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CAPITOLO 1
LE FONTI DEL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE
1. Il significato dell’accoglimento nella Costituzione dei principi generali del processo.
I caratteri del processo seguono l’evoluzione storica dell’ordinamento di cui fa parte.
Possiamo dire che attualmente il processo è retto dai seguenti principi:
a) Nessuno può essere giudice se non è sufficientemente distaccato dal caso che
deve trattare (nemo judex in re sua);
b) Non è possibile che il giudice inizi egli stesso il processo (nemo judex sine actor);
c) Deve essere garantito alle parti il diritto di difesa: la possibilità di difendersi (audiatur et
altera pars);
d) Il giudice, nel risolvere la controversia, si deve rifare a canoni precostituiti: non li crea
arbitrariamente (jura novit curia).
A questa configurazione del processo si è arrivati dopo una lenta evoluzione storica, che ha
ricevuto il suo riconoscimento nella Carta Costituzionale. Se l’ossatura essenziale del
processo è costituita dai punti fondamentali appena accennati, la Costituzione ha aggiunto
ulteriori elementi che fanno capire quanto il nostro sistema sia sensibile ed attento al tema
delle “garanzie”. Per citare alcuni di questi elementi, basta ricordare l’obbligo della
motivazione dei provvedimenti giudiziari, la previsione del ricorso per Cassazione, il divieto
di istituire giudici speciali e l’inserimento dei Pubblici Ministeri nell’ordine della
magistratura.
L’esperienza di questi anni ha però evidenziato che, nonostante l’attenzione alle garanzie,
il processo, civile o penale, ha una vita caratterizzata da patologica lentezza per cui la
risposta arriva tardi, traducendosi spesso in diniego di giustizia.
Il problema principale, o sicuramente tra i principali, consiste nella durata del processo
che appare, alle volte, insopportabile e tutto questo si traduceva in un malfunzionamento
della giustizia, inaccettabile in un sistema evoluto come il nostro.
Conseguenza di questo stato di cose è stata la riforma dell’art.111 Cost. nel 1999, che ha
inserito alcuni commi al testo originario. Tale riforma viene ricordata con la locuzione legge
sul giusto processo: questa legge ha elevato a rango di precetti costituzionali alcune
disposizioni, penali e civili, in tema di garanzie processuali. La riforma ha solennemente
proclamato che la legge, che è l’unico strumento utilizzabile per regolare il processo, deve
essere formulata in maniera da assicurarne una ragionevole durata.
Art. 111 Costituzione.
La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a
giudiceterzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.
Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve
tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a
suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa;
abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che
rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di
persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo
di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua
impiegata nel processo.
Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della
prova. La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni
rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da
parte dell'imputato o delsuo difensore.
La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per
consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di
provata condotta illecita.
Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.
Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi
giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di
legge.
Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra.
Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è
ammessoper i soli motivi inerenti alla giurisdizione.
È una riforma che non ha mai particolarmente entusiasmato, dal momento che sarebbe
stato forse più utile inserire le disposizioni nella legislazione ordinaria, visto che il problema
sarebbe di più facile soluzione se si rendesse più duttile ed elastico il modello processuale.
[Questa è davvero una particolarità del nostro sistema, che sembra muoversi verso
l’opposta direzione rispetto alle altre legislazioni che hanno la nostra stessa tradizione;
mentre questi si spingono verso modelli più “flessibili”, tali cioè da lasciare al giudice – in
collaborazione con le parti – la possibilità di organizzare il processo in relazione alle
esigenze della singola controversia, noi non riusciamo a distaccarci dall’idea di un modello
processuale unico e regolato nei minimi dettagli. L’unica spiegazione plausibile potrebbe
risiedere nella tradizionale sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, che si
traduce qui nella sfiducia delle parti e dei difensori nei confronti del giudice, il cui
inevitabile potere discrezionale nella conduzione del processo si vuole escludere o limitare
nella massima misura possibile.]
La conseguenza della elevazione a rango costituzionale dei principi che reggono il processo
sta nel fatto che le leggi processuali ordinarie devono essere in armonia con gli stessi e che
eventuali contrasti possono essere portati dinanzi la Suprema Corte, la quale può
dichiarare l’illegittimità delle leggi. Poiché secondo la Costituzione il giudice non può
disapplicare la legge ordinaria ritenuta in contrasto con la CEDU e siccome la norma della
CEDU in contrasto con la Costituzione dovrebbe essere espunta dal nostro ordinamento,
risulta oggi che i giudici ordinari, cui è affidato il compito di “filtrare” le questioni di
costituzionalità ex art.137 Costituzione, devono esaminare la compatibilità delle norme
“interne” non solo con la Costituzione, ma anche con la CEDU, potendo il contrasto tra le
disposizioni dare luogo ad una questione di illegittimità costituzionale per eventuale
violazione dell’art.117 1°co Costituzione.
Art. 117 Costituzione.
La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione,
nonchédei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Infatti, non dobbiamo dimenticare che il nostro ordinamento non permette alle persone di
sollevare direttamente le questioni di costituzionalità; è il giudice del processo che, su
sollecitazione di parte o d’ufficio, può rimettere alla Corte Costituzionale la questione che
ritenga rilevante e non manifestamente infondata. La Corte ha così da condurre una
duplice valutazione preliminare di ammissibilità: valutare se la questione è rilevante ai fini
della decisione della lite, valutare se chi ha sollevato la questione sia legittimato.
Riguardo al punto sub a, si ritiene che il divieto di iniziativa ufficiosa del processo esprime
sia il fondamentale principio secondo il quale non è possibile porre, per nessuna ragione, ai
cittadini limitazioni od ostacoli alla loro difesa nel processo delle posizioni sostanziali –
siano esse di diritto soggettivo od interesse legittimo – che l’ordinamento abbia loro
riconosciute; sia il principio che soltanto chi si afferma portatore della situazione
sostanziale possa decidere se ricorrere o meno alla tutela giurisdizionale.
Quanto ai punti sub b e c, non sarebbe mai sentito come neutrale dalla collettività quel giudice
che venga scelto dopo la nascita della controversia o dell’affare giudiziario o che, comunque,
sia scelto sulla base di criteri elaborati dopo tale nascita. È “naturale” il giudice che sia
scelto in virtù di criteri oggettivi preesistenti alla nascita del processo. L’art.102 2°co
Costituzione a norma del quale “non possono essere istituiti giudici speciali o giudici
straordinari”, fa divieto di creazione di giudici speciali, che sono quelli ai quali si attribuiscono
competenze specifiche e delimitate. A nostro avviso, questo non ha nulla a che vedere con il
principio del giudice naturale. Di conseguenza, quando il legislatore affida competenze
specifiche a giudici “diversi”, questi non possono che essere definiti come giudici speciali in
contrapposizione algiudice ordinario; e la Costituzione ha voluto solo affermare il principio che
non possono essere sottratte materie al giudice ordinario per affidarle ad un organo diverso,
a meno che non si trattidi giudici particolari che abbiamo avuto riconoscimento espresso nella
Costituzione, e tali sono i giudici amministrativi, i giudici contabili e i giudici militari.
Per quanto riguarda il punto sub d, esso è in funzione dell’esigenza di garantire
l’autonomia e l’indipendenza del giudice, che è reso immune dalle pressioni degli altri
organi costituzionali, la cui unica soggezione è soltanto nei confronti della legge. Al tempo
stesso, questa garanzia si trasforma in un limite perché, se è vero che i giudici sono
soggetti soltanto alla legge, è altrettanto vero che non possono oltrepassarla e che nella
legge essi devono ricercare e trovare il canone di valutazione precostituito dei singoli casi
concreti. Una conferma di questo aspetto risiede nella garanzia della motivazione ex
art.111 6°co Costituzione, secondo il quale “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono
essere motivati, e art.111 7°co Costituzione, per il quale “contro le sentenze e contro i
provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso il ricorso per Cassazione”.
È necessario ribadire che la motivazione adempie alla sua funzione non solo nei confronti
delle parti, ma anche nei confronti della collettività.
Art. 70 Costituzione.
La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.
Art. 76 Costituzione.
L'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con
determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti
definiti.
Art. 77 Costituzione.
Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di
leggeordinaria.
Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta, sotto la sua
responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli
per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si
riuniscono entro cinquegiorni.
I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta
giorni dallaloro pubblicazione.
Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti
nonconvertiti.
La riserva si evince in via generale dalla lettura dell’art.117 2°co lett. l Costituzione, che
attribuisce allo Stato la “potestà esclusiva” del legislatore per “giurisdizione e norme
processuali”.
I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente
rieleggibili.
Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del
Parlamento o di un Consiglio regionale.
Art. 111 Costituzione.
La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. (Pag 1)
Il loro essere “ordinari” di questi giudici si manifesta in molti modi, a partire da ciò che
soltanto per loro la Costituzione ha previsto un organo di autogoverno: se, ad esempio, la
giurisdizione dovesse rimanere incerta sotto il profilo dell’attribuzione a questo o
quell’ordine di giudici, il giudice del riparto sarebbe comunque il giudice civile; ed è la
Corte Suprema di Cassazione che, in ultimo, stabilisce l’ordine al quale appartiene in
concreto la giurisdizione; oggi possiamo affermare che la giurisdizione del giudice civile
“ordinario” è residuale, nel senso che si estende là dove la legge non abbia attribuito la
competenza ad altro giudice.
Fatta tale precisazione, il perimetro della nostra disciplina può essere tracciato facendo
centro sul rapporto costituzionalmente stabilito tra “processo” e “giurisdizione”. Se la
giurisdizione postula il processo (non è vero il contrario), il processo a sua volta
presuppone una regolazione propria: questo circolo si schiude verso l’affermazione più
lineare per cui il diritto processuale costituisce il tipo di regole che consentono di attuare la
funzione giurisdizionale, e pertanto il diritto processuale civile l’insieme delle “norme”
applicabili (anche) dai “giudici ordinari” per esercitare la “giurisdizione civile”. Si tratta, in
parole più chiare, delle norme chiamate a concretare il diritto alla tutela giurisdizionale, che
“è tra quelli inviolabili dell’uomo”, “tra i principi supremi del nostro ordinamento
costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia
l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio”.
Nel 1999 fu modificato l’art.111 Costituzione e fu inserito un primo comma che ha
accolto il principio del giusto processo regolato dalla legge. La disposizione recita: “La
giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”, ed è proprio il
termine “giusto” che da noi pone un problema: è giusto il processo che si svolga nel
rispetto delle prescrizioni di legge ovvero è giusto il processo che tenda ad un risultato
giusto? È giusto il processo secondo legge o secondo diritto? Se si accoglie questa
seconda opzione – che è quella preferita – è da ritenere che un processo legittimo
(svolto secondo la legge) abbia bisogno di ulteriori norme, ad esempio dell’applicazione
di superiori “principi regolatori” (che precedono la fonte diretta di regolazione). Dobbiamo
considerare che mediante un processo si attuano anche forme di “giudizio” che non
sono “giudiziarie”, cioè espressione dell’autorità della “magistratura”; pensiamo
all’arbitrato che,anche nel nostro ordinamento, dà la possibilità ai privati di istituire un
procedimento retto da “arbitri” volto alla soluzione di questioni e controversie civili con
effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria, così venendosi anche qui a
trattare di “giurisdizione civile”.
Si comprende, allora, che l’insieme di tutte queste “norme”, complessivamente serventi
rispetto alla funzione di giudizio, conviene di definire più appropriatamente come diritto
processuale civile, costituendone la “legge” la parte indispensabile. Infatti, la legge gioca un
ruolo esaustivo della disciplina del processo e, proprio in virtù della connotazione che
prende la legalità processuale, è possibile affermare una serie di caratteristiche ulteriori
del (-le norme di) diritto processuale civile.
Il principio di legalità implica la tipicità degli atti, la tassatività e la determinatezza delle
relative fattispecie, il divieto di irretroattività e di analogia. Non sarebbe governato dalla
legge un fenomeno che ammettesse la rilevanza di atti estranei all’ordine chiuso, completo
e autosufficiente che il legislatore deve predeterminare; allo stesso modo, se la legge
descrivesse la fattispecie di un atto in termini vaghi da impedirne la conoscibilità dei suoi
effetti. La tipicità diviene così concetto di sintesi delle fondamentali garanzie di tassatività
e determinatezza, caratteristiche intese ad evitare l’arbitrio del giudice; diventano anche
essenziali fattori di orientamento della condotta delle parti ed è anche per questo che la
norma processuale deve essere di immediata applicazione, valendo dunque quella vigente
al momento della causa; e, per altro verso, essa “non dispone che per l’avvenire” e, quindi,
deve essere irretroattiva poiché è soltanto la norma cogente al tempo di compimento
dell’attività quella normalmente valida.
Come abbiamo visto, la riserva di legge non opera in esclusivo favore del Codice di Procedura
Civile, siccome le norme che regolano il processo possono derivare dalla legge in genere, rimane
tuttavia indubbio il valore di “prototipo” che il modello fissato da questo testo viene a prendere
per il corrispondente atto processuale da svolgere presso altri che non sia uno dei “giudici
ordinari”. Ma questo non dipende da tecniche di estensione analogica; il Codice di Procedura Civile
rimane naturalmente cogente per via diretta del suo art.1 cpc, a norma del quale: Art. 1.
(Giurisdizione dei giudici ordinari) La giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è
esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del presente codice. La disposizione ha una
notevole vis expansiva, dal momento che se il processo non dovesse svolgersi dinanzi ai giudici
ordinari troverà comunque applicazione il Codice di Procedura Civile, a meno che non subentrino
“speciali disposizioni di legge”, come adesso avviene per il Codice del processo amministrativo.
CAPITOLO 2 - LA GIURISDIZIONE
1.I caratteri della funzione giurisdizionale.
La divisione dei poteri dello Stato ha posto le basi per una concezione della giurisdizione
non come esercizio di un potere, ma come erogazione di un servizio, al quale lo Stato è
tenuto.
I nostri codici e la nostra Costituzione sintetizzano questa idea in poche e concise
disposizioni normative. “La giurisdizione civile, salvo speciali disposizioni di legge, è
esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del presente codice”, troviamo scritto
nell’art.1 cpc. Non diversamente recita la Costituzione all’art.102 1°co Costituzione,
secondo il quale “la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari istituiti e
regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”. Art. 102 Costituzione. (pag 3)
In entrambe le disposizioni è presente il termine ordinari riferito ai giudici. E se il codice di
rito non individua il giudice, la Costituzione lancia un messaggio: è giudice chi è “istituito e
regolato” dalle norme sull’ordinamento giudiziario, che distingue i giudici di carriera e i
giudici onorari.
Quanto detto fino a ora ci può spingere ad alcune deduzioni, vediamole. La giurisdizione come
servizio – La funzione giurisdizionale è un servizio. Questa definizione è in linea con l’art.104
1°co Costituzione a norma del quale la magistratura costituisce un “ordine”. Art. 104
Costituzione. (pag. 7) Ma aggiunge anche che è un ordine autonomo e indipendente “da ogni
altro potere”. Ordine o potere? Per conto nostro l’idea che costituisce un ordine va associata
all’idea che il giudice è chiamato ad applicare la legge, che costituisce il limite oltre il quale non
può andare e dentro il quale deve svolgere la sua attività in piena autonomia (art.101 2° co
Costituzione).
Tuttavia, benchè la giurisprudenza non sia annoverata nel nostro Paese tra le fonti del diritto,
non si può negare che partecipa, e in misura sempre crescente, alla sua formazione. Seguendo
questa linea evolutiva, la magistratura va sempre più delineandosi come un potere, seppure
“neutro” poiché esercitato in maniera imparziale.
Esiste un monopolio statale della giurisdizione? – Anche in questo campo, l’evoluzione ha
avuto il suo peso. Con l’avvento degli Stati-nazione si affievolisce l’idea che il giudice possa
essere soltanto chi riceve l’investitura autoritaria e, di contro, si afferma l’esigenza di
esaminare i contenuti della funzione, distinguendo ciò che può fare un qualsiasi soggetto
“terzo ed imparziale”, cui sia affidato il compito di risolvere una controversia e ciò che può
fare soltanto un soggetto investito di autorità. Per questa strada si è ammessa la rilevanza
immediata nel nostro ordinamento delle decisioni dei giudici stranieri (che nel nostro
ordinamento non hanno investitura autoritaria) e la possibilità di ricorso all’arbitrato.
Senza dimenticare che la costituzione europea ha portato ad una indubbia contrazione
della sovranità degli Stati-membri anche nel settore della giustizia.
La giurisdizione affidata alla magistratura ordinaria – L’idea del costituente è stata quella
di assegnare alla magistratura ordinaria una funzione di assoluto rilievo; ne è la prova sia la
distinzione tra “giudici ordinari” e “giudici speciali”, ma soprattutto la previsione della
Corte di Cassazione, come organo di vertice della magistratura ordinaria e giudice di
conflitti anche tra il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti.
Anche in questo caso l’evoluzione ha rotto l’originario equilibrio: la Corte di Conti, infatti,
ha visto allargarsi l’area delle sue competenze in conseguenza delle riforme
sull’organizzazione dei servizi pubblici, ai quali si accompagna, ovviamente, il costante
finanziamento con danaro pubblico.
