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Lezione 1 - 04/03/20
Andiamo ad esaminare una parte del programma piuttosto complessa che è la
connessione tra parti diverse.
Ci saranno due grossi temi che analizzeremo che sono appunto la connessione tra
parti diverse e le impugnazioni.
Detto questo, entriamo nel vivo del discorso cominciando ad analizzare le forme di
connessione più blanda: la connessione per identità di questione di fatto e di
diritto e la connessione per identità di causa petendi. Si tratta di forme di
connessione blanda e che mettono in gioco le stesse esigenze, quindi vanno
soggette ad una disciplina molto simile.
Ci sono una serie di istituti strumentali alla formazione del processo litisconsortile,
cioè alla formazione di un processo fra più parti si può arrivare attraverso strade
diverse.
La disposizione che si occupa del processo litisconsortile iniziale è l'art 103 CPC
(litisconsorzio facoltativo) che recita: "più parti possono agire o essere convenute
nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste connessione
per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione
dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni".
Quindi fin dall'inizio la domanda viene proposta da e/o contro più parti.
Può altresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un
proprio interesse." questo è l'intervento volontario.
L'art 106 si occupa invece dell'intervento su istanza di parte, istituto che abbiamo
indirettamente già visto quando abbiamo parlato del potere di chiamata in causa
del terzo, rispettivamente del convenuto (da far valere nella comparsa di risposta
depositata entro 20 giorni dalla data della prima udienza) o da parte dell'attore che
deve invece esercitarlo in prima udienza nell'ambito del suo potere di replica. L'art
106 così recita: "ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale
ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita".
Abbiamo poi l'art 107 che prevede l'intervento per ordine del giudice: "Il giudice,
quando ritiene opportuno che che il processo si svolga in confronto di un terzo al
quale la causa è comune, ne ordina l'intervento".
Accanto a queste previsioni ci sono due disposizioni che, allo scopo di facilitare la
formazione del processo litisconsortile, consentono la deroga ai criteri ordinari di
competenza. Queste disposizioni sono inserite negli artt. 31 ss. E sono:
- art 33 → si occupa del cumulo soggettivo. Ci dice che “le cause contro più
persone che a norme degli artt 18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a
giudici diversi, se sono connesse per l'oggetto o per il titolo possono essere
proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse,
per essere decise nello stesso processo”
- art 32 → si occupa di una particolare forma di connessione tra parti diverse,
si parla di una connessione per pregiudizialità dipendenza che prende il
nome di GARANZIA. L'art prevede che “La domanda di garanzia può essere
proposta al giudice competente per la causa principale affinché sia decisa
nello stesso processo”.
Per completare il quadro dei riferimenti normativi torniamo sull'art 103 c.2 e sull'art
279 c.2 n°5: entrambe le disposizioni prevedono che il giudice di fronte a cui sono
cumulate più cause connesse fra parti diverse possa esercitare il potere di
separazione. L'art 103 c.2 prevede infatti che “Il giudice può disporre, nel corso
della istruzione o nella decisione, la separazione delle cause, se vi è istanza di tutte
le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o
renderebbe più' gravoso il processo, e può rimettere al giudice inferiore le cause di
sua competenza”. Qui la disposizione si occupa in maniera specifica dei casi in cui
il giudice esercita il suo potere di separazione in corso di causa, nel corso della
fase istruttoria, anche se c'è un richiamo all'ipotesi in cui la separazione viene
disposta in sede decisoria. Qui il rinvio è all'art 279 c.2 n°5 laddove si prevede la
possibilità per il giudice, previa emanazione dell'ordinanza di separazione, di
decidere con sentenza definitiva una sola delle cause cumulate di fronte a sé.
Sappiamo già che le questioni di fatto e le questioni di diritto non sono coperte
dall'autorità della cosa giudicata ma sono sempre accertate risolte incidenter
tantum dal giudice, questo spiega perché in questa forma di connessione non
entra in gioco l'esigenza di assicurare l'armonia delle decisioni.
Questo processo litisconsortile non si forma soltanto nei modi dell'art 103, ma si
può formare anche attraverso la riunione delle cause separatamente proposte,in
particolare laddove le più cause sono separatamente proposte di fronte allo stesso
giudice (ufficio giudiziario), quindi si applica l'art 274. Anche in questo caso il
giudice ha soltanto la facoltà di disporre la riunione, il litisconsorzio rimane
facoltativo. C'è un'unica deroga rappresentata dall'art 151 disp. att. CPC e che si
occupa di processi in materia di lavoro e di previdenza e di assistenza obbligatorie.
L'art 151 infatti stabilisce che: “La riunione, ai sensi dell'articolo 274 del codice,
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dei procedimenti relativi a controversie in materia di lavoro e di previdenza e di
assistenza e a controversie dinanzi al giudice di pace, connesse anche soltanto
per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o
parzialmente, la loro decisione, DEVE essere sempre disposta dal giudice,
tranne nelle ipotesi che essa renda troppo gravoso o comunque ritardi
eccessivamente il processo. In queste ipotesi la riunione, salvo gravi e motivate
ragioni, è, comunque, disposta tra le controversie che si trovano nella stessa fase
processuale. Analogamente si provvede nel giudizio di appello".
Quindi se come regola generale la riunione di più cause connesse per identità della
questione di fatto e di diritto separatamente proposte di fronte allo stesso ufficio
giudiziario è una mera facoltà, rimessa quindi ad una valutazione discrezionale del
giudice, nell'ambito delle controversie di lavoro e di assistenza e previdenza è
invece obbligatoria.
1. Pensate per esempio al settore della tutela del consumo. Prendiamo il caso
in cui più consumatori abbiano stipulato un contratto con lo stesso dante
causa nella forma dei moduli o dei formulari (secondo quanto previsto all'art
1342 cc), e supponiamo che diversi consumatori decidano di proporre una
domanda giudiziale nei confronti del dante causa facendo valere una
situazione giuridica regolata da una clausola comune a tutti i contratti
stipulati per moduli o formulari. Vedete che si tratta di ipotesi di domande
giudiziali aventi ad oggetto situazioni giuridiche autonome (anche se
intercorrono fra parti parzialmente diverse perché c'è una parte comune che
il dante causa) perchè hanno distinto sia il petitum sia la causa petendi, ma
che hanno una questione comune, è una questione di diritto inerente
l'interpretazione della clausola contrattuale presente in tutti i moduli o
formulari.
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gioco semplicemente l'esigenza di assicurare l'economia processuale.
La questione comune, sia essa di fatto o di diritto, viene risolta una volta per tutte
dal giudice.
Oltre a questo, nel momento in cui ci viene attuato un processo cumulativo, certe
attività processuali saranno compiute una sola volta, quindi ci può essere un
risparmio di tempo. Invece questa forma di connessione non mette assolutamente
in gioco l'esigenza di assicurare l'armonia delle decisioni poiché le situazioni
giuridiche in gioco sono completamente distinte/autonome l'una dall'altra.
Quanto detto vale anche con riferimento alla seconda forma di connessione
blanda, cioè la CONNESSIONE PER IDENTITÀ' DI TITOLO O DI CAUSA
PETENDI.
Anche in queste ipotesi siamo di fronte a rapporti obbligatori che hanno un petitum
diverso, ma anche una parte della causa petendi comune.
Innanzitutto anche questa ipotesi trova un richiamo espresso nell'art 103 cpc,
norma che si occupa del litisconsorzio iniziale: "più parti possono agire o essere
convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste
connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono". Con riferimento a
questa forma di connessione il legislatore per favorire il cumulo processuale
prevede la possibilità di derogare ai criteri di competenza, quindi vuole favorire la
formazione di questo cumulo processuale, e lo fa nell'art 33 cpc. L'art 33 (cumulo
soggettivo) afferma infatti che "le cause contro più persone che a norma degli artt
18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, se sono connesse
per l'oggetto o per il titolo (ecco che rientra la fattispecie che stiamo esaminando),
possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di
una di esse per essere decise nello stesso processo. Come vedete l'art 33 cpc fa
un espresso riferimento agli artt 18 e 19, si tratta dei ccdd fori generali, l'art 18 è il
foro generale delle persone fisiche, il 19 di quelle giuridiche. Se io attore propongo
una domanda nei confronti di più convenuti che presenta una forma di
connessione data dall'identità anche parziale della causa petendi, se si applicano
le disposizioni generali appena richiamate (es art 18), è possibile che le diverse
domande dovrebbero essere portate di fronte a giudici diversi perché diversi
convenuti possono avere residenze e domicili diversi. Quindi, se si applicasse la
disciplina ordinaria della competenza, questo processo cumulativo probabilmente
non si potrebbe realizzare, per cui l'art 33 per favorire il cumulo processuale mi
dice che le domande possono essere cumulate di fronte al luogo di residenza o di
domicilio di uno dei convenuti in modo da attuare il processo cumulativo.
Vi faccio notare che l'art 33 contiene un richiamo solo agli artt 18 e 19 e quindi
consente di derogare solo ai fori generali delle persone fisiche e delle persone
giuridiche, dal che si deve ritenere che laddove entri in gioco un foro "esclusivo"
probabilmente ci possono essere delle difficoltà ad attuare il cumulo processuale.
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proposte davanti allo stesso ufficio giudiziario, sia che siano state proposte di
fronte a uffici giudiziari diversi. Inoltre, stante il carattere blando di questa forma di
connessione si dovrà applicare il c. 2 dell'art 40 che prevede che la connessione
non può essere eccepita dalle parti né rilevata d'ufficio dopo la prima udienza, e la
rimessione non può essere ordinata quando lo stato della causa principale o
preventivamente proposta non consente l'esauriente trattazione e decisione delle
cause connesse. Quindi in hp di cause connesse fra parti diverse per identità di
titolo o di causa petendi in applicazione dell'art 40, la riunione dovrà essere
disposta in attuazione di quanto previsto nell'ultima parte dell'art 40 c.1 davanti al
giudice preventivamente adito, peraltro, l'eccezione di connessione non potrà
essere sollevata dalle parti o rilevata d'ufficio dal giudice oltre la prima udienza, e
comunque la riunione non potrà essere disposta quando lo stato della causa
preventivamente proposta non consente l'esauriente trattazione e decisione delle
cause connesse.
Qual è la disciplina del processo? Anche in questo caso, siccome entra in gioco
solo l'esigenza di assicurare l'economia processuale, si deve riconoscere ai diversi
litisconsorti la piena autonomia. Potranno quindi esercitare i poteri processuali e
questi produrranno gli stessi effetti che si sarebbero prodotti ove il processo si
svolgesse dall'inizio alla fine fra l'attore e il convenuto. Da parte sua il giudice potrà
in ogni caso disporre la separazione delle cause riunite vuoi in corso d'istruttoria
(art 103 c.2), vuoi in fase decisoria previa separazione e decisione di una cause
con sentenza definitiva. Le più controversie anche in questa hp potranno avere
degli esiti di merito diversi, nel senso che una o più delle domande risultino
accolte, mentre le altre risultino rigettate. Non mi occupo adesso del litisconsorzio
in fase di gravame ma posso anticiparvi che stante il carattere blando di questa
forma di connessione, se il processo si è svolto in forma cumulativa in primo
grado, non è necessario che si svolga in forma cumulativa anche davanti al giudice
dell'impugnazione, ma è possibile che di fronte al giudice dell'impugnazione sia
portata solo una o alcune cause fino a quel momento riunite, si applica la
disciplina delle cause scindibili art 332.
Adesso passiamo all’analisi delle forme di connessione più intense: i c.d. rapporti
plurisoggettivi cioè ipotesi di connessione di cause tra parti diverse, per identità
di causa pretendi e petitum.
Nell’ambito del processo vengono dedotti in giudizio una serie di rapporti giuridici,
che corrono tra parti parzialmente diverse, che si connotano per l’identità vuoi
della causa petendi vuoi del petitum.
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venditori alienano ad un compratore o ad una pluralità di compratori lo stesso
bene.
Sono, da una parte, l’effetto reale (l’effetto traslativo), che in Italia non è oggetto di
un’obbligazione in senso tecnico: il venditore non si obbliga a trasferire la proprietà
al compratore, ma è un’effetto che scaturisce automaticamente nel momento in
cui si forma il consenso.
Questo perché?
Perché l’ordinamento italiano ha fatto una scelta peculiare, cioè la scelta della
solidarietà sul lato passivo, per cui quando un’obbligazione viene contratta sul lato
passivo da più soggetti, questi, come regola generale, sono obbligati in solido —>
art. 1292 c.c. “ciascuno dei debitori è tenuto al pagamento dell’intero”
Quindi la controparte, il creditore comune, ha diritto di pretendere da ciascuno dei
debitori, il pagamento dell’intero; è una forma di rafforzamento del credito
sostanzialmente.
- la stessa causa petendi, perché hanno la stessa origine: può essere un contratto
ma può essere anche un fatto illecito (ad esempio: se più danneggianti sono
responsabili in un incidente, questi sono obbligati tutti in solido rispetto al
danneggiato).
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Un altro esempio lo si trae dalle obbligazioni indivisibili, in cui ricorre la stessa
forma di connessione: abbiamo un fascio di rapporti obbligatori tra la parte
comune e ciascuno dei partecipanti che si connota proprio per l’identità della
causa petendi e del petitum.
Per altro vi ricordo che in base all’art. 1317 c.c. la obbligazioni indivisibili sono
soggette alla disciplina delle obbligazioni solidali (c’è quindi un richiamo espresso
alla disciplina della solidarietà, salvo diversa previsione).
Ora, se i responsabili della violazione del diritto assoluto sono più di uno, ciascuno
di loro sarà obbligato in solido al risarcimento del danno, quindi anche in queste
ipotesi si applica la regola della solidarietà passiva.
Questa categoria dei rapporti plurisoggettivi, che interessa i settori più disparati del
cod. civ. (abbiamo visto i rapporti di famiglia, i rapporti obbligatori, abbiamo visto i
rapporti aventi ad oggetto diritti reali, i rapporti legati a società, comunioni o
condomini ecc.) crea notevolissimi problemi sul piano processuale.
Perché la disciplina di tutte queste fattispecie non è affatto unitaria sul piano
processuale; noi dovremo confrontarci con la disciplina di diritto positivo di tutte
queste fattispecie per capire le esigenze che di volta in volta entrano in gioco, e
alla luce di queste esigenze ricostruire la disciplina processuale.
Poi ci sono delle ipotesi che vanno soggette ad una disciplina intermedia che
chiamiamo litisconsorzio unitario o quasi necessario, cioè un litisconsorzio che è
facoltativo quanto all’instaurazione, nel senso che alle parti è data la possibilità, la
facoltà di formare il processo litisconsortile, ma è un litisconsorzio che è
necessario per quanto riguarda la trattazione e decisione, cioè una volta che si è
formato quel processo deve proseguire in forma cumulativa fino alla sua fine.
Ora cominciamo ad esaminare la disciplina più rigida, quella del c.d. litisconsorzio
necessario che trova la propria previsione nell’art. 102 c.p.c.
“Se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste
debbono agire o essere convenute nello stesso processo.
Se questo è promosso da alcune o contro alcune soltanto di esse, il giudice ordina
l’integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito.”
Per altro, la disciplina è completata dal disposto dell’art. 354 e 331 c.p.c.
Come ci dice l’art. 102, si parla di litisconsorzio necessario nei casi in cui il
processo deve svolgersi necessariamente fra più parti, dall’inizio alla fine.
Il giudice fissa alle parti un termine perentorio entro cui devono procedere alla
chiamata in causa del c.d. litisconsorte pretermesso.
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Si ritiene generalmente però che ciò non sia indispensabile, cioè che il giudice
dell’impugnazione, sia Appello che Cassazione, possano rilevare d’ufficio il vizio e
quindi non è necessaria l’istanza di parte.
Vuol dire che, se la questione “integrità del contraddittorio” è stata trattata dal
giudice di primo grado, perché è stata sollevata l’eccezione, quindi il giudice di
primo grado ha dovuto prendere una decisione a riguardo e supponiamo che
decida sulla non applicazione dell’art. 102, le regole che sovrintendono le
impugnazioni civili, ci dicono che se una questione è stata tratta e decisa dal primo
giudice, affinché il secondo giudice possa tornare sulla stessa questione, è
necessario che venga formulato un motivo d’impugnazione, altrimenti si forma il
c.d. giudicato interno e la questione è chiusa definitivamente.
Questa posizione si spiega considerando che nel caso in cui questo vizio non
venga mai rilevato nel corso del processo, quindi nel caso in cui nessuno si
accorga dell’assenza di un litisconsorte necessario, e si arrivi alla sentenza che
passa in giudicato, è pacifico che questa sentenza non produca alcun effetto. È
una sentenza c.d, inutiliter data.
Quindi non produce nessun effetto, né nei confronti del litisconsorte pretermesso,
il che dovrebbe essere comprensibile perché altrimenti ne andrebbe del suo diritto
di difesa, ma non produce effetti neppure fra le parti del processo (coloro che
hanno preso parte al processo).
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perché il processo vada avanti, perdendo un sacco di tempo, senza ottenere
niente (perché comunque la sentenza finale è inutiliter data).
In deroga a quella che è la disciplina generale, l’art. 354 stabilisce che il giudice
dell’appello deve rinviare la causa di fronte al giudice di primo grado. Quindi si
ricomincia da capo.
Ciò avviene anche nel caso in cui il vizio venga rilevato in Cassazione, anche qua
si ricomincia da capo, dal primo grado.
Vediamo quali sono le espresse previsioni di legge: prendiamo l’art. 247 cod. civ.
È una disposizione inserita nel primo libro, siamo nell’ambito dei rapporti familiari,
e si occupa dell’azione di disconoscimento della paternità e prevede che:
“il presunto padre, la madre e il figlio sono litisconsorzi necessari nel giudizio di
disconoscimento”
A questa disposizione si correlano poi le disposizioni successive e cioè l’art. 248,
che prevede l’azione di contestazione dello stato di figlio e in cui si prevede al
quarto comma che nel giudizio debbono essere chiamati entrambi i genitori e l’art.
249, che si occupa dell’azione di reclamo dello stato di figlio, in cui è ugualmente
previsto, sempre al quarto comma, che nel giudizio devono essere chiamati
entrambi i genitori.
Ma ve ne sono anche delle altre, se noi andiamo a prendere l’art. 1012 c.c. in tema
di usufrutto, ricordiamo essere un articolo richiamato nel primo semestre in tema di
legittimazione straordinaria, perché questa disposizione attribuisce all’usufruttuario
la legittimazione ad esercitare l’actio negatoria e l’actio confessoria servitutis.
Quest’articolo prevede espressamente che se l’usufruttuario esercita queste
azioni, il nudo proprietario è litisconsorte necessario e quindi dev’essere chiamato
in causa.
Accanto a queste disposizioni troviamo l’art. 784 c.p.c., questa volta siamo in tema
di divisione ereditaria o scioglimento di una comunione e tale art. contiene una
molteplicità di previsioni.
Oltre a questa previsione, l’art. 144 del decreto legislativo n. 209/2005 prevede un
litisconsorzio necessario anche nell’azione proposta dal danneggiato contro la
società assicuratrice per la responsabilità civile. Prevede appunto che il
danneggiante dev’essere chiamato in causa.
Possiamo innanzitutto isolare, con una certa tranquillità, le ipotesi di cui agli artt.
247, 248, 249 c.c.
Il secondo settore, che possiamo isolare con altrettanta facilità, sono i casi di
legittimazione straordinaria ad agire (o sostituzione processuale), cioè i casi
rubricati all’art. 81 c.p.c. in cui il legislatore consente ad un terzo di far valere in
giudizio un diritto altrui in nome proprio.
Ricordatevi che in queste ipotesi, l’attore, colui che esercita l’azione, non è il
titolare del rapporto giuridico controverso, per cui sarà soggetto agli effetti del
processo in quanto parte in senso formale, sarà obbligato alle spese processuali,
ma non sarà soggetto agli effetti della sentenza, semplicemente perché la
sentenza avrà ad oggetto un rapporto giuridico che non gli appartiene.
Allora si capisce che le ipotesi che abbiamo ora richiamato, cioè il disposto degli
artt. 1012 e 2900 c.c. in tema di usufrutto e azione surrogatoria, sono espressioni
della regola generale, quella cioè della necessaria partecipazione al giudizio del
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c.d. legittimato ordinario, colui che è l’affermato titolare del rapporto giuridico
controverso.
Per cui diciamo in maniera serena che al di là delle ipotesi di cui agli artt. 1012 e
2900 c.c. , in tutti i casi di legittimazione straordinaria ad agire (ricordiamoci che
sono casi tassativi), laddove l’azione viene esercitata dal legittimato straordinario, il
legittimato ordinario, in quanto affermato titolare della situazione giuridica dedotta
in giudizio è parte necessaria. (Apro una parentesi: non si applica l’art. 102 c.p.c.
se l’azione viene esercitata dal legittimato ordinario, perché allora il legittimato
straordinario non è parte necessaria, perché non va del suo diritto di difesa; può sì
entrare nel processo, ma in virtù della circostanza che spesso questo legittimato
straordinario è titolare di un rapporto giuridico connesso al rapporto di cui è titolare
il legittimato ordinario. Quindi si dovrà far applicazione degli altri istituti strumentali
alla formazione del processo litisconsortile).
Il settore più problematico è quello dei rapporti plurisoggettivi, il settore cioè di cui
parlavamo precedentemente dei rapporti che vedono opposti una parte comune
ed una parte collettiva, in cui abbiamo un fascio di rapporti che esibiscono una
forma di connessione molto intensa, data dall’identità della causa pretendi e del
petitum.
È qui che il problema dei limiti dell’applicabilità dell’art 102 c.p.c. si pone in modo
complesso.
1) Cominciamo dalla tesi più estrema: c’è chi ha affermato che ogni volta che viene
dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo si applica l’art. 102, così si evitano
tutti i problemi. Consideriamo che quando c’è un rapporto plurisoggettivo, data
l’intensità della connessione, appare evidente l’esigenza di assicurare l’armonia
delle decisioni. Quindi potrebbe sembrare la soluzione più semplice, più
comprensibile.
Ma così non è, perché è lo stesso legislatore che, con riferimento ad alcune delle
ipotesi più importanti di rapporti plurisoggettivi, ci dice che non si applica l’art.
102.
Esso detta una regola un pò particolare, cioè quella dell’efficacia del giudicato
secondum eventus litis, ci dice infatti che: “la sentenza pronunziata tra il creditore e
uno dei debitori in solido, o tra il debitore e uno dei creditori in solido, non ha
effetto contro gli altri debitori o contro gli altri creditori”. La disposizione si occupa
del caso in cui (pensiamo ancora una volta alla solidarietà passiva) un processo ha
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visto opposto uno solo dei debitori solidali e il creditore comune, e mi dice che la
sentenza che è stata pronunciata contro il debitore solidale, quindi a sfavore del
debitore solidale, non è opponibile ai condebitori che sono rimasti estranei al
processo.
Mi dice che la sentenza resa nei confronti di uno soltanto dei condebitori solidali è
una sentenza valida e efficace, quindi è una disciplina incompatibile con quella
dell’art. 102 c.p.c., perché abbiamo detto che in ipotesi in cui si applica l’art 102,
se la sentenza viene resa in assenza di uno dei litisconsorzi necessari, questa
sentenza è una sentenza inutiliter data. Mentre nell’art. 1306 c.c. si dice
semplicemente che non ha effetto nei confronti dei condebitori rimasti estranei al
processo, non dice si dice che la sentenza non produce effetti in assoluto. E infatti
dalla lettura di tutto l’art. 1306 si ricava che se invece la sentenza non è emessa
CONTRO il condebitore solidale, ma A FAVORE del condebitore solidale, il
condebitore rimasto estraneo al processo se ne può avvalere, e quindi l’efficacia si
estende al condebitore solidale rimasto esterno la processo se favorevole, mentre
invece non gli è opponibile se sfavorevole. Quindi è un’efficacia che varia a
seconda del contenuto della sentenza.
Ma quello che ci interessa sottolineare è che a fronte del disposto dell’art. 1306
possiamo tranquillamente escludere che tutto il settore delle obbligazioni solidali
e diciamo anche quello delle obbligazioni indivisibili, sicuramente non rientrano
nell’ambito applicativo dell’art. 102 c.p.c.
Lo stesso si può dire con riferimento al settore delle impugnazioni delle delibere
assembleari (artt. 2377 e 2378 c.c.). in cui si parla dell’impugnazione da parte dei
soci assenti o dissenzienti; anche in questa ipotesi la disciplina dà per
presupposto che soltanto alcuni dei soci assenti o dissenzienti prendano parte al
processo, ma dice anche che la sentenza emessa è efficace nei confronti di tutti,
non soltanto di coloro che hanno preso parte al processo, ma anche di tutti gli altri
soci, perché nell’ambito del diritto societario vale il principio maggioritario, per cui
la delibera o è efficace o nei confronti di tutti o di nessuno.
A fronte di queste previsioni quindi possiamo capire che la tesi secondo cui in tutte
le ipotesi di rapporti plurisoggettivi si applica l’art. 102 è una tesi che non trova
riscontro nel dato normativo, e quindi la possiamo sicuramente eliminare.
È una tesi che ha un grande pregio, quello della semplificazione, perché riduce a
pochi casi l’ambito di applicazione di un istituto talmente pesante e complesso.
È una tesi che da molti anni viene contestata perché contraddice una serie di
indirizzi giurisprudenziali e di riflessioni dottrinali assolutamente pacifici.
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3) La terza tesi è quella accolta dalla giurisprudenza e da una parte significativa
della dottrina.
Secondo questa tesi si applica il litisconsorzio necessario (l’art. 102) in tutti i casi in
cui il rapporto plurisoggettivo è oggetto di un’azione costitutiva, quindi c’è un
richiamo all’art. 2908 c.c.
Quindi già questa prima argomentazione ci consente di capire che questo indirizzo
giurisprudenziale desta qualche perplessità, perché non si sa con esattezza cosa è
e cosa non è un’azione costitutiva, e siccome la disciplina dell’art. 102 è una
disciplina estremamente pesante, perché il rischio è che se poi non si integra il
contraddittorio la sentenza è inutiliter data, la situazione è tale da far emergere
delle esigenze di certezza molto forti che in tal modo non sarebbero soddisfatte.
Ora, possiamo capire che quest’affermazione non è facile da accettare, non è del
tutto convincente, perché in fin dei conti quando si esercita un’azione
d’impugnativa negoziale, che sia di nullità o che sia d’annullamento, rescissione o
risoluzione, lo scopo è sempre quello di ottenere una dichiarazione di non
esistenza degli effetti del contratto.
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È una situazione che difficilmente si presta ad essere accettata.
Quindi l’ambito applicativo dell’art. 102 viene ricostruito partendo dal petitum, cioè
dall’oggetto della domanda, si guarda quello che ha chiesto l’attore, l’effetto che
egli ha chiesto.
Se tutte le parti coinvolte devono essere presenti nel processo affinché si produca
l’effetto richiesto dall’attore,, si applica l’art. 102
Questo principio è stato poi declinato con riferimento alle singole fattispecie,
vediamo un paio d’esempi.
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Viceversa, laddove si tratti di un contratto sinallagmatico a parti collettive ad effetti
obbligatori che non rientrano in questa particolare fattispecie, l’applicabilità dell’art
102 (litisconsorzio necessario) non è affatto necessaria.
Lezione 2 - 12/03/20
TUTELA SOMMARIA
Cari studentesse e cari studenti diamo avvio alle lezioni di didattica on-line che
saranno dedicate innanzitutto alla tutela sommaria. Ho pensato di anticipare in
questa sede la parte speciale del corso, perché ritengo sia la parte più semplice
del programma, quindi destinata a creare minori problemi. Spero infatti di
riprendere il prima possibile le lezioni frontali, perché vorrei affrontare in aula,
insieme a voi, la parte più complessa del programma ovvero la connessione tra
parti diverse e le impugnazioni.
Parliamo allora della tutela sommaria. Il termine tutela sommaria ci richiama alla
cognizione sommaria che, come è facile comprendere, si contrappone alla
cognizione cosiddetta piena. La cognizione piena trova attuazione nell'ambito del
processo a cognizione piena che è disciplinato nel secondo libro del codice di
procedura civile. I processi a cognizione sommaria sono per lo più previsti nel
quarto libro del codice di procedura civile negli articoli 633 ss. Le disposizioni del
quarto libro non esauriscono però il novero dei procedimenti speciali, perché
procedimenti speciali si rinvengono anche nel codice civile e nelle leggi speciali.
Cerchiamo innanzitutto di offrire una definizione di cognizione sommaria. Per farlo
andiamo a recuperare la nozione di cognizione piena, perché è a partire da questa
che possiamo offrire una definizione dell'altra. A suo tempo abbiamo affermato
che le caratteristiche della cognizione piena sono tre. Innanzitutto la rigida
predeterminazione a livello legale e astratto di tutte le regole di svolgimento del
processo. In secondo luogo la realizzazione piena e anticipata del contraddittorio.
In terzo luogo la stabilità del provvedimento finale.
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La seconda caratteristica riguarda l'attivazione piena e anticipata del
contraddittorio. A suo tempo abbiamo evidenziato che nell'ambito del processo a
cognizione piena il giudice emana il provvedimento finale solo dopo che tutti
coloro che prendono parte al processo hanno avuto modo di far valere le proprie
difese. Questo non soltanto nella fase di avvio del processo ma lungo tutto il corso
di svolgimento del processo.
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Le prove potranno essere acquisite secondo modalità diverse. E questo vale
soprattutto in riferimento all’acquisizione delle dichiarazioni di scienza dei terzi, le
quali potranno essere acquisite anche attraverso modalità diverse da quella della
testimonianza che sono rigide. In particolare queste impongono che la prova si
formi in udienza, nel contraddittorio tra le parti e il giudice. Allora a fronte di questa
definizione possiamo dire che la cognizione sommaria è una cognizione che si
connota per essere superficiale proprio perché è una cognizione che il giudice
svolge in deroga alle disposizioni dettate per il processo a cognizione piena.
SECONDA PARTE
Dicevamo che l’esigenza di evitare l’abuso del diritto di difesa del convenuto è
assicurata dai provvedimenti di condanna con riserva di eccezioni. Si tratta di
provvedimenti che il giudice può emanare previo accertamento a cognizione piena
dell’esistenza dei fatti costitutivi o, il che è lo stesso, previa non contestazione da
parte del convenuto dei fatti costitutivi dei fatti che l’attore ha posto a fondamento
della sua domanda, e previa valutazione di verosimile non esistenza dei fatti
modificativi, estintivi e impeditivi. Si tratta di un provvedimento di condanna, quindi
che accoglie la domanda dell’attore, che è risolutivamente condizionato
all’accertamento della fondatezza di esistenza dei fatti modificativi, estintivi e
impeditivi introdotti dal convenuto, per questo si parla di provvedimento di
condanna con riserva di eccezioni. Attraverso questo tipo di provvedimenti il
legislatore consente all’attore di ottenere immediatamente, o comunque in tempi
rapidi, il provvedimento favorevole e, disponendo il prosieguo del processo ai fini
dell’accertamento pieno della esistenza o non esistenza dei fatti modificativi,
estintivi e impeditivi introdotti dal convenuto, addossa i tempi di svolgimento del
processo al convenuto stesso. Ecco perché questa tecnica si ritiene sia volta ad
evitare l’abuso del diritto i difesa del convenuto. Si tratta di una forma di tutela che
il legislatore italiano non ha generalizzato ma che ha previsto in singole ipotesi.
Posso ricordare, a titolo di esempio, l’ordinanza immediata di rilascio dell’immobile
locato ai sensi dell’art.665 c.p.c., o il decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente
esecutivo nel corso del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo di cui all’art.
648 co.1 c.p.c., ma posso richiamare ulteriori ipotesi che abbiamo richiamato nel
corso del primo semestre ovvero la disciplina contenuta nell’art.35 in tema di
eccezione di compensazione richiamata dal successivo art.36 in tema di domanda
riconvenzionale. Terminata l’analisi delle esigenze cui assolve la tutela sommaria,
diamo avvio all’analisi dei singoli procedimenti sommari seguendo la sistematica
del codice, e in particolare del Libro IV del Codice di procedura civile.
27
requisiti generali e speciali di ammissibilità. Questo secondo schema trova
attuazione nell’ordinamento tedesco.
Qual è il modello italiano? Quella del legislatore italiano è una scelta ibrida nel
senso che tendenzialmente sembra che il legislatore italiano si sia ispirato al
modello del procedimento monitorio documentale perché richiede al ricorrente,
all’attore, al creditore, a colui che agisce, di fornire una prova documentale dei fatti
posti a fondamento della sua domanda. Ma non è una prova documentale in senso
pieno, è una prova lato sensu documentale, come vedremo fra poco. Se questa è
la regola generale, ci sono anche delle ipotesi in cui invece si consente al creditore
di ottenere un decreto ingiuntivo sulla base della mera affermazione dell’esistenza
dei fatti costitutivi. Si tratta di ipotesi che si prestano ad essere piuttosto ricondotte
al modello dello schema monitorio puro. Nonostante la diversità delle situazioni il
legislatore italiano ha dettato una disciplina unitaria che tendenzialmente è quella
del procedimento monitorio documentale. Il procedimento per ingiunzione come
procedimento speciale può essere utilizzato soltanto nei casi previsti dal legislatore
e il legislatore ha infatti previsto una serie di requisiti speciali di ammissibilità. Si
tratta di requisiti ulteriori rispetto a quelli generali o extraformali come la
giurisdizione, la competenza, la legittimazione ad agire, la capacità processuale. Si
tratta di requisiti speciali che riguardano l’oggetto della domanda e la prova dei
fatti posti a fondamento della domanda. Il procedimento per ingiunzione è
disciplinato dagli artt.633 fino a 656 del Libro IV del Codice di procedura civile. La
disciplina è piuttosto lineare.
Per quanto riguarda i requisiti relativi all’oggetto rileva il primo comma dell’art.633
in cui si dice che “su domanda di chi è creditore di una somma liquida di denaro o
di una determinata quantità di cose fungibili, o di chi ha diritto alla consegna di una
cosa mobile determinata, il giudice competente pronuncia ingiunzione di
pagamento o di consegna”. Appare evidente che il procedimento per ingiunzione
può essere utilizzato:
Deroghe ancora maggiori alla disciplina relativa alle prove si hanno nelle ipotesi di
cui ai nn.2 e 3 dell’art.633 co.1 seconda parte. Infatti la legge stabilisce che con
riferimento alle ipotesi in cui “il credito riguarda onorari per prestazioni giudiziali o
stragiudiziali o rimborso di spese fatte da avvocati, procuratori, cancellieri, ufficiali
giudiziari o da chiunque altro ha prestato la sua opera in occasione di un processo”
o a quelle in cui “il credito riguarda onorari, diritti o rimborsi spettanti ai notaia
norma della loro legge professionale, oppure ad altri esercenti una libera
professione o arte, per la quale esiste una tariffa legalmente approvata”, si applica
l’art.636. In questa disposizione (art.636 c.p.c.) troviamo scritto che in tali ipotesi
“la domanda deve essere accompagnata dalla parcella delle spese e prestazioni,
munita della sottoscrizione del ricorrente e corredata dal parere della competente
associazione professionale”. In queste ipotesi in verità si ha che la domanda del
ricorrente può essere basata sulla parcella e sul parere dell’associazione
professionale a cui appartiene il professionista, il ricorrente. La parcella che cosa è?
La parcella è un documento che viene redatto dallo stesso professionista che è il
ricorrente. Mentre invece il parere dell’associazione professionale di
appartenenza del ricorrente non è altro che un documento in cui l’associazione
verifica, attesta, che le tariffe applicate dal professionista corrispondono a eventuali
tabelle tariffarie predisposte dalla stessa associazione. Quindi l’osservazione che
possiamo fare è che in queste ipotesi il ricorso si fonda su documenti formati dallo
stesso ricorrente, quindi su una documentazione pro se. Noi sappiamo che i
documenti nell’ambito del processo civile hanno efficacia probatoria nella parte in
cui provengono dalla parte contro cui vengono utilizzati non dalla parte che utilizza
quesi documenti, dalla parte a cui favore sono introdotti nel processo. Quindi
possiamo dire che con riferimento alle ipotesi di cui ai nn.2 e 3 dell’art.633 non
abbiamo alcuna prova documentale, neppure nel senso ampio di cui al 634. Si
tratta di ipotesi in cui la domanda del ricorrente è bastata su mere affermazioni
dello stesso ricorrente, per cui si dice in queste ipotesi il legislatore italiano ha
adottato lo schema del procedimento monitorio puro. Il problema però è che la
disciplina del procedimento di ingiunzione non varia i relazione al se il ricorrente ha
30
posto a base della sua domanda una prova, sia pure lato sensu documentale, in
base all’art.634, oppure ha meramente affermato l’esistenza dei fatti posti a
fondamento della sua domanda così come avviene nelle ipotesi di cui ai nn.2 e 3
dell’art.633. Infatti come andremo a vedere la disciplina è unitaria, il provvedimento
di accoglimento del ricorso è soggetto alla stessa disciplina quindi è suscettibile di
acquistare l’efficacia esecutiva ed è anche suscettibile di acquistare quella
particolare stabilità che abbiamo già detto indichiamo come preclusione pro
iudicato. Possiamo dire certo che la situazione è meno grave di quanto si possa
giudicare a prima vista per il fatto che innanzitutto le associazioni professionali sono
delle associazioni a rilevanza pubblicistica che dovrebbero rilevare il rispetto delle
regole deontologiche da parte dei propri iscritti e poi se le prestazioni di cui ai nn.2
e 3 dell’art.633, soprattutto il numero 2, sono prestazioni che sono state svolte
nell’ambito del processo, attraverso lo studio del fascicolo d’ufficio è possibile
verificare che queste prestazioni siano state effettivamente svolte. Rimane
comunque un punto altamente problematico.
Una questione importante su cui è opportuno soffermarsi è quella relativa al se
questi elementi di documentazione di cui agli artt.634 e 636 debbano essere
considerati dei requisiti formali oppure delle prove. Non si tratta di una questione
meramente teorica e classificatoria perché se intesi come requisiti formali il
giudice, una volta verificata l’esistenza di questi elementi, dovrebbe essere
obbligato ad emanare il decreto ingiuntivo, quindi finirebbero per essere una sorta
di prova legale. Invece se si intendono come prove, come elementi probatori, c’è
lo spazio per lasciare al giudice la valutazione, secondo il suo prudente
apprezzamento, di questi elementi probatori: il giudice deve cioè valutare questi
documenti e convincersi, sia pure a livello di verosimiglianza, della esistenza dei
fatti che l’attore ha posto a fondamento della sua domanda (naturalmente si tratta
di un procedimento a cognizione sommaria). Ma c’è un’altra conseguenza molto
importante: se questi elementi si considerano dei requisiti formali allora dovremmo
ritenerle delle previsioni rigide, quindi il decreto ingiuntivo non dovrebbe essere
richiesto sulla base di elementi diversi da quelli espressamente previsti nelle norme
richiamate; se invece intendiamo questi elementi come elementi di prova allora è
possibile un ampliamento degli elementi che possono essere utilizzati.
Quest’ultima è la strada che ha seguito la giurisprudenza: da sempre essa
ammette che prove scritte possono essere anche degli elementi documentali che
non sono espressamente richiamati in queste disposizioni, ad esempio la fattura,
la bolla di consegna, talvolta anche delle scritture provenienti da soggetti terzi.
Probabilmente la giustificazione di questo orientamento risiede nella esigenza di
consentire al creditore di ottenere velocemente un provvedimento idoneo ad
acquistare efficacia esecutiva e quindi idoneo a mettere in moto il processo
esecutivo come rimedio alla crisi in cui versa il processo civile. Non si può però
non sottolineare il fatto che siamo davanti a un procedimento sommario, in cui il
contraddittorio è attivato in via posticipata, che consente al creditore di ottenere
inaudita altera parte un provvedimento che ha attitudine ad acquistare
31
immediatamente l’efficacia esecutiva, per cui la tipizzazione è sicuramente un
elemento di garanzia.
Quale può essere l’esito di questa prima fase della fase inaudita altera parte? Il
primo caso è quello in cui il giudice ritenga NON fondata la domanda. La disciplina
la ritroviamo nell’art.640: “il giudice, se ritiene insufficientemente giustificata la
domanda, dispone che il cancelliere ne dia notizia al ricorrente, invitandolo a
provvedere alla prova”. Se il giudice ritiene che la domanda non sia giustificata, ad
esempio perché gli elementi probatori introdotti dal ricorrente non rientrano nella
previsione degli artt.634 e 636, oppure perché non ritiene che gli elementi portati
siano idonei a provare, sia pure a livello di verosimiglianza, l’esistenza dei fatti
costitutivi, anziché respingere la domanda dispone che il cancelliere ne dia notizia
al ricorrente invitandolo a provvedere alla prova. Dopodiché “se il ricorrente non
risponde all’invito o non ritira il ricorso oppure se la domanda non è accoglibile, il
giudice rigetta con decreto motivato” (co.2). In base all’ultimo comma dell’art.640
questo decreto, il decreto di rigetto, “non pregiudica la riproposizione della
domanda anche in via ordinaria”. Questa previsione ci consente di affermare che
questo provvedimento non può essere ritenuto una pronuncia di accertamento
negativo circa l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio, è un provvedimento
privo di qualsiasi efficacia preclusiva che lascia libero il ricorrente di riproporre la
32
stessa domanda non soltanto instaurando un nuovo procedimento di ingiunzione
ma anche instaurando un procedimento a cognizione piena regolato dal Libro II.
Invece, passando all’articolo successivo, se il giudice ritiene esistenti le condizioni
previste nell’art.633 “con decreto motivato da emettere entro trenta giorni dal
deposito del ricorso, ingiunge all’altra parte di pagare la somma o di consegnare la
cosa o la quantità di cose chieste o invece di queste la somma di cui all’art.639 nel
termine di quaranta giorni, con l’espresso avvertimento che nello stesso termine
può essere fatta opposizione a norma degli articoli seguenti e che, in mancanza di
opposizione, si procederà a esecuzione forzata”. Questo è il decreto ingiuntivo. Il
decreto ingiuntivo è un provvedimento che non nasce provvisoriamente esecutivo
ma può essere dichiarato tale su istanza del ricorrente nei casi previsti dall’art.642:
• nelle ipotesi in cui è il creditore a versare in una situazione di difficolta per cui se
non ottiene immediatamente della liquidita rischia di subire un pregiudizio. Si tratta
ad esempio di un imprenditore che ha bisogno di
Lezione 3 - 14/03/20
L’art 643 prevede infatti che “l’originale del ricorso e del decreto rimane depositato
in cancelleria, ma debbono essere notificati per copia autentica a norma degli
articoli 137 e ss”
Una volta che il ricorso + il decreto sono stati notificati al debitore, questi ha
difronte a sé 3 scelte:
3) Rimane inerte -> in questa ipotesi, in base all’art 647 “se non è stata fatta
opposizione nel termine stabilito, oppure l’opponente non si è costituito il
giudice, su istanza (anche verbale) del ricorrente dichiara il decreto ingiuntivo
esecutivo. Tuttavia, laddove non è stata proposta opposizione, il giudice
deve prima verificare che la notificazione si sia svolta regolarmente. E se del
caso, disporne la rinnovazione, quando risulta o appare probabile che
l’intimato non abbia avuto conoscenza del decreto”
Una volta che il decreto ingiuntivo è stato dichiarato esecutivo ex 647 per mancata
opposizione entro il termine di 40 gg, in base al successivo articolo 655 il decreto
costituisce anche titolo per iscrizione di ipoteca giudiziale!
Come vedete però l’iniziativa di apertura del processo a cognizione piena sembra
essere assunta da quello che a livello sostanziale è il DEBITORE, convenuto.
• colui che sul piano formale è l’attore, colui che prende l’iniziativa, in questo
caso IL DEBITORE a livello sostanziale è il convenuto
Si tratta di una inversione solo formale perché sul piano sostanziale le posizioni
rimangono invariate e di conseguenza il principio dell’onere della prova ex art 2697
continuerà a funzionare regolarmente -> questo significa:
o Invece, il debitore (che sul piano formale è l’attore) continua ad avere l’onere
di provare i fatti modificativi- estintivi ed impeditivi.
35
Alla luce di questo rilievo si può dire, dunque, che l’opposizione più che una
domanda giudiziale è una sorta di atto d’impulso processuale che consente
l’apertura della fase a cognizione piena!
L’art 648 subordina questa possibilità alla presenza di una serie di condizioni:
• comma 2 “deve in ogni caso concederla, se la parte che l’ha chiesta offre
cauzione per l’ammontare delle eventuali restituzioni, spese e danni”
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(per capire quale sia questa difficoltà) torniamo per un momento a riflettere su tutto
quanto abbiamo detto a proposito dei requisiti speciali di ammissibilità relativi
alle prove, in quel momento abbiamo sottolineato che in base al cpc il ricorrente
può fondare il proprio ricorso non soltanto su prove in senso TECNICO, ma su
prove latu sensu documentali, quindi su elementi di prova che nell’ambito del
processo a condizione piena non potrebbero essere utilizzati. Addirittura, nelle
ipotesi di cui ai n 2-3 dell’art 633 abbiamo visto che in base a quanto previsto
dall’art 636 talvolta il creditore può fondare la propria istanza su mere
affermazioni di esistenza dei fatti costitutivi del credito.
Allora, In questa particolare ipotesi il fatto è che il creditore potrebbe aver azionato
un credito del tutto inesistente e in queste ipotesi è ragionevole ritenere che il
debitore potrebbe avere delle difficoltà ad avere prove di pronta soluzione, prove
documentali circa l’esistenza di fatti modificativi- estintivi- impeditivi,
semplicemente perché il credito non esiste.
Allora, onde evitare situazioni di questo tipo, perché in questi casi in base ad una
lettura letterale della disposizione, il giudice dovrebbe SEMPRE concedere la
provvisoria esecutività al decreto occorre una INTERPRETAZIONE CORRETTIVA!
ritenere cioè che il rilascio della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo in
sede di opposizione a decreto ingiuntivo sia subordinato ad una serie di
presupposti:
2) Una valutazione sia pure sommaria di non fondatezza dei fatti modificativi –
estintivi – impeditivi introdotti dal debitore attraverso l’opposizione al decreto
ingiuntivo
La seconda ipotesi è quella in cui ex art 648 co. 1 seconda parte il giudice
concede l’esecuzione provvisoria parziale del decreto ingiuntivo.
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Il riferimento è alle ipotesi in cui l’opposizione del debitore riguarda soltanto una
frazione del credito fatto valere dal creditore, ricorrente. Per cui c’è una parte del
credito che non è contestata, non è oggetto di contestazione.
È con riferimento a questa frazione non contestata che il giudice potrà dichiarare
l’esecuzione provvisoria.
La terza ipotesi è disciplinata dal comma 2 art 648 dove si dice “deve in ogni
caso concederla se il creditore offre cauzione”.
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Il giudizio di opposizione dovrebbe portare ad un provvedimento avente la forma
della sentenza ma naturalmente è possibile che il giudizio si chiuda per una
vicenda anomala:
- per estinzione
a) il rigetto dell’opposizione
In questa ipotesi, ex art 653 co.1 “il decreto che non ne sia già munito, acquista
efficacia esecutiva”; allora il titolo esecutivo sarà rappresentato dal decreto
ingiuntivo che rimane in piedi perché il giudice ne ha accertata la legittimità.
39
La terza possibilità è l’accoglimento parziale dell’opposizione. Questo si può
avere:
o sia nel caso in cui la sentenza dichiari l’illegittimità del decreto, quindi
accerti che il decreto è stato emanato in assenza dei requisiti di
ammissibilità, ma accetti anche la esistenza del diritto
o oppure nel caso in cui la sentenza accerti che il decreto è legittimo ma che il
diritto esiste per un quantum diverso rispetto a quello indicato
originariamente!
Una volta che il decreto è stato notificato al debitor, questi ha un termine (art 641)
fissato in 40 gg per proporre opposizione.
Nel caso (ex 647) in cui il debitore non propone opposizione nel termine stabilito,
oppure propone opposizione ma poi non si costituisce, il giudice che ha
pronunciato il decreto, su istanza anche verbale del ricorrente, lo dichiara
esecutivo.
Il decreto ingiuntivo che viene dichiarato esecutivo ex 647 viene definito dalla
giurisprudenza immutabile.
in base all’art 656 il decreto di ingiunzione che è diventato esecutivo ex 647 può
impugnarsi per REVOCAZIONE nei casi indicati dai numeri 1 -2 – 5 -6 dell’art 395
e per OPPOSIZIONE DI TERZO nei casi previsti nell’articolo 404 co.2
- o forza maggiore
40
queste previsioni sono state integrate da un intervento della Corte costituzionale
che con la sentenza 120/1976, stendendo la possibilità di esercitare opposizione
tardiva a decreto ingiuntivo alle ipotesi in cui il debitore, pur avendo avuto
conoscenza del decreto, non ha potuto proporre opposizione per caso fortuito o
per forza maggiore.
L’art 650 è una forma di RIMESSIONE IN TERMINI per altro soggetta ad un limite
perché ex co.3 dello stesso articolo l’opposizione non è più ammessa decorsi 10
gg dal 1° atto di esecuzione.
L’osservazione che viene svolta con riferimento al regime del decreto ingiuntivo
dichiarato esecutivo ex 647 è che questi è destinato ad acquistare una stabilità
sul piano formale analoga al giudicato formale perché stante la previsione dell’art
656 si può affermare che opera anche nei confronti del decreto ingiuntivo
dichiarato esecutivo (ex 647) il principio di conversione dei motivi di nullità in
motivi di impugnazione di cui all’art 161 co.1.
Per cui sei, se le parti non utilizzano i mezzi di impugnazione indicati nell’art 656 o
650, non esiste un altro strumento per fra valere il vizio e quindi in applicazione
della regola generale dell’ordinamento processuale; “se non c’è uno strumento per
il cui tramite denunciare un determinato vizio, si deve ritenere che il vizio si sana”.
Qui la risposta passa attraverso la tesi dei limiti oggettivi del giudicato a cui
l’interprete aderisce, perché si ritiene normalmente che il decreto ingiuntivo
diventato esecutivo ex 647 acquisti immutabilità solo avuto riguardo alla COPPIA
PRETESA-OBBLIGO dedotto in giudizio mentre invece non è idoneo ad estendere
questa stabilità al rapporto giuridico complesso al cui interno si inserisce la coppia
pretesa-obbligo dedotta in giudizio.
Questa affermazione porta ad una ulteriore considerazione per chi come noi
aderisce ad una nozione ampia dei diritti oggettivi del giudicato, ritenendo
invece che il vero giudicato (che si forma sulla sentenza a conclusione del
processo a cognizione piena) non si limita a coprire la pretesa obbligo dedotta in
giudizio ma si estende anche al rapporto giuridico fondamentale, complesso al cui
interno la pretesa-obbligo va ad inserirsi, questo porta a ritenere che il decreto
ingiuntivo dichiarato esecutivo sul piano quantitativo abbia una efficacia più
ridotta rispetto alla vera e propria autorità di cosa giudicata.
41
un fenomeno che è identico sul piano qualitativo al giudicato sostanziale ma sul
piano quantitativo è differente.
Trattandosi di un procedimento speciale può essere utilizzato solo nei casi previsti
dalla legge, in particolare sono gli articoli 657 e 658 a delimitarne l’ambito
applicativo.
Qui, però, occorre fare una precisazione importante ed evidenziare sin da subito la
differenza che passa fra il diritto alla restituzione e l’azione di rivendica.
42
o L’azione di rivendica (l’abbiamo più volte richiamata nel corso delle lezioni
del 1° semestre) è un’azione per il cui tramite l’attore deduce in giudizio il
suo diritto di proprietà di cui deve dare la prova. E viene esercitata nei
confronti del POSSESSERE del bene. L’attore fa valere il suo diritto di
proprietà e chiede la consegna o il rilascio del bene.
NB
Naturalmente anche qui una precisazione: attenzione a non confondere questo
obbligo di restituzione dai casi in cui l’obbligo di restituzione si aggancia a
VIDENDE PATOLOGICHE del rapporto -> perché ci sono dei casi in cui viene
esercitata una azione di impugnativa del contratto e l’attore che fa valere l’azione
di impugnativa del contratto chiede anche la restituzione del bene che ha
consegnato in adempimento del contratto.
Invece qui, almeno nella maggior parte delle ipotesi, si tratta di obblighi di
restituzione che si fondano sul rapporto contrattuale in modo fisiologico perché è il
contratto stesso a prevedere una scadenza. E quindi una volta che il titolo viene
meno, il bene deve essere restituito. Quindi non perché c’è una patologia ma
perché il rapporto si è esaurito.
Il procedimento per convalida di sfratto non si può applicare a tutti i contratti c.d.
restitutori ma solo alle ipotesi tassativamente indicate negli articoli 657 e 658. Se
voi leggete queste disposizioni vede che si fa riferimento ad alcune tipologie di
contratti:
si parla della locazione, dell’affitto, dei contratti associativi agrari. Questo vuol dire
che con riferimento a contratti restitutori che non rientrano nella previsione degli
articoli 657 e 658 questo procedimento no può essere utilizzato; per esempio ne
rimane fuori il rapporto di comodato.
Questo vuol dire che quando il comodante, nel momento in cui il rapporto di
comodato viene meno e vuole ottenere la restituzione del bene, non può agire nelle
43
forme del procedimento per convalida di sfratto ma dovrà utilizzare il processo a
cognizione piena.
Non è utilizzabile nemmeno per l’affitto dell’azienda che con riferimento al quale,
per altro, il legislatore ha previsto un rito speciale, quello dell’art 447 bis cpc.
SECONDA PARTE
• Nel 1° comma dell’art 657 cpc si prevede che il locatore o il concedente può
intimare al conduttore, all'affittuario coltivatore diretto, al mezzadro o al colono,
licenza per finita locazione prima della scadenza del contratto, con la contestuale
citazione per la convalida, rispettando i termini prescritti dal contratto, dalla
legge o dagli usi locali.
Per semplicità facciamo riferimento unicamente alla locazione dei beni immobili:
questa è un'ipotesi particolare, per comprenderla occorre ricordare che a livello
sostanziale, la disciplina della locazione degli immobili prevede, (parliamo ad
esempio della locazione di beni immobili ad uso abitativo), diverse forme di
contratto —> c'è il contratto di locazione a CANONE LIBERO, che ha una durata
non inferiore a 4 anni, rinnovabili di altri 4, almeno che il locatore non dia disdetta
per giusti motivi indicati dalla legge, la quale stabilisce altresì che alla seconda
scadenza il locatore possa comunicare al conduttore la propria volontà di non
rinnovare il contratto neppure a diverse condizioni; questa comunicazione
prende il nome di disdetta e deve essere comunicata attraverso una lettera
raccomandata. Una disciplina analoga è prevista nelle forme di locazione a
CANONE VINCOLATO, che hanno una durata di 2 anni prorogabili per altri 2, e
anche in questo caso si prevede che alla scadenza della proroga il locatore può
comunicare ancora una volta con la lettera raccomandata, da inviare almeno sei
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mesi prima della scadenza, la propria volontà di non rinnovare, neanche a nuove
condizioni, il contratto.
E una disciplina analoga è prevista per le locazioni di immobili ad uso non
abitativo.
Ora, l’art 657.1 consente al locatore di agire nei confronti del conduttore prima
della scadenza del contratto, intimando licenza per finita locazione e citando il
conduttore per la convalida nel rispetto dei termini previsti —> in questa ipotesi il
locatore può agire nei confronti del conduttore prima della scadenza del
contratto, e questo atto, l'atto introduttivo del procedimento per convalida di
sfratto, contiene non soltanto la citazione a comparire per la convalida, ma
contiene altresì la licenza per finita locazione, ovvero la cosiddetta disdetta.
• Nell’art 658 è prevista una terza possibilità = lo sfratto per morosità: si prevede
infatti che il locatore possa intimare al conduttore lo sfratto, con le modalità
stabilite nell'articolo precedente, anche in caso di mancato pagamento del
canone di affitto alle scadenze, e chiedere con lo stesso atto l'ingiunzione di
pagamento per i canoni scaduti —> qui non c'è un problema di scadenza del
contratto, ma un problema di morosità, quindi il conduttore non adempie al suo
obbligo di pagamento dei canoni locativi. In questa ipotesi abbiamo
probabilmente una deroga a quella che è la disciplina generale di inadempimento
del contratto: come sapete il codice civile subordina la possibilità di ottenere la
risoluzione del contratto in ipotesi di inadempimento alla circostanza che
l’inadempimento risulti grave, avuto riguardo all'interesse della controparte —> lo
dice l’art 1455 cc. In questa ipotesi invece il legislatore consente al creditore, che
è il locatore, di agire per ottenere la risoluzione del contratto semplicemente
laddove il conduttore non adempia al suo obbligo di pagamento del canone, e
questo a prescindere dal se questo inadempimento sia grave, avuto riguardo
l’interesse della controparte. Peraltro la legge sostanziale consente al locatore di
agire per ottenere lo sfratto per morosità anche laddove il conduttore sia moroso
nel pagamento degli oneri accessori, come ad esempio le spese condominiali.
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TRIBUNALE, si tratta di una competenza per materia, e in particolare al tribunale
del luogo in cui si trova la cosa locata. È pacifico che si tratti di una competenza
per territorio inderogabile, in base a quanto previsto dall’art 28 cpc.
La domanda, ci dice l’art 660.3 cpc, deve essere proposta nella forma della
citazione —> questa citazione deve essere redatta a norma dell’art 125 cpc, ma
ha una serie di particolarità, perché la disposizione ci dice che in luogo dell’invito e
dell'avvertimento al convenuto previsti nell’art 163.3 n.7 cpc, deve contenere
l'invito a comparire nell’udienza indicata, l'avvertimento che se non compare o
comparendo non si oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto, ai sensi
dell’art 663 cpc, e su questo punto torno fra poco.
La citazione deve essere, ci dice il 1° comma dell'art 660, notificata a norma degli
artt 637 e ss., esclusa la notificazione al domicilio eletto, e precisa l'ultimo comma
della disposizione che se l'intimazione non è stata notificata in mani proprie,
l'ufficiale giudiziario deve spedire avviso all'intimato di effettuata notificazione a
mezzo di lettera raccomandata, e allegare all'originale dell'atto la ricevuta di
spedizione. Nell'ambito della citazione, il locatore deve dichiarare la propria
residenza o eleggere domicilio nel comune dove ha sede il giudice adito, perché
altrimenti l’opposizione prevista nell’art 668 cpc e qualsiasi altro atto del giudizio,
possono essergli notificati presso la cancelleria.
Nella seconda ipotesi invece, nell'ipotesi dello sfratto per finita locazione, l’atto di
citazione è un ATTO SEMPLICE, che contiene semplicemente la citazione per la
convalida.
Nell’ipotesi dell’art 658 cpc, lo sfratto per morosità, la domanda invece ancora una
volta è un ATTO COMPLESSO, perché la domanda non è soltanto una domanda
volta a far valere il diritto alla restituzione, ma è una domanda che contiene anche
la risoluzione del contratto, oltre alla domanda di pagamento del canone di affitto
alle scadenze e il pagamento dei canoni che sono scaduti e da scadere, come
vedremo successivamente.
L’atto di citazione deve contenere naturalmente la fissazione della data della prima
udienza, e in base al 4° comma dell’art 660 cpc, tra il giorno della notificazione
dell'intimazione e quello dell'udienza devono trascorrere termini liberi non minori di
20 giorni.
Ora, lo svolgimento del procedimento varia in ragione del contegno assunto dal
convenuto: abbiamo detto precedentemente che il procedimento per convalida di
sfratto è uno dei procedimenti di cui il legislatore si serve per dare attuazione alle
esigenze di ECONOMIA PROCESSUALE; la tecnica utilizzata è quella di rimettere
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al conduttore, che è il convenuto, la scelta in ordine al se il processo debba
svolgersi nelle forme della cognizione piena, oppure possa concludersi
velocemente con un provvedimento redatto in forma semplificata.
‣ Le ipotesi però più importanti sono le altre: il caso in cui il conduttore non
compaia, oppure pur comparendo, non sollevi contestazione —> in questa
ipotesi, in base all’art 663 cpc, il giudice chiude il processo con un
provvedimento redatto in forma semplificata, è l’ordinanza di convalida dello
sfratto. Si tratta di un'ordinanza posta in calce alla citazione, con formula
esecutiva, quindi non è altro che un timbro che il giudice pone in calce all'atto
di citazione, che consente in pratica al giudice sulla base di un'attività
processuale minima, di chiudere il processo con un provvedimento che
attribuisce al locatore le stesse utilità che gli avrebbe attribuito la sentenza
emessa a conclusione del processo a cognizione piena. Questo provvedimento
infatti, è un provvedimento che ha attitudine al GIUDICATO, cioè che è idoneo
ad acquisire la stabilità che sul piano qualitativo possiamo dire analoga al
giudicato, mentre invece ne diverge sul piano quantitativo, un po' come il
decreto ingiuntivo non opposto di cui all’art 647 cpc —> si parla infatti anche
in questa ipotesi di una preclusione pro iudicato.
Questo procedimento ha alcune particolarità: intanto, nell'ipotesi in cui il
conduttore non sia comparso il giudice è chiamato ad effettuare una verifica,
cioè il giudice deve valutare se risulta o appare probabile che l'intimato non sia
comparso perché non ha avuto conoscenza della citazione stessa, oppure non
sia potuto comparire per caso fortuito o per forza maggiore —> in questo caso
dovrà disporre il rinnovo della notifica dell'atto di citazione.
Le altre particolarità riguardano lo sfratto per morosità, quindi l’ipotesi di cui
47
all’art 658 cpc: infatti, in base all’art 663.3 cpc: “se lo sfratto è stato intimato
per mancato pagamento del canone, la convalida è subordinata all'attestazione
in giudizio del locatore o del suo procuratore, che la morosità persiste; in quel
caso il giudice può ordinare al locatore di prestare una cauzione.” Quindi da
questa disposizione si ricava che se anche all'indomani della notifica della
citazione per la convalida il conduttore adempie, questo procedimento non
può andare avanti; e in questa ipotesi, laddove il giudice emani l'ordinanza di
convalida dello sfratto, in base all’art 664 cpc, il giudice pronuncia innanzitutto
la risoluzione del contratto, ma il giudice, con separato decreto di ingiunzione,
ordina anche al conduttore il pagamento dei canoni scaduti, ma anche dei
canoni da scadere fino ad esecuzione dello sfratto, e per le spese relative
all'intimazione. Questo provvedimento è un decreto ingiuntivo —> ci dice il
secondo comma che è steso in calce ad una copia dell'atto di intimazione
presentata dall’istante e da conservarsi in cancelleria, è immediatamente
esecutivo e come ogni decreto ingiuntivo è suscettibile di essere impugnato
attraverso opposizione.
La particolarità di questo provvedimento è che ha ad oggetto il pagamento non
soltanto dei canoni scaduti, ma anche dei canoni da scadere, quindi è un
provvedimento che si presta ad essere ricondotto nella famiglia dei
provvedimenti di condanna in futuro, cioè aventi ad oggetto dei diritti che
ancora non sono esistenti, perché soggetti a termine che non è ancora
scaduto. La conseguenza è che questo provvedimento di condanna, per i
singoli canone di locazione, potrà essere messo in esecuzione via via che
questi scadono, laddove il conduttore naturalmente rimane inadempiente.
Si rende a questo punto necessaria una precisazione, nel senso che, mentre la
mancata opposizione del convenuto che si è regolarmente costituito è un
contegno definitivo, invece la mancata comparizione non lo è; non lo è in virtù di
quanto previsto nell’art 668 cpc, che contempla la opposizione dopo la convalida,
quindi una sorta di opposizione tardiva. Leggiamo la disposizione: “Se
l’intimazione di licenza o di sfratto è stata convalidata in assenza dell'intimato,
questi può farvi opposizione provando di non averne avuto tempestiva
conoscenza per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza
maggiore" —> questa previsione è stata integrata dall'intervento della corte
costituzionale, che nel 1972, con la sentenza n. 89 ha dichiarato l'illegittimità
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costituzionale del primo comma della disposizione, limitatamente alla parte in cui
non consente all'intimato l'opposizione tardiva nell'ipotesi in cui, pur avendo avuto
conoscenza della citazione, non sia potuto comparire all'udienza per caso fortuito
o forza maggiore. In ogni caso si tratta di una forma di RIMESSIONE IN TERMINI,
peraltro soggetta ad un LIMITE, perché in base al 2° comma dell’art 668 cpc
l'opposizione non è più ammessa se sono decorsi 10 giorni dall’esecuzione.
Il problema si pone perché dalla lettera della legge si dovrebbe ricavare che questo
provvedimento, l’ordinanza di convalida di sfratto, è impugnabile: infatti si è detto
che è un provvedimento idoneo ad acquisire una stabilità che sul piano qualitativo
abbiamo equiparato al GIUDICATO SOSTANZIALE; abbiamo detto solo qualitativo
perché sul piano quantitativo probabilmente, per chi muove da una nozione ampia
dei limiti oggettivi del giudicato, è più ristretta, per cui si è parlato di preclusione
pro iudicato, recuperando questa nota espressione coniata dal professor Redenti.
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provvedimento, che è l’ORDINANZA IMMEDIATA DI RILASCIO. Leggiamolo: “Se
l'intimato comparisce e oppone eccezioni non fondate su prova scritta, il giudice,
su istanza del locatore, se non sussistono gravi motivi in contrario,
pronuncia ordinanza non impugnabile di rilascio, con riserva delle eccezioni
del convenuto. L'ordinanza è immediatamente esecutiva, ma può essere
subordinata alla prestazione di una cauzione per i danni e le spese.” —> si tratta di
un provvedimento che viene ascritto alla figura della condanna con riserva di
eccezioni; non va confuso con l'ordinanza di convalida di sfratto di cui all’art 663
cpc, perché questa è un provvedimento per il cui tramite il giudice chiude il
processo di fronte a sé, mentre invece l'ordinanza immediata di rilascio, emanata
ai sensi dell’art 665 cpc, è un provvedimento emanato in corso di causa, perché il
processo prosegue nelle forme della cognizione piena.
Allora vi dicevo è un provvedimento che viene riportato alla figura della condanna
con riserva di eccezioni —> i presupposti in parte li troviamo enunciati all’art 665.1
cpc, ma in parte li dobbiamo desumere aliunde.
Come vedete, l’art 665 prevede espressamente che (1) presupposto per il rilascio
di questo provvedimento è che l'intimato comparso abbia opposto delle eccezioni
NON fondate su prova scritta; (2) il secondo presupposto richiamato è che non
sussistano gravi motivi in contrario.
Il terzo requisito riguarda la NON sussistenza dei gravi motivi: cosa sono questi
gravi motivi? Non è affatto chiaro. Secondo qualcuno i gravi motivi fanno
riferimento alla circostanza che le eccezioni opposte dall'intimato non siano di
pronta soluzione, quindi rendano necessario lo svolgimento di un'attività istruttoria
lunga; secondo altri invece si fa riferimento ad una valutazione che il giudice deve
effettuare in ordine al pregiudizio cui si dovrebbe esporre il conduttore in ipotesi di
rilascio del provvedimento; secondo altri sarebbero entrambi questi elementi.
53
Lezione 4 - 18/03/20
Nel corso della esposizione dedicata al procedimento per ingiunzione e al
procedimento per convalida di sfratto sono emersi due provvedimenti che
abbiamo ricondotto alla categoria dei provvedimenti di condanna con riserva. Mi
riferisco in modo particolare agli articoli 648 e 665 c.p.c. e ho ritenuto opportuno
fare il punto su questa particolare figura che abbiamo detto è una delle tecniche di
cui il legislatore si serve. Si tratta di un tipo di tutela che si presta ad essere
ascritta alla categoria della tutela sommaria e si è detto che si tratta di una tecnica
per il cui tramite il legislatore si propone di dare attuazione alla esigenza di evitare
l’abuso del diritto di difesa del convenuto.
Ulteriori ipotesi le ritroviamo innanzitutto all’articolo 1462 c.c. che reca la rubrica
“clausola limitativa della proponibilità delle eccezioni”. Si tratta di una clausola che
le parti, nella loro autonomia sostanziale, possono inserire nel contratto e per il cui
tramite una parte accetta di limitare il proprio diritto di difesa, accetta cioè di
limitare il proprio diritto di difesa accettando una clausola in base alla quale il
diritto di questa parte di vedere esaminate le proprie eccezioni viene subordinato
al previo adempimento della prestazione dovuta. In base all’interpretazione
preferibile si è soliti ritenere che il giudice di fronte a cui viene esercitata l’azione di
adempimento del contratto possa applicare questa disposizione solo se il
convenuto solleva delle eccezioni che rendono necessarie una lunga istruttoria.
Solo in questa ipotesi può procedere all’emanazione del provvedimento di
condanna con riserva del convenuto.
Ulteriori ipotesi, e si tratta delle ipotesi che sono più risalenti nel tempo, le
ritroviamo nella legge sulla cambiale e nella legge sull’assegno bancario. La legge
sulla cambiale è il regio decreto 14 dicembre 1933 n.1669 e all’articolo 65 prevede
che “nei giudizi cambiari, tanto di cognizione quanto di opposizione al precetto, il
debitore può opporre soltanto le eccezioni di nullità della cambiale ai termini
dell’articolo 2 e quelle non vietate dall’articolo 21”. Al secondo comma prevede
che “se le eccezioni siano di lunga indagine, il giudice, su istanza del creditore,
deve emettere sentenza provvisoria di condanna, con cauzione o senza”. Una
previsione perfettamente analoga la ritroviamo nella legge sull’assegno bancario, il
regio decreto 21 dicembre 1933 n. 1736 all’articolo 57 primo e secondo comma.
Questa tecnica viene utilizzata dal legislatore per evitare l’abuso del diritto di difesa
del convenuto. L’idea di base è che a fronte di una domanda fondata, il convenuto
che sa di avere torto può inventarsi le difese più pretestuose che rendono
necessaria una lunga indagine per allontanare la fine del processo e quindi il
momento in cui l’attore, che ha ragione, otterrà il suo provvedimento. Attraverso la
tecnica della condanna con riserva il legislatore consente all’attore di anticipare il
momento in cui ottiene un provvedimento favorevole, che potrà essere messo
immediatamente in esecuzione, addossando l’ulteriore tempo di svolgimento del
processo dedicato all’accertamento della fondatezza delle eccezioni sollevate dal
convenuto al convenuto stesso. Quindi si tratta di una tecnica di tutela che apre le
porte a procedimenti che si caratterizzano per una cognizione sommaria perché
parziale, perché ha ad oggetto solo i fatti modificativi, estintivi, impeditivi che sono
stati eccepiti dal convenuto. Questa tecnica è una tecnica che crea non lievi
problemi, tant’è vero che nonostante taluni ne chiedano da anni la
generalizzazione, il legislatore ha sempre risposto negativamente. Il motivo di
questa posizione è la pericolosità intrinseca a questa tecnica, perché la condanna
con riserva se da una parte ha il pregio di consentire all’attore di ottenere in tempi
rapidi un provvedimento favorevole, suscettibile di essere messo immediatamente
in esecuzione, comprime in maniera molto pericolosa il diritto di difesa e il diritto al
contraddittorio del convenuto. Il rischio cioè è che si crei una situazione di forte
squilibrio, tant’è vero che, con riferimento a queste ipotesi è stata sollevata più
volte la questione di legittimità costituzionale, ma la Corte ha sempre dichiarato
l’infondatezza della questione, sempre sollevata sulla base degli articoli 3 e 24
della Costituzione, facendo leva sulla circostanza per cui il giudice, in tutte queste
ipotesi, ha il potere, non il dovere di emanare il provvedimento di condanna con
riserva e comunque sempre in via subordinata all’accertamento della mancata
esistenza di gravi motivi in contrario. Certamente occorre fare uno sforzo di
razionalizzazione, quindi fissare i presupposti cui è subordinato il rilascio di questo
provvedimento al fine di disinnescare la pericolosità intrinseca in queste
fattispecie.
A questo scopo riprendiamo quanto abbiamo più volte detto riguardo le singole
figure, prendiamo in mano i presupposti cui deve essere subordinato il rilascio di
questo tipo di provvedimento e che se anche non espressamente previsti
nell’ambito delle singole fattispecie, dovranno essere sempre valutati dal giudice:
1. La prova piena dei fatti costitutivi, cioè dei fatti che l’attore ha posto a
fondamento della sua domanda o la circostanza che questi fatti non siano stati
oggetto di contestazione da parte del convenuto: scatterà il principio di non
contestazione e quindi l’attore sarà esonerato dall’onere di provarli;
3. Occorre che il giudice valuti, sia pure a livello sommario, la non fondatezza delle
eccezioni sollevate dal convenuto.
56
È solo e soltanto in presenza di questi presupposti che la pericolosità di questa
tecnica viene disinnescata. A mio parere viene disinnescata, ma non eliminata del
tutto ed è questo il motivo per cui il legislatore finora non ha mai accolto la
proposta di generalizzare questa figura. Infatti, dove l’attore non offre la prova dei
fatti costitutivi controversi fra le parti, si apre per il giudice un potere molto
discrezionale nel momento in cui fissa l’ordine di esame delle questioni, l’ordine di
assunzione delle prove richieste dalle parti. Credo che questo tipo di osservazione
impedisca di accogliere l’idea di chi ne vorrebbe una generalizzazione.
Nella introduzione alla tutela sommaria ho già ricordato che una ulteriore esigenza
che di solito il legislatore mira a realizzare attraverso i procedimenti speciali è
quella di realizzare l’effettività della tutela giurisdizionale. A questo scopo il
legislatore predispone anche alcuni procedimenti che si prestano ad essere
riportati nella categoria dei procedimenti sommari non cautelari.
L’articolo 316 bis nel suo primo comma individua i soggetti che sono obbligati al
mantenimento, oltre ai genitori. Infatti questa disposizione stabilisce che “i genitori
57
devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive
sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Quando i
genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità,
sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere
i loro doveri nei confronti dei figli.” Il diritto al mantenimento è il classico esempio
di situazione giuridica che ha un contenuto patrimoniale che ha ad oggetto il
pagamento di somme di denaro, ma ha funzione non patrimoniale perché è
strumentale a garantire la sopravvivenza dei figli. Allora, secondo quanto ci siamo
già detti nella lezione introduttiva della tutela sommaria, si tratta di una situazione
sostanziale che non può essere lasciata insoddisfatta lungo tutto lo svolgimento
del processo a cognizione piena perché una situazione di questo tipo
rischiererebbe di pregiudicare la sopravvivenza dei figli e questo spiega perché il
legislatore ha predisposto un procedimento a cognizione sommaria che consente
all’attore di ottenere un provvedimento di condanna all’adempimento dell’obbligo
di mantenimento dei figli suscettibile di essere messo in esecuzione
immediatamente, senza dover attendere i tempi del processo a cognizione piena.
Questo procedimento è disciplinato nello stesso articolo 316 bis c.c. dal secondo
comma in avanti. Infatti la disposizione prevede al secondo comma che: “in caso
di inadempimento il presidente del tribunale, su istanza di chiunque vi ha interesse,
sentito l’inadempiente ed assunte informazioni, può ordinare con decreto che una
quota dei redditi dell’obbligato, in proporzione agli stessi, sia versata direttamente
all’altro genitore o a chi sopporta le spese per il mantenimento, l’istruzione e
l’educazione della prole.
