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SBOBINE PROCEDURA CIVILE, secondo semestre

Lezione 1 - 04/03/20
Andiamo ad esaminare una parte del programma piuttosto complessa che è la
connessione tra parti diverse.

Ci saranno due grossi temi che analizzeremo che sono appunto la connessione tra
parti diverse e le impugnazioni.

La connessione tra parti diverse. Si tratta di affrontare una serie di problematiche


che riguardano processi fra più parti. Vi ricordate che nel primo semestre ci siamo
soffermati su processi semplici sul piano soggettivo, cioè processi che vedevano
opposto un attore e un convenuto. Tuttavia, sappiamo che la realtà è molto più
complicata, perché in un numero elevato di ipotesi il processo vede coinvolte
molte più persone, si parla quindi di processi a più parti. Quando al processo
partecipano più parti si parla di processo litisconsortile, perché coloro che vi
prendono parte sono i c.d. litisconsorti.

Il punto centrale è quello relativo al se in hp in cui il processo si svolge nelle forme


litisconsortili, i singoli partecipanti godano degli stessi poteri processuali di cui
godrebbero se il processo fosse semplice, oppure se è necessario coordinare le
attività svolte dai diversi partecipanti al processo e quindi se porre delle limitazioni
all'autonomia di ciascuno. A quale scopo? Allo scopo di consentire al giudice di
arrivare ad una decisione che sia uguale per tutti.

La domanda è chiara, non lo è invece la risposta, perché in effetti questa non è


unitaria. Dovremo confrontarci con le singole forme di connessione, cioè della
diversa struttura dei rapporti che corrono fra parti diverse e di evidenziare le
esigenze che queste forme di connessione di volta in volta mettono in gioco. Solo
dopo aver messo in evidenza le esigenze che entrano in gioco a fronte delle
diverse forme di connessione, sarà possibile ricostruire la disciplina del processo
litisconsortile e in particolare chiarire l'autonomia o meno di cui le parti possono
godere.

Apriamo questa indagine guardando alla regola generale e la sua eccezione.

La regola generale è quella della autonomia, cioè di partenza la circostanza che


il processo veda coinvolte più parti e quindi più rapporti giuridici facenti capo alle
diverse pari non dovrebbe intaccare l'autonomia di ciascuno, quindi come
principio di base a ciascuno dovrebbe essere riconosciuto il pieno esercizio dei
propri poteri processuali, sia con riferimento a poteri che incidono sullo
svolgimento del processo (poteri di impulso processuale per esempio), sia con
riferimento ai poteri processuali che invece incidono sul merito (potere di sollevare
un'eccezione o di muovere una contestazione per esempio). A questa che è la
regola generale si contrappone invece l'eccezione, cioè la necessità di attenuare
l'autonomia di ciascuno dei litisconsorti perché imposto dalla struttura dei
rapporti giuridici che costituiscono l'oggetto del processo e che corrono fra i
diversi partecipanti. È soltanto in ragione della natura/struttura dei rapporti giuridici
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controversi fra le parti e delle esigenze particolari che questi rapporti introducono
che si giustifica la limitazione dell'autonomia dei litisconsorti e di conseguenza la
necessità di imporre delle forme di coordinamento delle attività svolte da ciascuno.

Detto questo, entriamo nel vivo del discorso cominciando ad analizzare le forme di
connessione più blanda: la connessione per identità di questione di fatto e di
diritto e la connessione per identità di causa petendi. Si tratta di forme di
connessione blanda e che mettono in gioco le stesse esigenze, quindi vanno
soggette ad una disciplina molto simile.

Prima di avviare la riflessione, andiamo a esaminare le disposizioni che si


occupano del processo litisconsortile, i diversi istituti che entrano in gioco e che
non conosciamo perché finora ci siamo occupati di processi fra 2 sole parti.

Ci sono una serie di istituti strumentali alla formazione del processo litisconsortile,
cioè alla formazione di un processo fra più parti si può arrivare attraverso strade
diverse.

La forma più semplice è l'instaurazione del processo litisconsortile ab origine, sin


dall'inizio abbiamo un processo che si apre fra più parti sul lato attivo, su quello
passivo o su entrambi.

La disposizione che si occupa del processo litisconsortile iniziale è l'art 103 CPC
(litisconsorzio facoltativo) che recita: "più parti possono agire o essere convenute
nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste connessione
per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione
dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni".
Quindi fin dall'inizio la domanda viene proposta da e/o contro più parti.

Un altro istituto che è strumentale alla formazione del processo litisconsortile è


quello della riunione delle cause separatamente proposte, e qui entrano in
gioco due disposizioni che abbiamo già visto analizzando i processi a due parti: da
una parte l'art 274; dall'altra l'art 40. questi si occupano della riunione delle cause
separatamente proposte rispettivamente di fronte allo stesso giudice (inteso come
ufficio giudiziario) oppure di fronte a due giudici diversi. L'art 274 prevede infatti
che "se più procedimenti relativi a cause connesse pendono davanti allo stesso
giudice, questi, anche d'ufficio può disporne la riunione". L'art 40 si occupa
dell'ipotesi in cui le più cause sono proposte di fronte a giudici diversi intesi come
uffici giudiziari diversi. Il c.1 c dice che "se sono proposte davanti a giudici diversi
più cause che per ragioni di connessione possono essere decise in un solo
processo, il giudice fissa con ordinanza alle parti un termine perentorio per la
riassunzione della causa accessoria davanti al giudice della causa principale e
negli altri casi davanti a quello preventivamente adito".

Ancora alla formazione del processo litisconsortile sono strumentali i ccdd


interventi artt. 105, 106 e 107. l'art 105 si occupa del l'intervento volontario, cioè
l'ipotesi in cui un soggetto terzo, quindi un soggetto che fino a quel momento non
ha la qualità di parte del processo, fa il suo ingresso in un processo che è già
pendente tra altri. L'art 105 dispone: "Ciascuno può intervenire in un processo tra
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altre persone per far valere, in confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un
diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo.

Può altresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un
proprio interesse." questo è l'intervento volontario.

L'art 106 si occupa invece dell'intervento su istanza di parte, istituto che abbiamo
indirettamente già visto quando abbiamo parlato del potere di chiamata in causa
del terzo, rispettivamente del convenuto (da far valere nella comparsa di risposta
depositata entro 20 giorni dalla data della prima udienza) o da parte dell'attore che
deve invece esercitarlo in prima udienza nell'ambito del suo potere di replica. L'art
106 così recita: "ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale
ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita".

Abbiamo poi l'art 107 che prevede l'intervento per ordine del giudice: "Il giudice,
quando ritiene opportuno che che il processo si svolga in confronto di un terzo al
quale la causa è comune, ne ordina l'intervento".

Accanto a queste previsioni ci sono due disposizioni che, allo scopo di facilitare la
formazione del processo litisconsortile, consentono la deroga ai criteri ordinari di
competenza. Queste disposizioni sono inserite negli artt. 31 ss. E sono:

- art 33 → si occupa del cumulo soggettivo. Ci dice che “le cause contro più
persone che a norme degli artt 18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a
giudici diversi, se sono connesse per l'oggetto o per il titolo possono essere
proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse,
per essere decise nello stesso processo”
- art 32 → si occupa di una particolare forma di connessione tra parti diverse,
si parla di una connessione per pregiudizialità dipendenza che prende il
nome di GARANZIA. L'art prevede che “La domanda di garanzia può essere
proposta al giudice competente per la causa principale affinché sia decisa
nello stesso processo”.

Per completare il quadro dei riferimenti normativi torniamo sull'art 103 c.2 e sull'art
279 c.2 n°5: entrambe le disposizioni prevedono che il giudice di fronte a cui sono
cumulate più cause connesse fra parti diverse possa esercitare il potere di
separazione. L'art 103 c.2 prevede infatti che “Il giudice può disporre, nel corso
della istruzione o nella decisione, la separazione delle cause, se vi è istanza di tutte
le parti, ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o
renderebbe più' gravoso il processo, e può rimettere al giudice inferiore le cause di
sua competenza”. Qui la disposizione si occupa in maniera specifica dei casi in cui
il giudice esercita il suo potere di separazione in corso di causa, nel corso della
fase istruttoria, anche se c'è un richiamo all'ipotesi in cui la separazione viene
disposta in sede decisoria. Qui il rinvio è all'art 279 c.2 n°5 laddove si prevede la
possibilità per il giudice, previa emanazione dell'ordinanza di separazione, di
decidere con sentenza definitiva una sola delle cause cumulate di fronte a sé.

Prima di intraprendere l'analisi delle singole disposizione vorrei introdurvi un


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principio con cui dobbiamo confrontarci e che avrò cura a richiamarvi in ogni
lezione con riferimento al processo litisconsortile. Vorrei sin da subito chiarire che il
modo di formazione del processo litisconsortile è assolutamente indifferente
quando si va a delineare la disciplina processuale di questi processi. La disciplina
del processo litisconsortile si ricostruisce alla luce della struttura dei rapporti
giuridici dedotti nel processo, cioè alla luce della forma di connessione più o meno
intensa che corre fra i rapporti giuridici dedotti in giudizio, mentre è assolutamente
indifferente il modo in cui si è arrivati alla formazione litisconsortile. La circostanza
che il processo cumulativo si sia formato ab origine, per l'unione di cause
separatamente proposte o per intervento del terzo, non influisce mai sulla
disciplina perché essa deve essere delineata alla luce soltanto della struttura delle
situazioni giuridiche controverse fra le diverse parti.

Andiamo ad analizzare la forma di connessione più blanda: ipotesi di processi


cumulativi aventi ad oggetto cause connesse per identità di questione di fatto e/o
di questione di diritto fra parti diverse. Questa ipotesi prende il nome di
LITISCONSORZIO FACOLTATIVO IMPROPRIO.

È la forma di connessione più blanda, quindi è la forma di processo litisconsortile


destinata a creare meno problemi perché la formazione del processo litisconsortile
qui ha uno scopo unico, che è quello di realizzare l'economia processuale, mentre
invece non entra assolutamente in gioco l'esigenza di assicurare il coordinamento
delle decisioni.

Sappiamo già che le questioni di fatto e le questioni di diritto non sono coperte
dall'autorità della cosa giudicata ma sono sempre accertate risolte incidenter
tantum dal giudice, questo spiega perché in questa forma di connessione non
entra in gioco l'esigenza di assicurare l'armonia delle decisioni.

Come si può arrivare alla formazione del processo litisconsortile? Questa


particolare forma di connessione è prevista espressamente dall'art 103,
disposizione che si occupa del litisconsorzio facoltativo, si legge infatti: “Più parti
possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che
si propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono,
oppure quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione
di identiche questioni”. Si tratta di una forma di litisconsorzio facoltativo, vuol dire
che le parti sono libere di cumulare queste controversie di fronte allo stesso
giudice, ma non c'è alcun obbligo come regola generale.

Questo processo litisconsortile non si forma soltanto nei modi dell'art 103, ma si
può formare anche attraverso la riunione delle cause separatamente proposte,in
particolare laddove le più cause sono separatamente proposte di fronte allo stesso
giudice (ufficio giudiziario), quindi si applica l'art 274. Anche in questo caso il
giudice ha soltanto la facoltà di disporre la riunione, il litisconsorzio rimane
facoltativo. C'è un'unica deroga rappresentata dall'art 151 disp. att. CPC e che si
occupa di processi in materia di lavoro e di previdenza e di assistenza obbligatorie.
L'art 151 infatti stabilisce che: “La riunione, ai sensi dell'articolo 274 del codice,

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dei procedimenti relativi a controversie in materia di lavoro e di previdenza e di
assistenza e a controversie dinanzi al giudice di pace, connesse anche soltanto
per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o
parzialmente, la loro decisione, DEVE essere sempre disposta dal giudice,
tranne nelle ipotesi che essa renda troppo gravoso o comunque ritardi
eccessivamente il processo. In queste ipotesi la riunione, salvo gravi e motivate
ragioni, è, comunque, disposta tra le controversie che si trovano nella stessa fase
processuale. Analogamente si provvede nel giudizio di appello".

Quindi se come regola generale la riunione di più cause connesse per identità della
questione di fatto e di diritto separatamente proposte di fronte allo stesso ufficio
giudiziario è una mera facoltà, rimessa quindi ad una valutazione discrezionale del
giudice, nell'ambito delle controversie di lavoro e di assistenza e previdenza è
invece obbligatoria.

Facciamo degli esempi di fattispecie che riproducono questa forma di


connessione.

1. Pensate per esempio al settore della tutela del consumo. Prendiamo il caso
in cui più consumatori abbiano stipulato un contratto con lo stesso dante
causa nella forma dei moduli o dei formulari (secondo quanto previsto all'art
1342 cc), e supponiamo che diversi consumatori decidano di proporre una
domanda giudiziale nei confronti del dante causa facendo valere una
situazione giuridica regolata da una clausola comune a tutti i contratti
stipulati per moduli o formulari. Vedete che si tratta di ipotesi di domande
giudiziali aventi ad oggetto situazioni giuridiche autonome (anche se
intercorrono fra parti parzialmente diverse perché c'è una parte comune che
il dante causa) perchè hanno distinto sia il petitum sia la causa petendi, ma
che hanno una questione comune, è una questione di diritto inerente
l'interpretazione della clausola contrattuale presente in tutti i moduli o
formulari.

2. Lo stesso esempio lo si può ritrovare nell'ambito dei rapporti di lavoro. È


possibile immaginare che più dipendenti dello stesso datore di lavoro
decidano di agire in giudizio nei confronti del comune datore di lavoro per far
valere un diritto, supponiamo il diritto a ottenere una certa indennità,
passando attraverso una clausola contrattuale prevista in comune a tutti i
contratti di lavoro che i dipendenti hanno stipulato con il comune datore di
lavoro. Anche qui ci troviamo di fronte ad una serie di domande giudiziali
che hanno ad oggetto situazioni giuridiche diverse, perché diverso è il
petitum e la causa petendi, ma che presentano una forma di connessione
data dall'identità della questione di diritto (in questo caso la clausola del
contratto di lavoro) che è comune ai diversi contratti.

La spiccata autonomia delle situazioni giuridiche oggetto delle diverse domande


giudiziali ci consente di comprendere che questa forma di connessione mette in

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gioco semplicemente l'esigenza di assicurare l'economia processuale.

La questione comune, sia essa di fatto o di diritto, viene risolta una volta per tutte
dal giudice.

Oltre a questo, nel momento in cui ci viene attuato un processo cumulativo, certe
attività processuali saranno compiute una sola volta, quindi ci può essere un
risparmio di tempo. Invece questa forma di connessione non mette assolutamente
in gioco l'esigenza di assicurare l'armonia delle decisioni poiché le situazioni
giuridiche in gioco sono completamente distinte/autonome l'una dall'altra.

A livello di disciplina processuale possiamo affermare che in tutte queste ipotesi, i


diversi litisconsorti vedranno garantito nell'ambito del processo cumulativo la
piena autonomia, cioè potranno esercitare in maniera libera tutti i poteri
processuali e questi poteri produrranno effetti in tutto analoghi a quelli che si
sarebbero prodotti se il processo si fosse svolto fra due sole parti (fra ciascuno dei
consumatori/lavoratori e il datore di lavoro).

Il giudice potrà sicuramente utilizzare il suo potere di separazione, vuoi in corso di


causa ex art 103 c.2, vuoi in fase decisoria disponendo la separazione e
decidendo una o alcuna delle cause riunite con sentenza definitiva ex art 279 c.2
n°5.

Stante la spiccata autonomia delle situazioni giuridiche in gioco è possibile che le


diverse domande giudiziali abbiano un esito diverso, cioè è possibile che ad esito
del processo cumulativo alcune domande vengano accolte, altre invece risultino
respinte, ciò perchè l'elemento comune è soltanto la singola questione di fatto o di
diritto, per il resto c'è una totale autonomia delle situazioni giuridiche in gioco.

Quanto detto vale anche con riferimento alla seconda forma di connessione
blanda, cioè la CONNESSIONE PER IDENTITÀ' DI TITOLO O DI CAUSA
PETENDI.

Si tratta anche in questo caso di controversie che hanno a oggetto domande


giudiziali proposte fra parti parzialmente diverse che sono autonome e distinte
l'una dall'altra e accomunate soltanto dall'identità parziale del titolo/causa petendi.

Facciamo degli esempi:

- pensate al caso in cui si verifichi un incidente stradale, fatto illecito, in cui


rimangono danneggiate più persone. I più danneggiati avranno diritto ad
ottenere il risarcimento del danno da parte dell'unico responsabile
(danneggiante). Siamo di fronte ad una serie di obbligazioni che pendono fra
parti parzialmente diverse (singole parti danneggiate e il comune
danneggiante), che hanno un petitum diverso (la pretesa risarcitoria), e che
hanno la causa comune parzialmente coincidente (fatto illecito, l'incidente)
da cui scaturisce il risarcimento del danno).

- un altro esempio lo troviamo nell'ambito delle ccdd obbligazioni parziarie


--> pensate ad es ai coeredi. L'ipotesi dei coeredi rappresenta una deroga
alla disciplina generale delle obbligazioni perchè il creditore del de cuius non
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può pretendere da ciascuno dei coeredi l'adempimento dell'obbligazione,
non si applica la disciplina della solidarietà, ma ciascuno dei coeredi
risponde solo per una parte dell'obbligazione proporzionata alla sua quota.

Anche in queste ipotesi siamo di fronte a rapporti obbligatori che hanno un petitum
diverso, ma anche una parte della causa petendi comune.

Con riferimento a queste ipotesi di connessione possiamo ripetere quanto già


osservato con riferimento alla precedente forma di connessione, cioè si tratta di
ipotesi in cui entra in gioco l'esigenza di assicurare l'economia processuale, ma
non anche l'esigenza di assicurare l'armonia delle decisioni perché anche la causa
petendi viene accertata senza autorità di cosa giudicata, quindi ancora una volta
non entra in gioco il coordinamento delle decisioni.

Come si può formare il processo litisconsortile?

Innanzitutto anche questa ipotesi trova un richiamo espresso nell'art 103 cpc,
norma che si occupa del litisconsorzio iniziale: "più parti possono agire o essere
convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste
connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono". Con riferimento a
questa forma di connessione il legislatore per favorire il cumulo processuale
prevede la possibilità di derogare ai criteri di competenza, quindi vuole favorire la
formazione di questo cumulo processuale, e lo fa nell'art 33 cpc. L'art 33 (cumulo
soggettivo) afferma infatti che "le cause contro più persone che a norma degli artt
18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, se sono connesse
per l'oggetto o per il titolo (ecco che rientra la fattispecie che stiamo esaminando),
possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di
una di esse per essere decise nello stesso processo. Come vedete l'art 33 cpc fa
un espresso riferimento agli artt 18 e 19, si tratta dei ccdd fori generali, l'art 18 è il
foro generale delle persone fisiche, il 19 di quelle giuridiche. Se io attore propongo
una domanda nei confronti di più convenuti che presenta una forma di
connessione data dall'identità anche parziale della causa petendi, se si applicano
le disposizioni generali appena richiamate (es art 18), è possibile che le diverse
domande dovrebbero essere portate di fronte a giudici diversi perché diversi
convenuti possono avere residenze e domicili diversi. Quindi, se si applicasse la
disciplina ordinaria della competenza, questo processo cumulativo probabilmente
non si potrebbe realizzare, per cui l'art 33 per favorire il cumulo processuale mi
dice che le domande possono essere cumulate di fronte al luogo di residenza o di
domicilio di uno dei convenuti in modo da attuare il processo cumulativo.

Vi faccio notare che l'art 33 contiene un richiamo solo agli artt 18 e 19 e quindi
consente di derogare solo ai fori generali delle persone fisiche e delle persone
giuridiche, dal che si deve ritenere che laddove entri in gioco un foro "esclusivo"
probabilmente ci possono essere delle difficoltà ad attuare il cumulo processuale.

Il processo litisconsortile si potrà ancore formare tramite la riunione delle cause


separatamente proposte, quindi si applica l'art 274 cpc, ma entra in gioco anche
l'art 40, quindi la riunione potrà essere attuata sia che le domande siano state

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proposte davanti allo stesso ufficio giudiziario, sia che siano state proposte di
fronte a uffici giudiziari diversi. Inoltre, stante il carattere blando di questa forma di
connessione si dovrà applicare il c. 2 dell'art 40 che prevede che la connessione
non può essere eccepita dalle parti né rilevata d'ufficio dopo la prima udienza, e la
rimessione non può essere ordinata quando lo stato della causa principale o
preventivamente proposta non consente l'esauriente trattazione e decisione delle
cause connesse. Quindi in hp di cause connesse fra parti diverse per identità di
titolo o di causa petendi in applicazione dell'art 40, la riunione dovrà essere
disposta in attuazione di quanto previsto nell'ultima parte dell'art 40 c.1 davanti al
giudice preventivamente adito, peraltro, l'eccezione di connessione non potrà
essere sollevata dalle parti o rilevata d'ufficio dal giudice oltre la prima udienza, e
comunque la riunione non potrà essere disposta quando lo stato della causa
preventivamente proposta non consente l'esauriente trattazione e decisione delle
cause connesse.

Qual è la disciplina del processo? Anche in questo caso, siccome entra in gioco
solo l'esigenza di assicurare l'economia processuale, si deve riconoscere ai diversi
litisconsorti la piena autonomia. Potranno quindi esercitare i poteri processuali e
questi produrranno gli stessi effetti che si sarebbero prodotti ove il processo si
svolgesse dall'inizio alla fine fra l'attore e il convenuto. Da parte sua il giudice potrà
in ogni caso disporre la separazione delle cause riunite vuoi in corso d'istruttoria
(art 103 c.2), vuoi in fase decisoria previa separazione e decisione di una cause
con sentenza definitiva. Le più controversie anche in questa hp potranno avere
degli esiti di merito diversi, nel senso che una o più delle domande risultino
accolte, mentre le altre risultino rigettate. Non mi occupo adesso del litisconsorzio
in fase di gravame ma posso anticiparvi che stante il carattere blando di questa
forma di connessione, se il processo si è svolto in forma cumulativa in primo
grado, non è necessario che si svolga in forma cumulativa anche davanti al giudice
dell'impugnazione, ma è possibile che di fronte al giudice dell'impugnazione sia
portata solo una o alcune cause fino a quel momento riunite, si applica la
disciplina delle cause scindibili art 332.

Adesso passiamo all’analisi delle forme di connessione più intense: i c.d. rapporti
plurisoggettivi cioè ipotesi di connessione di cause tra parti diverse, per identità
di causa pretendi e petitum.

Nell’ambito del processo vengono dedotti in giudizio una serie di rapporti giuridici,
che corrono tra parti parzialmente diverse, che si connotano per l’identità vuoi
della causa petendi vuoi del petitum.

Le ipotesi sono molteplici.

Pensiamo in primis alle ipotesi in cui viene stipulato un contratto, in particolare le


ipotesi in cui le parti del contratto sono collettive, cioè formate da una pluralità di
soggetti: ad esempio il contratto di compravendita nel caso in cui più soggetti
comprano dallo stesso venditore lo stesso bene; oppure l’ipotesi in cui più

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venditori alienano ad un compratore o ad una pluralità di compratori lo stesso
bene.

Sappiamo che dal contratto di compravendita scaturiscono due effetti, il contratto


di compravendita è il classico contratto a prestazioni sinallagmatiche.

Quali sono le prestazioni sinallagmatiche?

Sono, da una parte, l’effetto reale (l’effetto traslativo), che in Italia non è oggetto di
un’obbligazione in senso tecnico: il venditore non si obbliga a trasferire la proprietà
al compratore, ma è un’effetto che scaturisce automaticamente nel momento in
cui si forma il consenso.

Dall’altra parte, la c.d. obbligazione di dirimpettaia, cioè l’obbligazione in senso


tecnico di pagamento del prezzo.

Se noi abbiamo una pluralità di compratori, seguendo l’esempio proposto, essi


saranno obbligati in solido al pagamento del prezzo al comune venditore.

Questo perché?

Perché l’ordinamento italiano ha fatto una scelta peculiare, cioè la scelta della
solidarietà sul lato passivo, per cui quando un’obbligazione viene contratta sul lato
passivo da più soggetti, questi, come regola generale, sono obbligati in solido —>
art. 1292 c.c. “ciascuno dei debitori è tenuto al pagamento dell’intero”
Quindi la controparte, il creditore comune, ha diritto di pretendere da ciascuno dei
debitori, il pagamento dell’intero; è una forma di rafforzamento del credito
sostanzialmente.

A questa che è la regola generale, si contrappongono poi naturalmente delle


eccezioni: una, ad esempio, l’abbiamo introdotta poco fa, cioè quella dei coeredi,
perché i coeredi si obbligano ciascuno per la propria quota —> quindi questo è un
esempio di obbligazione parziaria, è una deroga espressamente prevista dalla
legge.

Quindi la solidarietà è il classico esempio di rapporto plurisoggettivo (parliamo


della solidarietà passiva, perché è quella più comune, ma ciò che si dice per la
solidarietà passiva vale anche per quella attiva) perché, come andremo a vedere,
quando ci sono una serie di debitori che sono coobbligati in solido, tra il comune
debitore e ciascuno dei debitori corre un rapporto giuridico che si connota per una
forma di connessione molto intensa, perché si viene a creare un rapporto giuridico
fra il comune creditore e ciascuno dei debitori solidali, e questo fascio di rapporti
obbligatori, che lega la parte comune a ciascuno dei coobbligati, si connota
proprio per una forma di connessione molto intensa, perché sono rapporti giuridici
che hanno:

- lo stesso petitum, perché ciascuno è obbligato per l’intero

- la stessa causa petendi, perché hanno la stessa origine: può essere un contratto
ma può essere anche un fatto illecito (ad esempio: se più danneggianti sono
responsabili in un incidente, questi sono obbligati tutti in solido rispetto al
danneggiato).

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Un altro esempio lo si trae dalle obbligazioni indivisibili, in cui ricorre la stessa
forma di connessione: abbiamo un fascio di rapporti obbligatori tra la parte
comune e ciascuno dei partecipanti che si connota proprio per l’identità della
causa petendi e del petitum.

Per altro vi ricordo che in base all’art. 1317 c.c. la obbligazioni indivisibili sono
soggette alla disciplina delle obbligazioni solidali (c’è quindi un richiamo espresso
alla disciplina della solidarietà, salvo diversa previsione).

Le obbligazioni indivisibili e quelle solidali hanno una diffusione maggiore di quella


che possiamo immaginare, perché vorrei ricordare che forme di solidarietà o forme
di obbligazioni indivisibili si possono agganciare anche a vicende che interessano
diritti assoluti, come la proprietà.

Dalla violazione di un diritto assoluto, come la proprietà, scaturisce


un’obbligazione derivata di risarcimento del danno.

Ora, se i responsabili della violazione del diritto assoluto sono più di uno, ciascuno
di loro sarà obbligato in solido al risarcimento del danno, quindi anche in queste
ipotesi si applica la regola della solidarietà passiva.

Ma anche in altri ambiti abbiamo forme di rapporti plurisoggettivi, pensiamo agli


status familiari, per esempio, la qualità di figlio. Anche questi sono rapporti giuridici
che vedono necessariamente coinvolte più persone (il padre, la madre e il figlio)
che rientrano nello schema dei rapporti plurisoggettivi.

Oppure pensiamo ad un fenomeno particolare come quello delle impugnazioni


delle delibere assembleari (delibere delle s.p.a.; delibere del condominio; delibere
della comunione): il cod. civ. attribuisce a ciascuno dei soci o dei condomini o dei
comunisti, assenzienti o dissenzienti, il potere di impugnare la delibera
assembleare.

Anche questi ultimi casi rientrano nella definizione di rapporto plurisoggettivo


perché abbiamo una serie di domande giudiziali che hanno ad oggetto situazioni
giuridiche che si connotano ancora per l’identità della causa petendi e del petitum.

Questa categoria dei rapporti plurisoggettivi, che interessa i settori più disparati del
cod. civ. (abbiamo visto i rapporti di famiglia, i rapporti obbligatori, abbiamo visto i
rapporti aventi ad oggetto diritti reali, i rapporti legati a società, comunioni o
condomini ecc.) crea notevolissimi problemi sul piano processuale.

Perché la disciplina di tutte queste fattispecie non è affatto unitaria sul piano
processuale; noi dovremo confrontarci con la disciplina di diritto positivo di tutte
queste fattispecie per capire le esigenze che di volta in volta entrano in gioco, e
alla luce di queste esigenze ricostruire la disciplina processuale.

Vi anticipo subito la conclusione cui arriveremo e cioè che la disciplina


processuale, le regole di svolgimento del processo litisconsortile avente ad
oggetto rapporti plurisoggettivi, non è affatto unitaria, anzi, si va da ipotesi in cui si
applica una disciplina estremamente rigida come quella del litisconsorzio
necessario (art. 102 c.p.c.), si tratta di ipotesi in cui il processo deve svolgersi
dall’inizio alla fine necessariamente tra più parti, ad ipotesi in cui invece la
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disciplina applicabile è quella del litisconsorzio facoltativo, nei termini che abbiamo
esaminato precedentemente parlando delle forme di connessione più blande.

Poi ci sono delle ipotesi che vanno soggette ad una disciplina intermedia che
chiamiamo litisconsorzio unitario o quasi necessario, cioè un litisconsorzio che è
facoltativo quanto all’instaurazione, nel senso che alle parti è data la possibilità, la
facoltà di formare il processo litisconsortile, ma è un litisconsorzio che è
necessario per quanto riguarda la trattazione e decisione, cioè una volta che si è
formato quel processo deve proseguire in forma cumulativa fino alla sua fine.

Quindi possiamo vedere che si tratta di un panorama estremamente eterogeneo.

Ora cominciamo ad esaminare la disciplina più rigida, quella del c.d. litisconsorzio
necessario che trova la propria previsione nell’art. 102 c.p.c.

“Se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste
debbono agire o essere convenute nello stesso processo.
Se questo è promosso da alcune o contro alcune soltanto di esse, il giudice ordina
l’integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito.”
Per altro, la disciplina è completata dal disposto dell’art. 354 e 331 c.p.c.

La caratteristica di questa disciplina processuale è la sua rigidità, nel senso che è


un a disciplina estremamente complessa e pesante.

Cerchiamo di capire il perché.

Come ci dice l’art. 102, si parla di litisconsorzio necessario nei casi in cui il
processo deve svolgersi necessariamente fra più parti, dall’inizio alla fine.

L’art. 102 prevede che se in un'ipotesi rientrante nell’ambito applicativo del


litisconsorzio necessario, la domanda viene proposta da e/o contro alcune soltanto
delle parti necessarie, il giudice ordina la reintegrazione del contraddittorio; si
tratta di un potere che il giudice può esercitare d’ufficio, quindi non c’è bisogno
dell’eccezione di parte.

Che cosa vuol dire “ordina l’integrazione del contraddittorio”?

Il giudice fissa alle parti un termine perentorio entro cui devono procedere alla
chiamata in causa del c.d. litisconsorte pretermesso.

Se le parti ottemperano tempestivamente all’ordine del giudice, il vizio si sana. —>


è una delle ipotesi in cui il legislatore ha previsto un meccanismo di sanatoria che
consente di eliminare un vizio originario con effetto retroattivo, quindi si va avanti
come se non fosse successo niente.

Invece se l’ordine del giudice rimane inadempiuto, se le parti non ottemperano


all’integrazione del contraddittorio, il giudice, in base all’art. 307 c.p.c., ordina la
cancellazione della causa dal ruolo e si ha l’estinzione del processo per inattività
delle parti. Quindi il processo si chiude in rito.

Cosa succede quando la causa passa di fronte al giudice dell’impugnazione?

Naturalmente se una delle parti si rende conto che manca un litisconsorte


necessario lo potrà denunciare al giudice dell’impugnazione, potrà formulare sul
punto un motivo d’impugnazione.

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Si ritiene generalmente però che ciò non sia indispensabile, cioè che il giudice
dell’impugnazione, sia Appello che Cassazione, possano rilevare d’ufficio il vizio e
quindi non è necessaria l’istanza di parte.

In questa particolare ipotesi, secondo la dottrina preferibile, non si applica neppure


uno dei principi fondamentali delle impugnazioni civili, cioè il principio di
conversione dei motivi di nullità in motivi d’impugnazione.

Che cosa vuol dire?

Vuol dire che, se la questione “integrità del contraddittorio” è stata trattata dal
giudice di primo grado, perché è stata sollevata l’eccezione, quindi il giudice di
primo grado ha dovuto prendere una decisione a riguardo e supponiamo che
decida sulla non applicazione dell’art. 102, le regole che sovrintendono le
impugnazioni civili, ci dicono che se una questione è stata tratta e decisa dal primo
giudice, affinché il secondo giudice possa tornare sulla stessa questione, è
necessario che venga formulato un motivo d’impugnazione, altrimenti si forma il
c.d. giudicato interno e la questione è chiusa definitivamente.

In questo caso invece, secondo l’opinione prevalente, questo principio non si


applica, nel senso che il giudice dell’impugnazione, anche se la questione è stata
tratta e decisa in primo grado e non è stata devoluta dal secondo giudice
attraverso la formulazione di uno dei motivi d’impugnazione, il giudice
dell’impugnazione può comunque rilevarla d’ufficio.

Come si spiega questa posizione?

Questa posizione si spiega considerando che nel caso in cui questo vizio non
venga mai rilevato nel corso del processo, quindi nel caso in cui nessuno si
accorga dell’assenza di un litisconsorte necessario, e si arrivi alla sentenza che
passa in giudicato, è pacifico che questa sentenza non produca alcun effetto. È
una sentenza c.d, inutiliter data.
Quindi non produce nessun effetto, né nei confronti del litisconsorte pretermesso,
il che dovrebbe essere comprensibile perché altrimenti ne andrebbe del suo diritto
di difesa, ma non produce effetti neppure fra le parti del processo (coloro che
hanno preso parte al processo).

Poi si attribuisce al litisconsorte pretermesso il potere di eliminare questa sentenza


dal mondo giuridico, perché è vero che non produce effetto, però da noia in
quanto può creare una certa incertezza sul piano delle relazioni giuridiche. Quindi
si attribuisce al litisconsorte pretermesso un mezzo d’impugnazione straordinario
che è l’opposizione di terzo ordinaria, art. 404 primo comma (mezzo che può
essere esercitato anche contro una sentenza che è passata in giudicato).

Cosa dice quindi questa dottrina?

Se questo è un vizio talmente grave da sopravvivere al giudicato esterno, si deve


ritenere, in base all’argomento a fortiori, che sopravviva anche al giudicato interno,
e che quindi, anche se è stata decisa e anche se sul punto non è stato formulato
un motivo d’impugnazione, si deve attribuire al giudice dell’impugnazione il potere
di rilevarla d’ufficio; anche perché, ritenere il contrario, significa creare le condizioni

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perché il processo vada avanti, perdendo un sacco di tempo, senza ottenere
niente (perché comunque la sentenza finale è inutiliter data).

Che cosa succede se la questione viene rilevata dal giudice dell’impugnazione,


supponiamo dal giudice dell’appello?

In deroga a quella che è la disciplina generale, l’art. 354 stabilisce che il giudice
dell’appello deve rinviare la causa di fronte al giudice di primo grado. Quindi si
ricomincia da capo.

Ciò avviene anche nel caso in cui il vizio venga rilevato in Cassazione, anche qua
si ricomincia da capo, dal primo grado.

Quindi vediamo che è una disciplina molto pesante e rigida.

Ciò ci consente di capire l’esigenza di restringere al massimo l’ambito applicativo


di questo istituto.

Ora, ci sono una serie di disposizioni che richiamano espressamente il


litisconsorzio necessario, e qui diciamo che è il legislatore ad aver preso la propria
decisione. Il problema è quella di stabilire se il litisconsorzio necessario si applica
anche al di fuori delle ipotesi espressamente previste; questa è una questione
estremamente dibattuta ed è una questione su cui probabilmente c’è ancora
qualcosa da dire.

Vediamo quali sono le espresse previsioni di legge: prendiamo l’art. 247 cod. civ.

È una disposizione inserita nel primo libro, siamo nell’ambito dei rapporti familiari,
e si occupa dell’azione di disconoscimento della paternità e prevede che:

“il presunto padre, la madre e il figlio sono litisconsorzi necessari nel giudizio di
disconoscimento”
A questa disposizione si correlano poi le disposizioni successive e cioè l’art. 248,
che prevede l’azione di contestazione dello stato di figlio e in cui si prevede al
quarto comma che nel giudizio debbono essere chiamati entrambi i genitori e l’art.
249, che si occupa dell’azione di reclamo dello stato di figlio, in cui è ugualmente
previsto, sempre al quarto comma, che nel giudizio devono essere chiamati
entrambi i genitori.

Quindi queste sono ipotesi in cui l’applicazione dell’art. 102 è espressamente


stabilita dalla legge.

Ma ve ne sono anche delle altre, se noi andiamo a prendere l’art. 1012 c.c. in tema
di usufrutto, ricordiamo essere un articolo richiamato nel primo semestre in tema di
legittimazione straordinaria, perché questa disposizione attribuisce all’usufruttuario
la legittimazione ad esercitare l’actio negatoria e l’actio confessoria servitutis.
Quest’articolo prevede espressamente che se l’usufruttuario esercita queste
azioni, il nudo proprietario è litisconsorte necessario e quindi dev’essere chiamato
in causa.

Ancora, un’espressa previsione la ritroviamo nell’art. 2900 c.c., un’altra delle


ipotesi di legittimazione straordinaria ad agire, ed è l’azione surrogatoria. La
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disposizione dice espressamente al secondo comma che il creditore qualora
agisca giudizialmente deve citare anche il debitore al quale intende surrogarsi (il
che equivale ad un richiamo dell’art. 102 c.p.c., quindi il debitore è litisconsorte
necessario perché il creditore agirà nei confronti del terzo e dovrà chiamare in
causa anche il debitore).

Accanto a queste disposizioni troviamo l’art. 784 c.p.c., questa volta siamo in tema
di divisione ereditaria o scioglimento di una comunione e tale art. contiene una
molteplicità di previsioni.

Infatti ci dice che: “le domande di divisione ereditaria o di scioglimento di qualsiasi


altra comunione debbono proporsi in confronto di tutti gli eredi o condomini e dei
creditori opponenti se vi sono”.
In questo momento a noi interessa solo la prima parte della previsione, cioè
laddove si impone la necessaria partecipazione di tutti gli eredi e di tutti i
condomini.

Oltre a questa previsione, l’art. 144 del decreto legislativo n. 209/2005 prevede un
litisconsorzio necessario anche nell’azione proposta dal danneggiato contro la
società assicuratrice per la responsabilità civile. Prevede appunto che il
danneggiante dev’essere chiamato in causa.

Come possiamo mettere ordine in queste previsioni di legge? E sopratutto come


possiamo risolvere la questione problematica relativa all’esatta delimitazione
dell’ambito applicativo di quest’istituto?

Possiamo innanzitutto isolare, con una certa tranquillità, le ipotesi di cui agli artt.
247, 248, 249 c.c.

Sono ipotesi espressamente previste, si occupano di status familiari, si tratta di


settori con riferimento ai quali è evidente l’esigenza massima di certezza delle
relazioni giuridiche

Il secondo settore, che possiamo isolare con altrettanta facilità, sono i casi di
legittimazione straordinaria ad agire (o sostituzione processuale), cioè i casi
rubricati all’art. 81 c.p.c. in cui il legislatore consente ad un terzo di far valere in
giudizio un diritto altrui in nome proprio.

Ricordatevi che in queste ipotesi, l’attore, colui che esercita l’azione, non è il
titolare del rapporto giuridico controverso, per cui sarà soggetto agli effetti del
processo in quanto parte in senso formale, sarà obbligato alle spese processuali,
ma non sarà soggetto agli effetti della sentenza, semplicemente perché la
sentenza avrà ad oggetto un rapporto giuridico che non gli appartiene.

Allora si capisce che le ipotesi che abbiamo ora richiamato, cioè il disposto degli
artt. 1012 e 2900 c.c. in tema di usufrutto e azione surrogatoria, sono espressioni
della regola generale, quella cioè della necessaria partecipazione al giudizio del
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c.d. legittimato ordinario, colui che è l’affermato titolare del rapporto giuridico
controverso.

Questa previsione la possiamo tranquillamente attribuire all’esigenza all’esigenza


di garantire in maniera adeguata il diritto di difesa di colui che andrà a subire gli
effetti della sentenza.

Per cui diciamo in maniera serena che al di là delle ipotesi di cui agli artt. 1012 e
2900 c.c. , in tutti i casi di legittimazione straordinaria ad agire (ricordiamoci che
sono casi tassativi), laddove l’azione viene esercitata dal legittimato straordinario, il
legittimato ordinario, in quanto affermato titolare della situazione giuridica dedotta
in giudizio è parte necessaria. (Apro una parentesi: non si applica l’art. 102 c.p.c.
se l’azione viene esercitata dal legittimato ordinario, perché allora il legittimato
straordinario non è parte necessaria, perché non va del suo diritto di difesa; può sì
entrare nel processo, ma in virtù della circostanza che spesso questo legittimato
straordinario è titolare di un rapporto giuridico connesso al rapporto di cui è titolare
il legittimato ordinario. Quindi si dovrà far applicazione degli altri istituti strumentali
alla formazione del processo litisconsortile).

Il settore più problematico è quello dei rapporti plurisoggettivi, il settore cioè di cui
parlavamo precedentemente dei rapporti che vedono opposti una parte comune
ed una parte collettiva, in cui abbiamo un fascio di rapporti che esibiscono una
forma di connessione molto intensa, data dall’identità della causa pretendi e del
petitum.

È qui che il problema dei limiti dell’applicabilità dell’art 102 c.p.c. si pone in modo
complesso.

Sul punto sono state formulate le tesi più disparate.

1) Cominciamo dalla tesi più estrema: c’è chi ha affermato che ogni volta che viene
dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo si applica l’art. 102, così si evitano
tutti i problemi. Consideriamo che quando c’è un rapporto plurisoggettivo, data
l’intensità della connessione, appare evidente l’esigenza di assicurare l’armonia
delle decisioni. Quindi potrebbe sembrare la soluzione più semplice, più
comprensibile.

Ma così non è, perché è lo stesso legislatore che, con riferimento ad alcune delle
ipotesi più importanti di rapporti plurisoggettivi, ci dice che non si applica l’art.
102.

Per esempio, prendiamo le obbligazioni solidali e la solidarietà passiva, e andiamo


a vedere l’art. 1306 c.c. che si occupa della sentenza resa nei confronti di alcuni
soltanto fra i più coobbligati solidali.

Cosa mi dice l’art. 1306?

Esso detta una regola un pò particolare, cioè quella dell’efficacia del giudicato
secondum eventus litis, ci dice infatti che: “la sentenza pronunziata tra il creditore e
uno dei  debitori in solido, o tra il  debitore  e uno dei  creditori in solido, non ha
effetto contro gli altri debitori o contro gli altri creditori”. La disposizione si occupa
del caso in cui (pensiamo ancora una volta alla solidarietà passiva) un processo ha
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visto opposto uno solo dei debitori solidali e il creditore comune, e mi dice che la
sentenza che è stata pronunciata contro il debitore solidale, quindi a sfavore del
debitore solidale, non è opponibile ai condebitori che sono rimasti estranei al
processo.

Ma a prescindere dal contenuto della regola, che cosa mi dice questa


disposizione?

Mi dice che la sentenza resa nei confronti di uno soltanto dei condebitori solidali è
una sentenza valida e efficace, quindi è una disciplina incompatibile con quella
dell’art. 102 c.p.c., perché abbiamo detto che in ipotesi in cui si applica l’art 102,
se la sentenza viene resa in assenza di uno dei litisconsorzi necessari, questa
sentenza è una sentenza inutiliter data. Mentre nell’art. 1306 c.c. si dice
semplicemente che non ha effetto nei confronti dei condebitori rimasti estranei al
processo, non dice si dice che la sentenza non produce effetti in assoluto. E infatti
dalla lettura di tutto l’art. 1306 si ricava che se invece la sentenza non è emessa
CONTRO il condebitore solidale, ma A FAVORE del condebitore solidale, il
condebitore rimasto estraneo al processo se ne può avvalere, e quindi l’efficacia si
estende al condebitore solidale rimasto esterno la processo se favorevole, mentre
invece non gli è opponibile se sfavorevole. Quindi è un’efficacia che varia a
seconda del contenuto della sentenza.

Ma quello che ci interessa sottolineare è che a fronte del disposto dell’art. 1306
possiamo tranquillamente escludere che tutto il settore delle obbligazioni solidali
e diciamo anche quello delle obbligazioni indivisibili, sicuramente non rientrano
nell’ambito applicativo dell’art. 102 c.p.c.

Lo stesso si può dire con riferimento al settore delle impugnazioni delle delibere
assembleari (artt. 2377 e 2378 c.c.). in cui si parla dell’impugnazione da parte dei
soci assenti o dissenzienti; anche in questa ipotesi la disciplina dà per
presupposto che soltanto alcuni dei soci assenti o dissenzienti prendano parte al
processo, ma dice anche che la sentenza emessa è efficace nei confronti di tutti,
non soltanto di coloro che hanno preso parte al processo, ma anche di tutti gli altri
soci, perché nell’ambito del diritto societario vale il principio maggioritario, per cui
la delibera o è efficace o nei confronti di tutti o di nessuno.

A fronte di queste previsioni quindi possiamo capire che la tesi secondo cui in tutte
le ipotesi di rapporti plurisoggettivi si applica l’art. 102 è una tesi che non trova
riscontro nel dato normativo, e quindi la possiamo sicuramente eliminare.

2) La seconda tesi, formulata in maniera molto autorevole da Francesco Carnelutti,


è quella secondo cui si applica l’art. 102 soltanto dei casi espressamente previsti
dalla legge.

È una tesi che ha un grande pregio, quello della semplificazione, perché riduce a
pochi casi l’ambito di applicazione di un istituto talmente pesante e complesso.

È una tesi che da molti anni viene contestata perché contraddice una serie di
indirizzi giurisprudenziali e di riflessioni dottrinali assolutamente pacifici.

Per ora mettiamo da parte questa tesi, non la scartiamo, ci torneremo.

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3) La terza tesi è quella accolta dalla giurisprudenza e da una parte significativa
della dottrina.

Secondo questa tesi si applica il litisconsorzio necessario (l’art. 102) in tutti i casi in
cui il rapporto plurisoggettivo è oggetto di un’azione costitutiva, quindi c’è un
richiamo all’art. 2908 c.c.

Questa è una posizione che desta non poche perplessità.

In primissima battuta perché la categoria delle azioni costitutive da molto tempo è


oggetto di un’operazione di profonda revisione. Vi ricordo che le sentenze gemelle
del 2014 in tema di contratto e processo, pur non essendosi occupate
volutamente della definizione di azione di impugnativa contrattuale, affermando
che l’oggetto del processo e del giudicato non è il diritto potestativo a necessario
esercizio giudiziale ma è la rilevanza giuridica del negozio giuridico impugnato,
hanno messo sul tavolo tutti gli elementi per sostenere che le azioni di impugnativa
negoziale in verità non sono azioni costitutive (ricordiamoci che le sentenze
gemelle del 2014 non hanno fatto altro che accogliere un orientamento già emerso
in dottrina facente capo al prof. Protopisani).

Quindi già questa prima argomentazione ci consente di capire che questo indirizzo
giurisprudenziale desta qualche perplessità, perché non si sa con esattezza cosa è
e cosa non è un’azione costitutiva, e siccome la disciplina dell’art. 102 è una
disciplina estremamente pesante, perché il rischio è che se poi non si integra il
contraddittorio la sentenza è inutiliter data, la situazione è tale da far emergere
delle esigenze di certezza molto forti che in tal modo non sarebbero soddisfatte.

L’applicazione di questa tesi conduce a delle conseguenze che non sono


facilmente accettabili, infatti se noi anche provassimo a seguire questo filone
giurisprudenziale, con riferimento alle azioni di impugnativa negoziale si dovrebbe
ritenere che: mentre l’azione di nullità è pacificamente ritenuta un’azione
dichiarativa, le azioni di annullamento, rescissione e risoluzione dovrebbero essere
considerate azioni costitutive rientranti nell’art. 2908.

Seguendo questa tesi si dovrebbe ritenere che se abbiamo un contratto a


prestazioni sinallagmatiche a parti collettive, quindi il classico esempio di ipotesi in
cui dal contratto scaturiscono dei rapporti plurisoggettivi, se viene esercitata
un’azione di nullità, siccome è un’azione dichiarativa, non si applica l’art. 102;
mentre invece se viene esercitata un’azione di annullamento, rescissione o
annullamento, trattandosi di azioni costitutive, si deve applicare l’art. 102.

Ora, possiamo capire che quest’affermazione non è facile da accettare, non è del
tutto convincente, perché in fin dei conti quando si esercita un’azione
d’impugnativa negoziale, che sia di nullità o che sia d’annullamento, rescissione o
risoluzione, lo scopo è sempre quello di ottenere una dichiarazione di non
esistenza degli effetti del contratto.

E allora come si spiega che nelle ipotesi di annullamento, rescissione o risoluzione


TUTTE le parti devono essere necessariamente essere presenti nel processo,
mentre invece se viene esercitata un’azione di nullità non è necessario?

17
È una situazione che difficilmente si presta ad essere accettata.

4) Allora, a fronte di queste osservazioni, si spiega la posizione che ha assunto


un’altra parte della dottrina, la quale ha posto l’accento sulla nozione di efficacia
della sentenza, affermando cioè che in ipotesi di rapporti plurisoggettivi, si deve
applicare l’art 102 ogni volta che la presenza di tutte le parti coinvolte è necessaria
affinché la sentenza richiesta dall’attore produca la sua efficacia.

Quindi l’ambito applicativo dell’art. 102 viene ricostruito partendo dal petitum, cioè
dall’oggetto della domanda, si guarda quello che ha chiesto l’attore, l’effetto che
egli ha chiesto.

Se tutte le parti coinvolte devono essere presenti nel processo affinché si produca
l’effetto richiesto dall’attore,, si applica l’art. 102

Se invece non è indispensabile non si applica l’art. 102.

Questo principio è stato poi declinato con riferimento alle singole fattispecie,
vediamo un paio d’esempi.

Partiamo proprio dalle azioni di impugnativa contrattuale e pensiamo proprio


all’ipotesi in cui oggetto dell’azione d’impugnativa contrattuale sia un contratto
sinallagamatico a parti collettive ad effetti reali, quindi il classico contratto di
compravendita in cui sul lato attivo o su quello passivo c’è una pluralità di soggetti.

Pensiamo all’ipotesi in cui venga proposta un’azione d’impugnativa contrattuale


nei confronti di questo contratto—> se l’attore vuole ottenere lo scioglimento di
questo vincolo, si osserva che è indispensabile che tutte le parti siano presenti nel
processo, perché il c.d. effetto reale (l’effetto traslativo) o viene meno miei
confronti di tutti o non viene meno nei confronti di nessuno.

L’effetto reale è un effetto che non si presta ad essere scisso.

Allora in ipotesi in cui venga impugnato un contratto sinallagmatico a parti


collettive che abbia effetti reali, s’impone la regola del litisconsorzio necessario
(art. 102), perché questo vincolo o si scioglie nei confronti di tutti o non si scioglie
nei confronti di nessuno. L’effetto reale è un effetto inscindibile.

E se invece il contratto ha effetti obbligatori? Come regola generale è accettabile


che l’azione venga esercitata nei confronti di alcune soltanto delle parti, perché il
sistema consente che il vincolo obbligatorio rimanga in piedi nei confronti di alcuni
e non nei confronti di altri. Con un’unica

eccezione: l’ipotesi in cui una delle obbligazioni sia un’obbligazione ad attuazione


necessariamente congiunta. —> Prendiamo l’ipotesi di un contratto stipulato con
un trio musicale. Il trio musicale contrae un’obbligazione di mezzi e stante la natura
della prestazione, è chiaro che l’interesse della controparte viene realizzato solo se
TUTTO il trio si esibisce, e non se si esibisce solo uno dei tre.

Quindi laddove il contratto sia sinallagmatico, a parti collettive e ad effetti


obbligatori, ma una delle obbligazioni è ad attuazione necessariamente congiunta,
appare chiaro che lo scioglimento del vincolo lo si potrà avere solo se tutte le parti
prendono parte al processo, altrimenti non è accettabile, cioè l’attore non riesce ad
ottenere l’effetto desiderato.

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Viceversa, laddove si tratti di un contratto sinallagmatico a parti collettive ad effetti
obbligatori che non rientrano in questa particolare fattispecie, l’applicabilità dell’art
102 (litisconsorzio necessario) non è affatto necessaria.

Lezione 2 - 12/03/20
TUTELA SOMMARIA

Cari studentesse e cari studenti diamo avvio alle lezioni di didattica on-line che
saranno dedicate innanzitutto alla tutela sommaria. Ho pensato di anticipare in
questa sede la parte speciale del corso, perché ritengo sia la parte più semplice
del programma, quindi destinata a creare minori problemi. Spero infatti di
riprendere il prima possibile le lezioni frontali, perché vorrei affrontare in aula,
insieme a voi, la parte più complessa del programma ovvero la connessione tra
parti diverse e le impugnazioni.

Parliamo allora della tutela sommaria. Il termine tutela sommaria ci richiama alla
cognizione sommaria che, come è facile comprendere, si contrappone alla
cognizione cosiddetta piena. La cognizione piena trova attuazione nell'ambito del
processo a cognizione piena che è disciplinato nel secondo libro del codice di
procedura civile. I processi a cognizione sommaria sono per lo più previsti nel
quarto libro del codice di procedura civile negli articoli 633 ss. Le disposizioni del
quarto libro non esauriscono però il novero dei procedimenti speciali, perché
procedimenti speciali si rinvengono anche nel codice civile e nelle leggi speciali.
Cerchiamo innanzitutto di offrire una definizione di cognizione sommaria. Per farlo
andiamo a recuperare la nozione di cognizione piena, perché è a partire da questa
che possiamo offrire una definizione dell'altra. A suo tempo abbiamo affermato
che le caratteristiche della cognizione piena sono tre. Innanzitutto la rigida
predeterminazione a livello legale e astratto di tutte le regole di svolgimento del
processo. In secondo luogo la realizzazione piena e anticipata del contraddittorio.
In terzo luogo la stabilità del provvedimento finale.

Per quanto riguarda la predeterminazione a livello legale e astratto delle regole di


svolgimento del processo, abbiamo evidenziato, a conclusione delle analisi delle
disposizioni del secondo libro del codice di procedura civile, come il legislatore
abbia predeterminato a livello legale tutte le forme e i termini di svolgimento del
processo e in particolare tutti i doveri, poteri, facoltà processuali appartenenti vuoi
alle parti vuoi al giudice. Questo con riferimento a tutte le fasi del processo: la fase
introduttiva e di trattazione, la fase istruttoria e la fase decisoria. In modo
particolare abbiamo evidenziato che il legislatore ha predeterminato le forme e i
termini con riferimento al potere di allegazione in punto di domande, eccezioni dei
fatti che ne costituiscono il fondamento; con riferimento all'individuazione dei
mezzi di prova precostituiti o costituendi; con riferimento alle modalità di
assunzione delle prove nel processo; nonché dei soggetti su iniziativa dei quali le
prove possono essere acquisite nel processo; con riferimento ai termini a difesa
delle parti in ogni fase del processo.

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La seconda caratteristica riguarda l'attivazione piena e anticipata del
contraddittorio. A suo tempo abbiamo evidenziato che nell'ambito del processo a
cognizione piena il giudice emana il provvedimento finale solo dopo che tutti
coloro che prendono parte al processo hanno avuto modo di far valere le proprie
difese. Questo non soltanto nella fase di avvio del processo ma lungo tutto il corso
di svolgimento del processo.

La terza caratteristica riguarda il provvedimento finale. Il processo a cognizione


piena tendenzialmente si chiude con un provvedimento che ha la forma della
sentenza e che dovrebbe essere una sentenza di merito. Una sentenza cioè che
contiene l'accertamento di esistenza o non esistenza del diritto fatto valere in
giudizio. La sentenza di merito, una volta passata in giudicato formale (art. 324
cpc.), ovvero dopo che sono stati esauriti tutti i gradi di impugnazione o, il che è lo
stesso, dopo che sono inutilmente decorsi i termini per impugnare, passa in
giudicato formale. Il giudicato formale è condizione necessaria ma non sufficiente
affinché la sentenza acquisti l'autorità di cosa giudicata materiale, così come
definita nell'articolo 2909 cc a tenore del quale " la sentenza passata in giudicato
fa stato tra le parti, i loro eredi e aventi causa".

Le caratteristiche della cognizione sommaria sono molto diverse.

Intanto la prima caratteristica è data dalla deformalizzazione delle regole di
svolgimento del processo. Infatti nell'ambito dei procedimenti a cognizione
sommaria non si applicano le regole di svolgimento dettate dal legislatore nel
secondo libro del cpc. La norma di riferimento è l'art 669 sexies del cpc. Si tratta
di una norma inserita tra le disposizioni dedicate al procedimento cautelare
generale, ovvero il procedimento per il cui tramite è possibile ottenere il rilascio di
un provvedimento cautelare, che è uno dei possibili provvedimenti sommari. L'art
669 sexies nel primo comma prevede che " il giudice, sentite le parti, omessa ogni
formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più
opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini
del provvedimento richiesto". Poi stabilisce che " il giudice provvede con
ordinanza all'accoglimento o al rigetto della domanda". Ora la prima parte della
disposizione possiamo indicarla come la definizione della cognizione sommaria.
Da questa disposizione si ricava che non è la legge a dettare le regole di
svolgimento del procedimento, ma è il giudice a stabilire le regole di svolgimento
del procedimento. È il giudice che, omessa ogni formalità non essenziale al
contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione.
In modo particolare possiamo affermare che nell’ambito del procedimento a
cognizione sommaria si ha una deroga in modo preciso a tutte le disposizioni
relative alla fase istruttoria, in particolare con riferimento alle disposizioni relative
alle modalità di acquisizione delle prove. Quindi per essere ancora più concreti,
quando il giudice dovrà acquisire una fonte materiale di prova e le fonti materiali di
prove non potranno che essere le stesse del processo a cognizione piena
(documento, dichiarazione di scienza del terzo, ispezione) non è tenuto a rispettare
le regole del processo a cognizione piena che disciplinano le modalità di
acquisizione delle prove.

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Le prove potranno essere acquisite secondo modalità diverse. E questo vale
soprattutto in riferimento all’acquisizione delle dichiarazioni di scienza dei terzi, le
quali potranno essere acquisite anche attraverso modalità diverse da quella della
testimonianza che sono rigide. In particolare queste impongono che la prova si
formi in udienza, nel contraddittorio tra le parti e il giudice. Allora a fronte di questa
definizione possiamo dire che la cognizione sommaria è una cognizione che si
connota per essere superficiale proprio perché è una cognizione che il giudice
svolge in deroga alle disposizioni dettate per il processo a cognizione piena.

La seconda caratteristica della tutela sommaria riguarda il contraddittorio. Infatti


nell' ambito dei procedimenti a cognizione sommaria può trovare applicazione
l'articolo 101 cpc, nella parte in cui prevede che nei casi stabiliti dalla legge il
contraddittorio può essere attivato in via posticipata. Il contraddittorio è un
principio costituzionale oggi imposto dall'articolo 111 della Costituzione. Abbiamo
più volte sottolineato che laddove il legislatore dettasse uno schema di
procedimento in cui il contraddittorio non è previsto, la questione di legittimità
costituzionale sarebbe immediatamente sollevata. È possibile per il legislatore
prevedere che il contraddittorio venga posticipato e che il procedimento si svolga
in una prima parte inaudita altera parte, cioè in presenza del solo attore. Questo è
quanto si può verificare nell'ambito di alcuni procedimenti sommari. In primo luogo
nel procedimento per ingiunzione che è il primo procedimento che andremo ad
analizzare.

La prima caratteristica del procedimento di ingiunzione è che prende avvio dalla


domanda dell’attore che è un creditore, domanda presentata in forma di ricorso e
che apre una prima fase che si svolge in assenza del convenuto, il debitore, che
non è neppure a conoscenza dell'avvenuta presentazione della domanda. Solo se
il giudice accoglie l'istanza quindi emana un provvedimento di accoglimento che
avrà la forma del decreto (decreto ingiuntivo) allora si avrà l'attivazione del
contraddittorio. Questo perché il creditore-attore avrà l'onere di notificare al
debitore vuoi il ricorso introduttivo vuoi il decreto ingiuntivo entro un termine posto
a pena di decadenza. Un' altra previsione si ha nell'ambito del procedimento
cautelare generale. Abbiamo già richiamato l'articolo 669 sexies che al primo
comma prevede la regola generale ed è quella che il procedimento si svolga nel
contraddittorio delle parti. Nel secondo comma si prevede un’eccezione. Cioè si
prevede che quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare
l'attuazione del provvedimento il giudice, su richiesta del ricorrente, potrà
provvedere inaudita altera parte. Quindi è prevista, come eccezione, la possibilità
per il ricorrente di chiedere al giudice di procedere in una prima fase inaudita altera
parte. Se il giudice ritiene sussistente la condizione stabilita dalla legge e ritiene
fondato il ricorso emanerà un provvedimento in forma di decreto dove, oltre ad
accogliere l'istanza, fissa la data di comparizione di entrambe le parti di fronte a
sé. Quindi il ricorrente dovrà portare a conoscenza del convenuto vuoi il ricorso
vuoi il decreto del giudice, dopodiché le parti compariranno in udienza di fronte al
giudice. A conclusione dell’udienza di fronte al giudice, il giudice con ordinanza
potrà modificare, confermare, revocare il precedente decreto. In tutti i casi in cui il
21
procedimento sommario passa attraverso una fase inaudita altera parte, e questo
potrà avvenire solo nei casi espressamente previsti dalla legge così come imposto
dall'articolo 101 cpc., la cognizione del giudice sarà sommaria perché superficiale,
ma anche perché parziale. Perché il giudice in assenza del convenuto dovrà
provvedere sulla base dei soli elementi portati di fronte a lui dall'attore. La terza
caratteristica dei procedimenti a cognizione sommaria riguarda il provvedimento
finale. I procedimenti sommari si chiudono con provvedimenti che non hanno la
forma della sentenza ma di volta in volta avranno la forma del decreto o
dell'ordinanza. Questi provvedimenti non hanno l'attitudine ad acquistare l’autorità
della cosa giudicata ex art 2909cc. Ma qui occorre fare una distinzione perché la
famiglia dei provvedimenti sommari si divide in due grossi gruppi. Abbiamo i
provvedimenti sommari non cautelari e quelli cautelari. Con riferimento ai
provvedimenti sommari cautelari l’art 669 decies cpc, una disposizione inserita tra
quelle che disciplinano il procedimento cautelare generale, prevede che "le misure
cautelari sono suscettibili in qualsiasi momento di essere revocate o modificate
dallo stesso giudice della cautela". Per questo si dice che le misure cautelari sono
provvisorie quindi totalmente prive di attitudine ad acquisire l'autorità di cosa
giudicata. Invece con riferimento ai provvedimenti sommari di tipo non cautelare
(decreto ingiuntivo) la legge stabilisce che in presenza di talune condizioni il
provvedimento può acquisire una stabilità che sul piano qualitativo è analoga
all'autorità della cosa giudicata, ma sul piano quantitativo è diversa. È più ristretta
perché limitata solo e soltanto alla coppia pretesa obbligo dedotta in giudizio non
potendo estendersi al rapporto giuridico fondamentale in cui la coppia pretesa
obbligo si inserisce. Per questo motivo anziché di autorità di cosa giudicata si
preferisce parlare di preclusione pro iudicato.

La tutela sommaria la ritroviamo nell’ambito dei procedimenti disciplinati nel quarto


libro del codice di procedura civile che reca la rubrica "Procedimenti speciali".
Cosa significa procedimenti speciali? Parlando del processo a cognizione piena
abbiamo evidenziato che rappresenta lo strumento in cui trova sfogo il diritto di
azione. L'articolo 24 primo comma della Costituzione afferma che " tutti possono
agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi". Dalla
formulazione di questa disposizione noi abbiamo ricavato il principio di atipicità del
diritto di azione. Il diritto di azione può essere esercitato da qualsiasi cittadino in
riferimento a qualsivoglia situazione giuridicamente rilevante. Abbiamo detto che il
diritto di azione trova sfogo nel processo a cognizione piena perché all'atipicità del
diritto di azione corrisponde l'atipicità del processo a cognizione piena. Esso è un
meccanismo idoneo ad accogliere qualsiasi situazione giuridicamente rilevante.
Mentre i procedimenti a cognizione sommaria, i procedimenti speciali disciplinati
nel quarto libro del cpc si connotano per essere procedimenti tipici, ovvero
procedimenti che possono essere utilizzati con riferimento esclusivo alle ipotesi
indicate dal legislatore. Con riferimento esclusivo alle situazioni giuridiche di volta
in volta indicate dal legislatore. A questa che è la regola generale, si contrappone
una importantissima eccezione rappresentata dall'articolo 700 cpc. L'articolo 700
cpc introduce il provvedimento d'urgenza, la tutela urgente. È il più importante
22
provvedimento cautelare. Questo provvedimento si connota per la sua atipicità,
cioè è un provvedimento che nei limiti in cui l'attore vuole evitare un pregiudizio
irreparabile può essere richiesto in riferimento a qualsivoglia situazione
giuridicamente rilevante. I procedimenti speciali non sono solo quelli disciplinati nel
quarto libro del cpc, perché procedimenti speciali si rinvengono anche nel codice
civile e nelle leggi speciali. A questo punto si tratta di chiarire perché il legislatore
accanto al procedimento a cognizione piena prevede anche dei procedimenti
speciali. Non è una scelta originale del legislatore italiano perché tutti i legislatori
prevedono procedimenti speciali. I procedimenti speciali assolvono ad alcune
esigenze fondamentali. In primo luogo assicurare l’effettività della tutela
giurisdizionale. In secondo luogo assicurare l'economia processuale. In terzo luogo
evitare l'abuso del diritto di difesa. La funzione più importante è quella di garantire
l'effettività della tutela giurisdizionale. Analizzando le regole di svolgimento del
processo a cognizione piena abbiamo evidenziato che lo stesso, stante le
caratteristiche su cui ci siamo soffermati, ha una durata fisiologica. Prescindendo
dalla durata patologica in cui versa il processo civile italiano, il processo a
cognizione piena ha fisiologicamente una durata di diversi mesi. È la conseguenza
imposta dalla circostanza che il legislatore ha predeterminato a livello legale e in
maniera rigida tutte le regole di svolgimento del processo. Questa durata
fisiologica del processo a cognizione piena può causare all'attore, che ha subito la
crisi di cooperazione ed è quindi costretto a rivolgersi al giudice per avere giustizia,
un danno marginale. Un danno, un pregiudizio che va a sommarsi a quello che ha
subito a causa della condotta della controparte. Allora la tutela sommaria è
costruita per azzerare, comprimere il danno marginale che l'attore può subire a
causa della durata del processo a cognizione piena.

Per capire l'importanza di questa funzione è importante ricordare che nell’ambito


del processo civile vengono dedotte situazioni che talvolta hanno un contenuto e
una funzione non patrimoniale (libertà fondamentali, diritti della personalità). Si
tratta di situazioni giuridiche che non possono rimanere in uno stato di
insoddisfazione per tutto il corso di svolgimento del processo a cognizione piena.
Questo perché lo stato di insoddisfazione protratto per tutto il tempo del processo
a cognizione piena potrebbe causare un pregiudizio irreparabile. Cioè un
pregiudizio che l'ordinamento processuale non può adeguatamente riparare,
perché l'equivalente monetario non è idoneo a ripararlo. Lo stesso vale per
situazioni giuridiche che pur avendo un contenuto patrimoniale svolgono una
funzione non patrimoniale, perché sono volte a garantire la sopravvivenza della
persona (diritto al mantenimento, diritto agli alimenti, retribuzione). Si tratta di
situazioni aventi ad oggetto il pagamento di una somma di denaro ma sono
strumentali a garantire la sopravvivenza della persona. Per cui, se lasciate
insoddisfatte per tutta la durata del processo a cognizione piena, potrebbero
essere la causa di un pregiudizio irreparabile. Allora per evitare situazioni di questo
tipo l'ordinamento consente all'attore che ha ragione, attraverso un procedimento
a cognizione sommaria, che avrà tempi di svolgimento più contratti del processo a
cognizione piena, di ottenere un provvedimento anticipatorio. Cioè un
23
provvedimento che anticipa il contenuto della futura sentenza di accoglimento
della domanda emanata a conclusione del processo a cognizione piena. A questa
funzione l'ordinamento assolve sia attraverso i procedimenti sommari non cautelari
( procedimento in tema di mantenimento dei figli di cui all'articolo 336 bis cc o il
procedimento di repressione della condotta antisindacale art 28 legge 300/1970)
sia attraverso i procedimenti sommari di tipo cautelare (tutela urgente art 700cpc).
Con riferimento a queste particolari hp vorrei fare riferimento a un principio
enunciato dalla Corte costituzionale italiana nella sentenza 190/1985 in cui la Corte
ha affermato che la tutela sommaria, in quel caso si trattava della tutela urgente,
laddove è volta ad evitare un pregiudizio irreparabile è una componente doverosa
dell'ordinamento processuale. IL redattore di questa sentenza non a caso è un
noto processualcivilista il professor Virgilio Andrioli. Un principio analogo è stato
affermato dalla Corte di Giustizia europea nel 1990 nella nota sentenza Factortame
, in cui ha affermato che il principio di effettività della tutela che, nell'ordinamento
europeo è un principio generale, cioè di rango costituzionale, rende indispensabile
un sistema di tutela sommaria. Nella parte in cui assolve a questa funzione, nella
parte in cui mira all'effettività della tutela e ad evitare un pregiudizio irreparabile è
una componente costituzionalmente doverosa dell'ordinamento processuale. La
tutela sommaria assolve alla funzione di assicurare l'effettività della tutela anche
secondo un diverso profilo. Nella durata del processo a cognizione piena infatti si
possono verificare dei fatti che possono pregiudicare l'esecuzione della futura
sentenza di condanna. Facciamo un esempio. Supponiamo che il creditore agisca
in giudizio contro il creditore per ottenere una sentenza di condanna al pagamento
di una somma di denaro. E' ben possibile che il nostro debitore approfitti della
lunghezza del processo a cognizione piena per disperdere l'intero patrimonio, così
che quando il creditore otterrà la sentenza di condanna che, sulla base dell'articolo
272 cpc, è provvisoriamente esecutiva ex lege e andrà a metterla in esecuzione
per ottenere materialmente il soddisfacimento delle sue pretese, non troverà più
niente. Allora per evitare che la lunghezza del processo a cognizione piena possa
pregiudicare la fruttuosità pratica della futura sentenza di condanna l'ordinamento
processuale consente di passare attraverso un procedimento sommario e ottenere
un provvedimento conservativo. Un provvedimento cioè che impedisce che nel
corso del processo si verifichino questi fatti idonei a pregiudicare la fruttuosità
pratica, l'esecuzione della futura sentenza di condanna. A questa funzione
assolvono alcuni provvedimenti cautelari cosiddetti conservativi, ad esempio il
sequestro conservativo che è il provvedimento che chiederà il creditore di una
somma di denaro e che consentirà al creditore di creare sul patrimonio del
debitore un vincolo di indisponibilità, per cui eventuali atti dispositivi posti in
essere dal debitore non saranno efficaci nei confronti del creditore. La seconda
fondamentale esigenza a cui assolve la tutela sommaria è quella di assicurare
l'economia dei giudizi. Il processo a cognizione piena, data la sua complessità, ha
un costo in termini di energia, tempo, denaro. Questo costo è accettabile laddove
tra le parti c'è una lite da pretesa contestata, cioè c'è un'effettiva controversia tra
le parti, c'è una contestazione effettiva. Ci sono hp in cui tra le parti sorge una lite
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da pretesa insoddisfatta, banalmente una parte non vuole adempiere alle proprie
obbligazioni. Con riferimento a queste hp il legislatore ha messo a disposizione dei
cittadini una serie di procedimenti sommari il cui scopo è evitare il processo a
cognizione piena laddove il convenuto non ha delle reali contestazioni. Questa
esigenza viene assolta dal procedimento per ingiunzione. Il procedimento per
ingiunzione passa per una prima fase inaudita altera parte, che si svolge alla
presenza del solo creditore. Se il giudice accoglie la sua istanza emana il
provvedimento chiamato decreto ingiuntivo. A quel punto si avrà l'attivazione del
contraddittorio, perché il creditore dovrà procedere alla notifica del ricorso e del
decreto ingiuntivo al debitore. A questo punto la parola passa al debitore, il quale,
se non ha delle contestazioni, dovrà pagare. Ma se ha delle contestazioni in ordine
all'esistenza o all'ampiezza del diritto fatto valere dal creditore, potrà aprire la
seconda fase del procedimento. È una fase eventuale, attraverso l'opposizione al
decreto ingiuntivo che determina l'apertura di una seconda fase che si svolge nelle
forme della cognizione piena. Questa stessa esigenza viene assolta anche da altri
procedimenti a partire dal procedimento per convalida di sfratto in tema di
locazione e che riguarda il diritto del locatore di ottenere il rilascio dell'immobile.
Ma a questa funzione rispondono anche altri istituti, per esempio una serie di
provvedimenti sommari che possono essere emanati nell'ambito del processo a
cognizione piena. In modo particolare le ordinanze anticipatorie di condanna
disciplinate negli articoli 186 bis e 186 ter cpc. L'articolo 186 ter non è altro che
l'innesto del procedimento per ingiunzione nel processo a cognizione piena.
L'ordinanza di pagamento delle somme non contestate, invece, è un
provvedimento sommario che ha come presupposto la non contestazione dei fatti
da parte del convenuto. Quindi il legislatore fa riferimento al contegno del
convenuto per consentire all'attore di ottenere un provvedimento favorevole che
costituisce titolo esecutivo. L a stessa funzione viene assolta anche da istituti che
hanno una collocazione completamente diversa, tipo i titoli esecutivi aventi una
collocazione stragiudiziale, ovvero che offrono al creditore di bypassare la fase di
cognizione e aprire immediatamente il processo esecutivo. I titoli esecutivi di
formazione stragiudiziale consentono di azzerare il tempo che intercorre tra il
momento in cui si verifica la crisi di cooperazione e il momento in cui il creditore
potrà essere concretamente soddisfatto. Anche qua viene lasciato spazio al diritto
di difesa del debitore. Perché se questi vuole contestare l'esistenza o l'ammontare
del credito fatto valere, messo in esecuzione dal creditore potrà avvalersi
dell'opposizione al precetto o opposizione all'esecuzione( 615 cpc) e aprire un
processo a cognizione piena in cui potrà chiedere al giudice, tra le altre cose, di
accertare anche l'esistenza o l'esatto ammontare del credito messo in esecuzione
dal creditore. La terza esigenza a cui assolve la tutela sommaria è quella di evitare
l'abuso del diritto di difesa. A fronte di una domanda fondata, il convenuto, che sa
di avere torto, è possibile che cerchi di allungare i tempi di svolgimento del
processo introducendo tutta una serie di eccezioni anche non fondate che
obbligano il giudice anche ad un'istruttoria molto complessa e lunga. Per evitare
che il convenuto possa abusare del proprio diritto di difesa, il legislatore in alcune
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hp tassative consente all’attore di ottenere un provvedimento di condanna con
riserva di eccezioni. Ovvero si prevede che il giudice nel corso del processo possa
emanare un provvedimento favorevole all'attore, quindi un provvedimento di
condanna basato su un accertamento pieno di esistenza dei fatti costitutivi o sulla
non contestazione dei fatti costitutivi da parte del convenuto e su una valutazione
di probabile non esistenza dei fatti modificativi, estintivi, impeditivi. Si tratta di un
provvedimento condizionato perché all'emanazione del provvedimento segue lo
svolgimento del processo volto ad accertare la fondatezza, a cognizione piena,
delle difese svolte dal convenuto. L'attore ottiene subito il provvedimento
favorevole e i tempi di svolgimento del processo sono addossati al convenuto.

SECONDA PARTE

Dicevamo che l’esigenza di evitare l’abuso del diritto di difesa del convenuto è
assicurata dai provvedimenti di condanna con riserva di eccezioni. Si tratta di
provvedimenti che il giudice può emanare previo accertamento a cognizione piena
dell’esistenza dei fatti costitutivi o, il che è lo stesso, previa non contestazione da
parte del convenuto dei fatti costitutivi dei fatti che l’attore ha posto a fondamento
della sua domanda, e previa valutazione di verosimile non esistenza dei fatti
modificativi, estintivi e impeditivi. Si tratta di un provvedimento di condanna, quindi
che accoglie la domanda dell’attore, che è risolutivamente condizionato
all’accertamento della fondatezza di esistenza dei fatti modificativi, estintivi e
impeditivi introdotti dal convenuto, per questo si parla di provvedimento di
condanna con riserva di eccezioni. Attraverso questo tipo di provvedimenti il
legislatore consente all’attore di ottenere immediatamente, o comunque in tempi
rapidi, il provvedimento favorevole e, disponendo il prosieguo del processo ai fini
dell’accertamento pieno della esistenza o non esistenza dei fatti modificativi,
estintivi e impeditivi introdotti dal convenuto, addossa i tempi di svolgimento del
processo al convenuto stesso. Ecco perché questa tecnica si ritiene sia volta ad
evitare l’abuso del diritto i difesa del convenuto. Si tratta di una forma di tutela che
il legislatore italiano non ha generalizzato ma che ha previsto in singole ipotesi.
Posso ricordare, a titolo di esempio, l’ordinanza immediata di rilascio dell’immobile
locato ai sensi dell’art.665 c.p.c., o il decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente
esecutivo nel corso del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo di cui all’art.
648 co.1 c.p.c., ma posso richiamare ulteriori ipotesi che abbiamo richiamato nel
corso del primo semestre ovvero la disciplina contenuta nell’art.35 in tema di
eccezione di compensazione richiamata dal successivo art.36 in tema di domanda
riconvenzionale. Terminata l’analisi delle esigenze cui assolve la tutela sommaria,
diamo avvio all’analisi dei singoli procedimenti sommari seguendo la sistematica
del codice, e in particolare del Libro IV del Codice di procedura civile.

Procediamo all’analisi del PROCEDIMENTO DI INGIUNZIONE. Questo è un


procedimento sommario di tipo NON cautelare. Si tratta di un procedimento che è
volto a dare attuazione al principio di economia processuale, evitando i costi del
processo a cognizione piena a fronte di una lite c.d. da pretesa insoddisfatta,
quando cioè non c’è una reale controversia tra le parti in ordine alla esistenza o
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non esistenza del diritto fatto valere in giudizio, ma c’è semplicemente un debitore
che non paga, che non adempie alla propria obbligazione. Il procedimento di
ingiunzione è un procedimento speciale e come tale può essere utilizzato nei casi
espressamente previsti dalla legge. Lo schema che il legislatore italiano ha
utilizzato è lo scema del PROCEDIMENTO MONITORIO: si tratta di un istituto che
ha origini remote, che risale al Medioevo, al diritto canonico del Medioevo, e che
trova accoglimento un po’ in tutti gli ordinamenti europei. A livello teorico si
individuano almeno due forme di procedimento monitorio, il procedimento
monitorio puro e il procedimento monitorio documentale, e i diversi ordinamenti si
sono allineati sull’uno o sull’altro modello.

• PROCEDIMENTO MONITORIO PURO: si caratterizza per la circostanza che la


domanda dell’attore è fondata su fatti meramente affermati, quindi non provati. Se
la domanda viene accolta il giudice emana un provvedimento inaudita altera parte
destinato a cadere, a perdere efficacia, se il destinatario del provvedimento, nel
momento in cui il provvedimento viene portato nella sua sfera di conoscibilità,
propone opposizione. Quindi è un provvedimento sospensivamente condizionato
alla mancata opposizione nei termini del debitore. Siccome è fondato su mere
affermazioni del creditore il provvedimento non è assolutamente idoneo ad
acquisire efficacia esecutiva né in pendenza dei termini per proporre opposizione,
né nel corso del giudizio di opposizione. Si dice che è un mero simulacro di
provvedimento tant’è vero che nel momento in cui il debitore reagisce proponendo
opposizione perde immediatamente efficacia. Da qui la conseguenza per cui
l’oggetto del giudizio di opposizione è soltanto il diritto fatto valere in giudizio: nel
giudizio di opposizione il giudice è chiamato a valutare l’esistenza o meno del
diritto fatto valere in giudizio. Questo primo modello trova ancora attuazione
nell’ambito dell’ordinamento francese.

• PROCEDIMENTO MONITORIO DOCUMENTALE: in questo secolo modello la


domanda dell’attore è fondata su fatti che devono essere provati
documentalmente. Il provvedimento, emanato anche in questo caso inaudita altera
parte dal giudice, siccome non è fondato solo sull’affermazione di esistenza dei
fatti ma sulla prova documentale di questi è un provvedimento che è
risolutivamente condizionato all’accoglimento dell’opposizione da parte del
debitore. Quindi, diversamente da quanto previsto nel modello di procedimento
monitorio puro, l’opposizione del debitore non determina l’IMMEDIATA
caducazione del provvedimento. Il provvedimento perde efficacia solo se
l’opposizione viene accolta. Proprio perché fondato sulla prova dei fatti c.d.
costitutivi questo provvedimento è idoneo ad acquisire l’efficacia esecutiva in
pendenza dei termini per proporre opposizione o nel corso del giudizio di
opposizione e quest’ultimo ha ad oggetto non solo il diritto fatto valere in giudizio
ma anche il provvedimento emanato inaudita altera parte, nel senso che il giudice
è chiamato ad accertare non soltanto l’esistenza o meno del diritto fatto valere in
giudizio ma anche la validità del primo provvedimento, del provvedimento emanato
inaudita altera parte. Quindi il giudice è chiamato a valutare la sussistenza dei

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requisiti generali e speciali di ammissibilità. Questo secondo schema trova
attuazione nell’ordinamento tedesco.

Qual è il modello italiano? Quella del legislatore italiano è una scelta ibrida nel
senso che tendenzialmente sembra che il legislatore italiano si sia ispirato al
modello del procedimento monitorio documentale perché richiede al ricorrente,
all’attore, al creditore, a colui che agisce, di fornire una prova documentale dei fatti
posti a fondamento della sua domanda. Ma non è una prova documentale in senso
pieno, è una prova lato sensu documentale, come vedremo fra poco. Se questa è
la regola generale, ci sono anche delle ipotesi in cui invece si consente al creditore
di ottenere un decreto ingiuntivo sulla base della mera affermazione dell’esistenza
dei fatti costitutivi. Si tratta di ipotesi che si prestano ad essere piuttosto ricondotte
al modello dello schema monitorio puro. Nonostante la diversità delle situazioni il
legislatore italiano ha dettato una disciplina unitaria che tendenzialmente è quella
del procedimento monitorio documentale. Il procedimento per ingiunzione come
procedimento speciale può essere utilizzato soltanto nei casi previsti dal legislatore
e il legislatore ha infatti previsto una serie di requisiti speciali di ammissibilità. Si
tratta di requisiti ulteriori rispetto a quelli generali o extraformali come la
giurisdizione, la competenza, la legittimazione ad agire, la capacità processuale. Si
tratta di requisiti speciali che riguardano l’oggetto della domanda e la prova dei
fatti posti a fondamento della domanda. Il procedimento per ingiunzione è
disciplinato dagli artt.633 fino a 656 del Libro IV del Codice di procedura civile. La
disciplina è piuttosto lineare.

Per quanto riguarda i requisiti relativi all’oggetto rileva il primo comma dell’art.633
in cui si dice che “su domanda di chi è creditore di una somma liquida di denaro o
di una determinata quantità di cose fungibili, o di chi ha diritto alla consegna di una
cosa mobile determinata, il giudice competente pronuncia ingiunzione di
pagamento o di consegna”. Appare evidente che il procedimento per ingiunzione
può essere utilizzato:

1. con riferimento a diritti di credito aventi ad oggetto una somma di


denaro che deve essere liquida e deve essere esigibile. “Liquida” nel
senso che deve trattarsi di una somma di denaro determinata nel suo
ammontare. L’esigibilità, che significa un credito non soggetto né a
termine né a condizione, la si ricava dal disposto del co.2 dell’art.633
laddove si prende che “l’ingiunzione può essere pronunciata anche se il
diritto dipende da una controprestazione o da una condizione, purché il
ricorrente ora elementi atti a far presumere l’adempimento della
controprestazione o l’avveramento della condizione”: in questo senso si
può ritenere che alcuni crediti siano esclusi dal procedimento per
ingiunzione. Ad esempio sono esclusi i crediti che derivano da fatto
illecito. 


2. con riferimento al diritto alla consegna di una determinata quantità di


cose fungibili. In questa ipotesi, ci dice il successivo art.639, “...il
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ricorrente deve dichiarare la somma di denaro che è disposto ad
accettare in mancanza della prestazione in natura, a definitiva
liberazione dell’altra parte”. Si può quindi ritenere che siamo davanti ad
una obbligazione c.d. alternativa perché il debitore si può liberare non
soltanto adempiendo all’obbligo originario di consegna di una
determinata quantità di cose mobili fungibili ma anche attraverso il
pagamento di una somma di denaro. 


3. con riferimento al diritto alla consegna di una cosa mobile determinata. 


Il secondo ordine di requisiti attiene invece alla documentazione e sotto questo


profilo rileva il disposto dell’art.633 co.1 seconda parte laddove si dice al n.1 che
del diritto fatto valere si deve dare una prova scritta. Questa è la previsione che ci
consente di ritenere che il legislatore tendenzialmente ha tratto ispirazione dal
procedimento monitorio c.d. documentale perché si chiede al ricorrente di offrire
una prova documentale dei fatti posti a fondamento della sua domanda. Che cosa
si intende per prova scritta? Rileva innanzitutto il successivo art.634 che infatti
reca la rubrica “Prova scritta”. Ci dice che “sono prove scritte idonee a norma del
n.1 dell’articolo precedente le polizze e promesse unilaterali per scrittura privata e i
telegrammi, anche se mancanti dei requisiti prescritti dal codice civile”.

Il riferimento evidentemente è alle scritture private però ci dice che possono


mancare anche dei requisiti prescritti dal codice civile. Come dobbiamo
interpretare questa previsione? In base all’art.2702 c.c. la scrittura privata fa piena
prova, fino a querela di falso, se la sottoscrizione è autenticata oppure se colui
contro il quale la scrittura è prodotta riconosce la sottoscrizione oppure se questa
è legalmente considerata come riconosciuta. Se il processo si svolge nel
contraddittorio fra le parti è chiaro che il problema della autenticità della
sottoscrizione è risolto perché entra in gioco il meccanismo di cui agli artt.214 e
215 c.p.c., per cui una sottoscrizione si ha per riconosciuta se la parte contro cui è
prodotta la riconosce espressamente o se non la disconosce. Ma siccome il
procedimento per ingiunzione è un procedimento che si svolge in assenza di
contraddittorio, almeno nella prima fase, è chiaro che questo meccanismo di
espresso riconoscimento o mancato disconoscimento non può operare. Quindi a
fondamento del ricorso per ingiunzione il creditore può spendere, può far valere,
scritture private, documenti sottoscritti, anche se la sottoscrizione non è stata
autenticata.

In base al secondo comma dell’art.634 possono essere utilizzate anche le scritture


contabili. Anche in questa ipotesi è prevista espressamente una deroga alla
disciplina ordinaria dei documenti. Infatti la disposizione ci dice espressamente
che “per i crediti relativi a somministrazioni di merci e di denaro nonché per
prestazioni di servizi fatte da imprenditori che esercitano una attività commerciale e
da lavoratori autonomi anche a persone che non esercitano tale attività, sono altresì
29
prove scritte idonee gli estratti autentici delle scritture contabili...”. Quindi si ha una
deroga alla disciplina ordinaria e in particolare una deroga all’art.2710 c.c. perché
nel processo a cognizione piena le scritture contabili possono essere utilizzate solo
fra soggetti imprenditori che esercitano un’attività commerciale, mentre in questa
ipotesi è espressamente previsto che possano essere utilizzate anche se il credito
è vantato nei confronti di un soggetto che non è imprenditore. Allora a fronte di
queste previsioni possiamo sicuramente osservar che il legislatore italiano si è
sicuramente ispirato al modello del procedimento monitorio documentale ma ha
fatto delle scelte che portano a ritenere che si tratti di un procedimento monitorio
documentale attenuato perché al ricorrente si chiede sì di fornire una prova
documentale dei fatti posti a fondamento della sua domanda ma si tratta di una
prova lato sensu documentale perché si consente l’utilizzazione anche di
documenti che nell’ambito del processo a cognizione piena non avrebbero valore
di prova.

Deroghe ancora maggiori alla disciplina relativa alle prove si hanno nelle ipotesi di
cui ai nn.2 e 3 dell’art.633 co.1 seconda parte. Infatti la legge stabilisce che con
riferimento alle ipotesi in cui “il credito riguarda onorari per prestazioni giudiziali o
stragiudiziali o rimborso di spese fatte da avvocati, procuratori, cancellieri, ufficiali
giudiziari o da chiunque altro ha prestato la sua opera in occasione di un processo”
o a quelle in cui “il credito riguarda onorari, diritti o rimborsi spettanti ai notaia
norma della loro legge professionale, oppure ad altri esercenti una libera
professione o arte, per la quale esiste una tariffa legalmente approvata”, si applica
l’art.636. In questa disposizione (art.636 c.p.c.) troviamo scritto che in tali ipotesi
“la domanda deve essere accompagnata dalla parcella delle spese e prestazioni,
munita della sottoscrizione del ricorrente e corredata dal parere della competente
associazione professionale”. In queste ipotesi in verità si ha che la domanda del
ricorrente può essere basata sulla parcella e sul parere dell’associazione
professionale a cui appartiene il professionista, il ricorrente. La parcella che cosa è?
La parcella è un documento che viene redatto dallo stesso professionista che è il
ricorrente. Mentre invece il parere dell’associazione professionale di
appartenenza del ricorrente non è altro che un documento in cui l’associazione
verifica, attesta, che le tariffe applicate dal professionista corrispondono a eventuali
tabelle tariffarie predisposte dalla stessa associazione. Quindi l’osservazione che
possiamo fare è che in queste ipotesi il ricorso si fonda su documenti formati dallo
stesso ricorrente, quindi su una documentazione pro se. Noi sappiamo che i
documenti nell’ambito del processo civile hanno efficacia probatoria nella parte in
cui provengono dalla parte contro cui vengono utilizzati non dalla parte che utilizza
quesi documenti, dalla parte a cui favore sono introdotti nel processo. Quindi
possiamo dire che con riferimento alle ipotesi di cui ai nn.2 e 3 dell’art.633 non
abbiamo alcuna prova documentale, neppure nel senso ampio di cui al 634. Si
tratta di ipotesi in cui la domanda del ricorrente è bastata su mere affermazioni
dello stesso ricorrente, per cui si dice in queste ipotesi il legislatore italiano ha
adottato lo schema del procedimento monitorio puro. Il problema però è che la
disciplina del procedimento di ingiunzione non varia i relazione al se il ricorrente ha
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posto a base della sua domanda una prova, sia pure lato sensu documentale, in
base all’art.634, oppure ha meramente affermato l’esistenza dei fatti posti a
fondamento della sua domanda così come avviene nelle ipotesi di cui ai nn.2 e 3
dell’art.633. Infatti come andremo a vedere la disciplina è unitaria, il provvedimento
di accoglimento del ricorso è soggetto alla stessa disciplina quindi è suscettibile di
acquistare l’efficacia esecutiva ed è anche suscettibile di acquistare quella
particolare stabilità che abbiamo già detto indichiamo come preclusione pro
iudicato. Possiamo dire certo che la situazione è meno grave di quanto si possa
giudicare a prima vista per il fatto che innanzitutto le associazioni professionali sono
delle associazioni a rilevanza pubblicistica che dovrebbero rilevare il rispetto delle
regole deontologiche da parte dei propri iscritti e poi se le prestazioni di cui ai nn.2
e 3 dell’art.633, soprattutto il numero 2, sono prestazioni che sono state svolte
nell’ambito del processo, attraverso lo studio del fascicolo d’ufficio è possibile
verificare che queste prestazioni siano state effettivamente svolte. Rimane
comunque un punto altamente problematico.
Una questione importante su cui è opportuno soffermarsi è quella relativa al se
questi elementi di documentazione di cui agli artt.634 e 636 debbano essere
considerati dei requisiti formali oppure delle prove. Non si tratta di una questione
meramente teorica e classificatoria perché se intesi come requisiti formali il
giudice, una volta verificata l’esistenza di questi elementi, dovrebbe essere
obbligato ad emanare il decreto ingiuntivo, quindi finirebbero per essere una sorta
di prova legale. Invece se si intendono come prove, come elementi probatori, c’è
lo spazio per lasciare al giudice la valutazione, secondo il suo prudente
apprezzamento, di questi elementi probatori: il giudice deve cioè valutare questi
documenti e convincersi, sia pure a livello di verosimiglianza, della esistenza dei
fatti che l’attore ha posto a fondamento della sua domanda (naturalmente si tratta
di un procedimento a cognizione sommaria). Ma c’è un’altra conseguenza molto
importante: se questi elementi si considerano dei requisiti formali allora dovremmo
ritenerle delle previsioni rigide, quindi il decreto ingiuntivo non dovrebbe essere
richiesto sulla base di elementi diversi da quelli espressamente previsti nelle norme
richiamate; se invece intendiamo questi elementi come elementi di prova allora è
possibile un ampliamento degli elementi che possono essere utilizzati.
Quest’ultima è la strada che ha seguito la giurisprudenza: da sempre essa
ammette che prove scritte possono essere anche degli elementi documentali che
non sono espressamente richiamati in queste disposizioni, ad esempio la fattura,
la bolla di consegna, talvolta anche delle scritture provenienti da soggetti terzi.
Probabilmente la giustificazione di questo orientamento risiede nella esigenza di
consentire al creditore di ottenere velocemente un provvedimento idoneo ad
acquistare efficacia esecutiva e quindi idoneo a mettere in moto il processo
esecutivo come rimedio alla crisi in cui versa il processo civile. Non si può però
non sottolineare il fatto che siamo davanti a un procedimento sommario, in cui il
contraddittorio è attivato in via posticipata, che consente al creditore di ottenere
inaudita altera parte un provvedimento che ha attitudine ad acquistare

31
immediatamente l’efficacia esecutiva, per cui la tipizzazione è sicuramente un
elemento di garanzia.

Andiamo adesso ad esaminare la disciplina di svolgimento del procedimento per


ingiunzione che è molto semplice, molto lineare.

Il giudice competente ci dice l’art.637 è “il giudice di pace o, in composizione
monocratica, il tribunale che sarebbe competente per la domanda proposta in via
ordinaria”. La forma della domanda la troviamo disciplinata nell’art.638. La
domanda si propone con ricorso il quale, oltre ai requisiti di cui all’art.125, deve
contenere anche l’indicazione delle prove che si producono (si tratta delle prove di
cui agli artt.634 fino a 636) e deve contenere anche l’indicazione dell’avvocato.
Quest’ultima indicazione è molto importante perché in mancanza di questa tutte le
notificazioni al ricorrente possono essere fatte presso la cancelleria, questo ce lo
dice l’art.638 al co.2. In base al terzo comma dell’art.638 “il ricorso è depositato in
cancelleria insieme con i documenti che si allegano; questi non possono essere
ritirati fino alla scadenza del termine stabilito nel decreto di ingiunzione a norma
dell’art. 641”. Una volta che è stata proposta la domanda ricordiamoci che il
procedimento si svolge inaudita altera parte, quindi il ricorso viene depositato in
cancelleria e il giudice esaminerà il ricorso in assenza del contraddittorio. Quindi
abbiamo un procedimento sommario in cui la cognizione è sicuramente parziale
perché il giudice ha davanti a sé soltanto gli elementi di fatto e probatori che sono
stati introdotti dal ricorrente, ma è altresì una cognizione superficiale perché
abbiamo detto che gli elementi probatori che il ricorrente può porre a fondamento
della sua domanda non rientrano nella nozione di prova in senso tecnico, sono
cioè elementi che nell’ambito del processo civile a cognizione piena, disciplinato
nel Libro II del Codice di procedura civile, non avrebbero efficacia probatoria.
Quindi abbiamo un procedimento sommario in cui la cognizione è parziale e
superficiale.

Quale può essere l’esito di questa prima fase della fase inaudita altera parte? Il
primo caso è quello in cui il giudice ritenga NON fondata la domanda. La disciplina
la ritroviamo nell’art.640: “il giudice, se ritiene insufficientemente giustificata la
domanda, dispone che il cancelliere ne dia notizia al ricorrente, invitandolo a
provvedere alla prova”. Se il giudice ritiene che la domanda non sia giustificata, ad
esempio perché gli elementi probatori introdotti dal ricorrente non rientrano nella
previsione degli artt.634 e 636, oppure perché non ritiene che gli elementi portati
siano idonei a provare, sia pure a livello di verosimiglianza, l’esistenza dei fatti
costitutivi, anziché respingere la domanda dispone che il cancelliere ne dia notizia
al ricorrente invitandolo a provvedere alla prova. Dopodiché “se il ricorrente non
risponde all’invito o non ritira il ricorso oppure se la domanda non è accoglibile, il
giudice rigetta con decreto motivato” (co.2). In base all’ultimo comma dell’art.640
questo decreto, il decreto di rigetto, “non pregiudica la riproposizione della
domanda anche in via ordinaria”. Questa previsione ci consente di affermare che
questo provvedimento non può essere ritenuto una pronuncia di accertamento
negativo circa l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio, è un provvedimento
privo di qualsiasi efficacia preclusiva che lascia libero il ricorrente di riproporre la
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stessa domanda non soltanto instaurando un nuovo procedimento di ingiunzione
ma anche instaurando un procedimento a cognizione piena regolato dal Libro II.
Invece, passando all’articolo successivo, se il giudice ritiene esistenti le condizioni
previste nell’art.633 “con decreto motivato da emettere entro trenta giorni dal
deposito del ricorso, ingiunge all’altra parte di pagare la somma o di consegnare la
cosa o la quantità di cose chieste o invece di queste la somma di cui all’art.639 nel
termine di quaranta giorni, con l’espresso avvertimento che nello stesso termine
può essere fatta opposizione a norma degli articoli seguenti e che, in mancanza di
opposizione, si procederà a esecuzione forzata”. Questo è il decreto ingiuntivo. Il
decreto ingiuntivo è un provvedimento che non nasce provvisoriamente esecutivo
ma può essere dichiarato tale su istanza del ricorrente nei casi previsti dall’art.642:

1. se il credito è fondato su cambiale, assegno bancario, assegno circolare,


certificato di liquidazione di borsa o su atto ricevuto dal notaio o da altro pubblico
ufficiale autorizzato;

2. se vi è pericolo di grave pregiudizio nel ritardo; 


3. se il ricorrente produce documentazione sottoscritta dal debitore 



comprovante il diritto fatto valere; in questo caso però il giudice può 

imporre al ricorrente una cauzione. 


Il decreto ingiuntivo non nasce provvisoriamente esecutivo ma può essere


dichiarato provvisoriamente esecutivo dal giudice su istanza del ricorrente laddove
ricorrano le condizioni indicate nell’art.642. La prima ipotesi, contemplata nel
primo comma dell’art.642, è quella in cui il ricorrente ha posto a fondamento della
sua domanda una serie di documenti come cambiale, assegno bancario, assegno
circolare, certificato di liquidazione di borsa, quindi si tratta dei c.d. titoli di credito,
oppure un atto pubblico cioè un atto ricevuto dal notaio o da altro pubblico
ufficiale autorizzato. Come andremo a verificare nelle lezioni dedicate ai processi
esecutivi, in verità sia i titoli di credito qui richiamati sia l’atto pubblico sono già di
per sé titoli esecutivi, si tratta dei titoli esecutivi di formazione giudiziale cui
abbiamo fatto riferimento anche nella prima parte della lezione e espressamente
richiamati nell’art.474 c.p.c. che ci indica in maniera tassativa i provvedimenti, gli
atti e i documenti a cui la legge attribuisce la qualità di titolo esecutivo. Potrebbe
sorgere una domanda spontanea: perché il creditore che ha già nelle sue mani un
titolo esecutivo, sia pure di formazione giudiziale, che lo legittima ad aprire un
processo esecutivo apre un procedimento di ingiunzione allungandosi la strada,
spostando in avanti il momento in cui potrà aprire il processo esecutivo e ottenere
il soddisfacimento concreto delle sue pretese? La spiegazione, la risposta, la
ritroviamo nella disciplina del procedimento di ingiunzione, in modo particolare
nell’art.655 c.p.c. in cui leggiamo che il decreto esecutivo di cui agli artt. 642, 647
e 648 costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale. Quindi consente al
creditore di ottenere un’ipoteca, quindi di passare da creditore chirografario a
creditore invece privilegiato. Questo gli consente di entrare nel processo esecutivo
33
in una veste diversa, gli garantisce cioè di essere soddisfatto per primo e per
intero, come andremo a vedere nelle lezioni dedicate al processo esecutivo.
Quanto alle altre ipotesi merita soffermarsi sulla definizione di “pericolo di grave
pregiudizio”: si tratta della seconda ipotesi in cui il decreto ingiuntivo può essere
dichiarato provvisoriamente esecutivo disciplinata nel secondo comma dell’art.
642. Secondo gli orientamenti maturati nella giurisprudenza sussiste un pericolo di
grave pregiudizio nel ritardo:

• nelle ipotesi in cui il debitore sta disperdendo il suo patrimonio, la sua

garanzia patrimoniale, per cui se il creditore agisce immediatamente nei suoi


confronti sul piano esecutivo rischia di non trovare più niente e quindi rischia di
non poter ottenere il soddisfacimento delle sue pretese. Quindi si parla di un
pregiudizio in senso oggettivo.

• nelle ipotesi in cui è il creditore a versare in una situazione di difficolta per cui se
non ottiene immediatamente della liquidita rischia di subire un pregiudizio. Si tratta
ad esempio di un imprenditore che ha bisogno di

liquidità per evitare la dichiarazione di fallimento.



• nelle ipotesi in cui il creditore ha posto a fondamento della sua domanda

documentazione sottoscritta dal debitore comprovante l’esistenza del diritto.


Questa terza ipotesi non pone alcun problema.

Lezione 3 - 14/03/20

Il decreto ingiuntivo deve essere immediatamente notificato al debitore.

L’art 643 prevede infatti che “l’originale del ricorso e del decreto rimane depositato
in cancelleria, ma debbono essere notificati per copia autentica a norma degli
articoli 137 e ss”

La notifica deve essere effettuata entro il termine perentorio di 60 gg, infatti,


come specifica il successivo articolo 644 se il ricorrente-creditore non provvede
nel rispetto del termine indicato il decreto di ingiunzione diventa inefficace!

La notifica del ricorso e del decreto determina la PENDENZA DELLA LITE ex


comma 3 art 643, quindi in deroga a quanto previsto ex art 39 cpc (secondo cui in
ipotesi di processo avviato con ricorso la litispendenza è data dal deposito del
ricorso presso la cancelleria del giudice adito) -> perché in questa ipotesi la
litispendenza è data dalla notifica del ricorso e del decreto ingiuntivo.

Una volta che il ricorso + il decreto sono stati notificati al debitore, questi ha
difronte a sé 3 scelte:

1) Può immediatamente adempiere

2) Può opporsi al decreto ingiuntivo, se ha delle contestazioni, utilizzando il


rimedio ex art 645, proponendo opposizione al decreto ingiuntivo e
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aprendo quella seconda fase (che abbiamo detto essere eventuale e
regolata dal 2° libro cpc, trattandosi di un processo a cognizione piena)

3) Rimane inerte -> in questa ipotesi, in base all’art 647 “se non è stata fatta
opposizione nel termine stabilito, oppure l’opponente non si è costituito il
giudice, su istanza (anche verbale) del ricorrente dichiara il decreto ingiuntivo
esecutivo. Tuttavia, laddove non è stata proposta opposizione, il giudice
deve prima verificare che la notificazione si sia svolta regolarmente. E se del
caso, disporne la rinnovazione, quando risulta o appare probabile che
l’intimato non abbia avuto conoscenza del decreto”

Una volta che il decreto ingiuntivo è stato dichiarato esecutivo ex 647 per mancata
opposizione entro il termine di 40 gg, in base al successivo articolo 655 il decreto
costituisce anche titolo per iscrizione di ipoteca giudiziale!

Esaminiamo ora la disciplina del GIUDIZIO DI OPPOSIZIONE.

L’opposizione si propone ex art 645 “davanti all’ufficio giudiziario al quale


appartiene il giudice che ha emesso il decreto, si propone con atto di citazione
che è notificato al ricorrente nei luoghi indicati dall’art 638”.

Se invece la controversia è soggetta al rito lavoro, si propone con ricorso.

La proposizione dell’opposizione determina l’apertura di un processo a cognizione


piena, infatti, ex art 645 co.2 “a seguito dell’opposizione il giudizio si svolge
secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito”.

Come vedete però l’iniziativa di apertura del processo a cognizione piena sembra
essere assunta da quello che a livello sostanziale è il DEBITORE, convenuto.

Infatti, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo si ha una inversione a livello


formale delle parti perché:

• colui che sul piano formale è l’attore, colui che prende l’iniziativa, in questo
caso IL DEBITORE a livello sostanziale è il convenuto

• Colui che subisce l’iniziativa (quindi il destinatario dell’opposizione) ovvero il


creditore, a livello sostanziale è invece l’attore

Si tratta di una inversione solo formale perché sul piano sostanziale le posizioni
rimangono invariate e di conseguenza il principio dell’onere della prova ex art 2697
continuerà a funzionare regolarmente -> questo significa:

o che il creditore (convenuto in senso formale) ha comunque l’onere di provare


i fatti costitutivi del credito azionato.

o Invece, il debitore (che sul piano formale è l’attore) continua ad avere l’onere
di provare i fatti modificativi- estintivi ed impeditivi.

E, se uno di questi fatti dovesse risultare esistente, il giudice emanerà una


pronuncia di accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo,
dichiarando la non esistenza del diritto di credito oggetto del processo!


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Alla luce di questo rilievo si può dire, dunque, che l’opposizione più che una
domanda giudiziale è una sorta di atto d’impulso processuale che consente
l’apertura della fase a cognizione piena!

Il giudizio di opposizione ha un DUPLICE OGGETTO, il giudice è chiamato ad


accertare:

a) Innanzitutto, l’esistenza/ non esistenza del diritto di credito azionato

b) In secondo luogo, è chiamato a verificare anche la validità del 1°


provvedimento: del decreto ingiuntivo!

In questo caso dovrà verificare tutti i requisiti di ammissibilità del decreto


ingiuntivo.

Cosa può avvenire nel corso del giudizio di opposizione?

-il 1° istituto da esaminare è la possibilità per il creditore di chiedere al giudice che


il decreto ingiuntivo sia dichiarato PROVVISORIAMENTE ESECUTIVO (laddove la
provvisoria esecutività non era già stata concessa ai sensi dell’art 642, quindi nel
corso della fase in audita altera parte).

L’art 648 subordina questa possibilità alla presenza di una serie di condizioni:

• comma 1 “il giudice istruttore, se l’opposizione non è fondata su prova


scritta o di pronta soluzione, può concedere, provvedendo in prima udienza,
con ordinanza non impugnabile, l’esecuzione provvisoria del decreto, qualora
non sia già stata concessa a norma dell’art 642”

• “Il giudice deve concedere l’esecuzione provvisoria parziale del decreto


ingiuntivo opposto, limitatamente alle somme NON contestate, salvo che
l’opposizione sia proposta per vizi procedurali”

• comma 2 “deve in ogni caso concederla, se la parte che l’ha chiesta offre
cauzione per l’ammontare delle eventuali restituzioni, spese e danni”

la prima ipotesi è quella su cui merita soffermare la nostra attenzione.

Intanto quel riferimento alle PROVE DI PRONTA SOLUZIONE è una espressione


che abbiamo già ritrovato nel corso del 1° semestre, in particolare quando ci siamo
occupati dell’art 35 in tema di eccezione di compensazione, sta ad indicare prove
che non si prestano ad essere acquisite nell’ambito dei una UDIENZA.

Probabilmente si tratta di prove costituende, di prove testimoniali.

Che cosa prevede la disposizione nella sua previsione letterale?

➔ Prevede che laddove l’opposizione non è fondata su prova scritta o di


pronta soluzione, il giudice, su istanza del creditore, possa dichiarare il
decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo.

Questa previsione, tuttavia, crea delle difficoltà:

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(per capire quale sia questa difficoltà) torniamo per un momento a riflettere su tutto
quanto abbiamo detto a proposito dei requisiti speciali di ammissibilità relativi
alle prove, in quel momento abbiamo sottolineato che in base al cpc il ricorrente
può fondare il proprio ricorso non soltanto su prove in senso TECNICO, ma su
prove latu sensu documentali, quindi su elementi di prova che nell’ambito del
processo a condizione piena non potrebbero essere utilizzati. Addirittura, nelle
ipotesi di cui ai n 2-3 dell’art 633 abbiamo visto che in base a quanto previsto
dall’art 636 talvolta il creditore può fondare la propria istanza su mere
affermazioni di esistenza dei fatti costitutivi del credito.

Allora, In questa particolare ipotesi il fatto è che il creditore potrebbe aver azionato
un credito del tutto inesistente e in queste ipotesi è ragionevole ritenere che il
debitore potrebbe avere delle difficoltà ad avere prove di pronta soluzione, prove
documentali circa l’esistenza di fatti modificativi- estintivi- impeditivi,
semplicemente perché il credito non esiste.

Allora, onde evitare situazioni di questo tipo, perché in questi casi in base ad una
lettura letterale della disposizione, il giudice dovrebbe SEMPRE concedere la
provvisoria esecutività al decreto occorre una INTERPRETAZIONE CORRETTIVA!

ritenere cioè che il rilascio della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo in
sede di opposizione a decreto ingiuntivo sia subordinato ad una serie di
presupposti:

1) Una prova piena IN SENSO TECONICO da parte del creditore circa la


esistenza dei fatti costitutivi del credito o la non contestazione da parte del
debitore circa la esistenza questi fatti (perché siamo nell’ambito di un
processo a cognizione piena e la non contestazione specifica sappiamo che
non fa scattare l’onere della prova)

2) Una valutazione sia pure sommaria di non fondatezza dei fatti modificativi –
estintivi – impeditivi introdotti dal debitore attraverso l’opposizione al decreto
ingiuntivo

3) La circostanza che il debitore abbia posto a fondamento dell’opposizione


delle prove che non sono scritte e che non sono di pronta soluzione.

Solo attraverso una interpretazione di questo tipo di riesce a recuperare la


razionalità del sistema. Vi ricordate che l’articolo 648 l’ho richiamato tra i casi di
provvedimento di condanna con riserva di eccezione, quindi a questa categoria
che dobbiamo fare riferimento.

La seconda ipotesi è quella in cui ex art 648 co. 1 seconda parte il giudice
concede l’esecuzione provvisoria parziale del decreto ingiuntivo.

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Il riferimento è alle ipotesi in cui l’opposizione del debitore riguarda soltanto una
frazione del credito fatto valere dal creditore, ricorrente. Per cui c’è una parte del
credito che non è contestata, non è oggetto di contestazione.

È con riferimento a questa frazione non contestata che il giudice potrà dichiarare
l’esecuzione provvisoria.

La terza ipotesi è disciplinata dal comma 2 art 648 dove si dice “deve in ogni
caso concederla se il creditore offre cauzione”.

In riferimento a questa previsione è stata più volte sollevata la questione di


legittimità costituzionale, la Corte costituzionale con sentenza n 137 del 1974 l’ha
dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui prevede che il giudice
DEVE concedere la esecuzione provvisoria in presenza della cauzione del
creditore.

Secondo la Corte una interpretazione corretta della disposizione è che invece il


giudice ABBIA LA POSSIBILITA’ a fronte dell’offerta di cauzione da parte del
creditore (previa deliberazione circa l’esistenza dei fatti costitutivi e l’inesistenza
dei fatti modificativi- estintivi- impeditivi del diritto fatti valere dal debitore in sede
di opposizione al decreto ingiuntivi) di dichiarare la provvisoria esecutività!

Nel corso del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo È comunque possibile,


alla luce dell’art 649, che il giudice sospenda l’esecuzione provvisoria del decreto
concessa a norma dell’art 642.

Questa è una possibilità subordinata:

a) ad una richiesta di parte

b) e anche alla presenza di gravi motivi

questa previsione richiama molto da vicino tutta una serie di provvedimenti di


sospensione delle esecutività o della esecuzione avviata sulla base dei
provvedimenti che sono oggetto di impugnazione; è il cosiddetto potere di
inibitoria del giudice dell’impugnazione!

è uno strumento che ha come scopo quello di riequilibrare il procedimento in fase
di contraddittorio.

La RATIO della disposizione è quella di garantire il diritto di difesa e in questo


senso l’interpretazione preferibile è che il giudice possa disporre la sospensione
laddove si convinca della probabile fondatezza della opposizione mossa dal
debitore.

La norma non dice niente in ordine al fatto SE la sospensione dell’esecuzione


provvisoria possa consentire anche la cancellazione dell’ipoteca giudiziale
eventualmente iscritta.

In verità esigenze legate al diritto di difesa imporrebbero di ritenere che la


sospensione dell’esecutività consenta al debitore anche di ottenere la
cancellazione dell’ipoteca MA in verità in mancanza di una previsione la
giurisprudenza esprime sul punto un parere contrario.

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Il giudizio di opposizione dovrebbe portare ad un provvedimento avente la forma
della sentenza ma naturalmente è possibile che il giudizio si chiuda per una
vicenda anomala:

- per estinzione

- inattività delle parti

- rinuncia agli atti del giudizio

in questa ipotesi la giurisprudenza ritiene sulla base della previsione ex 653


secondo cui “laddove il giudizio si chiude con ordinanza dichiarativa dell’ordinanza
dell’estinzione del processo, il decreto, che non ne sia già munito acquista efficacia
esecutiva”
e l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza è che il decreto acquisti quella
particolare forma di stabilità che sul piano qualitativo è analogo all’autorità della
cosa giudicata ma che sul piano quantitativo è più ristretta e che prende il nome di
PRECLUSIONE PRO IUDICATO!

Come si può concludere il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo? 3 possibili


esiti:

a) il rigetto dell’opposizione

b) con il totale accoglimento dell’opposizione

c) l’accoglimento parziale della opposizione

analizziamo nel dettaglio i possibili esiti della sentenza di opposizione:

Ad esito del giudizio di opposizione questa venga rigettata. Abbiamo una


sentenza (ricordiamoci che il giudizio di opposizione è un processo a cognizione
piena che si svolge nelle forme del 2° libro cpc) che accerta:

o la legittimità del decreto (quindi accerta che il decreto che è stato


emanato in presenza id tutti i requisiti di ammissibilità fissati dalla legge)

o + accerta l’esistenza del diritto fatto valere dal creditore

In questa ipotesi, ex art 653 co.1 “il decreto che non ne sia già munito, acquista
efficacia esecutiva”; allora il titolo esecutivo sarà rappresentato dal decreto
ingiuntivo che rimane in piedi perché il giudice ne ha accertata la legittimità.

Mentre invece la sentenza conterrà l’accertamento di esistenza del diritto del


creditore, accertamento che una volta che la sentenza passa in giudicato farà
stato tra le parti.

Il secondo possibile esito è quello opposto -> il totale accoglimento


dell’opposizione con una sentenza che dichiara la non esistenza del diritto di
credito e annulla il decreto ingiuntivo.

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La terza possibilità è l’accoglimento parziale dell’opposizione. Questo si può
avere:

o sia nel caso in cui la sentenza dichiari l’illegittimità del decreto, quindi
accerti che il decreto è stato emanato in assenza dei requisiti di
ammissibilità, ma accetti anche la esistenza del diritto

o oppure nel caso in cui la sentenza accerti che il decreto è legittimo ma che il
diritto esiste per un quantum diverso rispetto a quello indicato
originariamente!


in queste ipotesi in base al comma 2 art 653 il titolo esecutivo è costituito


esclusivamente dalla sentenza ma gli atti di esecuzione già compiuti in base al
decreto, laddove questi evidentemente era già stato dichiarato provvisoriamente
esecutivo, conservano i loro effetti nei limiti della somma o della quantità ridotta.

Torniamo per un momento ad esaminare l’ipotesi in cui il decreto ingiuntivo non


venga opposto.

Una volta che il decreto è stato notificato al debitor, questi ha un termine (art 641)
fissato in 40 gg per proporre opposizione.

Nel caso (ex 647) in cui il debitore non propone opposizione nel termine stabilito,
oppure propone opposizione ma poi non si costituisce, il giudice che ha
pronunciato il decreto, su istanza anche verbale del ricorrente, lo dichiara
esecutivo.

Con l’ulteriore precisazione che nel caso di mancata tempestiva opposizione, il


giudice deve prima verificare la regolarità della notificazione e ordinare la
rinnovazione di questa se risulta o appare probabile che l’intimato non abbia avuto
conoscenza del decreto.

Il decreto ingiuntivo che viene dichiarato esecutivo ex 647 viene definito dalla
giurisprudenza immutabile.

Soffermiamoci sul significato di immutabile;

in base all’art 656 il decreto di ingiunzione che è diventato esecutivo ex 647 può
impugnarsi per REVOCAZIONE nei casi indicati dai numeri 1 -2 – 5 -6 dell’art 395
e per OPPOSIZIONE DI TERZO nei casi previsti nell’articolo 404 co.2

(non soffermiamoci per il momento su questi elementi di impugnazione, per il


momento non abbiamo gli elementi per comprenderne il significato)

Oltre a queste impugnazioni, ci dice l’articolo 650 rubricato “opposizione


tardiva” anche dopo che è scaduto il termine -di mancata tempestiva
opposizione- l’intimato può fare opposizione se prova di non averne avuto
tempestiva conoscenza per:

- irregolarità della notificazione

- per caso fortuito

- o forza maggiore

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queste previsioni sono state integrate da un intervento della Corte costituzionale
che con la sentenza 120/1976, stendendo la possibilità di esercitare opposizione
tardiva a decreto ingiuntivo alle ipotesi in cui il debitore, pur avendo avuto
conoscenza del decreto, non ha potuto proporre opposizione per caso fortuito o
per forza maggiore.

L’art 650 è una forma di RIMESSIONE IN TERMINI per altro soggetta ad un limite
perché ex co.3 dello stesso articolo l’opposizione non è più ammessa decorsi 10
gg dal 1° atto di esecuzione.

L’osservazione che viene svolta con riferimento al regime del decreto ingiuntivo
dichiarato esecutivo ex 647 è che questi è destinato ad acquistare una stabilità
sul piano formale analoga al giudicato formale perché stante la previsione dell’art
656 si può affermare che opera anche nei confronti del decreto ingiuntivo
dichiarato esecutivo (ex 647) il principio di conversione dei motivi di nullità in
motivi di impugnazione di cui all’art 161 co.1.

Per cui sei, se le parti non utilizzano i mezzi di impugnazione indicati nell’art 656 o
650, non esiste un altro strumento per fra valere il vizio e quindi in applicazione
della regola generale dell’ordinamento processuale; “se non c’è uno strumento per
il cui tramite denunciare un determinato vizio, si deve ritenere che il vizio si sana”.

Il problema è definire la stabilità sul piano SOSTANZIALE, il tipo di efficacia che


questo provvedimento immutabile può acquisire;

si tratta di stabilire se può essere paragonato all’autorità della cosa giudicata ex


2909 cc.

Qui la risposta passa attraverso la tesi dei limiti oggettivi del giudicato a cui
l’interprete aderisce, perché si ritiene normalmente che il decreto ingiuntivo
diventato esecutivo ex 647 acquisti immutabilità solo avuto riguardo alla COPPIA
PRETESA-OBBLIGO dedotto in giudizio mentre invece non è idoneo ad estendere
questa stabilità al rapporto giuridico complesso al cui interno si inserisce la coppia
pretesa-obbligo dedotta in giudizio.

Questa affermazione porta ad una ulteriore considerazione per chi come noi
aderisce ad una nozione ampia dei diritti oggettivi del giudicato, ritenendo
invece che il vero giudicato (che si forma sulla sentenza a conclusione del
processo a cognizione piena) non si limita a coprire la pretesa obbligo dedotta in
giudizio ma si estende anche al rapporto giuridico fondamentale, complesso al cui
interno la pretesa-obbligo va ad inserirsi, questo porta a ritenere che il decreto
ingiuntivo dichiarato esecutivo sul piano quantitativo abbia una efficacia più
ridotta rispetto alla vera e propria autorità di cosa giudicata.

È una stabilità che sul piano qualitativo analoga.

Ma sul piano quantitativo è più ristretta.

Per questo motivo, a partire da questa prospettiva, è opportuno parlare non di


autorità di cosa giudica ma di preclusione pro iudicato, una espressione coniata
da un processual civilista, il professor Redenti, e che viene utilizzato per indicare

41
un fenomeno che è identico sul piano qualitativo al giudicato sostanziale ma sul
piano quantitativo è differente.

Chiusa l’analisi del procedimento per ingiunzione andiamo ad esaminare seguendo


la sistematica del cpc:

IL PROCEDIMENTO PER CONVALIDA DI SFRATTO


La disciplina è contenuta nel capo 2° del titolo 1° del libro 4°.

È un altro procedimento sommario, di tipo non cautelare, la disciplina è contenuta


negli arti da 657 fino a 669.

Il procedimento per convalida di sfratto è un PROCEDIMENTO SOMMARIO,


quindi le regole di svolgimento sono diverse da quelle dettate con riferimento al
processo a cognizione piena libro 2° cpc.

Analogamente a quanto abbiamo visto con riferimento al procedimento per


ingiunzione anche in questo caso il legislatore rimette alla scelta del convenuto
(quindi della parte destinataria della domanda giudiziale) la scelta in ordine al se
APRIRE IL PROCESSO A COGNIZIONE PIENA e ove il convenuto che viene
regolarmente citato (Quindi è un procedimento che si svolge nel pieno
contraddittorio delle parti) non manifesti questa volontà, il processo (sempre che
ricorrano i requisiti speciali stabili dalla legge) può chiudersi velocemente con un
provvedimento redatto in forma semplificata, è l’ordinanza di convalida, di cui
all’art 663, apposta in calce alla citazione.

Sul piano funzionale il procedimento per convalida di sfratto assolve ad una


funzione analoga a quella volta dal procedimento per ingiunzione, ovvero è volto a
soddisfare la fondamentale esigenza dell’economia processuale -> evitare i
costi e i tempi del processo a cognizione piena laddove c’è una lite da pretesa
insoddisfatta e non una lite da pretesa controversa.

Il procedimento per convalida di sfratto è un procedimento che presenta quindi


delle affinità rispetto al procedimento per ingiunzione ma ha anche delle
PECULIARITA’ che saranno evidenziate nello svolgimento ulteriore della lezione.

Trattandosi di un procedimento speciale può essere utilizzato solo nei casi previsti
dalla legge, in particolare sono gli articoli 657 e 658 a delimitarne l’ambito
applicativo.

Il procedimento per convalida di sfratto può essere utilizzato con riferimento ad


una serie di diritti che hanno ad oggetto la restituzione; sono quindi ipotesi in cui
chi agisce (l’attore) fa valere il diritto alla restituzione di un bene.

Qui, però, occorre fare una precisazione importante ed evidenziare sin da subito la
differenza che passa fra il diritto alla restituzione e l’azione di rivendica.

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o L’azione di rivendica (l’abbiamo più volte richiamata nel corso delle lezioni
del 1° semestre) è un’azione per il cui tramite l’attore deduce in giudizio il
suo diritto di proprietà di cui deve dare la prova. E viene esercitata nei
confronti del POSSESSERE del bene. L’attore fa valere il suo diritto di
proprietà e chiede la consegna o il rilascio del bene.

o In questo procedimento invece vengono dedotti sempre diritti alla


restituzione; quindi la base è questa: tra le parti è stato stipulato un
contratto, i base a questo contratto c’è una parte che ha trasferito all’altro il
possesso/detenzione di un bene. Ad un certo punto il contratto scade,
quindi viene meno il titolo, e quindi scatta l’obbligo della restituzione.

Chi ha consegnato il bene e ha diritto alla restituzione, senza bisogno di utilizzare


la rivendica, quindi senza dover dimostrare di essere il proprietario del bene può
agire in giudizio pe far valere il suo diritto alla restituzione!

Facendo valere il fatto che aveva consegnato questo bene in adempimento di un


obbligo, derivato da un contratto che è scaduto, venuto meno.

NB
Naturalmente anche qui una precisazione: attenzione a non confondere questo
obbligo di restituzione dai casi in cui l’obbligo di restituzione si aggancia a
VIDENDE PATOLOGICHE del rapporto -> perché ci sono dei casi in cui viene
esercitata una azione di impugnativa del contratto e l’attore che fa valere l’azione
di impugnativa del contratto chiede anche la restituzione del bene che ha
consegnato in adempimento del contratto.