Per quanto riguarda il giudice amministrativo, la vicenda è più complessa; i costituenti
erano partiti dall’idea di tenere ferma la giurisdizione amministrativa che si era rivelata una
In conclusione, il criterio di riparto fissato dai costituenti è venuto meno, così che
l’impianto originario ne esce modificato. Da ora in avanti, i problemi sempre meno quelli
relativi al riparto di giurisdizione, essendo il legislatore ordinario libero di risolverli come
crede, ma quelli delle garanzie della giurisdizione e del processo, essendo evidente che se
siamo di fronte ad un’unica funzione giurisdizionale non c’è ragione per distinguere i
modelli processuali, così come non c’è ragione per immaginare giudici diversi e
diversamente regolati e organizzati. Insomma, siamo di fronte ad un processo di osmosi e,
per tale motivo, si dovrebbe adottare il sistema della giurisdizione unica già propugnato,
ma non accolto.
La giurisdizione penale è la funzione dello Stato preposta all’attuazione delle norme penali,
caratterizzate dal fatto di essere accompagnate dalla sanzione penale. Il campo affidato alla
giurisdizione civile viene ricavato per differenza, nel senso che vi rientrano tutte le materie
che la legge non affida alla giurisdizione penale, a quella amministrativa e a quella contabile.
L’introduzione di un sistema costituzionale rigido, secondo il quale le norme non possono
contrastare con le disposizioni costituzionali, ha imposto l’introduzione della Corte
Costituzionale, il cui compito più rilevante è quello di sindacare la conformità delle leggi e
degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni alle norme della Costituzione.
Accanto a questo, l’art.134 Costituzione, affida alla Corte la funzione di giudicare sui conflitti di
attribuzione fra i poteri dello Stato e su quelli tra Stato e Regioni e tra le Regioni, nonché sulle
accuse mosse al Presidente delle Repubblica, a norma della Costituzione.
Art. 134 Costituzione.
La Corte costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimità costituzionale
delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni; sui conflitti di
attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni;
sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione.
5. L’arbitrato.
Abbiamo visto che la funzione giurisdizionale è affidata a magistrati di carriera, inseriti
nell’organizzazione dello Stato. La Costituzione all’art.24 Costituzione, garantisce il diritto
di azione esercitato sia dinanzi al giudice statale, sia dinanzi al giudice privato, sia che non
sia affatto esercitato.
Art. 24 Costituzione.
Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto
inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni
giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.
Bisogna però stabilire quando ciò sia possibile. Non lo è per tutte le forme di processo
volontario, che sono contrassegnate dall’essere affidate a un magistrato di carriera. È più
facile da ipotizzare nel campo della giurisdizione contenziosa, dove nulla sembra
ostacolare i soggetti che vogliano far decidere la controversia non dai giudici dello Stato
ma da persone di loro fiducia. Questo tradizionale istituto prende il nome di arbitrato,
regolato dagli artt.806 ss. cpc.
Art. 806. (Controversie arbitrabili)
Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per
oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge.
Le controversie di cui all'articolo 409 possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o
nei contratti o accordi collettivi di lavoro.
Art. 807. (Compromesso)
Il compromesso deve, a pena di nullità, essere fatto per iscritto e determinare l'oggetto della
controversia.
La forma scritta s'intende rispettata anche quando la volontà delle parti è espressa per telegrafo,
telescrivente, telefacsimile o messaggio telematico nel rispetto della normativa, anche
regolamentare, concernente la trasmissione e la ricezione dei documenti teletrasmessi.
Possiamo sintetizzarlo così: le parti hanno la possibilità di fare ricorso all’arbitrato
mediante un contratto, da redigere per iscritto, con il quale convengono di far decidere
dagli arbitri una controversia già insorta e ben individuata (o anche controversie future
relative ai rapporti non contrattuali) che abbia ad oggetto diritti disponibili. Le stesse
possono stabilire con una clausola di un più complesso contratto che stipulano o con atto
successivo che si collega ad esso, di far decidere dagli arbitri le controversie (future)
scaturenti dal contratto stesso. Una volta investiti della controversia, gli arbitri emettono la
decisione. La pronuncia prende il nome di lodo, al quale l’art.824 bis cpc attribuisce gli
“effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”.
824-bis. (Efficacia del lodo)
Salvo quanto disposto dall'articolo 825, il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli
effetti della sentenza pronunciata dall'autorità giudiziaria.
6. Le questioni di giurisdizione.
A) La nozione di giurisdizione secondo il codice: la giurisdizione ha per oggetto la sfera di
potere giurisdizionale attribuita ai giudici nei rapporti con i giudici di ordine diverso
(mentre a competenzaè la misura del potere giurisdizionale attribuita ai giudici nei rapporti
con altri giudici appartenenti allo stesso ordine). Questa era l’impostazione data dal
legislatore oltre mezzo secolo fa, ma oggi è ancora attuale? La riforma del 1995 ha
abrogato l’art.2 cpc, che era l’unica disposizione dalla quale si desumeva il divieto di patti in
deroga alla giurisdizione;
Art. 2. (abrogato) (Inderogabilità convenzionale della giurisdizione)
L'articolo che recitava: "La giurisdizione italiana non può essere convenzionalmente derogata a
favore di una giurisdizione straniera, né di arbitri che pronuncino all'estero, salvo che si tratti di
causa relativa ad obbligazioni tra stranieri o tra uno straniero e un cittadino non residente né
domiciliato nella Repubblica e la deroga risulti da atto scritto." è stato abrogato dall'art. 73, L. 31
maggio 1995, n. 218.
Oggi si prevede espressamente la possibilità delle convenzioni in deroga , purchè siano
fatte per iscritto, vertano su diritti disponibili, subordinando la sola efficacia delle
convenzioni a una sorta di consenso del giudice. Sempre più spesso, il legislatore delinea le
sfere di competenza dei giudici di diverso ordine per blocchi di materie. Il d.lgs. 30 marzo
2001 n°165 ha attribuito al giudice ordinario tutte le controversie in materia di pubblico
impiego e al giudice amministrativo tutte le controversie in materia di servizi pubblici, di
urbanistica, di edilizia, comprese quelle per il risarcimento del danno e comunque relative
ai diritti patrimoniali consequenziali.
Di questi mutamenti non si è ancora del tutto consapevoli, tanto che fino a poco tempo fa
si continuava a ritenere che il difetto di giurisdizione avesse effetto caducatorio del
processo. In realtà, l’unica disposizione da cui si desume ciò e che il difetto di giurisdizione
può essere rilevato anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, è contenuta
nell’art.37 cpc – difetto di giurisdizione.
Art. 37. (Difetto di giurisdizione)
Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei
giudici speciali è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo.
Siccome le basi oggi sono ampiamente mutate, ci piace di pensare che l’evoluzione del
nostro ordinamento sia nel senso di restringere la portata dell’art.37 cpc – difetto di
giurisdizione, limitandola al suo tenore letterale, ovvero quello di norma destinata a
regolare il fenomeno all’interno del processo. Dopotutto, la convenzione dell’arbitrato
consente alla parti di rinunciare alla giurisdizione dello Stato, derogando a tale principio.
Ovviamente, quando l’evoluzione degli istituti porta a risultati diversi da quelli sperati, si
evidenziano nel sistema fratture e contraddizioni. La chiave per forzare il significato delle
stesse disposizioni costituzionali e per renderle compatibili con il “diritto vivente” sta
nell’esigenza di offrire una giustizia effettiva in tempi ragionevoli e l’occasione è data
dall’incapacità delle nostre istituzioni di apportare le correzioni, anche a livello
costituzionale, all’organizzazione complessiva del nostro sistema giudiziario. La vicenda
della c.d. translatio judicii è esemplare.
L’art.50 cpc – riassunzione della causa, era stato formulato in considerazione di un sistema
che distingueva nettamente la giurisdizione dalla competenza. Pertanto, si riteneva che,
qualora un giudice fosse stato dichiarato incompetente in ordine alla domanda a lui
proposta, le parti avrebbero potuto trasferire il processo dinanzi al giudice competente in
modo tale che la porzione celebrata dinanzi al primo giudice si saldasse con quella
proseguita dinanzi al secondo giudice senza che si producessero effetti sfavorevoli di alcun
tipo ai danni delle parti. Se, invece, era stato dichiarato il difetto di giurisdizione in favore
di un giudice speciale, la parte avrebbe dovuto cominciare il processo daccapo, con la
proposizione di una nuova domanda, subendo il rischio di preclusioni, decadenze o
prescrizioni nel frattempo verificatesi. Il sistema conosceva un’unica eccezione: l’art.382
cpc – decisione delle questioni di competenza e giurisdizione, che ammetteva la
possibilità di trasferire il processo dal giudice speciale al giudice ordinario, qualora fosse
stata affermata la giurisdizione di quest’ultimo.
Art. 382. (Decisione delle questioni di giurisdizione e di competenza)
La Corte, quando decide una questione di giurisdizione, statuisce su questa, determinando, quando
occorre, il giudice competente.
Quando cassa per violazione delle norme sulla competenza, statuisce su questa.
Se riconosce che il giudice del quale si impugna il provvedimento e ogni altro giudice difettano di
giurisdizione, cassa senza rinvio. Egualmente provvede in ogni altro caso in cui ritiene che la causa
non poteva essere proposta o il processo proseguito.
La motivazione è che, all’epoca, la giurisdizione dei giudici speciali si poneva come
“residuale” e, inqualche misura, come “eccezionale”.
Questa sistemazione, però è apparsa obsoleta e contrastante con un sistema di tutela
effettivo. La Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione erano così pervenute a risultati
diversi. La prima, aveva dichiarato incostituzionale il non prevedere la conservazione degli
effetti sostanziali e processuali della domanda proposta al giudice incompetente, salvando
così gli effetti della domanda; la Corte di Cassazione era stata ancora più audace,
stabilendo il principio secondo cui è possibile la translatio anche dal giudice civile al giudice
amministrativo, non preoccupandosi di come ciò sarebbe potuto avvenire. Ovviamente, la
decisione della SC era assai discutibile per chi ritiene che compito degli interpreti (quindi
anche quello dei giudici) è quello di applicare le leggi, non quello di crearle. Quello della
Corte Costituzionale lasciava perplessi, perché si risolveva in un intervento manipolativo
del testo di legge assai ardito, oltre tutto limitato ai soli rapporti tra giudice amministrativo
e giudice civile.
Per questi motivi, il legislatore è intervenuto con la l.69/2009, di cui pare utile fissare i
punti principali. In virtù del principio per il quale ciascun giudice è giudice della propria
competenza, se il primo giudice ha declinato la sua giurisdizione, il secondo giudice al quale
la domanda era stata posta ex novo poteva anche egli rifiutare di avere giurisdizione. Vi
era, e vi è, una sola eccezione, quando l’indicazione del giudice sia fatta dalla SC, che, fra le
altre cose, ha anche il compito di regolare la giurisdizione.
Dobbiamo individuare così tre ipotesi:
a) Il giudice originariamente adito dichiara il suo difetto di giurisdizione (nel
qual caso deve indicare quale è il giudice che ne è munito), ma la decisione
è ancora impugnabile.
b) In pendenza del processo originario la SC, investita della questione, ha
regolato la giurisdizione.
c) La pronuncia sulla giurisdizione è passata in giudicato (e ciò quando le parti
non l’abbiano impugnata o abbiano espressamente o tacitamente
rinunziato ad impugnarla.
Nelle ipotesi b) e c) il legislatore ritiene che il processo dinanzi al primo giudice si sia
chiuso. Di conseguenza, non potendosi parlare di riassunzione, la parte potrà soltanto
riproporre la domanda (nelle forme richieste per il processo dinanzi al nuovo giudice) e se
lo fa entro tre mesi salva gli effetti sostanziali e processuali della prima domanda. Dal fatto
che inizia un nuovo processo deriva che: 1) restano ferme le preclusioni e le decadenze
intervenute nel corso del processo chiuso; 2) le prove raccolte dinanzi al primo giudice
possono essere valutate come argomenti di prova; 3) il secondo giudice può, a sua volta,
declinare la sua giurisdizione.
Cosa comporta parlare di riassunzione e non di proposizione di nuova domanda?
Comporta, in primo luogo, che il processo “continua” dinanzi al nuovo giudice; le prove
raccolte restano valide; le parti possono essere rimesse in termini ex art.49, 2°co cpc;
perdurando un conflitto con il primo giudice, il secondo può proporre regolamento
preventivo ad analogia di quanto previsto nell’art.45 cpc – conflitto di competenza.
Art. 49. (Sentenza di regolamento di competenza)
Il regolamento è pronunciato con ordinanza in camera di consiglio entro i venti giorni successivi
alla scadenza del termine previsto nell’articolo 47, ultimo comma.
Con l’ordinanza la Corte di cassazione statuisce sulla competenza, dà i provvedimenti necessari per
la prosecuzione del processo davanti al giudice che dichiara competente e rimette, quando
occorre, le parti in termini affinché provvedano alla loro difesa.
Art. 45(Conflitto di competenza)
Quando, in seguito alla ordinanza che dichiara la incompetenza del giudice adito per ragione di
materia o per territorio nei casi di cui all’articolo 28, la causa nei termini di cui all’articolo 50 è
riassunta davanti ad altro giudice, questi, se ritiene di essere a sua volta incompetente, richiede
d’ufficio il regolamento di competenza.
B) L’art.37 cpc – difetto di giurisdizione, invece, non richiama più il rapporto tra il giudice
italiano e convenuto straniero, essendo stato abrogato dalla l.218/1995 il suo 2°co. È
discutibile, oramai, che i rapporti fra giudice italiano e giudice straniero siano inquadrabili
nello schema normativo della giurisdizione.
Art. 37. (Difetto di giurisdizione)
Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei
giudici speciali è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo.
C) Restano altre due possibili situazioni:
7. Il regolamento di giurisdizione.
Il regolamento di giurisdizione è un istituto processuale del ramo civile previsto e
disciplinato dall'art.41 cpc – regolamento di giurisdizione.
Art. 41. (Regolamento di giurisdizione)
Finche' la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle Sezioni
unite della Corte di cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui all'art. 37. L'istanza
si propone con ricorso a norma degli artt. 364 ss., e produce gli effetti di cui all'art. 367.
La pubblica amministrazione che non è parte in causa può chiedere in ogni stato e grado del
processo che sia dichiarato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione il difetto di giurisdizione del
giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti dalla legge all'amministrazione stessa, finché la
giurisdizione non sia stata affermata con sentenza passata in giudicato.
È lo strumento attraverso il quale possono essere risolte preventivamente, cioè prima che
il giudice stesso decida la causa, le questioni di giurisdizione in caso di conflitto tra giudice
civile, amministrativo, contabile, tributario o giudici speciali. Prevede il ricorso con le forme
definite agli artt.360 ss cpc. L'istanza è proposta dalle parti o dal giudice.
Ai sensi dell'art.41 cpc infatti: “finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado,
ciascuna parte può chiedere alle Sezioni unite della Corte di Cassazione che risolvano le
questioni di giurisdizione di cui all'articolo 37”. Il regolamento cosiddetto "preventivo" di
giurisdizione è strumento atto ad evitare che si proceda davanti ad un giudice sfornito di
giurisdizione e si veda poi cassata la sentenza dalla Corte suprema. Ha una prevalente funzione di
economia processuale. Non si tratta di un mezzo di impugnazione perché non interviene su di una
decisione resa da altro giudice, ma semplicemente rimette il potere di decidere sulla questione di
giurisdizione alla Corte suprema.
Un punto ampiamente dibattuto riguarda il termine ultimo entro cui può essere proposto
il regolamento. L'art.41 cpc dice che la preclusione non scatta "finché la causa non sia
decisa nel merito in primo grado...", ma dottrina e giurisprudenza hanno interpretato
questo dettato estendendo la preclusione alla proponibilità del regolamento a qualunque
sentenza definitiva o non definitiva di merito o processuale in primo grado. Le ragioni sono
chiare, il regolamento non è mezzo d'impugnazione, deve, quindi, essere strumentale a
prevenire decisioni impugnabili. Se il giudice emette sentenza l'ordinamento ha a
disposizione altri mezzi per porre rimedio all'errore.
Il regolamento è proponibile, naturalmente, dal convenuto, ma anche dall'attore che vi ha
dato causa, per ribadire ulteriormente che lo scopo è di prevenire passaggi inutili davanti al
giudice. Le questioni per le quali è previsto il regolamento sono individuate dall'art.37 cpc
– difetto di giurisdizione "difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della
pubblica amministrazione o dei giudici speciali...".
L'istanza di regolamento si propone con ricorso alle Sezioni unite della Corte di Cassazione
con lemodalità previste dall'art.365 ss cpc.
Nota di rilievo meritano tanto il disposto dell'art.367 cpc modificato con la riforma al
codice di procedura civile del 1990, riforma che ha attribuito al giudice davanti al quale
pende la causa la valutazione circa la sospensione del processo, subordinandola al
ricorrere di due presupposti "...sospende il processo se non ritiene l'istanza
manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente
infondata", quanto la riforma del 2009 che ha introdotto la possibilità di operare una
translatio judicii così che se le parti riassumono, entro il termine di tre mesi dal passaggio
in giudicato della pronuncia della cassazione, la causa davanti al giudice indicato dalle
Sezioni unite questa si considera proposta ex tunc. In origine la sospensione era
obbligatoria ed incondizionata e consentiva l'uso del regolamento per mere finalità
dilatorie. Con la translatio judicii non è più necessario riproporre la causa ma è sufficiente
riassumerla in termini perché siano fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della
domanda.