Questo procedimento speciale è stato costruito dal legislatore sulla falsa riga del
procedimento per ingiunzione, ma rispetto allo schema tipico del procedimento
per ingiunzione presenta una serie di deroghe. Intanto, come si evince dal secondo
comma, il legislatore ha attribuito la legittimazione ad agire a chiunque vi ha
interesse, con una apertura della legittimazione ad agire a chiunque abbia un
interesse. Si tratta di una disposizione che prevede ipotesi di legittimazione
straordinaria. Come abbiamo osservato a suo tempo, trattandosi di una ipotesi in
cui è in gioco un interesse pubblico molto accentuato, il legislatore ha allargato
molto la maglia dei legittimati ad agire. A seguito della istanza di chiunque vi abbia
interesse, il presidente del tribunale, ci dice la disposizione “sentito l’inadempiente
e assunte sommarie informazioni”: prima osservazione è che questo procedimento
si svolge nel pieno contraddittorio delle parti, quindi a differenza di quanto
abbiamo visto con riferimento al procedimento per ingiunzione, non si ha una fase
inaudita altera parte perché il contraddittorio è attivato fin dall’inizio. Quanto alla
espressione “assunte informazioni” appare chiaro che siamo di fronte ad un
procedimento di tipo sommario in quanto la cognizione è superficiale: non si
applicano le regole del secondo libro del codice di procedura civile che
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disciplinano il processo a cognizione piena, ma sarà il giudice a dover stabilire
queste regole; significa che ci sarà una piena apertura alle cosiddette prove
atipiche. Quindi siamo di fronte ad un procedimento sommario caratterizzato da
una cognizione di tipo superficiale. Il procedimento si chiude con un
provvedimento che ha la forma del decreto e che può avere un contenuto
particolare perché vedete che, in base al secondo comma, il giudice può ordinare
che una quota dei redditi dell’obbligato, in proporzione agli stessi, sia versata
direttamente all’altro genitore o a chi sopporta le spese per il mantenimento,
istruzione, educazione della prole. Si tratta di un provvedimento per il cui tramite Il
giudice ordina al terzo debitor debitoris, quindi al terzo debitore di colui che
dovrebbe provvedere al mantenimento, ma che non lo fa, di versare una parte delle
somme di denaro dovute direttamente all’altro genitore o a chi sopporta le spese
per il mantenimento. Chi è il terzo debitor debitoris? È il datore di lavoro, è il
conduttore dell’immobile che viene locato. In questa parte, questo provvedimento
prevede una cosiddetta cessione del credito, una cessione legale del credito che il
soggetto obbligato vanta nei confronti del terzo. Quindi, a partire dal momento in
cui viene emanato questo provvedimento, il terzo non può pagare più al debitore,
perché se pagasse tutto al debitore non si libererebbe dal proprio obbligo, ma
dovrà pagare al soggetto indicato dal giudice la somma che il giudice ha indicato
per coprire le spese del mantenimento. Questo decreto è immediatamente
esecutivo, ci dice il terzo comma dell’articolo 316 bis c.p.c., altro elemento che
marca la distanza dal decreto ingiuntivo che come sappiamo non è
provvisoriamente esecutivo ex lege. Il provvedimento è notificato agli interessati e
al terzo debitore e può essere impugnato attraverso opposizione che però deve
essere esperita nel termine di venti giorni e non di quaranta, come è previsto nel
procedimento per ingiunzione. Al di là delle differenze di disciplina, ciò che importa
sottolineare è che il procedimento in tema di mantenimento dei figli è molto
diverso dal procedimento per ingiunzione soprattutto sotto il profilo funzionale. Vi
ricordate che il procedimento per ingiunzione assolve alla funzione di assicurare
l’economia processuale evitando i costi e i tempi del processo a cognizione piena
in ipotesi di lite da pretesa insoddisfatta e non di lite da pretesa contestata, mentre
il procedimento in tema di mantenimento dei figli è un classico procedimento
sommario per il cui tramite il legislatore vuole assicurare l’effettività della tutela,
consentendo all’avente diritto di ottenere attraverso il procedimento sommario un
provvedimento anticipatorio, un provvedimento che ha lo stesso contenuto della
sentenza emanata a conclusione del processo a cognizione piena.
In verità, come vedete, il testo dell’art 186 bis e’ molto più ricco, e’ completo. In
62
effetti, molto opportunamente il legislatore del 1990 ha voluto dare agli operatori
una serie di indicazioni più puntuali risolvendo una serie di questioni delicatissime
che erano sorte con riferimento all'articolo 423 data l'eccessiva stringatezza del
testo di quest'ultima disposizione.
Torniamo all'articolo 186 bis. Allora come vedete, appare chiaro che il
provvedimento può essere emanato solo su istanza di parte quindi non può essere
emanato d’ufficio e che può essere emanato solo con riferimento alle controversie
aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro. La lettera della disposizione
e’ molto chiara e quindi si deve escludere che possa essere chiesto con
riferimento a controversie aventi oggetti diversi da quello specificamente indicato.
Il presupposto cui è subordinato la possibilità di ottenere questo provvedimento e’
la non contestazione dalle parti costituite.
Quel riferimento alla costituzione delle parti, chiaramente ci dice che questo
provvedimento non può essere emanato se una delle parti, in particolare il
convenuto, è contumace. E’ una precisazione che il legislatore del 1990 ha ritenuto
opportuno inserire perché con riferimento all’art 423 la questione relativa al se, in
ipotesi di contumacia del convenuto il giudice del lavoro potesse emanare
l’ordinanza di pagamento delle somme non contestate, si era posto e aveva aperto
un dibattito estremamente ampio. Quindi, molto opportunamente il legislatore del
1990 ha voluto eliminare qualsiasi incertezza. Quindi laddove il convenuto e’
contumace, questo provvedimento non può essere emanato.
La seconda possibilità e’ ritenere che oggetto della non contestazione siano i fatti
che l'attore ha posto a fondamento della sua domanda e allora, in questa
prospettiva, la non contestazione avrebbe il piu limitato significato di ammissione
legale dei fatti costitutivi, quindi dei fatti posti a fondamento della domanda. Ciò
significa che il giudice non è vincolato all'emanazione del provvedimento ma e’
comunque chiamato ad effettuare una valutazione, in particolare una valutazione in
iure cioè ad accertare se i fatti non oggetto di contestazione specifica siano idonei
a reggere gli effetti giuridici che l'attore ha chiesto, a fondare la domanda, e quindi
a fondare la valutazione di esistenza del diritto fatto valere in giudizio. Ora se noi la
questione la vogliamo porre a livello sistematico, dobbiamo ricordare quanto più
volte abbiamo sostenuto a proposito della non contestazione. Nel nostro
ordinamento la contestazione o non contestazione si riferisce sempre ai fatti.
Ricordate di quanto ci siamo detti con riferimento all'articolo 115 c.p.c.. Ricordate
quanto ci siamo detti con riferimento all’art 663 c.p.c., l’ordinanza di convalida di
sfratto che fra i suoi presupposti rinviene anche la mancata opposizione del
conduttore convenuto.
63
Se questo e’ vero sembra preferibile aderire alla seconda possibilità, alla seconda
opzione valutativa e quindi affermare che l'oggetto della non contestazione sono i
fatti, però è necessario qualche altra precisazione.
Primo: Abbiamo detto aderendo alla seconda teoria che il presupposto che il
convenuto non abbia contestato i fatti costitutivi posti dall'attore a fondamento
della sua domanda ma è necessario anche che il convenuto non abbia sollevato
delle eccezioni di merito, ovvero non abbia introdotto nel processo dei fatti
modificativi, estintivi, impeditivi del diritto fatto valere in giudizio perché se questi
fatti fossero introdotti, l’effetto di questi fatti qual’e’? Lo abbiamo detto tante volte,
è quello di determinare il venir meno dell'effetto giuridico dedotto in giudizio,
affermato dall’attore.
Poi il giudice dovrà effettuare una valutazione in iure, come si e’ detto, quindi
dovrà valutare se in base alla legge vigente, i fatti che l'attore ha affermato e che Il
convenuto non ha contestato, sono idonei a fondare la valutazione di esistenza
dell'effetto giuridico richiesto e naturalmente il giudice dovrà valutare/accertare
l'assenza di fatti modificativi estintivi impeditivi che siano rilevabili d'ufficio e che
emergano dagli atti processuali. Inoltre, possiamo aggiungere che se il convenuto
ha sollevato delle eccezioni di rito, il giudice dovrà deliberarne l'infondatezza e
verificare l'assenza di questioni di rito rilevabili d'ufficio. Questi sono diciamo i
presupposti. Una precisazione nel caso in cui il processo civile abbia ad oggetto
dei diritti indisponibili. Sappiamo che il principio di non contestazione non opera
nell'ambito dei processi aventi ad oggetto diritti indisponibili, vi ricordate lo
abbiamo detto parlando del principio di non contestazione, quindi parlando
dell'articolo 115. Allora si deve ritenere che è molto più difficile in queste ipotesi
che il giudice possa emanare l'ordinanza di pagamento delle somme non
contestate. Quindi, intanto, vi può essere uno spazio per l'emanazione di questo
provvedimento soltanto laddove il giudice ritenga che la non contestazione sia
idonea a fondare l'esistenza dei fatti costitutivi. Comunque e’ molto più difficile.
L'ultimo comma prevede che l'ordinanza è soggetta alla disciplina delle ordinanze
revocabili e c'è un richiamo espresso all’art 177 primo e secondo comma e
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all'articolo 178 primo comma. Allora si deve ritenere che l'ordinanza non può mai
pregiudicare la decisione di merito, quindi l'ordinanza viene emanata abbiamo
detto in corso di causa, il giudice quando la causa e’ matura per la decisione,
quindi arriva a conclusione, può naturalmente, non è vincolato a ritenere esistente
in diritto fatto valere in giudizio solo perché ha emanato l’ordinanza di pagamento
delle somme non contestate.
In base all'articolo 178 le parti possono riproporre al momento del passaggio della
causa in decisione le questioni irrisolte dal giudice con ordinanza revocabile.
Abbiamo detto che in base all’art. 186 bis c.2, l'ordinanza conserva la sua efficacia
in caso di estinzione del processo. Si tratta di chiarire che tipo di efficacia
conserva l’ordinanza a seguito della estinzione del processo. In verità la risposta a
questa domanda passa attraverso un chiarimento in ordine alla struttura di questo
provvedimento e, su questo punto, non c'è unicità di vedute. Intanto non
possiamo far riferimento ad orientamenti consolidati della Corte di Cassazione,
semplicemente perché questo istituto non viene utilizzato.
In dottrina si sono formate due opposte scuole di pensiero. Secondo taluni infatti
quel ‘’conserva efficacia’’ deve intendersi nel senso che l'ordinanza diviene
immutabile. Quindi l'ordinanza in base a questa prospettiva, viene equiparata ad
un decreto ingiuntivo quindi destinato in ipotesi di estinzione del processo, a
consolidarsi acquisendo quella immutabilità che abbiamo detto sul piano
qualitativo si presta ad essere equiparato all'autorità della cosa giudicata, non sul
piano quantitativo, per cui si è detto e’ preferibile parlare di preclusione pro
iudicato. In base a questa prospettiva allora, l’ordinanza di pagamento delle
somme non contestate a seguito della estinzione del processo, non sarebbe
suscettibile di impugnazione, almeno non di impugnazione ordinaria.
Qualunque sia la soluzione cui si voglia aderire il c.3 dell’art 163 bis prevede che
l’ordinanza e’ sempre revocabile da parte del giudice che l’ha emanata e quand'è
che l'ordinanza potrebbe essere revocata? Si possono immaginare diverse ipotesi.
Intanto è possibile che il giudice rilevi d’ufficio nel corso del processo, l’esistenza
di fatti modificativi, estintivi, impeditivi che emergono dagli atti processuali e che
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operano di diritto. In seconda battuta e’ possibile immaginare che il convenuto
ottenga una rimessione in termini ai sensi dell’art 153 c.2 del c.p.c e quindi
tardivamente sia ammesso o a contestare i fatti che l’attore ha posto a
fondamento della sua domanda, oppure a sollevare delle eccezioni di merito. E’
poi possibile immaginare che il giudice d'ufficio nell’ulteriore prosieguo del
processo riveda la propria valutazione in iure e quindi si convinca che i fatti
affermati dall’attore non sono idonei a reggere l’effetto giuridico richiesto, (a
fondare la domanda proposta dall’attore), oppure d’ufficio rilevi delle questioni di
rito astrattamente idonee a definire il processo.
66
Il rilascio del provvedimento e’ subordinato alla sussistenza di un duplice ordine di
requisiti: i requisiti relativi all’oggetto e i requisiti relativi alle prove. Per quanto
riguarda i requisiti speciali di ammissibilità relativi all’oggetto, il richiamo all’
articolo 633 c. 1 porta a ritenere che l’oggetto della richiesta debba riguardare il
diritto ad ottenere il pagamento di una somma di denaro liquida ed esigibile, il
diritto alla consegna di una quantità di cose fungibili, oppure il diritto alla
consegna di una cosa mobile determinata. Con riferimento invece alle prove, la
circostanza che la disposizione richiami unicamente l’art 634, porta a ritenere che
l'istanza debba essere fondata su una prova lato sensu documentale di cui all’art
634, mentre invece, come vedete, non vengono richiamati gli artt 635 e 636 (su cui
ci siamo soffermati mettendo in evidenza che si trattava di ipotesi di monitorio
puro perché si consente al creditore di ottenere il decreto ingiuntivo sulla base di
meri simulacri di prova per cui si e’ detto qui, al creditore, in sostanza, si consente
di ottenere il provvedimento sulla base della mera affermazione di esistenza dei
fatti costitutivi).
(file 5) Ho rilevato in ultima istanza che secondo quanto previsto nell'ultimo comma
dell'articolo 186 ter l'ordinanza di ingiunzione, ove dichiarato provvisoriamente
esecutiva, e’ titolo per iscrizione ipoteca giudiziale. E’ una previsione analoga a
quella prevista per il decreto ingiuntivo perché se ricordate anche l'articolo 655
afferma che il decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo, e’ titolo per iscrizione di
ipoteca giudiziale. Con riferimento specifico all'ordinanza di ingiunzione, però c'è
da fare una puntualizzazione importante perché secondo l'interpretazione che è
preferibile, in ipotesi in cui l'ordinanza venga revocata, secondo quanto consentito
dall'articolo 186 ter c.3. Si ritiene che la revoca dell'ordinanza costituisca titolo
anche per la cancellazione dell'ipoteca giudiziale nel frattempo iscritta e questo
segno punto di distanza molto importante rispetto al decreto ingiuntivo perché vi
ricordate che in ipotesi in cui il debitore ottenga la sospensione dell'efficacia
esecutiva del decreto ingiuntivo opposto, la sospensione non costituisce invece
titolo per ottenere la cancellazione di ipoteca giudiziale.
Un ultimo punto è che si interroga molto sullo spazio per l'emanazione del
provvedimento in esame; quali sono effettivamente i casi in cui sussistono le
condizioni perché questo provvedimento possa essere emesso? Certamente può
essere emanato nell’ipotesi in cui il creditore abbia nelle sue mani i requisiti di cui
all'articolo 633 primo comma numero 1 e 634, con riferimento ad una parte di una
domanda che ha un contenuto più ampio. Ma al di fuori di questa ipotesi. Quando
cioè questi requisiti, questi presupposti, riguardano l'intera domanda si rileva da
parte di alcuni che se in partenza il creditore, con riferimento ad una domanda che
ha i contenuti dell'articolo 633 dispone solo e soltanto della prova lato sensu
documentale dell'articolo 634, non aprirà il processo a cognizione piena, ma aprirà
direttamente il procedimento di ingiunzione che gli consente di ottenere in tempi
relativamente rapidi un titolo esecutivo che egli assicura l'anticipazione del
soddisfacimento concreto delle sue pretese.
Nel caso invece in cui il convenuto e’ contumace allora uno spazio ulteriore si apre
se l’intera domanda si presta ad essere accolta ma il creditore abbia portato una
prova dei fatti costitutivi lato sensu documentale secondo quanto previsto dall’art
634. E’ possibile allora che il giudice emani l’ordinanza per ingiunzione ai sensi
dell’ art 186 ter. Bisogna però ricordare che in questa particolare ipotesi
l'ordinanza, in base al quinto comma dell'articolo 186 ter, diventa immutabile,
definirà il giudizio se la controparte non si costituisce nel termine di venti giorni
dalla notifica dell’ordinanza stessa.
Quanto alla definizione della natura del provvedimento, stante quanto ci siamo
detti fin dall'apertura della lezione, ovvero che l’art 186 ter non e’ altro che
l'innesto del procedimento per ingiunzione nel processo a cognizione piena,
possiamo tranquillamente ritenere che l'ordinanza per ingiunzione è un
provvedimento sommario di tipo non cautelare avente attitudine ad acquistare
l’autorità della cosa giudicata, ad acquistare quella immutabilità che, diciamo
meglio, sul piano qualitativo e’ analoga all’autorità della cosa giudicata ma che ne
diverge sul piano quantitativo avendo una portata più ristretta e che pertanto è
preferibile indicare come preclusione pro iudicato.
70
Lezione 5 - 19/03/20
Nel corso delle passate lezioni ci siamo soffermati sui provvedimenti anticipatori di
condanna e segnatamente sugli articoli 186-bis e 186-quater, che disciplinano
rispettivamente l’ordinanza di pagamento delle somme non contestate e di
ingiunzione. Oggi andiamo ad esaminare l’ordinanza successiva alla chiusura
dell’istruzione che è disciplinata nella norma immediatamente successiva: articolo
186-quater. Siamo di fronte ad un provvedimento introdotto da una legge del 1995
che in verità non si presta ad essere affiancato ai 2 precedenti perché mentre
l’ordinanza di pagamento delle somme non contestate e l’ordinanza di ingiunzione
sono 2 provvedimenti di tipo sommario (perché basati l’uno su una cognizione
speciale l’altro su una cognizione sommaria perché superficiale e/o parziale) e
sono chiamati a svolgere una funzione di economia processuale (consentendo
all’attore di ottenere un provvedimento dotato di efficacia esecutiva saltando i
tempi della cognizione piena allorquando vi è una lite ,almeno parzialmente, da
pretesa insoddisfatta), invece l’ordinanza di cui all’art 186-quater è un
provvedimento innanzitutto che si basa su una cognizione piena e
secondariamente che svolge una funzione anticipatoria ma in senso
completamente diverso dai due precedenti. Perché attraverso l’ordinanza emanata
successivamente alla chiusura della istruzione l’ordinamento consente alle parti di
azzerare, di comprimere, la fase che intercorre tra l’udienza di precisazione delle
conclusioni e l’emanazione della sentenza definitiva, che chiude il processo a
cognizione piena. Ma andiamo con ordine:
71
di impugnativa negoziale è idoneo ad acquistare efficacia esecutiva fin
dal momento di emanazione della sentenza di primo grado, quindi in
ottemperanza a quanto previsto nell’art. 282 cpc. Il fatto che ci sia uno
specifico riferimento alle domande di condanna esclude a possibilità che
questo provvedimento possa essere chiesto con riferimento a domande
di mero accertamento o a domande di tipo costitutivo. Questo perché lo
scopo è quello di anticipare all’attore un provvedimento dotato di
efficacia esecutiva saltando i tempi della fase decisoria e con riferimento
al mero accertamento o alla tutela costitutiva questa anticipazione non
ha alcun senso. Stante il riferimento specifico ai diritti aventi ad oggetto il
pagamento di somme o alla consegna o al rilascio di beni mobili o
immobili si deve escludere che il provvedimento possa essere richiesto
on rifermento ad altri obblighi: ad esempio obblighi di fare o di non fare.
- Inoltre, in base all’art. 186-quater c.2, l’ordinanza è titolo esecutivo. Non c’è
alcun riferimento alla idoneità per costituire titolo per l’iscrizione di ipoteca
giudiziale e quindi in considerazione del carattere tipico della pubblicità
costitutiva si deve escludere tale idoneità.
72
tutto il tempo necessario per raggiungere la fase decisoria anziché dargli
immediatamente il provvedimento che ha richiesto.
Dobbiamo infatti ricordare che aldilà della disciplina dettata dal legislatore
nel secondo libro del codice di procedura civile tra l’udienza di precisazione
delle conclusioni e il termine per il deposito delle motivazioni del giudice
possono trascorrere non soltanto molti mesi ma anche qualche, diversi, anni
(soprattutto in alcuni uffici giudiziari).
- La terza possibilità invece è quella in cui l’intimato rimane inerte. Quindi non
propone ricorso per il cui tramite manifesta l’interessa ad ottenere la
sentenza ma rimane inerte. In questo caso ci dice il c.4 dell’art 186-quater in
apertura che l’ordinanza “acquista l’effetto della sentenza impugnabile
73
sull’oggetto dell’ istanza” . Anche in questa ipotesi dovranno decorrere 30
giorni perché questo è il termine entro il quale l’intimato è chiamato a
manifestare il suo interesse all’emanazione della sentenza. Decorsi 30 giorni
dall’emanazione dell’ordinanza, questa acquista efficacia di sentenza
impugnabile come nel caso precedente. A questo punto decorrono i termini
per l’impugnazione, è questa la strada che il legislatore auspica che sia
percorsa da parte dell’intimato. Ed è molto probabile che l’intimato rimanga
inerte perché l’ordinanza abbiamo visto prima è esecutiva ex lege quindi
l’attore, una volta ottenuta l’ordinanza, si attiverà per mettere in moto il
processo esecutivo. A questo punto l’interesse dell’intimato è quello di adire
il più velocemente possibile il giudice dell’impugnazione per chiedergli
l’inibitoria, cioè il provvedimento di sospensione dell’efficacia esecutiva o
dell’esecuzione del provvedimento impugnato. Ed è in questa ipotesi, quindi
nell’ipotesi in cui l’intimato rimane inerte e quindi il processo si arresta, che il
legislatore realizza il proprio scopo cioè consentire (c’è una parola che non
capisco, audio disturbato) l’annullamento, l’azzeramento, dei tempi di
svolgimento della cosiddetta fase decisoria.
Questo meccanismo è un meccanismo che non pone dei problemi molto delicati
di fronte a processi cumulativi. Probabilmente il legislatore del 1995 non se ne è
neppure reso conto. Pensate a tutti i casi in cui di fronte al giudice siano cumulate
due o più domande fra le stesse parti o parti diverse. Si tratta di capire se
l’ordinanza di cui all’art. 186-quater possa essere emanata in queste ipotesi.
Certamente se i presupposti indicati dalla norma maturano con riferimento a tutte
le domande cumulate di fronte allo stesso giudice non ci sono problemi a
consentirne l’utilizzazione. Il problema si pone soltanto nel caso in cui i
presupposti ricorrano solo con riferimento ad una o più di una delle domande
cumulate di fronte allo stesso giudice.
La risposta che possiamo offrire non è una risposta unitaria perché in queste
ipotesi: Intanto il provvedimento sarà emanato in quanto il giudice possa disporre
la separazione delle controversie in base all’art 103.2 se il processo è fra parti
diverse o in base all’art 104.2 se tra le stesse parti. Ma come noi abbiamo visto,
almeno con riferimento alle stesse parti, questo sarà possibile solo in presenza di
forme di connessione blande. Solo in queste ipotesi il giudice potrà disporre la
separazione delle cause. Quindi laddove si tratti di cause che sono connesse per
identità meramente soggettiva oppure per identità del fatto costitutivo non
controverso. Viceversa non potrà essere emanata in ipotesi connessione forte
come ad esempio la connessione per pregiudizialità dipendenza perché abbiamo
detto che il vincolo di connessione per pregiudizialità dipendenza pone in campo
delle esigenze (e in particolare l’esigenza di assicurare l’armonia delle decisioni)
per cui si ritiene opportuno escludere che il giudice possa disporre la separazione
delle controversie.
E’ stato introdotto con la Legge di riforma 69 del 2009 ed è disciplinato con gli
articoli 702-bis ,702-ter, 702-quater del codice di procedura civile
Questo procedimento presenta dei tratti che lo distinguono nettamente dagli altri
procedimenti speciali, intanto perché non è un procedimento speciale: infatti, a
differenza degli altri procedimenti sommari sin qui analizzati, l’apertura di questo
procedimento non è subordinata all’esistenza di requisiti speciali di ammissibilità
relativi all’oggetto quindi non è stato disegnato dal legislatore con riferimento a
situazioni giuridiche predeterminate. L’ambito applicativo si delinea alla luce di
quanto previsto nel primo comma dell’articolo 702-bis e nel terzo comma
dell’articolo 702-ter.
- nel terzo comma dell’art. 702 ter si fa riferimento alla circostanza in cui le
difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non sommaria. Da questa
espressione, a dire il vero non proprio cristallina, si desume che l’obiettivo
che il legislatore ha voluto perseguire, ovvero che questo procedimento è
riservato alle controversie cosiddette semplici che non hanno bisogno di un’
istruttoria complessa.
Queste sono le uniche indicazioni offerte dal legislatore. Questo procedimento non
può dunque essere collegato alle tipiche esigenze che il legislatore tenta di
realizzare attraverso le tecniche della tutela sommaria ma risponde soltanto
all’esigenza di semplificare la trattazione e l’istruzione del processo in ipotesi di
controversie semplici. Questa esigenza è comune a tutti gli ordinamenti
processuali poiché questi danno rilievo alla circostanza che la circostanza aperta
tra le parti è semplice o complessa anche se negli alti ordinamenti troviamo scelte
più razionali rispetto a quelle messe a punto dal legislatore italiano.
75
a riti speciali (ad es. rito lavoro o rito locatizio) perché per queste le regole sono
speciali e quindi escluse dall’applicazione del rito sommario di cognizione.
2) La seconda possibilità è che il giudice ritenga che la domanda non rientri tra
quelle indicate nell’art 702 bis e quindi il giudice, con ordinanza non
76
impugnabile, la dichiara inammissibile e nello stesso modo provvedere sulla
domanda riconvenzionale
Se il giudice ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non
sommaria con ordinanza non impugnabile fissa sull’udienza di cui all’art. 183. In tal
caso si applicano le disposizioni del libro secondo.
Se il giudice (Comma 3 art 702 ter) si rende conto che la controversia non è
semplice ma complessa e quindi non si presta ad essere trattata nelle forme del
procedimento sommario di cognizione, con ordinanza non impugnabile deve
disporre il mutamento di rito cioè fissare la data dell’udienza di cui all’art 183
dopodiché il processo si svolgerà nelle forme della cognizione piena. Questo è il
significato chiaro del richiamo alle disposizioni del libro secondo. Questa
previsione ci deve guidare anche nella lettura del comma precedente. Quando il
giudice rileva che la domanda non rientra tra quelle indicate nell’art. 702 bis il
giudice con ordinanza non impugnabile la dichiara inammissibile ma si ritiene
debba anche fissare la data dell’udienza ex art. 183 in modo che il processo possa
proseguire sia pure nelle forme della cognizione piena. E’ importante questa
precisazione perché ogni volta che il giudice dispone il mutamento di rito il
processo deve proseguire e quindi rimangono in piedi gli effetti sostanziali e
processuali dell’originaria domanda.
C’è da notare che, nell’ipotesi in cui il giudice dispone il mutamento di rito, non si
prevede niente in ordine ai termini posti a difesa delle parti.
Nella previsione contenuta nel comma 3 art 702 bis il legislatore ha stabilito che
una volta che il giudice con decreto ha fissato la data di svolgimento della prima
udienza, il ricorso e il decreto devono essere notificati al convenuto almeno 30
giorni prima della data fissata per la sua costituzione e questa deve avvenire 10
giorni prima della data dell’udienza. Quindi tra la data della notifica del ricorso e
del decreto e quella della prima udienza intercorrono 40 giorni.
Se queste situazioni non si verificano, in base a quanto dice il quinto comma della
disposizione, nella prima udienza, sentite le parti e omessa ogni formalità non
essenziale al contraddittorio, il giudice procede nel modo che ritiene più opportuno
agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto e
provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande. Questa
espressione il legislatore l’ha ripresa dall’art 669 sexies relativo al procedimento
cautelare generale ed è una espressione che ci dice col massimo della chiarezza
che questo processo almeno nel primo grado di giudizio è un processo che si
svolge nelle forme sommarie perché è il giudice nel rispetto del principio del
contraddittorio a dettare le regole di svolgimento del processo stesso. Il giudice
procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in
relazione all’oggetto del provvedimento richiesto, dopodiché il procedimento si
conclude con ordinanza che accoglie o rigetta la domanda.
PARTE 2
“Se ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non sommaria (il
che significa che la controversia non è semplice, bensì complessa), il giudice, con
ordinanza non impugnabile, fissa l’udienza di cui all’articolo 183(quindi è una sorta
di mutamento di rito). In tal caso si applicano le disposizioni del libro II.”
Il quadro normativo deve essere completato con il disposto dell’art. 183 bis. L’art.
183 bis è stato introdotto nel 2014 e prevede il passaggio in senso contrario.
Prevede che, nell’ambito di un processo introdotto con atto di citazione a
comparire ad udienza fissa (quindi nelle forme della cognizione piena), il giudice
possa, tenuto conto della complessità della lite, disporre il passaggio alle forme
del procedimento sommario di cognizione. La disposizione prevede che
79
contraria. Se richiesto, può fissare una nuova udienza e termine perentorio non
superiore a quindici giorni per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni
documentali e termine perentorio di ulteriori dieci giorni per le sole indicazioni di
prova contraria.”
Allora, a fronte del quadro normativo possiamo tornare alla questione posta. Come
abbiamo detto si sono formate 2 scuole di pensiero su questo punto:
È una questione non risolta, molto attuale (perché l’istituto è relativamente recente)
e nel dibattito in dottrina non è riuscita ad affermarsi nessuna delle due posizioni.
Come abbiamo già anticipato l’adesione all’una o l’altra posizione dipende dalla
nozione di cognizione piena a cui si aderisce.
Questa posizione non può essere assolutamente condivisa da chi, invece, parte
dal presupposto per cui le caratteristiche del processo a cognizione piena sono 3:
Chi, come noi, sulla scia di quanto indicato dal prof. Proto Pisani muove da questa
definizione del processo a cognizione piena, non può aderire e condividere l’idea
di considerare il procedimento sommario di cognizione un processo a cognizione
piena, perché queste caratteristiche non le ritroviamo nella disciplina nel
procedimento sommario di cognizione. È vero che il procedimento sommario di
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cognizione mette capo ad un provvedimento avente forma di ordinanza che, se
non appellato, è idoneo a passare in giudicato (perché abbiamo visto che la legge
richiama espressamente l’art. 2909 cc). Ma ricordiamo che questa scelta non è
una scelta del tutto isolata, perché pensiamo a quanto abbiamo detto in ordine al
procedimento per ingiunzione o al procedimento per convalida di sfratto: abbiamo
osservato che in entrambi i casi la legge consente all’attore di ottenere un
provvedimento avente nel primo caso la forma del decreto (decreto ingiuntivo non
opposto) e nel secondo caso la forma dell’ordinanza (ordinanza di convalida di
sfratto ex art. 663), che in presenza di alcune condizioni indicate dal legislatore
possono acquisire una stabilità che sul piano qualitativo è analoga all’autorità della
cosa giudicata. Quindi sono provvedimenti emanati a conclusione di un
procedimento che si è svolto in forme sommarie, che hanno la forma diversa dalla
sentenza e che hanno l’attitudine a diventare immutabili, e quindi a dettare la
disciplina definitiva del rapporto giuridico controverso. Quindi, il richiamo all’art.
2909 cc non ci obbliga a ritenere questo procedimento un processo a cognizione
piena ed i fautori di questa seconda posizione richiamano a suffragio delle proprie
osservazioni anche la scelta del legislatore di inserire queste disposizioni nel IV
libro (che è il libro dedicato ai procedimenti speciali) e quindi di inserire capo 3° bis
nell’ambito del titolo I e non nell’ambito del libro II dedicato al processo a
cognizione piena.
per rito lavoro il procedimento regolato dalle norme della Sezione II del Capo I del
Titolo IV del Libro II del cpc;
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per rito sommario di cognizione il procedimento regolato dalle norme del Capo III
bis del Titolo I del Libro IV del cpc”
Dopodiché nelle norme successive quindi, nel capo II, III e IV del decreto troviamo
il richiamo di un lungo elenco di controversie che vengono riportate all’uno o
all’altro di questi riti, con abrogazione delle discipline processuali
precedentemente in vigore.
Quindi se scorriamo il testo di questo decreto vediamo, per esempio, che nel capo
II (dedicato al rito lavoro) vengono riportate al rito lavoro una lunghissima serie di
controversie: art. 6 giudizio di opposizione a ordinanza di ingiunzione, art. 7
opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada, poi
l’art. 8 opposizione a sanzione amministrativa in materia di stupefacenti e via.
Se andiamo avanti troviamo il capo III (dedicato alle controversie regolate dal rito
sommario di cognizione) e anche qua troviamo un lunghissimo elenco: abbiamo le
controversie in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti degli avvocati,
abbiamo nell’art. 15 l’opposizione al decreto di pagamento di spese di giustizia,
art. 16 controversie in caso di mancato riconoscimento del diritto di soggiorno, art.
17 controversie in materia di allontanamento dei cittadini di altri Stati membri
dell’UE o di loro familiari; e poi scorrendo, troviamo nell’art. 18 controversie in
materia di espulsione di cittadini di Stati che non sono membri dell’UE, e ancora
nell’art. 21 opposizione alla convalida del trattamento sanitario obbligatorio
(disposizione che abbiamo richiamato in tema di deroga al principio della
domanda perché prevede un provvedimento che il giudice può emanare d’ufficio).
Per completare il quadro torniamo alle prime disposizioni del decreto. Vediamo
che l’art. 3 stabilisce che nelle controversie disciplinate dal capo III (sono le
controversie soggette a rito sommario di cognizione) non si applicano i co. 2 e 3
dell’art. 702 ter cpc. Quindi il legislatore ha espressamente escluso la possibilità
per il giudice adito di disporre il mutamento di rito, cioè il passaggio al processo a
cognizione piena a fronte di controversie non semplici, quindi complesse. Il che
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significa che, a fronte di tutte queste ipotesi, il giudice è obbligato a trattare la
controversia nelle forme di procedimento sommario di cognizione, non potendo
disporre il passaggio al processo a cognizione piena.
Con riferimento a queste previsioni si spera che venga sollevata una questione di
legittimità costituzionale perché privano i cittadini interessati di garanzie
fondamentali con riferimento a situazioni giuridiche che hanno rilevanza
costituzionale.
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In realtà, a questa idea ha risposto la stessa magistratura facendo rilevare che la
lentezza del processo trova le proprie motivazioni nell’enorme arretrato che, per
motivi vari (che in questo momento non può spiegarci), si è accumulato di fronte
agli uffici giudiziari. Finché non vengono predisposti degli strumenti per abbattere
l’arretrato, la crisi della giustizia civile non potrà sortire soluzione; e un processo
che si svolge nelle forme sommarie come quello disciplinato negli artt. 702 bis del
cpc, certamente non avrebbe consentito di risolvere in alcun modo la situazione,
avendo creato incertezze maggiori di quelle in cui già stiamo affogando. Per
fortuna alla fine del 2019 il Ministro della Giustizia sembra aver cambiato idea, e
dall’inizio del 2020 è circolato in nuovo progetto di riforma del processo a
cognizione piena in cui, in pratica, viene adottato come modello generale un
processo che assomiglia molto a quello del rito lavoro. Si tratta però solo di
progetti che non possiamo prendere in seria considerazione, tantomeno in questo
momento in cui il Paese ed il Mondo sta affrontando un’emergenza che
sicuramente lascia in secondo piano questo genere di questioni.
i procedimenti cautelari
La tutela cautelare è una forma di tutela che assolve unicamente alla funzione di
assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale secondo un’accezione molto
particolare; infatti, lo scopo della tutela cautelare è quello di evitare il danno
marginale, cioè il danno ulteriore, che l’attore che ha ragione rischia di subire a
causa della durata fisiologica del processo a cognizione piena. Per comprendere il
significato di questa definizione è opportuno allargare l’ottica visuale perché il
nostro legislatore è un legislatore che deve combattere contro il tempo, perché il
tempo spesso è causa di diversi pregiudizi in chi subisce la crisi di cooperazione
(quindi nel cittadino che ha subito la violazione della regola di condotta). Per
evitare/azzerare/ridurre questi pregiudizi il legislatore si muove in diverse direzioni
e quindi per evitare lo stesso tipo di pregiudizio spesso il legislatore utilizza
tecniche diverse, talvolta dei rimedi sostanziali altre volte la rimedi processuali,
come la tutela cautelare.
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dei rimedi che consentano al cittadino, come diceva Chiovenda, “di ottenere tutto
quello e proprio quello che gli è assicurato dal diritto sostanziale”.
Questi rimedi di tipo sostanziale sono degli istituti di diritto sostanziale che
cercano di azzerare le conseguenze che il cittadino subisce da questo stacco
temporale.
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Accanto a queste ipotesi possiamo anche richiamare ulteriori fattispecie pensiamo
per es., con riferimento ad ipotesi di inadempimento di obbligazione pecuniarie,
alla c.d. costituzione in mora e agli effetti che questa determina sul decorso della
prescrizione; oppure pensiamo ad alcuni diritti reali di garanzia ad es. l’ipoteca, il
pegno, il privilegio.
Sono tutti istituti di natura sostanziale, sono diversi, ma assolvono alla stessa
funzione.
Il legislatore poi si è dovuto preoccupare dei pregiudizi che l’attore può subire a
causa della durata del processo a cognizione piena. Abbiamo detto che questo ha
una durata fisiologica perché è un processo che deve dare piena attuazione alla
garanzia del contraddittorio, quindi è uno strumento che ha una sua complessità e
quindi è uno strumento che ha bisogno di un certo lasso di tempo. È qui che si
inserisce la tutela cautelare. Ma la funzione svolta dalla tutela cautelare non è una
funzione “assoluta” cioè, alla stessa funzione assolvono anche altri istituti che
abbiamo già avuto modo di esaminare ad es. taluni degli effetti sostanziali della
domanda giudiziale, quelli che presuppongono l’accoglimento della domanda e
che hanno come scopo quello di fare in modo che l’attore possa conseguire utilità
equivalenti a quelle che avrebbe conseguito se la domanda fosse stata accolta lo
stesso giorno in cui la domanda è stata proposta. Faccio riferimento ad es.
all’obbligo del possessore in buona fede di restituire i frutti secondo quanto
previsto nell’art 1148 cc.; pensiamo al c.d. anatocismo (interessi sugli interessi) art.
1283 cc; pensiamo all’obbligo da parte del detentore o del possessore convenuto
in rivendica di costudire il bene art. 948 cc; oppure, pensiamo a tutta la disciplina
della trascrizione delle domande giudiziali artt. 2652-2653 cc che mira a rendere la
sentenza opponibile ai terzi aventi causa dal convenuto che abbiano trascritto il
proprio atto successivamente alla trascrizione della domanda giudiziale.
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Lezione 6 - 25/03/20
Nella parte finale della ultima lezione ci siamo soffermati sulla funzione svolta dalla
tutela cautelare, evidenziando che questa è concepita allo scopo di neutralizzare il
danno marginale che l'attore che ha ragione può subire a causa della durata del
processo a cognizione piena.
Abbiamo altresì evidenziato che non si tratta di una funzione che appartiene in via
esclusiva alla tutela cautelare, perché nell'ordinamento esistono altri strumenti
diretti a rispondere alla stessa esigenza. Abbiamo richiamato gli effetti sostanziali
della domanda giudiziale per esempio, abbiamo richiamato i titoli esecutivi di
formazione stragiudiziale, abbiamo in particolare richiamato alcuni procedimenti
sommari di tipo non cautelare (pensate ad esempio al procedimento in tema di
concorso al mantenimento dei figli art 316bis cc, pensate all'art 28 L300\1970).
Quindi si è detto che la tutela sommaria non cautelare e la tutela sommaria
cautelare possono esser chiamate ad assolvere alla medesima funzione.
A questo punto però si impone un chiarimento: che rapporto intercorre tra la tutela
sommaria non cautelare e quella sommaria cautelare?? C'è una sovrapposizione?
No, non c'è una sovrapposizione, se noi vogliamo analizzare questa relazione sul
piano funzionale possiamo dire che c'è una parziale sovrapposizione. Se noi
vogliamo rappresentare graficamente la relazione che intercorre tra i procedimenti
sommari non cautelari e quelli sommari di tipo cautelare, possiamo richiamare la
immagine di due cerchi che sono parzialmente sovrammessi: quindi in un
determinato limite le due tecniche di tutela possono esser chiamate ad assolvere
alla stessa funzione; ma per altri versi, al di fuori di questi limiti, le due forme di
tutela assolvono ad esigenze diverse. La parte in cui le due tecniche di tutela si
sovrappongono riguarda naturalmente l'esigenza di assicurare la effettività della
tutela, perché il legislatore si può servire dell'una o dell'altra tecnica per consentire
all'attore di ottenere, passando attraverso un procedimento sommario, un
provvedimento cd anticipatorio, un provvedimento cioè che anticipa gli effetti della
futura sentenza di accoglimento della sua domanda emanata a conclusione del
processo a cognizione piena, in questo senso c'è una sovrapposizione tra le due
tecniche di tutela.
Invece abbiamo visto anche che attraverso i procedimenti sommari di tipo non
cautelare il legislatore può rispondere a un esigenza completamente diversa, che è
quella di assicurare la economia processuale: pensate al procedimento per
ingiunzione, al procedimento per convalida di sfratto, si tratta di due procedimenti
per il cui tramite il legislatore consente all'attore di ottenere un provvedimento in
tempi ristretti laddove c'è una lite da pretesa insoddisfatta, laddove c'è cioè
semplicemente un debitore che non paga, non ha delle contestazioni da muovere
in ordine all'esistenza o al modo d'essere del diritto di credito. Ecco, questo tipo di
esigenza è estranea alla tecnica delle misure cautelari.
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cd anticipatori, ma viene assicurata anche attraverso i provvedimenti cd
conservativi.
I provvedimenti di tipo conservativo sono provvedimenti cautelari per il cui tramite
il legislatore vuole assicurare sì la effettività della tutela, ma in un significato
diverso, cioè creando le condizioni affinché, durante il tempo di svolgimento del
processo a cognizione piena, non si verifichino fatti modificativi e estintivi, che
impediscano poi all'attore di mettere in esecuzione la sentenza di condanna di
accoglimento della sua domanda (es tipico sono i sequestri). Per cui si parla di
misure cautelari conservative, cioè che mirano a evitare un periculum da
infruttuosità pratica della sentenza: mirano a creare le condizioni affinché la futura
sentenza di condanna possa essere messa fruttuosamente in esecuzione, e quindi
il creditore possa ottenere il soddisfacimento concreto della sue pretese.
Ecco, questa particolare funzione, che diciamo, rientra nella nozione di garanzia di
effettività della tutela, ma in una accezione diversa rispetto a quella della tutela
cautelare cd anticipatoria, è totalmente estranea ai procedimenti sommari di tipo
non cautelare, quindi c’è una sovrapposizione ma solo parziale.
Andiamo adesso ad esaminare le misure cautelari, i provvedimenti cd cautelari.
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non giunge al suo esito fisiologico, cioè viene chiuso in maniera anomala,
per esempio attraverso una dichiarazione di estinzione. Inoltre, questo tipo
di misure cautelari sono destinate a perdere efficacia anche laddove il
processo a cognizione piena viene regolarmente instaurato, ma si chiude
con una sentenza che dichiara la non esistenza del diritto a cautela del
quale la misura è stata rilasciata. Questa regola vale naturalmente anche se
la misura cautelare viene richiesta e viene rilasciata in corso di causa.
Questa strumentalità rigida è tipica delle misure cd conservative, cioè quelle
misure cautelari che, come vi dicevo prima, hanno come scopo quello di
assicurare la fruttuosità pratica della sentenza emanata a conclusione del
processo a cognizione piena.
PROVVISORIETA'.
La provvisorietà la possiamo fondare sulla previsione dell'art 669 decies del cpc, è
una delle disposizioni inserite nell'ambito del procedimento cautelare generale,
cioè quell'insieme di norme che regolano il rilascio delle misure cautelari. L'art 669
decies stabilisce (prendetelo), che "la misura cautelare, salvo che sia stato
proposto reclamo ai sensi dell'art 669 terdecies, il giudice istruttore della causa di
merito può, su istanza di parte, modificare e revocare, con ordinanza, il
provvedimento cautelare, anche se emesso anteriormente alla causa, se si
verificano mutamenti nelle circostanze o se si allegano fatti anteriori di cui si è
acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare. Quando il
giudizio di merito non sia stato iniziato o sia stato dichiarato estinto, la revoca e la
modifica della ordinanza di accoglimento, esaurita la eventuale fase del reclamo
eccetera possono essere richieste al giudice che ha provveduto sulla istanza
cautelare. Ancora una volta, se si verificano mutamenti nelle circostanze, o si
allegano fatti anteriori di cui si ha acquisita conoscenza eccetera", poi su tutto ciò
torneremo in maniera puntuale.
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Quello che si desume da questa disposizione è la regola secondo cui le misure
cautelari sono sempre, senza limiti di tempo, suscettibili di essere modificate e
revocate da parte del giudice della cautela. Quindi, il provvedimento è inidoneo a
acquistare una qualsiasi forma di stabilità o di immutabilità. È un provvedimento
che produce solo effetti esecutivi. Questo è il punto che segna maggiormente la
differenza rispetto ai procedimenti sommari non cautelari, perché noi abbiamo
visto che, nell'ambito di quest'altra categoria, vengono emanati dei provvedimenti
che, laddove ricorrono le condizioni di volta in volta indicate dalla legge, in
particolare se non viene aperto il processo a cognizione piena, acquistano una
stabilità, una immutabilità che noi abbiamo chiamato preclusione pro iudicato, che
sul piano qualitativo è analoga alla autorità della cosa giudicata (pensate al
decreto ingiuntivo non opposto, pensate all'ordinanza di convalida dello sfratto di
cui all'art 663).
Altre volte, la misura cautelare stessa produce degli effetti, una volta che è stata
messa in esecuzione, produce degli effetti che sono irreversibili: se io propongo ad
esempio una denuncia di danno temuto, perché c'è un albero del fondo del vicino
che diciamo si è piegato e rischia di cascare e buttarmi giù la casa, e il giudice
accoglie la mia istanza (la denuncia di danno temuto è una tipica misura cautelare
di tipo anticipatorio) io posso ottenere da parte del giudice l'ordine di abbattimento
dell'albero. Voi capite bene che una volta che l'albero è stato abbattuto, questo
effetto è irreversibile, e dunque l'albero ormai non c'è più, e quindi, anche se dopo
il convenuto ottiene l'accertamento di non esistenza del diritto cautelato, è chiaro
che quell'albero ormai è stato abbattuto e quindi non potrà essere ripristinato.
Quindi, anche in questo caso, vedete bene, che gli effetti sono effetti irreversibili,
anche se la misura cautelare come provvedimento invece è provvisoria.
I presupposti delle misure cautelari sono due:
91
• fumus boni iuris = la probabile esistenza del diritto a cautela del quale la
misura viene richiesta
Con riferimento al periculum in mora ho appena evidenziato che si distinguono le
misure cautelari volte ad evitare un pericolo da infruttuosità del provvedimento a
cognizione piena, da misure volte invece ad evitare un pericolo da tardività del
provvedimento a cognizione piena.
Invece, il pericolo da tardività è quel pericolo che si aggancia alla circostanza che
lasciare il diritto cautelato in uno stato di insoddisfazione lungo tutto il processo di
svolgimento del processo a cognizione piena, rischia di causare all'attore che ha
ragione un pregiudizio.
Ora, alla distinzione tra misure cautelari volte ad evitare un periculum da
infruttuosità pratica, o un periculum da tardività, corrispondono rispettivamente le
misure cautelari cd conservative, e le misure cautelari cd anticipatorie. E come
dicevo poc'anzi, a questa contrapposizione corrisponde anche una diversa
struttura dei rispettivi provvedimenti, perché, mentre le misure cd conservative
esibiscono un nesso di strumentalità di tipo rigido, invece le misure cautelari cd
anticipatorie esibiscono un nesso di strumentalità cd attenuata.
Con riferimento alle misure cautelari di tipo anticipatorio, quindi quelle volte ad
evitare un periculum da tardività, assume rilievo quanto vi ho già detto nella parte
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introduttiva, ovvero, il primo principio secondo cui la tutela cautelare, nella parte in
cui è volta ad evitare un pregiudizio irreparabile, è costituzionalmente doverosa.
Questo principio, come vi ricordate, è stato elaborato da una nota sentenza della
corte costituzionale, la sent.190 del 1985, a firma di un noto processualcivilista, il
prof Virgilio Andrioli.
Questo è quanto ritroviamo ad esempio nel sistema tedesco, nei paragrafi 935 e
940 del codice di procedura tedesco, ma soprattutto è quanto troviamo
nell'ordinamento francese, che ha costruito il suo sistema cautelare nella figura del
referè. Questo sistema è un sistema che ha sicuramente un grosso vantaggio,
perchè dà attuazione al carattere atipico del diritto di azione anche nel sistema
cautelare, proprio come avviene nell'ambito del processo a cognizione piena, ma
ha un limite nella parte in cui inevitabilmente subordina il rilascio della misura
cautelare a valutazioni discrezionali del giudice adito.
94
La scelta effettuata dal legislatore italiano invece è una scelta diversa, perchè il
legislatore del 1942 scelse un sistema di tutela cautelare tipico, cioè che si
articolava in una serie di misure costruite dal legislatore in base all'id quod
plerumque accidit, quindi rispondendo agli specifici bisogni di tutela cautelare che
si manifestavano in maniera continuativa con riferimento alle diverse situazioni
sostanziali (e su questo poi torno) e chiudendo il sistema attraverso la previsione
di una misura di tipo residuale avente carattere atipico, e questa misura è l'art 700,
il provvedimento d'urgenza, che diciamo con riferimento al quale, il legislatore non
dà indicazioni precise al giudice, e che viene percepita come la norma di chiusura.
Vediamo di spiegare meglio. Nell'ambito del sistema cautelare italiano, che in parte
è disciplinato dal cpc, ma non solo, perchè misure cautelari importanti sono
previste anche nel cc e il leggi speciali, il legislatore lo ha costruito attraverso la
previsione di una serie di misure tipiche. Cosa vuol dire tipiche? Vuol dire che il
legislatore ha previsto, in maniera puntuale: il fumus boni iuris, cioè le situazioni
sostanziali a cautela delle quali le singole misure possono esser rilasciate; il
periculum in mora, quindi il tipo di pregiudizio che si vuole evitare; ma spesso e
volentieri ha tipizzato anche il contenuto della misura. È questo quanto, per
esempio, avviene nell'ambito del sequestro giudiziario, nel sequestro conservativo
(che andremo a analizzare nella seconda parte della lezione), ma è quanto
ritroviamo anche nei provvedimenti di istruzione preventiva, o anche con
riferimento a altre misure che sono disciplinate nel cc o in leggi speciali.
Invece, nell'ambito dell'art 700 il legislatore non dà nessuna indicazione. Perchè,
se prendete il testo dell'art 700, trovate scritto che "chi ha fondato motivo di
temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria,
questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere,
con ricorso al giudice, i provvedimenti di urgenza che appaiano, secondo le
circostanze, più idonei a assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul
merito". Come vedete, nel disposto dell'art 700, non si rinviene alcuna traccia della
situazione giuridica a cautela della quale la misura può essere richiesta e rilasciata;
così come non c'è alcuna indicazione in ordine al periculum in mora che si vuol
evitare, salvo che si deve trattare di un pregiudizio che sia imminente e
irreparabile.
Avviamo allora l'analisi del sistema di tutela cautelare apprestato dal legislatore
italiano. Come ho già spiegato, il legislatore italiano ha costruito il sistema
cautelare sulla base di una serie di misure cautelari tipiche. Come andremo a
vedere in questa parte della lezione e nelle lezioni successive, infatti, il legislatore
italiano si è preoccupato di prevedere una serie di provvedimenti speciali.
Provvedimenti speciali, cioè, in cui è lo stesso legislatore ad aver tipizzato il fumus
boni iuris, il periculum in mora, e anche il contenuto del provvedimento. Quindi il
legislatore indica esattamente la situazione sostanziale a cautela della quale la
misura cautelare può essere richiesta, e che il giudice dovrà valutare appunto a
livello di fumus boni iuris, quindi, a livello di verosimile esistenza. Si è preoccupato
di disciplinare il periculum in mora, quindi il pregiudizio che si vuole evitare
attraverso la richiesta della misura, ma anche il contenuto della misura.
Apro una parentesi: ricordatevi sempre che per assolvere a queste stesse esigenze
di garanzia della effettività della tutela, che abbiamo detto, è lo scopo di tutto il
sistema di tutela cautelare, non ci dimentichiamo mai che il legislatore nella sua
discrezionalità talvolta utilizza una tecnica diversa, cioè la tecnica dei procedimenti
sommari di tipo non cautelare. Abbiamo visto analizzando l'art 316bis del cc in
tema di concorso al mantenimento dei figli, e l'art 28 dello statuto dei lavoratori, in
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tema di procedimento di repressione della condotta antisindacale, che si tratta di
procedimenti che svolgono proprio questa funzione, assicurare la effettività della
tutela consentendo all'attore che ha ragione di ottenere un provvedimento di tipo
anticipatorio, passando attraverso un procedimento che si svolge in forme
sommarie, e quindi attraverso un procedimento che sicuramente è destinato a
consentire il rilascio anticipato del provvedimento rispetto al tempo che sarebbe
stato necessario passando attraverso il processo a cognizione piena.
Ora, cominciamo ad avviare la analisi dei diversi provvedimenti cautelari del nostro
ordinamento, dal cpc. Ricordatevi sempre che i provvedimenti cautelari non sono
soltanto quelli disciplinati nel cpc, in particolare nel libro IV, ma altre misure
cautelari le ritroviamo sempre nel cpc in altre parti, per esempio nel libro III
nell'ambito dei processi esecutivi, ma misure cautelari le ritroviamo anche
nell'ambito del cc, o di leggi speciali.
Se voi prendete il cpc, nel libro IV, vedete che alla tutela cautelare è dedicato il
capo III. Il capo III si compone di una sezione I che è dedicata al procedimento
cautelare in generale, quindi sono le regole di rilascio delle misure cautelari,
mentre nelle sezioni successive, la sezione II, la III, la IV, e la V, noi troviamo la
disciplina di singole misure cautelari.
Cominciamo allora dalla sezione II che si occupa del SEQUESTRO. Ci sono due
forme di sequestro: il sequestro giudiziario e il sequestro conservativo. Si tratta di
due misure cautelari cd conservative, ovvero, secondo quanto ci siamo già detti
precedentemente, misure cautelari che hanno come scopo quello di assicurare la
fruttuosità pratica della futura sentenza di condanna emanata a conclusione del
processo a cognizione piena, misure cautelari che, ricordatevi, abbiamo detto, sul
piano strutturale si connotano per il legame di strumentalità rigida che lega la
misura cautelare rispetto al processo a cognizione piena.
Cominciamo allora dall'analisi della disciplina del sequestro GIUDIZIARIO, art 670
cpc. Intanto leggiamo la disposizione "il giudice può autorizzare il sequestro
giudiziario: 1) di beni mobili o immobili o altre universalità di beni, quando ne è
controversa la proprietà o il possesso, ed è opportuno provvedere alla loro
custodia o alla loro gestione temporanea; 2) di libri, registri, documenti, modelli,
campioni, e di ogni altra cosa, da cui si pretende desumere elementi di prova
quando è controverso il diritto alla esibizione o alla comunicazione ed è opportuno
provvedere alla loro custodia temporanea".
Come si evince dalla lettura della disposizione esistono due forme di sequestro
giudiziario: il sequestro giudiziario di beni, che è disciplinato nel numero1, ed
abbiamo il sequestro giudiziario di prove, che invece è disciplinato nel numero2.
Lasciamo da parte per adesso questa seconda hp e concentriamo la nostra
attenzione sul sequestro giudiziario di beni.
Per quanto riguarda il periculum in mora, rileva invece quella parte della
disposizione in cui si dice che "è opportuno provvedere alla loro custodia o alla
loro gestione temporanea". Il significato che si attribuisce a questa espressione è
questo: la parte, nel richiedere il sequestro giudiziario, deve affermare il suo timore
che, in attesa della emanazione della sentenza di condanna alla consegna del
bene emanata a conclusione del processo a cognizione piena, il bene possa esser
oggetto di un atto di disposizione da parte della controparte. Un atto di
disposizione materiale, quindi che il bene venga deteriorato, disperso, distrutto, o
un atto di disposizione giuridica, quindi che la controparte alieni, trasferisca, il
bene controverso ad un terzo, ad un subaquirente.
Ed infatti, se prendiamo il successivo art. 676 troviamo scritto che “nel disporre il
sequestro giudiziario, il giudice nomina il custode, stabilisce i criteri e i limiti
dell’amministrazione delle cose sequestrate e le particolari cautele idonee a render
più sicura la custodia e a impedire la divulgazione dei segreti”. Quindi questa
norma si comprende alla luce della spiegazione che abbiamo offerto in ordine al
periculum in mora.
Questi sono i presupposti.
Il sequestro giudiziario può avere ad oggetto, ai sensi del n.1 art. 670 c.p.c., beni
mobili o immobili aziende o altre universalità di beni
Che caratteristica devono avere questi beni per costituire l’oggetto del sequestro
giudiziario?
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Per rispondere a questa domanda occorre ricordare che il sequestro giudiziario è
un provvedimento di tipo conservativo, cioè ha lo scopo di garantire la fruttuosità
pratica della futura condanna emanata a conclusione del processo a cognizione
piena.
E infatti se prendiamo l’art. 677, troviamo scritto che “il sequestro giudiziario si
esegue a norma degli artt. 605 e ss. in quanto applicabili” e negli artt. 605 e ss.
troviamo proprio la disciplina del processo di esecuzione forzata in forma specifica
per obbligo di consegna o di rilascio.
Alla luce di questa precisazione, si capisce che l’ambito applicativo del sequestro
giudiziario di beni si ricostruisce tenuto conto della disciplina del processo di
esecuzione forzata in forma specifica e ciò ci consente di affermare che, intanto, il
sequestro giudiziario di beni è possibile in quanto si tratti di beni che sono:
determinati, infungibili e che siano suscettibili di detenzione.
Ci sono delle incertezze in ordine alla possibilità che l’oggetto del sequestro
giudiziario possano essere i diritti di credito o le azioni delle s.p.a. o le quote delle
s.r.l.
- Con riferimento ai crediti, il dubbio sorge perché non è affatto certo che i diritti di
credito si prestino ad esser definiti come “beni” con riferimento ai quali è
possibile che sorga una controversia sulla proprietà o sul possesso; certamente
bisogna considerare che, nell’ipotesi in cui ci sia una controversia in ordine
all’appartenenza del credito, l’interesse del creditore che agisce è quello di
evitare che il debitore paghi ad un soggetto terzo in attesa che venga accetta la
titolarità effettiva del credito, ma a quest’esigenza risponde non tanto un
sequestro giudiziario, quanto piuttosto un provvedimento urgente, emanato ai
sensi dell’art. 700, per il quale si ordini al debitore di non adempiere in attesa
dell’accertamento della titolarità attiva del credito.
- Per quanto riguarda le azioni di una s.p.a., per lungo tempo questa questione è
stata al centro di un dibattito, che oggi possiamo ritenere concluso perché l’art
2352 del c.c. attribuisce il diritto di voto al custode e questa stessa disposizione
si applica anche alle quote delle s.r.l. secondo quanto previsto dall’art. 2471 bis
c.c., per cui a questo ulteriore questione possiamo sicuramente offrire una
risposta positiva.
Per quanto riguarda il contenuto, abbiamo già dato lettura dell’art. 676: “nel
disporre il sequestro giudiziario, il giudice nomina il custode, stabilisce i criteri e i
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limiti dell’amministrazione delle cose sequestrate e le particolare cautele idonee a
render più sicura la custodia e ad impedire la divulgazione dei segreti.
Il giudice può nominare custode quello dei contendenti che offre maggiori garanzie
e dà cauzione.
Il custode della cosa sequestrata ha gli obblighi e i diritti previsti negli arte. 521,
522 e 560.”
Il sequestro giudiziario, detto in altre parole, si attuata mediante lo
spossessamento della parte che ha nelle sue mani il bene, quindi il bene viene
sottratto a chi lo possiede o detiene e viene affidato ad un custode.
Vediamo che l’art. 676 ammette che come custode possa esser nominato anche il
possessore ( o detentore) ma in queste particolari ipotesi si verifica la c.d.
interversione nel possesso, quindi la controparte pur mantenendo nelle sue mani il
bene, lo mantiene come mero detentore e assume tutte le responsabilità del
custode, responsabilità che sono sia civili che penali.
Quanto all’attuazione abbiamo già visto, leggendo l’art. 676, che il sequestro si
esegue a norma degli artt. 605 e ss.: quindi nelle forme dell’esecuzione forzata in
forma specifica per obbligo di consegna o rilascio.
Non è invece prevista la trascrizione del sequestro giudiziario perché nei confronti
di atti di disposizione giuridica aventi ad oggetto dei beni immobili suscettibili di
trascrizione, questa funzione cautelare viene svolta da un altro istituto, ovvero
l’istituto della trascrizione delle domande giudiziali di cui agli artt. 2652 e 2653 c.c.,
che ricordiamo essere uno degli effetti sostanziali della domanda giudiziale, uno di
quelli effetti che hanno per presupposto l’accoglimento nel merito della domanda
proposta, e che consiste nel consentire all’attore di ottenere le stesse utilità che
avrebbe ottenuto se la domanda fosse stata accolta il giorno stesso in cui è stata
proposta.
Quindi è uno degli istituti che mira ad azzerare i tempi di svolgimento del processo
a cognizione piena.
Alla luce di tutto quanto abbiamo detto circa le modalità d’attuazione del
sequestro giudiziario di beni, possiamo mettere a fuoco la funzione che l’istituto è
100
chiamato a svolgere, e a questo riguardo dobbiamo distinguere a seconda che il
sequestro giudiziario abbia ad oggetto beni mobili oppure beni immobili.
Questo perché?
Perché il trasferimento dei beni mobili noi sappiamo che avviene attraverso il
trasferimento del possesso. La legge che regola la circolazione dei beni mobili è
fissata dall’art. 1153 c.c. e quindi dal momento in cui il convenuto subisce lo
spossamento è chiaro che non è più in grado di trasferire il possesso.
Anche nel caso in cui venga nominato custode lo stesso convenuto, questa
affermazione rimane in piedi, perché il custode, ricordate, ha soltanto la
detenzione ma non il possesso del bene (poco fa infatti abbiamo detto che in
queste ipotesi si verifica una interversione nel possesso) e ricordate inoltre che il
custode, chiunque sia, un soggetto terzo o lo stesso convenuto, assume le
responsabilità del custode, responsabilità non soltanto civile, secondo quanto
previsto nell’art 67 c.c., ma anche la responsabilità penale, così come previsto
negli artt. 388 e 388 bis c.p.
Invece, laddove il sequestro giudiziario abbia ad oggetto dei beni immobili, allora
la riflessione da fare è diversa, perché il sequestro giudiziario probabilmente è
idoneo a mettere l’attore al riparo dal rischio che vengano compiuti atti di tipo
materiale sul bene.
Ma per quanto riguarda gli atti di disposizione giuridica, il sequestro giudiziario non
è affatto idoneo a tutelarlo, perché abbiamo detto che il sequestro giudiziario di
beni non è suscettibile di trascrizione —> ricordatevi la trascrizione è una
disciplina speciale si possono trascrivere solo e soltanto gli atti indicati dalla legge
e nessuna norma prevede la trascrizione del sequestro giudiziario di beni immobili.
Al fine di mettersi al riparo che vengano compiuti atti di posizione giuridica allora,
l’attore dovrà porti nella condizione di poter trascrivere un atto, e questo atto quale
potrà essere?
La domanda introduttiva del processo di merito, quella domanda che potrà essere
trascritta se rientra nella previsione degli artt. 2652 e 2653 c.c. che, ricordiamo,
prevedono la trascrizione di un pò tutte le domande che riguardano le controversie
personali o reali su beni immobili.
Quindi quello che deve far l’attore in questi casi è affretterei ad aprire il processo a
cognizione piena in modo da poter trascrivere la relativa domanda.
101
Questo rilievo ci consente di comprendere come la trascrizione delle domande
giudiziali, che ricordatevi è uno degli effetti sostanziali della domanda giudiziale, è
un istituto che in fin dei conti assolve ad una funzione tipicamente cautelare,
quindi evitare che la durata del processo vada a danno dell’attore che ha ragione.
Questo ha portato gli operatori a sollevare più volte la questione del se questa
disciplina di trascrizione delle domande giudiziali sia una disciplina
costituzionalmente legittima, e questo spiega perché nella prassi, spesso, gli
avvocati si attivano chiedendo l’emanazione di un provvedimento urgente ex art.
700 per il cui tramite ottenere l’ordine di cancellazione della domanda giudiziale
trascritta.
Ora, in questo capo quinto, troviamo la disciplina dei c.d. mezzi di conservazione
della garanzia patrimoniale, cioè sono 3 istituti il cui scopo è proprio quello di
conservare, mantenere la consistenza del patrimonio del debitore.
102
Questi 3 istituti che, sul piano sostanziale, sono compresi nell’ambito di una
categoria unitaria, a livello processuale hanno 3 collocazioni completamente
diverse.
L’azione revocatoria è un’azione per il cui tramite il creditore può ottenere una
dichiarazione di inefficacia degli atti dispostivi che il debitore ha posto in essere in
pregiudizio delle proprie ragioni. Quindi è un’azione che presuppone il
compimento di un atto dispositivo da parte del debitore e che ha come scopo
quello di ottenere una dichiarazione di non opponibilità dell’atto stesso nei
confronti del creditore agente. Quindi l’atto rimane valido, ciò significa che il bene
che ha ceduto il debitore ad un terzo rimane nel patrimonio del terzo, ma non è
opponibile al creditore, che quindi potrà agire esecutivamente nei confronti del
terzo avente causa, utilizzando una particolare forma di processo esecutivo (di
espropriazione forzata), ovvero l’espropriazione contro il terzo proprietario, perché
l’avente causa è proprietario del bene ma con quel bene che gli appartiene
risponde di un debito altrui, per cui si applicano gli artt. 602 e ss. c.p.c.
Allora in base all’art 2905 c.c. il creditore può chiedere il sequestro conservativo
dei beni del debitore secondo le regole stabile dal c.p.c.; e in base all’art 671 del
c.p.c. “il giudice, su istanza del creditore che ha fondato timore di perdere la
garanzia del proprio credito, può autorizzare il sequestro conservativo di beni
mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui dovute, nei limiti in cui la
legge ne permette il pignoramento”.
Il sequestro conservativo è strumentale alla conservazione della garanzia
patrimoniale, infatti, ci dice l’art. 2906 c.c. che “non hanno effetto in pregiudizio del
creditore sequestrante le alienazioni e gli altri atti che hanno per oggetto la cosa
sequestrata, in conformità delle regole stabilite per il pignoramento”.
Quindi attraverso il sequestro conservativo si ottiene la creazione di un vincolo di
indisponibilità sui beni del debitore, il che significa che laddove il debitore pone in
essere atti di disposizione giuridica su questi beni, questi atti, anche se validi, non
sono opponibili al creditore sequestrante.
103
Questo vincolo di indisponibilità, che è l’effetto tipico del sequestro conservativo, è
molto simile al vincolo di indisponibilità creato dal pignoramento, che come
vedremo, è la prima fase del processo di espropriazione forzata, anzi, tra i due
istituti non c’è una soluzione di continuità, perché se noi andiamo a leggere l’art.
686 c.pc. troviamo scritto che: una volta che il creditore ha ottenuto una sentenza
di condanna (che è titolo esecutivo), il sequestro si converte automaticamente in
pignoramento; quindi il sequestro assolve la sua funzione di conservazione del
bene finché non viene emanata la sentenza di condanna provvisoriamente
esecutiva. A partire da questo momento è la sentenza di condanna a produrre gli
ulteriori effetti giuridici.
Bisogna però dire che c’è una differenza molto importante fra il sequestro
conservativo e il pignoramento, perché mentre il sequestro conservativo crea un
vincolo di indisponibilità che opera a favore solo del creditore sequestrante; il
pignoramento invece produce i propri effetti di indisponibilità non soltanto a
vantaggio del creditore procedente, cioè di colui che ha preso l’iniziativa, colui che
ha aperto il processo di espropriazione forzata e che ha messo in moto il
pignoramento, ma opera a vantaggio di tutti i creditori che sono intervenuti nel
processo esecutivo, perché vedremo che nell’espropriazione forzata trova
attuazione il c.d. principio della parcondicio creditorum, art. 2741 c.c., per cui tutti
i creditori del debitore esecutato hanno il diritto, laddove sussistono le condizioni
indicate dalla legge, di intervenire e prendere parte alla divisione di quanto è stato
ricavato, onde ottenere il soddisfacimento del proprio credito.
Come vediamo, l’art. 671 c.p.c. fa espresso riferimento ai beni mobili o immobili
del debitore o le somme e cose a lui dovute. Il riferimento a beni mobili/immobili
non crea problemi, l’unica particolarità è che a differenza di quanto abbiamo visto
con riferimento al sequestro giudiziario, non è prevista la possibilità di sequestrare
universalità di beni o aziende.
E questo perché?
Quindi il sequestro conservativo può aver ad oggetto solo i singoli beni mobili o
immobili che vanno a costituire l’azienda o l’universalità.
104
una maggior chiarezza rispetto a quanto visto con riferimento al sequestro
giudiziario.
Per quanto riguarda i presupposti, il fumus boni iuris (è il diritto di credito, il diritto
ad ottenere il pagamento di una somma di denaro), non è richiesto che questo
diritto sia né certo, né liquido, né esigibile. Sarebbe stato assurdo che il legislatore
prevedesse il requisito della certezza quando qui si tratta di un diritto che
dev’essere accertato a cognizione sommaria, e il giudizio di probabilità, che è la
caratteristica della cognizione sommaria, non sarebbe stato compatibile con la
nozione di certezza.
È pacifico altresì che questo credito non debba essere liquido, quindi determinato
nel suo ammontare, anche se comunque occorre che sussistono le condizioni
perché ne possa essere determinata pur in maniera approssimativa la consistenza,
e ciò perché i beni oggetto di sequestro conservativo devono aver un valore che in
qualche modo corrisponde al valore del diritto di credito per cui si agisce.
Inoltre non è necessario che sia esigibile, sappiamo che un credito è esigibile
quando non è soggetto né a condizione, né a termine. Ora, nell’ambito dell’art,
1356 comma uno c.c. si prevede la possibilità che vengano compiuti atti
conservativi anche in pendenza della condizione sospensiva, il che toglie qualsiasi
dubbio in ordine alla possibilità che possa essere chiesto un sequestro
conservativo (che è proprio l’atto conservativo per eccellenza), e sulla base di
questa disposizione si è sempre ritenuto che anche con riferimento ad un credito
sottoposto a termine possa essere chiesto il sequestro conservativo in base
all’argomento a fortiori.
Una questione interessante si è posta con riferimento al requisito del fumus boni
iuris del sequestro conservativo, ovvero la possibilità che a chiedere il sequestro
sia un creditore che ha già nelle sue mani un titolo esecutivo. Noi non abbiamo
ancora affrontato il processo esecutivo ma nel corso delle lezioni è emerso più
volte che il requisito di ammissibilità per avvisare qualsiasi processo esecutivo è il
titolo esecutivo. Quindi il creditore deve avere nelle sue mani uno dei
provvedimenti o degli atti indicati tassativamente nell’art. 474 c.p.c.
I primi sono innanzitutto le sentenze di condanna, che in base all’art. 282 nascono
provvisoriamente esecutive ex lege.
La prima domanda che ci dobbiamo porre è: può il creditore che ha già nelle sue
mani un titolo esecutivo di formazione giudiziale (per esempio una sentenza di
condanna) chiedere il sequestro conservativo?
105
possesso; anche perché ricordiamoci che precedentemente abbiamo detto che il
sequestro conservativo, una volta che il creditore ha ottenuto la sentenza di
condanna, si trasforma automaticamente in pignoramento, in base all’art. 686
c.p.c.
Per quanto riguarda il periculum in mora, abbiamo visto che è il legislatore nell’art.
671 a tipizzarlo, laddove fa riferimento al “timore da parte del creditore di perdere
la garanzia del proprio credito”.
Allora, leggendo la giurisprudenza, possiamo dire in via generale che il rilascio del
sequestro conservativo è volto ad evitare che, nel corso del processo a cognizione
piena, il debitore ponga in essere atti dispersivi del suo patrimonio. Quindi, che il
debitore disperda il patrimonio alienando a terzi aventi causa i beni che lo
compongono, di modo che quando il creditore va a mettere in esecuzione la
sentenza di condanna al pagamento non trova più niente, non trova più beni su cui
agire in via esecutiva.
Questo periculum in mora, secondo la giurisprudenza, può concretizzarsi in
situazioni diverse: ad esempio la giurisprudenza tiene in considerazione l’entità, la
consistenza del patrimonio del debitore, in rapporto all’entità del credito per cui si
agisce. Quindi qua c’è una valutazione in senso oggettivo, perché se il credito ha
un’entità irrisoria e il patrimonio del debitore è un patrimonio molto ampio è chiaro
che non è fondato il timore di perdere la garanzia patrimoniale.
106
Le modalità d’esecuzione del sequestro conservativo sono disciplinate negli artt.
678 e 679 e la scelta che il legislatore ha fatto, non causalmente, è quella di
stabilire che il sequestro conservativo vada eseguito nelle stesse forme del
pignoramento.
Per cui in base all’art. 678 se ha ad oggetto beni mobili o crediti (quindi diritti che il
convenuto debitore ha nei confronti del terzo debitor debitoris) si richiamano le
norme relative al pignoramento presso il debitore o presso terzi.
Ripetiamo che tra sequestro conservativo e pignoramento non c’è una soluzione
di continuità, perché l’art. 686 prevede espressamente che nel momento in cui il
creditore sequestrante ottiene la sentenza di condanna esecutiva, il sequestro
conservativo si converte in pignoramento, ed è attraverso il legame tra sequestro
conservativo e pignoramento che questa misura cautelare riesce a dar attuazione
a quella che è la sua funzione, cioè quella di garantire la fruttuosità pratica della
futura sentenza di condanna al pagamento di una somma di denaro.
Proprio sotto questo profilo è importante una piccola precisazione che può tornar
utile ai fini della comprensione dell’istituto: il sequestro conservativo è una misura
cautelare posta a tutela del diritto di credito avente ad oggetto il pagamento di una
somma di denaro, ma è una misura cautelare che mira ad evitare un periculum da
infruttuosità pratica della sentenza. Allora, quando abbiamo un creditore (quindi il
titolare di un diritto avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro), che
invece vuole evitare un periculum da tardività, cioè ha bisogno del
soddisfacimento immediato del suo diritto, che non può rimanere insoddisfatto
lungo tutto il tempo di svolgimento del processo a cognizione piena, allora il
sequestro conservativo non gli serve a niente, perché l’effetto del sequestro
conservativo è quello di creare un vincolo di indisponibilità sui beni.
108
Lezione 7 - 26/03/20
Cominciamo ad analizzare le denunce. La denuncia di nuova opera e la denuncia
di danno temuto.
Si tratta di due misure cautelari che trovano la propria disciplina nel codice civile
agli artt 1171 e 1172. Avevamo già ricordato che la disciplina delle misure cautelari
non si rinviene solo nel IV libro del cpc ma anche nel codice civile e in alcune leggi
speciali. Secondo il legislatore, la denuncia di nuova opera e la denuncia di danno
temuto sono due misure cautelari anticipatorie e, in quanto tali, sono soggette alla
disciplina della c.d. strumentalità attenuata. In realtà vedremo che il contenuto di
queste 2 misure non è sempre anticipatorio, però il legislatore le ha classificate
come tali e a questa classificazione dovremo attenerci.
E' disciplinata all'art 1171. Il c.1 stabilisce che: “Il proprietario, il titolare di altro
diritto reale di godimento o il possessore, il quale ha ragione di temere che da una
nuova opera, da altri intrapresa sul proprio come sull'altrui fondo, sia per derivare
danno alla cosa che forma l'oggetto del suo diritto o del suo possesso, puo'
denunziare all'autorità giudiziaria la nuova opera, purche' questa non sia terminata
e non sia trascorso un anno dal suo inizio”.
-Il periculum in mora è indicato nella seconda parte, dove si indica che il ricorrente
ha ragione di ritenere che da una nuova opera da altri intrapresa sul proprio come
sull'altrui fondo sia per derivare danno alla cosa che forma l'oggetto del suo diritto
e del suo possesso.
Il pregiudizio che deve essere legato a questa attività di costruzione è dato dalla
illegittimità dell'opera intrapresa, ad es perché si tratta di una costruzione tirata su
in violazione delle norme relative alle distanze legali. Questo danno l'art 1171 non
lo qualifica, parla di danno, ma non si parla né di danno grave né di danno
irreparabile, quindi il legislatore ha moto ampliato la soglia di tutela. Come
possiamo definire il periculum che questo provvedimento mira ad evitare? Intanto
diamo un'occhiata al provvedimento, perché il legislatore l'ha tipizzato. È descritto
nel c.2 dove si dice che il giudice, se accoglie l'istanza, può vietare la
109
continuazione dell'opera, mentre se la rigetta, ne consente la prosecuzione.