Invece qui, almeno nella maggior parte delle ipotesi, si tratta di obblighi di
restituzione che si fondano sul rapporto contrattuale in modo fisiologico perché è il
contratto stesso a prevedere una scadenza. E quindi una volta che il titolo viene
meno, il bene deve essere restituito. Quindi non perché c’è una patologia ma
perché il rapporto si è esaurito.

Quindi si parla di contratti RESTITUTORI e nell’ambito del codice civile sono


molti contratti cosiddetti restitutori, es comodato, locazione, affitto.

Il procedimento per convalida di sfratto non si può applicare a tutti i contratti c.d.
restitutori ma solo alle ipotesi tassativamente indicate negli articoli 657 e 658. Se
voi leggete queste disposizioni vede che si fa riferimento ad alcune tipologie di
contratti:

si parla della locazione, dell’affitto, dei contratti associativi agrari. Questo vuol dire
che con riferimento a contratti restitutori che non rientrano nella previsione degli
articoli 657 e 658 questo procedimento no può essere utilizzato; per esempio ne
rimane fuori il rapporto di comodato.
Questo vuol dire che quando il comodante, nel momento in cui il rapporto di
comodato viene meno e vuole ottenere la restituzione del bene, non può agire nelle

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forme del procedimento per convalida di sfratto ma dovrà utilizzare il processo a
cognizione piena.

Non è utilizzabile nemmeno per l’affitto dell’azienda che con riferimento al quale,
per altro, il legislatore ha previsto un rito speciale, quello dell’art 447 bis cpc.

Vedete dalla lettera della disposizione che si fa riferimento anche ai rapporti


agrari di tipo associativo, si parla della mezzadria e della colonia, si tratta di
rapporti che diciamo sono ormai desueti e la particolarità da sottolineare è che si
tratta di rapporti di competenza delle sezioni specializzate agrarie, per cui se si
ammette che può essere utilizzato il procedimento per convalida id sfratto, questo
comunque va portato difronte alle sezioni cosiddette agrarie.

SECONDA PARTE

Andiamo ad esaminare la disciplina di svolgimento del PROCEDIMENTO PER


CONVALIDA DI SFRATTO: l'ambito applicativo è individuato dagli artt 657 e 658
cpc, se date un'occhiata al primo comma dell'art 657, trovate l’indicazione dei
diritti restitutori che possono essere fatti valere attraverso questo procedimento; si
parla infatti del LOCATORE, quindi è un riferimento ai contratti di locazione di beni
immobili, e qui il riferimento è sia alla locazione dei beni immobili ad uso abitativo,
sia alla locazione di beni immobili ad uso non abitativo; si fa riferimento al
contratto di affitto, al contratto di mezzadria e al contratto di colonia. In verità gli
artt 657 e 658 individuano almeno tre diverse ipotesi, in cui colui che ha diritto alla
restituzione del bene può utilizzare il procedimento per convalida di sfratto,
vediamole:

• Nel 1° comma dell’art 657 cpc si prevede che il locatore o il concedente può
intimare al conduttore, all'affittuario coltivatore diretto, al mezzadro o al colono,
licenza per finita locazione prima della scadenza del contratto, con la contestuale
citazione per la convalida, rispettando i termini prescritti dal contratto, dalla
legge o dagli usi locali. 

Per semplicità facciamo riferimento unicamente alla locazione dei beni immobili:
questa è un'ipotesi particolare, per comprenderla occorre ricordare che a livello
sostanziale, la disciplina della locazione degli immobili prevede, (parliamo ad
esempio della locazione di beni immobili ad uso abitativo), diverse forme di
contratto —> c'è il contratto di locazione a CANONE LIBERO, che ha una durata
non inferiore a 4 anni, rinnovabili di altri 4, almeno che il locatore non dia disdetta
per giusti motivi indicati dalla legge, la quale stabilisce altresì che alla seconda
scadenza il locatore possa comunicare al conduttore la propria volontà di non
rinnovare il contratto neppure a diverse condizioni; questa comunicazione
prende il nome di disdetta e deve essere comunicata attraverso una lettera
raccomandata. Una disciplina analoga è prevista nelle forme di locazione a
CANONE VINCOLATO, che hanno una durata di 2 anni prorogabili per altri 2, e
anche in questo caso si prevede che alla scadenza della proroga il locatore può
comunicare ancora una volta con la lettera raccomandata, da inviare almeno sei

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mesi prima della scadenza, la propria volontà di non rinnovare, neanche a nuove
condizioni, il contratto. 

E una disciplina analoga è prevista per le locazioni di immobili ad uso non
abitativo.

Ora, l’art 657.1 consente al locatore di agire nei confronti del conduttore prima
della scadenza del contratto, intimando licenza per finita locazione e citando il
conduttore per la convalida nel rispetto dei termini previsti —> in questa ipotesi il
locatore può agire nei confronti del conduttore prima della scadenza del
contratto, e questo atto, l'atto introduttivo del procedimento per convalida di
sfratto, contiene non soltanto la citazione a comparire per la convalida, ma
contiene altresì la licenza per finita locazione, ovvero la cosiddetta disdetta.

• La seconda ipotesi, contemplata al 2°comma dell’art 657 cpc è diversa,


leggiamola: “Può altresì intimare lo  sfratto, con la contestuale citazione per la
convalida, dopo la scadenza del contratto, se, in virtù del contratto stesso o per
effetto di atti o intimazioni precedenti, è esclusa la tacita riconduzione.” —>
l'ipotesi è diversa perché qui si presuppone un contratto che è già scaduto, e si
presuppone anche che il locatore abbia già comunicato la disdetta al conduttore,
nei sei mesi precedenti la scadenza con lettera raccomandata; per cui, in questa
ipotesi, l'instaurazione del procedimento per convalida di sfratto ha come scopo
soltanto quello di ottenere la convalida dello sfratto stesso. Si parla in questo
caso di sfratto per finita locazione.

• Nell’art 658 è prevista una terza possibilità = lo sfratto per morosità: si prevede
infatti che il locatore possa intimare al conduttore lo sfratto, con le modalità
stabilite nell'articolo precedente, anche in caso di mancato pagamento del
canone di affitto alle scadenze, e chiedere con lo stesso atto l'ingiunzione di
pagamento per i canoni scaduti —> qui non c'è un problema di scadenza del
contratto, ma un problema di morosità, quindi il conduttore non adempie al suo
obbligo di pagamento dei canoni locativi. In questa ipotesi abbiamo
probabilmente una deroga a quella che è la disciplina generale di inadempimento
del contratto: come sapete il codice civile subordina la possibilità di ottenere la
risoluzione del contratto in ipotesi di inadempimento alla circostanza che
l’inadempimento risulti grave, avuto riguardo all'interesse della controparte —> lo
dice l’art 1455 cc. In questa ipotesi invece il legislatore consente al creditore, che
è il locatore, di agire per ottenere la risoluzione del contratto semplicemente
laddove il conduttore non adempia al suo obbligo di pagamento del canone, e
questo a prescindere dal se questo inadempimento sia grave, avuto riguardo
l’interesse della controparte. Peraltro la legge sostanziale consente al locatore di
agire per ottenere lo sfratto per morosità anche laddove il conduttore sia moroso
nel pagamento degli oneri accessori, come ad esempio le spese condominiali.

Fatta questa premessa andiamo ad esaminare le regole di svolgimento del


procedimento: intanto la COMPETENZA —> in base all’art 661 cpc la
competenza, con riferimento al procedimento per convalida di sfratto, spetta al

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TRIBUNALE, si tratta di una competenza per materia, e in particolare al tribunale
del luogo in cui si trova la cosa locata. È pacifico che si tratti di una competenza
per territorio inderogabile, in base a quanto previsto dall’art 28 cpc.

La domanda, ci dice l’art 660.3 cpc, deve essere proposta nella forma della
citazione —> questa citazione deve essere redatta a norma dell’art 125 cpc, ma
ha una serie di particolarità, perché la disposizione ci dice che in luogo dell’invito e
dell'avvertimento al convenuto previsti nell’art 163.3 n.7 cpc, deve contenere
l'invito a comparire nell’udienza indicata, l'avvertimento che se non compare o
comparendo non si oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto, ai sensi
dell’art 663 cpc, e su questo punto torno fra poco.

La citazione deve essere, ci dice il 1° comma dell'art 660, notificata a norma degli
artt 637 e ss., esclusa la notificazione al domicilio eletto, e precisa l'ultimo comma
della disposizione che se l'intimazione non è stata notificata in mani proprie,
l'ufficiale giudiziario deve spedire avviso all'intimato di effettuata notificazione a
mezzo di lettera raccomandata, e allegare all'originale dell'atto la ricevuta di
spedizione. Nell'ambito della citazione, il locatore deve dichiarare la propria
residenza o eleggere domicilio nel comune dove ha sede il giudice adito, perché
altrimenti l’opposizione prevista nell’art 668 cpc e qualsiasi altro atto del giudizio,
possono essergli notificati presso la cancelleria.

L’ATTO DI CITAZIONE è un atto che ha un contenuto diverso a seconda delle


ipotesi a cui fa riferimento, stando a quanto già abbiamo detto precedentemente
infatti, nell'ipotesi per licenza per finita locazione, nell'ipotesi contemplata nel
1°comma dell’art 657, è chiaro che questo atto è un ATTO COMPLESSO, perché
contiene la cosiddetta licenza per finita locazione, quindi la cosiddetta disdetta,
quindi c'è un sottoatto che ha natura sostanziale, e c’è anche la citazione per la
convalida. Quindi è un atto che ha un contenuto complesso.

Nella seconda ipotesi invece, nell'ipotesi dello sfratto per finita locazione, l’atto di
citazione è un ATTO SEMPLICE, che contiene semplicemente la citazione per la
convalida.

Nell’ipotesi dell’art 658 cpc, lo sfratto per morosità, la domanda invece ancora una
volta è un ATTO COMPLESSO, perché la domanda non è soltanto una domanda
volta a far valere il diritto alla restituzione, ma è una domanda che contiene anche
la risoluzione del contratto, oltre alla domanda di pagamento del canone di affitto
alle scadenze e il pagamento dei canoni che sono scaduti e da scadere, come
vedremo successivamente.

L’atto di citazione deve contenere naturalmente la fissazione della data della prima
udienza, e in base al 4° comma dell’art 660 cpc, tra il giorno della notificazione
dell'intimazione e quello dell'udienza devono trascorrere termini liberi non minori di
20 giorni.

Ora, lo svolgimento del procedimento varia in ragione del contegno assunto dal
convenuto: abbiamo detto precedentemente che il procedimento per convalida di
sfratto è uno dei procedimenti di cui il legislatore si serve per dare attuazione alle
esigenze di ECONOMIA PROCESSUALE; la tecnica utilizzata è quella di rimettere
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al conduttore, che è il convenuto, la scelta in ordine al se il processo debba
svolgersi nelle forme della cognizione piena, oppure possa concludersi
velocemente con un provvedimento redatto in forma semplificata.

Andiamo a vedere diverse ipotesi che si possono prospettare:

‣ Il primo caso è un caso marginale, ed è il caso in cui NON compaia il locatore:


in questo caso, ci dice l’art 662 cpc, gli effetti dell'intimazione cessano se il
locatore non comparisce all'udienza fissata nell'atto di citazione. A dire la verità
dobbiamo fare una precisazione, perché è vero che il processo si estingue, ma
sicuramente rimane in piedi uno degli effetti di questa domanda giudiziale,
ovvero la cosiddetta disdetta, perché nel caso in cui si versi nell'ipotesi di
licenza per finita locazione, quindi nel caso del 1° comma dell’art 657, è
possibile ritenere che l'atto di disdetta, essendo un atto sostanziale, possa
conservare il proprio effetto.

‣ La seconda possibilità, è la possibilità opposta, ovvero è il caso in cui il


convenuto comparisce e contesta, si opponga: in questa ipotesi si applica l’art
667 cpc, a norma del quale il giudice e, pronunciati i provvedimenti di cui agli
artt 665 e 666, dispone che il giudizio prosegua nelle forme del rito speciale,
previa ordinanza di mutamento di rito ai sensi dell’art 426 cpc. Quindi il
processo prosegue nelle forme della cognizione piena; peraltro, in base a
quanto stabilito dall’art 447bis, si applica in queste ipotesi il RITO LAVORO,
quindi si applicano gli artt 414 e ss.

‣ Le ipotesi però più importanti sono le altre: il caso in cui il conduttore non
compaia, oppure pur comparendo, non sollevi contestazione —> in questa
ipotesi, in base all’art 663 cpc, il giudice chiude il processo con un
provvedimento redatto in forma semplificata, è l’ordinanza di convalida dello
sfratto. Si tratta di un'ordinanza posta in calce alla citazione, con formula
esecutiva, quindi non è altro che un timbro che il giudice pone in calce all'atto
di citazione, che consente in pratica al giudice sulla base di un'attività
processuale minima, di chiudere il processo con un provvedimento che
attribuisce al locatore le stesse utilità che gli avrebbe attribuito la sentenza
emessa a conclusione del processo a cognizione piena. Questo provvedimento
infatti, è un provvedimento che ha attitudine al GIUDICATO, cioè che è idoneo
ad acquisire la stabilità che sul piano qualitativo possiamo dire analoga al
giudicato, mentre invece ne diverge sul piano quantitativo, un po' come il
decreto ingiuntivo non opposto di cui all’art 647 cpc —> si parla infatti anche
in questa ipotesi di una preclusione pro iudicato. 

Questo procedimento ha alcune particolarità: intanto, nell'ipotesi in cui il
conduttore non sia comparso il giudice è chiamato ad effettuare una verifica,
cioè il giudice deve valutare se risulta o appare probabile che l'intimato non sia
comparso perché non ha avuto conoscenza della citazione stessa, oppure non
sia potuto comparire per caso fortuito o per forza maggiore —> in questo caso
dovrà disporre il rinnovo della notifica dell'atto di citazione. 

Le altre particolarità riguardano lo sfratto per morosità, quindi l’ipotesi di cui
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all’art 658 cpc: infatti, in base all’art 663.3 cpc: “se lo sfratto è stato intimato
per mancato pagamento del canone, la convalida è subordinata all'attestazione
in giudizio del locatore o del suo procuratore, che la morosità persiste; in quel
caso il giudice può ordinare al locatore di prestare una cauzione.” Quindi da
questa disposizione si ricava che se anche all'indomani della notifica della
citazione per la convalida il conduttore adempie, questo procedimento non
può andare avanti; e in questa ipotesi, laddove il giudice emani l'ordinanza di
convalida dello sfratto, in base all’art 664 cpc, il giudice pronuncia innanzitutto
la risoluzione del contratto, ma il giudice, con separato decreto di ingiunzione,
ordina anche al conduttore il pagamento dei canoni scaduti, ma anche dei
canoni da scadere fino ad esecuzione dello sfratto, e per le spese relative
all'intimazione. Questo provvedimento è un decreto ingiuntivo —> ci dice il
secondo comma che è steso in calce ad una copia dell'atto di intimazione
presentata dall’istante e da conservarsi in cancelleria, è immediatamente
esecutivo e come ogni decreto ingiuntivo è suscettibile di essere impugnato
attraverso opposizione. 

La particolarità di questo provvedimento è che ha ad oggetto il pagamento non
soltanto dei canoni scaduti, ma anche dei canoni da scadere, quindi è un
provvedimento che si presta ad essere ricondotto nella famiglia dei
provvedimenti di condanna in futuro, cioè aventi ad oggetto dei diritti che
ancora non sono esistenti, perché soggetti a termine che non è ancora
scaduto. La conseguenza è che questo provvedimento di condanna, per i
singoli canone di locazione, potrà essere messo in esecuzione via via che
questi scadono, laddove il conduttore naturalmente rimane inadempiente.

Fatte queste precisazioni andiamo ad esaminare ora il TIPO DI COGNIZIONE che il


giudice svolge laddove chiude il procedimento per convalida di sfratto con
l’ordinanza di cui all’art 363 cpc.

Andiamo adesso ad esaminare le scelte che il legislatore ha effettuato in sede di


procedimento per convalida di sfratto, scelte che vanno a distinguere questo
procedimento dal processo a cognizione piena ed agli altri procedimenti sommari.
Torniamo sui presupposti cui è subordinato il rilascio dell'ordinanza di convalida di
sfratto, ovvero la mancata costituzione del conduttore (la norma parla di
mancata comparizione ma la dobbiamo intendere come mancata costituzione),
oppure la sua mancata opposizione.

1. Ora, alla mancata costituzione del convenuto il legislatore ha attribuito in


questa sede il valore di ficta confessio dei fatti che l'attore ha posto a
fondamento della sua domanda, quindi ha valore di ammissione legale dei fatti
costitutivi. In questo senso appare chiaro che questa disciplina deroga a quella
che è la norma generale in tema di contumacia, perché come a suo tempo
abbiamo affermato, il legislatore italiano nell'ambito del processo a cognizione
piena ha fatto una scelta particolare, attribuendo alla contumacia un significato
NEUTRO: cioè la contumacia in Italia non vale come ammissione legale dei fatti
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affermati dalla controparte, in particolare, in ipotesi di contumacia del
convenuto, la contumacia non ha il valore di riconoscimento della domanda; è
una scelta diciamo che il legislatore italiano ha effettuato in contrappunto alla
scelta effettuata da altri legislatori europei.

La circostanza che la contumacia valga in sede di procedimento per convalida
di sfratto come ammissione legale dei fatti posti a fondamento della domanda,
non esonera il giudice dallo svolgimento dell'attività cognitiva: il giudice infatti,
oltre a verificare l'esistenza dei requisiti generali e speciali di ammissibilità della
domanda, quindi oltre a dover effettuare un controllo formale in ordine
all'esistenza per esempio della giurisdizione, della competenza e della
legittimazione ad agire, e oltre a dover effettuare un controllo circa la
sussistenza dei presupposti più speciali ammissibilità di cui agli artt 657 e 658
cpc, deve effettuare anche una verifica in iure, deve verificare se i fatti che
l’attore ha posto a fondamento della sua domanda reggono l'effetto giuridico
richiesto, valgono a fondare l'esistenza del diritto fatto valere in giudizio, che
abbiamo detto è il diritto a ottenere la restituzione del bene. Questo ci porta a
ritenere che vale nell'ambito del procedimento per convalida di sfratto il
principio iura novit curia, e di conseguenza si deve ritenere che l'ordinanza di
convalida di sfratto deve essere ritenuta illegittima non solo in mancanza dei
requisiti generali o speciali di ammissibilità, ma anche in ipotesi in cui il giudice
ha violato la legge sostanziale, ha emanato l'ordinanza in violazione della legge
sostanziale: pensiamo a un'ipotesi in cui venga chiesto la convalida dello
sfratto in una data anteriore rispetto alla scadenza legale del contratto di
locazione, quindi non tempo che non corrisponde a quello previsto dalla legge.

2. La seconda ipotesi è l'ipotesi della mancata opposizione del convenuto: qui il


legislatore non fa altro che applicare il principio di non contestazione ex art
115 cpc, quindi se il conduttore non contesta i fatti posti a fondamento della
domanda dell'attore e se non introduce nel processo fatti modificativi, estintivi
o impeditivi, si applica il principio della non contestazione, e quindi il giudice
ritiene esistenti i fatti cosiddetti costitutivi. Anche in questo caso dovrà
svolgere l'attività cognitiva di verifica di esistenza dei requisiti generali e
speciali di ammissibilità e la valutazione in iure circa l’idoneità dei fatti a
fondare l'esistenza del diritto alla restituzione del bene.

Si rende a questo punto necessaria una precisazione, nel senso che, mentre la
mancata opposizione del convenuto che si è regolarmente costituito è un
contegno definitivo, invece la mancata comparizione non lo è; non lo è in virtù di
quanto previsto nell’art 668 cpc, che contempla la opposizione dopo la convalida,
quindi una sorta di opposizione tardiva. Leggiamo la disposizione: “Se
l’intimazione di licenza o di  sfratto è stata convalidata in assenza dell'intimato,
questi può farvi  opposizione provando di non averne avuto tempestiva
conoscenza per  irregolarità della  notificazione o per caso fortuito o  forza
maggiore" —> questa previsione è stata integrata dall'intervento della corte
costituzionale, che nel 1972, con la sentenza n. 89 ha dichiarato l'illegittimità

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costituzionale del primo comma della disposizione, limitatamente alla parte in cui
non consente all'intimato l'opposizione tardiva nell'ipotesi in cui, pur avendo avuto
conoscenza della citazione, non sia potuto comparire all'udienza per caso fortuito
o forza maggiore. In ogni caso si tratta di una forma di RIMESSIONE IN TERMINI,
peraltro soggetta ad un LIMITE, perché in base al 2° comma dell’art 668 cpc
l'opposizione non è più ammessa se sono decorsi 10 giorni dall’esecuzione.

Ora, l'ordinanza di convalida di sfratto ha sollevato una questione che ha tenuto


molto impegnata la giurisprudenza e la dottrina, ovvero il regime di impugnazione
nel caso in cui sia emanata in violazione della legge processuale o in ipotesi di
violazione della legge sostanziale: sono i casi che abbiamo richiamato
precedentemente di ordinanza illegittima.

Il problema si pone perché dalla lettera della legge si dovrebbe ricavare che questo
provvedimento, l’ordinanza di convalida di sfratto, è impugnabile: infatti si è detto
che è un provvedimento idoneo ad acquisire una stabilità che sul piano qualitativo
abbiamo equiparato al GIUDICATO SOSTANZIALE; abbiamo detto solo qualitativo
perché sul piano quantitativo probabilmente, per chi muove da una nozione ampia
dei limiti oggettivi del giudicato, è più ristretta, per cui si è parlato di preclusione
pro iudicato, recuperando questa nota espressione coniata dal professor Redenti.

Qual è il rimedio all'ipotesi in cui il giudice commette errore, emanando l'ordinanza


in assenza dei requisiti generali o speciali di ammissibilità, oppure in violazione
della legge sostanziale. Le soluzioni che sono state prospettate sono due:

a) Secondo la prima soluzione si tratta di un provvedimento che deve essere


ritenuto suscettibile di ricorso straordinario per CASSAZIONE in base al
disposto dell’art 111.7 Cost —> si tratta di una soluzione che fa leva sul
principio di prevalenza della sostanza sulla forma del provvedimento, e sulla
considerazione secondo cui siamo di fronte a un provvedimento che, pur
rivestendo la forma dell’ordinanza, ha natura di sentenza, quindi perché incide
è decisorio, va ad incidere su posizioni di diritto, ed ha l'attitudine ad
acquistare l'autorità della cosa giudicata, o comunque ad acquistare efficacia
immutabile, e come tale è un provvedimento definitivo. Questa interpretazione
si basa su una lettura dell’art 111.7 Cost che, nella parte in cui garantisce il
ricorso per cassazione contro tutti le sentenze, viene interpretato da sempre da
parte della giurisprudenza nel senso di ritenere che il riferimento non è ai
provvedimenti aventi forma di sentenza, ma a tutti i provvedimenti aventi il
contenuto della sentenza, e per contenuto di sentenza si intendono i
provvedimenti appunto decisori e definitivi. 

Questa soluzione è però una soluzione insoddisfacente, per un duplice ordine
di considerazioni:

1. Perché il ricorso per cassazione ricordiamoci è un mezzo di impugnazione a
motivi limitati, e è un mezzo di impugnazione che svolge una funzione di
GARANZIA OGGETTIVA, perché è attraverso il ricorso per cassazione che la
suprema corte svolge la sua funzione nomofilattica (art 65 ordinamento
giudiziario). Quindi il ricorso per cassazione svolge innanzitutto una funzione
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di garanzia oggettiva, per cui non è idoneo a dare sfogo a tutte le esigenze
legate invece a una GARANZIA SOGGETTIVA, alle esigenze che sono
connaturate alla impugnazione come istituto che sempre si riaggancia al diritto
di difesa della parte. 

2. In secondo luogo, si è rilevato che questa soluzione, come tutte le soluzioni
che aprono il ricorso per cassazione a provvedimenti che NON hanno la forma
della sentenza, è una soluzione che deve essere contrastata perché favorisce
la proposizione del ricorso per cassazione, crea le condizioni perché aumentino
i ricorsi per cassazione, e questa è una condizione che non deve essere
favorita perché ostativa alla possibilità che la cassazione possa svolgere la
funzione nomofilattica, perché il presupposto indispensabile perché la
cassazione possa assolvere a questa funzione di garanzia oggettiva, è la
riduzione del numero dei ricorsi.

b) A fronte di questi rilievi la soluzione preferibile è la seconda, che quella che è


stata poi adottata dalla giurisprudenza, ovvero ritenere che questo
provvedimento sia suscettibile di APPELLO, perché si tratta di un
provvedimento che ancora una volta, pur avendo la forma dell'ordinanza,
avrebbe il contenuto della sentenza, e in quanto tale è appellabile —> c'è chi
dice che questa soluzione riposa sulla considerazione secondo cui, siccome
l'ordinanza viene emanata in violazione della legge processuale o di quella
sostanziale, sarebbe appellabile perché il giudice qui avrebbe dovuto definire il
processo con sentenza di rigetto, invece che nelle forme dell’ordinanza di
convalida. 

In ogni caso si tratta di una soluzione opportuna, perché consente alla parte
soccombente di dare sfogo alle proprie esigenze di garanzia soggettiva. Certo
è una soluzione che, per chi (come noi) ritiene che il regime di impugnazione
dei provvedimenti dovrebbe sempre basarsi sulla forma che il giudice dal
provvedimento come condizione indispensabile per garantire la certezza del
diritto, che è elemento importante in sede di impugnazioni, non può ritenersi
pienamente soddisfatto, perché la soluzione apre le porte dell'appello a un
provvedimento che ha la forma dell'ordinanza. 

Si tratta peraltro di un problema che potrebbe essere facilmente risolto dal
legislatore, se solo modificasse la lettera dell’art 663 cpc disponendo che, in
ipotesi di mancata comparizione o mancata opposizione del conduttore, il
processo si chiude con un provvedimento avente la forma della sentenza,
redatta però in forma semplificata, ovvero attraverso un dispositivo steso in
calce all'atto di citazione. Così quasi tutti i problemi sarebbero risolti.

Torniamo invece all'ipotesi in cui il conduttore, regolarmente costituitosi in giudizio,


propone opposizione, e quindi il processo prosegua nelle forme della cognizione
piena. Se vi ricordate, l’art 667 cpc prevede che il giudice, pronunciati i
provvedimenti di cui agli artt 665 e 666 cpc, dispone della prosecuzione, eccetera.
E vorrei soffermarmi proprio sull’art 665 cpc, il quale disciplina un particolare

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provvedimento, che è l’ORDINANZA IMMEDIATA DI RILASCIO. Leggiamolo: “Se
l'intimato comparisce e oppone eccezioni non fondate su prova scritta, il giudice,
su  istanza del  locatore, se non sussistono gravi motivi in contrario,
pronuncia  ordinanza non impugnabile di rilascio, con riserva delle eccezioni
del  convenuto. L'ordinanza è immediatamente esecutiva, ma può essere
subordinata alla prestazione di una cauzione per i danni e le spese.” —> si tratta di
un provvedimento che viene ascritto alla figura della condanna con riserva di
eccezioni; non va confuso con l'ordinanza di convalida di sfratto di cui all’art 663
cpc, perché questa è un provvedimento per il cui tramite il giudice chiude il
processo di fronte a sé, mentre invece l'ordinanza immediata di rilascio, emanata
ai sensi dell’art 665 cpc, è un provvedimento emanato in corso di causa, perché il
processo prosegue nelle forme della cognizione piena.

Allora vi dicevo è un provvedimento che viene riportato alla figura della condanna
con riserva di eccezioni —> i presupposti in parte li troviamo enunciati all’art 665.1
cpc, ma in parte li dobbiamo desumere aliunde.

Come vedete, l’art 665 prevede espressamente che (1) presupposto per il rilascio
di questo provvedimento è che l'intimato comparso abbia opposto delle eccezioni
NON fondate su prova scritta; (2) il secondo presupposto richiamato è che non
sussistano gravi motivi in contrario.

Cerchiamo di mettere ordine: intanto, il provvedimento non può essere emanato


d’ufficio ma solo su istanza di parte, lo dice espressamente la norma.

Secondo, la norma non dice niente in ordine ai fatti costitutivi, ma è indispensabile


ritenere che il rilascio del provvedimento sia subordinato alla circostanza che
l'attore abbia dato una piena prova dei fatti costitutivi, oppure che non siano stati
contestati dal conduttore.

Il secondo requisito appunto è che le eccezioni opposte dall’intimato NON siano


fondate su prova scritta.

Il terzo requisito riguarda la NON sussistenza dei gravi motivi: cosa sono questi
gravi motivi? Non è affatto chiaro. Secondo qualcuno i gravi motivi fanno
riferimento alla circostanza che le eccezioni opposte dall'intimato non siano di
pronta soluzione, quindi rendano necessario lo svolgimento di un'attività istruttoria
lunga; secondo altri invece si fa riferimento ad una valutazione che il giudice deve
effettuare in ordine al pregiudizio cui si dovrebbe esporre il conduttore in ipotesi di
rilascio del provvedimento; secondo altri sarebbero entrambi questi elementi.

In ogni caso questo inciso apre al giudice un margine di valutazione estremamente


ampio, e anche un potere molto delicato perché va ad incidere su una materia
delicatissima, coinvolge direttamente il diritto di azione e il diritto di difesa delle
parti in causa.

Una grossa questione che si è aperta in ordine a questo provvedimento è la


definizione della sua NATURA: secondo taluni si tratterebbe di un provvedimento
sommario di tipo non cautelare, con la conseguenza che in ipotesi di eventuale
estinzione del processo acquisterebbe autorità di cosa giudicata, e quindi si
52
consoliderebbe, alla stessa stregua del decreto ingiuntivo in ipotesi di estinzione
del giudizio di opposizione. Secondo altri si tratterebbe invece di un
provvedimento sommario di tipo cautelare, un provvedimento anticipatorio, idoneo
come tale a sopravvivere all'eventuale estinzione del processo, ma a conservare
soltanto la sua efficacia esecutiva —> ed è quest'ultima la tesi a cui la
giurisprudenza della corte di cassazione ha aderito.

53
Lezione 4 - 18/03/20
Nel corso della esposizione dedicata al procedimento per ingiunzione e al
procedimento per convalida di sfratto sono emersi due provvedimenti che
abbiamo ricondotto alla categoria dei provvedimenti di condanna con riserva. Mi
riferisco in modo particolare agli articoli 648 e 665 c.p.c. e ho ritenuto opportuno
fare il punto su questa particolare figura che abbiamo detto è una delle tecniche di
cui il legislatore si serve. Si tratta di un tipo di tutela che si presta ad essere
ascritta alla categoria della tutela sommaria e si è detto che si tratta di una tecnica
per il cui tramite il legislatore si propone di dare attuazione alla esigenza di evitare
l’abuso del diritto di difesa del convenuto.

In primissima battuta è importante richiamare l’ipotesi espressamente prevista di


condanna con riserva perché si tratta di una figura che ricorre soltanto nelle ipotesi
espressamente previste dalla legge. La figura infatti non è stata generalizzata.
Partiamo dall’articolo 35 c.p.c. Si tratta di una delle disposizioni inserite tra quelle
che si occupano della deroga ai criteri di competenza per motivi di connessione e,
in particolare, la disposizione è dedicata alla eccezione di compensazione.
L’eccezione di compensazione, ricordate, è una “eccezione riconvenzionale”
perché in verità è una vera e propria domanda giudiziale. La norma stabilisce:
“Quando è opposto in compensazione un credito che è contestato ed eccede la
competenza per valore del giudice adito, questi, se la domanda è fondata su titolo
non controverso o facilmente accertabile, può decidere su di essa e rimettere le
parti al giudice competente per la decisione relativa all’eccezione di
compensazione, subordinando, quando occorre, l’esecuzione della sentenza alla
prestazione di una cauzione; altrimenti provvede a norma dell’articolo precedente”.

Il presupposto cui è legata la possibilità di emanare questo provvedimento di


condanna con riserva è che il convenuto opponga un controcredito in
compensazione che è contestato e che eccede la competenza del giudice adito.
Solo in questa ipotesi la legge ammette che il giudice, se la domanda originaria è
fondata su titolo non controverso o facilmente accertabile, possa decidere su di
essa e rimettere le parti al giudice competente per la decisione relativa al
controcredito eccepito in compensazione. Il provvedimento per il cui tramite il
giudice si pronuncia sulla domanda originaria è un provvedimento che ha la forma
della sentenza e che è condizionato al mancato accoglimento della domanda,
avente ad oggetto il controcredito eccepito in compensazione, rimessa al giudice
competente. Questa disposizione viene richiamata anche nella norma successiva,
l’articolo 36 c.p.c., che si occupa delle cause riconvenzionali. Si disse che nelle
ipotesi in cui la domanda riconvenzionale ha ad oggetto un rapporto pregiudiziale
rispetto al rapporto oggetto della domanda originaria può trovare applicazione il
rinvio all’articolo 35 c.p.c., per cui se la domanda originaria è fondata su titolo
facilmente accertabile o non controverso il giudice può pronunciare su questa e
rimettere la causa riconvenzionale avente ad oggetto il rapporto pregiudiziale al
giudice competente per la relativa decisione.

Ancora, ulteriori ipotesi di provvedimenti di condanna con riserva li abbiamo


rinvenuti agli articoli 648 e 665 c.p.c. L’articolo 648 c.p.c. prevede che nel corso
del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, su istanza del creditore, il giudice
può dichiarare il decreto -che non ne fosse già munito- provvisoriamente
esecutivo, “se l’opposizione non è fondata su prova scritta o di pronta soluzione”; e
ancora abbiamo riportato alla categoria della condanna con riserva il disposto
54
dell’articolo 665 c.p.c. Siamo nell’ambito del procedimento per convalida di sfratto
e la disposizione prevede che “se l’intimato, quindi il nostro conduttore convenuto
in giudizio, comparisce e oppone eccezioni non fondate su prova scritta, il giudice,
su istanza del locatore, se non sussistono gravi motivi in contrario, pronuncia
ordinanza non impugnabile di rilascio con riserva delle eccezioni del convenuto”. In
queste due ipotesi il provvedimento di condanna ha la forma dell’ordinanza.

Ulteriori ipotesi le ritroviamo innanzitutto all’articolo 1462 c.c. che reca la rubrica
“clausola limitativa della proponibilità delle eccezioni”. Si tratta di una clausola che
le parti, nella loro autonomia sostanziale, possono inserire nel contratto e per il cui
tramite una parte accetta di limitare il proprio diritto di difesa, accetta cioè di
limitare il proprio diritto di difesa accettando una clausola in base alla quale il
diritto di questa parte di vedere esaminate le proprie eccezioni viene subordinato
al previo adempimento della prestazione dovuta. In base all’interpretazione
preferibile si è soliti ritenere che il giudice di fronte a cui viene esercitata l’azione di
adempimento del contratto possa applicare questa disposizione solo se il
convenuto solleva delle eccezioni che rendono necessarie una lunga istruttoria.
Solo in questa ipotesi può procedere all’emanazione del provvedimento di
condanna con riserva del convenuto.

Ulteriori ipotesi, e si tratta delle ipotesi che sono più risalenti nel tempo, le
ritroviamo nella legge sulla cambiale e nella legge sull’assegno bancario. La legge
sulla cambiale è il regio decreto 14 dicembre 1933 n.1669 e all’articolo 65 prevede
che “nei giudizi cambiari, tanto di cognizione quanto di opposizione al precetto, il
debitore può opporre soltanto le eccezioni di nullità della cambiale ai termini
dell’articolo 2 e quelle non vietate dall’articolo 21”. Al secondo comma prevede
che “se le eccezioni siano di lunga indagine, il giudice, su istanza del creditore,
deve emettere sentenza provvisoria di condanna, con cauzione o senza”. Una
previsione perfettamente analoga la ritroviamo nella legge sull’assegno bancario, il
regio decreto 21 dicembre 1933 n. 1736 all’articolo 57 primo e secondo comma.

È interessante notare che, comunque, si ritengono molto affini ai provvedimenti di


condanna con riserva i titoli esecutivi di formazione stragiudiziale, di cui all’articolo
474 nn. 2 e 3 c.p.c. Abbiamo già avuto modo di ricordare che il titolo esecutivo è
un requisito speciale di ammissibilità dell’azione esecutiva; abbiamo già avuto
modo di ricordare che si tratta di ipotesi tassativamente previste dalla legge e al
numero 2 dell’articolo 474 c.p.c., troviamo fra i titoli esecutivi “le scritture private
autenticate, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esse contenute,
le cambiali, nonché gli altri titoli di credito ai quali la legge attribuisce
espressamente la stessa efficacia”; al numero 3 troviamo “gli atti ricevuti dal notaio
o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli”. In questa ipotesi il
legislatore, al fine di anticipare il momento in cui il creditore può mettere in moto il
processo esecutivo e quindi ottenere il soddisfacimento concreto delle sue
pretese, utilizza la tecnica dei titoli esecutivi di natura stragiudiziale. Si tratta di
titoli che si formano al di fuori del processo, si consente al creditore di saltare tutta
la fase cognitiva. Tuttavia, il codice di procedura mette a disposizione del debitore
che si vede notificato il titolo esecutivo un rimedio, che è l’opposizione al precetto
o opposizione all’esecuzione (dipende dal momento in cui il debitore si attiva), per
il cui tramite può contestare il diritto del creditore di procedere in via esecutiva e
quindi anche l’esistenza del diritto sostanziale di cui il creditore pretende
55
l’adempimento e in questa sede chiedere la sospensione dell’esecutività del titolo
o la sospensione dell’esecuzione già avviata. Si tratta di figure che non si
allontanano molto dalla disciplina dei provvedimenti di condanna con riserva.

Questa tecnica viene utilizzata dal legislatore per evitare l’abuso del diritto di difesa
del convenuto. L’idea di base è che a fronte di una domanda fondata, il convenuto
che sa di avere torto può inventarsi le difese più pretestuose che rendono
necessaria una lunga indagine per allontanare la fine del processo e quindi il
momento in cui l’attore, che ha ragione, otterrà il suo provvedimento. Attraverso la
tecnica della condanna con riserva il legislatore consente all’attore di anticipare il
momento in cui ottiene un provvedimento favorevole, che potrà essere messo
immediatamente in esecuzione, addossando l’ulteriore tempo di svolgimento del
processo dedicato all’accertamento della fondatezza delle eccezioni sollevate dal
convenuto al convenuto stesso. Quindi si tratta di una tecnica di tutela che apre le
porte a procedimenti che si caratterizzano per una cognizione sommaria perché
parziale, perché ha ad oggetto solo i fatti modificativi, estintivi, impeditivi che sono
stati eccepiti dal convenuto. Questa tecnica è una tecnica che crea non lievi
problemi, tant’è vero che nonostante taluni ne chiedano da anni la
generalizzazione, il legislatore ha sempre risposto negativamente. Il motivo di
questa posizione è la pericolosità intrinseca a questa tecnica, perché la condanna
con riserva se da una parte ha il pregio di consentire all’attore di ottenere in tempi
rapidi un provvedimento favorevole, suscettibile di essere messo immediatamente
in esecuzione, comprime in maniera molto pericolosa il diritto di difesa e il diritto al
contraddittorio del convenuto. Il rischio cioè è che si crei una situazione di forte
squilibrio, tant’è vero che, con riferimento a queste ipotesi è stata sollevata più
volte la questione di legittimità costituzionale, ma la Corte ha sempre dichiarato
l’infondatezza della questione, sempre sollevata sulla base degli articoli 3 e 24
della Costituzione, facendo leva sulla circostanza per cui il giudice, in tutte queste
ipotesi, ha il potere, non il dovere di emanare il provvedimento di condanna con
riserva e comunque sempre in via subordinata all’accertamento della mancata
esistenza di gravi motivi in contrario. Certamente occorre fare uno sforzo di
razionalizzazione, quindi fissare i presupposti cui è subordinato il rilascio di questo
provvedimento al fine di disinnescare la pericolosità intrinseca in queste
fattispecie.

A questo scopo riprendiamo quanto abbiamo più volte detto riguardo le singole
figure, prendiamo in mano i presupposti cui deve essere subordinato il rilascio di
questo tipo di provvedimento e che se anche non espressamente previsti
nell’ambito delle singole fattispecie, dovranno essere sempre valutati dal giudice:

1. La prova piena dei fatti costitutivi, cioè dei fatti che l’attore ha posto a
fondamento della sua domanda o la circostanza che questi fatti non siano stati
oggetto di contestazione da parte del convenuto: scatterà il principio di non
contestazione e quindi l’attore sarà esonerato dall’onere di provarli;

2. È necessario che le eccezioni sollevate dal convenuto siano di lunga indagine.


Ciò significa che si tratta di fatti modificativi, estintivi, impeditivi per accertare i
quali è necessaria una istruttoria di una certa lunghezza, quindi fatti con
riferimento ai quali il convenuto non offre una prova documentale;

3. Occorre che il giudice valuti, sia pure a livello sommario, la non fondatezza delle
eccezioni sollevate dal convenuto.

56
È solo e soltanto in presenza di questi presupposti che la pericolosità di questa
tecnica viene disinnescata. A mio parere viene disinnescata, ma non eliminata del
tutto ed è questo il motivo per cui il legislatore finora non ha mai accolto la
proposta di generalizzare questa figura. Infatti, dove l’attore non offre la prova dei
fatti costitutivi controversi fra le parti, si apre per il giudice un potere molto
discrezionale nel momento in cui fissa l’ordine di esame delle questioni, l’ordine di
assunzione delle prove richieste dalle parti. Credo che questo tipo di osservazione
impedisca di accogliere l’idea di chi ne vorrebbe una generalizzazione.

Un ultimo rilievo sulla forma e sull’efficacia del provvedimento. Abbiamo potuto


vedere che la condanna con riserva talvolta viene emanata con provvedimenti
aventi la forma della sentenza, altre volte con provvedimenti aventi la forma
dell’ordinanza. Con riferimento ai casi in cui la forma adottata è quella della
sentenza si ritiene che questo tipo di sentenza debba essere assimilato alle
sentenze non definitive, come tali idonee a sopravvivere alla eventuale estinzione
del giudizio avente ad oggetto le eccezioni sollevate dal convenuto. Invece, con
riferimento alle ipotesi in cui il provvedimento viene emanato in forma di ordinanza
occorre distinguere: nel caso di cui all’articolo 648 c.p.c. l’ordinanza per il cui
tramite il giudice, su istanza del creditore, dichiara provvisoriamente esecutivo il
decreto ingiuntivo nel corso del giudizio di opposizione (sempre laddove non fosse
già stato dichiarato esecutivo ai sensi dell’articolo 642 c.p.c.), in ipotesi di
estinzione del giudizio di opposizione il decreto ingiuntivo si consolida, si applica
l’articolo 647 c.p.c. e acquista quella stabilità che abbiamo definito preclusione pro
iudicato, cioè una forma di immutabilità che sul piano qualitativo è analoga al
giudicato, mentre sul piano quantitativo probabilmente è più ridotta. Quanto invece
all’ordinanza immediata di rilascio, emanata nel procedimento per convalida di
sfratto ai sensi dell’articolo 665 c.p.c., secondo l’orientamento attualmente
prevalente in giurisprudenza è un provvedimento che si presta ad essere
assimilato ai provvedimenti sommari cautelari di tipo anticipatorio e come tale va
ritenuto idoneo a sopravvivere all’eventuale estinzione del processo, ma idoneo a
conservare semplicemente la propria efficacia esecutiva, essendo totalmente privo
di attitudine al giudicato.

Nella introduzione alla tutela sommaria ho già ricordato che una ulteriore esigenza
che di solito il legislatore mira a realizzare attraverso i procedimenti speciali è
quella di realizzare l’effettività della tutela giurisdizionale. A questo scopo il
legislatore predispone anche alcuni procedimenti che si prestano ad essere
riportati nella categoria dei procedimenti sommari non cautelari.

Cominciamo ad analizzare il procedimento in tema di mantenimento dei figli. La


disciplina la trovate all’articolo 316 bis c.c. Vi sarà capitato di assistere ad un
matrimonio e a conclusione del matrimonio, se è un matrimonio con effetti civili,
viene data lettura di alcune disposizioni del codice civile, fra cui l’articolo 147, il
quale dispone: “il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere,
istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità,
inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315 bis”.

L’articolo 316 bis nel suo primo comma individua i soggetti che sono obbligati al
mantenimento, oltre ai genitori. Infatti questa disposizione stabilisce che “i genitori
57
devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive
sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Quando i
genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità,
sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere
i loro doveri nei confronti dei figli.” Il diritto al mantenimento è il classico esempio
di situazione giuridica che ha un contenuto patrimoniale che ha ad oggetto il
pagamento di somme di denaro, ma ha funzione non patrimoniale perché è
strumentale a garantire la sopravvivenza dei figli. Allora, secondo quanto ci siamo
già detti nella lezione introduttiva della tutela sommaria, si tratta di una situazione
sostanziale che non può essere lasciata insoddisfatta lungo tutto lo svolgimento
del processo a cognizione piena perché una situazione di questo tipo
rischiererebbe di pregiudicare la sopravvivenza dei figli e questo spiega perché il
legislatore ha predisposto un procedimento a cognizione sommaria che consente
all’attore di ottenere un provvedimento di condanna all’adempimento dell’obbligo
di mantenimento dei figli suscettibile di essere messo in esecuzione
immediatamente, senza dover attendere i tempi del processo a cognizione piena.
Questo procedimento è disciplinato nello stesso articolo 316 bis c.c. dal secondo
comma in avanti. Infatti la disposizione prevede al secondo comma che: “in caso
di inadempimento il presidente del tribunale, su istanza di chiunque vi ha interesse,
sentito l’inadempiente ed assunte informazioni, può ordinare con decreto che una
quota dei redditi dell’obbligato, in proporzione agli stessi, sia versata direttamente
all’altro genitore o a chi sopporta le spese per il mantenimento, l’istruzione e
l’educazione della prole.

Il decreto, notificato agli interessati ed al terzo debitore, costituisce titolo esecutivo,


ma le parti ed il terzo debitore possono proporre opposizione nel termine di venti
giorni dalla notifica. L’opposizione è regolata dalle norme relative all’opposizione al
decreto di ingiunzione, in quanto applicabili.
Le parti e il terzo debitore possono sempre chiedere, con le forme del processo
ordinario, la modificazione e la revoca del provvedimento.”

Questo procedimento speciale è stato costruito dal legislatore sulla falsa riga del
procedimento per ingiunzione, ma rispetto allo schema tipico del procedimento
per ingiunzione presenta una serie di deroghe. Intanto, come si evince dal secondo
comma, il legislatore ha attribuito la legittimazione ad agire a chiunque vi ha
interesse, con una apertura della legittimazione ad agire a chiunque abbia un
interesse. Si tratta di una disposizione che prevede ipotesi di legittimazione
straordinaria. Come abbiamo osservato a suo tempo, trattandosi di una ipotesi in
cui è in gioco un interesse pubblico molto accentuato, il legislatore ha allargato
molto la maglia dei legittimati ad agire. A seguito della istanza di chiunque vi abbia
interesse, il presidente del tribunale, ci dice la disposizione “sentito l’inadempiente
e assunte sommarie informazioni”: prima osservazione è che questo procedimento
si svolge nel pieno contraddittorio delle parti, quindi a differenza di quanto
abbiamo visto con riferimento al procedimento per ingiunzione, non si ha una fase
inaudita altera parte perché il contraddittorio è attivato fin dall’inizio. Quanto alla
espressione “assunte informazioni” appare chiaro che siamo di fronte ad un
procedimento di tipo sommario in quanto la cognizione è superficiale: non si
applicano le regole del secondo libro del codice di procedura civile che
58
disciplinano il processo a cognizione piena, ma sarà il giudice a dover stabilire
queste regole; significa che ci sarà una piena apertura alle cosiddette prove
atipiche. Quindi siamo di fronte ad un procedimento sommario caratterizzato da
una cognizione di tipo superficiale. Il procedimento si chiude con un
provvedimento che ha la forma del decreto e che può avere un contenuto
particolare perché vedete che, in base al secondo comma, il giudice può ordinare
che una quota dei redditi dell’obbligato, in proporzione agli stessi, sia versata
direttamente all’altro genitore o a chi sopporta le spese per il mantenimento,
istruzione, educazione della prole. Si tratta di un provvedimento per il cui tramite Il
giudice ordina al terzo debitor debitoris, quindi al terzo debitore di colui che
dovrebbe provvedere al mantenimento, ma che non lo fa, di versare una parte delle
somme di denaro dovute direttamente all’altro genitore o a chi sopporta le spese
per il mantenimento. Chi è il terzo debitor debitoris? È il datore di lavoro, è il
conduttore dell’immobile che viene locato. In questa parte, questo provvedimento
prevede una cosiddetta cessione del credito, una cessione legale del credito che il
soggetto obbligato vanta nei confronti del terzo. Quindi, a partire dal momento in
cui viene emanato questo provvedimento, il terzo non può pagare più al debitore,
perché se pagasse tutto al debitore non si libererebbe dal proprio obbligo, ma
dovrà pagare al soggetto indicato dal giudice la somma che il giudice ha indicato
per coprire le spese del mantenimento. Questo decreto è immediatamente
esecutivo, ci dice il terzo comma dell’articolo 316 bis c.p.c., altro elemento che
marca la distanza dal decreto ingiuntivo che come sappiamo non è
provvisoriamente esecutivo ex lege. Il provvedimento è notificato agli interessati e
al terzo debitore e può essere impugnato attraverso opposizione che però deve
essere esperita nel termine di venti giorni e non di quaranta, come è previsto nel
procedimento per ingiunzione. Al di là delle differenze di disciplina, ciò che importa
sottolineare è che il procedimento in tema di mantenimento dei figli è molto
diverso dal procedimento per ingiunzione soprattutto sotto il profilo funzionale. Vi
ricordate che il procedimento per ingiunzione assolve alla funzione di assicurare
l’economia processuale evitando i costi e i tempi del processo a cognizione piena
in ipotesi di lite da pretesa insoddisfatta e non di lite da pretesa contestata, mentre
il procedimento in tema di mantenimento dei figli è un classico procedimento
sommario per il cui tramite il legislatore vuole assicurare l’effettività della tutela,
consentendo all’avente diritto di ottenere attraverso il procedimento sommario un
provvedimento anticipatorio, un provvedimento che ha lo stesso contenuto della
sentenza emanata a conclusione del processo a cognizione piena.

Alla stessa funzione risponde un altro procedimento speciale, il procedimento di


repressione della condotta antisindacale, che troviamo disciplinato all’articolo 28
della legge 300/1970, lo Statuto dei lavoratori. Al legislatore del 1970 devono
essere riconosciuti molti meriti, non soltanto quello di prevedere una lunga serie di
norme che hanno finalmente tutelato la libertà, l’attività sindacale, il diritto di
sciopero, quindi situazioni sostanziali facenti capo ai lavoratori aventi rilevanza
costituzionale, ma gli va riconosciuto anche il merito di aver dettato un
procedimento speciale volto ad assicurare una tutela giurisdizionale effettiva ad
alcune di queste situazioni giuridiche.

L’oggetto del procedimento di repressione della condotta antisindacale lo troviamo


indicato nella prima parte del primo comma, dove si fa riferimento alle ipotesi in cui
59
“il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare
l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale, nonché del diritto di sciopero”.
Vedete che si tratta di situazioni sostanziali che hanno un contenuto e una funzione
non patrimoniali, ma soprattutto sono situazioni sostanziali aventi rilevanza
costituzionale. Anche in questo caso è facile osservare che si tratta di situazioni
giuridiche la cui violazione determina per definizione un pregiudizio irreparabile,
quanto meno un pregiudizio che non si presta ad essere adeguatamente riparato
attraverso il risarcimento del danno, quindi nelle forme dell’equivalente monetario.
Questo ci consente di capire perché il legislatore abbia predisposto, anche in
questa ipotesi un procedimento sommario che consente all’attore di ottenere un
provvedimento sommario di tipo anticipatorio, cioè attribuisce all’attore, che si è
visto accogliere la domanda, le stesse utilità che potrebbe conseguire attraverso il
processo a cognizione piena, quindi attraverso la sentenza emanata al termine del
processo a cognizione piena. Ora, se continuiamo a leggere la disposizione,
vediamo che si fa espresso riferimento alla circostanza che la legittimazione ad
agire viene attribuita agli “organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che
vi abbiano interesse”. Si tratta di una azione che può essere esercitata da un
soggetto collettivo, il sindacato. Questa scelta si spiega riflettendo sulla
circostanza che il comportamento antisindacale del datore di lavoro è il classico
comportamento pluri offensivo, che cioè va a ledere non solo l’interesse
individuale del singolo lavoratore o dei lavoratori che sono destinatari dei contegni
del datore di lavoro, ma anche l’interesse collettivo del sindacato. Questo
procedimento speciale può essere aperto solo dai sindacati, ma ciò non toglie che
anche i singoli lavoratori possano agire in giudizio. L’azione dei singoli lavoratori, le
azioni individuali, dovranno essere portate nell’ambito di un processo a cognizione
piena perché la norma non riconosce ai lavoratori la legittimazione ad agire con
riferimento a questo procedimento speciale. Questo ci fa capire che poi si
potrebbero porre problemi di coordinamento fra il procedimento speciale aperto
dal sindacato e i singoli processi aperti dai lavoratori.

Andiamo ad esaminare le regole di svolgimento di questo procedimento. Il


procedimento si apre con ricorso, lo dice espressamente l’articolo 28 “su ricorso
degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano
interesse”. Per quanto riguarda la competenza la norma fa ancora riferimento al
pretore, ma dopo la sua soppressione la competenza è del tribunale del luogo in
cui è stato posto in essere il comportamento denunziato. Anche in questa ipotesi il
legislatore ha dettato delle regole piuttosto scarne. Afferma che il giudice
“convocate le parti e assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la
violazione di cui al presente comma, ordina al datore di lavoro, con decreto
motivato immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e
la rimozione degli effetti”. Ancora una volta l’espressione “assunte sommarie
informazioni” ci dice che si tratta di procedimento a cognizione sommaria, quindi
non è regolato dal secondo libro, ma sta al giudice stabilire le regole di
svolgimento del procedimento: si ha una totale deformalizzazione delle regole di
svolgimento del processo. Anche in questa ipotesi il contraddittorio viene attivato
fin da subito. Naturalmente, stante il carattere informale del procedimento, il
contraddittorio può essere attivato anche attraverso strumenti diversi dalla
notificazione, quindi sarà possibile utilizzare strumenti più agili come la posta
60
elettronica, il telefono. Tenete conto che la norma sembra dare al giudice due
giorni per provvedere, ma si tratta di un termine ordinatorio per cui si ritiene che il
giudice non sia vincolato al rispetto dello stesso. Il provvedimento di accoglimento
riveste la forma del decreto motivato che è immediatamente esecutivo. Molto
interessante è il contenuto di questo provvedimento perché si tratta di un
provvedimento di condanna che ha un contenuto repressivo e un contenuto
inibitorio. Il giudice ordina la rimozione degli effetti e quindi mira in questo modo
ad eliminare le conseguenze della violazione che è già stata posta in essere, ma
ordina anche la cessazione del comportamento illegittimo e qui è un
provvedimento a contenuto inibitorio, poiché contiene un ordine di non fare, un
ordine di astensione, di cessazione. Infatti vi ricordate che l’articolo 28 lo avevamo
espressamente richiamato nell’ambito di quella serie di provvedimenti a contenuto
inibitorio che abbiamo svolto nel primo semestre. Peraltro il legislatore ha
predisposto anche uno strumento volto ad assicurare l’attuazione dell’ordine di
cessazione della condotta lesiva perché ha previsto al successivo quarto comma
che se il datore di lavoro non ottempera al decreto è punito ai sensi dell’articolo
650 c.p., quindi ha attribuito rilevanza penale alla condotta del datore di lavoro che
non ottempera all’ordine che gli ha rivolto il giudice.

Abbiamo visto che il decreto di repressione della condotta antisindacale ha un


contenuto duplice e in quanto tale svolge una funzione duplice, infatti abbiamo
visto che tramite il decreto il giudice ordina: innanzitutto la rimozione degli effetti
della violazione già compiuta e per altro verso invece ordina al datore di lavoro la
cessazione della condotta antisindacale, quindi nel primo senso svolge la funzione
repressiva, nel secondo senso svolge una funzione preventiva. Teoricamente la
parte del provvedimento volta ad eliminare gli effetti della violazione già compiuta
dovrebbe essere almeno in parte suscettibile di essere eseguita in via coattiva
attraverso i processi esecutivi, dico almeno in parte perché sicuramente ci sono
dei profili dell'ordine di rimozione degli effetti che sono infungibili e in quanto tali
non idonei ad essere attuati attraverso l’esecuzione forzata. Quanto invece
all'ordine di cessazione della condotta, siamo di fronte ad un classico
provvedimento inibitorio, il contenuto e’ un obbligo di non fare o di fare infungibile,
si tratta di obblighi posti a tutela della libertà e attività sindacale, oltre che al diritto
allo sciopero e come tali insuscettibili per definizione di essere attuati attraverso la
tecnica esecutiva. Per garantire allora l'attuazione di questa parte del
provvedimento, il legislatore del 1970 molto opportunamente ha previsto una
misura coercitiva. E’ una misura coercitiva particolare, il legislatore, abbiamo visto
ha attribuito rilevanza penale alla condotta del datore di lavoro che non ottempera
all'ordine del giudice richiamando l'articolo 650 del Codice Penale. Si tratta di una
misura coercitiva che trae ispirazione dal modello inglese del Contempt of Court.

Lasciato il procedimento di repressione della Condotta antisindacale. Adesso


andiamo ad analizzare i cosiddetti provvedimenti anticipatori di condanna che
possono essere emanati nel corso del processo a cognizione piena. Faccio
riferimento agli articoli 186 bis, 186 ter e 186 quater, salvo alcune precisazioni con
riferimento a quest'ultimo. Allora qui siamo di fronte ad una serie di provvedimenti
che vengono emanati sulla base di una cognizione sommaria ma che a differenza
di quelli che abbiamo esaminati finora, non vengono emessi a conclusione di un
procedimento speciale ma come ho detto, possono essere emessi nel corso del
61
processo a cognizione piena. Almeno nel caso degli articoli 186 bis e 186 ter. il
legislatore ha previsto, ha scelto di offrire al giudice del processo a cognizione
piena, la possibilità di emanare questi provvedimenti allo scopo di consentire
all'attore di ottenere in tempi relativamente più rapidi un provvedimento favorevole
suscettibile di essere messo in esecuzione. Si tratta di due provvedimenti che sono
dettati nell’ottica di dare attuazione al principio dell’economia processuale, nel
senso di evitare che di fronte ad una lite da pretesa semplicemente insoddisfatta e
non contestata, l’attore possa ottenere velocemente un titolo esecutivo. Allora gli
articoli 186 bis e 186 ter sono stati introdotti. dalla legge di riforma numero 353 del
1990. Il legislatore del 90 non si inventò niente di nuovo con queste due
disposizioni perché l'art. 186 bis, che prevede l'ordinanza per il pagamento delle
somme non contestate, rappresenta la trasposizione nel processo a cognizione
piena soggetto al rito ordinario, di un istituto già operativo nell'ambito del processo
del lavoro, ovvero l'ordinanza di cui all'articolo 423 primo comma del codice di
procedura civile. Quanto all’art 186 ter invece è frutto di un'operazione per il cui
tramite il legislatore non ha fatto altro che innescare nel processo a cognizione
piena il procedimento per ingiunzione di cui agli articoli 633 e seguenti del Codice
di Procedura Civile, con alcune particolarità, evidentemente, perché noi sappiamo
che come regola generale il processo a cognizione piena si caratterizza per
l'attivazione piena e anticipata del contraddittorio. Invece l’art 186 quater che
prevede la cosiddetta ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione, e’ frutto di
un intervento normativo successivo, risale al 1995. In verità siamo di fronte ad un
provvedimento che diversamente dai due precedenti si basa su una cognizione
piena e non sommaria. E’ un provvedimento che svolge sì una funzione diciamo
anticipatoria, ma in un senso diverso rispetto ai precedenti perché si tratta di un
provvedimento che consente unicamente di comprime i tempi di svolgimento
relativi alla fase decisoria del processo a cognizione piena.

Andiamo però a svolgere un'analisi di dettaglio di tutte queste previsioni e


cominciamo con l’ordinanza di pagamento delle somme non contestate, articolo
186 bis. Prendete la disposizione e seguitemi sul codice. Allora; la disposizione
prevede che su istanza di parte il giudice istruttore può disporre, fino al momento
della precisazione delle conclusioni il pagamento delle somme non contestate dalle
parti costituite. Se l'istanza e' proposta fuori dall'udienza il giudice dispone la
comparizione delle parti ed assegna il termine per la notificazione. L’ordinanza
costituisce titolo esecutivo e conserva la sua efficacia in caso di estinzione del
processo. L'ordinanza è soggetta alla disciplina delle ordinanze revocabili di cui agli
articoli 177 primo e secondo comma, e 178 primo comma. Questa disposizione
come vi ho detto trova il proprio antecedente storico nell'articolo 423 primo
comma del c.p.c., in questa disposizione noi troviamo la disciplina delle ordinanze
per il pagamento di somme. (Ho già detto che si tratta di una disposizione inserita
nell'ambito del processo del lavoro). A norma del primo comma dell'articolo 423 il
giudice su istanza di parte in ogni stato del giudizio dispone con ordinanza il
pagamento delle somme non contestate. La disciplina e’ completata dal terzo
comma nella parte in cui prevede che questa ordinanza costituisce titolo
esecutivo.

In verità, come vedete, il testo dell’art 186 bis e’ molto più ricco, e’ completo. In
62
effetti, molto opportunamente il legislatore del 1990 ha voluto dare agli operatori
una serie di indicazioni più puntuali risolvendo una serie di questioni delicatissime
che erano sorte con riferimento all'articolo 423 data l'eccessiva stringatezza del
testo di quest'ultima disposizione.

Torniamo all'articolo 186 bis. Allora come vedete, appare chiaro che il
provvedimento può essere emanato solo su istanza di parte quindi non può essere
emanato d’ufficio e che può essere emanato solo con riferimento alle controversie
aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro. La lettera della disposizione
e’ molto chiara e quindi si deve escludere che possa essere chiesto con
riferimento a controversie aventi oggetti diversi da quello specificamente indicato.
Il presupposto cui è subordinato la possibilità di ottenere questo provvedimento e’
la non contestazione dalle parti costituite.

Quel riferimento alla costituzione delle parti, chiaramente ci dice che questo
provvedimento non può essere emanato se una delle parti, in particolare il
convenuto, è contumace. E’ una precisazione che il legislatore del 1990 ha ritenuto
opportuno inserire perché con riferimento all’art 423 la questione relativa al se, in
ipotesi di contumacia del convenuto il giudice del lavoro potesse emanare
l’ordinanza di pagamento delle somme non contestate, si era posto e aveva aperto
un dibattito estremamente ampio. Quindi, molto opportunamente il legislatore del
1990 ha voluto eliminare qualsiasi incertezza. Quindi laddove il convenuto e’
contumace, questo provvedimento non può essere emanato.

E’ molto importante soffermarsi sul requisito della non contestazione perché è


importante chiarire cos'è l'oggetto della non contestazione. Teoricamente sono
possibili due soluzioni: è possibile immaginare che l'oggetto della contrattazione
sia il diritto. Ad aderire a questa prospettazione significa ritenere, ove il processo
civile ha ad oggetto dei diritti civili, a fronte della non contestazione del convenuto,
il giudice e’ obbligato ad emanare questo provv.. Questa non contestazione
finirebbe per assomigliare al riconoscimento della domanda perché non
lascerebbe alcuno spazio alla valutazione del giudice.

La seconda possibilità e’ ritenere che oggetto della non contestazione siano i fatti
che l'attore ha posto a fondamento della sua domanda e allora, in questa
prospettiva, la non contestazione avrebbe il piu limitato significato di ammissione
legale dei fatti costitutivi, quindi dei fatti posti a fondamento della domanda. Ciò
significa che il giudice non è vincolato all'emanazione del provvedimento ma e’
comunque chiamato ad effettuare una valutazione, in particolare una valutazione in
iure cioè ad accertare se i fatti non oggetto di contestazione specifica siano idonei
a reggere gli effetti giuridici che l'attore ha chiesto, a fondare la domanda, e quindi
a fondare la valutazione di esistenza del diritto fatto valere in giudizio. Ora se noi la
questione la vogliamo porre a livello sistematico, dobbiamo ricordare quanto più
volte abbiamo sostenuto a proposito della non contestazione. Nel nostro
ordinamento la contestazione o non contestazione si riferisce sempre ai fatti.
Ricordate di quanto ci siamo detti con riferimento all'articolo 115 c.p.c.. Ricordate
quanto ci siamo detti con riferimento all’art 663 c.p.c., l’ordinanza di convalida di
sfratto che fra i suoi presupposti rinviene anche la mancata opposizione del
conduttore convenuto.

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Se questo e’ vero sembra preferibile aderire alla seconda possibilità, alla seconda
opzione valutativa e quindi affermare che l'oggetto della non contestazione sono i
fatti, però è necessario qualche altra precisazione.

Primo: Abbiamo detto aderendo alla seconda teoria che il presupposto che il
convenuto non abbia contestato i fatti costitutivi posti dall'attore a fondamento
della sua domanda ma è necessario anche che il convenuto non abbia sollevato
delle eccezioni di merito, ovvero non abbia introdotto nel processo dei fatti
modificativi, estintivi, impeditivi del diritto fatto valere in giudizio perché se questi
fatti fossero introdotti, l’effetto di questi fatti qual’e’? Lo abbiamo detto tante volte,
è quello di determinare il venir meno dell'effetto giuridico dedotto in giudizio,
affermato dall’attore.

Naturalmente questa non contestazione deve essere parziale, perché nell'ipotesi in


cui il convenuto non contesti i fatti costitutivi del diritto e non sollevi alcuna
eccezioni di merito, la causa se ha ad oggetto dei diritti disponibili, probabilmente
e’ già matura per la decisione, quindi il giudice può invitare le parti a precisare le
conclusioni, articolo 187 primo comma, e disporre la rimessione della causa in
fase decisoria. Quindi non ci sarebbe alcun bisogno di emanare un provvedimento
anticipatorio di condanna. Quindi devono essere parziali.

Poi il giudice dovrà effettuare una valutazione in iure, come si e’ detto, quindi
dovrà valutare se in base alla legge vigente, i fatti che l'attore ha affermato e che Il
convenuto non ha contestato, sono idonei a fondare la valutazione di esistenza
dell'effetto giuridico richiesto e naturalmente il giudice dovrà valutare/accertare
l'assenza di fatti modificativi estintivi impeditivi che siano rilevabili d'ufficio e che
emergano dagli atti processuali. Inoltre, possiamo aggiungere che se il convenuto
ha sollevato delle eccezioni di rito, il giudice dovrà deliberarne l'infondatezza e
verificare l'assenza di questioni di rito rilevabili d'ufficio. Questi sono diciamo i
presupposti. Una precisazione nel caso in cui il processo civile abbia ad oggetto
dei diritti indisponibili. Sappiamo che il principio di non contestazione non opera
nell'ambito dei processi aventi ad oggetto diritti indisponibili, vi ricordate lo
abbiamo detto parlando del principio di non contestazione, quindi parlando
dell'articolo 115. Allora si deve ritenere che è molto più difficile in queste ipotesi
che il giudice possa emanare l'ordinanza di pagamento delle somme non
contestate. Quindi, intanto, vi può essere uno spazio per l'emanazione di questo
provvedimento soltanto laddove il giudice ritenga che la non contestazione sia
idonea a fondare l'esistenza dei fatti costitutivi. Comunque e’ molto più difficile.

Per quanto riguarda la forma del provvedimento si è detto che il provvedimento ha


la forma dell’ordinanza. Quando può essere emanato? Sicuramente non può
essere emanato prima dell'udienza ex articolo 183 perché noi sappiamo che nel
corso della prima udienza il convenuto può svolgere attività difensive quali:
l’introduzione di fatti modificativi, estintivi, impeditivi che operano diritto quindi
oggetto di eccezioni rilevabili anche d’ufficio, il termine ultimo probabilmente è
l'udienza di precisazione delle conclusioni.

La legge mi dice espressamente, articolo 186 bis secondo comma, che


l'ordinanza costituisce titolo esecutivo. Come vedete non si fa menzione della
idoneità del provvedimento a costituire titolo per iscrizione di ipoteca giudiziale e
quindi sicuramente non e’ titolo per iscrizione di ipoteca giudiziale.

L'ultimo comma prevede che l'ordinanza è soggetta alla disciplina delle ordinanze
revocabili e c'è un richiamo espresso all’art 177 primo e secondo comma e
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all'articolo 178 primo comma. Allora si deve ritenere che l'ordinanza non può mai
pregiudicare la decisione di merito, quindi l'ordinanza viene emanata abbiamo
detto in corso di causa, il giudice quando la causa e’ matura per la decisione,
quindi arriva a conclusione, può naturalmente, non è vincolato a ritenere esistente
in diritto fatto valere in giudizio solo perché ha emanato l’ordinanza di pagamento
delle somme non contestate.

In base all'articolo 177 c.2, l'ordinanza è modificabile e revocabile da parte del


giudice che le ha emesse. Sarà il giudice designato nel caso in cui il processo si
svolga di fronte al tribunale in composizione monocratica. Potrà essere anche il
collegio se si tratta invece di una delle ipotesi in cui il tribunale decide in
composizione collegiale.

In base all'articolo 178 le parti possono riproporre al momento del passaggio della
causa in decisione le questioni irrisolte dal giudice con ordinanza revocabile.

Abbiamo detto che in base all’art. 186 bis c.2, l'ordinanza conserva la sua efficacia
in caso di estinzione del processo. Si tratta di chiarire che tipo di efficacia
conserva l’ordinanza a seguito della estinzione del processo. In verità la risposta a
questa domanda passa attraverso un chiarimento in ordine alla struttura di questo
provvedimento e, su questo punto, non c'è unicità di vedute. Intanto non
possiamo far riferimento ad orientamenti consolidati della Corte di Cassazione,
semplicemente perché questo istituto non viene utilizzato.

In dottrina si sono formate due opposte scuole di pensiero. Secondo taluni infatti
quel ‘’conserva efficacia’’ deve intendersi nel senso che l'ordinanza diviene
immutabile. Quindi l'ordinanza in base a questa prospettiva, viene equiparata ad
un decreto ingiuntivo quindi destinato in ipotesi di estinzione del processo, a
consolidarsi acquisendo quella immutabilità che abbiamo detto sul piano
qualitativo si presta ad essere equiparato all'autorità della cosa giudicata, non sul
piano quantitativo, per cui si è detto e’ preferibile parlare di preclusione pro
iudicato. In base a questa prospettiva allora, l’ordinanza di pagamento delle
somme non contestate a seguito della estinzione del processo, non sarebbe
suscettibile di impugnazione, almeno non di impugnazione ordinaria.

Invece secondo un altra prospettiva, il significato dell’espressione’’conserva la sua


efficacia’’ e’ piu limitato. Nel senso che l'ordinanza potrebbe conservare soltanto
la sua efficacia esecutiva. In base a questa prospettazione allora, l’ordinanza
finisce per essere assimilata ai provvedimenti sommari cautelari di tipo
anticipatorio idonei si, a sopravvivere all’estinzione del processo ma a conservare
unicamente efficacia esecutiva essendo del tutto privi di attitudine al giudicato. In
base a questa prospettiva allora, il provvedimento sopravvissuto all’estinzione del
primo processo, non svolgendo alcuna efficacia preclusiva, non impedirebbe alle
parti di aprire un secondo e autonomo processo avente ad oggetto lo stesso
diritto dedotto nel processo che si e’ istinto, se del caso tramite opposizione al
precetto e opposizione all’esecuzione, art 615 c.p.c aperto dal debitore dopo che
il creditore ha messo in esecuzione l'ordinanza (che e’ titolo esecutivo).

Qualunque sia la soluzione cui si voglia aderire il c.3 dell’art 163 bis prevede che
l’ordinanza e’ sempre revocabile da parte del giudice che l’ha emanata e quand'è
che l'ordinanza potrebbe essere revocata? Si possono immaginare diverse ipotesi.
Intanto è possibile che il giudice rilevi d’ufficio nel corso del processo, l’esistenza
di fatti modificativi, estintivi, impeditivi che emergono dagli atti processuali e che
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operano di diritto. In seconda battuta e’ possibile immaginare che il convenuto
ottenga una rimessione in termini ai sensi dell’art 153 c.2 del c.p.c e quindi
tardivamente sia ammesso o a contestare i fatti che l’attore ha posto a
fondamento della sua domanda, oppure a sollevare delle eccezioni di merito. E’
poi possibile immaginare che il giudice d'ufficio nell’ulteriore prosieguo del
processo riveda la propria valutazione in iure e quindi si convinca che i fatti
affermati dall’attore non sono idonei a reggere l’effetto giuridico richiesto, (a
fondare la domanda proposta dall’attore), oppure d’ufficio rilevi delle questioni di
rito astrattamente idonee a definire il processo.

Con questo abbiamo concluso.

Passiamo ora ad esaminare la disposizione successiva, l’art 186 ter dedicato


all’ordinanza di ingiunzione. Si tratta di una disposizione per il cui tramite il
legislatore del 1990 non ha fatto altro che trapiantare nel processo a cognizione
piena il procedimento per ingiunzione, per cui la comprensione di questo istituto
non dovrebbe crearvi grossi problemi.

Intanto diamo lettura di questa lunga disposizione:

Fino al momento della precisazione delle conclusioni, quando ricorrano i


presupposti di cui all'articolo 633, primo comma, numero 1), e secondo comma, e
di cui all'articolo 634, la parte può (ri)chiedere al giudice istruttore, in ogni stato del
processo, di pronunciare con ordinanza ingiunzione di pagamento o di consegna
(1). Se l'istanza è proposta fuori dall'udienza il giudice dispone la comparizione
delle parti ed assegna il termine per la notificazione (2).
L'ordinanza deve contenere i provvedimenti previsti dall'articolo 641, ultimo
comma, ed è dichiarata provvisoriamente esecutiva ove ricorrano i presupposti di
cui all'articolo 642, nonché, ove la controparte non sia rimasta contumace, quelli di
cui all'articolo 648, primo comma. La provvisoria esecutorietà non può essere mai
disposta ove la controparte abbia disconosciuto la scrittura privata prodotta contro
di lei o abbia proposto querela di falso contro l'atto pubblico.
L'ordinanza è soggetta alla disciplina delle ordinanze revocabili di cui agli articoli
177 e 178, primo comma (3). Se il processo si estingue l'ordinanza che non ne sia
già munita acquista efficacia esecutiva ai sensi dell'articolo 653, primo comma (5).

Se la parte contro cui è pronunciata l'ingiunzione è contumace, l'ordinanza deve


essere notificata ai sensi e per gli effetti dell'articolo 644. In tal caso l'ordinanza
deve altresì contenere l'espresso avvertimento che, ove la parte non si costituisca
entro il termine di venti giorni dalla notifica, diverrà esecutiva ai sensi dell'articolo
647 (4).
L'ordinanza dichiarata esecutiva costituisce titolo per l'iscrizione dell'ipoteca
giudiziale (5).

Allora; l’ordinanza di ingiunzione può essere rilasciata solo su istanza di parte.


Istanza di parte che potrà essere avanzata fino al momento della precisazione
delle conclusioni.

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Il rilascio del provvedimento e’ subordinato alla sussistenza di un duplice ordine di
requisiti: i requisiti relativi all’oggetto e i requisiti relativi alle prove. Per quanto
riguarda i requisiti speciali di ammissibilità relativi all’oggetto, il richiamo all’
articolo 633 c. 1 porta a ritenere che l’oggetto della richiesta debba riguardare il
diritto ad ottenere il pagamento di una somma di denaro liquida ed esigibile, il
diritto alla consegna di una quantità di cose fungibili, oppure il diritto alla
consegna di una cosa mobile determinata. Con riferimento invece alle prove, la
circostanza che la disposizione richiami unicamente l’art 634, porta a ritenere che
l'istanza debba essere fondata su una prova lato sensu documentale di cui all’art
634, mentre invece, come vedete, non vengono richiamati gli artt 635 e 636 (su cui
ci siamo soffermati mettendo in evidenza che si trattava di ipotesi di monitorio
puro perché si consente al creditore di ottenere il decreto ingiuntivo sulla base di
meri simulacri di prova per cui si e’ detto qui, al creditore, in sostanza, si consente
di ottenere il provvedimento sulla base della mera affermazione di esistenza dei
fatti costitutivi).

Quanto al provvedimento questo ha la forma dell'ordinanza. Deve contenere i


prov. di cui all’articolo 641 ultimo comma e proprio, come previsto con riferimento
al decreto ingiuntivo, e’ un prov. che non nasce esecutivo ex lege ma che può
essere dichiarato provvisoriamente esecutivo dal giudice laddove ricorrano i
presupposti indicati dalla legge. Come vedete; il secondo comma dell’art 186 ter
contiene un richiamo sia all’art 642 sia all’art 648 e per razionalizzare il contenuto
di questa disposizione che certamente non e’ cristallina, si deve ritenere che quel
‘’noche’’ debba essere letto come ‘’o invece’’ quindi: se il convenuto e’
contumace, si applichi il rinvio all’art 642 mentre invece se il convenuto si e’
costituito, si applica il rinvio all'articolo 648 c.1. Se il convenuto è’ contumace
l’unica ipotesi in cui l’ordinanza di ingiunzione può essere dichiarata
provvisoriamente esecutiva e’ laddove ricorrono le condizioni all'art 642, mentre,
se l’istanza e’ fondata su: assegno bancario, cambiale oppure se vi e’ un pericolo
di grave pregiudizio nel ritardo. Accanto a queste ipotesi occorre richiamare il
disposto del penultimo comma dell’art 186 ter. laddove prevede che in questa
ipotesi l'ordinanza deve essere notificata al convenuto contumace ai sensi e per
gli effetti dell’art 644, deve altresì contenere l’espresso avvertimento che ove la
parte non si costituisca entro il termine di 20 giorni dalla notifica, l’ordinanza, che
non sia stata già dichiarata esecutiva, diverrà esecutiva ai sensi dell'art 647.

Naturalmente in ipotesi di contumacia del convenuto si deve fare i conti con la


possibilità che il convenuto si costituisca nel corso del processo e allora la
domanda sorge spontanea:’’ potrà fare qualcosa il convenuto che si e’ costituito
tardivamente?’’. Ricordiamoci che l’art 186 ter c.3 prevede espressamente che
l’ordinanza di ingiunzione e’ revocabile ai sensi degli articoli 177, 178 c.1. Allora e’
ben possibile che il convenuto nel momento in cui si costituisce in corso di causa,
proponga istanza di revoca e su cosa potrà fondare questa istanza di revoca?
Naturalmente se il convenuto che si è’ costituito tardivamente ottiene, ai sensi
dell’art 294 c.p.c., la rimessione in termini in ipotesi di contumacia cosiddetta
involontaria, e’ possibile che svolgendo le proprie attività difensive a seguito di
rimessione in termini, possa contestare tardivamente i fatti costitutivi o possa
introdurre dei fatti estintivi, modificativi, impeditivi delle prove, che fondino il
convincimento del giudice nel senso di revocare il provv.. Naturalmente è’ ben
possibile che a prescindere dal contegno del convenuto e dalla costituzione del
67
convenuto, il giudice revochi d’ufficio il provvedimento. Per esempio quando
rivede la sua valutazione in iure quindi si rende conto che la domanda dell’attore
non e’ una domanda fondata, oppure rilevi l’esistenza di questioni di rito idonee a
definire il giudizio.

Invece, nel caso in cui il convenuto si e’ regolarmente costituito in giudizio, vedete


che la norma richiama l’art 648 ma con riferimento limitato al primo comma quindi
il c.2 relativo all’offerta di cauzione, non si applica. Allora; in base all’art 648 c.1 si
deve ritenere, ricordiamoci quanto ci siamo detti in ordine all'art 648 c.1 come
ipotesi di provv. di condanna con riserva delle eccezioni, la dichiarazione di
provvisoria esecutività dell’ordinanza di ingiunzione e’ subordinata alla circostanza
che l’attore abbia dato una piena prova dei fatti costitutivi, e ricordiamoci che
questa piena prova se e’ una prova documentale deve fare i conti con il limite
previsto nella seconda parte dell'articolo 186 ter per cui la provvisoria esecutorietà
non può essere mai disposta se la controparte abbia disconosciuto la scrittura
privata prodotta contro di lei o abbia proposto querela di falso contro l’atto
pubblico. Per cui se questa prova e’ atto pubblico, e’ necessario che non sia stata
proposta querela di falso, se e’ una scrittura privata occorre che la scrittura privata
abbia una sottoscrizione autenticata, oppure se la sottoscrizione non è autenticata
allora si possa comunque intendere legalmente riconosciuta a seguito
dell'espresso riconoscimento o mancato disconoscimento da parte del
convenuto. Secondo requisito è che il convenuto abbia sollevato delle eccezioni
che non siano fondate su prova scritta o di pronta soluzione. Terzo requisito è che
il giudice abbia valutato sia pure a livello di derivazione sommaria la non
fondatezza di queste eccezioni.

Anche in questo caso naturalmente e’ possibile che l’ordinanza venga revoca. E


quand'è’ che potrà essere revocata? Anche in queste ipotesi e’ possibile
immaginare diversi scenari: e’ possibile che il giudice d’ufficio ancora una volta
rilevi l’esistenza di fatti modificativi, estintivi, impeditivi che emergono dagli atti del
processo e che sono rilevabili d’ufficio; e’ possibile che il giudice si convinca che
le eccezioni non fondate su prova scritta o di pronta soluzione sono fondate; e’
possibile che il giudice riveda la propria valutazione in iure quindi si convinca che i
fatti affermati dall’attore in base all’ordinamento vigente non siano idonei a fondare
l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio; oppure il giudici rilevi l’esistenza di
questioni di rito idonee a definire il giudizio.

Torniamo un momento all’ordinanza di ingiunzione. Abbiamo detto e’ sempre


revocabile, stante la previsione contenuta nel c.3 dell’art 186 ter e questo segna
un punto di distacco rispetto al decreto ingiuntivo perché il decreto ingiuntivo non
può essere revocato dal giudice, il giudice lo può annullare con la sentenza
definitiva che accoglie l’opposizione al decreto ingiuntivo o in corso di causa
attraverso una sentenza non definitiva. Invece l’ordinanza di ingiunzione e’
revocabile ma è legata alla sentenza che definirà il giudizio. Quindi se la sentenza
e’ una sentenza che accoglie la domanda, allora sarà una sentenza che in base
all’art 282 se sentenza di condanna e’ sentenza provvisoriamente esecutiva e
quindi idonea a reggere lei stessa l'efficacia esecutiva anche se l'ordinanza era già
stata dichiarata provvisoriamente esecutiva. Nel caso invece la sentenza sia una
sentenza di rigetto, allora l'ordinanza di ingiunzione e’ destinata a perdere
immediatamente la sua efficacia. Nella ipotesi di estinzione del processo a
68
cognizione piena in base al c.4 dell’art 186 ter l’ordinanza che non ne sia già
munita acquista efficacia esecutiva ai sensi dell’art 653 c.1. Questa previsione
secondo l’interpretazione preferibile deve essere letta nel senso che l’ordinanza
non soltanto se non ne era già provvista acquista efficacia esecutiva ma acquista
efficacia immutabile proprio come il decreto ingiuntivo in ipotesi di successiva
estinzione del giudizio di opposizione. Questa interpretazione la possiamo fondare
sul rilievo secondo cui qui il legislatore ha utilizzato la stessa formula utilizzata
nell’art 647 e abbiamo detto a suo tempo che la letture degli art 647 e 653 e’
pacificamente intesa come quel ’’acquista efficacia esecutiva’’ deve essere letto
come ‘’acquista efficacia immutabile’’ per cui, siccome siamo partiti dal rilievo
secondo cui attraverso l'articolo 186 ter il legislatore non ha fatto altro che
innescare il processo di ingiunzione nel processo a cognizione piena, non ci sono
motivi per discostarsi da questa interpretazione.

Un ultimo puntualizzazione; l’ultimo comma attribuisce all’ordinanza dichiara


provvisoriamente esecutiva, anche la qualità di titolo per iscrizione di ipoteca
giudiziale.

(file 5) Ho rilevato in ultima istanza che secondo quanto previsto nell'ultimo comma
dell'articolo 186 ter l'ordinanza di ingiunzione, ove dichiarato provvisoriamente
esecutiva, e’ titolo per iscrizione ipoteca giudiziale. E’ una previsione analoga a
quella prevista per il decreto ingiuntivo perché se ricordate anche l'articolo 655
afferma che il decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo, e’ titolo per iscrizione di
ipoteca giudiziale. Con riferimento specifico all'ordinanza di ingiunzione, però c'è
da fare una puntualizzazione importante perché secondo l'interpretazione che è
preferibile, in ipotesi in cui l'ordinanza venga revocata, secondo quanto consentito
dall'articolo 186 ter c.3. Si ritiene che la revoca dell'ordinanza costituisca titolo
anche per la cancellazione dell'ipoteca giudiziale nel frattempo iscritta e questo
segno punto di distanza molto importante rispetto al decreto ingiuntivo perché vi
ricordate che in ipotesi in cui il debitore ottenga la sospensione dell'efficacia
esecutiva del decreto ingiuntivo opposto, la sospensione non costituisce invece
titolo per ottenere la cancellazione di ipoteca giudiziale.

Un ultimo punto è che si interroga molto sullo spazio per l'emanazione del
provvedimento in esame; quali sono effettivamente i casi in cui sussistono le
condizioni perché questo provvedimento possa essere emesso? Certamente può
essere emanato nell’ipotesi in cui il creditore abbia nelle sue mani i requisiti di cui
all'articolo 633 primo comma numero 1 e 634, con riferimento ad una parte di una
domanda che ha un contenuto più ampio. Ma al di fuori di questa ipotesi. Quando
cioè questi requisiti, questi presupposti, riguardano l'intera domanda si rileva da
parte di alcuni che se in partenza il creditore, con riferimento ad una domanda che
ha i contenuti dell'articolo 633 dispone solo e soltanto della prova lato sensu
documentale dell'articolo 634, non aprirà il processo a cognizione piena, ma aprirà
direttamente il procedimento di ingiunzione che gli consente di ottenere in tempi
relativamente rapidi un titolo esecutivo che egli assicura l'anticipazione del
soddisfacimento concreto delle sue pretese.

Detto questo però è possibile immaginare ulteriori ipotesi in cui questo


provvedimento può trovare un suo spazio. Ad esempio l’ipotesi in cui l’intera
69
domanda diciamo si presti ad essere accolta ma il convenuto abbia sollevato delle
eccezioni che non sono fondate su prova scritta e non sono di pronta soluzione,
per cui è necessario proseguire, andare avanti per l'assunzione delle prove relative
alle difese del convenuto. In queste ipotesi è possibile immaginare che la parte
possa chiedere, il giudice possa concedere, l'ordinanza per ingiunzione. Così
come un ulteriore spazio lo si puo rinvenire nelle ipotesi in cui il convenuto non è
contumace e con riferimento all’intera domanda il creditore abbia portato prove
lato sensu documentali ai sensi dell'articolo 634 e non prove piene, anche qua è
possibile immaginare che ci sia uno spazio per l’applicazione di questo
provvedimento.

Nel caso invece in cui il convenuto e’ contumace allora uno spazio ulteriore si apre
se l’intera domanda si presta ad essere accolta ma il creditore abbia portato una
prova dei fatti costitutivi lato sensu documentale secondo quanto previsto dall’art
634. E’ possibile allora che il giudice emani l’ordinanza per ingiunzione ai sensi
dell’ art 186 ter. Bisogna però ricordare che in questa particolare ipotesi
l'ordinanza, in base al quinto comma dell'articolo 186 ter, diventa immutabile,
definirà il giudizio se la controparte non si costituisce nel termine di venti giorni
dalla notifica dell’ordinanza stessa.

Quanto alla definizione della natura del provvedimento, stante quanto ci siamo
detti fin dall'apertura della lezione, ovvero che l’art 186 ter non e’ altro che
l'innesto del procedimento per ingiunzione nel processo a cognizione piena,
possiamo tranquillamente ritenere che l'ordinanza per ingiunzione è un
provvedimento sommario di tipo non cautelare avente attitudine ad acquistare
l’autorità della cosa giudicata, ad acquistare quella immutabilità che, diciamo
meglio, sul piano qualitativo e’ analoga all’autorità della cosa giudicata ma che ne
diverge sul piano quantitativo avendo una portata più ristretta e che pertanto è
preferibile indicare come preclusione pro iudicato.

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Lezione 5 - 19/03/20
Nel corso delle passate lezioni ci siamo soffermati sui provvedimenti anticipatori di
condanna e segnatamente sugli articoli 186-bis e 186-quater, che disciplinano
rispettivamente l’ordinanza di pagamento delle somme non contestate e di
ingiunzione. Oggi andiamo ad esaminare l’ordinanza successiva alla chiusura
dell’istruzione che è disciplinata nella norma immediatamente successiva: articolo
186-quater. Siamo di fronte ad un provvedimento introdotto da una legge del 1995
che in verità non si presta ad essere affiancato ai 2 precedenti perché mentre
l’ordinanza di pagamento delle somme non contestate e l’ordinanza di ingiunzione
sono 2 provvedimenti di tipo sommario (perché basati l’uno su una cognizione
speciale l’altro su una cognizione sommaria perché superficiale e/o parziale) e
sono chiamati a svolgere una funzione di economia processuale (consentendo
all’attore di ottenere un provvedimento dotato di efficacia esecutiva saltando i
tempi della cognizione piena allorquando vi è una lite ,almeno parzialmente, da
pretesa insoddisfatta), invece l’ordinanza di cui all’art 186-quater è un
provvedimento innanzitutto che si basa su una cognizione piena e
secondariamente che svolge una funzione anticipatoria ma in senso
completamente diverso dai due precedenti. Perché attraverso l’ordinanza emanata
successivamente alla chiusura della istruzione l’ordinamento consente alle parti di
azzerare, di comprimere, la fase che intercorre tra l’udienza di precisazione delle
conclusioni e l’emanazione della sentenza definitiva, che chiude il processo a
cognizione piena. Ma andiamo con ordine:

- Intanto vediamo i presupposti cui è subordinato il rilascio di questo


provvedimento:

1) intanto è necessaria l’istanza di parte, proposta al massimo nell’udienza


di precisazione delle conclusioni, quindi prima che si apra la fase
decisoria.

2) in secondo luogo si richiede l’esaurimento dell’istruzione: è necessario


che il giudice abbia acquisito tutte le prove ammesse (quindi si versi
nell’ipotesi dell’art 188 cpc) oppure in un’ipotesi in cui il giudice non
abbia acquisito alcuna prova. Quindi ad esempio il giudice non abbia
ammesso nessuna prova perché il giudice le abbia ritenute tutte non
ammissibili o non rilevanti (quindi nell’ ipotesi di cui all’art 187.1 cpc).

3) L’oggetto della domanda è altresì specificato dal legislatore, si fa


espresso riferimento alla condanna al pagamento di somme oppure alla
consegna o rilascio di beni evidentemente mobili o immobili. Con
riferimento ai provvedimenti di condanna si è posta naturalmente la
questione relativa al se il provvedimento potesse essere emanato con
riferimento ai capi di condanna consequenziali ad azione di impugnativa
negoziale: ad esempio si propone azione di annullamento del contratto e
la consequenziale domanda di restituzione del bene o di risarcimento del
danno. Alla questione si è offerta una risposta positiva facendo leva sulla
circostanza per cui il capo di condanna che è consequenziale all’azione

71
di impugnativa negoziale è idoneo ad acquistare efficacia esecutiva fin
dal momento di emanazione della sentenza di primo grado, quindi in
ottemperanza a quanto previsto nell’art. 282 cpc. Il fatto che ci sia uno
specifico riferimento alle domande di condanna esclude a possibilità che
questo provvedimento possa essere chiesto con riferimento a domande
di mero accertamento o a domande di tipo costitutivo. Questo perché lo
scopo è quello di anticipare all’attore un provvedimento dotato di
efficacia esecutiva saltando i tempi della fase decisoria e con riferimento
al mero accertamento o alla tutela costitutiva questa anticipazione non
ha alcun senso. Stante il riferimento specifico ai diritti aventi ad oggetto il
pagamento di somme o alla consegna o al rilascio di beni mobili o
immobili si deve escludere che il provvedimento possa essere richiesto
on rifermento ad altri obblighi: ad esempio obblighi di fare o di non fare.

4) Ulteriore presupposto è il riferimento alla circostanza che il giudice la può


emanare nei limiti in cui ritiene già raggiunta la prova. Questa espressione
viene spiegata concordemente dalla dottrina nel senso che siccome
l’ordinanza può essere emanata a chiusura della fase istruttoria si tratta
di un provvedimento basato su una cognizione piena.

- La forma abbiamo detto è quella della ordinanza quindi è un provvedimento


più semplice rispetto ad una sentenza.(In base all’art 134 cpc infatti
l’ordinanza necessita di un motivazione succinta, mentre la sentenza di una
motivazione concisa ci dice l’art 132 n4). Deve anche contenere,
provvedere, sulle spese. Questa è una previsione molto interessante perché
significa che è stata concepita dal legislatore come potenzialmente
sostitutiva della successiva sentenza definitiva. Quindi questo prelude a uno
dei possibili esiti del processo successivo all’emanazione di questa
ordinanza. Esito che è da privilegiare perché soltanto è dove si percorre
questa strada che trova attuazione lo scopo, l’intento, a cui il legislatore ha
voluto dare attuazione.

- Inoltre, in base all’art. 186-quater c.2, l’ordinanza è titolo esecutivo. Non c’è
alcun riferimento alla idoneità per costituire titolo per l’iscrizione di ipoteca
giudiziale e quindi in considerazione del carattere tipico della pubblicità
costitutiva si deve escludere tale idoneità.

- Naturalmente a fronte a fronte dell’istanza della parte il giudice è libero di


rifiutare di emanare l’ordinanza e lo farà laddove ritenga che la decisione
della causa è una decisione complessa che quindi rende necessario un
certo impiego del tempo, perché il giudice ritiene di dover valutare con la
dovuta calma, di svolgere con la dovuta calma tutte le attività valutative: sia
con riferimento alla questione di fatto sia alla questione di diritto. La
funzione di questo provvedimento è quella di anticipare alla parte che ha
ragione la tutela quando la decisione è semplice, quando è poco
impegnativa, per cui si valuta eccessivo costringere l’attore ad aspettare

72
tutto il tempo necessario per raggiungere la fase decisoria anziché dargli
immediatamente il provvedimento che ha richiesto.

Dobbiamo infatti ricordare che aldilà della disciplina dettata dal legislatore
nel secondo libro del codice di procedura civile tra l’udienza di precisazione
delle conclusioni e il termine per il deposito delle motivazioni del giudice
possono trascorrere non soltanto molti mesi ma anche qualche, diversi, anni
(soprattutto in alcuni uffici giudiziari).

Andiamo adesso a vedere i possibili scenari che si possono aprire all’indomani


dell’emanazione del provvedimento:

- La prima possibilità è che il processo prosegua verso la sentenza. Sentenza


che sostituirà in ogni caso la precedente ordinanza. Affinché si arrivi
all’emanazione della sentenza è necessario che la parte che subisce la
sentenza, quindi la controparte, manifesti il suo interesse quindi ponga in
essere un atto di impulso processuale. È questo quanto prevede l’ultimo
comma dell’art. 186-quater laddove si configura a carico della controparte
l’onere di manifestare -entro 30 giorni dalla pronuncia dell’ordinanza se
avvenuta in udienza o dalla sua comunicazione se pronunciata fuori
udienza- con ricorso notificato all’altra parte e depositato in cancelleria la
volontà che sia pronunciata sentenza. Una volta che la parte ha manifestato
questa volontà il giudice dovrà emanare la successiva sentenza. E qui
acquista rilevanza la previsione contenuta nel secondo comma , seconda
parte, dell’art. 186-quater dove si legge che l’ordinanza è revocabile con la
sentenza che definisce il giudizio. Cosa significa? Significa che nonostante
che l’ordinanza sia basata su una cognizione piena non esclude che il
giudice, nel momento in cui si trova ad emanare la sentenza, possa
cambiare idea quindi possa sulla base di un riesame sei punti di fatto e di
diritto possa pervenire ad una decisione di segno diverso rispetto a quella
precedente. Quindi se il processo su istanza della controparte segue il suo
iter normale e si arriva alla sentenza, questa sentenza in ogni caso assorbirà
l’ordinanza: quindi se la conferma si limita ad assorbirla e sarà la sentenza
stessa a reggere lì esecuzione forzata che l’attore avrà nel frattempo avviato;
se invece la sentenza non conferma ha un contenuto diverso il giudice avrà
prima revocato la precedente ordinanza.

- La seconda possibilità è che i processo si estingua. Questa seconda


possibilità trova la sua disciplina nel terzo comma. Si legge infatti che “se,
dopo la pronuncia dell’ordinanza, il processo si estingue, l’ordinanza
acquista l’efficacia della sentenza impugnabile sull’oggetto dell’istanza.” Il
dire che l’ordinanza acquista l’efficacia della sentenza non impugnabile
significa che questo provvedimento diventa suscettibile di impugnazione
ordinaria quindi si applicano le regole ordinarie del secondo libro del cpc.

- La terza possibilità invece è quella in cui l’intimato rimane inerte. Quindi non
propone ricorso per il cui tramite manifesta l’interessa ad ottenere la
sentenza ma rimane inerte. In questo caso ci dice il c.4 dell’art 186-quater in
apertura che l’ordinanza “acquista l’effetto della sentenza impugnabile
73
sull’oggetto dell’ istanza” . Anche in questa ipotesi dovranno decorrere 30
giorni perché questo è il termine entro il quale l’intimato è chiamato a
manifestare il suo interesse all’emanazione della sentenza. Decorsi 30 giorni
dall’emanazione dell’ordinanza, questa acquista efficacia di sentenza
impugnabile come nel caso precedente. A questo punto decorrono i termini
per l’impugnazione, è questa la strada che il legislatore auspica che sia
percorsa da parte dell’intimato. Ed è molto probabile che l’intimato rimanga
inerte perché l’ordinanza abbiamo visto prima è esecutiva ex lege quindi
l’attore, una volta ottenuta l’ordinanza, si attiverà per mettere in moto il
processo esecutivo. A questo punto l’interesse dell’intimato è quello di adire
il più velocemente possibile il giudice dell’impugnazione per chiedergli
l’inibitoria, cioè il provvedimento di sospensione dell’efficacia esecutiva o
dell’esecuzione del provvedimento impugnato. Ed è in questa ipotesi, quindi
nell’ipotesi in cui l’intimato rimane inerte e quindi il processo si arresta, che il
legislatore realizza il proprio scopo cioè consentire (c’è una parola che non
capisco, audio disturbato) l’annullamento, l’azzeramento, dei tempi di
svolgimento della cosiddetta fase decisoria.

Questo meccanismo è un meccanismo che non pone dei problemi molto delicati
di fronte a processi cumulativi. Probabilmente il legislatore del 1995 non se ne è
neppure reso conto. Pensate a tutti i casi in cui di fronte al giudice siano cumulate
due o più domande fra le stesse parti o parti diverse. Si tratta di capire se
l’ordinanza di cui all’art. 186-quater possa essere emanata in queste ipotesi.
Certamente se i presupposti indicati dalla norma maturano con riferimento a tutte
le domande cumulate di fronte allo stesso giudice non ci sono problemi a
consentirne l’utilizzazione. Il problema si pone soltanto nel caso in cui i
presupposti ricorrano solo con riferimento ad una o più di una delle domande
cumulate di fronte allo stesso giudice.

La risposta che possiamo offrire non è una risposta unitaria perché in queste
ipotesi: Intanto il provvedimento sarà emanato in quanto il giudice possa disporre
la separazione delle controversie in base all’art 103.2 se il processo è fra parti
diverse o in base all’art 104.2 se tra le stesse parti. Ma come noi abbiamo visto,
almeno con riferimento alle stesse parti, questo sarà possibile solo in presenza di
forme di connessione blande. Solo in queste ipotesi il giudice potrà disporre la
separazione delle cause. Quindi laddove si tratti di cause che sono connesse per
identità meramente soggettiva oppure per identità del fatto costitutivo non
controverso. Viceversa non potrà essere emanata in ipotesi connessione forte
come ad esempio la connessione per pregiudizialità dipendenza perché abbiamo
detto che il vincolo di connessione per pregiudizialità dipendenza pone in campo
delle esigenze (e in particolare l’esigenza di assicurare l’armonia delle decisioni)
per cui si ritiene opportuno escludere che il giudice possa disporre la separazione
delle controversie.

Con riferimento all’ambito applicativo dell’istituto è opportuno ricordare anche che


secondo ‘interpretazione preferibile questa disposizione non può trovare
applicazione nell’ambito del processo del lavoro perché qui la fase decisoria ha
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una disciplina specifica e speciale. Non può trovare applicazione per lo stesso
motivo di fronte al giudice di pace, ma non può trovare applicazione neppure in
sede di appello.

Andiamo ad analizzare il procedimento sommario di cognizione.

E’ stato introdotto con la Legge di riforma 69 del 2009 ed è disciplinato con gli
articoli 702-bis ,702-ter, 702-quater del codice di procedura civile

La numerazione usata ci dice che il legislatore ha usato la tecnica della


novellazione inserendo 3 nuove disposizioni che vanno a comporre il capo terzo-
bis del titolo primo del quarto libro del codice di procedura civile.

Questo procedimento presenta dei tratti che lo distinguono nettamente dagli altri
procedimenti speciali, intanto perché non è un procedimento speciale: infatti, a
differenza degli altri procedimenti sommari sin qui analizzati, l’apertura di questo
procedimento non è subordinata all’esistenza di requisiti speciali di ammissibilità
relativi all’oggetto quindi non è stato disegnato dal legislatore con riferimento a
situazioni giuridiche predeterminate. L’ambito applicativo si delinea alla luce di
quanto previsto nel primo comma dell’articolo 702-bis e nel terzo comma
dell’articolo 702-ter.

- Nel primo comma dell’art. 702-bis si legge la prima indicazione generale


ovvero che ci si riferisce alle cause in cui il tribunale giudica in composizione
monocratica

- nel terzo comma dell’art. 702 ter si fa riferimento alla circostanza in cui le
difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non sommaria. Da questa
espressione, a dire il vero non proprio cristallina, si desume che l’obiettivo
che il legislatore ha voluto perseguire, ovvero che questo procedimento è
riservato alle controversie cosiddette semplici che non hanno bisogno di un’
istruttoria complessa.

Queste sono le uniche indicazioni offerte dal legislatore. Questo procedimento non
può dunque essere collegato alle tipiche esigenze che il legislatore tenta di
realizzare attraverso le tecniche della tutela sommaria ma risponde soltanto
all’esigenza di semplificare la trattazione e l’istruzione del processo in ipotesi di
controversie semplici. Questa esigenza è comune a tutti gli ordinamenti
processuali poiché questi danno rilievo alla circostanza che la circostanza aperta
tra le parti è semplice o complessa anche se negli alti ordinamenti troviamo scelte
più razionali rispetto a quelle messe a punto dal legislatore italiano.

Ricostruiamo dunque le regole di svolgimento di questo procedimento:

Prima di tutto, partendo dal presupposto che il procedimento è riservato alle


controversie in cui il tribunale è in composizione monocratica, da questo
desumiamo che ne sono escluse le controversie soggette a decisione collegiale
così come quelle di competenza del giudice di pace poiché questo è già un
processo semplice di per sé, pensato per controversie semplici, per cui il
legislatore non ha avvertito l’esigenza di predisporre anche con riferimento a
quest’altro gruppo di controversie un riferimento analogo a quello che stiamo
introducendo. Ugualmente si ritiene che ne siano escluse le controversie soggette

75
a riti speciali (ad es. rito lavoro o rito locatizio) perché per queste le regole sono
speciali e quindi escluse dall’applicazione del rito sommario di cognizione.

Vediamo le regole di svolgimento del processo. Il procedimento sommario di


cognizione si introduce con ricorso (comma 1 art. 702 bis) redatto a norma dell’art
125 e deve contenere anche le indicazione di cui ai numeri da 1 a 6 dell’art. 163
(norma che disciplina l’atto di citazione) e l’avvertimento di cui al n. 7

Presentato il ricorso in cancelleria, il cancellerie forma il fascicolo d’ufficio, lo


presenta senza ritardo al Presidente del Tribunale che designa il magistrato a cui la
controversia viene affidata. Non è previsto un termine massimo entro cui svolgere
queste attività così come non è previsto un termine in ordine alla data di
svolgimento dell’udienza, infatti il comma 3 dell’art 702 bis prevede che il giudice
designato con decreto fissi la data dell’udienza di comparizione delle due parti
assegnando il temine per la costituzione del convenuto che deve avvenire non
oltre 10 giorni prima dell’udienza.

Il ricorso unitamente al decreto di fissazione dell’udienza devono essere notificati


al convenuto almeno 30 giorni prima della data fissata per la sua costituzione.

Il convenuto ha l’onere di costituirsi mediante deposito in cancellaria della


comparsa di risposta almeno 10 giorni prima della data dell’udienza. Nella
comparsa di risposta deve svolgere le proprie difese quindi proporre le sue difese
prendendo posizione sui fatti posti dal ricorrente a fondamento della domanda
quindi esercitando il potere di mera difesa, indicando i mezzi di prova e i
documenti che offre in comunicazione e formulare le conclusioni. Con riferimento a
queste attività il legislatore non pone un termine di decadenza mentre a pena di
decadenza. Nella comparsa di risposta depositata 10 giorni prima della data
dell’udienza deve proporre le domande riconvenzionali, le eccezioni processuali e
di merito non rilevabili d’ufficio e stante il disposto del 5^ comma dell’art. 702 bis
anche manifestare la volontà di chiamare un terzo in garanzia. Qui il legislatore non
parla di chiamata in causa del terzo, secondo l’intervento su istanza di parte,
istituto disciplinato nell‘art 106, la chiamata in garanzia è solo una delle ipotesi di
chiamata in causa su istanza di parte, l’interpretazione preferibile è nel senso di
ritenere che nonostante qui il legislatore parli solo di chiamata in garanzia, in
questa previsione siano ricomprese tutte quante le ipotesi di chiamata in causa del
terzo.

Dopodiché abbiamo la prima udienza. Questo quanto si può verificare in udienza:

1) Prima di tutto In udienza il giudice può ritenere di essere incompetente,


ipotesi espressamente prevista nell’art. 702 ter, in questa ipotesi lo dichiara
con ordinanza. Non c’è motivo per non ritenere che questa ordinanza sia
soggetta alle regole ordinarie dei provvedimenti che si pronunciano sulla
sola competenza e quindi questa ordinanza è suscettibile di essere
impugnata attraverso regolamento necessario di competenza ai sensi
dell’art. 42

2) La seconda possibilità è che il giudice ritenga che la domanda non rientri tra
quelle indicate nell’art 702 bis e quindi il giudice, con ordinanza non

76
impugnabile, la dichiara inammissibile e nello stesso modo provvedere sulla
domanda riconvenzionale

Se il giudice ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non
sommaria con ordinanza non impugnabile fissa sull’udienza di cui all’art. 183. In tal
caso si applicano le disposizioni del libro secondo.

Se il giudice (Comma 3 art 702 ter) si rende conto che la controversia non è
semplice ma complessa e quindi non si presta ad essere trattata nelle forme del
procedimento sommario di cognizione, con ordinanza non impugnabile deve
disporre il mutamento di rito cioè fissare la data dell’udienza di cui all’art 183
dopodiché il processo si svolgerà nelle forme della cognizione piena. Questo è il
significato chiaro del richiamo alle disposizioni del libro secondo. Questa
previsione ci deve guidare anche nella lettura del comma precedente. Quando il
giudice rileva che la domanda non rientra tra quelle indicate nell’art. 702 bis il
giudice con ordinanza non impugnabile la dichiara inammissibile ma si ritiene
debba anche fissare la data dell’udienza ex art. 183 in modo che il processo possa
proseguire sia pure nelle forme della cognizione piena. E’ importante questa
precisazione perché ogni volta che il giudice dispone il mutamento di rito il
processo deve proseguire e quindi rimangono in piedi gli effetti sostanziali e
processuali dell’originaria domanda.

C’è da notare che, nell’ipotesi in cui il giudice dispone il mutamento di rito, non si
prevede niente in ordine ai termini posti a difesa delle parti.

Nella previsione contenuta nel comma 3 art 702 bis il legislatore ha stabilito che
una volta che il giudice con decreto ha fissato la data di svolgimento della prima
udienza, il ricorso e il decreto devono essere notificati al convenuto almeno 30
giorni prima della data fissata per la sua costituzione e questa deve avvenire 10
giorni prima della data dell’udienza. Quindi tra la data della notifica del ricorso e
del decreto e quella della prima udienza intercorrono 40 giorni.

E’ evidente che il convenuto ha a sua disposizione un termine di 30 giorni per


apprestare le proprie difese a pena di decadenza laddove si tratti di eccezioni
processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, di domande riconvenzionali o di
chiamate in causa di terzi. Questi termini sono molto diversi da quelli previsti
nell’ambito dei processi a cognizione piena perché lì sappiamo che i termini a
difesa delle parti ovvero i termini minimi a comparire di cui all’art 163 bis sono di
90 giorni nell’ipotesi in cui la notificazione avvenga in Italia, cioè tra il giorno della
notifica della citazione e quello dell’udienza devono intercorrere 90 giorni.
Dopodiché il convenuto ha l’onere di costituirsi a pena della perdita dei suoi poteri
processuali con comparsa di risposta depositata 20 giorni prima della data
dell’udienza quindi il convenuto ha 70 giorni di tempo per organizzare le proprie
difese. La differenza dei termini di cui il convenuto gode per apprestare le proprie
difese è piuttosto grossa. Qui sono 70 giorni, nel procedimento sommario di
cognizione sono 30 giorni, quindi ci sono 40 giorni di differenza. Nel momento in
cui il giudice dispone il mutamento di rito in base all’art 702 ter terzo comma non
si prevede il recupero da parte del convenuto dei termini a difesa e questo ha
sollevato non poche perplessità soprattutto tenuto conto del fatto che il
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mutamento di rito viene predisposto laddove il giudice si rende conto che la causa
è complessa e non è invece una controversia semplice. Questo rappresenta un
punto di grossa debolezza di questo procedimento. Attribuire rilevanza alla
circostanza che una controversia sia semplice o complessa è una scelta razionale,
però negli alti ordinamenti europei, per esempio in Francia, l’apertura del processo
avviene sempre in base alle stesse regole, dopodiché è il giudice che ha studiato
gli atti introduttivi e nel contraddittorio tra le parti a stabilire il binario in cui deve
essere indirizzata la controversia se sul binario delle controversie semplici o su
quello delle controversie complesse. Invece nell’ordinamento italiano, alla luce di
questa disciplina, sta all’attore valutare se la controversia è semplice o non è
semplice e una volta che ha fatto la sua scelta, ad esempio introducendo il
procedimento sommario di cognizione, depositando il ricorso ex art 702 bis, il
giudice può correggere il tiro ma il problema è che chi ci rimette rischia di essere il
convenuto che perde i termini, perde una parte notevole del tempo che avrebbe
avuto a disposizione per organizzare le proprie difese. Quindi è una scelta che
molti ritengono essere irrazionale.

Se queste situazioni non si verificano, in base a quanto dice il quinto comma della
disposizione, nella prima udienza, sentite le parti e omessa ogni formalità non
essenziale al contraddittorio, il giudice procede nel modo che ritiene più opportuno
agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto e
provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande. Questa
espressione il legislatore l’ha ripresa dall’art 669 sexies relativo al procedimento
cautelare generale ed è una espressione che ci dice col massimo della chiarezza
che questo processo almeno nel primo grado di giudizio è un processo che si
svolge nelle forme sommarie perché è il giudice nel rispetto del principio del
contraddittorio a dettare le regole di svolgimento del processo stesso. Il giudice
procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in
relazione all’oggetto del provvedimento richiesto, dopodiché il procedimento si
conclude con ordinanza che accoglie o rigetta la domanda.

Questa ordinanza, ci dice il sesto comma del disposizione, è provvisoriamente


esecutiva e costituisce titolo per l’iscrizione d’ipoteca giudiziale e per la
trascrizione e il giudice regola anche le spese del procedimento. In base
all’articolo successivo, art 702 quater, la precedente ordinanza produce gli effetti
di cui all’ art 2909 del codice civile se non è appellata entro 30 giorni dalla sua
comunicazione o notificazione. Questo provvedimento è quindi suscettibile di
appello da proporsi entro 30 giorni dalla comunicazione o notificazione (dipende
da ciò che avviene prima) e se non viene proposto tempestivamente appello
produce gli effetti di cui all’art. 2909 del codice civile quindi passa in giudicato,
acquista la stabilità dell’autorità della cosa giudicata. Se invece la parte
soccombente si attiva si apre l’appello che, nonostante la lettera della legge non
sia chiara, è soggetto alle regole del secondo libro, quindi il giudizio eventuale di
appello è un grado di giudizio che si svolge a cognizione piena. Il legislatore si
limita in questo art 702 quater a dettare delle regole circa i limiti di ammissibilità
delle nuove prove. Questa disposizione era stata dettata riprendendo il testo
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dell’art 345 relativo all’appello. Successivamente però alla entrata in vigore di
queste disposizioni il testo dell’art. 345 è stato modificato nel senso che sono
state prodotte le possibilità di produrre nuove prove ma il legislatore si è
dimenticato di adeguare il testo della norma successiva che è rimasta invariata.
Sono state sollevate molte critiche in ordine alla circostanza che un’ordinanza
emanata sulla base di un procedimento a cognizione sommaria sia idonea ad
acquistare l’autorità della cosa giudicata perché questo scardina una delle regole
fondamentali dell’ordinamento processuale che collega l'autorità della cosa
giudicata sempre al processo che si è svolto nelle forme della cognizione piena. SI
risponde che la legittimità di questa previsione è garantita dalla circostanza, che il
provvedimento è suscettibile di appello e che l’appello è destinato a svolgersi nelle
forme della cognizione piena.

Il problema maggiore che pone questo provvedimento è il suo inquadramento


perché su questo punto non ci sono vedute unitarie. Taluni ritengono che si tratti
di un procedimento che può essere definito come procedimento a cognizione
piena sia pure svolgendosi in forme semplificate, altri ritengono invece che non si
tratti di un processo a cognizione piena ma di un processo a cognizione
sommaria.

PARTE 2

Per portare a chiarimento la questione dell’esatto inquadramento del


procedimento sommario di cognizione dobbiamo completare il quadro dei
riferimenti normativi.

Ricordiamo che in base al disposto dell’art. 702 ter c.3

“Se ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non sommaria (il
che significa che la controversia non è semplice, bensì complessa), il giudice, con
ordinanza non impugnabile, fissa l’udienza di cui all’articolo 183(quindi è una sorta
di mutamento di rito). In tal caso si applicano le disposizioni del libro II.”

Quindi in base a questa norma, se il giudice si rende conto che manca il


presupposto, cui si correla la possibilità che il processo si svolga nelle forme degli
artt. 702 bis e ss., non deve fa altro che disporre il passaggio alla cognizione
piena.

Il quadro normativo deve essere completato con il disposto dell’art. 183 bis. L’art.
183 bis è stato introdotto nel 2014 e prevede il passaggio in senso contrario.
Prevede che, nell’ambito di un processo introdotto con atto di citazione a
comparire ad udienza fissa (quindi nelle forme della cognizione piena), il giudice
possa, tenuto conto della complessità della lite, disporre il passaggio alle forme
del procedimento sommario di cognizione. La disposizione prevede che

“Nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, il giudice


nell'udienza di trattazione, valutata la complessità della lite e dell'istruzione
probatoria, può disporre, previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta,
con ordinanza non impugnabile, che si proceda a norma dell'articolo 702 ter e
invita le parti ad indicare, a pena di decadenza, nella stessa udienza i mezzi di
prova, ivi compresi i documenti, di cui intendono avvalersi e la relativa prova

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contraria. Se richiesto, può fissare una nuova udienza e termine perentorio non
superiore a quindici giorni per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni
documentali e termine perentorio di ulteriori dieci giorni per le sole indicazioni di
prova contraria.”

Allora, a fronte del quadro normativo possiamo tornare alla questione posta. Come
abbiamo detto si sono formate 2 scuole di pensiero su questo punto:

Secondo taluno, il procedimento sommario di cognizione è un processo a


cognizione piena che si svolge in forme semplificate;

Secondo altri invece, il procedimento sommario di cognizione è un


procedimento sommario e cioè, un procedimento non a cognizione piena.

È una questione non risolta, molto attuale (perché l’istituto è relativamente recente)
e nel dibattito in dottrina non è riuscita ad affermarsi nessuna delle due posizioni.

Come abbiamo già anticipato l’adesione all’una o l’altra posizione dipende dalla
nozione di cognizione piena a cui si aderisce.

Infatti, vi è chi ritiene che le caratteristiche della cognizione piena siano


rappresentate da un nucleo di garanzie che devono trovare attuazione. Si tratta
della garanzia del contraddittorio, della piena prova, della motivazione del
provvedimento; e, partendo da questo punto di vista, ritengono che il
procedimento sommario di cognizione si presti ad essere considerato un processo
a cognizione piena che si svolge in forme semplificate. I fautori di questa tesi
fanno riferimento anche alle possibilità di passaggio dal procedimento sommario
di cognizione al processo adi cognizione piena secondo quanto stabilito dall’art.
702 ter co.3; e al passaggio contrario, dal processo a cognizione piena al
procedimento sommario di cognizione, secondo quanto previsto nell’art. 183 bis.

Questa posizione non può essere assolutamente condivisa da chi, invece, parte
dal presupposto per cui le caratteristiche del processo a cognizione piena sono 3:

• La prima e più importante è la rigida predeterminazione a livello legale delle


forme e dei termini di svolgimento del processo, cioè l’individuazione da parte del
legislatore di tutti i poteri, doveri e facoltà che le parti e il giudice possono svolgere
nell’ambito del processo con riferimento a tutte le fasi di cui questo si compone
(fase introduttiva e di trattazione, istruttoria e decisoria). In particolare, questa
rigida predeterminazione riguarda lo svolgimento della fase istruttoria, perché è il
legislatore a predeterminare i soggetti su iniziativa dei quali le prove possono
essere acquisite, le fonti materiali di prova, le modalità di acquisizione delle prove
ed i criteri di valutazione delle prove.

• La seconda caratteristica è l’attivazione piena ed anticipata del contraddittorio

• La terza caratteristica è la capacità del provvedimento finale di acquistare


forza di giudicato.

Chi, come noi, sulla scia di quanto indicato dal prof. Proto Pisani muove da questa
definizione del processo a cognizione piena, non può aderire e condividere l’idea
di considerare il procedimento sommario di cognizione un processo a cognizione
piena, perché queste caratteristiche non le ritroviamo nella disciplina nel
procedimento sommario di cognizione. È vero che il procedimento sommario di
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cognizione mette capo ad un provvedimento avente forma di ordinanza che, se
non appellato, è idoneo a passare in giudicato (perché abbiamo visto che la legge
richiama espressamente l’art. 2909 cc). Ma ricordiamo che questa scelta non è
una scelta del tutto isolata, perché pensiamo a quanto abbiamo detto in ordine al
procedimento per ingiunzione o al procedimento per convalida di sfratto: abbiamo
osservato che in entrambi i casi la legge consente all’attore di ottenere un
provvedimento avente nel primo caso la forma del decreto (decreto ingiuntivo non
opposto) e nel secondo caso la forma dell’ordinanza (ordinanza di convalida di
sfratto ex art. 663), che in presenza di alcune condizioni indicate dal legislatore
possono acquisire una stabilità che sul piano qualitativo è analoga all’autorità della
cosa giudicata. Quindi sono provvedimenti emanati a conclusione di un
procedimento che si è svolto in forme sommarie, che hanno la forma diversa dalla
sentenza e che hanno l’attitudine a diventare immutabili, e quindi a dettare la
disciplina definitiva del rapporto giuridico controverso. Quindi, il richiamo all’art.
2909 cc non ci obbliga a ritenere questo procedimento un processo a cognizione
piena ed i fautori di questa seconda posizione richiamano a suffragio delle proprie
osservazioni anche la scelta del legislatore di inserire queste disposizioni nel IV
libro (che è il libro dedicato ai procedimenti speciali) e quindi di inserire capo 3° bis
nell’ambito del titolo I e non nell’ambito del libro II dedicato al processo a
cognizione piena.

L’ambito applicativo del procedimento sommario di cognizione è stato ampliato da


parte del legislatore nel 2011. Nel 2011 è stato emanato il D.lgs. 1° settembre n.
150 contenente disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia
di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione ai sensi dell’art.
54 della L. 18 giugno 2009 n.69. L’intento che ha mosso il legislatore del 2011 era
un intento di razionalizzazione del sistema.

Spesso il legislatore sostanziale, nel momento in cui è intervenuto a disciplinare


singole materie, ha dettato nel corso degli anni dei modelli di micro-procedimenti,
quindi tutta una lunga serie di procedimenti speciali, dettando regole speciali o
richiamando regole dettate con riferimento ad altri istituti del cpc. Il risultato di
questi interventi spalmati in decine di anni di interventi normativi era un quadro
estremamente complicato, un quadro in cui spesso le disposizioni si
sovrapponevano, magari contraddicendosi, in cui gli operatori spesso si sono
trovati in grossa difficoltà. Quindi l’intento che ha mosso il legislatore del 2011 era
certamente un intento lodevole, ossia quello di mettere un po’ in ordine, di
razionalizzare il sistema. La scelta che emerge dall’art.1 del decreto 150 del 2011
(in calce al cpc) è stata realizzata prevedendo che tendenzialmente i processi
debbano svolgersi secondo 3 possibili riti: il rito ordinario di cognizione, il rito
lavoro e il rito sommario di cognizione. Infatti, l’art. 1 prevede che “ai fini del
presente decreto si intende per rito ordinario di cognizione il processo regolato
dalle norme del Titolo I e III del Libro II del cpc;

per rito lavoro il procedimento regolato dalle norme della Sezione II del Capo I del
Titolo IV del Libro II del cpc;

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per rito sommario di cognizione il procedimento regolato dalle norme del Capo III
bis del Titolo I del Libro IV del cpc”

Dopodiché nelle norme successive quindi, nel capo II, III e IV del decreto troviamo
il richiamo di un lungo elenco di controversie che vengono riportate all’uno o
all’altro di questi riti, con abrogazione delle discipline processuali
precedentemente in vigore.

Quindi se scorriamo il testo di questo decreto vediamo, per esempio, che nel capo
II (dedicato al rito lavoro) vengono riportate al rito lavoro una lunghissima serie di
controversie: art. 6 giudizio di opposizione a ordinanza di ingiunzione, art. 7
opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada, poi
l’art. 8 opposizione a sanzione amministrativa in materia di stupefacenti e via.

Se andiamo avanti troviamo il capo III (dedicato alle controversie regolate dal rito
sommario di cognizione) e anche qua troviamo un lunghissimo elenco: abbiamo le
controversie in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti degli avvocati,
abbiamo nell’art. 15 l’opposizione al decreto di pagamento di spese di giustizia,
art. 16 controversie in caso di mancato riconoscimento del diritto di soggiorno, art.
17 controversie in materia di allontanamento dei cittadini di altri Stati membri
dell’UE o di loro familiari; e poi scorrendo, troviamo nell’art. 18 controversie in
materia di espulsione di cittadini di Stati che non sono membri dell’UE, e ancora
nell’art. 21 opposizione alla convalida del trattamento sanitario obbligatorio
(disposizione che abbiamo richiamato in tema di deroga al principio della
domanda perché prevede un provvedimento che il giudice può emanare d’ufficio).

Se poi andiamo avanti, al capo IV (dedicato alle controversie soggette al rito


ordinario di cognizione), troviamo richiamate le controversie in materia di
rettificazione e attribuzione di sesso, l’opposizione a procedura coattiva per la
riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato e di altri entri pubblici e le
controversie in materia di liquidazione degli usi civici.

Allora, con riferimento al capo III (stiamo trattando il procedimento sommario di


cognizione) se guardiamo le rubriche delle disposizioni vediamo che il legislatore vi
ha ricondotto controversie relative a situazioni che in alcune ipotesi sono situazioni
estremamente delicate. Si tratta di ipotesi in cui l’oggetto del processo è una
situazione giuridica che ha un contenuto ed una funzione no patrimoniale. Ad es. il
riferimento alle controversie in materia di espulsione dei cittadini di Stati che non
sono membri dell’UE, oppure, l’opposizione al diniego di nulla osta di
ricongiungimento familiare di permesso di soggiorno (art.20), il TSO (art. 21).
Accanto a queste troviamo controversie aventi ad oggetto situazioni che hanno un
contenuto e una funzione patrimoniale, ad esempio l’art. 14 controversie in materia
di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato.