Art. 367. (Sospensione del processo di merito)
Una copia del ricorso per cassazione proposto a norma dell'articolo 41, primo comma, è
depositata, dopo la notificazione alle altre parti, nella cancelleria del giudice davanti a cui pende la
causa, il quale sospende il processo se non ritiene l'istanza manifestamente inammissibile o la
contestazione della giurisdizione manifestamente infondata. Il giudice istruttore o il collegio
provvede con ordinanza.
Se la Corte di cassazione dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, le parti debbono
riassumere il processo entro il termine perentorio di sei mesi dalla comunicazione della sentenza.
Un problema può sorgere nel caso in cui il processo di merito prosegua davanti al giudice
adito, giungendo a sentenza, nonostante penda il ricorso per il regolamento di
giurisdizione davanti alla Suprema corte. Due sono le possibili e contrarie soluzioni. La
prima è lineare, la Cassazione afferma la giurisdizione del giudice di merito, la sentenza
resa dal giudice a quo è pienamente efficace. La seconda prevede che le due sentenze,
ovviamente opposte, trovino un coordinamento. La Cassazione arriva a negare la
giurisdizione del giudice di merito, il giudice nel frattempo ha reso sentenza di merito. Per
la soluzione trova applicazione analogica l’art.336 – effetti della riforma o della
cassazione, che prevede che "La riforma o la cassazione estende i suoi effetti a
provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata."
Art. 336. (Effetti della riforma o della cassazione)
La riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte
riformata o cassata.
La riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla
sentenza riformata o cassata.
Per quanto riguarda il processo amministrativo, l'art. 10 del Decreto legislativo 2 luglio
2010 n. 104 statuisce la rilevabilità del difetto di giurisdizione d'ufficio in primo grado
davanti al giudice amministrativo, nonché in grado di appello; esso può essere
promosso secondo le norme del codice di procedura civile a cui si rinvia, soltanto a
condizione che non vi sia stata acquiescenza sul capo della sentenza che esplicitamente o
implicitamente abbia pronunciato sulla giurisdizione.
Il regolamento di giurisdizione, sottoscritto da un cassazionista e notificato a tutte le parti
del processo amministrativo, può essere proposto in primo grado solo finché la causa non
sia stata decisa anche se solamente nel rito. Tale preclusione non opera se il giudice abbia
sollevatoquestione pregiudiziale alla Corte di giustizia delle Comunità europee.
CAPITOLO 3 LA COMPETENZA
1. La nozione di competenza.
Il giudice al quale sia stata presentata la domanda giudiziale, dopo aver stabilito se abbia
giurisdizione, deve stabilire se è competente. La competenza è la quantità di potere
giurisdizionale riconosciuta a ciascun ufficio giudiziario nei confronti degli altri uffici
giudiziari appartenenti allo stesso ordine.
Il legislatore ha previsto 3 criteri di collegamento tra le controversie e gli uffici giudiziari:
1) Per materia – fondato sulla natura della causa.
2) Per valore – fondato sul valore della causa.
3) Per territorio – fondato su determinati elementi di collegamento spaziale tra
la controversia e l’ufficio giudiziario.
Questo presuppone una organizzazione degli uffici giudiziari, in senso orizzontale, dislocati
sul territorio dello Stato in modo che ciascuno eserciti le funzioni giurisdizionali in una
determinata sfera, e in senso verticale, ovvero strutturati in maniera piramidale al cui
vertice è la Cassazione, poi le Corti di Appello, i tribunali e gli uffici del giudice di pace.
L’individuazione del giudice competente non riguarda la persona fisica che potrà decidere
sulla controversia, ma l’ufficio giudiziario nel suo complesso, all’interno del quale saranno
distribuiti gli affari.
Ad ogni modo, bisogna prima risolvere i problemi della competenza verticale, poi
affrontare quelli relativi alla competenza orizzontale. In pratica il giudice o l’avvocato si
comporterà così: esaminerà in primo luogo se la controversia rientri nelle attribuzioni di un
determinato giudice per ragioni di materia e, qualora non vi rientrasse, passa ad esaminare
il valore; ove abbia individuato il giudice competente in primo grado (cioè il giudice di pace
o il tribunale) per materia o per valore, determina quale giudice di pace o tribunale in
concreto sia competente per ragioni di territorio. La competenza per i gradi successivi è
determinata in guisa automatica tenendo conto dei vari scalini della competenza verticale
di cui abbiamo detto poco sopra. È chiaro che, mentre la ripartizione della competenza
secondo criteri territoriali risponde a ragioni prevalentemente organizzative, quella dei
criteri di valore o materia risponde più a valutazioni che attengono all’importanza e alle
caratteristiche intrinseche della lite in virtù delle quali il legislatore stabilisce che
determinate controversie siano decise meglio da alcuni giudici che da altri. La
giustificazione di questo ragionamento la troviamo nell’enunciato dell’art.38 cpc –
incompetenza secondo il quale l’incompetenza per valore e merito danno luogo a vizi più
gravi, mentre l’incompetenza per territorio da luogo a vizio meno grave.
Art. 38. (Incompetenza)
L’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio sono eccepite, a pena di
decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata. L’eccezione di incompetenza
per territorio si ha per non proposta se non contiene l’indicazione del giudice che la parte ritiene
competente.
Fuori dei casi previsti dall’articolo 28, quando le parti costituite aderiscono all’indicazione del
giudice competente per territorio, la competenza del giudice indicato rimane ferma se la causa è
riassunta entro tre mesi dalla cancellazione della stessa dal ruolo.
L’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio nei casi previsti dall’articolo
28 sono rilevate d’ufficio non oltre l’udienza di cui all’articolo 183.
Le questioni di cui ai commi precedenti sono decise, ai soli fini della competenza, in base a quello
che risulta dagli atti e, quando sia reso necessario dall’eccezione del convenuto o dal rilievo del
giudice, assunte sommarie informazioni.
A noi comunque sembra di poter condividere la soluzione per la quale il giudice adito può
decidereil merito.
Altro problema riguarda l’applicabilità dell’art.5 cpc ovvero se riguardi solo il processo
civile, ovvero se abbia portata generale. Ci sembra di dover rispondere in questo secondo
senso. Ci si chiede, infine, se l’art.5 cpc valga anche nel caso diverso in cui adito un giudice
carente di giurisdizione o di competenza, i mutamenti successivi sono tali da radicare un
criterio di collegamento originariamente mancante.
La risposta può essere positiva non in applicazione dell’art.5 cpc, che qui non ha rilievo, ma
in applicazione del principio di economia processuale. Infatti, sarebbe un inutile
formalismo cambiare giudice, quando quello adito è, comunque, ritenuto legittimato a
provvedere. Così, finalmente si è posto in rilievo che l’art.5 cpc non si applica se il
mutamento è conseguenza di una pronuncia di incostituzionalità, dato che tali pronunce
hanno efficacia retroattiva.
Altra cosa che va segnalata riguarda i rapporti tra competenza per valore e merito;
abbiamo visto, infatti, che la disciplina è stata dettata con riguardo ai problemi della
competenza e senza incidere sul merito. Vi è una eccezione, contenuta nell’art.14 3°co cpc
– cause relative a somme didanaro e beni mobili, secondo il quale:
Art. 14.(Cause relative a somme di danaro e a beni mobili)
Nelle cause relative a somme di danaro o a beni mobili, il valore si determina in base alla somma
indicata o al valore dichiarato dall'attore; in mancanza di indicazione o dichiarazione, la causa si
presume di competenza del giudice adito.
Il convenuto può contestare, ma soltanto nella prima difesa, il valore come sopra dichiarato o
presunto; in tal caso il giudice decide, ai soli fini della competenza, in base a quello che risulta dagli
atti e senza apposita istruzione.
Se il convenuto non contesta il valore dichiarato o presunto, questo rimane fissato, anche agli
effetti del merito, nei limiti della competenza del giudice adito.
La disposizione, qualora l’attore abbia adito un giudice che è competente per controversie
di valore inferiore a quello della controversia effettiva, offre al convenuto la possibilità,
non contestando tale valore, di far sì che il giudice, anche nel caso in cui accolga la
domanda, non possa superarlo. Per questo motivo, la giurisprudenza preferisce
interpretare la norma in maniera restrittiva, sottolineando che l’art.14 1° co cpc distingue
la “somma indicata” delle cause relative a somme di danaro dal “valore dichiarato” dalle
cause relative a beni mobili per trarre la deduzione che, parlando il 3° co di “valore
dichiarato o presunto”, quest’ultimo si è riferito soltanto alle cause relative a beni mobili (e
quindi non a somme di danaro). Questa deduzione però è tutt’altro che sicura.
Infine, va ricordato che l’art.104 cpc – pluralità di domande contro la stessa parte
espressamente richiama l’art.10 2° co cpc – determinazione del valore, nel senso che il
criterio del cumulo del valore può essere applicato anche nel caso della proposizione di più
domande, ancorchè non connesse, contro la stessa persona.
COMPETENZA TERRITORIALE.
La dottrina è solita distinguere i fori (ovvero gli uffici giudiziari territorialmente
competenti) in vario modo: generali sono quelli davanti ai quali ognuno può essere
convenuto in ogni controversia; speciali quelli specificamente riservati per determinate
controversie. A questi deve aggiungersi il foro inderogabile, previsto per le controversie in
cui le parti possono convenzionalmente derogare alla competenza territoriale fissata per
legge, purchè lo abbiano espressamente preveduto come esclusivo.
Salva l'applicazione dell'articolo 187, il giudice provvede sulle richieste istruttorie fissando
l'udienza di cui all'articolo 184 per l'assunzione dei mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti. Se
provvede mediante ordinanza emanata fuori udienza, questa deve essere pronunciata entro
trenta giorni.
Nel caso in cui vengano disposti d'ufficio mezzi di prova con l'ordinanza di cui al settimo comma,
ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice con la medesima
ordinanza, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi nonché depositare
memoria di replica nell'ulteriore termine perentorio parimenti assegnato dal giudice, che si riserva
di provvedere ai sensi del settimo comma.
Con l'ordinanza che ammette le prove il giudice può in ogni caso disporre, qualora lo ritenga utile, il
libero interrogatorio delle parti; all'interrogatorio disposto dal giudice istruttore si applicano le
disposizioni di cui al terzo comma.
La riduzione del rilievo della competenza ha creato alcuni problemi di coordinamento. A
parere nostro, si rende così inevitabile un’indagine caso per caso per verificare quale è la
disciplina desumibile dalle disposizioni specificamente dettate, così che l’art.38 cpc finirà di
assumere il carattere di norma residuale, ove non sia possibile attingere ad una diversa
disciplina.
L’originaria formulazione dell’art.38 cpc aveva il pregio della semplicità. Oggi, si pongono
tre ordinidi problemi:
a) quale è l’accertamento che il giudice deve compiere ai fini della decisione,
eventualmente immediata, sulla competenza;
b) che cosa succede se, al momento in cui il giudice decide il merito e, quindi, a istruttoria
chiusa, viene a conoscenza di elementi sconosciuti all’epoca dell’udienza ex art.183 cpc,
per i quali non è competente;
c) come si deve comportare se la parte all’udienza ex art.183 cpc solleva eccezione
di incompetenza che egli ritiene infondata.
Sulla prima questione è intervenuto lo stesso art.38 cpc, il cui ultimo comma prevede che il
giudice decide, ai soli fini della competenza, in base a quello che risulta dagli atti e, quando
sia reso necessario dall’eccezione del convenuto, assunte sommarie informazioni. Sulla
terza questione, invece di contribuire ad una accelerazione del processo, potrebbe
condurre ad un rallentamento, per lo meno quando l’incompetenza sia tempestivamente
eccepita. In questo modo, la parte maliziosa potrebbe avere uno strumento formidabile
per rallentare il processo. Per evitare questo, la dottrina ha sottolineato come l’art.187
3°co cpc – provvedimenti del giudice istruttore, dia al giudice, nella fase istruttoria, il
potere di accantonare le questioni processuali e quindi anche quelle sulla competenza,
rinviando ogni decisione al momento in cui sarà deciso il merito.
Art. 187. (Provvedimenti del giudice istruttore)
Il giudice istruttore, se ritiene che la causa sia matura per la decisione di merito senza bisogno di
assunzione di mezzi di prova, rimette le parti davanti al collegio.
Può rimettere le parti al collegio affinché sia decisa separatamente una questione di merito avente
carattere preliminare, solo quando la decisione di essa può definire il giudizio.
Il giudice provvede analogamente se sorgono questioni attinenti alla giurisdizione o alla
competenza o ad altre pregiudiziali, ma può anche disporre che siano decise unitamente al merito.
Qualora il collegio provveda a norma dell'articolo 279, secondo comma, numero 4), i termini di cui
all'articolo 183, ottavo comma, non concessi prima della rimessione al collegio, sono assegnati dal
giudice istruttore, su istanza di parte, nella prima udienza dinanzi a lui.
Il giudice dà ogni altra disposizione relativa al processo.
La recente modifica all’art.38 cpc conferma che tale orientamento non è utilizzabile quando il
giudice ritenga “allo stato degli atti” fondata la questione di competenza pur in mancanza di
espressa eccezione. È più difficile dare una risposta alla seconda questione; qui, se vengono in
rilievo criteri di collegamento estranei alla fattispecie sostanziale dedotta in giudizio (es., il
domicilio del convenuto), il giudice deciderà nel merito anche se accerti, successivamente
all’udienza, che il criterio non sussiste (es., il convenuto risiede altrove); se vengono in rilievo
criteri di collegamento interni alla fattispecie sostanziale (es., si tratta di un rapporto agrario e non
di locazione), si potrebbe sostenere che non potendo il giudice decidere della controversia
(nell’esempio fatto dovrebbe essere la sezione agraria), lo stesso debba emanare una decisione
che dia atto della sua mancanza di potestas iudicandi, non preclusiva però della possibilità di
proporre ex novo la domanda. Se questa fosse la soluzione, sarebbe preferibile ritenere che il
giudice possa dichiarare l’incompetenza, così salvando la possibilità di far trasmigrare il processo al
giudice competente.
Prima della recente riforma, il giudice decideva sulla competenza con sentenza, per almeno due
buone ragioni, ovvero la prima per evitare eventuali ripensamenti del giudice poiché le ordinanze
sono revocabili mentre le sentenze non lo sono, e in secondo luogo perché oggetto di
impugnazione di regola sono le sentenze.
Tuttavia, nel 2009 il legislatore ha stabilito che il giudice decida le questioni di competenza con
ordinanza, non dicendo se queste ordinanze non siano revocabili o modificabili. La risposta a tale
quesito dobbiamo ricavarla per implicito, dal momento che le ordinanze continuano ad essere
impugnabili con i regolamenti di competenza. Secondo l’art.187 3°co cpc – provvedimenti del
giudice istruttore, il giudice, qualora ritenga di dover decidere subito della questione di
competenza, deve invitare le parti a precisare le conclusioni e, se la causa è a decisione collegiale,
deve rimettere la causa al collegio. Il fatto è che questa norma è stata formulata sul presupposto
che la questione sia decisa con sentenza. Ci dobbiamo chiedere, allora, se vale anche quando il
provvedimento da emettere ha la forma dell’ordinanza. Secondo un ragionamento implicito, ci
viene in soccorso quanto disposto dall’art.279 1°co cpc – forma dei provvedimenti del collegio il
quale, nella nuova formulazione, ci dice che il collegio, quando decide soltanto questioni di
competenza, pronuncia ordinanza.
Art. 279 comma 1. (Forma dei provvedimenti del collegio)
Il collegio pronuncia ordinanza quando provvede soltanto su questioni relative all’istruzione della
causa, senza definire il giudizio, nonché quando decide soltanto questioni di competenza. In tal
caso, se non definisce il giudizio, impartisce con la stessa ordinanza i provvedimenti per l’ulteriore
istruzione della causa.
Seguendo tale ragionamento, possiamo affermare che la stessa cosa valga anche quando a
decidere sia il giudice singolo, così come ritiene anche la Corte Suprema. Se questa è
l’interpretazione corretta, la modificazione voluta dal legislatore del 2009 è formale, ma
priva di contenuto sostanziale. Cerchiamo di argomentare la questione. Contro le
ordinanze sulla competenza, le parti hanno a disposizione una specifica impugnazione, il
regolamento di competenza che, se diretto contro un’ordinanza che ha deciso solo sulla
competenza, la parte potrà fare ricorso al regolamento, mentre se diretto contro una
sentenza che ha deciso anche sul merito, la parte avrà la possibilità di scegliere fra
l’impugnazione ordinaria e il regolamento; in questa ultima ipotesi, il problema che nasce
riguarda il come regolare i rapporti tra le impugnazioni. Proposta l’una, si può proporre
anche l’altra? Se si, quale avrà la precedenza? A questi interrogativi risponde l’art.43 cpc –
regolamento facoltativo di competenza, fissando il principio secondo cui le impugnazioni
sono compatibili fra loro e dando la precedenza al regolamento di competenza.
un termine perentorio entro il quale le parti debbono riassumere la causa davanti al primo giudice.