Sicuramente è un provvedimento che ha come scopo quello di evitare un
pregiudizio da tardività del provvedimento principale, perché lo scopo è quello di
evitare che il diritto del ricorrente debba rimanere insoddisfatto lungo tutto lo
svolgimento del processo a cognizione piena. Peraltro si tratta di un'anticipazione
parziale perché laddove la richiesta venga accolta, il giudice dispone la
sospensione dell'opera, non la distruzione.
Il legislatore dell'art 1171 è stato molto attento perché ha previsto anche uno
strumento di contro cautela che è disciplinato nel c.2: “L'autorita' giudiziaria, presa
sommaria cognizione del fatto, puo' vietare la continuazione dell'opera, ovvero
permetterla, ordinando le opportune cautele: nel primo caso, per il risarcimento del
danno prodotto dalla sospensione dell'opera, qualora le opposizioni al suo
proseguimento risultino infondate nella decisione del merito; nel secondo caso,
per la demolizione o riduzione dell'opera e per il risarcimento del danno che possa
soffrirne il denunziante, se questi ottiene sentenza favorevole, nonostante la
permessa continuazione”.
110
Noi abbiamo detto che i provvedimenti cautelari sono per loro natura sempre
provvisori, quindi privi di qualsiasi attitudine alla cosa giudicata, perché l'art 669
decies afferma espressamente che l'ordinanza cautelare può essere modificata e
revocata sempre dal giudice.
È una somma di denaro che viene depositata ed è sempre posta a carico della
parte vittoriosa, quindi se il giudice accoglie l'istanza, la pone a carico del
ricorrente. Questa somma di denaro servirà nel caso in cui la misura cautelare
risulta ingiusta, quindi emanata in assenza dei requisiti stabiliti dalla legge, a
coprire il risarcimento del danno che il convenuto ha subito a causa della
sospensione dell'opera; mentre invece se il giudice rigetta l'istanza, sarà posto a
carico del convenuto e servirà a coprire le spese per la demolizione o la riduzione
dell'opera risultata illegittima e il risarcimento all'istante del danno sofferto a causa
della prosecuzione dell'opera stessa.
art 1172: “Il proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento o il possessore,
111
il quale ha ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa sovrasti
pericolo di un danno grave e prossimo alla cosa che forma l'oggetto del suo diritto
o del suo possesso, puo' denunziare il fatto all'autorità giudiziaria e ottenere,
secondo le circostanze, che si provveda per ovviare al pericolo”. Il legislatore nel
c.1 ha tipizzato anche in questo caso i requisiti di ammissibilità:
Anche questo provvedimento amplia molto la tutela che l'ordinamento offre alla
proprietà e agli altri diritti reali di godimento. Se noi mettiamo insieme la denuncia
di nuova opera, la denuncia di danno temuto e tutte le azioni esercitabili a tutela di
queste situazioni giuridiche nell'ambito del processo a cognizione piena, ci
rendiamo conto che la proprietà e gli altri diritti reali di godimento possono
veramente ottenere una tutela effettiva, perché il legislatore ha predisposto tutti i
112
possibili strumenti per poter rispondere a tutte le possibili crisi di cooperazione.
Addirittura, nell'art 1172, è intervenuto per consentire la sanzione di una situazione
di pericolo di danno. Quello che si è rilevato da parte della dottrina più sensibile è
che ci sono attualmente anche altre situazioni giuridiche con riferimento alle quali
sarebbe importantissimo prevedere queste stesse forme di tutela. Pensiamo ai
diritti di libertà o ai diritti della personalità, sono situazioni che hanno rilevanza
costituzionale e sono situazioni con riferimento alle quali qualsiasi violazione causa
un pregiudizio irreparabile, ossia un pregiudizio che non può essere riparato nelle
forme dell'equivalente monetario. Si tratta di situazioni che hanno una struttura
analoga alla proprietà perché sono diritti ccdd assoluti. Abbiamo visto nel primo
semestre, quando abbiamo parlato della tutela di condanna, che possiamo
ritenere che anche con riferimento a queste situazioni che hanno un contenuto e
una funzione non patrimoniale, il legislatore abbia predisposto un sistema che
consenta di ottenere forme di tutela repressiva (volta ad eliminare gli effetti di
violazione già verificatesi), ma anche una tutela preventiva o inibitoria (volta ad
evitare che nel futuro le violazioni vengano ripetute). Quello che questa dottrina più
sensibile rileva è che sarebbe importante prevedere, anche con riferimento a
queste situazioni, un provvedimento cautelare idoneo ad anticipare la soglia di
tutela e quindi poter ottenere un provvedimento anche inibitorio che prescinda dal
fatto che si sia verificata la violazione, che anticipi la soglia di tutela, in modo da
evitare che si verifichi anche la prima violazione, poiché anche solo la prima
violazione può essere causa di un pregiudizio irreparabile.
Si tratta di misure cautelari dirette a tutelare il diritto alla prova. Attraverso questi
provvedimenti si vuole evitare che la parte perda un mezzo di prova. Si capisce la
differenza rispetto alle altre misure cautelari, che erano tutte strumentali alla tutela
di situazioni sostanziali quali il diritto ad ottenere una somma di denaro, la
proprietà, il possesso ecc. Qui invece si vuole tutelare un diritto di marca
processuale.
Le ipotesi più importanti sono disciplinate nella sezione IV del quarto libro del
CPC, dedicato ai procedimenti di istruzione preventiva. Sono:
113
Leggiamo le disposizioni del cpc. L'art 692 prevede che “Chi ha fondato motivo di
temere che siano per mancare uno o più testimoni, le cui deposizioni possono
essere necessarie in una causa da proporre, può chiedere che ne sia ordinata
l'audizione a futura memoria”;
Quanto invece al fumus bonis iuris qui le misure cautelari sono volte a tutelare un
diritto di marca processuale che è il diritto alla prova. Si vuole cioè garantire che la
testimonianza, la consulenza tecnica e l'ispezione giudiziale non vadano dispersi.
In base all'art 699 l'istanza di istruzione preventiva può essere proposta anche in
corso di causa come anche nell'ambito del processo che è stato interrotto o
sospeso, e il giudice provvede con ordinanza. In queste hp non sarà necessaria
l'indicazione sommaria delle domande o eccezioni a cui la prova è preordinata.
Una volta che il giudice avrà accolto l'istanza, si procede all'assunzione della
prova. L'art 698 prevede che: “Nell'assunzione preventiva dei mezzi di prova si
applicano in quanto possibile gli artt 191 ss”, quindi le prove vengono assunte
secondo le regole dettate dal cpc (previste per il processo a cognizione piena) e
soltanto laddove non sia possibile procedere in queste modalità, allora si prevede
la possibilità di derogare a queste disposizioni. Una volta che la prova è stata
114
assunta, verrà redatto il processo verbale a norma dell'art 207.
Infine una piccola notazione su un istituto particolare il cui art di riferimento è l'art
696 bis. Si tratta di un articolo che è stato inserito soltanto attraverso la tecnica
della novellazione nel 2005. Si tratta di una forma di consulenza tecnica preventiva
diversa rispetto a quella disciplinata nell'art 696. La norma stabilisce infatti che
l'espletamento di una consulenza tecnica in via preventiva può essere richiesto
anche al di fuori delle condizioni di cui al c.1 dell'art 696, quindi ci si muove al di
fuori delle situazioni di urgenza cui si correla la possibilità di chiedere
l'accertamento tecnico o l'ispezione giudiziale in base all'art 696 ai fini
dell'accertamento e della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla
mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito. Il
giudice, in base al c.3 dell'art 696, dovrà nominare il consulente e questi redigerà
una relazione. Tuttavia l'ultima parte del c.1 afferma che “prima di provvedere al
deposito della relazione, tenta ove possibile la conciliazione delle parti”: se le parti
si conciliano viene redatto un processo verbale della conciliazione a cui, in base al
c.3, il giudice attribuisce con decreto efficacia di titolo esecutivo ai fini
dell'espropriazione, dell'esecuzione in forma specifica e per l'iscrizione di ipoteca
giudiziale; invece se la conciliazione non riesce, ciascuna parte può richiedere che
la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio
di merito. Si tratta di un istituto completamente diverso perché lo scopo che si
persegue qui è quello di consentire alle parti di ottenere attraverso questa
consulenza un accertamento dei fatti. Lo si può fare solo con riferimento a diritti
aventi ad oggetto crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di
obbligazioni contrattuali o da fatto illecito, a fine di spingere le parti a conciliarsi. È
quindi uno strumento alternativo di risoluzione delle controversie, è un mezzo
deflattivo. Ci sono inoltre degli studi che vorrebbero generalizzare questo rimedio,
in particolare con riferimento a determinate controversie che si giocano tutte
sull'accertamento dei fatti, un accertamento ante causam dei fatti in modo da
costringere le parti a trovare un accordo.
115
Quando abbiamo parlato del sequestro giudiziario art 670, abbiamo lasciato da
una parte l'hp di cui al n.2. Quindi il sequestro giudiziario non di beni ma di libri,
registri, documenti e modelli o di ogni altra cosa dalla quale si intende presumere
elementi di prova. Come si desume dalla lettura della disposizione, i presupposti
cui è subordinato il rilascio di questa misura cautelare sono:
Questo sequestro giudiziario si attua nella forme dell'art 677, quindi può essere
attuato coattivamente attraverso l'esecuzione forzata in forma specifica
dell'obbligo di consegna o rilascio.
Il problema nasce proprio dal confronto fra questi due istituti, perché nell'hp in cui
venga rilasciato un sequestro giudiziario di documenti (che presuppone l'esistenza
dei requisiti prima citati) è possibile ottenere un sequestro giudiziario di documenti,
quindi che i documenti vengano affidati in custodia ad un terzo il quale, una volta
risolta la controversia relativa al diritto all'esibizione, diventerà il destinatario
all'ordine del giudice e siccome ha assunto la responsabilità del custode, dovrà
dare attuazione all'ordine del giudice. Quindi soltanto in presenza di questi
presupposti,
116
L'ordinamento mette a disposizione delle parti uno strumento che consente di
dare attuazione all'ordine di esibizione. Mentre invece, laddove questi presupposti
non ricorrano, non esiste uno strumento per dare attuazione coattiva all'ordine di
esibizione.
La contraddizione è evidentemente.
È poi una soluzione parziale poiché il rilascio della misura cautelare è sempre
subordinato al rischio della distruzione/deterioramento dei documenti, quindi non
potrebbe essere utilizzato nei casi in cui ci sia una controparte semplicemente che
non li fa vedere questi documenti. Allora secondo il professor Proto Pisani questa
contraddizione potrebbe essere risolta soltanto lavorando su due versanti:
117
documenti e, se non lo fa, si potrà procedere attraverso questa forma di
esecuzione coattiva disegnata sulla falsariga dell'accompagnamento
coattivo dei testimoni.
SECONDA PARTE
Infine una piccolissima nota con riferimento agli istituti della trascrizione della
domanda giudiziale. Vi avevo già sottolineato che la trascrizione della domanda
giudiziale svolge una funzione cautelare perché è uno degli effetti sostanziali della
domanda giudiziale diretto ad evitare che la durata del processo a cognizione
piena vada a danno dell’attore cha ha ragione facendo retroagire gli effetti della
sentenza di accoglimento alla data della trascrizione. Vi avevo già fatto notare che
in base alla disciplina contenuta nell’art.2668 del codice civile la trascrizione della
domanda, in ipotesi in cui la domanda venga rigettata, può essere chiesta soltanto
a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di rigetto e questa vi ho detto è
una disciplina che è in contrasto con quella del procedimento cautelare generale
perché l’art.669-novies dice che anche la sentenza di primo grado di rigetto della
domanda determina l’inefficacia della misura cautelare. Ora, la trascrizione di una
domanda giudiziale può essere fonte di un grosso pregiudizio per chi la subisce ed
è per questo motivo che gli avvocati spesso chiedono, attraverso l’art.770, quindi
in via d’urgenza, un provvedimento anticipatorio che ordini la cancellazione della
trascrizione della domanda giudiziale. Questa è una questione aperta e molto
problematica. Una questione analoga si pone con riferimento all’iscrizione
dell’ipoteca giudiziale perché la disciplina dettata nell’art.2884 ricalca quella della
trascrizione della domanda giudiziale.
Torniamo al testo dell’art.700. C’è un riferimento al tempo occorrente per far valere
il diritto in via ordinaria ed è pacifico che qui si faccia riferimento al processo a
cognizione piena ma è indifferente la questione relativa al SE questo processo si
svolga nelle forme del rito ordinario oppure nelle forme del rito lavoro. Il riferimento
è a tutti i processi a cognizione piena a prescindere dal rito a cui sono soggetti.
121
Vorrei adesso soffermarmi sulla espressione “diritto” che troviamo richiamata
nell’art.700. Il termine “diritto” lo dobbiamo interpretare in senso ampio come
comprensivo non soltanto delle situazioni di diritto soggettivo ma di qualsiasi
situazione giuridicamente rilevante. Infatti se nella sua origine storica la
circostanza che l’art.700 escludesse l’interesse legittimo poteva avere un
significato adesso non lo ha più. Non lo ha più alla luce di tutto quanto ci siamo
detti parlando della vicenda che aveva preceduto la sentenza della Corte
Costituzionale 190/1985. A seguito della dichiarazione della sentenza della Corte
che ha innestato l’art.700 nel processo amministrativo abbiamo già ricordato che
la legge 205/2000 aveva modificato l’art.21 della legge istitutiva del TAR, la legge
1034/1971, estendendo al processo amministrativo l’art.700. Oggi l’art.55 del
codice del processo amministrativo ha disegnato il sistema cautelare del processo
amministrativo sulla falsariga dell’art.700, quindi ha creato un sistema basato su
un’unica misura atipica che è stata disegnata proprio sul testo dell’art.700.
126
Lezione 8 - 01/04/20
Oggi vorrei analizzare le regole di svolgimento del procedimento cautelare
generale. Vi ricordate che la disciplina del procedimento cautelare generale è
contenuta negli articoli da 669 bis fino a 669 quaterdecies. Anche la numerazione
ci dice che queste norme sono il frutto di un intervento del legislatore che ha
utilizzato la tecnica della novellazione, inserendo nel codice di procedura civile
questa numerazione. Gli articoli richiamati vanno a formare la sezione prima del
capo terzo del titolo primo del quarto libro, dedicato ai procedimenti sommari.
Vedete che il capo terzo reca il titolo "Dei procedimenti cautelari". La sezione
prima precede la sezione seconda, terza, quarta e quinta in cui è prevista la
disciplina delle singole misure cautelari. È previsto il sequestro giudiziario, il
sequestro conservativo, la denuncia di nuova opera e di danno temuto, il
provvedimento di istruzione preventiva e i provvedimenti d'urgenza. IL
procedimento cautelare generale è stato inserito con la legge di riforma del 1990.
È stato un intervento molto opportuno, che ha razionalizzato il sistema. Infatti fino
a quel momento con riferimento alle singole misure cautelari, il legislatore aveva
dettato dei micro-procedimenti. Questi micro-procedimenti erano estremamente
lacunosi e questo aveva obbligato gli operatori pratici a inventarsi le regole di
svolgimento di questi procedimenti. Questa situazione di incertezza era molto
rischiosa vista l'incidenza che le misure cautelari hanno sulla realtà sostanziale.
Quindi l'intervento del 1990 su questo punto è stato salutato con enorme favore.
La disciplina che andiamo ad analizzare si applica a tutte le misure cautelari, non
solo a quelle disciplinate nelle sezioni successive di questo capo terzo, ma anche
a quelle previste in altre parti del codice di procedura civile e in leggi speciali.
Questo procedimento cautelare generale contiene la disciplina di tutto quanto il
processo a partire dalla forma di presentazione della domanda, alle regole di
svolgimento del procedimento, all'impugnazione del provvedimento, all'attuazione
del provvedimento e via dicendo. Cominciamo dall'analisi delle regole relative alla
competenza che ritroviamo negli articoli 669ter-669 quater-669 quinquies. Queste
disposizioni contengono una scelta molto precisa ovvero quella di attribuire la
competenza cautelare allo stesso giudice che è competente sul merito. In questo
senso queste norme esprimono con il massimo della chiarezza una delle
caratteristiche strutturali delle misure cautelari ovvero la strumentalità. La
strumentalità è il legame che intercorre tra la misura cautelare e il processo a
cognizione piena avente ad oggetto il diritto a cautela del quale la misura viene
rilasciata. Nel dettare queste regole l'articolo 669 ter si occupa della competenza
in ipotesi in cui la misura cautelare viene chiesta ante causam. L'articolo 669
quater si occupa della competenza nelle ipotesi in cui la misura cautelare viene
richiesta lite pendente, quando è già in corso il processo a cognizione piena.
Mentre l'articolo 669 quinquies si occupa della competenza cautelare in ipotesi in
cui la controversia sia devoluta agli arbitri. Infatti si fa riferimento ai casi di
"clausola compromissoria, compromesso o pendenza del giudizio arbitrale". In
queste disposizioni troviamo una disciplina che presenta alcune peculiarità.
Innanzitutto la scelta generale è quella di far coincidere il giudice della cautela con
127
il giudice del merito. Ma c'è un grossissimo limite, perché il legislatore ha escluso il
giudice di pace. Quindi il giudice di pace non ha competenza al rilascio delle
misure cautelari. Vedremo infatti che sia nell'art 669 ter sia nell'art 669 quater è
scritto che " se competente per la causa di merito è il giudice di pace, la domanda
si propone al tribunale". Come si spiega questa esclusione? Questa esclusione è
frutto della legge istitutiva del giudice di pace (L 374/ 1991). Inizialmente questa
scelta trovava giustificazione in una sorta di sfiducia che il legislatore nutriva nei
confronti di questo nuovo giudice, un giudice onorario, un giudice meno preparato
di un giudice togato. Oggi questa stessa scelta risulta molto meno comprensiva,
questo perché il giudice di pace si è visto attribuire nel corso degli anni una
competenza anche in materia penale. Il fatto che un giudice che ha una
competenza penale, non sia ritenuto adatto al rilascio di misure cautelari civili, è
questione su cui si può discutere. Inoltre, nonostante nel 2017 con il d lgs 116 di
riforma della magistratura ordinaria, il legislatore abbia pensato di ampliare a
dismisura la competenza civile del giudice di pace, ma non ha pensato di
attribuirgli la competenza cautelare, è un profilo su cui probabilmente
occorrerebbe tornare a riflettere.
L'articolo 669 ter prevede che "prima dell'inizio della causa di merito la domanda
si propone al giudice competente a conoscere del merito." Il secondo comma "se
competente per la causa di merito è il giudice di pace, la domanda si propone al
tribunale." Il terzo comma si preoccupa del caso in cui il giudice italiano non è
competente a conoscere la causa di merito. Allora in questo caso si dice che " la
domanda si propone al giudice, che sarebbe competente per materia o valore, del
luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare."
L'articolo 669 quater prevede che "Quando vi è causa pendente per il merito la
domanda deve essere proposta al giudice della stessa. Se la causa pende davanti
al tribunale la domanda si propone all'istruttore oppure, se questi non è ancora
designato o il giudizio è sospeso o interrotto, al presidente, il quale provvede ai
sensi dell'ultimo comma dell'articolo 669ter." Al terzo comma si dice che "se la
causa pende davanti al giudice di pace, la domanda si propone al tribunale."
SECONDA PARTE
135
termine fissato per esperire reclamo, e poi la parte interessata esperisce reclamo,
oppure se il fatto sopravvenuto viene ad esistenza in pendenza del giudizio di
reclamo, deve essere portato di fronte al giudice del reclamo, e quindi il fatto
sopravvenuto non potrà essere posto a fondamento di un'istanza di revoca e di
modifica.
Anche qua però il legislatore precisa "esaurita la eventuale fase del reclamo"
proposta ai sensi dell’art 669 terdecies, il che vuol dire che, se questi fatti
sopravvenuti vengono ad esistenza in pendenza del termine per proporre reclamo
e poi viene aperto reclamo, oppure in pendenza del giudizio di reclamo, debbono
essere fatti valere di fronte al giudice del reclamo.
Naturalmente il termine “fatto” deve essere interpretato nel senso più ampio
possibile, con riferimento cioè a tutti i fatti giuridicamente rilevanti, ma anche alle
prove utilizzate per fondare il convincimento del giudice in ordine all'esistenza dei
fatti giuridicamente rilevanti.
La norma successiva, l’art 669 undecies, prevede l'istituto della CAUZIONE: “con
il provvedimento di accoglimento o di conferma, ovvero con il provvedimento di
modifica, il giudice può imporre all'istante, valutata ogni circostanza, una cauzione
per l'eventuale risarcimento dei danni”.
Vi avevo già avvisato in ordine alla circostanza che il legislatore del 1990 aveva
generalizzato l'istituto della cauzione, previsto originariamente solo negli artt 1171
e 1172, in tema di denuncia di nuova opera o denuncia di danno temuto.
136
istituto. Vedete che si fa riferimento al provvedimento di accoglimento o conferma,
quindi il termine “provvedimento” è diverso dal termine “ordinanza”,
probabilmente questa espressione può essere interpretata nel senso che il giudice
può imporre la cauzione anche con il decreto emanato inaudita altera parte in base
al secondo comma dell’art 669 sexies.
Vi ricordo che questo istituto è un istituto che in tanto può funzionare in quanto la
parte a cui la creazione è imposta sia una parte abbiente, quindi abbia il denaro da
depositare; laddove non ce l'abbia è opportuno che il giudice non imponga la
cauzione: vi ricordo che la tutela cautelare è una componente doverosa e
costituzionalmente laddove è diretta ad evitare un pregiudizio irreparabile, e nella
parte in cui è uno strumento costituzionalmente doveroso non si può, non è
accettabile che alla parte sia negato il provvedimento che ha richiesto per evitare
un pregiudizio irreparabile solo perché non ha i denari da depositare a titolo di
cauzione.
Andiamo avanti, l’art 669 duodecies si occupa della ATTUAZIONE delle misure
cautelari, anche questa è una norma che ha razionalizzato l'ordinamento, dettando
delle regole uniformi: come vedete, se mi seguite sul testo, la norma apre
affermando che “i sequestri si applicano secondo quanto disposto negli artt 677 e
ss.”, quindi il legislatore ha fatto salve le regole già dettate secondo cui il
sequestro giudiziario si attua nelle forme dell'esecuzione forzata in forma specifica
per obbligo di consegna o di rilascio, stante il rinvio agli artt 605 e ss cpc, mentre il
sequestro conservativo si attua nelle forme del pignoramento, quindi se ha ad
oggetto dei beni mobili si attua attraverso lo spossessamento, se ha ad oggetto
dei beni immobili si attua attraverso la trascrizione. Fermo questo, la norma
stabilisce che l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto somme di
denaro avviene nelle forme degli artt 491 e ss in quanto compatibili —> qui c'è un
richiamo alle disposizioni relative al procedimento di espropriazione forzata, che è
il processo esecutivo che l'ordinamento predispone per dare attuazione ai diritti di
credito aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro.
Poi prosegue affermando che “l’attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto
obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare, avviene sotto il controllo del giudice
che ha emanato il provvedimento cautelare, il quale ne determina anche le
modalità di attuazione, e ove sorgano difficoltà o contestazioni da con ordinanza i
provvedimenti opportuni sentite le parti. Ogni altra questione va proposta nel
137
giudizio di merito”. Allora con riferimento a queste altre ipotesi, quindi per quanto
riguarda le misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o
non fare, la tua azione avverrà sotto la direzione del giudice della cautela, quindi lo
stesso giudice che ha emanato il provvedimento, giudice che è chiamato a
determinare le modalità di attuazione. Questa è una previsione molto opportuna,
che evita tutta una serie di complicazioni che invece si verificano in ipotesi in cui si
tratta di dare esecuzione a sentenze di condanna, in particolare sentenze di
condanna ad obbligazioni di fare o non fare, perché in queste ipotesi il giudice
dell'esecuzione, il giudice che sovrintende il procedimento di esecuzione forzata in
forma specifica per obblighi di fare o non fare, è un giudice necessariamente
diverso dal giudice della cognizione, e succede che, nel dettare le modalità di
esecuzione, perché anche in quelle norme troviamo un'espressione analoga a
quella utilizzata nell’art 669 duodecies, spesso e volentieri questo giudice
dell'esecuzione va al di là dei suoi limiti, cioè non si limita a dare delle disposizioni
che disciplinano le modalità di esecuzione, ma il suo provvedimento è più incisivo,
cioè va a determinare il contenuto della obbligazione. Quindi in giurisprudenza
queste situazioni hanno creato degli enormi problemi, perché si è ritenuto che
questo provvedimento del giudice dell’esecuzione, (il giudice dell'esecuzione
emana provvedimenti in forma di ordinanza), in verità, andando al di là della
competenza del giudice dell'esecuzione, era un provvedimento decisorio, cioè un
provvedimento non esecutivo, ma avente un contenuto di sentenza, e per questo
motivo la giurisprudenza ha affermato che la parte interessata per far valere le
proprie contestazioni doveva valersi non del rimedio ordinario contro le ordinanze
del giudice dell'esecuzione, che è uno strumento che prende il nome di
opposizione agli atti esecutivi (art 617 cpc), ma dovesse esperire appello.
Capite che, nell'ambito del procedimento cautelare, nel momento in cui l’art 669
duodecies ha affidato allo stesso giudice della cautela la competenza a
determinare le modalità di attuazione dell'ordinanza stessa, questi problemi non si
pongono, e quindi è una scelta molto felice che certamente eviterà complicazioni
che altrove si sono invece verificate.
Passiamo adesso ad analizzare l’art 669 terdecies, che si occupa del RECLAMO
contro i provvedimenti cautelari. Questo istituto è un'autentica novità introdotta dal
legislatore del 1990, prima infatti della legge di riforma del 90 non esisteva un
sistema di controllo delle misure cautelari, un sistema generale, c'è una lacuna
molto grave, perché anche sul piano storico tutti gli ordinamenti che hanno
138
raggiunto un certo grado di evoluzione, hanno sempre previsto un mezzo di
impugnazione contro i provvedimenti del giudice. Il mezzo di impugnazione è
infatti sempre stato inteso come un'espressione del diritto di difesa.
Per quanto riguarda i MOTIVI su cui può essere basato il reclamo, diciamo che il
reclamo è un vero e proprio mezzo di impugnazione, quindi sicuramente attraverso
il reclamo possono essere denunciati errores in procedendo, quindi la violazione
delle norme processuali, qualunque norma processuale, sia quelle generali in tema
di legittimazione ad agire, in tema di giurisdizione, sia quelle dettate in riferimento
specifico alle misure cautelari, quindi la violazione degli artt 669 ter, quater e
quinquies in ordine alla competenza per esempio, oppure si può contestare che il
giudice non ha attivato in maniera adeguata il contraddittorio delle parti così come
imposto dall’art 669 sexies.
Inoltre è sicuramente possibile, come vi dicevo prima, far valere fatti sopravvenuti,
fatti o prove sopravvenute —> questo lo si desume dall'ultimo comma dell’art 669
terdecies: quest'ultimo comma si occupa della sospensione dell'esecuzione del
provvedimento impugnato, dell'inibitoria che si chiede al giudice del reclamo come
giudice dell'impugnazione, e vedete la norma parla espressamente di motivi
sopravvenuti; naturalmente se i motivi sopravvenuti possono essere utilizzati per
fondare la richiesta di inibitoria, potranno essere spesi anche a fondamento del
reclamo. Ed è qui che si verifica la sovrapposizione fra reclamo e l'istanza di
revoca e di modifica.
Per quanto riguarda il procedimento, vedete che il terzo comma della disposizione
richiama espressamente gli artt 737 e 738 cpc: è il procedimento in camera di
consiglio. Il comma successivo prevede che “le circostanze e i motivi sopraggiunti
al momento della proposizione del reclamo debbono essere proposti nel rispetto
del principio del contraddittorio e nel relativo procedimento”, e poi nella seconda
parte, “il tribunale può sempre assumere informazioni e acquisire nuovi documenti;
non è consentita la rimessione al primo giudice”.
140
Il comma ancora successivo prevede che “il collegio, convocate le parti, pronuncia
,non oltre 20 giorni dal deposito del ricorso, ordinanza non impugnabile con la
quale conferma, modifica o revoca il provvedimento cautelare”.
Allora: il procedimento diciamo viene avviato con RICORSO, tanto si desume dal
richiamo alle disposizioni relative al procedimento in camera di consiglio. Il ricorso
viene depositato in cancelleria, ed è da questa data che si contano, che si verifica
il rispetto del termine previsto dal codice per la proposizione del reclamo stesso.
Per quanto riguarda l'attivazione del contraddittorio sicuramente si applicano le
stesse norme che si sono richiamate con riferimento al primo grado cautelare,
quindi potranno essere utilizzati degli strumenti più snelli rispetto alla notificazione,
anche se naturalmente la notificazione stessa può essere utilizzata.
Nel momento in cui è stato aperto il reclamo anche contro l'ordinanza di rigetto, si
è aperta poi la questione relativa a che cosa debba fare il giudice del reclamo
nell'ipotesi in cui ribalti la pronuncia del giudice di primo grado, e quindi ritenga
contrariamente al giudice di primo grado, che sussistono i presupposti per il
rilascio della misura richiesta; secondo taluni doveva essere lo stesso giudice del
reclamo a rilasciare la misura richiesta, secondo altri il giudice del reclamo avrebbe
dovuto rimettere la causa, il procedimento, di fronte al giudice del primo grado
cautelare —> su questo punto per fortuna è intervenuto il legislatore, che con la
riforma del 2005 ha aggiunto in coda al quarto comma che "non è consentita la
rimessione al primo giudice", e quindi ha eliminato il dibattito.
La circostanza che l'ordinanza venga emessa per la prima volta dal giudice del
reclamo a però una conseguenza, cioè non sarà possibile esperire reclamo contro
quest'ordinanza; l'unico rimedio sarà l'istanza di revoca e modifica, in base all’art
669 decies, e naturalmente l'apertura del processo a cognizione piena.
141
L'ultimo comma della disposizione si occupa della INIBITORIA: abbiamo che le
ordinanze cautelari sono esecutive ex lege, quindi vengono attuate
immediatamente. In base all'ultimo comma della disposizione, il reclamo non
sospende l'esecuzione del provvedimento, ma il presidente del tribunale o della
corte investiti del reclamo, quando per motivi sopravvenuti il provvedimento
arrechi grave danno, può disporre con ordinanza non impugnabile la sospensione
dell'esecuzione o subordinarla alla prestazione di congrua cauzione.
È un rimedio che però deve essere distinto dei mezzi di impugnazione ordinari:
questo perché i mezzi di impugnazione ordinari, che ancora non abbiamo
esaminato, si correlano al meccanismo di passaggio in giudicato della sentenza;
invece il reclamo sappiamo che viene esperito contro provvedimenti che per
definizione sono privi di attitudine ad acquistare l’autorità di cosa giudicata, per cui
la circostanza che il reclamo non venga esperito, non determina l'immutabilità del
provvedimento anteriore, ne naturalmente impedisce la possibilità di far valere dei
fatti sopravvenuti di fronte al giudice di istanza di revoca e modifica oppure di
fronte al giudice del processo a cognizione piena.
Sul piano funzionale il reclamo cautelare è, come vi dicevo, uno strumento diretto
a dare attuazione al diritto di difesa delle parti, perché consente di chiedere a un
giudice diverso da quello che si è pronunciato nel primo grado cautelare un
controllo sul provvedimento, quindi svolge una funzione di garanzia soggettiva.
Alcuni ritengono che si tratti di un istituto che dovrebbe essere generalizzato, e
quindi ritengono che il reclamo dovrebbe essere esperito contro tutti i
provvedimenti sommari, anche se si tratta di provvedimenti che non si prestano ad
essere ricondotti nella definizione di “misura cautelare”.
142
Lezione 9 - 02/04/20
C o n c l u d i a m o l ' a n a l i s i d e l p r o c e d i m e n t o c a u t e l a r e g e n e r a l e
soffermandoci sull’articolo 669 quaterdecies che si occupa dell’ambito di
applicazione del procedimento stesso.
c. e ai provvedimenti urgenti
Io vi ho già detto che con riferimento alle singole misure cautelari previste nel
codice civile ma soprattutto nelle leggi speciali spesso il legislatore ha dettato
delle norme di tipo processuale quindi noi troviamo la previsione di micro
procedimenti aventi ad oggetto provvedimenti cautelari allora si ritiene secondo
quella che è l'interpretazione è preferibile che questa disciplina debba prevalere su
queste disposizioni speciali e che quindi queste norme rappresentano una
deroga ad un principio generale del nostro ordinamento cioè al principio che
troviamo esposto nel famoso detto secondo
cui “lex posterior generalis non derogat priori specialis”.
Quindi la legge generale sopravvenuta non deroga alle disposizioni speciali dettate
antecedentemente, invece si deve ritenere quindi che su questi micro-
procedimenti previsti dal legislatore (con riferimento alle singole misure
cautelari) prevalga la disciplina generale.
143
o di provvedimento cautelare utilizzata da questa disposizione
Allora ciò che connota i provvedimenti cautelari non è la funzione che questi
assolvono ma è la struttura perché i provvedimenti cautelari si caratterizzano in
virtù di due qualità:
mentre se l’ulteriore fase non prende avvio oppure prende avvio ma poi si
estingue questi provvedimenti sono destinati a consolidarsi e quindi a
diventare immutabili o comunque ad acquistare una efficacia che per molti
versi richiama un'efficacia che è sul piano qualitativo diciamo può essere
assimilata a quella dell’autorità della cosa giudicata.
Fatte queste esclusioni, quindi, fatto questi chiarimenti, tracciate queste grosse
linee di confine è l'operatore (che a fronte di un provvedimento sommario previsto
nel codice civile o in leggi speciali) deve svolgere un'analisi strutturale cioè deve
andare a verificare se si tratta di un provvedimento provvisorio e strumentale e
allora sulla base dell’esito di questa valutazione potrà ritenere che si tratti
effettivamente di una misura cautelare o meno.
E allora tanto per fare degli esempi si ritiene pacificamente che sono soggetti alla
disciplina generale
145
• il provvedimento in tema di assegno provvisorio degli alimenti di cui di cui
all'articolo 446 del codice civile
• u g u a l m e n t e e p a c i fi c o c h e s i a n o s o g g e t t i a q u e s t a
disciplina generale, le misure cautelari previste dal codice della proprietà
industriale cioè il decreto legislativo 30 del 2005 e in particolare faccio
riferimento agli articoli 128 e ss in tema di sequestro ed inibitorie
è una misura particolare che deve essere richiesta su istanza congiunta del
lavoratore e del sindacato a cui aderisce.
l'entrata in vigore della legge di riforma del 1990 non è riuscita a sopire il grosso
dibattito che da sempre si agita attorno alla individuazione della esatta disciplina
dei procedimenti possessori, infatti, fu avete visto prima che il testo dell'articolo
669 quaterdecies non nomina i procedimenti possessori.
Infatti, è l'articolo 703 che è la prima norma del capo IV del quarto libro
del cpc, capo IV dedicato proprio ai procedimenti possessori ad affermare che le
domande di reintegrazione e di manutenzione del possesso si propongono
con ricorso al giudice competente a norma dell'articolo 21 e poi al secondo
comma il giudice provvede ai sensi degli articoli 669 bis e seguenti in quanto
compatibili.
Ed infatti, sotto l’egida della riforma del 1990 sono state riproposte le stesse
identiche tesi che già erano state avanzate nel vigore della disciplina previgente.
Quindi:
148
3. la prima fase a cognizione sommaria si svolge nelle modalità di cui
all'articolo 669 sexies.
Quindi si applica l'articolo 669 bis circa l’atto introduttivo, si applica l'articolo
669 ter, l'articolo 669 sexies e per il provvedimento di rigetto si applica l'articolo
669 septies.
149
In mezzo al dibattito, che naturalmente ha creato notevoli incertezze, ad un certo
punto sono intervenute anche le sezioni unite della Corte di Cassazione con la
sentenza 24 Febbraio 1998 numero 1984 la Corte di Cassazione ha
dato conferma alla ricostruzione tradizionale affermando che il procedimento
possessorio è un procedimento che è retto da unico atto introduttivo che passa
attraverso una prima fase a carattere sommario e che prosegue senza soluzione di
continuità in una seconda fase che invece si svolge nelle forme della cognizione
piena laddove la prima fase quella cognizione sommaria si chiude con un
provvedimento alla forma dell'ordinanza che deve contenere la fissazione della
data della prima udienza di cui all'articolo 183
A seguito di questo intervento, che però non è riuscito a stupire del tutto il dibattito
che si è aperto, è intervenuto di nuovo il legislatore nel 2005.
Da una parte ha cancellato la regola non scritta ma avallata dal precedente
intervento delle sezioni unite secondo cui chiusa la fase a cognizione sommaria
si apre immediatamente la fase a condizione piena perché l'ordinanza di
accoglimento che chiude la fase sommaria deve contenere la data della udienza di
cui all'articolo 183 ma dall'altra ha previsto che se una delle parti lo richiede entro
il termine perentorio di 60 giorni allora il procedimento prosegue e il giudice fissa
dinanzi a se l'udienza per la prosecuzione del giudizio di merito.
Ora questo intervento è un intervento che da una parte, si può dire, ha risolto i
problemi pratici ma è un intervento che non porta un chiarimento circa la natura di
questo procedimento perché per un verso ha cancellato l’obbligo di apertura
della fase a cognizione piena quindi ha diciamo, senz'altro, contraddetto quanto
affermato dalle sezioni unite del 1998 quindi si potrebbe dire che, cancellando
l'obbligo di persecuzione nelle forme della cognizione, il legislatore ha diciamo
aperto alla tesi di chi ritiene che il procedimento possessorio si
chiude con l’ordinanza emanata conclusione della fase sommaria.
Direi che con questo possiamo ritenere conclusa l'analisi dei procedimenti speciali
e quindi come già preannunciato andiamo adesso ad aprire un nuovo tema del
nostro corso di procedura civile ed andiamo a parlare dei:
PROCESSI ESECUTIVI
Ricordate che ci è capitato più volte di richiamare l'attenzione sul fatto che non si
parla di processo esecutivo ma di processi esecutivi perché in effetti il nostro
legislatore ha predisposto diversi processi volti a dare attuazione a diritti aventi un
contenuto diverso.
Il terzo libro e si apre con l'articolo 474 in tema di titolo esecutivo e si chiude
con l'articolo 632 che è inserito in una serie di disposizioni dedicate
alla estinzione del processo esecutivo.
o in parte cognitivo
o in parte esecutivo
il giudice, dopo avere accertato l'esistenza del diritto, lo attua e lo può attuare
nella sentenza di merito perché si tratta di un contenuto particolare. E’ un diritto
che ha un contenuto particolare consistente nel rilascio di una dichiarazione di
volontà.
In tutti i processi esecutivi si ha che il titolare del diritto può ottenere le attività che
gli sono assicurate dalla legge sostanziale attraverso l'attività surrogatoria di
un soggetto terzo che si sostituisce all’obbligato.
Questo soggetto terzo e lo Stato è, lo stato che attribuisce all’avente diritto, al
creditore i beni e le utilità che gli sono assicurate dalla legge sostanziale.
152
a. il processo di espropriazione forzata teso a dare attuazione al diritto al
pagamento di una somma di denaro
Andiamo adesso ad analizzare l'articolo 474 che contiene la disciplina del titolo
esecutivo.
Che cos'è un titolo esecutivo? Il titolo esecutivo e’ uno dei provvedimenti o degli
atti tassativamente indicati nell'articolo 474 che offre un certo grado di certezza in
ordine al diritto di cui il creditore vuole ottenere il soddisfacimento.
Il primo comma dell'articolo 474 prevede infatti che l'esecuzione forzata non può
avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed
esigibile. Lasciamo stare la nozione di certezza che sarà chiarita esaminando il c.2
e soffermiamoci per un istante, sulla nozione di liquidità ed esigibilità. Un credito è
liquido quando è determinato nel suo ammontare mentre è esigibile quando non è
soggetto né a termini né a condizioni oppure il termine è scaduto o la condizione si
è avverata.
Quanto alla certezza sono i titoli, quindi i provvedimenti e gli atti indicati nei numeri
1 2 e 3 del secondo comma dell'articolo 474, che sono ritenuti dal legislatore
idonei ad offrire un grado di certezza in ordine all’esistenza del diritto di credito di
cui si vuole ottenere il soddisfacimento, sufficiente a mettere in moto il processo
esecutivo.
In verità noi passando in esame queste disposizioni, avremo modo di vedere che
si tratta di una categoria estremamente eterogenea. Nel senso che questi
provvedimenti e questi atti offrono un grado di certezza in ordine all’esistenza del
diritto di credito molto diversa. Questa diversità però non rileva circa la idoneità di
tutti i provvedimenti e gli atti indicati a mettere in moto il processo esecutivo ma
rileva sotto un altro profilo. Perché, noi vedremo che come prende avvio il
153
processo esecutivo, al debitore e’ subito offerta la possibilità di utilizzare un
rimedio che prende il nome di opposizione al precetto o opposizione
all'esecuzione (la differenza è solo cronologica) al fine di contestare il diritto del
creditore di procedere in via esecutiva. Allora il diverso grado di certezza che
questi provvedimenti e questi atti offrono in ordine all'esistenza del diritto di
credito, rilevano perché a seconda che offrono un grado di certezza più o meno
elevato, al debitore sarà concesso un margine di difesa più ristretto oppure meno
ristretto.
Passiamo ad esaminare l’elencazione che troviamo nell articolo 474 il numero uno
come vedete, richiama: le sentenze, i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge
attribuisce espressamente efficacia esecutiva. E’ pacifico che quel termine
sentenza si riferisca alle sole sentenze di condanna. Quindi sono escluse le
sentenza di mero accertamento e le sentenze costitutive. In particolare vi ricordo
che in base al disposto dell’art 282 c.p.c. le sentenze di condanna nascono
provvisoriamente esecutiva ex lege anche le sentenze di primo grado.
Accanto alle sentenze di condanna c'è un richiamo agli altri provvedimenti a cui la
legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva. Qui dobbiamo tornare a
riprendere tutti quegli esempi di provvedimenti aventi forma diversa dalla sentenza
emanati nel corso del processo a cognizione piena o a termine di procedimenti
speciali a cui la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva. Quindi
possiamo pensare all'ordinanza di pagamento delle somme non contestate (art
186 bis); all’ordinanza di ingiunzione (art 186 ter); al decreto ingiuntivo dichiarato
provvisoriamente esecutivo ai sensi degli artt. 642 o 648 oppure divenuto
esecutivo in base agli articoli 647 e 653; l'ordinanza di convalida dello sfratto (art
663); l'ordinanza immediata di rilascio (art 665); e via dicendo. Naturalmente il
riferimento e’ anche ad altri provvedimenti non disciplinati nel codice di procedura
civile. pensate al decreto emanato nel procedimento relativo al concorso relativo al
mantenimento dei figli (articolo 316 bis c.c.); pensate al decreto di repressione
della condotta antisindacale (art 28 dello Statuto dei lavori), e via dicendo.
Per quanto riguarda invece gli altri atti a cui la legge attribuisce efficacia esecutiva,
si pensi il primo luogo alle ipotesi in cui le parti riescono a conciliarsi nel corso del
processo, l'articolo 185 prevede che il giudice redige processo verbale dell'
avvenuta conciliazione che costituisce titolo esecutivo, una disposizione analoga
la ritroviamo anche in altre ipotesi.
154
Ogni processo esecutivo prende avvio con una fase cosiddetta preliminare. La
FASE PRELIMINARE consiste, si apre nel momento in cui il creditore notifica al
debitore il titolo esecutivo e il precetto. L’articolo 479 del codice di procedura
prevede infatti che se la legge non dispone altrimenti l'esecuzione forzata deve
essere preceduta dalla notificazione del titolo in forma esecutiva e del precetto.
Torniamo all’articolo 479: il creditore procede alla notifica del titolo esecutivo e del
precetto alla parte personalmente a norma degli articoli 137 e seguenti.
Qual è la funzione di questa fase preliminare e di questo atto che viene notificato
al debitore?
Si dice che questo atto svolge una funzione duplice, nel senso che: in primo luogo,
nel precetto, il creditore (torniamo all’art 480) intima al debitore di adempiere
l'obbligo risultante dal titolo esecutivo entro un termine non minore di 10 giorni.
Quindi è una provocatio ad adimplendum, cioè si avvisa il debitore che si
procederà esecutivamente invitandolo ad adempiere spontaneamente perché
subire una esecuzione forzata (come avremo modo di vedere successivamente)
non è affatto simpatico.
L’articolo 615 primo comma prevede che l'opposizione al precetto si propone con
atto di citazione davanti al giudice competente per materia o valore e per territorio
a norma dell'articolo 27. Mentre invece con riferimento all’opposizione
all'esecuzione l’art 615 secondo comma prevede che l'opposizione all'esecuzione
si propone con ricorso di fronte al giudice dell'esecuzione (che il giudice che
sovrintende il processo esecutivo). Ma poi il successivo articolo 616, stabilisce
che: se competente per la causa è l'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice
delle esecuzioni, allora questi fissa un termine perentorio per l'introduzione del
giudizio di merito secondo le modalità previste in ragione della materia, o del rito
previa iscrizione della causa al ruolo a cura della parte interessata osservati i
termini a comparire di cui all'articolo 163-bis. Altrimenti, ultima parte, rimette la
causa dinanzi all'ufficio giudiziario competente assegnando un termine perentorio
per la riassunzione della causa.
156
provvedimento non viene richiesto e comunque viene richiesto ma non concesso,
il giudizio di opposizione va avanti autonomamente.
Ce lo dice il primo comma dell'art 615: è il diritto della parte istante a procedere ad
esecuzione forzata, quindi attraverso questo rimedio il debitore esercita una tipica
azione di accertamento negativo chiedendo al giudice di accertare la non
esistenza del diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata. Quindi ha un
oggetto di marca processuale.
157
sentenza di condanna di primo grado). Naturalmente essendo esecutiva il
creditore è legittimato a mettere in moto il processo esecutivo, anche se nel
frattempo il debitore propone appello. L’appello non ha effetto sospensivo, quindi
non determina la sospensione dell'esecutività o dell’esecuzione ma quello che il
debitore appellante può fare è rivolgersi al giudice dell'impugnazione e chiedere un
provvedimento di inibitoria, quindi la sospensione della esecutività o
dell’esecuzione, in base ad esempio all’art 351 e questo è previsto con riferimento
a tutti i giudizi di impugnazione, abbiamo visto, per fare un altro esempio, che
anche nell’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo il debitore può
chiedere ai sensi dell'articolo 649, la sospensione dell’esecuzione avviata sulla
base del decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente esecutiva ai sensi
dell'articolo 642 del Codice di Procedura Civile; oppure il debitore può contestare
che la sentenza sulla cui base il creditore ha agito è stata riformata, quindi è stato
fatto appello e il giudice dell'appello l'ha annullata, quindi anche questa e’
sicuramente un motivo che può essere validamente posto a fondamento di un
opposizione al precetto o opposizione all'esecuzione.
Vi sono poi i motivi di merito. I motivi di merito attengono alla esistenza del diritto
di credito, del diritto sostanziale di cui il creditore vuole ottenere il soddisfacimento
pratico. Quindi, che cosa farà valere in questa ipotesi il debitore? Contestare
l'esistenza dei fatti costitutivi del diritto di credito o farà valere l’esistenza di fatti
modificativi, estintivi impeditivi. E’ qui che assume rilevanza la diversità dei
provvedimenti e degli atti a cui l'articolo 474 attribuisce efficacia esecutiva. Vi ho
detto prima tutti questi atti sono ugualmente idonei a mettere in moto il processo
esecutivo ma dal momento in cui offrono un grado di certezza in ordine
all'esistenza del diritto sostanziale, diverso. Diverso e’ il margine di difesa che avrà
il debitore in sede di opposizione e quindi in questa sede occorre effettuare una
serie di distinzioni.
> Supponiamo che il creditore abbia agito sulla base di una sentenza passata in
giudicato, ora noi sappiamo che la caratteristica fondamentale del giudicato è la
sua stabilità e che il meccanismo che regge la sua stabilità è la preclusione da
dedotto e deducibile. Quindi appare chiaro che questo e’ l’ipotesi in cui il margine
di difesa del debitore esecutato sara sicuramente piu ristretta. Quali sono gli unici
fatti che potranno essere spesi contro un giudicato? Sono i fatti non coperti dalla
preclusione da dedotto e deducibile e quindi saranno soltanto i fatti che sono
venuti ad esistenza in un momento successivo al giudicato o meglio al referente
temporale del giudicato.
> Supponiamo invece il creditore abbia agito sulla base di una sentenza di primo
grado, quindi una sentenza ancora non passata in giudicato (es: sentenza
d’appello), quindi ancora suscettibile di essere impugnata attraverso i mezzi di
impugnazione ordinari. E’ possibile per il debitore aprire il giudizio di opposizione
al precetto o opposizione all'esecuzione? Qui bisogna fare attenzione perché noi
abbiamo detto che il giudizio, il processo di cognizione segue il suo corso
normale, senza che questo possa avere delle influenze sul processo esecutivo e
naturalmente è vero anche il contrario, cioè non può essere il processo esecutivo
158
ad influenzare il processo di cognizione. Quindi la parte soccombente nel
processo di cognizione potrà legittimamente impugnare la sentenza proponendo
appello o proponendo ricorso per cassazione e abbiamo già ricordato che la parte
appellante potrà rivolgersi al giudice dell'impugnazione per chiedere il
provvedimento inibitorio di sospensione. Se questo e’ vero allora si spiega il
principio di non permeabilità fra motivi di impugnazione e motivi di opposizione, se
il provvedimento è suscettibile di essere impugnato attraverso un mezzo di
impugnazione ordinario, il debitore dovrà muovere tutte le proprie contestazioni di
fronte al giudice dell'impugnazione, non potendo invece aprire il giudizio di
opposizione.
> Vi e’ poi il caso particolare previsto nel secondo comma dell'articolo 615 del
codice di procedura civile in cui attraverso l'opposizione all'esecuzione, si
contesta il modo in cui si è svolta l'esecuzione. Questo è un motivo che può
essere fatto valere solo attraverso opposizione all'esecuzione perché presuppone
che l'esecuzione sia già aperto. In questa ipotesi quello che il debitore può
contestare e’ una violazione dei limiti legali circa la pignorabilità dei beni (che
andremo ad esaminare successivamente).
Nelle ipotesi in cui Il debitore esecutato pone a fondamento della sua posizione al
precetto o opposizione all’esecuzione dei motivi di merito, l'oggetto originario del
processo rimane il diritto di marca processuale del creditore di agire in via
esecutiva. Tuttavia il giudice competente si troverà a dover accertare anche
l'esistenza, il modo d'essere del diritto sostanziale, del diritto di credito perché il
debitore in questo caso contesta l’esistenza del diritto di credito. Questo diritto di
credito si può configurare come un diritto, come rapporto pregiudiziale rispetto al
diritto di marca processuale di agire in via esecutiva. Si ritiene secondo
l'interpretazione preferibile che in queste ipotesi il giudice competente debba
accertare il rapporto pregiudiziale con autorità di cosa giudicata, quindi in deroga
159
alla regola generale enunciata dall'articolo 34, questo per esigenze di carattere
pratico.
Mentre gli articoli 623 e 624 si occupano dell’ipotesi in cui Il debitore si sia mosso
successivamente quindi abbia proposto opposizione all’esecuzione. Vede c'è un
inciso che fa salvo la competenza del giudice davanti al quale è impugnato il titolo
esecutivo, qui il riferimento e’ all'ipotesi in cui il titolo esecutivo è un
provvedimento suscettibile di impugnazione e quindi il debitore abbiamo mosso le
proprie contestazioni di fronte al giudice dell'impugnazione ed e’ al giudice
dell'impugnazione che dovrà rivolgere la propria istanza di rilascio della cosiddetta
inibitoria.
Allora. Come vedete, sia l'articolo 615 sia l'articolo 624 subordinano il rilascio del
provvedimento di sospensione alla presenza di gravi motivi. Il provvedimento di
sospensione all'esecuzione (come già vi ho detto in altra sede) e’ ritenuto una
misura cautelare subordinata, quindi ad una valutazione da parte del giudice del
fumus boni iuris e del periculum in mora. Allora, siccome si tratta di una misura
cautelare, oltre ad un chiarimento in ordine ai presupposti è importante stabilire le
modalità di rilascio di questo provvedimento, la disciplina di questo
provvedimento. Abbiamo detto è una misura cautelare e questo naturalmente ci
porta all’art 669 quaterdecies nella parte in cui prevede che a tutte le misure
cautelari si applicano le disposizioni di cui agli articoli precedenti, quindi da 669
bis a 669 terdecies in quanto compatibili. Vedo è che l'articolo 669 quaterdecies
160
richiama soltanto le misure cautelari previste nelle sezioni successive, quindi
richiama soltanto: i sequestri, le denunce e i provvedimenti d'urgenza (e poi fa
riferimento al codice civile e alle leggi speciali), ma (vi avevo già detto che) questo
rinvio deve intendersi comprensivo anche delle altre misure cautelari previste nel
codice di procedura civile, ma in una sede diversa rispetto alle disposizioni
espressamente richiamate.
Allora intanto un chiarimento sui requisiti. Che cos'è il fumus boni iuris? E che
cosa è il periculum in mora? Si ritiene che a questi faccia riferimento l’espressione
‘’gravi motivi’’ secondo l'interpretazione preferibile.
Il fumus boni iuris non può che essere la probabile fondatezza dell’opposizione
promossa dal debitore, quindi il giudice dovrà vagliare la fondatezza dei motivi di
opposizione proposti dal debitore.
161
nell'articolo 623 debba essere conservata o invece prevalga la regola generale
fissata nell’articolo 669 quater.
Intanto vi faccio notare che in base alla disciplina dettata in queste disposizioni,
appare chiaro che il provvedimento di sospensione del processo esecutivo può
essere presentato soltanto unitamente, insieme alla domanda introduttiva del
processo di opposizione al precetto o opposizione all’esecuzione. Dalla lettura
degli articoli 615 da una parte, e 623 e seguenti dall'altra, si ricava infatti che la
sospensione dell'esecutività del titolo e la sospensione dell’esecuzione non potrà
mai essere richiesta ante causa. Quindi sicuramente non si applicano le
disposizioni relative al rilascio ante causa della misura cautelare.
C'è poi un problema di competenza. Posto che si tratta di una misura cautelare
che può essere richiesta soltanto in corso di causa, si tratta di capire se la regola
generale fissata dell'articolo 669 quater, secondo cui la competenza al rilascio
della misura cautelare appartiene sempre al giudice del merito, possa prevalere
rispetto alla regola speciale dettata dall'articolo 623.
C’e poi un'altra disposizione che crea qualche problema perché se voi andate a
leggere l'articolo 627 del codice di procedura civile, vedete che: nell’ipotesi in cui il
giudice ha concesso il provvedimento di sospensione, la riassunzione del
processo esecutivo possa avvenire soltanto a seguito del passaggio in giudicato
della sentenza di primo grado o dalla comunicazione della sentenza di appello di
rigetto dell'opposizione. Anche questa regola contraddice la regola generale
dettata del procedimento cautelare generale perché l'articolo 669 novies (come vi
ricordate) prevede che è sufficiente l'emanazione di una sentenza di primo grado
anche non passata in giudicato affinché la misura cautelare perda efficacia
(articolo 669 novies al terzo comma).
162
l’articolo 669 undecies in ordine alla cauzione; l’art 669 terdecies relativo al
reclamo.
163
Lezione 10 - 08/04/20
Andiamo oggi ad esaminare l’espropriazione forzata. Abbiamo già ricordato che il
processo di espropriazione forzata è il processo esecutivo volto a dare attuazione
concreta ad un diritto avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro. A
differenza dei procedimenti di esecuzione forzata in forma specifica abbiamo già
detto che nel caso della espropriazione forzata l’oggetto del diritto, che è la
somma di denaro, non coincide con l’oggetto del processo esecutivo, che è il
patrimonio del debitore, anzi i beni facenti parte il patrimonio del debitore. Nel
processo di espropriazione forzata trova attuazione il fondamentale principio della
garanzia patrimoniale, ovvero quanto previsto dall’articolo 2740 c.c secondo cui “il
debitore risponde dell’adempimento delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni
presenti e futuri”. Infatti, se voi prendete l’articolo 2910 c.c trovate scritto che “il
creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può fare espropriare i beni del
debitore, secondo le regole stabilite dal codice di procedura civile”; il secondo
comma della disposizione introduce una serie di eccezioni, ovvero le ipotesi in cui
il processo di esecuzione forzata può dirigersi nei confronti di un soggetto diverso
dal debitore esecutato, perché c’è un soggetto che risponde con un proprio bene
per un debito altrui, per cui si ha una scissione fra titolarità del debito e
responsabilità patrimoniale. Infatti, nel secondo comma si legge che “possono
essere espropriati anche i beni di un terzo quando sono vincolati a garanzia del
credito o quando sono oggetto di un atto che è stato revocato perché compiuto in
pregiudizio del creditore”. Le ipotesi che sono richiamate in questo secondo
comma dell’articolo 2910 c.c sono, per esempio, l’ipotesi in cui il terzo ha dato
una ipoteca su un proprio bene immobile a favore di un terzo, quindi il terzo datore
di ipoteca, oppure il terzo che ha acquistato un bene su cui grava una ipoteca
(sapete che l’ipoteca si connota per il diritto cosiddetto di seguito per cui si tratta
del terzo acquirente di un immobile ipotecato). Nella seconda parte, invece, si fa
riferimento alle ipotesi di terzi nei cui confronti è stata vittoriosamente esperita una
azione revocatoria, che è uno dei mezzi di conservazione della garanzia
patrimoniale, ma si tratta di eccezioni.
Nel processo di espropriazione forzata trova altresì attuazione il principio della par
condicio creditorum, di cui all’articolo 2741 c.c. In base a questa disposizione si
ha che “i creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore,
salve le cause legittime di prelazione. (2) Sono cause legittime di prelazione i
privilegi, il pegno e le ipoteche”. Vedremo che accanto al creditore che mette in
moto il processo di espropriazione forzata, l’ordinamento prevede la possibilità
che anche gli altri creditori del debitore esecutato possano entrare nel processo,
attraverso un intervento, e pretendere il soddisfacimento delle proprie pretese.
Ora, la disciplina della espropriazione forzata la troviamo, vuoi nel codice di
procedura civile vuoi nel codice civile: nel codice civile rilevano le disposizioni di
cui agli articoli 2910 fino all’articolo 2929, mentre nell’ambito del codice di
procedura civile rilevano le disposizioni di cui agli articoli 483 fino a 604 del codice
stesso.
164
Volendo delineare in senso generale questo particolare processo esecutivo
diciamo che il processo di espropriazione forzata è preceduto dalla fase
preliminare, che si apre con la notifica, su istanza del creditore, al debitore
esecutato del titolo esecutivo e del precetto, ma prende avvio, quindi la vera e
propria espropriazione forzata prende avvio con il cosiddetto pignoramento, che è
il primo atto. Il pignoramento è volto a creare, sui beni facenti parte del patrimonio
del debitore e aggrediti dal creditore, un vincolo di indisponibilità. Gli altri istituti
che compongono il processo esecutivo sono: l’intervento dei creditori, che è
l’istituto che dà attuazione al principio della par condicio creditorum; la vendita
forzata o assegnazione forzata, che è un istituto per il cui tramite il bene o i beni
oggetto di pignoramento vengono trasferiti, venduti generalmente ad un terzo, che
prende il nome di aggiudicatario, il quale verserà una somma di denaro; infine
abbiamo la distribuzione del ricavato: tutto ciò che è stato pagato
dall’aggiudicatario o dagli aggiudicatari nell’ambito del procedimento di vendita
forzata viene distribuito fra il creditore procedente e i creditori intervenuti.
Ora, come sono distribuite le norme che regolano l’espropriazione forzata? Se voi
aprite il terzo libro vedete che c’è un titolo II dedicato all’espropriazione forzata
che si apre con un capo I contenente disposizioni relative alla espropriazione
forzata in generale. Se voi scorrete queste disposizioni vedete che accanto ad una
prima serie di norme che riguardano istituti generali, fra cui la nomina del giudice
dell’esecuzione, la forma dei suoi provvedimenti ecc., troviamo una sezione II
dedicata al pignoramento - si tratta delle disposizioni comprese fra l’articolo 491 e
l’articolo 497 c.p.c; poi abbiamo una sezione III dedicata all’intervento dei creditori
- articoli 498 fino a 500 c.p.c; poi abbiamo una sezione IV dedicata alla vendita e
alla assegnazione - articoli da 501 fino a 508 c.p.c; poi una sezione V dedicata alla
distribuzione della somma ricavata - articoli 509 fino a 512 c.p.c. Accanto a queste
disposizioni generali noi troviamo una serie ulteriore di disposizioni che regolano i
diversi processi di espropriazione forzata distinguendo a seconda di quello che è
l’oggetto del processo di espropriazione forzata. Infatti, vedete che abbiamo un
capo II dedicato alla espropriazione mobiliare presso il debitore: si tratta di una
serie di norme che riguardano tutti gli istituti che vanno a comporre il processo di
espropriazione forzata, quindi pignoramento - intervento dei creditori -
assegnazione o vendita e poi distribuzione del ricavato, che occupano il capo II,
quindi articoli da 513 fino a 542 c.p.c. Poi abbiamo il capo III dedicato alla
espropriazione presso terzi e si tratta dei casi in cui oggetto di espropriazione
forzata sono i diritti di credito di cui il debitore esecutato è titolare nei confronti di
terzi, quindi abbiamo la figura del terzo debitor debitoris. Questo capo III occupa
gli articoli da 543 fino a 554 c.p.c. Poi abbiamo il capo IV dedicato alla
espropriazione immobiliare, quindi ipotesi in cui oggetto dell’espropriazione forzata
sono beni immobili e questo capo IV comprende le disposizioni comprese fra
l’articolo 555 fino all’articolo 598 c.p.c. Seguono due forme particolari di
espropriazione forzata: il capo V dedicato alla espropriazione di beni indivisi,
quindi delle ipotesi in cui il debitore esecutato è uno dei comproprietari del bene
aggredito, e poi abbiamo l’espropriazione contro il terzo proprietario, tre
165
disposizioni che si applicano nei casi particolari in cui si ha una scissione fra
titolarità del debito e responsabilità patrimoniale.
166
Accanto alle parti, anche nel processo di espropriazione forzata è presente la
figura del giudice. Intanto ricordiamo che per quanto riguarda i processi esecutivi
c’è una competenza per materia del tribunale, fissata all’articolo 9 c.p.c. La figura
del giudice dell’esecuzione assomiglia a quella del giudice istruttore, è il giudice
che sovrintende lo svolgimento del processo esecutivo. Quando viene nominato il
giudice dell’esecuzione? Il giudice dell’esecuzione viene nominato dopo che si è
perfezionato il pignoramento. Infatti, una volta depositato in cancelleria il fascicolo
della esecuzione, che il cancelliere formerà dopo che l’ufficiale giudiziario avrà
depositato l’atto di pignoramento, il cancelliere trasmette il fascicolo al presidente
dell’ufficio, che procederà a nominare il giudice dell’esecuzione. Il giudice
dell’esecuzione deve sovrintendere l’espropriazione forzata dall’inizio alla fine e
quindi deve esercitare tutti i poteri tesi al più sollecito e leale svolgimento del
processo, quindi è chiamato a dirigere l’intero processo di esecuzione forzata,
emanando provvedimenti che richiedono talvolta anche delle valutazioni da parte
del giudice. Di fronte al giudice dell’esecuzione il debitore deve presentare il
ricorso relativo alla opposizione alla esecuzione, però abbiamo visto che
l’opposizione all’esecuzione non rientra nella competenza del giudice
dell’esecuzione, così come previsto dall’articolo 616 c.p.c. Probabilmente il
giudice dell’esecuzione dovrà provvedere all’istanza di sospensione della
esecuzione. Inoltre il giudice dell’esecuzione deve provvedere sulle diverse
opposizioni che vengono proposte nel corso del processo. Questi esempi
rientrano nella competenza dell’ufficio giudiziario cui appartiene il giudice
dell’esecuzione, ma non è detto che la loro trattazione sia affidata allo stesso
giudice dell’esecuzione. Il giudice dell’esecuzione provvede allo svolgimento delle
funzioni che gli sono assegnate attraverso provvedimenti che hanno la forma
dell’ordinanza, come previsto dall’articolo 487 c.p.c. Si tratta di una ordinanza che
è sempre suscettibile di essere modificata e revocata, ma c’è un limite: l’ordinanza
del giudice dell’esecuzione non può essere revocata e modificata nel momento in
cui sia stata eseguita. Questo segna una differenza importante rispetto alle
ordinanze emanate dal giudice designato nell’ambito del processo di cognizione.
Prima di emanare i propri provvedimenti il giudice dell’esecuzione deve sentire le
parti interessate, ce lo dice l’articolo 485 c.p.c: “quando la legge richiede o il
giudice ritiene necessario che le parti ed eventualmente altri interessati siano
sentiti, il giudice stesso fissa con decreto l’udienza alla quale il creditore
pignorante, i creditori intervenuti, il debitore ed eventualmente gli altri interessati
debbono comparire davanti a lui”. Questa previsione tendenzialmente trova
applicazione in un momento successivo a quello in cui è stata presentata l’istanza
di vendita e infatti, generalmente, la prima udienza che si svolge nel
contraddittorio delle parti è l’udienza che il giudice fissa proprio a seguito della
presentazione della istanza di vendita. Il giudice dell’esecuzione deve d’ufficio o su
istanza di parte verificare la regolare instaurazione del processo esecutivo,
verificando cioè la presenza di tutti i requisiti extra formali relativi al giudice stesso
e relativi alle parti. Quindi deve verificare giurisdizione, competenza, costituzione
del giudice, ma anche i requisiti relativi alle parti, a partire dalla capacità di essere
167
parte, la capacità processuale, la legittimazione ad agire. Naturalmente è tenuto
altresì a verificare la regolarità formale degli atti del processo, quindi la presenza di
tutti i requisiti di forma - contenuto che sono richiesti dal legislatore (pensate ad
esempio alla regolarità del titolo esecutivo o del precetto).
168
Che cos’è il pignoramento? Il successivo articolo, il 492 c.p.c lo descrive dicendo
che “il pignoramento consiste in una ingiunzione che l’ufficiale giudiziario fa al
debitore di astenersi da qualunque atto diretto a sottrarre alla garanzia del credito
esattamente indicato i beni che si assoggettano alla espropriazione e i frutti di
essi”. È una norma astratta, una norma che ci descrive l’essenza del
pignoramento, ma che non ci dice né le modalità in cui si svolge il pignoramento,
né l’effetto del pignoramento. L’effetto del pignoramento è descritto in una norma
del codice civile, l’articolo 2913, in cui leggiamo che “non hanno effetto in
pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono
nell’esecuzione, gli atti di alienazione dei beni sottoposti a pignoramento, salvi gli
effetti del possesso di buona fede per i mobili non iscritti in pubblici registri”. Dalla
lettura di questa disposizione noi possiamo ricavare che la funzione del
pignoramento è quella di assoggettare i beni che ne costituiscono l’oggetto ad un
vincolo di indisponibilità. Cosa vuol dire vincolo di indisponibilità? Significa che
eventuali atti dispositivi posti in essere dal debitore esecutato con riferimento ai
beni soggetti a pignoramento sono inefficaci. Sono atti validi, atti che fra le parti
hanno efficacia, ma non sono opponibili né al creditore procedente né ai creditori
intervenuti, ma neanche - e questo poi è il soggetto che approfitta degli effetti del
pignoramento - all’aggiudicatario, cioè colui che acquista il bene nell’ambito del
sub-procedimento di vendita forzata. Infatti, se andate a leggere il successivo
articolo 2919 c.c. leggete che “la vendita forzata trasferisce all’acquirente i diritti
che sulla cosa spettavano a colui che ha subito l’espropriazione, salvi gli effetti del
possesso di buona fede. Non sono però opponibili agli acquirenti i diritti acquisiti
da terzi sulla cosa, se i diritti stessi non hanno effetto in pregiudizio del creditore
pignorante e dei creditori intervenuti nell’esecuzione”. L’effetto del pignoramento,
cioè questo vincolo di indisponibilità, è un effetto analogo a quello creato dal
sequestro conservativo. Quando abbiamo parlato del sequestro conservativo
abbiamo evidenziato il legame che intercorre fra questi due istituti e abbiamo visto
anche che non esiste soluzione di continuità perché, una volta che il creditore ha
ottenuto un sequestro conservativo e una volta che avrà ottenuto una sentenza di
condanna a conclusione del primo grado del processo a cognizione piena, il
sequestro conservativo si trasforma immediatamente in pignoramento. Come vi
avevo già detto, mentre il vincolo di indisponibilità che si forma in seguito alla
attuazione del sequestro conservativo è un vincolo che opera nei confronti del solo
creditore sequestrante, il vincolo di indisponibilità che è creato dal pignoramento è
un vicolo cosiddetto a “porte aperte” perché opera non solo a vantaggio del
creditore pignorante, ma anche di tutti i creditori che sono intervenuti e anche a
vantaggio del cosiddetto aggiudicatario.
169
La disciplina del pignoramento varia a seconda della natura del bene che ne
costituisce l’oggetto. Siccome l’effetto del pignoramento è quello di creare sul
bene un vincolo di indisponibilità, il legislatore si è trovato costretto a confrontarsi
con le leggi di circolazione che sovrintendono i diversi beni. Sappiamo che la
legge fondamentale sulla circolazione dei beni mobili è la norma di cui all’articolo
1153 c.c, cioè il trasferimento del possesso. Invece, in tema di circolazione di beni
immobili la legge fondamentale è quella della trascrizione. Quindi, il legislatore ha
dovuto confrontarsi con queste diverse norme e questo spiega la diversità di
disciplina che troviamo nelle disposizioni del codice. Iniziamo ad analizzare il
pignoramento mobiliare, descritto agli articoli 516 e ss del codice di procedura
civile.
Tornando alla disciplina generale, abbiamo detto che il pignoramento deve essere
provocato sempre dal creditore, munito di titolo esecutivo. Ora, l’autore del
pignoramento è l’ufficiale giudiziario, che sappiamo essere uno dei collaboratori
del giudice. In cosa consiste il pignoramento? Abbiamo visto che l’essenza del
pignoramento è indicata all’articolo 492 c.p.c, è l’ingiunzione che l’ufficiale
giudiziario fa al debitore di astenersi da qualunque atto diretto a sottrarre alla
garanzia del credito esattamente indicato, i beni che si assoggettano
all’espropriazione e i frutti di essi. Intanto è necessario che il creditore si attivi nei
tempi indicati dal legislatore. Abbiamo detto che il processo esecutivo è retto
dall’impulso di parte, non va mai avanti d’ufficio. Vi ricordate che nell’ambito del
precetto, che è quell’atto che il creditore procedente deve notificare insieme al
titolo esecutivo al debitore esecutato affinché si apra la cosiddetta fase
preliminare, questo svolge una duplice funzione, non solo quella di provocatio ad
opponendum, ma anche di provocatio ad adimplendum, cioè viene fissato al
debitore un termine entro cui adempiere, termine che non può essere inferiore a 10
giorni. Questo lo troviamo scritto sia all’articolo 480 c.p.c che si occupa della
forma del precetto, sia all’articolo 482 c.p.c che afferma che non si può iniziare
l’esecuzione forzata prima che sia decorso il termine indicato nel precetto e in ogni
caso non prima che siano decorsi 10 giorni dalla notificazione di esso. Da un’altra
parte il creditore deve rispettare anche un ulteriore termine perché il precedente
articolo, l’articolo 481 c.p.c prevede che il precetto diventi inefficace se nel termine
di 90 giorni dalla sua notificazione non è iniziata l’esecuzione. Quindi se il creditore
avvia il pignoramento in un termine che è successivo ai 90 giorni dalla notifica del
precetto, il precetto perde efficacia e quindi il processo deve iniziare da capo. Ora,
l’ufficiale giudiziario, nel momento in cui il creditore gli presenta il titolo esecutivo e
il precetto, deve dare avvio al pignoramento senza poter verificare in nessun modo
la regolarità del titolo. Quindi l’ufficiale giudiziario, che è un ausiliario del giudice, si
limita a prendere il titolo esecutivo e il precetto che gli sono consegnati dal
creditore senza effettuare nessun controllo e dà avvio al pignoramento. Nemmeno
in fase di pignoramento l’ufficiale giudiziario può effettuare controlli con riferimento
alla circostanza che i beni su cui il creditore vuole procedere appartengano al
debitore. Queste precisazioni sono importanti perché spiegano per quale motivo il
debitore può attivarsi e proporre opposizione, prima al precetto e
170
successivamente all’esecuzione, per contestare il diritto del creditore di procedere
in via esecutiva. Siccome non c’è nessun controllo in ordine alla attualità del titolo,
è chiaro che è ben possibile che si verifichino le circostanze di cui parlavo la
scorsa volta, per cui il creditore ha agito in forza di un titolo che è stato riformato
perché si tratta di una sentenza di primo grado che il giudice dell’appello ha
riformato, oppure con riferimento alla quale il giudice dell’appello ha accolto una
istanza di inibitoria.
Parte 2
Abbiamo detto che l’ufficiale giudiziario nel momento in cui entra nei luoghi di cui
all’art. 513 si muove alla ricerca di cose da pignorare e che in base all’art. 517
dovrà procedere con riferimento alle cose di più facile e pronta liquidazione. Vi
dicevo anche che, nonostante il 2° comma della disposizione precisi che l’ufficiale
giudiziario deve preferire il denaro contante, gli oggetti preziosi e i titoli di credito,
questi beni generalmente non si rinvengono, perché il debitore esecutato una volta
messo sull’avviso si muoverà per far sparire tutto quanto di prezioso si rinviene
nella sua abitazione.
Ci sono poi dei limiti alla pignorabilità dei beni. Perché se guardiamo il testo degli
artt. 514 – 515 – 516 troviamo l’indicazione delle cose mobili assolutamente
impignorabili -l’elenco risente molto dell’epoca in cui è stata scritta la
disposizione- si fa riferimento alle cose sacre (quelle che servono all’esercizio del
culto), l’anello nuziale, i vestiti, la biancheria, i letti, i tavoli per la consumazione dei
pasti e via dicendo.
Qual è il motivo per cui molte volte il debitore stesso viene nominato custode? È
un motivo molto concreto, ossia evitare le spese della custodia soprattutto se le
spese della custodia possono risultare superiori al valore del credito per cui si
procede. Se è il debitore ad essere nominato custode si verifica la c.d.
interversione nel possesso, per cui il debitore, pur continuando ad avere
materialmente le cose con sé, ne conserva la sola detenzione ed assume
naturalmente le responsabilità civili, ma soprattutto penali, del custode secondo
quanto previsto nell’art. 388bis del codice penale.
L’ufficiale giudiziario una volta compiute le sue operazioni, in base all’art. 518,
redige processo verbale nel quale dà atto dell’ingiunzione, di cui all’art. 492, e
descrive le cose pignorate nonché il loro stato mediante rappresentazione
fotografica, ovvero altro mezzo di ripresa audiovisiva. Quindi è nell’ambito del
processo verbale di cui all’art. 518 che noi troviamo l’ingiunzione rivolta al debitore
di cui all’art. 492.
È ben possibile che in questi luoghi siano presenti dei beni mobili che non
appartengono al debitore esecutato ma appartengono a soggetti terzi. Ci si pone
quindi la domanda se sia possibile per questi terzi recuperare i beni. Le
disposizioni che rilevano in tal senso sono, da una parte l’art. 2914 cc, ed in
particolare l’ipotesi di cui al n.4 della disposizione; e dall’altra l’art. 621 cpc.
“Non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che
intervengono nell'esecuzione, sebbene anteriori al pignoramento: …. (andiamo
direttamente al n.4)
Ora, l’ipotesi contemplata nell’art. 2914 n.4 non è l’unica che si può verificare
perché l’ipotesi più comune è un’altra, ovvero il caso in cui un terzo abbia lasciato
presso nei luoghi del 513 (quindi presso l’abitazione del debitore) beni mobili che
gli appartengono ed ha acquistato aliunde, cioè in maniera anomala rispetto al
debitore.