Per completare il quadro torniamo alle prime disposizioni del decreto. Vediamo
che l’art. 3 stabilisce che nelle controversie disciplinate dal capo III (sono le
controversie soggette a rito sommario di cognizione) non si applicano i co. 2 e 3
dell’art. 702 ter cpc. Quindi il legislatore ha espressamente escluso la possibilità
per il giudice adito di disporre il mutamento di rito, cioè il passaggio al processo a
cognizione piena a fronte di controversie non semplici, quindi complesse. Il che
82
significa che, a fronte di tutte queste ipotesi, il giudice è obbligato a trattare la
controversia nelle forme di procedimento sommario di cognizione, non potendo
disporre il passaggio al processo a cognizione piena.

Questa scelta desta fortissime perplessità, soprattutto laddove queste


controversie hanno ad oggetto situazioni che hanno un contenuto ed una funzione
non patrimoniale. Già la scelta di dedurre situazioni di questo tipo nell’ambito di un
procedimento che si svolge in forme sommarie è una scelta che suscita molte
perplessità, perché noi abbiamo sempre detto che la predeterminazione delle
forme e dei termini di svolgimento del processo è una scelta di garanzia. È una
scelta che dà massima attuazione al principio del contraddittorio e al diritto di
difesa anche perché garantisce la controllabilità del rispetto delle regole attraverso
i mezzi di impugnazione. Per cui, la scelta di dedurre situazioni aventi un
contenuto ed una funzione non patrimoniale, talune addirittura di rilevanza
costituzionale (quando ne va della libertà della persona interessata), nell’ambito di
un procedimento sommario desta fortissime perplessità di legittimità
costituzionale ed ancora di più queste perplessità aumentano laddove in alcune di
queste disposizioni il legislatore ha stabilito che l’ordinanza emanata a conclusione
del 1° grado di giudizio non è appellabile. È questo quanto ritroviamo, ad esempio,
nell’ambito dell’art. 18 dedicato alle controversie in materia di espulsione dei
cittadini di Stati che non sono membri dell’UE.

Con riferimento a queste previsioni si spera che venga sollevata una questione di
legittimità costituzionale perché privano i cittadini interessati di garanzie
fondamentali con riferimento a situazioni giuridiche che hanno rilevanza
costituzionale.

Per concludere sul procedimento sommario di cognizione e sull’ambito applicativo


di questo, ricordiamo che fino all’anno scorso, per tutto il 2019, il Ministro della
Giustizia ha fatto circolare un progetto di riforma del processo a cognizione piena
che intendeva generalizzare il processo sommario di cognizione trasformandolo
nel processo di 1° grado generale. Questa idea è un’idea che si è scontrata con la
durissima opposizione della magistratura, della dottrina e in parte anche degli
avvocati per le motivazioni che sono emerse nel corso della spiegazione. Un
processo che si svolge in forme sommarie, in cui cioè le regole di svolgimento
sono rimesse al potere discrezionale del giudice, è un processo che non offre
garanzie ai cittadini. Inoltre, per chi ritiene che il processo a cognizione piena,
come processo in cui le regole di svolgimento sono predeterminate dalla legge,
rappresenta l’attuazione della previsione contenuta nell’art. 111 co.1 della Cost.
della garanzia del giusto processo regolato dalla legge, era una scelta che
appariva anche costituzionalmente illegittima. Il Ministro della Giustizia si era fatto
convincere -o si era autonomamente convinto- che lo svolgimento del processo
nelle forme sommarie avrebbe potuto rappresentare l’antidoto contro la crisi della
giustizia civile, contro i problemi che la affliggono ed, in particolare, contro il
problema dell’eccessiva durata del processo civile

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In realtà, a questa idea ha risposto la stessa magistratura facendo rilevare che la
lentezza del processo trova le proprie motivazioni nell’enorme arretrato che, per
motivi vari (che in questo momento non può spiegarci), si è accumulato di fronte
agli uffici giudiziari. Finché non vengono predisposti degli strumenti per abbattere
l’arretrato, la crisi della giustizia civile non potrà sortire soluzione; e un processo
che si svolge nelle forme sommarie come quello disciplinato negli artt. 702 bis del
cpc, certamente non avrebbe consentito di risolvere in alcun modo la situazione,
avendo creato incertezze maggiori di quelle in cui già stiamo affogando. Per
fortuna alla fine del 2019 il Ministro della Giustizia sembra aver cambiato idea, e
dall’inizio del 2020 è circolato in nuovo progetto di riforma del processo a
cognizione piena in cui, in pratica, viene adottato come modello generale un
processo che assomiglia molto a quello del rito lavoro. Si tratta però solo di
progetti che non possiamo prendere in seria considerazione, tantomeno in questo
momento in cui il Paese ed il Mondo sta affrontando un’emergenza che
sicuramente lascia in secondo piano questo genere di questioni.

Dopo aver esaurito la trattazione del procedimento sommario di cognizione


apriamo un nuovo tema e cominciamo ad analizzare i procedimenti cautelari, la
tutela cautelare.

i procedimenti cautelari

I procedimenti cautelari sono una delle famiglie di cui si compongono i


procedimenti speciali. La disciplina la ritroviamo in principali modo nel libro IV del
cpc, in particolare, nel capo III del libro IV, nelle disposizioni contenute negli artt.
669 bis fino a 700.

La tutela cautelare è una forma di tutela che assolve unicamente alla funzione di
assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale secondo un’accezione molto
particolare; infatti, lo scopo della tutela cautelare è quello di evitare il danno
marginale, cioè il danno ulteriore, che l’attore che ha ragione rischia di subire a
causa della durata fisiologica del processo a cognizione piena. Per comprendere il
significato di questa definizione è opportuno allargare l’ottica visuale perché il
nostro legislatore è un legislatore che deve combattere contro il tempo, perché il
tempo spesso è causa di diversi pregiudizi in chi subisce la crisi di cooperazione
(quindi nel cittadino che ha subito la violazione della regola di condotta). Per
evitare/azzerare/ridurre questi pregiudizi il legislatore si muove in diverse direzioni
e quindi per evitare lo stesso tipo di pregiudizio spesso il legislatore utilizza
tecniche diverse, talvolta dei rimedi sostanziali altre volte la rimedi processuali,
come la tutela cautelare.

Ma allarghiamo il campo delle nostre osservazioni e ripartiamo dalla nozione di


crisi di cooperazione. La crisi di cooperazione si ha quando viene violata la norma
sostanziale, la norma che detta la regola di condotta per tutelare un certo
interesse. Ricordiamo che l’ordinamento ha predisposto il divieto di autotutela
privata e quindi, una volta imposto tale divieto, è obbligato a mettere a
disposizione dei cittadini dei rimedi per poter risolvere la crisi di cooperazione; ma
anche, stante la previsione dell’art. 24 co. 1 Cost. la garanzia della tutela effettiva,

84
dei rimedi che consentano al cittadino, come diceva Chiovenda, “di ottenere tutto
quello e proprio quello che gli è assicurato dal diritto sostanziale”.

E allora, intanto, vi è consapevolezza in ordine alla circostanza che il fatto stesso


che ci sia un distacco temporale tra il momento in cui si verifica la crisi di
cooperazione e il momento in cui la parte interessata (chi ha subito la crisi di
cooperazione) si rivolge al giudice (quindi apre il processo) la distanza che separa
questi due momenti, quindi il tempo che intercorre tra questi due momenti può
recare un pregiudizio all’attore. Può metterlo nella condizione di ottenere, già in
partenza dal processo, delle utilità inferiori rispetto a quelle che gli sono assicurate
dalla legge sostanziale. Proprio nella consapevolezza che l’apertura del processo
avviene a distanza di tempo dal momento in cui si è verificata la crisi di
cooperazione, il legislatore ha predisposto una serie di rimedi che si muovono A
LIVELLO SOSTANZIALE.

Questi rimedi di tipo sostanziale sono degli istituti di diritto sostanziale che
cercano di azzerare le conseguenze che il cittadino subisce da questo stacco
temporale.

Pensiamo ad es. alle obbligazioni derivate dalla violazione di una precedente


situazione giuridica. Pensiamo alle obbligazioni risarcitorie che nascono in ipotesi
di responsabilità contrattuale o responsabilità extracontrattuale. Pensiamo per es.
alle obbligazioni ripristinatorie, anch’esse obbligazioni derivate che si correlano
alla precedente violazione di una situazione giuridica, come ad es. l’ipotesi in cui si
verifica una violazione di un diritto reale (supponiamo il diritto di proprietà),
pensiamo all’obbligazione derivata di rimessione in pristino che sorge da questa
violazione. Supponiamo che qualcuno abbia violato il diritto di proprietà di taluno
costruendo sopra l’altrui terreno: sappiamo che nel momento in cui il proprietario
del fondo agirà per ottenere l’accertamento di titolarità del suo diritto potrà
chiedere al giudice anche l’abbattimento delle opere costruite in violazione del suo
diritto. Pensiamo alle hp in cui l’attore agisce per chiedere l’accertamento di non
esistenza di un diritto di servitù sul proprio fondo e chieda al giudice di abbattere
le opere che sono state costruite per esercitare la servitù. Oppure in senso
contrario, pensiamo a chi esercita un’azione volta ad ottenere l’accertamento di
esistenza di un proprio diritto sull’altrui fondo, chiedendo al giudice la distruzione
delle opere che sono state costruite per impedirgli di esercitare il suo diritto di
servitù, il classico caso del muro che viene tirato su per impedire al proprietario del
fondo dominante di esercitare il proprio diritto di passaggio. Oppure pensiamo alle
hp in cui si impedisce a taluno di esercitare un diritto di servitù e questi agisce per
ottenere l’accertamento di esistenza del suo diritto e la costruzione delle opere
strumentali rispetto all’esercizio della stessa servitù. Si tratta di obbligazioni
derivate, che possono avere ad oggetto obblighi di fare o obblighi di non fare
(inteso come obbligo di distruzione), che perseguono proprio questo scopo, quello
di azzerare il pregiudizio che il cittadino-attore che ha ragione può subire a causa
dello stacco temporale tra la violazione della regola di condotta al momento in cui
potrà aprire il processo.

85
Accanto a queste ipotesi possiamo anche richiamare ulteriori fattispecie pensiamo
per es., con riferimento ad ipotesi di inadempimento di obbligazione pecuniarie,
alla c.d. costituzione in mora e agli effetti che questa determina sul decorso della
prescrizione; oppure pensiamo ad alcuni diritti reali di garanzia ad es. l’ipoteca, il
pegno, il privilegio.

Sono tutti istituti di natura sostanziale, sono diversi, ma assolvono alla stessa
funzione.

Il legislatore poi si è dovuto preoccupare dei pregiudizi che l’attore può subire a
causa della durata del processo a cognizione piena. Abbiamo detto che questo ha
una durata fisiologica perché è un processo che deve dare piena attuazione alla
garanzia del contraddittorio, quindi è uno strumento che ha una sua complessità e
quindi è uno strumento che ha bisogno di un certo lasso di tempo. È qui che si
inserisce la tutela cautelare. Ma la funzione svolta dalla tutela cautelare non è una
funzione “assoluta” cioè, alla stessa funzione assolvono anche altri istituti che
abbiamo già avuto modo di esaminare ad es. taluni degli effetti sostanziali della
domanda giudiziale, quelli che presuppongono l’accoglimento della domanda e
che hanno come scopo quello di fare in modo che l’attore possa conseguire utilità
equivalenti a quelle che avrebbe conseguito se la domanda fosse stata accolta lo
stesso giorno in cui la domanda è stata proposta. Faccio riferimento ad es.
all’obbligo del possessore in buona fede di restituire i frutti secondo quanto
previsto nell’art 1148 cc.; pensiamo al c.d. anatocismo (interessi sugli interessi) art.
1283 cc; pensiamo all’obbligo da parte del detentore o del possessore convenuto
in rivendica di costudire il bene art. 948 cc; oppure, pensiamo a tutta la disciplina
della trascrizione delle domande giudiziali artt. 2652-2653 cc che mira a rendere la
sentenza opponibile ai terzi aventi causa dal convenuto che abbiano trascritto il
proprio atto successivamente alla trascrizione della domanda giudiziale.

A LIVELLO PROCESSUALE, a questa stessa funzione assolvono istituti come la


condanna in futuro, che offre all’attore la possibilità di premunirsi di un
provvedimento di condanna avente efficacia esecutiva prima che il suo diritto
divenga attuale per scadenza del termine, garantendogli quindi la possibilità di
mettere in esecuzione il suo titolo il giorno stesso in cui il diritto diventa esigibile.
Oppure, pensiamo ai titoli esecutivi di formazione stragiudiziale (su cui torneremo
quando parleremo dell’esecuzione forzata) come i titoli di credito o gli atti ricevuti
dai notai di cui ai n. 2 e 3 dell’art. 474 cpc che consentono al creditore di aprire il
processo esecutivo saltando tutta la fase del processo a cognizione piena. Ancora
a livello processuale, il legislatore per assolvere a questa stessa funzione si può
servire della tutela sommaria, si può servire della tutela sommaria di tipo non
cautelare o quella di tipo cautelare. Quando abbiamo introdotto il procedimento in
tema di concorso al mantenimento dei figli art. 316bis cc, oppure il procedimento
della condotta antisindacale art. 28 L. 300/1970, abbiamo detto che si tratta di
procedimenti sommari di tipo non cautelare, quindi destinati a mettere capo ad un
provvedimento che in presenza delle condizioni indicate dalla legge può diventare
immutabile e quindi decisorio e definitivo -perché decide su posizioni di diritto-
86
che assolvono alla funzione di garantire l’effettività della tutela, perché consentono
al cittadino (portatore di situazioni di volta in volta indicate dal legislatore) di
ottenere, passando attraverso un procedimento che si svolge nelle forme
sommarie, un provvedimento anticipatorio, cioè che anticipa i contenuti della
futura sentenza di accoglimento emanata a conclusione del processo a cognizione
piena. Allo scopo di evitare che queste situazioni debbano rimanere insoddisfatte
lungo tutto il tempo di svolgimento del processo a cognizione piena.

A questa stessa funzione di garantire l’effettività della tutela risponde la tutela


cautelare, che naturalmente ha delle caratteristiche che ci consentono di
distinguerla rispetto a tutti gli altri istituti, ed in modo particolare, distinguerla dai
procedimenti sommari di tipo non cautelare nella parte in cui sono rivolti a dare
attuazione all’esigenza di garantire l’effettività della tutela.

87
Lezione 6 - 25/03/20
Nella parte finale della ultima lezione ci siamo soffermati sulla funzione svolta dalla
tutela cautelare, evidenziando che questa è concepita allo scopo di neutralizzare il
danno marginale che l'attore che ha ragione può subire a causa della durata del
processo a cognizione piena. 

Abbiamo altresì evidenziato che non si tratta di una funzione che appartiene in via
esclusiva alla tutela cautelare, perché nell'ordinamento esistono altri strumenti
diretti a rispondere alla stessa esigenza. Abbiamo richiamato gli effetti sostanziali
della domanda giudiziale per esempio, abbiamo richiamato i titoli esecutivi di
formazione stragiudiziale, abbiamo in particolare richiamato alcuni procedimenti
sommari di tipo non cautelare (pensate ad esempio al procedimento in tema di
concorso al mantenimento dei figli art 316bis cc, pensate all'art 28 L300\1970).
Quindi si è detto che la tutela sommaria non cautelare e la tutela sommaria
cautelare possono esser chiamate ad assolvere alla medesima funzione.

A questo punto però si impone un chiarimento: che rapporto intercorre tra la tutela
sommaria non cautelare e quella sommaria cautelare?? C'è una sovrapposizione?
No, non c'è una sovrapposizione, se noi vogliamo analizzare questa relazione sul
piano funzionale possiamo dire che c'è una parziale sovrapposizione. Se noi
vogliamo rappresentare graficamente la relazione che intercorre tra i procedimenti
sommari non cautelari e quelli sommari di tipo cautelare, possiamo richiamare la
immagine di due cerchi che sono parzialmente sovrammessi: quindi in un
determinato limite le due tecniche di tutela possono esser chiamate ad assolvere
alla stessa funzione; ma per altri versi, al di fuori di questi limiti, le due forme di
tutela assolvono ad esigenze diverse. La parte in cui le due tecniche di tutela si
sovrappongono riguarda naturalmente l'esigenza di assicurare la effettività della
tutela, perché il legislatore si può servire dell'una o dell'altra tecnica per consentire
all'attore di ottenere, passando attraverso un procedimento sommario, un
provvedimento cd anticipatorio, un provvedimento cioè che anticipa gli effetti della
futura sentenza di accoglimento della sua domanda emanata a conclusione del
processo a cognizione piena, in questo senso c'è una sovrapposizione tra le due
tecniche di tutela. 

Invece abbiamo visto anche che attraverso i procedimenti sommari di tipo non
cautelare il legislatore può rispondere a un esigenza completamente diversa, che è
quella di assicurare la economia processuale: pensate al procedimento per
ingiunzione, al procedimento per convalida di sfratto, si tratta di due procedimenti
per il cui tramite il legislatore consente all'attore di ottenere un provvedimento in
tempi ristretti laddove c'è una lite da pretesa insoddisfatta, laddove c'è cioè
semplicemente un debitore che non paga, non ha delle contestazioni da muovere
in ordine all'esistenza o al modo d'essere del diritto di credito. Ecco, questo tipo di
esigenza è estranea alla tecnica delle misure cautelari.

Nell'ambito delle misure cautelari vedremo che la esigenza di assicurare la


effettività della tutela non è assicurata soltanto attraverso i provvedimenti cautelari

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cd anticipatori, ma viene assicurata anche attraverso i provvedimenti cd
conservativi. 


I provvedimenti di tipo conservativo sono provvedimenti cautelari per il cui tramite
il legislatore vuole assicurare sì la effettività della tutela, ma in un significato
diverso, cioè creando le condizioni affinché, durante il tempo di svolgimento del
processo a cognizione piena, non si verifichino fatti modificativi e estintivi, che
impediscano poi all'attore di mettere in esecuzione la sentenza di condanna di
accoglimento della sua domanda (es tipico sono i sequestri).  Per cui si parla di
misure cautelari conservative, cioè che mirano a evitare un periculum da
infruttuosità pratica della sentenza: mirano a creare le condizioni affinché la futura
sentenza di condanna possa essere messa fruttuosamente in esecuzione, e quindi
il creditore possa ottenere il soddisfacimento concreto della sue pretese. 

Ecco, questa particolare funzione, che diciamo, rientra nella nozione di garanzia di
effettività della tutela, ma in una accezione diversa rispetto a quella della tutela
cautelare cd anticipatoria, è totalmente estranea ai procedimenti sommari di tipo
non cautelare, quindi c’è una sovrapposizione ma solo parziale. 


Andiamo adesso ad esaminare le misure cautelari, i provvedimenti cd cautelari.

Allora, i procedimenti cautelari sul piano strutturale hanno due caratteristiche:


sono strumentali e provvisori. Queste caratteristiche ci consentono di segnare la
distanza rispetto ai procedimenti sommari di tipo non cautelare, perché la
strumentalità e la provvisorietà sono totalmente estranei ai procedimenti sommari
di tipo non cautelare. 

Vediamo ora il requisito della STRUMENTALITÀ.

Le misure cautelari sono legate attraverso un nesso di strumentalità, al processo a


cognizione piena avente ad oggetto lo stesso diritto a cautela del quale è stata
rilasciata la misura cautelare. Ora, vi anticipo subito che i provvedimenti cautelari,
le misure cautelari, come regola generale, possono esser rilasciate prima che sia
aperto il processo a cognizione piena, si parla quindi di misure rilasciate "ante
causam", oppure nel corso del processo a cognizione piena, rilasciate in corso di
causa quindi. 

Ora, la nozione di strumentalità mi sta a indicare il legame che intercorre tra la


misura cautelare e il processo a cognizione piena, avente ad oggetto lo stesso
diritto cautelato. E questa strumentalità, in base alla disciplina attualmente in
vigore, può assumere due diverse forme: abbiamo una strumentalità cd rigida, e
abbiamo una strumentalità cd attenuata:

• strumentalità rigida, che, e tornerò su questo punto approfonditamente in


seguito, appartiene alle misure cautelari cd conservative, si connota per ciò:
che il provvedimento cautelare, se viene emanato prima dell'inizio della
causa di merito, è destinato a diventare inefficace se il processo a
cognizione piena non viene instaurato entro il termine perentorio indicato dal
giudice o dalla legge, oppure se, anche se il procedimento è stato aperto,

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non giunge al suo esito fisiologico, cioè viene chiuso in maniera anomala,
per esempio attraverso una dichiarazione di estinzione. Inoltre, questo tipo
di misure cautelari sono destinate a perdere efficacia anche laddove il
processo a cognizione piena viene regolarmente instaurato, ma si chiude
con una sentenza che dichiara la non esistenza del diritto a cautela del
quale la misura è stata rilasciata. Questa regola vale naturalmente anche se
la misura cautelare viene richiesta e viene rilasciata in corso di causa.
Questa strumentalità rigida è tipica delle misure cd conservative, cioè quelle
misure cautelari che, come vi dicevo prima, hanno come scopo quello di
assicurare la fruttuosità pratica della sentenza emanata a conclusione del
processo a cognizione piena. 

• strumentalità attenuata: in queste altre fattispecie, se la misura cautelare


viene rilasciata ante causam, non è necessario che venga aperto il processo
a cognizione piena entro un termine perentorio perché la misura resti in
piedi; la misura cautelare è idonea a reggere i propri effetti che sono,
attenzione, effetti meramente esecutivi a tempo indeterminato. Così, se la
misura viene rilasciata ante causam o in corso di causa, e il processo
regolarmente instaurato non giunge al suo esito fisiologico, quindi si chiude
in maniera anomala, attraverso una dichiarazione di estinzione, la misura è
sempre idonea a conservare i propri effetti esecutivi. La strumentalità però
non è del tutto cancellata, è attenuata, perchè, a prescindere dal se la
misura è stata rilasciata ante causam o in corso di causa, laddove il
processo viene aperto e si conclude con una sentenza che dichiara la non
esistenza del diritto a cautela del quale la misura è stata concessa, la misura
perde efficacia. Quindi, la strumentalità, vi dicevo, è allentata, ma non
scompare mai del tutto. 

PROVVISORIETA'.

La provvisorietà la possiamo fondare sulla previsione dell'art 669 decies del cpc, è
una delle disposizioni inserite nell'ambito del procedimento cautelare generale,
cioè quell'insieme di norme che regolano il rilascio delle misure cautelari. L'art 669
decies stabilisce (prendetelo), che "la misura cautelare, salvo che sia stato
proposto reclamo ai sensi dell'art 669 terdecies, il giudice istruttore della causa di
merito può, su istanza di parte, modificare e revocare, con ordinanza, il
provvedimento cautelare, anche se emesso anteriormente alla causa, se si
verificano mutamenti nelle circostanze o se si allegano fatti anteriori di cui si è
acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare. Quando il
giudizio di merito non sia stato iniziato o sia stato dichiarato estinto, la revoca e la
modifica della ordinanza di accoglimento, esaurita la eventuale fase del reclamo
eccetera possono essere richieste al giudice che ha provveduto sulla istanza
cautelare. Ancora una volta, se si verificano mutamenti nelle circostanze, o si
allegano fatti anteriori di cui si ha acquisita conoscenza eccetera", poi su tutto ciò
torneremo in maniera puntuale. 

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Quello che si desume da questa disposizione è la regola secondo cui le misure
cautelari sono sempre, senza limiti di tempo, suscettibili di essere modificate e
revocate da parte del giudice della cautela. Quindi, il provvedimento è inidoneo a
acquistare una qualsiasi forma di stabilità o di immutabilità. È un provvedimento
che produce solo effetti esecutivi. Questo è il punto che segna maggiormente la
differenza rispetto ai procedimenti sommari non cautelari, perché noi abbiamo
visto che, nell'ambito di quest'altra categoria, vengono emanati dei provvedimenti
che, laddove ricorrono le condizioni di volta in volta indicate dalla legge, in
particolare se non viene aperto il processo a cognizione piena, acquistano una
stabilità, una immutabilità che noi abbiamo chiamato preclusione pro iudicato, che
sul piano qualitativo è analoga alla autorità della cosa giudicata (pensate al
decreto ingiuntivo non opposto, pensate all'ordinanza di convalida dello sfratto di
cui all'art 663). 

Ecco, questa è una dimensione, la immutabilità, il carattere decisorio e definitivo


del provvedimento, che è completamente estraneo alle misure cautelari. Quindi, le
misure cautelari sono invece, nascono invece, totalmente prive di attitudine al
giudicato. Naturalmente, fate attenzione, la provvisorietà riguarda il
provvedimento, cosa diversa invece sono gli effetti della misura cautelare, perché,
in presenza delle condizioni previste dalla legge, gli effetti della misura cautelare
possono consolidarsi, pensate a tutte le hp in cui viene aperto il processo a
cognizione piena che accoglie la domanda avente ad oggetto il diritto cautelato, a
cautela del quale era stata rilasciata la misura cautelare. È chiaro qui che gli effetti
della misura cautelare vengono assorbiti dalla sentenza di condanna, e quindi si
consolidano. Pensate alla hp in cui viene accolta la domanda di condanna al
pagamento della somma di denaro, con riferimento al credito a cautela del quale
era stata rilasciato il sequestro conservativo, vedremo che il sequestro
conservativo si trasforma immediatamente in pignoramento, che è la prima fase
del processo esecutivo. Quindi anche in questa hp si ha un consolidamento degli
effetti della misura cautelare. 

Altre volte, la misura cautelare stessa produce degli effetti, una volta che è stata
messa in esecuzione, produce degli effetti che sono irreversibili: se io propongo ad
esempio una denuncia di danno temuto, perché c'è un albero del fondo del vicino
che diciamo si è piegato e rischia di cascare e buttarmi giù la casa, e il giudice
accoglie la mia istanza (la denuncia di danno temuto è una tipica misura cautelare
di tipo anticipatorio) io posso ottenere da parte del giudice l'ordine di abbattimento
dell'albero. Voi capite bene che una volta che l'albero è stato abbattuto, questo
effetto è irreversibile, e dunque l'albero ormai non c'è più, e quindi, anche se dopo
il convenuto ottiene l'accertamento di non esistenza del diritto cautelato, è chiaro
che quell'albero ormai è stato abbattuto e quindi non potrà essere ripristinato.
Quindi, anche in questo caso, vedete bene, che gli effetti sono effetti irreversibili,
anche se la misura cautelare come provvedimento invece è provvisoria. 


I presupposti delle misure cautelari sono due: 

91
• fumus boni iuris = la probabile esistenza del diritto a cautela del quale la
misura viene richiesta

• periculum in mora = il pregiudizio che attraverso la misura cautelare si vuole


evitare. E i pericula in mora si dividono in due grosse famiglie: a) pericolo da
infruttuosità del provvedimento a cognizione piena, e questo è il periculum
che si vuole evitare attraverso le misure cd conservative; b) pericolo da
tardività del provvedimento a cognizione piena, e questo è il periculum che
si vuole evitare attraverso le misure cautelari cd anticipatorie. 


Con riferimento al periculum in mora ho appena evidenziato che si distinguono le
misure cautelari volte ad evitare un pericolo da infruttuosità del provvedimento a
cognizione piena, da misure volte invece ad evitare un pericolo da tardività del
provvedimento a cognizione piena. 

Per quanto riguarda il periculum da infruttuosità pratica della futura sentenza, si


tratta del pericolo che vi ho detto durante il processo si verifichino fatti, o vengano
compiuti atti, che vanno a pregiudicare la possibilità di dare attuazione alla
sentenza di condanna emanata a conclusione del processo a cognizione piena. 

Come esempi tipici di misure cautelari volte ad evitare un pericolo da infruttuosità


pratica della sentenza vorrei ricordare il sequestro conservativo e il sequestro
giudiziario.

Invece, il pericolo da tardività è quel pericolo che si aggancia alla circostanza che
lasciare il diritto cautelato in uno stato di insoddisfazione lungo tutto il processo di
svolgimento del processo a cognizione piena, rischia di causare all'attore che ha
ragione un pregiudizio. 

Tra le misure cautelari volte ad evitare un periculum da tardività voglio ricordare ad


esempio l'assegno provvisorio in tema di alimenti di cui all'art 446 cc, voglio
ricordare la ordinanza di reintegra immediata del sindacalista illegittimamente
licenziato art 18 L300\1970, ma soprattutto i provvedimenti d'urgenza emanati in
base all'art 700, visto che, in generale, attraverso il 700 si chiedono e si ottengono
provvedimenti appunto volti ad evitare un periculum da tardività, pur non essendo
escluso, data la atipicità del provvedimento, la possibilità che lo stesso abbia un
contenuto diverso, e che quindi venga chiesto e rilasciato per evitare un periculum
da infruttuosità del provvedimento. 


Ora, alla distinzione tra misure cautelari volte ad evitare un periculum da
infruttuosità pratica, o un periculum da tardività, corrispondono rispettivamente le
misure cautelari cd conservative, e le misure cautelari cd anticipatorie. E come
dicevo poc'anzi, a questa contrapposizione corrisponde anche una diversa
struttura dei rispettivi provvedimenti, perché, mentre le misure cd conservative
esibiscono un nesso di strumentalità di tipo rigido, invece le misure cautelari cd
anticipatorie esibiscono un nesso di strumentalità cd attenuata. 

Con riferimento alle misure cautelari di tipo anticipatorio, quindi quelle volte ad
evitare un periculum da tardività, assume rilievo quanto vi ho già detto nella parte

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introduttiva, ovvero, il primo principio secondo cui la tutela cautelare, nella parte in
cui è volta ad evitare un pregiudizio irreparabile, è costituzionalmente doverosa.
Questo principio, come vi ricordate, è stato elaborato da una nota sentenza della
corte costituzionale, la sent.190 del 1985, a firma di un noto processualcivilista, il
prof Virgilio Andrioli. 

La fattispecie su cui è stata resa la pronuncia della corte costituzionale, in verità


riguardava il processo amministrativo. Infatti in quel momento il processo
amministrativo era regolato da una serie di disposizioni sparse in diversi testi
normativi, in particolare la legge istitutiva dei tar, la legge 1034 del 1971, e poi il
testo unico sul consiglio di stato del 1923. Ora, voi sapete che, come regola
generale, in base a quanto stabilito dall'art 103 della cost, il giudice amministrativo
ha una giurisdizione, con riferimento alle controversie che vedono opposto il
cittadino e la pa, che vertono su interessi legittimi, mentre invece soltanto in hp
tassativamente indicate dalla legge il giudice amministrativo è anche giudice del
diritto soggettivo. Però, dobbiamo ricordare che, anche nelle hp in cui il giudice
amministrativo conosce situazioni di diritto soggettivo, il processo è sempre
regolato dalla legge sul procedimento amministrativo, e non dal cpc. Ora, in quel
momento storico la legge istitutiva del tar, a livello di tutela cautelare, prevedeva
un solo tipo di provvedimento che poteva essere emanato dal giudice
amministrativo, ovvero la sospensione del provvedimento amministrativo. Questo
stato di cose rispecchiava la un po' la origine storica del processo amministrativo,
perché il processo amministrativo nasce come processo di impugnativa dell'atto
illegittimo, e quindi questo spiega perché nella legge istitutiva del tar, si
prevedesse come unica misura cautelare che poteva esser emessa dal giudice
amministrativo, la sospensione del provvedimento impugnato. Nonostante, con la
entrata in vigore della costituzione, già fossero state previste delle hp di
giurisdizione esclusiva, che peraltro risalgono a una legge degli anni '20, il
legislatore non si è mai preoccupato diciamo di ripensare il sistema di tutela
cautelare offerto. Allora, tornando alla sentenza della corte costituzionale, sorse un
problema, fu sollevata la questione di legittimità costituzionale nell'ambito di un
processo, pendente di fronte al giudice amministrativo, in materia di pubblico
impiego, perchè a quel tempo il pubblico impiego rientrava nella hp di giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, anzi, storicamente parlando, è sul pubblico
impiego che è nata la giurisdizione esclusiva. Oggi invece sappiamo che il
legislatore ha completamente cambiato la sua scelta, perchè il pubblico impiego
rientra nella giurisdizione ordinaria. E in particolare quel processo era stato
instaurato da un pubblico dipendente e nell'ambito del processo questo
dipendente chiedeva il rilascio di un provvedimento anticipatorio, cioè chiedeva il
pagamento anticipato della propria retribuzione. Quindi chiedeva il rilascio di una
misura cautelare di tipo anticipatorio avente ad oggetto il pagamento di una
somma di denaro volta a consentirgli di vivere, sostanzialmente. Siccome la legge
istitutiva del tar prevedeva solo la misura della sospensione del provvedimento
amministrativo impugnato, fu sollevata la questione di legittimità costituzionale
della legge istitutiva del tar, nella parte in cui non prevedeva una possibilità
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ulteriore. Allora la corte costituzionale, in questa notissima sentenza, di ispirazione
chiovendiana, affermò il principio secondo cui la tutela cautelare di tipo
anticipatorio, nella parte in cui è diretta ad evitare un pregiudizio irreparabile, è
costituzionalmente doverosa. Noi sappiamo, infatti, che anche situazioni che
hanno un contenuto patrimoniale, nella parte in cui svolgono una funzione non
patrimoniale, come il diritto allo stipendio, che è finalizzato a garantire la
sopravvivenza dell'individuo, possono esser esposte al rischio di un pregiudizio
irreparabile. Ed è facendo leva su questo che la corte cost elaborò questo
principio e, facendo leva su questo principio, innestò nel processo amministrativo
l'art 700, quindi la cd tutela urgente. 

Si tratta di un intervento fondamentale, che ha avuto poi delle ripercussioni


nell'ambito della disciplina del procedimento amministrativo, perchè poi
successivamente la legge 205 del 2000 nell'art 3 rivide tutto il sistema della tutela
cautelare nell'ambito del processo amministrativo, introducendo un sistema di
tutela cautelare atipico, che poi è stato recepito dal codice del processo
amministrativo, il quale prevede ancora oggi all'art 55 un sistema di tutela
cautelare che ruota intorno ad un unica misura atipica che è stata disciplinata sulla
falsa riga dell'art 700. Il primo comma dell'art 55 del codice del processo
amministrativo infatti è chiaramente ispirato al disposto dell'art 700. Quindi, la
tutela cautelare anticipatoria, nella parte in cui è diretta ad evitare un pregiudizio
irreparabile, è costituzionalmente doverosa. 

Quand'è che la tutela cautelare è volta ad evitare un pregiudizio irreparabile? Lo è,


secondo quanto abbiamo già in altre occasioni sottolineato, in tutti i casi in cui
attraverso la tutela cautelare si chiede un provvedimento a tutela di situazioni che,
ad esempio, hanno un contenuto e una funzione non patrimoniale, per esempio un
diritto di libertà, un diritto della personalità, ma anche, come nel caso che ha dato
origine all'intervento della corte costituzionale, in tutti i casi in cui viene chiesto un
provvedimento cautelare anticipatorio, con riferimento a un diritto che pur avendo
un contenuto patrimoniale, ha una funzione non patrimoniale. 

Detto questo, torniamo al sistema cautelare e vediamo com'è che il legislatore


italiano ha disegnato il sistema cautelare. Il legislatore italiano aveva difronte a sé
diversi modelli da cui trarre ispirazione. Infatti, se noi andiamo a esaminare, a dare
un occhiata, nei paesi europei che ci sono più vicini per tradizione, troviamo dei
modelli di tutela cautelare, tutti gli ordinamenti prevedono la tutela cautelare, che
sono organizzati secondo un sistema totalmente atipico. 

Questo è quanto ritroviamo ad esempio nel sistema tedesco, nei paragrafi 935 e
940 del codice di procedura tedesco, ma soprattutto è quanto troviamo
nell'ordinamento francese, che ha costruito il suo sistema cautelare nella figura del
referè. Questo sistema è un sistema che ha sicuramente un grosso vantaggio,
perchè dà attuazione al carattere atipico del diritto di azione anche nel sistema
cautelare, proprio come avviene nell'ambito del processo a cognizione piena, ma
ha un limite nella parte in cui inevitabilmente subordina il rilascio della misura
cautelare a valutazioni discrezionali del giudice adito. 

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La scelta effettuata dal legislatore italiano invece è una scelta diversa, perchè il
legislatore del 1942 scelse un sistema di tutela cautelare tipico, cioè che si
articolava in una serie di misure costruite dal legislatore in base all'id quod
plerumque accidit, quindi rispondendo agli specifici bisogni di tutela cautelare che
si manifestavano in maniera continuativa con riferimento alle diverse situazioni
sostanziali (e su questo poi torno) e chiudendo il sistema attraverso la previsione
di una misura di tipo residuale avente carattere atipico, e questa misura è l'art 700,
il provvedimento d'urgenza, che diciamo con riferimento al quale, il legislatore non
dà indicazioni precise al giudice, e che viene percepita come la norma di chiusura. 

Vediamo di spiegare meglio. Nell'ambito del sistema cautelare italiano, che in parte
è disciplinato dal cpc, ma non solo, perchè misure cautelari importanti sono
previste anche nel cc e il leggi speciali, il legislatore lo ha costruito attraverso la
previsione di una serie di misure tipiche. Cosa vuol dire tipiche? Vuol dire che il
legislatore ha previsto, in maniera puntuale: il fumus boni iuris, cioè le situazioni
sostanziali a cautela delle quali le singole misure possono esser rilasciate; il
periculum in mora, quindi il tipo di pregiudizio che si vuole evitare; ma spesso e
volentieri ha tipizzato anche il contenuto della misura. È questo quanto, per
esempio, avviene nell'ambito del sequestro giudiziario, nel sequestro conservativo
(che andremo a analizzare nella seconda parte della lezione), ma è quanto
ritroviamo anche nei provvedimenti di istruzione preventiva, o anche con
riferimento a altre misure che sono disciplinate nel cc o in leggi speciali. 


Invece, nell'ambito dell'art 700 il legislatore non dà nessuna indicazione. Perchè,
se prendete il testo dell'art 700, trovate scritto che "chi ha fondato motivo di
temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria,
questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere,
con ricorso al giudice, i provvedimenti di urgenza che appaiano, secondo le
circostanze, più idonei a assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul
merito". Come vedete, nel disposto dell'art 700, non si rinviene alcuna traccia della
situazione giuridica a cautela della quale la misura può essere richiesta e rilasciata;
così come non c'è alcuna indicazione in ordine al periculum in mora che si vuol
evitare, salvo che si deve trattare di un pregiudizio che sia imminente e
irreparabile. 

Dopodiché non troviamo alcuna indicazione nemmeno in ordine al contenuto del


provvedimento, che dovrà esser determinato dal giudice, giudice che dovrà
assumere i provvedimenti che, ci dice la norma, secondo le circostanze, appaiano
più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito. 

Questa disposizione, nell'ottica del legislatore, nasce come disposizione di tipo


residuale, è cioè una disposizione chiamata a coprire quelle esigenze cautelari di
tipo marginale, episodico, che non hanno carattere continuativo e che pertanto
non sono state disciplinate, tutelate, nell'ambito di provvedimenti specifici, di
provvedimenti tipici. 

La storia però ha ribaltato completamente diciamo il sistema cautelare italiano.


Perché? Perchè negli anni, hanno assunto rilevanza situazioni giuridiche nuove,
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anche sulla scorta di quanto previsto dalla costituzione. La costituzione del '48 è
una costituzione che ha attribuito rilevanza primaria a situazioni sostanziali come
le libertà personali, i diritti della personalità, che non avevano questo rilievo nel
sistema precedente, perchè sotto il vigore dello statuto albertino era la proprietà il
diritto per eccellenza. Ora, alla luce del dettato costituzionale, sono emerse nel
corso degli anni situazioni sostanziali sempre nuove, che non trovavano tutela nel
sistema delle tutele cautelari tipiche, perchè il legislatore processuale è un
legislatore molto lento e che spesso non ha tenuto il passo con l'evolversi della
società e spesso anche con l'evolversi della legislazione sostanziale. Allora, tutte
queste situazioni nuove, non trovando tutela nell'ambito delle misure cautelari
tipiche, hanno trovato la propria tutela nell'art 700, che quindi, anziché coprire
bisogni cautelari di tipo marginale ed episodico, con il passare del tempo, è
diventato l'asse portante del sistema di tutela cautelare italiana, perchè è nell'art
700 che trovano sfogo le esigenze cautelari che si pongono con riferimento alle
situazioni sostanziali più importanti a questo punto, addirittura situazioni
sostanziali che hanno un rilievo costituzionale. 


Avviamo allora l'analisi del sistema di tutela cautelare apprestato dal legislatore
italiano. Come ho già spiegato, il legislatore italiano ha costruito il sistema
cautelare sulla base di una serie di misure cautelari tipiche. Come andremo a
vedere in questa parte della lezione e nelle lezioni successive, infatti, il legislatore
italiano si è preoccupato di prevedere una serie di provvedimenti speciali.
Provvedimenti speciali, cioè, in cui è lo stesso legislatore ad aver tipizzato il fumus
boni iuris, il periculum in mora, e anche il contenuto del provvedimento. Quindi il
legislatore indica esattamente la situazione sostanziale a cautela della quale la
misura cautelare può essere richiesta, e che il giudice dovrà valutare appunto a
livello di fumus boni iuris, quindi, a livello di verosimile esistenza. Si è preoccupato
di disciplinare il periculum in mora, quindi il pregiudizio che si vuole evitare
attraverso la richiesta della misura, ma anche il contenuto della misura. 

Ci sono poi delle hp in cui il legislatore ha fatto un ulteriore passo, esonerando


addirittura il giudice dall'onere di valutare il periculum in mora, limitandosi cioè a
stabilire che, in presenza di determinati atti, o fatti, il giudice deve emanare il
provvedimento richiesto. Per esempio, quando andremo a analizzare i cd
provvedimenti possessori, quindi, la azione di spoglio e di manutenzione, vedremo
che queste misure devono essere concesse sulla base della verifica di esistenza,
sia pure a livello sommario, dello spoglio violento o clandestino, delle molestie,
senza che il giudice debba compiere alcun indagine in ordine alla esistenza di un
periculum in mora.

Apro una parentesi: ricordatevi sempre che per assolvere a queste stesse esigenze
di garanzia della effettività della tutela, che abbiamo detto, è lo scopo di tutto il
sistema di tutela cautelare, non ci dimentichiamo mai che il legislatore nella sua
discrezionalità talvolta utilizza una tecnica diversa, cioè la tecnica dei procedimenti
sommari di tipo non cautelare. Abbiamo visto analizzando l'art 316bis del cc in
tema di concorso al mantenimento dei figli, e l'art 28 dello statuto dei lavoratori, in
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tema di procedimento di repressione della condotta antisindacale, che si tratta di
procedimenti che svolgono proprio questa funzione, assicurare la effettività della
tutela consentendo all'attore che ha ragione di ottenere un provvedimento di tipo
anticipatorio, passando attraverso un procedimento che si svolge in forme
sommarie, e quindi attraverso un procedimento che sicuramente è destinato a
consentire il rilascio anticipato del provvedimento rispetto al tempo che sarebbe
stato necessario passando attraverso il processo a cognizione piena. 


Ora, cominciamo ad avviare la analisi dei diversi provvedimenti cautelari del nostro
ordinamento, dal cpc. Ricordatevi sempre che i provvedimenti cautelari non sono
soltanto quelli disciplinati nel cpc, in particolare nel libro IV, ma altre misure
cautelari le ritroviamo sempre nel cpc in altre parti, per esempio nel libro III
nell'ambito dei processi esecutivi, ma misure cautelari le ritroviamo anche
nell'ambito del cc, o di leggi speciali. 

Se voi prendete il cpc, nel libro IV, vedete che alla tutela cautelare è dedicato il
capo III. Il capo III si compone di una sezione I che è dedicata al procedimento
cautelare in generale, quindi sono le regole di rilascio delle misure cautelari,
mentre nelle sezioni successive, la sezione II, la III, la IV, e la V, noi troviamo la
disciplina di singole misure cautelari.

Cominciamo allora dalla sezione II che si occupa del SEQUESTRO. Ci sono due
forme di sequestro: il sequestro giudiziario e il sequestro conservativo. Si tratta di
due misure cautelari cd conservative, ovvero, secondo quanto ci siamo già detti
precedentemente, misure cautelari che hanno come scopo quello di assicurare la
fruttuosità pratica della futura sentenza di condanna emanata a conclusione del
processo a cognizione piena, misure cautelari che, ricordatevi, abbiamo detto, sul
piano strutturale si connotano per il legame di strumentalità rigida che lega la
misura cautelare rispetto al processo a cognizione piena. 


Cominciamo allora dall'analisi della disciplina del sequestro GIUDIZIARIO, art 670
cpc. Intanto leggiamo la disposizione "il giudice può autorizzare il sequestro
giudiziario: 1) di beni mobili o immobili o altre universalità di beni, quando ne è
controversa la proprietà o il possesso, ed è opportuno provvedere alla loro
custodia o alla loro gestione temporanea; 2) di libri, registri, documenti, modelli,
campioni, e di ogni altra cosa, da cui si pretende desumere elementi di prova
quando è controverso il diritto alla esibizione o alla comunicazione ed è opportuno
provvedere alla loro custodia temporanea". 

Come si evince dalla lettura della disposizione esistono due forme di sequestro
giudiziario: il sequestro giudiziario di beni, che è disciplinato nel numero1, ed
abbiamo il sequestro giudiziario di prove, che invece è disciplinato nel numero2.
Lasciamo da parte per adesso questa seconda hp e concentriamo la nostra
attenzione sul sequestro giudiziario di beni. 

I presupposti a cui è subordinato il rilascio della misura, come sempre, sono il


fumus boni iuris ed il periculum in mora. Per quanto riguarda il fumus boni iuris il
riferimento è a quella parte della disposizione in cui si fa riferimento alla
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circostanza che è controversa la proprietà o il possesso dei beni. Quindi si richiede
che vi sia una controversia tra le parti in ordine alla proprietà o al possesso di una
cosa. 

Intanto facciamo attenzione a questa espressione "controversa la proprietà o il


possesso", deve essere intesa in un giusto modo. Perchè l'equivoco che si deve
evitare è ritenere che, ai fini del rilascio del sequestro giudiziario, occorra che sia
già stata esercitata la azione a tutela della proprietà o del possesso, quindi, che ci
sia una controversia già in corso. NON è così, perchè è pacifico che questa misura
cautelare, come tutte le altre del resto, possa essere richiesta anche ante causam.
Quindi la espressione "controversa la proprietà o il possesso" deve essere intesa
nel senso che ci sia una contestazione tra le parti. 

Questo "controversia" in ordine alla proprietà o al possesso, può derivare,


collegarsi, non soltanto ad azioni reali, quindi azioni esercitate a tutela di un diritto
reale, ma anche ad azioni per il cui tramite si chiede sì la consegna di un bene, ma
come domanda accessoria rispetto ad una azione di impugnativa negoziale, quindi
si fa riferimento alle hp in cui viene esercitata una azione di nullità, annullamento,
risoluzione, rescissione del contratto, e si chiede la riconsegna del bene prestato,
in adempimento del contratto che si è impugnato. Questo è il presupposto relativo
al fumus boni iuris.

Per quanto riguarda il periculum in mora, rileva invece quella parte della
disposizione in cui si dice che "è opportuno provvedere alla loro custodia o alla
loro gestione temporanea". Il significato che si attribuisce a questa espressione è
questo: la parte, nel richiedere il sequestro giudiziario, deve affermare il suo timore
che, in attesa della emanazione della sentenza di condanna alla consegna del
bene emanata a conclusione del processo a cognizione piena, il bene possa esser
oggetto di un atto di disposizione da parte della controparte. Un atto di
disposizione materiale, quindi che il bene venga deteriorato, disperso, distrutto, o
un atto di disposizione giuridica, quindi che la controparte alieni, trasferisca, il
bene controverso ad un terzo, ad un subaquirente. 

Ed infatti, se prendiamo il successivo art. 676 troviamo scritto che “nel disporre il
sequestro giudiziario, il giudice nomina il custode, stabilisce i criteri e i limiti
dell’amministrazione delle cose sequestrate e le particolari cautele idonee a render
più sicura la custodia e a impedire la divulgazione dei segreti”. Quindi questa
norma si comprende alla luce della spiegazione che abbiamo offerto in ordine al
periculum in mora.
Questi sono i presupposti.

Quale può essere l’oggetto del sequestro giudiziario di beni?

Il sequestro giudiziario può avere ad oggetto, ai sensi del n.1 art. 670 c.p.c., beni
mobili o immobili aziende o altre universalità di beni

Che caratteristica devono avere questi beni per costituire l’oggetto del sequestro
giudiziario?

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Per rispondere a questa domanda occorre ricordare che il sequestro giudiziario è
un provvedimento di tipo conservativo, cioè ha lo scopo di garantire la fruttuosità
pratica della futura condanna emanata a conclusione del processo a cognizione
piena.

In questo particolare caso si fa riferimento ad una sentenza di condanna alla


consegna o al rilascio del bene controverso e quindi c’è un legame tra il sequestro
giudiziario e il processo di esecuzione forzata in forma specifica per obbligo di
consegna o di rilascio che è il processo esecutivo che l’ordinamento mette a
disposizione dei consociati per dar attuazione a sentenze aventi ad oggetto la
condanna alla consegna o al rilascio.

E infatti se prendiamo l’art. 677, troviamo scritto che “il sequestro giudiziario si
esegue a norma degli artt. 605 e ss. in quanto applicabili” e negli artt. 605 e ss.
troviamo proprio la disciplina del processo di esecuzione forzata in forma specifica
per obbligo di consegna o di rilascio.

Alla luce di questa precisazione, si capisce che l’ambito applicativo del sequestro
giudiziario di beni si ricostruisce tenuto conto della disciplina del processo di
esecuzione forzata in forma specifica e ciò ci consente di affermare che, intanto, il
sequestro giudiziario di beni è possibile in quanto si tratti di beni che sono:
determinati, infungibili e che siano suscettibili di detenzione.

Come possiamo vedere si fa espresso riferimento ai beni mobili e immobili, alle


aziende e alle universalità di beni.

Ci sono delle incertezze in ordine alla possibilità che l’oggetto del sequestro
giudiziario possano essere i diritti di credito o le azioni delle s.p.a. o le quote delle
s.r.l.

- Con riferimento ai crediti, il dubbio sorge perché non è affatto certo che i diritti di
credito si prestino ad esser definiti come “beni” con riferimento ai quali è
possibile che sorga una controversia sulla proprietà o sul possesso; certamente
bisogna considerare che, nell’ipotesi in cui ci sia una controversia in ordine
all’appartenenza del credito, l’interesse del creditore che agisce è quello di
evitare che il debitore paghi ad un soggetto terzo in attesa che venga accetta la
titolarità effettiva del credito, ma a quest’esigenza risponde non tanto un
sequestro giudiziario, quanto piuttosto un provvedimento urgente, emanato ai
sensi dell’art. 700, per il quale si ordini al debitore di non adempiere in attesa
dell’accertamento della titolarità attiva del credito.

- Per quanto riguarda le azioni di una s.p.a., per lungo tempo questa questione è
stata al centro di un dibattito, che oggi possiamo ritenere concluso perché l’art
2352 del c.c. attribuisce il diritto di voto al custode e questa stessa disposizione
si applica anche alle quote delle s.r.l. secondo quanto previsto dall’art. 2471 bis
c.c., per cui a questo ulteriore questione possiamo sicuramente offrire una
risposta positiva.

Per quanto riguarda il contenuto, abbiamo già dato lettura dell’art. 676: “nel
disporre il sequestro giudiziario, il giudice nomina il custode, stabilisce i criteri e i

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limiti dell’amministrazione delle cose sequestrate e le particolare cautele idonee a
render più sicura la custodia e ad impedire la divulgazione dei segreti.
Il giudice può nominare custode quello dei contendenti che offre maggiori garanzie
e dà cauzione.
Il custode della cosa sequestrata ha gli obblighi e i diritti previsti negli arte. 521,
522 e 560.”
Il sequestro giudiziario, detto in altre parole, si attuata mediante lo
spossessamento della parte che ha nelle sue mani il bene, quindi il bene viene
sottratto a chi lo possiede o detiene e viene affidato ad un custode.

Vediamo che l’art. 676 ammette che come custode possa esser nominato anche il
possessore ( o detentore) ma in queste particolari ipotesi si verifica la c.d.
interversione nel possesso, quindi la controparte pur mantenendo nelle sue mani il
bene, lo mantiene come mero detentore e assume tutte le responsabilità del
custode, responsabilità che sono sia civili che penali.

Quanto all’attuazione abbiamo già visto, leggendo l’art. 676, che il sequestro si
esegue a norma degli artt. 605 e ss.: quindi nelle forme dell’esecuzione forzata in
forma specifica per obbligo di consegna o rilascio.

Quindi, dal rinvio a queste disposizioni, si conferma che il sequestro giudiziario di


beni si attua soltanto attraverso lo spossessamento e che, nella particolare ipotesi
in cui abbia ad oggetto un bene immobile, non è previsto né lo spossessamento
materiale né la trascrizione del provvedimento.

Non è previsto lo spossessamento materiale laddove venga nominato come


custode lo stesso convenuto.

Non è invece prevista la trascrizione del sequestro giudiziario perché nei confronti
di atti di disposizione giuridica aventi ad oggetto dei beni immobili suscettibili di
trascrizione, questa funzione cautelare viene svolta da un altro istituto, ovvero
l’istituto della trascrizione delle domande giudiziali di cui agli artt. 2652 e 2653 c.c.,
che ricordiamo essere uno degli effetti sostanziali della domanda giudiziale, uno di
quelli effetti che hanno per presupposto l’accoglimento nel merito della domanda
proposta, e che consiste nel consentire all’attore di ottenere le stesse utilità che
avrebbe ottenuto se la domanda fosse stata accolta il giorno stesso in cui è stata
proposta.

Quindi è uno degli istituti che mira ad azzerare i tempi di svolgimento del processo
a cognizione piena.

Come realizza questa funzione quest’istituto?

Lo fa prevedendo che la sentenza di accoglimento della domanda dell’attore,


produce i propri effetti a partire, non dal giorno in cui è stata emessa, ma dal
giorno in cui è stata trascritta la domanda originaria; quindi vengono retrodatati gli
effetti della sentenza di accoglimento che, come tale, prevale su tutti gli atti di
acquisto che sono stati trascritti in data successiva rispetto alla trascrizione della
domanda giudiziale.

Alla luce di tutto quanto abbiamo detto circa le modalità d’attuazione del
sequestro giudiziario di beni, possiamo mettere a fuoco la funzione che l’istituto è
100
chiamato a svolgere, e a questo riguardo dobbiamo distinguere a seconda che il
sequestro giudiziario abbia ad oggetto beni mobili oppure beni immobili.

Muoviamo anzitutto dall’affermazione precedentemente svolta secondo cui il


sequestro giudiziario di beni si attua sempre mediante lo spossessamento del
convenuto detentore del bene, ora, se il sequestro ha ad oggetto dei beni mobili o
un’universalità di beni mobili, possiamo tranquillamente ritenere che il sequestro
giudiziario sia idoneo a mettere l’attore (quindi colui che ha chiesto e ottenuto il
provvedimento) al riparo dal rischio che il convenuto ponga in essere atti di
disposizione non soltanto materiale, (quindi di distruzione, deterioramento,
dispersione, ecc.) ma altresì atti di disposizione giuridica sul bene, quindi detto in
altre parole: lo pone al riparo dal rischio che il bene venga venduto.

Questo perché?

Perché il trasferimento dei beni mobili noi sappiamo che avviene attraverso il
trasferimento del possesso. La legge che regola la circolazione dei beni mobili è
fissata dall’art. 1153 c.c. e quindi dal momento in cui il convenuto subisce lo
spossamento è chiaro che non è più in grado di trasferire il possesso.

Anche nel caso in cui venga nominato custode lo stesso convenuto, questa
affermazione rimane in piedi, perché il custode, ricordate, ha soltanto la
detenzione ma non il possesso del bene (poco fa infatti abbiamo detto che in
queste ipotesi si verifica una interversione nel possesso) e ricordate inoltre che il
custode, chiunque sia, un soggetto terzo o lo stesso convenuto, assume le
responsabilità del custode, responsabilità non soltanto civile, secondo quanto
previsto nell’art 67 c.c., ma anche la responsabilità penale, così come previsto
negli artt. 388 e 388 bis c.p.

Invece, laddove il sequestro giudiziario abbia ad oggetto dei beni immobili, allora
la riflessione da fare è diversa, perché il sequestro giudiziario probabilmente è
idoneo a mettere l’attore al riparo dal rischio che vengano compiuti atti di tipo
materiale sul bene.

Ma per quanto riguarda gli atti di disposizione giuridica, il sequestro giudiziario non
è affatto idoneo a tutelarlo, perché abbiamo detto che il sequestro giudiziario di
beni non è suscettibile di trascrizione —> ricordatevi la trascrizione è una
disciplina speciale si possono trascrivere solo e soltanto gli atti indicati dalla legge
e nessuna norma prevede la trascrizione del sequestro giudiziario di beni immobili.
Al fine di mettersi al riparo che vengano compiuti atti di posizione giuridica allora,
l’attore dovrà porti nella condizione di poter trascrivere un atto, e questo atto quale
potrà essere?

La domanda introduttiva del processo di merito, quella domanda che potrà essere
trascritta se rientra nella previsione degli artt. 2652 e 2653 c.c. che, ricordiamo,
prevedono la trascrizione di un pò tutte le domande che riguardano le controversie
personali o reali su beni immobili.

Quindi quello che deve far l’attore in questi casi è affretterei ad aprire il processo a
cognizione piena in modo da poter trascrivere la relativa domanda.

101
Questo rilievo ci consente di comprendere come la trascrizione delle domande
giudiziali, che ricordatevi è uno degli effetti sostanziali della domanda giudiziale, è
un istituto che in fin dei conti assolve ad una funzione tipicamente cautelare,
quindi evitare che la durata del processo vada a danno dell’attore che ha ragione.

E questo ci consente di aprire una piccolissima parentesi per sottolineare la


pericolosità di quest’istituto, infatti la disciplina sostanziale della trascrizione della
domanda giudiziale prevede, nell’art. 2668 c.c., che la domanda giudiziale
trascritta possa essere cancellata solo a seguito del passaggio in giudicato della
sentenza di rigetto della domanda trascritta, e questa è una regola molto lontana
rispetto a quella dettata con riferimento alle misure cautelari, perché come
andremo a vedere, in base all’art. 609 nonies c.p.c., la misura cautelare,
qualunque misura cautelare, perde efficacia a seguito dell’emanazione di una
sentenza anche di primo grado che accerta la non fondatezza della domanda
avente ad oggetto il diritto cautelato.

Questo ha portato gli operatori a sollevare più volte la questione del se questa
disciplina di trascrizione delle domande giudiziali sia una disciplina
costituzionalmente legittima, e questo spiega perché nella prassi, spesso, gli
avvocati si attivano chiedendo l’emanazione di un provvedimento urgente ex art.
700 per il cui tramite ottenere l’ordine di cancellazione della domanda giudiziale
trascritta.

Detto ciò, possiamo passare all’analisi dell’altro sequestro, cioè il sequestro


conservativo.
Il sequestro conservativo trova la propria disciplina sia nel c.p.c. all’art. 671 in
primo luogo e poi gli artt. 678, 679 e 686 per quanto riguarda l’attuazione, sia nel
c.c. negli artt. 2905 e 2906.

È molto interessante la collocazione che il sequestro conservativo ha nell’ambito


del c.c.. infatti se noi prendiamo le disposizioni appena richiamate, ci renderemo
subito conto che a livello sostanziale il sequestro conservativo è inserito nel sesto
libro, titolo terzo, al capo quinto dedicato ai mezzi di conservazione della garanzia
patrimoniale.

La garanzia patrimoniale qual’è?

La sua disciplina la ritroviamo nell’art. 2740 c.c. “il debitore risponde


dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”.

Ora, in questo capo quinto, troviamo la disciplina dei c.d. mezzi di conservazione
della garanzia patrimoniale, cioè sono 3 istituti il cui scopo è proprio quello di
conservare, mantenere la consistenza del patrimonio del debitore.

Questi istituti sono:

- Azione surrogatoria —> art. 2900

- Azione revocatoria —> artt. 2901fino a 2904

- Sequestro conservativo —> artt. 2905 e 2906

102
Questi 3 istituti che, sul piano sostanziale, sono compresi nell’ambito di una
categoria unitaria, a livello processuale hanno 3 collocazioni completamente
diverse.

L’azione surrogatoria viene annoverata tra le ipotesi di legittimazione straordinaria


(art. 81 c.p.c.).

L’azione revocatoria è un’azione per il cui tramite il creditore può ottenere una
dichiarazione di inefficacia degli atti dispostivi che il debitore ha posto in essere in
pregiudizio delle proprie ragioni. Quindi è un’azione che presuppone il
compimento di un atto dispositivo da parte del debitore e che ha come scopo
quello di ottenere una dichiarazione di non opponibilità dell’atto stesso nei
confronti del creditore agente. Quindi l’atto rimane valido, ciò significa che il bene
che ha ceduto il debitore ad un terzo rimane nel patrimonio del terzo, ma non è
opponibile al creditore, che quindi potrà agire esecutivamente nei confronti del
terzo avente causa, utilizzando una particolare forma di processo esecutivo (di
espropriazione forzata), ovvero l’espropriazione contro il terzo proprietario, perché
l’avente causa è proprietario del bene ma con quel bene che gli appartiene
risponde di un debito altrui, per cui si applicano gli artt. 602 e ss. c.p.c.

Invece il sequestro conservativo è una misura cautelare e si collega all’azione


revocatoria, perché lo scopo del sequestro conservativo è quello di evitare che il
debitore ponga in essere atti dispersivi del patrimonio. Quindi il sequestro
conservativo è un rimedio ex ante e l’azione revocatoria è un rimedio ex post.

Allora in base all’art 2905 c.c. il creditore può chiedere il sequestro conservativo
dei beni del debitore secondo le regole stabile dal c.p.c.; e in base all’art 671 del
c.p.c. “il giudice, su istanza del creditore che ha fondato timore di perdere la
garanzia del proprio credito, può autorizzare il sequestro conservativo di beni
mobili o immobili del debitore o delle somme e cose a lui dovute, nei limiti in cui la
legge ne permette il pignoramento”.
Il sequestro conservativo è strumentale alla conservazione della garanzia
patrimoniale, infatti, ci dice l’art. 2906 c.c. che “non hanno effetto in pregiudizio del
creditore sequestrante le alienazioni e gli altri atti che hanno per oggetto la cosa
sequestrata, in conformità delle regole stabilite per il pignoramento”.
Quindi attraverso il sequestro conservativo si ottiene la creazione di un vincolo di
indisponibilità sui beni del debitore, il che significa che laddove il debitore pone in
essere atti di disposizione giuridica su questi beni, questi atti, anche se validi, non
sono opponibili al creditore sequestrante.

Il sequestro conservativo, abbiamo detto che è una misura cautelare di tipo


conservativo, cioè è una misura cautelare che ha come scopo quello di garantire la
fruttuosità pratica della futura sentenza di condanna, in questo caso, di condanna
al pagamento di una somma di denaro.

Infatti il sequestro conservativo è volto ad assicurare la fruttuosità pratica del


procedimento di espropriazione forzata, che è il processo esecutivo per il cui
tramite l’ordinamento processuale, dà attuazione ai provvedimenti di condanna di
una somma di denaro.

103
Questo vincolo di indisponibilità, che è l’effetto tipico del sequestro conservativo, è
molto simile al vincolo di indisponibilità creato dal pignoramento, che come
vedremo, è la prima fase del processo di espropriazione forzata, anzi, tra i due
istituti non c’è una soluzione di continuità, perché se noi andiamo a leggere l’art.
686 c.pc. troviamo scritto che: una volta che il creditore ha ottenuto una sentenza
di condanna (che è titolo esecutivo), il sequestro si converte automaticamente in
pignoramento; quindi il sequestro assolve la sua funzione di conservazione del
bene finché non viene emanata la sentenza di condanna provvisoriamente
esecutiva. A partire da questo momento è la sentenza di condanna a produrre gli
ulteriori effetti giuridici.

Bisogna però dire che c’è una differenza molto importante fra il sequestro
conservativo e il pignoramento, perché mentre il sequestro conservativo crea un
vincolo di indisponibilità che opera a favore solo del creditore sequestrante; il
pignoramento invece produce i propri effetti di indisponibilità non soltanto a
vantaggio del creditore procedente, cioè di colui che ha preso l’iniziativa, colui che
ha aperto il processo di espropriazione forzata e che ha messo in moto il
pignoramento, ma opera a vantaggio di tutti i creditori che sono intervenuti nel
processo esecutivo, perché vedremo che nell’espropriazione forzata trova
attuazione il c.d. principio della parcondicio creditorum, art. 2741 c.c., per cui tutti
i creditori del debitore esecutato hanno il diritto, laddove sussistono le condizioni
indicate dalla legge, di intervenire e prendere parte alla divisione di quanto è stato
ricavato, onde ottenere il soddisfacimento del proprio credito.

Allora, si parla del sequestro conservativo come di un vincolo a porte chiuse,


mentre si parla del pignoramento come di un vincolo a porte aperte. Cosi come
abbiamo visto con riferimento al sequestro giudiziario, allora anche l’ambito
applicativo del sequestro conservativo coincide con l’ambito applicativo del
processo di espropriazione forzata.

Come vediamo, l’art. 671 c.p.c. fa espresso riferimento ai beni mobili o immobili
del debitore o le somme e cose a lui dovute. Il riferimento a beni mobili/immobili
non crea problemi, l’unica particolarità è che a differenza di quanto abbiamo visto
con riferimento al sequestro giudiziario, non è prevista la possibilità di sequestrare
universalità di beni o aziende.

E questo perché?

Perché con riferimento al sequestro giudiziario, oggetto di questa misura cautelare


(oggetto infatti anche di pignoramento), possono essere soltanto i singoli beni
facenti parte dell’universalità di beni.

Quindi il sequestro conservativo può aver ad oggetto solo i singoli beni mobili o
immobili che vanno a costituire l’azienda o l’universalità.

Possono essere altresì oggetto di sequestro conservativo anche i diritti di credito, i


diritto cioè che il debitore vanta nei confronti del terzo debitor debitoris, purché si
tratti di dirti che siano suscettibili di espropriazione forzata.

Si ritiene altresì che possano essere oggetto di sequestro conservativo: le quote


della s.r.l., le azioni e i titoli di credito. Quindi possiamo dire che su questo ci sia

104
una maggior chiarezza rispetto a quanto visto con riferimento al sequestro
giudiziario.

Per quanto riguarda i presupposti, il fumus boni iuris (è il diritto di credito, il diritto
ad ottenere il pagamento di una somma di denaro), non è richiesto che questo
diritto sia né certo, né liquido, né esigibile. Sarebbe stato assurdo che il legislatore
prevedesse il requisito della certezza quando qui si tratta di un diritto che
dev’essere accertato a cognizione sommaria, e il giudizio di probabilità, che è la
caratteristica della cognizione sommaria, non sarebbe stato compatibile con la
nozione di certezza.

È pacifico altresì che questo credito non debba essere liquido, quindi determinato
nel suo ammontare, anche se comunque occorre che sussistono le condizioni
perché ne possa essere determinata pur in maniera approssimativa la consistenza,
e ciò perché i beni oggetto di sequestro conservativo devono aver un valore che in
qualche modo corrisponde al valore del diritto di credito per cui si agisce.

Inoltre non è necessario che sia esigibile, sappiamo che un credito è esigibile
quando non è soggetto né a condizione, né a termine. Ora, nell’ambito dell’art,
1356 comma uno c.c. si prevede la possibilità che vengano compiuti atti
conservativi anche in pendenza della condizione sospensiva, il che toglie qualsiasi
dubbio in ordine alla possibilità che possa essere chiesto un sequestro
conservativo (che è proprio l’atto conservativo per eccellenza), e sulla base di
questa disposizione si è sempre ritenuto che anche con riferimento ad un credito
sottoposto a termine possa essere chiesto il sequestro conservativo in base
all’argomento a fortiori.

Una questione interessante si è posta con riferimento al requisito del fumus boni
iuris del sequestro conservativo, ovvero la possibilità che a chiedere il sequestro
sia un creditore che ha già nelle sue mani un titolo esecutivo. Noi non abbiamo
ancora affrontato il processo esecutivo ma nel corso delle lezioni è emerso più
volte che il requisito di ammissibilità per avvisare qualsiasi processo esecutivo è il
titolo esecutivo. Quindi il creditore deve avere nelle sue mani uno dei
provvedimenti o degli atti indicati tassativamente nell’art. 474 c.p.c.

Si distinguono titoli esecutivi di formazione giudiziale e titoli esecutivi di


formazione stragiudiziale.

I primi sono innanzitutto le sentenze di condanna, che in base all’art. 282 nascono
provvisoriamente esecutive ex lege.

La prima domanda che ci dobbiamo porre è: può il creditore che ha già nelle sue
mani un titolo esecutivo di formazione giudiziale (per esempio una sentenza di
condanna) chiedere il sequestro conservativo?

A questa domanda, secondo l’interpretazione preferibile, si deve rispondere in


senso negativo. Ciò perché questo creditore può già avviare il processo esecutivo;
inoltre sappiamo che la sentenza di condanna è anche titolo per iscrizione di
ipoteca giudiziale, quindi a questa ipotetica domanda di sequestro conservativo
non è collegato alcun interesse, cioè il creditore non può ottenere attraverso il
sequestro conservativo utilità diverse o superiori rispetto a quelle di cui è già in

105
possesso; anche perché ricordiamoci che precedentemente abbiamo detto che il
sequestro conservativo, una volta che il creditore ha ottenuto la sentenza di
condanna, si trasforma automaticamente in pignoramento, in base all’art. 686
c.p.c.

La risposta è diversa se il titolo è di formazione stragiudiziale, perché in base


all’art. 474, ci sono anche degli atti di natura stragiudiziale a cui la legge ha
attribuito l’efficacia di titolo esecutivo, per esempio i titolo di credito, o gli atti
ricevuti dal notaio; allora in questo secondo caso, alla domanda posta
probabilmente è preferibile rispondere in senso positivo. Ciò perché il sequestro
conservativo verrà richiesto dal creditore nell’attesa di aprire il processo a
cognizione piena, che gli può procurare un provvedimento (che è la sentenza di
condanna) che sicuramente gli attribuisce utilità maggiori rispetto al titolo che ha
già in mano.

La sentenza di condanna infatti, innanzitutto, è provvedimento idoneo ad


acquistare l’autorità di cosa giudicata, ma poi è anche titolo per iscrivere l’ipoteca
giudiziale, e questa utilità non appartiene ai titoli esecutivi di formazione
stragiudiziale.

Per quanto riguarda il periculum in mora, abbiamo visto che è il legislatore nell’art.
671 a tipizzarlo, laddove fa riferimento al “timore da parte del creditore di perdere
la garanzia del proprio credito”.
Allora, leggendo la giurisprudenza, possiamo dire in via generale che il rilascio del
sequestro conservativo è volto ad evitare che, nel corso del processo a cognizione
piena, il debitore ponga in essere atti dispersivi del suo patrimonio. Quindi, che il
debitore disperda il patrimonio alienando a terzi aventi causa i beni che lo
compongono, di modo che quando il creditore va a mettere in esecuzione la
sentenza di condanna al pagamento non trova più niente, non trova più beni su cui
agire in via esecutiva.
Questo periculum in mora, secondo la giurisprudenza, può concretizzarsi in
situazioni diverse: ad esempio la giurisprudenza tiene in considerazione l’entità, la
consistenza del patrimonio del debitore, in rapporto all’entità del credito per cui si
agisce. Quindi qua c’è una valutazione in senso oggettivo, perché se il credito ha
un’entità irrisoria e il patrimonio del debitore è un patrimonio molto ampio è chiaro
che non è fondato il timore di perdere la garanzia patrimoniale.

Ma l’esistenza del periculum in mora può essere desunta anche da elementi


soggettivi, legati cioè al contegno del debitore laddove risulta che questo si stia
adoperando per depauperare il proprio patrimonio.

Quanto all’esecuzione del sequestro conservativo abbiamo già visto,


incidentalmente, che l’effetto del sequestro conservativo è quello di creare un
vincono di indisponibilità sui beni che ne costituiscono l’oggetto, così come
abbiamo affermato leggendo l’art. 2906 c.c.

Quest’effetto non si produce automaticamente, non è sufficiente l’ordinanza del


giudice affinché si crei il vincolo d’indisponibilità, a tal fine è infatti necessario che
il provvedimento venga messo in esecuzione.

106
Le modalità d’esecuzione del sequestro conservativo sono disciplinate negli artt.
678 e 679 e la scelta che il legislatore ha fatto, non causalmente, è quella di
stabilire che il sequestro conservativo vada eseguito nelle stesse forme del
pignoramento.

Per cui in base all’art. 678 se ha ad oggetto beni mobili o crediti (quindi diritti che il
convenuto debitore ha nei confronti del terzo debitor debitoris) si richiamano le
norme relative al pignoramento presso il debitore o presso terzi.

Ancora non abbiamo studiato il pignoramento presso terzi, ma con riferimento al


pignoramento presso il debitore possiamo dire che il punto centrale del
pignoramento è lo spossessamento del debitore, quindi anche il sequestro
conservativo di beni mobili lo si attua attraverso lo spossessamento.

Invece per quanto riguarda l’esecuzione del sequestro conservativo avente ad


oggetto beni immobili, l’art. 679 stabilisce che si attua attraverso la trascrizione del
provvedimento presso l’ufficio del conservatore dei registri immobiliari del luogo in
cui i beni sono situati; e anche in questo caso le modalità dettate dal legislatore
corrispondono alle modalità in cui si attua il pignoramento immobiliare.

Ripetiamo che tra sequestro conservativo e pignoramento non c’è una soluzione
di continuità, perché l’art. 686 prevede espressamente che nel momento in cui il
creditore sequestrante ottiene la sentenza di condanna esecutiva, il sequestro
conservativo si converte in pignoramento, ed è attraverso il legame tra sequestro
conservativo e pignoramento che questa misura cautelare riesce a dar attuazione
a quella che è la sua funzione, cioè quella di garantire la fruttuosità pratica della
futura sentenza di condanna al pagamento di una somma di denaro.

Proprio sotto questo profilo è importante una piccola precisazione che può tornar
utile ai fini della comprensione dell’istituto: il sequestro conservativo è una misura
cautelare posta a tutela del diritto di credito avente ad oggetto il pagamento di una
somma di denaro, ma è una misura cautelare che mira ad evitare un periculum da
infruttuosità pratica della sentenza. Allora, quando abbiamo un creditore (quindi il
titolare di un diritto avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro), che
invece vuole evitare un periculum da tardività, cioè ha bisogno del
soddisfacimento immediato del suo diritto, che non può rimanere insoddisfatto
lungo tutto il tempo di svolgimento del processo a cognizione piena, allora il
sequestro conservativo non gli serve a niente, perché l’effetto del sequestro
conservativo è quello di creare un vincolo di indisponibilità sui beni.

In questo caso il creditore avrà bisogno di un tipo di provvedimento anticipatorio e


quindi lo strumento non sarà il sequestro conservativo, ma saranno altre misure
cautelari, sempre previste a tutela del diritto di credito, del diritto ad ottenere una
somma di denaro, ma che hanno un contenuto anticipatorio, cioè che sono diretti
ad evitare un periculum da tardività e questo ad esempio quanto previsto nel già
richiamato art. 446 c.c. ma soprattutto attraverso l’art. 700, cioè, è attraverso il
provvedimento urgente che queste situazioni troveranno tutela, è attraverso la
tutela urgente che il creditore potrà ottenere un provvedimento di tipo
anticipatorio, anche perché se il diritto che ha un contenuto patrimoniale svolge
una funzione non patrimoniale (quindi il diritto allo stipendio, alla retribuzione, al
107
mantenimento) è evidente che lasciare insoddisfatto il diritto lungo tutto il tempo di
svolgimento del processo a cognizione piena creerebbe sicuramente un
pregiudizio irreparabile, perché sono situazioni soggettive strumentali a garantire la
sopravvivenza dell’avente e diritto, quindi è facile che ricorrano i presupposti a cui
è subordinato l’art. 700, l’abbiamo già anticipato, il rischio di un pregiudizio
irreparabile.

108
Lezione 7 - 26/03/20
Cominciamo ad analizzare le denunce. La denuncia di nuova opera e la denuncia
di danno temuto.

Si tratta di due misure cautelari che trovano la propria disciplina nel codice civile
agli artt 1171 e 1172. Avevamo già ricordato che la disciplina delle misure cautelari
non si rinviene solo nel IV libro del cpc ma anche nel codice civile e in alcune leggi
speciali. Secondo il legislatore, la denuncia di nuova opera e la denuncia di danno
temuto sono due misure cautelari anticipatorie e, in quanto tali, sono soggette alla
disciplina della c.d. strumentalità attenuata. In realtà vedremo che il contenuto di
queste 2 misure non è sempre anticipatorio, però il legislatore le ha classificate
come tali e a questa classificazione dovremo attenerci.

I due istituti sono molto antichi, di origine romanistica.

DENUNCIA DI NUOVA OPERA art 1171.

E' disciplinata all'art 1171. Il c.1 stabilisce che: “Il proprietario, il titolare di altro
diritto reale di godimento o il possessore, il quale ha ragione di temere che da una
nuova opera, da altri intrapresa sul proprio come sull'altrui fondo, sia per derivare
danno alla cosa che forma l'oggetto del suo diritto o del suo possesso, puo'
denunziare all'autorità giudiziaria la nuova opera, purche' questa non sia terminata
e non sia trascorso un anno dal suo inizio”.

Il legislatore ha tipizzato in questo comma i presupposti (fumus bonis iuris e


periculum in mora).

-Il fumus è dato dalla titolarità di altro diritto reale di godimento.

-Il periculum in mora è indicato nella seconda parte, dove si indica che il ricorrente
ha ragione di ritenere che da una nuova opera da altri intrapresa sul proprio come
sull'altrui fondo sia per derivare danno alla cosa che forma l'oggetto del suo diritto
e del suo possesso.

Qui il legislatore fa riferimento ad un pregiudizio, che ricaviamo dalla parola


“danno”, legato ad una attività in itinere, cioè l'attività di costruzione di una nuova
opera. Il fatto che si debba trattare di opera in itinere trova conferma anche nei
limiti temporali che la disposizione impone (occorre che l'opera non sia terminata e
che non sia trascorso un anno dal suo inizio). È quindi un'opera in itinere che
qualcuno ha intrapreso sul proprio come sull'altrui fondo.

Il pregiudizio che deve essere legato a questa attività di costruzione è dato dalla
illegittimità dell'opera intrapresa, ad es perché si tratta di una costruzione tirata su
in violazione delle norme relative alle distanze legali. Questo danno l'art 1171 non
lo qualifica, parla di danno, ma non si parla né di danno grave né di danno
irreparabile, quindi il legislatore ha moto ampliato la soglia di tutela. Come
possiamo definire il periculum che questo provvedimento mira ad evitare? Intanto
diamo un'occhiata al provvedimento, perché il legislatore l'ha tipizzato. È descritto
nel c.2 dove si dice che il giudice, se accoglie l'istanza, può vietare la
109
continuazione dell'opera, mentre se la rigetta, ne consente la prosecuzione.
Sicuramente è un provvedimento che ha come scopo quello di evitare un
pregiudizio da tardività del provvedimento principale, perché lo scopo è quello di
evitare che il diritto del ricorrente debba rimanere insoddisfatto lungo tutto lo
svolgimento del processo a cognizione piena. Peraltro si tratta di un'anticipazione
parziale perché laddove la richiesta venga accolta, il giudice dispone la
sospensione dell'opera, non la distruzione.

Si dice anche che questo provvedimento può in parte soddisfare l'esigenza di


evitare un pregiudizio da infruttuosità pratica della sentenza, perché la sentenza
che sarà emanata a conclusione del processo a cognizione piena: se è una
sentenza di accoglimento, accertata l'illegittimità dell'opera ne disporrà la
distruzione.

Il provvedimento di condanna alla distruzione di un'opera può essere eseguito


coattivamente nelle forme dell'esecuzione forzata in forma specifica per obblighi di
fare o non fare e in questi il legislatore pone un limite, limite che è legato alla
circostanza che (art 2933) “Non può essere ordinata la distruzione della cosa e
l’avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei danni, se la distruzione della
cosa è di pregiudizio all’economia nazionale”. È una disposizione che vuole evitare
che un domani il ricorrente possa imbattersi in questo limite.

Il legislatore ha tipizzato il contenuto del provvedimento, quindi, se accoglie


l'istanza, dispone la sospensione dell'opera, se la rigetta, ne consente la
prosecuzione.

Il legislatore dell'art 1171 è stato molto attento perché ha previsto anche uno
strumento di contro cautela che è disciplinato nel c.2: “L'autorita' giudiziaria, presa
sommaria cognizione del fatto, puo' vietare la continuazione dell'opera, ovvero
permetterla, ordinando le opportune cautele: nel primo caso, per il risarcimento del
danno prodotto dalla sospensione dell'opera, qualora le opposizioni al suo
proseguimento risultino infondate nella decisione del merito; nel secondo caso,
per la demolizione o riduzione dell'opera e per il risarcimento del danno che possa
soffrirne il denunziante, se questi ottiene sentenza favorevole, nonostante la
permessa continuazione”.

Che cos'è la cauzione? È uno strumento di contro cautela, questo perché il


sistema cautelare è stato pensato e costruito nell'ottica dell'attore che ha ragione.
Se pensate a tutto quanto ci siamo detti sulla tutela cautelare, come strumento
volto a garantire l'effettività della tutela evitando che l'attore che ha ragione, quindi
che ha subito la crisi di cooperazione, sia costretto a subire il danno marginale
derivante dalla durata del processo a cognizione piena, capite che è un profilo
insito nella natura stessa di questa tutela. Allo stesso tempo però la tutela
cautelare diventa uno strumento pericolosissimo nel momento in cui il giudice
della cautela sbaglia, cioè emana il provvedimento cautelare in assenza dei
presupposti, quindi abbiamo un convenuto che ha subito una misura cautelare
ingiusta.

110
Noi abbiamo detto che i provvedimenti cautelari sono per loro natura sempre
provvisori, quindi privi di qualsiasi attitudine alla cosa giudicata, perché l'art 669
decies afferma espressamente che l'ordinanza cautelare può essere modificata e
revocata sempre dal giudice.

Abbiamo però evidenziato anche che le misure cautelari sono provvedimenti


immediatamente esecutivi e che già l'esecuzione stesa può pesare su colui che la
subisce. Pensate ad un provvedimento che ordina il pagamento immediato di una
somma di denaro; pensate ad un sequestro che blocca beni importanti facenti
parte il patrimonio del debitore. Ma ci sono inoltre dei provvedimenti cautelari che
vengono eseguiti con un atto istantaneo e che producono effetti irreversibili (come
l'abbattimento di un albero che sporge sul fondo del vicino). Quindi capite che una
misura cautelare ingiusta può esporre chi la subisce ad un pregiudizio, e questo
consente di capire la ratio che sta a fondamento dell'istituto di contro cautela.

La cauzione come funziona?

È una somma di denaro che viene depositata ed è sempre posta a carico della
parte vittoriosa, quindi se il giudice accoglie l'istanza, la pone a carico del
ricorrente. Questa somma di denaro servirà nel caso in cui la misura cautelare
risulta ingiusta, quindi emanata in assenza dei requisiti stabiliti dalla legge, a
coprire il risarcimento del danno che il convenuto ha subito a causa della
sospensione dell'opera; mentre invece se il giudice rigetta l'istanza, sarà posto a
carico del convenuto e servirà a coprire le spese per la demolizione o la riduzione
dell'opera risultata illegittima e il risarcimento all'istante del danno sofferto a causa
della prosecuzione dell'opera stessa.

Questo strumento di contro cautela è stato generalizzato perché il legislatore del


1990 nel momento in cui ha riscritto le regole dei rilascio delle misure cautelari,
dettando le regole di svolgimento del procedimento cautelare generale, ha
generalizzato questo istituto nell'art 669 undecies, dove si prevede che il giudice
può apporre una cauzione e se l'istante, ottenuta la misura cautelare, non
ottempera all'ordine del giudice, la misura cautelare perde efficacia. Devo
avvertirvi che l'istituto della cauzione ha dei imiti, che derivano dal fatto che la
parte a cui è imposta la cauzione, deve averli i soldi da depositare. Se non li ha, è
possibile subordinare l'accesso alla tutela cautelare alle condizioni economiche/
patrimoniali dell'istante? No, non è possibile soprattutto tenendo conto di quanto
affermato dalla Corte Cost nel 1985, cioè che la tutela cautelare, nella parte in cui
è rivolta ad evitare un pregiudizio irreparabile, è costituzionalmente doverosa.
Quindi laddove la parte sia non abbiente, il giudice dovrebbe astenersi dall'imporre
la cauzione.

DENUNCIA DI DANNO TEMUTO art 1172

art 1172: “Il proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento o il possessore,

111
il quale ha ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa sovrasti
pericolo di un danno grave e prossimo alla cosa che forma l'oggetto del suo diritto
o del suo possesso, puo' denunziare il fatto all'autorità giudiziaria e ottenere,
secondo le circostanze, che si provveda per ovviare al pericolo”. Il legislatore nel
c.1 ha tipizzato anche in questo caso i requisiti di ammissibilità:

- fumus bonis iuris → fa riferimento espressamente alla proprietà, alla titolarità


di altro diritto di godimento o al possesso.

- Periculum in mora → qua, laddove si fa riferimento alla circostanza che la


parte istante “ha ragione di temere che da qualsiasi edificio albero o altra
cosa risulti pericolo di un danno grave e prossimo”, da questa espressione
noi ricaviamo che attraverso questo istituto il legislatore sanziona un illecito
da pericolo di danno, cioè il rilascio di questa misura prescinde dalla
circostanza che il danno si sia verificato, si vuole eliminare una situazione
potenzialmente dannosa. Questo rappresenta un po' il 'proprium' di questo
istituto. Ci sono poche ipotesi nel nostro ordinamento in cui vengono
sanzionati illeciti di pericolo e questa è una delle hp, l'art 1171. Questa
situazione di pericolo/danno deve derivare da un edificio, albero o altra cosa.
L'esempio classico è l'albero piantato sul fondo del vicino che si è piegato e
che rischia di cadere sul fondo di chi agisce. Si fa riferimento ad un danno
grave, differentemente dall'altra disposizione (ma attenzione non è il danno
irreparabile), e prossimo, quindi non è necessario che il danno si sia già
verificato.

Il punto interessante è anche il contenuto del provvedimento, perché qua il


legislatore non lo ha tipizzato, ma ha rimesso alla valutazione discrezionale del
giudice l'individuazione del contenuto del provvedimento. Si dice infatti che “può
denunziare all'autorità giudiziaria e ottenere che sia ovviato il pericolo”, quindi sarà
il giudice a dover determinare il contenuto del pericolo. Questa espressione è
molto simile a quella che ritroveremo nell'art 700, nel provvedimento d'urgenza,
che abbiamo detto si connota per la sua totale atipicità.

Il contenuto del provvedimento può essere totalmente anticipatorio. Tornando


all'esempio dell'albero piegato, il giudice può ordinare l'abbattimento immediato
dell'albero. È una misura molto incisiva e che può produrre effetti esecutivi
irreversibili, perché, una volta che l'albero è stato abbattuto, anche se risulta che il
provvedimento è stato emanato in assenza dei presupposti, non ci sarà modo di
ripristinarlo.

Anche questo provvedimento amplia molto la tutela che l'ordinamento offre alla
proprietà e agli altri diritti reali di godimento. Se noi mettiamo insieme la denuncia
di nuova opera, la denuncia di danno temuto e tutte le azioni esercitabili a tutela di
queste situazioni giuridiche nell'ambito del processo a cognizione piena, ci
rendiamo conto che la proprietà e gli altri diritti reali di godimento possono
veramente ottenere una tutela effettiva, perché il legislatore ha predisposto tutti i

112
possibili strumenti per poter rispondere a tutte le possibili crisi di cooperazione.
Addirittura, nell'art 1172, è intervenuto per consentire la sanzione di una situazione
di pericolo di danno. Quello che si è rilevato da parte della dottrina più sensibile è
che ci sono attualmente anche altre situazioni giuridiche con riferimento alle quali
sarebbe importantissimo prevedere queste stesse forme di tutela. Pensiamo ai
diritti di libertà o ai diritti della personalità, sono situazioni che hanno rilevanza
costituzionale e sono situazioni con riferimento alle quali qualsiasi violazione causa
un pregiudizio irreparabile, ossia un pregiudizio che non può essere riparato nelle
forme dell'equivalente monetario. Si tratta di situazioni che hanno una struttura
analoga alla proprietà perché sono diritti ccdd assoluti. Abbiamo visto nel primo
semestre, quando abbiamo parlato della tutela di condanna, che possiamo
ritenere che anche con riferimento a queste situazioni che hanno un contenuto e
una funzione non patrimoniale, il legislatore abbia predisposto un sistema che
consenta di ottenere forme di tutela repressiva (volta ad eliminare gli effetti di
violazione già verificatesi), ma anche una tutela preventiva o inibitoria (volta ad
evitare che nel futuro le violazioni vengano ripetute). Quello che questa dottrina più
sensibile rileva è che sarebbe importante prevedere, anche con riferimento a
queste situazioni, un provvedimento cautelare idoneo ad anticipare la soglia di
tutela e quindi poter ottenere un provvedimento anche inibitorio che prescinda dal
fatto che si sia verificata la violazione, che anticipi la soglia di tutela, in modo da
evitare che si verifichi anche la prima violazione, poiché anche solo la prima
violazione può essere causa di un pregiudizio irreparabile.

PROVVEDIMENTI DI ISTRUZIONE PREVENTIVA

Si tratta di misure cautelari dirette a tutelare il diritto alla prova. Attraverso questi
provvedimenti si vuole evitare che la parte perda un mezzo di prova. Si capisce la
differenza rispetto alle altre misure cautelari, che erano tutte strumentali alla tutela
di situazioni sostanziali quali il diritto ad ottenere una somma di denaro, la
proprietà, il possesso ecc. Qui invece si vuole tutelare un diritto di marca
processuale.

Le ipotesi più importanti sono disciplinate nella sezione IV del quarto libro del
CPC, dedicato ai procedimenti di istruzione preventiva. Sono:

1. assunzione di testimoni art 692

2. accertamento tecnico e ispezione giudiziale art 696

Altri esempi di provvedimenti di istruzione preventiva si ritrovano per esempio


nell'ambito degli articoli 752 ss cpc in tema di apposizione di sigilli nei
procedimenti relativi all'apertura delle successioni, come si rinvengono nell'ambito
della legge sui brevetti per invenzioni industriali, nella legge sui brevetti per i
marchi d'impresa, nella legge sul diritto d'autore laddove si prevedono
provvedimenti di descrizione degli oggetti prodotti in violazione dei diritti tutelati.

113
Leggiamo le disposizioni del cpc. L'art 692 prevede che “Chi ha fondato motivo di
temere che siano per mancare uno o più testimoni, le cui deposizioni possono
essere necessarie in una causa da proporre, può chiedere che ne sia ordinata
l'audizione a futura memoria”;

mentre l'art 696 prevede, in tema di accertamento tecnico e ispezione giudiziale


che “Chi ha urgenza di far verificare, prima del giudizio, lo stato di luoghi o la
qualità o la condizione di cose, può chiedere, a norma degli articoli 692 e seguenti,
che sia disposto un accertamento tecnico o un'ispezione giudiziale”.

Dalla lettura di queste disposizione appare evidente l'individuazione del periculum


in mora: nell'hp dell'assunzione di testimoni si vuole evitare che la parte perda il
testimone, ad es perché si tratta di una persona gravemente malata, un malato
terminale, che potrebbe non essere più vivo nel momento in cui il giudice
ammetterà la prova testimoniale nel corso del processo a cognizione piena;
mentre nell'hp dell'accertamento tecnico e ispezione giudiziale quello che si vuole
evitare è il rischio di perdere il mezzo di prova, ad esempio perché si teme che lo
stato dei luoghi possa essere alterato, pensate al luogo in cui si è verificato un
sinistro stradale di cui occorre rilevare lo stato per ricostruire la dinamica del
sinistro stesso, oppure pensate all'hp in cui si chieda l'ispezione di merci che sono
deperibili, che potrebbero alterarsi a causa del decorso del tempo.

Quanto invece al fumus bonis iuris qui le misure cautelari sono volte a tutelare un
diritto di marca processuale che è il diritto alla prova. Si vuole cioè garantire che la
testimonianza, la consulenza tecnica e l'ispezione giudiziale non vadano dispersi.

Attraverso il suo provvedimento, il giudice, non anticipa l'accertamento di


esistenza del diritto fatto valere in giudizio né anticipa la decisione sul merito.
L'unica valutazione che deve fare in punto di fumus bonis iuris è quello della
ammissibilità e della rilevanza del mezzo di prova. Infatti se prendiamo l'art 693,
rubricato “istanza”, trovate scritto che “l'istanza si propone con ricorso”, e poi al c.
3 che “il ricorso deve contenere non soltanto l'indicazione dei motivi dell'urgenza e
dei fatti sui quali devono essere interrogati i testimoni, ma anche l'esposizione
sommaria delle domande o eccezioni alle quali la prova è preordinata”. Questa
indicazione è proprio strumentale alla possibilità per il giudice di valutare la
rilevanza del mezzo di prova.

In base all'art 699 l'istanza di istruzione preventiva può essere proposta anche in
corso di causa come anche nell'ambito del processo che è stato interrotto o
sospeso, e il giudice provvede con ordinanza. In queste hp non sarà necessaria
l'indicazione sommaria delle domande o eccezioni a cui la prova è preordinata.

Una volta che il giudice avrà accolto l'istanza, si procede all'assunzione della
prova. L'art 698 prevede che: “Nell'assunzione preventiva dei mezzi di prova si
applicano in quanto possibile gli artt 191 ss”, quindi le prove vengono assunte
secondo le regole dettate dal cpc (previste per il processo a cognizione piena) e
soltanto laddove non sia possibile procedere in queste modalità, allora si prevede
la possibilità di derogare a queste disposizioni. Una volta che la prova è stata

114
assunta, verrà redatto il processo verbale a norma dell'art 207.

Quanto all'effetto dell'assunzione preventiva, l'art 698 c.2 prevede che


“l'assunzione preventiva dei mezzi di prova non pregiudica le questioni relative alla
loro ammissibilità e rilevanza, né impedisce la loro rinnovazione nel giudizio di
merito”. Quindi la circostanza che sia stato concesso il provvedimento di
istruzione preventiva, e che quindi queste prove siano state acquisite, non toglie
che poi il giudice del processo a cognizione piena debba ripetere la valutazione di
ammissibilità e rilevanza e soltanto se questa valutazione ha un esito positivo,
allora acquisirà i verbali. Fermo restando che laddove è possibile il giudice del
merito potrà comunque disporre la rinnovazione nel giudizio di merito. Quindi per
esempio, se il testimone non è morto ma è ancora vivo, il giudice può decidere di
ascoltarlo in udienza.

Infine una piccola notazione su un istituto particolare il cui art di riferimento è l'art
696 bis. Si tratta di un articolo che è stato inserito soltanto attraverso la tecnica
della novellazione nel 2005. Si tratta di una forma di consulenza tecnica preventiva
diversa rispetto a quella disciplinata nell'art 696. La norma stabilisce infatti che
l'espletamento di una consulenza tecnica in via preventiva può essere richiesto
anche al di fuori delle condizioni di cui al c.1 dell'art 696, quindi ci si muove al di
fuori delle situazioni di urgenza cui si correla la possibilità di chiedere
l'accertamento tecnico o l'ispezione giudiziale in base all'art 696 ai fini
dell'accertamento e della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla
mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito. Il
giudice, in base al c.3 dell'art 696, dovrà nominare il consulente e questi redigerà
una relazione. Tuttavia l'ultima parte del c.1 afferma che “prima di provvedere al
deposito della relazione, tenta ove possibile la conciliazione delle parti”: se le parti
si conciliano viene redatto un processo verbale della conciliazione a cui, in base al
c.3, il giudice attribuisce con decreto efficacia di titolo esecutivo ai fini
dell'espropriazione, dell'esecuzione in forma specifica e per l'iscrizione di ipoteca
giudiziale; invece se la conciliazione non riesce, ciascuna parte può richiedere che
la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio
di merito. Si tratta di un istituto completamente diverso perché lo scopo che si
persegue qui è quello di consentire alle parti di ottenere attraverso questa
consulenza un accertamento dei fatti. Lo si può fare solo con riferimento a diritti
aventi ad oggetto crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di
obbligazioni contrattuali o da fatto illecito, a fine di spingere le parti a conciliarsi. È
quindi uno strumento alternativo di risoluzione delle controversie, è un mezzo
deflattivo. Ci sono inoltre degli studi che vorrebbero generalizzare questo rimedio,
in particolare con riferimento a determinate controversie che si giocano tutte
sull'accertamento dei fatti, un accertamento ante causam dei fatti in modo da
costringere le parti a trovare un accordo.

SEQUESTRO GIUDIZIARIO DI PROVE

115
Quando abbiamo parlato del sequestro giudiziario art 670, abbiamo lasciato da
una parte l'hp di cui al n.2. Quindi il sequestro giudiziario non di beni ma di libri,
registri, documenti e modelli o di ogni altra cosa dalla quale si intende presumere
elementi di prova. Come si desume dalla lettura della disposizione, i presupposti
cui è subordinato il rilascio di questa misura cautelare sono:

1. sussistenza di una controversia in ordine al diritto all'esibizione o alla


comunicazione. Lo dice espressamente la norma quando afferma che deve
essere controverso il diritto alla esibizione o alla comunicazione.

2. Opportunità di provvedere alla loro custodia temporanea. Evidentemente per


evitare che questi documenti vengano distrutti, deteriorati o dispersi.

3. Idoneità dei documenti a fornire elementi di prova. Il giudice deve valutare,


sia pure sommariamente, che la prova che si intende assumere sia rilevante
ai fini dell'esistenza o non esistenza del diritto che si intende far valere nel
processo.

Questo sequestro giudiziario si attua nella forme dell'art 677, quindi può essere
attuato coattivamente attraverso l'esecuzione forzata in forma specifica
dell'obbligo di consegna o rilascio.

È un istituto che crea da sempre grossissimi problemi. La natura di questi problemi


la si coglie ripensando a quanto ci siamo detti con riferimento all'ordine di
esecuzione documentale art 210 cpc. Vi ricordate che il giudice su istanza di parte
può ordinare l'esibizione di documenti espressamente indicati. Il problema che
abbiamo segnalato è che, in base alla disciplina vigente, questo ordine non è
suscettibile di essere eseguito se la parte destinataria non ottempera. Le
conseguenze che l'ordinamento correla alla mancata ottemperanza dell'ordine del
giudice sono:

· se il destinatario dell'ordine è una parte → il rifiuto costituisce argomento di


prova

· se l'ordine è rivolto ad un terzo → l'inottemperanza comporta una esigua


sanzione pecuniaria.

Il problema nasce proprio dal confronto fra questi due istituti, perché nell'hp in cui
venga rilasciato un sequestro giudiziario di documenti (che presuppone l'esistenza
dei requisiti prima citati) è possibile ottenere un sequestro giudiziario di documenti,
quindi che i documenti vengano affidati in custodia ad un terzo il quale, una volta
risolta la controversia relativa al diritto all'esibizione, diventerà il destinatario
all'ordine del giudice e siccome ha assunto la responsabilità del custode, dovrà
dare attuazione all'ordine del giudice. Quindi soltanto in presenza di questi
presupposti,

- controversia sul diritto all'esibizione

- pericolo di una distruzione, deterioramento o dispersione dei documenti.

116
L'ordinamento mette a disposizione delle parti uno strumento che consente di
dare attuazione all'ordine di esibizione. Mentre invece, laddove questi presupposti
non ricorrano, non esiste uno strumento per dare attuazione coattiva all'ordine di
esibizione.

La contraddizione è evidentemente.

La giurisprudenza talvolta ha affermato che è proprio laddove la parte si rifiutai di


ottemperare all'ordine di esibizione emanato dal giudice emanato su istanza della
controparte ai sensi dell'art 210, che può dirsi esistente una controversia relativa al
diritto all'esibizione. Quindi è proprio in questa situazione che la parte che ha
chiesto l'esibizione può chiedere il sequestro giudiziario di documenti e quindi
assicurarsi l'esecuzione coattiva dell'ordine del giudice. Tuttavia, questa
interpretazione risulta molto forzata poiché quando si parla di controversie al
diritto all'esibizione si fa riferimento a situazioni molto diverse, cioè si fa riferimento
a situazioni in cui c'è un diritto della parte istante sul documento, pensiamo ad es
al socio che vuole ottenere l'esibizione dei registri della società.

È poi una soluzione parziale poiché il rilascio della misura cautelare è sempre
subordinato al rischio della distruzione/deterioramento dei documenti, quindi non
potrebbe essere utilizzato nei casi in cui ci sia una controparte semplicemente che
non li fa vedere questi documenti. Allora secondo il professor Proto Pisani questa
contraddizione potrebbe essere risolta soltanto lavorando su due versanti:

· per un verso, cercando di ricostruire in maniera di versa il regime e la


disciplina dell'ordine di esibizione documentale, cercando di irrigidire le
conseguenze legate alla mancata ottemperanza all'ordine del giudice
ritenendo quindi che: se l'ordine è rivolto alla parte e questa rifiuta, questo
rifiuto abbia sì il rilievo dell'argomento di prova, ma si possa interpretare tale
rifiuto secondo quanto previsto dall'art 232 cpc in hp di mancata risposta
all'interrogatorio formale, quindi che il giudice possa ritenere ammesso il
fatto; mentre invece, nel caso in cui l'ordine sia rivolto ad un terzo, si possa
utilizzare una forma di esecuzione coattiva ricostruita sulla falsariga di
quanto previsto per i testimoni che si rifiutano di comparire, quindi una sorta
di accompagnamento coattivo;

· dall'altro occorrerebbe ritenere invece che attraverso il sequestro giudiziario


di documenti si possa ottenere lo spossessamento del destinatario dei
documenti e l'affidamento degli stessi ad un custode, dopodiché però si
deve ritenere che il custode assuma semplicemente un obbligo di custodire i
documenti (preservarli) e che l'ordine del giudice non possa essere rivolto al
custode, con la conseguenza che: se originariamente i documenti erano
nelle mani della parte, sarà questa a dover autorizzare il custode ad esibire i
documenti e, laddove non lo faccia, la conseguenza è che il giudice potrà
ritenere ammessi i fatti; se invece originariamente questi documenti erano
nelle mani di un terzo, sarà questo ad obbligare il custode ad esibire i

117
documenti e, se non lo fa, si potrà procedere attraverso questa forma di
esecuzione coattiva disegnata sulla falsariga dell'accompagnamento
coattivo dei testimoni.

SECONDA PARTE

Proseguiamo la disanima delle misure cautelari ed esaminiamo i


PROVVEDIMENTI D’URGENZA: art.770 c.p.c. Vedete che è l’unica norma che
compone la Sezione V del Capo III del Libro IV del codice di procedura civile,
Capo III dedicato ai procedimenti cautelari. Abbiamo richiamato più volte l’art.770,
abbiamo detto che è la norma di chiusura del sistema cautelare messo a punto dal
legislatore italiano. Il legislatore del 1942 disegnò un sistema di misure cautelari
TIPICHE ponendo l’art.700 come norma di chiusura. Nell’ottica del legislatore del
1942 l’art.700 doveva essere lo strumento, l’istituto, per il cui tramite andare a
coprire le esigenze cautelari di tipo marginale, di tipo episodico, quelle situazioni
cioè che emergevano saltuariamente e che per questo non rientravano nell’ambito
delle misure cautelati tipiche. Infatti la caratteristica principale dell’art.700, ciò che
ci consente di distinguerlo da tutte le altre misure cautelari è l’alto tasso di
ATIPICITÀ che lo connota. Atipicità che riguarda sia i presupposti sia il contenuto
della misura. Con riferimento ai presupposti è sufficiente leggere la disposizione
per rendersi conto che il legislatore non ha dato nessuna indicazione né in punto di
fumus boni iuris né in punto di periculum in mora e infatti la disposizione prevede
che “fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato
motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via
ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può
chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti di urgenza, che appaiono, secondo
le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione
sul merito”. Come vedete, come abbiamo verificato con riferimento alle altre
misure cautelari, non si fa riferimento a una situazione sostanziale tipica, ad
esempio il diritto ad ottenere il pagamento di una somma di denaro, il diritto ad
ottenere la consegna del bene, la proprietà, il possesso, la titolarità di un altro
diritto reale di godimento. Quindi sulla carta l’art.700 può essere usato in
riferimento a qualsivoglia situazione di diritto, anche se sul termine “diritto” mi
riservo di tornare nel prosieguo della lezione. Quindi l’art.700 dà attuazione a livello
cautelare alla atipicità del diritto di azione che abbiamo detto è solennemente
sancita dall’art.24 co.1 Cost. laddove afferma che “tutti possono agire in giudizio
per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. Questo è importante soprattutto
alla luce di quanto ha affermato la Corte Costituzionale nella già richiamata
sentenza 190/1985 laddove ha sostenuto e riconosciuto che la tutela cautelare,
nella parte in cui è volta ad evitare un pregiudizio irreparabile, è
costituzionalmente doverosa. Quindi il carattere atipico dell’art.700, che come
vedete è proprio chiamato a evitare “un pregiudizio imminente e irreparabile”, è
condizione necessaria vista la funzione costituzionalmente doverosa che è
chiamato a svolgere. L’art.700 rappresenta una grossa novità del codice del 1942
118
perché nel sistema previgente, nel sistema del codice del 1865, non esisteva una
norma di questo tipo, il sistema cautelare era un sistema di misure tipiche. Fu
Giuseppe Chiovenda ad elaborare in via di interpretazione sistematica l’esistenza
di un provvedimento cautelare di carattere generale in cui tutte le valutazioni, sia in
ordine ai presupposti sia in ordine al contenuto, fossero rimesse alla discrezionalità
del giudice e la teoria di Chiovenda è stata poi recepita dal codice di procedura
civile del 1942 sotto la spinta di insigni processualcivilisti, come Piero
Calamandrei, che presero parte ai lavori preparatori del codice di procedura.
Abbiamo già sottolineato che l’art.700 ben presto ha visto ribaltata la propria
posizione perché da norma marginale, da norma chiamata ad entrare in gioco in
situazioni episodiche, abbiamo detto è diventata l’asse portante del sistema di
tutela cautelare italiano. Abbiamo anche cercato di spiegare questo ribaltamento
rilevando come già l’entrata in vigore della Carta costituzionale aveva segnato un
ribaltamento nei valori dell’ordinamento italiano perché è una carta che dà
rilevanza a situazioni come le libertà personali, i diritti della personalità, che invece
sotto l’egida dello Statuto Albertino non erano neppure menzionate, il diritto per
eccellenza era il diritto di proprietà. Abbiamo poi rilevato che il legislatore
sostanziale non ha tenuto il passo con lo sviluppo della società e il legislatore non
ha pensato, non è intervenuto, a dettare, a prevedere, misure cautelari tipiche con
riferimento a situazioni che di volta in volta sono sorte e a cui doveva essere
riconosciuto rilievo primario in base alla costituzione vigente. Questo ha fatto sì
che ben presto, già a partire dal anni Sessanta, l’art.700 ha visto completamente
cambiato il proprio ruolo perché tutte queste situazioni sostanziali primarie hanno
trovato la propria tutela a livello cautelare proprio in questa norma. Ora, il
legislatore talvolta è intervenuto, ad un certo punto ha previsto con riferimento a
determinate ipotesi misure cautelari tipiche ma non lo ha sempre fatto. Questo ci
consente di mettere a fuoco da una parte l’importanza di questa disposizione ma
dall’altra anche i limiti della stessa. L’importanza l’abbiamo già spiegata: la
circostanza che con riferimento a situazioni sostanziali primarie il legislatore non
abbia previsto un sistema di tutela cautela tipizzato ha fatto sì che l’art.700
potesse rispondere a queste esigenze. Il limite deriva dalla circostanza che
nell’art.700 è il giudice a svolgere il ruolo primario, cioè il giudice si vede chiamato
a svolgere delle valutazioni discrezionali molto importanti non soltanto [parte non
comprensibile] ma anche nel momento in cui va a determinare il contenuto del
provvedimento. Allora è vero che il procedimento cautelare generale prevede che
l’ordinanza del giudice della cautela è suscettibile di controllo, è previsto un mezzo
di impugnazione che è il reclamo cautelare di cui all’art.669-terdecies. Ciò però
non ci esime dal dover sottolineare la pericolosità di questo sistema perché se una
certa esigenza cautelare, oltretutto riferita a una situazione sostanziale primaria,
determinante non un carattere episodico, marginale, ma un carattere continuativo
sarebbe importante un intervento del legislatore attraverso l’inserimento nel
sistema di una misura, di un provvedimento idoneo a soddisfare queste esigenze.
Ricordiamoci anche che il legislatore nella sua discrezionalità è libero di rispondere
a esigenze di questo tipo vuoi con misure cautelari tipiche, così come ha fatto
119
nell’art.446 in tema di assegno, vuoi anche attraverso strumenti diversi, attraverso
ad esempio procedimenti sommari di tipo NON cautelare ma diretti a soddisfare
un’esigenza di effettività della tutela consentendo all’attore di ottenere in tempi
rapidi un provvedimento sommario di tipo anticipatorio e idoneo a stabilizzarsi, ad
acquistare l’immutabilità che abbiamo detto essere caratteristica di questo tipo di
procedimenti sommari. Passiamo adesso all’analisi della disposizione (art.700).
Vedete che nell’incipit della disposizione si ritrova un inciso che esprime il
carattere residuale di questo istituto: “fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni
di questo capo”. Qual è il significato di questa espressione? Questo: l’art.700 non
può essere utilizzato laddove il legislatore ha già previsto un altro strumento per
rispondere alle esigenze della parte istante. Qui, vedete, il legislatore ha fatto
riferimento soltanto alle “altre sezioni di questo capo” quindi c’è un rinvio, stando
alla lettera della disposizione sembra che la riserva di residualità interessi soltanto
le altre misure cautelari disciplinate nel Capo III del Libro IV del codice di
procedura civile quindi sequestro conservativo, sequestro giudiziario, denunzia di
nuova opera e denunzia di danno temuto. In verità è pacifico che la riserva di
residualità sia molto più ampia, quindi che l’art.700 non possa essere utilizzato se
con riferimento alla situazione fatta valere dall’attore è prevista una misura
cautelare che però non si rinviene nelle precedenti sezioni di questo capo ma ha
una diversa collocazione, per esempio si trova nell’ambito del codice civile all’art.
446, oppure si ritrova nell’ambito di una legge speciale, pensate ad esempio alle
misure cautelari previste nelle leggi sui marchi di impresa, sui brevetti industriali,
sul diritto d’autore. Si ritiene altresì che l’art.700 non possa essere utilizzato ove
con riferimento a una determinata situazione il legislatore abbia previsto un
procedimento sommario di tipo non cautelare chiamato ad assolvere a
un’esigenza di effettività della tutela così come avviene ad esempio con riferimento
al concorso nel mantenimento dei figli, procedimento di cui all’art.316-bis del
codice civile, oppure in tema di repressione della condotta antisindacale, art.28
della legge 300/1970. Ancora, è pacifico che l’art.700 non possa essere utilizzato
per sospendere l’efficacia esecutiva o l’esecuzione avviata sulla base di un
provvedimento che è stato impugnato e questo perché l’ordinamento prevede
sempre un sistema di c.d. tutela inibitoria, cioè prevede sempre che il giudice
dell’impugnazione possa sospendere l’efficacia esecutiva o l’esecuzione avviata
sulla base del provvedimento impugnato. Vedremo che questo è previsto per il
giudice dell’appello (artt.283-351), è previsto addirittura per la Cassazione (art.
373), è previsto anche nell’ambito del processo esecutivo e qui faccio un rinvio ai
rimedi di cui agli artt.615-624 del codice di procedura civile, quindi la sospensione
dell’esecutività del titolo esecutivo o dell’esecuzione in sede di opposizione al
precetto o di opposizione all’esecuzione, oppure pensate ad esempio alla
possibilità di sospensione del decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente
esecutivo nel procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo, art.649, ecc. Una
precisazione: nel momento in cui si va a valutare la riserva di residualità occorre
tenere conto non soltanto della situazione sostanziale con riferimento alla quale la
tutela viene invocata ma occorre anche considerare il periculum in mora che si
120
vuole evitare. Pensate a quanto vi avevo già spiegato in tema di sequestro
conservativo: questo si è detto essere una misura cautelare posta a tutela del
diritto di credito avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro ma è
volto ad evitare che cosa? Un periculum da infruttuosità pratica della sentenza.
Quindi si vuole evitare che il creditore, nel momento in cui ottiene il provvedimento
di condanna, non rinvenga beni su cui agire esecutivamente nel patrimonio del
debitore. Vi dissi però che laddove il titolare del diritto di credito aveva esigenza di
ottenere un provvedimento anticipatorio, quindi di ottenere un provvedimento
cautelare che lo tenesse a riparo da un periculum da tardività, il sequestro
conservativo non gli serviva a niente perché l’effetto del sequestro conservativo è
quello di creare un vincolo di indisponibilità sui beni che ne costituiscono l’oggetto
e questo vincolo di indisponibilità non serve a chi ha esigenza di ottenere
l’immediato pagamento delle somme di denaro, perché magari si tratta di una
situazione sostanziale che ha sì un contenuto patrimoniale ma una funzione NON
patrimoniale. Infatti quando il titolare del diritto ad ottenere il pagamento di una
somma di denaro ha bisogno di un provvedimento sommario di tipo anticipatorio
con l’art. 700 lo potrà chiedere perché il sequestro conservativo non gli serve a
niente. Quindi la riserva di residualità va valutata attentamente tenendo conto non
soltanto del fumus boni iuris ma anche del periculum in mora che le misure
cautelari tipiche sono chiamate ad evitare.

Infine una piccolissima nota con riferimento agli istituti della trascrizione della
domanda giudiziale. Vi avevo già sottolineato che la trascrizione della domanda
giudiziale svolge una funzione cautelare perché è uno degli effetti sostanziali della
domanda giudiziale diretto ad evitare che la durata del processo a cognizione
piena vada a danno dell’attore cha ha ragione facendo retroagire gli effetti della
sentenza di accoglimento alla data della trascrizione. Vi avevo già fatto notare che
in base alla disciplina contenuta nell’art.2668 del codice civile la trascrizione della
domanda, in ipotesi in cui la domanda venga rigettata, può essere chiesta soltanto
a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di rigetto e questa vi ho detto è
una disciplina che è in contrasto con quella del procedimento cautelare generale
perché l’art.669-novies dice che anche la sentenza di primo grado di rigetto della
domanda determina l’inefficacia della misura cautelare. Ora, la trascrizione di una
domanda giudiziale può essere fonte di un grosso pregiudizio per chi la subisce ed
è per questo motivo che gli avvocati spesso chiedono, attraverso l’art.770, quindi
in via d’urgenza, un provvedimento anticipatorio che ordini la cancellazione della
trascrizione della domanda giudiziale. Questa è una questione aperta e molto
problematica. Una questione analoga si pone con riferimento all’iscrizione
dell’ipoteca giudiziale perché la disciplina dettata nell’art.2884 ricalca quella della
trascrizione della domanda giudiziale.

Torniamo al testo dell’art.700. C’è un riferimento al tempo occorrente per far valere
il diritto in via ordinaria ed è pacifico che qui si faccia riferimento al processo a
cognizione piena ma è indifferente la questione relativa al SE questo processo si
svolga nelle forme del rito ordinario oppure nelle forme del rito lavoro. Il riferimento
è a tutti i processi a cognizione piena a prescindere dal rito a cui sono soggetti.

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Vorrei adesso soffermarmi sulla espressione “diritto” che troviamo richiamata
nell’art.700. Il termine “diritto” lo dobbiamo interpretare in senso ampio come
comprensivo non soltanto delle situazioni di diritto soggettivo ma di qualsiasi
situazione giuridicamente rilevante. Infatti se nella sua origine storica la
circostanza che l’art.700 escludesse l’interesse legittimo poteva avere un
significato adesso non lo ha più. Non lo ha più alla luce di tutto quanto ci siamo
detti parlando della vicenda che aveva preceduto la sentenza della Corte
Costituzionale 190/1985. A seguito della dichiarazione della sentenza della Corte
che ha innestato l’art.700 nel processo amministrativo abbiamo già ricordato che
la legge 205/2000 aveva modificato l’art.21 della legge istitutiva del TAR, la legge
1034/1971, estendendo al processo amministrativo l’art.700. Oggi l’art.55 del
codice del processo amministrativo ha disegnato il sistema cautelare del processo
amministrativo sulla falsariga dell’art.700, quindi ha creato un sistema basato su
un’unica misura atipica che è stata disegnata proprio sul testo dell’art.700.

Passiamo adesso all’analisi del requisito del “pregiudizio irreparabile”. Questa è la


parte della disposizione che ha tenuto maggiormente impegnati gli interpreti. Al di
là di tutte le tesi che sono state prospettate al riguardo, l’interpretazione preferibile
è quella di chi ha richiamato l’attenzione sulla circostanza che la nozione di
irreparabilità del pregiudizio deve essere ricostruita partendo non soltanto dal
diritto a cautela del quale la misura viene chiesta ma soprattutto della persona, di
colui che è titolare del diritto a cautela del quale la misura deve essere richiesta.
Qui possiamo richiamare considerazioni che ci sono più che familiari e ritenere
quindi che un pregiudizio irreparabile possa sicuramente prospettarsi laddove c’è
la violazione o la minaccia di una violazione di un diritto che ha contenuto e
funzione non patrimoniale. Ancora una volta si tratta dei diritti della personalità
quali il diritto al nome, il diritto all’immagine, il diritto allo pseudonimo, ma anche il
diritto alla riservatezza, il diritto all’identità personale, oppure le situazioni di libertà
a partire dal diritto alla salute. Parimenti si ha sicuramente il pregiudizio irreparabile
se si ha la violazione o la minaccia di violazione di situazioni giuridiche che hanno
un contenuto patrimoniale ma funzione non patrimoniale. Per cui si tratta di
violazioni che se lasciate insoddisfatte lungo tutto il tempo di svolgimento del
processo a cognizione piena possono causare a chi ne è titolare un pregiudizio
irreparabile. Questo perché si tratta di situazioni che sono strumentali ad
assicurare la sopravvivenza della stessa persona oppure il soddisfacimento di
bisogni primari: si pensi ad esempio al diritto al mantenimento, al diritto alla
retribuzione, al diritto del lavoratore illegittimamente licenziato o trasferito di essere
reintegrato nel posto di lavoro. Mentre invece possiamo sicuramente escludere il
pregiudizio irreparabile in ipotesi di violazione o minaccia di violazione di situazioni
giuridiche che hanno contenuto e funzione patrimoniale. Poi diciamo che c’è una
zona particolare: ci sono situazioni giuridiche he pur avendo un contenuto e una
funzione patrimoniale sono situazioni complesse per cui tra il danno che la parte
subisce, ovvero che la parte subirebbe se il diritto fosse lasciato insoddisfatto
lungo tutto il tempo dello svolgimento del processo a cognizione piena, e il danno
che potrebbe essere risarcito rischia di esserci uno scarto eccessivo. Si tratta di
122
settori complessi come il diritto societario, la materia degli appalti, la concorrenza
sleale, ed è la complessità di queste materie che spiega lo scarto che può esserci
fra danno subito e danno risarcito. Era un settore che era stato evidenziato dal
professor Andrioli e con riferimento al quale è possibile paventare l’esistenza di
pregiudizi irreparabili. Accanto a queste ipotesi ritratta di prendere atto di una serie
ulteriore di orientamenti giurisprudenziali. La giurisprudenza per esempio ritiene
che si può parlare di pregiudizio irreparabile, e quindi rilascia l’art.700, in ipotesi in
cui il titolare della proprietà o di altro diritto d godimento ha urgenza di invadere la
sfera possessoria altrui per esercitare una facoltà che gli è attribuita dalla legge o
dal contratto e non possa utilizzare i provvedimenti possessori perché ne mancano
i presupposti. L’esempio tipico è quello del conduttore che ha esigenza di passare
attraverso la proprietà altrui per attivare un impianto di riscaldamento che è
centralizzato, oppure il diritto del locatore di far visitare l’appartamento a terzi
nell’imminenza della scadenza del contratto. Qui si tratta di ipotesi, se vogliamo,
dubbie, cioè il dubbio relativo al se si possa parlare di un pregiudizio irreparabile è
legittimo. Ma la giurisprudenza non ha fatto altro che applicare in via analogica un
principio che emerge da una serie di disposizioni in cui il legislatore pone tra i fatti
costitutivi di un determinato diritto o di una facoltà il requisito dell’urgenza, ad
esempio l’art.1583 c.c. che attribuisce al locatore il diritto di effettuare le
riparazioni, anche se vanno ad incidere sul godimento della cosa locata, laddove si
tratti di riparazioni indifferibili, riparazioni che non possono cioè essere rinviate ad
un momento successivo alla scadenza del contratto. Si tratta di prendere atto di
indirizzi che sono, diciamo, assolutamente costanti.