Se questi non è competente anche per la causa successivamente proposta, la dichiarazione della
continenza e la fissazione del termine sono da lui pronunciate.
La prevenzione è determinata dalla notificazione della citazione ovvero dal deposito del ricorso.
Le norme sulla litispendenza si applicano anche se i due processi pendono in gradi diversi.
Per stabilire quando si ha litispendenza è necessario sapere quando è che due domande
sono identiche e quando è che il processo pende. Quindi, due domande sono identiche
quando sono uguali gli elementi di identificazione, ovvero i soggetti, il petitum e la causa
petendi; la pendenza del processo, invece, attiene alla questione dei due diversi atti
introduttivi: con l’atto di citazione si notifica prima alla controparte e poi all’ufficio
giudiziario e quindi il processo pende quando la citazione è portata alla conoscenza
dell’altra parte; con il ricorso invece l’atto viene portato prima dinanzi al giudice e dopo
alla controparte e, allora, il processo pende quando è depositato il ricorso nell’ufficio
giudiziario.
Detto questo, nel caso di contemporanea pendenza davanti a giudici diversi di una stessa
causa, è chiaro che ci troviamo difronte ad un doppione che bisogna eliminare. Anche se il
legislatore è partito dal principio secondo il quale il doppione da eliminare deve essere il
secondo processo, non tutti i problemi sono stati risolti; infatti, una delle parti può
contestare che ci sia litispendenza sostenendo, magari, che le cause sono diverse, oppure
può contestare la competenza del primo giudice. È per questo motivo che il legislatore ha
costruito il provvedimento sulla litispendenza sul modello di quello sulla competenza,
dando ad esso la forma di ordinanza impugnabile in Cassazione con il regolamento di
competenza.
Accanto all’ipotesi della litispendenza l’art.39 cpc disciplina anche il caso della continenza,
ovvero quei casi in cui tra una causa e l’altra ricorre un rapporto tra contenuto e
contenente; la causa contenente avrà in sé tutti gli elementi della causa contenuta e, in
più, almeno una diversa domanda ancora.
Anche in questo caso si tratta di eliminare una delle due, ma non si tratta di un doppione
come nella litispendenza. Abbiamo, in sostanza, un processo più ampio dell’altro; bisogna
tenere conto anche dei rapporti fra causa contenente e causa contenuta e soprattutto
bisogna considerare se i giudici investiti della causa siano competenti per il tutto, perché se
uno dei due non è competente per la causa più ampia, si dovrà concentrare l’attività
processuale presso l’altro giudice. Il problema non sorge quando la prima causa è
maggiore ed il giudice adito ha competenza su di essa. Al contrario, se davanti al primo
giudice viene proposta la causa minore o contenuta e questi non sia competente sulla
causa maggiore o contenente, la dichiarazione di continenza dovrà essere emessa da lui
insieme con l’ordinanza che fissa il termine per la riassunzione. Se, infine, la causa che
viene prima sia quella minore o contenuta, ma il giudice adito sia competente ancheper
quella maggiore o contenente, la dichiarazione di continenza deve essere effettuata dal
secondo giudice. La legge prevede che sia disposta la fissazione di un termine per la
riassunzione, giacché le due cause non sono uguali e, quindi, non si tratta di eliminare un
doppione, come nel caso della litispendenza.
L’ordinanza sulla continenza può essere impugnata con regolamento di competenza, così
come quella sulla litispendenza.
Il successivo art.40 cpc – connessione prende in esame il caso in cui due cause connesse
pendano dinanzi a giudici diversi.
Art. 40. (Connessione)
Se sono proposte davanti a giudici diversi più cause le quali, per ragione di connessione possono
essere decise in un solo processo, il giudice fissa con ordinanza alle parti un termine perentorio
per la riassunzione della causa accessoria, davanti al giudice della causa principale, e negli altri casi
davanti a quello preventivamente adito.
La connessione non può essere eccepita dalle parti né rilevata d'ufficio dopo la prima udienza, e la
rimessione non può essere ordinata quando lo stato della causa principale o preventivamente
proposta non consente l'esauriente trattazione e decisione delle cause connesse.
Nei casi previsti negli artt. 31, 32, 34, 35 e 36, le cause, cumulativamente proposte o
successivamente riunite, debbono essere trattate e decise col rito ordinario, salva l'applicazione
del solo rito speciale quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli artt. 409 e 442.
Qualora le cause connesse siano assoggettate a differenti riti speciali debbono essere trattate e
decise col rito previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la competenza
o, in subordine, col rito previsto per la causa di maggior valore.
Se la causa è stata trattata con un rito diverso da quello divenuto applicabile ai sensi del terzo
comma, il giudice provvede a norma degli artt. 426, 427 e 439.
Se una causa di competenza del giudice di pace sia connessa per i motivi di cui agli articoli 31, 32,
34, 35 e 36 con altra causa di competenza del tribunale, le relative domande possono essere
proposte innanzi al tribunale affinché siano decise nello stesso processo.
Se le cause connesse ai sensi del sesto comma sono proposte davanti al giudice di pace e al
tribunale, il giudice di pace deve pronunziare anche d'ufficio la connessione a favore del tribunale.
La formulazione originaria si limitava a prevedere che il giudice fissa “con sentenza” alle
parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al giudice
della causa principale e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito. La disciplina
è apparsa inadeguata per le sempre più numerose ipotesi di processi a rito speciale, che
spesso dovrebbero essere trattati insieme con cause a rito ordinario.
Con la l.353/1990 si sono aggiunti tre commi all’originario art.40 cpc disponenti:
a) Che, dopo la riunione, prevale il rito ordinario.
b) Che, qualora le cause riunite siano assoggettate a diversi riti speciali, prevale il rito
previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la
competenza o, in subordine, il rito previsto per la causa di maggior valore.
La ipotesi di cause connesse, eguali o continenti si possono verificare anche quando i
diversi procedimenti pendono dinanzi allo stesso ufficio giudiziario o, addirittura, dinanzi
allo stesso giudice. In quest’ultimo caso il giudice, anche d’ufficio, riunisce le cause
identiche e può riunire le cause connesse.
Art. 24 Costituzione.
Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto
inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni
giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.
Con la proposizione della domanda, allora, può essere esercitato il relativo diritto.
L’importanza della riaffermazione di tale principio va in due direzioni: è lo strumento
migliore per garantire che il giudice sia terzo ed imparziale di fronte alla controversia
(infatti non dà inizio lui al processo) e, perché, l’azione è il mezzo per far valere il diritto che
trova tutela in giudizio.
Da tutto questo si capisce perché eventuali eccezioni al principio della domanda sono
guardate con diffidenza. Tuttavia, una possibilità di trovare un contemperamento fra
opposte esigenze si ha tutte le volte in cui, pur mantenendo fermo il principio che il giudice
non può iniziare d’ufficio il processo, si cerca di allargare la sfera dei soggetti che sono
capaci (legittimati a) proporre domanda. Siamo nelle situazioni che non interessano un
solo soggetto particolare, ma la collettività. A questo fenomeno fa riferimento l’art.2907 cc
– attività giurisdizionale, nel punto in cui accenna a un potere d’azione del PM, che è
organo pubblico al quale, in determinate ipotesi, viene riconosciuto il potere di azione in
sostituzione dei privati e proprio per sopperire alla loro inerzia.
Art. 2907 Codice Civile.Attività giurisdizionale.
Alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l'autorità giudiziaria su domanda di parte e, quando la
legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d'ufficio.
Accanto a questa ipotesi, vanno segnalate quelle in cui si allarga la sfera dei legittimati
all’azione come nel caso del matrimonio o quello che costruisce l’azione come potere
pubblico riconosciuto al soggetto in quanto membro di una collettività.
Tornando al principio della domanda nel processo, ci rendiamo conto che l’art.99 cpc –
principio della domanda non ci basta più e va necessariamente collegato con quanto
dispone l’art.112 cpc – corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Rivediamole
entrambe.
Art. 112.(Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato)
Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare
d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti.
Secondo la combinazione di queste due disposizioni, non solo le parti possono scegliere se
adire o non il magistrato, ma hanno anche il monopolio in ordine alla determinazione del
tema decisionale, ossia dell’oggetto sul quale il giudice dovrà decidere. In che senso le parti
possono condizionare il giudice in ordine al tema decisionale? Il soggetto che propone la
domanda giudiziale dovrà fare tre cose:
1) esporre un avvenimento o episodio di vita (posizione del fatto);
2) ricondurlo ad una o più disposizioni di legge (posizione della norma);
3) ricavare conseguenze favorevoli (deduzione delle conseguenze giuridiche).
Il giudice, nel momento in cui deve emanare il provvedimento, deve collegarsi a queste tre
posizioni fondamentali. Ma è vincolato a queste? Possiamo iniziare a rispondere col notare
che esistono norme che prevedono l’obbligo del giudice di giudicare anche quando le parti
non abbiano indicato le norme giuridiche da loro ritenute applicabili. In linea generale poi,
il giudice non è vincolato alla prospettazione giuridica proposta dalle parti, mentre è legato
alla prospettazione dell’episodio di vita, e quindi del fatto. Qui occorre una necessaria
precisazione: le parti, nella esposizione del fatto, lo arricchiscono di particolari e lo
pongono in collegamento con gli elementi probatori che dovrebbero convincere il giudice
della sua veridicità. Questa è la attività assertiva, composta da fatti principali e da fatti
secondari ed è a questa che il giudice è vincolato, cioè all’inserzione di fatti nel processo;
non gli riguarda invece la attività asseverativa, ovvero l’acquisizione del materiale
probatorio. Appare fondamentale, a riguardo, il potere del giudice di chiedere quelle
integrazioni nella narrazione dell’episodio sul quale dovrà giudicare, che siano
indispensabili (fatti principali) o anche soltanto utili (fatti secondari) per l’emanazione della
giusta pronuncia. Di questo si è reso conto il legislatore soprattutto in materia di
controversie sul lavoro, ribadendo per tali controversie la necessità di provocare la
comparizione delle parti davanti al giudice, tanto che la mancata comparizione costituisce
comportamento valutabile in sede decisionale.
Il nuovo testo delll’art.183 5°co cpc – prima comparizione delle parti e trattazione della
causa,(pag 25), prevede che mentre l’attore può proporre nuove domande o eccezioni,
quando tale necessità sorga dalle richieste e difese del convenuto, entrambe “le parti
possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate”.
In ogni caso resta fermo l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale le nuove
aggiunte non devono mai concretarsi in un mutamento della domanda originaria. Deve
trattarsi di emendatio e non di mutatio.
Nella individuazione del voluto abbiamo parlato per lo più della posizione dell’attore,
senza considerare che anche il convenuto concorre alla definizione di esso, soprattutto
quando non si limiti a negare i fatti contestatigli, ma anzi introduca nel processo fatti che
servano a togliere valore a quelli introdotti dall’attore. Di conseguenza, il giudice deve
guardare non solo all’attività dell’attore, ma anche a quella del convenuto. Per questo
motivo, la seconda parte dell’art.112 cpc
– corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato dispone che il giudice “non può
pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti”.
La formulazione di questo articolo lascia intendere che l’eccezione è rilevabile d’ufficio,
tranne che la legge non preveda espressamente la necessità dell’eccezione della parte.
Dobbiamo chiarire che, nel caso di eccezioni rilevabili d’ufficio, il giudice non può
introdurre nel processo i fatti che sono alla base della eccezione: il giudice non può fare
uso della sua scienza privata e, di conseguenza, potrà porre a fondamento della decisione
fatti che integrano un’eccezione rilevabile d’ufficio, anche se la parte interessata non
l’abbia sollevata, a condizione che i detti fatti comunque risultino inseriti nel processo. Se
poniamo l’attenzione alle eccezioni più frequenti, si ha che rilevabile d’ufficio resta solo
quella di pagamento. Per le altre situazioni la soluzione varicercata di volta in volta.
Abbiamo detto che il giudice non è vincolato alle richieste delle parti nell’individuazione e
nella interpretazione delle norme applicabili. Questo deriva dall’esigenza di garantire che
colui che individua e applica la legge sia un soggetto imparziale, ovvero il giudice.
Di solito, deve dirsi che se sulla base di un determinato fatto la parte ha chiesto il
riconoscimento di determinate conseguenze, mentre il giudice ritiene che lo stesso fatto ne
giustifichi altre, quest’ultimo non possa sostituirsi alla parte nella derivazione delle diverse
conseguenze, tranne che si tratti di conseguenze dichiarabili d’ufficio (ad esempio la nullità
del contratto) o di conseguenze dedotte in via alternativa da una stessa fattispecie. Allo
stesso modo, se la parte ha posto a base dell’effetto giuridico un determinato fatto e il
giudice ritiene che questo effetto è giustificato sulla base di altro fatto pure risultante dal
processo, non può egli sostituire l’un fatto all’altro, tranne che l’effetto sia derivabile
d’ufficio. La giurisprudenza, a riguardo, non sempre dimostra chiarezza di idee.
Resta da considerare cosa succede se il giudice non rispetti il vincolo che gli deriva dai
principi della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. A questo
riguardo, ci sono duepossibilità:
a) il giudice provvede senza tener conto di tutte le richieste delle parti e quindi omettendo
di pronunciare su alcune di esse (difetto di pronuncia);
b) il giudice modifica o addirittura pronunzia senza che siano state formulate apposite
istanze (eccesso di pronuncia).
In entrambe le ipotesi il provvedimento è contrario alla legge e quindi è viziato. Quali sono
i rimedi contro tali vizi? Posto che il provvedimento sia una sentenza, quando questa
eccede le richieste delle parti, si ha una decisione, come si è detto, viziata e poiché i vizi
della sentenza devono farsi valere con le impugnazioni, altrimenti la sentenza passa in
giudicato, e la parte, se vuole far valere il vizio e impedire che si sani con il passaggio in
giudicato, deve proporre impugnazione. Più delicato è il caso in cui il giudice abbia omesso
di pronunciare: taluni ritengono che la mancata impugnazione, comportando il passaggio
in giudicato della sentenza, precluda alla parte la possibilità di ripetere la richiesta davanti
al giudice; altri osservano che invece non può passare in giudicato ciò che non c’è, una
pronunzia che non esiste. In questo modo, riconoscono alla parte la possibilità di
riproporre la richiesta in un successivo giudizio, salva comunque la possibilità della
impugnazione.
Il legislatore prende in considerazione il principio della domanda e quello (collegato) della
corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato soprattutto con riferimento agli elementi
oggettivi della controversia. Infatti, in relazione agli elementi soggettivi vi è maggiore
elasticità.
Il giudice, nelle controversie in cui ritiene necessaria la partecipazione di ulteriori soggetti,
deve disporre l’integrazione del contraddittorio e può persino ordinare la chiamata in
causa del terzo al quale ritenga la causa comune, con una chiara eccezione al potere
dispositivo delle parti.
In estrema sintesi possiamo dire che la cultura giuridica italiana ha sempre più
abbandonato l’idea che il processo civile sia una vicenda gestita dalle parti sotto il controllo
del giudice e ha sempre con maggiore convinzione condiviso un’impostazione pubblicistica
della giustizia anche nelle controversie tra privati e relative a diritti disponibili.
Per questa via si dà nuovo e maggiore valore a uno degli slogans di maggiore successo,
quale è quello secondo il quale il processo serve a dare ragione o torto, ed è per questa
ragione che si è, ad esempio, riconosciuto al giudice il potere di intervenire in caso di
mancata integrazione del contraddittorio.
la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti giorni e non
superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie
contenenti osservazioni sulla medesima questione.
Questo principio sembra dimenticare che nel nostro ordinamento esiste il processo
contumaciale; al tempo stesso è una proiezione dei principi costituzionali enunciati
all’art.24 Costituzione e all’art.111 Costituzione, a mente dei quali la difesa è un diritto
inviolabile e ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti. Il principio del
contraddittorio caratterizza lo stesso modo di essere del processo: lento, costoso e
tecnicamente complesso, quindi lontano dal popolo che spesso non riesce ad utilizzarlo al
meglio. Così appare chiaro come sia rispettato il problema formale, ma non la sostanza del
problema. Sarebbe allora preferibile ricorrere alla collaborazione fra le parti e il giudice,
come tre persone poste sullo stesso piano e cooperanti per la ricerca della verità e della
giustizia sostanziale. Si realizzerebbe in questo modo una radicale trasformazione del
processo, ma sarebbe possibile solo incrementando i poteri d’ufficio del giudice e
trasformando il contraddittorio da potere delle parti di condizionare con le loro richieste le
iniziative giudiziali, in potere di esserne informati e di esprimere la loro opinione prima che
il giudice possa provvedere. Questo, ovviamente, presupporrebbe anche un diverso
atteggiamento delle parti sulla gestione della loro difesa, in ossequio al principio secondo
cui esse devono tenere un contegno probo e leale ex art.88 cpc – dovere di lealtà e
probità.
Art. 88.(Dovere di lealtà e di probità)
Le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità.
In caso di mancanza dei difensori a tale dovere, il giudice deve riferirne alle autorità che esercitano
il potere disciplinare su di essi.
