci rispondenza fra forma e contenuto,
l’atto stesso potrebbe essere invalido, quindi nullo, inefficace, irricevibile, inammissibile.
Se invece risulta conforme al modello, cioè se la forma è stata rispettata, il giudice lo
prenderà in considerazione,salvo poi valutarlo infondato in base al suo contenuto.
Come punto di partenza nella nostra elaborazione dobbiamo considerare quanto
disposto all’art.121 cpc – libertà di forme.
Art. 121. (Libertà di forme)
Gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti
nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo.
Parlando di “forma più idonea al raggiungimento dello scopo”, la disposizione sembra
voler lasciare libertà alla parte nella scelta della forma da usare, anche se dobbiamo dire
che, in pratica, è la legge che in più disposizioni fissa le forme degli atti. Solitamente è
prevista la forma scritta e anche laddove si ammetta la forma orale, essa comunque deve
essere trascritta in modo da lasciare traccia per il processo. Altro requisito fondamentale è
quello della volontà sia dell’atto che degli effetti; il secondo aspetto viene in rilievo
soprattutto nella disciplina dei vizi del volere, infatti il legislatore vuole che gli atti siano
liberamente e consapevolmente manifestati e, per questa ragione, ha previsto come
necessaria l’intermediazione di un rappresentante tecnico.

6. I provvedimenti.
Il provvedimento è l’atto tipico del giudice. La forma del provvedimento è disciplinato
all’art.131 cpc – forma dei provvedimenti in generale, che recita: “la legge prescrive in
quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza o decreto. In mancanza di tali
prescrizioni, i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello
scopo”.
Art. 131. (Forma dei provvedimenti in generale)
La legge prescrive in quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza o decreto.
In mancanza di tali prescrizioni, i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al
raggiungimento del loro scopo.
Dei provvedimenti collegiali è compilato sommario processo verbale, il quale deve contenere la
menzione della unanimità della decisione o del dissenso, succintamente motivato, che qualcuno
dei componenti del collegio, da indicarsi nominativamente, abbia eventualmente espresso su
ciascuna delle questioni decise. Il verbale, redatto dal meno anziano dei componenti togati del
collegio e sottoscritto da tutti i componenti del collegio stesso, e' conservato a cura del presidente
in plico sigillato presso la cancelleria dell'ufficio.
Da questa lettura ricaviamo due cose fondamentali:
1. Normalmente il giudice provvede in forme tipiche;
2. Eccezionalmente sceglie la forma adeguandola allo scopo.
Appare chiaro come questa disposizione ricalca lo stesso principio della libertà di forma in
favore delle parti all’art.121 cpc, che finisce quasi con l’apparire superfluo.
Il contenuto della sentenza è descritto nell’art.132 cpc – contenuto della sentenza.

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Art. 132. (Contenuto della sentenza)


La sentenza è pronunciata in nome del popolo italiano e reca l’intestazione: Repubblica Italiana.
Essa deve contenere:
l’indicazione del giudice che l’ha pronunciata;
l’indicazione delle parti e dei loro difensori;
le conclusioni del pubblico ministero e quelle delle parti;
la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione;
il dispositivo, la data della deliberazione e la sottoscrizione del giudice.
La sentenza emessa dal giudice collegiale è sottoscritta soltanto dal presidente e dal giudice
estensore. Se il presidente non può sottoscrivere per morte o per altro impedimento, la sentenza
viene sottoscritta dal componente più anziano del collegio, purché prima della sottoscrizione sia
menzionato l’impedimento; se l’estensore non può sottoscrivere la sentenza per morte o altro
impedimento è sufficiente la sottoscrizione del solo presidente, purché prima della sottoscrizione
sia menzionato l’impedimento.
Il contenuto e forma dell’ordinanza sono nell’art.134 cpc – forma, contenuto e
comunicazione dell’ordinanza.

Art. 134. (Forma, contenuto e comunicazione dell'ordinanza)


L'ordinanza è succintamente motivata. Se è pronunciata in udienza, è inserita nel processo
verbale; se è pronunciata fuori dell'udienza, è scritta in calce al processo verbale oppure in foglio
separato, munito della data e della sottoscrizione del giudice o, quando questo è collegiale, del
presidente.
Il cancelliere comunica alle parti l'ordinanza pronunciata fuori dell'udienza, salvo che la legge ne
prescriva la notificazione.
Forma e contenuto del decreto sono stabiliti nell’art.135 cpc – forma e contenuto del decreto.