C’è poi il requisito della imminenza: la norma parla di un “pregiudizio imminente e


irreparabile”. Il requisito della imminenza intanto non ha mai giocato un ruolo
determinante nella delimitazione dell’ambito applicativo dell’art.700. Sicuramente
dal momento in cui si fa riferimento a un pregiudizio anche solo imminente il
procedimento urgente può essere chiesto non soltanto quando la violazione si è
già verificata ma anche quando la violazione è vicina, è incombente, è imminente.
Allora da una parte questa espressione, “pregiudizio imminente”, conferma che
l’art.700 può essere utilizzato anche per rilasciare una tutela sommaria urgente di
tipo preventivo, infatti è chiaro che il provvedimento urgente non è chiamato ad
assolvere soltanto una funzione repressiva, non interviene soltanto per eliminare gli
effetti di una violazione che si è già verificata, ma può essere utilizzato anche a
scopo preventivo, cioè per impedire una violazione, per impedire la continuazione
di una violazione. Infatti l’art.700 ha giovato un ruolo molto importante in anni in
cui vi era una grossa incertezza in ordine al carattere tipico o atipico della tutela
inibitoria. Quando abbiamo parlato della tutela di condanna con riferimento al
processo a cognizione piena abbiamo detto che per anni è stata aperta la
questione relativa al se la tutela inibitoria, quindi un provvedimento di condanna
avente ad oggetto un ordine di non fare, potesse essere chiesta soltanto nelle
ipotesi previste dalla legge oppure con riferimento a tutte le situazioni giuridiche
trattandosi di una forma di tutela generale e atipica. Ecco, se con riferimento al
processo a cognizione piena per molti anni c’è stato un dibattito aperto e quindi
123
non tutti erano convinti del carattere atipico di questa forma di tutela, con
riferimento all’art.700 invece dubbi non ce ne sono stati. Quindi c’era un momento
storico in cui attraverso l’art.700 si riusciva ad ottenere più di quanto si otteneva
attraverso il processo a cognizione piena. Quanto al contenuto del provvedimento
di urgenza vedete che l’art.700 non dà alcuna indicazione perché prevede che
sarà il giudice ad adottare i provvedimenti che appaiono secondo le circostanze
più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito. Il più
delle volte l’art.700 ha un contenuto anticipatorio. Si chiede infatti, di solito, il 700
per evitare un pregiudizio da tardività. Si deve però dire che, stante la lettera
dell’art.700, non è escluso che il provvedimento urgente possa avere un contenuto
conservativo sebbene a livello pratico si debba rilevare che il nostro ordinamento
prevede molte misure cautelari conservative che sono idonee a soddisfare quasi
sempre l’esigenza di assicurare la fruttuosità pratica della futura sentenza. Tuttavia
è bene anticipare subito che nonostante l’art.700 sia un provvedimento con
riferimento al quale il legislatore non ha dato indicazioni sul contenuto il nostro
legislatore lo ha annoverato fra i provvedimenti c.d. anticipatori e come tale è
soggetto alla disciplina dei provvedimenti anticipatori e quindi al nesso di
strumentalità c.d. attenuato. Una questione interessante che si è posta è quella
relativa al se il provvedimento urgente possa avere un contenuto di mero
accertamento. Questa domanda non ha sempre trovato la stessa risposta: taluno
ha sostenuto che le esigenze di certezza che stanno alla base di una domanda
avente ad oggetto il mero accertamento di esistenza di un diritto non sono
soddisfatte da un provvedimento che in quanto cautelare è provvisorio e quindi
privo di qualsiasi attitudine ad acquistare l’autorità della cosa giudicata; altri hanno
invece sostenuto che in verità anche un provvedimento urgente avente un
contenuto meramente dichiarativo attribuisce al ricorrente una utilità nella parte in
cui può incidere sulla possibilità di configurare il dolo della controparte, dolo che
poi potrà avere rilevanza nel momento in cui si va a liquidare il risarcimento del
danno. Il provvedimento urgente, tornando alle origini del nostro discorso, è quindi
una parte importante del sistema di tutela offerto dal nostro ordinamento, abbiamo
visto che la Corte Costituzionale nel 1985 l’ha dichiarata costituzionalmente
doverosa. Ciò detto non possiamo nascondere la pericolosità di questo strumento,
pericolosità legata al fatto che attraverso un provvedimento urgente è possibile
ottenere una misura che incide profondamente sul destinatario. Pensate ad un
provvedimento urgente di condanna al pagamento di una somma di denaro, anche
consistente, che essendo immediatamente esecutiva costringerà il convenuto a
pagarla volontariamente o coattivamente. Pensate alle ipotesi in cui attraverso il
provvedimento urgente si ottiene una misura che è attuata in maniera puntuale
attraverso un unico atto che produce effetti pesanti, effetti per la cui rimozione si
rende necessario adottare una serie di azioni recuperatorie, una serie di azioni
risarcitorie che però non riescono a ripristinare del tutto lo status quo ante. Oppure
pensate che quando si emana un provvedimento urgente a tutela di una situazione
di libertà spesso e volentieri si va ad incidere sulla libertà di altri per cui se poi il
provvedimento è ingiusto chi l’ha subito ha subito un pregiudizio irreparabile.
124
Quindi è chiaro che è uno strumento costituzionalmente doveroso ma anche
intrinsecamente pericoloso. Allora come si fa a limitare questa pericolosità?
Innanzitutto dobbiamo ricordare l’istituto della cauzione che è un istituto di
controcautela che il legislatore del 1990 ha generalizzato nell’art.669-undecies:
abbiamo però già detto che questo è uno strumento che ha dei limiti perché non
può essere utilizzato a danno di soggetti che non sono abbienti e quindi non sono
in grado di depositare la somma di denaro richiesta dal giudice. Uno strumento
sicuramente importante per comprimere la pericolosità dell’istituto sarebbe quello
di ridurre per quanto possibile il carattere sommario perché superficiale della
cognizione del giudice in modo da evitare al massimo la possibilità che il
provvedimento venga revocato da parte dello stesso giudice della cautela oppure
da parte del giudice del reclamo o da parte del giudice del processo a cognizione
piena. La terza cautela sarebbe quella di imporre sempre al giudice una
valutazione comparativa fra il danno che la parte istante subirebbe se il
provvedimento non fosse concesso e il danno che subisce invece il convenuto
laddove invece il provvedimento è concesso e quindi ritenere che il
provvedimento, posto che il danno della parte istante deve essere sempre
irreparabile, debba sempre essere concesso se la parte istante richiede il
provvedimento a cautela di un diritto che ha un contenuto e una funzione non
patrimoniale e la controparte invece sia portatrice di un diritto che ha un contenuto
e una funzione patrimoniale, mentre invece laddove sia il diritto della parte istante
sia il diritto su cui va ad incidere il provvedimento del convenuto abbiano entrambi
contenuto e/o funzione non patrimoniale o contenuto prevalentemente
patrimoniale allora il provvedimento dovrà essere concesso solo se il danno
dell’istante risulta maggiore di quello del convenuto. Infine ulteriore cautela:
sarebbe importante nel momento in cui il giudice va a stabilire il contenuto della
misura cautelare modellarla in maniera tale da evitare il pregiudizio irreparabile alla
parte istante ma limitando al minimo il rischio che questo provvedimento produca
degli effetti irreversibili nella sfera del destinatario e questo è possibile, in parte,
attraverso l’emanazione di provvedimenti che sono parzialmente anticipatori di
quanto viene richiesto dalla parte istante, per cui se viene richiesta la condanna al
pagamento di una somma di denaro si limita la pericolosità dell’istituto se il
giudice concede un’anticipazione parziale, di una parte, dell’itera somma che è
stata richiesta. Questa pericolosità dell’art.700 non deve essere utilizzata per
diminuire quando detto precedente ovvero l’importanza di questo procedimento
per attribuire una tutela effettiva situazioni sostanziali che hanno un contenuto e
una funzione patrimoniale come i diritti della personalità e le libertà fondamentali
che oltretutto hanno anche rilevanza costituzionale. Si tratta di situazioni
sostanziali che abbiamo detto riproducono lo schema del diritto assoluto, per cui a
fronte della posizione attiva c’è generalmente un divieto di astensione che grava
su tutti i consociati o su un gruppo di essi, per cui si tratta di situazioni sostanziali
che sono suscettibili di essere violate reiteratamente, quindi in maniera
continuativa nel tempo. D’altra parte avendo un contenuto e una funzione non
patrimoniale ogni violazione causa all’avente diritto un pregiudizio irreparabile. Da
125
qui l’esigenza di apprestare tecniche ti tutela che impediscano il verificarsi della
violazione o che intervengano nell’immediatezza della violazione. A tale scopo
certamente il processo a cognizione piena non è in grado di rispondere
pienamente a queste esigenze anche laddove si ottengono, attraverso lo stesso
processo a cognizione piena, si ottengono provvedimenti di condanna non
soltanto repressiva ma anche preventiva e quindi a contenuto inibitorio. È
indispensabile prestare una tutela effettiva a situazioni di questo tipo, la possibilità
che l’avente diritto possa ottenere dei provvedimenti sommari anticipatori,
anticipatori anche in senso stretto cioè che possano non solo intervenire
nell’immediatezza della situazione ma possano addirittura prevenirla.

126
Lezione 8 - 01/04/20
Oggi vorrei analizzare le regole di svolgimento del procedimento cautelare
generale. Vi ricordate che la disciplina del procedimento cautelare generale è
contenuta negli articoli da 669 bis fino a 669 quaterdecies. Anche la numerazione
ci dice che queste norme sono il frutto di un intervento del legislatore che ha
utilizzato la tecnica della novellazione, inserendo nel codice di procedura civile
questa numerazione. Gli articoli richiamati vanno a formare la sezione prima del
capo terzo del titolo primo del quarto libro, dedicato ai procedimenti sommari.
Vedete che il capo terzo reca il titolo "Dei procedimenti cautelari". La sezione
prima precede la sezione seconda, terza, quarta e quinta in cui è prevista la
disciplina delle singole misure cautelari. È previsto il sequestro giudiziario, il
sequestro conservativo, la denuncia di nuova opera e di danno temuto, il
provvedimento di istruzione preventiva e i provvedimenti d'urgenza. IL
procedimento cautelare generale è stato inserito con la legge di riforma del 1990.
È stato un intervento molto opportuno, che ha razionalizzato il sistema. Infatti fino
a quel momento con riferimento alle singole misure cautelari, il legislatore aveva
dettato dei micro-procedimenti. Questi micro-procedimenti erano estremamente
lacunosi e questo aveva obbligato gli operatori pratici a inventarsi le regole di
svolgimento di questi procedimenti. Questa situazione di incertezza era molto
rischiosa vista l'incidenza che le misure cautelari hanno sulla realtà sostanziale.
Quindi l'intervento del 1990 su questo punto è stato salutato con enorme favore.
La disciplina che andiamo ad analizzare si applica a tutte le misure cautelari, non
solo a quelle disciplinate nelle sezioni successive di questo capo terzo, ma anche
a quelle previste in altre parti del codice di procedura civile e in leggi speciali.
Questo procedimento cautelare generale contiene la disciplina di tutto quanto il
processo a partire dalla forma di presentazione della domanda, alle regole di
svolgimento del procedimento, all'impugnazione del provvedimento, all'attuazione
del provvedimento e via dicendo. Cominciamo dall'analisi delle regole relative alla
competenza che ritroviamo negli articoli 669ter-669 quater-669 quinquies. Queste
disposizioni contengono una scelta molto precisa ovvero quella di attribuire la
competenza cautelare allo stesso giudice che è competente sul merito. In questo
senso queste norme esprimono con il massimo della chiarezza una delle
caratteristiche strutturali delle misure cautelari ovvero la strumentalità. La
strumentalità è il legame che intercorre tra la misura cautelare e il processo a
cognizione piena avente ad oggetto il diritto a cautela del quale la misura viene
rilasciata. Nel dettare queste regole l'articolo 669 ter si occupa della competenza
in ipotesi in cui la misura cautelare viene chiesta ante causam. L'articolo 669
quater si occupa della competenza nelle ipotesi in cui la misura cautelare viene
richiesta lite pendente, quando è già in corso il processo a cognizione piena.
Mentre l'articolo 669 quinquies si occupa della competenza cautelare in ipotesi in
cui la controversia sia devoluta agli arbitri. Infatti si fa riferimento ai casi di
"clausola compromissoria, compromesso o pendenza del giudizio arbitrale". In
queste disposizioni troviamo una disciplina che presenta alcune peculiarità.
Innanzitutto la scelta generale è quella di far coincidere il giudice della cautela con
127
il giudice del merito. Ma c'è un grossissimo limite, perché il legislatore ha escluso il
giudice di pace. Quindi il giudice di pace non ha competenza al rilascio delle
misure cautelari. Vedremo infatti che sia nell'art 669 ter sia nell'art 669 quater è
scritto che " se competente per la causa di merito è il giudice di pace, la domanda
si propone al tribunale". Come si spiega questa esclusione? Questa esclusione è
frutto della legge istitutiva del giudice di pace (L 374/ 1991). Inizialmente questa
scelta trovava giustificazione in una sorta di sfiducia che il legislatore nutriva nei
confronti di questo nuovo giudice, un giudice onorario, un giudice meno preparato
di un giudice togato. Oggi questa stessa scelta risulta molto meno comprensiva,
questo perché il giudice di pace si è visto attribuire nel corso degli anni una
competenza anche in materia penale. Il fatto che un giudice che ha una
competenza penale, non sia ritenuto adatto al rilascio di misure cautelari civili, è
questione su cui si può discutere. Inoltre, nonostante nel 2017 con il d lgs 116 di
riforma della magistratura ordinaria, il legislatore abbia pensato di ampliare a
dismisura la competenza civile del giudice di pace, ma non ha pensato di
attribuirgli la competenza cautelare, è un profilo su cui probabilmente
occorrerebbe tornare a riflettere.

L'articolo 669 ter prevede che "prima dell'inizio della causa di merito la domanda
si propone al giudice competente a conoscere del merito." Il secondo comma "se
competente per la causa di merito è il giudice di pace, la domanda si propone al
tribunale." Il terzo comma si preoccupa del caso in cui il giudice italiano non è
competente a conoscere la causa di merito. Allora in questo caso si dice che " la
domanda si propone al giudice, che sarebbe competente per materia o valore, del
luogo in cui deve essere eseguito il provvedimento cautelare."

L'articolo 669 quater prevede che "Quando vi è causa pendente per il merito la
domanda deve essere proposta al giudice della stessa. Se la causa pende davanti
al tribunale la domanda si propone all'istruttore oppure, se questi non è ancora
designato o il giudizio è sospeso o interrotto, al presidente, il quale provvede ai
sensi dell'ultimo comma dell'articolo 669ter." Al terzo comma si dice che "se la
causa pende davanti al giudice di pace, la domanda si propone al tribunale."

Nell'articolo 669 quinquies si precisa che "se la controversia è oggetto di clausola


compromissoria o è compromessa in arbitri anche non rituali o se è pendente il
giudizio arbitrale, la domanda si propone al giudice che sarebbe stato competente
a conoscere del merito."

Quindi la regola fondamentale è che si esclude il giudice di pace e come regola


generale la domanda si propone al giudice che è competente sul merito.

Un' altra scelta che il legislatore ha compiuto in tema di competenza cautelare è


quella di affidare la competenza sempre ad un giudice monocratico. Infatti con
riferimento al caso in cui la domanda è proposta ante causam l’ultimo comma
dell’articolo 669 ter stabilisce che "a seguito della presentazione del ricorso il
cancelliere forma il fascicolo d'ufficio e lo presenta senza ritardo al presidente del
tribunale il quale designa il magistrato cui è affidata la trattazione del
procedimento." E trova conferma nell'articolo 669 quater, laddove si prevede al
secondo comma che " la domanda si propone all'istruttore oppure, se questi non
128
è ancora designato o il giudizio è sospeso o interrotto, al presidente del tribunale"
il quale dovendo procedere ai sensi del terzo comma dell'articolo 669ter,
procederà alla nomina del magistrato designato. Quindi il giudice della cautela di
primo grado è sempre un giudice monocratico.

Andiamo adesso a esaminare le regole di svolgimento del procedimento cautelare.


In base all’articolo 669 bis la domanda cautelare si presenta sempre con ricorso. Il
ricorso deve contenere i requisiti generali di cui all'articolo 125 primo comma del
cpc. Quindi è un ricorso che dovrà contenere l'indicazione del giudice e se la
domanda viene proposta in corso di causa, l'indicazione del giudice istruttore, ove
questo sia stato nominato. Dovrà contenere l'indicazione delle parti. Dovrà
contenere l'indicazione del diritto a cautela del quale la misura viene richiesta, cioè
quella situazione sostanziale che il giudice dovrà accertare sebbene a livello di
fumus boni iuris. Dovrà contenere l'indicazione del provvedimento richiesto, della
misura cautelare che si richiede. Dovrà contenere l'indicazione dei fatti costitutivi
del diritto a cautela del quale la misura viene richiesta. Dovrà contenere
l'indicazione del periculum in mora, cioè del pregiudizio che si vuole evitare.
Dopodichè dovrà contenere l'indicazione degli elementi probatori che il ricorrente
allega per provare l'esistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora. Il
ricorso viene depositato presso la cancelleria del giudice competente e nel caso in
cui la domanda è presentata ante causam, il cancelliere forma il fascicolo d'ufficio
e lo presenta al presidente del tribunale, il quale designa il magistrato a cui è
affidata la trattazione del procedimento.

Le regole di svolgimento del procedimento si rinvengono nell'articolo 669 sexies.


Questa disposizione prevede nel primo comma quella che è la regola generale di
svolgimento del procedimento cautelare generale. Prevede l'immediata attivazione
del contraddittorio. Mentre nel secondo comma troviamo l'eccezione cioè il caso
in cui il procedimento si svolge inizialmente inaudita altera parte, perché il
contraddittorio viene attivato in via posticipata. Questa è una delle ipotesi indicate
dalla legge in cui, in base a quanto previsto nell'articolo 101 cpc, si ha
un'attivazione posticipata del contraddittorio. Nel primo comma troviamo la regola
generale: “Il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al
contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione
indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto, e
provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della domanda." Allora
depositato il ricorso, formato il fascicolo, trasferito il fascicolo al presidente, il
presidente nomina il magistrato designato, il magistrato stesso fissa la data
dell'udienza con decreto. A questo punto dovrà essere attivato il contraddittorio. E
qui è pacifico che il contraddittorio possa essere attivato non soltanto attraverso il
procedimento di notificazione di cui agli articoli 137 ss cpc, ma che possa essere
attivato anche attraverso altre modalità probabilmente più veloci (mail, telefono).
Per quanto riguarda le regole di svolgimento del procedimento la formula usata
nell'articolo 669 sexies l'abbiamo richiamata più volte come definizione di un
procedimento a cognizione sommaria perché superficiale. La circostanza che "il
giudice, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, proceda nel
129
modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili" sta a indicare
che qui si ha una deroga a tutte le regole di svolgimento del processo. Lo
svolgimento di questo procedimento non è legato alle disposizioni del secondo
libro del cpc. È il giudice a fissare le regole di svolgimento del procedimento.
Quindi si ha una deroga a quella predeterminazione legale delle forme e dei termini
del processo che connota il processo a cognizione piena. Quindi si ha una totale
deformalizzazione delle regole di svolgimento del processo e in particolare una
deformalizzazione dell'attività istruttoria. Con la conseguenza che sarà il giudice a
determinare le modalità di acquisizione delle prove. Quindi ci sarà la possibilità in
modo particolare di acquisire le dichiarazioni di scienza dei terzi, non passando
attraverso le rigide forme della testimonianza, ma attraverso meccanismi diversi.
Quindi si potrà acquisire la dichiarazione di scienza del terzo attraverso un
documento scritto. È possibile che il terzo metta per iscritto la propria
dichiarazione, sottoscriva il documento e poi venga acquisito al giudizio questo
documento che riporta la dichiarazione del terzo. Si ha una totale deroga anche
per quanto riguarda i termini di svolgimento del processo. Quindi qui non si
applicano tutti quei termini a difesa che sono una delle caratteristiche principali del
processo a cognizione piena. Il procedimento si chiuderà con un provvedimento
che deve rivestire la forma dell'ordinanza a prescindere dal se con questo
provvedimento il giudice accolga o rigetti la domanda. In via eccezionale quando
la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l'attuazione del
provvedimento si può procedere inaudita altera parte. Innanzitutto qual è il
presupposto, quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare
l'attuazione del provvedimento? L'ipotesi più tipica sono i casi in cui la
convocazione immediata della controparte potrebbe offrire a quest'ultima lo spazio
di tempo necessario per porre in essere degli atti che rischiano di pregiudicare
l’attuazione della misura. Il riferimento è alle misure conservative. Se il creditore ha
timore che il debitore convocato di fronte al giudice disperda i propri beni potrà
prospettare fin dal ricorso questo rischio e chiedere al giudice di procedere
inaudita altera parte. La seconda situazione che è possibile immaginare è il caso in
cui la parte istante chieda una misura cautelare di tipo anticipatorio e il periculum
in mora sia così forte che non ci sia il tempo per attivare il contraddittorio. Laddove
la parte istante richieda di procedere inaudita altera parte e il giudice ritiene
esistente il rischio che l'attivazione del contraddittorio pregiudichi l'attuazione del
provvedimento, il giudice, assunte sommarie informazioni dove occorra, procederà
inaudita altera parte. In questo caso il procedimento sarà sommario, perché
basato su una cognizione non soltanto superficiale ma anche parziale, perché il
giudice ha di fronte a sé solo la parte istante. In questo caso il giudice provvederà
con decreto e il decreto conterrà anche la data dell'udienza in cui entrambe le parti
dovranno comparire di fronte al giudice. Udienza che non potrà svolgersi oltre un
termine di 15 gg, assegnando alla parte istante un ulteriore termine non superiore
a 8 gg per la notificazione del ricorso e del decreto al convenuto. Il giudice fissa
immediatamente l'udienza di comparizione di fronte a sé e in tale udienza il giudice
con ordinanza conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati con decreto.
130
Per la notificazione del ricorso e del decreto il termine stabilito dal legislatore è di
otto gg e l'ultimo comma prevede che se la notificazione deve essere effettuata
all'estero allora i termini sono triplicati.

Passiamo all'analisi dell'articolo 669 septies che si occupa del provvedimento di


rigetto. Leggiamo la disposizione: "L'ordinanza di incompetenza non preclude la
riproposizione della domanda. L'ordinanza di rigetto non preclude la riproposizione
dell'istanza per il provvedimento cautelare quando si verifichino mutamenti delle
circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto. Se l'ordinanza di
incompetenza o di rigetto è pronunciata prima dell'inizio della causa di merito, con
essa il giudice provvede definitivamente sulle spese del procedimento cautelare.
La condanna alle spese è immediatamente esecutiva." Qui il legislatore ha dettato
la disciplina di tutti i provvedimenti negativi. In prima battuta si occupa
dell'ordinanza di incompetenza. In seconda battuta si occupa dell'ordinanza di
rigetto fondata su motivi diversi dall'incompetenza. Con riferimento al primo caso
l'articolo 669 septies stabilisce che l'ordinanza di incompetenza non preclude la
riproposizione della domanda. Questa disposizione viene interpretata nel senso
che si tratta di un provvedimento assolutamente privo di efficacia preclusiva.
Secondo l'interpretazione preferibile l’ordinanza di incompetenza emanata dal
giudice della cautela deve essere tenuta ben distinta dall’ordinanza dichiarativa
dell'incompetenza emanata dal giudice del merito in base al disposto dell'articolo
279. Infatti quest'ultima è suscettibile di essere impugnata soltanto mediante
regolamento necessario di competenza ai sensi dell'articolo 42 cpc. Viceversa
l'ordinanza di incompetenza emanata ai sensi dell'articolo 669 septies è
suscettibile di essere impugnata mediante reclamo (articolo 669 terdecies) e non è
suscettibile di essere portata in Cassazione attraverso il regolamento di
competenza. Con riferimento alle altre ipotesi di rigetto devono essere ricompresi
tutti gli altri possibili motivi di rigetto siano essi di rito o di merito. Può darsi che il
giudice della cautela rigetti il ricorso perché rilevi un difetto di giurisdizione, un
difetto di legittimazione ad agire, la nullità del ricorso che non è stata sanata. E'
possibile che il rigetto riguardi il merito, che il giudice rigetti il ricorso cautelare
perché accerta la non esistenza di uno dei requisiti della misura cautelare (il fumus
boni iuris e/o il periculum in mora). In tutte queste ipotesi la legge stabilisce che
l'ordinanza di rigetto non preclude la riproposizione dell’istanza per il
provvedimento cautelare, quando si verifichino mutamenti delle circostanze o
vengono dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto. Secondo l'interpretazione
preferibile si deve ritenere che l'ordinanza di rigetto per motivi diversi dalla
competenza precluda al ricorrente solo la possibilità di presentare un ricorso
perfettamente analogo al primo. Per il resto gli è possibile presentare un secondo
ricorso apportando modifiche anche lievi. Infatti queste espressioni "mutamenti
delle circostanze" e "le nuovi ragioni di fatto e di diritto" vengono interpretate in
maniera ampia. Con riferimento ai "mutamenti delle circostanze" vi si
ricomprendono i fatti sopravvenuti, quindi nuovi fatti costitutivi del fumus boni iuris
o del periculum in mora oppure nuove prove. Mentre l'espressione "nuove ragioni
di fatto e di diritto" vengono riferite ai fatti costitutivi diversi da quelli posti a
131
fondamento della prima domanda ma non sopravvenuti, possono essere fatti
preesistenti ma non dedotti. Mentre le nuove regioni di diritto sono le nuove
argomentazioni o prospettazioni giuridiche. Nell’ottica del legislatore del 1990 la
riproponibilità del ricorso era l'unico rimedio posto a disposizione del ricorrente
che si era visto rigettare il ricorso. Questo è il motivo che spiega le ampie
possibilità concesse al ricorrente. Tuttavia nell'immediatezza della riforma del 1990
fu sollevata questione di legittimità costituzionale di fronte alla Corte con
riferimento all'articolo 669 terdecies che disciplina il reclamo (mezzo di
impugnazione dei provvedimenti cautelari) che secondo la lettera originaria della
legge era riservato alle ordinanze di rilascio della misura cautelare richiesta. La
Corte costituzionale con la sentenza 23 giugno 1994 n 253 ha dichiarato fondata la
questione. Ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art 669 terdecies nella parte in cui
non prevede la possibilità di reclamare anche l'ordinanza di rigetto. A seguito di
questa sentenza allora il ricorrente che si vede rigettata l'istanza ha di fronte a sé
una duplice scelta: la riproposizione dell'istanza oppure il reclamo contro
l'ordinanza di rigetto. Il reclamo può essere presentato sia contro l'ordinanza di
incompetenza sia contro l’ordinanza di rigetto per motivi diversi dalla competenza.
in tutti i casi se il giudice del reclamo ritiene fondato il reclamo, potrà lui stesso
emanare la misura cautelare richiesta. Il secondo comma dell'articolo 669 septies
prevede che “se l'ordinanza di incompetenza o di rigetto è pronunciata prima
dell'inizio della causa di merito, con essa il giudice provvede definitivamente sulle
spese del procedimento cautelare”. Poi al terzo comma precisa che "la condanna
alle spese è immediatamente esecutiva." Sono previsioni molto opportune e la
ratio che sta a fondamento di esse è quella di evitare che la parte vittoriosa, in
questo caso il convenuto perché si parla di un provvedimento negativo, per
recuperare le proprie spese sia costretto ad aprire un autonomo processo a
cognizione piena.

La norma successiva l'art 669 octies si occupa del provvedimento di


accoglimento. In questa norma come nella successiva, l'art 669 novies che si
occupa dell'inefficacia del provvedimento cautelare, assume rilevanza la
contrapposizione tra le misure cautelari conservative e le misure cautelari
anticipatorie. La strumentalità è una delle caratteristiche strutturali che connotano
le misure cautelari. Il legislatore dal 2005 ha forgiato in maniera diversa il nesso di
strumentalità distinguendo le misure cautelari conservative soggette ad un nesso
di strumentalità rigido, dalle misure cautelari anticipatorie soggette ad un nesso di
strumentalità attenuato. Cos'è la strumentalità? La strumentalità è il legame che
intercorre tra la misura cautelare e il processo a cognizione piena avente ad
oggetto il diritto a cautela del quale la misura è stata rilasciata. Vediamo come si
atteggia questo nesso di strumentalità, distinguendo tra le misure cautelari
conservative e anticipatorie. Con riferimento alle misure cautelari conservative che
sono i sequestri, il sequestro giudiziario, il sequestro conservativo e tutti gli altri
sequestri previsti nell’ordinamento, il primo comma dell'art 669 octies stabilisce
che a seguito dell'ordinanza di accoglimento "se la domanda sia stata proposta
prima dell'inizio della causa di merito, il giudice deve fissare un termine perentorio
132
non superiore a sessanta giorni per l'inizio della causa del merito". Al secondo
comma precisa che" in mancanza di fissazione del termine da parte del giudice, la
causa di merito deve essere iniziata entro il termine perentorio di sessanta giorni."
La previsione è completata dal primo comma dell’art 669 novies laddove si
prevede che se " il procedimento di merito non è iniziato nel termine perentorio di
cui all'articolo 669octies primo o secondo comma, la misura cautelare perde
efficacia”. La previsione è completata dalla seconda parte del primo comma
dell'articolo 669 novies laddove si prevede sempre con riferimento alle misure
conservative che se il processo di merito si estingue, quindi non arriva alla sua
conclusione fisiologica, la misura cautelare perde efficacia. Questo sia nel caso in
cui la misura cautelare sia stata rilasciata ante causam sia in corso di causa.
Queste disposizioni non si applicano alle misure cautelari anticipatorie così come
ci dice espressamente il sesto comma dell'articolo 669 octies. Infatti in questa
disposizione leggiamo: "Le disposizioni di cui al presente articolo e al primo
comma dell'articolo 669-novies non si applicano ai provvedimenti di urgenza
emessi ai sensi dell'articolo 700 e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad
anticipare gli effetti della sentenza di merito, previsti dal codice civile o da leggi
speciali, nonché' ai provvedimenti emessi a seguito di denunzia di nuova opera o
di danno temuto ai sensi dell'articolo 688, ma ciascuna parte può iniziare il giudizio
di merito. “Lasciando da parte la definizione di misura cautelare anticipatoria,
cerchiamo di ricostruire la loro disciplina. Queste sono soggette ad un nesso di
strumentalità attenuato. Quindi non si applicano gli articoli 669 octies primo e
secondo comma, né l'articolo 669 novies primo comma. Le misure cautelari
anticipatorie rilasciate ante causam sono idonee a reggere a tempo indefinito i
propri effetti. Così come laddove il processo a cognizione piena si estingue sono
ugualmente idonee a restare in piedi, a conservare la propria efficacia. Occorre
ricordare che questa efficacia è solo l'efficacia esecutiva, perché la misura
cautelare anche quella anticipatoria è provvisoria, del tutto inidonea ad acquistare
l'autorità della cosa giudicata. Infatti è soggetta all'articolo 669 decies che prevede
che il giudice della cautela può modificare e revocare sempre le misure cautelari.
Questo è confermato dal nono comma dell'art 669 octies che ci dice che l'autorità
del provvedimento cautelare non è invocabile in un diverso processo. Questa è
una previsione che è il frutto dell'intervento del 2005 e il legislatore ha inserito
quest'ultimo comma per chiarire che quest'efficacia non è l'efficacia del giudicato,
che quindi questo è un provvedimento che non svolge alcuna efficacia preclusiva,
cioè quell’effetto preclusivo che connota l'autorità della cosa giudicata. Inoltre il
nesso di strumentalità con riferimento alle misure anticipatorie è stato attenuato
ma non cancellato. Infatti sono comunque soggette alla previsione del terzo
comma dell'articolo 669 novies laddove si dice che se il processo di merito si
chiude con sentenza di merito anche non passata in giudicato che dichiara la non
esistenza del diritto a cautela del quale la misura è stata concessa, il
provvedimento cautelare perde efficacia. È molto importante tracciare la linea di
confine tra le misure cautelari conservative e le misure cautelari anticipatorie
perché se si fa un errore questo può costare molto caro. Se l'avvocato della parte
133
ritiene di aver ottenuto ante causam una misura anticipatoria e quindi non si cura
di aprire il processo a cognizione piena nel termine stabilito a pena di decadenza
dall'articolo 669 octies e poi risulta che la misura è conservativa perde la misura
cautelare. Il che può rappresentare un danno molto grave per la parte.
L'interpretazione preferibile è quella secondo cui sarebbe opportuno restringere al
massimo la nozione di misure cautelari conservative e ampliare quella di misure
cautelari anticipatorie. Il sesto comma dell’articolo 669 octies richiama i
provvedimenti urgenti senza dare alcuna indicazione che debba trattarsi di un
provvedimento urgente anticipatorio. Noi abbiamo detto che generalmente i
provvedimenti d'urgenza hanno un contenuto anticipatorio, ma non abbiamo
escluso che il giudice possa attribuire al provvedimento urgente un contenuto
anche conservativo. D'altra parte questo sesto comma richiama anche la denuncia
di nuova opera e di danno temuto. Noi, soprattutto con riferimento alla denuncia di
nuova opera, abbiamo osservato che è un provvedimento parzialmente
conservativo. Considerata la lettera del sesto comma dell'art 669 octies e
considerato quanto detto sull'importanza di restringere le misure cautelari
conservative, l'opinione preferibile è che tutte le misure cautelari debbano essere
ricondotte alla categoria delle misure cautelari anticipatorie salvo i sequestri che
sono misure cautelari conservative. Con riferimento alle misure anticipatorie la
disciplina è completata dal settimo comma dell'art 669 octies a tenore del quale il
giudice quando emette ante causam una misura cautelare anticipatoria provvede
sulle spese del procedimento cautelare. È una previsione molto opportuna il cui
scopo è quello di evitare che la parte vittoriosa debba aprire il processo a
cognizione piena per recuperare le proprie spese. L'art 669 novies si occupa delle
ipotesi in cui il provvedimento cautelare è inefficace. E' una disposizione che
esprime il nesso di strumentalità, che lega la misura cautelare al processo a
cognizione piena avente ad oggetto il diritto a cautela del quale la misura è stata
rilasciata. Quando la misura cautelare diviene inefficace? Con riferimento alle
misure cautelari conservative, quindi i sequestri, il primo comma prevede l'ipotesi
della mancata instaurazione del processo a cognizione piena nel termine di cui
all'articolo 669 octies primo o secondo comma. Sempre con riferimento alle
misure di tipo conservativo la seconda parte del primo comma prevede l'ipotesi in
cui il processo di merito successivamente al suo inizio si estingue. L'inefficacia in
questo caso colpirà sia la misura conservativa rilasciata ante causam sia la misura
cautelare conservativa rilasciata in corso di causa. Ancora nel terzo comma
dell'articolo 669 novies l'ipotesi in cui la parte istante non ha versato la cauzione
imposta dal giudice ai sensi dell’art 669 undecies. Questa è una previsione che si
applica a tutte le misure cautelari. Così come a tutte le misure cautelari si applica
la previsione contenuta nella seconda parte del terzo comma dell'articolo 669
novies nella parte in cui stabilisce che la misura cautelare perde efficacia se con
sentenza, anche non passata in giudicato, è dichiarato inesistente il diritto a
cautela del quale era stata concessa. Si tratta di una previsione che esprime il
nesso di strumentalità che lega la misura cautelare al processo a cognizione piena
avente ad oggetto il diritto a cautela del quale la misura è stata concessa. La
134
disposizione contiene anche previsioni relative al rilascio della dichiarazione di
inefficacia nonché ai provvedimenti di rimessione in pristino. Ricordatevi che le
misure cautelari sono esecutive ex lege e quindi se sono state attuate la
dichiarazione di inefficacia farà scattare una serie di obblighi restitutori.

SECONDA PARTE

Procediamo nell'analisi della disciplina del procedimento cautelare generale e


soffermiamoci sull’art 669 decies, che disciplina la REVOCA e la MODIFICA.
Come vi ho già anticipato questa disposizione esprime chiaramente il carattere
provvisorio delle misure cautelari, la circostanza che queste misure cautelari non
sono idonee ad acquistare la tua Rita della cosa giudicata, la stabilità della cosa
giudicata è infatti incompatibile con la regola qui espressa secondo cui le
ordinanze cautelari sono suscettibili di essere revocate e modificate in qualsiasi
momento.

Vediamo le regole che sovrintendono questo istituto: occupiamoci innanzitutto


della competenza; prima però di illustrare le regole dettate dalla disposizione in
esame occorre prendere atto che fra i motivi che possono essere posti a
fondamento dell'istanza di revoca e di modifica, ve ne sono alcuni che possono
essere fatti valere anche tramite RECLAMO. Il riferimento è ai fatti sopravvenuti
—> l’art 669 decise parla di mutamento nelle circostanze, e questa espressione,
abbiamo già visto commentando il precedente art 669 septies in tema di
provvedimento negativo, è indicativo proprio dei fatti sopravvenuti, l’art 669
terdecies in tema di reclamo parla espressamente dei motivi sopravvenuti nel suo
ultimo comma. Il legislatore deve evitare che per lo stesso motivo, contro lo stesso
provvedimento, vengono esperiti due rimedi contemporaneamente; anche perché
questi due rimedi vanno portati di fronte a due giudici diversi: il giudice del
reclamo infatti, è un giudice necessariamente diverso da quello della cautela,
perché il reclamo è un mezzo di impugnazione, ed è necessariamente un giudice
collegiale. Quindi immaginatevi se lo stesso provvedimento, sulla base degli stessi
motivi, fosse portato contemporaneamente di fronte a due giudici diversi. Cosa
succede se poi questi due giudizi hanno esiti opposti? La situazione è
assolutamente da evitare, e questo ha imposto al legislatore la necessità di
introdurre un meccanismo di coordinamento: di fronte a chi si propone istanza di
revoca e di modifica? In base al primo comma, se è in corso l’istruzione, e quindi il
processo a cognizione piena, l’istanza di revoca e di modifica deve essere portata
di fronte al giudice istruttore. Questo a prescindere dal se l'ordinanza cautelare è
stata rilasciata ante causa o in corso di causa. C'è un unico limite, ed è enunciato
dall'apertura della disposizione, dove si dice che “salvo che sia stato proposto
reclamo ai sensi dell'articolo 669 terdecies”. Ora, il giudizio di reclamo è soggetto
ad un termine di decadenza, che è di 15 giorni dalla pronuncia del provvedimento,
se avvenuta in udienza, o di 15 giorni dalla sua comunicazione o notificazione se
anteriore. Allora si dice che, se il fatto sopravvenuto si verifica nella pendenza del

135
termine fissato per esperire reclamo, e poi la parte interessata esperisce reclamo,
oppure se il fatto sopravvenuto viene ad esistenza in pendenza del giudizio di
reclamo, deve essere portato di fronte al giudice del reclamo, e quindi il fatto
sopravvenuto non potrà essere posto a fondamento di un'istanza di revoca e di
modifica.

Invece, il secondo comma della disposizione si occupa dell'ipotesi in cui il giudizio


di merito non è iniziato, oppure è iniziato ma poi si è chiuso in maniera anomala,
quindi se è chiuso attraverso una dichiarazione di estinzione. In questo caso si
prevede che la revoca e la modifica possono essere richieste al giudice della
cautela, al giudice che ha rilasciato il provvedimento.

Anche qua però il legislatore precisa "esaurita la eventuale fase del reclamo"
proposta ai sensi dell’art 669 terdecies, il che vuol dire che, se questi fatti
sopravvenuti vengono ad esistenza in pendenza del termine per proporre reclamo
e poi viene aperto reclamo, oppure in pendenza del giudizio di reclamo, debbono
essere fatti valere di fronte al giudice del reclamo.

Andiamo a vedere i MOTIVI su cui può essere fondata l'istanza di revoca e


modifica —> la disposizione parla espressamente dei mutamenti nelle circostanze
così come parla espressamente dei fatti anteriori di cui però si è acquisita
conoscenza successivamente al provvedimento cautelare, ma in quel caso
l'istante deve fornire la prova del momento in cui è venuto a conoscenza. Quindi il
riferimento chiaramente è a tutti i fatti sopravvenuti, e anche ai fatti preesistenti,
bene in queste ipotesi si richieda la parte istante di indicare e provare il momento
in cui è venuto a conoscenza, momento che dovrà essere necessariamente
successivo al rilascio dell'ordinanza cautelare.

Naturalmente il termine “fatto” deve essere interpretato nel senso più ampio
possibile, con riferimento cioè a tutti i fatti giuridicamente rilevanti, ma anche alle
prove utilizzate per fondare il convincimento del giudice in ordine all'esistenza dei
fatti giuridicamente rilevanti.

La norma successiva, l’art 669 undecies, prevede l'istituto della CAUZIONE: “con
il provvedimento di accoglimento o di conferma, ovvero con il provvedimento di
modifica, il giudice può imporre all'istante, valutata ogni circostanza, una cauzione
per l'eventuale risarcimento dei danni”.

Vi avevo già avvisato in ordine alla circostanza che il legislatore del 1990 aveva
generalizzato l'istituto della cauzione, previsto originariamente solo negli artt 1171
e 1172, in tema di denuncia di nuova opera o denuncia di danno temuto.

L'istituto della cauzione è un istituto di contro cautela, è un istituto per il cui


tramite si cerca di quantomeno comprimere la pericolosità interna alle misure
cautelari, il sistema di tutela cautelare, l'abbiamo già detto, è tutto scritto e
pensato nell'ottica dell'attore che ha ragione, ma se fai l'attore a torto, abbiamo
già avuto modo di ricordare, che la parte convenuta, la parte che ha subito la
misura cautelare in giustamente, può avere riportato un danno anche molto
consistente, perché abbiamo visto che le misure cautelari incidono pesantemente
sulla realtà sostanziale. Quindi il legislatore ha visto bene di generalizzare questo

136
istituto. Vedete che si fa riferimento al provvedimento di accoglimento o conferma,
quindi il termine “provvedimento” è diverso dal termine “ordinanza”,
probabilmente questa espressione può essere interpretata nel senso che il giudice
può imporre la cauzione anche con il decreto emanato inaudita altera parte in base
al secondo comma dell’art 669 sexies.

Naturalmente vi ricordo che, laddove la parte che si è vista imporre la cauzione, e


vedete che qui la norma è ampia, perché parlano soltanto del provvedimento di
accoglimento, ma anche del provvedimento di conferma o di modifica, quindi la
cauzione probabilmente potrà essere imposta anche dal giudice del reclamo, che
conferma l'ordinanza cautelare, oppure la rilascia per la prima volta, perché noi
vedremo che anche il giudice del reclamo può rilasciare la misura cautelare nel
momento in cui riforma l'ordinanza di rigetto, e poi dal giudice della modifica della
revoca e la modifica, naturalmente non dove revoca la misura cautelare, ma dove
la modifica. La cauzione, se non viene prestata, determina la inefficacia della
misura cautelare, secondo quanto espressamente previsto dall’art 669 novies.3.

Vi ricordo che questo istituto è un istituto che in tanto può funzionare in quanto la
parte a cui la creazione è imposta sia una parte abbiente, quindi abbia il denaro da
depositare; laddove non ce l'abbia è opportuno che il giudice non imponga la
cauzione: vi ricordo che la tutela cautelare è una componente doverosa e
costituzionalmente laddove è diretta ad evitare un pregiudizio irreparabile, e nella
parte in cui è uno strumento costituzionalmente doveroso non si può, non è
accettabile che alla parte sia negato il provvedimento che ha richiesto per evitare
un pregiudizio irreparabile solo perché non ha i denari da depositare a titolo di
cauzione.

Andiamo avanti, l’art 669 duodecies si occupa della ATTUAZIONE delle misure
cautelari, anche questa è una norma che ha razionalizzato l'ordinamento, dettando
delle regole uniformi: come vedete, se mi seguite sul testo, la norma apre
affermando che “i sequestri si applicano secondo quanto disposto negli artt 677 e
ss.”, quindi il legislatore ha fatto salve le regole già dettate secondo cui il
sequestro giudiziario si attua nelle forme dell'esecuzione forzata in forma specifica
per obbligo di consegna o di rilascio, stante il rinvio agli artt 605 e ss cpc, mentre il
sequestro conservativo si attua nelle forme del pignoramento, quindi se ha ad
oggetto dei beni mobili si attua attraverso lo spossessamento, se ha ad oggetto
dei beni immobili si attua attraverso la trascrizione. Fermo questo, la norma
stabilisce che l'attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto somme di
denaro avviene nelle forme degli artt 491 e ss in quanto compatibili —> qui c'è un
richiamo alle disposizioni relative al procedimento di espropriazione forzata, che è
il processo esecutivo che l'ordinamento predispone per dare attuazione ai diritti di
credito aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro.

Poi prosegue affermando che “l’attuazione delle misure cautelari aventi ad oggetto
obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare, avviene sotto il controllo del giudice
che ha emanato il provvedimento cautelare, il quale ne determina anche le
modalità di attuazione, e ove sorgano difficoltà o contestazioni da con ordinanza i
provvedimenti opportuni sentite le parti. Ogni altra questione va proposta nel
137
giudizio di merito”. Allora con riferimento a queste altre ipotesi, quindi per quanto
riguarda le misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o
non fare, la tua azione avverrà sotto la direzione del giudice della cautela, quindi lo
stesso giudice che ha emanato il provvedimento, giudice che è chiamato a
determinare le modalità di attuazione. Questa è una previsione molto opportuna,
che evita tutta una serie di complicazioni che invece si verificano in ipotesi in cui si
tratta di dare esecuzione a sentenze di condanna, in particolare sentenze di
condanna ad obbligazioni di fare o non fare, perché in queste ipotesi il giudice
dell'esecuzione, il giudice che sovrintende il procedimento di esecuzione forzata in
forma specifica per obblighi di fare o non fare, è un giudice necessariamente
diverso dal giudice della cognizione, e succede che, nel dettare le modalità di
esecuzione, perché anche in quelle norme troviamo un'espressione analoga a
quella utilizzata nell’art 669 duodecies, spesso e volentieri questo giudice
dell'esecuzione va al di là dei suoi limiti, cioè non si limita a dare delle disposizioni
che disciplinano le modalità di esecuzione, ma il suo provvedimento è più incisivo,
cioè va a determinare il contenuto della obbligazione. Quindi in giurisprudenza
queste situazioni hanno creato degli enormi problemi, perché si è ritenuto che
questo provvedimento del giudice dell’esecuzione, (il giudice dell'esecuzione
emana provvedimenti in forma di ordinanza), in verità, andando al di là della
competenza del giudice dell'esecuzione, era un provvedimento decisorio, cioè un
provvedimento non esecutivo, ma avente un contenuto di sentenza, e per questo
motivo la giurisprudenza ha affermato che la parte interessata per far valere le
proprie contestazioni doveva valersi non del rimedio ordinario contro le ordinanze
del giudice dell'esecuzione, che è uno strumento che prende il nome di
opposizione agli atti esecutivi (art 617 cpc), ma dovesse esperire appello.

Capite che, nell'ambito del procedimento cautelare, nel momento in cui l’art 669
duodecies ha affidato allo stesso giudice della cautela la competenza a
determinare le modalità di attuazione dell'ordinanza stessa, questi problemi non si
pongono, e quindi è una scelta molto felice che certamente eviterà complicazioni
che altrove si sono invece verificate.

La disposizione non si occupa delle misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di


non fare infungibili —> gli obblighi di fare o di non fare espressamente richiamati
sono quelli fungibili, quindi quel “non fare” dovete intenderlo come obbligo di
distruzione. Quindi non si occupa delle ordinanze cautelari aventi ad oggetto
obblighi infungibili, quindi tipicamente le ordinanze a contenuto inibitorio,
ordinanze per il cui tramite il giudice ordina la cessazione della condotta lesiva.
Tuttavia è pacificamente ammesso che anche il giudice della cautela possa
imporre le misure coercitive di cui all’art 614 bis.

Passiamo adesso ad analizzare l’art 669 terdecies, che si occupa del RECLAMO
contro i provvedimenti cautelari. Questo istituto è un'autentica novità introdotta dal
legislatore del 1990, prima infatti della legge di riforma del 90 non esisteva un
sistema di controllo delle misure cautelari, un sistema generale, c'è una lacuna
molto grave, perché anche sul piano storico tutti gli ordinamenti che hanno
138
raggiunto un certo grado di evoluzione, hanno sempre previsto un mezzo di
impugnazione contro i provvedimenti del giudice. Il mezzo di impugnazione è
infatti sempre stato inteso come un'espressione del diritto di difesa.

Il legislatore del 1990 quindi colma una lacuna molto grave;

Andiamo a vedere la disciplina contenuta in questa disposizione: cominciamo a


leggere il primo comma "contro l'ordinanza con la quale è stato concesso o
negato il provvedimento cautelare è ammesso reclamo nel termine perentorio di 15
giorni dalla pronuncia in udienza, ovvero dalla comunicazione o dalla notificazione
se anteriore". Il disposto di questo primo comma è stato più volte modificato,
intanto per quanto riguarda i provvedimenti suscettibili di reclamo: vi ho già
accennato alla circostanza che nella lettera originaria di questa disposizione era
previsto soltanto il reclamo contro l'ordinanza di rilascio delle misure cautelari;
nella visione del legislatore del 1990 infatti, il rimedio avverso l'ordinanza di
diniego, l'ordinanza negativa, era la riproposizione negli ampi termini indicati
nell’art 669 septies. Fu sollevata immediatamente la questione di legittimità
costituzionale e la corte, con la già richiamata sentenza 253/1994 ha esteso il
reclamo contro il provvedimento di rigetto. Per cui adesso il reclamo è esperibilie
vuoi contro l’ORDINANZA DI RIGETTO, vuoi contro l’ORDINANZA DI
ACCOGLIMENTO.

Vedete che la disposizione parla espressamente di ordinanza, non parla di decreto:


—> questo porta a ritenere che il decreto emanato inaudita altera parte, in base
all’art 669 sexies secondo comma, non sia suscettibile di reclamo. Nel decreto il
giudice fissa la data dell'udienza di comparizione delle parti di fronte a sè, e a
conclusione di quella udienza conferma, revoca e modifica il precedente decreto.
Quindi è in sede di udienza che lo stesso giudice verifica la legittimità del
precedente decreto; naturalmente l'ordinanza emanata a conclusione dell'udienza
nel contraddittorio delle parti potrà sicuramente essere impugnata tramite reclamo.
Invece sono sicuramente reclamabile le ordinanze pronunciate da parte del giudice
in sede di revoca e modifica: quindi il giudice che si pronuncia in seguito alla
proposizione dell'istanza di revoca o modifica presentata ai sensi dell’art 669
decies.

Come vedete il reclamo è soggetto ad un termine, un termine di decadenza, un


termine perentorio di 15 giorni, che decorrono dall'udienza, se l'ordinanza è
pronunciata in udienza, oppure, se pronunciata fuori udienza, dalla comunicazione
o dalla notificazione se anteriore. Questa parte è stata modificata dal legislatore in
maniera molto opportuna nel 2005, perché la lettera originaria della disposizione
non chiariva il dies a quo, quindi il momento in cui decorrevano i 15 giorni in
ipotesi di rilascio della misura fuori dall'udienza. E questo aveva aperto molte
incertezze, pericolosissime perché per quanto riguarda il dies a quo per i termini
perentori per le impugnazioni si tratta di questioni che toccano nel vivo il diritto di
difesa delle parti. Decorsi infatti termine di decadenza è chiaro che il mezzo di
impugnazione in questione non può più essere utilizzato.

Per quanto riguarda il giudice competente, è il secondo comma a stabilire che il


reclamo contro i provvedimenti del giudice singolo del tribunale si propone al
139
COLLEGIO, del quale non può fare parte il giudice che ha emanato il
provvedimento reclamato. Quando il provvedimento cautelare è stato emesso
dalla corte d'appello, il reclamo si propone ad altra sezione della stessa corte, o in
mancanza alla corte d'appello più vicina.

Allora la scelta che il legislatore ha effettuato, con riferimento al reclamo, e che la


competenza è sempre attribuita ad un collegio, e di conseguenza, di questo
collegio non può far parte il giudice della cautela, perché ogni giudice deve essere
terzo e imparziale, e quindi un giudice che ha già conosciuto il provvedimento in
altro grado non può conoscerne nuovamente. Analiticamente la disposizione
prevede che l'ordinanza cautelare è stata emessa dal giudice singolo del tribunale,
il reclamo si propone al collegio dello stesso tribunale, di cui non può far parte il
giudice della cautela; mentre se i provvedimenti sono emanati dalla corte
d’appello, si propone ad altra sezione della corte d'appello, o se si tratta di una
corte d'appello semplice composta da una sola sezione, di fronte alla corte
d'appello più vicina, ipotesi residuale.

Per quanto riguarda i MOTIVI su cui può essere basato il reclamo, diciamo che il
reclamo è un vero e proprio mezzo di impugnazione, quindi sicuramente attraverso
il reclamo possono essere denunciati errores in procedendo, quindi la violazione
delle norme processuali, qualunque norma processuale, sia quelle generali in tema
di legittimazione ad agire, in tema di giurisdizione, sia quelle dettate in riferimento
specifico alle misure cautelari, quindi la violazione degli artt 669 ter, quater e
quinquies in ordine alla competenza per esempio, oppure si può contestare che il
giudice non ha attivato in maniera adeguata il contraddittorio delle parti così come
imposto dall’art 669 sexies.

Possono essere naturalmente denunciati anche gli errores in iudicando, quindi si


può contestare le valutazioni che il giudice ha posto a fondamento della sua
decisione, quindi le valutazioni in punto di fumus boni iuris e periculum in mora.

Inoltre è sicuramente possibile, come vi dicevo prima, far valere fatti sopravvenuti,
fatti o prove sopravvenute —> questo lo si desume dall'ultimo comma dell’art 669
terdecies: quest'ultimo comma si occupa della sospensione dell'esecuzione del
provvedimento impugnato, dell'inibitoria che si chiede al giudice del reclamo come
giudice dell'impugnazione, e vedete la norma parla espressamente di motivi
sopravvenuti; naturalmente se i motivi sopravvenuti possono essere utilizzati per
fondare la richiesta di inibitoria, potranno essere spesi anche a fondamento del
reclamo. Ed è qui che si verifica la sovrapposizione fra reclamo e l'istanza di
revoca e di modifica.

Per quanto riguarda il procedimento, vedete che il terzo comma della disposizione
richiama espressamente gli artt 737 e 738 cpc: è il procedimento in camera di
consiglio. Il comma successivo prevede che “le circostanze e i motivi sopraggiunti
al momento della proposizione del reclamo debbono essere proposti nel rispetto
del principio del contraddittorio e nel relativo procedimento”, e poi nella seconda
parte, “il tribunale può sempre assumere informazioni e acquisire nuovi documenti;
non è consentita la rimessione al primo giudice”.

140
Il comma ancora successivo prevede che “il collegio, convocate le parti, pronuncia
,non oltre 20 giorni dal deposito del ricorso, ordinanza non impugnabile con la
quale conferma, modifica o revoca il provvedimento cautelare”.

Allora: il procedimento diciamo viene avviato con RICORSO, tanto si desume dal
richiamo alle disposizioni relative al procedimento in camera di consiglio. Il ricorso
viene depositato in cancelleria, ed è da questa data che si contano, che si verifica
il rispetto del termine previsto dal codice per la proposizione del reclamo stesso.
Per quanto riguarda l'attivazione del contraddittorio sicuramente si applicano le
stesse norme che si sono richiamate con riferimento al primo grado cautelare,
quindi potranno essere utilizzati degli strumenti più snelli rispetto alla notificazione,
anche se naturalmente la notificazione stessa può essere utilizzata.

Che il procedimento si svolge in camera di consiglio, significa che non c’è


un’udienza pubblica: il presidente nomina un relatore, che riferisce in camera di
consiglio, il tribunale può assumere delle informazioni e può acquisire documenti,
come si dice espressamente la norma, il quarto comma, e se le circostanze e i
motivi sono sopravvenuti al momento della proposizione del reclamo, devono
essere proposti nell'ambito dello stesso procedimento, sempre nel rispetto del
principio del contraddittorio.

Il giudice del reclamo si pronuncia con ORDINANZA: questa ordinanza viene


definita espressamente dalla legislatore “non impugnabile”, e attraverso la sua
ordinanza, conferma, modifica o revoca il provvedimento cautelare. La circostanza
che l'ordinanza venga definita "non impugnabile", sta a significare che non è
suscettibile di ricorso in cassazione, in particolare di ricorso straordinario per
cassazione, ai sensi dell’art 111 Cost. In verità gli avvocati fin dall'entrata in vigore
di questa normativa provano a esperire ricorso per cassazione, ma finora e la
cassazione è sempre rimasta ferma. Ricordatevi che anche l'ordinanza cautelare
emanata dal giudice del reclamo è provvisoria, quindi anche questa ordinanza è
suscettibile sempre di essere revocata e modificata in base all’art 669 decies,
quindi è priva di qualsiasi attitudine al giudicato.

Nel momento in cui è stato aperto il reclamo anche contro l'ordinanza di rigetto, si
è aperta poi la questione relativa a che cosa debba fare il giudice del reclamo
nell'ipotesi in cui ribalti la pronuncia del giudice di primo grado, e quindi ritenga
contrariamente al giudice di primo grado, che sussistono i presupposti per il
rilascio della misura richiesta; secondo taluni doveva essere lo stesso giudice del
reclamo a rilasciare la misura richiesta, secondo altri il giudice del reclamo avrebbe
dovuto rimettere la causa, il procedimento, di fronte al giudice del primo grado
cautelare —> su questo punto per fortuna è intervenuto il legislatore, che con la
riforma del 2005 ha aggiunto in coda al quarto comma che "non è consentita la
rimessione al primo giudice", e quindi ha eliminato il dibattito.

La circostanza che l'ordinanza venga emessa per la prima volta dal giudice del
reclamo a però una conseguenza, cioè non sarà possibile esperire reclamo contro
quest'ordinanza; l'unico rimedio sarà l'istanza di revoca e modifica, in base all’art
669 decies, e naturalmente l'apertura del processo a cognizione piena.

141
L'ultimo comma della disposizione si occupa della INIBITORIA: abbiamo che le
ordinanze cautelari sono esecutive ex lege, quindi vengono attuate
immediatamente. In base all'ultimo comma della disposizione, il reclamo non
sospende l'esecuzione del provvedimento, ma il presidente del tribunale o della
corte investiti del reclamo, quando per motivi sopravvenuti il provvedimento
arrechi grave danno, può disporre con ordinanza non impugnabile la sospensione
dell'esecuzione o subordinarla alla prestazione di congrua cauzione.

Naturalmente la proposizione del reclamo non sospende l'attuazione della misura


cautelare, ma ciò non toglie che possa essere disposta la cosiddetta inibitoria.
Come vedete, la sospensione dell'esecuzione è subordinata alla presenza di motivi
sopravvenuti, a cui si può correlare la produzione di un grave danno. L'ordinanza
con cui il giudice del reclamo dispone la sospensione non è a sua volta
impugnabile.

Questo istituto svolge il ruolo di un mezzo di impugnazione, è un mezzo di


impugnazione a MOTIVI ILLIMITATI, nel senso che possono essere dedotti tutti
quanti i motivi, di rito o di merito, e sotto questo profilo possono essere motivi
attinenti al fatto o al diritto, e sono essere altresì fatti valere fatti sopravvenuti.

È un rimedio che però deve essere distinto dei mezzi di impugnazione ordinari:
questo perché i mezzi di impugnazione ordinari, che ancora non abbiamo
esaminato, si correlano al meccanismo di passaggio in giudicato della sentenza;
invece il reclamo sappiamo che viene esperito contro provvedimenti che per
definizione sono privi di attitudine ad acquistare l’autorità di cosa giudicata, per cui
la circostanza che il reclamo non venga esperito, non determina l'immutabilità del
provvedimento anteriore, ne naturalmente impedisce la possibilità di far valere dei
fatti sopravvenuti di fronte al giudice di istanza di revoca e modifica oppure di
fronte al giudice del processo a cognizione piena.

Sul piano funzionale il reclamo cautelare è, come vi dicevo, uno strumento diretto
a dare attuazione al diritto di difesa delle parti, perché consente di chiedere a un
giudice diverso da quello che si è pronunciato nel primo grado cautelare un
controllo sul provvedimento, quindi svolge una funzione di garanzia soggettiva.
Alcuni ritengono che si tratti di un istituto che dovrebbe essere generalizzato, e
quindi ritengono che il reclamo dovrebbe essere esperito contro tutti i
provvedimenti sommari, anche se si tratta di provvedimenti che non si prestano ad
essere ricondotti nella definizione di “misura cautelare”.

142
Lezione 9 - 02/04/20
C o n c l u d i a m o  l ' a n a l i s i d e l p r o c e d i m e n t o c a u t e l a r e g e n e r a l e
soffermandoci  sull’articolo  669  quaterdecies  che si occupa dell’ambito di
applicazione del procedimento stesso. 

 “le disposizioni della presente sezione si applicano ai provvedimenti previsti nelle


sezioni II, III, e V di questo capo nonché, in quanto compatibili, altri provvedimenti
cautelari previsti dal codice civile e nelle leggi speciali. 

l'articolo 669  septies  si applica altresì ai  provvedimenti  di istruzione preventiva


previsti dalla sezione IV di questo capo”  

L’art 669  quaterdecies  afferma  in maniera chiara che il procedimento cautelare


generale quindi le disposizioni contenute negli articoli da 669 bis a 669 terdecies si
applicano non solo ai provvedimenti previsti nella sezione seconda, terza e quinta: 

a. ai sequestri (sequestro giudiziario sequestro conservativo) 

b. alle denunce (denuncia di nuova opera e denuncia di danno temuto)  

c. e ai provvedimenti urgenti  

d. ma in quanto compatibili  a tutti i  provvedimenti cautelari previsti dal


codice civile e dalle leggi speciali  

una piccola precisazione si devono ritenere soggetti alla disciplina del


procedimento cautelare generale anche le  misure cautelari previste in altre parti
del cpc che non siano contenute nelle sezioni seconda,  terza e quinta di questo
capo del quarto libro. 

mentre afferma espressamente che con riferimento ai  provvedimenti di istruzione


p r e v e n t i v a  s i a p p l i c a s o l o l ' a r t i c o l o 6 6 9  s e p t i e s  i n t e m a d i
provvedimento negativo. 

Come si deve interpretare questa previsione contenuta nell’articolo si


669 quaterdecies? 

Io vi ho già detto che con riferimento alle singole misure cautelari previste nel
codice  civile ma soprattutto nelle leggi speciali  spesso il  legislatore  ha dettato
delle norme di tipo processuale quindi noi troviamo la previsione di  micro
procedimenti aventi ad oggetto provvedimenti cautelari allora si ritiene secondo
quella che è l'interpretazione è preferibile che questa disciplina debba prevalere su
queste disposizioni speciali  e che quindi queste norme  rappresentano una
deroga ad un principio generale  del nostro ordinamento cioè al principio che
troviamo esposto nel famoso detto secondo
cui “lex posterior generalis non derogat priori specialis”. 

Quindi la legge generale sopravvenuta non deroga alle disposizioni speciali dettate
antecedentemente,  invece  si  deve ritenere quindi che  su questi micro-
procedimenti previsti dal legislatore  (con riferimento  alle singole  misure
cautelari) prevalga la disciplina generale. 

Si tratta però di portare il chiarimento la nozione: 

143
o di provvedimento cautelare utilizzata da questa disposizione  

o e anche il significato dell'inciso in quanto compatibili  

ora per quanto riguarda la nozione di provvedimento cautelare dobbiamo tornare a


tutto quanto ci siamo detti nelle lezioni introduttive alla tutela cautelare ricordando
che la tutela cautelare è volta a dare attuazione ad una esigenza fondamentale che
è quella di  assicurare l’effettività della tutela  evitando che l'attore,  che ha
ragione,  debba subire un pregiudizio a causa della durata del processo a
cognizione piena però abbiamo, in quella sede, subito evidenziato che questa non
è una funzione esclusiva della tutela cautelare.  

Giacché per questa stessa funzione il legislatore utilizza anche istituti


completamente diversi pensate: 

i. ad alcuni degli effetti sostanziali della domanda giudiziale tipo  la


trascrizione delle domande giudiziali  

ii. pensate ai titoli esecutivi di formazione e stragiudiziale  

iii. ma soprattutto quei  provvedimenti sommari  di tipo non cautelare chiamati


proprio ad assolvere la stessa funzione e che sono volte a dare all'attore,  a
conclusione di un procedimento che si svolge in forma sommaria,  un
provvedimento anticipatorio ma avente attitudine a diventare immutabile. 

Allora ciò che connota i provvedimenti cautelari non è la funzione che questi
assolvono ma è la struttura perché i provvedimenti cautelari si caratterizzano in
virtù di due qualità: 

A.   sono provvedimenti  PROVVISORI  quindi privi di qualsiasi attitudine ad


acquistare l’autorità della cosa giudicata  

B. e sono provvedimenti STRUMENTALI quindi legati al processo a cognizione


piena avente ad oggetto il diritto a cautela del quale la misura è stata
concessa. 

Allora se questo è vero possiamo sicuramente escludere che il procedimento


cautelare generale possa trovare applicazione ad esempio: 

• con riferimento a provvedimenti che vengono emanati a conclusione


dei  procedimenti sommari di tipo non cautelare  e che sono chiamati ad
assolvere una  funzione di economia processuale  pensate al  procedimento
per ingiunzione - al decreto ingiuntivo - pensate al procedimento per convalida
di sfratto e all’ordinanza di convalida emanata ai sensi dell'articolo 663  

• ma non si applica nemmeno a quei provvedimenti che vengono emanati a


conclusione dei procedimenti di tipo sommario non cautelare e che assolvono
ad una funzione di effettività della tutela pensate al provvedimento in tema di
c o n c o r s o a l  m a n t e n i m e n t o d e i fi g l i e m a n a t o  e x 3 1 6 b i s  o
pensate  al  provvedimento di repressione della condotta antisindacale  di
cui  all'articolo 28  della legge 300/1970 perché si tratta sempre di
144
provvedimenti che sono idonei  ad acquistare una immutabilità che abbiamo
detto che sul piano qualitativo è analogo al giudicato e quindi non rientra nella
definizione di misure cautelari  

• ugualmente si deve escludere e questa disciplina non possa  trovare


applicazioni su  provvedimenti di condanna con riserva  perché i
provvedimenti di condanna con riserva  (pensate agli articoli  35-36 del  cpc  e
pensate  all'articolo 648  del codice di procedura civile in tema di  decreto
ingiuntivo dichiarato provvisoriamente esecutivo  nel corso del giudizio di
opposizione a decreto ingiuntivo o pensate  all’ordinanza immediata di
rilascio  ex  articolo 665  cpc)  sono provvedimenti che sono destinati a perdere
efficacia  solo se nel prosieguo del processo risultano fondate le  eccezioni
sollevate dal convenuto e su cui il giudice si è riservato 

mentre  se l’ulteriore fase non prende avvio oppure prende  avvio ma poi si
estingue questi provvedimenti sono destinati a consolidarsi e quindi a
diventare immutabili o comunque ad acquistare una efficacia che per molti
versi richiama  un'efficacia  che è sul piano qualitativo diciamo può essere
assimilata a quella dell’autorità della cosa giudicata. 

l'unica,  diciamo,  ipotesi su cui possiamo formulare qualche dubbio e


l'articolo  665 ordinanza immediata di rilascio  la cui collocazione non è
certamente semplice ma che è un provvedimento che probabilmente si
p re s t a a q u e s t o p u n t o a d e s s e re ,  i n v e r i t à ,  e q u i p a r a t o a i
provvedimenti cautelari di tipo anticipatorio ma lasciamolo da una parte. 

Fatte queste esclusioni,  quindi,  fatto  questi chiarimenti,  tracciate queste grosse
linee di confine è l'operatore (che a fronte di un provvedimento sommario previsto
nel codice civile o in leggi speciali)  deve svolgere un'analisi strutturale  cioè deve
andare a verificare  se  si tratta di un provvedimento provvisorio e strumentale e
allora sulla base dell’esito di questa valutazione potrà ritenere che si tratti
effettivamente di una misura cautelare o meno. 

Quanto a quell’inciso  “in quanto compatibili”  si tratta di andare a verificare se


tutte quante le disposizioni contenute nel procedimento cautelare generale si
prestano ad essere applicate con riferimento alle singole misure perché ci sono
delle ipotesi in cui il legislatore sostanziale ha dettato delle disposizioni tali per cui
alcune delle norme qui e contenute negli articoli - da 669 bis a 669 terdecies - non
sembrano essere applicabili: 

 -> esempio tipico è quello di provvedimenti che in base alla disciplina normativa


possono essere  emanati soltanto nell'ambito di un processo  che si è già aperto
quindi  in corso di causa,  in queste ipotesi dovremmo escludere la possibilità di
fare applicazione delle disposizioni che prevedono il rilascio ante  causam  della
misura cautelare. 

E allora tanto per fare degli esempi si ritiene pacificamente che sono soggetti alla
disciplina generale  

145
•  il provvedimento in tema di assegno provvisorio degli alimenti di cui di cui
all'articolo 446 del codice civile 

•   così come si ritiene che sono soggetti a questa disciplina i  provvedimenti


cautelari previsti nella legge sul diritto d’autore  (gli articoli  162  -  163 che si
occupano del sequestro e dell’inibitoria provvisoria) 

• u g u a l m e n t e e p a c i fi c o c h e s i a n o s o g g e t t i a q u e s t a
disciplina  generale,  le  misure cautelari previste dal codice della proprietà
industriale  cioè il decreto legislativo  30 del 2005  e in particolare faccio
riferimento agli articoli 128 e ss in tema di sequestro ed inibitorie 

•   si ritiene che sia soggetto alla  disciplina generale il provvedimento,  la


misura cautelare tipica prevista a favore del sindacalista interno
licenziato disciplinato nell’articolo 18 della legge 300 del 1970. 

è una misura particolare che deve essere richiesta su istanza congiunta del
lavoratore e del sindacato a cui aderisce. 

Invece sono sorti dei grossissimi problemi con riferimento ad esempio: 

•  all'articolo 708 co.3 cpc in tema di provvedimento nell’interesse dei coniugi


e della prole e emanato dal presidente del tribunale nell’udienza presidenziale il
giudizio di separazione personale. 

la natura di questo provvedimento non è mai stata chiarita ma per


fortuna  il  legislatore con la legge numero  54 del 2006  è  intervenuto e ha
risolto la questione pratica più urgente  affermando a chiare lettere che il
provvedimento è suscettibile di reclamo ex 669 terdecies di fronte alla Corte
d'appello. 

• particolari sono poi i provvedimenti cautelari di inibitoria che possono essere


emanate in sede di impugnazione giudiziale di delibere,  per esempio
nell'ambito del giudizio di impugnazione delle delibere assembleari delle società
per azioni  art 2378 co.2 oppure in tema di impugnazione  della delibera di
esclusione del socio  disposta dalla maggioranza dei soci di una società di
persone  art 2287 cc oppure la impugnazione giudiziale delle  delibere adottate
dalla maggioranza dei partecipanti a una comunione articolo 1109 co.2 oppure
l’impugnazione della delibera dell’assemblea del condominio art 1137 co.2 cc. 

Ecco nell'ambito di queste discipline si prevede che,  proposta impugnazione da


parte dei soci assenti o dissenzienti o dei condomini assenti o
dissenzienti,  impugnazione è soggetta ad uno stretto  e  rigido termine posto a
pena di decadenza,  è possibile chiedere  l’inibitoria cioè la sospensione
dell'esecuzione della delibera impugnata. 

Questi provvedimenti sono sicuramente provvedimenti di natura cautelare e in


quanto tali sono soggetti alla disciplina in esame, tuttavia, questi provvedimenti in
ragione della disciplina sostanziale che prevede un termine  (come vi ho detto
estremamente stretto e rigido per esercitare l'azione di merito) sono provvedimenti
che  possono essere chiesti solo unitamente alla domanda di merito,  alla
domanda introduttiva del processo a cognizione piena, per questo motivo si ritiene
146
che le disposizioni relative al rilascio ante causa della misura cautelare non siano
compatibili e quindi non si applichino. 

Vedremo parlando del processo esecutivo  che problemi analoghi di compatibilità


si pongono con riferimento  ad un'altra inibitoria cioè il provvedimento  di
sospensione dell'esecutività del titolo esecutivo  oppure di  sospensione
dell'esecuzione  richiesto dal debitore esecutato che  si  sia attivato proponendo
opposizione al precetto e opposizione all'esecuzione.  Su questo istituto fatto
una  crocetta,  segnatevelo perché  di questo  tornerò a parlarvi  nelle prossime
lezioni dedicate al processo esecutivo. 

Una particolare questione  si è  aperta con riferimento ai  provvedimenti


possessori  ora come vedete l'articolo 669  quaterdecies  non si preoccupa dei
provvedimenti possessori,  ovvero,  le azioni a tutela del possesso che sono
disciplinate negli articoli 1168  e 1169 in tema di azione di spoglio azione  e
azione  di manutenzione e naturalmente il problema della disciplina  cui  questi
provvedimenti vanno soggetti è un problema aperto. 

Diciamo che sulla disciplina processuale dei procedimenti cosiddetti possessori


c'è sempre stata  poca chiarezza è sempre stata una questione aperta su cui  in
giurisprudenza e in dottrina non c’è mai stata unità di vedute. 

Anche prima che la legge di riforma del 1990 introducesse il procedimento


cautelare generale, infatti, erano 2 le scuole di pensiero che si fronteggiavano; 

• Secondo  l’opinione largamente maggioritaria  in giurisprudenza e in


dottrina i procedimenti possessori erano introdotti con un’unica domanda cioè
il RICORSO ma che si  articolavano necessariamente su due fasi:  una prima
fase a cognizione sommaria, la competenza apparteneva al pretore (c’era una
competenza per materia stabilita dall’art 21 del cpc) quindi il ricorso
determinava l'apertura di una fase sommaria con oggetto il possesso destinato
a svolgersi nelle forme di cui agli articoli 689 e 690 e destinata a chiudersi con
una ordinanza emanata nel contraddittorio tra le parti.  

Questa ordinanza conteneva la  fissazione della data  della prima


udienza  della  seconda fase che si svolgeva nelle forme del processo a
cognizione piena quindi fra le due fasi (la fase sommaria e quella cognizione
piena  disciplinata in quanto tale  libro II cpc)  non vi  era  ancora  soluzione di
continuità,  anche la seconda fase era una fase avente ad  oggetto il
possesso  ed era destinato a chiudersi con un provvedimento avente la
forma della sentenza suscettibile di appello. 

•   in base invece ad un  orientamento minoritario  questo procedimento


possessorio invece doveva articolarsi in un’unica fase -> era un procedimento
annoverato in una speciale categoria,  si riteneva un  procedimento di  tipo
sommario  semplificato esecutivo  quindi un procedimento che si svolgeva in
forme  necessariamente sommarie  che metteva capo ad un provvedimento di
tipo non cautelare,  un provvedimento avente la forma dell'ordinanza
147
e ordinanza che aveva però una efficacia meramente esecutiva e che una volta
eseguita era destinata a perdere efficacia soltanto se successivamente veniva
aperto un processo a cognizione piena, che poteva per avere ad oggetto non il
possesso ma lo  ius  possidenti  e se questo processo procedimento
cognizione piena  che si chiudeva con un provvedimento giudiziario di  tipo
petitorio  e  non possessorio  dichiarava la non esistenza del diritto la
precedente ordinanza era destinata a perdere efficacia questa situazione
questo dibattito non è stato risolto dal legislatore di 1990. 

 l'entrata in vigore della legge di riforma del 1990 non è riuscita a sopire il grosso
dibattito che da sempre si agita attorno alla individuazione della esatta disciplina
dei procedimenti possessori,  infatti,  fu avete visto prima che il testo dell'articolo
669 quaterdecies non nomina i procedimenti possessori. 

Infatti,  è l'articolo 703  che  è la prima  norma del capo  IV  del quarto libro
del cpc, capo IV dedicato proprio ai procedimenti possessori ad affermare che le
domande di  reintegrazione  e  di manutenzione del possesso si propongono
con  ricorso  al giudice  competente a norma dell'articolo 21 e poi al secondo
comma  il giudice provvede ai sensi degli articoli 669 bis e seguenti in quanto
compatibili. 

Non è l'articolo,  si diceva,  669  quaterdecies  a richiamare  nell’ambito applicativo


degli articoli da 669 bis a 669 terdecies i provvedimenti possessori ma è l'articolo
703 che con riferimento alle  domande di reintegrazione di manutenzione nel
possesso richiama gli articoli 669 bis e seguenti in quanto compatibili. 

Ed infatti,  sotto  l’egida della riforma del 1990  sono  state riproposte le stesse
identiche tesi che già erano state avanzate nel vigore della disciplina previgente. 

• Secondo una  prima interpretazione  (che è stata sviluppata sulla scia


dell'opinione tradizionale della giurisprudenza  e  della  dottrina)  il procedimento
possessorio è un procedimento che si articola in una  doppia fase  una fase a
cognizione sommaria ed una fase a cognizione piena rette da un unico atto
introduttivo ed aventi ad oggetto entrambe il cosiddetto merito possessorio.  

->  per questo motivo i sostenitori di questa tesi interpretano l'espressione


secondo “cui il giudice provvede ai sensi degli articoli 669 bis e seguenti in
quanto compatibili”  di cui al 703  co.2  cpc  nel senso di ritenere che si
applicano solo e soltanto  le disposizioni relative al rilascio della misura
cautelare in corso di causa. 

Quindi: 

1.  la domanda si propone ai sensi dell'articolo 669 bis, 

2.  il procedimento si svolge di fronte al giudice del merito individuato in base


all'articolo 669 quater,  

148
3. la prima fase a cognizione sommaria si svolge nelle modalità di cui
all'articolo 669 sexies.   

Di conseguenza, non troveranno applicazione le disposizioni che si riferiscono


al rilascio a causa della misura quindi gli articoli 669  septies  e
669  octies,  invece,  si applicano le norme relative alla istanza di revoca e di
modifica articolo 669  decies,  si applica la norma relativa al reclamo l'articolo
669  terdecies,  si applicano le norme relative alle modalità di attuazione
669 duodeces. 

• Invece secondo  la  seconda tesi  il procedimento possessorio è


necessariamente un procedimento che si svolge in  un'unica fase,  che si
svolge in  forme sommarie  e che si conclude con un provvedimento
esecutivo,  idoneo a reggere a tempo  indeterminato i propri effetti esecutivi a
meno che non venga aperto il processo a cognizione piena avente oggetto non
il possesso ma il cosiddetto petitorio. 

  allora in base a  quest’altra scuola di pensiero si applicano al procedimento


possessorio soltanto le  norme relative al  rilascio ante  causam  della misura
cautelare.  

Quindi si applica l'articolo  669 bis  circa l’atto  introduttivo,  si applica l'articolo
669 ter, l'articolo 669 sexies e per il provvedimento di rigetto si applica l'articolo
669 septies. 

Anche in base a  questa  prospettazione si applica l'articolo 669  terdecies  in


tema di reclamo e si applica l'articolo 669  decies  in tema di attuazione della
misura cautelare. 

La differenza, ciò che separa le 2 scuole di pensiero è la diversa concezione che i


sostenitori all'una e all'altra hanno del possesso, infatti: 

•   mentre i sostenitori della prima tesi partono dal presupposto secondo


cui il possesso, lo ius possessionis è situazione idonea a costituire l'oggetto di
un processo a cognizione piena 

•   invece sostenitori di questa seconda tesi muovono da un'idea


opposta, l'idea cioè che il possesso è nel nostro ordinamento una situazione di
fatto a cui l'ordinamento  accorda protezione solo nella misura in cui si
verificano le crisi di cooperazione tassativamente indicate negli articoli
1168  e  1170 in tema rispettivamente di azione di reintegrazione reazione di
manutenzione, situazione di fatto che in quanto tale non può costituire l'oggetto
di un processo a cognizione piena. 

->  il processo a cognizione piena infatti secondo i fautori della seconda


tesi può avere ad  oggetto soltanto  le azioni petitorie  e la sentenza finale
che ha ad oggetto quindi  diritto reale l'accertamento del diritto reale  è
destinato a prevalere sulla ordinanza avente ad oggetto invece il possesso. 

149
In mezzo al dibattito, che naturalmente ha creato notevoli incertezze, ad un certo
punto sono intervenute anche le sezioni unite della Corte di Cassazione  con  la
sentenza  24 Febbraio 1998 numero 1984  la Corte di Cassazione ha
dato  conferma alla ricostruzione tradizionale  affermando che il procedimento
possessorio è un procedimento che è retto da  unico atto introduttivo  che passa
attraverso una prima fase a carattere sommario e che prosegue senza soluzione di
continuità in una seconda fase che invece si svolge nelle forme della cognizione
piena  laddove la prima fase  quella cognizione sommaria si chiude con un
provvedimento alla forma dell'ordinanza che deve contenere la fissazione della
data della prima udienza di cui all'articolo 183 

A seguito di questo intervento, che però non è riuscito a stupire del tutto il dibattito
che si è aperto, è intervenuto di nuovo il legislatore nel 2005. 

Il legislatore del 2005 è  intervenuto    modificando  il testo dell'articolo 703  e


prevedendo al quarto comma  

“se richiesta da una delle parti, entro il termine perentorio di 60 giorni, decorrente


dalla comunicazione del provvedimento che ha deciso sul reclamo ovvero,  in
difetto,  del provvedimento di cui al terzo comma il giudice fissa dinanzi
a  sé  l'udienza per la prosecuzione del giudizio di merito e si applica l'articolo
669 novies co.3, nel precedente terzo comma ha previsto, inoltre, che l'ordinanza
che accoglie e respinge la domanda è reclamabile ai sensi dell'articolo
669 terdecies” 

Ora, a parte la precisazione sulla reclamabilità, però avete visto che nessuno, in fin


dei conti, aveva mai dubitato di ciò che l'ordinanza emanata conclusione della fase
a cognizione sommaria fosse suscettibile di reclamo. 

il legislatore che cosa hai fatto?  

  Da  una parte ha cancellato la regola non scritta ma avallata dal precedente
intervento delle sezioni unite secondo cui chiusa la fase a cognizione sommaria
si  apre  immediatamente la fase a condizione piena perché l'ordinanza di
accoglimento che chiude la fase sommaria deve contenere la data della udienza di
cui all'articolo 183  ma dall'altra ha previsto che se una delle parti lo richiede entro
il termine perentorio di 60 giorni allora il procedimento prosegue e il giudice fissa
dinanzi a se l'udienza per la prosecuzione del giudizio di merito. 

Ora questo intervento è un intervento che da una parte,  si può dire,  ha risolto i
problemi pratici ma è un intervento che non porta un chiarimento circa la natura di
questo procedimento  perché per un verso ha cancellato    l’obbligo di apertura
della fase a cognizione piena quindi  ha diciamo,  senz'altro,  contraddetto quanto
affermato dalle sezioni unite del 1998 quindi si potrebbe dire che,  cancellando
l'obbligo di persecuzione nelle forme della cognizione,  il legislatore ha diciamo
aperto alla tesi di chi ritiene che  il  procedimento possessorio si
chiude con l’ordinanza emanata conclusione della fase sommaria. 

Dall'altra parte, però, ha previsto che su istanza di parte il processo a cognizione


piena si apre  e ha previsto altresì che questa istanza può essere avanzata,  non
150
senza limiti di tempo  -  salvo i limiti della prescrizione  così come avviene con
riferimento ai provvedimenti cautelari di tipo anticipatorio,  ma  ha
scritto  espressamente che questa richiesta deve provenire entro il termine
perentorio di 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento, dell'ordinanza del
giudice e in aggiunta ha altresì precisato che in questo caso il giudice fissa davanti
a se l'udienza per la prosecuzione del giudizio di merito,  giudizio di merito che
evidentemente avrà ad oggetto ancora una volta in possesso e in questo secondo
senso si può dire che  il legislatore  è rimasto sulla scia  dell  interpretazione
tradizionale. 

Direi che con questo possiamo ritenere conclusa l'analisi dei procedimenti speciali
e quindi come già preannunciato andiamo adesso ad aprire un nuovo tema del
nostro corso di procedura civile ed andiamo a parlare dei: 

PROCESSI ESECUTIVI  

di cui al III cpc. 

Ricordate che ci è capitato più volte di richiamare l'attenzione sul fatto che non si
parla di processo esecutivo ma di  processi esecutivi  perché in effetti il nostro
legislatore ha predisposto diversi processi volti a dare attuazione a diritti aventi un
contenuto diverso. 

  Il terzo libro e si apre con  l'articolo 474  in tema di  titolo esecutivo  e si chiude
con  l'articolo 632  che è inserito in una serie di disposizioni dedicate
alla estinzione del processo esecutivo. 

Qual è lo scopo della tutela esecutiva? 

L'abbiamo già un prodotto in apertura del nostro corso,  riprendiamo la


definizione,  attraverso la tutela esecutiva il legislatore  mette a disposizione dei
cittadini degli strumenti volte ad assicurare a questi cittadini le utilità che sono
garantite a livello di legge sostanziale e in effetti la funzione svolta dalla tutela
esecutiva non è una funzione esclusiva perché a questo stesso scopo il legislatore
si serve anche di tecniche diverse e una prima tecnica l'abbiamo vista studiando
la  tutela di condanna  ed è  la tecnica delle misure coercitive,  si parla anche di
un’esecuzione indiretta. 

Oggi  la tecnica delle misure coercitive è stata generalizzata  nell’articolo  614


bis  cpc, il legislatore  italiano ha adottato un  modello di sanzione pecuniaria di
tipo privatistico perché nella misura coercitiva consistente somma di denaro che
il destinatario dell'ordine del giudice deve corrisponde alla controparte per
ogni  violazione o  ritardo  nell’adempimento dell'ordine del giudice. Sappiamo che
in base all'attuale testo dell'art  614 bis,  le misure coercitive possono essere
imposte con riferimento a  qualsivoglia provvedimento  purché  non  si  tratti di
provvedimento avente ad oggetto il pagamento di somme di denaro. 

La seconda tecnica che abbiamo riscontrato è quella particolare sentenza avente


un contenuto cognitivo ed esecutivo e di cui all'articolo 2932 del codice civile
in tema di contratto preliminare. Ricordate che è in base a questa disposizione, se
una delle parti contraenti del contratto preliminare non adempie il proprio obbligo
151
di conclusione del contratto definitivo,  la controparte può recarsi difronte al
giudice,  il quale  dopo aver  accertato l'esistenza del diritto  e  del  corrispondente
obbligo al rilascio della dichiarazione di volontà, emana una sentenza che produce
gli stessi effetti del contatto non concluso. 

E  noi abbiamo detto questa è una sentenza molto peculiare perché ha


un contenuto duplice: 

o in parte cognitivo 

o in parte esecutivo  

il  giudice,  dopo avere accertato l'esistenza del diritto,  lo attua e lo può attuare
nella sentenza di merito perché si tratta di un contenuto particolare.  E’  un diritto
che ha un contenuto particolare consistente nel rilascio di una dichiarazione di
volontà. 

Il processo esecutivo è un’ulteriore tecnica di cui legislatore si serve. 

In che cosa consiste la tecnica utilizzata dal legislatore? 

In tutti i processi esecutivi si ha che il titolare del diritto può ottenere le attività che
gli  sono assicurate  dalla  legge sostanziale attraverso  l'attività surrogatoria  di
un soggetto terzo che si sostituisce all’obbligato. 

Questo soggetto terzo e lo  Stato è,  lo stato che attribuisce all’avente diritto,  al
creditore i beni e le utilità che gli sono assicurate dalla legge sostanziale. 

Questi processi esecutivi,  proprio perché la tecnica utilizzata consiste  nell’attività


surrogatoria dello Stato,  hanno dei  limiti  nel senso che  non possono essere
utilizzati per dare soddisfazione a diritti che hanno ad oggetto un contenuto di fare
o di non fare infungibile  perché naturalmente se la prestazione di fare o di non
fare  è  infungibile non è possibile l'attività surrogatoria  è  necessaria  e
indispensabile la cooperazione dell' obbligato e qui la tecnica esecutiva non può
funzionare. 

È questo settore che è indispensabile la tecnica delle misure coercitive. 

Per molto tempo si è dubitato in ordine al se l'attività, tutta l'esecuzione forzata si


prestasse ad essere definita  come  attività giurisdizionale  molti ritenevano  che si
trattasse di un'attività meramente amministrativa.  

In verità,  studiando le regole di svolgimento dei processi esecutivi potremo


verificare e toccare con mano che il processo esecutivo non consiste
semplicemente nel compimento di attività di tipo materiale ma consiste anche nel
compimento di atti giuridici  e questo porta a ritenere che i processi
esecutivi rientrino nella nozione di giurisdizione, anzi come ha riconosciuto anche
la Corte europea dei diritti dell'uomo è un momento indispensabile del sistema di
tutela giurisdizionale dei  diritti,  è    una componente del giusto processo perché
serve ad assicurare la effettività della tutela. 

I  processi esecutivi  si distinguono in ragione  dell’oggetto,  dell'obbligo


inadempiuto abbiamo: 

152
a. il processo di espropriazione forzata  teso a dare attuazione al diritto al
pagamento di una somma di denaro  

b. e poi abbiamo  i processi di esecuzione forzata in forma


specifica  per  obbligo di consegna rilascio o per obblighi di fare o di non
fare. 

Nell’espropriazione  forzata l'oggetto del diritto  è  il  pagamento di una somma di


denaro  ed  è diverso dall'oggetto del processo esecutivo perché l'oggetto del
processo esecutivo vedremo è il patrimonio del debitore, anzi i beni facenti parte
del patrimonio del debitore mentre,  invece,  negli altri due processi esecutivi
l'oggetto del diritto coincide con l'oggetto del processo esecutivo per questo si
parla di due forme di esecuzione forzata in forma specifica.  

Lezione 9; arg. 8; file 3, 4, 5

Andiamo adesso ad analizzare l'articolo 474 che contiene la disciplina del titolo
esecutivo.

Il TITOLO ESECUTIVO è un presupposto speciale di ammissibilità del processo


esecutivo. Nel senso che, mentre abbiamo visto che il processo a cognizione
piena può essere aperto dall'attore che si afferma titolare del diritto fatto valere in
giudizio, invece per dare avvio al processo esecutivo occorre che la parte, l'attore,
colui che agisce, che e’ il creditore abbia già nelle sue mani un titolo esecutivo.

Che cos'è un titolo esecutivo? Il titolo esecutivo e’ uno dei provvedimenti o degli
atti tassativamente indicati nell'articolo 474 che offre un certo grado di certezza in
ordine al diritto di cui il creditore vuole ottenere il soddisfacimento.

Il primo comma dell'articolo 474 prevede infatti che l'esecuzione forzata non può
avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed
esigibile. Lasciamo stare la nozione di certezza che sarà chiarita esaminando il c.2
e soffermiamoci per un istante, sulla nozione di liquidità ed esigibilità. Un credito è
liquido quando è determinato nel suo ammontare mentre è esigibile quando non è
soggetto né a termini né a condizioni oppure il termine è scaduto o la condizione si
è avverata.

Quanto alla certezza sono i titoli, quindi i provvedimenti e gli atti indicati nei numeri
1 2 e 3 del secondo comma dell'articolo 474, che sono ritenuti dal legislatore
idonei ad offrire un grado di certezza in ordine all’esistenza del diritto di credito di
cui si vuole ottenere il soddisfacimento, sufficiente a mettere in moto il processo
esecutivo.

In verità noi passando in esame queste disposizioni, avremo modo di vedere che
si tratta di una categoria estremamente eterogenea. Nel senso che questi
provvedimenti e questi atti offrono un grado di certezza in ordine all’esistenza del
diritto di credito molto diversa. Questa diversità però non rileva circa la idoneità di
tutti i provvedimenti e gli atti indicati a mettere in moto il processo esecutivo ma
rileva sotto un altro profilo. Perché, noi vedremo che come prende avvio il
153
processo esecutivo, al debitore e’ subito offerta la possibilità di utilizzare un
rimedio che prende il nome di opposizione al precetto o opposizione
all'esecuzione (la differenza è solo cronologica) al fine di contestare il diritto del
creditore di procedere in via esecutiva. Allora il diverso grado di certezza che
questi provvedimenti e questi atti offrono in ordine all'esistenza del diritto di
credito, rilevano perché a seconda che offrono un grado di certezza più o meno
elevato, al debitore sarà concesso un margine di difesa più ristretto oppure meno
ristretto.

Passiamo ad esaminare l’elencazione che troviamo nell articolo 474 il numero uno
come vedete, richiama: le sentenze, i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge
attribuisce espressamente efficacia esecutiva. E’ pacifico che quel termine
sentenza si riferisca alle sole sentenze di condanna. Quindi sono escluse le
sentenza di mero accertamento e le sentenze costitutive. In particolare vi ricordo
che in base al disposto dell’art 282 c.p.c. le sentenze di condanna nascono
provvisoriamente esecutiva ex lege anche le sentenze di primo grado.

Accanto alle sentenze di condanna c'è un richiamo agli altri provvedimenti a cui la
legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva. Qui dobbiamo tornare a
riprendere tutti quegli esempi di provvedimenti aventi forma diversa dalla sentenza
emanati nel corso del processo a cognizione piena o a termine di procedimenti
speciali a cui la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva. Quindi
possiamo pensare all'ordinanza di pagamento delle somme non contestate (art
186 bis); all’ordinanza di ingiunzione (art 186 ter); al decreto ingiuntivo dichiarato
provvisoriamente esecutivo ai sensi degli artt. 642 o 648 oppure divenuto
esecutivo in base agli articoli 647 e 653; l'ordinanza di convalida dello sfratto (art
663); l'ordinanza immediata di rilascio (art 665); e via dicendo. Naturalmente il
riferimento e’ anche ad altri provvedimenti non disciplinati nel codice di procedura
civile. pensate al decreto emanato nel procedimento relativo al concorso relativo al
mantenimento dei figli (articolo 316 bis c.c.); pensate al decreto di repressione
della condotta antisindacale (art 28 dello Statuto dei lavori), e via dicendo.

Per quanto riguarda invece gli altri atti a cui la legge attribuisce efficacia esecutiva,
si pensi il primo luogo alle ipotesi in cui le parti riescono a conciliarsi nel corso del
processo, l'articolo 185 prevede che il giudice redige processo verbale dell'
avvenuta conciliazione che costituisce titolo esecutivo, una disposizione analoga
la ritroviamo anche in altre ipotesi.

Poi abbiamo le scritture private autenticate relativamente alle obbligazioni di


somme di denaro in esse contenute, le cambiali, nonché gli altri titoli di credito ai
quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia. E qui dobbiamo
ricordare appunto la cambiale e precisare che in queste ipotesi l’efficacia
esecutiva sarà disciplinata dalla legge che regola il titolo di credito, quindi ad
esempio nel caso della cambiale, la cambiale dovrà essere in regola con il bollo. E
una disposizione analoga, la ritroviamo nella legge che invece disciplina l'assegno.
E poi abbiamo gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato
dalla legge e sono atti pubblici.

154
Ogni processo esecutivo prende avvio con una fase cosiddetta preliminare. La
FASE PRELIMINARE consiste, si apre nel momento in cui il creditore notifica al
debitore il titolo esecutivo e il precetto. L’articolo 479 del codice di procedura
prevede infatti che se la legge non dispone altrimenti l'esecuzione forzata deve
essere preceduta dalla notificazione del titolo in forma esecutiva e del precetto.

La Forma esecutiva è disciplinata nell'articolo 475 là dove si dice che le sentenze


e gli altri provvedimenti dell'autorità giudiziaria e gli atti ricevuti da notaio o da altro
pubblico ufficiale per valere come titolo per l'esecuzione forzata, devono essere
muniti nella formula esecutiva, (non è altro che un timbro che viene apposto sul
provvedimento).

Per quanto riguarda invece il PRECETTO la disciplina la troviamo nell'articolo 480


in cui si dice che il precetto contiene, primo.comma, l’intimazione di adempiere
l'obbligo risultante dal titolo esecutivo entro un termine, non minore di 10 giorni, e
poi nel secondo comma, che deve contenere altresì a pena di nullità l'indicazione
delle parti, della data di notificazione del titolo esecutivo, se questa è fatta
separatamente o la trascrizione integrale del titolo stesso quando è richiesta dalla
legge. E nell'ultimo comma prevede che il precetto deve altresì contenere la
dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio della parte istante nel comune
in cui ha sede il giudice competente per l'esecuzione, in mancanza le opposizioni
al precetto si propongono davanti al giudice del luogo in cui è stato notificato e le
notificazioni alla parte istante si fanno presso la cancelleria del giudice adito. Il
precetto in base all'ultimo comma deve essere sottoscritto a norma dell'articolo
125 e notificato alla parte personalmente a norma degli articoli 137 e seguenti.

Torniamo all’articolo 479: il creditore procede alla notifica del titolo esecutivo e del
precetto alla parte personalmente a norma degli articoli 137 e seguenti.

Qual è la funzione di questa fase preliminare e di questo atto che viene notificato
al debitore?

Si dice che questo atto svolge una funzione duplice, nel senso che: in primo luogo,
nel precetto, il creditore (torniamo all’art 480) intima al debitore di adempiere
l'obbligo risultante dal titolo esecutivo entro un termine non minore di 10 giorni.
Quindi è una provocatio ad adimplendum, cioè si avvisa il debitore che si
procederà esecutivamente invitandolo ad adempiere spontaneamente perché
subire una esecuzione forzata (come avremo modo di vedere successivamente)
non è affatto simpatico.

La seconda funzione svolta da questa fase preliminare è la cosiddetta provocatio


ad opponendum. Ovvero; siccome il debitore è messo sull'avviso che il creditore
procederà esecutivamente, se vuole contestare il diritto del creditore di procedere
in via esecutiva, potrà utilizzare, attivarsi e mettere in moto il giudizio di
opposizione al precetto o opposizione all’esecuzione.

In vero questi due rimedi sono un rimedio unico. Si parla di opposizione al


precetto, articolo 615 primo comma, laddove il debitore si attiva durante la fase
155
preliminare a seguito della notifica del precetto unitamente al titolo esecutivo. Si
parla invece di opposizione all'esecuzione, 615 secondo comma, quando il
debitore si attiva a processo esecutivo già aperto. (il primo atto del processo
esecutivo almeno nell'ambito delle espropriazioni forzata, cioè il processo
esecutivo volto a dare attuazione, soddisfacimento concreto al diritto ad ottenere il
pagamento di una somma di denaro è il pignoramento, per cui laddove il debitore
si attiva all’indomani del pignoramento il rimedio e’ l'opposizione all'esecuzione.
Quindi il rimedio è unitario, è lo stesso.

Il giudizio di opposizione al precetto o all'esecuzione è un processo a cognizione


piena ed e’ un rimedio esterno al processo esecutivo, nel senso che si svolge
parallelamente al processo esecutivo, e è possibile che si svolga di fronte ad un
giudice diverso rispetto all'ufficio giudiziario presso cui e’ incardinato il processo
esecutivo.

L’articolo 615 primo comma prevede che l'opposizione al precetto si propone con
atto di citazione davanti al giudice competente per materia o valore e per territorio
a norma dell'articolo 27. Mentre invece con riferimento all’opposizione
all'esecuzione l’art 615 secondo comma prevede che l'opposizione all'esecuzione
si propone con ricorso di fronte al giudice dell'esecuzione (che il giudice che
sovrintende il processo esecutivo). Ma poi il successivo articolo 616, stabilisce
che: se competente per la causa è l'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice
delle esecuzioni, allora questi fissa un termine perentorio per l'introduzione del
giudizio di merito secondo le modalità previste in ragione della materia, o del rito
previa iscrizione della causa al ruolo a cura della parte interessata osservati i
termini a comparire di cui all'articolo 163-bis. Altrimenti, ultima parte, rimette la
causa dinanzi all'ufficio giudiziario competente assegnando un termine perentorio
per la riassunzione della causa.

Allora; al di là di queste diversità in punto di forma dell'atto introduttivo che per


l'opposizione al precetto e’ l'atto di citazione, mentre invece per l’opposizione
all'esecuzione è il ricorso. E al di là della diversa competenza. Il rimedio è lo
stesso.

Questo rimedio non incide automaticamente sullo svolgimento del processo


esecutivo.

Si tratta di un rimedio cognitivo che si sviluppa, che va avanti parallelamente e


autonomamente.

Però, la legge (come vedremo successivamente) consente al debitore di richiedere


la sospensione. Nell’ipotesi di opposizione al precetto, la sospensione della
esecutività del titolo (perché ancora l'esecuzione non è avviata e quindi gli
interessa bloccare, cristallizzare il titolo sulla cui base intende procedere. Mentre
invece in sede di opposizione all'esecuzione, gli interessa sospendere l'esecuzione
che è già avviata.

Questo provvedimento, però, è un prov. che ha natura cautelare, che è


subordinato ad una richiesta del debitore esecutato, ed è subordinato ad una
valutazione da parte del giudice in ordine all’esistenza di gravi motivi. Se però il

156
provvedimento non viene richiesto e comunque viene richiesto ma non concesso,
il giudizio di opposizione va avanti autonomamente.

Questo abbiamo detto opposizione al precetto e opposizione all'esecuzione


determina l'apertura di un processo a cognizione piena. Quindi è un processo
regolato dal secondo libro del codice di procedura civile.

Qual è l'oggetto di questo processo a cognizione piena?

Ce lo dice il primo comma dell'art 615: è il diritto della parte istante a procedere ad
esecuzione forzata, quindi attraverso questo rimedio il debitore esercita una tipica
azione di accertamento negativo chiedendo al giudice di accertare la non
esistenza del diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata. Quindi ha un
oggetto di marca processuale.

Alla base di questa opposizione, quindi, la causa petendi, le motivazioni che Il


debitore può spendere al fine di chiedere al giudice di accertare la non esistenza
del diritto del creditore di agire in via esecutiva, sono tre. Sono: motivazioni di rito ;
motivazioni di merito ; motivazioni che attengono a ipotesi eccezionali in cui il
processo esecutivo è avviato da o contro soggetti diversi da quelli che risultano
dal titolo esecutivo e poi ci sono delle motivazioni che attengono al modo in cui
l'esecuzione si svolge. Questi ultimi motivi possono essere fatti valere solo in sede
di opposizione all'esecuzione perché presuppongono un esecuzione che si e’ gia
aperta.

Andiamo ad esaminare la disciplina dell'opposizione al precetto o opposizione


all'esecuzione, e in particolare andiamo ad esaminare i diversi motivi che il
debitore può opporre a fondamento di essa.

Come ho detto prima l’oggetto del processo di opposizione al precetto o


opposizione all'esecuzione è sempre in diritto di procedere in via esecutiva. È una
tipica azione di accertamento negativo. Il debitore esecutato chiede al giudice di
accertare che il creditore non ha diritto di procedere in via esecutiva nei suoi
confronti. Questo lo desumiamo dal testo dell'articolo 615 laddove, in apertura,
afferma: quando si contesta il diritto della parte istante a procedere ad esecuzione
forzata. Allora. Come vi ho detto i motivi che il debitore può porre a fondamento
della sua posizione, sono Innanzitutto motivi di rito. Ricordatevi sempre che
attraverso l'opposizione al precetto o opposizione all'esecuzione, il debitore deve
contestare il diritto di procedere in via esecutiva. Allora questi motivi di rito devono
essere delle contestazioni in grado di scardinare, far saltare il diritto del creditore di
procedere esecutivamente. Allora che cosa potrà contestare Il debitore? Ad
esempio potrà contestare l'esecutività del titolo. Potrà cioè affermare che quello
che gli è stato notificato non è un titolo esecutivo. Pensate alle ipotesi in cui la
sentenza che il creditore ha notificato e’ una sentenza di mero accertamento e non
una sentenza di condanna; oppure può contestare i requisiti della liquidità ed
esigibilità del credito; può anche contestare che il provvedimento sulla cui base il
credito ha agito, è stato impugnato e il giudice dell'impugnazione ha sospeso
l'esecutività della sentenza. (Abbiamo detto prima il titolo esecutivo è anche la

157
sentenza di condanna di primo grado). Naturalmente essendo esecutiva il
creditore è legittimato a mettere in moto il processo esecutivo, anche se nel
frattempo il debitore propone appello. L’appello non ha effetto sospensivo, quindi
non determina la sospensione dell'esecutività o dell’esecuzione ma quello che il
debitore appellante può fare è rivolgersi al giudice dell'impugnazione e chiedere un
provvedimento di inibitoria, quindi la sospensione della esecutività o
dell’esecuzione, in base ad esempio all’art 351 e questo è previsto con riferimento
a tutti i giudizi di impugnazione, abbiamo visto, per fare un altro esempio, che
anche nell’ambito del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo il debitore può
chiedere ai sensi dell'articolo 649, la sospensione dell’esecuzione avviata sulla
base del decreto ingiuntivo dichiarato provvisoriamente esecutiva ai sensi
dell'articolo 642 del Codice di Procedura Civile; oppure il debitore può contestare
che la sentenza sulla cui base il creditore ha agito è stata riformata, quindi è stato
fatto appello e il giudice dell'appello l'ha annullata, quindi anche questa e’
sicuramente un motivo che può essere validamente posto a fondamento di un
opposizione al precetto o opposizione all'esecuzione.

Vi sono poi i motivi di merito. I motivi di merito attengono alla esistenza del diritto
di credito, del diritto sostanziale di cui il creditore vuole ottenere il soddisfacimento
pratico. Quindi, che cosa farà valere in questa ipotesi il debitore? Contestare
l'esistenza dei fatti costitutivi del diritto di credito o farà valere l’esistenza di fatti
modificativi, estintivi impeditivi. E’ qui che assume rilevanza la diversità dei
provvedimenti e degli atti a cui l'articolo 474 attribuisce efficacia esecutiva. Vi ho
detto prima tutti questi atti sono ugualmente idonei a mettere in moto il processo
esecutivo ma dal momento in cui offrono un grado di certezza in ordine
all'esistenza del diritto sostanziale, diverso. Diverso e’ il margine di difesa che avrà
il debitore in sede di opposizione e quindi in questa sede occorre effettuare una
serie di distinzioni.

> Supponiamo che il creditore abbia agito sulla base di una sentenza passata in
giudicato, ora noi sappiamo che la caratteristica fondamentale del giudicato è la
sua stabilità e che il meccanismo che regge la sua stabilità è la preclusione da
dedotto e deducibile. Quindi appare chiaro che questo e’ l’ipotesi in cui il margine
di difesa del debitore esecutato sara sicuramente piu ristretta. Quali sono gli unici
fatti che potranno essere spesi contro un giudicato? Sono i fatti non coperti dalla
preclusione da dedotto e deducibile e quindi saranno soltanto i fatti che sono
venuti ad esistenza in un momento successivo al giudicato o meglio al referente
temporale del giudicato.

> Supponiamo invece il creditore abbia agito sulla base di una sentenza di primo
grado, quindi una sentenza ancora non passata in giudicato (es: sentenza
d’appello), quindi ancora suscettibile di essere impugnata attraverso i mezzi di
impugnazione ordinari. E’ possibile per il debitore aprire il giudizio di opposizione
al precetto o opposizione all'esecuzione? Qui bisogna fare attenzione perché noi
abbiamo detto che il giudizio, il processo di cognizione segue il suo corso
normale, senza che questo possa avere delle influenze sul processo esecutivo e
naturalmente è vero anche il contrario, cioè non può essere il processo esecutivo
158
ad influenzare il processo di cognizione. Quindi la parte soccombente nel
processo di cognizione potrà legittimamente impugnare la sentenza proponendo
appello o proponendo ricorso per cassazione e abbiamo già ricordato che la parte
appellante potrà rivolgersi al giudice dell'impugnazione per chiedere il
provvedimento inibitorio di sospensione. Se questo e’ vero allora si spiega il
principio di non permeabilità fra motivi di impugnazione e motivi di opposizione, se
il provvedimento è suscettibile di essere impugnato attraverso un mezzo di
impugnazione ordinario, il debitore dovrà muovere tutte le proprie contestazioni di
fronte al giudice dell'impugnazione, non potendo invece aprire il giudizio di
opposizione.

Invece, laddove il titolo esecutivo e’ di formazione stragiudiziale per definizione,


non c'è un accertamento giurisdizionale, non c'è un processo in cui sono stati fatti
valere tutti fatti giuridicamente rilevanti ai fini dell'esistenza e del modo d’essere
del diritto di cui si tratta. Allora in questa ipotesi sarà proprio il giudizio di
opposizione al precetto o giudizio di opposizione all'esecuzione in cui Il debitore
potrà dare sfogo a tutto il suo diritto di difesa, nella maniera più completa
possibile. Salvo naturalmente i limiti che potranno essere stabiliti dalle leggi che
regolano i singoli atti. Per esempio: il debitore dovrà rispettare le limitazioni
previste dalla legge sulla cambiale o della legge sull'assegno; ancora, è possibile
attraverso l’opposizione al precetto o opposizione all'esecuzione laddove la legge
ammette che il titolo esecutivo possa essere fatto valere anche a favore o contro
soggetti terzi, rispetto al creditore ma soprattutto al debitore, attraverso
l'opposizione si potrà contestare la qualità terzo, successore del creditore o la
qualità di erede del debitore, in modo da bloccare il processo esecutivo che è
stato avviato da o nei confronti di una parte diversa da coloro che compaiono sul
titolo esecutivo.

> Vi e’ poi il caso particolare previsto nel secondo comma dell'articolo 615 del
codice di procedura civile in cui attraverso l'opposizione all'esecuzione, si
contesta il modo in cui si è svolta l'esecuzione. Questo è un motivo che può
essere fatto valere solo attraverso opposizione all'esecuzione perché presuppone
che l'esecuzione sia già aperto. In questa ipotesi quello che il debitore può
contestare e’ una violazione dei limiti legali circa la pignorabilità dei beni (che
andremo ad esaminare successivamente).

Nelle ipotesi in cui Il debitore esecutato pone a fondamento della sua posizione al
precetto o opposizione all’esecuzione dei motivi di merito, l'oggetto originario del
processo rimane il diritto di marca processuale del creditore di agire in via
esecutiva. Tuttavia il giudice competente si troverà a dover accertare anche
l'esistenza, il modo d'essere del diritto sostanziale, del diritto di credito perché il
debitore in questo caso contesta l’esistenza del diritto di credito. Questo diritto di
credito si può configurare come un diritto, come rapporto pregiudiziale rispetto al
diritto di marca processuale di agire in via esecutiva. Si ritiene secondo
l'interpretazione preferibile che in queste ipotesi il giudice competente debba
accertare il rapporto pregiudiziale con autorità di cosa giudicata, quindi in deroga

159
alla regola generale enunciata dall'articolo 34, questo per esigenze di carattere
pratico.

Come vi ho detto la proposizione dell'opposizione al precetto o opposizione


all'esecuzione non determinano la sospensione automatica del processo
esecutivo. Infatti la sospensione del processo esecutivo è subordinata ad una
richiesta del debitore esecutato e al rilascio di un provvedimento da parte del
giudice. Quella disciplina della sospensione dell'esecuzione la ritroviamo nell'
articolo 615 e 624. L'articolo 615 al primo comma prevede: quando si contesta il
diritto della parte istante a procedere a esecuzione forzata e questa non è ancora
iniziata, si può proporre opposizione al precetto con citazione davanti al giudice
competente per materia o valore e per territorio a norma dell'articolo 27. Il giudice
concorrendo gravi motivi, sospensione su istanza di parte l'efficacia esecutiva del
titolo. Se il diritto della parte istante e’ contestato solo parzialmente, il giudice
procede alla sospensione dell'efficacia esecutiva del titolo esclusivamente in
relazione alla parte contestata.

Mentre con riferimento all'opposizione all'esecuzione rileva il disposto degli articoli


623 e 624. Ci dice l'articolo 623: salvo che la sospensione sia disposta dalla legge
o dal giudice davanti al quale impugnato il titolo esecutivo, l’esecuzione forzata
non può essere sospesa che con provvedimento del giudice dell'esecuzione. E
l'articolo 624 prevede che se e’ proposta opposizione all’esecuzione a norma degli
articoli 615 e 619, il giudice dell'esecuzione concorrendo gravi motivi, sospende
su istanza di parte il processo con cauzione o senza. Allora; il primo comma
dell'articolo 615 si occupa delle ipotesi in cui il debitore si sia attivato nella fase
preliminare e quindi abbia proposto opposizione al precetto.

Mentre gli articoli 623 e 624 si occupano dell’ipotesi in cui Il debitore si sia mosso
successivamente quindi abbia proposto opposizione all’esecuzione. Vede c'è un
inciso che fa salvo la competenza del giudice davanti al quale è impugnato il titolo
esecutivo, qui il riferimento e’ all'ipotesi in cui il titolo esecutivo è un
provvedimento suscettibile di impugnazione e quindi il debitore abbiamo mosso le
proprie contestazioni di fronte al giudice dell'impugnazione ed e’ al giudice
dell'impugnazione che dovrà rivolgere la propria istanza di rilascio della cosiddetta
inibitoria.

Allora. Come vedete, sia l'articolo 615 sia l'articolo 624 subordinano il rilascio del
provvedimento di sospensione alla presenza di gravi motivi. Il provvedimento di
sospensione all'esecuzione (come già vi ho detto in altra sede) e’ ritenuto una
misura cautelare subordinata, quindi ad una valutazione da parte del giudice del
fumus boni iuris e del periculum in mora. Allora, siccome si tratta di una misura
cautelare, oltre ad un chiarimento in ordine ai presupposti è importante stabilire le
modalità di rilascio di questo provvedimento, la disciplina di questo
provvedimento. Abbiamo detto è una misura cautelare e questo naturalmente ci
porta all’art 669 quaterdecies nella parte in cui prevede che a tutte le misure
cautelari si applicano le disposizioni di cui agli articoli precedenti, quindi da 669
bis a 669 terdecies in quanto compatibili. Vedo è che l'articolo 669 quaterdecies
160
richiama soltanto le misure cautelari previste nelle sezioni successive, quindi
richiama soltanto: i sequestri, le denunce e i provvedimenti d'urgenza (e poi fa
riferimento al codice civile e alle leggi speciali), ma (vi avevo già detto che) questo
rinvio deve intendersi comprensivo anche delle altre misure cautelari previste nel
codice di procedura civile, ma in una sede diversa rispetto alle disposizioni
espressamente richiamate.

Allora intanto un chiarimento sui requisiti. Che cos'è il fumus boni iuris? E che
cosa è il periculum in mora? Si ritiene che a questi faccia riferimento l’espressione
‘’gravi motivi’’ secondo l'interpretazione preferibile.

Il fumus boni iuris non può che essere la probabile fondatezza dell’opposizione
promossa dal debitore, quindi il giudice dovrà vagliare la fondatezza dei motivi di
opposizione proposti dal debitore.

Il periculum in mora si ritiene essere presente in re ipsa. Perché? Perché se il


debitore esecutato non ottiene la sospensione dell'esecutività o dell'esecuzione, il
processo esecutivo andrà avanti parallelamente allo svolgimento del giudizio di
opposizione. Ora, se il processo esecutivo va avanti raggiungerà quelli che sono i
suoi esiti fisiologici, ovvero la vendita forzata e la distribuzione del ricavato
(parliamo e pensiamo al progetto esecutivo più importante che e’ l'espropriazione
forzata, vi ho detto e’ il processo per il cui tramite si dà attuazione a un diritto di
credito avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro). Ora, secondo
l'interpretazione preferibile, se l'opposizione all'esecuzione viene accolta
all'indomani della vendita forzata, all'indomani della chiusura, del perfezionamento
del procedimento di vendita forzata per il cui tramite il bene del debitore viene
alienato ad un terzo che è il cosiddetto aggiudicatario, la vendita forzata non cade,
l’effetto traslativo non cade. Quindi in pratica il debitore perde definitivamente il
suo bene. Quindi voi capite che questo rilievo spiega il perché il periculum in mora
si deve ritenere esistente in re ipsa, in queste ipotesi.

Per quanto riguarda la disciplina. Ecco questa disposizione è interessante perché


ci consente di comprendere come funziona la riserva di compatibilità. L'articolo
623 affida la competenza al provvedimento di sospensione dell'esecuzione al
giudice dell'esecuzione. Noi abbiamo già visto che il giudice dell’esecuzione non
necessariamente è il giudice competente a pronunciarsi sull'opposizione perché
l'articolo 616 prevede che se competente per la causa non è l'ufficio giudiziario a
cui appartiene il giudice dell'esecuzione questi che cosa deve fare? Deve fissare
un termine perentorio per l'introduzione del giudizio di merito secondo le modalità
previste in ragione della materia e del rito. Quindi, se la competenza in ordine
all’opposizione all'esecuzione non è dell'ufficio giudiziario a cui appartiene il
giudice dell'esecuzione, questi rinvia le parti di fronte al giudice competente. Allora
questa regola, la regola disegnata dagli articoli 623 e 616 contravviene la scelta
fondamentale che il legislatore ha effettuato in tema di misure cautelari perché noi
abbiamo visto a suo tempo che la competenza cautelare appartiene sempre al
giudice del merito. Si tratta allora di vedere se la regola che noi troviamo espressa

161
nell'articolo 623 debba essere conservata o invece prevalga la regola generale
fissata nell’articolo 669 quater.

Intanto vi faccio notare che in base alla disciplina dettata in queste disposizioni,
appare chiaro che il provvedimento di sospensione del processo esecutivo può
essere presentato soltanto unitamente, insieme alla domanda introduttiva del
processo di opposizione al precetto o opposizione all’esecuzione. Dalla lettura
degli articoli 615 da una parte, e 623 e seguenti dall'altra, si ricava infatti che la
sospensione dell'esecutività del titolo e la sospensione dell’esecuzione non potrà
mai essere richiesta ante causa. Quindi sicuramente non si applicano le
disposizioni relative al rilascio ante causa della misura cautelare.

C'è poi un problema di competenza. Posto che si tratta di una misura cautelare
che può essere richiesta soltanto in corso di causa, si tratta di capire se la regola
generale fissata dell'articolo 669 quater, secondo cui la competenza al rilascio
della misura cautelare appartiene sempre al giudice del merito, possa prevalere
rispetto alla regola speciale dettata dall'articolo 623.

Ebbene la risposta che si dà è una risposta negativa, cioè si ritiene che la


disciplina generale non sia compatibile con la disciplina speciale dettata in queste
disposizioni perché a fondamento della scelta del legislatore, della scelta che
traspare dall'articolo 623, c’e’ la considerazione secondo cui il giudice
dell'esecuzione come giudice che sovrintende il processo esecutivo, è
sicuramente il giudice più qualificato per provvedere sull’istanza di sospensione.
L’istanza di sospensione che è un provvedimento estremamente incisivo dal
momento in cui blocca il processo esecutivo.

C’e poi un'altra disposizione che crea qualche problema perché se voi andate a
leggere l'articolo 627 del codice di procedura civile, vedete che: nell’ipotesi in cui il
giudice ha concesso il provvedimento di sospensione, la riassunzione del
processo esecutivo possa avvenire soltanto a seguito del passaggio in giudicato
della sentenza di primo grado o dalla comunicazione della sentenza di appello di
rigetto dell'opposizione. Anche questa regola contraddice la regola generale
dettata del procedimento cautelare generale perché l'articolo 669 novies (come vi
ricordate) prevede che è sufficiente l'emanazione di una sentenza di primo grado
anche non passata in giudicato affinché la misura cautelare perda efficacia
(articolo 669 novies al terzo comma).

Anche qua si pone il problema della compatibilità. La regola generale è


compatibile con la regola speciale dettata nell'articolo 627? Secondo quella che è
l'opinione preferibile si deve ritenere che in questo caso sia compatibile e che
quindi la regola generale prevalga su quella speciale.

Per completare sul provvedimento di sospensione, fatte queste precisazioni si


deve ritenere che poi si applicano tranquillamente le disposizioni relative
all'articolo 669 sexies in ordine al procedimento; gli articoli 669 octies e 669 novies
in ordine alla inefficaia; gli articoli 669 decies in ordine alla revoca e alla modifica;

162
l’articolo 669 undecies in ordine alla cauzione; l’art 669 terdecies relativo al
reclamo.

Quanto ai due provvedimenti: la sospensione dell'esecutività del titolo e la


sospensione dell’esecuzione. Vi faccio notare che la sospensione dell'esecutività
del titolo blocca, cristallizza quel titolo contestato che quindi non potrà essere
utilizzato fino a che il provvedimento non viene revocato dal creditore in nessuna
sede; mentre il provvedimento di sospensione dell'esecuzione blocca soltanto il
procedimento esecutivo che è stato aperto.

163
Lezione 10 - 08/04/20
Andiamo oggi ad esaminare l’espropriazione forzata. Abbiamo già ricordato che il
processo di espropriazione forzata è il processo esecutivo volto a dare attuazione
concreta ad un diritto avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro. A
differenza dei procedimenti di esecuzione forzata in forma specifica abbiamo già
detto che nel caso della espropriazione forzata l’oggetto del diritto, che è la
somma di denaro, non coincide con l’oggetto del processo esecutivo, che è il
patrimonio del debitore, anzi i beni facenti parte il patrimonio del debitore. Nel
processo di espropriazione forzata trova attuazione il fondamentale principio della
garanzia patrimoniale, ovvero quanto previsto dall’articolo 2740 c.c secondo cui “il
debitore risponde dell’adempimento delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni
presenti e futuri”. Infatti, se voi prendete l’articolo 2910 c.c trovate scritto che “il
creditore, per conseguire quanto gli è dovuto, può fare espropriare i beni del
debitore, secondo le regole stabilite dal codice di procedura civile”; il secondo
comma della disposizione introduce una serie di eccezioni, ovvero le ipotesi in cui
il processo di esecuzione forzata può dirigersi nei confronti di un soggetto diverso
dal debitore esecutato, perché c’è un soggetto che risponde con un proprio bene
per un debito altrui, per cui si ha una scissione fra titolarità del debito e
responsabilità patrimoniale. Infatti, nel secondo comma si legge che “possono
essere espropriati anche i beni di un terzo quando sono vincolati a garanzia del
credito o quando sono oggetto di un atto che è stato revocato perché compiuto in
pregiudizio del creditore”. Le ipotesi che sono richiamate in questo secondo
comma dell’articolo 2910 c.c sono, per esempio, l’ipotesi in cui il terzo ha dato
una ipoteca su un proprio bene immobile a favore di un terzo, quindi il terzo datore
di ipoteca, oppure il terzo che ha acquistato un bene su cui grava una ipoteca
(sapete che l’ipoteca si connota per il diritto cosiddetto di seguito per cui si tratta
del terzo acquirente di un immobile ipotecato). Nella seconda parte, invece, si fa
riferimento alle ipotesi di terzi nei cui confronti è stata vittoriosamente esperita una
azione revocatoria, che è uno dei mezzi di conservazione della garanzia
patrimoniale, ma si tratta di eccezioni.

Nel processo di espropriazione forzata trova altresì attuazione il principio della par
condicio creditorum, di cui all’articolo 2741 c.c. In base a questa disposizione si
ha che “i creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore,
salve le cause legittime di prelazione. (2) Sono cause legittime di prelazione i
privilegi, il pegno e le ipoteche”. Vedremo che accanto al creditore che mette in
moto il processo di espropriazione forzata, l’ordinamento prevede la possibilità
che anche gli altri creditori del debitore esecutato possano entrare nel processo,
attraverso un intervento, e pretendere il soddisfacimento delle proprie pretese.
Ora, la disciplina della espropriazione forzata la troviamo, vuoi nel codice di
procedura civile vuoi nel codice civile: nel codice civile rilevano le disposizioni di
cui agli articoli 2910 fino all’articolo 2929, mentre nell’ambito del codice di
procedura civile rilevano le disposizioni di cui agli articoli 483 fino a 604 del codice
stesso.

164
Volendo delineare in senso generale questo particolare processo esecutivo
diciamo che il processo di espropriazione forzata è preceduto dalla fase
preliminare, che si apre con la notifica, su istanza del creditore, al debitore
esecutato del titolo esecutivo e del precetto, ma prende avvio, quindi la vera e
propria espropriazione forzata prende avvio con il cosiddetto pignoramento, che è
il primo atto. Il pignoramento è volto a creare, sui beni facenti parte del patrimonio
del debitore e aggrediti dal creditore, un vincolo di indisponibilità. Gli altri istituti
che compongono il processo esecutivo sono: l’intervento dei creditori, che è
l’istituto che dà attuazione al principio della par condicio creditorum; la vendita
forzata o assegnazione forzata, che è un istituto per il cui tramite il bene o i beni
oggetto di pignoramento vengono trasferiti, venduti generalmente ad un terzo, che
prende il nome di aggiudicatario, il quale verserà una somma di denaro; infine
abbiamo la distribuzione del ricavato: tutto ciò che è stato pagato
dall’aggiudicatario o dagli aggiudicatari nell’ambito del procedimento di vendita
forzata viene distribuito fra il creditore procedente e i creditori intervenuti.

Ora, come sono distribuite le norme che regolano l’espropriazione forzata? Se voi
aprite il terzo libro vedete che c’è un titolo II dedicato all’espropriazione forzata
che si apre con un capo I contenente disposizioni relative alla espropriazione
forzata in generale. Se voi scorrete queste disposizioni vedete che accanto ad una
prima serie di norme che riguardano istituti generali, fra cui la nomina del giudice
dell’esecuzione, la forma dei suoi provvedimenti ecc., troviamo una sezione II
dedicata al pignoramento - si tratta delle disposizioni comprese fra l’articolo 491 e
l’articolo 497 c.p.c; poi abbiamo una sezione III dedicata all’intervento dei creditori
- articoli 498 fino a 500 c.p.c; poi abbiamo una sezione IV dedicata alla vendita e
alla assegnazione - articoli da 501 fino a 508 c.p.c; poi una sezione V dedicata alla
distribuzione della somma ricavata - articoli 509 fino a 512 c.p.c. Accanto a queste
disposizioni generali noi troviamo una serie ulteriore di disposizioni che regolano i
diversi processi di espropriazione forzata distinguendo a seconda di quello che è
l’oggetto del processo di espropriazione forzata. Infatti, vedete che abbiamo un
capo II dedicato alla espropriazione mobiliare presso il debitore: si tratta di una
serie di norme che riguardano tutti gli istituti che vanno a comporre il processo di
espropriazione forzata, quindi pignoramento - intervento dei creditori -
assegnazione o vendita e poi distribuzione del ricavato, che occupano il capo II,
quindi articoli da 513 fino a 542 c.p.c. Poi abbiamo il capo III dedicato alla
espropriazione presso terzi e si tratta dei casi in cui oggetto di espropriazione
forzata sono i diritti di credito di cui il debitore esecutato è titolare nei confronti di
terzi, quindi abbiamo la figura del terzo debitor debitoris. Questo capo III occupa
gli articoli da 543 fino a 554 c.p.c. Poi abbiamo il capo IV dedicato alla
espropriazione immobiliare, quindi ipotesi in cui oggetto dell’espropriazione forzata
sono beni immobili e questo capo IV comprende le disposizioni comprese fra
l’articolo 555 fino all’articolo 598 c.p.c. Seguono due forme particolari di
espropriazione forzata: il capo V dedicato alla espropriazione di beni indivisi,
quindi delle ipotesi in cui il debitore esecutato è uno dei comproprietari del bene
aggredito, e poi abbiamo l’espropriazione contro il terzo proprietario, tre
165
disposizioni che si applicano nei casi particolari in cui si ha una scissione fra
titolarità del debito e responsabilità patrimoniale.

Prima di andare ad esaminare gli istituti che compongono e regolano il processo di


espropriazione forzata, soffermiamoci sulle disposizioni generali. Abbiamo già
avuto modo di ricordare che qualsiasi processo esecutivo è retto dal principio
della domanda, quindi non si mette in moto d’ufficio, ma è sempre messo in moto
su iniziativa del creditore, che deve avere nelle sue mani un titolo esecutivo, uno
degli atti o dei provvedimenti di cui all’articolo 474 c.p.c in grado di offrire un certo
grado di certezza circa l’esistenza del suo diritto. Naturalmente, anche nel
processo di espropriazione forzata, così come in tutti i processi esecutivi, trova
attuazione il principio del contraddittorio. Abbiamo visto infatti che nella fase
preliminare il titolo esecutivo e il precetto vengono immediatamente notificati al
debitore esecutato. Certo dobbiamo fin da subito mettere in chiaro che creditore e
debitore, che sono le parti del processo esecutivo, non sono in posizione di parità
perché a differenza di quanto abbiamo osservato con riferimento al processo di
cognizione, qua il creditore, che è la parte istante, il nostro attore, ha già nelle sue
mani un titolo esecutivo che offre un grado di certezza in ordine all’esistenza del
suo diritto, per cui il contraddittorio trova sì attuazione, ma secondo regole diverse
da quelle che abbiamo visto nel processo di cognizione. Quindi è vero che il
debitore esecutato viene subito avvisato, ma è vero anche che il debitore
esecutato può vedere il giudice solo in una fase avanzata del processo esecutivo
stesso, sebbene il legislatore metta a sua disposizione quel rimedio fondamentale,
che è l’opposizione al precetto o opposizione all’esecuzione, per il cui tramite può
contestare il diritto del creditore di procedere esecutivamente. Il processo
esecutivo è un processo che non va avanti da solo, quindi non solo è retto dal
principio della domanda, ma è un processo che è retto anche dal principio
dell’impulso di parte, per cui il passaggio dalla fase precedente alla fase
successiva non è un passaggio che avviene d’ufficio, ma è sempre necessario che
la parte interessata, che sarà il creditore, ponga in essere un atto di impulso
processuale, un atto per il cui tramite manifesta il suo interesse a ciò, che si apra
la fase immediatamente successiva. Infatti, anche nel processo esecutivo è
previsto l’istituto della estinzione, che comprende sia l’estinzione per inattività
delle parti, sia estinzione per rinuncia. L’estinzione per inattività delle parti si lega
proprio alle ipotesi in cui non vengono posti in essere gli atti di impulso
processuale che la legge richiede affinché si possa passare dalla fase precedente
alla fase successiva, atti che devono essere compiuti sempre entro termini che il
legislatore impone a pena di decadenza. L’estinzione per rinuncia si lega alla
circostanza che il processo esecutivo abbia ad oggetto diritti disponibili e quindi
rientra nella autonomia delle parti, rientra nel principio dispositivo, la possibilità di
porre fine al processo stesso. L’estinzione viene sempre dichiarata con ordinanza
da parte del giudice dell’esecuzione, ordinanza che può essere impugnata con
reclamo davanti allo stesso giudice dell’esecuzione, il quale provvede con
sentenza suscettibile di appello.