L’es. che propongo sempre a lezione è quello dell’amico che è andato a cena dal
debitore, è andato in bagno e per lavarsi le mani si è tolto gli anelli e
inavvertitamente li ha lasciati sul lavandino di casa. La sfortuna vuole che
l’indomani mattina arrivi l’ufficiale giudiziario, il quale in base a quanto abbiamo
appreso dalla lettura del cpc è legittimato a prendere tutto quello che trova, ed in
base al 516 deve dare precedenza ai beni preziosi ed ogni altro bene che appaia di
sicura realizzazione. Quindi nel caso di specie l’ufficiale giudiziario porterà via
sicuramente gli anelli dell’amico che è andato a casa del debitore e che
malauguratamente li ha lasciati.
Che cosa succede? Il terzo -sia il terzo avente causa del debitore sia il terzo che
ha lasciato nei luoghi del 513 un bene che gli appartiene e che ha acquistato in
maniera autonoma- può recuperare questi beni? C’è modo di riprenderseli?
“Il terzo che pretende avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati può
proporre opposizione con ricorso al giudice dell'esecuzione, prima che sia disposta
la vendita o l'assegnazione dei beni.
Il giudice fissa con decreto l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé e il
termine perentorio per la notificazione del ricorso e del decreto.
Se all'udienza le parti raggiungono un accordo il giudice ne dà atto con ordinanza,
adottando ogni altra decisione idonea ad assicurare, se del caso, la prosecuzione
del processo esecutivo ovvero ad estinguere il processo, statuendo altresì in
questo caso anche sulle spese; altrimenti il giudice provvede ai sensi dell'articolo
616 tenuto conto della competenza per valore.”
Allora questo è il rimedio che l’ordinamento pone a disposizione del terzo che
ritiene di essere proprietario o comunque titolare di altro diritto reale sui beni
pignorati. Nel momento in cui il terzo propone opposizione, in base al successivo
art. 624, potrà altresì chiedere la sospensione del processo esecutivo. Questa
opposizione di terzo dà luogo all’apertura di un processo a cognizione piena, un
processo quindi esterno al processo esecutivo. È un processo che si introduce
174
con ricorso di fronte al giudice dell’esecuzione perché il giudice dovrà provvedere,
ai sensi del 624, sull’istanza di sospensione dell’esecuzione, ma poi è un processo
che viene rimesso al giudice competente per valore, così come previsto dall’art.
616 che è espressamente richiamato.
Nell’ambito di questo processo rileva il disposto dell’art. 621 che reca la rubrica
“limiti della prova testimoniale”, quindi apparentemente è una norma che si occupa
di prove ed infatti dice “Il terzo opponente non può provare con testimoni il suo
diritto sui beni mobili pignorati nella casa o nell'azienda del debitore, tranne che
l'esistenza del diritto stesso sia resa verosimile dalla professione o dal commercio
esercitati dal terzo o dal debitore”.
Come è interpretata questa norma? La giurisprudenza ritiene che il terzo opponete
debba come regola generale fondare la propria opposizione su prove scritte e gli
impone di provare in forma scritta con atto avente data certa anteriore al
pignoramento (quindi si richiama il criterio introdotto nel 2914 cc n.4):
• Ma la giurisprudenza gli impone di provare, ancora una volta con atto scritto
avente data certa anteriore al pignoramento, anche di aver affidato questi
beni al debitore per un motivo diverso dal trasferimento della proprietà.
Ora capiamo che ben difficilmente il terzo (l’amico che ha lasciato la cosa al
debitore, ma pensiamo anche al caso in cui il terzo abbia prestato qualcosa al
debitore) in queste situazioni potrà esibire questa seconda prova. Forse la data di
acquisto con data certa anteriore al pignoramento ce l’avrà ad es. fattura o
pagamento; ma difficilmente il terzo avrà a sua disposizione un atto scritto con
data certa anteriore ala pignoramento per il cui tramite provare di aver affidato il
bene al debitore per un motivo diverso dal trasferimento. È una prova che non avrà
il terzo. Per questo motivo, per la difficoltà che questa prova crea al debitore, si
dice -giustamente- che questo art. 621 in verità non è una norma sulla prova, ma è
una norma sostanziale, cioè una norma per il cui tramite il legislatore risolve il
conflitto tra il creditore precedente ed il terzo che è proprietario di un bene mobile
che viene trovato dall’fiale giudiziario nella casa del debitore. Attraverso il 621 in
pratica il legislatore assoggetta alla responsabilità patrimoniale per i debiti del
debitore tutti i beni mobili che l’ufficiale giudiziario rinviene a casa del debitore, a
meno che il terzo non abbia la doppia prova scritta con atto avente data certa
anteriore al pignoramento in ordine all’acquisto e all’affidamento al debitore per
motivi diversi del trasferimento della proprietà.
175
un’azione revocatoria in cui si ha una scissione appunto tra titolarità del debito e
responsabilità patrimoniale; per cui si ha un terzo che con un bene determinato
risponde di un debito altrui. Se questo è vero però, si è anche osservato
giustamente che il legislatore avrebbe dovuto allora attribuire a questo terzo (terzo
che malauguratamente si trova a rispondere con un suo bene mobile di un debito
altrui) gli stessi poteri che gli artt. 602 e ss. affidano al terzo proprietario nelle
ipotesi tassativamente elencate nell’art. 602 e in particolare il potere di avvalersi
dei rimedi tipici del processo esecutivo e che sono resi disponibili al debitore
esecutato.
È molto importante nell’ambito del rimedio del 619 che il terzo, che è proprietario
del bene, convinca il giudice a sospendere l’esecuzione in corso. L’importanza di
questa affermazione si comprende riflettendo sulla disciplina del processo
esecutivo ed in particolare, sulla circostanza in cui il giudice non accolga l’istanza
di sospensione, quindi il processo vada avanti e si arrivi alla vendita forzata.
L’accoglimento dell’opposizione di terzo in data successiva al perfezionamento
della vendita forzata non consentirà al terzo di recuperare il proprio bene.
FILE 4
Ricapitoliamo: il terzo che è proprietario dei beni mobili rinvenuti nei luoghi del 513
e pignorati ha come unico rimedio l’opposizione di terzo all’esecuzione di cui
all’art. 619. E abbiamo detto che per il terzo che propone opposizione è
indispensabile che venga accolta l’istanza di sospensione dell’esecuzione
presentata al giudice dell’esecuzione in base all’art. 624 c.1, perché altrimenti
rischia di non poter più recuperare il bene. Questa strada, ovvero la proposizione
di opposizione di terzo + la proposizione di sospensione, è l’unico possibile
rimedio che ha il terzo. È un rimedio dunque necessario.
Questo anche perché il terzo aggiudicatario, cioè il terzo che acquista il bene in
sede di vendita forzata, maturerà probabilmente un acquisto a titolo originario in
base alla legge di cui all’art. 1153 cc secondo cui l’acquisto di un bene immobile
in base ad un atto astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà, unito al
trasferimento del possesso, unito alla buona fede dell’acquirente determina un
acquisto a titolo originario; per cui è escluso che il terzo proprietario possa
scegliere una strada diversa rispetto all’opposizione di terzo, cioè l’ordinamento gli
preclude la possibilità di agire direttamente nei confronti dell’aggiudicatario
attraverso un’azione di rivendica. Dal momento in cui l’acquisto dell’aggiudicatario
è un acquisto a titolo originario è chiaro che sia un acquisto autonomo e come tale
il terzo non può essere attaccato dal precedente proprietario.
176
Il pignoramento presso terzi ha ad oggetto diritti di credito che il debitore vanta nei
confronti di un soggetto terzo, il c.d. terzo debitor debitoris, oppure beni mobili
che appartengono al debitore e che sono in possesso di terzi.
“Il pignoramento di crediti del debitore verso terzi o di cose del debitore che sono
in possesso di terzi, si esegue mediante atto notificato [personalmente] al terzo e al
debitore a norma degli articoli 137 e seguenti.
L'atto deve contenere, oltre all'ingiunzione al debitore di cui all'articolo 492:
1) l'indicazione del credito per il quale si procede, del titolo esecutivo e del
precetto;
2) l'indicazione, almeno generica, delle cose o delle somme dovute e la intimazione
al terzo di non disporne senza ordine del giudice;
3) la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio nel comune in cui ha sede il
tribunale competente nonché l’indicazione dell’indirizzo di posta elettronica
certificata del creditore procedente;
4) la citazione del debitore a comparire davanti al giudice competente, con l'invito
al terzo a comunicare la dichiarazione di cui all'articolo 547 al creditore procedente
entro dieci giorni a mezzo raccomandata ovvero a mezzo di posta elettronica
certificata; con l'avvertimento al terzo che in caso di mancata comunicazione della
dichiarazione, la stessa dovrà essere resa dal terzo comparendo in un'apposita
udienza e che quando il terzo non compare o, sebbene comparso, non rende la
177
dichiarazione, il credito pignorato o il possesso di cose di appartenenza del
debitore, nell'ammontare o nei termini indicati dal creditore, si considereranno non
contestati ai fini del procedimento in corso e dell'esecuzione fondata sul
provvedimento di assegnazione.”
Questo atto complesso è costituito da diversi elementi, i più importanti però sono i
seguenti:
quindi l’ingiunzione rivolta al debitore di non sottrarre il credito che vanta nei
confronti del suo debitore alla garanzia del credito del creditore procedente,
oltre che il credito dei creditori che interverranno all’esecuzione.
Vuol dire che dal momento in cui riceve la notifica dell’atto di cui all’art. 543 il terzo
è soggetto alla responsabilità del custode. La lettera di questa disposizione è
comprensibile se si pensa al caso in cui l’espropriazione presso terzi riguardi cose
del debitore di cui il terzo è in possesso, perché la responsabilità del custode ha
un significato con riferimento proprio a degli oggetti, a cose. Molto meno chiaro è
il significato di questa espressione se invece si fa riferimento all’ipotesi in cui
l’espropriazione ha ad oggetto diritti di credito che il debitore esecutato vanta nei
confronti del terzo.
178
Cosa significa rendersi custodi di un diritto di credito? L’interpretazione che ne ha
dato la giurisprudenza è che, all’indomani della notifica dell’atto di cui all’art. 543,
il terzo debito debitoris non può porre in essere atti estintivi del suo debito, quindi
sostanzialmente non può pagare al debitore esecutato per liberarsi. Eventuali atti
estintivi posti in essere nei confronti del debitore esecutato sono atti inefficaci, non
opponibili al creditore procedente ed ai creditori intervenuti, ma vi è di più, perché
la giurisprudenza ritiene che all’indomani della notifica dell’atto di cui all’art. 543
non siano efficaci neppure i fatti estintivi c.d. involontari, tipo la prescrizione ma
anche la compensazione. Per cui anche questi fatti estintivi c.d. involontari non
sono opponibili al creditore procedente e agli altri creditori intervenuti se maturati
successivamente alla data di notifica dell’atto di cui all’art. 543.
Quindi secondo la giurisprudenza gli effetti di cui all’art. 2917 del cc, anche se
questa norma sembra collegarli ad un pignoramento che si è perfezionato, ed in
questo momento (all’indomani della notifica dell’atto complesso di cui al 543)
ancora il pignoramento preso terzi non è possibile ritenerlo perfezionato, sono
anticipati alla data di notifica dell’atto complesso.
Come regola generale, secondo quanto disposto dall’art. 547 del cpc, il terzo
viene invitato a riconoscere l’esistenza e l’entità del suo debito nei confronti del
debitore esecutato con dichiarazione a mezzo raccomandata, inviata al creditore
procedente o trasmessa a mezzo di posta certificata. È una dichiarazione che il
terzo deve rendere personalmente (o tramite procuratore speciale o difensore
munito di procura speciale) specificando le cose e le somme dovute al debitore
oppure le cose di cui è in possesso e che appartengono al debitore, indicando
anche quando ne deve eseguire il pagamento o la consegna. Quindi laddove il
terzo invia questa dichiarazione si arriva direttamente all’udienza, quindi si ha per
accertato il diritto del debitore esecutato nei confronti del terzo.
179
c.1 “Quando all'udienza il creditore dichiara di non aver ricevuto la dichiarazione, il
giudice, con ordinanza, fissa un'udienza successiva. L'ordinanza è notificata al
terzo almeno dieci giorni prima della nuova udienza. Se questi non compare alla
nuova udienza o, comparendo, rifiuta di fare la dichiarazione, il credito pignorato o
il possesso del bene di appartenenza del debitore, nei termini indicati dal creditore,
si considera non contestato ai fini del procedimento in corso e dell'esecuzione
fondata sul provvedimento di assegnazione se l'allegazione del creditore consente
l'identificazione del credito o dei beni di appartenenza del debitore in possesso del
terzo e il giudice provvede a norma degli articoli 552 o 553.”
In questo caso si prevede però che il terzo possa impugnare nelle forme di cui
all’art. 617 (questa è l’opposizione agli atti esecutivi)
c.2 “Il terzo può impugnare nelle forme e nei termini di cui all’articolo 617,
l’ordinanza di assegnazione di crediti adottata a norma del presente articolo, se
prova di non averne avuto tempestiva conoscenza per irregolarità della
notificazione o per caso fortuito o forza maggiore.”
È la classica forma di rimessione in termini.
“Se sulla dichiarazione (sia essa rilasciata mediante lettera raccomandata di cui
all’art. 543 oppure in udienza) sorgono contestazioni o se a seguito della mancata
dichiarazione del terzo non è possibile l’esatta identificazione del credito o dei beni
del debitore in possesso del terzo (perché il creditore potrebbe non essere a
conoscenza di queste informazioni), il giudice dell’esecuzione, su istanza di parte,
provvede con ordinanza, compiuti i necessari accertamenti nel contraddittorio tra
le parti e con il terzo. L'ordinanza produce effetti ai fini del procedimento in corso e
dell'esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione ed è impugnabile nelle
forme e nei termini di cui all'articolo 617.”
Anche con riferimento al pignoramento di crediti esistono dei limiti, infatti nell’art.
545 che reca la rubrica “crediti impignorabili” troviamo alcuni divieti:
“Non possono essere pignorati i crediti alimentari, tranne che per cause di alimenti,
e sempre con l'autorizzazione del presidente del tribunale o di un giudice da lui
delegato e per la parte dal medesimo determinata mediante decreto.
180
Non possono essere pignorati crediti aventi per oggetto sussidi di grazia o di
sostentamento a persone comprese nell'elenco dei poveri, oppure sussidi dovuti
per maternità, malattie o funerali da casse di assicurazione, da enti di assistenza o
da istituti di beneficenza.
Le somme dovute da privati a titolo di stipendio, di salario o di
altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a
causa di licenziamento, possono essere pignorate per crediti alimentari nella
misura autorizzata dal presidente del tribunale o da un giudice da lui delegato.
Tali somme possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti
allo Stato, alle province e ai comuni, ed in eguale misura per ogni altro credito.”
181
Lezione 11 - 16/04/20
Esaminiamo la disciplina del pignoramento immobiliare
Iniziamo dalla lettura dell’art. 555 del codice di procedura civile, il quale stabilisce
che il pignoramento immobiliare si esegue mediante notificazione al debitore e
successiva trascrizione di un atto nel quale gli si indicano esattamente, con gli
estremi richiesti dal codice civile per l’individuazione dell’immobile ipotecato, i beni
e i diritti immobiliari che si intendono sottoporre ad esecuzione e gli si fa
l’ingiunzione prevista nell’art. 492.
182
avendo acquistato il bene e pur avendolo fatto in data anteriore al pignoramento,
non abbia fatto in tempo a trascrivere il proprio acquisto. In questa ipotesi, stando
alla lettera dell’art. 2914, numero 1, del codice civile, prevarrà il creditore
procedente, il creditore pignorante e gli altri creditori, poiché ciò che rileva è non la
data dell’acquisto ma quella della trascrizione. Per cui se viene trascritto il
pignoramento in data anteriore a quella dell’acquisto, anche se l’acquisto risale ad
una data ancora anteriore, prevale il pignoramento. Questa regola si applica
sempre, anche nel caso in cui l’acquisto del terzo risulta da un atto avente data
certa anteriore al pignoramento. In questa ipotesi appare chiaro che il terzo avente
causa, pur essendo a tutti gli effetti il proprietario del bene, risponde con quel
bene del debito altrui. Quindi si ha una scissione tra responsabilità patrimoniale e
titolarità del debito. Quali sono i rimedi che il terzo può utilizzare per sottrarre il
proprio bene dalla responsabilità patrimoniale altrui? Un rimedio è sicuramente
l’opposizione di terzo, di cui all’art. 619 del codice di procedura civile ma non è
l’unica strada. In questo caso, l’opposizione di terzo è un rimedio facoltativo, non
è un rimedio necessario come avviene in ipotesi di espropriazione mobiliare. Infatti
in ipotesi di beni immobili la vendita forzata procura all’aggiudicatario un acquisto
a titolo derivativo. Quindi il diritto dell’aggiudicatario esiste in quanto esiste il diritto
del debitore esecutato. Questo lascia aperta la possibilità che il terzo, che ritiene
di essere non solo proprietario del bene ma anche che ritenga che quel bene non
rientri nella responsabilità patrimoniale altrui, non risponda del debito altrui, possa
agire direttamente nei confronti dell’aggiudicatario attraverso un’azione di
rivendica. Laddove questa azione venga esercitata e la domanda venga accolta si
avrà la cosiddetta evizione dell’aggiudicatario che a quel punto potrà ripetere ciò
che ha pagato: il prezzo, gli interessi e le spese. Quindi è un’ipotesi in cui vengono
meno i risultati del processo esecutivo, sia la vendita forzata, sia la distribuzione
del ricavato.
183
Quali sono dunque i creditori che possono entrare nel processo di espropriazione
forzata? La norma di riferimento è l’art. 499 del codice di procedura civile. In base
a questa disposizione il titolo per esperire l’intervento è il titolo esecutivo, cioè
possono intervenire nell’esecuzione i creditori che nei confronti del debitore hanno
un credito fondato su titolo esecutivo, quindi i creditori che hanno nelle loro mani
uno dei titoli tassativamente indicati nell’art. 474 e che li avrebbero legittimati a
mettere in moto il processo esecutivo. Questa è la regola generale a cui si
contrappongono alcune eccezioni indicate nella seconda parte del primo comma
dell’art. 499. Si legge qui che possono intervenire altresì i creditori che al momento
del pignoramento avevano eseguito un sequestro sui beni pignorati ovvero
avevano un diritto di pegno o un diritto di prelazione risultante da pubblici registri
ovvero erano titolari di un credito di somma di denaro risultante dalle scritture
contabili di cui all’art. 2214 del codice civile.
Queste sono le uniche ipotesi di creditori non muniti di titolo esecutivo che
possono entrare nel processo esecutivo. Che importanza ha avere o non avere il
titolo esecutivo? In effetti ha rilevanza perché, in base al disposto degli articoli 526
e 564 del codice di procedura civile, i creditori intervenuti tempestivamente
partecipano all’espropriazione dei beni pignorati e, se muniti di titolo esecutivo,
possono provocarne i singoli atti. Come regola generale occorre distinguere le fasi
del processo di espropriazione forzata anteriori alla vendita forzata o
all’assegnazione forzata e le fasi successive. Infatti in riferimento alle fasi anteriori
alla vendita forzata o all’assegnazione forzata, i creditori, muniti di titolo esecutivo,
possono provocare la vendita forzata presentando l’istanza di vendita secondo
quanto previsto negli art. 529 e 567 del codice di procedura civile. Inoltre sono i
soli creditori che devono prestare il loro consenso ai fini della estinzione del
processo esecutivo per rinuncia agli atti e possono nello stesso tempo evitare
l’estinzione del processo esecutivo per inattività prima della vendita forzata e
dell’assegnazione. Invece i creditori che non sono muniti di titolo esecutivo, nella
fase anteriore alla vendita forzata hanno diritto di prendere parte all’udienza che il
giudice fissa a seguito della presentazione dell’istanza di vendita per determinare
le modalità della vendita. Solo all’indomani della vendita forzata o
dell’assegnazione forzata devono prestare il loro consenso per la estinzione del
processo per rinuncia agli atti, possono evitare l’estinzione del processo per
inattività e hanno diritto di partecipare alla distribuzione della somma ricavata in
misura pari ai creditori muniti di titolo esecutivo. C’è però un'altra differenza molto
importante che risulta dal testo dell’art. 499 al comma terzo. In base a questa
previsione, il creditore, che è privo di titolo esecutivo e che interviene
nell’esecuzione, deve notificare al debitore, entro i 10 giorni successivi al deposito,
copia del ricorso, nonché copia dell’estratto autentico notarile attestante il credito
se l’intervento nel’esecuzione ha luogo in forza di esso. Con riferimento a questi
stessi creditori, il successivo quinto comma stabilisce che, con l’ordinanza con cui
è disposta la vendita o l’assegnazione, ai sensi degli art. 530, 552 e 569, il giudice
fissa altresì udienza di comparizione davanti a sé del debitore e dei creditori
intervenuti privi di titolo esecutivo, disponendone la notifica a cura di una delle
184
parti. Tra la data dell’ordinanza e la data fissata per l’udienza non possono
decorrere più di 60 giorni. All’udienza, prevede il successivo sesto comma, il
debitore deve dichiarare quali dei crediti per i quali hanno avuto luogo gli
interventi, egli intenda riconoscere in tutto o in parte, specificando in quest’ultimo
caso, la relativa misura. Se il debitore non compare, si intendono riconosciuti tutti i
crediti per i quali hanno avuto luogo interventi in assenza di titolo esecutivo. In tutti
i casi il riconoscimento rileva ai soli effetti dell’esecuzione. I creditori intervenuti i
cui crediti siano stati riconosciuti da parte del debitore, partecipano alla
distribuzione della somma ricavata per l’intero ovvero limitatamente alla parte del
credito per la quale vi sia stato riconoscimento parziale. Invece, i creditori
intervenuti, i cui crediti siano stati viceversa disconosciuti dal debitore, hanno
diritto, ai sensi dell’art. 510 terzo comma, all’accantonamento delle somme che ad
essi spetterebbero, sempre che ne facciano istanza e dimostrino di aver proposto
nei 30 giorni successivi all’udienza di cui al presente comma, l’azione necessaria
affinché essi possano munirsi del titolo esecutivo. Quindi, i creditori che non hanno
il titolo esecutivo devono, non soltanto esperire intervento secondo le modalità
fissate in via generale dal primo e secondo comma dell’art. 499, quindi mediante
ricorso depositato presso il giudice adito, ma devono anche notificare copia del
ricorso e copia dell’estratto autentico notarile, entro 10 giorni successivi al
deposito, al debitore. Dopodiché il giudice, all’indomani dell’ordinanza con cui è
disposta la vendita, deve fissare un’udienza e, a conclusione di questa udienza, o
il credito dei creditori intervenuti privi di titolo esecutivo è stato riconosciuto dal
debitore, direttamente o implicitamente a seguito di mancata comparizione, nel
qual caso partecipano alla distribuzione della somma ricavata secondo le regole
generali che poi andremo ad esaminare, oppure questi crediti sono stati contestati
in tutto o in parte. Per quanto riguarda i crediti o le parti di credito che sono state
contestate, questi creditori hanno diritto che le somme a cui hanno diritto siano
accantonate ma questo accantonamento è subordinato ad un’espressa richiesta e
alla prova che, nei 30 giorni successivi a questa udienza, abbiano esercitato
l’azione diretta ad ottenere il titolo esecutivo. Soltanto a queste condizioni hanno
diritto all’accantonamento delle somme a cui avrebbero diritto.
(FILE 2)
Questa distinzione emerge molto chiaramente nell’ art. 2741 del codice civile. E’ la
norma che introduce il principio della par condicio creditorum. Il primo comma
della disposizione afferma infatti che tutti i creditori hanno uguale diritto di essere
soddisfatti sui beni del debitore ma poi pone l’eccezione: i creditori che hanno una
causa legittima di prelazione. Si precisa infatti al secondo comma che sono cause
legittime di prelazione: i privilegi, il pegno e le ipoteche.
185
I creditori che hanno una causa legittima di prelazione si trovano quindi in una
posizione diversa dai restanti creditori perché hanno diritto, sempre, di essere
soddisfatti per primi e per intero. Questo vale a prescindere dalla circostanza che i
creditori muniti di una causa legittima di prelazione rivestano il ruolo di creditore e
procedente e a prescindere anche dal momento in cui esperiscono intervento. C’è
poi una disciplina particolare che viene dettata con riferimento ai creditori ipotecari
cioè i creditori che hanno un’ipoteca iscritta sul bene immobile oggetto
dell’espropriazione forzata. Nell’art. 498 del codice di procedura civile è infatti
scritto che debbono essere avvertiti dell’espropriazione i creditori che sui beni
pignorati hanno un diritto di prelazione risultante da pubblici registri e sappiamo
che soltanto le ipoteche risultano da pubblici registri in quanto l’ipoteca si
costituisce proprio attraverso l’iscrizione come forma di pubblicità costitutiva. Nei
pubblici registri non risultano quindi né i privilegi né il pegno. I privilegi trovano la
propria ragione nella causa del credito per cui non possono risultare dai registri.
Non può risultare nei registri neppure il pegno che è un diritto reale di garanzia che
ha ad oggetto un bene mobile e che si costituisce a seguito dello spossessamento
del debitore, infatti il contratto di pegno è un contratto reale che cioè si perfeziona
con la consegna del bene da parte del debitore al creditore. Il bene in verità può
essere consegnato anche ad un terzo quindi ad un soggetto diverso dal creditore,
terzo che assumerà la responsabilità del custode.
Con riferimento ai creditori ipotecari, l’art. 498 primo comma pone a carico del
creditore procedente l’onere di avvisarli dell’apertura del processo esecutivo con
riferimento al bene immobile su cui l’ipoteca è iscritta. Il secondo comma della
disposizione precisa che a tal fine è notificato, a ciascuno di essi a cura del
creditore pignorante ed entro 5 giorni dal pignoramento, un avviso contenente
l’indicazione del creditore pignorante, del credito per il quale si procede,del titolo e
delle cose pignorate. A questa previsione si correla il testo dell’art. 567 del codice
di procedura laddove si legge…….(NON SI CAPISCE AUDIO DISTURBATO min
4:22 file 2)….. dopodiché al secondo comma si prevede che il creditore che
richiede la vendita deve provvedere entro 60 giorni dal deposito del ricorso ad
allegare allo stesso l’estratto del catasto nonché i certificati delle iscrizioni e le
trascrizioni relative all’immobile pignorato effettuate nei 20 anni anteriori alla
trascrizione del pignoramento. Tale documentazione può essere sostituita da un
certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali dei registri
immobiliari. Nel momento in cui il creditore propone istanza di vendita, entro 60
giorni deve allegare la documentazione richiesta: l’estratto del catasto. Questo
deposito è strumentale acciocché il giudice possa verificare che i creditori che
hanno un’ipoteca iscritta sul bene siano stati avvisati. Laddove, a seguito del
controllo, risulti che i creditori non siano stati avvisati, il terzo comma dell’art. 498
prevede che il giudice non può provvedere sull’istanza di assegnazione o di
vendita.
La spiegazione di questa disciplina risiede in quello che è uno degli effetti tipici
della vendita forzata e la cui disciplina si rinviene nell’art. 586 del codice di
186
procedura civile laddove si legge che, chiuso il procedimento di vendita forzata e
avvenuto il versamento del prezzo, il giudice ordina che si cancellino le trascrizioni
dei pignoramenti e le iscrizioni ipotecarie. Il giudice, nel momento in cui chiude il
procedimento di vendita, ordina la cancellazione di trascrizioni e iscrizioni. Il
legislatore vuole che l’aggiudicatario, che il terzo che acquista il bene in sede di
vendita forzata, acquisti un bene pulito, un bene liberato non soltanto dal
pignoramento ma anche da tutti i diritti reali di garanzia che risultano dai registri
quindi dalle ipoteche. Si capisce allora che, a seguito della vendita forzata
l’ipoteca viene meno. Quindi il creditore ipotecario, il creditore cioè che ha il diritto
reale di garanzia, perde la sua garanzia. E’ dunque importante che prenda parte al
processo di espropriazione forzata perché altrimenti rischia di perdere la garanzia
senza essere soddisfatto. Questa disciplina il legislatore l’ha dettata con
riferimento esclusivo all’ipoteca. Con riferimento infatti alle altre cause legittime di
prelazione la situazione è diversa. I privilegi trovano il loro fondamento nella causa
del credito, quindi per il creditore pignorante non è possibile individuare i creditori
assistiti da privilegio. Invece per quanto riguarda il pegno, il problema di avvertire il
creditore che ha il pegno non si pone. Il pegno si perfeziona nel momento in cui il
debitore consegna il bene al creditore o al terzo, quindi se c’è un pegno il creditore
titolare di questo diritto reale di garanzia ha nelle sue mani il bene su cui il pegno è
stato costituito. Il creditore procedente se vuole agire in via esecutiva su quel bene
dovrà procedere nei confronti dell’altro creditore che ha il bene appartenente del
debitore, aprirà un processo di espropriazione presso terzi e per forza di cose il
creditore che ha il pegno è messo nella condizione di venire a conoscenza
dell’apertura dell’espropriazione forzata sul bene di cui ha il possesso e che è
oggetto del pegno ed esperire intervento.
Con riferimento ai creditori che non hanno invece una causa legittima di
prelazione, quindi i creditori chirografari, c’è un altro profilo da considerare: la
tempestività o tardività dell’intervento.
Questa distinzione non ha alcun rilievo con riferimenti ai creditori che hanno una
causa legittima di prelazione per i quali il momento in cui intervengono non ha
assolutamente rilevanza perché a questi creditori la legge garantisce il diritto di
esse soddisfatti per primi e per intero. Con riferimento ai creditori chirografari,
invece, il momento in cui esperiscono intervento è molto importante. Quando
l’intervento può ritenersi tempestivo e quando,invece, è tardivo? La regola
generale è quella secondo cui l’intervento è tempestivo se avviene prima
dell’udienza fissata a seguito della presentazione dell’istanza di vendita o
dell’assegnazione. Questo lo si desume dagli art. 525, primo comma, e 564 del
codice di procedura civile. Se questa è la regola generale ci sono però 2 eccezioni
molto importanti. La prima eccezione si rinviene nell’ambito della cosiddetta
piccola espropriazione mobiliare, ovvero le ipotesi in cui l’espropriazione mobiliare
ha ad oggetto dei beni mobili il cui valore non supera i 20.000 euro. In questo
caso, in base a quanto disposto dall’art 525, secondo comma, del codice di
procedura civile, l’intervento è tempestivo se avviene prima della presentazione
dell’istanza di vendita. La seconda eccezione si rinviene nell’ambito della
187
espropriazione presso terzi. Con riferimento a questa ipotesi, l’intervento è
tempestivo se avviene prima dell’udienza di cui all’art 547 in cui deve comparire il
debitore e il creditore procedente. Questo è quanto si desume dall’art. 551
secondo comma. Si tratta di 2 eccezioni particolarmente rilevanti. La prima perché
un numero molto elevato di processi di espropriazione forzata hanno ad oggetto
beni mobili che non superano i 20.000 euro, la seconda perché il processo di
espropriazione presso terzi è l’unico che funziona, l’unico che garantisce al
creditore il soddisfacimento delle sue pretese.
Dalla lettura degli art. 528 e 565 si ricava che i creditori chirografari che
intervengono tempestivamente hanno diritto di essere soddisfatti in maniera piena
e paritaria insieme al creditore pignorante, fatti salvi i creditori che hanno una
causa legittima di prelazione, posti in posizione prioritaria. I creditori chirografari
che intervengono tardivamente hanno diritto di essere soddisfatti soltanto sulla
somma ricavata che avanza dopo che sono stati soddisfatti i creditori muniti di
una causa legittima di prelazione, il creditore pignorante e i creditori chirografari
intervenuti tempestivamente. In pratica non hanno alcuna chance di ottenere il
minimo soddisfacimento.
C’è poi un’altra situazione che merita di essere segnalata. Si tratta di un istituto
che trova la propria disciplina nell’art. 499, quarto comma, che recita: “Ai creditori
chirografari intervenuti tempestivamente, il creditore pignorante ha facoltà di
indicare, con atto notificato o all'udienza in cui è disposta vendita o
l'assegnazione, l'esistenza di altri beni del debitore utilmente pignorabili, e di
invitarli ad estendere il pignoramento se sono forniti di titolo esecutivo o,
altrimenti, ad anticipare le spese necessarie per l'estensione. Se i creditori
intervenuti, senza giusto motivo, non estendono il pignoramento ai beni indicati ai
sensi del primo periodo entro il termine di trenta giorni, il creditore pignorante ha
diritto di essere loro preferito in sede di distribuzione”. Premesso che il creditore
procedente, colui che dà avvio al processo esecutivo e che quindi procede a
pignoramento, di solito va a pignorare beni aventi valore corrispondente o di poco
superiore al suo credito, nel momento in cui altri creditori esperiscono intervento, è
chiaro che la somma che verrà ricavata dalla vendita di questi beni dovrà essere
ripartita con chi è tempestivamente intervenuto. Quindi le chance del creditore
procedente di ottenere il soddisfacimento delle proprie pretese, inevitabilmente si
riducono. Questo spiega l’istituto della estensione del pignoramento, disciplinato
nell’art. 499, quarto comma. Il creditore procedente può indicare agli altri creditori
tempestivamente intervenuti l’esistenza di beni appartenenti al debitore a cui
estendere il pignoramento e lo stesso creditore può invitarli, se non sono forniti di
titolo esecutivo, ad anticipare le spese che serviranno a lui per estendere il
pignoramento. Dopodiché prevede che, se, senza giustificato motivo, questi
creditori non accolgono l’invito, quindi non estendono il pignoramento sui beni
indicati, il creditore pignorante acquista il diritto di essere loro preferito in sede di
distribuzione. Quindi acquista una posizione di preferenza che ha delle origini
188
processuali e che quindi si distingue dalle cause legittime di prelazione che invece
hanno un’origine sostanziale.
La riposta non è unitaria. I creditori muniti di titolo esecutivo sono creditori che,
nella fase del processo esecutivo che arriva fino alla vendita, hanno il potere di
porre in essere quegli atti di impulso processuale che consentono al processo
esecutivo di andare avanti, in particolare sono legittimati a proporre l’istanza di
vendita. Si può ritenere che nei loro confronti il debitore possa proporre
opposizione all’esecuzione e in quella sede chiedere, ex art. 624, l’istanza di
sospensione del loro potere di provocare la vendita forzata. Se il titolo esecutivo è
di formazione giudiziale e non si tratta di un provvedimento divenuto immutabile è
possibile che parallelamente al processo esecutivo vada avanti il processo al cui
interno è stato reso il provvedimento che poi ha acquisito efficacia esecutiva. Ad
es. se si tratta di una sentenza di primo grado se il debitore abbia proposto
appello e quindi sia in corso di svolgimento la fase di impugnazione.
Con riferimento ai creditori intervenuti non muniti di titolo esecutivo, abbiamo visto
che c’è un primo momenti di controllo disciplinato dall’art. 499, quinto e sesto
comma. E’ una prima verifica che si svolge tra il debitore esecutato e il creditore
non munito di titolo esecutivo. L’art. 499 dice espressamente che, se ci sono delle
contestazioni, il giudice le risolve ai soli fini della esecuzione. Ciò non toglie che,
anche laddove il credito sia stato in tutto o in parte riconosciuto dal debitore
esecutato, in sede di distribuzione ci possano essere delle contestazioni. Infatti nel
momento in cui si arriva in sede di distribuzione, l’interesse a contestare
l’esistenza e il modo d’essere dei diversi diritti di credito non appartiene soltanto al
debitore esecutato ma appartiene anche agli altri creditori, e questo perché, più
sono coloro che sono interessati alla distribuzione della somma che è stata
189
ricavata dalla vendita del bene, minore è la possibilità che ciascuno di questi
creditori venga soddisfatto. Ciascun creditore ha quindi l’interesse a contestare
l’esistenza, il modo d’essere, degli altri crediti appartenenti ai creditori che sono
intervenuti.
Parte Seconda
(file 3)
Vi stavo dicendo che, con riferimento a tutti quanti i creditori che sono intervenuti,
vuoi con riferimento ai creditori che sono muniti di un titolo esecutivo, vuoi con
riferimento ai creditori che invece il titolo esecutivo non cel’hanno, si apre la
possibilità che in sede di distribuzione del ricavato sorgano delle contestazioni.
Queste contestazioni potranno provenire, vuoi dal debitore esecutato, vuoi dai
creditori stessi. Potranno riguardare in generale: l’esistenza, l’ammontare, dei
crediti, ma anche la esistenza delle cause legittime di prelazione. Tutte queste
contestazioni potranno dar luogo, aprire, potranno esser fatte valere, nell’ambito di
un rimedio che prende il nome di opposizione in sede di distribuzione e che è
disciplinato nell’art 512.
Questa norma è stata oggetto di riforma nel 2005, infatti fino al 2005 si prevedeva
che la proposizione della opposizione in sede di distribuzione determinasse la
apertura di un processo a cognizione piena. Invece, in base all’attuale testo dell’art
512 se in sede di distribuzione sorge controversia tra creditori concorrenti o tra
creditore e debitore o terzo assoggettato all’espropriazione, circa la sussistenza o
l’ammontare di uno o più crediti, o circa la sussistenza di diritti di prelazione, il
giudice della esecuzione, sentite le parti e compiuti i necessari accertamenti,
provvede con ordinanza impugnabile nelle forme e nei termini di cui all’art 617
secondo comma. Il giudice può, anche con l’ordinanza di cui al primo comma,
sospendere in tutto o in parte, la distribuzione della somma ricavata.
Con questo direi di aver chiuso, con riferimento all’intervento dei creditori, e
andiamo adesso a analizzare la disciplina della vendita forzata.
190
La vendita forzata, diciamo, è la seconda fase del processo di espropriazione
forzata, segue il pignoramento, e lo scopo della vendita forzata è quello di
liquidare i beni che sono stati pignorati, trasformandoli in denaro, che poi verrà
distribuito tra i creditori.
L’apertura della vendita forzata non avviene d’ufficio, abbiamo già evidenziato che
tutti i processi esecutivi sono processi retti dall’impulso di parte, quindi è
necessario che i creditori pongano in essere un atto di impulso processuale,
perché a seguito del pignoramento si apra la fase della vendita forzata.
Come si apre la fase della vendita forzata? Attraverso la proposizione della istanza
di vendita. La istanza di vendita può esser presentata soltanto dal creditore
pignorante o da uno dei creditori che sono intervenuti e che sono muniti di titolo
esecutivo. Tanto si ricava dagli artt 529 e 567 cpc.
Non mi soffermo sulla disciplina della vendita forzata, salvo alcuni rilievi
generalissimi, mentre invece mi voglio soffermare sugli effetti della vendita forzata.
191
La vendita forzata, a prescindere dalle modalità in cui si svolge, è sempre una
vendita che si effettua per contanti. L’aggiudicatario infatti deve pagare il prezzo in
contanti; se il prezzo non viene pagato l’aggiudicatario viene dichiarato decaduto e
si procede ad un nuovo incanto, peraltro a spese, e sotto la responsabilità
dell’aggiudicatario che si è reso inadempiente.
Non ci soffermiamo sulle modalità della vendita, voglio però ricordarvi che a
seguito della proposizione della istanza di vendita il giudice deve fissare un
udienza, ed è la prima udienza del processo di espropriazione forzata in cui il
giudice si troverà di fronte per la prima volta sia il debitore esecutato sia i creditori,
e in questa udienza, disciplinata, per la espropriazione mobiliare dall’art 530 e per
espropriazione immobiliare dall’art 569, il giudice attiva il contraddittorio: quindi
tutte le parti, compreso il debitore, possono fare osservazioni su il tempo e sulle
modalità della vendita, e poi, come andremo a vedere, devono proporre anche, a
pena di decadenza, tutte le opposizioni agli atti esecutivi se non sono già
decadute dal diritto di proporle, ma su questo punto ci soffermeremo oltre.
La vendita forzata produce una serie di effetti sostanziali che sono disciplinati
nell’art 2919 cc e nell’art 586 cpc, che peraltro abbiamo già avuto modo di
richiamare.
192
Peraltro, in base all’art 586 cpc, che abbiamo già esaminato, il giudice
dell’esecuzione, nel momento in cui emana il decreto di trasferimento del bene,
ordina anche la cancellazione della trascrizione dei pignoramenti e delle
iscrizioni ipotecarie che risultano dai pubblici registri a carico del bene venduto, il
cd effetto purgativo della vendita forzata: l’aggiudicatario acquista un bene pulito,
liberato dal peso delle ipoteche, delle iscrizioni ipotecarie.
L’art 2920 ci dice che se oggetto della vendita è una cosa mobile, coloro che
avevano la proprietà o altri diritti reali su di essa, ma non hanno fatto valere le loro
ragioni sulla somma ricavata dall’esecuzione, non possono farle valere nei confronti
dell’acquirente di buona fede, né possono ripeteredai creditori la somma
distribuita. Resta ferma la responsabilità del creditore procedente di mala fede per i
danni e le spese.
Allora, in ipotesi di beni mobili, abbiamo già detto che l’aggiudicatario acquista a
titolo originario, e quindi abbiamo già detto, a suo tempo, quando abbiamo
analizzato le regole di svolgimento della espropriazione mobiliare, che il terzo che
193
è proprietario del bene pignorato, ha come rimedio obbligatorio, perché è l’unico,
l’opposizione di terzo di cui all’art 619, e abbiamo già sottolineato che il terzo
deve, non soltanto aprire il processo di opposizione di terzo alla esecuzione, ma
deve riuscire a ottenere anche la sospensione del processo esecutivo, perché,
abbiamo detto che se il processo esecutivo va avanti e si arriva alla vendita
forzata, l’aggiudicatario maturerà un acquisto a titolo originario, come regola
generale, e quindi è un acquisto che non potrà più esser toccato.
Questa disposizione ci dice anche che, aggiunge qualcosa al quadro già delineato,
perché ci dice che il terzo, proprietario del bene, non può neppure ripetere dai
creditori la somma distribuita: quindi se il processo esecutivo va avanti, si
perfeziona la vendita e si va avanti e si arriva anche alla distribuzione del ricavato,
il terzo non potrà neppure ripetere le somme che sono state distribuite tra i
creditori.Quindi è indispensabile per questo terzo non soltanto aprire la
opposizione di terzo, ma anche ottenere il provvedimento di sospensione, vi
ricordo peraltro che, questa opposizione di terzo, in base all’art 620 cpc, può
esser anche tardiva. La norma prevede infatti che se in seguito alla opposizione il
giudice nonsospende la vendita dei beni mobili, o se la opposizione è proposta
dopo la venditastessa, i diritti del terzo si fanno valere sulla cosa ricavata.
(File 4)
La vendita forzata, assieme alla distribuzione del ricavato, è uno dei risultati finali
del processo esecutivo. Per il legislatore è molto importante assicurarne la
stabilità, infatti la stabilità, la certezza della vendita forzata vale come incentivo a
ciò che i cittadini prendano parte al procedimento.
Questo garantisce il risultato della vendita forzata, l’acquisto dei beni che sono
oggetto di vendita forzata e a dei prezzi diciamo competitivi, e questo
naturalmente serve a garantire il soddisfacimento dei creditori (creditore
procedente e creditori che sono intervenuti).
Naturalmente è possibile che si verifichino dei vizi, è possibile che la parte che ha
effettuato l’offerta avesse una volontà viziata, inficiata daerrore per esempio. È
possibile che il procedimento non si svolga nel rispetto di quanto previsto dalla
legge, supponiamo che il giudice aggiudichi il bene ad un cittadino che non ha
effettuato l’offerta maggiore.
Quindi la domanda che ci dobbiamo porre è quella relativa alla individuazione dei
rimedi per il cui tramite denunciare questi vizi, e naturalmente si aprono due
prospettive:
195
negoziali, quindi è possibile esercitare la azione ad esempio di annullamento se
alla base della offerta vi era una volontà viziata
Con riferimento ai vizi di tipo formale, si tratta di ipotesi in cui uno degli atti del
processo esecutivo è stato compiuto in maniera non conforme a quanto previsto
dalla legge, quindi in difetto di uno dei requisiti di forma contenuto imposti dalla
legge. Ricordatevi che il nostro ordinamento ha adottato un principio generale che
è fissato nell’art 159 cpc a tenore del quale la nullità di un atto si estende agli atti
successivi che ne siano dipendenti. Quindi, se il vizio colpisce un atto precedente
alla vendita forzata e non viene sanato, la nullità che deriva da questo vizio è
potenzialmente idonea a inficiare la vendita forzata.
196
Allora, in verità il legislatore ha predisposto alcuni meccanismi tesi ad invece
consolidare la vendita, quindi ad evitare possibili caducazioni.
Infatti, se voi prendete l’art 530 cpc, siamo in materia di espropriazione mobiliare,
voi trovate scritto, si tratta di una disposizione che disciplina l’udienza fissata dal
giudice a seguito della presentazione della istanza di vendita. E vedete al secondo
comma che all’udienza le parti possono fare osservazioni circa la assegnazione e
circa il tempo e le modalità della vendita, e debbono proporre, a pena di
decadenza, le opposizioni agli atti esecutivi, se non sono già decadute dal diritto di
proporle. Una disposizione perfettamente analoga la ritrovate nell’art 569 secondo
comma del cpc in materia di espropriazione immobiliare: allora all’udienza, fissata
a seguito della presentazione della istanza di vendita, le parti debbono proporre le
opposizioni agli atti esecutivi, se non sono già decadute dal diritto di proporle,
quindi significa che questa, l’udienza successiva all’istanza di vendita è l’ultimo
momento in cui le partipossono denunciare vizi derivanti da un requisito di forma
contenuto relativo ad un atto precedente la vendita, o relativi al difetto di un
requisito extra formale generale, è l’ultimo momento perché, il codice è molto
chiaro, fa riferimento a una decadenza stretta, una decadenza rigida.
Come vedete si richiama la opposizione agli atti esecutivi, che è il rimedio generale
del processo esecutivo. Ora, come andremo a vedere in una successiva lezione, la
opposizione agli atti esecutivi non determina la sospensione del processo
esecutivo, non determina la sospensione necessaria, per cui, anche se questa
opposizione agli atti esecutivi è già stata proposta, o viene proposta nell’udienza
successiva alla presentazione della istanza di vendita, è possibile che il processo
nel frattempo vada avanti, che si arrivi e si perfezioni la vendita forzata, e che
l’opposizione agli atti esecutivi venga accolta all’indomani della chiusura del
procedimento di vendita.
Ora, in base alle regole generali, in base cioè al principio di cui all’art 159 secondo
cui la nullità di un atto comporta la nullità degli atti successivi che ne sono
dipendenti, se si dovesse applicare questo principio, dovremmo ritenere che, a
seguito dell’accoglimento della opposizione agli atti esecutivi, la vendita forzata ne
dovrebbe risultare travolta. Questo però è un risultato che il legislatore ha voluto in
tutti i modi evitare, perché avrebbe compromesso la funzione stessa del processo
esecutivo, e allora ha previsto nell’art 2929 cc che la nullità degli atti esecutivi che
hanno preceduto la vendita o la assegnazione, non ha effetto riguardo
all’acquirente o all’assegnatario, salvo il caso di collusione col creditore
procedente. Questa norma di fatto esclude la possibilità di applicare il principio
generale di cui all’art 159, con la conseguenza che la validità della vendita forzata
è sganciata dalla validità delle fasi esecutive che l’hanno preceduto.
Peraltro la giurisprudenza ha lavorato sul testo della disposizione per ritenere, non
soltanto che questa regola non vale in caso di collusione col creditore procedente,
questo è un inciso previsto dalla stessa norma, ma non vale con riferimento alle
nullità che riguardano lo stesso sub procedimento di vendita.
197
La stessa giurisprudenza poi ha lavorato sulla regola dettata dall’art 2929 per
ritenere, per affermare, che la vendita forzata non solo non può esser travolta dalla
sentenza che successivamente accoglie la opposizione agli atti esecutivi, ma
neanche dalla sentenza che, successivamente alla vendita forzata, accoglie la
opposizione alla esecuzione di cui all’art 615 cpc. Una posizione questa senz’altro
meritevole di essere accolta nella misura in cui risponde alla stessa fondamentale
esigenza su cui riposa l’art 2929 di assicurare la certezza e la solidità della vendita
forzata.
Intanto dobbiamo ricordare che il bene non può mai essere assegnato ad un
creditore per un valore inferiore a quello di stima, è questo quanto si desume dagli
art 538 535 589 e 568.
Inoltre, sempre nella ipotesi in cui al processo esecutivo prendano parte più
creditori, fermo restando il limite del valore di stima, il limite secondo cui il bene
non può mai esser assegnato per un valore inferiore a quello distima, in base al
disposto dell’art 506 la assegnazione può esser fatta soltanto per un valore non
inferiore alle spese di esecuzione e ai crediti aventi diritto di prelazione anteriori a
quello dell’offerente.
Ora, dobbiamo distinguere diverse ipotesi. Cioè ipotesi in cui la assegnazione può
esser definita coattiva, da ipotesi in cui la assegnazione è invece volontaria.
Infatti, in base all’art 553 comma primo del cpc ci sono dei beni che debbono
essere oggetto di assegnazione forzata, senza che prima si proceda alla vendita, e
il riferimento è alle ipotesi in cui oggetto di pignoramento sono dei crediti che
siano scaduti o che scadano entro 90 giorni.
Ancora, in base all’art 539 debbono essere assegnati, dopo un tentativo di vendita
fallito, gli oggetti d’oro e di argento che non possono in nessun caso esser venduti
per un prezzo inferiore al valore intrinseco. Accanto a queste, che sono le ipotesi
di assegnazione coattiva, in cui cioè si prescinde dalla domanda dei creditori, vi
sono delle ipotesi in cui la assegnazione è invece volontaria.
(File 5)
La prima ipotesi è il caso in cui vi sono dei beni che in base all’art 529 cpc
possono esser assegnati senza un previo tentativo di vendita. In base a questa
disposizione è questo quello che vale avuto riguardo ai titoli di credito e alle altre
cose il cui valore risulta dallistino di borsa o di mercato. Perché qua il legislatore
prescinde dal previo tentativo di vendita? Perché si tratta di beni il cui valore
risulta da un listino, quindi anche se si procedesse a vendita non si potrebbe
realizzare un valore maggiore.
199
L’altra ipotesi riguarda tutti gli altri beni che però possono esser assegnati soltanto
dopo che un primo tentativo di vendita è andato fallito. Perché untentativo di
vendita va fallito? Va fallito perché non si raggiunge il prezzo di stima del bene. Il
creditore quindi, se chiede la assegnazione per il valore di stima, di fatto non
pregiudica né il debitore esecutato né gli altri creditori intervenuti, perché quel
valore non è stato raggiunto nel primo tentativo di vendita, quindi non è inferiore al
valore effettivo del bene secondo la stima. Quindi, in base a questi meccanismi si
ha la garanzia che la assegnazione non ha mai luogo in pregiudizio del debitore o
degli altri creditori.Naturalmente, in questa ultima ipotesi, quindi con riferimento a
tutti i beni diversi da quelli che ho richiamato nelle prime ipotesi, vale il limite di cui
all’art 506, quindi non soltanto il bene non può essere assegnato per un valore
inferiore a quello di stima, ma non può esser assegnato neppure per un valore
inferiore alle spese di esecuzione e ai crediti aventi un diritto a prelazione anteriore
a quello dell’offerente. Peraltro la stessa disposizione precisa che se il valore
eccede quello indicatonel comma precedente, sulla eccedenza concorrono
l’offerente e gli altri creditori osservate le cause legittime di prelazione che le
assistono. Quindi il valore della assegnazione è il maggiore tra il valore di stima del
bene e la somma delle spese di esecuzione dei crediti che hanno prelazione, e che
sono collocati anteriormente al creditore offerente.
L’assegnazione forzata produce effetti sostanziali che sono disciplinati negli art
dal 2925 al 2928 cc.
L’art 2925 afferma che l’assegnazione forzata produce effetti sostanziali analoghi a
quelli della vendita forzata, salvo alcune precisazioni.
Infatti, con riferimento alle ipotesi in cui oggetto di assegnazione forzata sono beni
mobili che non siano di proprietà del debitore, il creditore assegnatario, che
acquista il possesso sulla base di un titolo astrattamente idoneo, fa salvo il proprio
acquisto, ma non viene fatto salvo l’effetto satisfattivo della assegnazione. Allora, il
terzo proprietario, ci dice l’art 2926 cc, entro 60 giorni dalla assegnazione può
rivolgersi all’assegnatario di buona fede allo scopo di ripetere la somma
corrispondente al suo credito soddisfatto con la assegnazione. Quindi,
evidentemente è una previsione che si applica alle ipotesi di assegnazione
satisfattiva, in cui cioè la assegnazione ha prodotto non soltanto un effetto
traslativo, ma anche un effetto estintivo.
200
Lezione 12 - 22/04/20
Andiamo ad analizzare la fase del processo di esecuzione forzata successiva alla
vendita forzata o assegnazione forzata. La DISTRIBUZIONE DEL RICAVATO.
La disciplina della distribuzione del ricavato è contenuta negli artt 509 fino a 512
(disciplina generale) e poi con riferimento alla espropriazione mobiliare e
immobiliare, la disciplina la ritroviamo negli artt 541 e 542 e 596 fino a 598. ai fini
della disciplina della distribuzione del ricavato occorre intanto distinguere le hp in
cui il processo esecutivo si è svolto alla presenza del solo creditore pignorante,
quindi senza l'intervento di altri creditori; casi in cui si è verificato l'intervento di
altri creditori.
1. Nel primo caso l'art 510 c.1 stabilisce che il giudice dell'esecuzione, sentito
il debitore, dispone a favore del creditore pignorante, il pagamento di quanto
gli spetta per capitale , interessi e spese. Precisa poi al c. 3 che l'eventuale
residuo della somma ricavata viene data al debitore o al terzo che ha subito
l'espropriazione.
2. Nel secondo caso invece, che rappresenta ciò che avviene nella quasi
totalità dei casi, occorre distinguere a seconda che con riferimento alla
distribuzione del ricavato si formi oppure no un accordo fra il debitore e i
creditori.
ESPROPRIAZIONE MOBILIARE → dalla lettura degli artt 541 e 542 si ricava che i
creditori possono chiedere che la distribuzione della somma ricavata avvenga
secondo un piano tra loro concordato. Il giudice verifica il piano e , ove l'approvi,
potrà provvedere secondo quanto concordato dal creditore. Ovviamente occorre
che anche il debitore sia d'accordo, se non lo è, questi utilizzerà il rimedio di cui
all'art 512.
Questa disposizione (art 512) l'abbiamo già letta, ma è opportuno ricordare che è
stata oggetto di riforma nel 2005. Prima di tale data, le ccdd opposizioni in sede di
distribuzione determinavano l'apertura di un processo a cognizione piena
destinato a chiudersi con una sentenza suscettibile di acquistare autorità di cosa
giudicata. E questa sentenza accertava l'esistenza e il modo d'essere dei diritti
vantati dai creditori intervenuti.
Il legislatore del 2005 invece ha fatto una scelta diversa: ha voluto che tutte queste
contestazioni fossero risolte dal giudice dell'esecuzione sulla base di un
accertamento sommario con un provvedimento avente la forma della ordinanza,
soggetta ad opposizione agli atti esecutivi ex art 617 cpc.
Laddove non c'è accordo delle parti, l'hp più semplice è che sorgano delle
contestazioni in fase di distribuzione del ricavato. Contestazioni che in base
all'attuale lettera dell'art 512, il giudice dell'esecuzione è chiamato a risolvere sulla
base di un accertamento sommario, con un provvedimento avente la forma
dell'ordinanza, suscettibile di essere impugnata mediante opposizione agli atti
esecutivi. Naturalmente, anche con riferimento a queste hp nasce la stessa
domanda sorta con riferimento alla hp precedentemente esaminata. Ma accanto a
questa hp ce ne sono anche altre, ossia tutte le hp in cui si arriva alla distribuzione
del ricavato sulla base di meccanismi che si basano sulla non contestazione.
Dobbiamo però fare una serie di distinzioni.
Pensiamo alla hp più banale, quella in cui il creditore ha agito sulla base di una
sentenza di condanna di primo grado provvisoriamente esecutiva ex art 282 cpc. Il
giudizio di impugnazione non può bloccare lo svolgimento del processo esecutivo
a meno che il giudice dell'impugnazione non accolga l'istanza di inibitoria. È quindi
possibile che il provvedimento sulla cui base il creditore ha agito o è intervenuto,
venga annullato dal giudice dell'impugnazione dopo che si è già pervenuti alla
distribuzione del ricavato. Anche qui si tratta di capire se la distribuzione del
ricavato rimane in piedi o no.
Creditori non muniti di titolo esecutivo → l'art 499 stabilisce che “il giudice fissa
un'udienza in base al disposto del c. 5 e 6 di comparizione davanti a sé del
debitore e dei creditori intervenuti privi di titolo esecutivo e che all'udienza di
comparizione il debitore deve dichiarare quale dei crediti egli intenda riconoscere
in tutto o in parte. Se il debitore non compare, si intendono riconosciuti tutti i
crediti per i quali hanno avuto interventi in assenza di titolo esecutivo. In tutti i casi
il riconoscimento rileva ai soli effetti dell'esecuzione.
In questo caso si prevede quindi che il debitore riconosca in tutto o in parte questi
crediti, ma questo riconoscimento vale soltanto ai fini dell'esecuzione.
Nel caso in cui questi crediti non vengano riconosciuti, soccorre il disposto dell'art
510 c. 2 in cui si dice che “il giudice nel momento in cui dispone la distribuzione
della somma ricavata fra i creditori, deve accantonare le somme che spetterebbero
ai creditori intervenuti privi di titolo esecutivo i cui crediti non siano stati in tutti in
parte riconosciuti dal debitore”, l'accantonamento, dice il c.3, “è disposto dal
giudice dell'esecuzione per il tempo ritenuto necessario affinché i predetti
creditori possano munirsi di titolo esecutivo e, in ogni caso, per un periodo di
tempo non superiore a 3 anni. Dopodiché trascorso questo termine, su istanza di
una delle parti o d'ufficio, il giudice dispone la comparizione davanti a sé del
debitore, del creditore procedente e dei creditori intervenuti, con l'eccezione di
coloro che siano già stati integralmente soddisfatti, e dà luogo alla distribuzione
204
della somma accantonata tenuto conto anche dei creditori intervenuti che si siano
nel frattempo muniti di titolo esecutivo. La comparizione delle parti per la
distribuzione della somma accantonata è disposta anche prima che sia decorso il
termine fissato se vi è istanza di uno dei predetti creditori e non ve ne siano altri
che ancora debbano munirsi di titolo esecutivo”.
Quindi se:
-se il debitore riconosce questi crediti e non sorgono contestazioni ex art 512, si
tratta di stabilire se questo riconoscimento e la partecipazione alla distribuzione
della somma ricavata, vale come accertamento dell'esistenza di questo diritto e
quindi attribuisce a questi creditori la possibilità di agire successivamente nei
confronti dello stesso debitore per ottenere il soddisfacimento del credito residuo
senza che il creditore possa opporre delle contestazioni.
Questa soluzione, per queste considerazioni legate alle finalità del processo
esecutivo, deve essere estesa sulla base dell'argomento a fortiori all'hp in
cui il giudice disponga la distribuzione del ricavato a seguito della soluzione
delle contestazioni ai sensi dell'art 512, dal momento in cui l'art 512 prevede
espressamente che queste controversie vengono risolte dal giudice
dell'esecuzione con un provvedimento avente la forma dell'ordinanza.
Si può ritenere quindi che anche in questo caso la soluzione della controversia
vale solo ai fini della distribuzione del ricavato di cui è importante garantire la
stabilità. Tuttavia naturalmente non vale come accertamento a cognizione piena in
ordine alla esistenza e all'ammontare del totale credito.
Possiamo affrontare allora l'ultima hp, cioè quella in cui a seguito della
distribuzione del ricavato, venga accolta l'opposizione all'esecuzione presentata
dal debitore contro uno dei creditori munito di titolo esecutivo. Argomentando sul
disposto dell'art 2929 cc, la dottrina ritiene che l'accoglimento tardivo
dell'opposizione all'esecuzione non travolge la vendita forzata, ma può travolgere
la distribuzione del ricavato. Questa soluzione viene estesa anche alla hp in cui, a
seguito della distribuzione del ricavato, viene riformato il provvedimento
giurisdizionale sulla cui base il creditore ha agito o è intervenuto nel processo
esecutivo. Provvedimento giurisdizionale che però nel frattempo era stato
impugnato.
L'ultima hp in cui la distribuzione del ricavato viene meno è l'unico caso in cui si
può verificare la caducazione della vendita forzata, cioè l'hp in cui l'aggiudicatario
o l'assegnatario subisce l'EVIZIONE art 2921 o 2927 cc. Queste sono le hp in cui
la vendita forzata viene meno, l'aggiudicatario o assegnatario ha diritto di ripetere
le somme che ha prestato e quindi deve cadere anche la distribuzione del ricavato.
E' un istituto che abbiamo incrociato più volte. È istituto che è stato concepito dal
legislatore del 1942 come un istituto assolutamente secondario/residuale, ma
che nel corso degli anni ha subito una grossissima rivoluzione. Infatti, come hanno
dimostrato gli studi svolti dal professor Oriani, possiamo dire che l'opposizione
agli atti esecutivi svolge con riferimento al processo esecutivo, una funzione
analoga a quella svolta nel processo a cognizione piena dal principio di
206
conversione di nullità in motivi di impugnazione ai sensi dell'art 161 c. 1 cpc. Si
tratta dello strumento che dà stabilità ai risultati ultimi del processo esecutivo,
ossia: vendita o assegnazione forzata da una parte; distribuzione del ricavato
dall'altra.
Il legislatore del 1942 aveva pensato l'opposizione agli atti esecutivi come un
rimedio avverso i vizi formali degli atti del processo amministrativo. Questa origine
traspare in maniera evidente dalla lettera dell'art 617. Infatti la disposizione
prevede che “Le opposizioni relative alla regolarità formale del titolo esecutivo e
del precetto si propongono, prima che sia iniziata l'esecuzione, davanti al giudice
indicato nell'articolo 480 terzo comma, con atto di citazione da notificarsi nel
termine perentorio di venti giorni dalla notificazione del titolo esecutivo o del
precetto.
Le opposizioni di cui al comma precedente che sia stato impossibile proporre
prima dell'inizio dell'esecuzione e quelle relative alla notificazione del titolo
esecutivo e del precetto e ai singoli atti di esecuzione si propongono con ricorso al
giudice dell'esecuzione nel termine perentorio di venti giorni dal primo atto di
esecuzione, se riguardano il titolo esecutivo o il precetto, oppure dal giorno in cui i
singoli atti furono compiuti”.
· l'art 617 invece parla di regolarità formale del titolo esecutivo, quindi si
contesta che il titolo non sia stato spedito per es in forma esecutiva, così
come si può contestare la regolarità formale del processo, cioè che sia stato
redatto in maniera difforme da quanto previsto dall'art 480 → si contesta
uno dei requisiti di forma contenuto di questo atto.
· Ancora è stato ampliato il numero dei vizi che possono essere denunciati
attraverso l'opposizione. Secondo la giurisprudenza il rimedio può essere
utilizzato non soltanto per contestare l'esistenza di vizi formali, ma anche di
vizi extra formali. Non solo, ritiene anche che si possano contestare talune
valutazioni di opportunità che il giudice dell'esecuzione è chiamato a
svolgere, per esempio quelle relative alle modalità del pignoramento.
· C'è stato poi un lavoro molto importante della giurisprudenza sul TERMINE
dell'opposizione. Oggi il termine è di 20 gg, però questa previsione risale alla
riforma del 2005, prima della riforma il termine era di 5 gg.
RIMEDI:
E' disciplinata negli artt 599 fino a 601. come facilmente intuibile si tratta delle hp
in cui il debitore esecutato è solo uno dei proprietari di un determinato bene.
Chiaramente se tutti i comproprietari sono debitori nei confronti di un unico
creditore non si pone alcun problema poiché il creditore potrà agire nei confronti di
tutti i debitori comproprietari in base alle regole generali; problemi invece sorgono
quando il debitore sia solo uno dei più comproprietari.
Naturalmente il processo esecutivo dovrà esercitarsi nei soli confronti del debitore
esecutato. È a lui che il creditore dovrà notificare il titolo esecutivo e il precetto. E
anche il pignoramento dovrà svolgersi nei confronti del solo debitore secondo le
disposizioni generali che abbiamo già analizzato. Ciò premesso, dobbiamo partire
da quanto disposto dall'art 599, il cui c. 1 ammette espressamente che possono
essere pignorati anche beni indivisi anche quando non tutti i comproprietari sono
obbligati verso il creditori; nel c.2, a proposito del pignoramento, si precisa che del
pignoramento è notificato avviso a cura del creditore pignorante anche agli altri
comproprietari, ai quali è fatto divieto di lasciare separare dal debitore la sua parte
delle cose comuni senza ordine del giudice. Qual è la ratio che sta a fondamento
di questo divieto?
209
La ratio è quella di evitare che si proceda velocemente ad una separazione e che
al debitore vengano attribuiti beni, o una parte dei beni in comuni, che hanno un
valore inferiore rispetto alla sua quota della comproprietà. L'effetto di questo
avviso è quello di rendere inefficace nei confronti del creditore pignorante una
eventuale separazione della quota del debitore avvenuta in assenza di un ordine
del giudice.
È necessario intanto che con questo avviso, o con un altro atto, i comproprietari
siano citati a comparire davanti al giudice dell'esecuzione, e questo è
espressamente previsto dall'art 180 c.2 disp. Att.
1. in base all'art 600 c.1 “Il giudice dell’esecuzione, su istanza del creditore
pignorante o dei comproprietari e sentiti tutti gli interessati, provvede,
quando è possibile, alla separazione della quota in natura spettante al
debitore”. Questa separazione in natura è possibile e non pone problemi
allorquando si proceda sulla base di un accordo di tutti i comproprietari,
accordo che dovrà essere approvato dal giudice. Si avrà in tal senso una
sorta di divisione consensuale alla quale prende parte però anche il giudice.
Laddove manchi l'accordo dei comproprietari, l'accordo sarà possibile solo
se oggetto della comproprietà sono beni mobili fungibili, quindi beni che si
prestano ad essere separati senza difficoltà. In questo caso il giudice
provvederà con ordinanza impugnabile tramite il rimedio generale
dell'opposizione agli atti esecutivi di cui all'art 617 cpc.
3. Quanto alla divisione giudiziale si applicano gli artt 784 ss cpc e il processo
esecutivo dovrà essere sospeso ex lege finché non si sia perfezionata la
divisione o a seguito di un accordo delle parti (compreso del creditore
precedente, che assume la posizione di creditore opponente ex art 1113 cc)
oppure, dove l'accordo non si raggiunga, a seguito di sentenza che dichiari
la divisione, che può essere sentenza di primo grado (coperta dall'autorità di
cosa giudicata) o una sentenza d’appello.
210
Leggiamo l’art. 602: “quando oggetto dell’espropriazione è un bene gravato da
pegno o da ipoteca per un debito altrui, oppure un bene la cui alienazione da parte
del debitore è stata revocata per frode, si applicano le disposizioni contenute nei
capi precedenti in quanto non siano modificate dagli articoli che seguono”.
Intanto questa previsione si collega a quanto stabilito nell’art. 2910 secondo
comma cc. laddove si prevede che “possono essere espropriati anche beni di un
terzo quando sono vincolati a garanzia del credito, o quando sono oggetto di un
atto che è stato revocato perché compiuto in pregiudizio del creditore”.
Quali sono le ipotesi che rientrano in queste previsioni? Si tratta dei casi in cui vi è
un terzo, ad esempio, che è proprietario di un bene su cui è stata iscritta
un’ipoteca a vantaggio del creditore procedente. Quindi si tratta o del terzo datore
di ipoteca, quindi un terzo che ha prestato una garanzia reale a favore del debitore;
oppure del terzo che acquistato l’immobile ipotecato (ricordatevi che una delle
caratteristiche dell’ipoteca è il c.d. diritto di seguito, per cui anche se il bene viene
venduto questa garanzia continua a gravare sul bene); oppure si tratta dell’ipotesi
in cui il terzo ha concesso un bene mobile in pegno per un debito altrui; l’ultima
ipotesi a cui si fa riferimento è quella in cui contro il terzo è stata vittoriosamente
esercitata un’azione revocatoria, quest’ultima è disciplinata dall’art 2901 cc ed è
uno dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale che affianca l’azione
surrogatoria e il sequestro conservativo. Abbiamo già avuto modo di ricordare che
questi tre istituti si collegano alla garanzia patrimoniale così come descritta nell’art.
2740 cc secondo cui il debitore risponde delle proprie obbligazioni con tutti i suoi
beni presenti e futuri. Attraverso questi tre istituti il legislatore si propone di
conservare la garanzia patrimoniale, quindi di evitare che il patrimonio del debitore
possa essere disperso.
Ora, questi tre istituti, che a livello sostanziale svolgono una funzione unitaria, a
livello processuale hanno una collocazione completamente diversa l’una dall’altra,
perché a suo tempo abbiamo visto che l’azione surrogatoria è una forma di
legittimazione straordinaria, quindi rientra nella previsione dell’art. 81 cpc; il
sequestro conservativo abbiamo detto che è una misura cautelare; l’azione
revocatoria è un’azione che il creditore esercita nel momento in cui il debitore ha
posto in essere un atto in frode dei creditori, quindi ha posto in essere un atto
dispositivo per il cui tramite ha trasferito un bene del patrimonio ad un terzo
avente causa in frode dei creditori.
Il sequestro conservativo, in fin dei conti, è una misura anticipatoria, cioè che viene
richiesta al fine di evitare che il debitore ponga in essere gli atti dispositivi.
211
L’effetto della sentenza che accoglie l’azione revocatoria, è quello di rendere l’atto
dispositivo inopponibile al creditore, quindi il creditore potrà agire esecutivamente
sul bene oggetto dell’atto revocato anche se il bene fa parte del patrimonio del
terzo. Quindi anche in questo caso abbiamo un terzo che con un bene che gli
appartiene a tutti gli effetti, risponde di un debito altrui.
Come possiamo notare, si tratta di ipotesi molto specifiche, che hanno una natura
analoga alle altre ipotesi in cui i terzi che, per altri motivi, si trovano a rispondere
con un proprio bene di un debito altrui. Ricordiamoci di quando abbiamo descritto
l’espropriazione mobiliare e l’espropriazione immobiliare. Ci siamo occupati delle
ipotesi di terzi i cui beni vengono rinvenuti nei luoghi del 513 e cadono nelle maglie
del pignoramento; così come ci siamo occupati, nell’ambito dell’espropriazione
immobiliare, delle ipotesi in cui il terzo ha acquistato l’immobile con atto avente
data certa anteriore al pignoramento, ma che non ha trascritto il suo acquisto, per
cui il pignoramento viene trascritto prima della trascrizione del suo atto d’acquisto.
Abbiamo detto trattarsi di terzi che rispondono con un proprio bene di un debito
altrui, però questi terzi non hanno una posizione ufficiale nell’ambito del processo
di espropriazione forzata, mentre nei casi rientranti nella previsione dell’art. 602, il
terzo proprietario si vede attribuiti una serie di poteri molto incisivi, perché, come
andremo a vedere, il terzo proprietario è legittimato sia ad esperire l’opposizione
all’esecuzione di cui all’art. 615, sia a proporre opposizione agli atti esecutivi.
L’art. 602 afferma che in queste ipotesi si applicano le disposizioni contenute nei
capi precedenti in quanto non siano modificate dagli articoli che seguono.
Ora, l’art. 603 prevede come prima deviazione rispetto alla disciplina generale, che
il titolo esecutivo e il precetto debbono essere notificati anche al terzo e che nel
precetto debba essere fatta espressa menzione del bene del terzo che si intende
espropriare. Ricordiamoci che siamo di fronte ad ipotesi in cui c’è una
divaricazione tra titolarità del debito e responsabilità patrimoniale, ma ricordiamoci
anche che il terzo non risponde del debito altrui con tutto il suo patrimonio, ma
con il singolo bene, che potrà essere o il bene oggetto del pegno, o l’immobile su
cui è iscritta l’ipoteca, o il bene oggetto dell’atto dispositivo dichiarato inefficace a
seguito dell’esercizio dell’azione revocatoria o colpito dall’azione di simulazione.
212
Potrà spendere motivi di rito, ad esempio, contestando la qualità del titolo
esecutivo sulla cui base il creditore procedente ha agito; potrà spendere motivi di
merito relativi anzitutto alla inesistenza del credito di cui il creditore procedente
vuole avere il soddisfacimento e a questo riguardo si deve ricordare che laddove il
creditore ha nelle sue mani una sentenza, anche passata in giudicato, il terzo può
contestarne comunque l’ingiustizia, perché in base al disposto di cui agli artt. 2859
e 2870 cc, siamo difronte ad un terzo che è soggetto all’efficacia riflessa debole
del giudicato altrui (ma su quest’ipotesi mettiamo un asterisco perché maggiori
chiarimenti verrano offerti quando andremo a trattare i c.d. limiti soggettivi del
giudicato); oppure il terzo potrà spendere motivi di merito inerenti alla mancanza di
presupposti sulla cui base il creditore procedente ha agito nei suoi confronti, per
esempio potrà eccepire che il pegno o l’ipoteca si sono prescritti oppure che l’atto
per il cui tramite è stata concessa l’ipoteca o il pegno è nullo.
213
Questo pone immediatamente una domanda, si tratta di verificare se questi
procedimenti esecutivi danno luogo ad una deroga del principio della parcondicio
creditorum, fissato nell’art. 2741 cc.
L’ipotesi è in particolare quella in cui c’è un creditore che agisce per la consegna
di un bene mobile e il bene mobile nel frattempo è già stato pignorato dagli altri
creditori del debitore esecutato, perché? Perché si tratta di un bene che l’ufficiale
giudiziario ha trovato nei luoghi di cui all’art. 513.
Allora per evitare questa situazione, nell’art. 607 si legge che “se le cose da
consegnare sono pignorate, la consegna non può aver luogo e la parte istante
deve far valere le sue ragioni mediante opposizione a norma degli artt. 619 e ss.”
In pratica cosa succede?
214
Quindi questa disposizione elimina qualsiasi situazione potenzialmente pericolosa,
perché l’attuazione del diritto alla consegna del bene avrebbe potuto essere
utilizzata per aggirare tutte le disposizioni dettate dal legislatore in tema di
espropriazione mobiliare per evitare che alcuni beni vengano sottratti dalla
responsabilità patrimoniale del debitore.
Con riferimento ai beni immobili questo problema non si pone, perché il rilascio del
bene immobile non è mai idoneo a far maturare al creditore un acquisto a titolo
originario, per cui non si pone alcun problema di coordinamento.
Allora, quello che si può desumere da queste brevissime osservazioni, è che non si
pone un problema di deroga o violazione del principio della parcondicio
creditorum, perché la regola generale è che il creditore, che agisce per la
consegna o per il rilascio del bene, ha un diritto su quel bene, quindi
generalmente, il bene non fa più parte del patrimonio del debitore esecutato per
cui non fa parte della garanzia patrimoniale del debitore esecutato.
Per quanto riguarda invece l’esecuzione in forma specifica per obbligo di non fare
(che a suo tempo abbiamo detto che va letta come “obbligo di distruzione di
un’opera illegittima”), avendo ad oggetto un’opera illegittima, si deve ritenere che
si tratti di un’opera che appunto non fa parte legittimamente del patrimonio del
debitore, e quindi non si pone nessun tipo di problema.
Si deve per altro anticipar che come avremo modo di vedere tra poco in base a
quanto stabilito dalla legge, le spese per l’esecuzione dell’opera sono sempre
anticipate dal creditore, creditore che, nel momento in cui le vuole recuperare
dall’obbligato e questo risulti inadempiente, dovrà necessariamente procurarsi un
titolo esecutivo ed aprire il processo di espropriazione forzata nel concorso con gli
altri creditori.
215
Quindi con riferimento specifico al procedimento di espropriazione forzata in forma
specifica con obbligo di consegna o rilascio, se l’obbligo di consegna ha ad
oggetto dei beni mobili che sono fungibili e quindi che sono reperibili sul libero
mercato, il creditore non può aprire un processo di esecuzione forzata in forma
specifica, ma dovrà acquistare sul libero mercato i beni a cui ha diritto, dopo di
che dovrà rivolgersi al debitore inadempiente per ottenere la restituzione di quanto
ha dovuto pagare per procurarsi il bene ed eventualmente anche il risarcimento del
danno.
Perché noi sappiamo che i beni immobili sono per definizione infungibili. Quindi se
il debitore non ottempera al suo diritto di un bene immobile, è impensabile che il
creditore possa reperire un bene analogo sul mercato. È chiaro che l’unica
possibilità è aprire il processo di esecuzione forzata in forma specifica per obbligo
di rilascio.