Da quanto detto fino ad ora, sembra che non siano possibili eccezioni al principio del
contraddittorio. In realtà, l’art.101 cpc – principio del contraddittorio, quando dice “salvo che la
legge disponga altrimenti”, sembra ammetterli. Le eccezioni possibili sono relative a due ipotesi:
1) a condizione che si possa instaurare il contraddittorio in un momento successivo;
2) quando la situazione ha bisogno di una tutela immediata.
Riguardo allora alla realizzazione eventuale e differita del contraddittorio, il meccanismo
tecnicoutilizzato dal legislatore può essere triplice:
1) lo stesso giudice, che emana il provvedimento senza aver sentito l’altra parte, deve
disporre la convocazione delle parti in contraddittorio, dando vita ad un procedimento che
si conclude con la conferma o la revoca del provvedimento;
2) la parte che ha ottenuto il provvedimento deve dare inizio, in un termine perentorio, al
procedimento a contraddittorio pieno;
3) la parte, contro la quale è stato emesso il provvedimento senza essere stata sentita,
deve proporre opposizione entro un termine perentorio, instaurando un processo a
contraddittorio pieno.
Questi tre modelli sono stato ritenuti compatibili con la Costituzione.
Resta ora da stabilire quando è che si ha violazione del contraddittorio e quale è la disciplina
delcorrelativo vizio del provvedimento. Abbiamo due ipotesi:
a) il giudice ritiene la parte contumace, senza rilevare un vizio della notificazione che
avrebbe imposto la rinotificazione dell’atto (contumacia involontaria);
b) nel processo la parte è rappresentata da un rappresentante senza potere (falso
procuratore). Nel primo caso, si applica il principio richiamato all’art.161 cpc – nullità
della sentenza, secondo il quale si ha trasformazione dei vizi della sentenza in motivi di
gravame.
Peraltro, poiché il contumace può essere ignaro del processo, vi è il correttivo, quanto alla
decorrenza dei termini ex art.327 2° co cpc – decadenza dell’impugnazione.
Art. 327.(Decadenza dall'impugnazione)
Indipendentemente dalla notificazione l’appello, il ricorso per Cassazione e la revocazione per i
motivi indicati nei numeri 4 e 5 dell’articolo 395 non possono proporsi dopo decorsi sei mesi dalla
pubblicazione della sentenza
Questa disposizione non si applica quando la parte contumace dimostra di non aver avuto
conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa, e per nullità della
notificazione degli atti di cui all’art. 292.
Nel secondo caso non è chiaro quale regime sia applicabile: inopponibilità della sentenza
al falsorappresentato, parificazione di questi al contumace involontario.
Lo svolgimento del processo deve essere rispettoso, nella sua interezza, delle esigenze
della piena difesa. In considerazione di ciò, la dottrina aveva da tempo segnalato che si
aveva violazione del contraddittorio quante volte il giudice avesse deciso la
controversia con riferimento a questioni che non avevano formato oggetto di
dibattito processuale (la c.d. terza via di risoluzione della lite). Questa è ammessa
dall’art.101 2°co cpc – principio del contraddittorio, nella parte in cui “il giudice ritiene
di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio…”. La disposizione
è formulata nell’ipotesi in cui il giudice rilevi la questione prima di riservare la decisione.
Potrebbe avvenire che egli si renda conto della questione quando si è già riservato di
decidere. In questa ipotesi, dovrà rimettere la causa in istruttoria, per consentire
l’effettivo esercizio del diritto di difesa, anche se ciò pagherà il prezzo di un notevole
allungamento dei tempi processuali. Se poi si hanno violazioni del contraddittorio nel
corso del processo e in relazione a singoli atti, queste si traducono in vizi della
sentenza rilevabili con l’impugnazione.
Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma
dell'articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e,
in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo.
Concentriamoci sul 1°co e notiamo subito che il giudice deve valutare le prove secondo il
suo prudente apprezzamento (prova libera) ed eccezionalmente può non valutarle in
questo modo (prova legale). Il giudice, nel primo caso, deve valutare le prove secondo la
sua capacità critica ovvero secondo criteri razionali che gli consentano di stabilire se e in
quale limite la prova è utilizzabile ai fini della ricostruzione del fatto. In sostanza, la
conclusione del giudice è tratta da una premessa minore (la testimonianza) e da una
premessa maggiore (il criterio razionale di cui il giudice si serve per valutarla). Questa
premessa maggiore è in sostanza una massima d’esperienza.
Al contrario, nel caso della prova legale, è il legislatore che ha cristallizzato la massima
d’esperienza, rendendola regola giuridica: ad esempio, nel caso in cui una parte dichiara
fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra, tranne nella ipotesi di follia, dice il vero e allora il
legislatore conclude che la dichiarazione confessoria deve sempre essere ritenuta valida
dal giudice (il quale, così, non può liberamente valutarla). Allo stesso modo il giudice è
tenuto a credere a quantorisulta dal giuramento. Fondata sicuramente è la critica mossa al
giuramento, principalmente perché la massima d’esperienza da cui è partito il legislatore
non è più tanto sentita dalla collettività, presso la quale il vincolo morale e religioso è
scemato, e inoltre perché l’ineluttabilità delle conseguenze (la sentenza resta ferma anche
in caso di condanna delle parti per falso giuramento, potendosi in tal caso agire solo per il
risarcimento del danno) non è assolutamente giustificabile.
D’altro canto, la stessa concezione della prova libera può essere accolta a condizione che si
ritenga possibile il controllo delle valutazioni razionali del giudice. Viene fuori che dietro il
fenomeno della prova legale c’è un atteggiamento di (parziale) sfiducia del legislatore nei
confronti del giudice e che la prova libera, invece, presuppone la massima fiducia nelle
capacità e nel corretto uso di tali capacità da parte dello stesso. In questa prospettiva, il
fenomeno della prova legale può essere valutato positivamente quando la possibilità di
soluzioni arbitrarie per effetto della prevalutazione legislativa della prova sia minima o
socialmente irrilevante (è il caso della confessione) o quando l’intero sistema dei rapporti
di diritto sostanziale preferisce fondare sullo scritto piuttosto che sulla parola.
È stato sostenuto da alcuni che la razionalità del ragionamento del giudice non è
dimostrabile; che i giudici decidono sulla base di impulsi istintivi, di intuizioni, sensazioni
non oggettivabili; che con le motivazioni delle sentenze si cerca di contestare decisioni già
prese; che le massime d’esperienza non hanno alcuna validità scientifica. Se questo fosse
accettato, dovremmo concludere che l’attività del giudice è arbitraria, soggettiva e
incontrollabile. Il nostro legislatore non la pensa così e una prova è costituita
dall’orientamento espresso all’art.111 6°co Costituzione, che impone l’obbligo della
motivazione (tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati). Si tratti o meno
di una riproduzione fedele del ragionamento del giudice per la decisione, è ad essa
che parti, giudici e collettività devono e possono far riferimento per stabilire se il giudice ha
deciso secondo il suo “prudente apprezzamento”. La conferma si ha nella circostanza che
non a caso tra i motivi di ricorso per Cassazione sia annoverato quello derivante da errori
nella soluzione della questione di fatto e che contro i tentativi di restituire alla Cassazione il
suo originario compito di giudice del diritto, la prassi ha sempre reagito nel senso di
ottenere un allargamento del sindacato, sottolineando come fatto e diritto siano in una
correlazione di reciproca influenza di cui anche il giudice del diritto non può non tenere
conto.
L’art.116 2° co cpc – valutazione delle prove, accanto alle prove annovera gli argomenti di prova.
Art. 116. (Valutazione delle prove)
Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge
disponga altrimenti.
Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma
dell'articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e,
in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo.
Esistono alcuni fatti che, di per sé, non avrebbero alcun rilievo nella ricostruzione ai fini
della decisione e che, tuttavia, devono in qualche modo essere tenuti in conto. Questi sono
le risposte delle parti in sede di interrogatorio non formale, il loro rifiuto ingiustificato a
consentire le ispezioni e, in generale il loro contegno. Secondo il legislatore, tali fatti
possono servire ad interpretare le prove altrimenti acquisite, in modo che il giudice può
pervenire alla esatta valutazione critica delle prove vere e proprie. È questo il senso che
deve darsi all’art.420 1° e 2° co cpc – udienza di discussione della causa, in materia di
controversie di lavoro, quando afferma che la mancata comparizione o la mancata
conoscenza dei fatti sono “comportamenti valutabili” ai fini della decisione. Il legislatore,
senza ripetersi, ha voluto sottolineare che là dove l’obbligo di lealtà e probità è incentivato,
il comportamento delle parti deve essere tenuto presente dal giudice nel massimo grado.
Il vero problema sta nella individuazione dei fatti bisognosi di prova ai fini
dell’accoglimento della richiesta. Il legislatore ha distinto i fatti in due categorie, sulla base
del già citato art.2697 codice civile, ovvero:
Art.2697 1°co Codice Civile – fatti costitutivi che sono a base della situazione giuridica
fatta valerein giudizio.
Art.2697 2°co Codice Civile – fatti estintivi, modificativi o impeditivi sono quelli che
hanno il potere di estinguere, modificare o impedire gli effetti che i primi hanno prodotto o
sono idonei a produrre.
In questo modo il rischio per la mancata prova deve essere ripartito fra le parti del
processo: il provvedimento richiesto sarà rifiutato se la parte richiedente non prova i fatti
costitutivi; qualora la parte dia tale prova, sarà concesso, se l’altra parte non prova i fatti
estintivi, modificativi o impeditivi. Facciamo un esempio: il creditore dovrà provare di aver
dato il denaro a titolo di mutuo; il convenuto, ove l’attore dia tale prova, dovrà dimostrare
di aver restituito la somma in tutto (fatto estintivo) o in parte (fatto modificativo) ovvero
che la restituzione era subordinata ad un termine non scaduto o ad una condizione non
verificata (fatto impeditivo). Il giudice, a sua volta, dovrà individuare quali sono i fatti
costitutivi della pretesa; qualora questi non risultino provati, dovrà rigettare la domanda;
se, invece, risultino provati dovrà accertare se sono stati allegati fatti estintivi, modificativi
o impeditivi; qualora questi sono provati, rigetterà la richiesta; se, invece, non risultino
provati, accoglierà la domanda (rigettando l’eccezione).
Cerchiamo ora di capire quali sono le caratteristiche del diritto di azione secondo le tre
tendenze di fondo che definiscono la struttura e il contenuto del diritto-potere d’azione:
1. Diritto ad ottenere un provvedimento qualsiasi.
2. Diritto ad ottenere un provvedimento di merito qualsiasi.
3. Diritto ad ottenere un provvedimento di merito favorevole.
Nell’individuare quale delle tre sia stata scelta nel nostro ordinamento, occorre fare
alcune precisazioni partendo da deduzioni.
Sul primo punto, ovvero il diritto ad ottenere un provvedimento qualsiasi (astratto),
dobbiamo dire che nessuno può impedire a un soggetto di porre in essere attività
processuali del tutto inconcludenti, ma è chiaro che non sono indifferenti per il diritto, che
le valuta e le disciplina (chi propone anticipa le spese processuali, nel processo le parti
sono comunque tenute ad un contegno probo e leale, la parti non possono essere sentite
come testimoni, se la domanda è dichiarata improponibile o inammissibile il soccombente
paga le spese del processo, etc).
cosa la parte ha voluto, la legge sembra dare maggiore importanza all’oggetto indiretto o
mediato dal momento che individua come requisito essenziale la “determinazione della
cosa oggetto della domanda”.
La causa petendi è la ragione in base alla quale si ritiene di avere una determinata pretesa
e quindi di poter ottenere un determinato provvedimento e si individua facendo
riferimento alla struttura del diritto posto a base della pretesa, ovvero se parliamo di diritti
assoluti, relativi e potestativi. Per quanto riguarda i diritti assoluti, quelli che possono
esistere in capo ad un solo soggetto, la causa petendi finisce con l’identificarsi con la
fattispecie acquisitiva (esempio è il diritto di proprietà in cui se mi affermo proprietario di
un bene, o lo sono o non lo sono, non c’è alternativa). Nel campo dei diritti relativi, i quali
possono coesistere in capo ad una stessa persona più volte nel medesimo tempo, possiamo
procedere ad un esempio: se ho un credito di restituzione, posso anche vantare un credito
di risarcimento. Se ho un danno da circolazione stradale, posso bene averne subito un
secondo. È chiaro che in questi casi l’attore dovrà evidenziare il titolo della richiesta
(l’adempimento contrattuale ad esempio), ma soprattutto dovrà indicare i fatti specifici che
integrano la fattispecie legale dedotta in giudizio: il contratto inadempiuto; l’incidente
automobilistico che gli ha causato danno. Accanto a questi fatti essenziali (principali)
l’attore dovrà indicare le circostanze in base alle quali egli ascrive il fatto a colpa del
convenuto (il mancato rispetto dello stop); mentre i primi servono a identificare la
domanda e non possono essere cambiati senza mutarla, i secondi servono a supportare il
fondamento della domanda e, entro certi limiti, possono essere mutati. Restano i diritti
potestativi che indicano quella situazione giuridica soggettiva che consiste
nell'attribuzione di un potere ad un soggetto allo scopo di tutelare un suo interesse. È
una categoria discussa in dottrina, poiché potenzia, in certo modo, la tutela del soggetto
dandogli la possibilità, in sostanza, di richiedere al giudice una modificazione della
situazione giuridica altrui, anche se quest’ultimo è contrario. È chiaro come si tratti di una
ipotesi che comprime l’autonomia privata e che quindi deve essere prevista dalla legge,
come ricorda l’art.2908 cc.
Art. 2908 Codice Civile. Effetti costitutivi delle sentenze.
Nei casi previsti dalla legge, l'autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti
giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa.
Vediamo che è l’ipotesi in cui il giudice si sostituisce alle parti quando, nei casi previsti dalla
legge, può “costituire, modificare o estinguere” rapporti giuridici che sono parte
dell’autonomia privata, come stabilito dall’art.1321 cc.
Art. 1321 Codice Civile. Nozione.
Il contratto è l'accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto
giuridico patrimoniale.
Nel cercare di giustificare questa compressione dell’autonomia privata, il legislatore ha
operato un’analisi che spesso crea problemi applicativi. Procediamo con un esempio: la
legge offre alla parte contraente di richiedere l’annullamento del contratto per dolo, errore
o violenza. Primo dubbio: posto a fondamento della domanda, dovranno essere specificati
i fatti che dimostrano che il dolo si è effettivamente verificato, oppure basta la mera
enunciazione del vizio? Ancora: se si agisce sulla base del dolo, successivamente si potrà
agire per violenza o errore? È possibile proporre una nuova domanda o inserire la nuova
pretesa nel processo pendente?
La risposta non è affatto semplice. La necessità di una analisi del caso singolo costituisce, a
nostro avviso, la ragione per la quale è difficile, e forse inutile, cercare di individuare un
orientamento giurisprudenziale unitario, anche se di recente la S.C. sembra preferire un
3. Le azioni di cognizione.
All’esercizio del potere di azione fin qui esaminato, corrispondono varie forme di tutela
giurisdizionale che l’ordinamento assicura e che si realizzano in tre tipi di processo:
1. processo di cognizione (azione di cognizione)
2. processo di esecuzione (azione esecutiva)
3. processo cautelare (azione cautelare)
Per una corretta comprensione dell’argomento, partiamo da alcuni esempi che meglio
chiariscono la materia.
Art. 269 Codice Civile. Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità.
La paternità e la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il
riconoscimento è ammesso.
La prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo.
La maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che
fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre.
La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre
all'epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità.
La norma qui individua un fatto, la genitura naturale, a cui si collega effetti, quelli riferiti
allo status di figlio naturale; il giudice, conosciuto il fatto, applica la disposizione giuridica e
dichiara le conseguenze. Si ha, così, una azione dichiarativa o di accertamento.
Art. 948 Codice Civile. Azione di rivendicazione.
Il proprietario può rivendicare la cosa, da chiunque la possiede o detiene e può proseguire
l'esercizio dell'azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di
possedere o detenere la cosa. In tal caso il convenuto è obbligato a recuperarla per l'attore a
proprie spese, o, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno.
Il proprietario, se consegue direttamente dal nuovo possessore o detentore la restituzione della
cosa, è tenuto a restituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo di
essa.
L'azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti dell'acquisto della proprietà da parte di
altri per usucapione.
Questa norma dà la possibilità al proprietario di “rivendicare la cosa da chiunque la
possiede o la detiene…”. La disposizione individua un fatto (l’essere proprietario), e da
questa situazione fa discendere una conseguenza (la possibilità per il proprietario di
recuperare il possesso della cosa). Anche in questo caso il giudice, accertati i fatti, li
qualifica giuridicamente come idonei a giustificare in capo alla parte la situazione di
proprietario. Ma questo potrebbe non bastare al proprietario, il quale volesse recuperare
materialmente il possesso della cosa. Allora la legge dà al giudice il potere di aggiungere
alla sua pronuncia un altro elemento, cioè la condanna del convenuto a restituire il bene,
parlandosi in questi casi di tutela di condanna.