166
Accanto alle parti, anche nel processo di espropriazione forzata è presente la
figura del giudice. Intanto ricordiamo che per quanto riguarda i processi esecutivi
c’è una competenza per materia del tribunale, fissata all’articolo 9 c.p.c. La figura
del giudice dell’esecuzione assomiglia a quella del giudice istruttore, è il giudice
che sovrintende lo svolgimento del processo esecutivo. Quando viene nominato il
giudice dell’esecuzione? Il giudice dell’esecuzione viene nominato dopo che si è
perfezionato il pignoramento. Infatti, una volta depositato in cancelleria il fascicolo
della esecuzione, che il cancelliere formerà dopo che l’ufficiale giudiziario avrà
depositato l’atto di pignoramento, il cancelliere trasmette il fascicolo al presidente
dell’ufficio, che procederà a nominare il giudice dell’esecuzione. Il giudice
dell’esecuzione deve sovrintendere l’espropriazione forzata dall’inizio alla fine e
quindi deve esercitare tutti i poteri tesi al più sollecito e leale svolgimento del
processo, quindi è chiamato a dirigere l’intero processo di esecuzione forzata,
emanando provvedimenti che richiedono talvolta anche delle valutazioni da parte
del giudice. Di fronte al giudice dell’esecuzione il debitore deve presentare il
ricorso relativo alla opposizione alla esecuzione, però abbiamo visto che
l’opposizione all’esecuzione non rientra nella competenza del giudice
dell’esecuzione, così come previsto dall’articolo 616 c.p.c. Probabilmente il
giudice dell’esecuzione dovrà provvedere all’istanza di sospensione della
esecuzione. Inoltre il giudice dell’esecuzione deve provvedere sulle diverse
opposizioni che vengono proposte nel corso del processo. Questi esempi
rientrano nella competenza dell’ufficio giudiziario cui appartiene il giudice
dell’esecuzione, ma non è detto che la loro trattazione sia affidata allo stesso
giudice dell’esecuzione. Il giudice dell’esecuzione provvede allo svolgimento delle
funzioni che gli sono assegnate attraverso provvedimenti che hanno la forma
dell’ordinanza, come previsto dall’articolo 487 c.p.c. Si tratta di una ordinanza che
è sempre suscettibile di essere modificata e revocata, ma c’è un limite: l’ordinanza
del giudice dell’esecuzione non può essere revocata e modificata nel momento in
cui sia stata eseguita. Questo segna una differenza importante rispetto alle
ordinanze emanate dal giudice designato nell’ambito del processo di cognizione.
Prima di emanare i propri provvedimenti il giudice dell’esecuzione deve sentire le
parti interessate, ce lo dice l’articolo 485 c.p.c: “quando la legge richiede o il
giudice ritiene necessario che le parti ed eventualmente altri interessati siano
sentiti, il giudice stesso fissa con decreto l’udienza alla quale il creditore
pignorante, i creditori intervenuti, il debitore ed eventualmente gli altri interessati
debbono comparire davanti a lui”. Questa previsione tendenzialmente trova
applicazione in un momento successivo a quello in cui è stata presentata l’istanza
di vendita e infatti, generalmente, la prima udienza che si svolge nel
contraddittorio delle parti è l’udienza che il giudice fissa proprio a seguito della
presentazione della istanza di vendita. Il giudice dell’esecuzione deve d’ufficio o su
istanza di parte verificare la regolare instaurazione del processo esecutivo,
verificando cioè la presenza di tutti i requisiti extra formali relativi al giudice stesso
e relativi alle parti. Quindi deve verificare giurisdizione, competenza, costituzione
del giudice, ma anche i requisiti relativi alle parti, a partire dalla capacità di essere
167
parte, la capacità processuale, la legittimazione ad agire. Naturalmente è tenuto
altresì a verificare la regolarità formale degli atti del processo, quindi la presenza di
tutti i requisiti di forma - contenuto che sono richiesti dal legislatore (pensate ad
esempio alla regolarità del titolo esecutivo o del precetto).

Il giudice dell’esecuzione deve effettuare un controllo sulla valida instaurazione del


processo esecutivo. Questo potere di controllo può svolgerlo d’ufficio oppure su
istanza di parte. Ora, a fronte di una eccezione sollevata dalla parte il giudice deve
in ogni caso pronunciarsi con un provvedimento che, abbiamo visto, deve avere la
forma dell’ordinanza. Potrà essere una ordinanza che rigetta l’eccezione o una
ordinanza che rileva l’esistenza del vizio. Quando invece manca una eccezione di
parte e quindi il giudice procede d’ufficio, se la verifica ha un esito positivo e
quindi se ritiene che tutti i requisiti extra formali siano presenti, se ritiene che gli
atti posti in essere siano stati redatti in ossequio alle disposizioni del codice di
procedura civile, il giudice non è tenuto ad emanare una ordinanza. L’esito positivo
della verifica possiamo ritenerlo il presupposto logico su cui sono basati i
successivi atti posti in essere. Viceversa, se la verifica d’ufficio ha esito negativo,
quindi se il giudice rileva il difetto di un requisito extra formale o la non regolarità
formale di uno degli atti del processo, dovrà pronunciarsi. Se con riferimento al
difetto di un requisito formale o extra formale è previsto un meccanismo di
sanatoria, allora il giudice lo potrà mettere in moto. Pensiamo, ad esempio, alla
possibilità per il giudice, rilevata una irregolarità di tipo formale, di disporre la
rinnovazione degli atti nulli. Viceversa, se questo meccanismo di sanatoria non è
previsto, il giudice pronuncerà con ordinanza la chiusura in rito del processo.
Questa ordinanza, a prescindere dal se il giudice l’abbia emanata d’ufficio o a
seguito di una eccezione di parte, è soggetta ad impugnazione e in particolare allo
strumento di impugnazione previsto per tutti i provvedimenti del giudice
dell’esecuzione, ovvero l’opposizione agli atti esecutivi di cui all’articolo 617 c.p.c.
Attenzione a non confondere l’opposizione agli atti esecutivi con l’opposizione
all’esecuzione di cui all’articolo 615 c.p.c perché si tratta di due rimedi
completamente diversi. Con riferimento alla opposizione agli atti esecutivi il
giudice provvede con sentenza che è impugnabile attraverso ricorso per
Cassazione. Se l’ordinanza di chiusura in rito del processo esecutivo è basata su
motivi di competenza, quindi il giudice dichiara il difetto della propria competenza,
contro questo provvedimento potrà essere esperito regolamento necessario di
competenza ai sensi dell’articolo 42 c.p.c, secondo quanto previsto dall’articolo
187 delle disposizioni di attuazione delle disposizioni del codice di procedura
civile.

Passiamo all’analisi della disciplina di svolgimento della espropriazione forzata.


Abbiamo già detto che il primo atto della vera e propria espropriazione forzata è il
pignoramento. Il pignoramento non è posto in essere d’ufficio, abbiamo già
ricordato che il processo esecutivo è retto dal principio dell’impulso di parte.
L’articolo 491 c.p.c ci dice che “salva l’ipotesi prevista nell’articolo 502
l’espropriazione forzata si inizia col pignoramento”.

168
Che cos’è il pignoramento? Il successivo articolo, il 492 c.p.c lo descrive dicendo
che “il pignoramento consiste in una ingiunzione che l’ufficiale giudiziario fa al
debitore di astenersi da qualunque atto diretto a sottrarre alla garanzia del credito
esattamente indicato i beni che si assoggettano alla espropriazione e i frutti di
essi”. È una norma astratta, una norma che ci descrive l’essenza del
pignoramento, ma che non ci dice né le modalità in cui si svolge il pignoramento,
né l’effetto del pignoramento. L’effetto del pignoramento è descritto in una norma
del codice civile, l’articolo 2913, in cui leggiamo che “non hanno effetto in
pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono
nell’esecuzione, gli atti di alienazione dei beni sottoposti a pignoramento, salvi gli
effetti del possesso di buona fede per i mobili non iscritti in pubblici registri”. Dalla
lettura di questa disposizione noi possiamo ricavare che la funzione del
pignoramento è quella di assoggettare i beni che ne costituiscono l’oggetto ad un
vincolo di indisponibilità. Cosa vuol dire vincolo di indisponibilità? Significa che
eventuali atti dispositivi posti in essere dal debitore esecutato con riferimento ai
beni soggetti a pignoramento sono inefficaci. Sono atti validi, atti che fra le parti
hanno efficacia, ma non sono opponibili né al creditore procedente né ai creditori
intervenuti, ma neanche - e questo poi è il soggetto che approfitta degli effetti del
pignoramento - all’aggiudicatario, cioè colui che acquista il bene nell’ambito del
sub-procedimento di vendita forzata. Infatti, se andate a leggere il successivo
articolo 2919 c.c. leggete che “la vendita forzata trasferisce all’acquirente i diritti
che sulla cosa spettavano a colui che ha subito l’espropriazione, salvi gli effetti del
possesso di buona fede. Non sono però opponibili agli acquirenti i diritti acquisiti
da terzi sulla cosa, se i diritti stessi non hanno effetto in pregiudizio del creditore
pignorante e dei creditori intervenuti nell’esecuzione”. L’effetto del pignoramento,
cioè questo vincolo di indisponibilità, è un effetto analogo a quello creato dal
sequestro conservativo. Quando abbiamo parlato del sequestro conservativo
abbiamo evidenziato il legame che intercorre fra questi due istituti e abbiamo visto
anche che non esiste soluzione di continuità perché, una volta che il creditore ha
ottenuto un sequestro conservativo e una volta che avrà ottenuto una sentenza di
condanna a conclusione del primo grado del processo a cognizione piena, il
sequestro conservativo si trasforma immediatamente in pignoramento. Come vi
avevo già detto, mentre il vincolo di indisponibilità che si forma in seguito alla
attuazione del sequestro conservativo è un vincolo che opera nei confronti del solo
creditore sequestrante, il vincolo di indisponibilità che è creato dal pignoramento è
un vicolo cosiddetto a “porte aperte” perché opera non solo a vantaggio del
creditore pignorante, ma anche di tutti i creditori che sono intervenuti e anche a
vantaggio del cosiddetto aggiudicatario.

Quali sono le cose che possono essere oggetto di pignoramento? Oggetto di


pignoramento possono essere solo diritti su beni suscettibili di trasferimento.
Infatti, vedremo, nella disciplina dettata dal legislatore con riferimento ai singoli
beni, che ci sono dei limiti: ci sono dei beni assolutamente impignorabili, ci sono
dei beni che sono pignorabili parzialmente, ci sono beni che sono pignorabili solo
in presenza di determinate circostanze.

169
La disciplina del pignoramento varia a seconda della natura del bene che ne
costituisce l’oggetto. Siccome l’effetto del pignoramento è quello di creare sul
bene un vincolo di indisponibilità, il legislatore si è trovato costretto a confrontarsi
con le leggi di circolazione che sovrintendono i diversi beni. Sappiamo che la
legge fondamentale sulla circolazione dei beni mobili è la norma di cui all’articolo
1153 c.c, cioè il trasferimento del possesso. Invece, in tema di circolazione di beni
immobili la legge fondamentale è quella della trascrizione. Quindi, il legislatore ha
dovuto confrontarsi con queste diverse norme e questo spiega la diversità di
disciplina che troviamo nelle disposizioni del codice. Iniziamo ad analizzare il
pignoramento mobiliare, descritto agli articoli 516 e ss del codice di procedura
civile.

Tornando alla disciplina generale, abbiamo detto che il pignoramento deve essere
provocato sempre dal creditore, munito di titolo esecutivo. Ora, l’autore del
pignoramento è l’ufficiale giudiziario, che sappiamo essere uno dei collaboratori
del giudice. In cosa consiste il pignoramento? Abbiamo visto che l’essenza del
pignoramento è indicata all’articolo 492 c.p.c, è l’ingiunzione che l’ufficiale
giudiziario fa al debitore di astenersi da qualunque atto diretto a sottrarre alla
garanzia del credito esattamente indicato, i beni che si assoggettano
all’espropriazione e i frutti di essi. Intanto è necessario che il creditore si attivi nei
tempi indicati dal legislatore. Abbiamo detto che il processo esecutivo è retto
dall’impulso di parte, non va mai avanti d’ufficio. Vi ricordate che nell’ambito del
precetto, che è quell’atto che il creditore procedente deve notificare insieme al
titolo esecutivo al debitore esecutato affinché si apra la cosiddetta fase
preliminare, questo svolge una duplice funzione, non solo quella di provocatio ad
opponendum, ma anche di provocatio ad adimplendum, cioè viene fissato al
debitore un termine entro cui adempiere, termine che non può essere inferiore a 10
giorni. Questo lo troviamo scritto sia all’articolo 480 c.p.c che si occupa della
forma del precetto, sia all’articolo 482 c.p.c che afferma che non si può iniziare
l’esecuzione forzata prima che sia decorso il termine indicato nel precetto e in ogni
caso non prima che siano decorsi 10 giorni dalla notificazione di esso. Da un’altra
parte il creditore deve rispettare anche un ulteriore termine perché il precedente
articolo, l’articolo 481 c.p.c prevede che il precetto diventi inefficace se nel termine
di 90 giorni dalla sua notificazione non è iniziata l’esecuzione. Quindi se il creditore
avvia il pignoramento in un termine che è successivo ai 90 giorni dalla notifica del
precetto, il precetto perde efficacia e quindi il processo deve iniziare da capo. Ora,
l’ufficiale giudiziario, nel momento in cui il creditore gli presenta il titolo esecutivo e
il precetto, deve dare avvio al pignoramento senza poter verificare in nessun modo
la regolarità del titolo. Quindi l’ufficiale giudiziario, che è un ausiliario del giudice, si
limita a prendere il titolo esecutivo e il precetto che gli sono consegnati dal
creditore senza effettuare nessun controllo e dà avvio al pignoramento. Nemmeno
in fase di pignoramento l’ufficiale giudiziario può effettuare controlli con riferimento
alla circostanza che i beni su cui il creditore vuole procedere appartengano al
debitore. Queste precisazioni sono importanti perché spiegano per quale motivo il
debitore può attivarsi e proporre opposizione, prima al precetto e
170
successivamente all’esecuzione, per contestare il diritto del creditore di procedere
in via esecutiva. Siccome non c’è nessun controllo in ordine alla attualità del titolo,
è chiaro che è ben possibile che si verifichino le circostanze di cui parlavo la
scorsa volta, per cui il creditore ha agito in forza di un titolo che è stato riformato
perché si tratta di una sentenza di primo grado che il giudice dell’appello ha
riformato, oppure con riferimento alla quale il giudice dell’appello ha accolto una
istanza di inibitoria.

Andiamo ad esaminare le disposizioni relative al pignoramento mobiliare. La norma


fondamentale è l’articolo 513 c.p.c, nel quale si legge che “l’ufficiale giudiziario,
munito del titolo esecutivo e del precetto, può ricercare le cose da pignorare nella
casa del debitore e nei luoghi a lui appartenenti. Può anche ricercarle sulla persona
del debitore osservando le opportune cautele per rispettarne il decoro. (2) Quando
è necessario aprire porte, ripostigli o recipienti, vincere la resistenza possessoria
del debitore o dei terzi oppure allontanare persone che disturbano l’esecuzione del
pignoramento, l’ufficiale giudiziario provvede secondo le circostanze, richiedendo
quando occorre l’assistenza della forza pubblica”. Il pignoramento mobiliare vede
come protagonista l’ufficiale giudiziario che si reca nella casa del debitore e
procede al pignoramento di tutto ciò che trova. Cos’è la casa del debitore? La
casa del debitore è la sua dimora abituale. Può essere una dimora esclusiva, in cui
abita da solo, oppure può essere una dimora che occupa con altre persone,
possono essere familiari, possono essere terzi. Certamente non è casa del
debitore l’albergo o qualunque abitazione momentanea. Per “altri luoghi a lui
appartenenti” si intendono i luoghi di cui il debitore ha il godimento esclusivo:
pensate ad esempio all’azienda, al magazzino dell’azienda, oppure allo studio
professionale. Che cosa si può osservare con riferimento a questa prima forma di
pignoramento? Immaginate la scena: l’ufficiale giudiziario si presenta a casa del
debitore, affiancato dalla forza pubblica, perché vedete che può avvalersi
dell’assistenza della forza pubblica per aprire tutto ciò che è chiuso a chiave,
quindi porte, ripostigli, recipienti, per vincere la resistenza di chi è in casa, debitore
o altre persone. Il senso del pignoramento mobiliare è che il debitore
evidentemente subisce la violazione del suo domicilio, che trova garanzia
direttamente nella costituzione, all’articolo 14 secondo comma. In pratica, il
debitore viene spogliato della sua sfera possessoria: l’articolo 513 consente
all’ufficiale giudiziario di invadere la sfera possessoria del debitore, che si vede
privato, in base a questa disposizione, della possibilità di avvalersi dei rimedi che
l’ordinamento predispone a tutela del possesso e in particolare dell’azione di
spoglio. Si prevede, al terzo comma della disposizione, la possibilità che il
pignoramento possa essere effettuato anche su cose che si trovano in luoghi che
non appartengono al debitore, ma di cui egli può disporre. Vedete che in questo
caso si richiede che si tratti di cose determinate e in questo caso si richiede che il
giudice debba autorizzare l’ufficiale giudiziario, su ricorso del creditore, con
decreto. L’ufficiale giudiziario, nel momento in cui entra nei luoghi del 513 c.p.c
può pignorare qualsiasi cosa rinvenga, senza effettuare alcuna indagine in ordine
al se questi beni mobili appartengano effettivamente al debitore. Innanzitutto,
171
l’ufficiale giudiziario ha un criterio per eseguire il pignoramento? Sì, ci sono dei
criteri. L’articolo 517 c.p.c ci dice che “il pignoramento deve essere eseguito sulle
cose che l’ufficiale giudiziario ritiene di più facile liquidazione, nel limite di un
presumibile valore di realizzo pari all’importo del credito precettato aumentato della
metà”. È previsto al secondo comma che “in ogni caso deve preferire il denaro
contante, gli oggetti preziosi e i titoli di credito e ogni altro bene che appaia di
sicura realizzazione”. Naturalmente, poiché il debitore esecutato ha ricevuto la
notifica del titolo esecutivo e del precetto e quindi sa a cosa va incontro, questi
beni non vengono mai rinvenuti nella casa del debitore. È una norma di pura
fantasia perché credo che nessun ufficiale giudiziario abbia rinvenuto denaro,
oggetti preziosi e titoli di credito.

Parte 2

Abbiamo detto che l’ufficiale giudiziario nel momento in cui entra nei luoghi di cui
all’art. 513 si muove alla ricerca di cose da pignorare e che in base all’art. 517
dovrà procedere con riferimento alle cose di più facile e pronta liquidazione. Vi
dicevo anche che, nonostante il 2° comma della disposizione precisi che l’ufficiale
giudiziario deve preferire il denaro contante, gli oggetti preziosi e i titoli di credito,
questi beni generalmente non si rinvengono, perché il debitore esecutato una volta
messo sull’avviso si muoverà per far sparire tutto quanto di prezioso si rinviene
nella sua abitazione.

Ci sono poi dei limiti alla pignorabilità dei beni. Perché se guardiamo il testo degli
artt. 514 – 515 – 516 troviamo l’indicazione delle cose mobili assolutamente
impignorabili -l’elenco risente molto dell’epoca in cui è stata scritta la
disposizione- si fa riferimento alle cose sacre (quelle che servono all’esercizio del
culto), l’anello nuziale, i vestiti, la biancheria, i letti, i tavoli per la consumazione dei
pasti e via dicendo.

Poi nell’art. 515 c.1 troviamo l’indicazione di cose mobili relativamente


impignorabili, cioè la disposizione ci dice “Le cose, che il proprietario di un fondo
vi tiene per il servizio e la coltivazione del medesimo, possono essere pignorate
separatamente dall'immobile soltanto in mancanza di altri mobili; (…)”
E poi nell’art. 516 le cose pignorabili in particolari circostanze “I frutti non ancora
raccolti o separati dal suolo non possono essere pignorati separatamente
dall'immobile a cui accedono, se non nelle ultime sei settimane anteriori al tempo
ordinario della loro maturazione (…)”.

Laddove vengano violati questi limiti il debitore potrà proporre opposizione


all’esecuzione ai sensi dell’art. 515 contestando il quomodo (ossia il modo in cui
l’esecuzione si è svolta).

Come vi dicevo le regole di svolgimento del pignoramento sono dettate a partire


da quello che è l’effetto tipico del pignoramento, ovvero creare un vincolo di
indisponibilità; per cui si diceva che il legislatore si è dovuto confrontare con le
leggi di circolazione dei singoli beni. Ora come noi sappiamo, la legge
fondamentale di circolazione dei beni mobili è fissata nell’art. 1153 cc, ovvero il
trasferimento del possesso. Infatti, affinché si crei il vincolo di indisponibilità è
172
indispensabile che i beni pignorati siano sottratti al possesso del debitore e siano
affidati ad un custode. Infatti, l’art. 520 prevede che “'L’ufficiale
giudiziario  consegna al  cancelliere  del tribunale il danaro, i titoli di credito e gli
oggetti preziosi colpiti dal pignoramento” e poi si occupa delle altre modalità di
custodia degli altri beni, anche di beni diversi dal denaro.

Eccezionalmente, in base all’art. 521, è possibile che sia il debitore ad essere


nominato custode “Non possono essere nominati  custode  il creditore o il suo
coniuge senza il consenso del debitore, né il debitore o le persone della sua
famiglia che convivono con lui senza il consenso del creditore” - ma occorre
appunto il consenso del creditore-.

Qual è il motivo per cui molte volte il debitore stesso viene nominato custode? È
un motivo molto concreto, ossia evitare le spese della custodia soprattutto se le
spese della custodia possono risultare superiori al valore del credito per cui si
procede. Se è il debitore ad essere nominato custode si verifica la c.d.
interversione nel possesso, per cui il debitore, pur continuando ad avere
materialmente le cose con sé, ne conserva la sola detenzione ed assume
naturalmente le responsabilità civili, ma soprattutto penali, del custode secondo
quanto previsto nell’art. 388bis del codice penale.

L’ufficiale giudiziario una volta compiute le sue operazioni, in base all’art. 518,
redige processo verbale nel quale dà atto dell’ingiunzione, di cui all’art. 492, e
descrive le cose pignorate nonché il loro stato mediante rappresentazione
fotografica, ovvero altro mezzo di ripresa audiovisiva. Quindi è nell’ambito del
processo verbale di cui all’art. 518 che noi troviamo l’ingiunzione rivolta al debitore
di cui all’art. 492.

Come abbiamo detto precedentemente, l’ufficiale giudiziario nel momento in cui si


reca nei luoghi del 513 alla ricerca dei beni mobili da pignorare non è tenuto a
svolgere alcuna indagine in ordine all’appartenza dei beni che vi rinviene al
debitore. Quindi l’ufficiale giudiziario è legittimato dal legislatore a prendere
qualsiasi cosa rinvenga nell’ambito dei luoghi di cui al 513.

È ben possibile che in questi luoghi siano presenti dei beni mobili che non
appartengono al debitore esecutato ma appartengono a soggetti terzi. Ci si pone
quindi la domanda se sia possibile per questi terzi recuperare i beni. Le
disposizioni che rilevano in tal senso sono, da una parte l’art. 2914 cc, ed in
particolare l’ipotesi di cui al n.4 della disposizione; e dall’altra l’art. 621 cpc.

Leggiamo l’art. 2914 cc

“Non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che
intervengono nell'esecuzione, sebbene anteriori al pignoramento: …. (andiamo
direttamente al n.4)

4) le alienazioni di beni mobili di cui non sia stato trasmesso il possesso


anteriormente al pignoramento, salvo che risultino da atto avente data certa”
Allora la norma si occupa delle ipotesi in cui beni originariamente facenti parte il
patrimonio del debitore vengono alienati dal debitore a terzi, terzi aventi causa. La
disposizione mi dice che questi atti traslativi, atti dispositivi, non hanno effetto nei
173
confronti del creditore procedente e dei creditori intervenuti, se sono stati compiuti
in data successiva al pignoramento. Si salvano soltanto se questi atti dispositivi
sono stati compiuti, non soltanto in data anteriore al pignoramento, ma sulla base
di un atto avente data certa anteriore al pignoramento (quindi si ha un rinvio al
disposto dell’art. 2704 cc in tema di data certa).

Ora, l’ipotesi contemplata nell’art. 2914 n.4 non è l’unica che si può verificare
perché l’ipotesi più comune è un’altra, ovvero il caso in cui un terzo abbia lasciato
presso nei luoghi del 513 (quindi presso l’abitazione del debitore) beni mobili che
gli appartengono ed ha acquistato aliunde, cioè in maniera anomala rispetto al
debitore.

L’es. che propongo sempre a lezione è quello dell’amico che è andato a cena dal
debitore, è andato in bagno e per lavarsi le mani si è tolto gli anelli e
inavvertitamente li ha lasciati sul lavandino di casa. La sfortuna vuole che
l’indomani mattina arrivi l’ufficiale giudiziario, il quale in base a quanto abbiamo
appreso dalla lettura del cpc è legittimato a prendere tutto quello che trova, ed in
base al 516 deve dare precedenza ai beni preziosi ed ogni altro bene che appaia di
sicura realizzazione. Quindi nel caso di specie l’ufficiale giudiziario porterà via
sicuramente gli anelli dell’amico che è andato a casa del debitore e che
malauguratamente li ha lasciati.

Che cosa succede? Il terzo -sia il terzo avente causa del debitore sia il terzo che
ha lasciato nei luoghi del 513 un bene che gli appartiene e che ha acquistato in
maniera autonoma- può recuperare questi beni? C’è modo di riprenderseli?

In verità, l’ufficiale giudiziario è legittimato a pignorare questi beni perché -


abbiamo detto- non deve indagare circa l’appartenenza dei beni al debitore
esecutato. Il terzo che ritiene di essere proprietario dei beni che sono stati
pignorati, in effetti, deve avvalersi di un rimedio a sua disposizione, si tratta della
c.d. OPPOSIZIONE DI TERZO ALL’ESECUSIONE art. 619 cpc, leggiamolo.

“Il terzo che pretende avere la proprietà o altro diritto reale sui beni pignorati può
proporre opposizione con ricorso al giudice dell'esecuzione, prima che sia disposta
la vendita o l'assegnazione dei beni.
Il giudice fissa con  decreto  l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé e il
termine perentorio per la notificazione del ricorso e del decreto.
Se all'udienza le parti raggiungono un accordo il giudice ne dà atto con ordinanza,
adottando ogni altra decisione idonea ad assicurare, se del caso, la prosecuzione
del processo esecutivo ovvero ad estinguere il processo, statuendo altresì in
questo caso anche sulle spese; altrimenti il giudice provvede ai sensi dell'articolo
616 tenuto conto della competenza per valore.”
Allora questo è il rimedio che l’ordinamento pone a disposizione del terzo che
ritiene di essere proprietario o comunque titolare di altro diritto reale sui beni
pignorati. Nel momento in cui il terzo propone opposizione, in base al successivo
art. 624, potrà altresì chiedere la sospensione del processo esecutivo. Questa
opposizione di terzo dà luogo all’apertura di un processo a cognizione piena, un
processo quindi esterno al processo esecutivo. È un processo che si introduce

174
con ricorso di fronte al giudice dell’esecuzione perché il giudice dovrà provvedere,
ai sensi del 624, sull’istanza di sospensione dell’esecuzione, ma poi è un processo
che viene rimesso al giudice competente per valore, così come previsto dall’art.
616 che è espressamente richiamato.

Nell’ambito di questo processo rileva il disposto dell’art. 621 che reca la rubrica
“limiti della prova testimoniale”, quindi apparentemente è una norma che si occupa
di prove ed infatti dice “Il terzo opponente non può provare con testimoni il suo
diritto sui beni mobili pignorati nella casa o nell'azienda del debitore, tranne che
l'esistenza del diritto stesso sia resa verosimile dalla professione o dal commercio
esercitati dal terzo o dal debitore”.
Come è interpretata questa norma? La giurisprudenza ritiene che il terzo opponete
debba come regola generale fondare la propria opposizione su prove scritte e gli
impone di provare in forma scritta con atto avente data certa anteriore al
pignoramento (quindi si richiama il criterio introdotto nel 2914 cc n.4):

• innanzitutto, l’acquisto del bene. Acquisto che può essere un acquisto da


parte del debitore oppure un acquisto autonomo (amico che lascia gli anelli
sul lavandino).

• Ma la giurisprudenza gli impone di provare, ancora una volta con atto scritto
avente data certa anteriore al pignoramento, anche di aver affidato questi
beni al debitore per un motivo diverso dal trasferimento della proprietà.

Ora capiamo che ben difficilmente il terzo (l’amico che ha lasciato la cosa al
debitore, ma pensiamo anche al caso in cui il terzo abbia prestato qualcosa al
debitore) in queste situazioni potrà esibire questa seconda prova. Forse la data di
acquisto con data certa anteriore al pignoramento ce l’avrà ad es. fattura o
pagamento; ma difficilmente il terzo avrà a sua disposizione un atto scritto con
data certa anteriore ala pignoramento per il cui tramite provare di aver affidato il
bene al debitore per un motivo diverso dal trasferimento. È una prova che non avrà
il terzo. Per questo motivo, per la difficoltà che questa prova crea al debitore, si
dice -giustamente- che questo art. 621 in verità non è una norma sulla prova, ma è
una norma sostanziale, cioè una norma per il cui tramite il legislatore risolve il
conflitto tra il creditore precedente ed il terzo che è proprietario di un bene mobile
che viene trovato dall’fiale giudiziario nella casa del debitore. Attraverso il 621 in
pratica il legislatore assoggetta alla responsabilità patrimoniale per i debiti del
debitore tutti i beni mobili che l’ufficiale giudiziario rinviene a casa del debitore, a
meno che il terzo non abbia la doppia prova scritta con atto avente data certa
anteriore al pignoramento in ordine all’acquisto e all’affidamento al debitore per
motivi diversi del trasferimento della proprietà.

Quindi attraverso questa disposizione il legislatore introduce un’ipotesi di


scissione tra titolarità del debito e responsabilità patrimoniale che va ad
aggiungersi alle altre ipotesi di cui abbiamo semplicemente accennato e che sono
i casi disciplinati negli artt. 602 e ss. dell’espropriazione contro il terzo
proprietario, cioè le ipotesi del terzo acquirente dell’immobile ipotecato, terzo
datore di ipoteca o terzo nei cui confronti è stata vittoriosamente esercitata

175
un’azione revocatoria in cui si ha una scissione appunto tra titolarità del debito e
responsabilità patrimoniale; per cui si ha un terzo che con un bene determinato
risponde di un debito altrui. Se questo è vero però, si è anche osservato
giustamente che il legislatore avrebbe dovuto allora attribuire a questo terzo (terzo
che malauguratamente si trova a rispondere con un suo bene mobile di un debito
altrui) gli stessi poteri che gli artt. 602 e ss. affidano al terzo proprietario nelle
ipotesi tassativamente elencate nell’art. 602 e in particolare il potere di avvalersi
dei rimedi tipici del processo esecutivo e che sono resi disponibili al debitore
esecutato.

L’unica eccezione, cui fa espresso riferimento all’art. 621, è il caso in cui


l’esistenza del diritto del terzo è resa verosimile dalla professione o dal commercio
esercitati dal terzo o dal debitore. Si tratta di ipotesi evidentemente minoritarie.
Pensiamo al caso in cui debitore è un gallerista e nella sua galleria si rinvengono i
quadri di un autore o pittore che ha realizzato una esposizione in quei luoghi.

È molto importante nell’ambito del rimedio del 619 che il terzo, che è proprietario
del bene, convinca il giudice a sospendere l’esecuzione in corso. L’importanza di
questa affermazione si comprende riflettendo sulla disciplina del processo
esecutivo ed in particolare, sulla circostanza in cui il giudice non accolga l’istanza
di sospensione, quindi il processo vada avanti e si arrivi alla vendita forzata.
L’accoglimento dell’opposizione di terzo in data successiva al perfezionamento
della vendita forzata non consentirà al terzo di recuperare il proprio bene.

FILE 4

Ricapitoliamo: il terzo che è proprietario dei beni mobili rinvenuti nei luoghi del 513
e pignorati ha come unico rimedio l’opposizione di terzo all’esecuzione di cui
all’art. 619. E abbiamo detto che per il terzo che propone opposizione è
indispensabile che venga accolta l’istanza di sospensione dell’esecuzione
presentata al giudice dell’esecuzione in base all’art. 624 c.1, perché altrimenti
rischia di non poter più recuperare il bene. Questa strada, ovvero la proposizione
di opposizione di terzo + la proposizione di sospensione, è l’unico possibile
rimedio che ha il terzo. È un rimedio dunque necessario.

Questo anche perché il terzo aggiudicatario, cioè il terzo che acquista il bene in
sede di vendita forzata, maturerà probabilmente un acquisto a titolo originario in
base alla legge di cui all’art. 1153 cc secondo cui l’acquisto di un bene immobile
in base ad un atto astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà, unito al
trasferimento del possesso, unito alla buona fede dell’acquirente determina un
acquisto a titolo originario; per cui è escluso che il terzo proprietario possa
scegliere una strada diversa rispetto all’opposizione di terzo, cioè l’ordinamento gli
preclude la possibilità di agire direttamente nei confronti dell’aggiudicatario
attraverso un’azione di rivendica. Dal momento in cui l’acquisto dell’aggiudicatario
è un acquisto a titolo originario è chiaro che sia un acquisto autonomo e come tale
il terzo non può essere attaccato dal precedente proprietario.

Andiamo adesso ad analizzare il PIGNORAMENTO PRESSO TERZI

176
Il pignoramento presso terzi ha ad oggetto diritti di credito che il debitore vanta nei
confronti di un soggetto terzo, il c.d. terzo debitor debitoris, oppure beni mobili
che appartengono al debitore e che sono in possesso di terzi.

La disciplina di questa particolare ipotesi si rinviene nel codice di procedura negli


artt. da 543 a 549, ma rilevano anche alcune disposizioni del codice civile, in
particolare l’art. 2914 n.2 e gli artt. 2917 e 2918. Questa forma di espropriazione
è molto importante perché a livello pratico l’espropriazione dei crediti è l’unica che
funziona, perché il caso in cui il debitore è creditore di un terzo consente
praticamente al creditore di ottenere -diciamo- almeno un parziale
soddisfacimento. Quindi questa è una forma di espropriazione con riferimento alla
quale non si registra la profonda crisi in cui invece versano le espropriazioni
mobiliari e immobiliari.

La caratteristica di questa forma di pignoramento -ciò che la distingue rispetto al


pignoramento mobiliare e immobiliare- è la circostanza del necessario
coinvolgimento di una parte diversa dal creditore e debitore esecutato, ed è il terzo
debitor debitoris. Dato il coinvolgimento di un terzo e di una situazione giuridica
che intercorre tra il debitor debitoris ed il debitore esecutato, è indispensabile
l’accertamento dell’esistenza e del modo di essere di questa situazione
sostanziale.

Il pignoramento in questa ipotesi è una fattispecie a formazione progressiva e le


componenti fondamentali sono: l’atto complesso di cui all’art. 543 e il successivo
accertamento dell’esistenza del diritto del debitore esecutato nei confronti del
debitor debitoris. Allora, questo pignoramento prende avvio attraverso un atto
notificato al terzo e al debitore a norma degli artt. 137 e ss. su istanza del
creditore.

Leggiamo l’art. 543 cpc

“Il pignoramento di crediti del debitore verso terzi o di cose del debitore che sono
in possesso di terzi, si esegue mediante atto notificato [personalmente] al terzo e al
debitore a norma degli articoli 137 e seguenti.
L'atto deve contenere, oltre all'ingiunzione al debitore di cui all'articolo 492:
1) l'indicazione del credito per il quale si procede, del titolo esecutivo e del
precetto;
2) l'indicazione, almeno generica, delle cose o delle somme dovute e la intimazione
al terzo di non disporne senza ordine del giudice;
3) la dichiarazione di residenza o l'elezione di domicilio nel comune in cui ha sede il
tribunale competente nonché l’indicazione dell’indirizzo di posta elettronica
certificata del creditore procedente;
4) la citazione del debitore a comparire davanti al giudice competente, con l'invito
al terzo a comunicare la dichiarazione di cui all'articolo 547 al creditore procedente
entro dieci giorni a mezzo raccomandata ovvero a mezzo di posta elettronica
certificata; con l'avvertimento al terzo che in caso di mancata comunicazione della
dichiarazione, la stessa dovrà essere resa dal terzo comparendo in un'apposita
udienza e che quando il terzo non compare o, sebbene comparso, non rende la
177
dichiarazione, il credito pignorato o il possesso di cose di appartenenza del
debitore, nell'ammontare o nei termini indicati dal creditore, si considereranno non
contestati ai fini del procedimento in corso e dell'esecuzione fondata sul
provvedimento di assegnazione.”
Questo atto complesso è costituito da diversi elementi, i più importanti però sono i
seguenti:

• Innanzitutto, l’atto deve contenere l’ingiunzione al debitore di cui all’art.


492

quindi l’ingiunzione rivolta al debitore di non sottrarre il credito che vanta nei
confronti del suo debitore alla garanzia del credito del creditore procedente,
oltre che il credito dei creditori che interverranno all’esecuzione.

Per comprendere il significato dell’ingiunzione occorre leggere quanto previsto


nell’art. 2914 n.2 “Non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei
creditori che intervengono nell'esecuzione, sebbene anteriori al pignoramento: …
2) le cessioni di crediti che siano state notificate al debitore ceduto o accettate dal
medesimo successivamente al pignoramento;”
Questa previsione si comprende facendo mente locale alla disciplina relativa alla
circolazione dei crediti e in particolare a quanto previsto negli artt. 1264 e 1265
cc. Quindi all’indomani della notifica dell’atto di cui all’art. 543, non saranno più
opponibili al creditore procedente né ai creditori intervenuti eventuali atti di
cessione del credito che siano state notificate al terzo debitor debitoris, o che
siano da lui accettate successivamente al pignoramento. Questo è il significato di
questa previsione.

• Il secondo elemento contenuto in questo atto è l’indicazione, almeno


generica, delle cose e delle somme dovute, e l’intimazione al terzo di
non disporne senza ordine da parte del giudice.
Ricordiamoci che questa è un’intimazione rivolta al terzo debitor debitoris, quindi
da non confondere con l’ingiunzione di cui all’art. 492 che invece è rivolta al
debitore esecutato. Il significato di questa intimazione rivolta al terzo lo si ricava
dalla previsione contenuta nel successivo art. 546 che reca la rubrica “obblighi del
terzo”, in base a questa disposizione “Dal giorno in cui gli è notificato l'atto
previsto nell'articolo 543, il terzo è soggetto, relativamente alle cose e alle somme
da lui dovute e nei limiti dell'importo del credito precettato aumentato della metà,
agli obblighi che la legge impone al custode. (…)” (lasciamo stare le altre
previsioni)

Vuol dire che dal momento in cui riceve la notifica dell’atto di cui all’art. 543 il terzo
è soggetto alla responsabilità del custode. La lettera di questa disposizione è
comprensibile se si pensa al caso in cui l’espropriazione presso terzi riguardi cose
del debitore di cui il terzo è in possesso, perché la responsabilità del custode ha
un significato con riferimento proprio a degli oggetti, a cose. Molto meno chiaro è
il significato di questa espressione se invece si fa riferimento all’ipotesi in cui
l’espropriazione ha ad oggetto diritti di credito che il debitore esecutato vanta nei
confronti del terzo.

178
Cosa significa rendersi custodi di un diritto di credito? L’interpretazione che ne ha
dato la giurisprudenza è che, all’indomani della notifica dell’atto di cui all’art. 543,
il terzo debito debitoris non può porre in essere atti estintivi del suo debito, quindi
sostanzialmente non può pagare al debitore esecutato per liberarsi. Eventuali atti
estintivi posti in essere nei confronti del debitore esecutato sono atti inefficaci, non
opponibili al creditore procedente ed ai creditori intervenuti, ma vi è di più, perché
la giurisprudenza ritiene che all’indomani della notifica dell’atto di cui all’art. 543
non siano efficaci neppure i fatti estintivi c.d. involontari, tipo la prescrizione ma
anche la compensazione. Per cui anche questi fatti estintivi c.d. involontari non
sono opponibili al creditore procedente e agli altri creditori intervenuti se maturati
successivamente alla data di notifica dell’atto di cui all’art. 543.

Quindi secondo la giurisprudenza gli effetti di cui all’art. 2917 del cc, anche se
questa norma sembra collegarli ad un pignoramento che si è perfezionato, ed in
questo momento (all’indomani della notifica dell’atto complesso di cui al 543)
ancora il pignoramento preso terzi non è possibile ritenerlo perfezionato, sono
anticipati alla data di notifica dell’atto complesso.

Leggiamo l’art. 2917 “Se oggetto del pignoramento è un credito, l'estinzione di


esso per cause verificatesi in epoca successiva al pignoramento non ha effetto in
pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono
nell'esecuzione.”

• Il terzo elemento che deve essere evidenziato è la citazione del debitore a


comparire davanti al giudice competente e l’invito al terzo a
comunicare la dichiarazione di cui all’art. 547

Questa parte dell’atto riguarda proprio l’accertamento circa l’esistenza ed il modo


d’essere del diritto che il debitore esecutato vanta nei confronti del debitor
debitoris. (Qua c’è stata una modifica della disciplina per cui, per coloro che
consultano il libro di testo, fate attenzione perché il libro non è aggiornato alla
disciplina vigente!).

Come regola generale, secondo quanto disposto dall’art. 547 del cpc, il terzo
viene invitato a riconoscere l’esistenza e l’entità del suo debito nei confronti del
debitore esecutato con dichiarazione a mezzo raccomandata, inviata al creditore
procedente o trasmessa a mezzo di posta certificata. È una dichiarazione che il
terzo deve rendere personalmente (o tramite procuratore speciale o difensore
munito di procura speciale) specificando le cose e le somme dovute al debitore
oppure le cose di cui è in possesso e che appartengono al debitore, indicando
anche quando ne deve eseguire il pagamento o la consegna. Quindi laddove il
terzo invia questa dichiarazione si arriva direttamente all’udienza, quindi si ha per
accertato il diritto del debitore esecutato nei confronti del terzo.

Se invece questo terzo non rilascia la dichiarazione e quindi all’udienza fissata in


base al n.4 dell’art. 543, in cui vengono citati il debitore e naturalmente il creditore,
quest’ultimo dichiara di non aver ricevuto la dichiarazione andiamo al disposto
dell’art. 548

179
c.1 “Quando all'udienza il creditore dichiara di non aver ricevuto la dichiarazione, il
giudice, con ordinanza, fissa un'udienza successiva. L'ordinanza è notificata al
terzo almeno dieci giorni prima della nuova udienza. Se questi non compare alla
nuova udienza o, comparendo, rifiuta di fare la dichiarazione, il credito pignorato o
il possesso del bene di appartenenza del debitore, nei termini indicati dal creditore,
si considera non contestato ai fini del procedimento in corso e dell'esecuzione
fondata sul provvedimento di assegnazione se l'allegazione del creditore consente
l'identificazione del credito o dei beni di appartenenza del debitore in possesso del
terzo e il giudice provvede a norma degli articoli 552 o 553.”
In questo caso si prevede però che il terzo possa impugnare nelle forme di cui
all’art. 617 (questa è l’opposizione agli atti esecutivi)

c.2 “Il terzo può impugnare nelle forme e nei termini di cui all’articolo  617,
l’ordinanza di assegnazione di crediti adottata a norma del presente articolo, se
prova di non averne avuto tempestiva conoscenza per irregolarità della
notificazione o per caso fortuito o forza maggiore.”
È la classica forma di rimessione in termini.

Art. 549 invece

“Se sulla dichiarazione (sia essa rilasciata mediante lettera raccomandata di cui
all’art. 543 oppure in udienza) sorgono contestazioni o se a seguito della mancata
dichiarazione del terzo non è possibile l’esatta identificazione del credito o dei beni
del debitore in possesso del terzo (perché il creditore potrebbe non essere a
conoscenza di queste informazioni), il giudice dell’esecuzione, su istanza di parte,
provvede con ordinanza, compiuti i necessari accertamenti nel contraddittorio tra
le parti e con il terzo. L'ordinanza produce effetti ai fini del procedimento in corso e
dell'esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione ed è impugnabile nelle
forme e nei termini di cui all'articolo 617.”

Il significato di questa disposizione è che in tutti i casi in cui vi è una contestazione


sarà il giudice dell’esecuzione su istanza di parte a dover accertare l’esistenza ed il
modo d’essere del diritto del debitore esecutato nei confronti del terzo debito
debitoris. Questo accertamento però è un accertamento che avrà valore
unicamente ai fini del procedimento in corso, quindi è un accertamento che il
giudice svolge senza autorità di cosa giudicata. Infatti, il provvedimento ha la
forma dell’ordinanza, ordinanza che- dice espressamente la disposizione- è
impugnabile nelle forme e nei termini di cui all’art. 617. Quindi si tratta del rimedio
tipico contro i provvedimenti del giudice dell’esecuzione, è l’opposizione agli atti
esecutivi.

Anche con riferimento al pignoramento di crediti esistono dei limiti, infatti nell’art.
545 che reca la rubrica “crediti impignorabili” troviamo alcuni divieti:

“Non possono essere pignorati i crediti alimentari, tranne che per cause di alimenti,
e sempre con l'autorizzazione  del presidente del tribunale o di un giudice da lui
delegato e per la parte dal medesimo determinata mediante decreto.

180
Non possono essere pignorati  crediti  aventi per oggetto  sussidi  di grazia o di
sostentamento a persone comprese nell'elenco dei poveri, oppure sussidi dovuti
per maternità, malattie o funerali da casse di assicurazione, da enti di assistenza o
da istituti di beneficenza.
Le somme dovute da privati a titolo di  stipendio, di  salario  o di
altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a
causa di  licenziamento, possono essere pignorate per crediti alimentari nella
misura autorizzata dal presidente del tribunale o da un giudice da lui delegato.
Tali somme possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti
allo Stato, alle province e ai comuni, ed in eguale misura per ogni altro credito.”

181
Lezione 11 - 16/04/20
Esaminiamo la disciplina del pignoramento immobiliare

Iniziamo dalla lettura dell’art. 555 del codice di procedura civile, il quale stabilisce
che il pignoramento immobiliare si esegue mediante notificazione al debitore e
successiva trascrizione di un atto nel quale gli si indicano esattamente, con gli
estremi richiesti dal codice civile per l’individuazione dell’immobile ipotecato, i beni
e i diritti immobiliari che si intendono sottoporre ad esecuzione e gli si fa
l’ingiunzione prevista nell’art. 492.

Anche il pignoramento immobiliare avviene su iniziativa del creditore procedente, il


quale deve procedere mediante la notificazione al debitore di un atto in cui gli
indica esattamente i beni e i diritti immobiliari che intende sottoporre ad
esecuzione e gli fa l’ingiunzione di cui all’art. 492. Dopodiché, a seguito della
notifica, sarà l’ufficiale giudiziario a procedere alla trascrizione dell’atto. Infatti, nel
comma 2 della disposizione leggiamo che immediatamente dopo la notificazione,
l’ufficiale giudiziario consegna copia autentica dell’atto con le note di trascrizione
al competente conservatore dei registri immobiliari che trascrive l’atto e gli
restituisce una delle note. In base al terzo comma la trascrizione può talvolta
essere compiuta direttamente dal creditore pignorante al quale l’ufficiale
giudiziario, se richiesto, deve consegnare gli atti di cui sopra.

Possiamo osservare che in ipotesi di pignoramento immobiliare è onere del


creditore procedente individuare i beni immobili o i diritti immobiliari che intende
sottoporre ad esecuzione. Il pignoramento immobiliare non si perfeziona con la
notifica dell’atto di cui al primo comma dell’art 555, atto che abbiamo detto deve
contenere l’ingiunzione di cui all’art. 492, ma si perfeziona solo con la trascrizione
con cui si costituisce l’effetto tipico del pignoramento consistente nel vincolo di
indisponibilità sul bene. Questo effetto vale anche fra creditore e debitore. La
trascrizione, che è una forma di pubblicità, qui svolge una funzione costitutiva.
Generalmente alla trascrizione pensa l’ufficiale giudiziario. Soltanto in alcune
ipotesi sarà il creditore pignorante ad effettuarla. Questa scelta viene motivata di
solito sull’esigenza di non perdere tempo perché il creditore non vuole rischiare di
perdere il bene, che il bene scompaia dal patrimonio del debitore.

Anche con riferimento al pignoramento immobiliare si pone il problema


d’individuazione di criteri sulla cui base risolvere un eventuale contrasto tra un
terzo, che può essere il terzo avente causa dal debitore o comunque il terzo
proprietario del bene pignorato, e i creditori: il creditore pignorante e gli altri
creditori intervenuti. Rileva anche in questo caso l’Art 2914 del codice civile, in
particolare il n. 1, laddove si legge che non hanno effetto in pregiudizio del
creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell’esecuzione, sebbene
anteriori al pignoramento, le alienazioni di beni immobili o di beni mobili iscritti in
pubblici registri, che siano state trascritte successivamente al pignoramento. Il
criterio sulla cui base risolvere questi conflitti è l’anteriorità della trascrizione.
Naturalmente questa scelta apre lo spazio alla possibilità che il debitore abbia
effettivamente trasferito il bene al terzo, ad un terzo avente causa, ma questi, pur

182
avendo acquistato il bene e pur avendolo fatto in data anteriore al pignoramento,
non abbia fatto in tempo a trascrivere il proprio acquisto. In questa ipotesi, stando
alla lettera dell’art. 2914, numero 1, del codice civile, prevarrà il creditore
procedente, il creditore pignorante e gli altri creditori, poiché ciò che rileva è non la
data dell’acquisto ma quella della trascrizione. Per cui se viene trascritto il
pignoramento in data anteriore a quella dell’acquisto, anche se l’acquisto risale ad
una data ancora anteriore, prevale il pignoramento. Questa regola si applica
sempre, anche nel caso in cui l’acquisto del terzo risulta da un atto avente data
certa anteriore al pignoramento. In questa ipotesi appare chiaro che il terzo avente
causa, pur essendo a tutti gli effetti il proprietario del bene, risponde con quel
bene del debito altrui. Quindi si ha una scissione tra responsabilità patrimoniale e
titolarità del debito. Quali sono i rimedi che il terzo può utilizzare per sottrarre il
proprio bene dalla responsabilità patrimoniale altrui? Un rimedio è sicuramente
l’opposizione di terzo, di cui all’art. 619 del codice di procedura civile ma non è
l’unica strada. In questo caso, l’opposizione di terzo è un rimedio facoltativo, non
è un rimedio necessario come avviene in ipotesi di espropriazione mobiliare. Infatti
in ipotesi di beni immobili la vendita forzata procura all’aggiudicatario un acquisto
a titolo derivativo. Quindi il diritto dell’aggiudicatario esiste in quanto esiste il diritto
del debitore esecutato. Questo lascia aperta la possibilità che il terzo, che ritiene
di essere non solo proprietario del bene ma anche che ritenga che quel bene non
rientri nella responsabilità patrimoniale altrui, non risponda del debito altrui, possa
agire direttamente nei confronti dell’aggiudicatario attraverso un’azione di
rivendica. Laddove questa azione venga esercitata e la domanda venga accolta si
avrà la cosiddetta evizione dell’aggiudicatario che a quel punto potrà ripetere ciò
che ha pagato: il prezzo, gli interessi e le spese. Quindi è un’ipotesi in cui vengono
meno i risultati del processo esecutivo, sia la vendita forzata, sia la distribuzione
del ricavato.

Esaurita l’analisi del pignoramento andiamo ad analizzare un altro istituto del


processo di espropriazione forzata ovvero l’intervento dei creditori.

La norma di riferimento per il processo di espropriazione forzata è l’art. 2740 del


codice civile in cui troviamo espresso il principio della responsabilità patrimoniale.
Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni,
presenti e futuri. A questa prescrizione si correla la norma successiva, l’art. 2741
che esprime il concetto della par condicio creditorum: i creditori hanno uguale
diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause legittime di
prelazione. Sono cause legittime di prelazione: i privilegi, l’impegno e le ipoteche.
L’istituto che dà attuazione al principio della par condicio creditorum è l’intervento
dei creditori. Al processo di espropriazione forzata prende parte non soltanto il
creditore che assume l’iniziativa, il creditore procedente, ma anche gli altri creditori
del debitore esecutato, perché i beni facenti parte del patrimonio del debitore
esecutato costituiscono la garanzia patrimoniale di tutti i creditori e la circostanza
che uno dei creditori abbia assunto l’iniziativa mettendo in moto il processo
esecutivo non gli attribuisce una posizione di preferenza rispetto ai creditori
intervenuti.

183
Quali sono dunque i creditori che possono entrare nel processo di espropriazione
forzata? La norma di riferimento è l’art. 499 del codice di procedura civile. In base
a questa disposizione il titolo per esperire l’intervento è il titolo esecutivo, cioè
possono intervenire nell’esecuzione i creditori che nei confronti del debitore hanno
un credito fondato su titolo esecutivo, quindi i creditori che hanno nelle loro mani
uno dei titoli tassativamente indicati nell’art. 474 e che li avrebbero legittimati a
mettere in moto il processo esecutivo. Questa è la regola generale a cui si
contrappongono alcune eccezioni indicate nella seconda parte del primo comma
dell’art. 499. Si legge qui che possono intervenire altresì i creditori che al momento
del pignoramento avevano eseguito un sequestro sui beni pignorati ovvero
avevano un diritto di pegno o un diritto di prelazione risultante da pubblici registri
ovvero erano titolari di un credito di somma di denaro risultante dalle scritture
contabili di cui all’art. 2214 del codice civile.

Queste sono le uniche ipotesi di creditori non muniti di titolo esecutivo che
possono entrare nel processo esecutivo. Che importanza ha avere o non avere il
titolo esecutivo? In effetti ha rilevanza perché, in base al disposto degli articoli 526
e 564 del codice di procedura civile, i creditori intervenuti tempestivamente
partecipano all’espropriazione dei beni pignorati e, se muniti di titolo esecutivo,
possono provocarne i singoli atti. Come regola generale occorre distinguere le fasi
del processo di espropriazione forzata anteriori alla vendita forzata o
all’assegnazione forzata e le fasi successive. Infatti in riferimento alle fasi anteriori
alla vendita forzata o all’assegnazione forzata, i creditori, muniti di titolo esecutivo,
possono provocare la vendita forzata presentando l’istanza di vendita secondo
quanto previsto negli art. 529 e 567 del codice di procedura civile. Inoltre sono i
soli creditori che devono prestare il loro consenso ai fini della estinzione del
processo esecutivo per rinuncia agli atti e possono nello stesso tempo evitare
l’estinzione del processo esecutivo per inattività prima della vendita forzata e
dell’assegnazione. Invece i creditori che non sono muniti di titolo esecutivo, nella
fase anteriore alla vendita forzata hanno diritto di prendere parte all’udienza che il
giudice fissa a seguito della presentazione dell’istanza di vendita per determinare
le modalità della vendita. Solo all’indomani della vendita forzata o
dell’assegnazione forzata devono prestare il loro consenso per la estinzione del
processo per rinuncia agli atti, possono evitare l’estinzione del processo per
inattività e hanno diritto di partecipare alla distribuzione della somma ricavata in
misura pari ai creditori muniti di titolo esecutivo. C’è però un'altra differenza molto
importante che risulta dal testo dell’art. 499 al comma terzo. In base a questa
previsione, il creditore, che è privo di titolo esecutivo e che interviene
nell’esecuzione, deve notificare al debitore, entro i 10 giorni successivi al deposito,
copia del ricorso, nonché copia dell’estratto autentico notarile attestante il credito
se l’intervento nel’esecuzione ha luogo in forza di esso. Con riferimento a questi
stessi creditori, il successivo quinto comma stabilisce che, con l’ordinanza con cui
è disposta la vendita o l’assegnazione, ai sensi degli art. 530, 552 e 569, il giudice
fissa altresì udienza di comparizione davanti a sé del debitore e dei creditori
intervenuti privi di titolo esecutivo, disponendone la notifica a cura di una delle
184
parti. Tra la data dell’ordinanza e la data fissata per l’udienza non possono
decorrere più di 60 giorni. All’udienza, prevede il successivo sesto comma, il
debitore deve dichiarare quali dei crediti per i quali hanno avuto luogo gli
interventi, egli intenda riconoscere in tutto o in parte, specificando in quest’ultimo
caso, la relativa misura. Se il debitore non compare, si intendono riconosciuti tutti i
crediti per i quali hanno avuto luogo interventi in assenza di titolo esecutivo. In tutti
i casi il riconoscimento rileva ai soli effetti dell’esecuzione. I creditori intervenuti i
cui crediti siano stati riconosciuti da parte del debitore, partecipano alla
distribuzione della somma ricavata per l’intero ovvero limitatamente alla parte del
credito per la quale vi sia stato riconoscimento parziale. Invece, i creditori
intervenuti, i cui crediti siano stati viceversa disconosciuti dal debitore, hanno
diritto, ai sensi dell’art. 510 terzo comma, all’accantonamento delle somme che ad
essi spetterebbero, sempre che ne facciano istanza e dimostrino di aver proposto
nei 30 giorni successivi all’udienza di cui al presente comma, l’azione necessaria
affinché essi possano munirsi del titolo esecutivo. Quindi, i creditori che non hanno
il titolo esecutivo devono, non soltanto esperire intervento secondo le modalità
fissate in via generale dal primo e secondo comma dell’art. 499, quindi mediante
ricorso depositato presso il giudice adito, ma devono anche notificare copia del
ricorso e copia dell’estratto autentico notarile, entro 10 giorni successivi al
deposito, al debitore. Dopodiché il giudice, all’indomani dell’ordinanza con cui è
disposta la vendita, deve fissare un’udienza e, a conclusione di questa udienza, o
il credito dei creditori intervenuti privi di titolo esecutivo è stato riconosciuto dal
debitore, direttamente o implicitamente a seguito di mancata comparizione, nel
qual caso partecipano alla distribuzione della somma ricavata secondo le regole
generali che poi andremo ad esaminare, oppure questi crediti sono stati contestati
in tutto o in parte. Per quanto riguarda i crediti o le parti di credito che sono state
contestate, questi creditori hanno diritto che le somme a cui hanno diritto siano
accantonate ma questo accantonamento è subordinato ad un’espressa richiesta e
alla prova che, nei 30 giorni successivi a questa udienza, abbiano esercitato
l’azione diretta ad ottenere il titolo esecutivo. Soltanto a queste condizioni hanno
diritto all’accantonamento delle somme a cui avrebbero diritto.

Vedremo poi le regole che sovrintendono alla distribuzione del ricavato.

(FILE 2)

Proseguendo nell’analisi sull’intervento dei creditori, ci soffermiamo ora sulla


contrapposizione tra i creditori con causa legittima di prelazione ed i restanti
creditori che chiamiamo creditori chirografari.

Questa distinzione emerge molto chiaramente nell’ art. 2741 del codice civile. E’ la
norma che introduce il principio della par condicio creditorum. Il primo comma
della disposizione afferma infatti che tutti i creditori hanno uguale diritto di essere
soddisfatti sui beni del debitore ma poi pone l’eccezione: i creditori che hanno una
causa legittima di prelazione. Si precisa infatti al secondo comma che sono cause
legittime di prelazione: i privilegi, il pegno e le ipoteche.

185
I creditori che hanno una causa legittima di prelazione si trovano quindi in una
posizione diversa dai restanti creditori perché hanno diritto, sempre, di essere
soddisfatti per primi e per intero. Questo vale a prescindere dalla circostanza che i
creditori muniti di una causa legittima di prelazione rivestano il ruolo di creditore e
procedente e a prescindere anche dal momento in cui esperiscono intervento. C’è
poi una disciplina particolare che viene dettata con riferimento ai creditori ipotecari
cioè i creditori che hanno un’ipoteca iscritta sul bene immobile oggetto
dell’espropriazione forzata. Nell’art. 498 del codice di procedura civile è infatti
scritto che debbono essere avvertiti dell’espropriazione i creditori che sui beni
pignorati hanno un diritto di prelazione risultante da pubblici registri e sappiamo
che soltanto le ipoteche risultano da pubblici registri in quanto l’ipoteca si
costituisce proprio attraverso l’iscrizione come forma di pubblicità costitutiva. Nei
pubblici registri non risultano quindi né i privilegi né il pegno. I privilegi trovano la
propria ragione nella causa del credito per cui non possono risultare dai registri.
Non può risultare nei registri neppure il pegno che è un diritto reale di garanzia che
ha ad oggetto un bene mobile e che si costituisce a seguito dello spossessamento
del debitore, infatti il contratto di pegno è un contratto reale che cioè si perfeziona
con la consegna del bene da parte del debitore al creditore. Il bene in verità può
essere consegnato anche ad un terzo quindi ad un soggetto diverso dal creditore,
terzo che assumerà la responsabilità del custode.

Con riferimento ai creditori ipotecari, l’art. 498 primo comma pone a carico del
creditore procedente l’onere di avvisarli dell’apertura del processo esecutivo con
riferimento al bene immobile su cui l’ipoteca è iscritta. Il secondo comma della
disposizione precisa che a tal fine è notificato, a ciascuno di essi a cura del
creditore pignorante ed entro 5 giorni dal pignoramento, un avviso contenente
l’indicazione del creditore pignorante, del credito per il quale si procede,del titolo e
delle cose pignorate. A questa previsione si correla il testo dell’art. 567 del codice
di procedura laddove si legge…….(NON SI CAPISCE AUDIO DISTURBATO min
4:22 file 2)….. dopodiché al secondo comma si prevede che il creditore che
richiede la vendita deve provvedere entro 60 giorni dal deposito del ricorso ad
allegare allo stesso l’estratto del catasto nonché i certificati delle iscrizioni e le
trascrizioni relative all’immobile pignorato effettuate nei 20 anni anteriori alla
trascrizione del pignoramento. Tale documentazione può essere sostituita da un
certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali dei registri
immobiliari. Nel momento in cui il creditore propone istanza di vendita, entro 60
giorni deve allegare la documentazione richiesta: l’estratto del catasto. Questo
deposito è strumentale acciocché il giudice possa verificare che i creditori che
hanno un’ipoteca iscritta sul bene siano stati avvisati. Laddove, a seguito del
controllo, risulti che i creditori non siano stati avvisati, il terzo comma dell’art. 498
prevede che il giudice non può provvedere sull’istanza di assegnazione o di
vendita.

Qual è la ratio di questa disciplina?

La spiegazione di questa disciplina risiede in quello che è uno degli effetti tipici
della vendita forzata e la cui disciplina si rinviene nell’art. 586 del codice di
186
procedura civile laddove si legge che, chiuso il procedimento di vendita forzata e
avvenuto il versamento del prezzo, il giudice ordina che si cancellino le trascrizioni
dei pignoramenti e le iscrizioni ipotecarie. Il giudice, nel momento in cui chiude il
procedimento di vendita, ordina la cancellazione di trascrizioni e iscrizioni. Il
legislatore vuole che l’aggiudicatario, che il terzo che acquista il bene in sede di
vendita forzata, acquisti un bene pulito, un bene liberato non soltanto dal
pignoramento ma anche da tutti i diritti reali di garanzia che risultano dai registri
quindi dalle ipoteche. Si capisce allora che, a seguito della vendita forzata
l’ipoteca viene meno. Quindi il creditore ipotecario, il creditore cioè che ha il diritto
reale di garanzia, perde la sua garanzia. E’ dunque importante che prenda parte al
processo di espropriazione forzata perché altrimenti rischia di perdere la garanzia
senza essere soddisfatto. Questa disciplina il legislatore l’ha dettata con
riferimento esclusivo all’ipoteca. Con riferimento infatti alle altre cause legittime di
prelazione la situazione è diversa. I privilegi trovano il loro fondamento nella causa
del credito, quindi per il creditore pignorante non è possibile individuare i creditori
assistiti da privilegio. Invece per quanto riguarda il pegno, il problema di avvertire il
creditore che ha il pegno non si pone. Il pegno si perfeziona nel momento in cui il
debitore consegna il bene al creditore o al terzo, quindi se c’è un pegno il creditore
titolare di questo diritto reale di garanzia ha nelle sue mani il bene su cui il pegno è
stato costituito. Il creditore procedente se vuole agire in via esecutiva su quel bene
dovrà procedere nei confronti dell’altro creditore che ha il bene appartenente del
debitore, aprirà un processo di espropriazione presso terzi e per forza di cose il
creditore che ha il pegno è messo nella condizione di venire a conoscenza
dell’apertura dell’espropriazione forzata sul bene di cui ha il possesso e che è
oggetto del pegno ed esperire intervento.

Con riferimento ai creditori che non hanno invece una causa legittima di
prelazione, quindi i creditori chirografari, c’è un altro profilo da considerare: la
tempestività o tardività dell’intervento.

Questa distinzione non ha alcun rilievo con riferimenti ai creditori che hanno una
causa legittima di prelazione per i quali il momento in cui intervengono non ha
assolutamente rilevanza perché a questi creditori la legge garantisce il diritto di
esse soddisfatti per primi e per intero. Con riferimento ai creditori chirografari,
invece, il momento in cui esperiscono intervento è molto importante. Quando
l’intervento può ritenersi tempestivo e quando,invece, è tardivo? La regola
generale è quella secondo cui l’intervento è tempestivo se avviene prima
dell’udienza fissata a seguito della presentazione dell’istanza di vendita o
dell’assegnazione. Questo lo si desume dagli art. 525, primo comma, e 564 del
codice di procedura civile. Se questa è la regola generale ci sono però 2 eccezioni
molto importanti. La prima eccezione si rinviene nell’ambito della cosiddetta
piccola espropriazione mobiliare, ovvero le ipotesi in cui l’espropriazione mobiliare
ha ad oggetto dei beni mobili il cui valore non supera i 20.000 euro. In questo
caso, in base a quanto disposto dall’art 525, secondo comma, del codice di
procedura civile, l’intervento è tempestivo se avviene prima della presentazione
dell’istanza di vendita. La seconda eccezione si rinviene nell’ambito della
187
espropriazione presso terzi. Con riferimento a questa ipotesi, l’intervento è
tempestivo se avviene prima dell’udienza di cui all’art 547 in cui deve comparire il
debitore e il creditore procedente. Questo è quanto si desume dall’art. 551
secondo comma. Si tratta di 2 eccezioni particolarmente rilevanti. La prima perché
un numero molto elevato di processi di espropriazione forzata hanno ad oggetto
beni mobili che non superano i 20.000 euro, la seconda perché il processo di
espropriazione presso terzi è l’unico che funziona, l’unico che garantisce al
creditore il soddisfacimento delle sue pretese.

Perché è importante il carattere tempestivo o tardivo dell’intervento?

Dalla lettura degli art. 528 e 565 si ricava che i creditori chirografari che
intervengono tempestivamente hanno diritto di essere soddisfatti in maniera piena
e paritaria insieme al creditore pignorante, fatti salvi i creditori che hanno una
causa legittima di prelazione, posti in posizione prioritaria. I creditori chirografari
che intervengono tardivamente hanno diritto di essere soddisfatti soltanto sulla
somma ricavata che avanza dopo che sono stati soddisfatti i creditori muniti di
una causa legittima di prelazione, il creditore pignorante e i creditori chirografari
intervenuti tempestivamente. In pratica non hanno alcuna chance di ottenere il
minimo soddisfacimento.

C’è poi un’altra situazione che merita di essere segnalata. Si tratta di un istituto
che trova la propria disciplina nell’art. 499, quarto comma, che recita: “Ai creditori
chirografari intervenuti tempestivamente, il creditore pignorante ha facoltà di
indicare, con atto notificato o all'udienza in cui è disposta vendita o
l'assegnazione, l'esistenza di altri beni del debitore utilmente pignorabili, e di
invitarli ad estendere il pignoramento se sono forniti di titolo esecutivo o,
altrimenti, ad anticipare le spese necessarie per l'estensione. Se i creditori
intervenuti, senza giusto motivo, non estendono il pignoramento ai beni indicati ai
sensi del primo periodo entro il termine di trenta giorni, il creditore pignorante ha
diritto di essere loro preferito in sede di distribuzione”. Premesso che il creditore
procedente, colui che dà avvio al processo esecutivo e che quindi procede a
pignoramento, di solito va a pignorare beni aventi valore corrispondente o di poco
superiore al suo credito, nel momento in cui altri creditori esperiscono intervento, è
chiaro che la somma che verrà ricavata dalla vendita di questi beni dovrà essere
ripartita con chi è tempestivamente intervenuto. Quindi le chance del creditore
procedente di ottenere il soddisfacimento delle proprie pretese, inevitabilmente si
riducono. Questo spiega l’istituto della estensione del pignoramento, disciplinato
nell’art. 499, quarto comma. Il creditore procedente può indicare agli altri creditori
tempestivamente intervenuti l’esistenza di beni appartenenti al debitore a cui
estendere il pignoramento e lo stesso creditore può invitarli, se non sono forniti di
titolo esecutivo, ad anticipare le spese che serviranno a lui per estendere il
pignoramento. Dopodiché prevede che, se, senza giustificato motivo, questi
creditori non accolgono l’invito, quindi non estendono il pignoramento sui beni
indicati, il creditore pignorante acquista il diritto di essere loro preferito in sede di
distribuzione. Quindi acquista una posizione di preferenza che ha delle origini

188
processuali e che quindi si distingue dalle cause legittime di prelazione che invece
hanno un’origine sostanziale.

Nell’ambito della distribuzione del ricavato si dovrà dunque prima soddisfare i


creditori che sono muniti di una causa legittima di prelazione (ed è la legge a
stabilire i criteri sulla cui base dovranno essere graduati i creditori muniti di un
diritto di prelazione), dopodiché saranno soddisfatti il creditore procedente e gli
altri creditori che sono tempestivamente intervenuti e poi, sull’eventuale residuo,
saranno soddisfatti i creditori chirografari intervenuti tardivamente.

Con riferimento al creditore procedente, il debitore ha uno strumento che gli


consente di contestare l’esistenza del diritto di credito di cui vuole ottenere il
soddisfacimento cioè di provocare un accertamento dell’esistenza e del modo
d’essere del diritto di cui il creditore vuole ottenere il soddisfacimento, aprendo
quel processo, quella opposizione al precetto, o opposizione all’esecuzione, che è
un rimedio, un processo a cognizione piena, destinato a svolgersi al di fuori del
processo esecutivo.

Esistono altri strumenti per provocare un accertamento di esistenza dei crediti


appartenenti ai creditori che hanno esperito intervento?

La riposta non è unitaria. I creditori muniti di titolo esecutivo sono creditori che,
nella fase del processo esecutivo che arriva fino alla vendita, hanno il potere di
porre in essere quegli atti di impulso processuale che consentono al processo
esecutivo di andare avanti, in particolare sono legittimati a proporre l’istanza di
vendita. Si può ritenere che nei loro confronti il debitore possa proporre
opposizione all’esecuzione e in quella sede chiedere, ex art. 624, l’istanza di
sospensione del loro potere di provocare la vendita forzata. Se il titolo esecutivo è
di formazione giudiziale e non si tratta di un provvedimento divenuto immutabile è
possibile che parallelamente al processo esecutivo vada avanti il processo al cui
interno è stato reso il provvedimento che poi ha acquisito efficacia esecutiva. Ad
es. se si tratta di una sentenza di primo grado se il debitore abbia proposto
appello e quindi sia in corso di svolgimento la fase di impugnazione.

Con riferimento, invece, ai titoli esecutivi di formazione stragiudiziale non esiste


chiaramente un rimedio esterno e il primo momento in cui si porrà l’esigenza di
accertare l’esistenza e il modo d’essere di questo diritto di credito, sarà il
momento in cui si arriva alla distribuzione del ricavato.

Con riferimento ai creditori intervenuti non muniti di titolo esecutivo, abbiamo visto
che c’è un primo momenti di controllo disciplinato dall’art. 499, quinto e sesto
comma. E’ una prima verifica che si svolge tra il debitore esecutato e il creditore
non munito di titolo esecutivo. L’art. 499 dice espressamente che, se ci sono delle
contestazioni, il giudice le risolve ai soli fini della esecuzione. Ciò non toglie che,
anche laddove il credito sia stato in tutto o in parte riconosciuto dal debitore
esecutato, in sede di distribuzione ci possano essere delle contestazioni. Infatti nel
momento in cui si arriva in sede di distribuzione, l’interesse a contestare
l’esistenza e il modo d’essere dei diversi diritti di credito non appartiene soltanto al
debitore esecutato ma appartiene anche agli altri creditori, e questo perché, più
sono coloro che sono interessati alla distribuzione della somma che è stata
189
ricavata dalla vendita del bene, minore è la possibilità che ciascuno di questi
creditori venga soddisfatto. Ciascun creditore ha quindi l’interesse a contestare
l’esistenza, il modo d’essere, degli altri crediti appartenenti ai creditori che sono
intervenuti.

Parte Seconda

(file 3)

Vi stavo dicendo che, con riferimento a tutti quanti i creditori che sono intervenuti,
vuoi con riferimento ai creditori che sono muniti di un titolo esecutivo, vuoi con
riferimento ai creditori che invece il titolo esecutivo non cel’hanno, si apre la
possibilità che in sede di distribuzione del ricavato sorgano delle contestazioni.

Queste contestazioni potranno provenire, vuoi dal debitore esecutato, vuoi dai
creditori stessi. Potranno riguardare in generale: l’esistenza, l’ammontare, dei
crediti, ma anche la esistenza delle cause legittime di prelazione. Tutte queste
contestazioni potranno dar luogo, aprire, potranno esser fatte valere, nell’ambito di
un rimedio che prende il nome di opposizione in sede di distribuzione e che è
disciplinato nell’art 512.

Questa norma è stata oggetto di riforma nel 2005, infatti fino al 2005 si prevedeva
che la proposizione della opposizione in sede di distribuzione determinasse la
apertura di un processo a cognizione piena. Invece, in base all’attuale testo dell’art
512 se in sede di distribuzione sorge controversia tra creditori concorrenti o tra
creditore e debitore o terzo assoggettato all’espropriazione, circa la sussistenza o
l’ammontare di uno o più crediti, o circa la sussistenza di diritti di prelazione, il
giudice della esecuzione, sentite le parti e compiuti i necessari accertamenti,
provvede con ordinanza impugnabile nelle forme e nei termini di cui all’art 617
secondo comma. Il giudice può, anche con l’ordinanza di cui al primo comma,
sospendere in tutto o in parte, la distribuzione della somma ricavata.

La lettera della disposizione non lascia alcun dubbio: l’opposizione in sede di


distribuzione è risolta dallo stesso giudice della esecuzione sulla base di una
cognizione sommaria, e con un provvedimento che ha la forma della ordinanza,
suscettibile di esser impugnato attraverso quello che è il rimedio generale avverso
i provvedimenti del giudice della esecuzione, e cioè la opposizione agli atti
esecutivi, art appunto 617.

Quindi quello che il giudice compie è un accertamento sommario, non è un


accertamento a cognizione piena. Questo rilievo segnatevelo perché torneremo sul
punto quando andremo ad occuparci della distribuzione del ricavato e della
stabilità della distribuzione del ricavato.

Con questo direi di aver chiuso, con riferimento all’intervento dei creditori, e
andiamo adesso a analizzare la disciplina della vendita forzata.

190
La vendita forzata, diciamo, è la seconda fase del processo di espropriazione
forzata, segue il pignoramento, e lo scopo della vendita forzata è quello di
liquidare i beni che sono stati pignorati, trasformandoli in denaro, che poi verrà
distribuito tra i creditori.

L’apertura della vendita forzata non avviene d’ufficio, abbiamo già evidenziato che
tutti i processi esecutivi sono processi retti dall’impulso di parte, quindi è
necessario che i creditori pongano in essere un atto di impulso processuale,
perché a seguito del pignoramento si apra la fase della vendita forzata.

Come si apre la fase della vendita forzata? Attraverso la proposizione della istanza
di vendita. La istanza di vendita può esser presentata soltanto dal creditore
pignorante o da uno dei creditori che sono intervenuti e che sono muniti di titolo
esecutivo. Tanto si ricava dagli artt 529 e 567 cpc.

Peraltro, la proposizione di questa istanza è soggetta a alcuni termini. Infatti, in


base al testo dell’art 501 l’istanza di vendita o di assegnazione non può esser
proposta prima che siano decorsi 10 giorni dal pignoramento, mentre esiste un
ulteriore termine, un termine massimo, disciplinato nell’art 497, a tenore del quale
l’istanza di vendita comunque non può esser proposta oltre 45 giorni dal
pignoramento, e se l’istanza viene proposta oltre questo termine infatti il
pignoramento perde efficacia, cioè si ha una ipotesi di estinzione del processo
esecutivo per inattività delle parti. In base alla disciplina attualmente vigente la
estinzione è disciplinata dall’art 630che andremo successivamente a esaminare.

Non mi soffermo sulla disciplina della vendita forzata, salvo alcuni rilievi
generalissimi, mentre invece mi voglio soffermare sugli effetti della vendita forzata.

La vendita mobiliare è una vendita che avviene in forme generalmente semplici,


quindi il giudice della esecuzione in questo caso svolge una funzione deliberativa
in ordine alle modalità della vendita, vendita infatti che viene affidata o a un
commissionario, secondo quanto previsto negli artt 532 e ss, oppure è una vendita
che si svolge all’incanto, quindi attraverso una sorta di asta, e che può esser
affidata al cancelliere, all’ufficiale giudiziario oppure a istituti specializzati, i cd
istituti di vendite giudiziarie.

Invece la vendita immobiliare avviene sotto la direzione del giudice della


esecuzione, il quale, non soltanto delibera le modalità della vendita, le modalità in
cui la vendita deve svolgersi, ma svolge anche la funzione di organo esecutivo. In
questo caso la vendita può avvenire secondo diverse modalità. Prima sarà una
vendita senza incanto, e poi una vendita all’incanto: prima senza un asta e
successivamente all’asta. E con riferimento sia allavendita con incanto che senza
incanto, vi segnalo la possibilitàche le operazioni vengano delegate a un notaio, a
un avvocato o a un dottore commercialista, in base a quanto previsto nell’art
591bis cpc.

191
La vendita forzata, a prescindere dalle modalità in cui si svolge, è sempre una
vendita che si effettua per contanti. L’aggiudicatario infatti deve pagare il prezzo in
contanti; se il prezzo non viene pagato l’aggiudicatario viene dichiarato decaduto e
si procede ad un nuovo incanto, peraltro a spese, e sotto la responsabilità
dell’aggiudicatario che si è reso inadempiente.

Non ci soffermiamo sulle modalità della vendita, voglio però ricordarvi che a
seguito della proposizione della istanza di vendita il giudice deve fissare un
udienza, ed è la prima udienza del processo di espropriazione forzata in cui il
giudice si troverà di fronte per la prima volta sia il debitore esecutato sia i creditori,
e in questa udienza, disciplinata, per la espropriazione mobiliare dall’art 530 e per
espropriazione immobiliare dall’art 569, il giudice attiva il contraddittorio: quindi
tutte le parti, compreso il debitore, possono fare osservazioni su il tempo e sulle
modalità della vendita, e poi, come andremo a vedere, devono proporre anche, a
pena di decadenza, tutte le opposizioni agli atti esecutivi se non sono già
decadute dal diritto di proporle, ma su questo punto ci soffermeremo oltre.

La vendita forzata produce una serie di effetti sostanziali che sono disciplinati
nell’art 2919 cc e nell’art 586 cpc, che peraltro abbiamo già avuto modo di
richiamare.

Per quanto riguarda il primo effetto, la vendita determina il trasferimento della


proprietàdel bene dal debitore esecutato all’aggiudicatario. Questo effetto è
disciplinato dall’art 2919 cc, il quale stabilisce che la vendita forzata trasferisce
all’acquirente i diritti che sulla cosa spettavano a colui che ha subito la
espropriazione, salvi gli effetti del possesso di buona fede. Non sono però
opponibili all’acquirente diritti acquisiti da terzi sulla cosa, se i diritti stessi non
hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori intervenuti nella
esecuzione.

Allora la regola generale è che attraverso la vendita forzata si ha il trasferimento


della titolarità del bene dal debitore esecutato all’aggiudicatario, che è il terzo che
acquista.

La vendita determina come regola generale un acquisto a titolo derivativo perché


l’aggiudicatario acquista il bene che prima apparteneva al debitore esecutato. La
norma però, vedete, fa salvi gli effetti del possesso di buona fede. Evidentemente
si fa riferimento alle ipotesi in cui oggetto di vendita forzata è un bene mobile, il
significato del rinvio alle norme concernenti il possesso di buona fede è che in
ipotesi di beni mobili l’aggiudicatario può acquistare non a titolo derivativo ma a
titolo originario in virtù dell’art 1153 del cc: se l’aggiudicatario è in buona fede,
acquista il possesso del bene sulla base di un titolo astrattamente idoneo, che
sarà il decreto di trasferimento emanato dal giudice della esecuzione, il suo
acquisto è un acquisto a titolo originario, quindi è un acquisto autonomo rispetto
alla esistenza del diritto del debitore esecutato.

192
Peraltro, in base all’art 586 cpc, che abbiamo già esaminato, il giudice
dell’esecuzione, nel momento in cui emana il decreto di trasferimento del bene,
ordina anche la cancellazione della trascrizione dei pignoramenti e delle
iscrizioni ipotecarie che risultano dai pubblici registri a carico del bene venduto, il
cd effetto purgativo della vendita forzata: l’aggiudicatario acquista un bene pulito,
liberato dal peso delle ipoteche, delle iscrizioni ipotecarie.

La lettura di queste disposizioni ci consente di fare delle osservazioni:in primo


luogo, se appunto, come regola generale l’aggiudicatario fa l’acquisto a titolo
derivativo, nell’ipotesi dei beni mobili, se ricorrono i presupposti dell’art 1153 cc,
quindi se l’aggiudicatario acquista il possesso del bene in buona fede, il suo
acquisto è a titolo originario, quindi autonomo. Il ogni caso, anche con riferimento
alle ipotesi in cui l’aggiudicatario acquista a titolo derivativo, l’aggiudicatario
acquista, torniamo all’art 2919cc, i diritti che sulla cosa spettavano al debitore, ma
non gli sono opponibili i diritti acquisiti da terzi sulla cosa, se i diritti stessi non
hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori intervenuti nella
esecuzione. A cosa si fa riferimento? Si fa riferimento al cd effetto del
pignoramento, abbiamo detto che l’effetto del pignoramento è quello di creare un
vincolo di indisponibilità sui beni che ne costituiscono l’oggetto, per cui eventuali
atti dispositivi posti in essere dal debitore esecutato in pendenza di pignoramento,
sono atti dispositivi che, anche se validi non sono efficaci nei confronti del
creditore pignorante e dei creditori intervenuti. Ora, in base al disposto del 2919
possiamo dire che questi atti non sono opponibili neppure all’aggiudicatario, che,
in fin dei conti, è il soggetto che gode degli effetti del pignoramento. Quindi, in
base a questo rilievo possiamo dire che, in un certo senso, l’aggiudicatario
acquista un diritto, anche se acquista a titolo derivativo, che può esser un diritto
più ampio rispetto a quello appartenente al debitore esecutato.E questo rilievo
trova conferma anche nel cd effetto purgativo della vendita forzata, cioè nell’art
586, perché il diritto acquistato dall’aggiudicatario è libero anche dal peso delle
ipoteche, quindi, anche sotto quest’altro profilo è un diritto più ampio rispetto a
quello appartenente al debitore esecutato.

Quanto è stabile l’acquisto dell’aggiudicatario? Qui dobbiamo andare a leggere le


disposizioni di cui agli artt2920 e 2921.

L’art 2920 ci dice che se oggetto della vendita è una cosa mobile, coloro che
avevano la proprietà o altri diritti reali su di essa, ma non hanno fatto valere le loro
ragioni sulla somma ricavata dall’esecuzione, non possono farle valere nei confronti
dell’acquirente di buona fede, né possono ripeteredai creditori la somma
distribuita. Resta ferma la responsabilità del creditore procedente di mala fede per i
danni e le spese.

Allora, in ipotesi di beni mobili, abbiamo già detto che l’aggiudicatario acquista a
titolo originario, e quindi abbiamo già detto, a suo tempo, quando abbiamo
analizzato le regole di svolgimento della espropriazione mobiliare, che il terzo che

193
è proprietario del bene pignorato, ha come rimedio obbligatorio, perché è l’unico,
l’opposizione di terzo di cui all’art 619, e abbiamo già sottolineato che il terzo
deve, non soltanto aprire il processo di opposizione di terzo alla esecuzione, ma
deve riuscire a ottenere anche la sospensione del processo esecutivo, perché,
abbiamo detto che se il processo esecutivo va avanti e si arriva alla vendita
forzata, l’aggiudicatario maturerà un acquisto a titolo originario, come regola
generale, e quindi è un acquisto che non potrà più esser toccato.

Questa disposizione ci dice anche che, aggiunge qualcosa al quadro già delineato,
perché ci dice che il terzo, proprietario del bene, non può neppure ripetere dai
creditori la somma distribuita: quindi se il processo esecutivo va avanti, si
perfeziona la vendita e si va avanti e si arriva anche alla distribuzione del ricavato,
il terzo non potrà neppure ripetere le somme che sono state distribuite tra i
creditori.Quindi è indispensabile per questo terzo non soltanto aprire la
opposizione di terzo, ma anche ottenere il provvedimento di sospensione, vi
ricordo peraltro che, questa opposizione di terzo, in base all’art 620 cpc, può
esser anche tardiva. La norma prevede infatti che se in seguito alla opposizione il
giudice nonsospende la vendita dei beni mobili, o se la opposizione è proposta
dopo la venditastessa, i diritti del terzo si fanno valere sulla cosa ricavata.

Invece , per quanto riguarda l’ipotesi della espropriazione immobiliare, vale la


regola generale per cui la vendita determina un acquisto a titolo derivativo. In
questo senso abbiamo già osservato che il terzo che è proprietario dell’immobile
che è stato espropriato conserva la possibilità di agire in rivendica direttamente nei
confronti dell’aggiudicatario, quindi ha una duplice possibilità: o utilizza la
opposizione di terzo alla esecuzione, oppure agisce in rivendica nei confronti
dell’aggiudicatario. E se effettivamente risulta essere proprietario è possibile che
riesca a recuperare il bene.

In questo caso si verifica la cd evizione dell’aggiudicatario. Questa ipotesi è


disciplinata dall’art 2921 cc il quale stabilisce che l’acquirente della cosa
espropriata, se ne subisce la evizione, può ripetere il prezzo non ancora distribuito,
dedotte le spese, e se la distribuzione è già avvenuta può ripeterne da ciascun
creditore la parte che ha riscossa e dal debitore l’eventuale residuo, salva la
responsabilità del creditore procedente per i danni e per le spese.

Quindi la scelta che il legislatore ha fatto nell’art 2921 è questa: se l’aggiudicatario


subisce la evizione avrà diritto di ottenere la restituzione di quanto pagato (quindi
prezzo degli interessi e delle spese), mentre invece non si fa riferimento al
risarcimento del danno. Quindi la disciplina dettata nell’art 2921 per la evizione
subita dal aggiudicatario è diversa dalla disciplina generale della garanzia per
evizione prevista negli artt 1483 e ss del cc, perché, se l’evizione viene subita dal
compratore, questi avrà diritto generalmente anche al risarcimento del danno.

Comunque appare evidente la diversità di posizione del terzo in ipotesi di


espropriazione mobiliare rispetto alla espropriazione immobiliare: nell’ambito della
194
espropriazione mobiliare il legislatore non soltanto ha, diciamo esteso, la
applicazione della regola generale del 1153, e questo, diciamo, è una scelta
sicuramente condivisibile nella parte in cui si tratta di un principio generale
dell’ordinamento. Mentre invece suscita qualche perplessità la scelta di impedire
al terzo proprietario di recuperare la somma che è stata ricavata dalla vendita
forzata, quindi escludere la possibilità di esercitare la azione di indebito
arricchimento contro i creditori tra cui è stata distribuita la somma ricavata dal
bene appartenente al terzo. Questa è senz’altro una deviazione dai principi
generali dell’ordinamento, deviazione che evidentemente trova una unica
spiegazione, cioè la volontà del legislatore di assicurare la massima stabilità alla
distribuzione del ricavato.

(File 4)

Andiamo adesso ad analizzare una serie di disposizioni e di meccanismi per il cui


tramite il legislatore si è adoperato per garantire la stabilità della vendita forzata.

La vendita forzata, assieme alla distribuzione del ricavato, è uno dei risultati finali
del processo esecutivo. Per il legislatore è molto importante assicurarne la
stabilità, infatti la stabilità, la certezza della vendita forzata vale come incentivo a
ciò che i cittadini prendano parte al procedimento.

Questo garantisce il risultato della vendita forzata, l’acquisto dei beni che sono
oggetto di vendita forzata e a dei prezzi diciamo competitivi, e questo
naturalmente serve a garantire il soddisfacimento dei creditori (creditore
procedente e creditori che sono intervenuti).

La vendita forzata, il procedimento di vendita forzata, abbiamo visto, ha come


effetto principale l’effetto traslativo, quindi l’effetto di trasferimento del bene dal
debitore esecutato all’aggiudicatario. Nell’ambito di questo procedimento si
possono individuare degli elementi negoziali, pensate ad esempio alle offerte di
coloro che prendono parte all’asta, per esempio; e ci sono degli elementi
giurisdizionali, pensate che il procedimento si chiude con un provvedimento del
giudice: l’ordinanza di aggiudicazione, il decreto di trasferimento di cui all’art 586
cpc.

Naturalmente è possibile che si verifichino dei vizi, è possibile che la parte che ha
effettuato l’offerta avesse una volontà viziata, inficiata daerrore per esempio. È
possibile che il procedimento non si svolga nel rispetto di quanto previsto dalla
legge, supponiamo che il giudice aggiudichi il bene ad un cittadino che non ha
effettuato l’offerta maggiore.

Quindi la domanda che ci dobbiamo porre è quella relativa alla individuazione dei
rimedi per il cui tramite denunciare questi vizi, e naturalmente si aprono due
prospettive:

1) rimedi negoziali, è una prospettiva che si apre tenuto conto di quanto


abbiamo appena osservato, cioè che nella vendita sono presenti degli elementi

195
negoziali, quindi è possibile esercitare la azione ad esempio di annullamento se
alla base della offerta vi era una volontà viziata

2) rimedi giurisdizionali, quindi rimedi interni al processo esecutivo, e come


vedremo, il rimedio generale è l’opposizione agli atti esecutivi di cui agli art 617
e 618 del cpc.

La prima prospettiva, la possibilità di utilizzare i rimedi negoziali, almeno nei


confronti di quei profili negoziali che abbiamo evidenziato, è stata esclusa, e
questa scelta è una scelta molto opportuna. Perché i rimedi negoziali sapete che
sono soggetti non a termini di decadenza, ma sono soggetti a periodi di
prescrizione e la prescrizione è una prescrizione molto lunga, quindi, aprire alla
possibilità di utilizzare i rimedi negoziali avrebbe creato una prospettiva di enorme
incertezza, quindi avrebbe destabilizzato la vendita.

Ecco perché la soluzione che si è affermata è una soluzione sicuramente


ragionevole ed opportuna. La opposizione agli atti esecutivi, che infatti è il rimedio
generale interno al processo esecutivo, è soggetto a termini di decadenza molto
rigidi e molto stretti, attualmente sono 20 giorni dal momento in cui la parte
interessata è venuta a conoscenza dell’atto viziato, per cui: o la parte si attiva
immediatamente, oppure, se lascia inutilmente decorrere il termine non esiste un
altro strumento per il cui tramite denunciare il vizio, e di conseguenza, come
sappiamo, il vizio dovrà ritenersi sanato.

Dobbiamo però considerare che la vendita forzata si inserisce nell’ambito di un


procedimento più ampio, nel quadro di un procedimento più ampio, e quindi per
valutare la stabilità della vendita forzata dobbiamo anche riflettere in ordine a
possibilità ulteriori, cioè che si verifichino dei vizi in riferimento ad attiprecedenti
alla vendita forzata, oppure dei vizi di carattere generale, cioè vizi derivanti dal
difetto di un requisitoextra formale.

Con riferimento ai vizi di tipo formale, si tratta di ipotesi in cui uno degli atti del
processo esecutivo è stato compiuto in maniera non conforme a quanto previsto
dalla legge, quindi in difetto di uno dei requisiti di forma contenuto imposti dalla
legge. Ricordatevi che il nostro ordinamento ha adottato un principio generale che
è fissato nell’art 159 cpc a tenore del quale la nullità di un atto si estende agli atti
successivi che ne siano dipendenti. Quindi, se il vizio colpisce un atto precedente
alla vendita forzata e non viene sanato, la nullità che deriva da questo vizio è
potenzialmente idonea a inficiare la vendita forzata.

D’altra parte, con riferimento ai requisiti extra formali, vi è un orientamento


giurisprudenziale pacifico nel senso di ritenere che il difetto di questi requisiti extra
formali è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, e quindi
anche qui si apre la possibilità che il difetto di un requisito extra formale venga
rilevato successivamente alla vendita e di conseguenza si apre uno scenario di
incertezza per la vendita.

196
Allora, in verità il legislatore ha predisposto alcuni meccanismi tesi ad invece
consolidare la vendita, quindi ad evitare possibili caducazioni.

Infatti, se voi prendete l’art 530 cpc, siamo in materia di espropriazione mobiliare,
voi trovate scritto, si tratta di una disposizione che disciplina l’udienza fissata dal
giudice a seguito della presentazione della istanza di vendita. E vedete al secondo
comma che all’udienza le parti possono fare osservazioni circa la assegnazione e
circa il tempo e le modalità della vendita, e debbono proporre, a pena di
decadenza, le opposizioni agli atti esecutivi, se non sono già decadute dal diritto di
proporle. Una disposizione perfettamente analoga la ritrovate nell’art 569 secondo
comma del cpc in materia di espropriazione immobiliare: allora all’udienza, fissata
a seguito della presentazione della istanza di vendita, le parti debbono proporre le
opposizioni agli atti esecutivi, se non sono già decadute dal diritto di proporle,
quindi significa che questa, l’udienza successiva all’istanza di vendita è l’ultimo
momento in cui le partipossono denunciare vizi derivanti da un requisito di forma
contenuto relativo ad un atto precedente la vendita, o relativi al difetto di un
requisito extra formale generale, è l’ultimo momento perché, il codice è molto
chiaro, fa riferimento a una decadenza stretta, una decadenza rigida.

Come vedete si richiama la opposizione agli atti esecutivi, che è il rimedio generale
del processo esecutivo. Ora, come andremo a vedere in una successiva lezione, la
opposizione agli atti esecutivi non determina la sospensione del processo
esecutivo, non determina la sospensione necessaria, per cui, anche se questa
opposizione agli atti esecutivi è già stata proposta, o viene proposta nell’udienza
successiva alla presentazione della istanza di vendita, è possibile che il processo
nel frattempo vada avanti, che si arrivi e si perfezioni la vendita forzata, e che
l’opposizione agli atti esecutivi venga accolta all’indomani della chiusura del
procedimento di vendita.

Ora, in base alle regole generali, in base cioè al principio di cui all’art 159 secondo
cui la nullità di un atto comporta la nullità degli atti successivi che ne sono
dipendenti, se si dovesse applicare questo principio, dovremmo ritenere che, a
seguito dell’accoglimento della opposizione agli atti esecutivi, la vendita forzata ne
dovrebbe risultare travolta. Questo però è un risultato che il legislatore ha voluto in
tutti i modi evitare, perché avrebbe compromesso la funzione stessa del processo
esecutivo, e allora ha previsto nell’art 2929 cc che la nullità degli atti esecutivi che
hanno preceduto la vendita o la assegnazione, non ha effetto riguardo
all’acquirente o all’assegnatario, salvo il caso di collusione col creditore
procedente. Questa norma di fatto esclude la possibilità di applicare il principio
generale di cui all’art 159, con la conseguenza che la validità della vendita forzata
è sganciata dalla validità delle fasi esecutive che l’hanno preceduto.

Peraltro la giurisprudenza ha lavorato sul testo della disposizione per ritenere, non
soltanto che questa regola non vale in caso di collusione col creditore procedente,
questo è un inciso previsto dalla stessa norma, ma non vale con riferimento alle
nullità che riguardano lo stesso sub procedimento di vendita.

197
La stessa giurisprudenza poi ha lavorato sulla regola dettata dall’art 2929 per
ritenere, per affermare, che la vendita forzata non solo non può esser travolta dalla
sentenza che successivamente accoglie la opposizione agli atti esecutivi, ma
neanche dalla sentenza che, successivamente alla vendita forzata, accoglie la
opposizione alla esecuzione di cui all’art 615 cpc. Una posizione questa senz’altro
meritevole di essere accolta nella misura in cui risponde alla stessa fondamentale
esigenza su cui riposa l’art 2929 di assicurare la certezza e la solidità della vendita
forzata.

A completamento del quadro voglio ricordarvi che il legislatore nel 2016 ha


integrato il testo dell’art 615 prevedendo al secondo comma che nella esecuzione
per espropriazione l’opposizione (alla esecuzione) è inammissibile se proposta
dopo che è stata disposta la vendita o la assegnazione a norma degli art 530 552 e
569, salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti, ovvero l’opponente dimostri di non
averla potuta proporre tempestivamente per causa a lui non imputabile.

Andiamo adesso ad esaminare in maniera molto molto sommaria la assegnazione


forzata. L’assegnazione è alternativa rispetto alla vendita. Qual è la sua
caratteristica? La caratteristica è che mentre alla vendita prendono parte cittadini
terzi rispetto alle parti del processo esecutivo, quindi creditori e debitore, invece
nella assegnazione il diritto viene trasferito ad uno dei creditori, che può essere
il creditore procedente o un altro dei creditori che sono intervenuti. Quindi
attraverso la assegnazione, dove si ha la assegnazione forzata, il bene, e quindi il
diritto oggetto di pignoramento,viene trasferito a chi è già parte del processo
esecutivo.

L’assegnazione può assumere diverse configurazioni, infatti si distingue la


assegnazione satisfattiva dalla assegnazione non satisfattiva.

L’assegnazione si dice satisfattiva quando il creditore che si rende assegnatario si


soddisfa, in tutto o in parte, del proprio credito attraverso la attribuzione del diritto
che è oggetto di pignoramento.Quindi, laddove si ha una assegnazione satisfattiva
si ha un duplice effetto: innanzitutto viene trasferito dal debitore al creditore
assegnatario il diritto oggetto di pignoramento, e quindi si ha un effetto traslativo;
e poi si ha anche la estinzione totale o parziale del credito dell’assegnatario verso
il debitore, e quindi si ha anche un effetto estintivo.

Invece nella assegnazione cd non satisfattiva, detta anche assegnazione-vendita,


il creditore, per diventare assegnatario paga una somma di denaro, quindi non si
soddisfa del suo credito perché versa un corrispettivo, e questo corrispettivo sarà
oggetto della distribuzione del ricavato secondo le stesse identiche regole che si
applicano laddove il bene, anziché essere assegnato è oggetto di vendita forzata.
La fase della distribuzione si ha quindi in ipotesi di assegnazione non satisfattiva,
mentre non si ha in ipotesi di assegnazione satisfattiva.

Il legislatore diciamo ha sempre visto con un certo sfavore la assegnazione forzata


perché diciamo c’è sempre il sospetto che il bene venga attribuito al creditore per
198
un valore inferiore a quello che si sarebbe potuto realizzare attraverso la vendita
forzata. E per questo motivo, per evitare questo il legislatore ha posto tutta una
serie di condizioni.

Intanto dobbiamo ricordare che il bene non può mai essere assegnato ad un
creditore per un valore inferiore a quello di stima, è questo quanto si desume dagli
art 538 535 589 e 568.

Inoltre dobbiamo distinguere tra le ipotesi in cui al processo esecutivo è presente


soltanto il creditore pignorante, nel qual caso la assegnazione ha generalmente un
carattere satisfattivo a meno che, diciamo, il bene venga assegnato per un valore
che copre soltanto le spese dell’esecuzione; dai casi invece in cui al processo
esecutivo prendano parte anche altri creditori, perché inquesta seconda ipotesi,
che poi è quella più diffusa, è necessario affinchési possa procedere ad
assegnazione, che ci sia l’accordo di tutti i creditori, è questo quanto si desume
dagli art 505 e 506 cpc.

Inoltre, sempre nella ipotesi in cui al processo esecutivo prendano parte più
creditori, fermo restando il limite del valore di stima, il limite secondo cui il bene
non può mai esser assegnato per un valore inferiore a quello distima, in base al
disposto dell’art 506 la assegnazione può esser fatta soltanto per un valore non
inferiore alle spese di esecuzione e ai crediti aventi diritto di prelazione anteriori a
quello dell’offerente.

Ora, dobbiamo distinguere diverse ipotesi. Cioè ipotesi in cui la assegnazione può
esser definita coattiva, da ipotesi in cui la assegnazione è invece volontaria.
Infatti, in base all’art 553 comma primo del cpc ci sono dei beni che debbono
essere oggetto di assegnazione forzata, senza che prima si proceda alla vendita, e
il riferimento è alle ipotesi in cui oggetto di pignoramento sono dei crediti che
siano scaduti o che scadano entro 90 giorni.

Ancora, in base all’art 539 debbono essere assegnati, dopo un tentativo di vendita
fallito, gli oggetti d’oro e di argento che non possono in nessun caso esser venduti
per un prezzo inferiore al valore intrinseco. Accanto a queste, che sono le ipotesi
di assegnazione coattiva, in cui cioè si prescinde dalla domanda dei creditori, vi
sono delle ipotesi in cui la assegnazione è invece volontaria.

(File 5)

Vi dicevo, ci sono delle ipotesi in cui la assegnazione invece è volontaria.

La prima ipotesi è il caso in cui vi sono dei beni che in base all’art 529 cpc
possono esser assegnati senza un previo tentativo di vendita. In base a questa
disposizione è questo quello che vale avuto riguardo ai titoli di credito e alle altre
cose il cui valore risulta dallistino di borsa o di mercato. Perché qua il legislatore
prescinde dal previo tentativo di vendita? Perché si tratta di beni il cui valore
risulta da un listino, quindi anche se si procedesse a vendita non si potrebbe
realizzare un valore maggiore.

199
L’altra ipotesi riguarda tutti gli altri beni che però possono esser assegnati soltanto
dopo che un primo tentativo di vendita è andato fallito. Perché untentativo di
vendita va fallito? Va fallito perché non si raggiunge il prezzo di stima del bene. Il
creditore quindi, se chiede la assegnazione per il valore di stima, di fatto non
pregiudica né il debitore esecutato né gli altri creditori intervenuti, perché quel
valore non è stato raggiunto nel primo tentativo di vendita, quindi non è inferiore al
valore effettivo del bene secondo la stima. Quindi, in base a questi meccanismi si
ha la garanzia che la assegnazione non ha mai luogo in pregiudizio del debitore o
degli altri creditori.Naturalmente, in questa ultima ipotesi, quindi con riferimento a
tutti i beni diversi da quelli che ho richiamato nelle prime ipotesi, vale il limite di cui
all’art 506, quindi non soltanto il bene non può essere assegnato per un valore
inferiore a quello di stima, ma non può esser assegnato neppure per un valore
inferiore alle spese di esecuzione e ai crediti aventi un diritto a prelazione anteriore
a quello dell’offerente. Peraltro la stessa disposizione precisa che se il valore
eccede quello indicatonel comma precedente, sulla eccedenza concorrono
l’offerente e gli altri creditori osservate le cause legittime di prelazione che le
assistono. Quindi il valore della assegnazione è il maggiore tra il valore di stima del
bene e la somma delle spese di esecuzione dei crediti che hanno prelazione, e che
sono collocati anteriormente al creditore offerente.

L’assegnazione forzata produce effetti sostanziali che sono disciplinati negli art
dal 2925 al 2928 cc.

L’art 2925 afferma che l’assegnazione forzata produce effetti sostanziali analoghi a
quelli della vendita forzata, salvo alcune precisazioni.

Infatti, con riferimento alle ipotesi in cui oggetto di assegnazione forzata sono beni
mobili che non siano di proprietà del debitore, il creditore assegnatario, che
acquista il possesso sulla base di un titolo astrattamente idoneo, fa salvo il proprio
acquisto, ma non viene fatto salvo l’effetto satisfattivo della assegnazione. Allora, il
terzo proprietario, ci dice l’art 2926 cc, entro 60 giorni dalla assegnazione può
rivolgersi all’assegnatario di buona fede allo scopo di ripetere la somma
corrispondente al suo credito soddisfatto con la assegnazione. Quindi,
evidentemente è una previsione che si applica alle ipotesi di assegnazione
satisfattiva, in cui cioè la assegnazione ha prodotto non soltanto un effetto
traslativo, ma anche un effetto estintivo.

In base all’art 2927 se l’assegnatario subisce la evizione ha diritto di ripetere


quanto eventualmente pagato agli altri creditori.

In base all’art 2928 l’assegnazione avente ad oggetto un credito avviene sempre


salvo esazione. Cosa significa? Significa che il diritto dell’assegnatario verso il
debitore che ha subito la espropriazione si estingue solo e soltanto a seguito della
riscossione del credito assegnato.

200
Lezione 12 - 22/04/20
Andiamo ad analizzare la fase del processo di esecuzione forzata successiva alla
vendita forzata o assegnazione forzata. La DISTRIBUZIONE DEL RICAVATO.

Si tratta di una fase che ha una grandissima importanza perché è attraverso


questa che il processo esecutivo raggiunge il suo esito fisiologico, cioè il
soddisfacimento completo del diritto del creditore/i. Abbiamo già avuto modo di
ricordare nella lezione dedicata all'intervento dei creditori che, all'indomani della
vendita forzata, la circostanza che i creditori siano munito o non muniti di titolo
esecutivo risulta indifferente. All'indomani della vendita forzata infatti anche i
creditori non muniti di titolo esecutivo possono provocare la distribuzione del
ricavato nonostante il fatto che essi non sarebbero stati in grado né di mettere in
moto il processo esecutivo né di proporre l'istanza d vendita.

La disciplina della distribuzione del ricavato è contenuta negli artt 509 fino a 512
(disciplina generale) e poi con riferimento alla espropriazione mobiliare e
immobiliare, la disciplina la ritroviamo negli artt 541 e 542 e 596 fino a 598. ai fini
della disciplina della distribuzione del ricavato occorre intanto distinguere le hp in
cui il processo esecutivo si è svolto alla presenza del solo creditore pignorante,
quindi senza l'intervento di altri creditori; casi in cui si è verificato l'intervento di
altri creditori.

1. Nel primo caso l'art 510 c.1 stabilisce che il giudice dell'esecuzione, sentito
il debitore, dispone a favore del creditore pignorante, il pagamento di quanto
gli spetta per capitale , interessi e spese. Precisa poi al c. 3 che l'eventuale
residuo della somma ricavata viene data al debitore o al terzo che ha subito
l'espropriazione.

Cosa succede se nello svolgimento di questa fase si verificano violazioni di


alcune norme processuali? Ad es il giudice dell'esecuzione con l'ordinanza
che dispone il pagamento del creditore commette/si verifica un vizio di
legittimità. È pacifico che questi vizi debbano essere fatti valere tramite lo
strumento dell'opposizione agli atti esecutivi art 617. E' il rimedio generale
contro i provvedimenti del giudice dell'esecuzione, sottoposto ad un termine
di decadenza molto stretto, 20 giorni dal momento in cui la parte interessata
viene a conoscenza del vizio. La conseguenza è che, decorso inutilmente il
termine, il vizio non potrà più essere impugnato, quindi si sana e l'ordinanza
del giudice diventa immutabile.

2. Nel secondo caso invece, che rappresenta ciò che avviene nella quasi
totalità dei casi, occorre distinguere a seconda che con riferimento alla
distribuzione del ricavato si formi oppure no un accordo fra il debitore e i
creditori.

· Se l'accordo si forma → il giudice, che dovrà verificarlo, procederà nel


senso concordato delle parti (poi andremo a vedere la diversa procedura
prevista nell'espropriazione mobiliare e in quella immobiliare).

· Se non vi è accordo → sorgeranno delle controversie e si dovrà applicare


201
l'art 512 che si occupa delle controversie sorte in sede di distribuzione.

Si deve però distinguere fra l'espropriazione mobiliare e l'espropriazione


immobiliare.

ESPROPRIAZIONE MOBILIARE → dalla lettura degli artt 541 e 542 si ricava che i
creditori possono chiedere che la distribuzione della somma ricavata avvenga
secondo un piano tra loro concordato. Il giudice verifica il piano e , ove l'approvi,
potrà provvedere secondo quanto concordato dal creditore. Ovviamente occorre
che anche il debitore sia d'accordo, se non lo è, questi utilizzerà il rimedio di cui
all'art 512.

Se invece i creditori non sono d'accordo o sottopongono al giudice un accordo


ma questi non lo approva, allora ciascuno dei creditori può chiedere al giudice che
si proceda alla distribuzione: sarà il giudice a predisporre un progetto di
distribuzione che sarà sottoposto al creditore/i e del debitore e, se questi non
concordano, solleveranno delle contestazioni ex art 512.

ESPROPRIAZIONE IMMOBILIARE → gli artt da 5966 a 598 prevedono che: entro


30gg dal versamento del prezzo, il giudice provvede d'ufficio a formare un
progetto di distribuzione che viene depositato in cancelleria in modo che sia il
debitore che i creditori intervenuti possano esaminarlo, verrà poi fissata
un'udienza per la comparizione del debitore e dei creditori. All'udienza o il progetto
viene approvato da tutti o si valuta se si può trovare un diverso accordo, oppure
saranno proposte controversie risolte ex art 512 cpc.

Questa disposizione (art 512) l'abbiamo già letta, ma è opportuno ricordare che è
stata oggetto di riforma nel 2005. Prima di tale data, le ccdd opposizioni in sede di
distribuzione determinavano l'apertura di un processo a cognizione piena
destinato a chiudersi con una sentenza suscettibile di acquistare autorità di cosa
giudicata. E questa sentenza accertava l'esistenza e il modo d'essere dei diritti
vantati dai creditori intervenuti.

Il legislatore del 2005 invece ha fatto una scelta diversa: ha voluto che tutte queste
contestazioni fossero risolte dal giudice dell'esecuzione sulla base di un
accertamento sommario con un provvedimento avente la forma della ordinanza,
soggetta ad opposizione agli atti esecutivi ex art 617 cpc.

La questione su cui soffermarci è quella relativa alla STABILITÀ' della


distribuzione del ricavato. È una fase molto importante del processo esecutivo,
perché è attraverso la distribuzione del ricavato che il processo esecutivo
raggiunge il suo scopo, attribuisce il soddisfacimento ai creditori. Quindi, così
come abbiamo evidenziato con riferimento alla vendita forzata, è indispensabile
per il legislatore assicurarne la stabilità. Dobbiamo innanzitutto considerare le hp in
cui si arriva alla distribuzione del ricavato sulla base di un accordo che si è formato
secondo le modalità appena descritte, in conformità per quanto previsto dagli art
541 e 542 per l'espropriazione mobiliare e, per quella immobiliare negli artt 596 a
202
598.

La questione da risolvere è quella relativa al se l'accordo abbia NATURA


SOSTANZIALE O NO.

Ammettere che abbia natura sostanziale ha come conseguenza che dovranno


ritenersi esperibili nei confronti di questi accordi tutti i rimedi negoziali. I rimedi
negoziali, come già ricordato in altre occasioni, sono soggetti a termini di
prescrizione estremamente ampi; ciò significherebbe aprire un periodo di
grossissima incertezza, in cui non si sa se la distribuzione della somma ricavata
resterà in piedi oppure no. La necessità di garantire la stabilità della distribuzione
del ricavato fa allora propendere per la soluzione opposta, cioè quella nel senso di
ritenere che la distribuzione del ricavato, anche se avvenuta sulla base
dell'accordo delle parti interessate, è soggetta al rimedio tipico dei provvedimenti
del giudice dell'esecuzione, cioè a questi accordi deve essere riconosciuta natura
processuale così che l'accordo venga assorbito nel provvedimento del giudice
dell'esecuzione che dispone la distribuzione, con la conseguenza che l'unico
rimedio esperibile è quello dell'opposizione agli atti esecutivi ex art 617.
Dopodiché, se il rimedio non viene esperito, l'ordinanza deve ritenersi immutabile
e quindi non più suscettibile di essere aggredita.

Si pone però il problema relativo al se questo tipo di provvedimento, pur non


essendo attaccabile, possa essere ritenuto idoneo ad attribuire al credito del
creditore la stessa stabilità che questo diritto potrebbe ricevere da un
provvedimento giurisdizionale coperto dall'autorità della cosa giudicata. Si tratta
cioè di stabilire se, nell'hp in cui il creditore è stato soltanto in parte soddisfatto,
possa utilizzare questo provvedimento come titolo per agire nei confronti del
debitore e pretendere l'adempimento del credito residuo senza che questo possa
opporsi. (lasciamo per un momento aperta questa questione, perché anche nelle
hp in cui si perviene alla distribuzione del ricavato anche senza l'accordo delle
parti, si pongono delle domande analoghe).

Laddove non c'è accordo delle parti, l'hp più semplice è che sorgano delle
contestazioni in fase di distribuzione del ricavato. Contestazioni che in base
all'attuale lettera dell'art 512, il giudice dell'esecuzione è chiamato a risolvere sulla
base di un accertamento sommario, con un provvedimento avente la forma
dell'ordinanza, suscettibile di essere impugnata mediante opposizione agli atti
esecutivi. Naturalmente, anche con riferimento a queste hp nasce la stessa
domanda sorta con riferimento alla hp precedentemente esaminata. Ma accanto a
questa hp ce ne sono anche altre, ossia tutte le hp in cui si arriva alla distribuzione
del ricavato sulla base di meccanismi che si basano sulla non contestazione.
Dobbiamo però fare una serie di distinzioni.

Innanzitutto dobbiamo prendere in esame le hp dei creditori muniti di titolo


esecutivo. Con riferimento a questi creditori, il debitore ha a disposizione il
rimedio dell'opposizione all'esecuzione, per il cui tramite può provocare un
accertamento con autorità di cosa giudicata in ordine all'esistenza o meno di
203
questi crediti. Questo rimedio è esperibile non solo nei confronti del creditore
precedente ma, secondo l'interpretazione preferibile, anche contro gli altri creditori
che sono intervenuti e muniti di titolo esecutivo, allo scopo di contestare il loro
diritto di proporre l'istanza di vendita → anche in questo casi il debitore potrà
ottenere una sentenza che accerti con autorità di cosa giudicata l'esistenza o
meno del diritto sostanziale per cui il creditore è intervenuto . Sappiamo che
l'opposizione all'esecuzione non ha un effetto immediato sul processo esecutivo,
quindi, se il giudice non accoglie l'istanza di sospensione, il processo esecutivo va
avanti, non si blocca la vendita, quindi è ben possibile che quando si arriva alla
distribuzione del ricavato, questa opposizione all'esecuzione sia ancora in corso.
Ricordiamoci anche che laddove il creditore ha agito sulla base di un
provvedimento giurisdizionale è possibile che, mentre è in corso di svolgimento il
processo esecutivo, il provvedimento giurisdizionale sulla cui base il creditore ha
agito è stato impugnato, è quindi in corso un giudizio di impugnazione.

Pensiamo alla hp più banale, quella in cui il creditore ha agito sulla base di una
sentenza di condanna di primo grado provvisoriamente esecutiva ex art 282 cpc. Il
giudizio di impugnazione non può bloccare lo svolgimento del processo esecutivo
a meno che il giudice dell'impugnazione non accolga l'istanza di inibitoria. È quindi
possibile che il provvedimento sulla cui base il creditore ha agito o è intervenuto,
venga annullato dal giudice dell'impugnazione dopo che si è già pervenuti alla
distribuzione del ricavato. Anche qui si tratta di capire se la distribuzione del
ricavato rimane in piedi o no.

Creditori non muniti di titolo esecutivo → l'art 499 stabilisce che “il giudice fissa
un'udienza in base al disposto del c. 5 e 6 di comparizione davanti a sé del
debitore e dei creditori intervenuti privi di titolo esecutivo e che all'udienza di
comparizione il debitore deve dichiarare quale dei crediti egli intenda riconoscere
in tutto o in parte. Se il debitore non compare, si intendono riconosciuti tutti i
crediti per i quali hanno avuto interventi in assenza di titolo esecutivo. In tutti i casi
il riconoscimento rileva ai soli effetti dell'esecuzione.
In questo caso si prevede quindi che il debitore riconosca in tutto o in parte questi
crediti, ma questo riconoscimento vale soltanto ai fini dell'esecuzione.

Nel caso in cui questi crediti non vengano riconosciuti, soccorre il disposto dell'art
510 c. 2 in cui si dice che “il giudice nel momento in cui dispone la distribuzione
della somma ricavata fra i creditori, deve accantonare le somme che spetterebbero
ai creditori intervenuti privi di titolo esecutivo i cui crediti non siano stati in tutti in
parte riconosciuti dal debitore”, l'accantonamento, dice il c.3, “è disposto dal
giudice dell'esecuzione per il tempo ritenuto necessario affinché i predetti
creditori possano munirsi di titolo esecutivo e, in ogni caso, per un periodo di
tempo non superiore a 3 anni. Dopodiché trascorso questo termine, su istanza di
una delle parti o d'ufficio, il giudice dispone la comparizione davanti a sé del
debitore, del creditore procedente e dei creditori intervenuti, con l'eccezione di
coloro che siano già stati integralmente soddisfatti, e dà luogo alla distribuzione

204
della somma accantonata tenuto conto anche dei creditori intervenuti che si siano
nel frattempo muniti di titolo esecutivo. La comparizione delle parti per la
distribuzione della somma accantonata è disposta anche prima che sia decorso il
termine fissato se vi è istanza di uno dei predetti creditori e non ve ne siano altri
che ancora debbano munirsi di titolo esecutivo”.

Quindi se:

- il debitore non riconosce in tutto o in parte questi crediti, ci sarà


l'accantonamento e poi i creditori avranno 3 anni di tempo per
munirsi di titolo esecutivo;

-se il debitore riconosce questi crediti e non sorgono contestazioni ex art 512, si
tratta di stabilire se questo riconoscimento e la partecipazione alla distribuzione
della somma ricavata, vale come accertamento dell'esistenza di questo diritto e
quindi attribuisce a questi creditori la possibilità di agire successivamente nei
confronti dello stesso debitore per ottenere il soddisfacimento del credito residuo
senza che il creditore possa opporre delle contestazioni.

CREDITORI NON MUNITI DI TITOLO ESECUTIVO IL CUI CREDITO SIA STATO


RICONOSCIUTO DAL DEBITORE

Con riferimento a questa hp, sono astrattamente possibili 3 soluzioni:

1. si può ritenere che la distribuzione del ricavato sia priva di qualsiasi


stabilità. La conseguenza è che il debitore potrebbe in qualsiasi momento
agire nei confronti di questi creditori esercitando l'azione di indebito per
ottenere la restituzione delle somme percepite.

2. È la soluzione che si colloca all'estremo opposto. Si potrebbe ritenere che


nel momento in cui il debitore non ha contestato, ma anzi ha riconosciuto
l'esistenza di questi crediti, si forma una sorta di accertamento
giurisdizionale circa l'esistenza e l'ammontare totale del credito, con la
conseguenza che, nell'hp in cui il creditore sia stato solo parzialmente
soddisfatto: non solo il debitore non potrebbe esercitare l'azione di indebito
nei suoi confronti; ma questo accertamento potrebbe essere utilizzato dallo
stesso creditore per ottenere nei confronti del debitore un titolo esecutivo
sulla cui base agire esecutivamente nei confronti del debitore per il residuo
del credito.

3. Probabilmente la preferibile. Consiste nel ritenere che riconoscimento da


parte del debitore vale soltanto a garantire la stabilità della distribuzione del
ricavato. Vale cioè a garantire al creditore contro una possibile azione di
indebito, ma non vale anche come accertamento giurisdizionale
dell'esistenza e dell'ammontare del credito nell'intero. Quindi, il debitore non
potrebbe agire per la ripetizione dell'indebito, ma dall'altra parte, a fronte di
una successiva richiesta del creditore per l'adempimento della parte residua
del credito, il debitore sarebbe libero di contestare l'esistenza e l'ammontare
del credito. Quest'ultima soluzione è quella che si lascia preferire perché
laddove c'è soltanto un riconoscimento del debitore è difficile configurare
205
l'esistenza di un accertamento giurisdizionale sulla cui base il creditore
possa successivamente agire nei confronti del debitore per procurarsi un
titolo esecutivo; ma dall'altra parte è molto importante garantire la stabilità
della distribuzione del ricavato che è il risultato ultimo del processo
esecutivo, che consente al processo stesso di realizzare il proprio scopo
funzionale.

Questa soluzione, per queste considerazioni legate alle finalità del processo
esecutivo, deve essere estesa sulla base dell'argomento a fortiori all'hp in
cui il giudice disponga la distribuzione del ricavato a seguito della soluzione
delle contestazioni ai sensi dell'art 512, dal momento in cui l'art 512 prevede
espressamente che queste controversie vengono risolte dal giudice
dell'esecuzione con un provvedimento avente la forma dell'ordinanza.

Si può ritenere quindi che anche in questo caso la soluzione della controversia
vale solo ai fini della distribuzione del ricavato di cui è importante garantire la
stabilità. Tuttavia naturalmente non vale come accertamento a cognizione piena in
ordine alla esistenza e all'ammontare del totale credito.

Possiamo affrontare allora l'ultima hp, cioè quella in cui a seguito della
distribuzione del ricavato, venga accolta l'opposizione all'esecuzione presentata
dal debitore contro uno dei creditori munito di titolo esecutivo. Argomentando sul
disposto dell'art 2929 cc, la dottrina ritiene che l'accoglimento tardivo
dell'opposizione all'esecuzione non travolge la vendita forzata, ma può travolgere
la distribuzione del ricavato. Questa soluzione viene estesa anche alla hp in cui, a
seguito della distribuzione del ricavato, viene riformato il provvedimento
giurisdizionale sulla cui base il creditore ha agito o è intervenuto nel processo
esecutivo. Provvedimento giurisdizionale che però nel frattempo era stato
impugnato.

Queste sono le prime hp in cui la distribuzione del ricavato viene meno.

L'ultima hp in cui la distribuzione del ricavato viene meno è l'unico caso in cui si
può verificare la caducazione della vendita forzata, cioè l'hp in cui l'aggiudicatario
o l'assegnatario subisce l'EVIZIONE art 2921 o 2927 cc. Queste sono le hp in cui
la vendita forzata viene meno, l'aggiudicatario o assegnatario ha diritto di ripetere
le somme che ha prestato e quindi deve cadere anche la distribuzione del ricavato.

OPPOSIZIONE AGLI ATTI ESECUTIVI

E' un istituto che abbiamo incrociato più volte. È istituto che è stato concepito dal
legislatore del 1942 come un istituto assolutamente secondario/residuale, ma
che nel corso degli anni ha subito una grossissima rivoluzione. Infatti, come hanno
dimostrato gli studi svolti dal professor Oriani, possiamo dire che l'opposizione
agli atti esecutivi svolge con riferimento al processo esecutivo, una funzione
analoga a quella svolta nel processo a cognizione piena dal principio di
206
conversione di nullità in motivi di impugnazione ai sensi dell'art 161 c. 1 cpc. Si
tratta dello strumento che dà stabilità ai risultati ultimi del processo esecutivo,
ossia: vendita o assegnazione forzata da una parte; distribuzione del ricavato
dall'altra.
Il legislatore del 1942 aveva pensato l'opposizione agli atti esecutivi come un
rimedio avverso i vizi formali degli atti del processo amministrativo. Questa origine
traspare in maniera evidente dalla lettera dell'art 617. Infatti la disposizione
prevede che “Le opposizioni relative alla regolarità formale del titolo esecutivo e
del precetto si propongono, prima che sia iniziata l'esecuzione, davanti al giudice
indicato nell'articolo 480 terzo comma, con atto di citazione da notificarsi nel
termine perentorio di venti giorni dalla notificazione del titolo esecutivo o del
precetto.