Vi faccio notare che con riferimento alle due forme di esecuzione forzata in forma
specifica acquista rilievo la circostanza che la prestazione sia fungibile o
infungibile, anche se è necessario fare alcune precisazioni, perché: nell’esecuzione
forzata in forma specifica per obbligo di consegna o rilascio, ciò che rileva è
l’infungibilità del bene che costituisce l’oggetto della consegna o del rilascio e qui
l’infungibilità rileva nella misura in cui, se il bene è fungibile, allora il creditore dovrà
conseguirlo attraverso atti di autonomia privata.
La disciplina la ritroviamo nel c.p.c. dagli artt. 605 fino a 611, mentre nel c.c. rileva
l’art. 2930.
217
Oltre a questi rilievi, la norma richiama espressamente che può trattarsi di cosa
mobile o di cosa immobile, e richiamando quanto detto precedentemente, a ciò
possiamo aggiungere che deve trattarsi di cose INFUNGIBILI (di cose determinate
infungibili). Perché se le cose sono fungibili il creditore, come abbiamo già
spiegato, dovrà procurarsi il soddisfacimento della sua pretesa rivolgendosi al
libero mercato, attraverso un atto di autonomia sostanziale.
Perché l’avente diritto potrebbe non avere il denaro sufficiente per ricomprare lo
stesso bene sul mercato. Quindi in questa particolare ipotesi il processo di
esecuzione forzata dovrà ritenersi necessariamente ammesso.
Quindi con riferimento ai beni mobili dobbiamo distinguere i beni che sono
anzitutto infungibili sul piano oggettivo dai beni che invece sono fungibili.
Beni infungibili sono, per fare un esempio, le opere d’arte, un quadro di un artista
famoso. Qui appare chiaro , ragionando sulle caratteristiche del bene in questione,
che il creditore potrà sempre far ricorso all’esecuzione per consegna o rilascio
laddove il debitore non ottemperi al suo obbligo di consegna.
Con riferimento però ai beni mobili che di per sé sono fungibili occorre ricordare
che la nozione di fungibilità è relativa—> nel senso che un bene che pur essendo
fungibile sul piano oggettivo, può diventare infungibile sul piano soggettivo.
In verità, nonostante che l’art. 608 parli espressamente di possesso, dalla lettura
dell’art. 2930 cc si ricava che l’esecuzione forzata per consegna o rilascio può
essere utilizzata anche per chi vuole recuperare non il possesso ma la detenzione
del bene. Cioè, questo processo esecutivo può essere utilizzato anche per dar
attuazione ad un diritto di consegna o al rilascio che alla sua base ha un diritto
218
personale di godimento, che come tale legittima il creditore ad avere la detenzione
e non il possesso del bene.
Quanto alle modalità di esecuzione, l’art. 606, con riferimento alla consegna dei
beni mobili, prevede che “decorso il termine indicato nel precetto, l’ufficiale
giudiziario, munito del titolo esecutivo e del precetto, si reca sul luogo in cui le
cose si trovano e le ricerca a norma dell’art. 513 e quindi ne fa consegna alla parte
stessa o a persona da lei designata”.
Quanto invece al rilascio dei beni immobili, l’art. 608 prevede che “l’esecuzione
inizia con la notifica dell’avviso nel quale l’ufficiale giudiziario comunica almeno 10
gg prima alla parte, che è tenuta a rilasciare l’immobile, il giorno e l’ora in cui si
procederà.”
Nel secondo comma prevede che “nel giorno e nell’ora stabiliti, l’ufficiale
giudiziario, munito del titolo esecutivo e del precetto, si reca sul luogo
dell’esecuzione e, facendo uso, quando occorre, dei poteri a lui consentiti dall’art
513, immette la parte istante o una persona da lei designata nel possesso
dell’immobile, del quale le consegna le chiavi, ingiungendo agli eventuali detentori
di riconoscere il nuovo possessore”.
Quest’allusione “ai detentori a cui l’ufficiale giudiziario può ingiungere di
riconoscere il nuovo possessore” è riferita a terzi detentori che sono titolari di dirti
dipendenti dalla posizione sostanziale dell’esecutato che debbono essere
compatibili con il diritto di chi agisce in esecuzione.
219
Il riferimento è, ad esempio, al terzo che è conduttore del debitore esecutato e che
ha un contratto di locazione avente data certa anteriore alla compravendita.
Dalla lettura di queste disposizioni si ricava che questo processo esecutivo può
aver ad oggetto solo il compimento di opere materiali.
Infatti, il secondo comma dell’art. 612 prevede che “il giudice dell’esecuzione
provvede sentita la parte obbligata. Nella sua ordinanza designa l’ufficiale
giudiziario che deve procedere all’esecuzione e le persone che debbono
provvedere al compimento dell’opera non eseguita o alla distruzione di quella
compiuta.”
Da quanto abbiamo già evidenziato nell’introduzione dell’esecuzione forzata in
forma specifica dobbiamo ricordare che, questo processo esecutivo può essere
aperto laddove la prestazione di fare o di non fare è fungibile, nella parte in cui
deve trattarsi di una prestazione che si presta ad essere eseguita da una parte
diversa dal debitore esecutato inadempiente. Il secondo requisito è che per lo
svolgimento di questa prestazione è necessario aggredire la sfera possessoria
dell’obbligato (quindi per costruire l’opera o per distruggere l’opera illegittima è
necessario invadere la sfera possessoria dell’obbligato; mentre invece quando
l’invasione della sfera possessoria non è necessaria l’avente diritto dovrà
procurarsi il soddisfacimento della sua pretesa attraverso gli atti di autonomia
sostanziale).
In base al disposto dell’art. 2933 secondo comma cc “non può essere ordinata la
distruzione della cose e l’avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei
danni se la distruzione della cosa è di pregiudizio all’economia nazionale”
Questo limite è stato interpretato in maniera molto rigida dalla giurisprudenza la
quale ritiene che operi, non in base al valore intrinseco del bene che deve essere
distrutto, ma solo allorquando il bene è adibito alla produzione e quindi è un bene
produttivo.
220
Sentite le parti, attivato il contraddittorio, il giudice con ordinanza deve
determinare le modalità dell’esecuzione e nello stesso tempo designare l’ufficiale
giudiziario e le persone che devono provvedere al compimento o alla distruzione
dell’opera.
Per altro in base all’art. 613 “l’ufficiale giudiziario può farsi assistere dalla forza
pubblica e deve chiedere al giudice le opportune disposizioni per eliminare le
difficoltà che sorgono nel corso dell’esecuzione”.
In base all’art. 614 “le spese dell’esecuzione anticipate dalla parte istante, sono
liquidate dal giudice come decreto a norma dell’art. 642”.
Questo procedimento di esecuzione in forma specifica, proprio in considerazione
della sua disciplina in particolare proprio in considerazione della circostanza che
vede come protagonista principale il giudice dell’esecuzione chiamato a dettare le
modalità dell’esecuzione è utilizzato per l’esecuzione di provvedimenti relativi a
persone (in particolare a quelli relativi l’affidamento dei figli emanati in base agli
artt. 708 e 710 cpc).
221
Lezione 13 - 23/04/20
Torniamo ad esaminare la connessione tra parti diverse. Rispetto all'unica lezione
svolta in aula vorrei fare alcuni passi indietro e riprendere dall'inizio la trattazione
del litisconsorzio necessario. Questo istituto rinviene la propria disciplina
normativa innanzitutto nell'articolo 102 cpc laddove si legge che "Se la decisione
non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere
convenute nello stesso processo. Se questo è promosso da alcune o contro
alcune soltanto di esse, il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio in un
termine perentorio da lui stabilito." L'articolo 102 cpc viene richiamato da altre
disposizioni in maniera più o meno diretta. Viene richiamato dall'articolo 307cpc in
tema di estinzione del processo per inattività delle parti. Viene richiamato anche
dall'articolo 354 cpc che si occupa del giudizio di appello e in particolare dei casi
in cui il giudice d'appello deve rimettere la causa al giudice di primo grado.
C’è chi afferma che in questo particolare settore si avrebbe litisconsorzio soltanto
nei casi previsti dalla legge ma questa soluzione, che sicuramente ha il pregio della
chiarezza, si scontra con una serie di indirizzi giurisprudenziali assolutamente
costanti nel ritenere che si abbia litisconsorzio necessario con riferimento ad una
serie di fattispecie, ad esempio laddove venga proposta un’azione di
annullamento, di risoluzione, di un contratto a prestazioni corrispettive e ad effetti
reali. Quindi si tratta di un indirizzo che pur avendo il pregio della chiarezza trova
costante smentita nella prassi giurisprudenziale.
La seconda soluzione è quella opposta, è una soluzione secondo cui ogni volta
che viene dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo è necessario imporre il
litisconsorzio necessario: anche questa soluzione, che ha il pregio della chiarezza
e della semplicità, è contraddetta da norme di diritto positivo, ad esempio è
contraddetta dalle disposizioni relative alle obbligazioni solidali che sono
assolutamente chiare, come vedremo, nell’escludere che la deduzione in giudizio
di un’obbligazione solidale comporti l’applicazione del litisconsorzio necessario,
227
che quindi tutti i condebitori o concreditori solidali debbano essere presenti nel
processo, e quindi non si presta ad essere accolta.
229
Quindi lasciamo il terreno dell’impugnazione dei contratti a parti bilaterali ma
collettive indicandolo come un punto altamente problematico.
Una volta delineato, sia pure in maniera non troppo chiara, l’ambito applicativo di
questo istituto vediamo, molto velocemente, le regole di svolgimento del processo
in ipotesi di litisconsorzio necessario. Lo stesso art.102 c.p.c. fa riferimento al fatto
che la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti e la lettera della
legge è assolutamente chiara per cui dobbiamo ritenere che questo processo
debba chiudersi con una sentenza una ed unica, quindi una sentenza che ha lo
stesso contenuto per tutti coloro che prendono parte al processo. Quindi appare
chiaro che in ipotesi di litisconsorzio necessario è fuori discussione la possibilità
che il litisconsorzio venga meno nel corso del processo, quindi il giudice non potrà
mai disporre la separazione delle domande né nel corso dell’attività istruttoria in
base all’art.103 co.2, né in fase decisoria in base all’art.279 co.2 n.5 e il
litisconsorzio si mantiene necessario anche nel passaggio dal giudice inferiore al
giudice superiore per cui vedremo che si tratta di un’ipotesi che sicuramente
rientra nell’ambito applicativo dell’art.331 c.p.c. trattandosi di causa inscindibile.
Naturalmente la circostanza che un processo a cui prendono parte più litisconsorti
debba chiudersi con una sentenza una ed unica impone la necessità di coordinare
i poteri processuali esercitati dai diversi litisconsorti. Quindi ciascuno dei
litisconsorti naturalmente è parte e potrà esercitare tutti i poteri della parte ma le
attività svolte dai singoli dovranno necessariamente essere coordinate. Fra i
numerosissimi problemi che possono porsi e che non abbiamo certamente il
tempo di analizzare mi limito a richiamarvi soltanto le disposizioni che si occupano
della confessione e del giuramento reso nell’ambito di un processo a cui prendono
parte più litisconsorti necessari. L’art.2733 co.3 c.c. prevede che in caso di
litisconsorzio necessario la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti è
liberamente apprezzata dal giudice. Il legislatore ha degradato la confessione resa
230
da uno dei litisconsorti necessari da prova legale a prova soggetta al libero
apprezzamento del giudice e questa è una scelta svolta proprio nell’ottica di
garantire la possibilità di chiudere il processo con una sentenza una ed unica, cosa
che non sarebbe stata possibile se il legislatore avesse conservato l’efficacia di
prova legale della confessione. Una regola analoga la ritroviamo nell’art.2738 c.c.
con riferimento al giuramento decisorio: si prevede infatti che in caso di
litisconsorzio necessario il giuramento prestato da alcuni soltanto dei litisconsorti è
liberamente apprezzato da parte del giudice.
231
Lezione 14 - 29/04/20
Lezione n 14, audio n 13.
Abbiamo già evidenziato che, anche esclusi i rapporti più soggettivi soggetti alla
disciplina dell'articolo 102, occorre effettuare una serie ulteriore di distinzioni
perché la disciplina processuale di queste fattispecie può ulteriormente variare.
Quindi si tratta di una impugnazione che può essere proposta da una pluralità di
soggetti ma che è soggetta ad un termine di decadenza.
“l’impugnazione è proposta con atto di citazione davanti al tribunale del luogo ove
la società ha sede”
232
2377”
È molto interessante la previsione del comma 5 art 2378 laddove prevede che:
“la trattazione della causa può avere inizio solo dopo che è decorso il termine
stabilito del sesto comma dell’art 2377” e poi ancora che “tutte le impugnazioni
anche se separatamente proposte devono essere istruite congiuntamente e decise
con unica sentenza”.
L’atto posto in essere da uno solo dei litisconsorti deve avere effetto anche nei
confronti degli altri e quindi ciò può rendere necessario compiere e prevedere
degli aggiustamenti.
OBBLIGAZIONI SOLIDALI
le obbligazioni solidali sono un istituto disciplinato nel codice civile negli articoli
1292 e seguenti.
Sicuramente si tratta di un istituto e avete studiato nel corso del diritto privato e
sicuramente vi ricorderete la difficoltà di questa disciplina.
In verità, nel nostro ordinamento esistono due diversi gruppi, due diverse forme di
solidarietà.
Abbiamo infatti:
Afferma che:
questa è la nozione comune di solidarietà; è un vincolo tale per cui il creditore che
ha di fronte a sé una serie di condebitori solidali ha diritto di pretendere
l’adempimento dell'intera prestazione da ciascuno di essi.
“nei rapporti interni l’obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori o tra i
diversi creditori, salvo che sia stata contratta nell’interesse esclusivo di alcuno di
essi.
Le parti di ciascuno si presumono uguali se non risulta diversamente”
235
Allora, sul piano sostanziale abbiamo il creditore principale - il debitore
principale e poi abbiamo – il fideiussore che svolge la funzione di garante, quindi
è un rapporto TRILATERE.
- oppure al fideiussore
Ciò vuol dire che se un creditore chiede e ottiene l’adempimento della sua
obbligazione al debitore principale non si pone nessun problema, si estinguono
entrambe le obbligazioni e l'interesse del creditore è soddisfatto.
Quindi vedete che fra questi tre soggetti intercorrono una serie di rapporti giuridici
fra i quali è dato rinvenire una forma di connessione per pregiudizialità dipendenza
cosiddetta bilaterale perché il rapporto fra il creditore il fideiussore è dipendente
dal rapporto di credito debito principale ma è pregiudiziale rispetto al rapporto di
regresso che lega il fideiussore al debitore principale.
236
La fideiussione non è l'unica forma di solidarietà ad interesse unisoggettivo, se
non vengono anche altre pensate ad esempio:
FILE 2
si tratta di una scelta, di una regola che distingue l’Italia da altri paesi per esempio
dalla Francia e dalla Germania. Il legislatore del 1942 l'ha adottata nell'ottica
evidentemente di rafforzare la tutela del creditore perché se, evidentemente, i
diversi debitori sono obbligati in solido il creditore potrà rivolgersi a ciascuno di
loro pretendendo l’adempimento dell'intera obbligazione e questo naturalmente
rafforza la posizione del creditore che non è tenuto, quindi, a rivolgersi a ciascuno
dei debitori chiedendo a ciascuno l’adempimento della sua quota.
ad esempio ->
se ci sono più persone che comprano un determinato bene sia esso mobile o
immobile da un unico venditore in base all’articolo 1294 se non risulta
diversamente questi sono obbligati in solido al pagamento del prezzo nei confronti
del venditore.
237
La stessa regola vale nell’ambito della responsabilità extracontrattuale per cui se
più persone si rendono responsabili di un fatto illecito sono responsabili in solido
nei confronti del danneggiato il quale potrà rivolgersi a ciascuno dei diversi
danneggianti, che sono i debitori, e pendere l’adempimento dell'intera
obbligazione risarcitoria.
Infatti;
Nell’ordinamento romano era prevista la possibilità per più parti di creare questo
vincolo obbligatorio dando vita ad un rapporto uno ed unico facente capo a più
soggetti. Il carattere unitario dell’obbligazione correale trovava espressione nella
circostanza secondo cui tutti gli atti estintivi quindi non soltanto l’adempimento o
la prestazione in luogo dell'adempimento posti in essere da uno solo dei
condebitori correali produceva i propri effetti anche nei confronti di tutti gli altri.
238
Quindi per esempio:
C'è da dire che questa figura nel passaggio dei secoli e degli ordinamenti ha
subito una serie di fondamentali modifiche.
L’illustre giureconsulto Pothier, infatti, recependo la prassi che si era affermata nei
tribunali francesi per la prima volta afferma la regola della estinzione del vincolo
solidale pro quota, infatti nel suo celeberrimo trattato Pothier scrive
che nell’ipotesi in cui il comune creditori rimetta il debito ad uno solo dei
condebitori solidali, si parla nel trattato di Pothier di solidarité per la prima volta, se
come regola generale la remissione deve avere effetto erga omnes quindi deve
portare alla estinzione dell’intera obbligazione solidale, eccezionalmente il
creditore può decidere di riservarsi i propri diritti contro tutti gli altri condebitori.
In presenza però di una simile riserva, precisa Pothiter, si ha che gli altri
condebitori quindi i condebitori diversi dal condebitore a cui è stato rimesso il
debito restano obbligati nei confronti del comune creditore per l'intero salva la
deduzione della quota del debitore a cui il debito era stato rimesso.
Quindi per dirla In altre parole secondo Pothier in questa particolare ipotesi
ciascuno dei condebitori rimane obbligato per la somma data dall’originaria
prestazione meno la quota interna del debitore, il cui debito è stato oggetto di
rimessione.
ora la regola della estinzione dell’obbligazione solidale pro quota rappresenta il
primo momento di rottura del carattere unitario dell’obbligazione solidale si tratta
infatti di un principio che nell’ottica dell’obbligazione correale romana, romanistica,
quindi di un rapporto UNO ED UNICO con pluralità di parti non sarebbe stata
ammissibile, non sarebbe stata concepibile.
Nelle lezioni io parlo sempre della solidarietà sul lato passivo ma preciso fin da ora
che è una scelta di comodo ma che tutto quanto affermerò con riferimento
alla solidarietà passiva vale anche a parti rovesciate naturalmente con riferimento
alla solidarietà attiva che naturalmente è molto meno diffusa perché non c'è la
presunzione di cui all’articolo 1294.
Diciamo, in via assolutamente generale, che il legislatore del 1942 ha adottato tre
diversi schemi di soluzione:
Abbiamo una prima serie di disposizioni in cui si prevede che l'atto di estinzione
posto in essere da o nei confronti di uno soltanto dei debitori solidali, nei rapporti
esterni si estende agli altri consorti soltanto pro quota.
Per cui si può dire che in questa particolare ipotesi la quota interna che di solito ha
rilevanza soltanto nei rapporti interni rapporti cosiddetti di regresso tende invece
ad emergere ad acquisire rilevanza anche con riferimento ai rapporti esterni fra i
condebitori e il comune creditore.
In questo primo gruppo rientrano tutto una serie di atti o fatti che hanno una
caratteristica comune quella di produrre effetti divisibili e proprio per questo
motivo che il legislatore ha potuto adottare la regola della efficacia pro quota
u t i l i z z a n d o c i o è q u e l l a s o l u z i o n e c h e e r a s t a t a e l a b o r a t a d a l
giureconsulto Pothier. È questo quando si rinviene in alcune interessantissime
ipotesi.
240
“la remissione a favore di uno dei debitori in solido libera anche gli altri debitori
salvo che il creditore abbia riservato il suo diritto verso gli altri, nel qual caso il
creditore non può esigere il credito da questi se non detratta la parte del debitore a
favore del quale ha consentito la remissione”
La stessa regola la ritroviamo nell’art 1300 che si occupa della novazione. l'art
1300 dispone infatti che:
“la novazione fra il creditore e uno dei debitori in solido libera gli altri debitori.
Qualora però si sia voluto limitare la novazione ad uno solo dei debitori gli altri non
sono liberati che per la parte di quest'ultimo”
“il creditore che rinuncia alla solidarietà a favore di uno dei debitori conserva
l’azione in solido contro gli altri. Rinunzia alla solidarietà:
a) il creditore che rilascia a uno dei debitori quietanza per la parte di lui senza
alcuna riserva
b) il creditore che ha agito giudizialmente contro uno dei debitori per la parte di
lui, se questi ha aderito alla domanda, o se è stata pronunciata una sentenza
di condanna”
SECONDA PARTE
241
solo da uno dei condebitori solidali nei rapporti esterni si estende agli altri
condebitori soltanto pro quota.
Infine, l'ultima regola che troviamo enunciata nell’art 1297 cc, che si occupa delle
eccezioni strettamente personali: la disposizione recita che “uno dei debitori in
solido non può opporre al creditore le eccezioni personali agli altri debitori” —> si
tratta di una norma di chiusura evidentemente residuale, che vale con riferimento
242
ad atti o fatti estintivi diversi rispetto a quelli espressamente disciplinati negli artt
1300 e ss cc. Le eccezioni strettamente personali, e diverse quindi da quelle fin
qui esaminate, producono una efficacia singolare, quindi relativa al solo rapporto
fra il singolo condebitore e il comune creditore: pensate all'ipotesi in cui solo uno
dei condebitori in solido ha stipulato il contratto in situazione di errore.
Che cosa possiamo osservare a margine della disciplina sostanziale che abbiamo
appena delineato? Possiamo rilevare sicuramente che il legislatore ha voluto
riconoscere a coloro che prendono parte al vincolo solidale una posizione di
sostanziale AUTONOMIA; naturalmente rimane vero che i diversi condebitori
solidali sono tutti obbligati nei confronti del comune creditore ad eseguire la stessa
prestazione, questo è quanto previsto dall’art 1292 cc, secondo cui laddove vi è
solidarietà il creditore può pretendere la prestazione da uno solo dei condebitori e
e l'adempimento dell'uno estingue tutte le obbligazioni. Ma è anche vero che la
disciplina attualmente in vigore in Italia consente a ciascuno dei condebitori di
porre in essere atti o fatti di estinzione dell'obbligazione in modo sostanzialmente
autonomo —> questi atti o fatti non producono gli stessi effetti nei confronti degli
altri condebitori, i quali talvolta ne rimangono totalmente estranei, e si tratta
dell'ipotesi in cui è prevista l'efficacia singolare, qualche volta sono destinatari di
un tipo di effetti diversi, ed è questo il caso dell'efficacia pro quota.
243
Sicuramente dobbiamo escludere che le obbligazioni solidali rientrino nell'ambito
applicativo dell’art 102 cpc: questa affermazione la possiamo affermare sul
disposto dell’art 1306 cc —> questa disposizione infatti, introducendo la regola
della efficacia favorevole ma non sfavorevole nei confronti del condebitore rimasto
estraneo al processo, dà per presupposto che il processo possa validamente
svolgersi fra la parte comune e uno o alcuni dei condebitori solidali. Quindi l’art
1306, nella parte in cui regolamenta l'efficacia della sentenza resa nei confronti di
uno solo dei più condebitori solidali, esclude senza alcun dubbio che la solidarietà
all'interesse comune vada riportata nell'ambito applicativo dell’art 102 cpc.
L’art 1305 cc quindi è una delle disposizioni che adotta la regola della efficacia
erga omnes, se favorevole, e della efficacia singolare e se invece è sfavorevole.
244
Questa norma è una norma che contiene e mantiene l'efficacia di prova legale del
giuramento, salvo prevedere che questa efficacia di prova legale vale per tutti se
favorevole ai condebitori, mentre invece vale solo per il condebitore che ha
deferito il giuramento se si tratta di un’efficacia sfavorevole per i condebitori.
Abbiamo appena stabilito che le obbligazioni solidali danno luogo sul piano
processuale ad una forma di processo di litisconsorzio facoltativo, facoltativo
quanto alla instaurazione e facoltativo quanto alla trattazione e decisione.
Questa stessa forma di connessione si può presentare anche fra parti diverse, nel
senso che potrebbero essere tre o più di tre i soggetti che ritengono di essere
titolari dello stesso bene.
Peraltro, come avremo modo di vedere, il terzo in questo caso usufruisce anche di
un ulteriore rimedio per affermare la sua posizione giuridica: infatti è pacifico che il
terzo possa esercitare nei confronti delle parti del primo processo un mezzo di
impugnazione straordinario, che è l'opposizione di terzo ordinaria, art 404.1
cpc, per ottenere l'annullamento della precedente sentenza e l'accertamento del
suo diritto nei confronti di entrambe le parti.
Tutto ciò premesso, appare chiaro che laddove il processo si svolga fra l'attore e il
convenuto, e il terzo rimanga estraneo, e decida poi di aprire un secondo
autonomo processo, il rischio che si apre è che a conclusione di questo secondo
processo il secondo giudice accerti che il diritto del terzo è esistente; quindi
avremo due sentenze emanate l’una a conclusione del processo che si è svolto tra
l'attore e il convenuto, e la seconda che viene emanata a conclusione del
processo che si è svolto fra il terzo e la parte uscita vittoriosa ad esito del primo
processo, che attribuiscono lo stesso diritto sullo stesso bene a due soggetti
diversi, quindi si apre il rischio che si formino due giudicati contraddittori —>
247
questo rischio è un rischio che l'ordinamento deve sopportare, non ha scelta,
perché trattandosi di diritti assoluti, per scongiurare del tutto l'eventualità che si
formino dei giudicati contraddittori, bisognerebbe far sì che tutti i processi si
svolgessero fra l'attore e tutti i consociati, opzione questa che non è percorribile.
249
Così come è possibile che i due giudici neghino entrambi la responsabilità dei due
convenuti. Quindi sarebbero risultati effettivamente difficili da sostenere per
l'ordinamento. Quindi, una volta che il processo litisconsortile si è formato non è
possibile che venga meno.
Anche però con riferimento a questa particolare ipotesi, si ritiene che nel
passaggio dal giudice inferiore al giudice superiore, se la questione della titolarità
del rapporto è stata risolta e il processo prosegue solo con riferimento a domande
consequenziali, domande per esempio relative alla quantificazione
dell'obbligazione, la parte risultata totalmente estranea alla vicenda possa NON
prendere parte al processo di impugnazione, e che quindi si abbia una
SEMPLIFICAZIONE nel passaggio di fronte al giudice superiore.
250
Lezione 15 - 30/04/20
Proseguendo nell'analisi delle forme di connessione che possono intercorrere tra
parti diverse. Andiamo adesso ad esaminare la connessione per pregiudizialità
di pregiudizialità-dipendenza.
Si ha pregiudizialità dipendenza ogni volta che un rapporto giuridico ha rilievo di
elemento costitutivo modificativo estintivo e impeditivo di un rapporto ulteriore. Il
primo rapporto è detto rapporto pregiudiziale o rapporto principale. Mentre il
secondo è chiamato il rapporto dipendente.
Questa forma di connessione si può manifestare anche tra parti diverse. Questo si
ha quando rispettivamente il rapporto pregiudiziale e il rapporto dipendente
pendolo fra parti parzialmente diverse. Quindi abbiamo tre soggetti che sono
implicati nei rapporti in gioco e uno di questi soggetti è titolare di entrambi i
rapporti. Nell'ambito delle forme di connessione tra parti diverse la pregiudizialità-
dipendenza genera enormi complicazioni e la individuazione delle regole di
svolgimento del processo è veramente complessa.
251
occuperemo in una delle prossime elezioni, ma fra le ipotesi di intervento su
istanza di parte vi è la chiamata in garanzia).
Leggiamo l’articolo 106, ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al
quale ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita. La garanzia
processuale è contemplata nel ultimissima parte di questo periodo la dove si parla
della chiamata del terzo dal quale pretende di essere garantita.
252
E’ altresì ammesso che il garante nella qualità di titolare di un rapporto
giuridicamente dipendente, entri nel processo altrui volontariamente quindi
esperendo il cosiddetto intervento adesivo dipendente di cui all'articolo 105
secondo comma, (anche successivamente).
- L’articolo 32, come vedete. Si colloca fra quelle disposizioni che per
favorire il culo contemplano deroga ai criteri originari di competenza. Prevede che
la domanda di garanzia può essere proposta al giudice competente per la causa
principale affinché sia decisa nello stesso processo, qualora essa ecceda la
competenza per valore del giudice adito, questi rimette entrambe le cause al
giudice superiore assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione.
Vedete che l’articolo 32 per facilitare il cumulo della domanda principale e la
domanda di garanzia, acconsente alla deroga ai criteri originari di competenza. Qui
si fa riferimento in maniera espressa alla competenza per valore ma torneremo
successivamente sull'esatto significato dell'articolo 32 che come potete
immaginare va coordinato con le altre disposizioni che si occupano della
competenza per motivi di connessione segnatamente l'articolo 40 su cui abbiamo
già lavorato nel primo semestre.
253
chiamata in garanzia, svolge una funzione di tipo economico. Nel senso che
attraverso la chiamata in garanzia colui che diciamo riveste la qualità di attore,
quindi il nostro garantito, vuole riversare sul convenuto, che è il garante, le
conseguenze economiche negative, quindi la diminuzione patrimoniale o
economica che gli derivano dalla soccombenza nella controversia principale.
Quindi la funzione della chiamata in garanzia è sempre quella di riversare sul
garante, di far sopportare al garante le perdite patrimoniali o economiche che
derivano al garantito dalla soccombenza nella causa principale.
Detto questo; le fattispecie che sono per tradizione ricondotte a questa figura
sono veramente eterogenee sul piano sostanziale.
4. le vendite e catena.
È il prototipo diciamo della fattispecie che danno luogo alla chiamata in garanzia,
anche perché sul piano storico è proprio sulla garanzia di evizione che è nata la
chiamata in garanzia che rinviene le proprie origini in un istituto dell'ordinamento
romano ovvero la litis denuntiatio.
Che cos'è la garanzia per evizione? E’ una clausola naturale del contratto di
compravendita. Se andiamo ad esaminare le norme relative alla compravendita,
noi ritroviamo la garanzia per evizione all’articolo 1476 che si occupa delle
obbligazioni del venditore. Prendiamo la norma e leggiamo: le obbligazioni
principali del venditore sono: uno quella di consegnare la cosa al compratore; due
quella di fargli acquistare la proprietà della cosa o il diritto se l’acquisto non è
effetto immediato del contratto; tre quella di garantire il compratore dall'evizione e
dai vizi della cosa. Prima di spiegare il contenuto facciamo un passo indietro.
254
(In altri ordinamenti la compravendita ha generalmente effetti solo obbligatori, per
esempio in Germania, il venditore si obbliga a trasferire la proprietà del bene
quindi l’effetto trasferimento non si produce immediatamente ma a seguito del
compimento di un atto successivo.
In tutti i casi in cui il compratore subisce l’evizione questi, stante il disposto dell’art
1483 c.c. ha diritto di rivolgersi al proprio venditore e pretendere la prestazione di
garanzia.
Proprio sulla base della considerazione della vicenda e del contenuto di questa
azione che possiamo ritenere che si tratti di una forma di responsabilità
255
contrattuale per inadempimento. L’EVIZIONE infatti, che è il presupposto di questo
diritto del compratore non è altro (abbiamo detto) che l'accertamento di esistenza
del diritto del terzo sul bene compravenduto. Questo vale a configurare
l'inadempimento del venditore perché? Perché il venditore, laddove il compratore
subisce l'evizione, evidentemente si è reso inadempiente rispetto al suo ‘’obbligo’’
più importante (non in senso tecnico) perché non si è verificato il principale effetto
della compravendita, ovvero l'effetto traslativo. Quindi l'accertamento definitivo di
esistenza del diritto del terzo sul bene compravenduto, fa si che si possa ritenere
che l'effetto traslativo non si è verificato. Quindi una delle prestazioni dirimpettaie
del sinallagma evidentemente viene meno. > E la garanzia per evizione non è altro
che lo strumento di reazione che l'ordinamento mette a disposizione del
compratore.
Com'è che la garanzia per evizione può dar luogo alla chiamata in garanzia?
L'ipotesi più semplice è quella in cui il terzo, che ritiene di essere il proprietario del
bene, agisce in rivendica nei confronti del compratore affermandosi proprietario
del bene e chiedendo al giudice di condannare il convenuto alla consegna o al
rilascio. Il compratore che è il convenuto di questa domanda può esercitare la
chiamata in garanzia esercitando l'azione di garanzia per evizione nei confronti del
venditore. Quindi nel momento in cui chiama in garanzia il venditore, il compratore
domandera’: la risoluzione del contratto, la condanna al pagamento delle spese
del prezzo degli interessi, ed eventualmente il risarcimento del danno. Se così è
appare evidente la funzione economica svolta dalla chiamata in garanzia, perché
nel momento in cui il compratore (=convenuto) rimane soccombente nei confronti
dell'attore (=terzo rivendicante), evidentemente il compratore subisce una perdita
derivante dal fatto che quel bene di cui riteneva essere proprietario in verità risulta
non far parte del suo patrimonio. Attraverso l’azione di garanzia per evizione il
compratore vuole recuperare la perdita economica che ha subito riversando sul
venditore le conseguenze economiche negative che derivano o che potrebbe
subire laddove la domanda dell'attore venisse accolta.
L'articolo 1944 del codice civile, afferma che il fideiussore è obbligato in solido col
debitore principale al pagamento del debito, questo punto come avevo già
ricordato fa si che il creditore abbia di fronte a sé più scelte: il creditore può
scegliere di agire direttamente nei confronti del debitore originario; può scegliere di
agire contestualmente nei confronti del debitore originario e del fideiussore; può
rivolgersi direttamente al fideiussore cosa che sarà molto comune perché di solito
è una parte piu solvibile.
I rapporti interni tra fideiussore e debitore originario sono regolati dagli articoli
1949 e seguenti del c.c.
L'articolo 1949 prevede che il fideiussore che ha pagato il debito è surrogato nei
diritti che il creditore aveva contro il debitore. La norma successiva, l'articolo 1950
aggiunge che il fideiussore che ha pagato ha regresso contro Il debitore principale,
benché questi non fosse consapevole della prestata fideiussione. Allora come
vedete in base alla lettura di queste due disposizioni, possiamo ritenere che il
fideiussore che ha pagato ha di fronte a sé una duplice possibilità per recuperare
257
dal debitore originario quanto ha pagato. Una è la surrogazione nei diritti del
creditore, è l'ipotesi contemplata nell'articolo 1949; l'altra è l'azione di cui
all'articolo 1950.
Quindi sul piano processuale (questo è un profilo su cui bisogna veramente fare
attenzione) siccome è il fideiussore che chiama in garanzia il debitore originario, il
fideiussore svolge il ruolo di garantito, mentre il debitore originario svolge il ruolo di
garante. Quindi vedete che mentre sul piano sostanziale, è il debitore ad essere
garantito e il fideiussore è il garante, perché la fideiussione è una forma di garanzia
personale, sul piano processuale le posizioni sono ribaltate. E’ il fideiussore il
soggetto garantito colui che esercita la chiamata in garanzia, mentre il debitore
principale è il soggetto garante.
258
Un'ultima notazione prima di andare avanti. La chiamata in garanzia, non è mai
obbligatoria, è una facoltà che l'ordinamento accorda al garantito. Quindi non
siamo in un'ipotesi di litisconsorzio necessario d'accordo. Quindi il garantito non è
obbligato a chiamare in garanzia il garante ma diciamo è una facoltà che
l’ordinamento gli offre. Quindi niente toglie che il convenuto garantito preferisca
attendere la conclusione del processo, che lo vede opposto all'attore principale,
per agire nei confronti del proprio garante.
Seconda parte
259
ragioni sufficienti per far respingere la domanda. Come vi ho detto questa è una
norma che affronta un tema su cui avremo modo di soffermarci prossimamente,
quello dei limiti soggettivi del giudicato. L’esistenza del diritto del terzo sul bene è
il presupposto dell’azione di garanzia, quindi l’esistenza del diritto del terzo
accertato in maniera definitiva è fatto costitutivo del diritto alla garanzia, quindi è
rapporto pregiudiziale. Ora, la sentenza resa fra attore e compratore e passata in
giudicato cristallizza l’esistenza e il modo di essere del diritto del terzo. Si tratta di
vedere se questa sentenza possa esplicare efficacia riflessa nell’ambito del
secondo processo aperto dal compratore nei confronti del venditore e avente ad
oggetto il diritto dipendente di garanzia. Questi temi li abbiamo affrontati nei
processi a due parti e in quell’occasione non ci siamo posti grossi problemi.
Abbiamo parlato dell’efficacia diretta e dell’efficacia riflessa del giudicato.
Nell’ambito dei rapporti che corrono fra parti diverse si pone un problema nuovo e
molto importante, quello di garantire il diritto di difesa del terzo. Il rapporto
dipendente corre fra una delle parti del rapporto principale e un soggetto terzo che
per definizione non ha preso parte al processo, ad esito del quale è stata emanata
la sentenza ora coperta dall’autorità della cosa giudicata. Vedremo che è un tema
estremamente complesso. La garanzia per evizione è una delle ipotesi in cui il
legislatore risolve a livello normativo la questione della efficacia riflessa o meno del
giudicato reso inter partes nei confronti del terzo titolare di un rapporto
giuridicamente dipendente e sceglie una regola di efficacia debole, perché offre al
venditore, che è il terzo titolare del rapporto giuridicamente dipendente, la
possibilità di provare che esistevano ragioni sufficienti per far respingere la
domanda, quindi la possibilità di provare l’ingiustizia della prima sentenza.
Naturalmente la difesa del venditore avrà come unico scopo quello di provocare il
rigetto della domanda di garanzia proposta nei suoi confronti. Quindi,
l’accertamento dell’esistenza e del modo di essere del rapporto pregiudiziale
chiesto dal venditore sarà un accertamento incidenter tantum, richiesto solo per
vincere nella causa proposta dal compratore nei suoi confronti. Nel rapporto fra
l’attore e il compratore rimane fermo il giudicato che si è già formato.
Restiamo ancora sulla garanzia per i vizi e sulle vendite a catena per evidenziare
ancora una volta che in presenza delle condizioni che si sono esaminate, quindi
una sequenza di contratti di compravendita aventi ad oggetto lo stesso bene,
vendite che sono state realizzate a prezzo pieno (come se il bene non fosse stato
viziato), in presenza di un vizio occulto, che presenta le caratteristiche richieste
dalla legge, la reazione dell’ultimo avente causa, ovvero il consumatore, è
condizione indispensabile perché l’ultimo dante causa, il dettagliante, possa
azionare la sua richiesta di garanzia nei confronti del precedente dante causa,
ovvero il grossista, così come per il grossista, aver prestato la garanzia nei
confronti del dettagliante è condizione indispensabile per poter agire nei confronti
del suo dante causa, che nel nostro caso era il produttore. In altre parole, finché
non si verifica la reazione dell’ultima delle parti che sono inserite in questa catena
263
di contratti, e cioè il nostro consumatore, gli altri non si possono attivare, non
possono pretendere la garanzia nei confronti del proprio dante causa, perché il
vizio occulto che grava sul bene non ha causato loro alcuna perdita patrimoniale,
dal momento che in base alle condizioni prestabilite, la vendita è avvenuta a
prezzo pieno. Mentre per il consumatore il vizio è causa di una perdita economica
perché il consumatore ha nelle sue mani il bene, bene che essendo viziato ha un
valore inferiore rispetto a quello che avrebbe dovuto avere, per gli altri soggetti che
partecipano alla catena dei contratti, la perdita patrimoniale non si ha perché il
presupposto è che tutte le vendite siano avvenute a prezzo pieno. La perdita
patrimoniale si concretizza solo nel momento in cui prestano la garanzia per i vizi
al proprio avente causa.
Tutto ciò precisato, torniamo al nostro istituto, cioè alla chiamata in garanzia.
L’ipotesi che qui consideriamo è quella in cui il consumatore agisce nei confronti
del dettagliante e questa è l’azione principale. Dopodiché il dettagliante attraverso
la chiamata in garanzia fa valere la propria azione di garanzia per i vizi nei confronti
del suo dante causa, che è il grossista, il quale a sua volta può chiamare in
garanzia il produttore perché non c’è limite, anche il terzo chiamato in causa può a
sua volta decidere di chiamare un ulteriore terzo nel processo. Ancora una volta è
importante evidenziare la funzione economica svolta da questa azione perché
attraverso l’azione di garanzia che abbia ad oggetto la risoluzione del contratto
con conseguente domanda di restituzione del prezzo, spese, interessi ed
eventualmente risarcimento del danno, oppure l’azione di riduzione del prezzo, il
nostro convenuto che è il garantito intende riversare sul proprio dante causa le
conseguenze economiche negative derivanti dall’esperimento dell’azione di
garanzia per i vizi che è stata proposta nei suoi confronti.
Infine, per quanto riguarda le vendite a catena abbiamo evidenziato che l’esercizio
dell’azione di garanzia per i vizi dell’ultimo avente causa, dell’ultimo soggetto della
catena è condizione indispensabile perché l’ultimo dante causa possa pretendere
la garanzia per i vizi dal precedente dante causa. Quindi l’azione di garanzia
esercitata dal consumatore nei confronti del dettagliante e il pagamento della
garanzia è condizione indispensabile perché il dettagliante possa rivolgersi al
grossista. Infatti, abbiamo detto che finché l’ultimo dante causa non ha prestato la
sua garanzia all’avente causa, il vizio non gli ha causato alcuna diminuzione
patrimoniale, alcun danno e dunque non è giustificata la possibilità di concedergli
l’azione di garanzia per i vizi nei confronti del proprio dante causa ovvero nei
confronti del grossista. Tutto questo anche perché altrimenti si creerebbe una
situazione non tollerabile per l’ordinamento, perché se il dettagliante potesse
266
pretendere la garanzia per i vizi dopo aver venduto a prezzo pieno il bene e prima
che il consumatore gli abbia richiesto e abbia ottenuto la garanzia per i vizi si
consentirebbe a questo dettagliante di conseguire un arricchimento indebito, una
situazione non tollerabile dall’ordinamento. Quindi in tutte queste fattispecie ricorre
la connessione per pregiudizialità-dipendenza. Vi ho detto però che questa non è
l’unica caratteristica che connota queste fattispecie, perché in tutti questi rapporti
non c’è solo una dipendenza giuridica nei termini appena visti, ma c’è anche un
ulteriore elemento perché abbiamo anticipato che il rapporto che costituisce
oggetto della chiamata in garanzia, chiamiamolo il rapporto di garanzia, viene ad
esistenza in un momento temporale necessariamente successivo al rapporto
pregiudiziale. Andiamo a verificare questa affermazione con riferimento alle singole
fattispecie.
Una osservazione analoga può essere svolta anche con riferimento alle altre
fattispecie. Prendiamo l’assicurazione contro la responsabilità civile. È di tutta
evidenza che il danneggiante assicurato non può esercitare l’azione di manleva,
non può pretendere che l’assicurazione gli restituisca quanto deve al danneggiato
se prima lui stesso non ha pagato il danneggiato: finché non subisce la perdita
patrimoniale ed economica consistente nel risarcimento del danno al danneggiato
non ha diritto di manleva nei confronti dell’assicurazione. Ancora più evidente è
l’ipotesi delle vendite a catena, perché come abbiamo precedentemente
evidenziato, anche nelle vendite a catena il garantito, che nel nostro esempio era il
dettagliante, non può agire e chiedere la garanzia per i vizi nei confronti del proprio
dante causa, ovvero il grossista, se prima non ha prestato la garanzia al
consumatore. Questo perché, tornando alla nostra ipotesi, se le vendite a catena
sono avvenute tutte a prezzo pieno, quindi tutte a prezzo che considera il bene
non viziato, se si consentisse al dettagliante di pretendere la prestazione di
garanzia nei confronti del grossista prima di aver a sua volta prestato la garanzia
267
nei confronti del consumatore gli si consentirebbe di conseguire un arricchimento
che è indebito, perché grazie al debito riuscirebbe a maturare un guadagno che in
ipotesi di bene non viziato non riuscirebbe a ottenere. Anche nelle vendite a
catena, quindi, l’esistenza e il soddisfacimento del diritto alla garanzia del
consumare nei confronti del dettagliante è presupposto perché il dettagliante
possa rivolgersi al grossista. Anche in questo caso non è sufficiente l’esistenza del
diritto alla garanzia del consumatore nei confronti del dettagliante, ma è
necessario che questi abbia corrisposto la garanzia perché solo dopo aver
corrisposto la garanzia subisce una perdita economica legata all’esistenza del
vizio e di conseguenza potrà a sua volta agire nei confronti del proprio dante
causa.
Alla luce di tutte queste osservazioni possiamo tornare alle fattispecie di garanzia
e sintetizzare i risultati che abbiamo acquisito. Quindi nell’ambito della chiamata in
garanzia possimao ricondurre una serie di fattispecie che pur essendo eterogenee
sul piano sostanziale, sono accomunate dalla funzione svolta, perché si tratta
sempre di rapporti giuridici sulla cui base taluno, il garantito, ha diritto di riversare
su altri, il garante, la perdita economica che deriva dalla esistenza o dal concreto
soddisfacimento del diritto di un terzo. Sul piano strutturale questi rapporti si
connotano per il fatto che tra il diritto pregiudiziale, quindi il diritto del terzo nei
confronti del garantito, e il diritto alla garanzia del garantito nei confronti del
garante sussiste sempre una relazione di consequenzialità logico-giuridica e
cronologica. Si parla di consequenzialità logico-giuridica nella parte in cui questi
rapporti riproducono lo schema della connessione per pregiudizialità-dipendenza;
si parla di consequenzialità cronologia perché nella fattispecie costitutiva del diritto
alla garanzia rientra non solo il rapporto pregiudiziale, ma anche sempre un
ulteriore fatto, cronologicamente successivo al rapporto pregiudiziale che rende
concreta la perdita economica al cui risorto è diretto il rapporto di garanzia
medesimo e che di volta in volta consisterà nel fatto di evizione o, nelle altre
fattispecie, nel pagamento. L’affermazione secondo cui tutte le fattispecie
riconducibili alla chiamata di garanzia condividano la stessa funzione economica e
riproducano lo stesso schema, hanno la medesima struttura, giustificano
l’affermazione secondo cui devono andare soggette ad una disciplina processuale
unitaria.
268
Lezione 16 - 06/05/20
Continuiamo ad occuparci della chiamata in garanzia. Andiamo adesso ad
occuparci delle caratteristiche della domanda oggetto della chiamata in garanzia.
È molto importante partire dai risultati cui siamo approdati nel corso dell’ultima
lezione: laddove abbiamo evidenziato che tra il rapporto che corre tra il terzo e il
garantito e il rapporto di garanzia, abbiamo evidenziato l’esistenza di un nesso di
consequenzialità logico-giuridico, ma anche cronologico. Abbiamo infatti detto
che i due rapporti sono legati da un nesso di connessione per pregiudizialità di
pendenza, ma abbiamo evidenziato altresì che esiste una sfasatura sul piano
cronologico perché nella fattispecie costitutiva del diritto di garanzia rientra non
soltanto il rapporto pregiudiziale ma anche un ulteriore fatto, che di volta in volta
sarà l’evizione oppure il fatto pagamento, che rende concreta la perdita
patrimoniale o economica al cui ristoro è diretto il rapporto di garanzia. Per cui
abbiamo osservato che il rapporto di garanzia nasce necessariamente in un
momento successivo a quello in cui viene ad esistenza il rapporto pregiudiziale.
Questi rilievi ci consentono agevolmente di mettere a fuoco le caratteristiche della
chiamata in garanzia.
Se tutto questo è vero possiamo fare un lungo passo indietro e rispondere alla
domanda che ci eravamo posti in apertura della lezione dedicata alla chiamata in
garanzia e cioè al quesito se anche la garanzia processuale si presta ad essere
ricondotta alla nozione generale di garanzia. Il linguaggio giuridico italiano spesso
risulta essere molto povero nella misura in cui lo stesso termine viene utilizzato per
indicare istituti diversi. Nello specifico il termine garanzia a livello sostanziale
comprende istituti eterogenei: pensate alle garanzie reali o alla fideiussione, che
però assolvono alla medesima funzione, che è quella di rafforzare la posizione del
creditore.
Venendo alle regole di svolgimento del processo a cognizione piena in cui sono
cumulate la domanda principale e la domanda di garanzia, è molto importante
ricordare che tutte le fattispecie che danno luogo alla chiamata in garanzia sono
soggette ad una disciplina processuale unitaria. Tale affermazione può sembrare
scontata, ma è necessario sottolineare che, fino a pochi anni fa, nella
270
giurisprudenza assumeva rilevanza determinante la contrapposizione tra garanzia
propria e garanzia impropria, dove la garanzia propria comprendeva la garanzia
per evizione e la fideiussione mentre la garanzia impropria comprendeva le altre
fattispecie quindi l’assicurazione contro la responsabilità civile e affini e le vendite
a catena e i subcontratti. Sulla scorta di quanto osservato da una dottrina
minoritaria soltanto nel 2015 le Sezioni Unite con la sentenza 24707 hanno
riconosciuto che la distinzione tra garanzia propria e garanzia impropriaè del tutto
destituita di fondamento e per questo motivo hanno affermato che la disciplina
processuale di tutte queste fattispecie deve essere unitaria. Ciò precisato, volendo
delineare le regole di svolgimento di questo processo non possiamo non ricordare
che siamo di fronte a fattispecie che esibiscono una forma di connessione per
pregiudizialità di pendenza e quindi, nell’ordinamento processuale, è molto forte
l’esigenza di favorire il cumulo processuale. A questo riguardo il legislatore
prevede la garanzia fra le ipotesi in cui, per favorire il cumulo processuale, è
possibile derogare ai criteri originari di competenza.
Art. 32 “La domanda di garanzia può essere proposta al giudice competente per la
causa principale affinché sia decisa nello stesso processo. Qualora essa ecceda la
competenza per valore del giudice adito, questi rimette entrambe le cause al
giudice superiore, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione”.
In verità l’art. 32 parla della competenza per valore, però noi sappiamo già (lezioni
sulla connessione del primo semestre) che, con riferimento ai rapporti tra i due
giudici di primo grado, perché il criterio per valore riguarda il riparto di tipo
verticale, la disposizione centrale è l’art. 40. Infatti gli spostamenti di tipo verticale
li dobbiamo ricostruire alla luce di quest’altra disposizione, mentre l’art. 32 si
occupa esclusivamente degli spostamenti di tipo orizzontale. Con riferimento
all’ipotesi in cui si pongono problemi di spostamento verticale, rileva il disposto
dell’art. 40, sesto comma, laddove prevede che, “se una causa di competenza del
giudice di pace sia connessa per i motivi di cui agli articoli 31, 32, 34, 35 e 36 con
altra causa di competenza del tribunale, le relative domande possono essere
proposte innanzi al tribunale affinché siano decise nello stesso processo”. Non
importa quindi quale sia la causa che rientra nella competenza del tribunale, può
essere anche la causa di garanzia, ma, se una delle due controversie appartiene
alla competenza del giudice di pace e l’altra del tribunale, il cumulo delle due
domande deve essere svolto di fronte al tribunale. Dopodiché, in base a quanto
previsto nell’art. 32, sul piano degli spostamenti orizzontali, è sempre il giudice
competente per la causa principale ad attrarre la causa di garanzia, così come
espressamente affermato da questa disposizione. Il cumulo processuale però può
avvenire anche attraverso altri istituti. E’ previsto ad es. che le due controversie
possano essere instaurate di fronte allo stesso giudice ab origine, perché è il
garantito a portare di fronte allo stesso giudice sia la causa pregiudiziale sia la
causa di garanzia. Per esempio proponendo una domanda di accertamento
negativo, una domanda di non esistenza del diritto di proprietà del terzo sul bene
compravenduto e contestualmente propone la domanda di garanzia nei confronti
del proprio venditore che è il garante, in base all’art. 103, primo comma. In questa
271
ipotesi gli spostamenti di competenza saranno regolati dall’art. 40, sesto comma,
e dall’ art. 32. E’ possibile che le due controversie vengano separatamente
proposte e qui rileverà il disposto dell’art. 40, settimo comma, “se le cause
connesse ai sensi del sesto comma sono proposte davanti al giudice di pace e al
tribunale, il giudice di pace deve pronunziare anche d'ufficio la connessione a
favore del tribunale”. Sarà quindi ancora un volta il giudice togato a doversi
occupare delle due controversie. Ai fini della competenza territoriale varrà sempre
il disposto dell’art. 32, per cui è l’ufficio giudiziario competente sulla causa
principale che attrae la causa di garanzia. Stante l’intensità del vincolo che
intercorre tra le due controversie si ritiene che non debba trovare applicazione il
disposto dell’art. 40, secondo comma, il quale prevede che l’eccezione di
connessione non possa essere sollevata dopo la prima udienza. Il cumulo
processuale dovrebbe avvenire in base all’art. 106 e quindi la chiamata in causa
del garante dovrà essere effettuata dal convenuto garantito a pena di decadenza
nella comparsa di risposta depositata venti giorni prima udienza, secondo quella
che è la disciplina ordinaria. Non è escluso che il garante entri nel processo avente
ad oggetto il rapporto pregiudiziale senza contestuale deduzione del rapporto di
garanzia. Questo si può avere nel caso in cui sia il garantito a chiamare il garante
per comunanza di causa, passando attraverso la previsione della prima parte
dell’art. 106. In questa ipotesi la chiamata determinerà un ampliamento soggettivo
ma non anche oggettivo del processo, perché avrà come unico effetto quello di
rendere il garante soggetto all’efficacia della sentenza resa inter partes. Ma potrà
essere altresì il garante, in quanto titolare di un rapporto giuridicamente
dipendente, a intervenire volontariamente nel processo pendente inter partes
esperendo l’intervento adesivo dipendente di cui all’art. 105, secondo comma.
272
Con riferimento a questo istituto si rendono necessarie alcune precisazioni.
Ricordiamo che tutte le fattispecie che danno luogo alla chiamata in garanzia
possono rientrare nella previsione dell’art. 108. Fino all’intervento del 2015 delle
Sezioni Unite era pacifica l’opinione secondo cui solo nella garanzia impropria
potesse verificarsi l’estromissione del garantito. Solo alcuni esponenti della
dottrina sostenevano che la disparità di trattamento, anche avuto riguardo alla
estromissione del garantito, era destituita di qualsiasi fondamento.
FILE 2
273
- in primo luogo la necessità che il garante compaia e accetti di assumere la
lite. Il garante non può quindi essere contumace. E’ necessario che si sia
costituito ma comparendo non deve aver contestato la propria qualità di
garante e riconoscere l’esistenza del rapporto di garanzia
Come prevede l’articolo 108, l’estromissione del garantito viene disposta con
ordinanza.
Soffermiamoci ora sulle regole di svolgimento del processo a cui prende parte il
garante ed in particolare dell’ipotesi in cui sia stata rivolta nei suoi confronti la vera
e propria chiamata in garanzia.
Non ci occupiamo qui in maniera approfondita dei poteri che può svolgere il
garante, come terzo titolare del rapporto giuridicamente dipendente, con
riferimento al rapporto pregiudiziale. Il garante pur non essendo titolare del
rapporto pregiudiziale ha un grosso interesse a far sì che il garantito risulti
274
vittorioso nella causa pregiudiziale. E’ poi infatti il garante a sopportare le
conseguenze negative di questa soccombenza. Quindi è fortemente interessato e
la partecipazione del garante al processo avente ad oggetto il rapporto principale
mette in gioco il suo diritto di difesa. Nel momento in cui il garante entra in questo
processo, non importa se a seguito di chiamata in garanzia o a seguito di
chiamata in causa per comunanza di causa o a seguito di intervento adesivo
dipendente, egli è soggetto all’efficacia della sentenza resa sul rapporto
pregiudiziale. Questa situazione mette dunque in gioco il suo diritto di difesa. Al
garante devono dunque essere assicurati diritti idonei idonei ad incidere sulla
formazione del convincimento del giudice circa l’esistenza, il modo d’essere del
rapporto pregiudiziale. Ce ne occuperemo in modo approfondito quando
parleremo dell’intervento adesivo dipendente.
Nel nostro ordinamento ci sono diversi altri settori relativi alla connessione per
pregiudizialità di pendenza che possono assumere rilevanza. Uno fra questi è la
Solidarietà ad interesse unisoggettivo come definita nell’art. 1298 del codice civile.
Si tratta di tutte le ipotesi in cui ci sono due obbligati solidali nei confronti di un
comune creditore ma che si caratterizzano per il fatto che il vincolo di solidarietà è
contratto nell’interesse esclusivo di uno solo dei condebitori su cui deve cadere a
livello dei rapporti interni il peso dell’obbligazione. Il prototipo è la fidejussione che
è una forma di garanzia personale. Parlando della chiamata in garanzia abbiamo
esaminato l’ipotesi in cui il creditore esercita l’azione di adempimento nei confronti
del fideiussore e questi chiama in garanzia il debitore originario. Questa non è
l’unica possibile strada per il cui tramite la fidejussione può entrare nel processo.
E’ possibile infatti che il creditore decida di agire e proporre la sua domanda di
adempimento nei confronti sia del debitore originario sia del fideiussore. Si tratta di
una possibilità perfettamente plausibile che comporta la deduzione in giudizio di
due rapporti che sono connessi per pregiudizialità di pendenza. Lo stesso schema
ricorre allo stesso modo, e quindi come forma di disconsorzio iniziale, anche in
altre fattispecie di obbligazioni solidali ad interesse unisoggettivo. Ad esempio con
riferimento alla responsabilità del proprietario del conducente, contemplata
nell’art. 2054 secondo cui Il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è
obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del
veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Ma poi
275
precisa che Il proprietario del veicolo, o, in sua vece, l'usufruttuario o l'acquirente
con patto di riservato dominio, è responsabile in solido col conducente, se non
prova che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la sua volontà. L’art. 2054
del codice civile disegna così uno schema perfettamente analogo a quello della
fidejussione. Anche in questa ipotesi è possibile che il danneggiato decida di
esperire azione di risarcimento del danno vuoi nei confronti del conducente vuoi
nei confronti del proprietario. Anche in questo caso avremo il cumulo processuale
ab origine, quindi, in base all’art. 103, di due controversie connesse per
pregiudizialità di pendenza. Lo stesso schema ricorre nell’art. 2049 del codice
civile. I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto
illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono
adibiti. Ricorre anche in questo caso una forma di pregiudizialità di pendenza
perché il rapporto obbligatorio tra il danneggiato e il dipendente, materialmente
responsabile del fatto illecito, è pregiudiziale rispetto al rapporto di credito/debito
che lega il danneggiato al datore di lavoro. Anche in questa ipotesi è possibile che
il danneggiato decida di esperire azione di risarcimento del danno vuoi nei
confronti del dipendente vuoi nei confronti del datore di lavoro. Un terzo schema di
connessione per pregiudizialità di pendenza si ha in tutti i casi in cui l’attore
esercita un’azione di impugnativa negoziale relativa ad un contratto e nello stesso
processo cumula una ulteriore domanda, proposta nei confronti del terzo avente
causa dal convenuto con cui fa valere il suo diritto, personale o reale, alla
restituzione del bene oggetto del contratto aggredito. Il legislatore spesso
stabilisce che un certo vizio contrattuale, stabilito magari in presenza di ulteriori
condizioni, è opponibile anche al terzo sub acquirente, quindi all’avente causa di
una delle parti del rapporto contrattuale. In tema di nullità ad es. il codice civile
prevede che esso è sempre opponibile al sub acquirente, salvi gli effetti della
trascrizione, in ipotesi di contratto soggetto a trascrizione. In questi casi, la parte
che esercita l’azione di nullità del contratto, può convenire nello stesso giudizio il
sub acquirente del bene oggetto del contratto aggredito, chiedendogli la
restituzione. Siamo qui di fronte ad una forma di connessione per pregiudizialità di
pendenza perché l’oggetto della domanda originaria, quindi la non esistenza del
rapporto giuridico derivato dal contratto aggredito, è elemento impeditivo della
fattispecie acquisitiva del diritto del terzo. Questo diritto esiste in quanto esiste il
diritto del suo dante causa. Se questo diritto decade perché si accerta la non
esistenza degli effetti del contratto impugnato, è chiaro che ne viene travolto
anche il secondo acquisto. Nell’ipotesi in cui la parte esperisce contestualmente
l’azione di nullità e la domanda di restituzione nei confronti del terzo sub
acquirente siamo dunque in presenza di una forma di connessione per
pregiudizialità di pendenza. La differenza rispetto alle obbligazioni solidali a
interesse unisoggettivo è evidente. Nell’ipotesi in esame, la parte può esercitare le
due domande contestualmente ma non può decidere di rivolgersi direttamente al
terzo sub acquirente perché non ha nessun diritto nei suoi confronti.
Diversamente, il comune creditore può decidere di rivolgersi al fideiussore, al
debitore originario, contestualmente, può decidere di agire direttamente nei
276
confronti del debitore originario oppure può decidere di agire direttamente nei
confronti del fideiussore. In questo settore rientrano tutte le azioni di impugnative
negoziale anche se occorre tenere presente che spesso il legislatore ha effettuato
scelte diverse rispetto a quella svolta in tema di nullità.
FILE 3
Cominciamo adesso ad analizzare un tema molto importante ai fini dello studio dei
processi con pluralità di parti. Si tratta del tema dei limiti soggettivi del giudicato
ovvero, si tratta di chiarire se la sentenza che viene emessa inter partes e coperta
dall’autorità di cosa giudicata produca i propri effetti nei confronti di un terzo che
non ha preso parte al processo ma che è titolare di un rapporto giuridico connesso
al rapporto oggetto del processo ed accertato con autorità di cosa giudicata. Si
tratta di un tema molto importante ai fini della comprensione del processo
litisconsortile a più parti perché è partendo da un chiarimento in ordine ai limiti
soggettivi del giudicato che si può comprendere la funzione svolta dal processo
litisconsortile. A questo particolare riguardo dobbiamo subito rilevare che su
questo tema il legislatore non ci è stato di grosso aiuto, nel senso che non
troviamo nell’ambito delle disposizioni normative soluzioni certe in ordine a questa
questione.
Infatti, l’art. 404 al co.2 prevede che “Gli aventi causa e i creditori di una delle parti
possono fare opposizione alla sentenza, quando è l'effetto di dolo o collusione a
loro danno”.
Evidentemente -trattandosi di impugnazione- è uno strumento diretto ad eliminare
dal mondo giuridico una certa sentenza. Vediamo che i soggetti legittimati sono,
oltre ai creditori (su cui torneremo in seguito), gli aventi causa. Dove con aventi
causa possiamo tranquillamente ritenere che si tratti di terzi titolari di diritti
giuridicamente dipendenti che sono legittimati ad esperire questo mezzo di
impugnazione per far valere che la sentenza sia stata il frutto del dolo o della
collusione delle parti nel processo a loro danno. Vediamo che si tratta di una
previsione piuttosto specifica che evidentemente dà per presupposto che questi
terzi, questi aventi causa e questi creditori siano soggetti agli effetti di questa
sentenza, altrimenti non è giustificata la circostanza che il legislatore abbia voluto
mettere nelle loro mani un mezzo di impugnazione avente come scopo
l’eliminazione della sentenza.
Ancora, ci sono delle disposizioni più specifiche ossia, che con riferimento ad
ipotesi più specifiche parlano di effetti della sentenza nei confronti di soggetti terzi.
Ad es. ricordiamo quando abbiamo parlato della garanzia per evizione abbiamo
dato lettura dell’art. 1485 cc, che prevede che: qualora il compratore non chiami
in causa il venditore e sia condannato con sentenza passata in giudicato perde il
diritto alla garanzia se il venditore prova che esistevano ragioni sufficienti per far
respingere la domanda, e abbiamo già anticipato che questa è una norma che si
occupa dei limiti soggettivi del giudicato attribuendo al giudicato, che si forma ad
esito del processo a cui hanno preso parte il rivendicante ed il compratore,
un’efficacia riflessa debole nei confronti del venditore.
Ancora, abbiamo incontrato nel panorama che abbiamo descritto in ordine alle
diverse forme di connessione che possono intercorrere tra parti diverse l’art.
1306cc applicabile alle obbligazioni solidali, siano esse obbligazioni solidali ad
interesse comune o ad interesse uni-soggettivo. Ricordiamo che l’art. 1306
prevede che la sentenza emessa nei confronti di alcuni soltanto dei partecipanti al
vincolo solidale produce effetti favorevoli nei confronti dei coobbligati o dei
concreditori che sono rimasti estranei al processo, ma non anche effetti
sfavorevoli. Quindi è una sentenza che non li può pregiudicare.
Accanto a queste disposizioni, possiamo citare per es. l’art. 1595cc che riguarda
la sublocazione e che prevede una forma di efficacia riflessa -questa volta forte-
della sentenza emessa tra locatore e conduttore nei confronti del sub-conduttore
rimasto estraneo al processo.
Un altro settore su cui vale la pena soffermarsi e su cui possiamo ritenere che
esistano dei punti fermi è quello dei RAPPORTI PLURI SOGGETTIVI.
Abbiamo visto che si tratta di una serie di situazioni giuridiche che subiscono una
forma di connessione molto intensa -data dall’identità vuoi della causa pentendi
vuoi del petitum-; ma abbiamo altresì rilevato che la disciplina processuale non è
affatto unitaria.
Intanto appare chiaro che un problema di limiti soggettivi del giudicato non si pone
con riferimento a quelle fattispecie che rientrano nel litisconsorzio necessario.
Perché se si applica l’art. 102 cpc abbiamo detto che la domanda va proposta da
e/o nei confronti di tutti i titolari del rapporto e se questo non avviene la sentenza è
inutiliter data (non produce effetti nei confronti del terzo rimasto estraneo al
processo ma neppure nei confronti delle parti). è evidente che non si pone un
problema di limiti soggettivi del giudicato.
Sappiamo già che l’autorità della cosa giudicata si forma solo e soltanto sulla
situazione giuridica dedotta in giudizio e non sui fatti che il giudice accerta al fine
di statuire sull’esistenza o non esistenza del diritto controverso. Allora appare
chiaro che, in queste particolari ipotesi, il terzo che è titolare di un diritto che è
connesso per mera identità parziale della causa pentendi rispetto al diritto che è
accertato con autorità di cosa giudicata inter partes non è affatto soggetto agli
effetti del giudicato. Questa sentenza -al limite- potrà rappresentare nei suoi
confronti un precedente giurisprudenziale sfavorevole perché il primo giudice avrà
accertato l’esistenza del fatto costitutivo comune in un senso che può essere
pregiudizievole nei confronti del terzo, ma sicuramente questo accertamento non
vincolerà -proprio perché riguarda un fatto- il giudice di fronte a cui il terzo farà
valere il proprio diritto. Appare chiaro che questa sentenza e questo accertamento
del fatto a livello di precedente giurisprudenziale -che è cosa diversa dagli effetti
del giudicato- potrà essere pregiudizievole per il terzo e questo consente di capire
il motivo per cui-anche in questo caso- il legislatore ha favorito la formazione del
processo litisconsortile, ed infatti è possibile che le due domande connesse per
identità parziale della causa petendi siano proposte ab origine di fronte allo stesso
giudice così come questo terzo entri nel processo attraverso l’intervento secondo
le modalità che andremo ad esaminare successivamente. Comunque, anche in
questa ipotesi non ci sono dubbi.
FILE 4
L’ambito in cui la questione dei limiti soggettivi del giudicato si presenta come un
problema che fino ad ora non ha trovato soluzione è quello della CONNESSIONE
PER PREGIUDIZIALITA’ DIPENDENZA.
Prima di esaminare il panorama di soluzioni che sono state avanzate, diciamo che
l’ordinamento mette a disposizione di questo terzo una serie di istituti che hanno
talvolta carattere preventivo, talvolta carattere successivo. A livello preventivo
sappiamo che, a parte le possibilità di cumulare nello stesso processo il rapporto
pregiudiziale ed il rapporto dipendente, l’ordinamento processuale offre al terzo
titolare del rapporto giuridicamente dipendente il potere di entrare nel processo
pendente tra le parti ed avente ad oggetto il rapporto pregiudiziale.
Questo istituto è l’intervento adesivo dipendente art. 105 co. 2 cpc. Il terzo
entra nel processo proponendo una domanda giudiziale nei confronti di una sola
parte -che è la parte anch’essa titolare del rapporto dipendente- ma non deduce in
giudizio il rapporto dipendente, chiede semplicemente al giudice di accettare
anche nei suoi confronti la non esistenza o l’esistenza del rapporto pregiudiziale
(dipende dalle fattispecie). Quindi, abbiamo detto che attraverso questo intervento
si ha un ampliamento in senso soggettivo del processo perché il terzo nel
momento in cui interviene acquista la qualità di parte, ma non anche un
ampliamento in senso oggettivo perché il rapporto dipendente non viene dedotto
in giudizio -di conseguenza il giudice non si pronuncerà sull’esistenza ed il modo
d’essere del rapporto dipendente-. Siccome il terzo intervenendo chiede che il
rapporto pregiudiziale sia accertato anche nei suoi confronti, possiamo
sicuramente mettere un punto fermo ossia, che il terzo titolare del rapporto
giuridicamente dipendente che esperisce intervento adesivo dipendente
sicuramente è soggetto all’efficacia della sentenza emessa (perché questa
sentenza è stata emessa anche nei suoi confronti).
282
Naturalmente lo stesso effetto lo si ha nel caso in cui sia una delle parti del
processo a chiamare in causa il terzo per comunanza di causa, lo abbiamo visto
parlando della chiamata in garanzia. Il terzo garante -che non è altro che il
titolare di un rapporto giuridicamente dipendente- può essere chiamato in causa
senza contestuale deduzione in giudizio del rapporto di garanzia; quindi il garantito
lo può chiamare in causa proponendo nei suoi confronti una domanda di
accertamento del rapporto pregiudiziale nei suoi confronti. Di conseguenza anche
in questa ipotesi il terzo entra nel processo perché la chiamata gli fa acquistare la
qualità di parte, resterà soggetto alla sentenza emessa inter partes.
(non tocchiamo in questo momento il tema delicatissimo dei poteri che il terzo,
titolare del rapporto giuridicamente dipendente entrato nel processo avente ad
oggetto il rapporto pregiudiziale, potrà esercitare con riferimento al rapporto
pregiudiziale stesso, perché abbiamo già detto che questo tema lo andremo a
trattare nell’ambito della lezione dedicata all’intervento adesivo dipendente).
Invece, se il terzo non entra nel processo (quindi ne rimane totalmente estraneo)
non sappiamo se sia soggetto almeno all’efficacia riflessa della sentenza emessa
inter partes.Tuttavia, ricordiamoci che laddove lo si ritenga soggetto all’efficacia di
questa sentenza ha un rimedio successivo che è l’opposizione di terzo
revocatoria art. 404 co.2 cpc che abbiamo visto fa espresso riferimento non
soltanto ai creditori ma anche agli aventi causa, e qui il termine “avente causa”,
per opinione pacifica, si intende riferito a tutti i terzi titolari di un rapporto
giuridicamente dipendente. Naturalmente abbiamo già notato che questo rimedio
successivo è un rimedio a maglie strette perché il terzo che propone opposizione
di terzo revocatoria non può denunciare semplicemente l’ingiustizia della
sentenza, ma deve denunciare che la sentenza è effetto del dolo o della collusione
delle parti a suo danno. Quindi, si tratta evidentemente di un rimedio a maglie
molto strette.
Torniamo alla questione dei limiti soggettivi del giudicato nei confronti del terzo
titolare di un rapporto giuridicamente dipendente e andiamo a riprendere il dato
normativo, e cioè riprendiamo in rapida sequenza le disposizioni che con
riferimento a specifiche fattispecie si occupano dei limiti soggettivi del giudicato.
283
L’art.1595 al co. 3 prevede che “Senza pregiudizio delle ragioni del subconduttore
verso il sublocatore, la nullità o la risoluzione del contratto di locazione ha effetto
anche nei confronti del subconduttore e la sentenza pronunciata tra locatore e
conduttore ha effetto anche contro di lui.”
Questa norma prevede un tipico esempio di efficacia riflessa c.d. forte laddove
prevede che la sentenza che pronuncia la nullità o la risoluzione del contratto di
locazione principale -emanata evidentemente tra il locatore ed il conduttore-
esplica la propria efficacia nei confronti del subconduttore. Come dicevamo, è una
regola di efficacia forte perché il terzo titolare del rapporto giuridicamente
dipendente evidentemente è soggetto a quanto accertato in questa sentenza.
Una regola analoga la si rinviene nell’ambito delle norme relative alla trascrizione
delle domande giudiziali, artt. 2652 e 2653 cc. Tali disposizioni prevedono infatti
che il terzo avente causa dal convenuto che ha trascritto il proprio titolo di
acquisto successivamente alla trascrizione della domanda giudiziale è soggetto
agli effetti della sentenza di accoglimento della domanda, sentenza emanata
evidentemente iner alios. Anche in questa ipotesi siamo di fronte ad una regola di
efficacia riflessa forte nei confronti del terzo.
Abbiamo poi un’altra serie di disposizioni che contemplano una diversa regola di
efficacia, si parla di efficacia riflessa c.d. debole.
Abbiamo poi l’art. 1306 ccin tema di solidarietà. Sappiamo che nella nozione di
solidarietà rientrano anche le obbligazioni solidali a interesse uni-soggettivo che
abbiamo detto riproducono sicuramente lo schema della connessione per
pregiudizialità dipendenza. L’art. 1306 prevede una regola di efficacia inutilibus
quindi, una regola di efficacia forte se la sentenza è favorevole; mentre prevedono
una regola di non efficacia laddove la sentenza invece è sfavorevole.
FILE 5
Per completare il quadro delle disposizioni normative che si occupano del tema
dei limiti soggettivi del giudicato nell’ambito di rapporti tra parti diverse connesse
per pregiudizialità dipendenza vorrei indicarvi alcune disposizioni che contengono
delle previsioni incomplete, che quindi offrono una soluzione con riferimento ad
alcuni casi lasciando scoperti però tutta un’altra serie di ipotesi che facilmente si
possono prospettare. Si tratta di disposizioni che si occupano del problema della
opponibilità dell’azione di impugnativa negoziale nei confronti del terzo avente
causa dal convenuto.
In tutti gli altri casi, la norma prevede che la simulazione non possa essere
opposta a terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente. Se
la norma detta una regola di non opponibilità della simulazione a terzi che hanno
acquistato in buona fede, niente mi dice in ordine al caso in cui il terzo non è in
buona fede.
Sono soltanto 2 esempi che però sono rappresentativi di una categoria molto
ampia di fattispecie in cui il legislatore lascia insoluta ed aperta la questione
relativa al se la sentenza emessa inter partes è opponibile o meno al terzo titolare
del rapporto giuridicame.
286
Lezione 17 - 07/05/20
PRIMA PARTE
Allora, cominciamo dalle tesi più estreme. Allora innanzitutto la tesi della efficacia
riflessa forte generalizzata. È la soluzione che è stata teorizzata per la prima
volta dal prof Enrico Allorio, notissimo processual civilista, in una monografia del
1934. Si tratta di una tesi che diciamo ha avuto largo seguito per un lunghissimo
periodo di tempo, ma è una tesi che il prof Allorio ha elaborato in una prospettiva
tutta sostanziale, e che, a distanza di molti anni, è stata ripresa da giovani (al
tempo) studiosi come il prof Fabbrini e il prof Proto Pisani, che sono arrivati alle
stesse conclusioni attraverso un iter argomentativo completamente diverso.
In pratica, la tesi del professor Allorio si basava sul rilievo secondo cui: la sentenza
passata in giudicato, nei suoi limiti oggettivi, ha una efficacia soggettivamente
illimitata. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che se, successivamente, si apre un
secondo processo che ha ad oggetto un rapporto giuridicamente dipendente da
quello già accertato con autorità di cosa giudicata, e che fa capo a un soggetto
terzo, questi non può rimettere in discussione l’accertamento di esistenza e del
modo d’essere compiuto dal giudice del primo processo, perché ormai l’esistenza
e il modo d’essere di quel rapporto, sono stati, sono espressi in una sentenza
che, passata in giudicato, diventa incontrovertibile. Quindi, il segmento della
fattispecie giudica da cui deriva il rapporto dipendente ormai è fissato nei termini
stabiliti dal giudicato.
Come vi ho detto, è una tesi che ha avuto un largo seguito, il libro del professor
Allorio ebbe un grande successo all’epoca, pensate che fu lui in questa
287
monografia a evidenziare, a cogliere, per primo questa forma di connessione: fino
a quel momento le uniche forme di connessione che si erano evidenziate erano la
connessione per identità di uno degli elementi identificativi del rapporto giuridico,
quella che noi chiamiamo la connessione per pregiudizialità dipendenza era una
delle forme di connessione per identità del titolo.