Art. 135. (Forma e contenuto del decreto)


Il decreto è pronunciato d'ufficio o su istanza anche verbale della parte. Se è pronunciato su
ricorso, è scritto in calce al medesimo.
Quando l'istanza è proposta verbalmente, se ne redige processo verbale e il decreto è inserito
nello stesso.
Il decreto non è motivato, salvo che la motivazione sia prescritta espressamente dalla legge; è
datato ed è sottoscritto dal giudice o, quando questo è collegiale, dal presidente.
Il legislatore stabilisce in quali casi il giudice emette sentenza, ordinanza o decreto. Da
queste premesse e per queste ragioni non sembra esservi spazio per un potere del giudice,
così come non vi è spazio per un preteso principio di libertà di forme.
Nel corso degli anni è venuto fuori un problema che riguarda l’adeguatezza del contenuto-
forma del provvedimento, ovvero ci si è chiesti se sia possibile sindacare l’idoneità del
modello decisorio previsto dalla legge allo scopo che il provvedimento persegue. Il
problema è sorto dalla lettura dell’art.111 7°comma costituzione.

Art. 111,7°comma Costituzione.


Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi
giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di
legge.
Come si evince, la disposizione costituzionale parla di “sentenze”, contro le quali è sempre
ammissibile il ricorso per Cassazione; allora, tale comma si riferisce solo alle sentenze,

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oppure anche agli altri provvedimenti previsti dalla legge, ovvero decreti e ordinanze, che
hanno comunque la funzione tipica delle sentenze? La tesi unanime in dottrina e
giurisprudenze ritiene che i giudici ordinari possano esercitare il sindacato sulla
adeguatezza della forma rispetto alla funzione e che possano perciò riconoscere natura di
sentenza a provvedimenti rivestiti di forma diversa, aventi contenuto sostanzialmente
decisorio. In questo modo, il regime giuridico del provvedimento, che rileva soprattutto in
ordine alla impugnazione e all’efficacia, viene collegato alcontenuto e non alla forma che la
legge gli assegna.
Problema collegato a questo è il caso in cui il giudice pronunci dando al provvedimento
forma diversa da quella che avrebbe dovuto avere secondo la legge, in pratica emette
sentenza quando la legge prevedeva l’ordinanza. Se si facesse finta che il regime giuridico
da seguire è quello del provvedimento che sarebbe stato corretto usare, la situazione
spalanca i termini del problema; in pratica, si decide con sentenza in luogo del
provvedimento: contro la sentenza è ammesso ricorso e impugnazione, il provvedimento è
suscettibile invece di revoca o modifica. Ecco perché è importante chiarire la questione ed
allo stesso tempo è grave che il legislatore non vi abbia ancora posto rimedio con norme
capaci di disciplinare il caso.
La giurisprudenza, dal canto suo, applica il principio secondo il quale in ogni caso prevale la
sostanza del provvedimento sulla sua forma, con un solo limite: che il provvedimento
abbia il minimo dei requisiti formali per rientrare nel tipo che sarebbe congruo in relazione
al suo contenuto. Di conseguenza, il provvedimento sarà impugnabile con il mezzo che si
adatta al contenuto del provvedimento. Ovviamente le incertezze possono influire
pesantemente sulle tutele, poiché sbagliando il rimedio si corre il rischio di perdere la
tutela.

7. Comunicazioni e notificazioni.
Gli atti processuali sono normalmente recettizi e quindi si perfezionano con la
comunicazione ai destinatari. Gli atti compiuti in contraddittorio e in udienza si intendono
conosciuti dalle parti. Per gli atti scritti la legge prevede talvolta la comunicazione
mediante consegna diretta di copia o a mezzo degli ufficiali giudiziari. Altre volte la legge
prescrive la necessità della notificazione.
La comunicazione è l’atto con il quale il cancelliere dà notizia di atti o fatti processuali al PM,
alle parti, al consulente, agli ausiliari del giudice o ai testimoni, e cioè di quei provvedimenti
per i quali è disposta dalla legge la forma abbreviata di comunicazione, ex art.136
comma 1 cpc –
comunicazioni.