Le opposizioni di cui al comma precedente che sia stato impossibile proporre
prima dell'inizio dell'esecuzione e quelle relative alla notificazione del titolo
esecutivo e del precetto e ai singoli atti di esecuzione si propongono con ricorso al
giudice dell'esecuzione nel termine perentorio di venti giorni dal primo atto di
esecuzione, se riguardano il titolo esecutivo o il precetto, oppure dal giorno in cui i
singoli atti furono compiuti”.

Il c. 1, laddove fa riferimento alla regolarità formale del titolo esecutivo, deve


essere letto con attenzione. È necessario non confondere l'opposizione agli atti
esecutivi con l'opposizione all'esecuzione.
· Attraverso l'opposizione all'esecuzione il debitore esecutato contesta il
diritto del creditore di procedere in via esecutiva e, a fondamento di tale
contestazione, può contestare l'esecutività del titolo, cioè far valere la
circostanza che il provvedimento o l'atto sulla cui base il creditore ha agito
non rientra nell'elenco tassativo dell'art 474.

· l'art 617 invece parla di regolarità formale del titolo esecutivo, quindi si
contesta che il titolo non sia stato spedito per es in forma esecutiva, così
come si può contestare la regolarità formale del processo, cioè che sia stato
redatto in maniera difforme da quanto previsto dall'art 480 → si contesta
uno dei requisiti di forma contenuto di questo atto.

Attraverso l'opposizione agli atti esecutivi è poi possibile contestare la


legittimità della notifica del titolo esecutivo e del precetto, nonché della
legittimità dei singoli atti di esecuzione.

Come vi ho detto, la storia ha profondamente trasformato questo istituto che ha


subito nel tempo un grossissimo ampliamento, ha visto ampliare a dismisura il
suo ambito applicativo.

· Innanzitutto è stato allargato il novero dei soggetti legittimati ad avvalersi


di questo rimedio. La lettera della disposizione sembra fare riferimento in via
esclusiva al debitore come legittimato, ma in verità questo rimedio può
essere utilizzato anche dai creditori (sia procedenti che intervenuti), ma
anche da terzi che prendono parti a singole fasi del processo esecutivo, per
207
esempio gli offerenti (coloro che prendono parte alla vendita forzata).

· Ancora è stato ampliato il numero dei vizi che possono essere denunciati
attraverso l'opposizione. Secondo la giurisprudenza il rimedio può essere
utilizzato non soltanto per contestare l'esistenza di vizi formali, ma anche di
vizi extra formali. Non solo, ritiene anche che si possano contestare talune
valutazioni di opportunità che il giudice dell'esecuzione è chiamato a
svolgere, per esempio quelle relative alle modalità del pignoramento.

es. Supponiamo che oggetto di pignoramento mobiliare sia una partita di


merce deteriorabile e supponiamo che il giudice dell'esecuzione abbia
disposto che tale merce sia depositato in un magazzino provo della cella
frigorifera. Per contestare questo tipo di valutazione la giurisprudenza ritiene
che lo strumento sia l'opposizione agli atti esecutivi.

· C'è stato poi un lavoro molto importante della giurisprudenza sul TERMINE
dell'opposizione. Oggi il termine è di 20 gg, però questa previsione risale alla
riforma del 2005, prima della riforma il termine era di 5 gg.

· Il punto più importante su cui ha lavorato la giurisprudenza è sicuramente


quello del DIES A QUO. Vedete che la norma fa riferimento in maniera
espressa alla circostanza che i 20 gg decorrono dal primo atto di esecuzione
se riguarda il titolo esecutivo o il precetto, o dal giorno in cui i singoli atti
furono compiuti.

Il processo esecutivo non è un processo che passa attraverso le udienze. La


maggior parte dei provvedimenti del giudice dell'esecuzione vengono emanati
fuori udienza, ciò fa sì che le parti interessate possono non essere a conoscenza
immediatamente dell'atto e quindi del vizio che c'è nell'atto, per questo si ritiene
pacificamente che i 20 gg decorrano non dal giorno in cui l'atto è stato compiuto,
ma dal giorno in cui la parte interessata viene a conoscenza dell'atto. Questo
principio ci è noto perché più volte la Corte Costituzionale è intervenuta sui termini
posti a pena di decadenza e in particolare del dies a quo, perché assicurare la
conoscenza del dies a quo alla parte a cui sfavore il termine decorre è espressione
del suo diritto di difesa.

RIMEDI:

L'opposizione agli atti esecutivi determina l'apertura davanti al giudice di un


processo, un giudizio di merito, che si chiude ex art 618 con un provvedimento
che ha la forma della sentenza non impugnabile. Questo termine “non
impugnabile” è sempre stato inteso nel senso che la sentenza non è suscettibile
d'appello. Tuttavia sin dall'inizio degli anni 50, la Cassazione ha sempre ritenuto
che tale sentenza fosse suscettibile di ricorso straordinario per cassazione
presentato ai sensi dell'art 111 c.8 cost, disposizione che garantisce il ricorso per
cassazione contro tutti i provvedimenti aventi la forma della sentenza e da sempre
la Corte Costituzionale ritiene che le sentenze cui fa riferimento la disposizione non
sono i provvedimenti che hanno la forma della sentenza, ma sono i provvedimenti
208
che hanno il contenuto di sentenza, perché sono provvedimenti decisori (che
incidono su posizioni di diritto) e definitivi (suscettibili di diventare immutabili). La
Cassazione sin dagli anni 50 ha ritenuto che la sentenza emanata a conclusione
del giudizio di opposizione agli atti esecutivi avesse questa forma. Questa
interpretazione dà per presupposto che l'opposizione agli atti esecutivi è un
rimedio strumentale ad eliminare dal processo esecutivo possibili vizi che possono
incrinare alla stabilità dei risultati a cui il processo espropriativo approda sul piano
sostanziale. Ciò conferma come nell'ottica del legislatore del '42 questo doveva
essere un processo residuale/secondario, ma ha subito negli anni una
trasformazione tale da renderlo l'asse portante del processo esecutivo, di cui
assicura la stabilità dei risultati finali, poiché tutti i vizi che non rientrano
nell'ambito applicativo degli altri rimedi che possono essere proposti nell'ambito
del processo esecutivo, debbono essere fatti valere attraverso l'opposizione agli
atti esecutivi, che assume quindi il ruolo di rimedio generale → devono essere fatti
valere entro lo stretto termine di decadenza previsto per questo rimedio.

La conseguenza è che laddove la parte interessata lasci decorrere inutilmente il


termine non proponendo tempestivamente il rimedio, non ha altri rimedi a sua
disposizione con la conseguenza che il vizio deve ritenersi sanato in applicazione
del principio generale dell'ordinamento processuale.

Andiamo adesso ad analizzare due forme speciali di espropriazione forzata:

1. ESPROPRIAZIONE DEI BENI INDIVISI

2. ESPROPRIAZIONE CONTRO IL TERZO PROPRIETARIO

ESPROPRIAZIONE DEI BENI INDIVISI

E' disciplinata negli artt 599 fino a 601. come facilmente intuibile si tratta delle hp
in cui il debitore esecutato è solo uno dei proprietari di un determinato bene.
Chiaramente se tutti i comproprietari sono debitori nei confronti di un unico
creditore non si pone alcun problema poiché il creditore potrà agire nei confronti di
tutti i debitori comproprietari in base alle regole generali; problemi invece sorgono
quando il debitore sia solo uno dei più comproprietari.

Naturalmente il processo esecutivo dovrà esercitarsi nei soli confronti del debitore
esecutato. È a lui che il creditore dovrà notificare il titolo esecutivo e il precetto. E
anche il pignoramento dovrà svolgersi nei confronti del solo debitore secondo le
disposizioni generali che abbiamo già analizzato. Ciò premesso, dobbiamo partire
da quanto disposto dall'art 599, il cui c. 1 ammette espressamente che possono
essere pignorati anche beni indivisi anche quando non tutti i comproprietari sono
obbligati verso il creditori; nel c.2, a proposito del pignoramento, si precisa che del
pignoramento è notificato avviso a cura del creditore pignorante anche agli altri
comproprietari, ai quali è fatto divieto di lasciare separare dal debitore la sua parte
delle cose comuni senza ordine del giudice. Qual è la ratio che sta a fondamento
di questo divieto?

209
La ratio è quella di evitare che si proceda velocemente ad una separazione e che
al debitore vengano attribuiti beni, o una parte dei beni in comuni, che hanno un
valore inferiore rispetto alla sua quota della comproprietà. L'effetto di questo
avviso è quello di rendere inefficace nei confronti del creditore pignorante una
eventuale separazione della quota del debitore avvenuta in assenza di un ordine
del giudice.

È necessario intanto che con questo avviso, o con un altro atto, i comproprietari
siano citati a comparire davanti al giudice dell'esecuzione, e questo è
espressamente previsto dall'art 180 c.2 disp. Att.

All'udienza il giudice dovrà ascoltare tutte le parti interessate e potrà procedere


secondo 3 diverse modalità:

1. in base all'art 600 c.1 “Il giudice dell’esecuzione, su istanza del creditore
pignorante o dei comproprietari e sentiti tutti gli interessati, provvede,
quando è possibile, alla separazione della quota in natura spettante al
debitore”. Questa separazione in natura è possibile e non pone problemi
allorquando si proceda sulla base di un accordo di tutti i comproprietari,
accordo che dovrà essere approvato dal giudice. Si avrà in tal senso una
sorta di divisione consensuale alla quale prende parte però anche il giudice.
Laddove manchi l'accordo dei comproprietari, l'accordo sarà possibile solo
se oggetto della comproprietà sono beni mobili fungibili, quindi beni che si
prestano ad essere separati senza difficoltà. In questo caso il giudice
provvederà con ordinanza impugnabile tramite il rimedio generale
dell'opposizione agli atti esecutivi di cui all'art 617 cpc.

2. Si apre laddove la separazione in natura della quota spettante al debitore


non sia possibile. È rappresentata dalla possibilità per il giudice di vendere
la quota indivisa → quindi la vendita della quota spettante al debitore
esecutato; oppure potrà disporre che si proceda alla divisione giudiziale a
norma degli artt 784 ss cpc. La vendita della quota indivisa inoltre è
soggetta ad una valutazione di opportunità perché è possibile che se la
scelta è quella della vendita si ricavi un valore inferiore rispetto a quello
effettivo della quota appartenente al debitore esecutato.

3. Quanto alla divisione giudiziale si applicano gli artt 784 ss cpc e il processo
esecutivo dovrà essere sospeso ex lege finché non si sia perfezionata la
divisione o a seguito di un accordo delle parti (compreso del creditore
precedente, che assume la posizione di creditore opponente ex art 1113 cc)
oppure, dove l'accordo non si raggiunga, a seguito di sentenza che dichiari
la divisione, che può essere sentenza di primo grado (coperta dall'autorità di
cosa giudicata) o una sentenza d’appello.

Quanto all’espropriazione contro il terzo proprietario si applicano le disposizioni di


cui agli artt. da 602 a 604. In questa ipotesi si fa riferimento ad una serie di casi in
cui c’è un soggetto terzo che risponde, con un suo bene, di un debito altrui.

210
Leggiamo l’art. 602: “quando oggetto dell’espropriazione è un bene gravato da
pegno o da ipoteca per un debito altrui, oppure un bene la cui alienazione da parte
del debitore è stata revocata per frode, si applicano le disposizioni contenute nei
capi precedenti in quanto non siano modificate dagli articoli che seguono”.
Intanto questa previsione si collega a quanto stabilito nell’art. 2910 secondo
comma cc. laddove si prevede che “possono essere espropriati anche beni di un
terzo quando sono vincolati a garanzia del credito, o quando sono oggetto di un
atto che è stato revocato perché compiuto in pregiudizio del creditore”.
Quali sono le ipotesi che rientrano in queste previsioni? Si tratta dei casi in cui vi è
un terzo, ad esempio, che è proprietario di un bene su cui è stata iscritta
un’ipoteca a vantaggio del creditore procedente. Quindi si tratta o del terzo datore
di ipoteca, quindi un terzo che ha prestato una garanzia reale a favore del debitore;
oppure del terzo che acquistato l’immobile ipotecato (ricordatevi che una delle
caratteristiche dell’ipoteca è il c.d. diritto di seguito, per cui anche se il bene viene
venduto questa garanzia continua a gravare sul bene); oppure si tratta dell’ipotesi
in cui il terzo ha concesso un bene mobile in pegno per un debito altrui; l’ultima
ipotesi a cui si fa riferimento è quella in cui contro il terzo è stata vittoriosamente
esercitata un’azione revocatoria, quest’ultima è disciplinata dall’art 2901 cc ed è
uno dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale che affianca l’azione
surrogatoria e il sequestro conservativo. Abbiamo già avuto modo di ricordare che
questi tre istituti si collegano alla garanzia patrimoniale così come descritta nell’art.
2740 cc secondo cui il debitore risponde delle proprie obbligazioni con tutti i suoi
beni presenti e futuri. Attraverso questi tre istituti il legislatore si propone di
conservare la garanzia patrimoniale, quindi di evitare che il patrimonio del debitore
possa essere disperso.

Ora, questi tre istituti, che a livello sostanziale svolgono una funzione unitaria, a
livello processuale hanno una collocazione completamente diversa l’una dall’altra,
perché a suo tempo abbiamo visto che l’azione surrogatoria è una forma di
legittimazione straordinaria, quindi rientra nella previsione dell’art. 81 cpc; il
sequestro conservativo abbiamo detto che è una misura cautelare; l’azione
revocatoria è un’azione che il creditore esercita nel momento in cui il debitore ha
posto in essere un atto in frode dei creditori, quindi ha posto in essere un atto
dispositivo per il cui tramite ha trasferito un bene del patrimonio ad un terzo
avente causa in frode dei creditori.

Il sequestro conservativo, in fin dei conti, è una misura anticipatoria, cioè che viene
richiesta al fine di evitare che il debitore ponga in essere gli atti dispositivi.

L’azione revocatoria è un rimedio invece che interviene ex post, cioè quando il


debitore ha già posto in essere gli atti dispositivi.

I presupposti cui è subordinata l’azione revocatoria sono: l’eventus damni e il


consilium fraudis. Quindi si tratta di un atto dispositivo che deve aver danneggiato
le ragioni del creditore (perchè il debitore ha depauperato il suo patrimonio) e il
consilium fraudis, quindi la partecipazione del terzo avente causa, si richiede infatti
che il terzo sia consapevole che l’atto è posto in essere in frode dei creditori.

211
L’effetto della sentenza che accoglie l’azione revocatoria, è quello di rendere l’atto
dispositivo inopponibile al creditore, quindi il creditore potrà agire esecutivamente
sul bene oggetto dell’atto revocato anche se il bene fa parte del patrimonio del
terzo. Quindi anche in questo caso abbiamo un terzo che con un bene che gli
appartiene a tutti gli effetti, risponde di un debito altrui.

Accano a questa ipotesi possiamo affiancare il caso in cui l’espropriazione ha ad


oggetto un bene la cui alienazione sia stata dichiarata simulata ai sensi dell’art.
1417 cc nei confronti del creditore del simulato alienante.

Come possiamo notare, si tratta di ipotesi molto specifiche, che hanno una natura
analoga alle altre ipotesi in cui i terzi che, per altri motivi, si trovano a rispondere
con un proprio bene di un debito altrui. Ricordiamoci di quando abbiamo descritto
l’espropriazione mobiliare e l’espropriazione immobiliare. Ci siamo occupati delle
ipotesi di terzi i cui beni vengono rinvenuti nei luoghi del 513 e cadono nelle maglie
del pignoramento; così come ci siamo occupati, nell’ambito dell’espropriazione
immobiliare, delle ipotesi in cui il terzo ha acquistato l’immobile con atto avente
data certa anteriore al pignoramento, ma che non ha trascritto il suo acquisto, per
cui il pignoramento viene trascritto prima della trascrizione del suo atto d’acquisto.

Abbiamo detto trattarsi di terzi che rispondono con un proprio bene di un debito
altrui, però questi terzi non hanno una posizione ufficiale nell’ambito del processo
di espropriazione forzata, mentre nei casi rientranti nella previsione dell’art. 602, il
terzo proprietario si vede attribuiti una serie di poteri molto incisivi, perché, come
andremo a vedere, il terzo proprietario è legittimato sia ad esperire l’opposizione
all’esecuzione di cui all’art. 615, sia a proporre opposizione agli atti esecutivi.

Ma procediamo con ordine.

L’art. 602 afferma che in queste ipotesi si applicano le disposizioni contenute nei
capi precedenti in quanto non siano modificate dagli articoli che seguono.

Ora, l’art. 603 prevede come prima deviazione rispetto alla disciplina generale, che
il titolo esecutivo e il precetto debbono essere notificati anche al terzo e che nel
precetto debba essere fatta espressa menzione del bene del terzo che si intende
espropriare. Ricordiamoci che siamo di fronte ad ipotesi in cui c’è una
divaricazione tra titolarità del debito e responsabilità patrimoniale, ma ricordiamoci
anche che il terzo non risponde del debito altrui con tutto il suo patrimonio, ma
con il singolo bene, che potrà essere o il bene oggetto del pegno, o l’immobile su
cui è iscritta l’ipoteca, o il bene oggetto dell’atto dispositivo dichiarato inefficace a
seguito dell’esercizio dell’azione revocatoria o colpito dall’azione di simulazione.

Poi, in base all’art. 604, il pignoramento e in generale gli atti di espropriazione si


compiono nei confronti del terzo al quale si applicano tutte le disposizione relative
al debitore, tranne il divieto di cui all’art. 579 primo comma, ovvero il divieto di
effettuare offerte agli incanti.

L’applicazione delle disposizioni relative al debitore consente appunto di ritenere


che il terzo proprietario possa esperire l’opposizione all’esecuzione (agli atti
esecutivi).

Il terzo cosa potrà contestare nell’opposizione all’esecuzione?

212
Potrà spendere motivi di rito, ad esempio, contestando la qualità del titolo
esecutivo sulla cui base il creditore procedente ha agito; potrà spendere motivi di
merito relativi anzitutto alla inesistenza del credito di cui il creditore procedente
vuole avere il soddisfacimento e a questo riguardo si deve ricordare che laddove il
creditore ha nelle sue mani una sentenza, anche passata in giudicato, il terzo può
contestarne comunque l’ingiustizia, perché in base al disposto di cui agli artt. 2859
e 2870 cc, siamo difronte ad un terzo che è soggetto all’efficacia riflessa debole
del giudicato altrui (ma su quest’ipotesi mettiamo un asterisco perché maggiori
chiarimenti verrano offerti quando andremo a trattare i c.d. limiti soggettivi del
giudicato); oppure il terzo potrà spendere motivi di merito inerenti alla mancanza di
presupposti sulla cui base il creditore procedente ha agito nei suoi confronti, per
esempio potrà eccepire che il pegno o l’ipoteca si sono prescritti oppure che l’atto
per il cui tramite è stata concessa l’ipoteca o il pegno è nullo.

Un’ultima particolarità riguarda i creditori che possono intervenire nell’ambito di


questa particolare forma di processo di espropriazione contro il terzo proprietario,
perché si ritiene che potranno intervenire i creditori del terzo proprietario, che
naturalmente potranno essere soddisfatti solo DOPO il soddisfacimento del
creditore procedente, infatti ricordiamoci che il bene aggredito fa parte, a tutti gli
effetti, del patrimonio dello stesso terzo e quindi, come bene facente parte del
patrimonio del terzo, è un bene che costituisce garanzia per i creditori del terzo, e
non per i creditori del debitore esecutato.

Parliamo ora dell’esecuzione forzata in forma specifica.


Abbiamo già anticipato che la definizione di forma specifica deriva dalla
circostanza che nelle ipotesi che andiamo ad analizzare l’oggetto del processo
esecutivo coincide con l’oggetto del diritto di cui il creditore vuole ottenere il
soddisfacimento.

Ciò ci consente di distinguere queste forme di processo esecutivo dalla


espropriazione forzata, giacché nell’espropriazione forzata abbiamo visto che
l’oggetto del diritto è la somma di denaro, mentre l’oggetto del processo esecutivo
(almeno nella fase che arriva fino alla vendita forzata) è rappresentato dai beni
facenti parte il patrimonio del debitore. Quindi si dice che le ipotesi di esecuzione
forzata in forma specifica rientrano nelle c.d. forme di tutela in forma specifica,
cioè istituti processuali che danno attuazione concreta al principio chiovendano
secondo cui il processo deve dare all’avente diritto, per quanto sia possibile, tutto
quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire.

Sono due le forme di esecuzione forzata in forma specifica: l’esecuzione forzata in


forma specifica per obbligo di consegna o rilascio e l’esecuzione forzata in forma
specifica per obbligo di fare o di non fare.

Una premessa: nell’ambito di queste forme di processo esecutivo non è previsto


l’intervento dei creditori, quindi il processo esecutivo vede la partecipazione del
solo creditore procedente.

213
Questo pone immediatamente una domanda, si tratta di verificare se questi
procedimenti esecutivi danno luogo ad una deroga del principio della parcondicio
creditorum, fissato nell’art. 2741 cc.

La risposta è negativa per le ragioni che ora dirò.

Cominciamo dall’esecuzione forzata in forma specifica per obbligo di


consegna o di rilascio.

Il creditore agisce per dar attuazione al suo diritto di ottenere la consegna di un


bene mobile o il rilascio di un bene immobile.

Il presupposto affinché il creditore possa agire esecutivamente è che quest’ultimo


sia titolare di un diritto sulla cui base può pretendere la consegna o il rilascio di un
determinato bene. Quindi possiamo dire che i beni oggetto dell’obbligazione di
consegna o di rilascio sono in un certo senso fuoriusciti dal patrimonio del
debitore o comunque il creditore è titolare di un diritto che può opporre ad
un’eventuale procedura di espropriazione forzata.

In verità il legislatore si è preoccupato di disciplinare e di risolvere l’unica vera


situazione problematica, quella in cui cioè si può creare un contrasto tra il
creditore che ha diritto alla consegna e i creditori che invece agiscono in via di
espropriazione forzata.

L’ipotesi è in particolare quella in cui c’è un creditore che agisce per la consegna
di un bene mobile e il bene mobile nel frattempo è già stato pignorato dagli altri
creditori del debitore esecutato, perché? Perché si tratta di un bene che l’ufficiale
giudiziario ha trovato nei luoghi di cui all’art. 513.

Questa ipotesi è particolarmente problematica. Per quale motivo?

Perché, trattandosi di un bene mobile, se il creditore che ha diritto alla consegna


del bene riesce a dare attuazione al suo diritto alla consegna e quindi riesce ad
acquisire il possesso del bene, rischia di scattare la fattispecie acquisitiva di cui
all’art. 1153 cc, quindi può maturare un acquisto a titolo originario che come
sappiamo è autonomo rispetto all’esistenza del diritto.

Allora per evitare questa situazione, nell’art. 607 si legge che “se le cose da
consegnare sono pignorate, la consegna non può aver luogo e la parte istante
deve far valere le sue ragioni mediante opposizione a norma degli artt. 619 e ss.”
In pratica cosa succede?

Succede che, se il creditore che ha diretto alla consegna di un determinato bene


dà il via al processo di esecuzione in forma specifica per obbligo di consegna o
rilascio e l’ufficiale giudiziario si rende conto, nel momento in cui agisce, che la
cosa è già oggetto di un pignoramento mobiliare, l’unica possibilità che il creditore
ha (colui che ha diritto alla consegna) è di esercitare l’opposizione di terzo
all’esecuzione, ai sensi dell’art. 619 cpc, per recuperare il bene, quindi assolvendo
all’onere probatorio pesantissimo che questa disposizione pone a carico di colui
che ritiene di essere proprietario del bene pignorato o comunque di avere un diritto
prevalente sul bene pignorato.

214
Quindi questa disposizione elimina qualsiasi situazione potenzialmente pericolosa,
perché l’attuazione del diritto alla consegna del bene avrebbe potuto essere
utilizzata per aggirare tutte le disposizioni dettate dal legislatore in tema di
espropriazione mobiliare per evitare che alcuni beni vengano sottratti dalla
responsabilità patrimoniale del debitore.

Con riferimento ai beni immobili questo problema non si pone, perché il rilascio del
bene immobile non è mai idoneo a far maturare al creditore un acquisto a titolo
originario, per cui non si pone alcun problema di coordinamento.

Allora, quello che si può desumere da queste brevissime osservazioni, è che non si
pone un problema di deroga o violazione del principio della parcondicio
creditorum, perché la regola generale è che il creditore, che agisce per la
consegna o per il rilascio del bene, ha un diritto su quel bene, quindi
generalmente, il bene non fa più parte del patrimonio del debitore esecutato per
cui non fa parte della garanzia patrimoniale del debitore esecutato.

E poi il legislatore ha espressamente disciplinato l’unica ipotesi potenzialmente


pericolosa di contrasto che si può creare tra il creditore che ha diritto alla
consegna del bene mobile e i creditori che hanno instaurato o sono intervenuti
nell’ambito di un processo di espropriazione forzata avente ad oggetto proprio
quel bene.

Passando ora all’esecuzione forzata in forma specifica per obbligo di fare o


non fare il rilievo da effettuare è ancora più semplice perché, per quanto riguarda
l’esecuzione forzata in forma specifica per obbligo di fare —> ad esempio
l’esecuzione forzata in forma specifica che viene avviata per ottenere la
costruzione di una determinata opera, è chiaro che questa sia un’attività che di per
sé non pone alcun problema di violazione di concorso dei creditori.

Per quanto riguarda invece l’esecuzione in forma specifica per obbligo di non fare
(che a suo tempo abbiamo detto che va letta come “obbligo di distruzione di
un’opera illegittima”), avendo ad oggetto un’opera illegittima, si deve ritenere che
si tratti di un’opera che appunto non fa parte legittimamente del patrimonio del
debitore, e quindi non si pone nessun tipo di problema.

Si deve per altro anticipar che come avremo modo di vedere tra poco in base a
quanto stabilito dalla legge, le spese per l’esecuzione dell’opera sono sempre
anticipate dal creditore, creditore che, nel momento in cui le vuole recuperare
dall’obbligato e questo risulti inadempiente, dovrà necessariamente procurarsi un
titolo esecutivo ed aprire il processo di espropriazione forzata nel concorso con gli
altri creditori.

Secondo rilievo generale: l’esecuzione forzata in forma specifica, come dimostrato


da una serie di studi che sono stati svolti dalla dottrina, non è ammessa in tutti i
casi in cui l’avente diritto può procurarsi il soddisfacimento del suo diritto
attraverso atti di autonomia privata, quindi senza la necessità di aggredire la sfera
possessoria della parte obbligata,

215
Quindi con riferimento specifico al procedimento di espropriazione forzata in forma
specifica con obbligo di consegna o rilascio, se l’obbligo di consegna ha ad
oggetto dei beni mobili che sono fungibili e quindi che sono reperibili sul libero
mercato, il creditore non può aprire un processo di esecuzione forzata in forma
specifica, ma dovrà acquistare sul libero mercato i beni a cui ha diritto, dopo di
che dovrà rivolgersi al debitore inadempiente per ottenere la restituzione di quanto
ha dovuto pagare per procurarsi il bene ed eventualmente anche il risarcimento del
danno.

Naturalmente questo è un problema che si pone con riferimento limitato all’obbligo


di consegna. Perché?

Perché noi sappiamo che i beni immobili sono per definizione infungibili. Quindi se
il debitore non ottempera al suo diritto di un bene immobile, è impensabile che il
creditore possa reperire un bene analogo sul mercato. È chiaro che l’unica
possibilità è aprire il processo di esecuzione forzata in forma specifica per obbligo
di rilascio.

Con riferimento invece al processo di esecuzione forzata in forma specifica per


obbligo di fare o di non fare (la prof. dice “di fare o di disfare”) anche in questo
caso rileva il carattere fungibile o non fungibile della prestazione, ma rileva anche
la circostanza che il creditore per ottenere questa prestazione abbia la necessità di
invadere la sfera possessoria del debitore, perché laddove questo non fosse
necessario allora non potrà utilizzare il processo di esecuzione in forma specifica
per obbligo di fare o di non fare, ma ancora una volta dovrà procurarsi il
soddisfacimento del suo diritto attraverso un atto di autonomia privata. Facciamo
un esempio.

Se è stato stipulato un contratto avente ad oggetto la tinteggiatura


dell’appartamento del creditore e il debitore non ottempera alla sua prestazione di
fare, il creditore non potrà agire in via esecutiva nei suoi confronti, non potrà aprire
un processo di esecuzione forzata in forma specifica per obbligo di fare o di non
fare, ma dovrà procurarsi il soddisfacimento del suo diritto dando l’incarico ad un
altro imbianchino, dopodiché dovrà rivolgersi al debitore inadempiente per
ottenere la restituzione delle somme che ha dovuto pagare all’altro imbianchino
per ottenere la tinteggiatura dell’appartamento ed eventualmente il risarcimento
del danno. Naturalmente, laddove il debitore resti inadempiente, il creditore dovrà,
anche in questo caso, aprire un processo di espropriazione forzata nel concorso
con tutti gli altri creditori del debitore esecutato.

Vi faccio notare che con riferimento alle due forme di esecuzione forzata in forma
specifica acquista rilievo la circostanza che la prestazione sia fungibile o
infungibile, anche se è necessario fare alcune precisazioni, perché: nell’esecuzione
forzata in forma specifica per obbligo di consegna o rilascio, ciò che rileva è
l’infungibilità del bene che costituisce l’oggetto della consegna o del rilascio e qui
l’infungibilità rileva nella misura in cui, se il bene è fungibile, allora il creditore dovrà
conseguirlo attraverso atti di autonomia privata.

Mentre invece, con riferimento all’esecuzione forzata in forma specifica per


obbligo di fare o di non fare, ciò che rileva è il carattere fungibile o meno della
216
stessa prestazione di fare o di non fare, nel senso che: se si tratta di una
prestazione infungibile l’esecuzione forzata in forma specifica non è proprio
possibile. Pensate a tutto quanto ci siamo detti con riferimento ai provvedimenti di
condanna aventi ad oggetto ordini inibitori, ordini di astenersi dal compiere
determinati atti—> abbiamo detto infatti che gli obblighi di non fare, gli obblighi di
astensione, gli obblighi di non ripetere una certa condotta, per forza di cose, sono
obblighi infungibili, nel senso che è impossibile che un terzo possa sostituirsi al
debitore per attuare il diritto del creditore. Quindi in ipotesi di obblighi di fare o di
non fare infungibili la tecnica esecutiva è esclusa per definizione, e quindi
l’adempimento e il soddisfacimento della pretesa del creditore potrà essere
soddisfatta solo tramite tecniche alternative.

Tecniche che oggi l’ordinamento processuale italiano ha previsto e disciplinato in


via generale nell’art. 614 bis, che si occupa delle misure coercitive consistenti in
una sanzione pecuniaria di tipo privatistico.

Fatta questa lunga premessa cominciamo ad analizzare la disciplina delle due


forme di esecuzione forzata in forma specifica, cominciando dall’esecuzione
forzata in forma specifica per consegna o rilascio.

La disciplina la ritroviamo nel c.p.c. dagli artt. 605 fino a 611, mentre nel c.c. rileva
l’art. 2930.

In base a quest’ultima disposizione “se non è adempiuto l’obbligo di consegnare


una cosa determinata, mobile o immobile, l’avente diritto può ottenere la consegna
o il rilascio forzato a norma delle disposizioni del c.p.c.”
Questa disposizione rileva nella parte in cui ci indica qual’è il possibile oggetto
dell’obbligo di consegna o di rilascio. Come possiamo vedere infatti, la norma
parla espressamente di COSE, quindi è escluso che questo procedimento possa
essere utilizzato con riferimento a persone. Ciò ci consente di affermare che i
provvedimenti che riguardano le persone, ed in particolare i provvedimenti in tema
di affidamento dei minori, emanati ad esempio ai sensi degli artt. 708-710 del cpc,
non possono essere eseguiti nelle forme dell’esecuzione forzata in forma specifica
per obbligo di consegna o rilascio. Questo limite è un limite che per altro è
coerente con la disciplina stessa di questo procedimento, perché, come vedremo
tra poco, il protagonista principale di questa procedure è l’ufficiale giudiziario e
non il giudice. —> E quindi le forme di questo particolare processo esecutivo
sarebbero del tutto inadeguate a dar attuazione a provvedimenti relativi a persone.

Il secondo requisito è che si tratti di cose DETERMINATE. Questo requisito della


determinatezza lo possiamo sicuramente spiegare richiamando la nozione di
liquidità utilizzata dall’art. 474

Quindi quel processo di esecuzione forzata in forma specifica per obbligo di


consegna non potrà essere utilizzato come riferimento ad obbligazioni aventi ad
aggetto cose mobili che sono determinate soltanto nel genere ai sensi dell’art
1378 cc, a meno che queste cose non siano state individuate.

217
Oltre a questi rilievi, la norma richiama espressamente che può trattarsi di cosa
mobile o di cosa immobile, e richiamando quanto detto precedentemente, a ciò
possiamo aggiungere che deve trattarsi di cose INFUNGIBILI (di cose determinate
infungibili). Perché se le cose sono fungibili il creditore, come abbiamo già
spiegato, dovrà procurarsi il soddisfacimento della sua pretesa rivolgendosi al
libero mercato, attraverso un atto di autonomia sostanziale.

La nozione di fungibilità o infungibilità è delicata, perché i beni immobili sono


sicuramente infungibili per definizione, mentre invece con riferimento ai beni mobili
la nozione di infungibilità è relativa: un bene mobile può essere fungibile ma può
essere infungibile per l’avente diritto. Perché?

Perché l’avente diritto potrebbe non avere il denaro sufficiente per ricomprare lo
stesso bene sul mercato. Quindi in questa particolare ipotesi il processo di
esecuzione forzata dovrà ritenersi necessariamente ammesso.

Quindi con riferimento ai beni mobili dobbiamo distinguere i beni che sono
anzitutto infungibili sul piano oggettivo dai beni che invece sono fungibili.

Beni infungibili sono, per fare un esempio, le opere d’arte, un quadro di un artista
famoso. Qui appare chiaro , ragionando sulle caratteristiche del bene in questione,
che il creditore potrà sempre far ricorso all’esecuzione per consegna o rilascio
laddove il debitore non ottemperi al suo obbligo di consegna.

Con riferimento però ai beni mobili che di per sé sono fungibili occorre ricordare
che la nozione di fungibilità è relativa—> nel senso che un bene che pur essendo
fungibile sul piano oggettivo, può diventare infungibile sul piano soggettivo.

Questa situazione si può verificare: vuoi quando il creditore non abbia le


disponibilità economiche necessarie per riacquistare il bene sul mercato, salvo poi
rivolgersi la debitore per ottenere la restituzione di quanto ha speso; vuoi nel caso
in cui sia il patrimonio del debitore ad essere incapiente, per cui se il creditore
acquista sul mercato lo stesso bene e poi si rivolgere al debitore per recuperare
quanto ha speso + gli eventuali danni, rischia di non trovare niente.

La cosa inoltre deve trovarsi nella disponibilità dell’obbligato. Con particolare


riferimento ai beni mobili, il bene deve trovarsi in uno dei luoghi di cui all’art. 513,
perché vedremo che l’art 606, parlando della consegna dei beni mobili, richiama
espressamente quella norma. (Sul punto vi ricordo che se il creditore teme di non
trovare il bene, quindi vuole mettersi al riparo dal rischio che il bene venga
distrutto, disperso o venduto, una possibilità gli è offerta dal sequestro giudiziario,
di cui all’art. 670).

L’esecuzione forzata per obbligo di consegna o rilascio ha come scopo quello di


ripristinare la relazione materiale fra il creditore e il bene.

In verità, nonostante che l’art. 608 parli espressamente di possesso, dalla lettura
dell’art. 2930 cc si ricava che l’esecuzione forzata per consegna o rilascio può
essere utilizzata anche per chi vuole recuperare non il possesso ma la detenzione
del bene. Cioè, questo processo esecutivo può essere utilizzato anche per dar
attuazione ad un diritto di consegna o al rilascio che alla sua base ha un diritto

218
personale di godimento, che come tale legittima il creditore ad avere la detenzione
e non il possesso del bene.

Andiamo a vedere le regole di svolgimento.

Intanto, per quanto riguarda il titolo esecutivo è pacifico che il processo di


esecuzione forzata per obbligo di consegna o rilascio può aver luogo soltanto per i
titoli esecutivi di cui ai n. 2 e 3 dell’art 474 secondo comma. —> si tratta “delle
sentenze, provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente
efficacia esecutiva e agli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale
autorizzato dalla legge a riceverli”.
La seconda caratteristica riguarda il precetto, l’art 605 cpc ci dice che “deve
contenere, oltre alle indicazioni di cui all’art. 480, anche la descrizione sommaria
dei beni stessi”.
La competenza appartiene al Tribunale del luogo in cui si trovano le cose.

Il protagonista di questo processo esecutivo è l’ufficiale giudiziario; il giudice


potrebbe anche non intervenire mai. Infatti in base all’art. 610 il giudice
interveniente solo se nel corso dell’esecuzione sorgono difficoltà che non
ammettono dilazione e in questo caso ciascuna parte può chiedere al giudice
dell’esecuzione i provvedimenti temporanei occorrenti. Inoltre lo stesso giudice è
chiamato, ai senti dell’art. 611, ad emettere il provvedimento di liquidazione delle
spese.

Quanto alle modalità di esecuzione, l’art. 606, con riferimento alla consegna dei
beni mobili, prevede che “decorso il termine indicato nel precetto, l’ufficiale
giudiziario, munito del titolo esecutivo e del precetto, si reca sul luogo in cui le
cose si trovano e le ricerca a norma dell’art. 513 e quindi ne fa consegna alla parte
stessa o a persona da lei designata”.

Quanto invece al rilascio dei beni immobili, l’art. 608 prevede che “l’esecuzione
inizia con la notifica dell’avviso nel quale l’ufficiale giudiziario comunica almeno 10
gg prima alla parte, che è tenuta a rilasciare l’immobile, il giorno e l’ora in cui si
procederà.”
Nel secondo comma prevede che “nel giorno e nell’ora stabiliti, l’ufficiale
giudiziario, munito del titolo esecutivo e del precetto, si reca sul luogo
dell’esecuzione e, facendo uso, quando occorre, dei poteri a lui consentiti dall’art
513, immette la parte istante o una persona da lei designata nel possesso
dell’immobile, del quale le consegna le chiavi, ingiungendo agli eventuali detentori
di riconoscere il nuovo possessore”.
Quest’allusione “ai detentori a cui l’ufficiale giudiziario può ingiungere di
riconoscere il nuovo possessore” è riferita a terzi detentori che sono titolari di dirti
dipendenti dalla posizione sostanziale dell’esecutato che debbono essere
compatibili con il diritto di chi agisce in esecuzione.

219
Il riferimento è, ad esempio, al terzo che è conduttore del debitore esecutato e che
ha un contratto di locazione avente data certa anteriore alla compravendita.

Passiamo ora all’analisi dell’esecuzione forzata per obblighi di fare o di non


fare. Artt. da 612 fino a 614 cpc. e 2931, 2933 cc.

Dalla lettura di queste disposizioni si ricava che questo processo esecutivo può
aver ad oggetto solo il compimento di opere materiali.

Infatti, il secondo comma dell’art. 612 prevede che “il giudice dell’esecuzione
provvede sentita la parte obbligata. Nella sua ordinanza designa l’ufficiale
giudiziario che deve procedere all’esecuzione e le persone che debbono
provvedere al compimento dell’opera non eseguita o alla distruzione di quella
compiuta.”
Da quanto abbiamo già evidenziato nell’introduzione dell’esecuzione forzata in
forma specifica dobbiamo ricordare che, questo processo esecutivo può essere
aperto laddove la prestazione di fare o di non fare è fungibile, nella parte in cui
deve trattarsi di una prestazione che si presta ad essere eseguita da una parte
diversa dal debitore esecutato inadempiente. Il secondo requisito è che per lo
svolgimento di questa prestazione è necessario aggredire la sfera possessoria
dell’obbligato (quindi per costruire l’opera o per distruggere l’opera illegittima è
necessario invadere la sfera possessoria dell’obbligato; mentre invece quando
l’invasione della sfera possessoria non è necessaria l’avente diritto dovrà
procurarsi il soddisfacimento della sua pretesa attraverso gli atti di autonomia
sostanziale).

In base al disposto dell’art. 2933 secondo comma cc “non può essere ordinata la
distruzione della cose e l’avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei
danni se la distruzione della cosa è di pregiudizio all’economia nazionale”
Questo limite è stato interpretato in maniera molto rigida dalla giurisprudenza la
quale ritiene che operi, non in base al valore intrinseco del bene che deve essere
distrutto, ma solo allorquando il bene è adibito alla produzione e quindi è un bene
produttivo.

Vediamo adesso le regole di svolgimento di questo processo esecutivo.

Intanto il titolo esecutivo è rappresentato solo ed esclusivamente dalla sentenza di


condanna. Questo lo si deduce dall’art. 612 laddove si prevede che “chi intende
ottenere l’esecuzione forzata di una sentenza di condanna per violazione di un
obbligo di fare o di non fare, dopo la notificazione del precetto, deve chiedere con
ricorso al giudice dell’esecuzione che siamo determinate le modalità
dell’esecuzione”
Il giudice competente è il Tribunale del luogo dove l’obbligo dev’essere
adempiuto.

Il giudice dell’esecuzione è il protagonista principale di questa specie di processo


esecutivo. In particolare il giudice dell’esecuzione è chiamato a dettare le modalità
di esecuzione.

220
Sentite le parti, attivato il contraddittorio, il giudice con ordinanza deve
determinare le modalità dell’esecuzione e nello stesso tempo designare l’ufficiale
giudiziario e le persone che devono provvedere al compimento o alla distruzione
dell’opera.

Per altro in base all’art. 613 “l’ufficiale giudiziario può farsi assistere dalla forza
pubblica e deve chiedere al giudice le opportune disposizioni per eliminare le
difficoltà che sorgono nel corso dell’esecuzione”.
In base all’art. 614 “le spese dell’esecuzione anticipate dalla parte istante, sono
liquidate dal giudice come decreto a norma dell’art. 642”.
Questo procedimento di esecuzione in forma specifica, proprio in considerazione
della sua disciplina in particolare proprio in considerazione della circostanza che
vede come protagonista principale il giudice dell’esecuzione chiamato a dettare le
modalità dell’esecuzione è utilizzato per l’esecuzione di provvedimenti relativi a
persone (in particolare a quelli relativi l’affidamento dei figli emanati in base agli
artt. 708 e 710 cpc).

Il punto più critico di questa disciplina è rappresentato proprio da questa


ordinanza del giudice dell’esecuzione per il cui tramite questo fissa le modalità
d’esecuzione

In particolare nei casi in cui il giudice dell’esecuzione, nel momento in cui


determina le modalità dell’esecuzione, si spinge oltre il suo limite. Cioè non si
limita a dettare le modalità dell’esecuzione, ma entra nel contenuto dell’obbligo, va
ad integrare il contenuto dell’obbligo. Per cui abbiamo un provvedimento che non
è solo esecutivo, probabilmente è qualcos’altro.

La giurisprudenza ritiene in queste particolari ipotesi che quest’ordinanza del


giudice dell’esecuzione (ad esempio, l’ordinanza con cui il giudice ordina il
compimento di opere che possono essere anche in contrasto con quanto risulta
con il titolo, o per il cui tramite risolve delle questione che riguardano il diritto di
procedere ad esecuzione forzata) pur avendo la forma dell’ordinanza ha un
contenuto sostanziale di sentenza e per questo motivo ritiene che possa essere
impugnata non tramite il rimedio tipico dei provvedimenti del giudice
dell’esecuzione, quindi non attraverso l’opposizione agli atti esecutivi, ma sia
suscettibile di appello.

221
Lezione 13 - 23/04/20
Torniamo ad esaminare la connessione tra parti diverse. Rispetto all'unica lezione
svolta in aula vorrei fare alcuni passi indietro e riprendere dall'inizio la trattazione
del litisconsorzio necessario. Questo istituto rinviene la propria disciplina
normativa innanzitutto nell'articolo 102 cpc laddove si legge che "Se la decisione
non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere
convenute nello stesso processo. Se questo è promosso da alcune o contro
alcune soltanto di esse, il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio in un
termine perentorio da lui stabilito." L'articolo 102 cpc viene richiamato da altre
disposizioni in maniera più o meno diretta. Viene richiamato dall'articolo 307cpc in
tema di estinzione del processo per inattività delle parti. Viene richiamato anche
dall'articolo 354 cpc che si occupa del giudizio di appello e in particolare dei casi
in cui il giudice d'appello deve rimettere la causa al giudice di primo grado.

Vediamo di ricostruire la disciplina di questo istituto. Il termine litisconsorzio


necessario sta ad indicare le ipotesi in cui, come dice espressamente l'articolo
102cpc, la decisione deve pronunciarsi in confronto di più parti. Quindi è
necessario che una domanda giudiziale sia proposta da o contro più persone.
Vediamo la disciplina processuale. In base all'articolo 102 cpc si ha che se risulta
che la domanda è stata proposta da o contro alcuni soltanto dei litisconsorti
necessari, il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio in un termine
perentorio da lui stabilito. È pacifico che il difetto di un litisconsorte necessario è
un vizio rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo. Il giudice
rilevato il vizio deve fissare alle parti un termine posto a pena di decadenza entro
cui procedere all'integrazione del contraddittorio. Se le parti non ottemperano nel
termine previsto dal giudice allora il processo, ai sensi del disposto dell'articolo
307 terzo comma, si estingue. L'estinzione verrà dichiarata d'ufficio dal giudice,
con sentenza nel caso in cui si tratti di un giudice monocratico (che è la regola
generale). È prevista la possibilità che il litisconsorte pretermesso intervenga
volontariamente, ne parla l'articolo 268 cpc secondo comma ultima parte. Qui si
stabilisce che "Il terzo non può compiere atti che al momento dell'intervento non
sono più consentiti ad alcuna altra parte, salvo che comparisca volontariamente
per l'integrazione necessaria del contraddittorio." A prescindere dal momento in
cui il litisconsorte necessario entra nel processo potrà esercitare tutti i poteri
processuali. Questa sanatoria, provocata dall'integrazione del contraddittorio
ordinata dal giudice o dall’intervento volontario del litisconsorte, determina una
sanatoria con efficacia retroattiva. Questo è quanto si desume dall'articolo 354
cpc, il quale con riferimento al difetto di un litisconsorte necessario rilevato dal
giudice dell'appello, prevede che questi rimette la causa di fronte al giudice di
primo grado. Dalla lettera di questa disposizione si ricava che il processo dovrà
proseguire di fronte al giudice di primo grado nei confronti di tutti i litisconsorti
necessari. Questo significa che una volta che si è verificata la sanatoria questa ha
efficacia retroattiva. Per cui la domanda giudiziale produrrà tutti i suoi effetti
sostanziali e processuali a partire dalla data della prima notificazione, quindi della
notificazione effettuata da o contro alcuni soltanto dei litisconsorti necessari. Il
222
difetto di un litisconsorte necessario può essere rilevato d'ufficio in ogni stato e
grado del processo, ma qui è opportuna una precisazione. È pacifico che il difetto
possa essere rilevato d'ufficio dal giudice di primo grado, così come è possibile
che lo rilevi d'ufficio anche il giudice d'appello o addirittura la Corte di cassazione.
Questo rilievo peraltro, secondo l'interpretazione preferibile, potrà avvenire da
parte del giudice dell'impugnazione anche nel caso in cui sulla questione difetto di
litisconsorte necessario, c'è stata una previa statuizione da parte del giudice a quo
e la questione non sia stata oggetto di impugnazione. Quindi si ha una deroga a
quella che è la regola fondamentale che domina il passaggio della controversia dal
grado precedente al grado successivo. La regola secondo cui cioè con riferimento
alle questioni di rito e alle questioni di merito che sono state trattate e decise dal
giudice precedente, il giudice dell'impugnazione in tanto potrà tornare a
pronunciarsi, in quanto la parte che sulla questione è rimasta soccombente ha
formulato un motivo di impugnazione. Perchè con riferimento al difetto del
litisconsorzio necessario si ha una deroga a questo fondamentale principio che
vedremo sovraintende tutto il sistema delle impugnazioni civili italiane? Questa
conclusione si basa su un ulteriore profilo della disciplina processuale di questo
istituto ovvero sulla stabilità della sentenza che viene emessa a conclusione del
processo in assenza di un litisconsorte necessario e che quindi passa in giudicato.
E' pacifico infatti che la sentenza passata in giudicato emanata in assenza di un
litisconsorte necessario è sentenza inutiliter data. Significa che questa sentenza
non è idonea a produrre la propria efficacia di giudicato sostanziale non soltanto
nei confronti del terzo, del litisconsorte necessario che è rimasto estraneo al
processo, ma non è idonea a produrre efficacia neppure tra coloro che hanno
preso parte al processo. Quindi si tratta di un vizio gravissimo che non è
suscettibile di essere sanato. Un vizio in riferimento al quale non opera il principio
di conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione. Ma allora se si tratta
di un vizio talmente grave da sopravvivere al giudicato esterno, al giudicato della
sentenza che chiude il processo, si deve ritenere in base all'argomento a fortiori
che sia idoneo a sopravvivere anche al giudicato interno, che sfugga quindi al
meccanismo di formazione del giudicato interno. Questa scelta è l'unica idonea a
evitare che il processo debba andare avanti per tutti i suoi gradi di giudizio per poi
mettere capo a una sentenza inutiliter data. Per completare la disciplina vi ricordo
che se il vizio viene rilevato in sede di impugnazione si ha rimessione della causa
di fronte al giudice di primo grado, non solo se rilevato in appello in base a quanto
previsto nell'articolo 354cpc , ma anche se rilevato di fronte alla Corte di
Cassazione. Infatti in base all'articolo 383 terzo comma cpc, la Corte di
cassazione dovrà a sua volta rimettere la causa al giudice di primo grado. L'unica
eccezione che si può configurare a questa regola è il caso in cui il litisconsorte
necessario si presenti di fronte al giudice d'appello, anche volontariamente perché
il litisconsorte necessario è tra coloro che sono legittimati a esperire intervento
anche in appello, e accetti il processo nello stato in cui si trova. Se il litisconsorte
necessario accetta di entrare nel giudizio di appello e rimanere nel giudizio di
appello, allora il processo potrà proseguire davanti al giudice dell'appello. La
223
disciplina processuale di questo istituto è estremamente rigida e pesante. Se il
processo viene istaurato da o contro solo alcuni dei litisconsorti necessari c'è il
rischio che il processo vada avanti per anni, ma che la sentenza finale non sia
idonea a acquistare l'autorità della cosa giudicata, quindi risulti inutiliter data. La
pesantezza di questa disciplina spiega l'esigenza fortemente sentita di ridurre per
quanto possibile l'ambito applicativo dell'istituto. La definizione dell’ambito
applicativo dell’istituto è il profilo più delicato posto dall'articolo 102 cpc, perché
l'articolo 102 cpc non ci dice quando la domanda deve essere proposta da o
contro più parti. È la classica norma tautologica, ci dice la dottrina, perchè è
totalmente in bianco. Rileggiamola: " Se la decisione non può pronunciarsi che in
confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso
processo." È una norma che gira intorno a sè stessa, perchè non contiene alcun
elemento sulla cui base poterne ricostruire l'ambito applicativo. Allora la partenza
della riflessione può sicuramente essere data dalle ipotesi espressamente previste,
perchè ci sono una serie di disposizioni normative che richiamano in maniera
espressa l'applicazione dell'articolo 102 cpc. Cominciamo ad esaminare queste
disposizioni. Intanto possiamo ricordare alcune disposizioni del codice civile. In
modo particolare vorrei richiamare l'articolo 1012 cc il quale, dopo aver attribuito
all'usufruttuario la legittimazione straordinaria in ordine alla actio negatoria o
all'actio confessoria servitutis a favore del fondo su cui grava l'usufrutto, dice
espressamente che nel momento in cui l'usufruttuario esercita l'azione, il nudo
proprietario deve essere chiamato in giudizio. Questa previsione viene
pacificamente intesa come un richiamo all'articolo 102 cpc. Anche l'articolo 2900
cc in ipotesi di azione surrogatoria prevede espressamente che se il creditore
esercita l'azione surrogatoria deve citare in giudizio anche il debitore a cui intende
surrogarsi. L’articolo 1012 cc e 2900 cc sono due ipotesi di legittimazione
straordinaria. Cioè sono due ipotesi espressamente previste dalla legge, in cui c'è
un terzo che è legittimato a far valere in nome proprio un diritto altrui, secondo
quanto previsto nell'articolo 81 cpc. La ratio che sta a fondamento di queste due
disposizioni, laddove impongono che il cosiddetto legittimato ordinario è parte
necessaria del processo aperto dal legittimato straordinario, è quella di apprestare
tutela adeguata al diritto di difesa del legittimato ordinario o sostituito processuale.
Perchè questo è il titolare del rapporto giuridico dedotto in giudizio, quindi è la
parte destinata a subire gli effetti della sentenza. Per questo motivo si ritiene che
queste due disposizioni siano espressione di un principio generale che deve
essere esteso a tutte le ipotesi di legittimazione straordinaria ad agire laddove
l'azione venga esercitata dal legittimato straordinario. Si applica anche alle ipotesi
previste all'articolo 1421 cc nella parte in cui prevede che l'azione di nullità del
contratto possa essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse. Si applica
anche all'articolo 117 cc che si occupa della nullità del matrimonio. Questo è un
settore in cui l'applicazione dell'articolo 102 cpc è pacifica. Un settore molto
problematico è dato dai rapporti plurisoggettivi, ovvero quei rapporti giuridici che
vedono coinvolti una pluralità di soggetti. Si tratta di una categoria ampia e
eterogenea. Con riferimento ai rapporti plurisoggettivi ci sono una serie di ipotesi
224
in cui il litisconsorzio necessario è espressamente stabilito dal legislatore. Così
l'articolo 784 cpc afferma che in tema di scioglimento delle comunioni la domanda
di divisione ereditaria e di scioglimento di qualsiasi altra comunione deve proporsi
in confronto di tutti gli eredi o condomini. In verità la norma richiama anche i
creditori opponenti se ci sono, ma su questo punto tornerò. In materia di status
familiari l’articolo 247 cc in tema di disconoscimento della filiazione prevede che la
madre, il padre e il figlio sono litisconsorti necessari nel giudizio di
disconoscimento. Una previsione analoga si rinviene nei successivi articoli 248cc
in tema di contestazione dello stato di figlio, 249cc in tema di azione di reclamo
dello stato di figlio.

Come dicevo è molto problematico stabilire l'ambito applicativo del litisconsorzio


necessario nell'ambito dei rapporti plurisoggettivi. I rapporti plurisoggettivi sono
rapporti giuridici che corrono tra una pluralità di soggetti e che esibiscono una
forma di connessione particolarmente intensa data dall' identità vuoi della causa
petendi vuoi del petitum. Nell'ambito dei rapporti plurisoggettivi si distinguono una
serie di fattispecie che per espressa previsione normativa sicuramente non
rientrano nell'ambito del litisconsorzio necessario. La prima ipotesi cui possiamo
fare riferimento è quella delle obbligazioni solidali (articoli 1292 ss cc), in
particolare le obbligazioni solidali a interesse comune. Come avremo modo di
spiegare successivamente, le obbligazioni solidali si strutturano come un fascio di
rapporti che intercorrono tra ciascuno dei concreditori o dei condebitori solidali e
la parte comune. Rapporti connessi per identità vuoi di causa petendi vuoi di
petitum, ma sul piano processuale danno sicuramente luogo a un litisconsorzio
facoltativo, quindi rientrano nell'ambito applicativo dell'articolo 103 cpc. Se
prendiamo un’altra ipotesi di rapporto plurisoggettivo ovvero le azioni di
impugnativa delle delibere assembleari (art 2377- 2378 cc), noi troviamo nello
stesso cc una disciplina da cui possiamo ricavare che queste azioni danno vita sul
piano processuale a una particolare forma di litisconsorzio che è a metà strada fra
il litisconsorzio facoltativo e il litisconsorzio necessario, si parla di litisconsorzio
unitario o quasi necessario. Si tratta di un litisconsorzio che è facoltativo quanto
alla istaurazione, ma è necessario quanto alla trattazione e decisione. Questi
piccoli riferimenti normativi ci consentono di affermare con serenità che i rapporti
plurisoggettivi, pur esibendo la stessa forma di connessione che è data
dall'identità vuoi del petitum vuoi della causa petendi, sul piano processuale
possono andare soggetti a discipline diverse. Talvolta danno luogo a litisconsorzio
facoltativo, talvolta danno luogo a litisconsorzio quasi necessario, sicuramente
altre volte danno luogo a un litisconsorzio necessario. Naturalmente tanto più si
restringe l'ambito applicativo, con riferimento ai rapporti plurisoggettivi, del
litisconsorzio necessario tanto più si allargherà l’ambito applicativo delle altre
fattispecie di litisconsorzio. Non resta che intraprendere un’analisi casistica,
individuando gruppi di fattispecie. Con riferimento ad alcuni di questi la soluzione
è pacifica, con riferimento ad altri settori la questione è sempre aperta e
probabilmente c'è un'evoluzione anche nel tempo delle soluzioni praticate. Un
settore dove si ritiene che si applichi il litisconsorzio necessario è quello delle
225
azioni relative agli status familiari. Per intendersi si ritiene che gli articoli 247 cc in
tema di disconoscimento della filiazione, 248 cc in tema di contestazione dello
status di figlio e 249cc in tema di azione di reclamo dello stato di figlio, siano
espressione di un principio generale. Infatti gli status familiari sono situazioni
giuridiche con riferimento alle quali è fortissima l'esigenza di certezza delle
relazioni giuridiche. Questo spiega il perchè è opportuno imporre sempre la regola
del litisconsorzio necessario, quindi la necessaria partecipazione al processo di
tutti i soggetti coinvolti. Un ulteriore settore in cui si ritiene che si applichi il
litisconsorzio necessario sono i casi in cui viene esercitata un'azione volta a
ottenere la rimozione totale di un rapporto plurilaterale, come ad esempio un
contratto di società. Se si vuole sciogliere un contratto di società si ritiene
indispensabile estendere l'azione a tutti i soci, perchè il contratto di società o
esiste per tutti o non esiste, quindi la soluzione è condivisa. Un ulteriore settore
con riferimento al quale si registrano orientamenti condivisi seppur con qualche
incertezza, è il settore delle azioni reali aventi ad oggetto diritti che si trovano in
stato di comunione. In particolare si ritiene che rientri nell'ambito applicativo del
litisconsorzio necessario, l'azione costitutiva di una servitù coattiva esercitata su
un fondo in comproprietà (art 1032cc). Come si spiega questo orientamento? Si
spiega alla luce di quello che è un criterio che spesso la dottrina richiama per
ritagliare l’ambito applicativo del litisconsorzio necessario e che è stato
evidenziato negli studi effettuati dal professor Giorgio Costantino, è il criterio
dell'efficacia della sentenza, dell'utilità della sentenza. Nel senso che si ritiene che
la necessità di proporre la domanda da o nei confronti di tutti i contitolari del
rapporto giuridico dovrebbe essere imposta ogni volta che la partecipazione di
tutti i contitolari al giudizio è condizione indispensabile affinchè la sentenza sia
utile per l'attore, cioè sia idonea a produrre gli effetti richiesti. Quella di sentenza
utile è una nozione che va concretizzata passando attraverso la valutazione
dell'operatore. Infatti l’interprete, se si vuole adottare questo criterio, è chiamato
ogni volta a verificare sulla base della legge sostanziale se la sentenza emessa nei
confronti di alcuni fra i più contitolari è efficace, è utile, cioè è idonea a produrre gli
effetti voluti dall’attore. Ora, proprio con riferimento all’azione costitutiva di una
servitù coattiva su fondo in comproprietà si afferma che se il fondo servente è in
comproprietà intanto l’attore può riuscire ad ottenere la costituzione di un diritto di
servitù, che ricordiamoci è un diritto reale, in quanto la sentenza sia efficace nei
confronti di tutti i comproprietari. Come vi dicevo questa è un’ipotesi che non trova
concordia totale perché, e qui mi dispiace distruggere le poche certezze che si
hanno in questo settore, qualcuno si è interrogato in ordine al se, nel caso in cui
l’attore proponga la sua domanda di costituzione nei confronti di alcuni soltanto
dei comproprietari del preteso fondo servente, si possa ritenere che non è
indispensabile, non è necessario, applicare l’art.102 e quindi ritenere che debba
essere integrato il contraddittorio nei confronti dei comproprietari non citati in
giudizio riconoscendo che, in fin dei conti, l’attore potrebbe non aver chiamato
alcuni dei comproprietari del fondo servente perché conta sulla loro acquiescenza.
D’altra parte lo stesso codice civile prevede che la sentenza di accoglimento della
226
domanda emessa a contraddittorio non integro in fin dei conti è idonea a produrre
degli effetti, anche se si tratta di effetti non reali ma di effetti obbligatori perché in
base all’art.1059 co.2 c.c. vincola i convenuti, o il convenuto, a non porre
impedimento all’esercizio del diritto concesso. Sempre nell’ambito dei diritti reali si
ritiene che si abbia litisconsorzio necessario ogni volta che venga esercitata una
actio confessoria servitutis con riferimento ad un fondo che si trova in comunione.
Questa regola è però subordinata alla condizione che alla actio confessoria
servitutis sia cumulata anche la domanda di costruzione dell’opera strumentale
all’esercizio della servitù. Ancora una volta si fa leva sul criterio della utilità della
sentenza: se è necessario costruire un’opera su un fondo in comproprietà occorre
che la sentenza sia efficace nei confronti di tutti i comproprietari altrimenti non
potrà essere messa in esecuzione. In base agli stessi criteri si ritiene che si
applichi il litisconsorzio necessario quando viene esercitata una actio negatoria
servitutis con riferimento a un fondo in comproprietà laddove all’azione sia
cumulata l’azione di distruzione di un’opera costruita sul fondo servente in
comproprietà che impedisce l’esercizio della servitù: pensate all’ipotesi in cui si
tratti di abbattere il muro che impedisce al titolare del fondo dominante di
esercitare il suo diritto di passaggio, anche in questa ipotesi si ritiene che se la
sentenza che accerta l’esistenza del diritto di servitù e ordina la distruzione del
muro non è efficace nei confronti di tutti i comproprietari del preteso fondo
servente questa sentenza non può produrre i suoi effetti, è inutiliter data. Il settore
con riferimento al quale però si registrano da sempre le maggiori incertezze è il
settore delle azioni di impugnativa negoziale aventi ad oggetto contratti a parti
collettive. Si tratta di contratti stipulati fra parti composte da più soggetti.
Esempio: si esercita un’azione di risoluzione di un contratto di compravendita
stipulato tra un venditore e più compratori, oppure tra più venditori e un
compratore, oppure fra più venditori e più compratori. Questo è veramente un
settore su cui si trovano le tesi più disparate.

C’è chi afferma che in questo particolare settore si avrebbe litisconsorzio soltanto
nei casi previsti dalla legge ma questa soluzione, che sicuramente ha il pregio della
chiarezza, si scontra con una serie di indirizzi giurisprudenziali assolutamente
costanti nel ritenere che si abbia litisconsorzio necessario con riferimento ad una
serie di fattispecie, ad esempio laddove venga proposta un’azione di
annullamento, di risoluzione, di un contratto a prestazioni corrispettive e ad effetti
reali. Quindi si tratta di un indirizzo che pur avendo il pregio della chiarezza trova
costante smentita nella prassi giurisprudenziale.

La seconda soluzione è quella opposta, è una soluzione secondo cui ogni volta
che viene dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo è necessario imporre il
litisconsorzio necessario: anche questa soluzione, che ha il pregio della chiarezza
e della semplicità, è contraddetta da norme di diritto positivo, ad esempio è
contraddetta dalle disposizioni relative alle obbligazioni solidali che sono
assolutamente chiare, come vedremo, nell’escludere che la deduzione in giudizio
di un’obbligazione solidale comporti l’applicazione del litisconsorzio necessario,

227
che quindi tutti i condebitori o concreditori solidali debbano essere presenti nel
processo, e quindi non si presta ad essere accolta.

La terza soluzione che è stata avanzata e che è sostenuta, almeno formalmente,


dalla giurisprudenza e da settori molto importanti della dottrina è quella secondo
cui si avrebbe litisconsorzio necessario quando viene esercitata un’azione di tipo
costitutivo quindi, per intendersi, ogni volta che viene proposta un’azione di
annullamento, di risoluzione o di rescissione del contratto a parti collettive si
avrebbe litisconsorzio necessario. Ora, anche questa tesi si espone a delle critiche
molto importanti che in parte sono state avanzate dalla dottrina, in parte sono
critiche che si appuntano su una serie di orientamenti giurisprudenziali che sono
intervenuti recentemente. Anche questa soluzione quindi risulta insoddisfacente.
Non mi soffermo sulla questione relativa al se alcune delle azioni di impugnativa
negoziale si prestano veramente ad essere ricostruite come azioni costitutive
perché, vi ricordate, quando abbiamo parlato della tutela costitutiva abbiamo
evidenziato le difficoltà che tutt’ora sussistono nella ricostruzione di questa
particolare forma di tutela. Quindi lasciamo da parte la questione appena
menzionata. Quello che però possiamo osservare è che si tratta di una soluzione
che lascia insoddisfatti. Come si può giustificare che con riferimento al medesimo
contratto se viene esercitata un’azione di annullamento si imponga la necessaria
partecipazione di tutte le parti, mentre invece se viene esercitata l’azione di nullità
non è necessario che siano convenute in giudizio tutte le parti? Nei confronti di
questa soluzione sono state dunque avanzate delle critiche e proposte soluzioni
alternative. Da parte di taluno è stato osservato che in verità anche quando si
esercita un’azione di nullità nella parte in cui si tratta di un’azione rivolta a
rimuovere un’apparenza giuridica si impone la necessità della partecipazione di
tutte le parti del contratto. Direi oggi però che l’argomentazione più forte si trae
dalle sentenze Travaglino del 2014 perché queste hanno chiarito che l’oggetto del
processo in ipotesi di azione di annullamento, di rescissione e di risoluzione è la
rilevanza giuridica del negozio giuridico impugnato, sono gli effetti del negozio
giuridico impugnato e diciamo che se questa è la premessa capite che non si
riscontrano differenze tra un’azione di annullamento, di rescissione o di
risoluzione e un’azione di nullità perché si tratta in ogni caso di un’azione per il cui
tramite viene proposta una domanda con cui si chiede al giudice di accertare la
non rilevanza giuridica del negozio impugnato. Come si può quindi ricostruire
l’ambito applicativo dell’art.102 del c.p.c. con riferimento ai contratti bilaterali a
parti collettive? Probabilmente la soluzione deve essere argomentata riprendendo
il criterio dell’efficacia della sentenza, dell’utilità della sentenza per l’attore e in
questa direzione certamente è rilevante la distinzione fra i contratti che hanno un
effetto reale e quelli che hanno invece un effetto obbligatorio. Con riferimento ai
secondi poi è ulteriormente rilevante un particolare gruppo di ipotesi ovvero quei
contratti da cui scaturiscono delle obbligazioni che sono ad attuazione
necessariamente congiunta. Che cosa sono le obbligazioni ad attuazione
necessariamente congiunta? Si fa riferimento a contratti sulla cui base più soggetti
si obbligano nei confronti di una parte comune allo svolgimento di una
228
prestazione, si tratta di prestazioni che hanno lo stesso contenuto o un contenuto
simile e che devono essere eseguite contestualmente da ciascuno dei condebitori.
L’esempio tipico che troviamo su tutti i manuali di diritto civile è quello del
quartetto musicale dove ciascuno degli strumentisti si obbliga ad eseguire la
propria prestazione e tutte queste prestazioni devono essere eseguite
contemporaneamente, contestualmente, affinché l’interesse del creditore sia
soddisfatto. Con riferimento ai contratti ad effetto reale si rileva giustamente che
l’effetto reale è tale per cui o si produce nei confronti di tutti o non si produce nei
confronti di nessuno. Allora che cosa ne dobbiamo ricavare? Ne dobbiamo
ricavare che ogni volta che viene impugnato un contratto che ha effetti reali e che
ha parti bilaterali tutte le parti devono essere chiamate in giudizio perché l’effetto
reale si può rimuovere soltanto se la sentenza ha efficacia nei confronti di tutti.
Non solo, con riferimento a questo genere di contratti non è neppure ipotizzabile la
possibilità di esercitare un’azione di impugnativa che interessi una sola delle parti,
non è possibile cioè immaginare, pensiamo al tipico esempio del contratto di
compravendita, che il venditore eserciti l’azione di annullamento nei confronti di
uno solo dei creditori perché questa azione è un’azione che non produrrebbe
l’effetto voluto, l’effetto richiesto, dall’attore. La stessa regola si estende ai
contratti che hanno efficacia obbligatoria ma da cui scaturiscono effetti obbligatori
delle obbligazioni ad attuazione necessariamente congiunta perché anche in
questa ipotesi se si vuole rimuovere l’intero contratto tutti devono partecipare al
processo, se si intendesse rimuovere il vincolo negoziale nei confronti di uno solo
dei soggetti che compongono la parte collettiva non è ipotizzabile perché le
restanti parti non potrebbero da sole soddisfare con le proprie prestazioni
l’interesse del creditore, quindi non si può annullare il contratto o risolvere il
contratto solo nei confronti del primo violino - tornando all’esempio fatto prima -
perché gli altri strumentisti non potrebbero eseguire da soli la prestazione del
quartetto musicale. Viceversa, se le azioni di impugnativa negoziale vengono
esercitate nei confronti di un contratto che ha degli effetti meramente obbligatori
allora è possibile precisare che se la parte che impugna intende rimuovere l’intero
contratto, quindi se la parte che ha subito l’errore intende annullare l’intero
contratto, appare chiaro che l’azione va esercita nei confronti di tutti perché
questa sentenza per produrre l’effetto che l’attore vuole, cioè la rimozione del
contratto, deve essere efficace nei confronti di tutte le parti; in questo settore però
è possibile immaginare che venga esercitata un’azione di impugnativa diretta a
rimuovere soltanto il vincolo di uno dei soggetti della parte collettiva perché, stante
il carattere meramente obbligatorio degli effetti che da questo contratto
scaturiscono, il venir meno di uno dei soggetti che compone la parte collettiva non
impedisce comunque al contratto di soddisfare gli interessi del creditore. Si tratta
di un terreno, come ho anticipato, estremamente complicato, si tratta di fattispecie
su cui non è maturata una posizione definitiva e anche la posizione che vi ho
illustrato è una posizione discussa, quindi non accettata da tutti, e che prelude a
sviluppi ulteriori a cui però non è il caso in questo momento di fare riferimento.

229
Quindi lasciamo il terreno dell’impugnazione dei contratti a parti bilaterali ma
collettive indicandolo come un punto altamente problematico.

Accanto a questi terreni che abbiamo indicato come estremamente complessi


dobbiamo ricordare una serie ulteriore di casi in cui l’applicazione della regola del
litisconsorzio necessario è imposta dal legislatore propter opportunitatem, si tratta
cioè di scelte discrezionali del legislatore con riferimento a fattispecie che in
assenza di un’espressa previsione normativa non sarebbero riconducibili alla
disposizione in esame. L’esempio tipico lo si ha nell’art.784 c.p.c., che ho già
richiamato precedentemente, nella parte in cui con riferimento al giudizio di
divisione ereditaria o di scioglimento di qualsiasi comunione annovera non
soltanto, come vi ho detto precedentemente, gli eredi e tutti gli eredi o i condomini
ma richiama anche i creditori opponenti. Ecco, il litisconsorzio necessario imposto
ai creditori opponenti è un’ipotesi di litisconsorzio necessario propter
opportunitatem. Un’altra previsione la si rinviene nell’ambito del codice delle
assicurazioni, cioè il D.lgs.209/2005, in particolare all’art.104 che nel giudizio
promosso dal danneggiato nei confronti dell’impresa di assicurazione impone la
partecipazione del responsabile del danno. Trattandosi di ipotesi che il legislatore
nella sua discrezionalità ha ricondotto nell’ambito applicativo del litisconsorzio
necessario si ritiene che si tratti di ipotesi tassative.

Una volta delineato, sia pure in maniera non troppo chiara, l’ambito applicativo di
questo istituto vediamo, molto velocemente, le regole di svolgimento del processo
in ipotesi di litisconsorzio necessario. Lo stesso art.102 c.p.c. fa riferimento al fatto
che la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti e la lettera della
legge è assolutamente chiara per cui dobbiamo ritenere che questo processo
debba chiudersi con una sentenza una ed unica, quindi una sentenza che ha lo
stesso contenuto per tutti coloro che prendono parte al processo. Quindi appare
chiaro che in ipotesi di litisconsorzio necessario è fuori discussione la possibilità
che il litisconsorzio venga meno nel corso del processo, quindi il giudice non potrà
mai disporre la separazione delle domande né nel corso dell’attività istruttoria in
base all’art.103 co.2, né in fase decisoria in base all’art.279 co.2 n.5 e il
litisconsorzio si mantiene necessario anche nel passaggio dal giudice inferiore al
giudice superiore per cui vedremo che si tratta di un’ipotesi che sicuramente
rientra nell’ambito applicativo dell’art.331 c.p.c. trattandosi di causa inscindibile.
Naturalmente la circostanza che un processo a cui prendono parte più litisconsorti
debba chiudersi con una sentenza una ed unica impone la necessità di coordinare
i poteri processuali esercitati dai diversi litisconsorti. Quindi ciascuno dei
litisconsorti naturalmente è parte e potrà esercitare tutti i poteri della parte ma le
attività svolte dai singoli dovranno necessariamente essere coordinate. Fra i
numerosissimi problemi che possono porsi e che non abbiamo certamente il
tempo di analizzare mi limito a richiamarvi soltanto le disposizioni che si occupano
della confessione e del giuramento reso nell’ambito di un processo a cui prendono
parte più litisconsorti necessari. L’art.2733 co.3 c.c. prevede che in caso di
litisconsorzio necessario la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti è
liberamente apprezzata dal giudice. Il legislatore ha degradato la confessione resa
230
da uno dei litisconsorti necessari da prova legale a prova soggetta al libero
apprezzamento del giudice e questa è una scelta svolta proprio nell’ottica di
garantire la possibilità di chiudere il processo con una sentenza una ed unica, cosa
che non sarebbe stata possibile se il legislatore avesse conservato l’efficacia di
prova legale della confessione. Una regola analoga la ritroviamo nell’art.2738 c.c.
con riferimento al giuramento decisorio: si prevede infatti che in caso di
litisconsorzio necessario il giuramento prestato da alcuni soltanto dei litisconsorti è
liberamente apprezzato da parte del giudice.

231
Lezione 14 - 29/04/20
Lezione n 14, audio n 13.

Continuiamo la trattazione delle ipotesi dei rapporti plurisoggettivi naturalmente


ad esclusione di quelli che abbiamo già ricondotto al litisconsorzio necessario di
cui all'art 102 cpc.

Abbiamo già evidenziato che, anche esclusi i rapporti più soggettivi soggetti alla
disciplina dell'articolo 102, occorre effettuare una serie ulteriore di distinzioni
perché la disciplina processuale di queste fattispecie può ulteriormente variare.

Cominciamo allora ad analizzare la disciplina di un primo gruppo di fattispecie


ovvero;

la disciplina della impugnazione delle delibere assembleari di cui agli articoli


2377 e 2378 cc.
l'articolo 2377 stabilisce che:

“le deliberazioni dell'assemblea prese in conformità della legge  o dell’atto


costitutivo vincolano tutti i soci ancorché non intervenuti o dissenzienti.
Comma 2;  le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge e dello
statuto possono essere impugnate dai soci assenti, dissenzienti ed astenuti, dagli
amministratori, dal consiglio di sorveglianza ed dal collegio sindacale”
Peraltro, la stessa disposizione stabilisce al sesto comma che:

“l’impugnazione o la domanda di risarcimento del danno sono proposte nel termine


di 90 giorni dalla data della deliberazione ovvero se questa è soggetta a iscrizione
nel registro delle imprese entro 90 giorni dall'iscrizione o se è soggetta solo a
deposito presso  l'ufficio del registro delle  imprese entro 90 giorni dalla data di
questo”.

Quindi si tratta di una impugnazione che può essere proposta da una pluralità di
soggetti ma che è soggetta ad un termine di decadenza.

La disciplina processuale di questa fattispecie la ritroviamo  nell’art 2378 -> il


primo comma prevede che:

“l’impugnazione è proposta con atto di citazione davanti al tribunale del luogo ove
la società ha sede”

Ma quello che mi interessa è soprattutto tutto il quinto comma dell'art


2378 laddove si legge che:

“tutte le impugnazioni relative alla medesima deliberazione, anche se


separatamente proposte ed ivi comprese le domande proposte ai sensi del quarto
comma art 2377, devono essere istruite  congiuntamente e decise con unica
sentenza.
Salvo quanto disposto dal quarto comma del presente articolo, la trattazione della
causa di merito ha inizio trascorso il termine stabilito nel sesto comma dell'articolo

232
2377”


Allora dalla lettura di questa disposizione si trae che sicuramente questa


fattispecie non rientra  nell'ambito applicativo dell'articolo 102, infatti, questa
disposizione non prevede che il giudice debba ordinare l'integrazione del
contraddittorio nei confronti dei soci o degli altri soggetti menzionati nel secondo
comma dell'articolo 2377 e che non hanno assunto l'iniziativa impugnatoria.

Quindi sicuramente non si tratta di una fattispecie riconducibile all'articolo


102  quindi si tratta sicuramente di un processo  litisconsortile che
quanto all’instaurazione è facoltativo.

È molto interessante la previsione del comma 5 art 2378 laddove prevede che:

“la trattazione della causa può avere inizio solo dopo che è decorso  il termine
stabilito del sesto comma dell’art 2377” e poi ancora che “tutte le impugnazioni
anche se separatamente proposte devono essere istruite congiuntamente e decise
con unica sentenza”.

Quindi il processo litisconsortile,  abbiamo detto facoltativo quanto alla


instaurazione, è necessario quanto a trattazione e decisione perché questa
disposizione è molto chiara nell’affermare che tutte le impugnazioni devono essere
trattate congiuntamente e soprattutto che il processo deve chiudersi
con l'emanazione di una sentenza unica.

La figura delineata da questa disposizione prende dunque il nome


di  litisconsorzio quasi necessario o unitario e con questa espressione si è
soliti  voler richiamare l'attenzione sulla circostanza che in questa ipotesi il
litisconsorzio, facoltativo quanto ad instaurazione, necessario quanto a trattazione
e decisione.

Naturalmente nel momento in cui la decisione che il giudice emana a conclusione


del processo è necessariamente unitaria pone anche con riferimento a queste
ipotesi la necessità di coordinare  l’esercizio dei poteri processuali di coloro
che prendono parte al processo.

Quindi sicuramente ciascuno dei litisconsorti è pienamente titolare dei poteri


processuali legati al diritto di azione e al diritto di difesa MA sicuramente occorrerà
porre in essere  delle limitazioni a questa autonomia perché è  necessario
coordinare i poteri esercitati dai diversi litisconsorti.

L’atto posto in essere da uno solo dei litisconsorti deve avere effetto anche nei
confronti degli altri e quindi ciò può rendere necessario compiere e prevedere
degli aggiustamenti.

Senza entrare nel dettaglio delle regole di svolgimento di questa figura di


processo litisconsortile mi limito ad osservare che anche con riferimento a questa
ipotesi si ritiene opportuno applicare le regole di cui agli art 2733 terzo comma e
2738 terzo comma per quanto riguarda la confessione e il giuramento resi da
uno solo dei litisconsorti.

Anche in questo caso si ritiene che la confessione o il giuramento prestato da uno


solo dei litisconsorti sia soggetta  libera valutazione da parte del giudice perché
233
questo, come abbiamo già spiegato parlando del  litisconsorzio necessario è
condizione indispensabile per assicurare e la emanazione di una sentenza unica.

Naturalmente, trattandosi di un litisconsorzio che è necessario quanto a


trattazione e decisione è fermamente da escludere la possibilità che il giudice
disponga la separazione delle cause in corso della fase istruttoria o in fase
decisoria chiudendo una sola delle cause con sentenza definitiva emanata ai
sensi dell'articolo 279 comma secondo numero 5, previa ordinanza di
separazione delle cause.

Anche nel passaggio dal giudice inferiore al giudice superiore si renderà


necessario  che  venga  in ogni caso  disposto l'integrazione del  contraddittorio  nei
confronti di tutti i litisconsorti nel caso in cui impugnazione sia stata proposta da o
contro alcuni di essi, con esclusione di altri.

passiamo adesso  all’analisi di un ulteriore gruppo di fattispecie che si collocano


nell'ambito dei rapporti plurisoggettivi e che presentano alcune peculiarità. Mi
finisco alle:

OBBLIGAZIONI SOLIDALI

le obbligazioni solidali sono un istituto disciplinato nel codice civile negli articoli
1292 e seguenti.

Sicuramente si tratta di un istituto e avete studiato nel corso del diritto privato  e
sicuramente vi ricorderete la difficoltà di questa disciplina.

Infatti, possiamo tranquillamente ritenere che la disciplina delle obbligazioni


solidali sia, forse, tra le più incomprensibili del nostro codice civile.

Cominciamo ricordando che si tratta di un istituto che ha origini molto


remote infatti si ritiene che le obbligazioni solidali affondino le proprie radici nella
cosiddetta obbligazione correale dell’ordinamento romano, anche se questa
figura nel passaggio dei secoli e anche degli ordinamenti ha subito una serie di
modifiche particolarmente rilevanti che sicuramente ne hanno inciso la struttura.

In verità, nel nostro ordinamento esistono due diversi gruppi, due diverse forme di
solidarietà.

Abbiamo infatti:

o le obbligazioni solidali ad interesse comune

o e le obbligazioni solidali ad interesse unisoggettivo.

In effetti quella di solidarietà è una nozione ed è la nazione espressa nell'articolo


1292 del codice civile che infatti reca la rubrica nozione della solidarietà.

Cosa ferma questa disposizione?

Afferma che:

“l’obbligazione è in solido quando più debitori sono obbligati tutti per la medesima


prestazione in modo che ciascuno può essere costretto all'adempimento per la
totalità e l’adempimento da parte di uno libera gli altri. Oppure quando tra più
234
creditori ciascuno ha diritto di chiedere l’adempimento dell'intera obbligazione e
l’adempimento conseguito da uno di essi libera il debitore verso tutti i creditori”

questa è la nozione comune di solidarietà; è un vincolo tale per cui il creditore che
ha di fronte a sé una serie di condebitori solidali ha diritto di pretendere
l’adempimento dell'intera prestazione da ciascuno di essi.

Se la solidarietà riguarda invece il lato attivo dell'obbligazione si ha che il debitore


può adempiere la propria  obbligazione nei confronti di ciascuno dei creditori e
l’adempimento nei confronti di uno libera anche nei confronti di tutti gli altri.

All’interno della nozione di solidarietà, come vi dicevo, si distinguono due diverse


forme e questa realtà emerge dal disposto dell’art 1298 cc (si occupa dei rapporti
interni ai condebitori o concreditori solidali)

Infatti, l'articolo 1298 prevede che:

“nei rapporti interni l’obbligazione  in solido si divide tra i diversi debitori  o tra i
diversi creditori, salvo che sia stata contratta nell’interesse esclusivo di alcuno di
essi.
Le parti di ciascuno si presumono uguali se non risulta diversamente”

Allora dal primo comma dell’articolo 1298 emerge la differenza fra:

o le obbligazioni solidali ad interesse comune ovvero le obbligazioni


solidali che nei rapporti interni si dividono fra i diversi debitori o fra i diversi
creditori

o e le obbligazioni solidali ed interesse unisoggettivo cioè


contratte nell’interesse esclusivo di uno di essi, per cui sarà questa parte a
dover sopportare per intero il peso dell’obbligazione.

Ma andiamo con ordine.

Soffermiamoci un momento proprio su questa seconda forma di solidarietà, sulla


solidarietà ad interesse unisoggettivo per spiegare le ragioni per cui dobbiamo
escluderla dalla trattazione dei rapporti plurisoggettivi.
Noi abbiamo definito i rapporti plurisoggettivi come quelle fattispecie  e in cui è
dato riscontrare l'esistenza di una forma di connessione particolarmente intensa,
data dalla identità della causa petendi e dalle identità del petitum.

Invece, la solidarietà ad interesse unisoggettivo  è una forma di connessione per


pregiudizialità dipendenza tra parti diverse.
Il prototipo della solidarietà di interesse nel soggettivo è la fideiussione. La
fideiussione è una garanzia personale, il fideiussore si obbliga nei confronti del
creditore a garanzia del debito altrui, per cui una volta stipulata la fideiussione  il
creditore è libero di pretendere l’adempimento della sua obbligazione non soltanto
dal debitore principale ma anche dal fideiussore.

235
Allora, sul piano sostanziale abbiamo il creditore principale - il debitore
principale e poi abbiamo – il fideiussore che svolge la funzione di garante, quindi
è un rapporto TRILATERE.

Il creditore, abbiamo detto, è libero in virtù di quanto stabilito nell’articolo 1292 di


chiedere l’adempimento dell'obbligazione ad uno dei due soggetti:

- o al debitore principale che è il debitore originario

- oppure al fideiussore 

l’adempimento dell'uno libera naturalmente anche l'altro perché l’interesse


creditorio è uno solo.
Questa forma di solidarietà evidentemente viene contratta nell'interesse esclusivo
del debitore principale e infatti in base a quanto previsto nell’articolo 1298 -> nei
rapporti interni il peso  dell’obbligazione deve cadere per intero sul debitore
principale perché l’obbligazione solidale viene contratta  proprio  nell’interesse del
debitore principale.

Ciò vuol  dire che se un creditore chiede e ottiene l’adempimento della sua
obbligazione al debitore principale non si pone nessun problema, si estinguono
entrambe le obbligazioni e l'interesse del creditore è soddisfatto.

Invece, se il creditore si rivolge al fideiussore questi una volta che ha pagato ha


diritto di regresso nei confronti del debitore principale, quindi attraverso il
regresso può chiedere al debitore principale la restituzione di quanto ha
dovuto corrispondere al creditore.

Sulla fideiussione ci soffermeremo in una prossima lezione.

Quindi siamo di fronte ad una forma di connessione per pregiudizialità -


dipendenza perché il rapporto fra il creditore e il fideiussore è pregiudiziale
rispetto al rapporto di regresso che lega il fideiussore al debitore principale.

A dirla tutta qui abbiamo una forma di connessione per pregiudizialità


dipendenza ancora più complessa  è  detta bilaterale perché in effetti noi
abbiamo, volendo descrivere un quadro più completo innanzitutto il rapporto  di
credito debito principale  che corre fra il creditore e il debitore principale, il
rapporto di credito - debito principale è pregiudiziale rispetto al rapporto che
intercorre fra il creditore e il fideiussore e quest’ultimo rapporto a sua volta è
pregiudiziale rispetto al rapporto di regresso che lega il fideiussore al debitore
principale.

Quindi vedete che fra questi tre soggetti intercorrono una serie di rapporti giuridici
fra i quali è dato rinvenire una forma di connessione per pregiudizialità dipendenza
cosiddetta bilaterale perché il rapporto fra il creditore  il fideiussore è dipendente
dal rapporto di credito debito principale ma è pregiudiziale rispetto al rapporto di
regresso che lega il fideiussore al debitore principale.

236
La fideiussione non è l'unica forma di solidarietà ad interesse unisoggettivo, se
non vengono anche altre pensate ad esempio:

- alla responsabilità del proprietario e del conducente  dell’autoveicolo di cui


all'articolo 2054cc

- oppure alla responsabilità  dei padroni e committenti di cui all'articolo 2049


cc

sono tutte fattispecie su cui torneremo in seguito, trattandosi comunque di una


forma di connessione per pregiudizialità dipendenza siamo di fronte a rapporti
giuridici che si fondano su un fatto costitutivo diverso, per questo le obbligazioni
solidali a interesse unisoggettivo fuoriescono dall' ambito dei
rapporti plurisoggettivi che abbiamo detto invece si connotano per uno schema di
connessione che si connota per le identità vuoi del  petitum, vuoi della
causa petendi,  perciò saranno riprese in un'altra lezione.

FILE 2

Passiamo ora ad analizzare la solidarietà ad interessi comuni.

Intanto è opportuno ricordare che la solidarietà ad interesse comune è una figura


molto ricorrente, infatti, il legislatore del 1942  nell’articolo 1294  cc ha compiuto
una scelta fondamentale quella secondo cui sul lato passivo la solidarietà tra
condebitori è presunta.

Si legge infatti nell’articolo 1294:

“i condebitori sono tenuti in solido se dalla legge e dal titolo non


risulta diversamente”

si tratta di una scelta, di una regola che distingue l’Italia da altri paesi per esempio
dalla  Francia  e dalla Germania. Il legislatore del 1942 l'ha adottata nell'ottica
evidentemente di rafforzare la tutela del creditore  perché  se, evidentemente, i
diversi debitori sono obbligati in solido il creditore potrà rivolgersi a ciascuno di
loro pretendendo l’adempimento dell'intera obbligazione e questo naturalmente
rafforza la posizione del creditore che non è tenuto, quindi, a rivolgersi a ciascuno
dei debitori chiedendo a ciascuno l’adempimento della sua quota.

Allora in base al disposto dell’art 1294 si ha la presunzione di solidarietà sul lato


passivo, questo ci consente di ritenere, appunto, che la solidarietà per lo meno sul
lato passivo ha un ambito applicativo molto ampio perché tutte le volte in cui più
soggetti assumono insieme un’obbligazione questa obbligazione sarà assunta
come regola generale in forma solidale quindi:

ad esempio ->
se ci sono  più persone che comprano un determinato bene sia esso mobile o
immobile da un unico venditore in base  all’articolo 1294 se non risulta
diversamente questi sono obbligati in solido al pagamento del prezzo nei confronti
del venditore.

237
La stessa regola vale  nell’ambito della responsabilità extracontrattuale per cui se
più persone si rendono responsabili di un fatto illecito sono responsabili in solido
nei confronti del danneggiato il quale potrà rivolgersi a ciascuno dei diversi
danneggianti, che sono i debitori,  e  pendere  l’adempimento dell'intera
obbligazione risarcitoria.

Naturalmente il vincolo solidale, laddove si tratti di solidarietà ad interesse


comune, ha rilevanza anche nei rapporti interni perché secondo quanto previsto
nell’articolo 1298 primo comma, prima parte, le obbligazioni nei rapporti interni e
deve essere ripartita in via paritaria questo significa  che il condebitore che ha
pagato l'intera prestazione al creditore comune, estingue l’obbligazione principale
a vantaggio di tutti ma poi potrà rivolgersi  agli altri condebitori e chiedere a
ciascuno la restituzione della propria quota in modo che il peso
economico dell’obbligazione sia ripartito equamente tra i diversi condebitori.

Allora volendo occuparci della disciplina processuale delle obbligazioni solidali


è interessante innanzitutto portare a chiarimento la struttura di questi rapporti
obbligatori perché su questo punto, su questa figura in Italia è aperto da sempre
un grosso dibattito.

Infatti;

i. tradizionalmente vi è chi ritiene che l’obbligazione solidale sia


un'obbligazione unitaria per cui in ipotesi di solidarietà ad interessi comuni
si ha  un rapporto uno ed unico con pluralità di parti. si tratta della tesi
sostenuta da autorevolissimi civilisti, quali il
professor  Busnelli  dell'università di Pisa e in genere la scuola dei civilisti
della università di Pisa. (TESI UNITARIA)

ii. a questa tesi unitaria  si contrappone la TESI PLURALISTICA propensa  a


ritenere che la solidarietà in verità sia una figura complessa per cui non si ha
un'obbligazione solidale ma si abbia sempre un fascio di rapporti che
corrono fra la parte comune e i condebitori o concreditori solidali, rapporti
giuridici che manifestano una forma di connessione per identità  puoi
di petitum vuoi di causa petendi.

ora per portare a chiarimento la struttura delle obbligazioni solidali è indispensabile


tornare ad analizzare la disciplina sostanziale delle obbligazioni solidali.

Come vi accennavo pocanzi la solidarietà ad interesse comune trova il proprio


antecedente storico nella cosiddetta obbligazione correale romana.

Nell’ordinamento romano era prevista la possibilità per  più parti di creare questo
vincolo  obbligatorio  dando vita ad un rapporto uno ed unico facente capo a più
soggetti. Il carattere unitario  dell’obbligazione correale trovava espressione nella
circostanza secondo cui tutti gli atti estintivi quindi non soltanto l’adempimento o
la prestazione in luogo dell'adempimento  posti  in essere da uno solo dei
condebitori correali produceva i propri effetti anche nei confronti di tutti gli altri.

238
Quindi per esempio:

➔ anche la compensazione, la novazione, la remissione del debito, la


prescrizione e in generale tutti gli atti estintivi dell'obbligazione anche se
posti in essere da uno soltanto dei condebitori o nei confronti di uno
soltanto dei condebitori producevano il proprio effetto erga omnes quindi nei
confronti di tutti gli altri.

C'è da dire che questa figura nel passaggio dei secoli e degli ordinamenti ha
subito una serie di fondamentali modifiche.

La prima rottura del carattere unitario  dell’obbligazione correale si verifica


nell'ambito dell'ancien regime quindi siamo nella Francia dell'ancien regime.

L’illustre giureconsulto Pothier, infatti, recependo la prassi che si era affermata nei
tribunali francesi per la prima volta afferma la regola della estinzione del vincolo
solidale pro quota, infatti nel suo celeberrimo trattato  Pothier  scrive
che  nell’ipotesi in cui il comune creditori rimetta il debito ad uno solo dei
condebitori solidali, si parla nel trattato di Pothier di solidarité per la prima volta, se
come regola generale la remissione deve avere effetto erga omnes  quindi deve
portare alla estinzione  dell’intera obbligazione solidale, eccezionalmente il
creditore può decidere di riservarsi i propri diritti contro tutti gli altri condebitori.

In presenza però di una simile  riserva, precisa Pothiter, si ha che gli altri
condebitori quindi i condebitori diversi dal condebitore a cui è stato rimesso il
debito restano obbligati  nei confronti del comune creditore per l'intero salva la
deduzione della quota del debitore a cui il debito era stato rimesso.

Quindi per dirla  In altre parole secondo Pothier  in questa particolare ipotesi
ciascuno dei  condebitori rimane obbligato  per la somma data dall’originaria
prestazione meno la quota interna del debitore, il cui debito è stato oggetto di
rimessione.

ora la  regola della estinzione  dell’obbligazione solidale pro quota rappresenta il
primo momento di rottura del carattere unitario dell’obbligazione solidale si tratta
infatti di un principio che nell’ottica dell’obbligazione correale romana, romanistica,
quindi di un rapporto  UNO ED UNICO con pluralità di parti non sarebbe stata
ammissibile, non sarebbe stata concepibile.

La successiva evoluzione storica passata attraverso la codificazione francese, la


codificazione tedesca, il codice del Regno d'Italia e finalmente il codice del 1942
ha visto l'introduzione di una serie ulteriore di modifiche tutte orientate nel senso di
portare in avanti, portare a compimento quella opera di rottura del carattere
unitario dell’obbligazione solidale già intrapresa dal Pothier.

Osservando l'attuale disciplina delle obbligazioni solidali contenuta nel codice


civile possiamo infatti affermare che l’obbligazione solidale ha perduto l'originaria
natura di obbligazione una ed unica per trasformarsi in un fascio di rapporti
239
obbligatori che corrono  ora il comune creditore e ciascuno dei condebitori
obbligati.

Nelle lezioni io parlo sempre della solidarietà sul lato passivo ma preciso fin da ora
che è una scelta di comodo ma che tutto quanto affermerò con riferimento
alla solidarietà passiva vale anche a parti rovesciate naturalmente con riferimento
alla solidarietà attiva che naturalmente è molto meno diffusa perché non c'è la
presunzione di cui all’articolo 1294.

Fatta questa breve introduzione andiamo ad analizzare:

la disciplina e espressa dal codice civile e in particolare le regole che


troviamo espresse negli articoli 1300 e seguenti del codice civile in cui
troviamo la descrizione  della  diversa efficacia degli atti di estinzione delle
obbligazioni poste in essere da uno soltanto dei creditori solidali o nei confronti di
uno soltanto dei condebitori solidali.

Diciamo, in via assolutamente generale, che il legislatore del 1942 ha adottato tre
diversi schemi di soluzione:

- in alcune disposizioni noi troviamo la regola evidenziata da Pothier quindi la


regola dell'efficacia pro quota dell'atto istintivo
-  in altre disposizioni troviamo, invece, espressa una regola diversa ovvero la
regola dell’efficacia erga omnes e dell’efficacia singolare

- Infine, troviamo una una una serie più ridotta di ipotesi in cui abbiamo una


regola diversa, si tratta delle eccezioni cosiddette strettamente personali.

Cominciamo dal primo gruppo di ipotesi.

Abbiamo una prima serie di disposizioni in cui si prevede che l'atto di estinzione
posto in essere da o nei confronti di uno soltanto dei debitori solidali, nei rapporti
esterni si estende agli altri consorti soltanto pro quota.

Per cui si può dire che in questa particolare ipotesi la quota interna che di solito ha
rilevanza soltanto nei rapporti interni rapporti cosiddetti di regresso tende invece
ad emergere ad acquisire rilevanza anche con riferimento ai rapporti esterni fra i
condebitori e il comune creditore.

In questo primo gruppo rientrano tutto una serie di atti o fatti che hanno una
caratteristica comune quella di produrre effetti divisibili e proprio per questo
motivo che il legislatore ha potuto adottare la regola della efficacia  pro  quota
u t i l i z z a n d o  c i o è q u e l l a s o l u z i o n e c h e e r a s t a t a e l a b o r a t a d a l
giureconsulto  Pothier.  È questo quando si rinviene in alcune interessantissime
ipotesi.

cominciamo dall'articolo 1301 che si occupa della remissione del debito.

comincio da questa disposizione perché storicamente parlando è proprio sulla


remissione del debito che la regola dell'efficacia pro quota è sorta.

l'articolo 1301 prevede che:

240
“la remissione a favore di uno dei debitori in solido libera anche gli altri debitori
salvo che il creditore  abbia riservato il suo diritto verso gli altri, nel qual caso il
creditore non può esigere il credito da questi se non detratta la parte del debitore a
favore del quale ha consentito la remissione”

Vede, una regola perfettamente corrispondente a quella enunciata da Pothier.

La stessa regola la ritroviamo  nell’art 1300  che si occupa  della novazione. l'art
1300 dispone infatti che:

“la novazione fra il  creditore e uno dei debitori in solido libera gli altri debitori.
Qualora però si sia voluto limitare la novazione ad uno solo dei debitori gli altri non
sono liberati che per la parte di quest'ultimo”
 

ancora l'articolo 1302 in tema di compensazione:

“ciascuno dei debitori in solido può opporre in compensazione il credito di un


condebitore solo fino alla concorrenza della parte di quest’ultimo”

Ancora art 1303 in tema di confusione:

“se nella medesima persona si riuniscono le qualità di creditore e di debitore in


solido, l’obbligazione degli altri debitori si estingue per la parte di quel
condebitore”

E poi l’art 1311 in tema di rinunzia alla solidarietà:

“il creditore che rinuncia alla solidarietà a favore di uno dei debitori conserva
l’azione in solido contro gli altri. Rinunzia alla solidarietà:

a) il creditore che rilascia a uno dei debitori quietanza per la parte di lui senza
alcuna riserva

b) il creditore che ha agito giudizialmente contro uno dei debitori per la parte di
lui, se questi ha aderito alla domanda, o se è stata pronunciata una sentenza
di condanna”

in tutte queste ipotesi il legislatore ha evidentemente adottato la regola della


efficacia pro quota, ciascuno dei condebitori è libero di porre in essere uno degli
atti di estinzione della obbligazione, liberandosi dal proprio vincolo solidale, ma
lasciando fermo il vincolo degli altri, salvo precisare che questi altri consorti
rimangono obbligati per una prestazione che è corrispondente a quella originaria
dedotta la quota del debitore che è uscito.

SECONDA PARTE

Continuiamo nella lettura della disciplina sostanziale delle obbligazioni solidali:


abbiamo appena esaminato le disposizioni che prevedono la cosiddetta efficacia
pro quota, ovvero una serie di ipotesi in cui l'atto di estinzione posto in essere

241
solo da uno dei condebitori solidali nei rapporti esterni si estende agli altri
condebitori soltanto pro quota.

Adesso andiamo ad analizzare un secondo gruppo di disposizioni che riguardano


fatti o atti che hanno effetti indivisibili: in questi casi, stante l'indivisibilità degli
effetti, il legislatore non ha potuto adottare la regola dell'efficacia pro quota, e
infatti ha previsto una regola diversa, ha previsto cioè che questi atti o fatti, se
compiuti da o nei confronti di uno soltanto dei condebitori hanno efficacia erga
omnes se si tratta di effetti favorevoli, mentre invece hanno efficacia singolare,
quindi circoscritta al solo condebitore interessato, se l’atto ha effetti favorevoli.

In questo senso la disposizione importante è l’art 1306 cc, una disposizione


chiave che richiameremo anche altrove. In base a questa disposizione, che si
occupa della efficacia della sentenza emanata nei confronti di alcuni soltanto dei
condebitori solidali, si legge che la sentenza pronunciata tra il creditore e uno dei
debitori in solido non ha effetto contro gli altri debitori o controlli altri creditori. Gli
altri debitori possono opporla al creditore salvo che sia fondata sopra ragioni
personali al con debitore. La norma stabilisce che la sentenza resa nei confronti di
uno solo dei condebitori solidali, evidentemente perché solo un con debitore
solidale ha preso parte al processo, se è sfavorevole al condebitore medesimo,
non produce effetti, non pregiudica i condebitori rimasti estranei, se invece la
stessa sentenza è favorevole al condebitore allora gli altri condebitori, rimasti
estranei al processo, la possono utilizzare a proprio favore. Quindi si tratta di una
ipotesi in cui l'efficacia della sentenza nei confronti di soggetti terzi rimasti estranei
al processo è una efficacia secundum eventum litis.

La regola analoga la ritroviamo anche in altre disposizioni, per esempio nell’art


1309 cc in tema di riconoscimento del debito, dove afferma che il riconoscimento
del debito fatto da uno dei debitori in solido non ha effetto rispetto agli altri. Il
riconoscimento è un atto che produce effetti sfavorevoli per il debitore,
conseguentemente la norma prevede che la sua efficacia riguarda soltanto il
condebitore che lo ha posto in essere.

L’art 1310.3 in tema di prescrizione, prevede la rinuncia alla prescrizione, (che è un


altro atto che ha effetti sfavorevoli per il debitore che vi rinuncia), fatta da uno dei
debitori insolito non ha effetto riguardo agli altri.

Risponde a questo stesso schema anche l’art 1304 cc in tema di transazione e


l’art 1308 cc, il quale dispone che la costituzione in mora di uno dei debitori in
solido non ha effetto riguardo agli altri. Questa regola, che è diversa rispetto a
quella della efficacia pro quota, esprime però anche questa la libertà di gestione
che l'ordinamento riconosce a ciascuno dei condebitori = ciascuno di essi è libero
di porre in essere questi atti senza che questi atti coinvolgano gli altri debitori,
soprattutto se si tratta di effetti sfavorevoli.

Infine, l'ultima regola che troviamo enunciata nell’art 1297 cc, che si occupa delle
eccezioni strettamente personali: la disposizione recita che “uno dei debitori in
solido non può opporre al creditore le eccezioni personali agli altri debitori” —> si
tratta di una norma di chiusura evidentemente residuale, che vale con riferimento
242
ad atti o fatti estintivi diversi rispetto a quelli espressamente disciplinati negli artt
1300 e ss cc. Le eccezioni strettamente personali, e diverse quindi da quelle fin
qui esaminate, producono una efficacia singolare, quindi relativa al solo rapporto
fra il singolo condebitore e il comune creditore: pensate all'ipotesi in cui solo uno
dei condebitori in solido ha stipulato il contratto in situazione di errore.

Che cosa possiamo osservare a margine della disciplina sostanziale che abbiamo
appena delineato? Possiamo rilevare sicuramente che il legislatore ha voluto
riconoscere a coloro che prendono parte al vincolo solidale una posizione di
sostanziale AUTONOMIA; naturalmente rimane vero che i diversi condebitori
solidali sono tutti obbligati nei confronti del comune creditore ad eseguire la stessa
prestazione, questo è quanto previsto dall’art 1292 cc, secondo cui laddove vi è
solidarietà il creditore può pretendere la prestazione da uno solo dei condebitori e
e l'adempimento dell'uno estingue tutte le obbligazioni. Ma è anche vero che la
disciplina attualmente in vigore in Italia consente a ciascuno dei condebitori di
porre in essere atti o fatti di estinzione dell'obbligazione in modo sostanzialmente
autonomo —> questi atti o fatti non producono gli stessi effetti nei confronti degli
altri condebitori, i quali talvolta ne rimangono totalmente estranei, e si tratta
dell'ipotesi in cui è prevista l'efficacia singolare, qualche volta sono destinatari di
un tipo di effetti diversi, ed è questo il caso dell'efficacia pro quota.

Quindi in definitiva, la sostanziale autonomia e il potere di libera gestione del


proprio rapporto, di quel rapporto che intercorre fra ciascuno dei condebitori e il
comune creditore, può portarci ad affermare che l'obbligazione solidale non è un
rapporto uno ed unico con pluralità di parti, e questo risulta in maniera evidente se
pensate a quanto abbiamo detto con riferimento all’obbligazione correale romana,
in cui ciascun atto o fatto di estinzione è posto in essere da o contro uno solo dei
condebitori aveva efficacia nei confronti di tutti, la stessa efficacia liberatoria nei
confronti di tutti; quindi attualmente, in base alla disciplina espressa nel nostro
codice civile, possiamo affermare che l'obbligazione solidale si compone di un
fascio di rapporti che corrono fra la parte comune, cioè il comune creditore, e
ciascuno dei condebitori in solido, e che si connota per una forma di connessione
molto forte, data dall'identità di petitum e dall’identità di causa petendi. Questa
forma intensa di connessione corrisponde però a una spiccata autonomia di
ciascuno dei rapporti, i quali in base alla disciplina sostanziale possono avere
anche esiti diversi l'uno dall’altro.

Andiamo adesso a vedere la disciplina processuale, a ricostruire la disciplina


processuale, cercando di trarre a livello processuale le conseguenze di quanto
appena detto a livello sostanziale: siamo di fronte ad ipotesi di rapporti
plurisoggettivi, che si connotano per una connessione intensa = identità di causa
petendi e identità di petitum. La domanda che ci dobbiamo porre è quella relativa
al se alle obbligazioni solidali si applica la disciplina che già abbiamo esaminato
con riferimento ad altre specie di rapporti per i soggettivi, ovvero il litisconsorzio
necessario, ai sensi dell’art 102 cpc, o il litisconsorzio unitario, così come
delineato dall’art 2378 cc in tema di impugnazione delle delibere assembleari.

243
Sicuramente dobbiamo escludere che le obbligazioni solidali rientrino nell'ambito
applicativo dell’art 102 cpc: questa affermazione la possiamo affermare sul
disposto dell’art 1306 cc —> questa disposizione infatti, introducendo la regola
della efficacia favorevole ma non sfavorevole nei confronti del condebitore rimasto
estraneo al processo, dà per presupposto che il processo possa validamente
svolgersi fra la parte comune e uno o alcuni dei condebitori solidali. Quindi l’art
1306, nella parte in cui regolamenta l'efficacia della sentenza resa nei confronti di
uno solo dei più condebitori solidali, esclude senza alcun dubbio che la solidarietà
all'interesse comune vada riportata nell'ambito applicativo dell’art 102 cpc.

Si tratta adesso di vedere se invece le obbligazioni solidali vanno soggette alla


disciplina delle litisconsorzio unitario: anche in questo caso la risposta è
NEGATIVA —> questa affermazione la possiamo fondare su una serie di
considerazioni: innanzitutto sull’art 1305 cc, che si occupa del giuramento —>
questa disposizione prevede che “il giuramento sul debito, e non sul vincolo
solidale, deferito da uno dei condebitori in solido al creditore, o da uno dei
concreditori in solido al debitore, ovvero dal creditore a uno dei debitori in solido, o
dal debitore ad uno dei creditori in solido, produce gli effetti seguenti: il
giuramento ricusato dal creditore o dal debitore, ovvero prestato dal condebitore o
dal concreditore in solido, giova agli altri condebitori o concreditori. Il giuramento
prestato dal creditore o dal debitore, ovvero ricusato dal condebitore o dal
concreditore in solido nuoce solo a chi lo ha deferito, o a colui al quale è stato
differito”.

È una disposizione scritta male, molto complessa. Innanzitutto perché in un solo


periodo tratta sia il con debito che il concredito. Per semplificare, prendiamo in
considerazione solo ciò che è previsto con riferimento al condebito, chiarendo che
la regola dettata è analoga a quella dettata per il concredito.

L’art 1305 cc tratta il GIURAMENTO: il giuramento vi ricordo che è una prova


legale, consiste in una dichiarazione solenne di fatti favorevoli alla parte che rende
la dichiarazione. Vi ricordate che la disciplina del giuramento prevede che il
giuramento venga deferito da una parte alla controparte, la quale lo può prestare
oppure lo può ricusare. Allora questo articolo dice che se il comune creditore
deferisce il giuramento ad uno dei debitori in solido e questi presta il giuramento,
quindi rende la dichiarazione solenne del fatto a sè favorevole, questo giuramento
giova a tutti gli altri condebitori. Si adotta quindi la regola della efficacia
favorevole che vale erga omnes; invece se il condebitore solidale ricusa il
giuramento, oppure se uno solo dei condebitori solidali deferisce il giuramento al
comune creditore, e questi lo presta, allora si prevede che il giuramento vale
soltanto nei confronti del condebitore che lo ha deferito. Questo perché si tratta di
una efficacia sfavorevole e quindi viene affermata la regola della efficacia
singolare.

L’art 1305 cc quindi è una delle disposizioni che adotta la regola della efficacia
erga omnes, se favorevole, e della efficacia singolare e se invece è sfavorevole.

244
Questa norma è una norma che contiene e mantiene l'efficacia di prova legale del
giuramento, salvo prevedere che questa efficacia di prova legale vale per tutti se
favorevole ai condebitori, mentre invece vale solo per il condebitore che ha
deferito il giuramento se si tratta di un’efficacia sfavorevole per i condebitori.

Vi ricordate che quando abbiamo parlato del litisconsorzio necessario e di quello


unitario, in cui cioè si imponeva la necessità di addivenire per espressa previsione
normativa ad una sentenza una e unica nei confronti di tutte le parti, si era detto
che il legislatore, per garantire la sentenza unica, aveva adottato la regola secondo
cui la confessione o il giuramento prestato da uno solo dei litisconsorti ha efficacia
di PROVA LIBERA, di prova soggetta al libero apprezzamento del giudice; allora,
l’art 1305 cc, in cui il legislatore ha invece voluto mantenere l'efficacia di PROVA
LEGALE, salvo limitarne gli effetti sfavorevoli al solo condebitore che ha deferito il
giuramento, sta a significare che qui il legislatore non si è preoccupato di garantire
l'emanazione della sentenza una ed unica, mi sta ad indicare cioè che è possibile
che il processo si chiuda con una sentenza che ha un contenuto molteplice, cioè
una sentenza che in pratica fa sì che le cause proposte dal comune creditore nei
confronti di diversi condebitori possono avere un contenuto diverso, perché solo
una sarà basata sul giuramento, mentre le altre non potranno considerare il
giuramento, se si tratta di un giuramento che ha efficacia sfavorevole per i
condebitori. Quindi dalla lettura di questo articolo sembra doversi desumere che,
nel processo avente ad oggetto le obbligazioni solidali, NON è imposta
l'emanazione di una sentenza una ed unica. D'altra parte, questa conclusione
sembra essere avvalorata anche da tutto quanto abbiamo osservato con
riferimento alla disciplina sostanziale, perché nell'esaminare il contenuto della
disciplina sostanziale abbiamo evidenziato la spiccata autonomia dispositiva e
gestionale che il legislatore accorda a ciascuno dei condebitori; abbiamo visto che
questi rapporti che intercorrono fra la parte comune e ciascuno dei condebitori
possono avere esiti diversi legati al compimento di quegli atti o fatti estintivi che
non sempre producono efficacia erga omnes, anzi spesso e volentieri nei confronti
dei condebitori non direttamente interessati producono un'efficacia diversa; allora
dobbiamo tenere conto anche che queste vicende estintive si possono verificare
nel corso del processo, e anche se si verificano nel corso del processo si dovrà
tenere conto della disciplina sostanziale dettata dal legislatore, quindi questo
conferma la considerazione secondo cui nel processo le cause che pendono fra il
comune creditore e i diversi condebitori in solido, che sono riunite nell'ambito dello
stesso processo, pur avendo ad oggetto obbligazioni che presentano una forma di
connessione molto intensa, data dall'identità della causa petendi o del petitum,
non necessariamente portano ad una sentenza una ed unica, perché questi
rapporti che corrono fra il comune creditore e ciascuno dei condebitori in solido in
effetti hanno una vita autonoma, quindi possono avere esiti diversi, e quindi la
sentenza finale potrà essere una sentenza che attribuisce a ciascuna di queste
domande un esito diverso.

La conclusione quindi è che questo processo litisconsortile non si presta ad


essere riportato nell'ambito applicativo dell'art 102, non può ritenersi una ipotesi
245
di litisconsorzio unitario, ma sarà un litisconsorzio facoltativo, facoltativo quanto
all'instaurazione, perché non è necessaria la partecipazione di tutti i condebitori
solidali al processo, ma un litisconsorzio facoltativo anche quanto alla trattazione e
decisione, perché queste cause, pur essendo riunite sotto lo stesso giudice,
potranno avere un esito diverso.

Abbiamo appena stabilito che le obbligazioni solidali danno luogo sul piano
processuale ad una forma di processo di litisconsorzio facoltativo, facoltativo
quanto alla instaurazione e facoltativo quanto alla trattazione e decisione.

Come è possibile che si formi il processo litisconsortile? Come abbiamo avuto


modo di verificare potrà formarsi ab origine, quindi laddove il comune creditore
decide di proporre la sua domanda di adempimento in via contestuale nei
confronti di due o più condebitori solidali, in applicazione dell’art 103 cpc. È
possibile che le domande siano proposte separatamente e che poi vengono
riunite, in base al disposto dell’art 274 cpc, se le cause sono proposte di fronte
allo stesso giudice, o dell’art 40 cpc, se proposte davanti a giudici diversi.

È possibile però che il processo litisconsortile si formi anche a seguito di


intervento del condebitore; questo intervento potrà essere volontario, art 105,
oppure coatto, su domanda di parte o su ordine del giudice, in applicazione degli
artt 106 e 107. Una volta che il processo litisconsortile si è formato è però
possibile per il giudice disporre la separazione di queste domande, e questa
separazione potrà avvenire sia in corso di causa, art 103.2 cpc, oppure in fase
decisoria. Stante tutto quanto abbiamo detto precedentemente è anche possibile
che, laddove le cause rimangano unite, il giudice, alla fine, emani una sentenza
che decide nel merito le più cause in maniera divergente, ad esempio
condannando uno dei condebitori e assolvendo un altro.

Nel passaggio di fronte al giudice superiore NON sarà necessaria la partecipazione


di tutti i condebitori già presenti nel precedente grado di giudizio: è pacifico che in
queste ipotesi si applichi la disciplina delle cause scindibili di cui all’art 332 cpc.

Andiamo adesso ad esaminare un ulteriore forma di connessione fra parti diverse,


ovvero la CONNESSIONE PER COMPATIBILITÀ: si tratta di una forma di
connessione per identità di petitum, quindi siamo usciti dal settore dei rapporti
plurisoggettivi.

La connessione per incompatibilità ricorre con riferimento a rapporti che sono


autonomi, quindi non sono legati da nessi di dipendenza giuridica a livello
sostanziale, e che sono incompatibili, cioè hanno lo stesso contenuto, sono relativi
allo stesso bene, ma corrono fra soggetti diversi e hanno cause petendi diverse.
L'abbiamo già esaminata nell'ambito del processo a due parti: vi ricordate che se
l'attore agisce nei confronti del convenuto affermando di essere titolare di un certo
diritto, che può essere la proprietà o un altro diritto reale di godimento, è possibile
che il convenuto a sua volta si affermi titolare di quello stesso diritto. Abbiamo
detto che nei processi a due parti i limiti oggettivi del giudicato sono concepiti in
246
maniera tale che il giudicato copre non soltanto il diritto oggetto del processo, ma
anche il diritto direttamente incompatibile appartenente al convenuto, con la
conseguenza che, una volta che il primo processo si è chiuso, supponiamo
mediante una sentenza che ha accolto la domanda dell’attore previo accertamento
dell'esistenza del suo diritto nei confronti del convenuto, il convenuto NON può
aprire un secondo e autonomo processo chiedendo a un secondo giudice di
accertare l'esistenza del suo diritto direttamente incompatibile nei confronti dello
stesso attore. Questo perché questa domanda viene impedita dall'efficacia diretta
del primo giudicato. Quindi, in ragione di ciò, abbiamo detto che se il convenuto
vuole ottenere l'accertamento del suo diritto su quello stesso bene, ha l'onere di
proporre nel primo e unico processo una domanda riconvenzionale avente ad
oggetto questo diritto.

Questa stessa forma di connessione si può presentare anche fra parti diverse, nel
senso che potrebbero essere tre o più di tre i soggetti che ritengono di essere
titolari dello stesso bene.

Un chiarimento: è assolutamente pacifico che, laddove si apra un processo fra un


attore e un convenuto con riferimento ad un certo diritto, e abbiamo un terzo che
rimane estraneo a questo processo e che ritiene di essere titolare di un diritto
incompatibile con quello oggetto del primo processo, questo terzo NON è
destinato a subire l'efficacia del giudicato, della sentenza passata in giudicato
emanata a conclusione del primo processo —> questo perché si dice che è il
diritto di difesa costituzionalmente garantito a garantire di poter ritenere che
questo terzo, che è titolare di un diritto che è autonomo e incompatibile con quello
oggetto del processo, possa subire una qualsiasi efficacia dalla sentenza resa tra
le parti. Vuol dire che questo giudicato che si forma tra le parti originarie del
processo, NON impedisce al terzo di aprire un secondo e autonomo processo nei
confronti di entrambe le parti, oppure della parte uscita vittoriosa, chiedendo ad un
secondo giudice di accertare l'esistenza del suo diritto autonomo e incompatibile.

Peraltro, come avremo modo di vedere, il terzo in questo caso usufruisce anche di
un ulteriore rimedio per affermare la sua posizione giuridica: infatti è pacifico che il
terzo possa esercitare nei confronti delle parti del primo processo un mezzo di
impugnazione straordinario, che è l'opposizione di terzo ordinaria, art 404.1
cpc, per ottenere l'annullamento della precedente sentenza e l'accertamento del
suo diritto nei confronti di entrambe le parti.

Tutto ciò premesso, appare chiaro che laddove il processo si svolga fra l'attore e il
convenuto, e il terzo rimanga estraneo, e decida poi di aprire un secondo
autonomo processo, il rischio che si apre è che a conclusione di questo secondo
processo il secondo giudice accerti che il diritto del terzo è esistente; quindi
avremo due sentenze emanate l’una a conclusione del processo che si è svolto tra
l'attore e il convenuto, e la seconda che viene emanata a conclusione del
processo che si è svolto fra il terzo e la parte uscita vittoriosa ad esito del primo
processo, che attribuiscono lo stesso diritto sullo stesso bene a due soggetti
diversi, quindi si apre il rischio che si formino due giudicati contraddittori —>

247
questo rischio è un rischio che l'ordinamento deve sopportare, non ha scelta,
perché trattandosi di diritti assoluti, per scongiurare del tutto l'eventualità che si
formino dei giudicati contraddittori, bisognerebbe far sì che tutti i processi si
svolgessero fra l'attore e tutti i consociati, opzione questa che non è percorribile.

Quindi il rischio in questo settore di giudicati praticamente contraddittori non è


eliminabile. Ora, il rischio rimane aperto, ma l'ordinamento presta una serie di
meccanismi volti ad evitare che si verifichi questo rischio, e questi meccanismi
sono in parte PREVENTIVI e in parte SUCCESSIVI.

Quelli SUCCESSIVI li abbiamo già richiamati, e si tratta dell'opposizione di terzo


ordinaria. Vediamo adesso quelli PREVENTIVI: la possibilità per scongiurare la
formazione di giudicati contraddittori è che si formi il processo litisconsortile —>
questo processo litisconsortile si può formare ab origine, quindi litisconsorzio
iniziale, art 103 cpc, è possibile cioè che sia l'attore a proporre contestualmente
nei confronti di due o più convenuti domanda di accertamento del suo diritto sul
bene; è però possibile anche che questo processo si formi in corso di causa,
attraverso la riunione di cause proposte separatamente di fronte allo stesso ufficio
giudiziario, oppure di fronte all'uffici giudiziari diversi, e quindi sarà disposta la
riunione ai sensi rispettivamente dell'art 274 o 40.

Un’ulteriore ipotesi è che il processo litisconsortile si formi a seguito dell'intervento


del terzo: questo intervento ancora una volta potrà essere un intervento
VOLONTARIO, che si distingue dalle altre ipotesi di intervento volontario -> si parla
di intervento PRINCIPALE, perché il terzo entrando propone una domanda
giudiziale nei confronti di entrambe le parti originarie del processo.

Comunque si pervenga alla formazione del processo litisconsortile, stante la


particolare forza della connessione e stante il rischio di evitare giudicati
praticamente contraddittori, si deve ritenere che questo processo litisconsortile,
che rimane facoltativo quanto all’instaurazione, sia necessario quanto alla
trattazione e alla decisione. Per cui una volta che questo processo litisconsortile si
è formato, e quindi queste domande siano arrivate di fronte allo stesso giudice, le
cause dovranno essere trattate e decise in maniera unitaria; quindi il giudice di
primo grado non potrà disporre MAI la separazione delle cause, né in fase
istruttoria né in fase decisori.

Invece, con riferimento al passaggio di fronte al giudice superiore, è possibile


immaginare che se il giudice di primo grado ha escluso l’esistenza del diritto di
una delle parti e il processo deve proseguire tra due soltanto delle parti originarie,
non con riferimento alla questione della titolarità del bene, ma su questioni
consequenziali, ad esempio su domande restitutorie che sono state proposte in
via accessoria, è possibile immaginare una semplificazione nel passaggio davanti
al giudice superiore, quindi uno dei litisconsorti presenti nel primo grado di giudizio
resti estraneo, al di fuori del processo di impugnazione.

Ancora rimaniamo nel settore della connessione per identità di petitum e


andiamo ad analizzare la CONNESSIONE PER ALTERNATIVITÀ: la connessione
248
per alternatività si può formare soltanto con riferimento a rapporti giuridici correnti
fra parti parzialmente diverse. Questa forma di connessione ricorre in tutti casi in
cui vi è una incertezza in ordine alla titolarità attiva o passiva di un certo rapporto
giuridico —> supponiamo che si verifichi un sinistro stradale, e supponiamo che il
danneggiato proponga la sua domanda di risarcimento del danno nei confronti di
due convenuti, chiedendo al giudice di accertare in via alternativa chi è il vero
responsabile. È una forma di cumulo condizionale di domande. È però anche
possibile immaginare una forma di alternatività sul lato attivo, per esempio l'attore
propone una domanda di adempimento del credito nei confronti del debitore e
questi solleva una contestazione in ordine alla titolarità attiva del rapporto,
affermando che lui è sì debitore, ma non nei confronti dell'attore, bensì nei
confronti di un soggetto terzo. Si tratta anche in questo caso di una forma di
connessione molto intensa, e per questo motivo il legislatore favorisce la
formazione del processo cumulativo; anche in questo caso il processo di
litisconsortile si può formare attraverso istituti diversi: è possibile che si formi in via
originaria, quindi, riprendendo l'esempio del sinistro stradale, è possibile
immaginare che l'attore chieda al giudice fin da subito di accertare chi è il titolare
del rapporto sul lato passivo, l'uno o l'altro dei convenuti.

Ma è possibile anche che il processo litisconsortile si formi in corso di causa: per


esempio, proposta una domanda dall’attore nei confronti del convenuto a fronte di
una contestazione sulla titolarità attiva o passiva del rapporto, di una delle parti
originarie, l'altra parte decida di chiamare in causa il terzo —> per esempio se
l'attore propone una domanda di responsabilità extracontrattuale nei confronti del
convenuto, il convenuto eccepisca di non essere lui il responsabile del sinistro
stradale indicando un terzo come vero responsabile, l'ordinamento consente
all'attore di chiamare in causa questo terzo, affinché il giudice accerti chi sia
l’effettivo responsabile.