I risultati, come vi dicevo, a cui è approdato il prof Allorio, sono stati in seguito
ripresi, ma a trent’anni di distanza da due giovani al tempo studiosi, il professor
Fabbrini e il prof Proto Pisani, che però confermarono questi risultati sulla base di
una ricostruzione prettamente processuale. In modo particolare il prof Proto Pisani
partì dal rilievo di una serie di disposizioni, quali in modo particolare, l’art 404
secondo comma, quindi la opposizione di terzo revocatoria, ma anche l’art 105
comma secondo, relativo all’intervento adesivo dipendente del terzo, per affermare
che queste disposizioni presuppongono un terzo che è soggetto alla efficacia della
sentenza.
Questa tesi della efficacia riflessa forte della sentenza è una tesi che naturalmente,
evidentemente, dà la massima realizzazione alla esigenza di assicurare il
coordinamento delle decisioni, quindi di assicurare la armonia tra diritto
sostanziale e processo. Tuttavia, oggi come oggi, non possiamo esimerci dal
rimarcare che la stessa presta il fianco a una serie di osservazioni critiche,
osservazioni che devono esser svolte alla luce di un principio costituzionale, come
quello del diritto di difesa e il principio del contraddittorio, stigmatizzati nell’art 24
comma secondo cost. e 111 comma secondo cost. Seguendo questa prima
prospettazione, appare chiaro che l’unico rimedio che il terzo avrebbe a sua
disposizione sarebbe rappresentato dalla opposizione di terzo revocatoria, rimedio
però che, come abbiamo già anticipato è soggetto a due condizioni, a due
presupposti molto rigidi: il dolo e la collusione delle parti a suo danno, quindi è un
rimedio molto limitato. E anche se, diciamo, alcuni esponenti di questa dottrina
hanno proposto una interpretazione estensiva dell’art 404 secondo comma, dando
una lettura ampia del dolo e della collusione, certamente questa tesi è inadeguata
rispetto al principio del diritto di difesa a cui oggi l’ordinamento e tutti gli operatori,
tutti gli interpreti, accordano rilevanza primaria.
Il secondo rilievo è un rilievo di diritto invece positivo. Noi fin dalle primissime
lezioni del corso abbiamo introdotto l’art 34 del cpc che si occupa di connessione
per pregiudizialità dipendenza tra le stesse parti , evidenziando che in questa
norma il legislatore, introducendo la regola secondo cui il giudice del rapporto
dipendente come regola generale accerta la esistenza e il modo d’essere del
rapporto pregiudiziale incidenter tantum, quindi senza autorità di cosa giudicata,
accetta il rischio che si formino giudicati logicamente contraddittori. Quindi, se
l’ordinamento accetta il rischio che si formino giudicati logicamente contraddittori
tra le stesse parti, si può dire che, diciamo, allo stesso risultato si potrà pervenire
laddove i rapporti pendono fra parti diverse, soprattutto considerando che, nel
momento in cui due rapporti pendono tra parti diverse, si pone la esigenza di
assicurare il diritto di difesa del terzo non coinvolto, non titolare del rapporto
pregiudiziale.
288
Questa tesi, inoltre, è stato rilevato, non considera nemmeno l’art 2909 cc,
perché da questa norma non risulta affatto chiaro chi siano questi aventi causa,
anzi, si è sempre detto che gli aventi causa son coloro a cui la parte trasferisce il
diritto all’indomani del passaggio in giudicato della sentenza.
Per cui diciamo che è una tesi che, per quanto affascinante e per quanto idonea a
soddisfare pienamente l’esigenza di assicurare il coordinamento delle decisioni,
presenta sicuramente dei lati deboli.
Secondo il prof Luiso, infatti, le uniche ipotesi in cui l’efficacia riflessa ultra partes
può esser ammessa sono i casi espressamente previsti dalla legge, e in modo
particolare, secondo il prof Luiso, tra questi casi rientrano fattispecie come quella
prevista nell’art 1595 comma terzo cc, in cui la pregiudizialità dipendenza si
atteggia in un modo del tutto peculiare. Il prof Luiso parla infatti di un vincolo di
connessione per pregiudizialità dipendenza cd permanente. Si tratta in
particolare, secondo il prof Luiso, di rapporti che si caratterizzano per il fatto che il
rapporto pregiudiziale deve continuare ad esistere durante tutto il tempo di
svolgimento del rapporto dipendente. Quindi si tratta di due rapporti che si
svolgono contestualmente e poi si caratterizzano per il fatto che il titolare del
rapporto pregiudiziale può sempre disporre del proprio rapporto anche dopo aver
dato vita al rapporto dipendente, e il terzo titolare del rapporto dipendente è
destinato a subire gli effetti sostanziali degli atti dispositivi posti in essere tra le
289
parti del rapporto pregiudiziale, salvo eventualmente il diritto ad ottenere il
risarcimento del danno. E quindi la regola fissata nell’art 1595 cc, a tenore del
quale “la sentenza che pronuncia la nullità o la risoluzione del contratto di
locazione hanno effetti anche nei confronti del sub-conduttore”, sarebbe una
regola perfettamente analoga a quella che lo stesso legislatore ha dettato con
riferimento agli atti dispositivi di tipo sostanziale, che i titolari del rapporto
pregiudiziale pongono in essere e che abbiamo detto vincolano anche il titolare del
rapporto dipendente. Secondo il professor Luiso si tratterebbe di una categoria
estremamente limitata in cui oltre alla sub locazione rientrerebbero soltanto i cd
sub contratti.
Ora, il limite di questa tesi è che, a parte i sub contratti, esistono molti altri settori
in cui sussistono, si intravedono, delle esigenze particolari, esigenze pubblicistiche
di certezza del diritto, che inducono gli operatori a garantire la efficacia riflessa
forte del giudicato reso inter partes. Il riferimento in particolare è a settori quali lo
status delle persone oppure la circolazione dei beni immobili, e infatti si tratta di
una serie di settori in cui spesso e volentieri il legislatore ha adottato una serie di
accorgimenti tesi ad assicurare la esigenza di certezza del diritto, vedi ad esempio
i registri dello stato civile oppure i registri relativi ai diritti su beni immobili.
Infine abbiamo una tesi intermedia, la tesi della efficacia riflessa debole,
teorizzata dal prof Enrico Tullio Liebman in una nota monografia. Questa teoria è
una teoria che di fatto generalizza la soluzione che troviamo espressa negli art
1485 del cc in tema di garanzia per evizione, nonché negli artt 2859 e 2870 cc in
tema di terzo acquirente dell’immobile ipotecato o di terzo datore di ipoteca.
È la tesi della efficacia riflessa debole della sentenza resa inter partes, una tesi per
cui il giudicato produce effetti nei confronti del terzo, ma il terzo ha la possibilità di
dimostrare l’ingiustizia di questo giudicato, quindi di rimettere in discussione, sia
pure incidenter tantum, l’esistenza e il modo d’essere del rapporto pregiudiziale.
La tesi del professor Liebman viene elaborata sulla base della distinzione teorica
fra l’autorità della sentenza, che avrebbe un effetto illimitato, e la efficacia della
sentenza, efficacia della sentenza che appunto, nei confronti di soggetti diversi
dalle parti del processo, sarebbe una efficacia che non è quella riflessa forte,
perché al terzo, che non ha partecipato al processo, deve esser data la possibilità
di dimostrare la ingiustizia della sentenza per sottrarsi al vincolo, all’efficacia
dell’accertamento in essa contenuto.
In base a questa tesi quindi, nel secondo processo che ha ad oggetto il rapporto
dipendente, il terzo potrebbe sempre chiedere un accertamento incidenter tantum,
quindi senza autorità di cosa giudicata, circa l’esistenza e il modo d’essere del
rapporto pregiudiziale, corrente tra la controparte del rapporto dipendente e un
altro soggetto. Questo anche se il rapporto pregiudiziale ormai è stato accertato
con una sentenza passata in giudicato.
290
argomenti, non ha elementi, diretti a dimostrare che l’accertamento del rapporto
pregiudiziale contenuto nella sentenza passata in giudicato è ingiusto, allora
rimane soggetto all’efficacia della sentenza.
Anche questa tesi è stata oggetto di serrate critiche: critiche sia teoriche, perché
non è affatto chiara la distinzione fra autorità ed efficacia della sentenza, non si
capisce cosa sia questa efficacia della sentenza, a che livello si muove questa
efficacia: molti hanno osservato che più che un efficacia questa tesi sembrerebbe
basarsi su un’inversione dell’onere della prova. Inoltre è stato osservato che
questa soluzione è stata elaborata alla luce sostanzialmente di tre disposizioni del
cc, e non tiene in debito conto un’altra serie di disposizioni contenute nel cpc,
prima tra tutti l’art 404 secondo comma, che invece sembrano presupporre un
efficacia forte, un efficacia che vincola il terzo titolare del rapporto giuridicamente
dipendente.
(file 2) Abbiamo terminato di passare in rassegna le tesi che sono state avanzate in
dottrina in tema di limiti soggettivi della sentenza civile nell’ambito dei rapporti
connessi per pregiudizialità dipendenza pendenti tra parti diverse. Le tesi che io vi
ho proposto sono tesi che cercano di offrire una soluzione generale, una soluzione
cioè che deve essere applicata laddove non c’è una espressa previsione
normativa. Volendo attualizzare il dibattito dobbiamo prendere atto che, secondo
gli orientamenti più attuali e diciamo preferibili, non si ritiene che la questione dei
limiti soggettivi del giudicato civile abbia una soluzione unitaria, ma piuttosto si
preferisce offrire soluzioni per settori, per gruppi di fattispecie, tenendo conto delle
caratteristiche di queste fattispecie, a partire dalla disciplina positiva.
Allora possiamo, in questa direzione, cercare di offrire alcuni punti fermi. Intanto,
diciamo che le tesi che hanno cercato di limitare l’efficacia riflessa della sentenza
inter partes nei confronti del terzo titolare di un rapporto giuridicamente
dipendente, sono tesi che sono state elaborate nella prospettiva di garantire in
maniera adeguata il diritto di difesa del terzo. Ma se così è, allora, possiamo
convenire con quanti ritengono che non dovrebbero esserci difficoltà a configurare
la estensione al terzo degli effetti del giudicato reso tra le parti del rapporto
pregiudiziale allorquando si tratti di effetti favorevoli.
D’altra parte ricordiamoci che l’art 1306 cc, che è una norma che ha un ambito
applicativo piuttosto esteso valendo sia con riferimento alle obbligazioni solidali ad
interesse comune, ma anche con riferimento alle obbligazioni solidali a interesse
unisoggettivo, che abbiamo detto riproducono lo schema della connessione per
pregiudizialità dipendenza, e probabilmente anche alle obbligazioni indivisibili.
Ecco, l’art 1306 offre, applica, adotta proprio un criterio che tiene conto del se
l’effetto della sentenza è un effetto favorevole o un effetto invece sfavorevole: nel
primo caso consente ai condebitori o concreditori rimasti estranei al processo di
utilizzare il giudicato, mentre invece se l’effetto è sfavorevole chiarisce molto bene
che questo giudicato non li può pregiudicare. Quindi potremmo concordare con
chi propone di riconoscere che il giudicato favorevole possa produrre i propri
effetti nei confronti del terzo.
291
Quanto invece all’ipotesi dei giudicati sfavorevoli, probabilmente occorre tenere
conto della circostanza che esistono dei settori in cui c’è una particolare esigenza
di certezza del diritto, e quindi si tratta di settori con riferimento ai quali vale la
pena riflettere in ordine alla possibilità di ammettere che l’efficacia riflessa forte
della sentenza possa essere configurata; a meno che naturalmente non si
preferisca imporre la regola del litisconsorzio necessario, perché, in fin dei conti, la
regola del litisconsorzio necessario assolve alla stessa funzione: far sì cioè che
venga emanata una sentenza che vincola tutti.
Questo settore innanzitutto è il settore degli status personali che coinvolgono più
persone: pensate al rapporto di paternità, al rapporto di filiazione, che coinvolgono
necessariamente tre soggetti, non soltanto padre figlio, ma anche sicuramente la
madre. La stessa esigenza viene avvertita nell’ambito della circolazione dei beni
immobili.
Per il resto non si può prescindere dalla esigenza di apprestare una adeguata
tutela al diritto di difesa del terzo. Ed è in questa direzione che il prof Proto
Pisani qualche anno fa ha elaborato una nuova proposta di soluzione. Il professor
Proto Pisani ha proposto di ritenere che si potrebbe riconoscere che le prove
raccolte nel primo processo possano conservare la propria efficacia di prova
anche nel successivo processo instaurato contro il terzo. Quindi non si tratterebbe
di una efficacia riflessa del giudicato, ma il prof Pisani sposta la propria soluzione
sulle prove acquisite, riconoscendo alla parte del rapporto pregiudiziale, che è
parte anche del rapporto dipendente, la possibilità di spendere nel secondo
processo avente ad oggetto il rapporto dipendente, le prove già acquisite nel
primo processo, con un limite, naturalmente, perché il diritto di difesa del terzo
impone di concedere a questi il diritto di prova contraria, oltre naturalmente al
potere di allegazione di fatti rilevanti. E questo diciamo è l’ultima proposta che è
stata avanzata con riferimento a questa complicatissima questione.
Direi che con questo possiamo ritenere conclusa la trattazione dei limiti soggettivi
del giudicato civile nei confronti dei terzi titolari di rapporti giuridicamente
292
dipendenti, ci manca soltanto qualche precisazione con riferimento alla categoria
dei creditori, che taluni richiamano nell’alveo dei titolari di rapporti giuridicamente
dipendenti.
Come vi dicevo, al di là della questione teorica, possiamo dire che il principio della
responsabilità patrimoniale impone all’interprete di considerare che, in ogni caso la
sentenza emanata contro il debitore, produce inevitabilmente i suoi effetti nei
confronti del creditore, perché: se è una sentenza con riferimento alla quale il
debitore rimane soccombente, che quindi accerta la esistenza di un diritto del
terzo nei confronti del debitore, o accerta che un determinato diritto appartiene al
terzo e non al debitore, è chiaro che la posizione dei creditori ne risente. E questo
induce a ritenere che i creditori si trovino in una condizione tale da meritare una
tutela adeguata. E questo porta a suffragare la tesi secondo cui anche i creditori
dovrebbero poter fruire degli strumenti che il legislatore pone a disposizione dei
terzi titolari dei rapporti giuridicamente dipendenti, e quindi possano anche i
creditori in via preventiva esperire intervento adesivo dipendente in base all’art 105
secondo comma, e in via successiva possano proporre opposizione di terzo
revocatoria, ed infatti l’art 404 secondo comma non a caso li richiama
espressamente. La questione dei poteri processuali che il creditore può utilizzare,
può spiegare, nel processo che ha ad oggetto il rapporto del debitore è una
questione che dovremo risolvere alla stessa identica stregua di come la dovremo
risolvere in via generale con riferimento a tutti i terzi titolari di rapporti
giuridicamente dipendenti, ma ne parleremo quando andremo a trattare appunto
l’intervento adesivo dipendente.
Dopo questa lunga disamina possiamo spostare la nostra attenzione sugli istituti
che sono strumentali alla formazione del processo litisconsortile, e questa
analisi la dobbiamo intraprendere richiamando il principio che tante volte abbiamo
ricordato, ovvero che il modo in cui si forma il processo litisconsortile non ha
nessuna rilevanza sulla disciplina processuale, perché l’unico elemento che a tale
scopo rileva è la struttura delle situazioni giuridiche di cui sono affermati titolari le
parti.
293
che si propongono esiste connessione per l’oggetto o per titolo dal quale
dipendono, oppure quando la decisione dipende totalmente o parzialmente dalla
risoluzione di identiche questioni. Il giudice può disporre nel corso della istruzione
o della decisione, la separazione delle cause se vi è istanza di tutte le parti, ovvero
quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso
il processo, e può rimettere al giudice inferiore le cause di sua competenza”.
Allora, questa disposizione si occupa dei casi in cui il processo si svolge fin
dall’inizio tra più parti. Si tratta appunto di ipotesi in cui la formazione del
processo litisconsortile non è obbligatoria, e questo segna la distanza tra questa
disposizione e la disposizione precedente, l’art 102 che si occupa invece del
litisconsorzio necessario (facoltativo dice, lapsus evidentemente min -7.01).
Ricordiamoci che, ancora una volta, nelle stesse fattispecie che rientrano nell’art
103 è possibile che il processo litisconsortile si realizzi in via successiva a seguito
ad esempio di riunione delle cause separatamente proposte in base agli art 274 e
40; oppure attraverso intervento: intervento volontario art 105 o coatto del terzo, e
quindi su istanza di parte art 106 o su ordine del giudice art 107.
Nel silenzio della legge si ritiene che le questioni identiche possano essere
questioni di fatto e questioni di diritto. Quindi gli esempi classici che di solito si
propongono riguardano ad esempio i contratti stipulati su moduli identici secondo
quanto previsto secondo nell’art 1342 cc, oppure il caso di più lavoratori che
294
agiscono nei confronti del comune datore di lavoro facendo valere situazioni
giuridiche distinte, ma ugualmente fondate sulla medesima clausola presente in
tutti i contratti di lavoro individuale.
(file 3) Le altre fattispecie che sono comprese nella previsione dell’art 103
concernono forme di connessione certamente più intense rispetto a quelle appena
esaminate. Innanzitutto, il litisconsorzio facoltativo ricorre nei casi in cui le
domande proposte nei confronti di più parti o da più parti risultano connesse per
identità del petitum e \ o della causa petendi.
Pendiamo avvio, anche in questo caso, dalla forma più blanda, e quindi
consideriamo il caso in cui la domanda viene proposta da o contro più parti tra le
quali corrono rapporti giuridici che sono connessi per identità di titolo o per
identità parziale della causa petendi. L’esempio tipico è quello dei diversi
danneggiati che agiscono nei confronti del comune danneggiante per ottenere il
risarcimento del danno subito nel medesimo sinistro. Però vi rientrano anche le
obbligazioni parziarie, come nel caso in cui il creditore del de cuius agisce nei
confronti dei diversi coeredi, che sappiamo sono tenuti in via parziaria.
Siamo ancora una volta alla presenza di una connessione tutto sommato blanda,
che mette in gioco esigenze di economia dei giudizi, ma non anche esigenze
legate alla armonia delle decisioni, perché è pacifico che la causa petendi viene
sempre accertata senza autorità di cosa giudicata. Infatti anche in questa ipotesi
non è previsto una deroga ai criteri originari di competenza volta a facilitare la
formazione del litisconsorzio. Ancora una volta nel processo simultaneo ciascuna
parte conserva i propri poteri processuali, perché le due cause sono
sostanzialmente autonome e questo spiega il perché le due controversie, sebbene
le due o più controversie, sebbene riunite di fronte allo stesso giudice, possono
avere un esito di merito diverso e anche opposto.
Anche in questo caso è pacifico che il giudice possa disporre la separazione delle
cause, sia in fase istruttoria sia in fase decisoria, in quest’ultima ipotesi si prevede,
naturalmente, si ammette, la possibilità che il giudice, previa ordinanza di
295
separazione delle due cause, decida, si pronunci sulla causa matura per la
decisione con sentenza definitiva emanata ai sensi dell’art 279 comma secondo
n°5.
PARTE SECONDA
Poi abbiamo la forma di connessione più intensa, ovvero quella che ricorre quando
vi è identità sia del petitum che della causa pretendi. Naturalmente si fa riferimento
ai casi in cui viene dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo ma non si
applica la disciplina del litisconsorzio necessario.
Per esempio, riprendendo le fattispecie a suo tempo esaminate, nel caso in cui
venga impugnato un contratto bilaterale a parti collettive che ha effetti meramente
obbligatori; oppure l’azione di rivendica che viene esercitata nei confronti di uno
dei compossessori del bene; oppure l’azione costitutiva di servitù esercitata da
uno dei titolari del fondo dominante nei confronti del proprietario unico del fondo
servente; oppure l’ipotesi delle impugnazioni delle delibere assembleari.
296
che tutte queste fattispecie non vanno soggette ad una disciplina unitaria nella
parte in cui, mentre alcune di queste ipotesi sono soggette alla disciplina del
litisconsorzio c.d. unitario (è un processo litisconsortile facoltativo quanto alla
instaurazione, ma necessario quanto a trattazione e decisione), altre ipotesi invece
danno luogo ad una forma di litisconsorzio facoltativo quanto non solo
all’instaurazione ma anche per quanto riguarda la trattazione e decisione.
Invece ci sono altre fattispecie, come ad esempio le obbligazioni solidali, che pur
presentando una forma di connessione molto intensa, si connotano per la spiccata
autonomia che corrono tra i rapporti della parte comune e i diversi coobbligati/
concreditori, per cui a livello processuale abbiamo detto che si applica la disciplina
del litisconsorzio facoltativo, non soltanto per quanto riguarda l’instaurazione
(come si ricava dall’art. 1306 c.c.), ma anche alla trattazione e decisione (come si
ricava dall’art. 1305 c.c.), per cui le più domande, anche se vengono proposte
nell’ambito dello stesso processo, possono subire un esito di merito diverso.
Infine il litisconsorzio facoltativo ricorre anche nelle ipotesi in cui l’attore, attraverso
la sua domanda giudiziale, deduca contestualmente in giudizio: vuoi il rapporto
pregiudiziale, vuoi il rapporto dipendente, laddove i due rapporti corrano fra due
soggetti diversi.
297
pregiudiziale, ma di questo, come abbiamo già anticipato più volte andremo a
parlare trattando dell’intervento adesivo dipendente.
Con riferimento a questa particolare ipotesi abbiamo detto che, stante la forte
esigenza di assicurare il coordinamento delle decisioni il giudice non potrà
disporre la separazione delle cause, e laddove la causa pregiudiziale è matura per
la decisione prima della causa dipendente l’unica possibilità è emanare sulla prima
sentenza non definitiva ai sensi dell’art. 279 comma 2 n.4 perché ciò assicura il
coordinamento delle decisioni.
Con riferimento alla disciplina in fase di gravame, la ricostruzione deve basarsi sul
rilievo secondo cui il nesso di pregiudizialità dipendenza può venir meno in talune
ipotesi, per cui, come andremo a verificare attentamente nella lezione dedicata al
litisconsorzio in fase di gravame, la disciplina non è unitaria ma dovrà variare in
ragione dell’esito a cui le cause sono pervenute a conclusione del processo di
primo grado, in ragione del soggetto che assume l’iniziativa impugnatoria, e anche
dei motivi su cui l’impugnazione si fonda.
Detto tutto questo, passiamo adesso ad un nuovo tema, per andare ad esaminare
la disciplina degli interventi.
L’intervento volontario del terzo può essere spiegato in una serie nutrita di ipotesi
che sono indicate nell’art. 105. Dobbiamo distinguere le ipotesi rientranti nel primo
comma, dal caso previsto invece nel secondo comma. Leggiamo la disposizione
“ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in
confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un dirlo relativo all’oggetto o dipende
dal titolo dedotto nel processo medesimo.”
Nel secondo comma si legge che “può altresì intervenire per sostenere le ragioni di
alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse”.
Le ipotesi contemplate nel primo comma dell’articolo 105 si connotano per il fatto
che l’intervento del terzo determina un ampliamento non solo soggettivo del
processo ma anche oggettivo, perché in queste ipotesi il terzo, nel momento in cui
entra nel processo altrui, propone una vera e propria domanda giudiziale, quindi
deduce in giudizio un rapporto giuridico ulteriore rispetto a quello che già
298
costituisce l’oggetto del processo nei confronti di entrambe le parti originarie del
processo, oppure nei confronti di una sola delle parti.
In senso contrario nel caso previsto nel secondo comma dell’art. 105, il terzo che
interviene non propone una vera e propria domanda giudiziale, quindi non deduce
in giudizio un rapporto giuridico ulteriore rispetto a quello che costituisce l’oggetto
del processo, per cui si ha un ampliamento in senso soggettivo, ma non anche
oggettivo —> questo è il caso del c.d. intervento adesivo dipendente.
Si tratta dell’ipotesi in cui, il terzo che interviene propone una domanda giudiziale
nei confronti di entrambe le parti del processo, facendo valere un diritto autonomo
e incompatibile rispetto al rapporto oggetto originario del processo.
Autonomo perché fondato su un fatto costitutivo estraneo alle parti del processo.
Incompatibile perché relativo allo stesso oggetto e allo stesso bene della vita già
controverso tra le stesse parti.
299
Questo non è l’unico rimedio, perché il terzo potrebbe anche seguire altre strade,
per esempio, dal momento in cui non è vincolato alla sentenza emessa inter
partes, ben potrebbe aprire un secondo ed autonomo processo nei confronti della
parte uscita vittoriosa dal primo processo, facendo valere il suo diritto.
Abbiamo introdotto l’intervento principale spiegato dal terzo che si afferma titolare
di un rapporto autonomo incompatibile rispetto al rapporto oggetto originario del
processo.
Il terzo che esperisce intervento principale propone una domanda giudiziale nei
confronti di entrambe le parti originarie del processo. Per quanto riguarda la
disciplina processuale, trattandosi di un’ipotesi in cui oggetto del processo sono
due situazioni giuridiche connesse in modo piuttosto stretto, trattandosi di una
forma di connessione per identità di petitum, si ritiene che questo processo
cumulativo non possa essere sciolto, finché rimane controversa fra le parti la
questione appartenenza del bene, questo processo deve rimanere unitario.
300
La seconda forma di intervento contemplata nel comma 1 art. 105 è l’intervento
adesivo litisconsortile, esperito dal terzo che è titolare di un diritto connesso per
identità di petitum e di causa pretendi con l’oggetto originario del processo. In
questa ipotesi, a differenza della precedente, il terzo che interviene propone una
domanda giudiziale nei confronti di una sola delle parti originarie, tuttavia le regole
di svolgimento del processo non potranno essere unitarie perché, come abbiamo
visto parlando delle forme di connessione e del litisconsorzio facoltativo, la
disciplina processuale dei rapporti plurisoggettivi varia in ragione della diversa
regolamentazione cui gli stessi sono soggetti a livello di legge sostanziale. Gli
esempi sono molteplici e già noti:
Es. Nelle obbligazioni parziarie: nel caso in cui un coerede agisce nei confronti del
debitore del decuius per ottenere l’adempimento della propria quota, si può
immaginare che nel processo intervenga volontariamente un altro coerede per
chiedere l’adempimento della quota di propria spettanza
301
Es. Nei casi in cui più persone risultano danneggiate nell’ambito del medesimo
fatto illecito. Se uno dei danneggiato propone azione di risarcimento del danno nei
confronti del comune danneggiante è possibile che un altro danneggiato esperisca
intervento chiedendo a sua volta di essere risarcito.
D’altra parte nel momento in cui entra nel processo il terzo è soggetto all’efficacia
della sentenza che emanerà il giudice -> questo pone l’esigenza di tutelare in
maniera adeguata il diritto di difesa del terzo, pone l’esigenza di metterlo nella
302
condizione di prendere parte attivamente alla formazione del convincimento del
giudice, quindi il problema di attribuirgli poteri processuali adeguati dal momento
che sarà soggetto all’efficacia della sentenza.
Quindi i terzi che rientrano in questa categoria, che sono soggetti pacificamente
all’efficacia riflessa forte della sentenza, non hanno altro rimedio se non
l’opposizione di terzo revocatoria subordinata al dolo e la collusione delle parti a
loro danno secondo quanto previsto nell’art. 404. Quando entrano nel processo
altrui sarebbero comunque già soggette all’efficacia riflessa forte della sentenza,
quindi l’entrata nell’altrui processo non determina un mutamento della loro
posizione. Escluse queste ipotesi che si riducono all’art. 1595 e probabilmente ai
subcontratti, seguendo anche la tesi prospettata da coloro che portano avanti
un’accezione più ristretta dei limiti soggettivi del giudicato, per il resto la dottrina
ha ritenuto che è difficile ritenere questi terzi titolari di rapporti giuridicamente
dipendenti soggetti a un’efficacia riflessa forte della sentenza.
Fatta questa premessa appare chiaro che, nel momento in cui si rietine che
tendenzialmente il terzo titolare del rapporto giuridicamente dipendente, se rimane
fuori dal processo, non è soggetto all’efficacia della sentenza resa inter partes, ma
nel momento in cui entra sicuramente è soggetto all’efficacia della sentenza, pone
l’esigenza fortissima di attribuirgli adeguati poteri processuali.
303
Una piccola precisazione prima di definire i poteri processuali: qualunque
soluzione si voglia prospettare, appare chiaro che questa soluzione dovrà valere
non solo nell’ipotesi in cui il terzo esperisce intervento adesivo dipendente, ma
dovrà valere anche nelle ipotesi in cui lo stesso terzo viene chiamato in causa per
comunanza di causa ai sensi dell’art. 106 prima parte (che è una chiamata in
causa a cui non corrisponde la deduzione in giudizio del rapporto dipendente) o
nel caso in cui nell’ambito dello stesso processo sono cumulate vuoi la causa
pregiudiziale, vuoi la causa dipendente, il che può avvenire o passando attraverso
l’art 103 dove è l’attore che propone contestualmente due domande avente ad
oggetto l’una un rapporto pregiudiziale, l’altra il rapporto dipendente, oppure a
seguito di chiamata in garanzia che è un figura speciale di connessione per
pregiudizialità dipendenza fra parti diverse.
Abbiamo richiamato una serie di istituti processuali diversi che però si riferiscono
alle medesime fattispecie, sono sempre gli stessi rapporti che entrano nel
processo in maniera differenziata, ma in tutte queste ipotesi la questione dei poteri
processuali del terzo titolare del rapporto giuridicamente dipendente rispetto al
rapporto pregiudiziale deve essere risolta in maniere unitaria. Non rileva mai la
modalità di formazione del processo litisconsortile nel momento in cui si va a
disegnare la disciplina processuale, l’unico elemento che conta è la struttura dei
rapporti che vengono dedotti in giudizio. Questo porta a ritenere che quindi
qualsiasi soluzione si voglia proporre questa soluzione deve valere con riferimento
a tutte le ipotesi che ho prospettato e che ho richiamato.
Nel ricostruire la disciplina dei poteri processuali che possono essere spiegati dal
terzo titolare di un rapporto dipendente che ha esperito intervento adesivo
dipendente, ricordiamoci che a prescindere dal modo in cui questo terzo è entrato
nel processo, il giudice è chiamato ad accertare l’esistenza e il modo d’essere del
rapporto pregiudiziale in maniera unitaria, cioè il suo accertamento dovrà valere
non solo nei confronti delle parti, ma dovrà valere anche nei confronti del terzo
titolare del rapporto giuridicamente dipendente che ha acquistato la qualità di
parte.
Abbiamo già rilevato che questa questione dev’essere risolta nell’ottica di favorire
la massima espansione al diritto di difesa del terzo.
304
È altresì pacifico che il terzo possa proporre eccezioni in senso lato, quindi possa
dedurre in giudizio i fatti giuridicamente rilevanti, siano essi fatti costitutivi oppure
fatti estintivi, modificativi o impeditivi che operano di diritto, e che se spesi in
forma di eccezione, danno luogo ad eccezioni in senso lato, l’unica esclusione
copre i c.d. fatti costitutivi individuatori, perché sappiamo che l’allegazione di un
fatto costitutivo individuatole, rispetto a quello posto ad oggetto dell’originaria
domanda, comporta la proposizione di una domanda nuovo, il che non può essere
fatto dall’interventore adesivo dipendente, perché non è lui il legittimato ad agire.
In base a questa disposizione possiamo dunque ritenere che il terzo titolare del
rapporto giuridicamente dipendente possa oppure la prescrizione (che è una tipica
eccezione in senso stretto) ma possa opporre anche la decadenza, perché è
pacifico che questa disposizione si applica anche alla decadenza.
Sempre in materia di prove c’è da far un’osservazione in ordine alle prove legali, in
particolare riguardo la confessione e il giuramento. Si tratta cioè di stabilire che
succede se una delle parti del rapporto pregiudiziale rilasci una confessione,
oppure presti giuramento.
Considerando tutto quanto ci siamo detti fino ad ora in ordine alla fortissima
esigenza di garantire il diritto di difesa del terzo, e considerato anche che questo
terzo entrato nell’altrui processo è destinato a rimanere soggetto agli effetti della
sentenza che va ad essere emanata, secondo la tesi preferibile occorre, anche in
quest’ipotesi, far applicazione della regola enunciata negli artt. 2733 comma terzo
e 2738 comma terzo c.c. in tema di litisconsorzio necessario, per cui la
confessione o il giuramento prestati da una delle parti del rapporto pregiudiziale,
evidentemente con riferimento ad un fatto rilevante ai fini dell’esistenza del
rapporto pregiudiziale, debba essere degradata da prova legale, a prova soggetta
al libero apprezzamento del giudice, perché altrimenti il rilascio di una confessione
o deferimento di un giuramento potrebbe essere un modo usato dalle parti per
nuocere al terzo (ricordatevi che questi sono tipicamente atti dispositivi).
305
del rapporto pregiudiziale, allora è pacifico che il terzo interventore adesivo
dipendente sia parte necessaria del giudizio d’impugnazione.
Abbiamo detto il terzo è soggetto all’efficacia della sentenza che viene resa se
avesse preso parte al primo grado ma non prendesse parte al grado
d’impugnazione, e si tratterebbe di stabilire se il terzo rimane soggetto all’efficacia
della sentenza emanata a conclusione del primo grado, in cui è stato presente,
oppure è soggetto alla sentenza emanata a conclusione del processo
d’impugnazione, a cui non ha preso parte. Per cui sicuramente è parte necessaria.
306
Lezione 18 - 13/05/20
PRIMA PARTE
La norma di riferimento è l'art 268 il quale al c.1 stabilisce che “L’intervento può
aver luogo sino a che non vengano precisate le conclusioni ” e al c.2 “Il terzo non
può compiere atti che al momento dell’intervento non sono più consentiti ad
alcuna altra parte, salvo che comparisca volontariamente per l’integrazione
necessaria del contraddittorio ”.
Questa norma detta una disciplina unitaria, che non tiene conto delle diverse
sottospecie di intervento previste nell'art 15. Se il primo comma sembra esprimere
una norma diretta a favorire l'intervento del terzo, laddove afferma chiaramente
che “fino alla precisazione delle conclusioni può aver luogo l'intervento”, il c.2
prevede invece una regola che si muove in un senso opposto, nel senso che
sembra disincentivare l'intervento laddove prevede che: “salvo l'intervento del
litisconsorte pretermesso (art 102), il terzo non può compiere atti che al momento
dell'intervento non sono più consentiti ad altra parte”. Deve quindi accettare il
processo nello stato in cui si trova. La conseguenza è evidente: laddove
l'intervento del terzo avviene all'indomani della scadenza delle preclusioni relative
all'allegazione dei fatti e all'esercizio dei poteri istruttori, questo terzo si troverà
nella condizione di partecipare al processo come convitato di pietra, perché ha
evidentemente le mani legate. Il legislatore del 90' ha fatto la scelta di organizzare
il processo a cognizione piena secondo un sistema progressivo e tendenzialmente
rigido di preclusioni, per cui, all'indomani della scadenza del termine di cui all'art
184, il terzo che entra non può esercitare poteri che incidono sulla formazione del
convincimento del giudice.
Questa previsione però crea gravi problemi, perché ogni volta che il terzo
interviene dopo la prima udienza: da una parte è vincolato all'accertamento che
sarà contenuto nella sentenza emessa a conclusione dello stesso processo;
dall'altra si trova a non poter esercitare più poteri processuali idonei ad incidere
sulla formazione del convincimento del giudice.
Lo scopo perseguito dal legislatore appare chiaro → non si vuole che l'entrata in
causa del terzo stravolga le regole di svolgimento del processo, poiché, laddove si
consenta al terzo che subentra nel processo di esercitare tutti i poteri processuali,
il principio del contraddittorio imporrebbe anche alle altre parti originarie la
possibilità di esercitare i ccdd poteri consequenziali ai poteri del terzo.
- rimedio ex post → può esperire l'opposizione di terzo ordinaria art 404 cpc
Se questo è vero, una lettura rigida dell'art 268, e quindi l'applicazione della
regola enunciata nell'art 268, significherebbe impedire l'intervento del terzo,
ma, considerato che l'intervento volontario in primo grado è un rimedio
preventivo e che se il terzo non o esercita potrà comunque aggredire la
sentenza di primo grado anche passata in giudicato (perché l'opposizione
ordinaria di terzo può essere esperita anche contro la sentenza passata in
giudicato) porta a ritenere che probabilmente questo intervento sarebbe
opportuno ritenerlo ammissibile lungo tutto il processo di primo grado con
attribuzione al terzo di pieni poteri.
308
INTERVENTO ADESIVO LITISCONSORTILE
E' esperito da terzi che sono titolari di rapporti giuridici connessi per identità di
petitum e di causa petendi. Si tratta dei rapporti plurisoggettivi.
In questa ipotesi, l'intervento del terzo in talune hp, pensiamo alle obbligazioni
solidali, è volto ad evitare la formazione di giudicati praticamente contraddittori.
Giudicati praticamente contraddittori che l'ordinamento, attraverso l'art 1306,
mostra di voler accettare, ma laddove vi sia la possibilità di evitarli, sarebbe
meglio farlo. Anche in questa hp, se si vuole davvero evitare il formarsi di giudicati
praticamente contraddittori, sarebbe opportuno, in considerazione del potere di
azione che hanno questi terzi, ritenere che possono esperire l'intervento lungo
tutto il processo di primo grado (fino alla precisazione delle conclusioni)
mantenendo fermi tutti i propri poteri processuali.
L'unica ipotesi in cui l'applicazione dell'art 268 c.2 non pone problemi è il caso
dell'intervento del terzo che si afferma titolare di un diritto connesso per la sola
causa petendi o di fatto storico, quindi l'INTERVENTO ADESIVO AUTONOMO. In
questa hp sappiamo di essere davanti a terzi che, se rimangono estranei al
processo, non sono soggetti ad alcuna efficacia della sentenza emessa inter
partes e che l'apertura di un secondo e autonomo processo avente ad oggetto il
diritto autonomo di questo terzo, non pone nessun rischio con riferimento alla
formazione di decisioni che non siano coordinate. Questo perché si tratta di
rapporti completamente autonomi, la causa petendi è accertata senza autorità di
cosa giudicata, quindi non si pone alcuna esigenza di assicurare il coordinamento
delle decisioni. È una forma di intervento che ha come unico scopo quello di
realizzare l'economia processuale, per cui l'applicazione della disciplina rigida
dell'art 268 non crea problemi poiché in questo caso, limitare l'intervento del terzo
agevola la più rapida conclusione del processo aperto tra le parti.
l'art 106, l'abbiamo già esaminato a lungo parlando della chiamata in garanzia,
prevede che “Ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene
comune la causa o dal quale pretende essere garantita”.
La lettera dell'art 106 è molto diversa dall'art 105 in cui il legislatore fa riferimento
espressamente ad una serie ampia di forme di connessione che possono
intercorrere fra rapporti giuridici che fanno capo a parti parzialmente diverse. L'art
106 usa un'espressione molto più sintetica: la comunanza di causa.
È pacifica l'opinione per cui questa espressione possa essere intesa come un
richiamo alle forme di connessione già previste all'art 105. Alla luce di questa
considerazione, possiamo ricostruire l'ambito applicativo dell'art 106 sulla
falsariga di quanto abbiamo già osservato con riferimento all'art 105 seppure con
309
alcuni correttivi.
Una nota: la titolarità del rapporto non è qui una questione di rito. Ciò che contesta
il debitore non è la legittimazione ad agire dell'attore, piuttosto, è l'identificazione
del titolare del rapporto, che è uno degli elementi che va ad individuare il rapporto
dedotto in giudizio. Quando si chiede al giudice di accertare chi sia il vero titolare,
non si fa altro che proporre due domande giudiziali che hanno ad oggetto due
rapporti giuridici distinti, ma connessi per identità di petitum (sotto il profilo di
alternatività). È una forma di condizionamento di domande,il giudice è chiamato ad
accertare se esiste l'uno o l'altro rapporto.
È tuttavia possibile che, se a termine del primo grado di giudizio, il giudice accerta
la titolarità del rapporto e l'impugnazione è proposta su questioni ulteriori (es
rimane aperta la questione sulla quantificazione del diritto al risarcimento del
danno), la parte risultata estranea al rapporto possa non dover essere presente
nell'ambito del grado di impugnazione.
Quindi la regola generale è che: finché resta in gioco la questione sulla titolarità
del rapporto, il litisconsorzio che è facoltativo quanto all'instaurazione del
processo, è necessario quanto alla fase di trattazione e di decisione e anche in
fase di impugnazione. Laddove eccezionalmente il processo prosegue solo su
profili diversi rispetto all'appartenenza, è possibile che si abbia una
semplificazione, cioè che la parte risultata estranea non debba partecipare al
processo di impugnazione.
In tutte queste hp, stante la sostanziale autonomia che connota i rapporti correnti
fra la parte comune e i condebitori solidali o concreditori solidali, si ha un
litisconsorzio facoltativo quanto all'introduzione, ma anche quanto alla trattazione
e decisione, e quindi anche di fronte al giudice dell'impugnazione le cause
rimangono scindibili.
Per esempio: proposta azione di adempimento da parte del creditore nei confronti
di uno dei debitori parziari (supponiamo un erede), a fronte delle contestazioni
mosse da quest'ultimo circa l'esistenza del credito, l'attore può decidere di
chiamare in causa gli altri debitori parziari.
È una figura diversa dalle precedenti. Abbiamo già fatto menzione di questa
possibilità quando abbiamo parlato della chiamata in garanzia. Questo tipo di
chiamata si distingue rispetto alle altre ipotesi fin qui esaminate, perché in questo
caso la domanda giudiziale non comporta la deduzione in giudizio del rapporto
dipendente. La chiamata in giudizio di un terzo titolare di un rapporto
giuridicamente dipendente comporta un ampliamento in senso soggettivo e non
oggettivo del processo. Ha come scopo quello di rendere il terzo soggetto
dell'efficacia della sentenza che sta per essere emanata inter partes. Si parla in
questo caso di LITIS DENUNTIATIO (istituto romanistico).
Anche qui gli esempi possono essere molteplici. In questa chiamata rientrano tutti
i settori di connessione per pregiudizialità-dipendenza che abbiamo richiamato:
312
· le hp in cui la chiamata è rivolta ad un terzo che, se rimasto estraneo al
processo, sarebbe soggetto all'efficacia riflessa debole della sentenza. È
l'hp della chiamata in causa del venditore ex art 1485 cc; oppure la
chiamata in causa del terzo datore di ipoteca o del terzo acquirente
dell'immobile ipotecato artt 2059 e 2870 cc. In questi casi, la chiamata in
causa per comunanza di causa, senza proposizione di una domanda
giudiziale nei confronti del terzo, ha come funzione quella di rendere loro
opponibile il giudicato che verrà emesso inter partes sul rapporto
pregiudiziale, privando questi terzi della possibilità di dimostrare, nel
secondo e autonomo processo avente ad oggetto il rapporto dipendente,
l'ingiustizia della sentenza resa sul rapporto pregiudiziale.
· È possibile poi che la chiamata sia diretta a terzi titolari di diritti dipendenti
che, se rimasti estranei al processo, non avrebbero subito alcuna efficacia
da parte della sentenza resa sul rapporto pregiudiziale. Pensiamo qui alla
chiamata in causa da parte dell'assicurato/danneggiante della società
assicuratrice ex art 1917 cc; oppure la chiamata in causa del fideiussore che
ha agito nei confronti del debitore principale. Anche in questi casi, la
chiamata in causa del terzo, sena proposizione della domanda giudiziale
avente ad oggetto il rapporto dipendente, assolve alla funzione di rendere il
terzo soggetto all'efficacia del giudicato sfavorevole, giudicato che, in caso
di mancata chiamata, sarebbe loro del tutto estraneo.
· C'è da ricordare poi che la chiamata in causa può riguardare anche terzi che
sarebbero in ogni caso soggetti all'efficacia della sentenza resa inter partes:
pensate alla chiamata in causa del subconduttore nei casi di cui all'art 1595
cc. In questo caso la chiamata in causa, senza contestuale proposizione
della domanda giudiziale avente ad oggetto il rapporto dipendente, serve a
privare questi terzi dell'unico strumento di difesa che avrebbero a loro
disposizione, cioè l'opposizione di terzo revocatoria art 404 c.2.
Come vi ho già detto, se il tema dei limiti soggettivi del giudicato civile nei
confronti dei terzi titolari di rapporti giuridicamente dipendenti è un tema
estremamente controverso e che non ha mai trovato una soluzione, è pacifico che
laddove questo terzo entri nel processo avente ad oggetto il rapporto
pregiudiziale, sarà soggetto al giudicato che si formerà inter partes. Inoltre, questo
effetto vale a prescindere dal modo in cui il terzo entra → È soggetto all'efficacia
della sentenza resa sul rapporto pregiudiziale sia che esperisca intervento
volontario (intervento adesivo dipendente art 105 c.2), sia nel caso in cui venga
chiamato in causa da una delle parti in base all'art 106, l'effetto è sempre lo
stesso.
Allo stesso modo, gli stessi saranno i poteri processuali che il terzo potrà
esercitare sia che intervenga volontariamente, sia che sia chiamato in causa per
comunanza di causa. Laddove il terzo venga chiamato per comunanza di causa,
dovrà vedersi attribuiti gli stessi poteri processuali che avrebbe acquisito ove
313
fosse intervenuto volontariamente.
Come abbiamo visto nel primo semestre, la chiamata in causa del terzo può
avvenire:
2. su istanza dell'attore.
Per quanto riguarda il convenuto, in base all'art 167 c.3, se questi intende
chiamare un terzo in causa lo deve farne dichiarazione nella stessa comparsa e
provvedere ai sensi dell'art 269.
Per quanto riguarda l'attore, rileva il disposto dell'art 183 (che si occupa della
prima udienza). L'attore si vede riconosciuto il potere di proporre fin dall'origine
due o più domande nei confronti di soggetti diversi, ma questo sarebbe un
litisconsorzio iniziale. Invece il suo potere di chiamata in causa di un terzo potrà
essere esercitato secondo quanto previsto nell'art 183 c. 5, in prima udienza. La
seconda parte del c.5 prevede espressamente che: “l'attore può altresì chiedere di
essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli articoli 106 e 269, terzo
comma, se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Le parti possono
precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate”.
Mentre il convenuto deve chiedere l'autorizzazione a chiamare in causa il terzo
nella comparsa di risposta depositata 20 gg prima della data dell'udienza, l'attore
ha come ultimo momento la prima udienza.
- Il quarto comma precisa che “la parte che chiama in causa il terzo deve
notificare la citazione notificata entro il termine previsto dall'art 165 e il terzo
deve costituirsi a norma dell'art 166”. C'è quindi un richiamo alle stesse
norme previste per l'atto di citazione che avvia il processo. La parte che
chiama (che sia l'attore o il convenuto), deve provvedere al deposito della
citazione notificata entro il termine di cui all'art 165, quindi entro 10 gg
dall'ultima notifica. Il terzo ha invece l'onere di costituirsi mediante il
deposito della comparsa, entro il termine del 166, quindi 20gg prima della
nuova udienza.
315
Precisazione → il terzo, che è un vero e proprio convenuto, potrà esercitare
tutti i poteri di difesa del convenuto. Allora il principio del contraddittorio ci
impone di ritenere che ad entrambe le parti originarie del processo debba
essere concesso un pieno diritto di replica, quindi potere di proporre le
domande e le eccezioni che sono conseguenza delle eccezioni che sono
svolte dal terzo.
SECONDA PARTE
Però se è vero che i due istituti hanno un ambito applicativo in comune e che in
tale settore l’art.102 impone al giudice delle delicatissime valutazioni, proprio
come l’art.107 lo investe della valutazione di opportunità, quindi ancora una volta
c'è una valutazione da parte del giudice, è molto importante tracciare una linea di
confine fra questi due istituti quindi tra i casi in cui la chiamata del terzo è
necessaria e quelli in cui è opportuna perché la disciplina processuale di questi
due istituti ancora oggi è molto diversa anche se non è diversa quanto lo era
qualche anno fa. Infatti con riferimento al primo grado di giudizio la distanza fra
l’art.102 e l’art.107 non è veramente incolmabile perché se vi ricordate abbiamo
visto che la mancata ottemperanza all'ordine di chiamata del litisconsorte
pretermesso ai sensi dell’art.102 determina l'immediata estinzione del processo e
che in base all’art.107 e all’art.270 il mancato ottemperamento all'ordine di
chiamata in causa del terzo per comunanza di causa determina la cancellazione
della causa dal ruolo e la successiva estinzione che peraltro adesso è rilevabile
d'ufficio ove nessuna delle parti lo riassuma entro tre mesi dal provvedimento di
cancellazione. Le differenze più marcate riguardano infatti la fase di impugnazione
perché mentre il vizio derivante dalla violazione dell’art.102 è rilevabile anche
d'ufficio in ogni stato e grado del processo, probabilmente anche in deroga al
principio di conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione e
probabilmente è addirittura un vizio idoneo a sopravvivere al passaggio in
giudicato della sentenza che in assenza di un litisconsorte necessario è inutiliter
data, la valutazione di opportunità invece non è mai sindacabile e questo a
prescindere dall'esito cui è pervenuta quindi vuoi nel caso in cui il giudice ha
svolto una valutazione positiva e ha ordinato la chiamata del terzo, vuoi nel caso in
cui invece ha sortito un esito negativo per cui ha ritenuto non esistenti questi
presupposti, dopodiché se si verifica un vizio (cioè se il giudice ordina la chiamata
in causa del terzo per comunanza di causa, le parti non ottemperano, il giudice
non se ne accorge e va avanti, si arriva alla sentenza) si tratta di un vizio che è
317
soggetto al principio di conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione
quindi deve essere espressamente denunciato al giudice dell'impugnazione
perché questi lo possa trattare e laddove il giudice dell'impugnazione lo ritenga
esistente deve applicare la regola generale dell'ultimo comma dell’art.354 quindi
deve disporre la rinnovazione degli atti di fronte a sé, viceversa nell’ipotesi dell’art.
102 abbiamo detto che è uno dei casi tassativamente previsti dalla legge in cui il
vizio una volta rilevato dal giudice dell’impugnazione, in questo caso anche
d’ufficio, determina la rimessione della causa di fronte al giudice di primo grado.
Il secondo settore è quello della connessione per identità vuoi di causa petendi,
vuoi di petitum, i rapporti plurisoggettivi. Consideriamo il caso in cui il proprietario
del preteso fondo dominante agisca nei confronti di uno solo dei comproprietari
del fondo servente per ottenere l'accertamento della propria servitù di passaggio,
come vi ho già anticipato qui si entra in un settore in cui si deve fare i conti con
l'ambito applicativo del litisconsorzio necessario quindi se si restringe l'ambito
applicativo dell’art.102 si amplia il campo in cui può essere il giudice a ordinare la
chiamata del terzo sulla base di una valutazione di opportunità, se invece si amplia
l'ambito applicativo dell’art.102 si restringe il settore in cui può operare invece
l'intervento su ordine del giudice. Ora, in questa ipotesi, nell'esempio che vi ho
proposto, la chiamata del terzo comporta la proposizione di una domanda
giudiziale quindi comporta anche in questo caso la deduzione in giudizio di un
rapporto giuridico ulteriore rispetto a quello che già costituisce l'oggetto del
processo, per questo motivo è importante che il giudice utilizzi il proprio potere
solo laddove rilevi il cattivo funzionamento del contraddittorio fra le parti. È vero
che in molti dei casi che appartengono a questa categoria il terzo se rimane
estraneo al processo non subirà gli effetti, quanto meno gli effetti sfavorevoli, della
sentenza inter partes perché troverà applicazione l’art.1306 ma ciò non toglie che
una sentenza sfavorevole possa creare incertezza a livello di relazioni giuridiche e
che il giudice possa rendersi conto che il contitolare del rapporto che ha agito in
giudizio o nei confronti del quale è stata proposta la domanda non appare capace
di gestire da solo in maniera adeguata il processo e siccome si tratta di un settore
con riferimento al quale si manifestano le maggiori incertezze in ordine alla
delimitazione dell'ambito applicativo del litisconsorzio necessario appare chiaro
che il potere del giudice di ordinare l’intervento del terzo ha una potenzialità
enorme nella misura in cui può servire ad evitare l'emanazione di una sentenza
ingiusta e, in ultimo, può servire a rafforzare l'efficacia della sentenza definitiva.
La giurisprudenza ammette anche la chiamata in causa per ordine del giudice del
terzo titolare del rapporto pregiudiziale a quello oggetto originario del processo, in
questa categoria rientrano ad esempio i casi in cui proposta azione per omesso
versamento dei contributi previdenziali da parte dell'istituto previdenziale nei
confronti del datore di lavoro viene ordinata la chiamata in causa del lavoratore
che è titolare del rapporto pregiudiziale di lavoro, oppure proposta azione di
condanna del creditore nei confronti del fideiussore viene ordinata la chiamata in
causa del debitore titolare del rapporto pregiudiziale di credito-debito. In questa
ipotesi la chiamata del terzo determina un ampliamento non solo soggettivo ma
anche oggettivo del processo perché tramite la domanda giudiziale rivolta al terzo
si chiede al giudice di accertare con autorità di cosa giudicata anche il rapporto
pregiudiziale, tuttavia si rileva che qui la compressione del principio della domanda
si pone in maniera più attenuata rispetto a quanto abbiamo verificato con
riferimento alla connessione per alternatività perché il giudice comunque avrebbe
dovuto accertare l’esistenza, il modo di essere, del rapporto pregiudiziale sia pure
in assenza del titolare di esso necessariamente incidenter tantum quindi senza
autorità di cosa giudicata. Anche in questo caso le ragioni che giustificano la
chiamata concernono essenzialmente il cattivo funzionamento del contraddittorio,
il giudice deve cioè maturare il convincimento che le parti attraverso l'esercizio dei
propri poteri in punto di allegazione di fatti e proposizione di istanze istruttorie non
lo mettono in condizioni di accertare in maniera adeguata l’esistenza, il modo di
320
essere, del rapporto pregiudiziale. Per quanto riguarda la disciplina processuale
dell'intervento su istanza del giudice la norma di riferimento, come abbiamo già
evidenziato, è l’art.270 c.p.c. Questa disposizione prevede che la chiamata in
causa di un terzo nel processo a norma dell’art.107 può essere ordinata in ogni
momento dal giudice istruttore per un'udienza che all'uopo egli fissa, questo
quindi vuol dire che il giudice può ordinare la chiamata del terzo anche nel corso
della fase istruttoria quindi dopo che sono già maturate a carico delle parti le
preclusioni di cui agli artt.183 e 184. In base all’art.271 al terzo si applicano con
riferimento all'udienza per la quale è citato le disposizioni degli artt.166 e 167, se
intende richiamare a sua volta in causa un terzo deve farne dichiarazione a pena di
decadenza nella comparsa di risposta ed essere poi autorizzato dal giudice ai
sensi dell’art.269 co.3. Questa disposizione sicuramente è applicabile al terzo che
viene chiamato in causa su ordine del giudice e se ne desume che il terzo
chiamato è ammesso a compiere attività che ormai sono precluse per le parti
originarie perché a loro carico sono già maturate le preclusioni degli artt.167, 183 e
184, quindi in base all’art.271 il terzo può svolgere tutte le attività di difesa in
quanto convenuto, in quanto destinatario di una domanda giudiziale, quindi potrà
proporre mere difese, potrà proporre eccezioni anche riservate alla parte, potrà
proporre domanda riconvenzionale e vedete che può anche decidere di chiamare
in causa a sua volta un soggetto terzo. Naturalmente, secondo quanto più volte
abbiamo avuto modo di ricordare, ammettere una parte all'esercizio di una
gamma, in questo caso piuttosto ampia, di poteri processuali comporta in
applicazione del principio del contraddittorio la necessità di consentire alle altre
parti l'esercizio dei c.d. poteri consequenziali quindi le altre parti dovranno essere
ammesse a svolgere tutte le attività che si rendono necessarie a seguito delle
difese svolte dal terzo che è stato chiamato e che è entrato nel processo. Quindi in
fin dei conti possiamo dire che questo ordine del giudice stravolge la struttura del
processo ma tutto ciò è giustificato se si considera la funzione in un certo senso
pubblicistica dell’intervento ius iudicis perché abbiamo detto che a fondamento
della valutazione di opportunità del giudice c'è sempre una valutazione della
necessità di dare attuazione in maniera adeguata al principio del contraddittorio
come condizione spesso per l'accertamento di una verità che sia il più vicino
possibile alla verità sostanziale.
1- che una delle parti venga meno per morte per un'altra causa che andremo
adesso a vedere
Intanto sul piano processuale appare abbastanza evidente che l’art.110 deve
essere coordinato con le disposizioni in tema di interruzione del processo per
morte della parte ovvero con gli artt.299, 300, 302, 303 e 305 c.p.c. per cui, e qui
mi richiamo a tutto quanto ci siamo detti nel primo semestre parlando appunto
dell'interruzione del processo, se la morte della persona fisica o l'estinzione della
persona giuridica si verifica dopo che questa parte si è costituita in giudizio tramite
l'avvocato il processo si interrompe solo a seguito della dichiarazione dell'evento
da parte dell'avvocato mentre invece se la parte ancora non si è costituita in
giudizio (art.299) oppure, e sono ipotesi più ridotte, sta in giudizio personalmente
l’interruzione è automatica (art.300 co.3). Una volta che il processo si è interrotto a
seguito di dichiarazione dell'avvocato oppure in maniera automatica, ciò non
rileva, inizia a decorrere un termine di tre mesi entro il quale il processo deve
essere proseguito dal successore della parte a cui danno si è verificato l'evento o
riassunto dalla controparte a pena di estinzione, questo lo impone l’art.305. Inoltre,
vi ricordate, la Cassazione con la sentenza 4 luglio 2014 n.15295 emanata a
sezioni unite ha altresì affermato che nel caso in cui la morte non venga
formalmente dichiarata dall'avvocato il processo prosegue come se l'evento non si
fosse mai verificato e di conseguenza vuoi la notifica della sentenza, vuoi la
notifica dell’impugnazione, devono essere svolti nei confronti dell'avvocato della
parte che è venuta meno. Il problema che pone la disposizione che stiamo
esaminando è l'individuazione dell'ambito applicativo e qui si rende necessario
un chiarimento sui presupposti cui l'applicazione della disposizione è correlata.
Infatti se la parte è una persona fisica non ci sono problemi perché gli eventi che
possono rilevare sono facilmente identificabili, prima fra tutte la morte, cui viene
322
equiparata la dichiarazione di morte presunta: la morte della persona determina
sempre l'apertura di una successione universale per cui è chiaro che in queste
ipotesi il processo comunque deve continuare da o nei confronti del successore
universale. L'applicazione di questa regola sembra prescindere dalla circostanza
che il successore subentri nella titolarità del diritto controverso cioè è possibile
che il diritto controverso sia oggetto di una disposizione a titolo particolare, che
non rientri nella successione a titolo universale, infatti il secondo comma
dell'articolo successivo (art.111) prevede che nel caso in cui il diritto sia oggetto di
una successione mortis causa a titolo particolare, e l'esempio che ho già fatto è
quello del legato, in ogni caso il processo deve proseguire nei confronti del
successore universale. Un'ultima precisazione: si ritiene che il processo debba
proseguire nei riguardi del successore universale anche se ha ad oggetto un diritto
intrasmissibile in quanto prettamente personale, pensiamo ad esempio al giudizio
di divorzio, oppure destinato a distinguersi a seguito della morte del de cuius,
pensate al diritto di usufrutto, infatti in queste ipotesi il processo si chiuderà con
un provvedimento dichiarativo della impossibilità di decidere la causa nel merito
ma il giudice dovrà comunque provvedere sulle spese processuali che
interesseranno il successore universale.
Ben maggiori problemi si pongono nei casi in cui la parte sia una persona giuridica
perché sussistono delle grossissime incertezze in ordine alle ipotesi in cui si può
configurare una estinzione, quindi un venir meno, della persona giuridica a cui
segue una successione a titolo universale. Infatti nel campo delle persone
giuridiche ci sono ipotesi in cui pur verificandosi l'estinzione della persona
giuridica non è affatto certo che si apra una successione universale e dall'altra
parte ricorrano altre ipotesi in cui si ha una successione a titolo universale fra enti
senza che a ciò però si correli anche l'estinzione di uno di essi. La prima
fattispecie che viene in rilievo è certamente il caso della cancellazione della
società commerciale dal registro delle imprese perché a questo riguardo
occorre muovere dalla giurisprudenza che è stata avallata da un intervento della
Cassazione a sezioni unite del 2010, si tratta della sentenza 22 febbraio 2010 n.
4061, che ha attribuito natura costitutiva alla cancellazione della società dal
registro delle imprese ai sensi dell’art.2495 c.c. In base a questo presupposto si
ritiene che la cancellazione lite pendente della società dal registro determini il venir
meno della società e questo principio si ritiene applicabile anche con riferimento
alle società di persone. Se questo è chiaro non è altrettanto chiara la risposta
relativa al se si possa ritenere che a seguito della estinzione della società si possa
configurare una successione a titolo universale oppure no nei confronti dei soci. In
questa ultima direzione c'è chi ha prospettato la possibilità di fare applicazione
della norma successiva, cioè dell’art.111 in tema di successione a titolo
particolare, ritenendo che il processo debba essere proseguito dalla società salvo
il diritto dei soci successori a titolo particolare di esperire intervento. Tuttavia la
giurisprudenza più recente sembra militare nella opposta direzione, preferisce cioè
riportare il caso di specie nell’art.110 e su questo posso richiamare le Sezioni
Unite 6070/2013. Si deve ricordare su questo punto però che prima dell'intervento
323
delle Sezioni Unite del 2010 era applicata una soluzione che non aveva fatto
sorgere alcun problema e la riforma del diritto societario ha fatto sorgere su questo
punto dei problemi enormi che la giurisprudenza ha cercato di risolvere attraverso
il principio della ultrattività del mandato ma diciamo che è una soluzione che lascia
irrisolte numerosissime questioni pratiche che in un certo senso il principio di
ultrattività del mandato riduce ma che restano comunque in piedi, infatti in base al
principio di ultrattività del mandato se il venir meno della parte non è dichiarato dal
difensore questa non produce effetti nel processo, neppure in sede di
impugnazione, perché come abbiamo detto la sentenza può essere notificata al
difensore e l'impugnazione può essere proposta da o nei confronti del difensore.
325
Lezione 19 - 14/05/20
Andiamo ad occuparci della successione a titolo particolare nel diritto controverso,
cioè dei casi in cui nel corso del processo una delle parti aliena il rapporto
giuridico oggetto del processo ad un soggetto terzo. Allora il primo comma
dell’articolo 111 stabilisce che “se nel corso del processo si trasferisce il diritto
controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti
originarie". Nel secondo comma si stabilisce che se “il trasferimento a titolo
particolare avviene a causa di morte il processo è proseguito dal successore
universale o in suo confronto”. Questa seconda ipotesi l’avevamo già richiamata
nella lezione dedicata alla successione nel processo. Questa disposizione
disciplina una situazione che ciascun ordinamento si preoccupa di regolare,
perché è sempre possibile che in pendenza di un processo si verifichi il
trasferimento del rapporto giuridico che ne costituisce l’oggetto. Le parti sono uno
degli elementi identificativi del diritto, pertanto, in assenza di una specifica
disciplina, il giudice, constatata la successione nel rapporto, quindi il trasferimento
del rapporto, dovrebbe chiudere il processo rigettando la domanda originaria. Però
appare evidente che se l’ordinamento accettasse un simile risultato si creerebbe
una situazione potenzialmente pericolosa per la controparte di chi ha dato adito
alla successione. Questo perché la controparte si troverebbe costretta ad aprire o
a subire un nuovo processo nei confronti del nuovo titolare. Anzi teoricamente
molteplici processi contro tutti i successivi aventi causa. Ora un ordinamento che
vuole essere effettivo, che vuole apprestare una tutela effettiva, non può tollerare
una situazione del genere quindi negli anni i diversi ordinamenti hanno sempre
adottato dei meccanismi per evitarla. Nell’ordinamento romano per esempio, alla
proposizione della domanda giudiziale era collegato un effetto di indisponibilità del
diritto controverso, per cui eventuali atti dispositivi posti in essere lite pendente
dovevano ritenersi inefficaci nei confronti della controparte. Una regola di tale
specie va a detrimento della circolazione dei beni, perché cristallizza le situazioni
giuridiche per tutta la durata del processo. Per questo motivo l’ordinamento
italiano, ma la soluzione non è originale perché la ritroviamo nella maggior parte
degli ordinamenti contemporanei, ha adottato la diversa regola di prosecuzione del
processo nei confronti della parte originaria, unitamente alla regola di estensione
degli effetti della sentenza nei confronti del terzo avente causa. Infatti se noi
torniamo all’articolo 111 troviamo scritto al terzo comma che “in ogni caso il
successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e,
se le altre parti vi consentono, l’alienante o il successore universale può esserne
estromesso.” Nel successivo quarto comma si legge che la “sentenza pronunciata
contro questi ultimi spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo
particolare ed è impugnabile anche da lui, salve le norme sull’acquisto in buona
fede dei mobili e sulla trascrizione.” Su quest’ultimo inciso torneremo
successivamente. In questo modo si tutela la parte diversa da quella che ha dato
adito alla successione, dal rischio di dover far fronte con riferimento alla medesima
situazione giuridica ad una serie potenzialmente infinita di processi. Allora si
capisce che questa disposizione si presta ad essere annoverata fra quelle
326
disposizioni che danno attuazione al principio chiovendiano secondo cui la durata
del processo non può causare un pregiudizio alle parti. È la regola che noi
troviamo espressa da questo istituto, è la cristallizzazione della cosiddetta
perpetuatio legittimationis, ed è uno degli effetti della domanda giudiziale. In
particolare si tratta di uno degli effetti che presuppongono l’azione come
aspirazione ad un provvedimento di merito. Per chiarire l’ambito applicativo di
questa disposizione occorre soffermarsi su due nozioni.
Con riferimento alla prima nozione vi è concordia che vi rientrino tutte le ipotesi di
trasferimento a titolo derivativo e a titolo particolare, restando invece escluse le
ipotesi di trasferimento a titolo gratuito, così come le ipotesi di trasferimento a
titolo particolare a cui si correli l’estinzione della persona giuridica, perché queste
rientrano, come abbiamo già visto, nella disciplina dell’articolo 110, anche se a
stretto rigore non ne integrano i presupposti applicativi.
Per quanto riguarda la nozione di diritto controverso si ritiene che il riferimento sia
al rapporto giuridico dedotto in giudizio.
Tuttavia resta da chiarire che cosa si debba intendere per successione a titolo
particolare nel diritto controverso. Allora ci sono alcune ipotesi che sono
pacificamente ritenute comprese nella previsione di questa disposizione. Per
esempio, è pacifico che vi rientrino le ipotesi in cui, nell’ambito di un processo
aperto mediante l’esercizio dell’azione di rivendica, il convenuto trasferisca ad un
terzo la proprietà e il possesso del bene. Ricordatevi che l’azione di rivendica ha
ad oggetto l’accertamento del diritto di proprietà e la condanna alla consegna o al
rilascio del bene rivendicato. La giurisprudenza e la dottrina fanno rientrare
nell’ambito applicativo della disposizione anche i casi di successione a titolo
universale, di un ente ad altro ente se il primo non viene meno. E di questo
abbiamo già parlato. Al contrario non vi rientrano, sembrano non rientrare le
ipotesi in cui nel corso di un giudizio avente ad oggetto un diritto di proprietà su un
bene determinato, venga costituito a favore di un terzo un diritto reale di
godimento o di garanzia sul medesimo bene. Questo perché l’oggetto del
processo, che è la proprietà, è diverso dal diritto che viene costituito sullo stesso
bene a favore del terzo. Ugualmente non sembrano rientrare nella nozione di
successione nel diritto controverso i casi in cui, proposta un’azione di impugnativa
negoziale, il convenuto trasferisce ad un terzo il bene oggetto del contratto
impugnato. Se si aderisce a questa impostazione, che sembra da preferirsi, allora
si dovrà ritenere che il terzo avente causa sarà da riportare nella categoria dei terzi
titolari di rapporti giuridicamente dipendenti. Su questa particolare ipotesi tornerò
a conclusione dell’argomento. La regola che il legislatore italiano ha prescelto per
salvaguardare la parte che non ha dato luogo alla successione è quella della
perpetuatio legittimationis. Quindi abbiamo detto che il processo prosegue tra le
parti originarie, anche se la parte che ha trasferito il diritto controverso ha perduto
la legittimatio ad causam, perché se trasferisce il diritto non è più l’affermata
titolare attiva o passiva di quel rapporto giuridico. Questo spiega quanto riportato
327
in altra parte della disposizione, laddove si prevede che la sentenza spiega
efficacia anche nei confronti del successore, che a questo punto è il vero titolare
del rapporto giuridico e che può sempre intervenire nel processo. Naturalmente
questa è una previsione quasi scontata. Il terzo è il titolare del rapporto
controverso quindi l’ordinamento deve assicurare il suo diritto di difesa.
L’intervento del successore a titolo particolare nel diritto controverso è un
intervento sui generis, che non si presta ad essere ricondotto in una delle ipotesi
espressamente previste di intervento volontario di cui all’ articolo 105. Perché tutti
i casi rientranti nell’articolo 105 riguardano soggetti terzi rispetto alla causa che è
pendente. Per questo è ragionevole ritenere che l’intervento volontario del
successore a titolo particolare non sia soggetto alla disciplina processuale
dell’intervento volontario, quindi all’articolo 268 cpc. Quindi sia un intervento che
possa avvenire, in deroga a quanto previsto all’articolo 268 cpc, in qualsiasi
momento del giudizio di primo grado. Ma si ritiene che sia un intervento che possa
avvenire anche direttamente in appello e questo nonostante il divieto di intervento,
sancito per l’appello dall’articolo 344 cpc. È altresì pacifico che il terzo possa
essere chiamato in causa su istanza di parte e ancora una volta si tratterebbe
dell’intervento del vero legittimato, quindi del legittimato ordinario, che quindi non
si presta ad essere riportato nella previsione dell’articolo 106. Pertanto deve
ritenersi sottratto alla disciplina di cui all’articolo 269. L’affermazione secondo cui
la sentenza spiega i propri effetti nei confronti del successore poi deve essere
interpretata nel senso che il giudicato spiega effetti diretti nei confronti dell’avente
causa, in quanto effettivo titolare del rapporto giuridico. Abbiamo visto che in base
alla previsione del primo comma il processo, come regola generale, prosegue tra
le parti originarie. Ovviamente a seguito della successione, la parte che ha dato
adito alla successione continua a stare in giudizio, ma per un rapporto che più non
le appartiene. Infatti all’indomani del trasferimento del rapporto giuridico, la parte
che ha dato adito alla successione diviene un legittimato straordinario, perché fa
valere in nome proprio un diritto che appartiene ad altri. In questo si può dire che
l’articolo 111 rappresenta una forma di legittimazione straordinaria che si forma in
corso di causa e che deroga alla regola generale secondo cui laddove l’azione è
retta dal legittimato straordinario, il legittimato ordinario è parte necessaria del
processo (è una delle ipotesi di litisconsorzio necessario). La parte che ha dato
adito alla successione e che sta in giudizio da sola, perché il successore non
entra, rimane in causa in veste di legittimato straordinario e non è necessario
integrare il contraddittorio nei confronti del successore. Questo se vuole può
intervenire o può essere chiamato in causa dalle parti. La norma prevede poi nel
terzo comma ultima parte che “nei casi in cui il successore a titolo particolare
interviene nel processo, se le altre parti vi consentono, l’alienante o il successore a
titolo universale (nell’ipotesi specifica del secondo comma) possono essere
estromessi.” Come abbiamo già osservato parlando dell’articolo 108 in materia di
garanzia, l’estromissione è un istituto per il cui tramite una parte esce dal processo
perdendo la sua qualità di parte. Quindi ove si verifichino le condizioni appena
richiamate, l’alienante perde la qualità di parte e esce dal processo. In questo caso
il successore a titolo particolare resta in causa, ma resta in causa in qualità di
328
legittimato ordinario, perché è il vero titolare del rapporto controverso. L’ultimo
comma della disposizione afferma che” la sentenza emanata produce i propri
effetti anche nei confronti del successore”. Naturalmente si riferisce al caso in cui il
successore rimane fuori dal processo, perché se entra è scontato che sarà
soggetto agli effetti della sentenza. Ma la disposizione fa salve le norme
sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione. Per quanto riguarda la
regola dell’estensione degli effetti della sentenza al successore a titolo particolare
si tratta di una regola che il legislatore ha posto a salvaguardia del diritto di azione
e di difesa della controparte di chi ha dato adito alla successione. La soggezione
del terzo agli effetti della sentenza resa inter alios, non ha come presupposto
l’avvertimento della pendenza della lite. Per cui si può ritenere che il legislatore
qua, per salvaguardare la controparte di chi ha dato adito alla successione, ha
acconsentito a derogare il principio del contraddittorio. Che significato ha l’ultimo
inciso, laddove si fanno salve le norme relative all’acquisto del possesso in buona
fede dei beni mobili e alla trascrizione? Per quanto riguarda l’acquisto del
possesso in buona fede dei beni mobili, già sappiamo che in base all’articolo 1153
cc questi due presupposti sono in grado di procurare all’acquirente un acquisto a
titolo originario, dunque autonomo rispetto al dante causa. In questo senso se il
diritto controverso è la proprietà su un bene mobile e il convenuto trasferisce ad
un terzo, con un titolo astrattamente idoneo, il possesso e il terzo è in buona fede,
questo terzo non sarà soggetto agli effetti della sentenza che sarà emessa tra le
parti. Questo perché avendo acquistato un diritto autonomo non si ha una
successione. Quindi si fuoriesce dall’ambito applicativo della disposizione. Al
contrario non è di immediata evidenza il richiamo delle norme relative alla
trascrizione. Sicuramente possiamo ritenere che il riferimento sia alla trascrizione
delle domande giudiziali (art 2652-2653 cc oltre che 2690-2691cc per i beni mobili
registrati). A questo riguardo la dottrina coordinando l’art 111 con le norme in tema
di trascrizione delle domande giudiziali ha affermato che, affinché si possano
applicare queste disposizioni, sono necessarie tre condizioni.
1. È necessario che nel corso del processo si sia verificata una successione a
titolo particolare a titolo derivativo.
2. È necessario che alla successione abbia dato luogo il convenuto
3.È necessario che la domanda trascritta sia stata accolta perché tutta la disciplina
delle disposizioni in tema di trascrizione delle domande giudiziali ha come
presupposto l’accoglimento della domanda. La trascrizione della domanda
giudiziale è uno degli effetti della domanda giudiziale, è il cosiddetto effetto
prenotativo per cui gli effetti della futura sentenza di accoglimento della domanda
retroagiscono, producono i propri effetti in senso retroattivo a partire dalla data di
trascrizione della domanda stessa.
Rimaniamo sempre sul quarto comma dell’articolo 111 laddove si afferma che “la
sentenza pronunciata contro le parti produce sempre i suoi effetti anche contro il
successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui salve le norme
sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione”. Laddove si rientra
nell’ambito applicativo dell’articolo 111, quindi laddove sussista identità tra il
diritto controverso e il diritto oggetto del trasferimento a titolo particolare, il
329
richiamo alle norme relative alla trascrizione deve essere inteso come riferimento
alle norme contenute nell’ articolo 2653 cc. Quindi, per esempio, la norma che
prevede la trascrizione della domanda di rivendica o di accertamento della
proprietà o di altri diritti reali di godimento. Mentre con riferimento all’articolo
2652cc, che si occupa in gran parte di azioni di impugnativa negoziale e di terzi
aventi causa dal convenuto ci sono numerosi dubbi. Stante soprattutto quanto
detto precedentemente, non è affatto certo che, laddove sia stata proposta
un’azione di impugnativa negoziale e venga trasferito il diritto oggetto del negozio
impugnato, si possa rientrare nell’ambito applicativo dell’articolo 111 cpc. Questo
sulla base del fatto secondo cui il diritto controverso non coincide con il diritto che
è trasferito al terzo. Con riferimento alle ipotesi che certamente rientrano
nell’ambito applicativo della disposizione dobbiamo chiarire il significato della
salvezza delle norme relative alla trascrizione. Il significato di questo rinvio è
spostare il momento temporale in cui il terzo, successore a titolo particolare, deve
aver acquistato il diritto per restare soggetto agli effetti della sentenza. Infatti
mentre generalmente abbiamo fatto riferimento a terzi che hanno acquistato il
proprio diritto lite pendente, cioè all’indomani della notifica dell’atto di citazione,
perché quello è il momento che segna la litispendenza, nelle ipotesi di domande
soggette a trascrizione invece assumerà rilievo, non tanto la data della
litispendenza (la data di notifica dell’atto di citazione) ma il giorno sicuramente
successivo in cui la domanda è stata trascritta. Quindi se il terzo ha acquistato e
ha trascritto il proprio diritto successivamente alla data di trascrizione della
domanda giudiziale sicuramente è soggetto agli effetti della sentenza. Mentre
invece laddove il successore a titolo particolare ha acquistato il diritto in data
anteriore alla trascrizione della domanda giudiziale, anche nel periodo che
intercorre tra la notifica della domanda giudiziale e la trascrizione della stessa
domanda giudiziale, e ha trascritto il proprio acquisto regolarmente non sarà
soggetto all’efficacia della relativa sentenza.