Art. 136. (Comunicazioni)


Il cancelliere, con biglietto di cancelleria fa le comunicazioni che sono prescritte dalla legge o dal
giudice al pubblico ministero, alle parti, al consulente, agli altri ausiliari del giudice e ai testimoni, e
dà notizia di quei provvedimenti per i quali è disposta dalla legge tale forma abbreviata di
comunicazione.
Il biglietto è consegnato dal cancelliere al destinatario, che ne rilascia ricevuta, ovvero trasmesso a
mezzo posta elettronica certificata, nel rispetto della normativa, anche regolamentare,
concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici.
Salvo che la legge disponga diversamente, se non è possibile procedere ai sensi del comma che
precede, il biglietto viene trasmesso a mezzo telefax, o è rimesso all’ufficiale giudiziario per la
notifica.

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La comunicazione si concreta nel biglietto di cancelleria, che viene portato a conoscenza


del destinatario o con consegna effettuata dalla cancelleria al destinatario stesso, oppure
mediante invio a casella di posta elettronica certificata (PEC). Le caratteristiche della
comunicazione sono allora che proviene sempre dal cancelliere e che il contenuto è una
notizia abbreviata dell’atto.
La notificazione si differenzia dalla comunicazione perché può provenire anche dalle
parti e dal PM e perché ha ad oggetto la copia conforme dell’atto, ex art.137 cpc –
notificazioni.
Art. 137. (Notificazioni)
Le notificazioni, quando non è disposto altrimenti sono eseguite dall’ufficiale giudiziario, su istanza
di parte o su richiesta del pubblico ministero o del cancelliere.
L’ufficiale giudiziario esegue la notificazione mediante consegna al destinatario di copia conforme
all’originale dell’atto da notificarsi.
Se l’atto da notificare o comunicare è costituito da un documento informatico e il destinatario non
possiede indirizzo di posta elettronica certificata, l’ufficiale giudiziario esegue la notificazione
mediante consegna di una copia dell’atto su supporto cartaceo, da lui dichiarata conforme
all’originale, e conserva il documento informatico per i due anni successivi. Se richiesto, l’ufficiale
giudiziario invia l’atto notificato anche attraverso strumenti telematici all’indirizzo di posta
elettronica dichiarato dal destinatario della notifica o dal suo procuratore, ovvero consegna ai
medesimi, previa esazione dei relativi diritti, copia dell’atto notificato, su supporto informatico
non riscrivibile.
Se la notificazione non può essere eseguita in mani proprie del destinatario, tranne che nel caso
previsto dal secondo comma dell’articolo 143, l’ufficiale giudiziario consegna o deposita la copia
dell’atto da notificare in busta che provvede a sigillare e su cui trascrive il numero cronologico
della notificazione, dandone atto nella relazione in calce all’originale e alla copia dell’atto stesso.
Sulla busta non sono apposti segni o indicazioni dai quali possa desumersi il contenuto dell’atto. Le
disposizioni di cui al quarto comma si applicano anche alle comunicazioni effettuate con biglietto
di cancelleria ai sensi degli articoli 133 e 136.
Se l’atto da notificare è costituito da un documento informatico e il destinatario non
possiede la PEC, l’ufficiale giudiziario esegue la notificazione mediante consegna di copia
cartacea. La notificazione dà vita ad un subprocedimento distinto in tre fasi: 1) la richiesta
rivolta all’ufficiale giudiziario di procedere alla consegna della copia dell’atto; 2) le attività
di consegna dell’ufficiale giudiziario; 3) la verbalizzazione delle attività di quest’ultimo
sull’originale e sulla copia.
Le attività di ricerca e di consegna nelle mani del destinatario sono disciplinate dalla legge.
La forma di notificazione più sicura è quella a mani proprie ma questa a volte non è
possibile, allora la ricerca si orienta alla residenza, poi alla dimora e infine al domicilio del
destinatario. Se la ricerca è ancora vana, l’ufficiale giudiziario deposita la copia presso la
casa comunale, affigge l’avviso di deposito alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o
dell’azienda del destinatario e spedisce a quest’ultimo una raccomandata con avviso di
ricevimento per dargliene notizia. Alle persone giuridiche la notificazione viene eseguita a
mani di persona addetta nella sede o al portiere dello stabile, alla persona che rappresenta
l’ente. Analogo discorso vale per le società prive di personalità, le associazioni non
riconosciute e i comitati.
Le notificazioni alle Amministrazioni dello Stato vanno fatte presso l’ufficio dell’Avvocatura
dello Stato. Se i destinatari sono molti o tutti difficilmente identificabili, su istanza di parte e
sentito il PM, il capo dell’ufficio giudiziario può autorizzare la notificazione per pubblici

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proclami. Infine, quando lo consiglino particolari circostanze o esigenze di celerità, il giudice


può prescrivere forme diverse di notificazione. La disciplina delle notificazioni si conclude
all’art.160 cpc – nullità della notificazione.