Quindi è possibile che il processo litisconsortile si formi in corso di causa a seguito


di intervento del terzo, e vedremo poi che taluni ammettono che anche il giudice
possa ordinare la chiamata in causa del terzo in queste particolari ipotesi.
Comunque sia, laddove il processo litisconsortile si formi, diciamo che in
considerazione di quanto abbiamo osservato, sicuramente è un litisconsorzio
facoltativo quanto all'instaurazione, quanto alla trattazione e alla decisione si
ritiene che si tratti di un ulteriore forma di litisconsorzio cosiddetto unitario —> si
ritiene cioè che almeno in primo grado il giudice non possa disporre la separazione
delle domande, né in fase istruttoria né in fase decisoria. Infatti, anche in queste
ipotesi, trattandosi di una forma di connessione molto intensa, il rischio, a seguito
della eventuale separazione delle cause, è che le due domande sortiscano un esito
incompatibile, nel senso che, i due giudici che trattano le due domande,
potrebbero arrivare a conclusioni analoghe e per questo non compatibili: per
esempio, i due giudici potrebbero accertare ciascuno la responsabilità di un
convenuto diverso, quindi avremmo una situazione difficilmente sostenibile per
l'ordinamento, perché avremmo due sentenze che con riferimento allo stesso
sinistro stradale affermano la responsabilità esclusiva di due soggetti diversi.

249
Così come è possibile che i due giudici neghino entrambi la responsabilità dei due
convenuti. Quindi sarebbero risultati effettivamente difficili da sostenere per
l'ordinamento. Quindi, una volta che il processo litisconsortile si è formato non è
possibile che venga meno.

Anche però con riferimento a questa particolare ipotesi, si ritiene che nel
passaggio dal giudice inferiore al giudice superiore, se la questione della titolarità
del rapporto è stata risolta e il processo prosegue solo con riferimento a domande
consequenziali, domande per esempio relative alla quantificazione
dell'obbligazione, la parte risultata totalmente estranea alla vicenda possa NON
prendere parte al processo di impugnazione, e che quindi si abbia una
SEMPLIFICAZIONE nel passaggio di fronte al giudice superiore.

250
Lezione 15 - 30/04/20
Proseguendo nell'analisi delle forme di connessione che possono intercorrere tra
parti diverse. Andiamo adesso ad esaminare la connessione per pregiudizialità
di pregiudizialità-dipendenza.
Si ha pregiudizialità dipendenza ogni volta che un rapporto giuridico ha rilievo di
elemento costitutivo modificativo estintivo e impeditivo di un rapporto ulteriore. Il
primo rapporto è detto rapporto pregiudiziale o rapporto principale. Mentre il
secondo è chiamato il rapporto dipendente.

Questa forma di connessione si può manifestare anche tra parti diverse. Questo si
ha quando rispettivamente il rapporto pregiudiziale e il rapporto dipendente
pendolo fra parti parzialmente diverse. Quindi abbiamo tre soggetti che sono
implicati nei rapporti in gioco e uno di questi soggetti è titolare di entrambi i
rapporti. Nell'ambito delle forme di connessione tra parti diverse la pregiudizialità-
dipendenza genera enormi complicazioni e la individuazione delle regole di
svolgimento del processo è veramente complessa.

Lo schema della pregiudizialità dipendenza si può manifestare in settori diversi nei


rapporti tra più parti.

Cominciamo dall'analisi del settore più importante la cosiddetta GARANZIA


PROCESSUALE.

Intanto una premessa di tipo terminologico. Più volte ci è capitato di richiamare


l'attenzione sulla povertà del linguaggio giuridico italiano, è capitato infatti di
sottolineare come nel nostro linguaggio giuridico lo stesso termine viene utilizzato
per indicare istituti diversi.

Il termine garanzia è un termine che sicuramente avete incontrato anche nello


studio del diritto civile, col termine garanzia si indicano istituti che hanno una
funzione particolare che è quella di rafforzare la posizione del creditore. Anche nel
nostro corso abbiamo avuto modo di richiamare le diverse forme di garanzia
previste a livello sostanziale: le garanzie reali, tipo l’ipoteca o il pegno; le garanzie
personali tipo la fideiussione, quindi sono istituti piuttosto eterogenei ma che
assolvono ad una funzione unitaria.

Anche nell'ordinamento processuale esiste la garanzia, la garanzia processuale. Si


tratta di vedere se anche la garanzia processuale assolve alla stessa funzione delle
garanzie sostanziali. (Su questo magari torniamo a conclusione dell’argomento). Il
punto però da chiarire per evitare pericolosissimi equivoci è che la garanzia
processuale non si sovrappone alle garanzie sostanziali, se non in minimissima
parte (anche lì dovremmo fare delle importanti precisazioni), quindi si tratta di un
istituto completamente diverso.

Allora, la GARANZIA PROCESSUALE rinviene la propria previsione più importante


nell'articolo 106 del codice di procedura civile. Si occupa dell' intervento su
istanza di parte. (Noi non ci siamo occupati ancora degli interventi ce ne

251
occuperemo in una delle prossime elezioni, ma fra le ipotesi di intervento su
istanza di parte vi è la chiamata in garanzia).

L’intervento su istanza di parte che cos'è? è un istituto che consente a ciascuna


delle parti originarie del processo di proporre una domanda giudiziale nei confronti
di un terzo. Si ha quindi la chiamata in causa di un terzo. Questa chiamata in
causa determina sicuramente un ampliamento in senso soggettivo del processo,
talvolta implica altresì un ampliamento in senso oggettivo, perché nei confronti del
terzo viene proposta una vera e propria domanda giudiziale, quindi si ha la
deduzione di fronte al giudice, di un rapporto giuridico ulteriore rispetto all'oggetto
originario del processo.

Leggiamo l’articolo 106, ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al
quale ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita. La garanzia
processuale è contemplata nel ultimissima parte di questo periodo la dove si parla
della chiamata del terzo dal quale pretende di essere garantita.

Diciamo subito che questa forma di connessione per pregiudizialità dipendenza


che è la garanzia processuale. Non passa solo e soltanto attraverso l'articolo 106.
Nel senso che il cumulo della domanda principale e della domanda di garanzia di
fronte allo stesso giudice può, non è molto, ma sicuramente può formarsi anche a
seguito di proposizione contestuale quindi in limine litis delle due domande di
fronte allo stesso giudice. Cerchiamo di spiegare meglio.

Nell'ipotesi contemplata dall'articolo 106. La sequenza è la seguente: l'attore


agisce nei confronti del convenuto, quindi propone una domanda giudiziale nei
confronti del convenuto che è il cosiddetto garantito, > il convenuto a sua volta
chiama in causa un terzo che assume la posizione di garante > proponendo nei
suoi confronti una ulteriore domanda giudiziale. Questa è la sequenza ordinaria.

Non è escluso, anche se vi dicevo che le ipotesi sono sicuramente numericamente


più ridotte, che il processo venga instaurato dal garantito che contestualmente
propone una domanda nei confronti, diciamo di un soggetto e contestualmente un
ulteriore domanda che è la domanda di garanzia nei confronti del garante. Ma
attenzione, il GARANTE che come avrete capito, è titolare di un rapporto
giuridicamente dipendente, quindi è titolare sul lato passivo del rapporto
dipendente, può entrare nel processo avente ad oggetto il rapporto principale
anche attraverso altre strade. Perché intanto è possibile che il garantito, che è il
nostro convenuto, lo chiami in causa senza proporre domanda di garanzia, cioè lo
chiami in causa per comunanza di causa (passando attraverso la previsione
contenuta nella prima parte dell'articolo 106, lo vedremo meglio successivamente)
quindi soltanto per renderlo soggetto agli effetti della sentenza che sarà resa sul
rapporto principale ma senza dedurre in giudizio il rapporto di garanzia. Quindi
attraverso la chiamata in causa per comunanza di causa del garante, si avrà un
ampliamento in senso soggettivo del processo perché il garante entra, ma non
anche oggettivo.

252
E’ altresì ammesso che il garante nella qualità di titolare di un rapporto
giuridicamente dipendente, entri nel processo altrui volontariamente quindi
esperendo il cosiddetto intervento adesivo dipendente di cui all'articolo 105
secondo comma, (anche successivamente).

Ci sono ulteriori disposizioni che si occupano della chiamata in garanzia, in


particolare queste disposizioni sono l'articolo 32 e art 108 del codice di procedura
civile.

- L’articolo 32, come vedete. Si colloca fra quelle disposizioni che per
favorire il culo contemplano deroga ai criteri originari di competenza. Prevede che
la domanda di garanzia può essere proposta al giudice competente per la causa
principale affinché sia decisa nello stesso processo, qualora essa ecceda la
competenza per valore del giudice adito, questi rimette entrambe le cause al
giudice superiore assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione.
Vedete che l’articolo 32 per facilitare il cumulo della domanda principale e la
domanda di garanzia, acconsente alla deroga ai criteri originari di competenza. Qui
si fa riferimento in maniera espressa alla competenza per valore ma torneremo
successivamente sull'esatto significato dell'articolo 32 che come potete
immaginare va coordinato con le altre disposizioni che si occupano della
competenza per motivi di connessione segnatamente l'articolo 40 su cui abbiamo
già lavorato nel primo semestre.

- L'altra disposizione è l'articolo 108. Contempla un istituto particolare.


Ovvero la cosiddetta estromissione del garantito. = è un istituto che opera
nell'ambito dei processi a più parti. Abbiamo diverse forme di estromissione nel
nostro ordinamento: accanto all'articolo 108 dedicato all’estromissione del
garantito, c’e’ anche l'articolo 109 che si occupa della estromissione dell'obbligato
e poi l'articolo 111 che si occupa della estromissione in tema di successione a
titolo particolare nel diritto controverso. L'estromissione è sempre un istituto per il
cui tramite quella che è un parte del processo può uscire dal processo, quindi
colui che parte esce dal processo perdendo la qualità di parte. L'articolo 108, in
particolare prevede che se il garantito comparisce e accetta di assumere la causa
in luogo del garantito, questi può chiedere, qualora le altre parti non si oppongono,
la propria estromissione. Questa è disposta dal giudice con ordinanza ma la
sentenza di merito pronunciata nel giudizio spiega i suoi effetti anche contro
l’estromesso. (Avremo modo di tornare successivamente sull'esatto significato di
questa norma).

Torniamo alla chiamata in garanzia. Le fattispecie che sono ricondotte alla


chiamata in garanzia, sono molto numerose e soprattutto sono molte eterogenee
sul piano del diritto sostanziale.

Prima di passarle in rassegna è opportuno però richiamare l'attenzione sul comune


denominatore, diciamo di tutte queste fattispecie. Possiamo dire fin da subito,
infatti che la chiamata in garanzia, e soprattutto le fattispecie sottese a questa

253
chiamata in garanzia, svolge una funzione di tipo economico. Nel senso che
attraverso la chiamata in garanzia colui che diciamo riveste la qualità di attore,
quindi il nostro garantito, vuole riversare sul convenuto, che è il garante, le
conseguenze economiche negative, quindi la diminuzione patrimoniale o
economica che gli derivano dalla soccombenza nella controversia principale.
Quindi la funzione della chiamata in garanzia è sempre quella di riversare sul
garante, di far sopportare al garante le perdite patrimoniali o economiche che
derivano al garantito dalla soccombenza nella causa principale.

Detto questo; le fattispecie che sono per tradizione ricondotte a questa figura
sono veramente eterogenee sul piano sostanziale.

Generalmente, secondo quella che è l’interpretazione preferibile, si individuano


quattro diversi gruppi di fattispecie

1. la garanzia per evizione

2. la fideiussione e più in generale le obbligazioni solidali ad interesse


unisoggettivo

3. l’assicurazione contro la responsabilità civile

4. le vendite e catena.

1 Cominciamo dall'analisi della GARANZIA PER EVIZIONE.

È il prototipo diciamo della fattispecie che danno luogo alla chiamata in garanzia,
anche perché sul piano storico è proprio sulla garanzia di evizione che è nata la
chiamata in garanzia che rinviene le proprie origini in un istituto dell'ordinamento
romano ovvero la litis denuntiatio.

Che cos'è la garanzia per evizione? E’ una clausola naturale del contratto di
compravendita. Se andiamo ad esaminare le norme relative alla compravendita,
noi ritroviamo la garanzia per evizione all’articolo 1476 che si occupa delle
obbligazioni del venditore. Prendiamo la norma e leggiamo: le obbligazioni
principali del venditore sono: uno quella di consegnare la cosa al compratore; due
quella di fargli acquistare la proprietà della cosa o il diritto se l’acquisto non è
effetto immediato del contratto; tre quella di garantire il compratore dall'evizione e
dai vizi della cosa. Prima di spiegare il contenuto facciamo un passo indietro.

Che cos'è la COMPRAVENDITA? Nell'ordinamento italiano il contratto di


compravendita è un contratto che rientra nella famiglia dei contratti sinallagmatici.
L'effetto più importante del contratto di compravendita è l'effetto traslativo,
l'effetto, cioè di trasferimento della proprietà del bene. Come sapete, l'effetto
traslativo si produce nel momento stesso in cui si forma il consenso tra le parti,
quindi non è l'oggetto di un obbligazione in senso tecnico perché l'effetto
traslativo si produce immediatamente.

Ci sono peraltro delle eccezioni. La più importante è sicuramente la vendita di


cosa altrui. Quando il venditore vende un bene che non gli appartiene, assume
l’obbligo di procurare l’acquisto al compratore, allora in questo caso l'effetto
traslativo è oggetto di un'obbligazione in senso tecnico.

254
(In altri ordinamenti la compravendita ha generalmente effetti solo obbligatori, per
esempio in Germania, il venditore si obbliga a trasferire la proprietà del bene
quindi l’effetto trasferimento non si produce immediatamente ma a seguito del
compimento di un atto successivo.

A fronte dell’effetto traslativo la prestazione legata con un vincolo sinallagmatico,


che cos'è è? E’ l’obbligo di pagamento del prezzo. Questa volta si tratta di
un'obbligazione in senso tecnico.

Queste sono le prestazioni diciamo sinallagmatiche. Accanto a queste due


abbiamo una serie ulteriore di effetti che sono effetti accessori. Il più importante è
l'obbligo di consegna del bene che grava sul venditore.

Se questa è la premessa, allora possiamo tranquillamente dire che: nonostante il


numero 3 dell’art 1476 annoveri la garanzia per evizione, ma anche la garanzia per
i vizi, tra gli obblighi del venditore, questa terminologia è del tutto impropria,
perché non si tratta di obbligazioni in senso tecnico ma si tratta di due forme di
responsabilità contrattuale del venditore.

Abbiamo appena affermato che la garanzia per evizione non è un'obbligazione in


senso tecnico, ma è una forma di responsabilità contrattuale Vediamo di chiarire
questa affermazione.

Il presupposto della garanzia per evizione è l'EVIZIONE DEL COMPRATORE.

Che cos'è l'evizione del compratore? E’ un fatto giuridico che implica


l'accertamento definitivo della titolarità del bene in capo ad un soggetto terzo
rispetto a compratore e venditore.

La evizione si può compiere in modi diversi. L'ipotesi su cui è nato storicamente


questo Istituto è il caso in cui il terzo agisce in rivendica nei confronti del
compratore, la domanda viene accolta e quindi abbiamo una sentenza che passa
in giudicato, che contiene l’accertamento di esistenza del diritto del terzo e la
condanna del compratore alla restituzione o comunque alla consegna o rilascio del
bene. Quindi la prima forma evizione è la sentenza passata in giudicato che
accerta il diritto del terzo sul bene compravenduto ordinato poi la consegna o il
rilascio. Questo è il prototipo dell'edizione che però ho detto si può conseguire
anche attraverso altri tipi di fatti che comportano sempre l'accertamento definitivo
del diritto del terzo. Per esempio si può avere evizione anche se è il compratore a
riconoscere spontaneamente il diritto del terzo.

In tutti i casi in cui il compratore subisce l’evizione questi, stante il disposto dell’art
1483 c.c. ha diritto di rivolgersi al proprio venditore e pretendere la prestazione di
garanzia.

Qual’e’ il contenuto della prestazione di garanzia? E’ la risoluzione del contratto


di compravendita, la restituzione del prezzo e delle spese sostenute, oltre al
risarcimento del danno. Questa è la garanzia per evizione.

Proprio sulla base della considerazione della vicenda e del contenuto di questa
azione che possiamo ritenere che si tratti di una forma di responsabilità
255
contrattuale per inadempimento. L’EVIZIONE infatti, che è il presupposto di questo
diritto del compratore non è altro (abbiamo detto) che l'accertamento di esistenza
del diritto del terzo sul bene compravenduto. Questo vale a configurare
l'inadempimento del venditore perché? Perché il venditore, laddove il compratore
subisce l'evizione, evidentemente si è reso inadempiente rispetto al suo ‘’obbligo’’
più importante (non in senso tecnico) perché non si è verificato il principale effetto
della compravendita, ovvero l'effetto traslativo. Quindi l'accertamento definitivo di
esistenza del diritto del terzo sul bene compravenduto, fa si che si possa ritenere
che l'effetto traslativo non si è verificato. Quindi una delle prestazioni dirimpettaie
del sinallagma evidentemente viene meno. > E la garanzia per evizione non è altro
che lo strumento di reazione che l'ordinamento mette a disposizione del
compratore.

Anche il contenuto conferma la natura di responsabilità contrattuale perché vi ho


detto che il principale effetto della garanzia per evizione è la risoluzione del
contratto. (Il termine risoluzione, non lo trovate direttamente nell'articolo 1483 che
parla semplicemente del risarcimento del danno e della restituzione del prezzo,
ma, che la risoluzione sia il principale effetto della garanzia per evizione è pacifico
e lo si ricava dalla disciplina della vendita di cosa altrui, dall'articolo 1478).

Abbiamo detto è un mezzo di tutela del compratore, una reazione


all'inadempimento del venditore ed è per questo che prima vi ho detto che è
improprio l'espressione utilizzata dalla articolo 1476 la dove la annovera fra gli
obblighi del venditore.

Com'è che la garanzia per evizione può dar luogo alla chiamata in garanzia?
L'ipotesi più semplice è quella in cui il terzo, che ritiene di essere il proprietario del
bene, agisce in rivendica nei confronti del compratore affermandosi proprietario
del bene e chiedendo al giudice di condannare il convenuto alla consegna o al
rilascio. Il compratore che è il convenuto di questa domanda può esercitare la
chiamata in garanzia esercitando l'azione di garanzia per evizione nei confronti del
venditore. Quindi nel momento in cui chiama in garanzia il venditore, il compratore
domandera’: la risoluzione del contratto, la condanna al pagamento delle spese
del prezzo degli interessi, ed eventualmente il risarcimento del danno. Se così è
appare evidente la funzione economica svolta dalla chiamata in garanzia, perché
nel momento in cui il compratore (=convenuto) rimane soccombente nei confronti
dell'attore (=terzo rivendicante), evidentemente il compratore subisce una perdita
derivante dal fatto che quel bene di cui riteneva essere proprietario in verità risulta
non far parte del suo patrimonio. Attraverso l’azione di garanzia per evizione il
compratore vuole recuperare la perdita economica che ha subito riversando sul
venditore le conseguenze economiche negative che derivano o che potrebbe
subire laddove la domanda dell'attore venisse accolta.

Questo istituto, è bene precisare, non si applica soltanto alla compravendita


perché questa disciplina, per espressa previsione normativa, viene estesa anche
ad altre forme contrattuali, per esempio: in materia di divisione ereditaria articoli
256
758 e 759 c.c., ad esempio in tema di donazione articolo 797 del codice civile, in
tema di divisione articolo 1116 del codice civile, in tema di vendita del credito art
1266 c.c., in tema di vendita di eredità articolo 1542 del codice civile, in tema di
permuta articolo 1555 c.c.

Questo è il primo settore. Quindi il settore della garanzia per evizione.

2 Il secondo settore, come vi ho detto, è quello delle obbligazioni solidali ad


interesse unisoggettivo il prototipo è la FIDEIUSSIONE.

Allora abbiamo visto che la fideiussione appunto come esempio di obbligazione


solidale ad interesse unisoggettivo è una forma, è una fattispecie che interessa tre
soggetti: il creditore, il debitore, e il fideiussore. Abbiamo visto che a seguito della
concessione della fideiussione, della stipula del contratto, il fideiussore si obbliga
direttamente nei confronti del creditore che quindi, in base alla nozione di
solidarietà (su cui ci siamo soffermati a suo tempo con l’art 1292 c.c.) potrà
pretendere l’adempimento del proprio diritto non solo dal debitore originario ma
anche direttamente dal fideiussore. La solidarietà però in questo caso è contratta
nell'interesse di uno solo dei debitori che in questo caso è il debitore principale.
Per cui abbiamo già detto che nel momento in cui è il fideiussore ad estinguere
l'obbligazione, ha diritto di rivolgersi al debitore per ottenere la restituzione di
quanto ha pagato perché nella solidarietà a interesse soggettivo, nei rapporti
interni il peso delle obbligazioni si riversa solo sulla parte nel cui interesse è stato
contratto il vincolo e non si divide in parti uguali, così come avviene nella
solidarietà ad interesse comune.

Allora tornando alla alla fideiussione, cerchiamo di mettere a fuoco meglio i


rapporti interni tra fideiussore e debitore originario perché sono proprio i rapporti
interni che rilevano ai fini della chiamata in garanzia.

L'articolo 1944 del codice civile, afferma che il fideiussore è obbligato in solido col
debitore principale al pagamento del debito, questo punto come avevo già
ricordato fa si che il creditore abbia di fronte a sé più scelte: il creditore può
scegliere di agire direttamente nei confronti del debitore originario; può scegliere di
agire contestualmente nei confronti del debitore originario e del fideiussore; può
rivolgersi direttamente al fideiussore cosa che sarà molto comune perché di solito
è una parte piu solvibile.

I rapporti interni tra fideiussore e debitore originario sono regolati dagli articoli
1949 e seguenti del c.c.

L'articolo 1949 prevede che il fideiussore che ha pagato il debito è surrogato nei
diritti che il creditore aveva contro il debitore. La norma successiva, l'articolo 1950
aggiunge che il fideiussore che ha pagato ha regresso contro Il debitore principale,
benché questi non fosse consapevole della prestata fideiussione. Allora come
vedete in base alla lettura di queste due disposizioni, possiamo ritenere che il
fideiussore che ha pagato ha di fronte a sé una duplice possibilità per recuperare
257
dal debitore originario quanto ha pagato. Una è la surrogazione nei diritti del
creditore, è l'ipotesi contemplata nell'articolo 1949; l'altra è l'azione di cui
all'articolo 1950.

L'azione che a noi interessa ai fini della chiamata in garanzia è l'azione di


regresso di cui all'art. 1950. L’articolo prevede nel dettaglio che il fideiussore che
ha pagato ha regresso contro il debitore principale benché questi non fosse
consapevole della prestata fideiussione. L'azione di regresso è un'azione personale
del fideiussore, quindi nell'ipotesi di cui all'articolo 1950 il fideiussore non si
surroga al creditore, non esercita nei confronti del debitore l'azione, non fa valere il
diritto già spettante al creditore ma è un'azione personale e come vedete, perché
risulta molto chiaramente dal testo dell'articolo 1950, questa azione ha come
presupposto l'avvenuto pagamento del creditore. Solo dopo aver pagato il
fideiussore può rivolgersi al debitore principale e chiedergli la restituzione di
quanto ha pagato oltre agli interessi e alle spese.

Torniamo alla chiamata in garanzia. Qual è diciamo lo scenario che si prospetta?


Interessa il caso in cui il creditore agisce direttamente nei confronti del fideiussore.
Il fideiussore è legittimato a chiamare in garanzia il debitore originario facendo
valere, proponendo la sua personale azione di regresso.

Quindi sul piano processuale (questo è un profilo su cui bisogna veramente fare
attenzione) siccome è il fideiussore che chiama in garanzia il debitore originario, il
fideiussore svolge il ruolo di garantito, mentre il debitore originario svolge il ruolo di
garante. Quindi vedete che mentre sul piano sostanziale, è il debitore ad essere
garantito e il fideiussore è il garante, perché la fideiussione è una forma di garanzia
personale, sul piano processuale le posizioni sono ribaltate. E’ il fideiussore il
soggetto garantito colui che esercita la chiamata in garanzia, mentre il debitore
principale è il soggetto garante.

Ricordatevi che nell'ipotesi della fideiussione siamo di fronte ad una forma di


connessione per pregiudizialità dipendenza molto particolare, lo abbiamo già
ricordato, si tratta di una pregiudizialità-dipendenza bilaterale, sicuramente il
rapporto tra creditore e fideiussore è pregiudiziale rispetto al rapporto di regresso
che lega il fideiussore al debitore originario, ma ricordiamoci sempre che rispetto
al rapporto tra creditore originario e fideiussore è pregiudiziale il rapporto di credito
debito originario che corre fra il creditore e il debitore originario.

La fideiussione l'ho già ricordato, è il prototipo delle obbligazioni solidali ad


interesse unisoggettivo, in questa categoria rientrano anche altre fattispecie. Ad
esempio: la responsabilità dei padroni e committenti di cui all'articolo 2049; od
anche la responsabilità del proprietario del conducente del veicolo di cui all’art.
2054 c.c.. Anche in queste ipotesi è possibile che ove il danneggiato agisca nei
confronti del padrone committente oppure del proprietario del veicolo questi
possano chiamare in garanzia direttamente il dipendente connesso oppure il
conducente

258
Un'ultima notazione prima di andare avanti. La chiamata in garanzia, non è mai
obbligatoria, è una facoltà che l'ordinamento accorda al garantito. Quindi non
siamo in un'ipotesi di litisconsorzio necessario d'accordo. Quindi il garantito non è
obbligato a chiamare in garanzia il garante ma diciamo è una facoltà che
l’ordinamento gli offre. Quindi niente toglie che il convenuto garantito preferisca
attendere la conclusione del processo, che lo vede opposto all'attore principale,
per agire nei confronti del proprio garante.

E’ opportuno però mettere subito in evidenza che se questa è la scelta del


garantito, questi si espone al rischio di non ottenere la prestazione di garanzia
perché questo è lo scenario che si delinea in virtù di alcune disposizioni che
entrano in gioco con riferimento alle fattispecie che abbiamo appena delineato e
che si occupano di un tema (su cui ci soffermeremo prossimamente), ovvero
quello dei limiti soggettivi del giudicato. Il problema relativo al se, la sentenza resa
sul rapporto pregiudiziale possa produrre efficacia riflessa nei confronti del terzo
che è titolare del rapporto giuridicamente dipendente, ove questi abbia preso
parte al processo a conclusione del quale è stata pronunciata la sentenza.

Vediamole queste disposizioni; la garanzia per evizione. Supponiamo che il


compratore decida di attendere l'esito del processo che nei suoi confronti ha
aperto il rivendicante per rivolgersi al proprio venditore e chiedere la prestazione
della garanzia.

Con riferimento a questa particolare ipotesi l'articolo 1485 afferma che il


compratore convenuto da un terzo che pretende di avere diritti sulla cosa venduta
deve chiamare in causa il venditore ed è questa la chiamata in garanzia. E qualora
non lo faccia e sia condannato con sentenza passata in giudicato, perde il diritto
alla garanzia se il venditore prova che esistevano ragioni sufficienti per fare
respingere la domanda.

Seconda parte

A conclusione della precedente sezione stavo cercando di evidenziare che per il


compratore la chiamata in garanzia del venditore è una facoltà e non un obbligo.
Infatti, sicuramente il compratore può decidere di aspettare di vedere l’esito del
processo aperto dall’attore nei suoi confronti, dal rivendicante nei suoi confronti, e
nell’ipotesi in cui risulta soccombente, una volta che la sentenza è passata in
giudicato, potrà rivolgersi al proprio venditore e pretendere la garanzia per
evizione, quindi chiedere la risoluzione del contratto in base a quanto previsto
all’articolo 1479 cc, oltre alla restituzione del prezzo, delle spese e degli interessi
ed eventualmente il risarcimento del danno così come previsto nell’articolo 1483
cc. Nel momento in cui nel secondo processo il compratore eserciterà l’azione di
garanzia nei confronti del proprio venditore, in base al disposto dell’articolo 1485
cc, il compratore perde il diritto alla garanzia se il venditore prova che esistevano

259
ragioni sufficienti per far respingere la domanda. Come vi ho detto questa è una
norma che affronta un tema su cui avremo modo di soffermarci prossimamente,
quello dei limiti soggettivi del giudicato. L’esistenza del diritto del terzo sul bene è
il presupposto dell’azione di garanzia, quindi l’esistenza del diritto del terzo
accertato in maniera definitiva è fatto costitutivo del diritto alla garanzia, quindi è
rapporto pregiudiziale. Ora, la sentenza resa fra attore e compratore e passata in
giudicato cristallizza l’esistenza e il modo di essere del diritto del terzo. Si tratta di
vedere se questa sentenza possa esplicare efficacia riflessa nell’ambito del
secondo processo aperto dal compratore nei confronti del venditore e avente ad
oggetto il diritto dipendente di garanzia. Questi temi li abbiamo affrontati nei
processi a due parti e in quell’occasione non ci siamo posti grossi problemi.
Abbiamo parlato dell’efficacia diretta e dell’efficacia riflessa del giudicato.
Nell’ambito dei rapporti che corrono fra parti diverse si pone un problema nuovo e
molto importante, quello di garantire il diritto di difesa del terzo. Il rapporto
dipendente corre fra una delle parti del rapporto principale e un soggetto terzo che
per definizione non ha preso parte al processo, ad esito del quale è stata emanata
la sentenza ora coperta dall’autorità della cosa giudicata. Vedremo che è un tema
estremamente complesso. La garanzia per evizione è una delle ipotesi in cui il
legislatore risolve a livello normativo la questione della efficacia riflessa o meno del
giudicato reso inter partes nei confronti del terzo titolare di un rapporto
giuridicamente dipendente e sceglie una regola di efficacia debole, perché offre al
venditore, che è il terzo titolare del rapporto giuridicamente dipendente, la
possibilità di provare che esistevano ragioni sufficienti per far respingere la
domanda, quindi la possibilità di provare l’ingiustizia della prima sentenza.
Naturalmente la difesa del venditore avrà come unico scopo quello di provocare il
rigetto della domanda di garanzia proposta nei suoi confronti. Quindi,
l’accertamento dell’esistenza e del modo di essere del rapporto pregiudiziale
chiesto dal venditore sarà un accertamento incidenter tantum, richiesto solo per
vincere nella causa proposta dal compratore nei suoi confronti. Nel rapporto fra
l’attore e il compratore rimane fermo il giudicato che si è già formato.

Anche con riferimento alla fideiussione possiamo fare la stessa riflessione. Il


fideiussore non ha l’obbligo di chiamare subito in garanzia il debitore originario,
libero di aspettare l’esito del processo che il creditore ha instaurato nei suoi
confronti e poi rivolgersi al debitore per chiedere la prestazione della garanzia, che
in questo caso consiste nell’esercizio dell’azione di regresso. Ma anche in questa
ipotesi il fideiussore si espone ad un rischio perché la fideiussione è una
obbligazione solidale, anche se si tratta di una forma di solidarietà ad interesse
unisoggettivo, quindi vale il diposto dell’articolo 1306 cc, per cui se ad esito del
processo aperto dal creditore nei confronti del fideiussore la domanda del
creditore viene rigettata abbiamo una sentenza che produce un effetto favorevole
e che quindi potrà essere invocata anche dal debitore principale, che è un co-
obbligato solidale; al contrario, se il fideiussore risulta soccombente, quindi se ad
esito del processo viene emanata una sentenza che lo condanna all’adempimento
e questa sentenza passa in giudicato, si tratta di un giudicato sfavorevole al co-
260
obbligato solidale e, in base al disposto dell’articolo 1306 cc, non potrà essere
opposta al debitore originario che è rimasto estraneo al processo e che è un co-
obbligato solidale. Allora vuole dire che nel momento in cui il fideiussore in un
secondo e autonomo processo agirà nei confronti del debitore originario
esercitando l’azione di regresso, il debitore originario, a sua volta, potrà contestare
l’esistenza e il modo di essere del rapporto pregiudiziale. Ricordiamo che in questa
particolare ipotesi ricorre una forma di pregiudizialità-dipendenza bilaterale per cui
il debitore potrà contestare l’esistenza e il modo di essere non solo e non tanto del
rapporto fra il creditore e il fideiussore, quanto l’esistenza e il modo di essere del
rapporto debito-credito originario di cui lui stesso è titolare.

Quindi vuoi il compratore vuoi il fideiussore, che a livello processuale rivestono il


ruolo di garantiti, non hanno l’obbligo di chiamare in garanzia rispettivamente il
venditore e il debitore originario, ma hanno l’onere di farlo perché se non lo fanno
rischiano di andare incontro ad un risultato sfavorevole.

Passiamo ad analizzare il terzo gruppo di ipotesi. Abbiamo richiamato l’ipotesi


della assicurazione contro la responsabilità civile. Ho richiamato questa ipotesi per
comodità, perché è il prototipo di questo terzo gruppo di fattispecie. In verità, se
vogliamo offrire una definizione più generale possiamo dire che in questo terzo
gruppo ritroviamo una serie di ipotesi in cui la garanzia dovuta dal terzo obbligato,
in base alla legge o in base al contratto, riguarda un terzo che, appunto per legge
o per contratto, deve tenere indenne il convenuto originario per una responsabilità
dovuta ad un fatto dello stesso convenuto. Il prototipo è la assicurazione contro la
responsabilità civile, peraltro con una limitazione molto importante, cioè con
l’esclusione dell’assicurazione relativa alla responsabilità derivante dalla
circolazione di veicoli e natanti. Con riferimento a questa fattispecie il nostro
ordinamento prevede, possimao dire da sempre, l’azione diretta del danneggiato
nei confronti della compagnia assicurativa, per cui si tratta di una ipotesi di azione
diretta. In base alla legge attualmente vigente il danneggiato agisce nei confronti
della compagnia assicuratrice e il conducente danneggiante è litisconsorte
necessario (abbiamo richiamato questa fattispecie a proposito del litisconsorzio
necessario). Esclusa questa particolare ipotesi, in tutti gli altri casi di assicurazione
contro la responsabilità civile - pensiamo ai contratti di assicurazione stipulati da
professionisti, come avvocati o medici, per i danni che possono provocare
nell’esercizio della propria attività lavorativa - questa azione diretta non esiste, per
cui se l’assicurato provoca un danno, il danneggiato chiederà il risarcimento dei
danni direttamente al danneggiante assicurato, il quale potrà, se l’illecito rientra nel
rischio assicurato, rivolgersi alla propria compagnia assicuratrice esercitando la
cosiddetta azione di leva, cioè pretendendo la restituzione di quanto ha dovuto
corrispondere nei confronti del danneggiato.

La disciplina generale la ritroviamo all’articolo 1917 cc. L’azione di manleva svolge


una funzione economia perché attraverso la stessa il danneggiante assicurato non
fa altro che rivolgersi alla assicurazione per ottenere la restituzione di quanto ha
dovuto corrispondere al danneggiato a seguito dell’accoglimento dell’azione
risarcitoria. Lo stesso schema dell’assicurazione contro la responsabilità civile
261
ricorre anche in altre fattispecie, per esempio nell’ambito del mandato senza
rappresentanza.

Arriviamo al quarto gruppo di fattispecie. Ho richiamato per motivi di


semplificazione la garanzia per i vizi, ma questo è solo il prototipo di un gruppo più
ampio che comprende la garanzia dovuta dal terzo obbligato per contratto a
tenere indenne il convenuto originario per una responsabilità dipendente da fatto
materiale del terzo, o comunque di cui il terzo deve immediatamente rispondere e
non del convenuto originario. Questo segna la distanza fra questo gruppo di
fattispecie e le fattispecie rientranti nel gruppo precedente. L’esempio tipico ricorre
nelle cosiddette vendite “a catena” e in particolare laddove si pone un problema di
garanzia per i vizi. Le vendite a catena sono contratti stipulati l’uno di
conseguenza all’altro, quindi sono contratti in via consequenziale. Pensiamo al
caso in cui lo stesso bene, lo stesso oggetto, viene venduto dal produttore al
grossista, dal grossista al dettagliante, dal dettagliante al consumatore. È uno
schema piuttosto ricorrente che comprende tutti i contratti stipulati in via
subordinata, i cosiddetti sub-contratti. Pensate a contratti di trasporto, o di
appalto, si tratta di un gruppo piuttosto nutrito di fattispecie. Prendiamo in esame
l’ipotesi delle vendite a catena che costituisce il caso classico di questo ultimo
gruppo. Lasciamo perdere tutta la disciplina relativa alla responsabilità del
produttore, che consente al consumatore di rivolgersi direttamente al produttore
per chiedere il ristoro dei danni subiti laddove il bene sia viziato. L’azione del
consumatore direttamente nei confronti del produttore è una azione di tipo
extracontrattuale perché non esiste un rapporto contrattuale diretto fra il
consumatore e il produttore. Invece ci interessa la disciplina relativa alla garanzia
per i vizi occulti. Quando abbiamo parlato della garanzia per evizione e abbiamo
letto l’articolo 1476 n.3 abbiamo visto che fra gli obblighi principali del venditore è
richiamata anche la garanzia per i vizi occulti, insieme alla garanzia per evizione.
Anche con riferimento alla garanzia per i vizi occulti possiamo ripetere quanto già
detto con riferimento alla garanzia per evizione, ovvero che non si tratta in verità di
una obbligazione in senso tecnico, ma si tratta di una forma di responsabilità
contrattuale del venditore. Partiamo dal contenuto della garanzia per i vizi. La
legge stabilisce che laddove il bene venduto risulti affetto da un vizio, cosiddetto
occulto, il compratore ha due possibilità, oltre al risarcimento del danno: può
chiedere la risoluzione del contratto oppure può chiedere l’azione di riduzione del
prezzo. Si tratta di un istituto che ha origini molto remote, risalenti all’ordinamento
romano e non è altro che uno strumento di tutela che l’ordinamento attribuisce al
compratore che ha subito l’inesatto inadempimento del venditore. Infatti, proprio
dallo studio della disciplina della garanzia per vizi della cosa compravenduta la
dottrina ha fondato la considerazione secondo cui il venditore non è obbligato a
trasferire il bene venduto così com’è, ma deve trasferire al compratore un bene
esente da vizi, quindi un bene integro. Quindi se il bene trasferito risulta viziato e il
vizio presenta le caratteristiche richieste dalla disciplina del contratto di
compravendita si ritiene che il venditore sia inadempiente ed è per questo che
l’ordinamento mette a disposizione del compratore una serie di rimedi per il cui
262
tramite reagisce all’inadempimento che ha subito. Infatti, se il venditore trasferisce
al compratore un bene viziato, si ha una rottura dell’equilibrio che deve intercorrere
fra le prestazioni sinallagmatiche che sono le caratteristica del contratto di
compravendita. Se il bene è viziato infatti, non c’è corrispondenza fra il valore del
bene consegnato e il prezzo che il compratore ha corrisposto, quindi c’è una
rottura dell’equilibrio sinallagmatico. Questo spiega il motivo per cui l’ordinamento
consente al compratore di chiedere o la risoluzione del contratto o la riduzione del
prezzo: questi non sono altro che rimedi tipici al non esatto adempimento
contrattuale. A conferma di quanto rilevato possiamo ricordare che la garanzia per
i vizi (ma questo vale anche con riferimento alla garanzia contro la mancanza delle
qualità promesse o alla garanzia della consegna dell’aliud pro alio) nell’ambito
della normativa europea si configurano come forme di responsabilità contrattuale.
Se il vizio determina la rottura dell’equilibrio sinallagmatico si può sicuramente dire
che il vizio che grava sul bene determina nel compratore una perdita patrimoniale,
corrispondente al minor valore del bene rispetto al prezzo che ha corrisposto.
Questa perdita patrimoniale, essendo ingiusta, in qualche modo deve essere
recuperata. L’ipotesi che noi prendiamo in considerazione (e questa è una
premessa molto importante) è che le vendite a catena aventi ad oggetto il bene
viziato siano avvenute a prezzo pieno, quindi un prezzo che non tiene conto del
vizio, semplicemente perché il vizio non è stato scoperto. Cosa succede quando il
compratore finale, che di solito è il consumatore si accorge che il bene che gli è
stato consegnato è viziato? Si rivolgerà al proprio dante causa, che nell’esempio
proposto è il dettagliante, esercitando la garanzia per i vizi occulti. Questa azione il
consumatore la eserciterà nei confronti del proprio dante causa diretto, trattandosi
di una azione contrattuale per cui ciascuno dei soggetti che ha preso parte alla
catena potrà rivolgersi soltanto nei confronti del suo immediato dante causa quindi
nei confronti del soggetto con cui ha un rapporto contrattuale. Riprendendo lo
schema delle vendite a catena proposto all’inizio, il consumatore farà valere la sua
pretesa di garanzia nei confronti del dettagliante; questi a sua volta, una volta
corrisposta la garanzia per i vizi al consumatore e quindi una volta che ha subito a
sua volta la perdita patrimoniale, si rivolgerà al grossista; questi una volta
corrisposta la garanzia per i vizi potrà rivolgersi al produttore.

Restiamo ancora sulla garanzia per i vizi e sulle vendite a catena per evidenziare
ancora una volta che in presenza delle condizioni che si sono esaminate, quindi
una sequenza di contratti di compravendita aventi ad oggetto lo stesso bene,
vendite che sono state realizzate a prezzo pieno (come se il bene non fosse stato
viziato), in presenza di un vizio occulto, che presenta le caratteristiche richieste
dalla legge, la reazione dell’ultimo avente causa, ovvero il consumatore, è
condizione indispensabile perché l’ultimo dante causa, il dettagliante, possa
azionare la sua richiesta di garanzia nei confronti del precedente dante causa,
ovvero il grossista, così come per il grossista, aver prestato la garanzia nei
confronti del dettagliante è condizione indispensabile per poter agire nei confronti
del suo dante causa, che nel nostro caso era il produttore. In altre parole, finché
non si verifica la reazione dell’ultima delle parti che sono inserite in questa catena
263
di contratti, e cioè il nostro consumatore, gli altri non si possono attivare, non
possono pretendere la garanzia nei confronti del proprio dante causa, perché il
vizio occulto che grava sul bene non ha causato loro alcuna perdita patrimoniale,
dal momento che in base alle condizioni prestabilite, la vendita è avvenuta a
prezzo pieno. Mentre per il consumatore il vizio è causa di una perdita economica
perché il consumatore ha nelle sue mani il bene, bene che essendo viziato ha un
valore inferiore rispetto a quello che avrebbe dovuto avere, per gli altri soggetti che
partecipano alla catena dei contratti, la perdita patrimoniale non si ha perché il
presupposto è che tutte le vendite siano avvenute a prezzo pieno. La perdita
patrimoniale si concretizza solo nel momento in cui prestano la garanzia per i vizi
al proprio avente causa.

Tutto ciò precisato, torniamo al nostro istituto, cioè alla chiamata in garanzia.
L’ipotesi che qui consideriamo è quella in cui il consumatore agisce nei confronti
del dettagliante e questa è l’azione principale. Dopodiché il dettagliante attraverso
la chiamata in garanzia fa valere la propria azione di garanzia per i vizi nei confronti
del suo dante causa, che è il grossista, il quale a sua volta può chiamare in
garanzia il produttore perché non c’è limite, anche il terzo chiamato in causa può a
sua volta decidere di chiamare un ulteriore terzo nel processo. Ancora una volta è
importante evidenziare la funzione economica svolta da questa azione perché
attraverso l’azione di garanzia che abbia ad oggetto la risoluzione del contratto
con conseguente domanda di restituzione del prezzo, spese, interessi ed
eventualmente risarcimento del danno, oppure l’azione di riduzione del prezzo, il
nostro convenuto che è il garantito intende riversare sul proprio dante causa le
conseguenze economiche negative derivanti dall’esperimento dell’azione di
garanzia per i vizi che è stata proposta nei suoi confronti.

Tornando alla chiamata in garanzia cerchiamo di evidenziare le caratteristiche di


queste particolari fattispecie. Vi premetto che fino a due anni fa questi quattro
gruppi di fattispecie erano divisi in due sotto-insiemi, ovvero si parlava, con
riferimento alla garanzia per evizione e alla fideiussione (o meglio alle obbligazioni
solidali a interesse unisoggettivo) di garanzia propria; con riferimento alle
fattispecie assimilate alla assicurazione contro la responsabilità civile o alle vendite
a catena si parlava di garanzia impropria. Questa distinzione accolta dalla dottrina
maggioritaria, ma soprattutto dalla giurisprudenza, era una distinzione densa di
significato perché si riteneva che gli articoli 32, 108 e poi vedremo con riferimento
al giudizio di impugnazione l’articolo 331 c.p.c si potessero applicare con
riferimento esclusivo alle ipotesi di garanzia propria, mentre con riferimento alla
garanzia impropria queste disposizioni non si potevano applicare. Tutte queste
fattispecie rientravano nella previsione dell’articolo 106 c.p.c dove questa norma
consente la chiamata in garanzia, ma solo le ipotesi di garanzia cosiddetta propria
rientravano nell’ambito applicativo dell’articolo 32 e dell’articolo 108 e poi 331
c.p.c. Questa distinzione attualmente non trova più riscontro perché, come ha
dimostrato una parte della dottrina, in verità queste fattispecie esibiscono la
medesima struttura, per cui la disparità di trattamento a livello processuale non
trovava alcuna giustificazione. Questa conclusione da ultimo è stata avallata anche
264
da un intervento della Cassazione a Sezioni Unite, che con la sentenza 4 dicembre
2015, numero 24707, ha finalmente riconosciuto che la distinzione fra garanzia
propria e impropria è del tutto destituita di fondamento e su questa base ha
riconosciuto che tutte le fattispecie riconducibili alla nozione di garanzia
processuale non solo rientrano nell’ambito applicativo dell’articolo 106 c.p.c, ma
sono regolate anche dall’articolo 32 e 108 c.p.c. Lasciamo stare il profilo della
disciplina in fase di impugnazione perché su questo punto specifico, che poi era il
punto su cui le S.U erano chiamate a fare chiarezza, torneremo nelle lezioni
dedicate alle impugnazioni, e in particolare nelle lezioni dedicate alla disciplina del
litisconsorzio in fase di gravame.

Qual è allora lo schema che connota queste fattispecie? Queste fattispecie


riproducono tutte quante lo schema della connessione per pregiudizialità-
dipendenza fra parti diverse. Ma non è questa l’unica caratteristica di queste
fattispecie, non c’è soltanto una relazione di successione logica tra i rapporti che
rientrano nella chiamata in garanzia. Vedremo fra poco che ricorre anche una
relazione di successione cronologica perché una delle caratteristiche di queste
fattispecie è proprio questa: il rapporto pregiudiziale e il rapporto di garanzia non
nascono nello stesso istante temporale perché il rapporto di garanzia nasce
necessariamente in un momento successivo. Procediamo con ordine. Cerchiamo
innanzitutto di verificare come, in tutte le fattispecie che ho richiamato, ricorre la
connessione per pregiudizialità-dipendenza. A questo punto, stante la descrizione
che abbiamo offerto, in modo piuttosto analitico, della disciplina sostanziale, far
comprendere che in queste ipotesi ricorre la connessione per pregiudizialità-
dipendenza sarà piuttosto agevole.

Iniziamo della garanzia per evizione. Abbiamo visto che presupposto


indispensabile affinché il compratore possa rivolgersi al venditore esercitando la
garanzia per evizione è che abbia subito l’evizione stessa. Che cos’è l’evizione?
Abbiamo detto è l’accertamento definitivo del diritto del terzo sul bene
compravenduto. Allora, appare chiaro che questo accertamento definitivo del
rapporto fra il terzo, che è l’attore che esercita l’azione di rivendica, e il compratore
è pregiudiziale rispetto al diritto del compratore, che è garantito, di esercitare
l’azione di garanzia nei confronti del venditore per chiedere la risoluzione del
contratto, restituzione del prezzo e delle spese, oltre eventualmente al risarcimento
del danno. Diciamo subito anche (tanto per complicarci la vita) che talvolta con
riferimento a queste fattispecie la connessione per pregiudizialità-dipendenza può
essere più complicata, cioè può darsi che sia stato lo stesso venditore ad alienare
il bene al terzo (pensate alle classiche ipotesi di doppia alienazione), sì che può
accedere, che ricorra quella pregiudizialità bilaterale che abbiamo visto essere la
condizione normale nell’ambito della fideiussione e in generale delle obbligazioni
solidali ad interesse unisoggettivo. Anche nell’ambito della garanzia per evizione,
se è stato lo stesso venditore ad alienare il bene al terzo rivendicante si ha che a
monte del rapporto fra il rivendicante e il compratore c’è un rapporto che lega lo
stesso rivendicante al venditore, che è il garante, quindi abbiamo anche qui una
sequenza di tre rapporti che interessano i tre protagonisti della vicenda e che sono
265
così strutturati: abbiamo il primo rapporto che corre fra il rivendicante e il
venditore, rapporto che ha avuto come effetto il trasferimento del bene dal
venditore all’attore rivendicante; il rapporto fra il rivendicante e il compratore, ed è
il rapporto che dà luogo all’evizione; infine il rapporto fra il compratore e, di nuovo,
il venditore che ha ad oggetto la garanzia per evizione. La conseguenza è che
quando l’attore rivendicante agisce nei confronti del compratore e questi chiami in
garanzia il proprio venditore, in verità in questa fattispecie a monte dell’azione del
rivendicante nei confronti del compratore c’è un rapporto giuridico diretto che lega
lo stesso terzo rivendicante al venditore chiamato in garanzia.

Quanto alla fideiussione la dimostrazione della connessione per pregiudizialità-


dipendenza è abbastanza banale perché l'articolo 1950 cc è molto chiaro nel
prevedere che, nella parte in cui stabilisce che il fideiussore che ha pagato ha
diritto di regresso nei confronti del debitore originario, l’esistenza e il pagamento
del diritto del creditore sono presupposto indispensabile perché il fideiussore
possa esercitare l’azione di regresso nei confronti del debitore originario. Quindi il
rapporto fra creditore e fideiussore è senz’altro pregiudiziale rispetto al rapporto
fra fideiussore e debitore originario. Ricordiamoci che nella fideiussione e, più in
generale in tutti i casi di solidarietà ad interesse unisoggettivo, la connessione per
pregiudizialità-dipendenza è sempre bilaterale perché a monte di tutta questa
vicenda c’è sempre il rapporto di credito-debito principale che lega il creditore,
che è l’attore e il debitore originario che è il terzo chiamato in garanzia. Anche con
riferimento alla assicurazione contro la responsabilità civile si possono svolgere
considerazioni in tutto analoghe, nel senso che l’assicurato potrà esercitare
l’azione di manleva nei confronti dell’assicuratore in quanto sia stata accertata la
responsabilità nei confronti del danneggiato e questi sia stato anche pagato. La
disciplina del codice civile in verità prevede anche la possibilità che l’assicurato
chieda all’assicurazione di pagare direttamente il danneggiato, ma attenzione
perché questa norma non vale a configurare un rapporto giuridico fra il
danneggiato e l’assicurazione, come avviene nell’ambito dell’assicurazione contro
la responsabilità civile derivante dalla circolazione di veicoli e natanti; sul piano
sostanziale si tratta semplicemente di una modalità di adempimento che non ha
alcun rilievo.

Infine, per quanto riguarda le vendite a catena abbiamo evidenziato che l’esercizio
dell’azione di garanzia per i vizi dell’ultimo avente causa, dell’ultimo soggetto della
catena è condizione indispensabile perché l’ultimo dante causa possa pretendere
la garanzia per i vizi dal precedente dante causa. Quindi l’azione di garanzia
esercitata dal consumatore nei confronti del dettagliante e il pagamento della
garanzia è condizione indispensabile perché il dettagliante possa rivolgersi al
grossista. Infatti, abbiamo detto che finché l’ultimo dante causa non ha prestato la
sua garanzia all’avente causa, il vizio non gli ha causato alcuna diminuzione
patrimoniale, alcun danno e dunque non è giustificata la possibilità di concedergli
l’azione di garanzia per i vizi nei confronti del proprio dante causa ovvero nei
confronti del grossista. Tutto questo anche perché altrimenti si creerebbe una
situazione non tollerabile per l’ordinamento, perché se il dettagliante potesse
266
pretendere la garanzia per i vizi dopo aver venduto a prezzo pieno il bene e prima
che il consumatore gli abbia richiesto e abbia ottenuto la garanzia per i vizi si
consentirebbe a questo dettagliante di conseguire un arricchimento indebito, una
situazione non tollerabile dall’ordinamento. Quindi in tutte queste fattispecie ricorre
la connessione per pregiudizialità-dipendenza. Vi ho detto però che questa non è
l’unica caratteristica che connota queste fattispecie, perché in tutti questi rapporti
non c’è solo una dipendenza giuridica nei termini appena visti, ma c’è anche un
ulteriore elemento perché abbiamo anticipato che il rapporto che costituisce
oggetto della chiamata in garanzia, chiamiamolo il rapporto di garanzia, viene ad
esistenza in un momento temporale necessariamente successivo al rapporto
pregiudiziale. Andiamo a verificare questa affermazione con riferimento alle singole
fattispecie.

La garanzia per evizione ha per presupposto l’accertamento definitivo del diritto


dell’attore rivendicante nei confronti del compratore. Non è sufficiente che il diritto
esista, si richiede che intervenga un ulteriore atto o fatto giuridico: è l’evizione,
l’accertamento definitivo che può essere la sentenza passata in giudicato, può
essere il riconoscimento spontaneo del compratore, ma deve sempre verificarsi
questo fatto successivo, l’evizione appunto, che conferisca carattere di definitività
all’accertamento del diritto. Quindi, affinché sorga il diritto di garanzia del
compratore non è sufficiente che venga ad esistenza il diritto del rivendicante
attore, ma è necessario che si verifichi questo fatto ulteriore, che è appunto il
fatto-evizione.

Lo stesso vale con riferimento alla fideiussione. L’articolo 1950 cc fa riferimento al


fideiussore che ha pagato prima di agire, quindi affinché sorga il diritto di regresso
del fideiussore nei confronti del debitore non basta che venga ad esistenza il
rapporto fra creditore e fideiussore, ma è necessario che intervenga un fatto
ulteriore, che è il fatto pagamento. Il fideiussore non può chiedere il regresso al
debitore prima di aver pagato: prima paga, dopodiché nasce il suo diritto di
regresso nei confronti del debitore originario.

Una osservazione analoga può essere svolta anche con riferimento alle altre
fattispecie. Prendiamo l’assicurazione contro la responsabilità civile. È di tutta
evidenza che il danneggiante assicurato non può esercitare l’azione di manleva,
non può pretendere che l’assicurazione gli restituisca quanto deve al danneggiato
se prima lui stesso non ha pagato il danneggiato: finché non subisce la perdita
patrimoniale ed economica consistente nel risarcimento del danno al danneggiato
non ha diritto di manleva nei confronti dell’assicurazione. Ancora più evidente è
l’ipotesi delle vendite a catena, perché come abbiamo precedentemente
evidenziato, anche nelle vendite a catena il garantito, che nel nostro esempio era il
dettagliante, non può agire e chiedere la garanzia per i vizi nei confronti del proprio
dante causa, ovvero il grossista, se prima non ha prestato la garanzia al
consumatore. Questo perché, tornando alla nostra ipotesi, se le vendite a catena
sono avvenute tutte a prezzo pieno, quindi tutte a prezzo che considera il bene
non viziato, se si consentisse al dettagliante di pretendere la prestazione di
garanzia nei confronti del grossista prima di aver a sua volta prestato la garanzia
267
nei confronti del consumatore gli si consentirebbe di conseguire un arricchimento
che è indebito, perché grazie al debito riuscirebbe a maturare un guadagno che in
ipotesi di bene non viziato non riuscirebbe a ottenere. Anche nelle vendite a
catena, quindi, l’esistenza e il soddisfacimento del diritto alla garanzia del
consumare nei confronti del dettagliante è presupposto perché il dettagliante
possa rivolgersi al grossista. Anche in questo caso non è sufficiente l’esistenza del
diritto alla garanzia del consumatore nei confronti del dettagliante, ma è
necessario che questi abbia corrisposto la garanzia perché solo dopo aver
corrisposto la garanzia subisce una perdita economica legata all’esistenza del
vizio e di conseguenza potrà a sua volta agire nei confronti del proprio dante
causa.

Alla luce di tutte queste osservazioni possiamo tornare alle fattispecie di garanzia
e sintetizzare i risultati che abbiamo acquisito. Quindi nell’ambito della chiamata in
garanzia possimao ricondurre una serie di fattispecie che pur essendo eterogenee
sul piano sostanziale, sono accomunate dalla funzione svolta, perché si tratta
sempre di rapporti giuridici sulla cui base taluno, il garantito, ha diritto di riversare
su altri, il garante, la perdita economica che deriva dalla esistenza o dal concreto
soddisfacimento del diritto di un terzo. Sul piano strutturale questi rapporti si
connotano per il fatto che tra il diritto pregiudiziale, quindi il diritto del terzo nei
confronti del garantito, e il diritto alla garanzia del garantito nei confronti del
garante sussiste sempre una relazione di consequenzialità logico-giuridica e
cronologica. Si parla di consequenzialità logico-giuridica nella parte in cui questi
rapporti riproducono lo schema della connessione per pregiudizialità-dipendenza;
si parla di consequenzialità cronologia perché nella fattispecie costitutiva del diritto
alla garanzia rientra non solo il rapporto pregiudiziale, ma anche sempre un
ulteriore fatto, cronologicamente successivo al rapporto pregiudiziale che rende
concreta la perdita economica al cui risorto è diretto il rapporto di garanzia
medesimo e che di volta in volta consisterà nel fatto di evizione o, nelle altre
fattispecie, nel pagamento. L’affermazione secondo cui tutte le fattispecie
riconducibili alla chiamata di garanzia condividano la stessa funzione economica e
riproducano lo stesso schema, hanno la medesima struttura, giustificano
l’affermazione secondo cui devono andare soggette ad una disciplina processuale
unitaria.

268
Lezione 16 - 06/05/20
Continuiamo ad occuparci della chiamata in garanzia. Andiamo adesso ad
occuparci delle caratteristiche della domanda oggetto della chiamata in garanzia.
È molto importante partire dai risultati cui siamo approdati nel corso dell’ultima
lezione: laddove abbiamo evidenziato che tra il rapporto che corre tra il terzo e il
garantito e il rapporto di garanzia, abbiamo evidenziato l’esistenza di un nesso di
consequenzialità logico-giuridico, ma anche cronologico. Abbiamo infatti detto
che i due rapporti sono legati da un nesso di connessione per pregiudizialità di
pendenza, ma abbiamo evidenziato altresì che esiste una sfasatura sul piano
cronologico perché nella fattispecie costitutiva del diritto di garanzia rientra non
soltanto il rapporto pregiudiziale ma anche un ulteriore fatto, che di volta in volta
sarà l’evizione oppure il fatto pagamento, che rende concreta la perdita
patrimoniale o economica al cui ristoro è diretto il rapporto di garanzia. Per cui
abbiamo osservato che il rapporto di garanzia nasce necessariamente in un
momento successivo a quello in cui viene ad esistenza il rapporto pregiudiziale.
Questi rilievi ci consentono agevolmente di mettere a fuoco le caratteristiche della
chiamata in garanzia.

L’articolo 106 abbiamo detto che consente al garantito di esercitare l’azione di


garanzia nell’ambito del processo instaurato dall’attore nei suoi confronti. Questo
rilievo, unito alle conclusioni che abbiamo

riportato in ordine alla struttura dei rapporti, ci consente di evidenziare le
caratteristiche della domanda giudiziale che il garantito rivolge al garante nel
momento in cui lo chiama in giudizio. Il garantito, nel momento in cui propone la
chiamata in garanzia, esercita un’azione avente ad oggetto un rapporto (il rapporto
di garanzia) che ancora non è nato perché, stante tutto quello che ci siamo detti,
appare evidente che nel momento in cui il garantito chiama il garante in garanzia
ancora non si è potuta perfezionare la fattispecie costitutiva del rapporto di
garanzia: esiste il rapporto pregiudiziale ma sicuramente non è ancora venuto ad
esistenza l‘ulteriore fatto che è l’evizione o il pagamento che è il fatto che
determina la perdita patrimoniale al cui ristoro è appunto diretta la domanda di
garanzia.       

Quindi il primo rilievo che possiamo fare è che la chiamata in garanzia ha ad


oggetto una domanda proposta in via necessariamente anticipata perché ha ad
oggetto un rapporto la cui fattispecie costitutiva non si è ancora perfezionata,
quindi un rapporto che ancora non è sorto. Ma la chiamata in garanzia ha anche
un’ulteriore caratteristica perché proprio in base ai rilievi fatti in ordine alla struttura
di questi

rapporti si ritiene anche che questa domanda oltre a essere anticipata sia sempre
avanzata in forma sospensivamente condizionata all’accoglimento della domanda
principale. Quando il garantito chiama in garanzia il suo garante esercitando
l’azione di volta in volta disponibile propone la sua domanda in via subordinata
all’accoglimento della domanda principale, quindi alla sua soccombenza nella
causa principale. Questo è un rilievo importante perché ci consente di ritenere che,
quante volte il giudice rigetterà la domanda principale (quindi quante volte il
269
garantito risulterà vittorioso nella causa principale) il giudice si limiterà a dichiarare
l’assorbimento della causa di garanzia. Questo perché, essendo la domanda
proposta in forma condizionata, se la condizione non si verifica, il giudice non
entra nel merito della domanda.

Se tutto questo è vero possiamo fare un lungo passo indietro e rispondere alla
domanda che ci eravamo posti in apertura della lezione dedicata alla chiamata in
garanzia e cioè al quesito se anche la garanzia processuale si presta ad essere
ricondotta alla nozione generale di garanzia. Il linguaggio giuridico italiano spesso
risulta essere molto povero nella misura in cui lo stesso termine viene utilizzato per
indicare istituti diversi. Nello specifico il termine garanzia a livello sostanziale
comprende istituti eterogenei: pensate alle garanzie reali o alla fideiussione, che
però assolvono alla medesima funzione, che è quella di rafforzare la posizione del
creditore.

Anche la garanzia processuale svolge la medesima funzione. Perché? Quando il


garantito propone la sua domanda di garanzia, fa valere in giudizio un diritto che
ancora non è venuto ad esistenza. Se ad esito del processo in cui sono cumulate
la domanda principale e la domanda di garanzia, entrambe le domande risultano
accolte, il giudice emanerà due sentenze di condanna. La condanna del garante
nei confronti del garantito ha però ad oggetto un diritto che ancora non è sorto,
perché, neppure a conclusione del processo a cognizione piena, la fattispecie
costitutiva del diritto di garanzia si è perfezionata. Non si è perfezionata infatti
finché non si verifica l’evizione o finché non si verifica il fatto pagamento. Quindi,
questa sentenza di condanna emanata dal giudice nei confronti del garante a
favore del garantito, è una sentenza di condanna in futuro. E’ una sentenza di
condanna che ha ad oggetto un rapporto giuridico la cui fattispecie costitutiva non
si è ancora perfezionata. La funzione della condanna in futuro è quella di ridurre lo
scarto temporale esistente tra il momento in cui si verifica la crisi di cooperazione,
la violazione della regola di condotta e il momento in cui l’avente diritto può
ottenere il soddisfacimento delle sue pretese potendo agire in via esecutiva. E’
questa la funzione che svolge la chiamata in garanzia perché il garantito ottiene un
titolo esecutivo che potrà azionare sul piano esecutivo nei confronti del garante nel
momento stesso in cui subisce la perdita patrimoniale, economica, che deriva
dalla sua soccombenza nella causa principale. Da tutto ciò possiamo desumere
che la sentenza di condanna del garante nei confronti del garantito non potrà
essere messa in esecuzione immediatamente ma solo dopo che si sarà
perfezionata la fattispecie costitutiva del diritto alla garanzia. Quindi, nel caso della
garanzia per evizione, una volta che è passata in giudicato con sentenza che
accerta definitivamente il diritto di un terzo sul bene, e, nelle altre ipotesi,
all’indomani del giorno in cui il garantito avrà pagato la sua controparte.

Venendo alle regole di svolgimento del processo a cognizione piena in cui sono
cumulate la domanda principale e la domanda di garanzia, è molto importante
ricordare che tutte le fattispecie che danno luogo alla chiamata in garanzia sono
soggette ad una disciplina processuale unitaria. Tale affermazione può sembrare
scontata, ma è necessario sottolineare che, fino a pochi anni fa, nella
270
giurisprudenza assumeva rilevanza determinante la contrapposizione tra garanzia
propria e garanzia impropria, dove la garanzia propria comprendeva la garanzia
per evizione e la fideiussione mentre la garanzia impropria comprendeva le altre
fattispecie quindi l’assicurazione contro la responsabilità civile e affini e le vendite
a catena e i subcontratti. Sulla scorta di quanto osservato da una dottrina
minoritaria soltanto nel 2015 le Sezioni Unite con la sentenza 24707 hanno
riconosciuto che la distinzione tra garanzia propria e garanzia impropriaè del tutto
destituita di fondamento e per questo motivo hanno affermato che la disciplina
processuale di tutte queste fattispecie deve essere unitaria. Ciò precisato, volendo
delineare le regole di svolgimento di questo processo non possiamo non ricordare
che siamo di fronte a fattispecie che esibiscono una forma di connessione per
pregiudizialità di pendenza e quindi, nell’ordinamento processuale, è molto forte
l’esigenza di favorire il cumulo processuale. A questo riguardo il legislatore
prevede la garanzia fra le ipotesi in cui, per favorire il cumulo processuale, è
possibile derogare ai criteri originari di competenza.

Art. 32 “La domanda di garanzia può essere proposta al giudice competente per la
causa principale affinché sia decisa nello stesso processo. Qualora essa ecceda la
competenza per valore del giudice adito, questi rimette entrambe le cause al
giudice superiore, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione”.
In verità l’art. 32 parla della competenza per valore, però noi sappiamo già (lezioni
sulla connessione del primo semestre) che, con riferimento ai rapporti tra i due
giudici di primo grado, perché il criterio per valore riguarda il riparto di tipo
verticale, la disposizione centrale è l’art. 40. Infatti gli spostamenti di tipo verticale
li dobbiamo ricostruire alla luce di quest’altra disposizione, mentre l’art. 32 si
occupa esclusivamente degli spostamenti di tipo orizzontale. Con riferimento
all’ipotesi in cui si pongono problemi di spostamento verticale, rileva il disposto
dell’art. 40, sesto comma, laddove prevede che, “se una causa di competenza del
giudice di pace sia connessa per i motivi di cui agli articoli 31, 32, 34, 35 e 36 con
altra causa di competenza del tribunale, le relative domande possono essere
proposte innanzi al tribunale affinché siano decise nello stesso processo”. Non
importa quindi quale sia la causa che rientra nella competenza del tribunale, può
essere anche la causa di garanzia, ma, se una delle due controversie appartiene
alla competenza del giudice di pace e l’altra del tribunale, il cumulo delle due
domande deve essere svolto di fronte al tribunale. Dopodiché, in base a quanto
previsto nell’art. 32, sul piano degli spostamenti orizzontali, è sempre il giudice
competente per la causa principale ad attrarre la causa di garanzia, così come
espressamente affermato da questa disposizione. Il cumulo processuale però può
avvenire anche attraverso altri istituti. E’ previsto ad es. che le due controversie
possano essere instaurate di fronte allo stesso giudice ab origine, perché è il
garantito a portare di fronte allo stesso giudice sia la causa pregiudiziale sia la
causa di garanzia. Per esempio proponendo una domanda di accertamento
negativo, una domanda di non esistenza del diritto di proprietà del terzo sul bene
compravenduto e contestualmente propone la domanda di garanzia nei confronti
del proprio venditore che è il garante, in base all’art. 103, primo comma. In questa
271
ipotesi gli spostamenti di competenza saranno regolati dall’art. 40, sesto comma,
e dall’ art. 32. E’ possibile che le due controversie vengano separatamente
proposte e qui rileverà il disposto dell’art. 40, settimo comma, “se le cause
connesse ai sensi del sesto comma sono proposte davanti al giudice di pace e al
tribunale, il giudice di pace deve pronunziare anche d'ufficio la connessione a
favore del tribunale”. Sarà quindi ancora un volta il giudice togato a doversi
occupare delle due controversie. Ai fini della competenza territoriale varrà sempre
il disposto dell’art. 32, per cui è l’ufficio giudiziario competente sulla causa
principale che attrae la causa di garanzia. Stante l’intensità del vincolo che
intercorre tra le due controversie si ritiene che non debba trovare applicazione il
disposto dell’art. 40, secondo comma, il quale prevede che l’eccezione di
connessione non possa essere sollevata dopo la prima udienza. Il cumulo
processuale dovrebbe avvenire in base all’art. 106 e quindi la chiamata in causa
del garante dovrà essere effettuata dal convenuto garantito a pena di decadenza
nella comparsa di risposta depositata venti giorni prima udienza, secondo quella
che è la disciplina ordinaria. Non è escluso che il garante entri nel processo avente
ad oggetto il rapporto pregiudiziale senza contestuale deduzione del rapporto di
garanzia. Questo si può avere nel caso in cui sia il garantito a chiamare il garante
per comunanza di causa, passando attraverso la previsione della prima parte
dell’art. 106. In questa ipotesi la chiamata determinerà un ampliamento soggettivo
ma non anche oggettivo del processo, perché avrà come unico effetto quello di
rendere il garante soggetto all’efficacia della sentenza resa inter partes. Ma potrà
essere altresì il garante, in quanto titolare di un rapporto giuridicamente
dipendente, a intervenire volontariamente nel processo pendente inter partes
esperendo l’intervento adesivo dipendente di cui all’art. 105, secondo comma.

Con riferimento a questo processo dobbiamo adesso esaminare l’istituto


dell’estromissione del garantito, disciplinato nell’art. 108. La disposizione prevede
che, “se il garante comparisce e accetta di assumere la causa in luogo del
garantito, questi può chiedere, qualora le altre parti non si oppongano, la propria
estromissione. Questa è disposta dal giudice con ordinanza; ma la sentenza di
merito pronunciata nel giudizio spiega i suoi effetti anche contro l'estromesso”.
L’estromissione è un istituto che produce nel processo un effetto opposto a quello
dell’intervento perché determina l’uscita e la conseguente perdita della qualità di
parte di una delle parti. L’ordinamento prevede tre diverse figure di estromissione.
Oltre all’estromissione del garantito c’è l’estromissione dell’obbligato, disciplinata
nell’art. 109, e l’estromissione dell’alienante o successore universale, disciplinata
dall’art. 111. Nel caso della chiamata in garanzia si prevede la possibilità che, nel
processo pendente tra l’attore, il garantito e il garante, esca di scena il garantito e
di conseguenza il garante si trovi a restare in giudizio da solo per far valere un
diritto che non gli appartiene, perché non è titolare del rapporto pregiudiziale, e
quindi in veste di legittimato straordinario. Sia ha quindi una forma di
legittimazione straordinaria che si forma in corso di causa e che deroga alla regola
generale secondo cui, quando sta in causa il legittimato straordinario, il legittimato
ordinario è parte necessaria.

272
Con riferimento a questo istituto si rendono necessarie alcune precisazioni.
Ricordiamo che tutte le fattispecie che danno luogo alla chiamata in garanzia
possono rientrare nella previsione dell’art. 108. Fino all’intervento del 2015 delle
Sezioni Unite era pacifica l’opinione secondo cui solo nella garanzia impropria
potesse verificarsi l’estromissione del garantito. Solo alcuni esponenti della
dottrina sostenevano che la disparità di trattamento, anche avuto riguardo alla
estromissione del garantito, era destituita di qualsiasi fondamento.

FILE 2

Premesso che l’estromissione del garantito ne determina la perdita della qualità di


parte, a seguito della sua uscita dal processo, rimangono in causa l’attore, quindi
la controparte del garantito nella causa principale, e il garante. Occorre soffermarsi
in primo luogo sulla questione se l’estromissione del garantito sia compatibile con
l’ipotesi in cui il garantito abbia chiamato in garanzia il garante proponendo la vera
e propria domanda di garanzia. Appare chiaro che, se il garantito ha chiamato in
garanzia il garante, quindi se di fronte al giudice sono pendenti sia la causa
principale sia la causa di garanzia e si ammette che il garantito esca di scena, si
potrebbe venire a creare una situazione non sostenibile in cui il garante sta in
causa, con riferimento alla causa pregiudiziale, in veste di legittimato straordinario
ma con riferimento alla causa di garanzia si troverebbe a rivestire contestualmente
il duplice ruolo di attore e di convenuto. Questa evidentemente non è una
situazione sostenibile per l’ordinamento e allora possiamo ritenere che se si vuole
consentire l’estromissione del garantito anche laddove questi ha chiamato in
garanzia il garante, deducendo in giudizio il rapporto di garanzia, occorre fare una
precisazione importante. Nel testo dell’art. 108 l’estromissione del garantito ha per
presupposto l’accettazione del garante e la mancata opposizione del garantito.

E’ possibile ritenere che in questa ipotesi si possa avere l’estromissione a


condizione che

- il garante, nel momento in cui accetta, riconosca l’esistenza del rapporto di


garanzia

- il garantito rinunci ad ottenere l’immediata condanna del garante


all’adempimento del suo obbligo essendo evidente che all’indomani
dell’uscita del garantito non è possibile che contro il garante sia emessa una
sentenza di condanna relativa al rapporto di garanzia, perché non è
possibile che in una sola persona si trovino riunite la qualità di attore e di
convenuto avuto riguardo alla medesima domanda

Con riferimento all’ipotesi in cui il garante è stato chiamato in causa per


comunanza di causa quindi senza contestuale deduzione in giudizio del rapporto
di garanzia, cosi come nell’ipotesi in cui ha esperito intervento adesivo
dipendente, intervento a cui non si collega la deduzione in giudizio del rapporto
dipendente, questi problemi non si pongono. Le condizioni a cui è subordinata
l’estromissione del garantito sono:

273
- in primo luogo la necessità che il garante compaia e accetti di assumere la
lite. Il garante non può quindi essere contumace. E’ necessario che si sia
costituito ma comparendo non deve aver contestato la propria qualità di
garante e riconoscere l’esistenza del rapporto di garanzia

- il secondo presupposto è la richiesta di estromissione presentata dal


garantito. E’ un atto libero. Nessuno può costringerlo e, nel momento in cui il
garantito presenta questa richiesta, deve rinunciare a fare valere il suo diritto
di garanzia nei confronti del garante

- il terzo presupposto è la mancata opposizione delle altre parti. Questa


opposizione può giustificare la mancata estromissione del garantito laddove
nei confronti del garantito siano state proposte anche domande personali
che siano estranee all’obbligo di garanzia del garante. Per esempio laddove
l’attore abbia esercitato nei confronti del compratore garantito non solo
l’azione di rivendica ma anche la domanda di restituzione dei frutti

Come prevede l’articolo 108, l’estromissione del garantito viene disposta con
ordinanza.

Soffermiamoci ora sulle regole di svolgimento del processo a cui prende parte il
garante ed in particolare dell’ipotesi in cui sia stata rivolta nei suoi confronti la vera
e propria chiamata in garanzia.

Trattandosi di un processo in cui si trovano riunite due controversie tra le quali


intercorre un nesso di connessione per pregiudizialità di pendenza, si deve ritenere
che il giudice non possa disporre la separazione delle cause, perché il rischio è
che si possano formare due sentenze logicamente contraddittorie. Il giudice non
potrà disporre la separazione né nel corso della fase istruttoria né in quello della
fase decisoria. Per favorire il cumulo processuale non soltanto è possibile la
deroga ai criteri originari di competenza così come risulta dal coordinamento degli
art. 40 e 32 ma si potrà fare applicazioni in questa particolare ipotesi anche
dell’art. 40 nella parte in cui prevede, al terzo comma, che, se le due
cause,cumulativamente proposte o successivamente riunite, sono soggette a due
riti diversi, si applica sempre il rito lavoro se una delle due cause è soggetta al rito
lavoro (con espresso richiamo all’art. 32). Riguardo all’eventualità in cui nell’ambito
di questo processo la causa pregiudiziale sia matura per la decisione in via
anticipata rispetto alla causa di garanzia, si ritiene certamente possibile per il
giudice pronunciare sentenza sulla causa pregiudiziale, ma stante l’impossibilità
per il giudice di disporre la separazione si ritiene che la causa pregiudiziale possa
essere definita in via anticipata soltanto con sentenza non definitiva emanata ai
sensi dell’art. 279 comma secondo numero 4, nella parte in cui invia al numero 3,
perché il regime di impugnazione della sentenza non definitiva assicura il
coordinamento tra le due decisioni, fra la decisione contenuta nella sentenza non
definitiva e quella emanata nella successiva sentenza definitiva.

Non ci occupiamo qui in maniera approfondita dei poteri che può svolgere il
garante, come terzo titolare del rapporto giuridicamente dipendente, con
riferimento al rapporto pregiudiziale. Il garante pur non essendo titolare del
rapporto pregiudiziale ha un grosso interesse a far sì che il garantito risulti
274
vittorioso nella causa pregiudiziale. E’ poi infatti il garante a sopportare le
conseguenze negative di questa soccombenza. Quindi è fortemente interessato e
la partecipazione del garante al processo avente ad oggetto il rapporto principale
mette in gioco il suo diritto di difesa. Nel momento in cui il garante entra in questo
processo, non importa se a seguito di chiamata in garanzia o a seguito di
chiamata in causa per comunanza di causa o a seguito di intervento adesivo
dipendente, egli è soggetto all’efficacia della sentenza resa sul rapporto
pregiudiziale. Questa situazione mette dunque in gioco il suo diritto di difesa. Al
garante devono dunque essere assicurati diritti idonei idonei ad incidere sulla
formazione del convincimento del giudice circa l’esistenza, il modo d’essere del
rapporto pregiudiziale. Ce ne occuperemo in modo approfondito quando
parleremo dell’intervento adesivo dipendente.

Non mi soffermo in maniera approfondita neanche sul profilo relativo al


litisconsorzio in fase di gravame, quindi al passaggio di questa particolare
controversia di fronte al giudice superiore. A differenza di quanto osservato con
riferimento alle altre fattispecie, qui la disciplina non è affatto unitaria ma le regole
da applicare dovranno tener conto di diverse variabili. Innanzitutto dell’esito a cui è
pervenuto il giudice di primo grado con riferimento alle due controversie. In
secondo luogo dovremo tener conto del soggetto che assume l’iniziativa
impugnatoria. In terzo luogo dovremo tenere in conto le motivazioni che sono a
fondamento della impugnazione proposta. Ne parleremo in maniera approfondita
quando affronteremo le lezioni specifiche sul profilo relativo al litisconsorzio in fase
di gravame.

Nel nostro ordinamento ci sono diversi altri settori relativi alla connessione per
pregiudizialità di pendenza che possono assumere rilevanza. Uno fra questi è la
Solidarietà ad interesse unisoggettivo come definita nell’art. 1298 del codice civile.
Si tratta di tutte le ipotesi in cui ci sono due obbligati solidali nei confronti di un
comune creditore ma che si caratterizzano per il fatto che il vincolo di solidarietà è
contratto nell’interesse esclusivo di uno solo dei condebitori su cui deve cadere a
livello dei rapporti interni il peso dell’obbligazione. Il prototipo è la fidejussione che
è una forma di garanzia personale. Parlando della chiamata in garanzia abbiamo
esaminato l’ipotesi in cui il creditore esercita l’azione di adempimento nei confronti
del fideiussore e questi chiama in garanzia il debitore originario. Questa non è
l’unica possibile strada per il cui tramite la fidejussione può entrare nel processo.
E’ possibile infatti che il creditore decida di agire e proporre la sua domanda di
adempimento nei confronti sia del debitore originario sia del fideiussore. Si tratta di
una possibilità perfettamente plausibile che comporta la deduzione in giudizio di
due rapporti che sono connessi per pregiudizialità di pendenza. Lo stesso schema
ricorre allo stesso modo, e quindi come forma di disconsorzio iniziale, anche in
altre fattispecie di obbligazioni solidali ad interesse unisoggettivo. Ad esempio con
riferimento alla responsabilità del proprietario del conducente, contemplata
nell’art. 2054 secondo cui Il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è
obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del
veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Ma poi
275
precisa che Il proprietario del veicolo, o, in sua vece, l'usufruttuario o l'acquirente
con patto di riservato dominio, è responsabile in solido col conducente, se non
prova che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la sua volontà. L’art. 2054
del codice civile disegna così uno schema perfettamente analogo a quello della
fidejussione. Anche in questa ipotesi è possibile che il danneggiato decida di
esperire azione di risarcimento del danno vuoi nei confronti del conducente vuoi
nei confronti del proprietario. Anche in questo caso avremo il cumulo processuale
ab origine, quindi, in base all’art. 103, di due controversie connesse per
pregiudizialità di pendenza. Lo stesso schema ricorre nell’art. 2049 del codice
civile. I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto
illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono
adibiti. Ricorre anche in questo caso una forma di pregiudizialità di pendenza
perché il rapporto obbligatorio tra il danneggiato e il dipendente, materialmente
responsabile del fatto illecito, è pregiudiziale rispetto al rapporto di credito/debito
che lega il danneggiato al datore di lavoro. Anche in questa ipotesi è possibile che
il danneggiato decida di esperire azione di risarcimento del danno vuoi nei
confronti del dipendente vuoi nei confronti del datore di lavoro. Un terzo schema di
connessione per pregiudizialità di pendenza si ha in tutti i casi in cui l’attore
esercita un’azione di impugnativa negoziale relativa ad un contratto e nello stesso
processo cumula una ulteriore domanda, proposta nei confronti del terzo avente
causa dal convenuto con cui fa valere il suo diritto, personale o reale, alla
restituzione del bene oggetto del contratto aggredito. Il legislatore spesso
stabilisce che un certo vizio contrattuale, stabilito magari in presenza di ulteriori
condizioni, è opponibile anche al terzo sub acquirente, quindi all’avente causa di
una delle parti del rapporto contrattuale. In tema di nullità ad es. il codice civile
prevede che esso è sempre opponibile al sub acquirente, salvi gli effetti della
trascrizione, in ipotesi di contratto soggetto a trascrizione. In questi casi, la parte
che esercita l’azione di nullità del contratto, può convenire nello stesso giudizio il
sub acquirente del bene oggetto del contratto aggredito, chiedendogli la
restituzione. Siamo qui di fronte ad una forma di connessione per pregiudizialità di
pendenza perché l’oggetto della domanda originaria, quindi la non esistenza del
rapporto giuridico derivato dal contratto aggredito, è elemento impeditivo della
fattispecie acquisitiva del diritto del terzo. Questo diritto esiste in quanto esiste il
diritto del suo dante causa. Se questo diritto decade perché si accerta la non
esistenza degli effetti del contratto impugnato, è chiaro che ne viene travolto
anche il secondo acquisto. Nell’ipotesi in cui la parte esperisce contestualmente
l’azione di nullità e la domanda di restituzione nei confronti del terzo sub
acquirente siamo dunque in presenza di una forma di connessione per
pregiudizialità di pendenza. La differenza rispetto alle obbligazioni solidali a
interesse unisoggettivo è evidente. Nell’ipotesi in esame, la parte può esercitare le
due domande contestualmente ma non può decidere di rivolgersi direttamente al
terzo sub acquirente perché non ha nessun diritto nei suoi confronti.
Diversamente, il comune creditore può decidere di rivolgersi al fideiussore, al
debitore originario, contestualmente, può decidere di agire direttamente nei
276
confronti del debitore originario oppure può decidere di agire direttamente nei
confronti del fideiussore. In questo settore rientrano tutte le azioni di impugnative
negoziale anche se occorre tenere presente che spesso il legislatore ha effettuato
scelte diverse rispetto a quella svolta in tema di nullità.

FILE 3

I LIMITI SOGGETTIVI DEL GIUDICATO

Cominciamo adesso ad analizzare un tema molto importante ai fini dello studio dei
processi con pluralità di parti. Si tratta del tema dei limiti soggettivi del giudicato
ovvero, si tratta di chiarire se la sentenza che viene emessa inter partes e coperta
dall’autorità di cosa giudicata produca i propri effetti nei confronti di un terzo che
non ha preso parte al processo ma che è titolare di un rapporto giuridico connesso
al rapporto oggetto del processo ed accertato con autorità di cosa giudicata. Si
tratta di un tema molto importante ai fini della comprensione del processo
litisconsortile a più parti perché è partendo da un chiarimento in ordine ai limiti
soggettivi del giudicato che si può comprendere la funzione svolta dal processo
litisconsortile. A questo particolare riguardo dobbiamo subito rilevare che su
questo tema il legislatore non ci è stato di grosso aiuto, nel senso che non
troviamo nell’ambito delle disposizioni normative soluzioni certe in ordine a questa
questione.

Nell’ordinamento ritroviamo disposizioni che si occupano del tema dei limiti


soggettivi del giudicato con riferimento a fattispecie specifiche, ma si tratta di
disposizioni che non si prestano ad essere generalizzate. A livello generale
troviamo soltanto una serie di previsioni, le quali, in parte non ci dicono niente; in
parte danno un’indicazione di soluzione o la presuppongono, ma ci sono forti
difficoltà nel ritenere che si tratti di una soluzione che possa essere generalizzata
per i motivi che andrò a spiegarvi.

Intanto, il punto di partenza di questa riflessione deve essere sicuramente l’art.


2909 cc che è la norma che si occupa della cosa giudicata. Questa disposizione
afferma che il giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi
causa. Gli eredi sono i successori a titolo universale delle parti. Gli aventi causa
sono soggetti terzi a cui una delle parti del processo trasferisce il diritto -accertato
con autorità di cosa giudicata- dopo che si è formato il giudicato. Capiamo che si
tratta di una previsione che non ci aiuta molto nella soluzione della questione che
abbiamo posto perché, in base alla carrellata che abbiamo svolto nelle lezioni
precedenti, già sappiamo che ci sono diverse forme di connessione che possono
intercorrere tra rapporti giuridici che fanno capo a parti parzialmente diverse. Per
cui l’avente causa da una delle parti all’indomani della formazione della cosa
giudicata è una figura che non è assolutamente idonea a comprendere tutte le
fattispecie che abbiamo già passato in rassegna.

A livello generale possiamo richiamare un istituto, si tratta di una forma di


impugnazione, la c.d. opposizione di terzo revocatoria ex art. 404 co.2 cpc, la
277
quale, pur non occupandosi direttamente dei limiti soggettivi del giudicato, è però
una disposizione che presuppone che il giudicato possa produrre i propri effetti
anche nei confronti di soggetti diversi dalle parti.

Infatti, l’art. 404 al co.2 prevede che “Gli aventi causa e i creditori di una delle parti
possono fare opposizione alla sentenza, quando è l'effetto di dolo o collusione a
loro danno”.
Evidentemente -trattandosi di impugnazione- è uno strumento diretto ad eliminare
dal mondo giuridico una certa sentenza. Vediamo che i soggetti legittimati sono,
oltre ai creditori (su cui torneremo in seguito), gli aventi causa. Dove con aventi
causa possiamo tranquillamente ritenere che si tratti di terzi titolari di diritti
giuridicamente dipendenti che sono legittimati ad esperire questo mezzo di
impugnazione per far valere che la sentenza sia stata il frutto del dolo o della
collusione delle parti nel processo a loro danno. Vediamo che si tratta di una
previsione piuttosto specifica che evidentemente dà per presupposto che questi
terzi, questi aventi causa e questi creditori siano soggetti agli effetti di questa
sentenza, altrimenti non è giustificata la circostanza che il legislatore abbia voluto
mettere nelle loro mani un mezzo di impugnazione avente come scopo
l’eliminazione della sentenza.

Ancora, ci sono delle disposizioni più specifiche ossia, che con riferimento ad
ipotesi più specifiche parlano di effetti della sentenza nei confronti di soggetti terzi.
Ad es. ricordiamo quando abbiamo parlato della garanzia per evizione abbiamo
dato lettura dell’art. 1485 cc, che prevede che: qualora il compratore non chiami
in causa il venditore e sia condannato con sentenza passata in giudicato perde il
diritto alla garanzia se il venditore prova che esistevano ragioni sufficienti per far
respingere la domanda, e abbiamo già anticipato che questa è una norma che si
occupa dei limiti soggettivi del giudicato attribuendo al giudicato, che si forma ad
esito del processo a cui hanno preso parte il rivendicante ed il compratore,
un’efficacia riflessa debole nei confronti del venditore.

Ancora, abbiamo incontrato nel panorama che abbiamo descritto in ordine alle
diverse forme di connessione che possono intercorrere tra parti diverse l’art.
1306cc applicabile alle obbligazioni solidali, siano esse obbligazioni solidali ad
interesse comune o ad interesse uni-soggettivo. Ricordiamo che l’art. 1306
prevede che la sentenza emessa nei confronti di alcuni soltanto dei partecipanti al
vincolo solidale produce effetti favorevoli nei confronti dei coobbligati o dei
concreditori che sono rimasti estranei al processo, ma non anche effetti
sfavorevoli. Quindi è una sentenza che non li può pregiudicare.

Accanto a queste disposizioni, possiamo citare per es. l’art. 1595cc che riguarda
la sublocazione e che prevede una forma di efficacia riflessa -questa volta forte-
della sentenza emessa tra locatore e conduttore nei confronti del sub-conduttore
rimasto estraneo al processo.

Ora, se da queste disposizioni emerge in qualche modo la possibilità di ammettere


che la sentenza emessa inter partes possa esplicare una qualche efficacia -talvolta
debole, talvolta forte, talvolta favorevole nei confronti del terzo-, questo tema deve
278
essere trattato però alla luce di un principio fondamentale del nostro ordinamento,
che è il diritto di difesa del terzo. Il diritto di difesa è un principio che troviamo
affermato direttamente dalla Costituzione a partire dall’art. 24 co.2, oggi lo
troviamo esplicitato anche nell’art. 111 Cost. laddove si parla del principio del
contraddittorio, ed è un principio che da un certo momento in poi ha svolto un
ruolo fondamentale nelle riflessioni svolte in ordine ai limiti soggettivi del giudicato
a cui la stessa Corte Costituzionale ha attribuito una rilevanza molto importante.
Cerchiamo di procedere per gruppi di fattispecie, perché in effetti con riferimento
ad alcune delle forme di connessione che abbiamo passato in rassegna la
soluzione alla questione che abbiamo posto è assolutamente pacifica in senso
negativo e quindi non pone problemi di compatibilità con il principio del
contraddittorio ed il diritto di difesa del terzo.

Cominciamo dall’analisi della CONNESSIONE PER INCOMPATIBILITA’ quindi,


dalla questione relativa al se la sentenza emessa inter partes può produrre effetti
nei confronti del terzo che è titolare di un diritto autonomo ed incompatibile
rispetto al diritto oggetto del processo. Ricordiamo è l’es. delle parti tra cui è
controversa l’appartenenza del bene e del terzo che è titolare di un diritto che è
relativo allo stesso bene, ma che è del tutto autonomo rispetto al diritto delle parti.
Quindi è una forma di connessione per identità di petitum. Con riferimento a
queste fattispecie è assolutamente pacifico che il terzo non subisce alcuna
efficacia dalla sentenza emessa inter-partes, perché, in base alla definizione che
abbiamo offerto, si tratta di un diritto che è del tutto autonomo, quindi un diritto
che trae origine da una fattispecie che non vede coinvolte in nessun modo le parti
del processo pendente/processo originario. Certamente la sentenza che viene
emessa inter partes è una sentenza che disturba il terzo, ma questo pregiudizio
che può accusare il terzo è un pregiudizio di mero fatto. È un pregiudizio che
esiste a livello di certezza del diritto, perché se c’è una sentenza coperta
dall’autorità di cosa giudicata che accerta l’appartenenza del bene in capo ad un
soggetto diverso da chi assume esserne proprietario, è chiaro che questa
sentenza (questo giudicato) in qualche modo pregiudica il terzo perché crea
incertezza. Per cui se il terzo volesse vendere il bene probabilmente l’incertezza
creata da questo giudicato reso inter partes in qualche modo potrebbe pesare sul
prezzo.Allora per evitare questo pregiudizio e per tutelare il terzo l’ordinamento
mette a disposizione del terzo alcuni strumenti, alcuni hanno carattere preventivo,
altri hanno carattere invece successivo.

A livello preventivo vedremo che il terzo ha la possibilità di entrare nel processo


pendente inter partes, esperendo intervento volontario. Si parla di intervento
principale che rientra nella previsione dell’art. 105 co.1 del cpc: il terzo entra nel
processo proponendo una domanda giudiziale nei confronti di entrambe le parti
originarie, chiedendo al giudice di accertare l’esistenza del suo diritto sul bene nei
confronti di entrambe le parti. Questo è uno strumento preventivo che
evidentemente ha come scopo proprio quello di evitare che si formi incertezza.
Infatti, nel momento in cui il terzo entra nel processo altrui il giudice è messo nella
condizione di accertare una volta per tutte nei confronti di tutti e tre i soggetti
279
coinvolti a chi appartiene il diritto controverso; quindi il giudice emanerà una
sentenza che accerterà con autorità di cosa giudicata l’appartenenza del bene e
che produrrà effetti nei confronti di tutti e 3 perché tutti e 3 hanno preso parte al
processo.

A livello successivo abbiamo l’opposizione di terzo ordinaria. Si ritiene che il


terzo titolare di un diritto autonomo ed incompatibile sia legittimato ad impugnare
la sentenza emessa inter partes -che lo pregiudica a livello di fatto- attraverso
l’opposizione di terzo ordinaria art. 404 c.1 cpc. Attraverso questo rimedio il terzo
potrà ottenere l’eliminazione dal mondo giuridico del giudicato inter partes e
l’accertamento di esistenza del proprio diritto.

Un altro settore su cui vale la pena soffermarsi e su cui possiamo ritenere che
esistano dei punti fermi è quello dei RAPPORTI PLURI SOGGETTIVI.

Abbiamo visto che si tratta di una serie di situazioni giuridiche che subiscono una
forma di connessione molto intensa -data dall’identità vuoi della causa pentendi
vuoi del petitum-; ma abbiamo altresì rilevato che la disciplina processuale non è
affatto unitaria.

Intanto appare chiaro che un problema di limiti soggettivi del giudicato non si pone
con riferimento a quelle fattispecie che rientrano nel litisconsorzio necessario.
Perché se si applica l’art. 102 cpc abbiamo detto che la domanda va proposta da
e/o nei confronti di tutti i titolari del rapporto e se questo non avviene la sentenza è
inutiliter data (non produce effetti nei confronti del terzo rimasto estraneo al
processo ma neppure nei confronti delle parti). è evidente che non si pone un
problema di limiti soggettivi del giudicato.

Quanto agli altri rapporti plurisoggettivi dobbiamo effettuare delle distinzioni:

Intanto possiamo soffermarci sull’ipotesi della impugnazione delle delibere


assembleari di cui agli artt. 2377 e 2378 cc. Abbiamo visto che con riferimento a
queste ipotesi è pacifico che il litisconsorzio è facoltativo quanto all’instaurazione,
perché è legittimo che l’impugnazione della delibera illegittima possa essere
avanzata da alcuni soltanto dei soggetti legittimati ad es. i soci assenti o
dissenzienti. Invece, questo litisconsorzio quanto alla trattazione e decisione è
unitario, perché qui l’ordinamento impone l’emanazione di una sentenza, una ed
unica, e quindi uguale per tutti. Con riferimento al problema dei limiti soggettivi del
giudicato qua il problema non si pone, perché in queste ipotesi il legislatore ha
adottato il principio c.d. maggioritario, per cui non soltanto la delibera vincola tutti
(anche se non è stata assunta all’unanimità); ma anche la sentenza, che
accogliendo l’impugnazione dichiara l’illegittimità della delibera e la annulla,
produce effetti nei confronti di tutti. Quindi,anche in questo caso non si pone un
problema di limiti oggettivi del giudicato.

Il secondo settore -sempre nell’alveo dei rapporti plurisoggettivi- è quello delle


obbligazioni solidali che possono essere obbligazioni solidali a interesse comune
o obbligazioni solidali ad interesse uni-soggettivo. In questa particolare ipotesi il
problema relativo ai limiti soggettivi del giudicato è risolto dall’art. 1306 cc.
280
Questa norma, prevedendo la possibilità di estendere il giudicato ai concreditori o
ai condebitori rimasti estranei al processo soltanto se produce effetti favorevoli, è
evidentemente pienamente compatibile con principio del contraddittorio e con il
diritto di difesa. Ricordiamo che anche le obbligazioni indivisibili, in base alla
legge, sono soggette alla disciplina delle obbligazioni solidali in quanto
compatibile. Sotto questo profilo,secondo quella che è l’interpretazione preferibile,
l’art. 1306 si applica anche alle obbligazioni che hanno un oggetto indivisibile.

Un ulteriore settore, con riferimento al quale non si pone un problema di limiti


soggettivi del giudicato, è quello della CONNESSIONE PER MERA IDENTITA’ DI
FATTO COSTITUTIVO, quindi per identità parziale della causa petendi.

Sappiamo già che l’autorità della cosa giudicata si forma solo e soltanto sulla
situazione giuridica dedotta in giudizio e non sui fatti che il giudice accerta al fine
di statuire sull’esistenza o non esistenza del diritto controverso. Allora appare
chiaro che, in queste particolari ipotesi, il terzo che è titolare di un diritto che è
connesso per mera identità parziale della causa pentendi rispetto al diritto che è
accertato con autorità di cosa giudicata inter partes non è affatto soggetto agli
effetti del giudicato. Questa sentenza -al limite- potrà rappresentare nei suoi
confronti un precedente giurisprudenziale sfavorevole perché il primo giudice avrà
accertato l’esistenza del fatto costitutivo comune in un senso che può essere
pregiudizievole nei confronti del terzo, ma sicuramente questo accertamento non
vincolerà -proprio perché riguarda un fatto- il giudice di fronte a cui il terzo farà
valere il proprio diritto. Appare chiaro che questa sentenza e questo accertamento
del fatto a livello di precedente giurisprudenziale -che è cosa diversa dagli effetti
del giudicato- potrà essere pregiudizievole per il terzo e questo consente di capire
il motivo per cui-anche in questo caso- il legislatore ha favorito la formazione del
processo litisconsortile, ed infatti è possibile che le due domande connesse per
identità parziale della causa petendi siano proposte ab origine di fronte allo stesso
giudice così come questo terzo entri nel processo attraverso l’intervento secondo
le modalità che andremo ad esaminare successivamente. Comunque, anche in
questa ipotesi non ci sono dubbi.

FILE 4

L’ambito in cui la questione dei limiti soggettivi del giudicato si presenta come un
problema che fino ad ora non ha trovato soluzione è quello della CONNESSIONE
PER PREGIUDIZIALITA’ DIPENDENZA.

In questo settore si sono impegnati i migliori processual-civilisti a partire dagli anni


’30, ma ad oggi nessuna delle tesi che sono state prospettate è riuscita ad
affermarsi sulle altre. Per cui cominciamo la trattazione di questo tema sapendo
che non è destinato a trovare soluzione.

Noi sappiamo che la connessione per pregiudizialità dipendenza è un nesso tale


per cui c’è un rapporto -che è il rapporto pregiudiziale o principale- che è
elemento della fattispecie da cui deriva un secondo rapporto -che è il rapporto
dipendente. Con riferimento alle ipotesi in cui i due rapporti giuridici, quello
principale e quello dipendente, corrono tra parti parzialmente diverse è chiaro che
il problema dei limiti oggettivi del giudicato si pone inevitabilmente. Si tratta di
281
stabilire se la sentenza coperta dall’autorità della cosa giudicata, che è stata
emanata a conclusione di un processo che si è svolto tra le parti di esso, produce
la propria efficacia nei confronti del terzo che è titolare di un rapporto
giuridicamente dipendente. Nel secondo processo avente ad oggetto il rapporto
dipendente, appare chiaro che, la questione di esistenza o meno del rapporto
pregiudiziale si porrà.

La questione è stabilire se il terzo è vincolato all’accertamento, che è già stato


compiuto dal primo giudice e che è contenuto nella sentenza passata in giudicato,
oppure no. Quindi, se la prima sentenza produce efficacia riflessa nel secondo
processo avente ad oggetto il rapporto dipendente, di modo che il terzo non potrà
ridiscutere l’esistenza ed il modo d’essere del rapporto pregiudiziale perché ormai
l’esistenza ed il modo d’essere del rapporto pregiudiziale è contenuta nella
sentenza passata in giudicato emessa inter partes e come tale deve esser
recepito.

La soluzione di questa questione non si rinviene a livello normativo. Abbiamo già


precisato che, ai sensi dell’art. 2909, il giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti,
i loro eredi o gli aventi causa, e che l’avente causa è il terzo che ha acquistato il
diritto su cui si è formato il giudicato dopo che la sentenza è passata in giudicato.
Quindi, si tratta di un’indicazione che non copre tutte le possibili ipotesi di terzi
titolari di un rapporto che è giuridicamente dipendente.

Prima di esaminare il panorama di soluzioni che sono state avanzate, diciamo che
l’ordinamento mette a disposizione di questo terzo una serie di istituti che hanno
talvolta carattere preventivo, talvolta carattere successivo. A livello preventivo
sappiamo che, a parte le possibilità di cumulare nello stesso processo il rapporto
pregiudiziale ed il rapporto dipendente, l’ordinamento processuale offre al terzo
titolare del rapporto giuridicamente dipendente il potere di entrare nel processo
pendente tra le parti ed avente ad oggetto il rapporto pregiudiziale.

Questo istituto è l’intervento adesivo dipendente art. 105 co. 2 cpc. Il terzo
entra nel processo proponendo una domanda giudiziale nei confronti di una sola
parte -che è la parte anch’essa titolare del rapporto dipendente- ma non deduce in
giudizio il rapporto dipendente, chiede semplicemente al giudice di accettare
anche nei suoi confronti la non esistenza o l’esistenza del rapporto pregiudiziale
(dipende dalle fattispecie). Quindi, abbiamo detto che attraverso questo intervento
si ha un ampliamento in senso soggettivo del processo perché il terzo nel
momento in cui interviene acquista la qualità di parte, ma non anche un
ampliamento in senso oggettivo perché il rapporto dipendente non viene dedotto
in giudizio -di conseguenza il giudice non si pronuncerà sull’esistenza ed il modo
d’essere del rapporto dipendente-. Siccome il terzo intervenendo chiede che il
rapporto pregiudiziale sia accertato anche nei suoi confronti, possiamo
sicuramente mettere un punto fermo ossia, che il terzo titolare del rapporto
giuridicamente dipendente che esperisce intervento adesivo dipendente
sicuramente è soggetto all’efficacia della sentenza emessa (perché questa
sentenza è stata emessa anche nei suoi confronti).

282
Naturalmente lo stesso effetto lo si ha nel caso in cui sia una delle parti del
processo a chiamare in causa il terzo per comunanza di causa, lo abbiamo visto
parlando della chiamata in garanzia. Il terzo garante -che non è altro che il
titolare di un rapporto giuridicamente dipendente- può essere chiamato in causa
senza contestuale deduzione in giudizio del rapporto di garanzia; quindi il garantito
lo può chiamare in causa proponendo nei suoi confronti una domanda di
accertamento del rapporto pregiudiziale nei suoi confronti. Di conseguenza anche
in questa ipotesi il terzo entra nel processo perché la chiamata gli fa acquistare la
qualità di parte, resterà soggetto alla sentenza emessa inter partes.

(non tocchiamo in questo momento il tema delicatissimo dei poteri che il terzo,
titolare del rapporto giuridicamente dipendente entrato nel processo avente ad
oggetto il rapporto pregiudiziale, potrà esercitare con riferimento al rapporto
pregiudiziale stesso, perché abbiamo già detto che questo tema lo andremo a
trattare nell’ambito della lezione dedicata all’intervento adesivo dipendente).

Invece, se il terzo non entra nel processo (quindi ne rimane totalmente estraneo)
non sappiamo se sia soggetto almeno all’efficacia riflessa della sentenza emessa
inter partes.Tuttavia, ricordiamoci che laddove lo si ritenga soggetto all’efficacia di
questa sentenza ha un rimedio successivo che è l’opposizione di terzo
revocatoria art. 404 co.2 cpc che abbiamo visto fa espresso riferimento non
soltanto ai creditori ma anche agli aventi causa, e qui il termine “avente causa”,
per opinione pacifica, si intende riferito a tutti i terzi titolari di un rapporto
giuridicamente dipendente. Naturalmente abbiamo già notato che questo rimedio
successivo è un rimedio a maglie strette perché il terzo che propone opposizione
di terzo revocatoria non può denunciare semplicemente l’ingiustizia della
sentenza, ma deve denunciare che la sentenza è effetto del dolo o della collusione
delle parti a suo danno. Quindi, si tratta evidentemente di un rimedio a maglie
molto strette.

Torniamo alla questione dei limiti soggettivi del giudicato nei confronti del terzo
titolare di un rapporto giuridicamente dipendente e andiamo a riprendere il dato
normativo, e cioè riprendiamo in rapida sequenza le disposizioni che con
riferimento a specifiche fattispecie si occupano dei limiti soggettivi del giudicato.

Ci sono alcune disposizioni che configurano a carico del terzo un’efficacia


riflessa c.d. forte della sentenza, dove per “efficacia riflessa forte” si intende fare
riferimento alla circostanza che questo terzo non ha il modo di contestare
l’accertamento compiuto dal primo giudice. Quindi, nel secondo processo avente
ad oggetto il rapporto dipendente il segmento della fattispecie giuridica
rappresentato dal rapporto pregiudiziale si deve ritenere ormai accertato nei
termini fissati dalla sentenza coperta dall’autorità di cosa giudicata ed emanata
inter partes. È questo quanto previsto ad es. dall’art. 1595 cc in tema di
sublocazione. Questa disposizione detta una norma che si riferisce al caso in cui
sia stato stipulato un contratto di locazione tra il locatore ed il conduttore,
dopodiché il conduttore ha stipulato un ulteriore contratto di locazione con un
terzo, che è il subconduttore.

283
L’art.1595 al co. 3 prevede che “Senza pregiudizio delle ragioni del subconduttore
verso il sublocatore, la nullità o la risoluzione del contratto di locazione ha effetto
anche nei confronti del subconduttore e la sentenza pronunciata tra locatore e
conduttore ha effetto anche contro di lui.”
Questa norma prevede un tipico esempio di efficacia riflessa c.d. forte laddove
prevede che la sentenza che pronuncia la nullità o la risoluzione del contratto di
locazione principale -emanata evidentemente tra il locatore ed il conduttore-
esplica la propria efficacia nei confronti del subconduttore. Come dicevamo, è una
regola di efficacia forte perché il terzo titolare del rapporto giuridicamente
dipendente evidentemente è soggetto a quanto accertato in questa sentenza.

Una regola analoga la si rinviene nell’ambito delle norme relative alla trascrizione
delle domande giudiziali, artt. 2652 e 2653 cc. Tali disposizioni prevedono infatti
che il terzo avente causa dal convenuto che ha trascritto il proprio titolo di
acquisto successivamente alla trascrizione della domanda giudiziale è soggetto
agli effetti della sentenza di accoglimento della domanda, sentenza emanata
evidentemente iner alios. Anche in questa ipotesi siamo di fronte ad una regola di
efficacia riflessa forte nei confronti del terzo.

Abbiamo poi un’altra serie di disposizioni che contemplano una diversa regola di
efficacia, si parla di efficacia riflessa c.d. debole.

Il prototipo è offerto dall’art. 1485cc in tema di compravendita. Il venditore, che


non sia stato chiamato in causa dal compratore nel giudizio instaurato nei suoi
confronti dall’evincente, nell’ambito del secondo processo che il compratore abbia
instaurato nei suoi confronti esercitando l’azione di garanzia per evizione può
dimostrare che esistevano ragioni sufficienti per ottenere il rigetto della domanda.
Quindi, la regola che enuncia questa disposizione è quella secondo cui il giudicato
reso nei confronti del compratore produce effetti nei confronti del venditore, ma
questi ha la possibilità di dimostrare che l’accertamento contenuto in quel
giudicato è ingiusto. Questo è il significato del “esistevano ragioni per ottenere il
rigetto della domanda”. In tal senso si parla di un’efficacia riflessa debole perché
non impedisce al terzo titolare del rapporto giuridicamente dipendente di
discostarsi da questa efficacia, laddove riesca a dimostrare che
quell’accertamento è ingiusto.

La stessa regola noi la ritroviamo in altre disposizioni del cc e segnatamente


nell’art. 2859, che abbiamo già menzionato parlando dell’espropriazione forzata
contro il terzo proprietario. Questa disposizione si occupa del terzo acquirente
dell’immobile ipotecato. L’art. 2859 prevede che: “Se la domanda diretta a
ottenere la condanna del debitore è posteriore alla trascrizione del titolo del terzo
acquirente, questi, ove non abbia preso parte al giudizio, può opporre al creditore
procedente tutte le eccezioni non opposte dal debitore e quelle altresì che
spetterebbero a questo dopo la condanna”.
Abbiamo detto a suo tempo che il terzo acquirente dell’immobile ipotecato
eserciterà queste difese attraverso l’opposizione all’esecuzione, di cui all’art. 615
284
cpc. A suo tempo abbiamo detto che questa è una norma che si occupa dei limiti
soggettivi del giudicato perché il terzo acquirente dell’immobile ipotecato è titolare
di un diritto giuridicamente dipendente e qui si ammette che, nonostante che la
sentenza diretta ad ottenere la condanna del debitore sia opponibile anche nei
suoi confronti, tuttavia ha la possibilità di opporre le eccezioni non opposte dal
debitore.

Una regola analoga la ritroviamo nell’art. 2870 cc in tema di terzo datore di


ipoteca. La norma prevede che il terzo datore che non ah preso parte al giudizio
diretto alla condanna del debitore può opporre al creditore le eccezioni indicate
dall’art. 2859.

Quindi queste sono ipotesi di efficacia riflessa c.d. debole.

Abbiamo poi l’art. 1306 ccin tema di solidarietà. Sappiamo che nella nozione di
solidarietà rientrano anche le obbligazioni solidali a interesse uni-soggettivo che
abbiamo detto riproducono sicuramente lo schema della connessione per
pregiudizialità dipendenza. L’art. 1306 prevede una regola di efficacia inutilibus
quindi, una regola di efficacia forte se la sentenza è favorevole; mentre prevedono
una regola di non efficacia laddove la sentenza invece è sfavorevole.

FILE 5

Per completare il quadro delle disposizioni normative che si occupano del tema
dei limiti soggettivi del giudicato nell’ambito di rapporti tra parti diverse connesse
per pregiudizialità dipendenza vorrei indicarvi alcune disposizioni che contengono
delle previsioni incomplete, che quindi offrono una soluzione con riferimento ad
alcuni casi lasciando scoperti però tutta un’altra serie di ipotesi che facilmente si
possono prospettare. Si tratta di disposizioni che si occupano del problema della
opponibilità dell’azione di impugnativa negoziale nei confronti del terzo avente
causa dal convenuto.

Se noi prendiamo, ad es., l’art. 1415 ccin tema di simulazione, troviamo


scritto:“La simulazione non può essere opposta né dalle parti contraenti, né dagli
aventi causa o dai creditori del simulato alienante, ai terzi che in buona fede hanno
acquistato diritti dal titolare apparente, salvi gli effetti della trascrizione della
domanda di simulazione”.

Allora, dobbiamo anzitutto isolare le ipotesi in cui l’azione di simulazione è


soggetta a trascrizione perché si riferisce a contratti che debbono essere trascritti.
In questa ipotesi si applica il disposto dell’art. 2652 n.4. Lasciamo da parte
questa ipotesi.

In tutti gli altri casi, la norma prevede che la simulazione non possa essere
opposta a terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente. Se
la norma detta una regola di non opponibilità della simulazione a terzi che hanno
acquistato in buona fede, niente mi dice in ordine al caso in cui il terzo non è in
buona fede.

Dubbi analoghi si pongono con riferimento agli effetti dell’annullamento disciplinati


dall’art. 1445 cc, in cui si legge che: “L'annullamento che non dipende da
285
incapacità legale non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona
fede, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di annullamento”.

Anche in questa ipotesi isoliamo anzitutto i casi di azione di annullamento


soggetta a trascrizione, perché in questi casi dovremmo andare a leggerci quanto
previsto nell’art. 2652 n.6 (disposizione molto complicata ed incompleta).
Rimaniamo sull’art. 1445: da questa disposizione possiamo ricavare che
l’annullamento che dipende da incapacità legale sembrerebbe essere opponibile a
tutti i terzi. In tutti gli altri casi, invece, la norma prevede che l’annullamento non
possa pregiudicare i diritti acquistati a titolo oneroso da terzi in buona fede, ma in
tal senso niente mi dice in ordine ai terzi che hanno acquistato a titolo gratuito
oppure che non sono di buona fede.

Sono soltanto 2 esempi che però sono rappresentativi di una categoria molto
ampia di fattispecie in cui il legislatore lascia insoluta ed aperta la questione
relativa al se la sentenza emessa inter partes è opponibile o meno al terzo titolare
del rapporto giuridicame.

286
Lezione 17 - 07/05/20
PRIMA PARTE

(file 1) Proseguiamo la trattazione delle tematiche relative ai limiti soggettivi della


sentenza civile, ancora nell’ambito dei rapporti connessi per pregiudizialità
dipendenza. Nel corso della passata lezione abbiamo passato in rassegna le
disposizioni che affrontano il tema dei limiti soggettivi del giudicato nei confronti
del terzo titolare del rapporto giuridicamente dipendente, ma abbiamo visto che si
tratta perlopiù di disposizioni puntuali, cioè che riguardano singole fattispecie, o
piccoli gruppi di fattispecie.

A fronte di un panorama tanto eterogeneo, anche la dottrina diciamo si è


manifestata e si rinvengono in dottrina le tesi più disparate. Vi ho già detto che
questo è un tema che ha affascinato i migliori processual civilisti italiani, e molti di
loro hanno dato un contributo importante. Vi ho però già detto che ad oggi il tema
è insoluto, quindi, nessuna delle tesi avanzate è riuscita ad affermarsi sulle altre.

Allora, cominciamo dalle tesi più estreme. Allora innanzitutto la tesi della efficacia
riflessa forte generalizzata. È la soluzione che è stata teorizzata per la prima
volta dal prof Enrico Allorio, notissimo processual civilista, in una monografia del
1934. Si tratta di una tesi che diciamo ha avuto largo seguito per un lunghissimo
periodo di tempo, ma è una tesi che il prof Allorio ha elaborato in una prospettiva
tutta sostanziale, e che, a distanza di molti anni, è stata ripresa da giovani (al
tempo) studiosi come il prof Fabbrini e il prof Proto Pisani, che sono arrivati alle
stesse conclusioni attraverso un iter argomentativo completamente diverso.

Il professor Allorio, in questa monografia del 1934, ha affermato che, laddove a


livello sostanziale esiste una forma di connessione tale per cui un rapporto è
elemento in senso lato della fattispecie giuridica di un altro rapporto giuridico, di
un ulteriore effetto giuridico, si ha una forma di connessione che lui chiamò per
primo, indicò col termine, con l’espressione “connessione per pregiudizialità
dipendenza”, e che, a livello processuale ha come conseguenza che il terzo deve
ritenersi vincolato al giudicato emesso inter partes, con riferimento al rapporto
pregiudiziale.

In pratica, la tesi del professor Allorio si basava sul rilievo secondo cui: la sentenza
passata in giudicato, nei suoi limiti oggettivi, ha una efficacia soggettivamente
illimitata. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che se, successivamente, si apre un
secondo processo che ha ad oggetto un rapporto giuridicamente dipendente da
quello già accertato con autorità di cosa giudicata, e che fa capo a un soggetto
terzo, questi non può rimettere in discussione l’accertamento di esistenza e del
modo d’essere compiuto dal giudice del primo processo, perché ormai l’esistenza
e il modo d’essere di quel rapporto, sono stati, sono espressi in una sentenza
che, passata in giudicato, diventa incontrovertibile. Quindi, il segmento della
fattispecie giudica da cui deriva il rapporto dipendente ormai è fissato nei termini
stabiliti dal giudicato.

Come vi ho detto, è una tesi che ha avuto un largo seguito, il libro del professor
Allorio ebbe un grande successo all’epoca, pensate che fu lui in questa
287
monografia a evidenziare, a cogliere, per primo questa forma di connessione: fino
a quel momento le uniche forme di connessione che si erano evidenziate erano la
connessione per identità di uno degli elementi identificativi del rapporto giuridico,
quella che noi chiamiamo la connessione per pregiudizialità dipendenza era una
delle forme di connessione per identità del titolo.

I risultati, come vi dicevo, a cui è approdato il prof Allorio, sono stati in seguito
ripresi, ma a trent’anni di distanza da due giovani al tempo studiosi, il professor
Fabbrini e il prof Proto Pisani, che però confermarono questi risultati sulla base di
una ricostruzione prettamente processuale. In modo particolare il prof Proto Pisani
partì dal rilievo di una serie di disposizioni, quali in modo particolare, l’art 404
secondo comma, quindi la opposizione di terzo revocatoria, ma anche l’art 105
comma secondo, relativo all’intervento adesivo dipendente del terzo, per affermare
che queste disposizioni presuppongono un terzo che è soggetto alla efficacia della
sentenza.

Questa tesi della efficacia riflessa forte della sentenza è una tesi che naturalmente,
evidentemente, dà la massima realizzazione alla esigenza di assicurare il
coordinamento delle decisioni, quindi di assicurare la armonia tra diritto
sostanziale e processo. Tuttavia, oggi come oggi, non possiamo esimerci dal
rimarcare che la stessa presta il fianco a una serie di osservazioni critiche,
osservazioni che devono esser svolte alla luce di un principio costituzionale, come
quello del diritto di difesa e il principio del contraddittorio, stigmatizzati nell’art 24
comma secondo cost. e 111 comma secondo cost. Seguendo questa prima
prospettazione, appare chiaro che l’unico rimedio che il terzo avrebbe a sua
disposizione sarebbe rappresentato dalla opposizione di terzo revocatoria, rimedio
però che, come abbiamo già anticipato è soggetto a due condizioni, a due
presupposti molto rigidi: il dolo e la collusione delle parti a suo danno, quindi è un
rimedio molto limitato. E anche se, diciamo, alcuni esponenti di questa dottrina
hanno proposto una interpretazione estensiva dell’art 404 secondo comma, dando
una lettura ampia del dolo e della collusione, certamente questa tesi è inadeguata
rispetto al principio del diritto di difesa a cui oggi l’ordinamento e tutti gli operatori,
tutti gli interpreti, accordano rilevanza primaria.

Il secondo rilievo è un rilievo di diritto invece positivo. Noi fin dalle primissime
lezioni del corso abbiamo introdotto l’art 34 del cpc che si occupa di connessione
per pregiudizialità dipendenza tra le stesse parti , evidenziando che in questa
norma il legislatore, introducendo la regola secondo cui il giudice del rapporto
dipendente come regola generale accerta la esistenza e il modo d’essere del
rapporto pregiudiziale incidenter tantum, quindi senza autorità di cosa giudicata,
accetta il rischio che si formino giudicati logicamente contraddittori. Quindi, se
l’ordinamento accetta il rischio che si formino giudicati logicamente contraddittori
tra le stesse parti, si può dire che, diciamo, allo stesso risultato si potrà pervenire
laddove i rapporti pendono fra parti diverse, soprattutto considerando che, nel
momento in cui due rapporti pendono tra parti diverse, si pone la esigenza di
assicurare il diritto di difesa del terzo non coinvolto, non titolare del rapporto
pregiudiziale.

288
Questa tesi, inoltre, è stato rilevato, non considera nemmeno l’art 2909 cc,
perché da questa norma non risulta affatto chiaro chi siano questi aventi causa,
anzi, si è sempre detto che gli aventi causa son coloro a cui la parte trasferisce il
diritto all’indomani del passaggio in giudicato della sentenza.

Per cui diciamo che è una tesi che, per quanto affascinante e per quanto idonea a
soddisfare pienamente l’esigenza di assicurare il coordinamento delle decisioni,
presenta sicuramente dei lati deboli.

Al polo opposto di quella esaminata, si colloca invece la tesi di chi ha voluto


negare qualsiasi efficacia vincolante della sentenza, del giudicato, emesso inter
partes con riferimento al rapporto pregiudiziale nei confronti del terzo titolare di un
rapporto giuridicamente dipendente, al di là delle ipotesi espressamente previste
dalla legge.

I principali fautori di questa tesi sono innanzitutto il professor Francesco Paolo


Luiso della Università di Pisa, ma anche il professor Vocino e il prof Monteleone.
La tesi del professor Luiso, elaborata molti anni orsono, è una tesi elaborata
muovendo da un principio opposto rispetto a quello considerato dal prof Allorio:
una cosa sono i nessi di dipendenza che intercorrono a livello sostanziale, altra
cosa è la questione relativa al se il giudicato reso inter partes è idoneo o meno a
vincolare il terzo titolare di un rapporto giuridicamente dipendente. Secondo il prof
Luiso, in particolare, la tesi del prof Allorio non è affatto idonea a conciliarsi con la
necessità costituzionale di apprestare adeguata garanzia al diritto di difesa del
terzo, perché l’unico rimedio successivo previsto, l’opposizione di terzo
revocatoria, è insoddisfacente, perché è un rimedio troppo stretto.

In base a questa prospettazione, secondo il professor Luiso, l’efficacia riflessa


ultra partes, quindi nei confronti di un soggetto terzo, può esser ammessa solo e
soltanto nei casi e nei limiti espressamente previsti dalla legge. Questa
soluzione è una soluzione che evidentemente privilegia massimamente l’esigenza
di apprestare il diritto di garanzia, la garanzia del diritto di difesa del terzo, ma
evidentemente presenta un conto molto salato a livello di coordinamento dei
giudicati.

Secondo il prof Luiso, infatti, le uniche ipotesi in cui l’efficacia riflessa ultra partes
può esser ammessa sono i casi espressamente previsti dalla legge, e in modo
particolare, secondo il prof Luiso, tra questi casi rientrano fattispecie come quella
prevista nell’art 1595 comma terzo cc, in cui la pregiudizialità dipendenza si
atteggia in un modo del tutto peculiare. Il prof Luiso parla infatti di un vincolo di
connessione per pregiudizialità dipendenza cd permanente. Si tratta in
particolare, secondo il prof Luiso, di rapporti che si caratterizzano per il fatto che il
rapporto pregiudiziale deve continuare ad esistere durante tutto il tempo di
svolgimento del rapporto dipendente. Quindi si tratta di due rapporti che si
svolgono contestualmente e poi si caratterizzano per il fatto che il titolare del
rapporto pregiudiziale può sempre disporre del proprio rapporto anche dopo aver
dato vita al rapporto dipendente, e il terzo titolare del rapporto dipendente è
destinato a subire gli effetti sostanziali degli atti dispositivi posti in essere tra le
289
parti del rapporto pregiudiziale, salvo eventualmente il diritto ad ottenere il
risarcimento del danno. E quindi la regola fissata nell’art 1595 cc, a tenore del
quale “la sentenza che pronuncia la nullità o la risoluzione del contratto di
locazione hanno effetti anche nei confronti del sub-conduttore”, sarebbe una
regola perfettamente analoga a quella che lo stesso legislatore ha dettato con
riferimento agli atti dispositivi di tipo sostanziale, che i titolari del rapporto
pregiudiziale pongono in essere e che abbiamo detto vincolano anche il titolare del
rapporto dipendente. Secondo il professor Luiso si tratterebbe di una categoria
estremamente limitata in cui oltre alla sub locazione rientrerebbero soltanto i cd
sub contratti.

Ora, il limite di questa tesi è che, a parte i sub contratti, esistono molti altri settori
in cui sussistono, si intravedono, delle esigenze particolari, esigenze pubblicistiche
di certezza del diritto, che inducono gli operatori a garantire la efficacia riflessa
forte del giudicato reso inter partes. Il riferimento in particolare è a settori quali lo
status delle persone oppure la circolazione dei beni immobili, e infatti si tratta di
una serie di settori in cui spesso e volentieri il legislatore ha adottato una serie di
accorgimenti tesi ad assicurare la esigenza di certezza del diritto, vedi ad esempio
i registri dello stato civile oppure i registri relativi ai diritti su beni immobili.

Infine abbiamo una tesi intermedia, la tesi della efficacia riflessa debole,
teorizzata dal prof Enrico Tullio Liebman in una nota monografia. Questa teoria è
una teoria che di fatto generalizza la soluzione che troviamo espressa negli art
1485 del cc in tema di garanzia per evizione, nonché negli artt 2859 e 2870 cc in
tema di terzo acquirente dell’immobile ipotecato o di terzo datore di ipoteca.