Qui la norma individua il fatto (l’errore, la violenza o il dolo) a cui collega determinate
conseguenze (invalidità del contratto) e anche in questo caso il giudice non dovrebbe fare
altro che dichiarare l’effetto (con sentenza di accertamento). La conclusione, a nostro
avviso, non può essere condivisa. Al riguardo, basta mettere a confronto la disciplina
dell’annullabilità con quella della nullità: infatti, mentre un contratto nullo non può essere
convalidato e quindi non può spiegare effetti, un contratto annullabile può essere
convalidato e, quindi, il giudice in questo caso non accerta che si è verificato il fatto
previsto dalla norma, ma accerta che vi siano le situazioni di fatto per l’esercizio di un
potere di modificare la situazione esistente che la norma riconosce in capo al privato. In
questo caso si parlerà di azione costitutiva perché, con la sua pronuncia, il giudice immette
nel mondo giuridico beni o utilità ulteriori, intervenendo nell’accordo originariamente
formatosi tra le parti.
Chiarito tutto questo, passiamo ad esaminare singolarmente le tre forme di tutela di
cognizione.
L’azione di accertamento – essa ha per funzione quella di dare certezza al cittadino che
con tale azione si rivolge ai giudici per conseguire, attraverso un provvedimento
giurisdizionale, la certezza in ordine al diritto o alla situazione giuridica dedotti nel
processo. Basta il bisogno di certezza per dare vita al processo? Che tipo di certezza si può
perseguire attraverso il processo? Non esiste una risposta sicura a questo genere di quesiti,
dal momento che non esiste nel nostro ordinamento una norma che riconosca
espressamente questo tipo di azione. C’è chi ritrova l’esistenza di tale forma di tutela
tramite l’azione di accertamento nell’art.100 cpc – interesse ad agire, a mente del quale
“per proporre una domanda è necessario avervi interesse”.
Art. 100. (Interesse ad agire)
Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse.
Logica vuole che se è necessario l’interesse, e di questo solo si parla nel disposto, questo è
sufficiente a proporre una domanda di accertamento. Questa lettura risulta però
arbitraria: la norma, infatti, si limita a disporre che non si può agire inutilmente davanti al
giudice e che per poter adire la giustizia è necessario che se ne abbia bisogno. In altre
parole, l’art.100 cpc ci dice solo che l’interesse è necessario, non che è sufficiente. Per
questo motivo dobbiamo spostare la nostra ricerca nel Codice civile, nel quale esistono
disposizioni che fanno riferimento all’azione di accertamento, soprattutto nel campo dei
diritti reali, dove l’ordinamento ritiene ammissibile l’azione di accertamento in relazione a
situazioni giuridiche che si svolgono fuori dalla collaborazione di altri soggetti (il
proprietario del diritto reale gode del diritto immediatamente e gli altri devono astenersi
dal recargli molestia). Leggiamo l’art.949 cc – azione negatoria.
Art. 949 Codice Civile. Azione negatoria.
Il proprietario può agire per far dichiarare l'inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando
ha motivo di temerne pregiudizio.
Se sussistono anche turbative o molestie, il proprietario può chiedere che se ne ordini la
cessazione, oltre la condanna al risarcimento del danno.
La tutela prevista in questa ipotesi è coordinata ad atti di terzi lesivi dei quali si chiede la
cessazione, oltre all’eventuale risarcimento dei danni; in tal modo, il giudice non potrebbe
limitarsi ad accertare l’esistenza di tali atti e dovrebbe pronunciare anche un
provvedimento di condanna. Ad ogni modo è possibile che la parte si limiti solo a richiedere
l’accertamento del fatto lesivo.
inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro
subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui
all’articolo 409.
Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della
controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra
circostanza utile.
La possibilità di esecuzione non significa però che tutte le sentenze di condanna siano
esecutive. Per il nostro codice le sentenze di condanna, anche se di primo grado, sono
normalmente esecutive, mentre in precedenza non lo erano.
Alle sentenze di condanna l’ordinamento collega altre due utilità:
1. la sentenza di condanna è titolo per iscrivere ipoteca giudiziale sui beni del
debitore exart.2818 cc;
2. la sentenza di condanna trasforma le prescrizioni brevi in lunghe ex art.2953 cc.
Accanto alla condanna vera e propria, il codice prevede una sentenza di carattere
particolare, la sentenza di condanna generica, con la quale il giudice riconosce l’an
debeatur (se è dovuto qualcosa), ma non determina il quantum debeatur (quanto è
dovuto), ipotesi disciplinata all’art.278 cpc – condanna generica. Provvisionale.
-gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli.
L'esecuzione forzata per consegna o rilascio non può aver luogo che in virtù dei titoli esecutivi di
cui ai numeri 1) e 3) del secondo comma. Il precetto deve contenere trascrizione integrale, ai sensi
dell'articolo 480, secondo comma, delle scritture private autenticate di cui al numero 2) del
secondo comma.
Un ultimo problema sta riguardo il tempo in cui nasce l’interesse ad iniziare un processo. Si
deve aspettare che l’obbligo sia inadempiuto o l’azione si può proporre anche prima e in
previsione dell’inadempimento? Rispondere positivamente significherebbe ammettere la
condanne in futuro ma il nostro ordinamento manca di precisi riferimenti. Per questa
ragione l’azione di condanna in futuro sembra ammissibile solo nei casi previsti dalla
legge, come nell’ipotesi all’art.657 1°comma cpc - intimazione di licenza per finita
locazione che tratta del procedimento con il quale il locatore o il concedente intima il
rilascio dell'immobile manifestando, prima della scadenza del contratto, la volontà di non
rinnovarlo e di riottenere, così, la disponibilità del bene alla scadenza del rapporto
contrattuale. Il locatore o il concedente utilizzano tale procedimento giudiziale al fine di
ottenere la pronuncia di una sentenza utilizzabile in futuro, qualora alla scadenza del
contratto, il conduttore non rilasci spontaneamente l'immobile.
5.L’azione esecutiva.
Abbiamo visto che la sentenza di condanna, oltre ad accertare l’esistenza del credito
azionato, offre la possibilità all’attore di ottenere la soddisfazione del proprio diritto.
Possibilità di ottenere soddisfazione non vuol dire soddisfazione: se l’attore era creditore
di una somma di danaro, con la sentenza di condanna non avrà ottenuto il danaro, ma solo
il diritto ad ottenerlo. L’ordinamento ha dovuto perciò prevedere un meccanismo,
utilizzando il quale il creditore possa tradurre in atto la potenzialità espressa nella
sentenza di condanna. Questa è l’azione esecutiva, che si pone come necessario
completamento della tutela assicurata con l’azione di condanna, la quale risulta non
essere autosufficiente, poiché non consente al soggetto di conseguire il bene che voleva
conseguire attraverso il processo.
Anche se l’azione esecutiva è completamento necessario al processo di condanna, tuttavia
non ne è necessariamente vincolata, dal momento che il nostro ordinamento prevede altre
possibilità di ricorso al processo di esecuzione senza il preventivo passaggio attraverso il
processo di cognizione. Il legislatore riconosce efficacia esecutiva a provvedimenti diversi
dalla sentenza con la valutazioneoperata all’art.474 cpc – titolo esecutivo. (pag. 51)
Il titolo esecutivo è il presupposto essenziale perché si possa procedere ad esecuzione
forzata.Questa norma, oltre alle sentenze, attribuisce efficacia esecutiva:
1. ai provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente
efficaciaesecutiva;
2. le scritture private autenticate, cambiali, altri titoli ai quali la legge attribuisce
espressamente la stessa efficacia;
3. gli atti ricevuti da notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli.
L’intervento del legislatore è creativo, visto che l’elenco potrebbe poi essere integrato da
altri titoli, purchè la legge gli ricolleghi l’efficacia necessaria.
Questa precisazione ci porta ad escludere che i provvedimenti cautelari possano essere
consideratititoli esecutivi, dato che sono emessi in base ad una cognizione sommaria e non
riguardano diritti “certi” (mentre il titolo esecutivo ha per oggetto “crediti certi”).
Al tempo stesso è evidente che se questi provvedimenti non potessero essere portati ad
esecuzione, verrebbe meno la funzione per la quale sono stati creati. Per questo motivo il
legislatore nel 1990 è intervenuto con l’art.669 duodecies cpc – attuazione, con
il quale “l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto somme di denaro avviene
nelle forme degli articoli 491 e seguenti in quanto compatibili”.
Art. 669-duodecies.(Attuazione)
Salvo quanto disposto dagli articoli 677 e seguenti in ordine ai sequestri, l'attuazione delle misure
cautelari aventi ad oggetto somme di denaro avviene nelle forme degli articoli 491 e seguenti in
quanto compatibili, mentre l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di
consegna, rilascio, fare o non fare avviene sotto il controllo del giudice che ha emanato il
provvedimento cautelare il quale ne determina anche le modalità di attuazione e, ove sorgano
difficoltà o contestazioni, dà con ordinanza i provvedimenti opportuni, sentite le parti. Ogni altra
questione va proposta nel giudizio di merito.
Art. 491. (Inizio dell'espropriazione)
Salva l'ipotesi prevista nell'art. 502, l'espropriazione forzata si inizia col pignoramento.
raramente. Ciò risulta anche chiaro dal fatto che essi sono collegati a una condizione assai
rigorosa, ossia al pregiudizio imminente e irreparabile. Nei primi tempi tale giudizio
praticamente non si verificava mai, dal momento che non si vedevano situazioni che non
potessero essere riparate; anche in casodi danno era previsto comunque il risarcimento. Si
è iniziato ad osservare che quando il pregiudizio riguarda la persona o un diritto della
personalità, il ristoro del risarcimento del danno in forma pecuniaria, non riusciva ad
essere pienamente satisfattivo. Per queste ragioni si è pensato ad un ampliamento della
sfera di applicazione, in particolare nell’ambito del processo del lavoro, dove le
controversie si protraevano per lungo tempo e i lavoratori erano costretti ad accettare
transazioni da fame. Ne deriva che anche quando il lavoratore fa valere un diritto di
credito avente per oggetto somme di danaro, questo diritto deve essere soddisfatto
prontamente, perché destinato a consentire al lavoratore e alla sua famiglia una esistenza
“libera e dignitosa”. La mancata tempestiva soddisfazione del diritto, quindi, non può mai
essere interamente riparata con il risarcimento dei danni e dà vita ad un pregiudizio
“irreparabile”. È stato così che in questi ultimi anni si è sempre più frequentemente
ammesso il ricorso al provvedimento di urgenza anche nel campo delle controversie di
lavoro.
La conseguenza, però, è che la linea di demarcazione tra le misure cautelari e i
provvedimenti sommari si è resa assai incerta. L’unico tratto differenziale sta nel
persistente collegamento tra la misura cautelare e il successivo giudizio di merito, che nei
procedimenti di tipo sommario di regolamanca.
l’assunto dell’attore (fatto secondario); se invece risponde di aver pagato, allega un fatto
rilevante che, se provato, ha l’effetto immediato di estinguere quello addotto dall’attore
(fatto principale). In queste ipotesi si dice che il convenuto allega delle eccezioni che,
senza modificare il tema decisionale fissato dall’originaria domanda, arricchiscono la
vicenda storica concretandosi in circostanze che hanno l’efficacia di estinguere, modificare
o impedire quella dei fatti dedotti nel processo dal primo. In tal modo, la nozione di
eccezione finisce con l’essere ricavata dall’art.2697 cc – onere della prova, cosicchè
l’onere di allegazione tendenzialmente si modella sull’onere della prova.
Art. 2697 Codice Civile. Onere della prova.
Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve
provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.
L’attore, infatti, nel narrare la vicenda che ha dato origine alla controversia si limita
solitamente ad esporre i fatti costitutivi della pretesa. Una volta che la domanda sia stata
concepita nei suoi termini essenziali, le vicende ulteriori che mirano a far venir meno
l’efficacia del fatto costitutivo, a modificarla o a paralizzarla costituiscono eccezioni, della cui
prova è onerata la parte che le allega. Esistono anche eccezioni rilevabili d’ufficio e l’eccezione
di pagamento è tradizionalmente tra queste. In altri termini, anche se la parte interessata non
dovesse dedurre l’avvenuto pagamento, qualora dagli atti di causa dovesse emergere che il
credito è stato soddisfatto, il giudice dovrebbe rigettare la domanda. Bisogna fare attenzione:
il giudice non può fare uso della sua scienza privata, per cui non può rigettare la domanda se sa
personalmente che il debito è stato pagato.
La domanda riconvenzionale. Con l’eccezione il convenuto arricchisce il fatto sul quale il
giudice deve giudicare restando nel rapporto o nella situazione giuridica dedotta
dall’attore, ma nulla esclude il fatto che possa allegare circostanze che introducano nel
processo un nuovo rapporto o una nuova situazione giuridica collegata con quella dedotta
nell’atto introduttivo. In questi casi il convenuto propone domanda riconvenzionale.
Procediamo con un esempio: l’attore agisce per ottenere una somma di danaro; il
convenuto oppone un controcredito di importo maggiore; se questi, sulla base del dedotto
controcredito, chiede che il giudice condanni l’attore al pagamento della differenza,
introduce nel processo una nuova situazione giuridica sulla quale chiede un autonomo
provvedimento (proponendo, appunto, una domanda riconvenzionale).
Il convenuto, a ben vedere, ha approfittato della pendenza del processo per introdurvi una
propria azione, che avrebbe potuto anche esercitare in via autonoma. Questo è reso
possibile dal fatto che fra la domanda originaria e quella successiva esiste un collegamento
ex art.36 cpc – cause riconvenzionali.
perché se un giudice viene a conoscenza che un altro giudice civile sta trattando una
questione pregiudiziale rispetto a quella dedotta nel suo giudizio, deve sospendere il
giudizio in corso, ed attendere l'esito della causa relativa alla questione pregiudiziale.
Art. 34. (Accertamenti incidentali)
Il giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con
efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla
competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest'ultimo, assegnando alle parti un
termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui.
L'art.34 cpc – accertamenti incidentali si riferisce all'ipotesi in cui la questione
pregiudiziale si presenti davanti allo stesso giudice che sta trattando la questione
dipendente, e quindi all'ipotesi in cui il convenuto chiede che la questione sia risolta con
efficacia di giudicato, oppure nel caso in cui la legge imponga al giudice di risolvere tale
questione con efficacia di giudicato. In questi casi se si tratta di vera pregiudizialità, il
giudice dovrà necessariamente sospendere la questione dipendente, e iniziare una nuova
causa sulla questione pregiudiziale. Viene da chiedersi, però, che differenza c'è tra una
questione pregiudiziale che porta ad un accertamento incidentale, e una normale
questione che, seppure pregiudiziale, non è un accertamento incidentale e quindi non
conduce alla sospensione processo. È bene quindi chiarire questo punto: dobbiamo dire
che non tutti i punti che il giudice deve superare per giungere alla decisione sono
considerati allo stesso modo.
Nell’iter logico che il giudice deve seguire per giungere alla decisione si distinguono tre
attività;
1) punti pregiudiziali: sono tutte le situazioni che il giudice deve fissare nella sentenza per
giungere alla decisione finale (che sarà enunciata nel dispositivo) senza che su di essa vi sia
stata contestazione tra le parti.
2) le questioni: sono quei punti che devono essere risolti dal giudice per giungere alla
decisione finale ma che, a differenza del primo caso, sono stati oggetto di controversia tra
le parti.
3) gli accertamenti incidentali: si hanno quando le parti non solo non sono d’accordo su
una questione (e quindi su un punto controverso) ma chiedono che il giudice la isoli dalle
altre e chiedendo che sia oggetto di una decisione automa anche se collegata, per il suo
carattere pregiudiziale, alla controversia originaria.
Attenzione però! La questione si trasforma in accertamento incidentale solo se le parti (o
la legge) chiedono che quel fatto venga deciso con efficacia di giudicato e non conservi
efficacia interna al processo.
L’accertamento negativo. L'accertamento può anche essere in negativo. È ovvio che, se il
giudice rigetta la domanda nella quale l'attore si è affermato titolare di un diritto, il
contenuto dell'accertamento consisterà in una negazione, in quanto, appunto, mancando
la prova del diritto affermato, la sentenza ne negherà l'esistenza. Ma, è anche possibile che
lo stesso attore miri ad una negazione, ossia che egli nella domanda non si affermi titolare
di un diritto, ma affermi l'inesistenza di un diritto del convenuto.
Anche qui, a monte della vicenda processuale, c'è la provocazione dell'incertezza in
riferimento ad una realtà giuridica, ma ciò è avvenuto in termini diversi da quelli descritti
sopra, perché colui che è citato in giudizio, lungi dal negare il diritto dell'altro, si è, invece,
affermato titolare di un diritto nei suoi confronti.