Art. 160. (Nullità della notificazione)


La notificazione è nulla se non sono osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve
essere consegnata la copia, o se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta o sulla data,
salva l'applicazione degli artt. 156 e 157.

Art. 156. (Rilevanza della nullità)


Non puo' essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la
nullità non è comminata dalla legge.
Può tuttavia essere pronunciata quando l'atto manca dei requisiti formali indispensabili per il
raggiungimento dello scopo.
La nullità non può mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato.

Art. 157. (Rilevabilità e sanatoria della nullità)


Non può pronunciarsi la nullità senza istanza di parte, se la legge non dispone che sia pronunciata
d'ufficio.
Soltanto la parte nel cui interesse è stabilito un requisito può opporre la nullità dell'atto per la
mancanza del requisito stesso, ma deve farlo nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla
notizia di esso.
La nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, né da quella che vi ha
rinunciato anche tacitamente.
A queste cause di nullità, occorre aggiungere la carenza di legittimità dell’ufficiale
giudiziario e quelle che risalgono alla attività della parte che ha scelto un procedimento
notificatorio non idoneo.
Occorre sottolineare che la notificazione è un atto delicatissimo, poiché da essa dipende la
valida instaurazione del contraddittorio e, quindi, il concreto esercizio del diritto di difesa
nel processo. Figure importantissime, di conseguenza, sono l’ufficiale giudiziario e
l’ufficiale postale, che è responsabile della notificazione a mezzo postale. Questa avviene
di solito con raccomandata con avviso di ricevimento, che costituisce la prova
dell’avvenuto ricevimento e che serve a perfezionare l’atto. Dall’avviso di ricevimento,
quindi dalla data di consegna, iniziano a decorrere i termini.
Spetta all’ufficiale postale il compito, non sempre facile, di trovare il destinatario, a cui
deve consegnare l’atto personalmente, oppure a un familiare (nel qual caso tramite
raccomandata ne dà notizia al destinatario), al portiere dello stabile o a persona che sia
vincolata da rapporto di lavoro. La notificazione si ha per eseguita anche se il destinatario
rifiuta la ricezione o di firmare il registro. Se la notificazione non si sia potuta eseguire, la
legge dispone che il plico sia depositato presso l’ufficio postale preposto alla consegna e
che se ne dia notizia al destinatario sempre a mezzo raccomandata, con la precisazione che
trascorsi 10 giorni si ha comunque per eseguita. Per ultimo, è utile ricordare che l’ufficiale
postale ha la valida alternativa della posta elettronica all’indirizzo PEC del destinatario.

8. La nullità degli atti processuali.


La nullità degli atti processuali è trattata agli artt.156-162 cpc. Abbiamo visto che il
processo è fenomeno dinamico, composto da vari atti collegati fra loro in senso logico e
cronologico inmaniera assai rigorosa.