SECONDA PARTE
Il termine breve per impugnare è, in base all'art 325, di 30 giorni per quanto
riguarda l'appello e la revocazione, mentre, in base all'art 325. 2, è di 60 giorni
nel caso di ricorso per cassazione. Questi termini, con riferimento ai mezzi di
impugnazione ordinari, decorrono dalla notificazione della sentenza.
333
In base all'art 325.1 il termine per proporre la revocazione e l'opposizione di terzo
di cui all'art 404.2 è di 30 giorni. In base al successivo art 326, i termini indicati
decorrono, nell'ipotesi di cui ai numeri 1,2, 3 e 6 dell'art 395, dal giorno in cui è
stato scoperto il dolo o la falsità, o la collusione, o è stato recuperato il
documento, o è passata in giudicato la sentenza di cui al numero 6 dell’art 395.
Con riferimento all'opposizione di terzo revocatoria, sempre in base all'art 326, il
termine decorre dal giorno in cui il terzo è venuto a conoscenza del dolo o della
collusione delle parti a suo danno.
Vi è poi una particolare previsione fissata nell'art 327, che si occupa del processo
contumaciale: vi ricordate che l'ordinamento prevede la possibilità per la parte di
non costituirsi, di rimanere contumace, e il processo può proseguire.
Queste sono le disposizioni generali. Ci sono poi delle previsioni ulteriori, che
riguardano l'impugnazione del pubblico ministero, che per adesso lasciamo da
parte.
334
Ancora, rimaniamo nell'ambito delle disposizioni che riguardano le impugnazioni in
generale e riprendiamo quanto vi ho detto in apertura di questa parte della lezione:
ovvero il potere di impugnazione è un potere che generalmente ha come SCOPO
quello di voler suscitare il controllo di un precedente provvedimento da parte di un
giudice diverso. Attraverso i mezzi di impugnazione allora, la parte che è rimasta
soccombente potrà denunciare tutti gli errores in procedendo e tutti gli errores
in iudicando, che siano stati commessi dal giudice che ha emanato la prima
sentenza.
L'art 161 cpc vale con riferimento a TUTTI i possibili vizi che possono riguardare
la sentenza, e i mezzi di impugnazione sono costruiti proprio per consentire alle
parti di denunciare questi vizi; come vi ho detto, il potere di impugnazione può
servire a denunciare tutti i possibili errores in procedendo, vizi che naturalmente
non si siano sanati, o comunque che non sono sanabili, quindi ancora esistenti, di
tipo formale o extra formale, ma anche errores in iudicando, quindi si può
denunciare non soltanto l'INVALIDITÀ della sentenza, ma anche la sua
INGIUSTIZIA. In quest'ultimo contesto ciò che la parte impugnante denuncia al
giudice superiore è un errore compiuto dal giudice nel momento in cui ha statuito
sul merito, quindi si va a denunciare un errore che riguarda il sillogismo
giudiziale, che abbiamo detto sintetizza l’attività logica che il giudice del merito è
chiamato a svolgere.
Questi errores in iudicando possono riguardare sia la questio iuris, quindi si può
contestare la scelta della norma generale astratta che il giudice ha ritenuto dover
applicare con riferimento al caso di specie, sulla cui base ha risolto la controversia,
oppure l'interpretazione che il giudice ne ha fornito, o la sua applicazione; sia la
quaestio facti, cioè la ricostruzione che il giudice ha effettuato dei fatti
giuridicamente rilevanti, e sulla cui base è stata emanata la sentenza di merito —>
335
ad esempio sotto questo profilo si possono denunciare errori compiuti dal giudice
precedente in ordine all'assunzione o valutazione delle prove.
Naturalmente tutti questi meccanismi riguardano vuoi i giudizi che in primo grado
si sono svolti fra due parti, vuoi i giudizi che invece in primo grado si sono svolti fra
più parti, e in questo secondo ordine le norme che rilevano sono in anzitutto gli
artt 331 e 332, che abbiamo richiamato più volte parlando della connessione fra
parti diverse, e che si occupano della litisconsorzio in fase di gravame.
Ma direi di dare avvio allo studio di queste disposizioni partendo dall'ipotesi più
semplice, quindi dai giudizi che in primo grado si sono svolti fra due sole parti.
Pensiamo a un processo che si è svolto fra un attore un convenuto e che abbia
raggiunto il suo esito fisiologico, quindi si sia chiuso con un provvedimento redatto
in forma di sentenza che si pronuncia sul merito, quindi che statuisce sulla
esistenza o non esistenza del diritto fatto valere in giudizio.
336
In queste ipotesi problemi non se ne pongono, perché noi già sappiamo che
l'impugnazione deve essere proposta dalla parte che è legittimata e chi ha
interesse, e nel caso di specie sarà la parte totalmente soccombente, quindi, se la
parte soccombente, che nel primo caso è il convenuto e nel secondo è l’attore,
intenda aprire il giudizio di impugnazione, non farà altro che proporre
impugnazione. E questa impugnazione determinerà l'apertura del processo di
impugnazione.
Abbiamo appena detto che la direttiva della unità oggettiva e soggettiva delle
impugnazioni richiede qualche aggiustamento già nell'ambito dei processi a due
parti, laddove nel processo di primo grado si sia verificata una soccombenza
parziale, una soccombenza diciamo ripartita, nel senso che entrambe le parti
risultano sia soccombenti sia vittoriose.
‣ supponiamo che l'attore abbia agito nei confronti del convenuto chiedendo la
condanna di questi al pagamento di 100, e supponiamo che il giudice abbia
accolto la domanda, ma per un valore pari a 50; appare evidente che rispetto a
una sentenza che ha accolto la domanda per un quantum più ridotto rispetto a
quello inizialmente chiesto dall'attore, sia l'attore che il convenuto risultano
vittoriosi e soccombenti: l'attore è vittorioso nella parte in cui la sentenza ha
accolto la sua domanda di pagamento di 50, ma per la parte restante, per la
differenza fra ciò che ha chiesto e ciò che ha ottenuto, risulta soccombente. Al
contrario il convenuto, è soccombente per la parte della domanda che è stata
accolta, e vittorioso per la parte in cui invece è stata respinta.
Ciò premesso, nell'ipotesi di cui all'art 333 cpc NON è previsto alcun tipo di
dipendenza o di subordinazione dell'impugnazione incidentale, quindi proposta
per seconda, rispetto all'impugnazione principale, proposta per prima.
Quindi ,qualunque sia l'esito dell'impugnazione principale, che venga accolta, che
venga rigettata nel merito, che non possa andare avanti perché inammissibile o
improcedibilità, (questi sono i vizi che si possono verificare in sede di
impugnazione), l'impugnazione incidentale ha una sua VITA AUTONOMA, quindi
obbliga il giudice dell'impugnazione a pronunciarsi sulla stessa.
Ora, l'art 333 deve essere coordinato con alcune disposizioni che si occupano
proprio della impugnazione proposta per seconda con riferimento ai singoli mezzi
di impugnazione, e in modo particolare mi soffermo sul disposto dell’art 343 cpc:
che si occupa dell'impugnazione incidentale nell'ambito del giudizio di appello.
L'articolo in questione prevede che l'appello incidentale si propone a pena di
338
decadenza nella comparsa di risposta, all'atto della costituzione in cancelleria ai
sensi dell'art 166 —> questa è una norma molto importante, è una norma che mi
fornisce, con riferimento all'appello incidentale, due elementi molto importanti: il
primo mi risolve un PROBLEMA DI FORMA, perché mi indica l'atto per il cui
tramite deve essere avanzato l'appello incidentale, che vedete essere chiaramente
la comparsa di risposta.
Vedremo che l'appello si apre con un atto di citazione, l'atto di citazione ad
udienza fissa in appello. La parte destinataria dell'appello deve costituirsi in
giudizio con un atto che riveste la forma della comparsa di risposta. Il processo di
appello vedremo, per tutto quanto non espressamente previsto negli articoli da
339 a 358, è disciplinato dalle disposizioni dettate con riferimento al processo di
fronte al tribunale. Questa comparsa di risposta contenente l'appello incidentale
deve essere depositata a pena di decadenza all'atto della costituzione in
cancelleria: quindi 20 giorni prima della data dell'udienza fissata dall'attore.
Quindi una volta che è stata proposta impugnazione principale, in questo caso
appello principale, le altre parti sono costrette ad utilizzare l'impugnazione
incidentale, cioè devono proporre la propria impugnazione nel rispetto delle
FORME, ma soprattutto dei TERMINI imposti per l'appello incidentale.
L'art 343 è una norma molto importante perché si occupa dei TERMINI entro i
quali deve essere proposto l’appello incidentale —> la norma è chiara: l’APPELLO
INCIDENTALE deve essere proposto a pena di decadenza nella comparsa di
risposta depositata 20 giorni prima della data dell’udienza —> da questa
considerazione si trae una regola molto importante, ovvero che la circostanza che
una delle parti prenda l'iniziativa per prima e proponga impugnazione principale,
ha un effetto molto importante sull'altra parte, o sulle altre parti, (perché questo
vale anche nei processi a più parti), perché impone a queste l’onere di proporre le
ulteriori impugnazioni in forma incidentale, e questo si traduce in una riduzione
del termine che originariamente la parte avrebbe avuto a sua disposizione.
Quindi, l'errore sulla forma può essere sanato ma NON l'errore sul termine!
All’art 333 cpc segue l'art 334 cpc che ci introduce una particolare ipotesi di
impugnazione incidentale, ed è l’impugnazione incidentale tardiva.
341
Lezione 20 - 20/05/20
esaminiamo nella lezione di oggi la cosiddetta:
“le parti contro le quali è stata proposta impugnazione e quelle chiamate integrare il
contraddittorio a norma dell'articolo 331 possono proporre impugnazione
incidentale anche quando per esse è decorso il termine o hanno fatto
acquiescenza alla sentenza.
In tal caso se impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione
incidentale perde ogni efficacia”
Non a caso la norma, l'articolo 334 segue l'articolo 333 che si occupa appunto
dell’impugnazione incidentale.
e abbiamo già rilevato che questo termine di fatto può scadere anche prima
che sia scaduto il termine ordinario di impugnazione. Per cui abbiamo detto:
il fatto che una delle parti assuma per prima l'iniziativa impugnatori ha una
conseguenza sulla controparte, perché può significare che questa deve
rinunciare ad una parte del termine per impugnare.
Ora, il caso a cui si riferisce il legislatore dettando l'articolo 334 è quello in cui la
parte -che assume l'iniziativa impugnatoria- lo fa nell’imminenza della scadenza
del termine per impugnare. Per cui la controparte, la parte destinataria
342
dell'impugnazione, può non essere nella condizione di apprestare la sua
impugnazione incidentale.
Ora, dovete considerare quanto ci siamo già detti a suo tempo, ovvero che
l’impugnazione incidentale è una vera e propria impugnazione e il presupposto
generalmente è una soccombenza cosiddetta ripartita quindi una soccombenza
parziale.
Mentre se c'è stata una soccombenza totale è chiaro che se la parte ritiene che la
sentenza sia ingiusta o illegittima reagirà sicuramente, quindi prenderà iniziativa
impugnaotria, e non si pone un problema di impugnazione incidentale almeno,
diciamo, nel senso che la controparte risulterà vittoriosa nel merito (ma su questo
mettete un asterisco perché dovremo fare il suo tempo una precisazione
importante).
Ed è verosimile che ci sia una parte che pur di chiudere la lite sia disposta ad
accettare l'assetto di interessi stabilito nella sentenza precedente, anche se ci
rimette qualcosa.
Ora l'articolo 334, quindi viene dettato allo scopo di favorire l'accettazione della
sentenza per disincentivare la proposizione di impugnazione meramente
cautelative, che in assenza di una simile previsione indubbiamente sarebbe
scattata.
344
letto nel senso che è l’impugnazione più importante o così come il termine
incidentale non sta a indicare che la seconda impugnazione dipende dalla prima
per cui se è la prima, diciamo, è rigettata o è dichiarata inammissibile o
improcedibile o c’è l’estinzione anche l’impugnazione incidentale tempestiva cade.
Ciò non vale con riferimento all’impugnazione incidentale tardiva perché come
stabilisce il secondo comma dell’articolo 334:
L’inammissibilità è, come vedremo, una sanzione molto pesante, una sanzione più
pesante rispetto alla nullità che è il regime di invalidità generale, disciplinato dagli
articoli 156 e seguenti del codice di procedura civile.
345
Quindi esempio tipico è:
− l’impugnazione proposta dal soggetto che non era parte del giudizio, quindi
da chi non era legittimato ad impugnare
− oppure impugnazione proposta dopo che sono già decorsi i termini per
impugnare
non ci rientra, attenzione, la inammissibilità di cui agli articoli 348 bis e 348 ter che
si occupano del cosiddetto filtro in appello.
E bene l'articolo 334 afferma chiaramente che anche coloro nei cui confronti viene
disposto l'ordine di integrazione del contraddittorio possono utilizzare l'articolo
334 quindi esperire impugnazione incidentale tardiva (ma sul processo di
impugnazione fra parte diverse mi riservo di tornare dopo aver trattato la disciplina
degli articoli 331, 332 che si occupano proprio del litisconsorzio in fase di
gravame)
1. le limitazioni oggettive
2. e le limitazioni soggettive
346
per quanto riguarda le limitazioni oggettive si tratta di limiti che sono ad un certo
punto emersi nell’ambito dei giudizi a due parti.
Dagli anni '60 fino alla fine degli anni '80 infatti si è affermato un orientamento
della giurisprudenza di legittimità in base al quale l’impugnazione incidentale
tardiva intanto era ammissibile in quanto si dicesse contro lo stesso capo di
sentenza impugnata in via principale o contro un capo dipendente da questo.
Ora, in verità l'articolo 334 non ha mai recato alcuna traccia di una simile
limitazione oggettiva, la norma si occupa solo del dei profili di legittimazione attiva
facendo riferimento, come abbiamo appena rilevato, alle parti contro cui è
proposta impugnazione a quelle chiamate ad integrare il contraddittorio a norma
dell'articolo 331.
File audio n 2
Lasciamo per un momento la impugnazione incidentale tardiva e proseguiamo le
lezioni relative alle impugnazioni in generale.
allora dividiamo il primo dal secondo comma, il primo comma fa riferimento alla
acquiescenza espressa o implicita o tacita il cui effetto è quello di escludere
l’impugnazione.
347
possiamo tracciare un parallelo fra l’acquiescenza espressa o implicita di cui al
primo comma dell'articolo 329 e il decorso dei termini per impugnare, salvo
sottolineare che l’acquiescenza, come dice espressamente il 329, determina
l'esclusione dell'impugnazione, mentre, l'inutile decorso dei termini per impugnare
preclude la impugnazione.
l'effetto però dei due istituti è lo stesso, ovvero, il passaggio in giudicato della
sentenza. No
Che cos'è l’acquiescenza espressa? È una dichiarazione di accettazione della
sentenza svolta dalla parte soccombente. una volta rilasciato questa dichiarazione
la sentenza passa in giudicato.
Tutta questa parte della disposizione come vedete ruota attorno alla nozione di
parte di sentenza e questa nozione di parte della sentenza ha impegnato molto la
giurisprudenza e la dottrina.
Sono state prospettate le tesi più diverse, oggi però un’analisi della giurisprudenza
(e lo vedremo bene parlando dell'appello) ci conferma che la nozione di parte
della sentenza è molto ampia.
348
Allora sicuramente:
2) Ma, non è soltanto questo il significato di parte di sentenza perché nella nozione
di parte di sentenza rientra anche la frazione di domanda, di una delle domande
che sono state proposte. Se viene proposta domanda di pagamento di 100 e
questa domanda viene respinta, se viene proposta impugnazione con riferimento
limitato al rigetto della domanda per 50, anziché per i 100 originari, si ha con
riferimento ai 50 che non sono oggetto dell'impugnazione una acquiescenza tacita
qualificata. Con riferimento a questa frazione del rapporto (vedete qui si fa
riferimento ad una frazione interna la domanda) si forma l’autorità della cosa
giudicata quindi sicuramente nella nozione di parte di sentenza rientra la
frazione del rapporto giuridico controverso.
noi sappiamo che un giudice per statuire suona esistenza non esistenza del
rapporto giuridico dedotto in giudizio deve risolvere una lunga serie di questioni e
fra queste vi sono le cosiddette questioni preliminari di merito che hanno di oggetti
fatti giuridicamente rilevanti che sono stati legittimamente acquisiti al processo e
su cui il giudice si è legittimamente pronunciato.
Ora, il giudice nel momento in cui statuisce sulla esistenza o non esistenza del
diritto fatto valere in giudizio, soprattutto laddove si pronuncia affermando
l'esistenza del diritto, avrà risolto una certa serie di questioni preliminari di merito.
Nel momento in cui viene proposta impugnazione, come vedremo, la parte (sia in
appello ma vedremo anche in sede di ricorso per Cassazione) è tenuta a formulare
i motivi di impugnazione.
349
impugnante indicare al giudice la questione o le questioni che ritiene essere state
erroneamente risolte dal precedentemente giudice e su cui lo chiama a statuire di
nuovo.
− il Dies a quo
350
Come ampiamente anticipato nel momento in cui abbiamo trattato la connessione
fra parte diverse, queste problematiche trovano la propria soluzione in due
disposizioni, articoli 331 e 332 cpc.
Nell'articolo 331 troviamo la disciplina dettata con riferimento alle cause
inscindibili oh dipendenti mentre nell'articolo 332 troviamo la disciplina relativa
alle cosiddette cause scindibili.
Andiamo ad esaminare queste due discipline processuali e poi andiamo a
delimitare l’ambito applicativo di questi due istituti.
Art 331 co.1 -> “se la sentenza pronunciata tra più parti in causa inscindibile o in
casa e fra loro dipendenti non è stata impugnata nei confronti di tutte, il giudice
ordina l'integrazione del contraddittorio fissando il termine nel quale la notificazione
deve essere fatta e, se necessario, l'udienza di comparizione.
Co. 2 -> L'impugnazione è dichiarata inammissibile se nessuna delle parti
provvede all’integrazione nel termine fissato”
Come vedete l'articolo 331 prevede uno di quei meccanismi di sanatoria che
abbiamo riscontrato molte volte nell’ambito del primo semestre quando ci siamo
occupati del primo grado di giudizio e della disciplina dei requisiti formali o extra
formali relativi sia il giudice che le parti cioè un meccanismo che consente di
eliminare il vizio e che consente al processo di proseguire come servizio non si
fosse mai verificato.
Vedete che la disciplina è analoga a quella dettata con riferimento all'articolo 102
in tema di litisconsorzio necessario, anche se qui le conseguenze della
mancata integrazione del contraddittorio sono più pesanti perché nell’ipotesi
del 331 si ha la inammissibilità dell'impugnazione e di conseguenza il passaggio in
giudicato della precedente sentenza mentre in primo grado abbiamo l'estinzione
del processo però noi sappiamo che l'estinzione non estingue l'azione e di
conseguenza la domanda potrà essere riproposta.
351
Nell'ambito della disposizione successiva l'articolo 332 troviamo invece la
disciplina delle cause scindibili:
Co.1 -> “se la impugnazione di una sentenza pronunciata in cause scindibili è stata
proposta soltanto da alcuna delle parti o nei confronti di alcune di esse, il giudice
ne ordina la notificazione alle altre, in confronto delle quali la impugnazione non è
preclusa esclusa, fissando il termine nel quale la notificazione deve essere fatta e,
se necessario, l'udienza di comparizione.
Co. 2 –> “Se la notificazioni ordinata dal giudice non avviene, il processo rimane
sospeso fino a che non siano decorsi i termini previsti negli articoli 325 e 327 primo
comma”
Quindi qui legislatore si pone un obiettivo più limitato rispetto all’integrità del
contraddittorio, ciò che interessa è soltanto evitare la divisione.
la norma infatti prevede che ove si versi in un'ipotesi di causa scindibile e
l’impugnazione sia stata proposta da o nei confronti di alcune soltanto delle parti
già presenti nel precedente grado di giudizio, il giudice, intanto, non deve integrare
il contraddittorio ma ordina che l’impugnazione venga notificata alle altre parti.
Questa notifica non è una chiamata in causa ma è una denuncia che viene
effettuata alle parti pretermesse.
E poi badate bene, il giudice non ordina questa notifica a tutte le altre parti ma
soltanto alle parti nei confronti delle quali l’impugnazione non è preclusa o è
esclusa.
Quindi il giudice, rilevato che l’impugnazione è stata proposta da o nei confronti di
alcuni soltanto dei litisconsorti presenti in primo grado, verifica che nei confronti
delle parti rimaste estranee alla proposta impugnazione, l’impugnazione stessa
non sia già preclusa per decorrenza dei termini per impugnare o esclusa per
avvenuta acquiescenza ai sensi dell'articolo 329 primo comma.
Allora nel caso in cui le parti pretermesse hanno già subito l'esaurimento dei
termini per impugnare oppure hanno già prestato acquiescenza il processo può
tranquillamente proseguire fra le parti che hanno proposto o contro le quali è stata
proposta impugnazione.
352
Se invece le parti rimaste estranee a questo giudizio sono ancora in termini per
impugnare e non hanno prestato acquiescenza alla precedente sentenza, il giudice
ordina la notifica dell'impugnazione.
La notifica dell'impugnazione non è una chiamata in causa è una provocatio ad
impugnandum, cioè viene notificata loro la impugnazione affinché sappiano che
già pendente il giudizio di impugnazione e se vogliono, possono ancora attivarsi
punto
Peraltro, in queste ipotesi se l'ordine del giudice non viene rispettato, quindi
nessuno provvede a notificare l'avvenuta impugnazione nei confronti dei
litisconsorti pretermessi la norma anche secondo comma, prevede semplicemente
che il processo rimanga sospeso finché non siano decorsi i termini per
impugnare.
Quindi, quello che il legislatore ha voluto ottenere nelle ipotesi di cause scindibili,
soggette alla disciplina dell’articolo 332 è solo che le impugnazioni proposte
nell'ambito di un processo che si è svolto nel precedente grado di giudizio fra più
parti siano convogliate nello stesso giudizio di impugnazione e quindi siano
trattate unitariamente.
Si vuole escludere il rischio della biforcazione e infatti, quando questo rischio non
c'è perché nei confronti di questi litisconsorti i termini per impugnare sono scaduti
o comunque hanno prestato acquiescenza il giudizio può proseguire soltanto tra i
litisconsorti che materialmente hanno proposto impugnazione.
353
e questo ci porta a ritenere tranquillamente che il litisconsorzio debba proseguire
anche nel passaggio al giudice dell'impugnazione perché è un litisconsorzio
necessario quanto alla impugnazione ma che quanto alla trattazione e decisione.
354
Questa autonomia si manifesta ampiamente nel primo grado di giudizio perché
abbiamo detto che le più cause riunite possono tranquillamente sortire esiti di
merito diversi, così come è possibile che una causa ad un certo punto venga
chiusa o si estingua e che le altre proseguono.
Senza che questa scelta comporti alcun rischio che il processo vada a
disarticolare una realtà che sul piano sostanziale è unitaria. E questo perché, lo
abbiamo visto analizzando la disciplina sostanziale, è proprio la legge sostanziale,
la disciplina sostanziale a non essere unitaria.
(lo Abbiamo visto -d'altra parte- dalla circostanza che il comune creditore può
decidere di porre in essere atti di estinzione del proprio diritto di credito nei
confronti di uno soltanto dei più condebitori e questo effetto può produrre nei
confronti degli altri debitori effetti diversi dall' estensione, dalla liberazione).
Il rapporto pregiudiziale però non esaurisce tutti gli elementi della fattispecie
giuridicamente rilevante ai fini dell’esistenza o non esistenza del rapporto
dipendente, è solo uno degli elementi, ve ne sono anche altri.
355
In questa ipotesi si deve ritenere che la connessione per pregiudizialità dipendenza
si sia spezzata perché il rapporto dipendente ha acquisito autonomia rispetto al
rapporto pregiudiziale.
Ora, l'analisi noi andremo a svolgerla con riferimento alla chiamata in garanzia
(che abbiamo detto è tipicamente uno dei settori in cui si manifesta la connessione
per pregiudizialità dipendenza fra parti diverse) ma i ragionamenti, gli argomenti
che utilizzeremo possono tranquillamente essere versati - con gli opportuni
cambiamenti - anche negli altri settori di connessione per pregiudizialità
dipendenza tra parti diverse a cui abbiamo fatto già cenno.
Avevamo già rilevato che l’ambito applicativo dell’articolo 334 pone alcuni
problemi non soltanto nei rapporti a due parti ma anche nell’ambito delle
controversie che pendono tra parti diverse.
356
Ora, la disciplina della legittimazione attiva possiamo dire che è perfettamente in
linea con il disposto della disciplina degli articoli 331 332.
Infatti, partiamo dall' articolo 331, abbiamo detto che nell'ambito delle cause
inscindibili i litisconsorti già presenti nel presente grado di giudizio e che vengono
pretermessi dal giudizio di impugnazione sono dei litisconsorti necessari del
giudizio di impugnazione ed infatti il giudice, rilevata l’assenza di uno dei
litisconsorti necessari, ordina l'integrazione del contraddittorio. abbiamo detto è
una chiamata in causa a tutti gli effetti.
la norma non richiama invece l'articolo 332 ma a suo tempo abbiamo visto che la
notifica dell'impugnazione, che abbiamo detto non è una chiamata in causa ma è
una provocatio ad impugnandum, viene ordinata dal giudice solo nei confronti
dei litisconsorti nei cui confronti l’impugnazione non sia già preclusa o
esclusa.
Il giudizio di impugnazione può andare avanti tra le parti (=da e nei cui confronti
l’impugnazione è stata proposta).
E questo giustifica il perché l'articolo 334 non attribuisca anche al terzo cui
l’impugnazione è notifica ex 332 la legittimazione all’impugnazione incidentale
tardiva.
la disposizione lascia, invece, del tutto impregiudicato l’ulteriore profilo cioè quello
relativo alla individuazione della parte nei cui confronti può essere diretta
l’impugnazione incidentale tardiva.
357
Per cui la vera grossa questione è quella relativa al se l’impugnazione tardiva
possa essere rivolta anche contro una parte diversa da quella che ha proposto
l’impugnazione principale.
La risposta che affiora dalla lettura dei repertori della giurisprudenza è che
l’impugnazione incidentale tardiva possa essere proposta dalla parte contro cui è
diretto l’impugnazione principale, il cosiddetto:
Questo orientamento, diciamolo subito, ha delle origini molto risalenti e non trova
alcun addentellato nel testo della disposizione che è chiara nel richiamare l'articolo
331 solo per quanto riguarda la legittimazione attiva, ma soprattutto ,ed è questa
dice la parte sicuramente più importante, questo orientamento con riferimento a
ipotesi molto importanti di cause scindibili di causa e quindi soggetti all’articolo
332 conduce a delle conseguenze inaccettabili cioè contrarie alle esigenze sottese
all’articolo 334.
Introduciamo degli esempi che possono aiutarci a capire di che cosa sto parlando
-> il riferimento è al settore delle obbligazioni solidali ad interesse comune e
secondo una giurisprudenza e diciamo pacifica, ma che a questo punto è stata
superata (e poi spiegheremo il motivo) con riferimento alle cause di garanzia
cosiddetta impropria.
Vediamo in quali esempi in modo particolare questo orientamento
giurisprudenziale trova applicazione.
Ora, questo creditore pur essendo rimasto soccombente nei confronti di uno dei
condebitori convenuti in giudizio, perché la tua domanda è stata respinta a tutti gli
effetti, non sopporta da questa soccombenza delle conseguenze economiche.
È che ciascuno degli obbligati è tenuto per l'intero quindi il creditore può
pretendere l’adempimento dell'intera obbligazione da uno solo dei debitori. Allora,
nel caso di specie, il creditore nel momento in cui il risultato comunque vittorioso
nei confronti di uno dei condebitori convenuti in giudizio non subisce conseguenze
dalla soccombenza riportati nei confronti dell’altro condebitore.
Per cui, se il termine per impugnare è ancora aperto, potrà proporre impugnazione
incidentale tempestiva ma se invece il termine ormai è già decorso, oppure se ha
prestato acquiescenza il creditore non potrà valersi dell'articolo 334 e quindi la
conseguenza di questo orientamento è quello di incentivare il creditore, mettere
il creditore nella condizione di dover proporre delle impugnazioni cautelative
onde evitare di trovarsi nello scenario che abbiamo appena descritto.
360
della impugnazione incidentale tardiva) perché per molto tempo la giurisprudenza
ha affermato che mentre le fattispecie di garanzia propria rientrano nell'ambito
applicativo dell'articolo 331, le cause di garanzia impropria rientrano nell'ambito
applicativo dell'articolo 332. E’ solo una delle conseguenze che la giurisprudenza
traeva dalla contrapposizione tra garanzia propria e impropria che (vi ricordate) era
elaborata sulla base della considerazione secondo cui soltanto in ipotesi di
garanzia impropria si aveva la identità o la connessione obiettiva dei titoli. Vi
ricordate però che, parlando della chiamata in garanzia, abbiamo evidenziato che
questa contrapposizione è finalmente caduta perché nel 2015 le sezioni unite con
la sentenza 4 dicembre 2015 n.24707 hanno finalmente riconosciuto che questa
contrapposizione non ha ragione d'essere perché si tratta di casi che esibiscono la
medesima struttura, perché si tratta di rapporti giuridici che esibiscono il nesso
della connessione per pregiudizialità dipendenza, ed hanno affermato
solennemente che nessuna disparità di trattamento era giustificata.
361
In questa ipotesi l'unico soccombente è l'attore che si è visto respingere nel merito
la domanda e quindi dovrà essere l'attore a proporre impugnazione. Questa
impugnazione dovrà essere rivolta nei confronti del garantito.
Su questo punto si sono soffermate le sezioni unite nel 2016, le quali hanno
affermato che in verità, in applicazione di quelle che sono le regole generali in
tema di effetto devolutivo dell'appello, trattandosi di una domanda rimasta
assorbita è necessario che venga posto in essere dalla parte interessata, in questo
caso il garantito, un atto di impulso processuale. Nel senso che se ha interesse a
che il giudice dell’appello si pronunci sulla domanda di garanzia, dovrà riproporla
espressamente attraverso l’articolo 346 (che andremo poi ad analizzare parlando
del giudizio di appello).
Per cui soltanto se viene compiuto questo atto, questa istanza di riproposizione,
allora anche il rapporto di garanzia riemergerà di fronte al giudice dell'appello che
quindi dovrà pronunciarsi sullo stesso.
362
La seconda possibilità è che ad esito del giudizio di primo grado risulti accolta la
domanda principale e rigettata la domanda di garanzia.
Anche in questo caso sarà applicabile l'articolo 332 perché abbiamo detto
che la causa di garanzia è diventata autonoma, quindi il garante non è parte
necessaria di questo giudizio. Se il garantito ha interesse a che il giudice
dell'impugnazione si pronunci anche sulla causa di garanzia, l’unica scelta
che ha è quella di proporre impugnazione nei confronti di tutte e due le parti:
nei confronti dell'attore sulla causa pregiudiziale e nei confronti del garante
sulla causa di garanzia. Pare evidente infatti che in queste ipotesi il garantito
è la parte unica, soccombente con riferimento ad entrambe le cause perché
nella causa principale è stata accolta la domanda proposta dall'attore nei
confronti del garantito, mentre nella causa di garanzia la domanda proposta
363
dallo stesso garantito nei confronti del garante è stata rigettata, quindi è
l'unico soccombente e se vuole portare di fronte al giudice
dell'impugnazione entrambe le controversie, ha l’onere di proporre la sua
impugnazione con riferimento ad entrambi i rapporti nei confronti dei due
titolari degli stessi.
In questa ipotesi abbiamo due soggetti che sono rimasti soccombenti: il garantito
nella causa principale e il garante nella causa dipendente. Quindi entrambi sono
legittimati a proporre impugnazione.
D’altra parte, come abbiamo già osservato in un altro degli scenari che abbiamo
disegnato, questa è una soluzione che si impone per evitare delle conseguenze
bizzarre. Infatti ricordiamoci che nel momento in cui il garante, in qualità di terzo
titolare di un rapporto giuridicamente dipendente, entra nella nel processo avente
ad oggetto il rapporto pregiudiziale, è destinato a rimanere soggetto all'efficacia
della sentenza che sarà emessa inter partes.
364
di garanzia, la prestazione di garanzia del garante. Quindi verrebbe a conseguire
un arricchimento del tutto ingiustificato.
In verità qui opera il disposto dell’articolo 336 primo comma, per cui si deve
ritenere che l'eventuale riforma o Cassazione parziale ha effetto anche sulle parti
della sentenza dipendente dalla parte riformata o cassata, cioè opera il cosiddetto
effetto espansivo interno della sentenza di cui al primo comma dell'articolo 336,
per cui l'accoglimento dell’appello proposto dal garantito nei confronti dell’attore
sicuramente travolgerebbe anche il capo di sentenza relativo al rapporto
dipendente di garanzia.
In queste ipotesi si può tranquillamente applicare l'art 332 dal momento in cui la
contestazione del garante riguarda esclusivamente il rapporto di garanzia.
365
ipotesi di garanzia propria si applica il 331 e di conseguenza si ammetteva che il
garante potesse proporre impugnazione con riferimento al rapporto pregiudiziale
con effetti anche nei confronti delle parti del rapporto pregiudiziale, quindi si
applicava la disciplina del 331, mentre invece, con riferimento alla garanzia
impropria, si è sempre affermato che applicandosi l'articolo 332 il garante poteva
si muovere censure relative al rapporto pregiudiziale ma queste potevano essere
rivolte solo nei confronti del garantito. Quindi l'impugnazione era proposta nei
confronti del garantito e, in tale ambito di impugnazioni aventi ad oggetto il capo di
sentenza relativa al rapporto di garanzia, il garante poteva ridiscutere incidenter
tantum l'esistenza del rapporto pregiudiziale; quindi con un impugnazione
destinata ad avere effetti solo con riferimento al rapporto di garanzia, senza
produrre invece effetti diretti nei confronti delle parti del rapporto pregiudiziale che
quindi rimaneva fissato nei termini stabiliti dal giudice precedente a meno che il
garantito non decidesse di proporre impugnazione incidentale nei confronti
dell'attore.
Su questo punto sono intervenute le Sezioni Unite del 2015 cui abbiamo fatto
precedente riferimento. La questione rimessa alle sezioni unite era proprio questa:
se il garante può ritenersi legittimato a proporre impugnazione sul rapporto
pregiudiziale con effetto anche tra le parti di esso, quindi in applicazione del 331,
oppure no.
Qual è stata la soluzione sostenuta dalle sezioni unite? Le Sezioni Unite hanno
affermato che nel momento in cui il garante viene chiamato in causa, (viene
chiamato in causa tramite chiamata in garanzia o tramite chiamata in causa per
comunanza di causa, quindi senza deduzione in giudizio del rapporto di garanzia)
il garante diventa parte necessaria del processo. Le sezioni unite parlano di un
litisconsorzio necessario di origine processuale e muovendo da questo
presupposto, affermano che è necessario applicare sempre l'articolo 331. Per cui
hanno affermato che il garante come litisconsorte necessario sia pure di origine
processuale, è legittimato ex art 331 a proporre impugnazione con riferimento al
rapporto pregiudiziale.
Quindi le sezioni unite in pratica hanno affermato che, come parte necessaria, il
garante non soltanto deve essere chiamato ogni volta che viene proposta
impugnazione sul rapporto pregiudiziale da una delle parti di esso, ma, da ciò,
hanno tratto l'ulteriore conseguenza secondo cui il garante è altresì legittimato ad
impugnare direttamente il rapporto pregiudiziale con effetto anche fra le parti di
esso. Quindi ha sostenuto l’applicazione dell'articolo 331.
366
Ora questa soluzione è una soluzione solo apparentemente lineare che mi sentirei
di criticare.
Dovete ricordarvi infatti che il potere di impugnazione è una proiezione del diritto di
azione e il garante come regola non ha una legittimazione con riferimento al
rapporto pregiudiziale, non è legittimato straordinario, quindi non si giustifica
l’attribuzione di questo potere di impugnazione.
Possiamo forse isolare solo alcune particolari ipotesi che sono ipotesi che si
possono verificare nell’ambito della garanzia per evizione e dei vincoli di
coobbligazione (riferimento alla solidarietà unisoggettiva). Si tratta dell'ipotesi in
cui ricorre quello schema complesso che vi ho indicato come connessione per
pregiudizialità dipendenza bilaterale. In questa ipotesi infatti il garante è titolare di
un rapporto giuridico che lo legga direttamente all'attore e che è il rapporto
giuridico pregiudiziale rispetto al rapporto dedotto in giudizio dall'attore nei
confronti del garantito, quindi rapporto oggetto originario della controversia.
Ma a parte queste particolari ipotesi, negli altri casi non c'è un rapporto giuridico
che lega direttamente il garante all’attore, ne’ il garante è un legittimato
straordinario sul rapporto oggetto originario della causa, per cui la soluzione delle
sezioni unite è una soluzione che sicuramente deve essere attentamente valutata.
Anche perché lo stesso effetto che le sezioni unite vogliono raggiungere, quindi
garantire pienamente il diritto di difesa del terzo chiamato in garanzia, lo si poteva
ottenere passando attraverso un'altra strada. Cioè applicando l'articolo 332,
quindi ritenendo che il garante la sua impugnazione la possa rivolgere solo e
soltanto nei confronti del garantito, e ritenendo che nell’ambito di questo giudizio
di impugnazione il garante possa ridiscutere incidenter tantum (quindi senza che
questa impugnazione possa avere effetto nei confronti delle partI del rapporto
pregiudiziale che corre tra il garantito e l'attore). Dopodiché si poteva altresì
riconoscere al garantito il potere di reagire a questa impugnazione proponendo
impugnazione incidentale, se del caso tardiva ex articolo 334, nei confronti
dell'attore. Anche in questo caso appare chiaro infatti che la reazione del garante
367
avanzata nei confronti del garantito è un impugnazione destinata ad incidere
profondamente sulla posizione del garantito e quindi tale da giustificare il sorgere
o risorgere del suo interesse ad agire in via incidentale nei confronti dell’attore.
Al di là della soluzione che si vuole cui si vuole aderire è importante ricordare che
la soluzione deve essere applicata non soltanto nelle ipotesi in cui, nei confronti
del garante, viene esercitata la vera e propria chiamata in garanzia, ma anche nel
caso in cui il garante sia chiamato in causa per comunanza di causa. Su questo
punto le sezioni unite sono state chiare e sicuramente questa indicazione è giusta.
Ricordatevi quanto abbiamo sottolineato lungo tutte le nostre lezioni dedicate alla
connessione tra parti diverse. La disciplina processuale non si trae mai dal modo
in cui il processo litisconsortile si è formato perché ciò che rileva è soltanto la
struttura dei rapporti giuridici che corrono fra le parti. Che il garante entri in causa
a seguito di chiamata in garanzia o a seguito di chiamata in causa per comunanza
di causa, è un elemento assolutamente indifferente, si tratta comunque di un terzo
titolare di un rapporto giuridicamente dipendente che è entrato nel processo
avente ad oggetto il rapporto pregiudiziale, e quindi, qualsiasi soluzione si voglia
sostenere la si deve applicare con riferimento ad entrambi i casi.
Mi sentirei di fare un passettino oltre e affermare che questa stessa soluzione deve
essere applicata anche ad una terza ipotesi, ovvero il caso in cui il garante, in
qualità di terzo titolare di un rapporto giuridico dipendente, è entrato nel processo
avente ad oggetto il rapporto pregiudiziale, volontariamente, esperendo intervento
adesivo dipendente. Qui torno sui poteri dell’interventore adesivo dipendente in
quella lezione avevo chiesto di lasciare in sospeso la questione del potere di
impugnazione del terzo titolare di un rapporto giuridicamente dipendente. Il potere
di impugnazione è un potere fondamentale per assicurare pienamente la difesa del
terzo e abbiamo detto che tutta la ricostruzione dei poteri deve essere svolta
nell’ottica di valorizzare al massimo il suo diritto di difesa.
Allora sulla base di tutti i ragionamenti che abbiamo svolto anche oggi appare
chiaro che qualunque soluzione si voglia proporre con riferimento al garante
nell'ipotesi in cui questi sia destinatario della chiamata in garanzia, si dovrà
applicare anche all'ipotesi in cui il garante, o qualsiasi terzo titolare di un rapporto
giuridicamente dipendente, entra volontariamente nel processo altrui attraverso
l’intervento adesivo dipendente.
> Quindi se vogliamo seguire la strada indicata dalle sezioni unite, dobbiamo
riconoscere anche all'interventore adesivo dipendente il potere di impugnare
direttamente la sentenza resa nei confronti di entrambe le parti del rapporto
pregiudiziale.
> Se invece si decide di seguire l'altra strada, si dovrà riconoscere allo stesso
terzo il potere di proporre impugnazione solo nei confronti della controparte del
rapporto dipendente, potendo in questa sede ridiscutere incidenter tantum
l’esistenza e il modo d’essere del rapporto pregiudiziale. Questa considerazione
trova una conferma indiretta nell'ultimo comma dell'articolo 111 quando consente
368
al successore a titolo particolare nel diritto controverso, il potere di impugnare la
sentenza resa, anche se rimane estraneo al processo. Vi ricordate che parlando
dei terzi aventi causa in ipotesi di processo avente ad oggetto l'azione di
impugnativa negoziale, io vi ho detto che probabilmente questa ipotesi non rientra
nell'ambito applicativo dell'articolo 111 ma è maturato un orientamento teso a
ritenere che questo ultimo comma dell'articolo 111 sia espressione di una regola
generale per cui colui che ha acquistato un diritto nel corso del processo, oppure
all'indomani della chiusura del processo, deve considerarsi legittimato ad
impugnare questa sentenza. ll quadro in questo senso acquista una sua coerenza.
369
Lezione 21 - 21/05/20
Andiamo oggi ad analizzare il regime di impugnazione delle sentenze non
definitive. Ricordiamo che la sentenza non definitiva è prevista all’articolo 279
comma secondo n.4 là dove si legge che “il collegio (da leggersi come “il giudice”)
pronuncia sentenza quando decidendo alcune delle questioni di cui ai nn.1,2 e 3,
non definisce il giudizio e impartisce distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione
della causa”. Come abbiamo già detto nell’ordinamento italiano il giudice non è
mai tenuto ad esaurire l’attività istruttoria prima di rimettere la causa in fase
decisoria. In base all’articolo 187, infatti, se ritiene che una questione pregiudiziale
di rito o preliminare di merito idonea a definire il giudizio è fondata, il giudice può
invitare le parti a precisare le conclusioni immediatamente di fronte a sé e a far
transitare l’intera causa, quindi non la singola questione ma l’intera causa, in fase
decisoria. Dopodiché in questa sede potrà confermare la precedente delibazione e
quindi chiudere il processo emanando una sentenza definitiva, di rito o di merito,
oppure rovesciare la precedente delibazione e quindi ritenere che la questione non
sia fondata. In questo caso ha la possibilità di rimettere tutta la causa sul ruolo
oppure di pronunciarsi sulla questione con una sentenza non definitiva. Stante il
richiamo al numero 3 sappiamo che la sentenza non definitiva può contenere
anche una pronuncia avente attitudine alla cosa giudicata su una domanda
giudiziale e in base a quanto già detto in ordine al processo cumulativo questa
sentenza non definitiva avrà ad oggetto la causa pregiudiziale: laddove nel
processo si trovano cumulate la causa pregiudiziale e la causa dipendente, se la
causa pregiudiziale è matura per la decisione anticipatamente rispetto alla causa
dipendente il giudice può pronunciare sulla stessa sentenza, ma per assicurare il
coordinamento delle due decisioni si è detto che questa sentenza sarà una
sentenza non definitiva.
SECONDA PARTE
Per quanto riguarda la competenza questa è regolata dall’art. 341 cpc, a tenore
del quale “L'appello contro le sentenze del giudice di pace e del tribunale si
propone rispettivamente al tribunale ed alla corte di appello nella cui circoscrizione
ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza.” Vediamo che il legislatore ha
fatto una scelta molto chiara, si dice infatti che la competenza del giudice di
appello è automatica. In particolare, le sentenze emesse dal tribunale vengono
impugnate presso la corte d’appello nel cui distretto ha sede il tribunale stesso.
Per quanto riguarda i provvedimenti impugnabili la questione è risolta dall’art. 339
cpc -che è la prima tra le disposizioni che si occupano dell’appello- a tenore della
quale “Possono essere impugnate con appello le sentenze pronunciate in primo
grado, purché l'appello non sia escluso dalla legge o dall'accordo delle parti a
norma dell'articolo 360, secondo comma.” La norma introduce il principio generale
di appellabilità della sentenza di primo grado, ma pone alcune eccezioni.
Intanto viene richiamato l’accordo delle parti di cui all’art. 360 co.2 nel quale si
prevede “Può essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza
appellabile del tribunale, se le parti sono d'accordo per omettere l'appello; ma in
tal caso l'impugnazione può proporsi soltanto a norma del primo comma, n. 3”. Si
tratta di un’ipotesi che si basa sull’accordo delle parti che decidono di saltare un
grado di giurisdizione e andare direttamente di fronte alla suprema corte, in tal
caso però, precisa lo stesso co. 2 dell’art. 360, che l’impugnazione può proporsi
solo per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi
collettivi nazionali di lavoro. Quindi può essere un ricorso per cassazione avente
ad oggetto solo e soltanto la questio iuris.
La seconda ipotesi in cui è escluso l’appello è rappresentata dai casi in cui è la
stessa legge a stabilirlo.
La prima ipotesi è contemplata nel co. 2 dell’art. 339 dove si legge che “è
inappellabile la sentenza che il giudice ha pronunciato secondo equità a norma
dell'articolo 114.” Si tratta del caso in cui il giudice, su istanza concorde delle parti
con riferimento ad una causa avente ad oggetto diritti disponibili, la decide nel
merito secondo equità, quindi senza applicare la norma di diritto. In questa ipotesi
379
quindi la sentenza del giudice basata su equità potrà essere impugnata
direttamente in cassazione ma soltanto per denunciare errores in procedendo.
Quindi il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 co. 1, 2, 4 e 5, non anche per
violazione di legge perché l’equità è un criterio di giudizio diverso dalla norma di
legge.
Una ulteriore ipotesi è contemplata nel co. 3 dell’art. 339 e si tratta delle “Le
sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell'articolo 113,
secondo comma, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul
procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei
principi regolatori della materia”. Si tratta delle ipotesi in cui il giudice di pace
decide secondo equità le cause avente un valore inferiore attualmente a 1100
euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo
le modalità di cui all’art. 1342 cc. Anche in questa ipotesi è lo stesso art. 339 a
stabilire che queste sentenze pronunciate secondo equità non sono appellabili se
non per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme
costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia. In verità
questi “principi regolatori della materia” sono un principio che ha destato grosse
discussioni, è piuttosto evanescente, però diciamo che ci limitiamo a richiamarle.
Altre ipotesi di sentenze non suscettibili di appello sono previsti in casi specifici da
parte della legge. Ci limitiamo a richiamare la sentenza che chiude il procedimento
di opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 cpc.
Nel vigore del codice del 1865 abbiamo già ricordato che il passaggio della causa
dal primo al secondo grado avveniva sulla base del c.d. effetto devolutivo
automatico, cioè era sufficiente che la sentenza di primo grado fosse aggredita
attraverso la notifica di un atto introduttivo del giudizio di appello -ed era
sufficiente un appello c.d. generale- perché di fronte al giudice di appello si
trasferisse l’intera causa già discussa e decisa in primo grado. Questo effetto
devolutivo automatico è stato progressivamente cancellato dal legislatore. Già con
l’entrata in vigore del codice del 1942 il legislatore lo aveva pesantemente
attenuato attraverso l’introduzione dell’art. 346, nel quale si prevede l’onere di
riproposizione delle domande ed eccezione non accolte. Successivamente però
l’effetto devolutivo è stato quasi del tutto soppresso, prima dall’opera
interpretatrice della corte di cassazione e poi dal legislatore che nel 2012 ha
recepito a livello normativo importanti e ormai stabili orientamenti giurisprudenziali.
Quindi una volta chiarito che quasi ogni forma di automatismo è stata cancellata, i
meccanismi per il cui tramite si forma l’oggetto del giudizio di appello si basano e
sono espressione del principio dell’impulso di parte. Si chiede sempre alle parti,
seppur in termini e forme diverse, di attivarsi per portare di fronte alla cognizione
del giudice dell’appello domande, questioni e prove di cui si vuole ottenere un
380
riesame. Nell’intraprendere questa indagine dobbiamo distinguere l’oggetto c.d.
quantitativo dall’oggetto c.d. qualitativo, andando prima ad evidenziare i
meccanismi per il cui tramite si fissa l’oggetto del giudizio di appello inteso come
rapporto o frazione di rapporto controverso tra le parti; e poi dobbiamo andare ad
analizzare i meccanismi relativi all’oggetto qualitativo, cioè gli strumenti per il cui
tramite si individuano le questioni di cui si vuole che il giudice di appello svolga il
proprio accertamento al fine di statuire l’esistenza o non esistenza del rapporto
giuridico che è devoluto alla sua cognizione.
OGGETTO QUANTITATIVO
L’art. 342 nella sua attuale formulazione, che gli è stata attribuita dall’intervento di
riforma del 2012, stabilisce che “L'appello si propone con citazione contenente le
indicazioni prescritte nell'articolo 163. L'appello deve essere motivato. La
motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità:
1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle
modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di
primo grado;
2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro
rilevanza ai fini della decisione impugnata.”
La norma si occupa evidentemente dell’appello principale e quindi dell’appello che
viene proposto per primo e che determina l’apertura del processo. Accanto all’art.
342 dobbiamo sicuramente richiamare l’art. 343 che ci introduce l’appello
incidentale e che non rappresenta altro che una forma di impugnazione incidentale
di cui all’art. 333.
382
OGGETTO QUALITATIVO
Ora l’art. 342, che è la norma portante di tutto il giudizio di appello, è la norma alla
cui luce dobbiamo ricostruire l’intera disciplina del giudizio di appello, prevede che
la parte non debba semplicemente indicare la parte di sentenza che vuole
impugnare ma deve altresì individuare le questioni di fatto e di diritto su cui vuole
che il giudice di appello effettui un controllo. La norma dell’art. 342 pone a carico
dell’appellante un onere molto pesante perché la formazione dei motivi di appello
è operazione piuttosto complessa e alquanto delicata per la parte (ovvero per il
suo avvocato) anche perché se sbaglia la conseguenza è pesantissima, ossia la
dichiarazione di inammissibilità con una precisazione:
Un’ultima precisazione: Ricordiamo ancora una volta che ciò che affermiamo con
riferimento all’appello principale (al quale è dedicato l’art. 342) vale anche per
l’appello incidentale che è a tutti gli effetti un’impugnazione salvo il fatto di essere
proposto per seconda
File 4
383
della disposizione, non ha modificato (non è stato un intervento innovatore), non
ha fatto altro che recepire a livello normativo un orientamento giurisprudenziale
ormai stabile. Infatti, questi motivi specifici di impugnazione dal 1942 al 2012 sono
stati oggetto di una lenta ma profonda evoluzione. Naturalmente il significato dei
motivi specifici di impugnazione era stato raccordato con l’art. 429 co.2, quindi
con il meccanismo della acquiescenza tacita semplificata. In verità, in un primo
tempo -parlo dei tempi immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice
del ’42- la giurisprudenza ha ritenuto che attraverso i motivi specifici di
impugnazione l’appellante avesse l’onere di indicare la parte di sentenza -intesa
come capo di domanda- che intendeva devolvere al giudice di secondo grado;
dopodiché tutte le questioni relative a quel capo si riteneva che emergessero
automaticamente di fronte al giudice dell’appello.
Questo non è stato però l’orientamento definitivo perché, a partire dalla metà degli
anni ’90, si è affermato un ulteriore orientamento ancora più restrittivo e rigido, in
base a questo è stata rielaborata la nozione di “questione” ritenendosi che, in
verità, nell’ambito dei motivi specifici di impugnazione acquisissero rilevanza le
unità decisionali minime interne alla stessa questione pregiudiziale oggetto di
censura, purché si trattasse di segmenti suscettibili di acquisire una certa
autonomia nel ragionamento del giudice.
Facciamo un esempio: con riferimento alla più semplice delle questioni preliminari
di merito, per es. la prescrizione, la giurisprudenza ha individuato 3 segmenti (unità
decisionali minime): il dies a quo, la durata e l’assenza di cause di sospensione e
di interruzione. La giurisprudenza, quindi, da un certo momento in poi ha imposto
all’appellante l’onere di indicare, non soltanto la questione, ma all’interno della
questione l’unità decisionale minima intesa come sequenza fatto-norma-effetto
che riteneva affetta da errore. La conseguenza è che la questione preliminare di
merito oggetto del motivo di impugnazione era devoluta al giudice dell’appello, il
quale però era chiamato a riesaminare soltanto l’unità decisionale minima con
riferimento al quale l’appellante aveva formulato il proprio motivo di impugnazione
ritenendola affetta da errore; e di conseguenza la giurisprudenza ha affermato che
se sulle unità decisionali minime interne alla stessa questione preliminare di merito,
ma non oggetto a motivi di impugnazione, si era formato il giudicato interno.
Quindi per tornare all’esempio: se con riferimento alla questione di prescrizione
384
l’appellante contesta che erroneamente il giudice aveva fissato la data di
decorrenza della prescrizione (quindi il dies a quo nel giorno X anziché nel giorno
Y) il giudice di secondo grado può tornare ad accertare solo il profilo del dies a
quo, perché se invece va a sindacare profili ulteriori, ad es. quello della durata
della prescrizione, si ritiene che violi il cd giudicato interno.
Ricordiamoci ancora una volta che tutto quanto si è detto vale, non soltanto con
riferimento all’appello principale, ma anche all’appello incidentale, perché l’appello
incidentale -non mi stancherò mai di ripeterlo- non è altro che un appello proposto
per secondo, in un momento temporalmente successivo.
385
Già sappiamo (recuperiamo una nozione che ci è nota ed è da sempre pacifica)
che se sulla questione il giudice di primo grado ha emesso sentenza non definitiva
e se la parte, rimasta teoricamente soccombente sulla sentenza non definitiva, ha
formulato riserva di impugnazione, l’appellato se vuole portare la questione di
fronte al giudice dell’appello deve formulare appello incidentale.
Questo indirizzo è cominciato ad entrare in crisi nel 2008, anno in cui la corte di
cassazione ha affermato, con riferimento ad una ipotesi in cui la questione risolta a
sfavore dell’appellato vittorioso era la questione di giurisdizione, che in verità
l’appellato ha l’onere di proporre appello incidentale. La corte ha lavorato sulla
circostanza secondo cui
1. Se quella questione fosse stata risolta nella sentenza non definitiva sarebbe
stato pacifico che sarebbe stato necessario l’appello incidentale;
386
solo dalla parte soccombente -qui ci troviamo di fronte ad una parte che è risultata
totalmente vittoriosa e quindi non sarebbe legittimata a proporre appello
incidentale-. Dall’altra parte però, si rispondeva che era necessario assicurare la
parità delle parti, quindi dal momento in cui era pacifico che se la questione fosse
stata risolta con sentenza non definitiva sarebbe stato necessario l’appello
incidentale, e dal momento in cui comunque il presupposto era che il giudice di
primo grado si fosse pronunciato sulla questione ritenendola non fondata, sarebbe
stato giusto imporre all’appellato l’onere di formulare i motivi di impugnazione e di
proporre appello incidentale. Quindi, era giusto assicurare la parità delle parti
anche per dare coerenza al sistema, perché così l’art. 346 opera solo con
riferimento a domande ed eccezioni su cui non c’è stata una statuizione, mentre
l’appello incidentale opera laddove una statuizione vi è stata.
La questione è stata rimessa alle s.u., che si sono pronunciate con sentenza
11799 del 2017, in cui è trovato accoglimento l’orientamento più recente. Quindi le
sezioni unite hanno solennemente affermato che la parte appellata, totalmente
vittoriosa nel merito ma teoricamente soccombente sulla singola questione, ha
l’onere di proporre appello incidentale per portare davanti al giudice dell’appello la
questione, pena il formarsi del giudicato interno sulla stessa. Si tratta di una
sentenza che sicuramente ha addossato al soccombente teorico un compito più
arduo rispetto all’orientamento tradizionale, perché un conto è articolare i motivi di
impugnazione nell’appello incidentale, altro conto, è riproporre un’eccezione ai
sensi dell’art. 346. Tuttavia, si tratta di un orientamento che sicuramente è
meritevole di accoglimento proprio perché dà coerenza al sistema e soprattutto
assicura la parità delle parti, che è un valore che non dovrebbe mai essere perso di
vista.
Leggiamo la norma di riferimento, che è l’art. 346 “Le domande e le eccezioni non
accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in
appello, si intendono rinunciate.”
Questo articolo è stato introdotto dal legislatore nel 1942 ed è la disposizione che
ha incrinato il cd effetto devolutivo automatico, perché, sotto l’egida del codice del
1865, era pacifico che domande ed eccezioni non accolte e favorevoli alla parte
rimasta vittoriosa ad esito del giudizio di primo grado riemergessero
automaticamente tutte quante di fronte al giudice dell’appello. Vediamo il
significato di questa disposizione ed il suo ambito applicativo.
387
riesaminare questa domanda dal giudice dell’appello, ha l’onere di proporre
appello principale o incidentale. La domanda non accolta è la domanda su cui il
giudice di primo grado legittimamente non si è pronunciato, si tratta infatti della
domanda cd assorbita.
Abbiamo più volte accennato che, laddove in primo grado si è avuto un cumulo cd
condizionale di domande, si ha che, laddove la condizione cui è sottoposta una
delle due domande non si verifica, il giudice la chiude in rito dichiarandone
l’assorbimento.
File 5
L’art. 346 parla anche delle eccezioni non accolte. Noi parlando dell’appello
incidentale abbiamo già affrontato la questione dello strumento per il cui tramite la
388
parte appellata può riportare di fronte al giudice dell’appello le questioni su cui è
rimasta teoricamente soccombente. Ricordiamo l’ipotesi della parte totalmente
vittoriosa nel merito ma rimasta soccombente su singola questione, e,
ripercorrendo la questione fino ad arrivare alla sentenza 11799 del 2017, abbiamo
già ricordato il criterio adottato dalla corte di cassazione, ovvero quello secondo
cui laddove c’è stata una statuizione del giudice a quo si rende sempre necessaria
l’impugnazione principale o incidentale. D’altra parte, ricordiamo che abbiamo
rilevato che la stessa cassazione nella sentenza del 2017 aveva utilizzato come
argomentazione anche la necessità di offrire un’interpretazione coerente dell’art.
346 e quindi offrire la medesima lettura del termine “non accolte” sia con
riferimento alle domande sia con riferimento alle eccezioni. La domanda non
accolta non è la domanda respinta, perché se la domanda è stata respinta c’è un
soccombente pratico che dovrà proporre impugnazione principale o incidentale, è
la domanda assorbita. Lo stesso vale con riferimento alle eccezioni, quindi le
eccezioni non accolte sono le eccezioni rimaste assorbite.
390
Lezione 22 - 29/05/20
(file 1) Passiamo adesso ad esaminare l’art 345 che si occupa dei cd nova in
appello, ovvero disciplina la possibilità di introdurre di fronte al giudice d’appello
domande, eccezioni e prove nuove. Andiamo per ordine: il primo comma della
disposizione così recita “nel giudizio di appello non possono proporsi domande
nuove, e se proposte debbano essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Possono
tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza
impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa”. La
disposizione contiene l’espressione del divieto di domande nuove in appello. Si
tratta di un divieto che è posto in maniera perentoria, tant’è vero che il giudice, a
fronte della domanda nuova, può rilevarne d’ufficio la inammissibilità, e quindi non
ha alcun rilievo la circostanza che la controparte accetti il contraddittorio. Questa è
una scelta che distingue l’ordinamento italiano da altri ordinamenti, anche vicini a
noi per tradizione, come quello francese, in cui l’appello si configura come un
giudizio sicuramente più aperto rispetto al nostro; invece il legislatore italiano ha
compiuto una scelta di chiusura che probabilmente meriterebbe di essere
rimeditata.
Con riferimento alle modifiche relative alla norma applicata, anche qua ci
potremmo aspettare degli orientamenti di apertura, siccome abbiamo detto tante
volte che la norma giuridica non svolge, come regola generale, una funzione
individuatrice nell’ordinamento italiano, ci saremmo aspettati un atteggiamento di
aperturadella giurisprudenza, e quindi, proposta ad esempio domanda di
responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art 2043, ci aspetteremmo di trovare
393
orientamenti favorevoli a consentire alla parte di prospettare, per la prima volta
difronte al giudice dell’appello, una azione di responsabilità derivante dall’esercizio
di attività pericolose ai sensi del 2050; oppure, proposta in primo grado azione di
adempimento del contratto, ci potremmo aspettare la disponibilità ad ammettere
che in appello possa essere prospettata, per la prima volta, una azione, una
domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento; oppure, proposta in primo
grado una domanda basata sull’esistenza di un rapporto di mandato, quindi actio
mandati, in appello invece la stessa pretesa possa esser configurata come una
actio negotiorum gestio. Siamo di fronte a tipiche ipotesi di concorso di norme, in
cui la norma non svolge funzione individuatrice, il passaggio dall’una a l’altra
norma non determina la novità della domanda, la novità del rapporto giuridico,
invece la giurisprudenza tradizionale inspiegabilmente è ferma nel negare questo
passaggio, affermando che si tratta di modifiche che debbono esser inquadrate
nella mutatio libelli. Altre volte la giurisprudenza è meno diciamo tranchan, nel
senso che afferma che la modifica delle norme giuridiche è ammessa purché però
la parte non introduca a supporto di questa variazione, non debba introdurre dei
temi di indagine, quindi dei fatti nuovi rispetto a quelli tempestivamente allegati in
primo grado.
2. Non possiamo non rilevare come orientamenti di questa specie finiscono per
penalizzare molto la parte laddove questa, o meglio, il suo avvocato, si è
dimenticato di prospettare tempestivamente in primo grado, la possibilità
appunto di sussumere la fattispecie dedotta in giudizio sotto due norme
diverse, e non abbia provveduto ad allegare tempestivamente in giudizio
tutti i possibili fatti giuridicamente rilevanti. Vi è da dire però che si stanno
aprendo delle nuove prospettive, nel senso che la giurisprudenza prima o
poi dovrà fare i conti con gli orientamenti e i segnali che la cassazione sta
dando in questo momento con riferimento soprattutto al primo grado di
giudizio: vi ricordate quando abbiamo parlato delle preclusioni relative al
primo grado di giudizio vi ho segnalato l’intervento del 2015 delle sezioni
unite le quali hanno ammesso che è possibile in sede di prima memoria, ex
art 183 comma 6, passare dalla azione di adempimento in forma specifica
dell’obbligo di conclusione del contratto ex 2932 cc, alla azione di
accertamento dell’avvenuto effetto traslativo basato sulla diversa qualifica
del contratto come contratto definitivo, e vi ricordate che in quella occasione
le sezioni unite si sono soffermate sulla nozione di modifica della domanda
394
affermando che la variazione di uno degli elementi identificativi della
domanda non porta necessariamente a configurare una domanda nuova,
perché in talune ipotesi il bene della vita, il rapporto giuridico, è sempre lo
stesso. Questa sentenza ha avuto un certo seguito nella giurisprudenza di
legittimità, sempre con riferimento al primo grado di giudizio. Per esempio
nel 2018 sono intervenute delle sezioni unite che hanno affermato che anche
nella prima memoria ex art 183.6, dove si parla di modifica della domanda, è
possibile che per l’attore, che in via originaria ha esercitato la azione di
adempimento del contratto, proporre la azione di indennizzo per
ingiustificato arricchimento, introducendo anche ifatti costitutivi della azione
di arricchimento senza giusta causa, che non hanno alcun rilievo per la
azione di adempimento contrattuale, ovvero l’impoverimento e la
locupletazione. Quindi la coerenza vuole che prima o poi la giurisprudenza
debba fare i conti con quest’altri orientamenti perché l’espressione usata,
stiamo parlando sempre di modifica della domanda, e perché soprattutto
questa chiusura alla possibilità di introdurre in appello fatti nuovi, fatti diversi
e ulteriori rispetto a quelli tempestivamente allegati in primo grado, non
trova alcun riscontro nel testo del cpc; senza contare il fatto che
orientamenti di questa specie si traducono in una sostanziale ingiustizia per
la parte che non ha la possibilità di recuperare difronte al giudice
dell’appello un proprio errore, l’errore dell’avvocato, in virtù dei limiti
oggettivi del giudicato così ampi che la giurisprudenza sta portando avanti,
né dall’altra parte, dicevo, tantomeno ha la possibilità di aprire un secondo e
autonomo processo.
(file 2) il secondo comma dell’art 345 stabilisce che non possono proporsi nuove
eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio. La norma ha una formulazione
infelice, ma ci dice senz’altro che non possono esser proposte in appello nuove
eccezioni in senso stretto. Anche in quest’ipotesi dando di questa norma una
lettura a contrario, si afferma che in appello possono esser proposte nuove
eccezioni in senso lato. Ora, vi ricordate che il catalogo delle eccezioni in senso
lato è estremamente ampio, quindi sembrerebbe essere una notevole apertura.
Anche in questo caso però dobbiamo fare i conti con orientamenti
giurisprudenziali altalenanti.
395
essa sottostante, quindi introducendo per la prima volta in appello
direttamente il fatto sottostante.
Si torna al problema della allegazione dei fatti, e quindi anche con riferimento alle
eccezioni in senso lato torno a ripetere quanto ho già osservato con riferimento
alla modifica delle domande. Siamo difronte a un contegno di chiusura che non
trova spiegazioni:
Per quanto riguarda infine il terzo comma, il terzo comma si occupa delle nuove
prove. In base al terzo comma, attualmente vigente e che deriva da reiterati
interventi del legislatore, si ha che “non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non
possono esser prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver
potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non
imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio”.
Allora, lasciamo stare il giuramento decisorio che è sempre un mezzo di prova
legale che ha sempre avuto un canale preferenziale, probabilmente per motivi
storici. Pe quanto riguarda invece il divieto di introduzione dei nuovi mezzi di
prova, come vedete la norma, nella sua attuale previsione, equipara la produzione
dei nuovi documenti alla richiesta di ammissione dei nuovi mezzi di prova, saranno
in particolare le prove costituende, ponendo un divieto assoluto, salvo la
possibilità per la parte di dimostrare di non aver potuto proporli o produrli nel
giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Quindi sono
tipicamente mezzi di prova che sono sopravvenuti, di cui la parte ha avuto
quantomeno la disponibilità in un momento successivo alla chiusura del giudizio di
primo grado. Quindi l’unica possibilità è che la parte ottenga una sorta di
rimessione in termini.
La scelta originaria del legislatore del 1990 era diversa perché si consentiva la
possibilità anche di chiedere la assunzione di nuove prove, se indispensabili. Ora,
questo requisito della indispensabilità, in verità, aveva creato delle grossissime
discussioni perché non si capiva che cosa era questa indispensabilità, però
396
certamente era una apertura significativa, era una apertura importante.
Attualmente dobbiamo prendere atto di questo atteggiamento di totale chiusura.
Non rientra nel divieto sancito nel terzo comma dell’art 345 i poteri istruttori
d’ufficio. Perché i poteri istruttori d’ufficio possono esser esercitati in qualsiasi
momento del processo. Non c’è nessuna disposizione che imponga un limite
temporale. Naturalmente, laddove il giudice esercita un potere d’ufficio, dovrà in
ogni caso attivare il contraddittorio delle parti, e quindi consentire loro di esercitare
poteri consequenziali al potere esercitato.
L’osservazione che possiamo fare a questo punto e alla luce della disciplina che
abbiamo delineato con riferimento ai meccanismi di formazione dell’oggetto del
giudizio di appello, e segnatamente degli art 342 343 345 e 346, è che, come già
osservato in apertura della trattazione dell’appello, ci sono numerosissime ipotesi
in cui il giudice dell’appello si trova a conoscere come giudice diprimo ed unico
grado di determinati elementi: è vero che tendenzialmente in giudice d’appello
torna a pronunciarsi sul rapporto giuridico, su una frazione del rapporto giuridico
già dedotto davanti al giudice di primo grado, e su cui il giudice di primo grado ha
statuito, e quindi il giudice dell’appello è chiamato ad assicurare il cd doppio
grado di giurisdizione. Ma l’analisi delle disposizioni su cui ci siamo fin ora
soffermati ha fatto emergere una serie di ipotesi in cui il giudice dell’appello
procede all’accertamento di elementi che non sono stati conosciuti dal giudice di
primo grado, per cui è il giudice d’appello il giudice di primo e unico grado.
Se siamo d’accordo nel ritenere che difronte al giudice dell’appello possono esser
dedotti non soltanto nuovi fatti costitutivi alternativamente concorrenti rispetto a
quelli già dedotti a fondamento della domanda in primo grado in ipotesi di rapporti
autodeterminati, ma anche fatti costitutivi che vanno a integrare la fattispecie
costitutiva del diritto fatto valere in giudizio, ove l’attore difronte al giudice
dell’appello proceda a una riqualificazione giuridica del rapporto dedotto in
giudizio; oppure fatti modificativi estintivi impeditivi posti a base di eccezioni
rilevabili d’ufficio. Laddove vengano dedotte in giudizio delle nuove prove, sia pure
nei limiti oggi molto severi segnati dall’art 345 terzo comma; ma ancora, laddove
vengano dedotti fatti sopravvenuti o norme sopravvenute, di cui non abbiamo
parlato, ma che il processo civile deve accogliere in qualsiasi momento la parte
interessata ne venga a conoscenza. A questo possiamo aggiungere, ma su questo
397
tor niamo successivamente anticipando qualcosa su cui tor neremo
successivamente, le ipotesi in cui, attraverso l’appello venga denunciata una
nullità che si è verificata in primo grado, con la conseguenza che laddove il giudice
dell’appello accerti che questa nullità, questa eccezione, effettivamente è fondata,
applichi la regola generale di cui all’art 354, e quindi disponga la rinnovazione
difronte a sé degli atti nulli. Quindi significa in tali ipotesi che questi atti saranno
computi in maniera valida nel solo giudizio di appello. Quindi, da questi rilievi
possiamo offrire una risposta al quesito che ci eravamo posti in apertura delle
lezioni dedicate all’appello ed affermare che il principio del doppio grado di
giurisdizione è un principio che trova attuazione soltanto in via tendenziale, nel
senso che ciò che il nostro ordinamento assicura è la appellabilità della sentenza
di primo grado, la possibilità di adire un giudice di secondo grado, un giudice
superiore che può controllare la sentenza di primo grado.
Per quanto riguarda la regole di svolgimento del processo di appello, fin adesso
ci siamo confrontati soltanto con l’art 342 che si occupa della forma dell’atto
introduttivo che è l’atto di citazione. In base all’art 359, che è l’ultima norma tra
quelle che si occupano dell’appello,“nei procedimenti di appello davanti alla corte
o al tribunale, si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per il
procedimento di primo grado davanti al tribunale, se non sono incompatibili con le
disposizioni del presente capo”. Quindi, il giudizio di appello, per tutto ciò che non
è espressamente previsto nelle norme precedenti, all’art 359, tendenzialmente si
applicano le norme dettate con riferimento al processo di primo grado, purché
compatibili.
Allora, intanto ricordiamo che se l’appello è proposto contro sentenze del giudice
di pace la competenza appartiene al tribunale, peraltro il tribunale decide queste
controversie in composizione monocratica, perché nell’art 50 bis che si occupa
delle ipotesi in cui il tribunale decide in composizione collegiale, questo caso non
viene richiamato. Mentre invece, se l’appello è proposto contro le sentenze del
tribunale la competenza appartiene alla corte d’appello. La corte d’appello giudica
in composizione collegiale, i collegi sono composti da tre giudici. La caratteristica
del giudice dell’appello è che la collegialità è una collegialità che investe tutto il
processo, quindi l’intero processo d’appello, dalla fase introduttiva fino alla fase
decisoria si svolge difronte ad un collegio. E in questo il giudizio di fronte alla corte
di appello si distingue nettamente rispetto al giudizio di primo grado che invece
adesso è a trattazione e decisione collegiale come regola generale (lapsus
evidentemente intendeva dire “monocratica”).
398
Il giudice deve in via preliminare effettuare una serie di attività e verifiche. La
prima attività che il giudice d’appello effettua è una verifica relativa alla regolare
costituzione del giudizio, quindi dovrà verificare ad esempio la regolarità della
citazione, e \ o della sua notificazione nel caso in cui l’appellato non si sia
costituito. E quindi si potrà applicare in queste ipotesi la disciplina dettata dall’art
164 per la nullità della citazione come atto di vocatio in ius, o l’art 291 se la nullità
investe invece la notificazione dell’atto di appello. Invece, abbiamo già visto
analizzando l’art 342 che, se l’atto di citazione non contiene i motivi di
impugnazione nelle forme imposte dalla stessa disposizione, il giudice dovrà
dichiarare la inammissibilità e se la inammissibilità investe l’intero atto di citazione
in appello, la conseguenza è la chiusura del giudizio di appello e il passaggio in
giudicato della sentenza di primo grado, lo stesso si deve dire con riferimento
all’appello incidentale. Dopodiché il giudice, se il processo di primo grado è stato
un processo litisconsortile dovrà verificare se si tratta di una controversia soggetta
alla disciplina dell’art 331, e quindi se del caso disporre la integrazione del
contraddittorio se manca qualcuno dei litisconsorti necessari, oppure, se si versa
in ipotesi di cause scindibili, ordinare la notifica dell’atto di citazione ai litisconsorti
nei cui confronti la impugnazione non è ancora esclusa ne preclusa. Inoltre dovrà
verificare che non sussista una causa di inammissibilità o improcedibilità che
andremo ad analizzare successivamente.
A seguito della riforma del 2012 il giudice d’appello è chiamato inoltre a effettuare
una ulteriore verifica preliminare applicando il cd filtro in appello, disciplinato
dall’art 348 bis e 348 ter. Che cos’è questi filtro in appello? è una valutazione che il
giudice d’appello effettua in limine litis, quindi nella apertura del processo
d’appello, e che ha ad oggetto la ragionevole probabilità di accoglimento
dell’appello stesso. Se ad esito di questa valutazione in giudice si convince che
l’appello non abbia la ragionevole probabilità di essere accolto, dovrà dichiararne
la inammissibilità, cui conseguono gli effetti di cui all’art 348 ter, che andiamo
adesso a analizzare.
(File 3)
Abbiamo che il legislatore del 2012 ha introdotto il cosiddetto filtro in appello la cui
disciplina è contenuta negli articoli 348bis e 348ter.
399
Vediamo la disciplina. L’art. 348bis prevede che “Fuori dei casi in cui deve essere
dichiarata con sentenza l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello,
l'impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha
una ragionevole probabilità di essere accolta.Il primo comma non si applica
quando: a) l'appello è proposto relativamente a una delle cause di cui all'articolo
70, primo comma;b) l'appello è proposto a norma dell'articolo 702-quater”. Ci
sono dunque dei casi in cui il filtro per espressa previsione di legge non può
funzionare. Tali casi sono: le cause in cui è previsto l’intervento obbligatorio del
pubblico ministero (rimando all’ art. 70 comma 1) e l’appello proposto contro i
provvedimenti resi a conclusione del procedimento sommario di cognizione. Il
primo comma poi esclude la possibilità che il filtro possa operare anche quando
l’appello è inammissibile o improcedibile. Il filtro è destinato ad operare quando il
giudice ritiene che l’appello non ha una ragionevole probabilità di essere accolto.