Il presupposto dell'azione non è, dunque, la contestazione di un diritto, ma il vanto: Tizio,
futuro convenuto, non contesta il diritto di Caio, futuro attore, ma si vanta di avere nei
suoi confronti un diritto. Ecco che, allora, Caio subisce un'intromissione nella sua sfera
che anche se siamo portati a pensare che sia necessario stare in giudizio con un difensore,
in realtà se ne può anche fare a meno; la funzione di rappresentanza di cui stiamo
parlando è di carattere strettamente tecnico, legata alla necessità o all’opportunità che la
parte abbia a disposizione qualcuno che, in un certo senso, parli la stessa lingua del
giudice, e nulla ha a che vedere con la rappresentanza volontaria. Per comprendere
meglio la differenza procediamo con un esempio: Tizio, emigrato all’estero, ha lasciato
beni al suo paese, che devono essere amministrati; quindi, ha concesso la procura a
persona di sua fiducia; nel caso in cui debba iniziare un processo o debba costituirsi come
convenuto, potrà iniziare il processo o costituirsi se sarà munito anche di procura
processuale e, quindi, si rivolgerà ad un avvocato che lo rappresenti dinanzi al giudice e
che lo assista.
Anche se il nostro sistema favorisce e preferisce che in giudizio si stia personalmente,
questa eventualità è prevista nel codice di rito all’art.77 cpc – rappresentanza del
procuratore e dell’institore, che cerca di ridurre l’ambito nel quale l’istituto è destinato ad
operare. Infatti, non pochi sono i casi giurisprudenziali del falsus procurator, così che sono
richieste dalla legge prescrizioni essenziali.
Lo stesso potere spetta al pubblico ministero contro le sentenze che dichiarino l'efficacia o
l'inefficacia di sentenze straniere relative a cause matrimoniali, salvo che per quelle di separazione
personale dei coniugi.
Nelle ipotesi prevedute nei commi terzo e quarto, la facoltà di impugnazione spetta tanto al
pubblico ministero presso il giudice che ha pronunciato la sentenza quanto a quello presso il
giudice competente a decidere sull'impugnazione.
Il termine decorre dalla comunicazione della sentenza a norma dell'art. 133. Restano salve le
disposizioni dell'art. 397.
formulazione dell’art.2504 bis cc – effetti della fusione dispone nel senso che la nuova
società assume “i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in
tutti i loro rapporti, anche processuali anteriori alla fusione”.
Art. 2504-bis Codice Civile.Effetti della fusione.
La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle
società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori
alla fusione.
La fusione ha effetto quando è stata eseguita l'ultima delle iscrizioni prescritte dall'articolo 2504.
Nella fusione mediante incorporazione può tuttavia essere stabilita una data successiva.
Per gli effetti ai quali si riferisce il primo comma dell'articolo 2501-ter, numeri 5) e 6), possono
essere stabilite date anche anteriori.
Nel primo bilancio successivo alla fusione le attività e le passività sono iscritte ai valori risultanti
dalle scritture contabili alla data di efficacia della fusione medesima; se dalla fusione emerge un
disavanzo, esso deve essere imputato, ove possibile, agli elementi dell'attivo e del passivo delle
società partecipanti alla fusione e, per la differenza e nel rispetto delle condizioni previste dal
numero 6 dell'articolo 2426, ad avviamento. Quando si tratta di società che fa ricorso al mercato
del capitale di rischio, devono altresì essere allegati alla nota integrativa prospetti contabili
indicanti i valori attribuiti alle attività e passività delle società che hanno partecipato alla fusione e
la relazione di cui all'articolo 2501-sexies. Se dalla fusione emerge un avanzo, esso è iscritto ad
apposita voce del patrimonio netto, ovvero, quando sia dovuto a previsione di risultati economici
sfavorevoli, in una voce dei fondi per rischi ed oneri.
La fusione attuata mediante costituzione di una nuova società di capitali ovvero mediante
incorporazione in una società di capitali non libera i soci a responsabilità illimitata dalla
responsabilità per le obbligazioni delle rispettive società partecipanti alla fusione anteriori
all'ultima delle iscrizioni prescritte dall'articolo 2504, se non risulta che i creditori hanno dato il loro
consenso.
In pratica, il processo prosegue, senza interruzioni, nei confronti del nuovo soggetto, in
quanto la fusione altro non opera che una modificazione evolutiva, non certo una
estinzione. Si garantisce, così, la continuità del processo. Anche nel caso della liquidazione
si ritiene che non si abbia successione a titolo universale; con la liquidazione il soggetto
rimane lo stesso, anche se cambiano i rappresentanti che saranno i liquidatori al posto
degli amministratori con una deliberazione che non ha effetto nei processi eventualmente
in corso. Dopo la cancellazione della società non si ha alcun fenomeno successorio, ma solo
i pagamenti delle quote di riparto a favore dei soci. Questo discorso vale sia per la
successione a titolo universale che particolare. Difficoltà particolari presenta la successione
nel capo del diritto pubblico. Vi è la tendenza ad escludere una successione a titolo
universale e resta un problema da risolvere caso per caso, escludendo una successione,
comunque, tutte le volte in cui il legislatore, disponendo che un ente subentri ad un altro,
abbia previsto una specifica fase di liquidazione e quando la successione avvenga senza
estinzione dell’ente cui si subentra. La ricerca in concreto si presenta tutt’altro che facile.
rispetto al processo, nel senso che il processo prosegue tra le parti originarie e che la
sentenza spiega i suoi effetti nei confronti del successore, anche quelli esecutivi. Così, A
avrà una decisione che inciderà direttamente su C. Una conferma di questo la troviamo nel
diritto sostanziale, all’art.948 comma 2 cc – azione di rivendicazione che prevede
espressamente il caso in cui il proprietario consegue “direttamente” dal nuovo possessore
o detentore la restituzione della cosa.
Art. 948 comma 2 Codice Civile. Azione di rivendicazione.
Il proprietario, se consegue direttamente dal nuovo possessore o detentore la restituzione della
cosa, è tenuto a restituire al precedente possessore o detentore la somma ricevuta in luogo di
essa.
Il convenuto che cede non sta, si badi bene, in giudizio come sostituto, dal momento che
la vicenda successoria non interessa il processo, cosicchè la domanda contro il convenuto
originario è automaticamente estesa nei confronti del successore e spetta soltanto a
quest’ultimo stabilire se gli convenga o meno intervenire nel processo (possibilità di
intervento che comunque deve essergli garantita essendo in ogni caso destinatario del
provvedimento).
- non può influire sullo stesso svolgimento del rapporto processuale (non può
impedirne
l’estinzione);
- non può compiere atti che importino direttamente o indirettamente
disposizione deldiritto sostanziale;
- non è legittimato a proporre impugnazione della sentenza.
Tempi modi e forme dell’intervento.
L’intervento avviene mediante una comparsa formale ai sensi dell’art.167 cpc –
comparsa dirisposta depositata in udienza o in cancelleria.
L’intervento può avere luogo “sino a che non vengano precisate le conclusioni” ex
art.2681°comma cpc – termine per l’intervento.
L’esigenza di chiamare il terzo può essere avvertita dal convenuto e in questo caso egli
deve farne richiesta nella comparsa di risposta ex art.167 3°comma cpc – comparsa di
risposta e deve anche chiedere al giudice istruttore “lo spostamento della prima udienza
allo scopo di consentire la citazione del terzo con il rispetto del termini dell’art.163 bis
cpc”.
Art. 167. (Comparsa di risposta)
Nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui
fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, indicare le proprie generalità e il codice fiscale,
i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione, formulare le
conclusioni.
A pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni
processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio. (3) Se è omesso o risulta assolutamente
incerto l'oggetto o il titolo della domanda riconvenzionale, il giudice, rilevata la nullità, fissa al
convenuto un termine perentorio per integrarla. Restano ferme le decadenze maturate e salvi i
diritti acquisiti anteriormente alla integrazione.
Se intende chiamare un terzo in causa, deve farne dichiarazione nella stessa comparsa e
provvedere ai sensi dell'articolo 269.
Anche l’attore può aver bisogno di chiamare il terzo, ma se tale bisogno era presente già al
tempo dell’atto introduttivo, egli non può farne richiesta in corso di causa
(rallenterebbe ingiustificatamente il processo). Può farne richiesta nella prima udienza
solamente se la necessità della chiamata sorga dalle “difese del convenuto”.
Nulla esclude che sia lo stesso terzo ad avere bisogno di chiamare altri in giudizio, nel qual
caso deve farne dichiarazione a pena di decadenza nella comparsa di risposta e chiedere al
giudice l’autorizzazione.
B) La chiamata in garanzia. Come si evince dalla lettura dell’art.106 cpc – intervento su
istanza di parte, la parte può chiamare nel processo il terzo “dal quale pretende di essere
garantita”.
Art. 106. (Intervento su istanza di parte)
Ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale
pretende essere garantita.
Procediamo per esempi:
a) Tizio, cha ha acquistato da Caio il bene X, è convenuto in giudizio da Sempronio
che assume di esserne proprietario o di averne diritto. Ai sensi dell’art.1483 cc –
evizione totale della cosa Caio è tenuto a risarcire Tizio del danno.
Appare chiaro che solo nel primo caso sarà possibile che l’originario convenuto sia
estromesso e solo in questo caso la causa pendente resta una e unica (quella di Tizio
contro Sempronio più Caio). Nel secondo caso, nel quale si ha una causa di Tizio contro
Sempronio e una di Sempronio contro Caio, non si può far mancare ad una delle due
cause uno dei necessari contraddittori.
Quando, oltre alla chiamata in garanzia, è esercitata l’azione di regresso non è possibile
l’estromissione.
Nell’ipotesi della garanzia impropria non ci sembra possibile l’estromissione del convenuto
originario, perché è difficile immaginare la chiamata del terzo senza contemporaneo
esercizio di un’azione di condanna nei suoi confronti.
Nell’ipotesi in cui l’estromissione è ammessa, il garante ha pienezza di poteri processuali,
proprio perché riceve l’investitura non dalla legge, ma dalle parti originarie, così che fa sua
la posizione e l’attività processuale del garantito.
C) L’intervento jussu judicis. La “chiamata per ordine del giudice” è fissata all’art.107 cpc
– intervento per ordine del giudice, in quale recita che “il giudice, quando ritiene
opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo al quale la causa è comune, ne
ordina l’intervento”. La disposizione è alquanto sintetica.
Art. 107. (Intervento per ordine del giudice)
Il giudice, quando ritiene opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo al quale la
causa è comune, ne ordina l'intervento.
La disposizione in esame concede al giudice un potere che può esercitare per porre
rimedio alle imprevedibili situazioni del processo, ma è anche estremamente difficile
definirne con precisione l’ambito di applicazione. La difficoltà sta anche nel fatto che tale
strumento è in palese contrasto con una dei principi fondamentali del processo, ovvero
quello della domanda.
Il punto chiave sta nell’espressione causa comune, presente anche all’art.106 cpc –
intervento su istanza di parte, quindi ritorna il problema di stabilire se occorra una
connessione per il titolo e per l’oggetto, ovvero se sia sufficiente una connessione per il
titolo o per l’oggetto.
A nostro avviso il campo dei rapporti alternativi può costituire un luogo di applicazione
dell’art.107cpc . Questo è il caso in cui il convenuto dichiara che altri è il reale destinatario
degli effetti del provvedimento richiesto. Ricordiamo l’esempio: Tizio conviene in giudizio
Caio, il quale non oppone che il diritto di Caio esista, ma che l’obbligato è Sempronio. Si
dovrebbe arrivare alla conclusione che il giudice deve accogliere la domanda se ritiene
infondata l’opposizione di Caio e respingerla nel merito. È una soluzione non appagante,
perché l’individuazione del vero obbligato dovrebbe avvenire preferibilmente in
contraddittorio fra tutte le persone che sono coinvolte nella situazione controversa. È
quanto è stato sostenuto da chi ritiene applicabile a questo caso l’art.102 cpc –
litisconsorzio necessario.
L’applicazione di tale norma sembra una forzatura, dal momento che, a conclusione del
processo, le parti legittimate sono due e non più di due. Così che, ove l’iniziativa non sia
presa dalle parti, è auspicabile che sia il giudice a prenderla, avvalendosi del potere
concessogli dall’art.107 cpc – intervento per ordine del giudice.
Quanto ai rapporti pregiudiziali è più difficile giustificare l’applicazione dell’istituto; alcuni
giudici hanno richiamato gli artt.102 e 107 cpc, richiamando così rispettivamente lo
strumento dell’integrazione del contraddittorio e quello della chiamata del terzo. La verità
è che si riconosce al giudice una posizione sempre più attiva anche a danno del potere
monopolistico delle parti di fissare i termini chiave della lite. In questa ottica è facile
inserire nall’art.107 cpc un potere di chiamata del terzo da parte del giudice anche per i
rapporti pregiudiziali. Dobbiamo solo augurarci che i giudici sappiano fare un uso saggio di
tale potere.
Dobbiamo chiederci ora se l’art.107 cpc sia utilizzabile per la chiamata del terzo titolare di
un rapporto giuridico dipendente. Ad esempio, nel caso di nullità di un contratto per vizio
di forma, il giudice ordina la chiamata del notaio che potrebbe essere responsabile di tale
nullità. Qualcuno ritiene che questo sia l’unico campo di applicazione della norma, poiché
solo in questo caso il terzoverrebbe chiamato non per iniziare nei suoi confronti una causa,
ma per estendere nei suoi confronti gli effetti della sentenza. In questo modo sarebbe
salvo il principio della domanda.
A nostro avviso questa impostazione non può essere condivisa. Il problema, non
diversamente dalle ipotesi pregiudiziali, si risolve in una scelta tra l’esigenza che le parti
siano arbitre di delineare i limiti oggettivi e soggettivi della controversia e l’esigenza che il
giudice possa incidere su questo potere monopolistico per assicurare un corretto uso degli
strumenti di tutela giurisdizionali.
Resta da accennare alla disciplina processuale della chiamata del terzo:
1- mentre nell’ipotesi prevista dall’art.106 cpc – intervento su istanza di parte la
valutazione che il processo si svolga nei confronti anche del terzo è successiva, quella
prevista dall’art.107 cpc – intervento per ordine del giudice è preventiva;
2- la chiamata è sempre atto di parte in forma di citazione;
3- la chiamata per ordine del giudice, a differenza di quella su istanza di parte, può essere
disposta in ogni momento dal giudice istruttore;
4- se nessuna delle parti originarie chiama il terzo nel termine fissato dal giudice, la causa è
cancellata dal ruolo.
È evidente che è il giudice a chiamare il terzo, ma spetta alla parte dare un contenuto alla
chiamata.
Quello che dobbiamo però tenere presente è che, nel processo contenzioso, il
provvedimento conclusivo si coordina con un sistema di rimedi esperibile dinanzi a giudici
sovraordinati (si badi non davanti lo stesso giudice), verso i quali si possono far valere i vizi
e le irregolarità del precedente processo e del conseguente provvedimento giudiziale.
Allora occorre chiarire che non si ha una ripetizione del processo, ma le parti sollecitano un
controllo del giudice dell’impugnazione che, se non avviene in determinati termini di legge,
è precluso.
Il momento finale del processo lo abbiamo identificato con la sentenza. Al tempo stesso
questa impostazione ha bisogno di ulteriori chiarimenti. La sentenza chiude il processo, ne
segna la fine solo se leghiamo il concetto di fine alla certezza della decisione. In altre
parole, la certezza della sentenza, della decisione quindi, segna la barriera che preclude
ogni contestazione. Quindi, certezza–immutabilità assoluta della decisione (preclusione).
In realtà questa affermazione è da dimostrare, in quanto gli ordinamenti contemporanei si
accontentano di un “alto grado di stabilità” delle decisioni; resta fuori discussione che il
giudicato presuppone una certezza stabile, ma non immutabile. Questa è la cosa giudicata
in senso formale a norma dell’art.324 cpc – cosa giudicata formale.
Art. 324. (Cosa giudicata formale)
Si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di
competenza, né ad appello, ne' a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai
numeri 4 e 5 dell'articolo 395.
In altre parole, possiamo dire che l’efficacia delle decisioni giudiziali acquista una
particolare stabilità quando non siano più esperibili o quando siano stati sperimentati i
mezzi di impugnazione ordinari. Questa precisazione è d’obbligo perché, come vedremo,
esistono anche mezzi di impugnazione straordinari che possono essere proposti anche
dopo il passaggio in giudicato della sentenza.
Per usare le parole del legislatore, il passare in giudicato esprime come e quando la
sentenza acquista il grado di stabilità che è il massimo consentito da un ordinamento in un
determinato momento storico. Il risultato si proietta in due direzioni: scolpisce una legge
del processo secondo la quale lo stesso giudice non può tornare (ne bis in idem) e neanche
altro giudice vi può intervenire; individua la legge del rapporto controverso. Questo è
l’aspetto della cosa giudicata in senso sostanziale, previsto all’art.2909 Codice Civile –
cosa giudicata, secondo il quale l’accertamento contenuto nella sentenza passata in
giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa.
La nostra opinione esprime preferenza per chi dà maggiore rilievo all’aspetto preclusivo
proprio dell’accertamento sottostante a qualsiasi sentenza. Sappiamo, infatti, che il
processo di cognizione si caratterizza proprio per il dato costante dell’accertamento, che
talora completa la tutela richiesta, talaltra è la premessa per l’attribuzione di ulteriori
utilità. Quando, perciò, l’art.282cpc – esecuzione provvisoria stabilisce che la sentenza ha
efficacia esecutiva immediata, la più corretta lettura del medesimo è quella secondo cui
l’ordinamento anticipa gli effetti ulteriori che presuppongono l’accertamento giudiziale,
senza toccare quest’ultimo nella sua essenza.