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Le esigenze di certezza hanno imposto che si sia data una certa importanza al
requisito dellaforma, in modo che l’atto compiuto sia immediatamente produttivo dei suoi
effetti tipici e che, qualora si presenti qualche vizio, la vicenda sia risolta e si chiuda in
tempi assai brevi.
Il modello base, quindi, è quello dall’annullabilità dell’atto che, seppur viziato, è idoneo a
produrre effetti. Dobbiamo però chiarire la disciplina della annullabilità degli atti
processuali perché ha caratteri specifici e peculiari.
Abbiamo detto che nel concetto di forma deve includersi il rispetto della sequenza logico-
temporale degli atti, quindi se detta sequenza non viene rispettata il vizio dell’atto è un
vizio di forma: ad esempio la consegna del documento non è preceduta dalla ricerca della
persona.
Diversamente stanno le cose se parliamo di atti che fanno parte dello sviluppo del
processo, in cui il precedente fa da presupposto all’atto successivo. Facciamo un esempio:
l’attore può costituirsi dopo aver notificato al convenuto l’atto di citazione; il cancelliere,
però, iscrive a ruolo la causa prima che l’atto di citazione sia notificato, compiendo così un
atto mancante del suo presupposto. È un atto nullo? Possiamo dire che l’atto è nullo, nel
senso di invalido, quindi produttivo di effetti ma invalidabile. Per risolvere il caso posto al
nostro esempio, il problema sarà di stabilire se una notificazione successiva possa far
ritenere raggiunto lo scopo e la risposta sarà affermativa tutte le volte in cui quest’ultima
non abbia compromesso le possibilità difensive del convenuto.
Riguardo al mancato rispetto dei termini siamo anche qui nel campo dei requisiti formali
e, anche qui parleremo di atto nullo. Risolveremo il problema in base alla natura del
termine: se sarà perentorio, decorso il quale, non servirà procedere all’analisi se ha o
meno raggiunto lo scopo, dal momento che il termine perentorio è tassativo; diverso nel
caso in cui la sanatoria potrà essere richiesta con la rimessioni in termini.
Tornando al tema dell’invalidità per vizi formali dell’atto processuale, dobbiamo chiarire
cosa debba intendersi per atto processuale e forma del medesimo.
Per atto processuale si intende non solo quello compiuto nel corso del processo, ma anche
quello che contribuisce al suo concreto svolgimento.
In relazione alla forma ascriviamo, come visto, questo concetto a un contenuto assai ampio
che siamo soliti indicare con l’endiadi contenuto-forma.
Il compito del legislatore è stato quello di individuare le forme veramente essenziali e
collegare a queste sanzioni di invalidità, escludendo i formalismi che non sono
indispensabili alla vita del processo.
Il legislatore è partito dal principio di tassatività delle nullità, ex art.156 1°comma cpc –
rilevanza della nullità.

Art. 156. (Rilevanza della nullità)


Non puo' essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la
nullità non è comminata dalla legge.
Puo' tuttavia essere pronunciata quando l'atto manca dei requisiti formali indispensabili per il
raggiungimento dello scopo.
La nullità non puo' mai essere pronunciata, se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato.

Questo vuol dire che non tutte le deviazioni dell’atto dal suo modello legale comportano
nullità e che vi sono anche vizi che comportano irregolarità priva di significative
conseguenze. In questo modo lo scopo dell’atto diventa il parametro a cui fare riferimento
per saggiarne la validità. Cosa intendiamo allora per scopo dell’atto? Ovviamente non è lo

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scopo che la parte si propone; si tratta invece dello scopo obiettivo perseguito
dall’ordinamento e, quindi, dal complesso delle disposizioni che prendono in
considerazione l’atto di cui si discorre.
Esempio: l’atto di citazione ha un duplice scopo: 1) invitare il convenuto a comparire
dinanzi al giudice ed 2) informarlo della pretesa così da consentirgli di difendersi. L’art.164
cpc – nullità della citazione stabilisce che la costituzione del convenuto sana i vizi relativi
alla chiamata in giudizio e ritiene così lo scopo raggiunto; ma non sana quelli relativi
alla conoscenza del contenuto della domanda che impone la sua ripetizione, poiché lo
scopo non è stato raggiunto.

Art. 164. (Nullità della citazione)