Quindi si tratta di una valutazione che riguarda il merito dell’appello stesso. La
disciplina la troviamo nella art. 348 ter. La norma prevede che il giudice nella prima
udienza (rinvio all’art. 350), prima di procedere alla trattazione, sentite le parti,
quindi previa attivazione del contraddittorio, dichiara inammissibile l'appello, a
norma dell'articolo 348-bis, con ordinanza succintamente motivata, anche
mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il
riferimento a precedenti conformi e provvede sulle spese. L'ordinanza di
inammissibilità è pronunciata solo quando sia per l'impugnazione principale che
per quella incidentale di cui all'articolo 333 ricorrono i presupposti di cui al primo
comma dell'articolo 348-bis. In mancanza, il giudice procede alla trattazione di
tutte le impugnazioni comunque proposte contro la sentenza. La dichiarazione di
inammissibilità appare chiaro che può essere emessa dal giudice soltanto dopo
aver attivato il contraddittorio, quindi in prima udienza. E’ fatta con un’ordinanza e,
laddove sia stato proposto sia l’appello principale che l’appello incidentale
(tempestivo o tardivo che sia), solo nel caso in cui il giudice valuti che entrambe le
impugnazioni non abbiano una ragionevole probabilità di essere accolte, altrimenti
procede alla trattazione. Il terzo comma dell’art. 348 prevede che, laddove è
pronunciata l'inammissibilità, in base alla disposizione in esame, è possibile
proporre, a norma dell'articolo 360, ricorso per cassazione contro il provvedimento
di primo grado. In tal caso il termine per il ricorso per cassazione avverso il
provvedimento di primo grado decorre dalla comunicazione o notificazione, se
anteriore, dell'ordinanza che dichiara l'inammissibilità. Si applica l'articolo 327, in
quanto compatibile. Quando l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni inerenti
alle questioni di fatto poste a base della decisione impugnata, il ricorso per
cassazione, di cui al comma precedente, può essere proposto esclusivamente per
i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 4 del primo comma dell’art. 360. La disposizione
di cui al quarto comma si applica, fuori dei casi di cui all'articolo 348bis, secondo
comma, lettera a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello
che conferma la decisione di primo grado.
(file 4) Con riferimento alla pronuncia del giudice d’appello riguardo alla richiesta di
inibitoria, è necessario notare che per l’ordinanza emanata ai sensi del primo
comma dell’art. 351, quindi in udienza, la norma non ci dice alcunché in ordine
all’impugnabilità o meno, e quindi la dovremmo ritenere soggetta al regime dei
provvedimenti cautelari perché la pronuncia sulla inibitoria è tipicamente una
misura cautelare e come tale suscettibile di essere revocata e modificata da parte
del giudice che l’ha emanata, ai sensi dell’art. 669deces. Con riferimento invece
alla ordinanza emanata a conclusione della eventuale udienza fissata in data
anteriore alla prima udienza su istanza di parte perché ricorrono gravi motivi, ci
dice la disposizione che questa ordinanza non è impugnabile. Questa diversità di
403
regime è una diversità del tutto irragionevole. C’è una evidente disparità di
trattamento tra le due ipotesi che invece riguardano lo stesso tipo di
provvedimento emanato in due momenti diversi del processo. Per questo motivo
una interpretazione costituzionalmente orientata di questa previsione porta a
disapplicare l’inciso non impugnabile contenuto in questa parte della norma.
404
Soffermiamoci un attimo anche sull’intervento del terzo in appello disciplinato
dall’Art. 344 per ricordare che il codice ammette soltanto l’intervento volontario del
terzo, quindi è escluso l’intervento coatto su istanza di parte o per ordine del
giudice. In base all’art. 344 nel giudizio d'appello è ammesso soltanto l'intervento
dei terzi che potrebbero proporre opposizione a norma dell'articolo 404. Secondo
un’opinione assolutamente pacifica possono intervenire volontariamente in appello
anche i disconsorti necessari pretermessi e il terzo successore a titolo particolare
nel diritto controverso di cui all’art. 111 del codice di procedura civile. Per quanto
riguarda i terzi che sono legittimati a proporre opposizione di terzo, si ritiene
pacificamente che possono intervenire i terzi titolari di diritti autonomi e
incompatibili, e in questo caso l’entrata nel processo del terzo comporta un
ampliamento dell’oggetto dell’appello e quindi si ha un’ulteriore deroga al principio
del doppio grado di giurisdizione, qui la scelta si ritiene comunque comprensibile
considerando che il terzo, anche se proponesse opposizione di terzo ordinaria, ai
sensi dell’art. 404 primo comma, comunque perderebbe un grado di giudizio. Poi
vi è la possibilità che esperiscano intervento i terzi legittimati all’opposizione di
terzo revocatoria, quindi i terzi titolari di diritti giuridicamente dipendenti, e in
questo caso non si pone alcun problema con riferimento a questa ipotesi perché il
terzo non propone una domanda ma entra nel processo chiedendo che il rapporto
giuridico pregiudiziale pendente fra le parti venga accertato anche nei propri
confronti. La giurisprudenza da molti anni porta avanti un orientamento in base al
quale il terzo titolare di un diritto giuridicamente dipendente può intervenire solo
facendo valere il dolo e la collusione a suo danno delle parti. Sono i presupposti
dell’opposizione di terzo revocatoria, quindi questo intervento viene ricostruito
come un’opposizione di terzo revocatoria esercitata in forma incidentale. Andiamo
ora ad esaminare le possibili invalidità che si possono verificare nel giudizio di
appello perché le scelte che sono state fatte del legislatore, ma anche in parte
dalla giurisprudenza, divergono rispetto al regime generale, previsto nel codice di
procedura civile, in particolare nel primo libro, il quale ha scelto come forma
generale di invalidità quella della nullità, che come sappiamo è attenuata da una
serie di meccanismi tesi ad eliminarla. Ricordiamo i meccanismi di convalidazione
oggettiva, soggettiva e l’ordine di rinnovazione che il giudice, rilevata una nullità
non sanata, deve disporre. I vizi che si possono verificare in appello sono vizi che
danno luogo a forme di invalidità molto rigide che non ammettono alcuna forma di
sanatoria. Questa scelta si giustifica con il fatto che nel momento in cui la
controversia arriva in appello c’è già una sentenza di primo grado e
tendenzialmente sarà una sentenza di merito e quindi il sistema ha già offerto una
risposta alla domanda di tutela, per questo motivo si giustifica l’adozione di una
disciplina diversa.
Una ulteriore ipotesi di chiusura di rito del processo di appello è la sua eventuale
estinzione. Il giudizio d’appello si piò estinguere per gli stessi motivi già previsti
con riferimento al processo di primo grado. SI può avere estinzione per rinuncia
agli atti del giudizio oppure per inattività delle parti. La dichiarazione di estinzione è
prevista nell’art. 338, in cui si legge che “fa passare in giudicato la sentenza
impugnata, salvo che ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti
pronunciati nel procedimento estinto”. La regola generale è che anche la
dichiarazione di estinzione determina il passaggio in giudicato della sentenza di
primo grado ma l’art. 338 prevede una eccezione importante. Si prevede la
possibilità che nel corso del processo d’appello, quindi prima che ne venga
dichiarata l’estinzione, il giudice abbia emanato provvedimenti che impediscono
alla sentenza di primo grado di diventare immutabile. Si tratta di chiarire a quali
ipotesi la norma fa riferimento. Si deve escludere la possibilità che il giudice abbia
già emesso sentenza definitiva perché questa preclude la possibilità che il giudizio
407
possa estinguersi. Non può trattarsi neppure di una ordinanza istruttoria, ma la
stessa ordinanza che si pronuncia sull’istanza inibitoria, ai sensi dell’art. 351,
perché all’indomani della sospensione della efficacia esecutiva o dell’esecuzione
di sentenza di primo grado in processo di appello si estingue certamente
l’ordinanza inibitoria perde la sua efficacia. I provvedimenti a cui fa riferimento l’art.
338 sono le sentenze non definitive di merito emanate dal giudice dell’appello, ma
non tutte. E’ necessario distinguere la casistica. Supponiamo che la sentenza di
primo grado fosse una sentenza di rigetto basata su una questione preliminare di
merito idonea a definire il giudizio e che il giudice ha ritenuto fondata e
supponiamo che il giudice abbia rigettato la domanda accogliendo l’eccezione di
prescrizione. Supponiamo che questa sentenza venga impugnata da parte
dell’attore e supponiamo che il giudice dell’appello con senza non definitiva
dichiari che l’eccezione di prescrizione non è fondata. Siamo di fronte ad una
sentenza non definitiva d’appello che è in grado di incidere sull’effetto della
sentenza di primo grado per cui se, all’indomani, dell’emanazione di questo
provvedimento, il processo di appello si estingue, la sentenza non definitiva, di
riforma della sentenza appellata, impedisce alla sentenza di primo grado di
passare in giudicato, perché ormai è già stata riformata. Ci sono però dei casi in
cui la sentenza non definitiva di merito non è idonea a riformare la sentenza di
primo grado, per cui, in caso di estinzione del processo di appello, si applica la
regola generale, quindi si ha il passaggio in giudicato della sentenza precedente.
Supponiamo che la sentenza di primo grado abbia accolto la domanda di
adempimento del contratto, che venga proposto appello, che in appello venga
sollevata l’eccezione di nullità del contratto e che il giudice, con sentenza non
definitiva, dichiari l’eccezione di nullità non fondata. Questa sentenza non è idonea
a riformare e modificare la sentenza impugnata, per cui, se poi si verifica
l’estinzione del processo d’appello, si avrà, in applicazione della regola generale, il
passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.
• le sentenze di merito
Cominciamo con l’esame delle sentenze di rito basate su motivi che riguardano il
giudizio d’appello. Il giudice d’appello accetta il difetto di requisiti formali o
extraformali che sono richiesti perché il procedimento d’appello possa portare alla
emanazione di una nuova decisione sul merito. Si può trattare di sentenze che
dichiarano, per es., la inammissibilità, la improcedibilità, la estinzione del giudizio
di appello, nei casi appena esaminati. Come già notato si tratta di sentenze che
non producono l’effetto sostitutivo, anzi, determinano il passaggio in giudicato
della sentenza impugnata, per cui è la sentenza di primo grado che acquisterà
l’autorità della cosa giudicata, ai sensi dell’art. 2209 del codice civile. Le altre
sentenze definitive possono essere sentenze di conferma o di riforma della
sentenza impugnata.
Passiamo ora alle sentenze di riforma. Queste possono riguardare motivi di rito
afferenti al processo o alla sentenza di primo grado oppure motivi di merito.
Cominciamo dalle sentenze di riforma basate su motivi di rito relativi al giudizio di
primo grado. Può trattarsi di motivi relativi alla giurisdizione, alla competenza
oppure ad un altro error in procedendo che si è verificato nel corso del processo di
409
primo grado. Dobbiamo fare delle distinzioni perché gli effetti di queste sentenze
possono essere molto diversi a seconda della casistica.
Anche in questo caso questo può essere il frutto di situazioni diverse, per
esempioil giudice ritiene di risolvere in maniera difforme le questioni di fatto che
sono state oggetto dei motivi di impugnazione valutando diversamente le stesse
prove o disponendo l’assunzione di nuove prove ove ammesse in base all’art 345
comma terzo. Oppure il giudice risolve diversamente la questio iuris che è stata
espressamente censurata, quindi decide di applicare alla fattispecie una diversa
norma giuridica indicata dall’appellante o indicata dal giudice sulla base del
principio iura novit curia.
Naturalmente il diverso esito di merito può esser causato anche dagli elementi di
novità introdotti nel giudizio di appello, quindi le nuove eccezioni passate
attraverso il secondo comma dell’art 345; oppure l’esame di fatti sopravvenuti,
della legge sopravvenuta; oppure a seguito della avvenuta disposizione della
rinnovazione di atti nulli compiuti nel giudizio di primo grado. Naturalmente in tutti
questi casi, la sentenza d’appello produrrà il suo pieno effetto sostitutivo.
412
Lezione 23 - 29/05/20
Il termine “ricorso per cassazione” è polivalente perché lo si usa per indicare vuoi il
mezzo di impugnazione, vuoi l’atto attraverso il quale si adisce la suprema corte.
Questo ricorso investe la corte suprema di Cassazione, organo di vertice del
sistema delle impugnazioni.
I giudici devono non solo conoscere la legge così come formalmente espressa, ma
devono anche tenere conto dell’interpretazione giudiziaria che della legge viene
offerta, della cd giurisprudenza. In questo senso si dice che la corte di cassazione
regola la giurisprudenza. Si capisce allora il motivo per cui si è soliti ritenere che,
mentre l’appello svolge una funzione di garanzia soggettiva perché il cittadino può
denunciare al giudice d’appello qualsiasi forma di ingiustizia e di invalidità della
sentenza di primo grado; la funzione svolta dal ricorso per cassazione è diversa
perché la funzione primaria svolta dal ricorso per cassazione è una funzione di
garanzia oggettiva, lo scopo del ricorso per cassazione risponde a un interesse
generale: è l’interesse di unificare la giurisprudenza, anche se la funzione di
garanzia soggettiva non le è estranea perché il ricorso per cassazione come regola
generale, viene proposto dalla parte rimasta soccombente ad esito del giudizio di
appello.
413
Lo scopo della corte di cassazione è proprio quello di evitare tutto ciò, ecco
perché si dice che la sua sia una funzione oggettiva diretta a dare attuazione a un
principio costituzionale: l’uguaglianza dei cittadini.
La sentenza della corte di cassazione peraltro vincola il giudice del processo al cui
interno è stata resa, vedremo che talvolta è la stessa cassazione che chiude il
processo, talvolta non lo può fare perché a seguito dell’accoglimento del ricorso si
rendono necessarie attività istruttorie che la corte non può compiere e quindi
dovrà delegarle a un altro giudice, e i giudici del processo al cui interno è stato
presentato il ricorso per cassazione sono vincolati al dictum della corte, al
provvedimento della corte.
Vediamo quali sono le disposizioni previste dalla legge che confermano questa
funzione di garanzia oggettiva svolta dalla corte di cassazione che la distingue
dagli altri mezzi di impugnazione. Intanto l’art. 70 comma 2 cpc prevede l’obbligo
intervento del pubblico ministero nel processo davanti alla corte di cassazione. Il
pm è un magistrato che porta l’interesse pubblico nel processo necessariamente
prende parte al processo di cassazione in tutti i casi.
E’ evidente dal primo comma che il ricorso presentato nell’interesse della legge è
un ricorso di cui le parti non possono giovarsi perché si fa riferimento a ipotesi in
cui il ricorso per cassazione non è proponibile o non è più proponibile dalle parti.
Le ipotesi peraltro sono state ampliate a seguito della riforma del 2006 che ha
allargato l’ambito applicativo di questo istituto che si ritiene possa svolgere una
funzione importante. Infatti questo ricorso può essere proposto quando le parti
ormai hanno fatto decorrere i termini per proporre ricorso per cassazione o vi
hanno rinunciato oppure quando il provvedimento non è ricopribile per cassazione
e non è altrimenti impugnabile. si tratta di un’iniziativa di cui le parti non possono
giovarsi. Questo istituto è volto a soddisfare un interesse pubblico perché lo scopo
è che la corte di cassazione enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al
quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi. Lo scopo dunque è quello di
eliminare una possibile non corretta interpretazione della legge, nel far emergere
un precedente della corte che possa guidare la giurisprudenza successivamente.
414
La prima condizione affinché la suprema corte possa assolvere alla sua funzione è
che il numero dei collegi giudicante e giudici sia ridotto al minimo. Il modello che
possiamo richiamare è quello della Corte Suprema degli Stati Uniti che assomiglia
alla nostra corte costituzionale quindi un collegio ristretto che giudica sempre nella
stessa composizione —> questa sarebbe la condizione per eccellenza per
assicurare la funzione nomofilattica perché questo assicurerebbe continuità nella
giurisprudenza della Corte di cassazione. Così non è: i giudici addetti alla corte di
cassazione nelle sezioni civili sono più di 150, i collegi sono numerosi e sappiamo
che anche la giurisprudenza della cassazione non è così lineare.
Oltre all’art. 111 cost. ci sono una serie di ipotesi in cui la sentenza di primo grado
è definita dalla legge come “non impugnabile” -> questo è un grande problema
perché i provvedimenti che non possono essere impugnati in appello vengono
impugnati davanti alla corte di cassazione. La funzione svolta dall’appello è quella
di filtro davanti alla Cassazione, è nell’appello che il cittadino dà sfogo alle proprie
esigenze di garanzia soggettiva, quindi se si trova privato dell’appello, ovviamente
questo sfogo avviene davanti alla corte suprema. Anche se taluno vorrebbe abolire
l’appello considerato anello debole della sistema della giustizia civile, abolire
l’appello vuol dire paralizzare la corte di cassazione perché il numero di ricorsi
aumenterebbe a dismisura.
Un altro elemento che non aiuta a diminuire il numero di ricorsi per cassazione è
l’inabilità della corte ad assicurare orientamenti continuativi. Spesso le diverse
sezioni della corte di cassazione si contraddicono, si pronunciano in maniera
opposta con riferimento alla medesima questione e questo rappresenta un
incentivo a proporre ricorso per cassazione perché, anche anche a fronte di un
orientamento che è sfavorevole, la parte si spera sempre che il proprio affare
415
venga attribuito una sezione che disattenda il precedente orientamento.
La crisi della corte di cassazione è fonte di ulteriori crisi, quindi c’è un circolo
vizioso presso la corte di cassazione.
A fronte di questo quadro la soluzione della profonda crisi in cui versa il ricorso per
cassazione è strettamente legato alla possibilità di introdurre dei meccanismi di
selezione dei ricorsi, quindi dando alla corte la possibilità di pronunciarsi solo
laddove la questione posta è una questione di interesse generale. L’ostacolo a
questa possibilità è rappresentato dal disposto dell’art. 111 cost. che al 7 comma
prevede la garanzia del ricorso per cassazione contro tutti i provvedimenti resi in
forma di sentenza.
Sono varie. Innanzitutto il gran numero di provvedimenti che possono essere
impugnati in cassazione e dall’altro lato è la stessa giurisprudenza che incentiva la
proposizione del ricorso.
Andiamo a vedere prima gli ultimi due motivi e poi i provvedimenti suscettibili di
ricorso.
416
cassazione è un lavoro completamente diverso che proporre una impugnazione
davanti al giudice, ma su questo torneremo.
Accanto al ricorso ordinario per cassazione c’è anche il ricorso straordinario per
cassazione che è un rimedio che passa attraverso la previsione dell’art. 111
comma 7 a seguito della riforma del 1999 che ha integrato il contenuto dell’art.
111 con tutte le garanzie che abbiamo esaminato. Ovvero la parte dell’art 111 che
stabilisce che “Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale,
pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso
ricorso in Cassazione per violazione di legge.”
In questa sua veste la corte di cassazione si occupò dell’art. 111 e si trovò nella
condizione di dover chiarire il termine “sentenza” qua utilizzato. La corte subito
aderì a un’interpretazione di tipo sostanziale, affermando cioè che per sentenza
deve intendersi non un provvedimento reso in forma di sentenza (che reca
l’intestazione sentenza), ma qualsiasi provvedimento che a prescindere dal sua
forma ha il contenuto di sentenza, ovvero è relativo a situazioni di diritto ed ha
l’attitudine ad acquistare la qualità di cosa giudicata formale e sostanziale.
417
provvedimento una forma diversa dalla sentenza, avrebbe facilmente potuto
bypassare il controllo in cassazione. Quindi la soluzione era corretta, anche se, a
detta di molti, la corte di cassazione aveva in un certo senso abusato di questo
principio, era stata larga nel definirne l'ambito applicativo poiché vi aveva
compreso una serie di provvedimenti rilasciati a conclusione di procedimenti che
si erano volti in forme sommarie, che avevano la forma dell’ordinanza e del
decreto e che, in base alla legge, avrebbero dovuto avere semplicemente efficacia
esecutiva, quindi avrebbero dovuto essere considerati come provvedimenti privi di
attitudine al giudicato. Invece, in quel momento, però prevalse l’orientamento
secondo cui, trattandosi di provvedimenti relativi a situazioni di diritto, doveva
essere garantito la suscettibilità del provvedimento di acquistare l’autorità di cosa
giudicata e, di conseguenza, il ricorso per cassazione. Quindi su questa
operazione parte della dottrina non era d’accordo.
Questa prassi deve essere valutata in maniera negativa perché così la corte di
cassazione ha privato la corte cost. della possibilità di esaminare le singole
disposizione di legge ordinaria che, ad avviso della corte di cassazione,
escludevano il ricorso per cassazione per violazione di legge con riferimento a
418
provvedimenti decisori e definitivi e che, in quanto tale, dovevano essere ritenute
costituzionalmente illegittime.
Così non è nell’ambito del processo civile perché qui l’esecutività della sentenza è
sempre stata sganciata dal passaggio in giudicato della stessa. Anche prima della
riforma del ’90 la legge stabiliva che era la sentenza di appello ad essere
provvisoriamente esecutiva, quindi era un momento necessariamente anteriore al
passaggio in giudicato della sentenza. Ora poi dal 1990 sappiamo che, a mente di
quanto previsto dall’art. 282 cpc è addirittura la sentenza di primo grado che
nasce provvisoriamente esecutiva. Quindi nell’ambito del processo civile il ricorso
per cassazione svolge una funzione di garanzia oggettiva, cioè svolge una
funzione di garanzia nell’interesse pubblico alla eliminazione di un’interpretazione
inesatta della legge.
419
Questa scelta crea dei grandi problemi. Dobbiamo infatti ricordare che se per un
lungo periodo di tempo, e ci riferiamo in particolare al rapporto tra giudice
ordinario e amministrativo, le due giurisdizioni erano tendenzialmente separate nel
senso che, mentre il giudice civile era chiamato a trattare la controversie che
opponevano il privato alla pubblica amministrazione e che mettevano in gioco
posizioni di diritto soggettivo pertanto applicando il codice civile e le leggi civili, il
giudice amministrativo era chiamato a trattare le controversie che vedevano
opposto il cittadino alla PA laddove il cittadino si faceva portatore di situazioni di
interesse legittimo e quindi il giudice amministrativo applicava le leggi
amministrative che regolano il potere della pubblica amm. Nell’ultimi decennio del
XX sec. ci sono stati dei grandissimi cambiamenti perché il legislatore ha
progressivamente aumentato gli ambiti della cd giurisdizione esclusiva, quelle
materie in cui il giudice amm. si vede affidato in via esclusiva il contenzioso che
può sorgere tra cittadino e pubblica amm., a prescindere dal se sono in gioco
posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo, controversie che interessano
rapporti spesso regolati dal codice civile.
SECONDA PARTE
Abbiamo già anticipato che dall'entrata in vigore della costituzione fino al 1956,
anno in cui entrò in funzione la Corte Costituzionale, la corte di Cassazione aveva
svolto non soltanto la funzione di nomofilachia ma anche il controllo di
costituzionalità della legge sulla falsariga di quanto già accadeva per le corti
supreme di altri ordinamenti. In questo periodo storico, si ha nell'ordinamento, una
forma di controllo di costituzionalità diffuso fra i giudici comuni, quindi la corte di
Cassazione si trovò a svolgere un ruolo simile a quello per es svolto dalla corte
federale statunitense. Quando entrò in funzione la corte costituzionale, la
situazione cambiò, perché i due organi di vertice avrebbero dovuto svolgere
funzioni diverse: l'una l'assicurare l'esatta ed uniforme interpretazione del diritto;
l'altro il controllo di costituzionalità.
Questo riparto di funzioni può rivelarsi meno netto di quanto si possa immaginare.
420
Abbiamo già menzionato il principio della applicazione diretta delle norme
costituzionali da parte del giudice. Il giudice è chiamato oggi a giudicare non
soltanto sulla non manifesta infondatezza delle questioni di costituzionalità orma di
sollevare il conflitto davanti alla corte costituzionale, ma spesso è chiamato in
sede di interpretazione di una norma di legge ad offrire una interpretazione in via
adeguatrice col dettato costituzionale, evitando l'intervento della corte. Da parte
sua, la Corte Costituzionale, interpreta le norme di legge sottoposte al suo
controllo, quindi, laddove svolge una funzione interpretativa (pensate alle sentenze
interpretative emanate dalla corte cost) invade il campo che l'art 65 ord giudiz
attribuisce in via esclusiva alla Cassazione. Questo problema di riparto dei compiti
assegnati alle due corti supreme si è delineato: mentre alla corte di Cassazione
spetta il compito di individuare l'esatta interpretazione della legge; alla Corte Cost
spetta il controllo di ciò che la legge, così come interpretata dal giudice ordinario,
sia conforme alla Costituzione. Ciò che la corte Cost dovrebbe controllare è il
diritto vivente consolidatosi sulla base dei diversi interventi della Cassazione.
421
nel merito). Questa è la norma che ci consente di stabilire che oggi il ricorso per
cassazione è un mezzo di impugnazione che ha ad oggetto il rapporto giuridico
controverso, seppur nei limiti in cui gli viene devoluto delle parti, poiché il
meccanismo dell'acquiescenza tacita qualificata art 329 c. 2 opera anche nel
passaggio dall'appello al ricorso per cassazione.
Ci sono però delle particolarità, perché il giudizio di cassazione si apre sempre con
una fase RESCINDENTE, in cui la corte valuta la fondatezza del motivo o dei
motivi di ricorso e, laddove il motivo sia ritenuto fondato, annulla (cassa) la
sentenza impugnata e, se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, si
pronuncia sul merito.
Si apre così la FASE RESCISSORIA → non sempre si svolge davanti alla corte di
cassazione poiché, se sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la corte
rinvierà la causa al giudice del rinvio, che non è altro che un giudice delegato dalla
corte di cassazione che svolge le attività necessarie ai fini della pronuncia sul
merito della controversia, e che la corte stessa non può svolgere per motivi
istituzionali (es attività istruttoria).
n.1 → le sentenze richiamate possono essere impugnate con ricorso davanti alla
Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione. Questo n.1 art 360 va inteso
come un richiamo alle questioni di giurisdizione di cui all'art 37 cpc nonché alle
disposizioni contenute nella legge di riforma del diritto internazionale privato e
422
processuale del 1995. quindi le questioni che possono essere denunciate ex n.1
sono:
Sono le uniche ipotesi che passano attraverso il n.1. Nella prassi accade però che
altri vizi vengano denunciati attraverso sempre questo n.1: per esempio il principio
di corrispondenza fra chiesto e pronunciato; la violazione del principio della
domanda; la violazione del precedente giudicato sostanziale. Queste non sono
questioni di giurisdizione, possono sicuramente essere portate davanti alla
Cassazione, ma attraverso del n.4. Il motivo per cui si fanno passare per il n. 1 è
infatti il tentativo di applicare a queste fattispecie gli altri istituti che l'ordinamento
prevede per le questioni di giurisdizione, cioè il regolamento di giurisdizione di
cui all'art 41, ma anche l'esigenza di estendere l'ambito del controllo della
Cassazione nei confronti delle decisioni emesse dal consiglio di stato e dalla corte
dei conti che ex art 111 c.8 cost, possono essere impugnati in Cassazione solo
per motivi attinenti alla giurisdizione.
Per quanto riguarda il contenuto dei provvedimenti che la corte adotta nel caso
in cui venga proposto ricorso ai sensi del n.1 e venga accolto il ricorso, l'art 382 c.
1 stabilisce che “la corte, quando decide una questione di giurisdizione, statuisce
su questa, determinando quando occorre il giudice competente”, e questa hp si
applicherà con riferimento al rapporto fra giudice ordinario e giudici speciali. Il c.3
art 382 prevede che : “se riconosce che il giudice del quale si impugna il
provvedimento e ogni altro difettano di giurisdizione, cassa senza rinvio”. È l'hp che
si applica negli altri 2 casi in cui la corte accerta il difetto di giurisdizione del
giudice ordinario nei confronti della PA, cioè i casi in cui viene accertato che il
cittadino ha fatto valere nei confronti della PA una situazione di mero fatto; oppure
laddove accerta il difetto della giurisdizione italiana.
Per capire meglio le situazioni che si possono prospettare davanti alla corte e i
provvedimenti che la stessa è chiamata ad emanare, occorre distinguere: i casi in
423
cui viene proposto ricorso in cassazione contro una sentenza che, previo
accertamento della giurisdizione, si è pronunciata sul merito; da quelli in cui viene
impugnata la sentenza declinatoria di giurisdizione, quella in cui il giudice si è
dichiarato non fornito di giurisdizione e pertanto non ha deciso il merito.
Se invece il ricorso per difetto di giurisdizione del giudice civile nei confronti del
giudice speciale o viceversa viene accolto, si applica l'art 382 c.1: la corte
suprema statuisce sulla giurisdizione, così come previsto anche dall'art 65 dell'ord
giudiziario nella parte in cui assegna alla Cassazione il compito di assicurare il
rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni. La Cassazione cassa la sentenza e
indica il giudice fornito di giurisdizione, e questo accertamento è vincolante nei
confronti di ogni giudice di fronte a cui viene riproposta la stessa domanda.
Se invece viene accolto il ricorso per la sentenza per il cui tramite il giudice ha
declinato la propria giurisdizione, quindi non ha deciso il merito, se la corte
accoglie il ricorso, accerta la giurisdizione del giudice civile. Se viene impugnata la
sentenza d'appello e la corte accoglie il ricorso, questa dovrà cassare la sentenza
impugnata e dovrà rinviare:
Il ricorso per Cassazione è invece soggetto al termine di 60gg ai sensi dell'art 325
c.2 laddove la sentenza sia stata notificata o 6 mesi laddove non sia stata
notificata, per cui i 6 mesi decorrono dalla pubblicazione della sentenza
impugnata.
Attraverso ricorso per Cassazione ai sensi del n.2 può essere impugnata per
motivi di competenza, la sentenza che si pronuncia sia sulla competenza che sul
merito. Ove la corte accolga il ricorso, si applica l'art 382 c.2 in cui si legge che:
“quando cassa per violazione delle norme sulla competenza, statuisce su questa”.
La corte quindi indicherà sempre, laddove accolga il ricorso in questo caso, il
giudice competente e, come già ricordato parlando della disciplina della
competenza, questo accertamento è vincolante non soltanto per il giudice
designato dalla corte come insignito di competenza, ma anche per tutti gli altri
giudici dell'ordinamento.
La causa potrà essere riassunta davanti a questo giudice entro 6 mesi dalla
comunicazione della sentenza e in questo caso, il processo proseguirà davanti a
nuovo giudice facendo salvi gli effetti sostanziali e processuali della prima
domanda. Questa statuizione, alla stregua di quanto visto per la pronuncia sulla
giurisdizione, è destinato a sopravvivere in hp di estinzione del processo ex art 310
ed esplicherà la propria efficacia vincolante anche nel secondo eventuale
processo “riproposto” tra le stesse parti.
Quali sono i provvedimenti che la corte emana laddove venga accolto il ricorso
presentato ai sensi del n.3 art 360?
La norma principale è l'art 384 laddove si dice che “la corte quando accoglie il
ricorso, cassa la sentenza e decide la causa nel merito qualora non siano necessari
ulteriori accertamenti di fatto”. Solo in via subordinata si può ritenere applicabile il
disposto dell'art 383 c. 1, laddove si legge che :”se la corte accoglie il ricorso per
motivi diversi da quelli richiamati nell'art precedente, rinvia la causa ad altro giudice
di grado pari a quello che ha emanato la sentenza cassata”.
L'art 384 c.2 seconda parte è frutto della novella del 1990. Come già anticipato,
questa è la disposizione che secondo l'interpretazione preferibile ha segnato e
segna oggi la reale fisionomia del ricorso per cassazione, cioè ci consente di
affermare che il ricorso per cassazione è un mezzo di impugnazione avente ad
426
oggetto il rapporto giuridico ancora controverso fra le parti. Quella espressione
”decide la causa nel merito” va intesa nel senso che la corte DEVE decidere la
causa nel merito. In queste hp la corte, che accoglie il ricorso, non si limita a
cassare la sentenza, ma pronuncia lei stessa sul merito, quindi la sentenza della
corte non ha un contenuto meramente rescindente, ma anche rescissorio perché
contiene la lex specialis, cioè l'accertamento dell'esistenza e del modo d'essere
del rapporto giuridico nei limiti in cui è ancora controverso fra le parti. È la
sentenza di cassazione quindi che contiene l'accertamento destinato ad
acquistare l'autorità della cosa giudicata.
· Certamente l'hp in cui il giudice del merito abbia dichiarato l'esistenza o non
esistenza del diritto fatto valere in giudizio sulla base di ragioni
alternativamente concorrenti → es riconosce il diritto ad ottenere il
risarcimento del danno per responsabilità extracontrattuale ex artt sia 2019
sia 2050, proposto il ricorso in cassazione, che dovrà ovviamente contenere
entrambi i motivi a pena di inammissibilità, la corte, se ritiene che l'art 20150
non sia applicabile rigetta il ricorso correggendo la motivazione. Lo stesso
vale laddove per esempio il giudice del merito abbia chiuso il processo col
rigetto della domanda sulla base della prescrizione sia breve che ordinaria e
la corte, proposto ricorso per Cassazione con riferimento ad entrambe le
prescrizioni, la corte ritenga non applicabile alla fattispecie la sola
prescrizione breve. Anche in questa hp la corte rigetta il ricorso correggendo
la motivazione del provvedimento.
427
motivazione allorquando, nel passaggio dall'una all'altra norma non si rende
necessario allegare e provare fatti giuridici ulteriori rispetto a quelli già
allegati e provati, in base ai quali è stato reso il provvedimento impugnato.
Come già detto altre volte, l'art 101 c.2 secondo cui “il giudice è soggetto solo alla
legge”, crea un rapporto immediato e diretto fra ciascun giudice e la norma
generale ed astratta; inoltre la Corte di Cassazione, anche a causa del numero
elevatissimo di ricorsi annualmente presentati, spesso contraddice se stessa,
quindi sulla stessa questione troviamo sentenze (magari provenienti dalle diverse
sezioni) che si contraddicono l'una con l'altra. A ciò si può aggiungere che spesso
sono le stesse sezioni unite della Cassazione a contraddirsi a distanza di anni, e
428
ciò incide negativamente sulla efficacia persuasiva e didattica che le pronunce
della Cassazione dovrebbero avere.
429
Lezione 24 - 29/05/20
Andiamo adesso ad analizzare il motivo di cui al numero 4 dell’articolo 360, ovvero
il ricorso presentato per nullità della sentenza o del procedimento. Attraverso il
ricorso per Cassazione presentato ai sensi del numero 4 dell’articolo 360, vengono
denunciati errores in procedendo, cioè viene denunciata la violazione delle norme
processuali, da intendere in senso ampio. Non soltanto perché, come si evince dal
testo, si fa riferimento a nullità vuoi della sentenza come provvedimento vuoi a
nullità che si sono verificate nel corso del procedimento e poi in virtù del principio
di estensione della nullità agli atti successivi e dipendenti si sono riverberate nella
sentenza finale. Ma anche perché attraverso questo numero quattro è possibile
denunciare vizi relativi al difetto di forma contenuto quindi nullità formali, ma è
possibile anche denunciare nullità che derivano da un difetto di requisito
extraformale, diversi dalla giurisdizione e competenza, perché questi possono
essere fatti valere attraverso i motivi di cui al numero 1 e al numero 2. Com’ è che
un vizio di tipo formale (intendo formale in senso ampio) può essere denunciato in
Cassazione? Occorre ricordarsi tutto quanto ci siamo detti nel tempo in ordine alla
disciplina dei singoli vizi e ai meccanismi che sovraintendono il passaggio dal
giudice a quo al giudice ad quem. In questo senso se ad esempio viene
denunciato un vizio che è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del
processo (ad esempio difetto di legittimazione ad agire, difetto di interesse ad
agire) in tanto il vizio potrà essere dedotto in Cassazione, in quanto questo vizio,
se è stato trattato e deciso dai giudici precedenti, sia stato mantenuto aperto dalle
parti. Quindi le parti abbiano avuto cura di denunciarlo espressamente. Se il vizio
si è verificato in primo grado deve essere stato denunciato sia al giudice d’appello
sia portato poi di fronte alla Corte di Cassazione. Se invece è stato trattato e
deciso solo dal giudice di secondo grado dovrà essere stato messo ad oggetto di
un motivo di impugnazione. Se si tratta di un vizio rilevabile in ogni stato e grado
del processo che non è stato mai rilevato nei precedenti gradi di giudizio, si
ammette che possa essere rilevato anche d’ufficio da parte della Corte di
Cassazione e indipendentemente da che sia stato messo ad oggetto di uno
specifico motivo di ricorso. Se si tratta di un vizio che non è rilevabile d’ufficio
allora, affinché il vizio possa essere denunciato in Cassazione è necessario che la
parte interessata lo abbia tempestivamente rilevato (secondo la disciplina prevista
a seconda del vizio) e che questa stessa parte, se si è verificato in primo grado, lo
abbia posto ad oggetto di un motivo di impugnazione di fronte al giudice
dell’appello e poi lo abbia denunciato di fronte alla Corte di Cassazione.
Quali sono le sentenze che può emanare la Cassazione che accoglie il ricorso
presentato ai sensi del numero 4 dell’art 360? Possiamo distinguere tre diversi
casi. Abbiamo ipotesi in cui la Corte di Cassazione emanerà una sentenza di
cassazione senza rinvio. Abbiamo ipotesi in cui la Corte di Cassazione emanerà
sentenza di cassazione con rinvio. Probabilmente c’è anche lo spazio, ma si tratta
di ipotesi residuali, in cui a seguito dell’accoglimento del ricorso presentato ai
sensi del numero 4 dell’art 360 potrà essere la Corte di Cassazione a emanare la
decisione sul merito. Questa possibilità non è esclusa stante il testo dell’articolo
430
384, ma probabilmente in queste ipotesi possiamo immaginare che lo spazio,
perché la Corte intervenga, sia più ridotto rispetto alle altre ipotesi.
SECONDA PARTE
- la condizione che per la decisione del merito non siano necessari ulteriori
accertamenti di fatto
Come può essere spiegata questa condizione? In quali situazioni si può dire
realizzata la seconda condizione? Sul piano astratto sono due le possibilità:
1. si può pensare alle ipotesi in cui tutti i fatti giuridicamente rilevanti ai fini
dell’accertamento di esistenza o non esistenza del rapporto giuridico
controverso siano già stati accertati nella sentenza impugnata per cui non
rimane altro che applicare il principio di diritto alla fattispecie concreta già
ricostruita dal giudice a quo;
Quali sono le ipotesi in cui questo si può verificare? Possiamo sicuramente rilevare
che la decisione di merito da parte della Corte si può avere solo a seguito
dell’accoglimento del ricorso presentato nei casi di cui ai nn.1, 2, 3 e 4,
certamente non laddove è stato accolto un ricorso presentato ai sensi del n.5
perché questo riguarda le ipotesi in cui vi è stato un omesso esame di un fatto
decisivo per il giudizio. Cerchiamo di fare qualche esempio per capire esattamente
i casi ai quali si fa riferimento.
Il caso più semplice è quello in cui viene impugnata in Cassazione una sentenza
che ha accolto una domanda, quindi una sentenza in cui è stata dichiarata
l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio quindi il giudice ha accertato
l’esistenza di tutti i fatti costitutivi e la non esistenza dei fatti modificativi, estintivi e
impeditivi. Proposto ricorso per Cassazione ai sensi del n.3 dell’art.360 viene
censurata la decisione in iure in ordine all’esistenza di uno dei fatti costitutivi o con
riferimento alla non esistenza di un fatto modificativo, estintivo, impeditivo, se la
Corte ritiene che la censura è fondata appare chiaro che avrà sicuramente la
437
possibilità di decidere la causa nel merito perché sappiamo che la decisione, che
in questo caso sarà una decisione di rigetto della domanda, una decisione che
accerta la non esistenza del diritto, può basarsi anche sull’accertamento di non
esistenza di uno dei fatti costitutivi o sull’accertamento di esistenza di un fatto
modificativo, estintivo o impeditivo. Invece qualora il giudice abbia accertato
l’inesistenza del diritto nella circostanza che il ricorso venga accolto, laddove
venga ancora una volta censurata la decisione in iure svolta dal giudice
precedente, è molto più difficile immaginare che ci possa essere lo spazio per una
decisione nel merito da parte della Corte perché la dichiarazione di esistenza di un
fatto costitutivo o la dichiarazione di non esistenza di un fatto modificativo,
estintivo o impeditivo fa riemergere l’esigenza di accertare l’esistenza o non
esistenza di tutti gli altri fatti rilevanti e controversi che verosimilmente saranno
stati dichiarati assorbiti nella sentenza cassata-> per esempio se il giudice
precedente aveva rigettato la domanda di adempimento per prescrizione e quindi
ha dichiarato l’assorbimento di tutte le altre eccezioni sollevate da parte del
convenuto è chiaro che accolto il ricorso per Cassazione i fatti assorbiti tornano ad
essere rilevanti e quindi dovranno essere accertati e siccome questa attività non
può essere compiuta dalla Corte di cassazione appare chiaro che in questa ipotesi
e in ipotesi simili la Corte non potrà decidere il merito della causa ma dovrà
rimetterla davanti al giudice del rinvio. Abbiamo visto precedentemente che anche
in ipotesi di accoglimento del ricorso presentato ai sensi del n.4 dell’art.360 si può
intravedere lo spazio per una pronuncia sul merito da parte della Corte di
cassazione.
In base all’art.391-ter il provvedimento con cui la Corte decide la causa nel merito
è impugnabile per revocazione ed è impugnabile per opposizione di terzo ai
sensi dell’art.404. Questi due rimedi dovranno essere proposti davanti alla stessa
Corte di cassazione la quale, laddove accolga l’impugnazione pronunciando
quindi la revocazione o accogliendo l’opposizione di terzo, se non sono necessari
ulteriori accertamenti di fatto deciderà la causa nel merito altrimenti, pronunciata la
revocazione o accolta l’opposizione, rinvierà la causa al giudice che ha
pronunciato la sentenza che precedentemente era stata cassata.
438
- l’indicazione al n.4 dei motivi per i quali si chiede la cassazione;
- l’esposizione sommaria dei fatti della causa, requisito di cui al n.3 dell’art.366;
Nel 2009 è stato abrogato l’art.366-bis che era stato introdotto dal legislatore nel
2006 e che poneva a carico del ricorrente nelle ipotesi di motivi presentati in base
ai nn.1, 2, 3 e 4 dell’art.360 l’onere di concludere a pena di inammissibilità con la
formulazione di un quesito di diritto che consenta alla Corte di enunciare un
corrispondente principio di diritto e con riferimento al ricorso presentato ai sensi
del n.5 richiedeva l’illustrazione di ciascun motivo e l’obbligo che lo stesso motivo
contenesse a pena di inammissibilità la chiara indicazione del fatto controverso in
relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le
ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a
giustificare la decisione. Questa previsione era stata introdotta all’evidente scopo
di munire la Corte di cassazione di uno strumento che le consentisse di eliminare
un numero molto elevato di ricorsi ma era stata usata in maniera formalistica: era
stata usata dalla Corte di cassazione per bloccare la maggior parte dei ricorsi
presentati, era una sorta di grossa trappola in cui cadevano facilmente gli avvocati
anche perché vi ho già detto che la legge professionale italiana consente a tutti gli
avvocati, dopo aver maturato un certo numero di anni di esercizio della
professione, di iscriversi all’albo degli avvocati che possono esercitare davanti alle
c.d. giurisdizioni superiori; la verità però è che molti si improvvisano cassazionisti,
quindi anche l’ultimo avvocato di una città di provincia si improvvisa cassazionista
e non esita a presentare un ricorso. Non è un caso che in altri ordinamenti il
numero dei cassazionisti è molto ridotto, vi ho parlato della situazione francese e
di quella tedesca, fare il cassazionista significa fare un lavoro completamente
diverso rispetto a quello svolto come avvocato davanti alle giurisdizioni di merito
ma è una differenza che viene del tutto sottovalutata in Italia e molti avvocati che si
sono improvvisati cassazionisti hanno inciampato nel c.d. quesito di diritto e si
sono quindi visti rigettare come inammissibili anche ricorsi che erano del tutto
fondati. Il legislatore quindi nel 2009, molto opportunamente, è intervenuto e ha
eliminato l’art.366-bis.
Come vedete l’art.366 è molto chiaro nello stabilire che i requisiti di forma-
contenuto indicati devono essere presenti a pena di inammissibilità del
ricorso stesso. Se poi andiamo avanti nella lettura delle disposizioni relative allo
svolgimento del procedimento per Cassazione e torniamo all’art.369 vedete che
non soltanto il ricorrente deve depositare nella cancelleria della Corte a pena di
improcedibilità nel termine di giorni 20 dall’ultima notificazione alle parti
contro le quali è proposto il ricorso ma prevede anche che con il ricorso
debbano essere depositati ancora una volta a pena di improcedibilità:
1. il decreto di concessione del gratuito patrocinio (questo è eventuale)
2. copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la
relazione di notificazione
3. la procura speciale se questa è conferita con atto separato
439
4. gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il
ricorso si fonda
si prevede inoltre che il ricorrente debba chiedere alla cancelleria del giudice che
ha pronunciato la sentenza impugnata o del quale si contesta la giurisdizione la
trasmissione alla cancelleria della Corte di cassazione del fascicolo d’ufficio e tale
richiesta è restituita dalla cancelleria al richiedente munita di visto e deve essere
depositata insieme col ricorso. Come vedete la disciplina è formale, molto rigida,
perché se il ricorso viene dichiarato inammissibile o improcedibile l’art.387 ci dice,
in maniera moto chiara, che non può essere riproposto anche se non è scaduto il
termine fissato dalla legge. Si tratta quindi di una sanzione molto severa che
risponde un po’ a quella line anche abbiamo evidenziato precedentemente per cui
il legislatore, avuto riguardo ai gradi di impugnazione, ha previsto discipline molto
più rigide rispetto alla disciplina della nullità che è quella generale disciplinata negli
artt.156 ss., disciplina con riferimento alla quale sono previsti molti meccanismi di
sanatoria. Il pensiero che guida il legislatore è che in fondo se si arriva davanti al
giudice dell’impugnazione significa che c’è già un precedente provvedimento, c’è
un provvedimento che ha già pronunciato sulla controversia, e questo secondo il
legislatore giustifica l’adozione di forme più pesanti di invalidità.
La parte intimata, quindi quella contro cui è stato proposto il ricorso (che vedete a
differenza di quanto abbiamo visto per i procedimenti di primo grado introdotti con
ricorso viene prima notificato al destinatario e poi depositato), può costituirsi nel
giudizio di cassazione e lo deve fare notificando un controricorso. L’art.370
prevede infatti che la parte contro la quale il ricorso è diretto se deve contraddire
deve farlo mediante controricorso che dovrà essere notificato al ricorrente entro 20
gg dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso, in mancanza di
tale notificazione essa non può presentare memorie ma soltanto partecipare alla
discussione orale. in base all’ultimo comma dell’art.370 il controricorso è
depositato nella cancelleria della Corte entro 20 gg dalla notificazione insieme con
gli atti e i documenti e con la procura speciale se conferita con atto separato. Il
controricorso è un atto che ha uno scopo meramente difensivo quindi in esso
l’intimato per esempio farà valere eventuali cause di inammissibilità o di
improcedibilità del ricorso, cercherà di contrastare la fondatezza delle censure
mosse dal ricorrente, tuttavia in ipotesi di soccombenza ripartita, quindi di
soccombenza parziale, potrà a sua volta proporre domanda di accertamento
incidentale, il c.d. ricorso incidentale, che si collega alla previsione degli artt.333 e
334 c.p.c. Contro l’eventuale ricorso incidentale il ricorrente principale potrà
resistere notificando a sua volta un controricorso. Nell’ambito del ricorso
incidentale dobbiamo sicuramente fare menzione di un istituto che non troviamo
disciplinato espressamente nel Codice di procedura civile ma che diciamo è stato
creato dall’elaborazione della giurisprudenza ed è il ricorso incidentale
condizionato all’accoglimento del ricorso principale: si tratta dello strumento
per il cui tramite si consente alla parte che è rimasta teoricamente soccombente
su una questione pregiudiziale di rito o premiare di merito di provocare il riesame
440
della questione stessa, risolta in senso a lei sfavorevole, da parte della Corte. Sono
situazioni che ci sono familiari perché ne abbiamo parlato a proposito dell’appello:
se il giudice dell’appello ha respinto la domanda di adempimento del contratto
ritenendo il contratto nullo ma ha altresì rigettato l’eccezione di prescrizione
sollevata dal convento quest’ultimo è parte vittoriosa nel merito ma è rimasto
teoricamente soccombente sulla questione di prescrizione. Secondo la
giurisprudenza una volta che è stato proposto ricorso per Cassazione dalla parte
che è rimasta praticamente soccombente, che nell’esempio appena fatto è
l’attore, se il ricorso viene accolto e quindi viene cassata la sentenza impugnata la
controparte che è praticamente vittoriosa ma è rimasta tonicamente soccombente
sulla questione di prescrizione ha interessa a mantenere aperta la questione di
prescrizione in modo che eventualmente ne possa conoscere il giudice del rinvio e
la giurisprudenza ha affermato, ormai da decenni, che affinché questa questione
possa rimanere aperta è onere della parte interessata proporre impugnazione
incidentale condizionata, condizionata all’accoglimento del ricorso principale. Il
ricorso incidentale serve quindi al soccombente teorico per mantenere aperta la
questione su cui è rimasto teoricamente soccombente, si tratta dello stesso
fenomeno che abbiamo analizzato relativamente all’appello e con riferimento al
quale abbiamo detto che recentemente le Sezioni Unite hanno affermato il
principio secondo cui anche davanti all’appello è necessario proporre un
impugnazione incidentale. Un’ultima precisazione con riferimento al ricorso
incidentale condizionato. Abbiamo detto che la prassi giurisprudenziale ha creato
questo istituto con riferimento alle questioni che sono state rigettate e quindi
risolte in senso sfavorevole alla parte intimata risultata praticamente vittoriosa.
Non ho parlato delle questioni rimaste assorbite cioè non ho parlato di quelle
questioni su cui il giudice del merito legittimamente non si è pronunciato.
L’orientamento tradizionale è sempre stato nel senso di ritenere che queste
questioni potessero essere ripresentate direttamente davanti al giudice del rinvio
ma questo orientamento è auspicabile che venga rivisto, abbiamo infatti letto l’art.
384 co.2 nella parte in cui stabilisce che la Corte di cassazione decide la causa nel
merito, quindi deve decidere la causa nel merito, quando non sono necessari
ulteriori accertamenti di fatto; se così è, se la parte intimata praticamente vittoriosa
non è ammessa a ripresentare alla Corte di cassazione la questione assorbita
rischia di perderla perché se la Cassazione decide nel merito il giudizio di rinvio
chiaramente non si apre. Torniamo al procedimento per Cassazione. Abbiamo
parlato degli atti introduttivi: il ricorso, il controricorso contenente eventualmente
anche il ricorso incidentale o incidentale condizionato.
2. abrogato
3. abrogato
Lasciamo stare l'ipotesi di cui al n.4 che riguarda la pronuncia sul regolamento di
competenza e di giurisdizione, sappiamo che il regolamento di competenza è un
mezzo di impugnazione ordinario (art.42) che si propone contro provvedimenti ora
in forma di ordinanza che si pronunciano sulla sola competenza, sappiamo che il
regolamento di giurisdizione (art.41) è un'istanza per il qui tramite le parti nel
processo di primo grado, prima che venga emessa sentenza, possono portare la
questione di giurisdizione direttamente di fronte alla Corte di cassazione, quindi
questo n.4 lasciamo da parte, ricordiamoci i nn. 1 e 5. Il secondo comma aggiunge
che la Corte a Sezione Semplice pronuncia con ordinanza in camera di consiglio in
ogni altro caso salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna
dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare
ovvero che il ricorso sia stato rimesso all'apposita sezione di cui all’art.376 in esito
alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio. Cerchiamo di spiegare. Nel
443
momento in cui scadono i termini per il deposito del controricorso contro l'ultimo
ricorso incidentale il cancelliere trasmette ricorso al presidente della Cassazione il
quale stabilisce subito, art.377 co.1, se la causa va rimessa alle Sezioni Unite
oppure no. A questo punto però si impone, sia che vada davanti alle Sezioni Unite,
sia che vada davanti alla Sezione Semplice, di stabilire se il procedimento si
svolge in forme semplificate oppure nelle forme ordinarie. Vediamo in che cosa
consiste la differenza.
444
Vediamo adesso in pratica come si muove la causa all'interno della Corte di
cassazione. Il primo presidente una volta che il cancelliere presenta il ricorso deve
immediatamente valutare se rimettere la causa alle sezioni unite oppure no:
Due precisazioni:
1. Per quanto riguarda l'eventuale attività istruttoria ricordatevi che nel corso del
giudizio di Cassazione non sono ammesse nuove prove. Questo divieto è
assoluto con riferimento alle prove costituende mentre con riferimento alle
prove precostituite, quindi alle prove documentali, l’art.372 consente il
deposito di atti e documenti che riguardano la nullità della sentenza impugnata
e l'ammissibilità del ricorso e del controricorso. Questa previsione è stata letta
in senso ampio dalla Corte di cassazione la quale ha ritenuto ammissibili
445
anche i documenti volti a dimostrare eventi che determinano la cessazione
della materia del contendere, per esempio un’avvenuta transazione.
Abbiamo detto fin dall'apertura della trattazione del ricorso per Cassazione che
una condizione imprescindibile affinché la Corte possa veramente svolgere la
funzione nomofilattica che le viene assegnata dall’art.65 dell’ordinamento
giudiziario è la riduzione del numero dei ricorsi che vengono annualmente
presentati, solo questa è la condizione che consentirebbe alla Corte di svolgere la
propria funzione assicurando l'esatta e uniforme interpretazione del diritto. A
questo scopo secondo un'opinione molto diffusa che però non è sicuramente
unanime sarebbe fondamentale introdurre un filtro all'accesso in Cassazione
quindi prevedendo che possono essere presentati ricorsi soltanto, ad esempio,
laddove c'è una violazione di una norma di diritto sostanziale o processuale che
ponga una questione generale oppure con riferimento alla quale si siano verificati
dei contrasti tra le sezioni della Corte di cassazione o comunque sussistano degli
orientamenti non conformi all'interno della Cassazione. Abbiamo già ricordato il
disposto dell’art.366-bis che aveva introdotto il c.d.quesito di diritto che in effetti
era stato abusato dalla Corte, era una sorta di trappola in cui finivano per cadere
soprattutto gli avvocati inesperti che si sono improvvisati cassazionisti, era uno
strumento che ad un certo punto molto opportunamente è stato eliminato dal
legislatore del 2009 perché non era un filtro era una trappola nella quale finivano
per cadere anche i ricorsi per il cui tramite venivano portate questioni della
massima importanza davanti alla Corte di cassazione. Il legislatore del 2009 allora
dopo aver abrogato il famigerato quesito di diritto ha introdotto l’art.360-bis per il
cui tramite sono stati previsti due ulteriori casi di inammissibilità del ricorso:
447
Lezione 25 - 29/05/20
Andiamo adesso ad analizzare la disciplina del GIUDIZIO DI RINVIO, disciplina
contenuta negli articoli da 392 a 394 cpc. A fronte dell'attuale testo normativo,
secondo quella che è l'interpretazione preferibile, il giudizio di rinvio deve essere
ritenuto la prosecuzione del giudizio di cassazione, quindi la sua eventuale fase
rescissoria. Il giudizio di rinvio nel quadro del sistema delle impugnazioni ha dato
adito a grossi dibattiti, nel tempo sono state presentate almeno tre diverse opzioni
interpretative:
2) chi una fase del tutto autonoma del quadro del sistema delle impugnazioni
civili
3) c'è chi lo ha ritenuto la fase rescissoria del giudizio di cassazione. Oggi come
oggi si può dire che è quest'ultima la tesi che trova riscontro nel testo
normativo, cerchiamo di dire i motivi di questa affermazione:
Gli unici problemi si pongono con riferimento a quelle ipotesi eccezionali in cui la
sentenza di appello NON esplica la propria efficacia sostitutiva rispetto alla
sentenza di primo grado, sono i casi in cui il giudice di secondo grado abbia
chiuso in rito il processo dichiarando l'INAMMISSIBILITÀ, l'IMPROCEDIBILITÀ,
l'ESTINZIONE dell'appello; perché a queste particolare ipotesi di sentenze emesse
dal giudice dell'appello consegue il passaggio in giudicato della sentenza di
primo grado, sono ipotesi eccezionali che probabilmente devono essere sottratte
dalla regola generale dell'art 393.
Innanzitutto, è pacifico che il giudizio di rinvio si deve chiudere con una sentenza
di merito, perché il giudice di rinvio non può più rilevare eventuali vizi insanabili
del procedimento, cioè tutte quelle questioni di rito rilevabili anche d'ufficio in ogni
stato e grado del processo —> o sono rilevate dalla corte di cassazione, oppure
sono sanate, perché il giudice di rinvio NON può più rilevarle. La conclusione è che
quindi questa fase del processo necessariamente si chiude con una sentenza di
merito.
449
Vediamo l'OGGETTO del giudizio di rinvio: si ritiene che l'oggetto del giudizio di
rinvio sia determinato sia dall’iniziativa delle parti, sia dalla sentenza della corte
di cassazione. Le parti, nel momento in cui propongono il ricorso per cassazione,
naturalmente ricorso principale e ricorso incidentale, individuano l'oggetto
QUANTITATIVO, quindi il rapporto o la frazione di rapporto che è ancora
controverso e che viene portato alla cognizione della corte suprema.
Infine, nell'ipotesi in cui venga accolto il ricorso per omesso esame circa un fatto
decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, il giudice del
rinvio dovrà procedere semplicemente all'accertamento del fatto che, pur essendo
stato controverso tra le parti, non è stato esaminato dal giudice precedente.
Quindi l'attività del giudice di rinvio è più o meno ampia, dipende dai limiti stabiliti
vuoi dalle parti vuoi dalla corte di cassazione nel momento in cui ha disposto il
rinvio.
L'art 394 si occupa dello svolgimento del procedimento e il primo comma afferma
che in sede di rinvio si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti al
giudice al quale la corte ha rinviato la causa, e in ogni altro caso deve essere
prodotta copia autentica della sentenza di cassazione.
451
Nel secondo comma si prevede che le parti conservano la stessa posizione
processuale che avevano nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza
cassata, e diciamo questa previsione è conforme a quanto ci siamo detti, cioè che
il giudice del rinvio non deve fare altro che portare a compimento il giudizio,
svolgere quell'attività che la corte di cassazione non ha potuto svolgere, non è che
si ricomincia da capo, le parti non possono svolgere qualsiasi potere processuale,
ma potranno svolgere soltanto i poteri processuali che sono consequenziali
rispetto alla pronuncia della corte di cassazione.
Per il resto la disposizione prevede che le parti possono svolgere solo le attività
che si rendono necessarie in base a quanto stabilito nella sentenza di cassazione.
La disciplina del processo di primo grado è informata sull'equilibrio, nel senso che
le norme che regolano il processo di primo grado e che attribuiscono alle parti e al
giudice del processo di primo grado i loro poteri processuali, sono norme che in
gran parte possono essere collegate al principio dispositivo, da una parte, perché
riguarda le parti, e per quanto riguarda il giudice, non possiamo dimenticare che il
legislatore, nel dettare la disciplina generale delle invalidità derivanti dal difetto di
un requisito di forma contenuto ha adottato il regime della nullità. Nullità con
riferimento alla quale ha previsto tutta una serie di meccanismi di SANATORIA: la
convalidazione soggettiva, oggettiva, la rinnovazione degli atti nulli, aventi come
scopo quello di eliminare la nullità e consentire al processo di raggiungere il suo
esito fisiologico. Cioè la pronuncia sul merito.
452
Nell'ambito dei giudizi di impugnazione invece, il legislatore ha valorizzato il
principio dell'impulso di parte, partendo da rilievo secondo cui, nel momento in
cui si prende l'iniziativa per aprire il giudizio di impugnazione, c'è già stata una
sentenza, una prima sentenza quanto meno. Quindi lo stato, attraverso il giudice,
ha già risposto alla domanda di giustizia, è già stato emanato un provvedimento
che contiene la regolamentazione del rapporto giuridico controverso, e questo
consente al legislatore di comportarsi diversamente, di adottare dei criteri diversi,
nel momento in cui detta la disciplina relativa al giudizio di impugnazione. E infatti,
nel passaggio dal grado precedente al grado successivo, l'esercizio dei poteri di
impulso processuale della parte, nella forma dell'impugnazione, oppure della
riproposizione, generalmente determina una diminuzione della lite. Nel senso che
le parti, attraverso l'esercizio di questo potere, normalmente portano di fronte al
giudice dell'impugnazione solo una parte dell'originaria controversia, cioè l'oggetto
del giudizio di impugnazione è generalmente più ridotto rispetto all'oggetto del
grado precedente di giudizio; anche sotto il profilo qualitativo, perché il numero
delle questioni devolute al giudice ad quem è tendenzialmente inferiore rispetto a
quelle portate al giudice precedente. Quindi nel passaggio dei vari gradi di
impugnazione si ha una sorta di progressiva diminuzione o composizione della lite,
perché attraverso l'esercizio dei propri poteri processuali, le parti producono il
progressivo passaggio in giudicato delle parti della sentenza impugnata. Fanno
scattare la formazione di forme di giudicato che sarà la vera e propria autorità di
cosa giudicata, se nel passaggio dal giudice inferiore al giudice superiore non
vengono impugnate parti di sentenza avente ad oggetto rapporti giuridici diversi, o
danno luogo a giudicato interno, se nel momento in cui viene impugnata la parte
di sentenza relativa al determinato rapporto giuridico i motivi di impugnazione
vengono formulati con riferimento ad alcune soltanto delle questioni decise dal
giudice precedente.
Quello che possiamo quindi osservare alla luce della ricostruzione del sistema del
processo civile che passa attraverso i suoi diversi gradi, è che l'accertamento
definitivo dell'esistenza o non esistenza e del modo di essere del rapporto
giuridico controverso, non è contenuta necessariamente in una sola sentenza, ma
passa attraverso le diverse sentenze che vengono emanate dai diversi giudici che
intervengono in quel processo nei diversi gradi, perché in ognuna delle sentenze
che vengono emanate nel corso di questo processo, vi saranno delle parti che nel
passaggio della stessa causa davanti al giudice successivo risulteranno non
toccate dai motivi di impugnazione e per questo saranno coperte dal giudicato.
D'altra parte, sappiamo che nella ricostruzione che la giurisprudenza offre, la
453
possibilità di introdurre elementi di novità nei gradi successivi al primo è molto
ridotta, l'art 345 è stato in gran parte soffocato dalla giurisprudenza, e lo stesso
vale per il giudizio di cassazione, però abbiamo detto che, con riferimento a
RICORSO PER CASSAZIONE, la scelta è una scelta comprensibile, perché la corte
di cassazione chiamata a svolgere una funzione di garanzia oggettiva, si serve
dell'iniziativa della parte soccombente, quindi indirettamente è chiaro che svolge
anche una funzione di garanzia soggettiva, ma il suo compito è un altro.
A. le AZIONI DI GRAVAME
B. le AZIONI DI IMPUGNATIVA
Si tratta di una statuizione che risale al ‘900 e che fu elaborata con la massima
chiarezza da Piero Calamandrei, che ha insegnato procedura civile qui a Firenze
ed è stato anche rettore dell'università di Firenze.
454
Invece, le AZIONI DI IMPUGNATIVA erano concepite come strumenti per il cui
tramite si denunciavano al giudice superiore vizi predeterminati dalla legge, quindi
l'oggetto dei giudizi di impugnazione, delle azioni di impugnativa, non era il
rapporto giuridico controverso, ma il vizio, era la sentenza impugnata, perché lo
scopo delle azioni di impugnativa era quello di annullare la sentenza precedente, e
quindi c'era necessariamente uno sdoppiamento, una fase rescindente e volta ad
ottenere l'annullamento, la rescissione della precedente sentenza e poi la fase
cosiddetta rescissoria, che generalmente si svolgeva di fronte al giudice diverso.
Per tradizione, mentre l'appello è sempre stato ricondotto al modello delle azioni di
gravame, il ricorso per cassazione è sempre stato ricondotto alla categoria delle
azioni di impugnativa, quindi i due mezzi di impugnazione erano ritenuti
espressioni di due schemi diversi.
Il ricorso per cassazione dal canto suo non si presta più ad essere ricondotto alla
categoria delle azioni di impugnativa, perché non è vero che ha ad oggetto la
sentenza impugnata, che la sua caratteristica è quella di essere un giudizio a
carattere meramente rescindente: l’art 384 ci dice infatti che la corte di cassazione
deve decidere nel merito la causa, quando non sono necessari ulteriori
accertamenti di fatto, e questo si dice che ricorso per cassazione è un mezzo di
impugnativa rescissorio, che ha ad oggetto il rapporto giuridico controverso.
Entrambi i giudizi hanno una struttura tendenzialmente CHIUSA, perché abbiamo
detto che l'art 345 è stato soffocato dalla giurisprudenza, che di fatto limita attività
come quella della modifica della domanda o della proposizione delle nuove
eccezioni rilevabili d’ufficio, imponendo un divieto non scritto da nessuna parte di
allegazione di nuovi fatti di fronte al giudice dell'appello.
455
Inoltre, vi ricordo che in non poche ipotesi il giudice dell'appello è il giudice di
primo e unico grado.
Questi brevi rilievi, che sono un rinvio a cose già dette, fondano la conclusione
secondo cui questi mezzi di impugnazione non sono poi così diversi, anzi sono
molto avvicinati e entrambi hanno la tendenza, pur avendo ad oggetto ancora oggi
il rapporto giuridico controverso, ad assumere sempre più le forme dell’AZIONE DI
IMPUGNATIVA. Si tratta di una realtà su cui vale la pena meditare, perché, da una
parte si tratta di di un sistema che finisce per non funzionare, perché l'appello non
consente alle parti di svolgere in maniera adeguata il proprio diritto di azione e di
difesa, perché non consente alle parti di recuperare propri errori, e la corte di
cassazione finisce per non assolvere la sua funzione assegnatale dall'ordinamento
giudiziario, la funzione nomofilattica, che richiederebbe una drastica diminuzione
di ricorsi.
SECONDA PARTE
i motivi che stanno alla base della revocazione come un mezzo di impugnazione
ordinario sono motivi palesi cioè sono motivi che la parte può conoscere nel
momento stesso in cui la sentenza viene pubblicata invece i motivi posti a base
della revocazione come mezzo di impugnazione straordinario sono occulti cioè la
parte non li conosce immediatamente nel momento in cui la sentenza viene
pubblicata, ma sono sopravvenuti. Quindi, sono conoscibili dalla parte solo a
seguito della scoperta di fatti che in precedenza la parte poteva non conoscere.
456
Con riferimento invece alla revocazione straordinaria sono impugnabili le
sentenze d'appello o le sentenze pronunciate in unico grado e le sentenze di
primo grado ove queste ultime siano passate in giudicato.
Infatti, se la parte viene a conoscenza dei motivi della revocazione straordinaria nel
corso dei termini per appellare questi motivi devono essere fatti valere attraverso
l'appello, per altro l’art 396 prevede che in questo caso il termine per appellare è
prorogato dal giorno della conoscenza del motivo in modo da raggiungere
comunque i 30 gg.
➢ alla revocazione ordinaria torniamo gli articoli 325 e ss. Il termine per la
revocazione è di 30gg, questi 30 giorni - ci dice l'articolo 326, nei casi
previsti- sono termini perentori che decorrono dalla notificazione della
sentenza e questa regola generale vale con riferimento ai motivi di cui ai
numeri 4 e 5 dell'articolo 395 quindi vale con riferimento alla revocazione
come mezzo ordinario di impugnazione.
➢ mentre invece, con riferimento ai casi previsti nei numeri 1,2,3 e 6
dell'articolo 395 e ai casi di cui all’art 397, il termine decorre dal giorno in
cui viene scoperto il fatto che costituisce l'oggetto del motivo di
revocazione. Quindi dal giorno in cui è stato scoperto il dolo o la falsità o la
collusione o è stato recuperato il documento o è passata in giudicato la
sentenza di cui al numero 6 dell'articolo 395.
Se per la decisione non devono essere assunti nuovi mezzi di prova, la sentenza
che pronuncia la revocazione può pronunciare immediatamente e contestualmente
sul merito, come prevede l'articolo 402.
457
La revocazione si propone con citazione che a pena di inammissibilità deve
contenere il motivo di revocazione.
Il fatto che venga proposta revocazione contro una sentenza d'appello pronunciata
in unico grado non sospende il termine per proporre ricorso per Cassazione, così
come, se è stato proposto prima il ricorso per Cassazione non sospende il
procedimento di Cassazione, ma la legge nell'articolo 398 ultimo comma
attribuisce al giudice della revocazione la possibilità su istanza di parte di
sospendere il termine o il procedimento di Cassazione fino alla comunicazione
della sentenza sulla revocazione.
Allora, appare chiaro che questo motivo di revocazione concerne un errore di fatto
che deve risultare dagli atti o documenti della causa e che non deve essere
controverso fra le parti. Si tratta quindi è di un errore di percezione, una svista.
Vedete che c'è una situazione che richiama la previsione di cui al numero 5
dell'articolo 360 quindi del motivo di ricorso per Cassazione per omesso esame di
un fatto decisivo che è stato discusso tra le parti.
458
La differenza fra i due motivi (fra motivo di ricorso per Cassazione di cui al
numero 5 dell'articolo 360 e il motivo di revocazione ex n 4 dell'articolo 395) sta
nel fatto che con riferimento al motivo di revocazione si parla di un fatto non
controverso fra le parti, mentre l'articolo 360 prevede espressamente che il fatto
è stato oggetto di discussione fra le parti.
Si rileva che il vizio di cui al numero quattro dell'articolo 395 presenta delle affinità
con gli errori materiali, con gli errori di calcolo di cui agli articoli 287 e ss ma
mentre l'errore materiale risulta dal testo della sentenza, l'errore di fatto - che
costituisce motivo di revocazione- ha un fondamento extra testuale cioè non
emerge dalla sentenza ma emerge dagli atti e dai documenti del processo.
In secondo luogo, è importante perché nel momento in cui si può ritenere, a fronte
di questo numero 5 dell'articolo 395, che la violazione di un precedente giudicato è
un vizio della seconda sentenza che deve essere fatto valere entro il termine posto
a pena di decadenza per la proposizione della revocazione ordinaria, allora si ritiene
che di conseguenza laddove questo vizio non venga rilevato e quindi non venga
proposta la revocazione ordinaria il vizio si sana, per cui nel conflitto fra i due
giudicarti prevale necessariamente il secondo.
459
secondo la giurisprudenza la revocazione ordinaria può essere proposta non
soltanto nel caso in cui l'oggetto dei due processi è lo stesso diritto ma anche
nelle ipotesi in cui il secondo processo ha ad oggetto un diritto giuridicamente
dipendete rispetto al diritto oggetto del precedente giudicato.
File audio 4
Nel n1 si fa riferimento alla sentenza effetto del dolo di una delle parti in danno
dell’altra.
460
pubblico ministero e 404 secondo comma in tema di opposizione di terzo
revocatoria -> in queste fattispecie infatti ciò che rileva è un dolo bilaterale.
Nel N.2 si fa riferimento all’ipotesi in cui si è giudicato in base a prove che sono
state riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza, oppure che la parte
soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della
sentenza.
461
Infine, il N. 6 dell'articolo 395 fa riferimento alla sentenza effetto di dolo del
giudice accertato con sentenza passata in giudicato.
veniamo adesso alla revocazione del pubblico ministero articolo 397 -> siamo
nell'ambito delle ipotesi cui è previsto l'intervento obbligatorio del pubblico
ministero articolo 70 cpc-
Allora il numero uno si riferisce alle ipotesi in cui nonostante il processo rientrasse
nella previsione dell'articolo 70, il pubblico ministero non abbia preso parte. Come
vedete qui legislatore ha applicato il principio della conversione dei motivi di
nullità in motivi di impugnazione, sebbene abbia creato un mezzo di
impugnazione ad hoc per far valere questa nullità.
Il numero due invece riguarda le ipotesi in cui il pubblico ministero ha preso parte
al processo ma può impugnare la sentenza, nel momento in cui scopre l'effetto
della collusione delle parti.
462
Facciamo l'esempio dei due coniugi che si mettono d'accordo per ottenere la
sentenza che dichiara la nullità del loro matrimonio in ipotesi non rientrante nella
previsione dell'articolo 117 del codice civile.
È importante sottolineare che la frode delle parti alla legge sostanziale può essere
denunciata solo dal pubblico ministero nelle ipotesi in cui il suo intervento è
obbligatorio, mentre invece non può essere denunciato dalle parti private.
ci fu nel 1986 una sentenza che dichiarò la non costituzionalità dell'articolo 395
numero quattro nella parte in cui non prevedeva la revocazione delle sentenze
della Corte di Cassazione per errore di fatto.
così la legge del 1990 ha introdotto l'articolo 391 bis in base a questa
disposizione se la decisione della Corte di Cassazione è affetta da errore di fatto
ai sensi dell'articolo 395 n. 4 la parte interessata può chiederne la revocazione
con ricorso presentato nelle forme degli articoli 365 e ss.
questo ricorso deve essere notificato nel termine perentorio di 60 giorni dalla
notificazione della sentenza ovvero di 6 mesi dalla pubblicazione.
Infatti, è previsto che in caso di impugnazione per revocazione della sentenza della
Corte di Cassazione non è ammessa la sospensione dell'esecuzione della
sentenza passata in giudicato né è sospeso il giudizio di rinvio o il termine per
riassumerlo.
Ancora, in base al successivo articolo 391 ter-> il provvedimento con cui la Corte
ha deciso la causa nel merito è altresì impugnabile per revocazione per i motivi di
cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 del primo comma dell'articolo 395.
Il ricorso si presenta alla corte e debbono contenere gli elementi di cui all'articolo
398 co. 2 e 3.
Si tratta:
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i. dell’opposizione di terzo ordinaria disciplinata al primo comma della
disposizione
in base all’articolo 404 co.1 “un terzo può fare opposizione contro la sentenza
passata in giudicato o comunque esecutiva pronunciata tra altre persone quando
pregiudica i suoi diritti”
invece, 404 co.2 “gli aventi causa o creditori di una delle parti possono fare
opposizione alla sentenza quando è l'effetto di dolo, collusione a loro danno”
- o comunque esecutiva
sentenza esecutiva ricordatevi che può essere anche una sentenza di primo
grado.
Ora, se vi ricordate l'articolo 344 cpc stabilisce che “i terzi legittimati a proporre
opposizione di terzo possono anche intervenire in appello”.
da questo si desume che ove la sentenza esecutiva sia stata appellata,
l’opposizione di terzo ordinaria e revocatoria deve essere proposta nella forma
dell’intervento in appello, deve o può essere proposta della forma dell’intervento in
appello.
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E che quel termine pregiudizio stia a indicare non l'efficacia ma il danno che la
sentenza può loro arrecare.
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- oppure la falsità della rappresentanza
nel 1° caso quindi laddove l'opposizione di terzo ordinaria venga esercitata dal
terzo titolare di un diritto autonomo e incompatibile con il diritto oggetto
della sentenza -> questo rimedio – l’opposizione di terzo ordinaria - se viene
accolto metterà capo ad una sentenza che accerta l'esistenza del diritto del terzo
nei confronti di entrambe le parti del processo originario e elimina dal mondo
giuridico la sentenza resa Inter partes.
Infatti, nella prima fase il giudice accerta la fondatezza del motivo e porta alla
rescissione della sentenza resa inter alios.
A questa fase segue la fase rescissoria che ha come scopo quello di decidere nel
merito la controversia.
- dai creditori
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sentenza che sostituisca la sentenza precedente e contenga un nuovo
accertamento nel merito della controversia;
infine abbiamo già avuto modo di ricordare che l'opposizione di terzo può essere
presentata anche nei confronti delle decisioni emesse dalla Corte di Cassazione, la
disciplina la vita abbiamo dell'articolo 391 ter del codice di procedura civile.
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