3. I termini.
L’altro mezzo che il legislatore ha a disposizione per dare ordine al procedimento è il
termine. La funzione è duplice:
1. mantenere le attività processuali sufficientemente concentrate;
2. offrire ai soggetti uno spazio temporale per poter adeguatamente compiere gli
atti di loropertinenza.
Quando prevali la prima funzione, il termine è congegnato in modo che l'attività
processuale non può compiersi dopo un determinato momento; quando prevale la
seconda funzione, il termine è disciplinato in modo che l'attività processuale non può
compiersi prima di un determinato momento. Nel primo caso, il termine si dice
acceleratorio o finale, nel secondo, si dice dilatorio. Nel primo caso, l'inutile decorso del
termine comporta decadenza, nel secondo, il tempestivo compimento dell'atto comporta
irricevibilità dello stesso.
I termini finali si distinguono in termini perentori e ordinatori. I primi sono stabiliti a pena
di decadenza, per cui l'attività processuale non può essere compiuta dopo che essi siano
scaduti e, si è compiuta, è assolutamente nulla; e in considerazione della gravità della
sanzione, la legge vuole che il termine sia perentorio soltanto se ciò è espressamente
previsto. Invece, i secondi sono prorogabili per una durata non superiore al termine
originario e, per motivi particolari, anche una seconda volta, purché il provvedimento di
proroga sia anteriore alla scadenza del termine: il compimento dell'atto dopo la scadenza o
dopo la proroga del termine dal luogo a una nullità relativa, rilevabile su eccezione della
parte. La legge prevede altri termini alla cui inosservanza non sono collegati decadenze, ma
effetti minori (la concessione di un contro termine, un maggiore carico di spese). Si parla di
termini combinatori. Inoltre, la legge detta una disposizione analitica sul computo dei
termini, per il cui calcolo non si tiene conto né del giorno iniziale e neppure di quello finale:
in tal caso il termine si dice libero.
Pertanto, vedremo come l'intera disciplina dei termini è caratterizzata da una insufficiente
coerenza: soltanto la legge può individuare quali siano i termini perentori e fissarne la
durata, peraltro, fuori dall'area di questi ultimi, rivive la discrezionalità giudiziale, la quale,
si da un lato, assicura il processo un indispensabile coefficiente di elasticità, dall'altro lato
consente che i termini si allunghino spesso in maniera intollerabili.
Del resto, il meccanismo di termini può costituire un'arma efficace per costruire un
processo di ragionevole durata se si è in grado di ridurre soprattutto i tempi morti del
processo, che sono quelli di cui i giudici dispongono per cadenzare i propri atti.
4. La rimessione in termini.
I termini processuali sono uno strumento utilissimo alla corretta conduzione del processo e
ad una razionale erogazione della giustizia. Tuttavia, alle volte possono cozzare con la
garanzia del diritto alla difesa, fondamentale nel nostro ordinamento, nelle ipotesi in
cui il termine è scaduto per causa non imputabile a una delle parti. È chiaro che in questa
ipotesi la difesa dalla parte risulta colpita da un fatto che non era sotto la sua
responsabilità. Di questa esigenza si è accorto il legislatore, prevedendo così la possibilità
della rimessione in termini della parte che, incorsa in decadenza per il mancato rispetto di
un qualsiasi termine perentorio, dimostri la causa non imputabile. In questo modo si può
mettere in discussione anche la sentenza, dimostrando di non aver potuto proporre
impugnazione tempestiva per causa non imputabile. È questo il prezzo che l’ordinamento è
disposto a pagare pure di assicurare il pieno diritto alla difesa.
Art. 153. (Improrogabilità dei termini perentori)
I termini perentori non possono essere abbreviati o prorogati, nemmeno sull’accordo delle parti.
La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può
chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’articolo 294,
secondo e terzo comma.
Tuttavia, la disposizione crea qualche problema. In primo luogo, occorre chiedersi chi sia il
giudice competente quando l’istanza non è proposta durante l’istruzione; a nostro avviso,
competente è il giudice dell’impugnazione e non quello che ha emesso il provvedimento,
poiché il controllo qui è sull’ammissibilità dell’impugnazione.
Quanto alla forma dell’istanza, è da ritenere che sia il ricorso e che il giudice debba
disporre l’udienza per la comparizione delle parti, dando a chi propone l’istanza un termine
per la notificazione (infatti il giudice provvede con ordinanza, quindi dopo aver sentito
preliminarmente le parti).
Nulla è detto sui termini e sul regime del procedimento. Bisogna allora ricercare un
“termine ragionevole” e questo potrebbe essere desunto dall’art.157 2°comma cpc –
rilevabilità e sanatoria della nullità, e dire che come la nullità deve essere eccepita nella
prima fase della difesa, così la rimessione deve essere richiesta nel primo atto successivo a
quello rispetto al quale si chiede la rimessione.
Art. 157. (Rilevabilità e sanatoria della nullità)
Non può pronunciarsi la nullità senza istanza di parte, se la legge non dispone che sia pronunciata
d'ufficio. Soltanto la parte nel cui interesse è stabilito un requisito può opporre la nullità dell'atto
per la mancanza del requisito stesso, ma deve farlo nella prima istanza o difesa successiva all'atto
o alla notizia di esso. La nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, né da
quella che vi ha rinunciato anche tacitamente.
Il legislatore non fornisce alcuna indicazione su ciò che costituisce “causa non imputabile
alla parte”, quindi l’individuazione va fatta caso per caso ed è rimessa al “prudente
apprezzamento delgiudice”.
6. I provvedimenti.
Il provvedimento è l’atto tipico del giudice. La forma del provvedimento è disciplinato
all’art.131 cpc – forma dei provvedimenti in generale, che recita: “la legge prescrive in
quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza o decreto. In mancanza di tali
prescrizioni, i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello
scopo”.
Art. 131. (Forma dei provvedimenti in generale)
La legge prescrive in quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza o decreto.
In mancanza di tali prescrizioni, i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al
raggiungimento del loro scopo.
Dei provvedimenti collegiali è compilato sommario processo verbale, il quale deve contenere la
menzione della unanimità della decisione o del dissenso, succintamente motivato, che qualcuno
dei componenti del collegio, da indicarsi nominativamente, abbia eventualmente espresso su
ciascuna delle questioni decise. Il verbale, redatto dal meno anziano dei componenti togati del
collegio e sottoscritto da tutti i componenti del collegio stesso, e' conservato a cura del presidente
in plico sigillato presso la cancelleria dell'ufficio.
Da questa lettura ricaviamo due cose fondamentali:
1. Normalmente il giudice provvede in forme tipiche;
2. Eccezionalmente sceglie la forma adeguandola allo scopo.
Appare chiaro come questa disposizione ricalca lo stesso principio della libertà di forma in
favore delle parti all’art.121 cpc, che finisce quasi con l’apparire superfluo.
Il contenuto della sentenza è descritto nell’art.132 cpc – contenuto della sentenza.
oppure anche agli altri provvedimenti previsti dalla legge, ovvero decreti e ordinanze, che
hanno comunque la funzione tipica delle sentenze? La tesi unanime in dottrina e
giurisprudenze ritiene che i giudici ordinari possano esercitare il sindacato sulla
adeguatezza della forma rispetto alla funzione e che possano perciò riconoscere natura di
sentenza a provvedimenti rivestiti di forma diversa, aventi contenuto sostanzialmente
decisorio. In questo modo, il regime giuridico del provvedimento, che rileva soprattutto in
ordine alla impugnazione e all’efficacia, viene collegato alcontenuto e non alla forma che la
legge gli assegna.
Problema collegato a questo è il caso in cui il giudice pronunci dando al provvedimento
forma diversa da quella che avrebbe dovuto avere secondo la legge, in pratica emette
sentenza quando la legge prevedeva l’ordinanza. Se si facesse finta che il regime giuridico
da seguire è quello del provvedimento che sarebbe stato corretto usare, la situazione
spalanca i termini del problema; in pratica, si decide con sentenza in luogo del
provvedimento: contro la sentenza è ammesso ricorso e impugnazione, il provvedimento è
suscettibile invece di revoca o modifica. Ecco perché è importante chiarire la questione ed
allo stesso tempo è grave che il legislatore non vi abbia ancora posto rimedio con norme
capaci di disciplinare il caso.
La giurisprudenza, dal canto suo, applica il principio secondo il quale in ogni caso prevale la
sostanza del provvedimento sulla sua forma, con un solo limite: che il provvedimento
abbia il minimo dei requisiti formali per rientrare nel tipo che sarebbe congruo in relazione
al suo contenuto. Di conseguenza, il provvedimento sarà impugnabile con il mezzo che si
adatta al contenuto del provvedimento. Ovviamente le incertezze possono influire
pesantemente sulle tutele, poiché sbagliando il rimedio si corre il rischio di perdere la
tutela.
7. Comunicazioni e notificazioni.
Gli atti processuali sono normalmente recettizi e quindi si perfezionano con la
comunicazione ai destinatari. Gli atti compiuti in contraddittorio e in udienza si intendono
conosciuti dalle parti. Per gli atti scritti la legge prevede talvolta la comunicazione
mediante consegna diretta di copia o a mezzo degli ufficiali giudiziari. Altre volte la legge
prescrive la necessità della notificazione.
La comunicazione è l’atto con il quale il cancelliere dà notizia di atti o fatti processuali al PM,
alle parti, al consulente, agli ausiliari del giudice o ai testimoni, e cioè di quei provvedimenti
per i quali è disposta dalla legge la forma abbreviata di comunicazione, ex art.136
comma 1 cpc –
comunicazioni.
Le esigenze di certezza hanno imposto che si sia data una certa importanza al
requisito dellaforma, in modo che l’atto compiuto sia immediatamente produttivo dei suoi
effetti tipici e che, qualora si presenti qualche vizio, la vicenda sia risolta e si chiuda in
tempi assai brevi.
Il modello base, quindi, è quello dall’annullabilità dell’atto che, seppur viziato, è idoneo a
produrre effetti. Dobbiamo però chiarire la disciplina della annullabilità degli atti
processuali perché ha caratteri specifici e peculiari.
Abbiamo detto che nel concetto di forma deve includersi il rispetto della sequenza logico-
temporale degli atti, quindi se detta sequenza non viene rispettata il vizio dell’atto è un
vizio di forma: ad esempio la consegna del documento non è preceduta dalla ricerca della
persona.
Diversamente stanno le cose se parliamo di atti che fanno parte dello sviluppo del
processo, in cui il precedente fa da presupposto all’atto successivo. Facciamo un esempio:
l’attore può costituirsi dopo aver notificato al convenuto l’atto di citazione; il cancelliere,
però, iscrive a ruolo la causa prima che l’atto di citazione sia notificato, compiendo così un
atto mancante del suo presupposto. È un atto nullo? Possiamo dire che l’atto è nullo, nel
senso di invalido, quindi produttivo di effetti ma invalidabile. Per risolvere il caso posto al
nostro esempio, il problema sarà di stabilire se una notificazione successiva possa far
ritenere raggiunto lo scopo e la risposta sarà affermativa tutte le volte in cui quest’ultima
non abbia compromesso le possibilità difensive del convenuto.
Riguardo al mancato rispetto dei termini siamo anche qui nel campo dei requisiti formali
e, anche qui parleremo di atto nullo. Risolveremo il problema in base alla natura del
termine: se sarà perentorio, decorso il quale, non servirà procedere all’analisi se ha o
meno raggiunto lo scopo, dal momento che il termine perentorio è tassativo; diverso nel
caso in cui la sanatoria potrà essere richiesta con la rimessioni in termini.
Tornando al tema dell’invalidità per vizi formali dell’atto processuale, dobbiamo chiarire
cosa debba intendersi per atto processuale e forma del medesimo.
Per atto processuale si intende non solo quello compiuto nel corso del processo, ma anche
quello che contribuisce al suo concreto svolgimento.
In relazione alla forma ascriviamo, come visto, questo concetto a un contenuto assai ampio
che siamo soliti indicare con l’endiadi contenuto-forma.
Il compito del legislatore è stato quello di individuare le forme veramente essenziali e
collegare a queste sanzioni di invalidità, escludendo i formalismi che non sono
indispensabili alla vita del processo.
Il legislatore è partito dal principio di tassatività delle nullità, ex art.156 1°comma cpc –
rilevanza della nullità.
Questo vuol dire che non tutte le deviazioni dell’atto dal suo modello legale comportano
nullità e che vi sono anche vizi che comportano irregolarità priva di significative
conseguenze. In questo modo lo scopo dell’atto diventa il parametro a cui fare riferimento
per saggiarne la validità. Cosa intendiamo allora per scopo dell’atto? Ovviamente non è lo
scopo che la parte si propone; si tratta invece dello scopo obiettivo perseguito
dall’ordinamento e, quindi, dal complesso delle disposizioni che prendono in
considerazione l’atto di cui si discorre.
Esempio: l’atto di citazione ha un duplice scopo: 1) invitare il convenuto a comparire
dinanzi al giudice ed 2) informarlo della pretesa così da consentirgli di difendersi. L’art.164
cpc – nullità della citazione stabilisce che la costituzione del convenuto sana i vizi relativi
alla chiamata in giudizio e ritiene così lo scopo raggiunto; ma non sana quelli relativi
alla conoscenza del contenuto della domanda che impone la sua ripetizione, poiché lo
scopo non è stato raggiunto.
Questo vuol dire che qualsiasi nullità non resiste al fenomeno del passaggio in giudicato
che si ha quando non è stata proposta tempestiva impugnazione o quando questa è stata
dichiarata inammissibile e rigettata.
In questa ipotesi si ha più che una sopravvivenza della nullità al giudicato, una indifferenza
della stessa rispetto al giudicato, nel senso che il soggetto, leso dalla sentenza mancante la
sottoscrizione del giudice, può fare accertare la nullità in qualsiasi modo; ossia con una
autonoma azione di accertamento o con una eccezione proposta nel corso di un processo
nel quale il giudicato sembra rilevante o con un’opposizione all’esecuzione, qualora la
sentenza sia messa in esecuzione.
Nel caso di irregolarità degli atti processuali, l’ipotesi è quella in cui il vizio riguardi un
elemento o un requisito dell’atto, che non sia previsto a pena di nullità. In questi casi,
l’atto è valido, ma la parte deve sollecitare il giudice a fare uso dei suoi poteri di
regolarizzazione per evitare che la situazione possa degenerare e portare a conseguenze
processuali dannose.
Art. 92 (Condanna alle spese per singoli atti. Compensazione delle spese)
Il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione
delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può,
indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non
ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’articolo 88, essa ha causato all’altra parte.
Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o
mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le
spese tra le parti, parzialmente o per intero.
Se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano
diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione.
Il giudice può altresì condannare una parte al rimborso delle spese anche non ripetibili che
questa abbia causato alla controparte trasgredendo il dovere di lealtà e probità e ciò
indipendentemente dalla soccombenza. La statuizione definitiva sulle spese è contenuta
nella sentenza che chiude il processo davanti al giudice per cui si deve trattare di una
sentenza processuale o di merito definitiva.
La previsione di tale norma che dovrebbe riguardare ogni processo e che invece si riferisce
al solo processo ordinario di cognizione crea problemi di adattamento ai processi esecutivi,
cautelari, di volontaria giurisdizione e per quelli costitutivi necessari. Diverso dal problema
delle spese è quello riguardante la responsabilità per lite temeraria la quale si ha quando
la parte abbia agito o resistito in giudizio con mala fede, colpa grave o comunque senza la
normale prudenza.
L’art.96 cpc – responsabilità aggravata prevede al riguardo due autonome fattispecie di
responsabilità per illecito processuale.
Art. 96. (Responsabilità aggravata)
Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il
giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che
liquida, anche d’ufficio, nella sentenza. Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato
eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale o iscritta ipoteca giudiziale,
oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al
risarcimento dei danni l’attor o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La
liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente. In ogni caso, quando pronuncia
sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte
soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente
determinata.
La prima ipotesi meno severa presuppone che il soggetto abbia agito o resistito con dolo o
colpa grave (non basta quindi la mera violazione dei doveri di lealtà e probità) e si applica a
qualsiasi tipo di processo. Poiché tuttavia la legge non specifica che il comportamento è
ingiusto quando la parte ritiene di aver torto (cosiddetta Procedura ingiusta) la norma
sembra applicabile anche quando il procedimento utilizzato sia irrituale. Il danno risarcibile
riguarda in questo caso non le spese ma qualsiasi onere sostenuto dalla parte vittoriosa.
La seconda ipotesi più severa presuppone invece una colpa lieve e cioè l’aver agito senza la
normale prudenza e si riferisce solo ai procedimenti cautelari ed esecutivi nonché a taluni
atti processuali (trascrizione delle domande giudiziali, iscrizione dell’ipoteca giudiziale). La
giurisprudenza ritiene al riguardo che in questo caso i danni non possono essere fatti
valere in via autonoma perché solo il giudice della causa di merito è in grado di valutare
la temerarietà dellalite.
Per concludere va precisato che anche se l’art.96 cpc prevede una liquidazione dei danni
anche d’ufficio ciò non costituisce una deroga al principio della domanda la quale pertanto
sarà sempre necessaria ma si riferisce alla prova dell’ammontare del danno il quale
pertanto in mancanza di prova può essere determinato in via equitativa.