La citazione è nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto alcuno dei requisiti stabiliti nei
numeri 1) e 2) dell'articolo 163, se manca l'indicazione della data dell'udienza di comparizione, se
è stato assegnato un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge ovvero se manca
l'avvertimento previsto dal numero 7) dell'articolo 163.
Se il convenuto non si costituisce in giudizio, il giudice, rilevata la nullità della citazione ai sensi del
primo comma, ne dispone d'ufficio la rinnovazione entro un termine perentorio. Questa sana i vizi
e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della prima
notificazione. Se la rinnovazione non viene eseguita, il giudice ordina la cancellazione della causa
dal ruolo e il processo si estingue a norma dell'articolo 307, comma terzo.
La costituzione del convenuto sana i vizi della citazione e restano salvi gli effetti sostanziali e
processuali di cui al secondo comma; tuttavia, se il convenuto deduce l'inosservanza dei termini a
comparire o la mancanza dell'avvertimento previsto dal numero 7) dell'articolo 163, il giudice fissa
una nuova udienza nel rispetto dei termini.
La citazione è altresì nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito nel
numero 3) dell'articolo 163 ovvero se manca l'esposizione dei fatti di cui al numero 4) dello stesso
articolo.
Il giudice, rilevata la nullità ai sensi del comma precedente, fissa all'attore un termine perentorio
per rinnovare la citazione o, se il convenuto si è costituito, per integrare la domanda. Restano
ferme le decadenze maturate e salvi i diritti quesiti anteriormente alla rinnovazione o alla
integrazione.
Nel caso di integrazione della domanda, il giudice fissa l'udienza ai sensi del secondo comma
dell'art. 183 e si applica l'articolo 167.
La legge parla di nullità, ma in realtà si tratta di una qualifica generica, che si specifica in
relazionealle singole discipline.
In primo luogo è da ribadire che, di norma, l’atto viziato, quale che sia il suo vizio, è efficace,
così che per eliminare i suoi effetti occorre invalidarlo.
La legge parla di nullità rilevabili d’ufficio che sono tassative e tipiche.
Le nullità rilevabili su eccezione di parte sono residuali e ancorate a quattro condizioni:
1) che sia proposta dalla parte nel cui interesse è stabilito il requisito mancante;
2) che sia proposta nella prima istanza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso;
3) che la parte interessata al rilievo della nullità non vi abbia dato causa;
4) che la stessa non abbia rinunciato anche tacitamente a proporla.
Sono disposizioni che tendono al recupero dell’atto viziato con effetto retroattivo.

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Art. 157. (Rilevabilità e sanatoria della nullità)


Non può pronunciarsi la nullità senza istanza di parte, se la legge non dispone che sia pronunciata
d'ufficio.
Soltanto la parte nel cui interesse è stabilito un requisito può opporre la nullità dell'atto per la
mancanza del requisito stesso, ma deve farlo nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla
notizia di esso.
La nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, né da quella che vi ha
rinunciato anche tacitamente.
Discorso a parte merita l’art.161 cpc – nullità della sentenza che detta la regola
fondamentale secondo cui ogni nullità, che si sia verificata nel corso del processo e che
non sia stata sanata, si trasforma in motivo di impugnazione.

Art. 161. (Nullità della sentenza)


La nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere
soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione.
Questa disposizione non si applica quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice.

Questo vuol dire che qualsiasi nullità non resiste al fenomeno del passaggio in giudicato
che si ha quando non è stata proposta tempestiva impugnazione o quando questa è stata
dichiarata inammissibile e rigettata.
In questa ipotesi si ha più che una sopravvivenza della nullità al giudicato, una indifferenza
della stessa rispetto al giudicato, nel senso che il soggetto, leso dalla sentenza mancante la
sottoscrizione del giudice, può fare accertare la nullità in qualsiasi modo; ossia con una
autonoma azione di accertamento o con una eccezione proposta nel corso di un processo
nel quale il giudicato sembra rilevante o con un’opposizione all’esecuzione, qualora la
sentenza sia messa in esecuzione.
Nel caso di irregolarità degli atti processuali, l’ipotesi è quella in cui il vizio riguardi un
elemento o un requisito dell’atto, che non sia previsto a pena di nullità. In questi casi,
l’atto è valido, ma la parte deve sollecitare il giudice a fare uso dei suoi poteri di
regolarizzazione per evitare che la situazione possa degenerare e portare a conseguenze
processuali dannose.

9. Il regime delle spese processuali.


Per quanto riguarda le spese processuali va detto che sono a carico delle parti:
1) gli onorari dovuti ai procuratori, ai difensori, ai custodi, agli interpreti, ai consulenti ed in
generea qualsiasi altro soggetto che svolga attività ausiliare;
2) le spese per le indennità di trasferta spettanti al giudice e al cancelliere per l’ispezione
dei luoghi;
3) il costo della carta da bollo e i diritti percepiti dalla cancelleria e dagli uffici giudiziari;
4) le imposte di registro, le tasse di bollo ed in genere tutte le spese che siano necessarie
allo svolgimento del processo.
Il sistema accolto dal codice poggia su due criteri e cioè quello dell’anticipazione e quello
della soccombenza. In via provvisoria, cioè quando in corso di causa non si sa ancora chi ha
torto o ragione, ciascuna delle parti ha l’onere di provvedere alle spese per gli atti che
compie e per quelli che chiede e deve anticipare le spese per gli atti necessari al processo
quando l’anticipazione sia posta a suo carico dalla legge o dal giudice.
Occorre precisare che per atti necessari al processo s’intendono quelli disposti a
prescindere dall’iniziativa delle parti. In questi casi il giudice deve valutare l’interesse per il

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quale l’atto è compiuto e determinare su chi ricade l’obbligo dell’anticipazione emanando


un provvedimento esecutivo di condanna all’anticipazione in caso di mancato
adempimento (si pensi ad es. ad una consulenza tecnica d’ufficio).
In via definitiva vale il criterio della soccombenza secondo il quale la parte rimasta
soccombente deve sopportare tutte le spese del processo comprese quelle anticipate
dall’altra parte. Si tratta di un’applicazione del principio secondo cui la durata del processo
non deve danneggiare in alcun modo la parte che ha ragione e quindi di un caso di
responsabilità oggettiva diverso dalle ipotesi di responsabilità per lite temeraria. L’art 92
cpc – condanna alle spese per i singoli atti. Compensazione delle spese dispone che se vi
è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi il giudice può compensare
parzialmente o per intero le spese tra le parti e può anche escludere la ripetizione delle
spese sostenute dalla parte vincitrice qualora le ritenga eccessive o superflue.

Art. 92 (Condanna alle spese per singoli atti. Compensazione delle spese)
Il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione
delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può,
indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non
ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’articolo 88, essa ha causato all’altra parte.
Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o
mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le
spese tra le parti, parzialmente o per intero.
Se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano
diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione.
Il giudice può altresì condannare una parte al rimborso delle spese anche non ripetibili che
questa abbia causato alla controparte trasgredendo il dovere di lealtà e probità e ciò
indipendentemente dalla soccombenza. La statuizione definitiva sulle spese è contenuta
nella sentenza che chiude il processo davanti al giudice per cui si deve trattare di una
sentenza processuale o di merito definitiva.
La previsione di tale norma che dovrebbe riguardare ogni processo e che invece si riferisce
al solo processo ordinario di cognizione crea problemi di adattamento ai processi esecutivi,
cautelari, di volontaria giurisdizione e per quelli costitutivi necessari. Diverso dal problema
delle spese è quello riguardante la responsabilità per lite temeraria la quale si ha quando
la parte abbia agito o resistito in giudizio con mala fede, colpa grave o comunque senza la
normale prudenza.
L’art.96 cpc – responsabilità aggravata prevede al riguardo due autonome fattispecie di
responsabilità per illecito processuale.
Art. 96. (Responsabilità aggravata)
Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il
giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che
liquida, anche d’ufficio, nella sentenza. Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato
eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale o iscritta ipoteca giudiziale,
oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al
risarcimento dei danni l’attor o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La
liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente. In ogni caso, quando pronuncia
sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte
soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente
determinata.

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La prima ipotesi meno severa presuppone che il soggetto abbia agito o resistito con dolo o
colpa grave (non basta quindi la mera violazione dei doveri di lealtà e probità) e si applica a
qualsiasi tipo di processo. Poiché tuttavia la legge non specifica che il comportamento è
ingiusto quando la parte ritiene di aver torto (cosiddetta Procedura ingiusta) la norma
sembra applicabile anche quando il procedimento utilizzato sia irrituale. Il danno risarcibile
riguarda in questo caso non le spese ma qualsiasi onere sostenuto dalla parte vittoriosa.
La seconda ipotesi più severa presuppone invece una colpa lieve e cioè l’aver agito senza la
normale prudenza e si riferisce solo ai procedimenti cautelari ed esecutivi nonché a taluni
atti processuali (trascrizione delle domande giudiziali, iscrizione dell’ipoteca giudiziale). La
giurisprudenza ritiene al riguardo che in questo caso i danni non possono essere fatti
valere in via autonoma perché solo il giudice della causa di merito è in grado di valutare
la temerarietà dellalite.
Per concludere va precisato che anche se l’art.96 cpc prevede una liquidazione dei danni
anche d’ufficio ciò non costituisce una deroga al principio della domanda la quale pertanto
sarà sempre necessaria ma si riferisce alla prova dell’ammontare del danno il quale
pertanto in mancanza di prova può essere determinato in via equitativa.

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