È la tesi della efficacia riflessa debole della sentenza resa inter partes, una tesi per
cui il giudicato produce effetti nei confronti del terzo, ma il terzo ha la possibilità di
dimostrare l’ingiustizia di questo giudicato, quindi di rimettere in discussione, sia
pure incidenter tantum, l’esistenza e il modo d’essere del rapporto pregiudiziale.
La tesi del professor Liebman viene elaborata sulla base della distinzione teorica
fra l’autorità della sentenza, che avrebbe un effetto illimitato, e la efficacia della
sentenza, efficacia della sentenza che appunto, nei confronti di soggetti diversi
dalle parti del processo, sarebbe una efficacia che non è quella riflessa forte,
perché al terzo, che non ha partecipato al processo, deve esser data la possibilità
di dimostrare la ingiustizia della sentenza per sottrarsi al vincolo, all’efficacia
dell’accertamento in essa contenuto.

In base a questa tesi quindi, nel secondo processo che ha ad oggetto il rapporto
dipendente, il terzo potrebbe sempre chiedere un accertamento incidenter tantum,
quindi senza autorità di cosa giudicata, circa l’esistenza e il modo d’essere del
rapporto pregiudiziale, corrente tra la controparte del rapporto dipendente e un
altro soggetto. Questo anche se il rapporto pregiudiziale ormai è stato accertato
con una sentenza passata in giudicato.

Il pregio di questa sentenza qual è? È quello di cercare un coordinamento tra la


esigenza di assicurare la armonia delle decisioni e l’esigenza di tutelare
adeguatamente il diritto di difesa del terzo, perché solo se il terzo non ha

290
argomenti, non ha elementi, diretti a dimostrare che l’accertamento del rapporto
pregiudiziale contenuto nella sentenza passata in giudicato è ingiusto, allora
rimane soggetto all’efficacia della sentenza.

Anche questa tesi è stata oggetto di serrate critiche: critiche sia teoriche, perché
non è affatto chiara la distinzione fra autorità ed efficacia della sentenza, non si
capisce cosa sia questa efficacia della sentenza, a che livello si muove questa
efficacia: molti hanno osservato che più che un efficacia questa tesi sembrerebbe
basarsi su un’inversione dell’onere della prova. Inoltre è stato osservato che
questa soluzione è stata elaborata alla luce sostanzialmente di tre disposizioni del
cc, e non tiene in debito conto un’altra serie di disposizioni contenute nel cpc,
prima tra tutti l’art 404 secondo comma, che invece sembrano presupporre un
efficacia forte, un efficacia che vincola il terzo titolare del rapporto giuridicamente
dipendente.

(file 2) Abbiamo terminato di passare in rassegna le tesi che sono state avanzate in
dottrina in tema di limiti soggettivi della sentenza civile nell’ambito dei rapporti
connessi per pregiudizialità dipendenza pendenti tra parti diverse. Le tesi che io vi
ho proposto sono tesi che cercano di offrire una soluzione generale, una soluzione
cioè che deve essere applicata laddove non c’è una espressa previsione
normativa. Volendo attualizzare il dibattito dobbiamo prendere atto che, secondo
gli orientamenti più attuali e diciamo preferibili, non si ritiene che la questione dei
limiti soggettivi del giudicato civile abbia una soluzione unitaria, ma piuttosto si
preferisce offrire soluzioni per settori, per gruppi di fattispecie, tenendo conto delle
caratteristiche di queste fattispecie, a partire dalla disciplina positiva.

Allora possiamo, in questa direzione, cercare di offrire alcuni punti fermi. Intanto,
diciamo che le tesi che hanno cercato di limitare l’efficacia riflessa della sentenza
inter partes nei confronti del terzo titolare di un rapporto giuridicamente
dipendente, sono tesi che sono state elaborate nella prospettiva di garantire in
maniera adeguata il diritto di difesa del terzo. Ma se così è, allora, possiamo
convenire con quanti ritengono che non dovrebbero esserci difficoltà a configurare
la estensione al terzo degli effetti del giudicato reso tra le parti del rapporto
pregiudiziale allorquando si tratti di effetti favorevoli.

D’altra parte ricordiamoci che l’art 1306 cc, che è una norma che ha un ambito
applicativo piuttosto esteso valendo sia con riferimento alle obbligazioni solidali ad
interesse comune, ma anche con riferimento alle obbligazioni solidali a interesse
unisoggettivo, che abbiamo detto riproducono lo schema della connessione per
pregiudizialità dipendenza, e probabilmente anche alle obbligazioni indivisibili.
Ecco, l’art 1306 offre, applica, adotta proprio un criterio che tiene conto del se
l’effetto della sentenza è un effetto favorevole o un effetto invece sfavorevole: nel
primo caso consente ai condebitori o concreditori rimasti estranei al processo di
utilizzare il giudicato, mentre invece se l’effetto è sfavorevole chiarisce molto bene
che questo giudicato non li può pregiudicare. Quindi potremmo concordare con
chi propone di riconoscere che il giudicato favorevole possa produrre i propri
effetti nei confronti del terzo.

291
Quanto invece all’ipotesi dei giudicati sfavorevoli, probabilmente occorre tenere
conto della circostanza che esistono dei settori in cui c’è una particolare esigenza
di certezza del diritto, e quindi si tratta di settori con riferimento ai quali vale la
pena riflettere in ordine alla possibilità di ammettere che l’efficacia riflessa forte
della sentenza possa essere configurata; a meno che naturalmente non si
preferisca imporre la regola del litisconsorzio necessario, perché, in fin dei conti, la
regola del litisconsorzio necessario assolve alla stessa funzione: far sì cioè che
venga emanata una sentenza che vincola tutti.

Questo settore innanzitutto è il settore degli status personali che coinvolgono più
persone: pensate al rapporto di paternità, al rapporto di filiazione, che coinvolgono
necessariamente tre soggetti, non soltanto padre figlio, ma anche sicuramente la
madre. La stessa esigenza viene avvertita nell’ambito della circolazione dei beni
immobili.

Ci sono poi quelle particolari forme di pregiudizialità dipendenza cd permanente su


cui diciamo che l’osservazione del professor Luiso probabilmente merita di esser
condivisa. Vi ricordate è l’art 1595 cc terzo comma, che prevede che la sentenza
che dichiara la nullità o la risoluzione del contratto tra locatore e conduttore è
opponibile anche al sub conduttore. Il professor Luiso aveva osservato che qui la
pregiudizialità dipendenza si atteggia in modo particolare, perché è una
pregiudizialità dipendenza permanente: i due rapporti (rapporto pregiudiziale e
rapporto dipendente, ovvero rapporto di locazione e rapporto di sub locazione)
sono due rapporti che sono in vita contemporaneamente; e così come il sub
conduttore subisce, è soggetto agli effetti degli atti dispositivi posti in essere dalle
parti del rapporto pregiudiziale sullo stesso, così lo stesso sub conduttore è
soggetto agli effetti della sentenza resa inter partes. Vi ricordate, lo stesso
professor Luiso aveva rilevato che questa stessa caratteristica la si rinviene in
generale in tutti i sub contratti, quindi questo è un settore in cui si potrebbe
riconoscere un efficacia riflessa forte.

Per il resto non si può prescindere dalla esigenza di apprestare una adeguata
tutela al diritto di difesa del terzo. Ed è in questa direzione che il prof Proto
Pisani qualche anno fa ha elaborato una nuova proposta di soluzione. Il professor
Proto Pisani ha proposto di ritenere che si potrebbe riconoscere che le prove
raccolte nel primo processo possano conservare la propria efficacia di prova
anche nel successivo processo instaurato contro il terzo. Quindi non si tratterebbe
di una efficacia riflessa del giudicato, ma il prof Pisani sposta la propria soluzione
sulle prove acquisite, riconoscendo alla parte del rapporto pregiudiziale, che è
parte anche del rapporto dipendente, la possibilità di spendere nel secondo
processo avente ad oggetto il rapporto dipendente, le prove già acquisite nel
primo processo, con un limite, naturalmente, perché il diritto di difesa del terzo
impone di concedere a questi il diritto di prova contraria, oltre naturalmente al
potere di allegazione di fatti rilevanti. E questo diciamo è l’ultima proposta che è
stata avanzata con riferimento a questa complicatissima questione.

Direi che con questo possiamo ritenere conclusa la trattazione dei limiti soggettivi
del giudicato civile nei confronti dei terzi titolari di rapporti giuridicamente
292
dipendenti, ci manca soltanto qualche precisazione con riferimento alla categoria
dei creditori, che taluni richiamano nell’alveo dei titolari di rapporti giuridicamente
dipendenti.

Diciamo che al di là della questione teorica, quindi della questione relativa al se


effettivamente il creditore si presta ad esser ricondotto nella categoria dei terzi
titolari di rapporti giuridicamente dipendenti, una cosa deve essere riconosciuta:
che la posizione del creditore è vincolata alla posizione del debitore. E questa è la
conseguenza necessaria del principio della responsabilità patrimoniale, art 2740
cc, per cui “il debitore risponde delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni
presenti e futuri”, ne consegue che tutto ciò, tutte le situazioni giuridiche che
vanno, che rientrano, o non rientrano, nel patrimonio del debitore, per forza di
cose, attraverso il principio della responsabilità patrimoniale hanno rilevanza nei
confronti dei creditori.

Come vi dicevo, al di là della questione teorica, possiamo dire che il principio della
responsabilità patrimoniale impone all’interprete di considerare che, in ogni caso la
sentenza emanata contro il debitore, produce inevitabilmente i suoi effetti nei
confronti del creditore, perché: se è una sentenza con riferimento alla quale il
debitore rimane soccombente, che quindi accerta la esistenza di un diritto del
terzo nei confronti del debitore, o accerta che un determinato diritto appartiene al
terzo e non al debitore, è chiaro che la posizione dei creditori ne risente. E questo
induce a ritenere che i creditori si trovino in una condizione tale da meritare una
tutela adeguata. E questo porta a suffragare la tesi secondo cui anche i creditori
dovrebbero poter fruire degli strumenti che il legislatore pone a disposizione dei
terzi titolari dei rapporti giuridicamente dipendenti, e quindi possano anche i
creditori in via preventiva esperire intervento adesivo dipendente in base all’art 105
secondo comma, e in via successiva possano proporre opposizione di terzo
revocatoria, ed infatti l’art 404 secondo comma non a caso li richiama
espressamente. La questione dei poteri processuali che il creditore può utilizzare,
può spiegare, nel processo che ha ad oggetto il rapporto del debitore è una
questione che dovremo risolvere alla stessa identica stregua di come la dovremo
risolvere in via generale con riferimento a tutti i terzi titolari di rapporti
giuridicamente dipendenti, ma ne parleremo quando andremo a trattare appunto
l’intervento adesivo dipendente.

Dopo questa lunga disamina possiamo spostare la nostra attenzione sugli istituti
che sono strumentali alla formazione del processo litisconsortile, e questa
analisi la dobbiamo intraprendere richiamando il principio che tante volte abbiamo
ricordato, ovvero che il modo in cui si forma il processo litisconsortile non ha
nessuna rilevanza sulla disciplina processuale, perché l’unico elemento che a tale
scopo rileva è la struttura delle situazioni giuridiche di cui sono affermati titolari le
parti.

Allora, fatta questa importantissima premessa, cominciamo ad analizzare l’art 103


che si occupa del cd litisconsorzio facoltativo. Leggiamo la disposizione: “più
parti possono agire o esser convenute nello stesso processo, quando tra le cause

293
che si propongono esiste connessione per l’oggetto o per titolo dal quale
dipendono, oppure quando la decisione dipende totalmente o parzialmente dalla
risoluzione di identiche questioni. Il giudice può disporre nel corso della istruzione
o della decisione, la separazione delle cause se vi è istanza di tutte le parti, ovvero
quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso
il processo, e può rimettere al giudice inferiore le cause di sua competenza”.
Allora, questa disposizione si occupa dei casi in cui il processo si svolge fin
dall’inizio tra più parti. Si tratta appunto di ipotesi in cui la formazione del
processo litisconsortile non è obbligatoria, e questo segna la distanza tra questa
disposizione e la disposizione precedente, l’art 102 che si occupa invece del
litisconsorzio necessario (facoltativo dice, lapsus evidentemente min -7.01).

Le fattispecie che rientrano nella previsione di questa norma sono molto


eterogenee, sono fattispecie che riproducono le più diverse specie di connessione
tra parti diverse. E questa spiega il perché la disciplina del litisconsorzio facoltativo
non è affatto unitaria, quindi siamo di fronte ad una ipotesi molto diversa da quella
del litisconsorzio necessario. Di volta in volta dovremo confrontarci con il tipo di
connessione che intercorre tra le più cause riunite, e, in considerazione della
natura del vincolo che intercorre tra le più domande, o, il che è lo stesso, tra i più
rapporti giuridici dedotti in giudizio fra parti diverse, dovremo offrire una diversa
soluzione alla questione di individuazione delle regole di svolgimento di questo
processo litisconsortile.

Ricordiamoci che, ancora una volta, nelle stesse fattispecie che rientrano nell’art
103 è possibile che il processo litisconsortile si realizzi in via successiva a seguito
ad esempio di riunione delle cause separatamente proposte in base agli art 274 e
40; oppure attraverso intervento: intervento volontario art 105 o coatto del terzo, e
quindi su istanza di parte art 106 o su ordine del giudice art 107.

Allora, passando alla ricostruzione dell’ambito applicativo dell’istituto, vedete che


la norma contiene un riferimento espresso alle ipotesi di due o più domande la cui
soluzione dipende totalmente o parzialmente dalla risoluzione di identiche
questioni. Si tratta del cd litisconsorzio facoltativo improprio, quindi si tratta di un
processo oggettivamente e soggettivamente cumulativo, relativo a cause pendenti
tra parti parzialmente diverse, ed aventi ad oggetto rapporti giuridici legati da un
vincolo di connessione piuttosto blando.

C’è una particolarità da segnalare nelle controversie in materie di lavoro e di


previdenza e assistenza e nelle controversie dinanzi al giudice di pace, perché in
base all’art 151 delle disposizioni di attuazione del cpc, in questi casi la riunione
dei processi separatamente proposti dinnanzi allo stesso giudice deve essere
effettuata a norma dell’art 274, a meno che non renda troppo gravoso o
comunque ritardi eccessivamente il processo.

Nel silenzio della legge si ritiene che le questioni identiche possano essere
questioni di fatto e questioni di diritto. Quindi gli esempi classici che di solito si
propongono riguardano ad esempio i contratti stipulati su moduli identici secondo
quanto previsto secondo nell’art 1342 cc, oppure il caso di più lavoratori che
294
agiscono nei confronti del comune datore di lavoro facendo valere situazioni
giuridiche distinte, ma ugualmente fondate sulla medesima clausola presente in
tutti i contratti di lavoro individuale.

Si tratta di rapporti giuridici sostanzialmente autonomi e per questo è opinione


comune quella secondo cui il processo cumulativo qui assolve una funzione di
sola economia processuale, nel senso che il giudice potrà accertare, naturalmente
senza autorità di cosa giudicata, una sola volta la questione di fatto e \ o di diritto
che è comune alle diverse controversie. Per questo si ritiene altresì che ciascuna
parte conservi la piena titolarità dei propri poteri processuali e che quindi sia del
tutto autonoma nella gestione della propria lite e che il giudice possa sempre
disporre la separazione delle cause riunite, vuoi in fase istruttoria, ai sensi dell’art
103 comma secondo, vuoi in fase decisoria,in base all’art 279 comma secondo
n°5, per cui, previa separazione delle cause, disposta con ordinanza il giudice
potrà decidere con sentenza definitiva la causa matura per la decisione,
rimettendo l’altra causa in fase istruttoria o comunque di fronte al giudice
competente se la causa che ancora non è matura per la decisione appartiene alla
competenza del giudice inferiore.

(file 3) Le altre fattispecie che sono comprese nella previsione dell’art 103
concernono forme di connessione certamente più intense rispetto a quelle appena
esaminate. Innanzitutto, il litisconsorzio facoltativo ricorre nei casi in cui le
domande proposte nei confronti di più parti o da più parti risultano connesse per
identità del petitum e \ o della causa petendi.

Pendiamo avvio, anche in questo caso, dalla forma più blanda, e quindi
consideriamo il caso in cui la domanda viene proposta da o contro più parti tra le
quali corrono rapporti giuridici che sono connessi per identità di titolo o per
identità parziale della causa petendi. L’esempio tipico è quello dei diversi
danneggiati che agiscono nei confronti del comune danneggiante per ottenere il
risarcimento del danno subito nel medesimo sinistro. Però vi rientrano anche le
obbligazioni parziarie, come nel caso in cui il creditore del de cuius agisce nei
confronti dei diversi coeredi, che sappiamo sono tenuti in via parziaria.

Siamo ancora una volta alla presenza di una connessione tutto sommato blanda,
che mette in gioco esigenze di economia dei giudizi, ma non anche esigenze
legate alla armonia delle decisioni, perché è pacifico che la causa petendi viene
sempre accertata senza autorità di cosa giudicata. Infatti anche in questa ipotesi
non è previsto una deroga ai criteri originari di competenza volta a facilitare la
formazione del litisconsorzio. Ancora una volta nel processo simultaneo ciascuna
parte conserva i propri poteri processuali, perché le due cause sono
sostanzialmente autonome e questo spiega il perché le due controversie, sebbene
le due o più controversie, sebbene riunite di fronte allo stesso giudice, possono
avere un esito di merito diverso e anche opposto.

Anche in questo caso è pacifico che il giudice possa disporre la separazione delle
cause, sia in fase istruttoria sia in fase decisoria, in quest’ultima ipotesi si prevede,
naturalmente, si ammette, la possibilità che il giudice, previa ordinanza di

295
separazione delle due cause, decida, si pronunci sulla causa matura per la
decisione con sentenza definitiva emanata ai sensi dell’art 279 comma secondo
n°5.

Una ipotesi ulteriore di litisconsorzio facoltativo si ha nei casi di cause connesse


per identità di oggetto, il cd petitum. Questa forma di connessione che si
manifesta tipicamente nella forma della alternatività, ricorre laddove l’attore agisce
contestualmente nei confronti di due convenuti, chiedendo al giudice per esempio
di accertare chi è il vero responsabile del danno che ha subito.

Si tratta di una forma di connessione certamente più intensa rispetto alle


precedenti, tant’è vero che l’art 33, per favorire il cumulo processuale, ammette la
possibilità di derogare ai criteri di competenza territoriali. Questo litisconsorzio,
almeno finché è in gioco il profilo della responsabilità, viene ritenuto facoltativo sì
quanto alla instaurazione, ma necessario quanto alla trattazione e decisione.
Perché è indispensabile, una volta che il litisconsorzio si è formato, che il giudice si
pronunci in via unitaria in ordine al profilo della responsabilità, che quindi il suo
accertamento venga emanato nei confronti di tutte le parti del processo.

Tuttavia, nel momento in cui la responsabilità viene accertata, e quindi laddove


l’accertamento del giudice viene accettato dalle parti, per cui il giudice arriva a
escludere ad esempio la responsabilità di uno dei convenuti, allora è possibile che
il litisconsorzio venga meno. Questo si potrà avere nel passaggio della causa dal
giudice inferiore al giudice superiore, per cui: se, come regola generale, in questa
ipotesi si dovrà richiamare la disciplina delle cause inscindibili, eccezionalmente,
quando cioè la controversia prosegue da o nei confronti di colui che è stato
accertato come responsabile su profili ulteriori e accessori, come può essere il
profilo del quantum della obbligazione risarcitoria, la disciplina applicabile può
essere quella delle cause scindibili, ma attenzione questo lo ripeto, può accadere
soltanto allorquando il giudice ha risolto il profilo della responsabilità e questo
accertamento viene accettato dalle parti.

PARTE SECONDA

Poi abbiamo la forma di connessione più intensa, ovvero quella che ricorre quando
vi è identità sia del petitum che della causa pretendi. Naturalmente si fa riferimento
ai casi in cui viene dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo ma non si
applica la disciplina del litisconsorzio necessario.

Per esempio, riprendendo le fattispecie a suo tempo esaminate, nel caso in cui
venga impugnato un contratto bilaterale a parti collettive che ha effetti meramente
obbligatori; oppure l’azione di rivendica che viene esercitata nei confronti di uno
dei compossessori del bene; oppure l’azione costitutiva di servitù esercitata da
uno dei titolari del fondo dominante nei confronti del proprietario unico del fondo
servente; oppure l’ipotesi delle impugnazioni delle delibere assembleari.

In questo settore, l’abbiamo già anticipato me è importante ripeterlo, la disciplina


non è affatto la stessa, perché i casi che non rientrano nell’ambito applicativo
dell’art. 102 sicuramente danno luogo ad una forma di litisconsorzio facoltativo
quanto alla instaurazione, ma quanto alla trattazione e decisione occorre ricordare

296
che tutte queste fattispecie non vanno soggette ad una disciplina unitaria nella
parte in cui, mentre alcune di queste ipotesi sono soggette alla disciplina del
litisconsorzio c.d. unitario (è un processo litisconsortile facoltativo quanto alla
instaurazione, ma necessario quanto a trattazione e decisione), altre ipotesi invece
danno luogo ad una forma di litisconsorzio facoltativo quanto non solo
all’instaurazione ma anche per quanto riguarda la trattazione e decisione.

Nel primo gruppo di ipotesi rientrano sicuramente i giudizi di impugnazione delle


delibere assembleari, arte. 2377 e 2378 c.c. ; qui ci preme ricordare che una volta
che le domande dei legittimati ad agire sono state contestualmente proposte il
giudice non potrà mai disporre la separazione delle cause che dovranno
proseguire unitariamente non solo in primo grado ma anche nel passaggio di
fronte al giudice dell’impugnazione.

Invece ci sono altre fattispecie, come ad esempio le obbligazioni solidali, che pur
presentando una forma di connessione molto intensa, si connotano per la spiccata
autonomia che corrono tra i rapporti della parte comune e i diversi coobbligati/
concreditori, per cui a livello processuale abbiamo detto che si applica la disciplina
del litisconsorzio facoltativo, non soltanto per quanto riguarda l’instaurazione
(come si ricava dall’art. 1306 c.c.), ma anche alla trattazione e decisione (come si
ricava dall’art. 1305 c.c.), per cui le più domande, anche se vengono proposte
nell’ambito dello stesso processo, possono subire un esito di merito diverso.

Quindi il giudice, stante questa premessa, potrà disporre la separazione delle


cause in fase istruttoria o in fase decisoria, e in quest’ultimo caso potrà emanare
una decisione con riferimento ad una o alle più cause che sono già mature per la
decisione, previo provvedimento di separazione, con sentenza definitiva.

Infine il litisconsorzio facoltativo ricorre anche nelle ipotesi in cui l’attore, attraverso
la sua domanda giudiziale, deduca contestualmente in giudizio: vuoi il rapporto
pregiudiziale, vuoi il rapporto dipendente, laddove i due rapporti corrano fra due
soggetti diversi.

È l’ipotesi in cui l’attore propone azione di impugnativa negoziale nei confronti


della controparte e contestualmente propone domanda di restituzione del bene nei
confronti del terzo avente causa dal convenuto.

Oppure è il caso in cui il creditore agisce contemporaneamente vuoi nei confronti


del debitore originario, vuoi nei confronti del fideiussore.

Più in generale, può ricorrere nelle c.d. obbligazioni solidali ad interesse


unisoggettivo, versandosi in ipotesi di connessione per pregiudizialità dipendenza
—> qui il processo simultaneo viene favorito dal legislatore per assicurare il
coordinamento delle decisioni, quindi per evitare il formarsi di giudicati di sentenze
logicamente contraddittorie, quindi si rende necessario assicurare il
coordinamento delle attività svolte dai litisconsorti, ma soprattutto si rende
indispensabile assicurare il diritto alla difesa del terzo titolare del rapporto
giuridicamente dipendente con riferimento alla causa avente ad oggetto il rapporto

297
pregiudiziale, ma di questo, come abbiamo già anticipato più volte andremo a
parlare trattando dell’intervento adesivo dipendente.

Con riferimento a questa particolare ipotesi abbiamo detto che, stante la forte
esigenza di assicurare il coordinamento delle decisioni il giudice non potrà
disporre la separazione delle cause, e laddove la causa pregiudiziale è matura per
la decisione prima della causa dipendente l’unica possibilità è emanare sulla prima
sentenza non definitiva ai sensi dell’art. 279 comma 2 n.4 perché ciò assicura il
coordinamento delle decisioni.

Con riferimento alla disciplina in fase di gravame, la ricostruzione deve basarsi sul
rilievo secondo cui il nesso di pregiudizialità dipendenza può venir meno in talune
ipotesi, per cui, come andremo a verificare attentamente nella lezione dedicata al
litisconsorzio in fase di gravame, la disciplina non è unitaria ma dovrà variare in
ragione dell’esito a cui le cause sono pervenute a conclusione del processo di
primo grado, in ragione del soggetto che assume l’iniziativa impugnatoria, e anche
dei motivi su cui l’impugnazione si fonda.

Detto tutto questo, passiamo adesso ad un nuovo tema, per andare ad esaminare
la disciplina degli interventi.

Abbiamo più volte richiamato quest’istituto, già sappiamo che è un istituto


strumentale alla formazione del processo litisconsortile, in particolare attraverso
l’intervento del terzo, il processo litisconsortile si forma in corso di causa e non ab
origine.

Già sappiamo che l’ordinamento prevede 3 diverse specie di interventi:

- intervento volontario del terzo —> art. 105

- intervento coatto su istanza di parte —> art. 106

- intervento coatto su ordine del giudice —> art. 107

Andiamo ad esaminare la disciplina dei 3 istituti partendo dall’art. 105.

L’intervento volontario del terzo può essere spiegato in una serie nutrita di ipotesi
che sono indicate nell’art. 105. Dobbiamo distinguere le ipotesi rientranti nel primo
comma, dal caso previsto invece nel secondo comma. Leggiamo la disposizione

“ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in
confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un dirlo relativo all’oggetto o dipende
dal titolo dedotto nel processo medesimo.”

Nel secondo comma si legge che “può altresì intervenire per sostenere le ragioni di
alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse”.

Le ipotesi contemplate nel primo comma dell’articolo 105 si connotano per il fatto
che l’intervento del terzo determina un ampliamento non solo soggettivo del
processo ma anche oggettivo, perché in queste ipotesi il terzo, nel momento in cui
entra nel processo altrui, propone una vera e propria domanda giudiziale, quindi
deduce in giudizio un rapporto giuridico ulteriore rispetto a quello che già

298
costituisce l’oggetto del processo nei confronti di entrambe le parti originarie del
processo, oppure nei confronti di una sola delle parti.

In senso contrario nel caso previsto nel secondo comma dell’art. 105, il terzo che
interviene non propone una vera e propria domanda giudiziale, quindi non deduce
in giudizio un rapporto giuridico ulteriore rispetto a quello che costituisce l’oggetto
del processo, per cui si ha un ampliamento in senso soggettivo, ma non anche
oggettivo —> questo è il caso del c.d. intervento adesivo dipendente.

Cominciamo ad analizzare le diverse fattispecie, prendendo avvio dal primo


comma e dall’intervento c.d. principale, detto anche intervento ad escludendum.

Si tratta dell’ipotesi in cui, il terzo che interviene propone una domanda giudiziale
nei confronti di entrambe le parti del processo, facendo valere un diritto autonomo
e incompatibile rispetto al rapporto oggetto originario del processo.

Autonomo perché fondato su un fatto costitutivo estraneo alle parti del processo.

Incompatibile perché relativo allo stesso oggetto e allo stesso bene della vita già
controverso tra le stesse parti.

Quindi si tratta di una classica forma di connessione per identità dell’oggetto o


petitum.

Il classico esempio si ha nell’ipotesi in cui nell’ambito di un giudizio in cui fra le


parti è controversa la titolarità di un determinato bene, interviene un terzo che
afferma, nei confronti di entrambe le parti, di essere lui il vero proprietario del bene
già controverso.

Si tratta di una ipotesi di intervento che evidentemente comporta un ampliamento


in senso non soltanto soggettivo ma anche oggettivo, perché il terzo fa valere nei
confronti di entrambe le parti una vera e propria domanda giudiziale, deducendo in
giudizio un rapporto giuridico ulteriore rispetto a quello che già costituisce
l’oggetto del processo.

Questo terzo. Come titolare di un rapporto autonomo ed incompatibile, se


rimanesse fuori dal processo non sarebbe soggetto all’efficacia della sentenza
emessa inter partes, ma ne verrebbe a subire sicuramente un pregiudizio fattuale,
pensate al momento in cui la sentenza viene messa in esecuzione, per cui colui
che risulta vittorioso ad esito del processo ottiene il rilascio del bene; e un
pregiudizio a livello di certezza del diritto, perché se c’è una sentenza passata in
giudicato che attribuisce il bene ad un altro soggetto è chiaro che il vero
proprietario, per quanto non vincolato a questa sentenza, va a subire un
pregiudizio, quindi nel momento in cui volesse vendere il bene probabilmente
questa incertezza andrebbe a pesare sul prezzo di vendita. —> per questo motivo
sappiamo che l’ordinamento attribuisce al terzo dei rimedi: uno è un rimedio
preventivo ed è appunto l’intervento principale, è un rimedio facoltativo che
consente al terzo di affermare il proprio diritto evitando che venga emanate una
sentenza fra le parti originarie del processo che attribuisce ad ognuna di esse la
titolarità del bene.

299
Questo non è l’unico rimedio, perché il terzo potrebbe anche seguire altre strade,
per esempio, dal momento in cui non è vincolato alla sentenza emessa inter
partes, ben potrebbe aprire un secondo ed autonomo processo nei confronti della
parte uscita vittoriosa dal primo processo, facendo valere il suo diritto.

Oppure potrebbe esercitare l’opposizione di terzo ordinaria, art. 404 primo


comma, ed ottenere l’eliminazione dal mondo giuridico della prima sentenza e
l’accertamento di esistenza del proprio diritto.

Abbiamo introdotto l’intervento principale spiegato dal terzo che si afferma titolare
di un rapporto autonomo incompatibile rispetto al rapporto oggetto originario del
processo.

Il terzo che esperisce intervento principale propone una domanda giudiziale nei
confronti di entrambe le parti originarie del processo. Per quanto riguarda la
disciplina processuale, trattandosi di un’ipotesi in cui oggetto del processo sono
due situazioni giuridiche connesse in modo piuttosto stretto, trattandosi di una
forma di connessione per identità di petitum, si ritiene che questo processo
cumulativo non possa essere sciolto, finché rimane controversa fra le parti la
questione appartenenza del bene, questo processo deve rimanere unitario.

Siccome le più controversie hanno ad oggetto dei rapporti autonomi, appare


chiaro che a ciascuno dei partecipanti al giudizio dovremo riconoscere piena
titolarità di poteri processuali autonomi, tuttavia il giudice non potrà disporre la
separazione delle cause né in fase istruttoria, né in fase decisoria. Nel passaggio
davanti al giudice delle impugnazioni il litisconsorzio dovrà rimanere fermo,
dovremo applicare la disciplina delle cause inscindibili —> l’art. 331 cpc che
impone che al giudizio dell’impugnazione prendano parte tutti coloro che erano già
presenti nel grado precedente di giudizio. (Art. 331 “Se la sentenza pronunciata tra
più parti in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti, non è stata impugnata
nei confronti di tutte, il giudice ordina l'integrazione del contraddittorio fissando il
termine nel quale la notificazione deve essere fatta e, se è necessario, l'udienza di
comparizione.”)

Possiamo ammettere un’unica eccezione: l’ipotesi in cui il giudice precedente ha


statuito sull’appartenenza del bene, la statuizione del giudice è accettata dalle
parti, perché l’impugnazione viene proposta solo con riferimento a domande
accessorie, ad es. le domande di restituzione che l’accertato proprietario porta
avanti nei confronti dell’originario detentore del bene. In questa ipotesi, che è
eccezionale, è possibile ammettere che il processo, nel passaggio di fronte
all’impugnazione, possa subire una semplificazione. Quindi si potrà consentire alla
parte risultata estranea di non prendere parte all’ulteriore grado di giudizio. Allora
in queste ipotesi soltanto si potrà applicare la disciplina delle cause scindibili, art.
332 cpc.

300
La seconda forma di intervento contemplata nel comma 1 art. 105 è l’intervento
adesivo litisconsortile, esperito dal terzo che è titolare di un diritto connesso per
identità di petitum e di causa pretendi con l’oggetto originario del processo. In
questa ipotesi, a differenza della precedente, il terzo che interviene propone una
domanda giudiziale nei confronti di una sola delle parti originarie, tuttavia le regole
di svolgimento del processo non potranno essere unitarie perché, come abbiamo
visto parlando delle forme di connessione e del litisconsorzio facoltativo, la
disciplina processuale dei rapporti plurisoggettivi varia in ragione della diversa
regolamentazione cui gli stessi sono soggetti a livello di legge sostanziale. Gli
esempi sono molteplici e già noti:

• Possiamo ricordare la vicenda dell’impugnazione delle delibere assembleari


societarie o condominiali: il caso in cui sia uno dei soci o uno dei condomini
assente o dissenziente ad esperire intervento nell’ambito del processo già aperto
da un altro socio o condominio. In questa ipotesi che in base alla disciplina
processuale dettata negli art. 2377-2378 si dovrà applicare la regola del
litisconsorzio unitario o quasi necessario.

• Un’ulteriore ipotesi ricorre nell’ambito delle obbligazioni solidali. Nell’ambito


del processo aperto da uno dei concreditori nei riguardi del comune debitore, può
esperire intervento un altro concreditore che, non essendo soggetto all’efficacia
sfavorevole della futura sentenza resa inter partes in applicazione di quanto
previsto dall’art. 1306 cc., può avere l’interesse a far valere subito la propria
pretesa nei confronti della parte comune. In questo caso si applicheranno le regole
del litisconsorzio facoltativo.

La terza forma di intervento è il cd. intervento adesivo autonomo, esperito da un


terzo connesso per identità di titolo o causa pretendi rispetto a quello originario
del processo.

Anche in questo caso il terzo che interviene, se rimanesse estraneo al processo,


non subirebbe l’efficacia della sentenza resa inter partes, perché in questa
particolare ipotesi non è immaginabile che il giudicato reso inter partes esplichi
efficacia nei confronti di un terzo dal momento in cui questi è titolare di una
situazione giuridica completamente autonoma rispetto a quella accertata.
Ricordiamo che la causa pretendi, gli elementi della fattispecie costitutiva, sono
sempre accertati dal giudice senza autorità di cosa giudicata, quindi incidenter
tantum. In questa ipotesi il terzo, intervenendo, propone un’autonoma domanda
giudiziale, deduce in giudizio il rapp. di cui è titolare ma nei confronti di una sola
delle parti nel processo. Qui si ha un ampliamento sia nel senso soggettivo sia in
senso oggettivo del giudizio.

Gli esempi sono quelli che abbiamo già proposto:

Es. Nelle obbligazioni parziarie: nel caso in cui un coerede agisce nei confronti del
debitore del decuius per ottenere l’adempimento della propria quota, si può
immaginare che nel processo intervenga volontariamente un altro coerede per
chiedere l’adempimento della quota di propria spettanza

301
Es. Nei casi in cui più persone risultano danneggiate nell’ambito del medesimo
fatto illecito. Se uno dei danneggiato propone azione di risarcimento del danno nei
confronti del comune danneggiante è possibile che un altro danneggiato esperisca
intervento chiedendo a sua volta di essere risarcito.

In tutte queste ipotesi si applicheranno sempre le regole del litisconsorzio


facoltativo.

Il comma 2 dell’art. 105 cpc fa riferimento all’intervento di chi ha un proprio


interesse per sostenere le ragione di alcuna delle parti (art. 105 co. 2 “Può altresì
intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio
interesse”).

Facciamo un chiarimento terminologico: il termine “interesse” che qui il legislatore


utilizza non deve essere frainteso e sovrapposto all’”interesse ad agire” di cui
all’art. 100 perché in questa ipotesi il termine interesse è usato dalla norma per
indicare i terzi che sono titolari di rapporti giuridicamente dipendenti. Già nell’art
1421 cc il legislatore, per attribuire la legittimazione straordinaria ad agire a terzi
titolari di rapporti giuridicamente dipendenti, parlava di terzi che hanno un
interesse (si tratta dell’azione di nullità del contratto).

Si parla in questa particolare ipotesi di intervento adesivo dipendente perché il


terzo interviene in via adesiva, interviene a fianco di una delle parti originarie per
sostenerne le ragioni.

A differenza di quanto verificato con riferimento alle fattispecie di intervento che


rientrano nel primo comma della disposizione che esaminiamo, il terzo interventore
in questo caso non deduce in giudizio il rapporto di cui è titolare, perché,
attraverso il suo intervento, il terzo chiede che l’esistenza, il modo d’essere del
rapporto oggetto originario del processo (il cd rapporto pregiudiziale) siano
accertati anche nei suoi confronti.

L’effetto dell’intervento per opinione pacifica è che il terzo acquista la qualità di


parte ed è vincolato all’accertamento di esistenza o non esistenza del rapporto
pregiudiziale emesso a conclusione del processo. L’istituto vale sicuramente ad
assicurare il coordinamento delle decisioni perché vale ad evitare che possano
formarsi giudicati logicamente contraddittori fra parti diverse.

Come già detto anticipato in precedenza è discussa la questione relativa alla


determinazione dei poteri processuali che può svolgere il terzo. Infatti in questa
ipotesi l’oggetto del processo è solo e soltanto il rapporto pregiudiziale di cui il
terzo interventore adesivo dipendente non è titolare. E’ una forma di intervento che
determina un ampliamento in senso soggettivo ma non oggettivo del processo,
quindi il terzo acquista la qualità di parte con riferimento ad un processo che ha ad
oggetto un rapporto giuridico di cui non è titolare.

D’altra parte nel momento in cui entra nel processo il terzo è soggetto all’efficacia
della sentenza che emanerà il giudice -> questo pone l’esigenza di tutelare in
maniera adeguata il diritto di difesa del terzo, pone l’esigenza di metterlo nella

302
condizione di prendere parte attivamente alla formazione del convincimento del
giudice, quindi il problema di attribuirgli poteri processuali adeguati dal momento
che sarà soggetto all’efficacia della sentenza.

Quando si affronta la questione di delimitazione dei poteri processuali del terzo


interventore adesivo dipendente, pesa molto forte l’esigenza di evitare che
l’entrata nel processo altrui segni la perdita dei poteri di difesa di cui il terzo
avrebbe goduto se fosse rimasto estraneo al processo. Ricordiamo che sono
enormi le incertezze che si agitano in ordine alla questione dei limiti soggettivi del
giudicato nei confronti di terzi titolari di rapporti giuridicamente dipendenti: non è
affatto pacifico che la sentenza emessa inter partes sul rapporto pregiudiziale sia
idonea a produrre effetti riflessi nei confronti del terzo titolare del rapporto
giuridicamente dipendente.

Il legislatore talvolta ha stabilito in modo espressa che il terzo è soggetto


all’efficacia riflessa forte dell’altrui sentenza e questo abbiamo verificato in tema di
sublocazione laddove l’art. 1595 co. 3 prevede espressamente che la nullità o la
risoluzione del contratto di locazione hanno effetto nei confronti del subconduttore
e che la sentenza pronunciata fra locatore e subconduttore ha effetto anche contro
di lui.

Quindi i terzi che rientrano in questa categoria, che sono soggetti pacificamente
all’efficacia riflessa forte della sentenza, non hanno altro rimedio se non
l’opposizione di terzo revocatoria subordinata al dolo e la collusione delle parti a
loro danno secondo quanto previsto nell’art. 404. Quando entrano nel processo
altrui sarebbero comunque già soggette all’efficacia riflessa forte della sentenza,
quindi l’entrata nell’altrui processo non determina un mutamento della loro
posizione. Escluse queste ipotesi che si riducono all’art. 1595 e probabilmente ai
subcontratti, seguendo anche la tesi prospettata da coloro che portano avanti
un’accezione più ristretta dei limiti soggettivi del giudicato, per il resto la dottrina
ha ritenuto che è difficile ritenere questi terzi titolari di rapporti giuridicamente
dipendenti soggetti a un’efficacia riflessa forte della sentenza.

Intanto ci sono disposizioni che prevedono esempi di efficacia riflessa debole


come l’art. 1485 in tema di garanzia per evizione e gli art. 2859 e 2870 cc in tema
di terzo acquirente dell’immobile ipotecato e terzo datore di ipoteca.

Poi c’è la solidarietà a interesse unisoggettivo in cui l’art 1306 esclude


espressamente che il giudicato possa produrre efficacia sfavorevole nei confronti
del condebitore rimasto estraneo al processo. Tolti questi esempi, abbiamo detto
che tendenzialmente si ritiene che il terzo non possa essere soggetto all’efficacia
riflessa forte della sentenza perché questo andrebbe a ledere in modo irrimediabile
il suo diritto di difesa e questo diritto di difesa è un valore che ha rilevanza
costituzionale.

Fatta questa premessa appare chiaro che, nel momento in cui si rietine che
tendenzialmente il terzo titolare del rapporto giuridicamente dipendente, se rimane
fuori dal processo, non è soggetto all’efficacia della sentenza resa inter partes, ma
nel momento in cui entra sicuramente è soggetto all’efficacia della sentenza, pone
l’esigenza fortissima di attribuirgli adeguati poteri processuali.

303
Una piccola precisazione prima di definire i poteri processuali: qualunque
soluzione si voglia prospettare, appare chiaro che questa soluzione dovrà valere
non solo nell’ipotesi in cui il terzo esperisce intervento adesivo dipendente, ma
dovrà valere anche nelle ipotesi in cui lo stesso terzo viene chiamato in causa per
comunanza di causa ai sensi dell’art. 106 prima parte (che è una chiamata in
causa a cui non corrisponde la deduzione in giudizio del rapporto dipendente) o
nel caso in cui nell’ambito dello stesso processo sono cumulate vuoi la causa
pregiudiziale, vuoi la causa dipendente, il che può avvenire o passando attraverso
l’art 103 dove è l’attore che propone contestualmente due domande avente ad
oggetto l’una un rapporto pregiudiziale, l’altra il rapporto dipendente, oppure a
seguito di chiamata in garanzia che è un figura speciale di connessione per
pregiudizialità dipendenza fra parti diverse.

Abbiamo richiamato una serie di istituti processuali diversi che però si riferiscono
alle medesime fattispecie, sono sempre gli stessi rapporti che entrano nel
processo in maniera differenziata, ma in tutte queste ipotesi la questione dei poteri
processuali del terzo titolare del rapporto giuridicamente dipendente rispetto al
rapporto pregiudiziale deve essere risolta in maniere unitaria. Non rileva mai la
modalità di formazione del processo litisconsortile nel momento in cui si va a
disegnare la disciplina processuale, l’unico elemento che conta è la struttura dei
rapporti che vengono dedotti in giudizio. Questo porta a ritenere che quindi
qualsiasi soluzione si voglia proporre questa soluzione deve valere con riferimento
a tutte le ipotesi che ho prospettato e che ho richiamato.

Nel ricostruire la disciplina dei poteri processuali che possono essere spiegati dal
terzo titolare di un rapporto dipendente che ha esperito intervento adesivo
dipendente, ricordiamoci che a prescindere dal modo in cui questo terzo è entrato
nel processo, il giudice è chiamato ad accertare l’esistenza e il modo d’essere del
rapporto pregiudiziale in maniera unitaria, cioè il suo accertamento dovrà valere
non solo nei confronti delle parti, ma dovrà valere anche nei confronti del terzo
titolare del rapporto giuridicamente dipendente che ha acquistato la qualità di
parte.

Abbiamo già rilevato che questa questione dev’essere risolta nell’ottica di favorire
la massima espansione al diritto di difesa del terzo.

In quest’ottica si spiega l’esigenza di attribuire al terzo poteri più ampli possibili,


che siano idonei a consentigli di contribuire alla formazione del convincimento del
giudice in ordine all’esistenza e al modo d’essere del rapporto pregiudiziale.

In questa direzione non ci sono difficoltà ad ammettere che l’interventore adesivo


dipendente possa esercitare il potere di mera difesa, quindi possa contestare in
maniera specifica i fatti giuridicamente rilevanti con riferimento al rapporto
pregiudiziale al fine di renderli controversi e perciò bisognosi di prova.

304
È altresì pacifico che il terzo possa proporre eccezioni in senso lato, quindi possa
dedurre in giudizio i fatti giuridicamente rilevanti, siano essi fatti costitutivi oppure
fatti estintivi, modificativi o impeditivi che operano di diritto, e che se spesi in
forma di eccezione, danno luogo ad eccezioni in senso lato, l’unica esclusione
copre i c.d. fatti costitutivi individuatori, perché sappiamo che l’allegazione di un
fatto costitutivo individuatole, rispetto a quello posto ad oggetto dell’originaria
domanda, comporta la proposizione di una domanda nuovo, il che non può essere
fatto dall’interventore adesivo dipendente, perché non è lui il legittimato ad agire.

Tendenzialmente si nega che possa sollevare le eccezioni in senso stretto, perché


secondo quanto ci siamo detti nel primo semestre a proposito delle eccezioni in
senso stresso, appare evidente che solo la parte interessata è ammessa ad
esercitare il diritto potestativo sostanziale che è sotteso alle eccezioni in senso
stretto.

Possiamo segnalare un’unica particolarità, ovvero l’eccezione di prescrizione e


decadenza, l’art. 2939 dice infatti che “la prescrizione può essere opposta dai
creditori e da chiunque vi ha interessa qualora la parte non la faccia valere e può
essere opposta anche se la parte vi ha rinunciato”.

In base a questa disposizione possiamo dunque ritenere che il terzo titolare del
rapporto giuridicamente dipendente possa oppure la prescrizione (che è una tipica
eccezione in senso stretto) ma possa opporre anche la decadenza, perché è
pacifico che questa disposizione si applica anche alla decadenza.

È pacifico che il terzo interventore adesivo dipendente possa esercitare poteri


istruttori, quindi possa produrre documenti e possa chiedere l’assunzione di prove
testimoniali.

Sempre in materia di prove c’è da far un’osservazione in ordine alle prove legali, in
particolare riguardo la confessione e il giuramento. Si tratta cioè di stabilire che
succede se una delle parti del rapporto pregiudiziale rilasci una confessione,
oppure presti giuramento.

Sappiamo che si tratta di due prove legali che vincolano il giudice.

Considerando tutto quanto ci siamo detti fino ad ora in ordine alla fortissima
esigenza di garantire il diritto di difesa del terzo, e considerato anche che questo
terzo entrato nell’altrui processo è destinato a rimanere soggetto agli effetti della
sentenza che va ad essere emanata, secondo la tesi preferibile occorre, anche in
quest’ipotesi, far applicazione della regola enunciata negli artt. 2733 comma terzo
e 2738 comma terzo c.c. in tema di litisconsorzio necessario, per cui la
confessione o il giuramento prestati da una delle parti del rapporto pregiudiziale,
evidentemente con riferimento ad un fatto rilevante ai fini dell’esistenza del
rapporto pregiudiziale, debba essere degradata da prova legale, a prova soggetta
al libero apprezzamento del giudice, perché altrimenti il rilascio di una confessione
o deferimento di un giuramento potrebbe essere un modo usato dalle parti per
nuocere al terzo (ricordatevi che questi sono tipicamente atti dispositivi).

Infine, particolarmente delicata è la questione del potere impugnazione, nel senso


che: se la sentenza resa sul rapporto pregiudiziale è impugnata da una delle parti

305
del rapporto pregiudiziale, allora è pacifico che il terzo interventore adesivo
dipendente sia parte necessaria del giudizio d’impugnazione.

Abbiamo detto il terzo è soggetto all’efficacia della sentenza che viene resa se
avesse preso parte al primo grado ma non prendesse parte al grado
d’impugnazione, e si tratterebbe di stabilire se il terzo rimane soggetto all’efficacia
della sentenza emanata a conclusione del primo grado, in cui è stato presente,
oppure è soggetto alla sentenza emanata a conclusione del processo
d’impugnazione, a cui non ha preso parte. Per cui sicuramente è parte necessaria.

Mentre un grossissimo problema si pone in ordine ad una diversa questione,


ovvero quella relativa al se possa essere il terzo ad assumere l’iniziativa
impugnatoria, cioè possa essere il terzo titolare del rapporto giuridicamente
dipendente a proporre impugnazione con riferimento al rapporto pregiudiziale nei
confronti delle parti di esso. È una questione estremamente dibattuta su cui in
questo momento non si entra, ma che si riprenderà nelle lezioni dedicate al
litisconsorzio in fase di gravame, perché abbiamo bisogno di introdurre ulteriori
elementi che possono contribuire a prospettare la migliore soluzione.

306
Lezione 18 - 13/05/20
PRIMA PARTE

Nella passata lezione abbiamo esaminato l'art 105 e abbiamo individuato le


diverse specie di intervento che rientrano in questa previsione.

Andiamo adesso ad esaminare la disciplina processuale dell'intervento


volontario.

La norma di riferimento è l'art 268 il quale al c.1 stabilisce che “L’intervento può
aver luogo sino a che non vengano precisate le conclusioni ” e al c.2 “Il terzo non
può compiere atti che al momento dell’intervento non sono più consentiti ad
alcuna altra parte, salvo che comparisca volontariamente per l’integrazione
necessaria del contraddittorio ”.

Questa norma detta una disciplina unitaria, che non tiene conto delle diverse
sottospecie di intervento previste nell'art 15. Se il primo comma sembra esprimere
una norma diretta a favorire l'intervento del terzo, laddove afferma chiaramente
che “fino alla precisazione delle conclusioni può aver luogo l'intervento”, il c.2
prevede invece una regola che si muove in un senso opposto, nel senso che
sembra disincentivare l'intervento laddove prevede che: “salvo l'intervento del
litisconsorte pretermesso (art 102), il terzo non può compiere atti che al momento
dell'intervento non sono più consentiti ad altra parte”. Deve quindi accettare il
processo nello stato in cui si trova. La conseguenza è evidente: laddove
l'intervento del terzo avviene all'indomani della scadenza delle preclusioni relative
all'allegazione dei fatti e all'esercizio dei poteri istruttori, questo terzo si troverà
nella condizione di partecipare al processo come convitato di pietra, perché ha
evidentemente le mani legate. Il legislatore del 90' ha fatto la scelta di organizzare
il processo a cognizione piena secondo un sistema progressivo e tendenzialmente
rigido di preclusioni, per cui, all'indomani della scadenza del termine di cui all'art
184, il terzo che entra non può esercitare poteri che incidono sulla formazione del
convincimento del giudice.

Questa previsione però crea gravi problemi, perché ogni volta che il terzo
interviene dopo la prima udienza: da una parte è vincolato all'accertamento che
sarà contenuto nella sentenza emessa a conclusione dello stesso processo;
dall'altra si trova a non poter esercitare più poteri processuali idonei ad incidere
sulla formazione del convincimento del giudice.

Lo scopo perseguito dal legislatore appare chiaro → non si vuole che l'entrata in
causa del terzo stravolga le regole di svolgimento del processo, poiché, laddove si
consenta al terzo che subentra nel processo di esercitare tutti i poteri processuali,
il principio del contraddittorio imporrebbe anche alle altre parti originarie la
possibilità di esercitare i ccdd poteri consequenziali ai poteri del terzo.

Questa situazione problematica impone una riflessione che distingua a seconda


della situazione giuridica di cui è titolare il terzo e,di conseguenza, della situazione
in cui il terzo viene a trovarsi a seconda che entri o non entri nel processo.

· Con riferimento al terzo titolare di un diritto autonomo e incompatibile e


307
che, se rimasto estraneo al processo, non sarebbe soggetto all'efficacia
della relativa sentenza e invece, se interviene, esperisce intervento
principale attraverso la deduzione in giudizio del proprio diritto che previene
il formarsi di un giudicato inter partes che lo può pregiudicare, ricordiamoci
che questo terzo ha dei rimedi ulteriori oltre l'intervento principale:

- rimedio ex post → può esperire l'opposizione di terzo ordinaria art 404 cpc

- può esperire intervento direttamente in appello, poiché l'art 344 sembra


ricomprendere questa categoria.

Se questo è vero, una lettura rigida dell'art 268, e quindi l'applicazione della
regola enunciata nell'art 268, significherebbe impedire l'intervento del terzo,
ma, considerato che l'intervento volontario in primo grado è un rimedio
preventivo e che se il terzo non o esercita potrà comunque aggredire la
sentenza di primo grado anche passata in giudicato (perché l'opposizione
ordinaria di terzo può essere esperita anche contro la sentenza passata in
giudicato) porta a ritenere che probabilmente questo intervento sarebbe
opportuno ritenerlo ammissibile lungo tutto il processo di primo grado con
attribuzione al terzo di pieni poteri.

· Consideriamo adesso l'intervento dei creditori e, più in generale, dei terzi


aventi causa, cioè terzi che sono titolari di un rapporto giuridicamente
dipendente e che, se non entrassero nel processo, sarebbero soggetti
all'efficacia riflessa della sentenza. Oppure anche senza subire tale efficacia,
ma che comunque una volta entrati nel processo sono sicuramente soggetti
all'efficacia della sentenza emessa inter partes. Anche in questo caso si può
rilevare che l'applicazione della regola rigida dell'art 268 rischia di impedire
l'intervento di questi soggetti, perché il terzo titolare di un diritto
giuridicamente dipendente - che se rimane estraneo al processo non è
soggetto all'efficacia riflessa forte della sentenza, oppure, è soggetto
all'efficacia riflessa debole, oppure all'efficacia riflessa forte ma sa di poter
esercitare l'opposizione di terzo revocatoria - non ha nessun interesse ad
entrare in questo processo, dal momento in cui una entrata successiva
all'art 184 gli impedisce l'esercizio di qualsiasi potere anche istruttorio.
Anche in questa hp, la considerazione che si tratta di un terzo che
probabilmente potrebbe agire in via di opposizione di terzo revocatoria ex
art 404 c.2, ovvero, di terzi che se non sono soggetti all'efficacia riflessa
della sentenza hanno ampi margini di difesa nel secondo processo avente
ad oggetto il rapporto dipendente, porta a ritenere che anche in questa
ipotesi si possa riconoscere a questi terzi di poter entrare in ogni momento
ed esercitare pienamente i propri poteri. Laddove si tratti di terzi destinati
comunque a subire l'efficacia riflessa forte emessa inter partes, si potrebbe
ritenere che siano ammessi ad esercitare poteri istruttori ove riescano a
dimostrare il dolo e la collusione delle parti originarie a loro danno.

308
INTERVENTO ADESIVO LITISCONSORTILE

E' esperito da terzi che sono titolari di rapporti giuridici connessi per identità di
petitum e di causa petendi. Si tratta dei rapporti plurisoggettivi.

In questa ipotesi, l'intervento del terzo in talune hp, pensiamo alle obbligazioni
solidali, è volto ad evitare la formazione di giudicati praticamente contraddittori.
Giudicati praticamente contraddittori che l'ordinamento, attraverso l'art 1306,
mostra di voler accettare, ma laddove vi sia la possibilità di evitarli, sarebbe
meglio farlo. Anche in questa hp, se si vuole davvero evitare il formarsi di giudicati
praticamente contraddittori, sarebbe opportuno, in considerazione del potere di
azione che hanno questi terzi, ritenere che possono esperire l'intervento lungo
tutto il processo di primo grado (fino alla precisazione delle conclusioni)
mantenendo fermi tutti i propri poteri processuali.

L'unica ipotesi in cui l'applicazione dell'art 268 c.2 non pone problemi è il caso
dell'intervento del terzo che si afferma titolare di un diritto connesso per la sola
causa petendi o di fatto storico, quindi l'INTERVENTO ADESIVO AUTONOMO. In
questa hp sappiamo di essere davanti a terzi che, se rimangono estranei al
processo, non sono soggetti ad alcuna efficacia della sentenza emessa inter
partes e che l'apertura di un secondo e autonomo processo avente ad oggetto il
diritto autonomo di questo terzo, non pone nessun rischio con riferimento alla
formazione di decisioni che non siano coordinate. Questo perché si tratta di
rapporti completamente autonomi, la causa petendi è accertata senza autorità di
cosa giudicata, quindi non si pone alcuna esigenza di assicurare il coordinamento
delle decisioni. È una forma di intervento che ha come unico scopo quello di
realizzare l'economia processuale, per cui l'applicazione della disciplina rigida
dell'art 268 non crea problemi poiché in questo caso, limitare l'intervento del terzo
agevola la più rapida conclusione del processo aperto tra le parti.

INTERVENTO SU ISTANZA DI PARTE ART 106

l'art 106, l'abbiamo già esaminato a lungo parlando della chiamata in garanzia,
prevede che “Ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene
comune la causa o dal quale pretende essere garantita”.

Andiamo ad analizzare la chiamata in causa del terzo per COMUNANZA DI


CAUSA.

La lettera dell'art 106 è molto diversa dall'art 105 in cui il legislatore fa riferimento
espressamente ad una serie ampia di forme di connessione che possono
intercorrere fra rapporti giuridici che fanno capo a parti parzialmente diverse. L'art
106 usa un'espressione molto più sintetica: la comunanza di causa.

È pacifica l'opinione per cui questa espressione possa essere intesa come un
richiamo alle forme di connessione già previste all'art 105. Alla luce di questa
considerazione, possiamo ricostruire l'ambito applicativo dell'art 106 sulla
falsariga di quanto abbiamo già osservato con riferimento all'art 105 seppure con
309
alcuni correttivi.

Cominciamo dalla connessione per identità di petitum e in particolare da una


forma di connessione che è già emersa parlando del litisconsorzio facoltativo, cioè
la connessione per alternatività: in questo settore possiamo ritrovare due diverse
figure:

1. la chiamata in causa del terzo pretendente

2. la chiamata in causa del terzo obbligato.

CHIAMATA IN CAUSA DEL TERZO PRETENDENTE → Si ha nei casi in cui l'attore


agisce nei confronti del convenuto, ma questi contesta non tanto l'esistenza in
senso oggettivo del suo obbligo, ma la titolarità attiva dell'attore. L'attore
propone una domanda di adempimento dell'obbligazione e il debitore si difende
affermando di essere sì debitore, ma nei confronti di un soggetto terzo (cd
pretendente).

In questa hp è possibile che i convenuto stesso, ma probabilmente anche l'attore,


decida di chiamare in causa il terzo per chiedere al giudice di accertare chi sia il
vero titolare attivo del rapporto.

Una nota: la titolarità del rapporto non è qui una questione di rito. Ciò che contesta
il debitore non è la legittimazione ad agire dell'attore, piuttosto, è l'identificazione
del titolare del rapporto, che è uno degli elementi che va ad individuare il rapporto
dedotto in giudizio. Quando si chiede al giudice di accertare chi sia il vero titolare,
non si fa altro che proporre due domande giudiziali che hanno ad oggetto due
rapporti giuridici distinti, ma connessi per identità di petitum (sotto il profilo di
alternatività). È una forma di condizionamento di domande,il giudice è chiamato ad
accertare se esiste l'uno o l'altro rapporto.

L'opportunità di questa chiamata risiede nell'interesse delle parti affinché venga


accertato quale sia il rapporto esistente evitando al convenuto di essere
soccombente due volte: il primo giudice potrebbe accogliere la domanda proposta
nei suoi confronti dall'attore, dopodiché il vero titolare potrebbe aprire un secondo
e autonomo processo per chiedere l'adempimento della stessa obbligazione e,
siccome il terzo non potrebbe ritenersi soggetto alla sentenza emessa inter partes,
il convenuto si troverebbe esposto ad una duplice condanna.

La chiamata in causa del terzo obbligato è l'hp speculare, sono le stesse


situazioni rovesciate: l'attore agisce nei confronti del convenuto chiedendo il
risarcimento del danno subito per es in un sinistro; il convenuto si difende
affermando di non essere lui il vero responsabile, indicando come tale un terzo.
Anche in questa hp è possibile che a seguito della contestazione della titolarità
passiva del rapporto si abbia la chiamata in causa del terzo. Sarà l'attore che
chiederà al giudice l'autorizzazione a chiamare in causa il terzo e, una volta
ottenuta, proporrà nei confronti del terzo una ulteriore domanda (alternativa),
chiedendo al giudice chi è il responsabile del danno e chi lo deve risarcire.
L'esigenza che giustifica la chiamata in causa è anche in questo caso di evitare
310
all'attore una doppia soccombenza: il primo giudice potrebbe rigettare la domanda
sollevata nei confronti del convenuto originario; il secondo giudice potrebbe
rigettare quella proposta contro il secondo convenuto.

Trattandosi di una forma di connessione per identità di petitum, questo


litisconsorzio deve rimanere unitario finché è in gioco la questione della titolarità
del rapporto.

È tuttavia possibile che, se a termine del primo grado di giudizio, il giudice accerta
la titolarità del rapporto e l'impugnazione è proposta su questioni ulteriori (es
rimane aperta la questione sulla quantificazione del diritto al risarcimento del
danno), la parte risultata estranea al rapporto possa non dover essere presente
nell'ambito del grado di impugnazione.

Quindi la regola generale è che: finché resta in gioco la questione sulla titolarità
del rapporto, il litisconsorzio che è facoltativo quanto all'instaurazione del
processo, è necessario quanto alla fase di trattazione e di decisione e anche in
fase di impugnazione. Laddove eccezionalmente il processo prosegue solo su
profili diversi rispetto all'appartenenza, è possibile che si abbia una
semplificazione, cioè che la parte risultata estranea non debba partecipare al
processo di impugnazione.

Quindi, riassumendo, se come regola generale si deve applicare la regola delle


cause inscindibili, eccezionalmente è possibile che si possa applicare la disciplina
delle cause scindibili di cui all'art 332.

CHIAMATA IN CAUSA DEL TERZO TITOLARE DI UN RAPPORTO GIURIDICO


CONNESSO PER IDENTITA' DI PETITUM E DI CAUSA PETENDI.

Siamo nell'ambito dei rapporti plurisoggettivi, evidentemente diversi da quelli


che rientrano nel litisconsorzio necessario. Ci rientrano in questa forma di
chiamata in causa, le classiche fattispecie in cui ci siamo più volte soffermati.
Nell'ambito di una causa proposta da alcuni soci assenti o dissenzienti di
impugnazione di una delibera assembleare è possibile che si abbia la chiamata in
causa del socio assente o dissenziente. Questa chiamata, per il cui tramite viene
proposta nei confronti del terzo una vera e propria domanda giudiziale per cui si
ha un ampliamento soggettivi e oggettivo della causa, sarà un processo
cumulativo che sarà soggetto alle regole del litisconsorzio quasi necessario/
unitario → facoltativo quanto all'instaurazione, ma necessario quanto a trattazione
e decisione, anche davanti al giudice dell'impugnazione (applicazione disciplina
cause inscindibili art 331).

Nello stesso settore rientrano anche le obbligazioni solidali. Se è proposta azione


di adempimento da parte del comune creditore nei confronti di uno o più debitori
solidali, è possibile che questi contesti l'esistenza del credito e allora il creditore
decida di chiamare in causa anche gli altri condebitori proponendo nei loro
confronti la domanda di adempimento → una domanda giudiziale avente ad
oggetto un rapporto connesso per identità di petitum e di causa petendi rispetto al
rapporto oggetto originario del processo. È possibile anche che, proposta azione
311
di adempimento di uno dei concreditori nei confronti del debitore comune, sia
quest'ultimo a chiamare in causa gli altri concreditori solidali chiedendo al giudice
di accertare la non esistenza del rapporto solidale.

In tutte queste hp, stante la sostanziale autonomia che connota i rapporti correnti
fra la parte comune e i condebitori solidali o concreditori solidali, si ha un
litisconsorzio facoltativo quanto all'introduzione, ma anche quanto alla trattazione
e decisione, e quindi anche di fronte al giudice dell'impugnazione le cause
rimangono scindibili.

CHIAMATA IN CAUSA DEL TERZO TITOLARE DI RAPPORTO GIURIDICO


CONNESSO PER IDENTITA' PARZIALE DELLA CAUSA PETENDI O PER IL
TITOLO

Per esempio: proposta azione di adempimento da parte del creditore nei confronti
di uno dei debitori parziari (supponiamo un erede), a fronte delle contestazioni
mosse da quest'ultimo circa l'esistenza del credito, l'attore può decidere di
chiamare in causa gli altri debitori parziari.

Anche in queste hp siamo di fronte ad esempi di litisconsorzio facoltativo, che


rispecchia il carattere molto tenue della connessione che intercorre fra i rapporti
giuridici di cui sono titolari le diverse parti. Si applicherà la disciplina del
litisconsorzio facoltativo sia in fase di instaurazione, sia in fase di trattazione e
decisione e impugnazione.

CHIAMATA IN CAUSA DEL TERZO TITOLARE DI UN RAPPORTO GIURIDIMENTE


DIPENDENTE.

È una figura diversa dalle precedenti. Abbiamo già fatto menzione di questa
possibilità quando abbiamo parlato della chiamata in garanzia. Questo tipo di
chiamata si distingue rispetto alle altre ipotesi fin qui esaminate, perché in questo
caso la domanda giudiziale non comporta la deduzione in giudizio del rapporto
dipendente. La chiamata in giudizio di un terzo titolare di un rapporto
giuridicamente dipendente comporta un ampliamento in senso soggettivo e non
oggettivo del processo. Ha come scopo quello di rendere il terzo soggetto
dell'efficacia della sentenza che sta per essere emanata inter partes. Si parla in
questo caso di LITIS DENUNTIATIO (istituto romanistico).

Anche qui gli esempi possono essere molteplici. In questa chiamata rientrano tutti
i settori di connessione per pregiudizialità-dipendenza che abbiamo richiamato:

- vi rientrano le hp che danno luogo alla chiamata in garanzia;

- tutto il settore delle obbligazioni solidali ad interesse unisoggettivo;

- le hp dei terzi aventi causa.

Volendo riunire le diverse fattispecie in relazione al tipo di efficacia cui il terzo


chiamato sarebbe soggetto ove rimanesse estraneo al processo, possiamo
ricordare:

312
· le hp in cui la chiamata è rivolta ad un terzo che, se rimasto estraneo al
processo, sarebbe soggetto all'efficacia riflessa debole della sentenza. È
l'hp della chiamata in causa del venditore ex art 1485 cc; oppure la
chiamata in causa del terzo datore di ipoteca o del terzo acquirente
dell'immobile ipotecato artt 2059 e 2870 cc. In questi casi, la chiamata in
causa per comunanza di causa, senza proposizione di una domanda
giudiziale nei confronti del terzo, ha come funzione quella di rendere loro
opponibile il giudicato che verrà emesso inter partes sul rapporto
pregiudiziale, privando questi terzi della possibilità di dimostrare, nel
secondo e autonomo processo avente ad oggetto il rapporto dipendente,
l'ingiustizia della sentenza resa sul rapporto pregiudiziale.

· È possibile poi che la chiamata sia diretta a terzi titolari di diritti dipendenti
che, se rimasti estranei al processo, non avrebbero subito alcuna efficacia
da parte della sentenza resa sul rapporto pregiudiziale. Pensiamo qui alla
chiamata in causa da parte dell'assicurato/danneggiante della società
assicuratrice ex art 1917 cc; oppure la chiamata in causa del fideiussore che
ha agito nei confronti del debitore principale. Anche in questi casi, la
chiamata in causa del terzo, sena proposizione della domanda giudiziale
avente ad oggetto il rapporto dipendente, assolve alla funzione di rendere il
terzo soggetto all'efficacia del giudicato sfavorevole, giudicato che, in caso
di mancata chiamata, sarebbe loro del tutto estraneo.

· C'è da ricordare poi che la chiamata in causa può riguardare anche terzi che
sarebbero in ogni caso soggetti all'efficacia della sentenza resa inter partes:
pensate alla chiamata in causa del subconduttore nei casi di cui all'art 1595
cc. In questo caso la chiamata in causa, senza contestuale proposizione
della domanda giudiziale avente ad oggetto il rapporto dipendente, serve a
privare questi terzi dell'unico strumento di difesa che avrebbero a loro
disposizione, cioè l'opposizione di terzo revocatoria art 404 c.2.

Come vi ho già detto, se il tema dei limiti soggettivi del giudicato civile nei
confronti dei terzi titolari di rapporti giuridicamente dipendenti è un tema
estremamente controverso e che non ha mai trovato una soluzione, è pacifico che
laddove questo terzo entri nel processo avente ad oggetto il rapporto
pregiudiziale, sarà soggetto al giudicato che si formerà inter partes. Inoltre, questo
effetto vale a prescindere dal modo in cui il terzo entra → È soggetto all'efficacia
della sentenza resa sul rapporto pregiudiziale sia che esperisca intervento
volontario (intervento adesivo dipendente art 105 c.2), sia nel caso in cui venga
chiamato in causa da una delle parti in base all'art 106, l'effetto è sempre lo
stesso.

Allo stesso modo, gli stessi saranno i poteri processuali che il terzo potrà
esercitare sia che intervenga volontariamente, sia che sia chiamato in causa per
comunanza di causa. Laddove il terzo venga chiamato per comunanza di causa,
dovrà vedersi attribuiti gli stessi poteri processuali che avrebbe acquisito ove

313
fosse intervenuto volontariamente.

Ricordiamoci che il modo di formazione del processo litisconsortile non incide


mai sulla disciplina processuale, poiché ciò che conta sono soltanto i vincoli, la
forma di connessione, che intercorre fra il rapporto oggetto del processo e il
rapporto di cui è titolare il terzo. (su questo punto possiamo rinviare a quanto ci
siamo detti sui poteri processuali attribuiti all'interventore adesivo dipendente)

DISCIPLINA PROCESSUALE INTERVENTO DEL TERZO SU ISTANZA DI PARTE

Come abbiamo visto nel primo semestre, la chiamata in causa del terzo può
avvenire:

1. su istanza del convenuto;

2. su istanza dell'attore.

Per quanto riguarda il convenuto, in base all'art 167 c.3, se questi intende
chiamare un terzo in causa lo deve farne dichiarazione nella stessa comparsa e
provvedere ai sensi dell'art 269.

Per quanto riguarda l'attore, rileva il disposto dell'art 183 (che si occupa della
prima udienza). L'attore si vede riconosciuto il potere di proporre fin dall'origine
due o più domande nei confronti di soggetti diversi, ma questo sarebbe un
litisconsorzio iniziale. Invece il suo potere di chiamata in causa di un terzo potrà
essere esercitato secondo quanto previsto nell'art 183 c. 5, in prima udienza. La
seconda parte del c.5 prevede espressamente che: “l'attore può altresì chiedere di
essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli articoli 106 e 269, terzo
comma, se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Le parti possono
precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate”.
Mentre il convenuto deve chiedere l'autorizzazione a chiamare in causa il terzo
nella comparsa di risposta depositata 20 gg prima della data dell'udienza, l'attore
ha come ultimo momento la prima udienza.

Se poi andiamo ad esaminare l'art 269 cpc, troviamo la disciplina processuale.

- In base al c.1: “Alla chiamata di un terzo nel processo a norma dell'articolo


106, la parte provvede mediante citazione a comparire nell'udienza fissata
dal giudice istruttore ai sensi del presente articolo, osservati i termini
dell'articolo 163-bis”. Quindi il terzo è un vero e proprio convenuto, quindi
dovrà essere chiamato in causa mediante un atto di citazione e dovranno
essergli assicurati i termini a difesa di cui all'art 163 bis.

- Il secondo comma si occupa dei casi in cui è il convenuto a chiamare il


terzo: “Il convenuto che intenda chiamare un terzo in causa deve, a pena di
decadenza, farne dichiarazione nella comparsa di risposta e contestualmente
chiedere al giudice istruttore lo spostamento della prima udienza allo scopo
di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini dell'articolo 163-
bis. Il giudice istruttore, entro cinque giorni dalla richiesta, provvede con
decreto a fissare la data della nuova udienza. Il decreto è comunicato dal
cancelliere alle parti costituite. La citazione è notificata al terzo a cura del
314
convenuto”. Il convenuto ha quindi l'onere di manifestare la sua intenzione
nella comparsa di risposta e deve contestualmente chiedere al giudice di
rinviare l'udienza, in modo che l'udienza sia la prima udienza per tutti, anche
per il terzo chiamato in causa, e che a questi siano assicurati i termini a
difesa ex 163 bis. È quindi necessario che tra il giorno della notifica dell'atto
di citazione e quello dell'udienza di comparizione intercorrano termini liberi
non inferiori a 90 gg o 150 gg. Il giudice istruttore, entro 5 gg dalla richiesta
provvede con decreto a fissare la data della nuova udienza, e il decreto
viene comunicato dal cancelliere alle parti costituite. La citazione è poi
notificata al terzo a cura del convenuto.

- Il terzo comma della disposizione si occupa invece del caso in cui


l'iniziativa è assunta dall'attore. “Se a seguito delle difese svolte dal
convenuto nella comparsa di risposta sia sorto l'interesse dell'attore a
chiamare in causa un terzo, l'attore deve a pena di decadenza chiedere
l'autorizzazione al giudice istruttore nella prima udienza”. È ripetuto quanto
già visto nell'art 183 c.5. Il giudice istruttore, se concede l'autorizzazione,
fissa una nuova udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel
rispetto dei termini dell'art 163 bis. La citazione è notificata al terzo a cura
dell'attore entro il termine perentorio stabilito dal giudice.

Qui la situazione di partenza è diversa perché l'attore può chiedere


l'autorizzazione a chiamare il terzo direttamente in prima udienza. A questo
punto, se il giudice concede l'autorizzazione, dovrà fissare una nuova
udienza in modo da dare tempo all'attore di notificare la citazione nel
rispetto del termine perentorio stabilito dal giudice, e per assicurare al terzo
il rispetto dei termini a difesa di cui all'art 163 bis.

- Il quarto comma precisa che “la parte che chiama in causa il terzo deve
notificare la citazione notificata entro il termine previsto dall'art 165 e il terzo
deve costituirsi a norma dell'art 166”. C'è quindi un richiamo alle stesse
norme previste per l'atto di citazione che avvia il processo. La parte che
chiama (che sia l'attore o il convenuto), deve provvedere al deposito della
citazione notificata entro il termine di cui all'art 165, quindi entro 10 gg
dall'ultima notifica. Il terzo ha invece l'onere di costituirsi mediante il
deposito della comparsa, entro il termine del 166, quindi 20gg prima della
nuova udienza.

- L'ultimo comma si riferisce all'hp in cui la chiamata avviene su istanza


dell'attore e precisa che “nella nuova udienza – perché ricordiamoci che
l'attore manifesta la sua intenzione in prima udienza, quindi se il giudice
accoglie la domanda dell'attore deve fissare una NUOVA prima udienza- per
le parti rimangono ferme le preclusioni collegate alla prima udienza di
trattazione, ma i termini eventuali di cui al c. 6 art 183 sono fissati dal giudice
istruttore nell'udienza di comparizione del terzo”. Quindi, ai fini dell'eventuale
appendice scritta, rileva la seconda (prima) udienza, quella in cui sono
presenti tutte le parti.

315
Precisazione → il terzo, che è un vero e proprio convenuto, potrà esercitare
tutti i poteri di difesa del convenuto. Allora il principio del contraddittorio ci
impone di ritenere che ad entrambe le parti originarie del processo debba
essere concesso un pieno diritto di replica, quindi potere di proporre le
domande e le eccezioni che sono conseguenza delle eccezioni che sono
svolte dal terzo.

Ultima notazione → anche il terzo potrà chiedere al giudice l'autorizzazione


a chiamare un ulteriore terzo, pensate all'hp delle vendite a catena.
Naturalmente in questo caso avrà l'onere di manifestare questa sua
intenzione nella comparsa di risposta depositata 20 gg prima della data
dell'udienza, e si applicherà di nuovo il c.2 dell'art 269, quindi dovrà
chiedere al giudice di spostare l'udienza ulteriormente in modo che anche al
successivo chiamato siano garantiti i termini a difesa di cui all'art 163 bis.

SECONDA PARTE

Naturalmente non mi soffermo sulla chiamata in garanzia perché questo istituto lo


abbiamo analizzato in maniera compiuta quando ci siamo occupati della
connessione per pregiudizialità dipendenza, mi limito a ricordarvi che, siccome il
rapporto di garanzia è un rapporto giuridicamente dipendente rispetto al rapporto
pregiudiziale che è l’oggetto originario del processo, colui che è chiamato in
garanzia, il nostro garante, non è altri che il terzo titolare di un rapporto
giuridicamente dipendente. Quindi con riferimento al garante dobbiamo ricordare
che a questa parte dovranno essere attribuiti gli stessi poteri processuali che si
riconoscono ad ogni terzo titolare di un rapporto giuridicamente dipendente che è
entrato nel processo avente ad oggetto il rapporto pregiudiziale attraverso
l'intervento adesivo dipendente, art.105 co.2, oppure a seguito di chiamata in
causa per comunanza di causa in base alla prima parte dell’art.106.

Detto questo passiamo adesso ad analizzare l’INTERVENTO PER ORDINE DEL


GIUDICE la cui disciplina è contenuta nell’art.107 che così recita: “il giudice
quando ritiene opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo al quale
la causa è comune ne ordina l’intervento”. Anche in questo caso, si comprende dal
tenore letterale della disposizione, la chiamata del terzo viene effettuata da una
delle parti perché anche in questo caso, come vedremo, la chiamata del terzo
consiste nella notifica al terzo di un atto di citazione però in questa ipotesi, a
differenza di quanto abbiamo visto con riferimento all’art.106, l'intervento del terzo
viene svolto su impulso del giudice.

La condizione cui è subordinato l'ordine del giudice, come vedete, è una


valutazione di opportunità in ordine al fatto che il processo si svolga anche nel
contraddittorio del terzo cui il giudice ritiene la causa comune. Come vedremo a
conclusione della trattazione di questo istituto, il giudice può ordinare la chiamata
del terzo in ogni momento per un'udienza che egli fissa a questo scopo. La
disciplina dell’art.107 unita a quanto previsto dagli artt.270 e 307 co.1 prevede che
316
il giudice ordina alle parti di chiamare in causa il terzo dopodiché se nessuna delle
parti provvede entro il termine fissato dal giudice il mancato ottemperamento
all'ordine del giudice viene sanzionato con la cancellazione della causa dal ruolo,
dopodiché se nessuna delle parti provvede alla riassunzione del processo e alla
contestuale chiamata in causa del terzo entro tre mesi il processo si estingue. I
presupposti a cui è subordinato l'esercizio di questo potere ufficioso sono allora
due: la valutazione di opportunità e la sussistenza della comunanza di causa.
Il primo requisito ci consente di tracciare la relazione che intercorre fra l'ordine di
chiamata in causa del terzo per comunanza di causa e l'ordine di integrazione del
contraddittorio emesso dal giudice in ipotesi di litisconsorzio necessario ai sensi
dell’art.102 c.p.c. Come vedremo i due istituti hanno un ambito applicativo
comune che è rappresentato dai rapporti plurisoggettivi, abbiamo visto che ci
sono dei settori dei rapporti plurisoggettivi che sicuramente rientrano nell'ambito
applicativo dell’art.102 e vedremo fra poco che tra le situazioni giuridiche che
concretizzano la nozione di comunanza di causa ci sono ancora i rapporti
plurisoggettivi.

Però se è vero che i due istituti hanno un ambito applicativo in comune e che in
tale settore l’art.102 impone al giudice delle delicatissime valutazioni, proprio
come l’art.107 lo investe della valutazione di opportunità, quindi ancora una volta
c'è una valutazione da parte del giudice, è molto importante tracciare una linea di
confine fra questi due istituti quindi tra i casi in cui la chiamata del terzo è
necessaria e quelli in cui è opportuna perché la disciplina processuale di questi
due istituti ancora oggi è molto diversa anche se non è diversa quanto lo era
qualche anno fa. Infatti con riferimento al primo grado di giudizio la distanza fra
l’art.102 e l’art.107 non è veramente incolmabile perché se vi ricordate abbiamo
visto che la mancata ottemperanza all'ordine di chiamata del litisconsorte
pretermesso ai sensi dell’art.102 determina l'immediata estinzione del processo e
che in base all’art.107 e all’art.270 il mancato ottemperamento all'ordine di
chiamata in causa del terzo per comunanza di causa determina la cancellazione
della causa dal ruolo e la successiva estinzione che peraltro adesso è rilevabile
d'ufficio ove nessuna delle parti lo riassuma entro tre mesi dal provvedimento di
cancellazione. Le differenze più marcate riguardano infatti la fase di impugnazione
perché mentre il vizio derivante dalla violazione dell’art.102 è rilevabile anche
d'ufficio in ogni stato e grado del processo, probabilmente anche in deroga al
principio di conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione e
probabilmente è addirittura un vizio idoneo a sopravvivere al passaggio in
giudicato della sentenza che in assenza di un litisconsorte necessario è inutiliter
data, la valutazione di opportunità invece non è mai sindacabile e questo a
prescindere dall'esito cui è pervenuta quindi vuoi nel caso in cui il giudice ha
svolto una valutazione positiva e ha ordinato la chiamata del terzo, vuoi nel caso in
cui invece ha sortito un esito negativo per cui ha ritenuto non esistenti questi
presupposti, dopodiché se si verifica un vizio (cioè se il giudice ordina la chiamata
in causa del terzo per comunanza di causa, le parti non ottemperano, il giudice
non se ne accorge e va avanti, si arriva alla sentenza) si tratta di un vizio che è
317
soggetto al principio di conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione
quindi deve essere espressamente denunciato al giudice dell'impugnazione
perché questi lo possa trattare e laddove il giudice dell'impugnazione lo ritenga
esistente deve applicare la regola generale dell'ultimo comma dell’art.354 quindi
deve disporre la rinnovazione degli atti di fronte a sé, viceversa nell’ipotesi dell’art.
102 abbiamo detto che è uno dei casi tassativamente previsti dalla legge in cui il
vizio una volta rilevato dal giudice dell’impugnazione, in questo caso anche
d’ufficio, determina la rimessione della causa di fronte al giudice di primo grado.

Il profilo maggiormente problematico dell'istituto è certamente quello della


delimitazione dell'ambito applicativo, in particolare questo istituto comporta
delicatissime questioni in ordine al possibile conflitto tra l'ordine del giudice e il
principio della domanda perché la chiamata del terzo consiste nella proposizione
nei suoi confronti di una vera e propria domanda giudiziale. A premessa dell'analisi
casistica diciamo subito che la nozione di comunanza di causa, che è la stessa
che viene utilizzata dall’art.106, deve essere intesa come riferimento all'esistenza
di un vincolo di connessione tra il rapporto giuridico oggetto del processo e il
rapporto giuridico di cui è titolare il terzo e siccome l’espressione è analoga a
quella utilizzata dall’art.106 si deve ritenere, come avevamo già detto con
riferimento alla precedente disposizione, che questa espressione debba essere
sciolta attraverso il richiamo alle forme di connessione espressamente previste
nell’art.105. Questo naturalmente non significa che l'ambito applicativo delle tre
disposizioni debba essere perfettamente coincidente ma significa che è con
riferimento a quelle stesse forme di connessione che il giudice dovrà svolgere la
propria valutazione di opportunità anche se i risultati, considerato il rischio su cui
ho già richiamato la vostra attenzione di una possibile compressione del principio
della domanda, potrebbero essere anche diversi. Il primo settore con riferimento al
quale trova applicazione questo istituto è certamente quello della connessione
per identità di petitum nella forma della alternatività o incompatibilità che
intercorre fra il rapporto oggetto originario del processo e il rapporto di cui sono
affermati titolari una delle parti del processo e un terzo, sono i casi di cui abbiamo
parlato anche con riferimento all’art.106 in cui sorge una contestazione in ordine
alla titolarità attiva o passiva del rapporto giuridico quindi l'ordine di chiamata
potrà essere rivolto vuoi verso il c.d. terzo pretendente nel caso in cui sia
controversa la titolarità attiva, vuoi verso il terzo responsabile quando invece è
controversa la titolarità passiva. Questo è il settore in cui si pone in maniera più
grave il problema della compatibilità tra l'ordine del giudice e il principio della
domanda perché questo terzo di cui il giudice ordina l’intervento è titolare di un
rapporto giuridico diverso rispetto a quello già controverso tra le parti e allora per
evitare che l'ordine del giudice possa configurare una violazione, una
compressione quanto meno, del principio della domanda la prospettiva migliore è
quella di ritenere che in questi casi il giudice possa esercitare il proprio potere, e
quindi ordinare l'intervento del terzo, solo a seguito della sollecitazione di una delle
parti laddove nel corso del processo, ad esempio in fase istruttoria, emerga un
contrasto in ordine alla titolarità attiva o passiva del rapporto e la parte interessata
318
sia ormai incorsa nella decadenza fissata dalla legge per chiamare in causa il terzo
(vi ricordate, con riferimento all'intervento su istanza di parte il codice è chiaro: per
l'attore ultimo momento utile è la prima udienza secondo quanto stabilito nell’art.
183 co.5, per il convenuto la comparsa di risposta depositata 20 giorni prima della
data della prima udienza). La chiamata del terzo quindi funge da strumento di
garanzia del contraddittorio, siamo di fronte a figure di terzi che se rimangono
estranei al processo non subiscono alcuna efficacia della sentenza resa inter
partes per cui è chiaro che l'intervento del terzo è volto ad evitare laddove sia
controversa la titolarità attiva che il debitore correre il rischio di essere condannato
due volte, mentre invece se la contestazione concerne la titolarità passiva che sia
il creditore a correre il rischio di vedersi rigettata per due volte la domanda
proposta nei confronti dei due pretesi debitori.

Il secondo settore è quello della connessione per identità vuoi di causa petendi,
vuoi di petitum, i rapporti plurisoggettivi. Consideriamo il caso in cui il proprietario
del preteso fondo dominante agisca nei confronti di uno solo dei comproprietari
del fondo servente per ottenere l'accertamento della propria servitù di passaggio,
come vi ho già anticipato qui si entra in un settore in cui si deve fare i conti con
l'ambito applicativo del litisconsorzio necessario quindi se si restringe l'ambito
applicativo dell’art.102 si amplia il campo in cui può essere il giudice a ordinare la
chiamata del terzo sulla base di una valutazione di opportunità, se invece si amplia
l'ambito applicativo dell’art.102 si restringe il settore in cui può operare invece
l'intervento su ordine del giudice. Ora, in questa ipotesi, nell'esempio che vi ho
proposto, la chiamata del terzo comporta la proposizione di una domanda
giudiziale quindi comporta anche in questo caso la deduzione in giudizio di un
rapporto giuridico ulteriore rispetto a quello che già costituisce l'oggetto del
processo, per questo motivo è importante che il giudice utilizzi il proprio potere
solo laddove rilevi il cattivo funzionamento del contraddittorio fra le parti. È vero
che in molti dei casi che appartengono a questa categoria il terzo se rimane
estraneo al processo non subirà gli effetti, quanto meno gli effetti sfavorevoli, della
sentenza inter partes perché troverà applicazione l’art.1306 ma ciò non toglie che
una sentenza sfavorevole possa creare incertezza a livello di relazioni giuridiche e
che il giudice possa rendersi conto che il contitolare del rapporto che ha agito in
giudizio o nei confronti del quale è stata proposta la domanda non appare capace
di gestire da solo in maniera adeguata il processo e siccome si tratta di un settore
con riferimento al quale si manifestano le maggiori incertezze in ordine alla
delimitazione dell'ambito applicativo del litisconsorzio necessario appare chiaro
che il potere del giudice di ordinare l’intervento del terzo ha una potenzialità
enorme nella misura in cui può servire ad evitare l'emanazione di una sentenza
ingiusta e, in ultimo, può servire a rafforzare l'efficacia della sentenza definitiva.

Il terzo settore concerto la connessione per pregiudizialità dipendenza e qui


dobbiamo distinguere le ipotesi in cui la chiamata del terzo riguarda il titolare del
rapporto pregiudiziale e i casi in cui la chiamata riguarda invece il terzo titolare di
un rapporto giuridicamente dipendente. Nei casi in cui il giudice ordina la chiamata
del terzo titolare di un rapporto giuridicamente dipendente generalmente si ritiene
319
che la compressione del principio della domanda avvenga in maniera certamente
minima perché è pacifico che in queste ipotesi l'intervento del terzo, così come
abbiamo già visto con riferimento agli artt.105 e 106, non determina la deduzione
in giudizio del rapporto di cui è titolare perché questa chiamata ha lo scopo più
limitato di rendere il terzo soggetto all'efficacia della sentenza che sarà emessa
inter partes per cui se si versa in uno dei casi di terzi soggetti all'efficacia riflessa
forte della sentenza (il caso del subconduttore di cui all’art.1595 c.c.), ma lo stesso
si può dire che valga con riferimento al terzo soggetto all'efficacia riflessa debole
della sentenza (il caso del venditore di cui all’art.1485), allora l'ordine del giudice
può trovare giustificazione nell’esigenza di metterlo a riparo dal cattivo
funzionamento del contraddittorio fra le parti consentendo al terzo di esercitare in
via anticipata dei poteri in grado di incidere sulla formazione del convincimento del
giudice quindi evitare l'emanazione di una sentenza che potrebbe pregiudicarlo
ingiustamente. Nel caso invece di un terzo che se rimasto estraneo al giudizio non
subirebbe alcuna efficacia dalla sentenza emessa inter partes, quindi pensiamo ai
terzi aventi causa che hanno acquistato il diritto prima dell'apertura del processo,
l'unica giustificazione all'esercizio del potere del giudice resta la valutazione del
cattivo funzionamento del contraddittorio fra le parti e l'esigenza di evitare
l'emanazione di una sentenza che contenga l'accertamento di una verità che è
lontana dalla verità sostanziale e siccome abbiamo detto che si tratta di terzi che
se rimasti estranei al giudizio non subirebbero alcuna efficacia, né favorevole né
sfavorevole, della sentenza emanata tra le parti in questo caso valutazioni che
riguardano il diritto di difesa del terzo sembrano addirittura inesistenti.

La giurisprudenza ammette anche la chiamata in causa per ordine del giudice del
terzo titolare del rapporto pregiudiziale a quello oggetto originario del processo, in
questa categoria rientrano ad esempio i casi in cui proposta azione per omesso
versamento dei contributi previdenziali da parte dell'istituto previdenziale nei
confronti del datore di lavoro viene ordinata la chiamata in causa del lavoratore
che è titolare del rapporto pregiudiziale di lavoro, oppure proposta azione di
condanna del creditore nei confronti del fideiussore viene ordinata la chiamata in
causa del debitore titolare del rapporto pregiudiziale di credito-debito. In questa
ipotesi la chiamata del terzo determina un ampliamento non solo soggettivo ma
anche oggettivo del processo perché tramite la domanda giudiziale rivolta al terzo
si chiede al giudice di accertare con autorità di cosa giudicata anche il rapporto
pregiudiziale, tuttavia si rileva che qui la compressione del principio della domanda
si pone in maniera più attenuata rispetto a quanto abbiamo verificato con
riferimento alla connessione per alternatività perché il giudice comunque avrebbe
dovuto accertare l’esistenza, il modo di essere, del rapporto pregiudiziale sia pure
in assenza del titolare di esso necessariamente incidenter tantum quindi senza
autorità di cosa giudicata. Anche in questo caso le ragioni che giustificano la
chiamata concernono essenzialmente il cattivo funzionamento del contraddittorio,
il giudice deve cioè maturare il convincimento che le parti attraverso l'esercizio dei
propri poteri in punto di allegazione di fatti e proposizione di istanze istruttorie non
lo mettono in condizioni di accertare in maniera adeguata l’esistenza, il modo di
320
essere, del rapporto pregiudiziale. Per quanto riguarda la disciplina processuale
dell'intervento su istanza del giudice la norma di riferimento, come abbiamo già
evidenziato, è l’art.270 c.p.c. Questa disposizione prevede che la chiamata in
causa di un terzo nel processo a norma dell’art.107 può essere ordinata in ogni
momento dal giudice istruttore per un'udienza che all'uopo egli fissa, questo
quindi vuol dire che il giudice può ordinare la chiamata del terzo anche nel corso
della fase istruttoria quindi dopo che sono già maturate a carico delle parti le
preclusioni di cui agli artt.183 e 184. In base all’art.271 al terzo si applicano con
riferimento all'udienza per la quale è citato le disposizioni degli artt.166 e 167, se
intende richiamare a sua volta in causa un terzo deve farne dichiarazione a pena di
decadenza nella comparsa di risposta ed essere poi autorizzato dal giudice ai
sensi dell’art.269 co.3. Questa disposizione sicuramente è applicabile al terzo che
viene chiamato in causa su ordine del giudice e se ne desume che il terzo
chiamato è ammesso a compiere attività che ormai sono precluse per le parti
originarie perché a loro carico sono già maturate le preclusioni degli artt.167, 183 e
184, quindi in base all’art.271 il terzo può svolgere tutte le attività di difesa in
quanto convenuto, in quanto destinatario di una domanda giudiziale, quindi potrà
proporre mere difese, potrà proporre eccezioni anche riservate alla parte, potrà
proporre domanda riconvenzionale e vedete che può anche decidere di chiamare
in causa a sua volta un soggetto terzo. Naturalmente, secondo quanto più volte
abbiamo avuto modo di ricordare, ammettere una parte all'esercizio di una
gamma, in questo caso piuttosto ampia, di poteri processuali comporta in
applicazione del principio del contraddittorio la necessità di consentire alle altre
parti l'esercizio dei c.d. poteri consequenziali quindi le altre parti dovranno essere
ammesse a svolgere tutte le attività che si rendono necessarie a seguito delle
difese svolte dal terzo che è stato chiamato e che è entrato nel processo. Quindi in
fin dei conti possiamo dire che questo ordine del giudice stravolge la struttura del
processo ma tutto ciò è giustificato se si considera la funzione in un certo senso
pubblicistica dell’intervento ius iudicis perché abbiamo detto che a fondamento
della valutazione di opportunità del giudice c'è sempre una valutazione della
necessità di dare attuazione in maniera adeguata al principio del contraddittorio
come condizione spesso per l'accertamento di una verità che sia il più vicino
possibile alla verità sostanziale.

Terminata l'analisi dell'intervento per ordine del giudice andiamo adesso ad


occuparci di altri due istituti che rientrano sempre nell'ambito del processo a più
parti ovvero la SUCCESSIONE NEL PROCESSO di cui all’art.110 c.p.c. e la
SUCCESSIONE A TITOLO PARTICOLARE NEL DIRITTO CONTROVERSO di cui
all’art.111 c.p.c. L’art.110 si occupa dell'ipotesi in cui viene meno una delle parti
originarie del processo per morte o per altra causa mentre l’art.111 si riferisce
all'ipotesi in cui nel corso del processo il diritto controverso viene trasferito per
atto tra vivi a titolo particolare a un terzo, che è un avente causa, oppure all’ipotesi
in cui c’è sì un trasferimento a titolo particolare del diritto controverso ma a causa
di morte, quindi viene meno una delle parti e il diritto controverso non rientra nella
321
successione universale ma è oggetto da parte del de cuius di un atto a titolo
particolare, tipicamente il legato.

Andiamo ad analizzare l’art.110, la SUCCESSIONE NEL PROCESSO. Come vi ho


detto quest'istituto si lega ad un evento che può sempre verificarsi cioè la morte
della parte o il venir meno della parte per altra causa. È chiaro che nel corso del
processo si possono verificare eventi come quelli che vi ho appena richiamato e in
queste ipotesi il legislatore per evitare la chiusura in rito del processo ha adottato
l'istituto della successione e questo vuol dire che il processo prosegue da o nei
confronti del successore a titolo universale e questo a prescindere dal se il diritto
controverso rientri nella successione universale oppure costituisca l'oggetto di una
successione mortis causa a titolo particolare, nel secondo caso però si applica la
norma successiva. L’art.110 si occupa della successione a titolo universale e
impone due presupposti:

1- che una delle parti venga meno per morte per un'altra causa che andremo
adesso a vedere

2- che a questo evento segua l'apertura di una successione a titolo universale

ove entrambe le condizioni siano presenti la norma introduce un fenomeno di


successione nel processo che è proseguito appunto da o nei confronti del
successore universale.

Intanto sul piano processuale appare abbastanza evidente che l’art.110 deve
essere coordinato con le disposizioni in tema di interruzione del processo per
morte della parte ovvero con gli artt.299, 300, 302, 303 e 305 c.p.c. per cui, e qui
mi richiamo a tutto quanto ci siamo detti nel primo semestre parlando appunto
dell'interruzione del processo, se la morte della persona fisica o l'estinzione della
persona giuridica si verifica dopo che questa parte si è costituita in giudizio tramite
l'avvocato il processo si interrompe solo a seguito della dichiarazione dell'evento
da parte dell'avvocato mentre invece se la parte ancora non si è costituita in
giudizio (art.299) oppure, e sono ipotesi più ridotte, sta in giudizio personalmente
l’interruzione è automatica (art.300 co.3). Una volta che il processo si è interrotto a
seguito di dichiarazione dell'avvocato oppure in maniera automatica, ciò non
rileva, inizia a decorrere un termine di tre mesi entro il quale il processo deve
essere proseguito dal successore della parte a cui danno si è verificato l'evento o
riassunto dalla controparte a pena di estinzione, questo lo impone l’art.305. Inoltre,
vi ricordate, la Cassazione con la sentenza 4 luglio 2014 n.15295 emanata a
sezioni unite ha altresì affermato che nel caso in cui la morte non venga
formalmente dichiarata dall'avvocato il processo prosegue come se l'evento non si
fosse mai verificato e di conseguenza vuoi la notifica della sentenza, vuoi la
notifica dell’impugnazione, devono essere svolti nei confronti dell'avvocato della
parte che è venuta meno. Il problema che pone la disposizione che stiamo
esaminando è l'individuazione dell'ambito applicativo e qui si rende necessario
un chiarimento sui presupposti cui l'applicazione della disposizione è correlata.
Infatti se la parte è una persona fisica non ci sono problemi perché gli eventi che
possono rilevare sono facilmente identificabili, prima fra tutte la morte, cui viene

322
equiparata la dichiarazione di morte presunta: la morte della persona determina
sempre l'apertura di una successione universale per cui è chiaro che in queste
ipotesi il processo comunque deve continuare da o nei confronti del successore
universale. L'applicazione di questa regola sembra prescindere dalla circostanza
che il successore subentri nella titolarità del diritto controverso cioè è possibile
che il diritto controverso sia oggetto di una disposizione a titolo particolare, che
non rientri nella successione a titolo universale, infatti il secondo comma
dell'articolo successivo (art.111) prevede che nel caso in cui il diritto sia oggetto di
una successione mortis causa a titolo particolare, e l'esempio che ho già fatto è
quello del legato, in ogni caso il processo deve proseguire nei confronti del
successore universale. Un'ultima precisazione: si ritiene che il processo debba
proseguire nei riguardi del successore universale anche se ha ad oggetto un diritto
intrasmissibile in quanto prettamente personale, pensiamo ad esempio al giudizio
di divorzio, oppure destinato a distinguersi a seguito della morte del de cuius,
pensate al diritto di usufrutto, infatti in queste ipotesi il processo si chiuderà con
un provvedimento dichiarativo della impossibilità di decidere la causa nel merito
ma il giudice dovrà comunque provvedere sulle spese processuali che
interesseranno il successore universale.

Ben maggiori problemi si pongono nei casi in cui la parte sia una persona giuridica
perché sussistono delle grossissime incertezze in ordine alle ipotesi in cui si può
configurare una estinzione, quindi un venir meno, della persona giuridica a cui
segue una successione a titolo universale. Infatti nel campo delle persone
giuridiche ci sono ipotesi in cui pur verificandosi l'estinzione della persona
giuridica non è affatto certo che si apra una successione universale e dall'altra
parte ricorrano altre ipotesi in cui si ha una successione a titolo universale fra enti
senza che a ciò però si correli anche l'estinzione di uno di essi. La prima
fattispecie che viene in rilievo è certamente il caso della cancellazione della
società commerciale dal registro delle imprese perché a questo riguardo
occorre muovere dalla giurisprudenza che è stata avallata da un intervento della
Cassazione a sezioni unite del 2010, si tratta della sentenza 22 febbraio 2010 n.
4061, che ha attribuito natura costitutiva alla cancellazione della società dal
registro delle imprese ai sensi dell’art.2495 c.c. In base a questo presupposto si
ritiene che la cancellazione lite pendente della società dal registro determini il venir
meno della società e questo principio si ritiene applicabile anche con riferimento
alle società di persone. Se questo è chiaro non è altrettanto chiara la risposta
relativa al se si possa ritenere che a seguito della estinzione della società si possa
configurare una successione a titolo universale oppure no nei confronti dei soci. In
questa ultima direzione c'è chi ha prospettato la possibilità di fare applicazione
della norma successiva, cioè dell’art.111 in tema di successione a titolo
particolare, ritenendo che il processo debba essere proseguito dalla società salvo
il diritto dei soci successori a titolo particolare di esperire intervento. Tuttavia la
giurisprudenza più recente sembra militare nella opposta direzione, preferisce cioè
riportare il caso di specie nell’art.110 e su questo posso richiamare le Sezioni
Unite 6070/2013. Si deve ricordare su questo punto però che prima dell'intervento
323
delle Sezioni Unite del 2010 era applicata una soluzione che non aveva fatto
sorgere alcun problema e la riforma del diritto societario ha fatto sorgere su questo
punto dei problemi enormi che la giurisprudenza ha cercato di risolvere attraverso
il principio della ultrattività del mandato ma diciamo che è una soluzione che lascia
irrisolte numerosissime questioni pratiche che in un certo senso il principio di
ultrattività del mandato riduce ma che restano comunque in piedi, infatti in base al
principio di ultrattività del mandato se il venir meno della parte non è dichiarato dal
difensore questa non produce effetti nel processo, neppure in sede di
impugnazione, perché come abbiamo detto la sentenza può essere notificata al
difensore e l'impugnazione può essere proposta da o nei confronti del difensore.

Un altro istituto con riferimento al quale si sono registrate numerosissime


incertezze è quello della fusione ed incorporazione volontarie o ex lege. Prima
della riforma attuata dal d.lgs.6/2003 e dell'introduzione dell’articolo 2504-bis c.c.
era luogo comune ritenere che la fusione per incorporazione determinasse
l'estinzione della società incorporata e la contestuale sostituzione della società
incorporante nella titolarità attiva e passiva dei rapporti giuridici già facenti capo
alla prima, di conseguenza il fenomeno era tranquillamente ricondotto alla
previsione dell’art.110, andava soggetto alla disciplina delineata in questa
disposizione. Invece a fronte della disciplina contenuta nel nuovo testo dell’art.
2504-bis le Sezioni Unite del 2006, si tratta dell’ordinanza 2637/2006, hanno
affermato che si ha il venir meno della parte solo in caso di estinzione ex lege
mentre invece in ipotesi di estinzione volontaria, così come in ipotesi di fusione, si
ha piuttosto la unificazione delle due società cioè una sorta di evoluzione dello
stesso soggetto che conserva la propria identità anche se adotta un diverso
assetto organizzativo. Infine si ritiene che rimangano escluse dalla norma in
commento una lunga serie di ipotesi in cui pur attuandosi una successione a titolo
universale la parte originaria non viene meno ma conserva la propria capacità
giuridica, questo è quanto la giurisprudenza ha ritenuto in ipotesi di trasformazione
di una società, in ipotesi di liquidazione coattiva amministrativa di una banca ma
anche con riferimento a varie ipotesi di successione di un ente pubblico ad un
altro ente pubblico cui non si correla l'estinzione del primo come è accaduto ad
esempio nel caso di successione dell'Enel alle vecchie società elettriche, dell'ente
Ferrovie dello Stato all'azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato, all'Agenzia
delle entrate al Ministero delle Finanze, oppure anche nel caso in cui il
trasferimento concerne soltanto alcuni rapporti ad esempio nel caso di cessione di
azienda. In tutte queste ipotesi quindi ritenendo non sussistenti i presupposti
dell’art.110 si fa applicazione dell’art.111 con la conseguenza che il processo
prosegue nei confronti della parte originaria. A seguito della successione il
successore a titolo universale subentra alla parte che è venuta meno e accetta il
processo nello stato in cui si trova per cui tutti gli atti processuali già posti in
essere dalla parte originaria conservano la propria efficacia quindi se si era
verificata una decadenza questa rimane ferma nei confronti del successore, le
prove già acquisite conservano la propria efficacia, se poi i successori titolo
universale siano due o più di due, ad esempio pensiamo ai coeredi, si ritiene che
324
fra di essi si costituisca un litisconsorzio necessario per cui il processo viene
proseguito o riassunto nei confronti di tutti i coeredi e quindi se la prosecuzione o
la riassunzione avviene nei confronti di alcuni soltanto degli eredi il giudice ordina
l'integrazione del contraddittorio anche in fase di impugnazione perché si tratta di
un'ipotesi che rientra nell'ambito applicativo dell’art.102 e quindi si applica
sicuramente davanti al giudice dell'impugnazione la disciplina delle cause
inscindibili di cui all’art.331 c.p.c.

325
Lezione 19 - 14/05/20
Andiamo ad occuparci della successione a titolo particolare nel diritto controverso,
cioè dei casi in cui nel corso del processo una delle parti aliena il rapporto
giuridico oggetto del processo ad un soggetto terzo. Allora il primo comma
dell’articolo 111 stabilisce che “se nel corso del processo si trasferisce il diritto
controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti
originarie". Nel secondo comma si stabilisce che se “il trasferimento a titolo
particolare avviene a causa di morte il processo è proseguito dal successore
universale o in suo confronto”. Questa seconda ipotesi l’avevamo già richiamata
nella lezione dedicata alla successione nel processo. Questa disposizione
disciplina una situazione che ciascun ordinamento si preoccupa di regolare,
perché è sempre possibile che in pendenza di un processo si verifichi il
trasferimento del rapporto giuridico che ne costituisce l’oggetto. Le parti sono uno
degli elementi identificativi del diritto, pertanto, in assenza di una specifica
disciplina, il giudice, constatata la successione nel rapporto, quindi il trasferimento
del rapporto, dovrebbe chiudere il processo rigettando la domanda originaria. Però
appare evidente che se l’ordinamento accettasse un simile risultato si creerebbe
una situazione potenzialmente pericolosa per la controparte di chi ha dato adito
alla successione. Questo perché la controparte si troverebbe costretta ad aprire o
a subire un nuovo processo nei confronti del nuovo titolare. Anzi teoricamente
molteplici processi contro tutti i successivi aventi causa. Ora un ordinamento che
vuole essere effettivo, che vuole apprestare una tutela effettiva, non può tollerare
una situazione del genere quindi negli anni i diversi ordinamenti hanno sempre
adottato dei meccanismi per evitarla. Nell’ordinamento romano per esempio, alla
proposizione della domanda giudiziale era collegato un effetto di indisponibilità del
diritto controverso, per cui eventuali atti dispositivi posti in essere lite pendente
dovevano ritenersi inefficaci nei confronti della controparte. Una regola di tale
specie va a detrimento della circolazione dei beni, perché cristallizza le situazioni
giuridiche per tutta la durata del processo. Per questo motivo l’ordinamento
italiano, ma la soluzione non è originale perché la ritroviamo nella maggior parte
degli ordinamenti contemporanei, ha adottato la diversa regola di prosecuzione del
processo nei confronti della parte originaria, unitamente alla regola di estensione
degli effetti della sentenza nei confronti del terzo avente causa. Infatti se noi
torniamo all’articolo 111 troviamo scritto al terzo comma che “in ogni caso il
successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e,
se le altre parti vi consentono, l’alienante o il successore universale può esserne
estromesso.” Nel successivo quarto comma si legge che la “sentenza pronunciata
contro questi ultimi spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo
particolare ed è impugnabile anche da lui, salve le norme sull’acquisto in buona
fede dei mobili e sulla trascrizione.” Su quest’ultimo inciso torneremo
successivamente. In questo modo si tutela la parte diversa da quella che ha dato
adito alla successione, dal rischio di dover far fronte con riferimento alla medesima
situazione giuridica ad una serie potenzialmente infinita di processi. Allora si
capisce che questa disposizione si presta ad essere annoverata fra quelle

326
disposizioni che danno attuazione al principio chiovendiano secondo cui la durata
del processo non può causare un pregiudizio alle parti. È la regola che noi
troviamo espressa da questo istituto, è la cristallizzazione della cosiddetta
perpetuatio legittimationis, ed è uno degli effetti della domanda giudiziale. In
particolare si tratta di uno degli effetti che presuppongono l’azione come
aspirazione ad un provvedimento di merito. Per chiarire l’ambito applicativo di
questa disposizione occorre soffermarsi su due nozioni.

1. la nozione di “trasferimento per atto tra vivi a titolo particolare”

2 la nozione di “diritto controverso”

Con riferimento alla prima nozione vi è concordia che vi rientrino tutte le ipotesi di
trasferimento a titolo derivativo e a titolo particolare, restando invece escluse le
ipotesi di trasferimento a titolo gratuito, così come le ipotesi di trasferimento a
titolo particolare a cui si correli l’estinzione della persona giuridica, perché queste
rientrano, come abbiamo già visto, nella disciplina dell’articolo 110, anche se a
stretto rigore non ne integrano i presupposti applicativi.

Per quanto riguarda la nozione di diritto controverso si ritiene che il riferimento sia
al rapporto giuridico dedotto in giudizio.

Tuttavia resta da chiarire che cosa si debba intendere per successione a titolo
particolare nel diritto controverso. Allora ci sono alcune ipotesi che sono
pacificamente ritenute comprese nella previsione di questa disposizione. Per
esempio, è pacifico che vi rientrino le ipotesi in cui, nell’ambito di un processo
aperto mediante l’esercizio dell’azione di rivendica, il convenuto trasferisca ad un
terzo la proprietà e il possesso del bene. Ricordatevi che l’azione di rivendica ha
ad oggetto l’accertamento del diritto di proprietà e la condanna alla consegna o al
rilascio del bene rivendicato. La giurisprudenza e la dottrina fanno rientrare
nell’ambito applicativo della disposizione anche i casi di successione a titolo
universale, di un ente ad altro ente se il primo non viene meno. E di questo
abbiamo già parlato. Al contrario non vi rientrano, sembrano non rientrare le
ipotesi in cui nel corso di un giudizio avente ad oggetto un diritto di proprietà su un
bene determinato, venga costituito a favore di un terzo un diritto reale di
godimento o di garanzia sul medesimo bene. Questo perché l’oggetto del
processo, che è la proprietà, è diverso dal diritto che viene costituito sullo stesso
bene a favore del terzo. Ugualmente non sembrano rientrare nella nozione di
successione nel diritto controverso i casi in cui, proposta un’azione di impugnativa
negoziale, il convenuto trasferisce ad un terzo il bene oggetto del contratto
impugnato. Se si aderisce a questa impostazione, che sembra da preferirsi, allora
si dovrà ritenere che il terzo avente causa sarà da riportare nella categoria dei terzi
titolari di rapporti giuridicamente dipendenti. Su questa particolare ipotesi tornerò
a conclusione dell’argomento. La regola che il legislatore italiano ha prescelto per
salvaguardare la parte che non ha dato luogo alla successione è quella della
perpetuatio legittimationis. Quindi abbiamo detto che il processo prosegue tra le
parti originarie, anche se la parte che ha trasferito il diritto controverso ha perduto
la legittimatio ad causam, perché se trasferisce il diritto non è più l’affermata
titolare attiva o passiva di quel rapporto giuridico. Questo spiega quanto riportato

327
in altra parte della disposizione, laddove si prevede che la sentenza spiega
efficacia anche nei confronti del successore, che a questo punto è il vero titolare
del rapporto giuridico e che può sempre intervenire nel processo. Naturalmente
questa è una previsione quasi scontata. Il terzo è il titolare del rapporto
controverso quindi l’ordinamento deve assicurare il suo diritto di difesa.
L’intervento del successore a titolo particolare nel diritto controverso è un
intervento sui generis, che non si presta ad essere ricondotto in una delle ipotesi
espressamente previste di intervento volontario di cui all’ articolo 105. Perché tutti
i casi rientranti nell’articolo 105 riguardano soggetti terzi rispetto alla causa che è
pendente. Per questo è ragionevole ritenere che l’intervento volontario del
successore a titolo particolare non sia soggetto alla disciplina processuale
dell’intervento volontario, quindi all’articolo 268 cpc. Quindi sia un intervento che
possa avvenire, in deroga a quanto previsto all’articolo 268 cpc, in qualsiasi
momento del giudizio di primo grado. Ma si ritiene che sia un intervento che possa
avvenire anche direttamente in appello e questo nonostante il divieto di intervento,
sancito per l’appello dall’articolo 344 cpc. È altresì pacifico che il terzo possa
essere chiamato in causa su istanza di parte e ancora una volta si tratterebbe
dell’intervento del vero legittimato, quindi del legittimato ordinario, che quindi non
si presta ad essere riportato nella previsione dell’articolo 106. Pertanto deve
ritenersi sottratto alla disciplina di cui all’articolo 269. L’affermazione secondo cui
la sentenza spiega i propri effetti nei confronti del successore poi deve essere
interpretata nel senso che il giudicato spiega effetti diretti nei confronti dell’avente
causa, in quanto effettivo titolare del rapporto giuridico. Abbiamo visto che in base
alla previsione del primo comma il processo, come regola generale, prosegue tra
le parti originarie. Ovviamente a seguito della successione, la parte che ha dato
adito alla successione continua a stare in giudizio, ma per un rapporto che più non
le appartiene. Infatti all’indomani del trasferimento del rapporto giuridico, la parte
che ha dato adito alla successione diviene un legittimato straordinario, perché fa
valere in nome proprio un diritto che appartiene ad altri. In questo si può dire che
l’articolo 111 rappresenta una forma di legittimazione straordinaria che si forma in
corso di causa e che deroga alla regola generale secondo cui laddove l’azione è
retta dal legittimato straordinario, il legittimato ordinario è parte necessaria del
processo (è una delle ipotesi di litisconsorzio necessario). La parte che ha dato
adito alla successione e che sta in giudizio da sola, perché il successore non
entra, rimane in causa in veste di legittimato straordinario e non è necessario
integrare il contraddittorio nei confronti del successore. Questo se vuole può
intervenire o può essere chiamato in causa dalle parti. La norma prevede poi nel
terzo comma ultima parte che “nei casi in cui il successore a titolo particolare
interviene nel processo, se le altre parti vi consentono, l’alienante o il successore a
titolo universale (nell’ipotesi specifica del secondo comma) possono essere
estromessi.” Come abbiamo già osservato parlando dell’articolo 108 in materia di
garanzia, l’estromissione è un istituto per il cui tramite una parte esce dal processo
perdendo la sua qualità di parte. Quindi ove si verifichino le condizioni appena
richiamate, l’alienante perde la qualità di parte e esce dal processo. In questo caso
il successore a titolo particolare resta in causa, ma resta in causa in qualità di
328
legittimato ordinario, perché è il vero titolare del rapporto controverso. L’ultimo
comma della disposizione afferma che” la sentenza emanata produce i propri
effetti anche nei confronti del successore”. Naturalmente si riferisce al caso in cui il
successore rimane fuori dal processo, perché se entra è scontato che sarà
soggetto agli effetti della sentenza. Ma la disposizione fa salve le norme
sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione. Per quanto riguarda la
regola dell’estensione degli effetti della sentenza al successore a titolo particolare
si tratta di una regola che il legislatore ha posto a salvaguardia del diritto di azione
e di difesa della controparte di chi ha dato adito alla successione. La soggezione
del terzo agli effetti della sentenza resa inter alios, non ha come presupposto
l’avvertimento della pendenza della lite. Per cui si può ritenere che il legislatore
qua, per salvaguardare la controparte di chi ha dato adito alla successione, ha
acconsentito a derogare il principio del contraddittorio. Che significato ha l’ultimo
inciso, laddove si fanno salve le norme relative all’acquisto del possesso in buona
fede dei beni mobili e alla trascrizione? Per quanto riguarda l’acquisto del
possesso in buona fede dei beni mobili, già sappiamo che in base all’articolo 1153
cc questi due presupposti sono in grado di procurare all’acquirente un acquisto a
titolo originario, dunque autonomo rispetto al dante causa. In questo senso se il
diritto controverso è la proprietà su un bene mobile e il convenuto trasferisce ad
un terzo, con un titolo astrattamente idoneo, il possesso e il terzo è in buona fede,
questo terzo non sarà soggetto agli effetti della sentenza che sarà emessa tra le
parti. Questo perché avendo acquistato un diritto autonomo non si ha una
successione. Quindi si fuoriesce dall’ambito applicativo della disposizione. Al
contrario non è di immediata evidenza il richiamo delle norme relative alla
trascrizione. Sicuramente possiamo ritenere che il riferimento sia alla trascrizione
delle domande giudiziali (art 2652-2653 cc oltre che 2690-2691cc per i beni mobili
registrati). A questo riguardo la dottrina coordinando l’art 111 con le norme in tema
di trascrizione delle domande giudiziali ha affermato che, affinché si possano
applicare queste disposizioni, sono necessarie tre condizioni.
1. È necessario che nel corso del processo si sia verificata una successione a
titolo particolare a titolo derivativo.
2. È necessario che alla successione abbia dato luogo il convenuto
3.È necessario che la domanda trascritta sia stata accolta perché tutta la disciplina
delle disposizioni in tema di trascrizione delle domande giudiziali ha come
presupposto l’accoglimento della domanda. La trascrizione della domanda
giudiziale è uno degli effetti della domanda giudiziale, è il cosiddetto effetto
prenotativo per cui gli effetti della futura sentenza di accoglimento della domanda
retroagiscono, producono i propri effetti in senso retroattivo a partire dalla data di
trascrizione della domanda stessa.

Rimaniamo sempre sul quarto comma dell’articolo 111 laddove si afferma che “la
sentenza pronunciata contro le parti produce sempre i suoi effetti anche contro il
successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui salve le norme
sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione”. Laddove si rientra
nell’ambito applicativo dell’articolo 111, quindi laddove sussista identità tra il
diritto controverso e il diritto oggetto del trasferimento a titolo particolare, il
329
richiamo alle norme relative alla trascrizione deve essere inteso come riferimento
alle norme contenute nell’ articolo 2653 cc. Quindi, per esempio, la norma che
prevede la trascrizione della domanda di rivendica o di accertamento della
proprietà o di altri diritti reali di godimento. Mentre con riferimento all’articolo
2652cc, che si occupa in gran parte di azioni di impugnativa negoziale e di terzi
aventi causa dal convenuto ci sono numerosi dubbi. Stante soprattutto quanto
detto precedentemente, non è affatto certo che, laddove sia stata proposta
un’azione di impugnativa negoziale e venga trasferito il diritto oggetto del negozio
impugnato, si possa rientrare nell’ambito applicativo dell’articolo 111 cpc. Questo
sulla base del fatto secondo cui il diritto controverso non coincide con il diritto che
è trasferito al terzo. Con riferimento alle ipotesi che certamente rientrano
nell’ambito applicativo della disposizione dobbiamo chiarire il significato della
salvezza delle norme relative alla trascrizione. Il significato di questo rinvio è
spostare il momento temporale in cui il terzo, successore a titolo particolare, deve
aver acquistato il diritto per restare soggetto agli effetti della sentenza. Infatti
mentre generalmente abbiamo fatto riferimento a terzi che hanno acquistato il
proprio diritto lite pendente, cioè all’indomani della notifica dell’atto di citazione,
perché quello è il momento che segna la litispendenza, nelle ipotesi di domande
soggette a trascrizione invece assumerà rilievo, non tanto la data della
litispendenza (la data di notifica dell’atto di citazione) ma il giorno sicuramente
successivo in cui la domanda è stata trascritta. Quindi se il terzo ha acquistato e
ha trascritto il proprio diritto successivamente alla data di trascrizione della
domanda giudiziale sicuramente è soggetto agli effetti della sentenza. Mentre
invece laddove il successore a titolo particolare ha acquistato il diritto in data
anteriore alla trascrizione della domanda giudiziale, anche nel periodo che
intercorre tra la notifica della domanda giudiziale e la trascrizione della stessa
domanda giudiziale, e ha trascritto il proprio acquisto regolarmente non sarà
soggetto all’efficacia della relativa sentenza.

Torniamo un momento alle ipotesi in cui, proposta azione di impugnativa


negoziale, viene trasferito a un terzo il bene che è oggetto del contratto che è
stato impugnato. Abbiamo già anticipato che secondo la prospettazione
preferibile, in queste ipotesi non si ha trasferimento del diritto controverso, ma si
ha trasferimento di un diritto dipendente dal diritto oggetto del processo. Per cui
non siamo di fronte a un fenomeno di successione del diritto controverso. Il terzo
sub-acquirente è il terzo titolare di un diritto giuridicamente dipendente dal diritto
oggetto del processo. Questo porta a interrogarsi sulla posizione di questo terzo.
In tanto è opportuno richiamare l’attenzione sull’esigenza di salvaguardare e
contemperare, da un lato il diritto di azione della controparte rispetto a chi ha
trasferito il bene, dall’altro il diritto di difesa del terzo avente causa. Allora a fronte
di questa duplice esigenza e all’esigenza di contemperare questi due valori, è
importante ricostruire la disciplina in maniera attenta. Noi sappiamo che il terzo
che ha acquistato il proprio diritto prima dell’apertura del processo sicuramente
non è soggetto all’efficacia della sentenza resa inter partes. È un terzo titolare di
un diritto giuridicamente dipendente con riferimento al quale, come abbiamo detto
nelle lezioni sui limiti soggettivi del giudicato, l’esigenza di apprestare adeguata
330
tutela al diritto di difesa porta ad escludere la possibilità di configurare la sua
soggezione all’efficacia riflessa del giudicato altrui. Cosa succede se il terzo ha
acquistato il diritto durante la pendenza del processo o dopo la chiusura del
processo? Se il terzo ha acquisto il diritto dopo che il processo si è chiuso e dopo
che la sentenza finale è passata in giudicato, si deve ritenere che questo terzo sia
soggetto all’efficacia della sentenza. Tanto impone la lettera dell’articolo 2909 cc,
laddove dice che “il giudicato fa stato tra le parti, i loro eredi e aventi causa”.
Resta aperta la questione relativa a cosa succede se il terzo acquista in pendenza
del processo o dopo il processo ma prima che si formi il giudicato. A questo
riguardo in dottrina è stata configurata la possibilità di ritenere che questo terzo, in
particolare il terzo che ha acquistato dal convenuto in pendenza del processo,
debba essere ritenuto soggetto all’efficacia riflessa della sentenza resa tra le parti
del processo. Questa affermazione viene ricondotta ad un principio ancora più
generale, il principio di soggezione di colui che ha acquistato un diritto dipendente
dopo che la controversia è sorta, senza che a questo riguardo rilevi la circostanza
che si tratti di un acquisto lite pendente o post litem. Questo principio viene
ricostruito proprio dalla lettura combinata degli articoli 111 cpc e 2909 cc. A
temperamento di questa statuizione e proprio per apprestare adeguata tutela al
diritto di difesa del terzo avente causa, si ritiene che a questo soggetto debbano
essere riconosciuti i poteri dei terzi titolari di rapporti giuridicamente dipendenti. In
particolare il potere di esperire intervento adesivo dipendente (art 105 secondo
comma cpc) e esercitare tutti i poteri processuali che competono all’interventore
adesivo dipendente. Ma l’esigenza di salvaguardare in maniera adeguata il diritto
di difesa del terzo, soggetto all’efficacia della sentenza resa tra le parti originarie
del processo, induce anche a ritenere che al terzo vada riconosciuta la
legittimazione ad impugnare la sentenza relativa al rapporto pregiudiziale.
L’articolo 111 nell’ultimo comma lo prevede espressamente, dice che il
successore a titolo particolare è soggetto all’efficacia della sentenza e mi dice che
la può anche impugnare. E qui si intende che la può impugnare in maniera diretta
nei confronti delle parti del processo originario. Si ritiene che anche al terzo sub-
acquirente, titolare di un rapporto giuridicamente dipendente, debba essere
riconosciuto il potere di impugnare la sentenza. Ma questo potere di impugnare la
sentenza dovrà essere ricostruito in maniera diversa. Qui metteteci un asterisco
lasciamo il punto in sospeso, è la stessa questione posta con riferimento
all’interventore adesivo dipendente, laddove abbiamo già affermato che fra i poteri
processuali vi è anche quello di impugnare la sentenza, ma per la ricostruzione si
faceva rinvio alle lezioni dedicate al litisconsorzio in fase di gravame.

Sempre con riferimento al processo che ha ad oggetto azioni di impugnativa


negoziale e del trasferimento del bene oggetto del contratto a un terzo avente
causa, dobbiamo porci il problema della disciplina applicabile laddove la domanda
principale sia soggetta a trascrizione, quindi nei casi contemplati dall’articolo 2652
cc. Allora in questi casi si ritiene che se l’avente causa trascrive il proprio atto d’
acquisto in data successiva alla trascrizione della domanda giudiziale, sarà ancora
una volta soggetto all’efficacia della sentenza, perché così prevede questa
disposizione. In tutti gli altri casi, quindi laddove la trascrizione dell’acquisto sia
331
precedente alla trascrizione della domanda giudiziale, dovranno applicarsi le
regole di volta in volta stabilite dal legislatore in questa complessa disposizione.
Regole che, abbiamo già osservato in altra sede, sono incomplete, lasciano dei
vuoti ampli. Si tratta di regole che variano a seconda della singola ipotesi di
impugnativa negoziale. Ad esempio in ipotesi di azione di risoluzione del contratto,
in base all’articolo 2652 n 1 cc, l’acquisto del terzo che ha trascritto il suo atto
prima della trascrizione della domanda giudiziale è salvo a livello di diritto
sostanziale. Mentre se si tratta di un’azione di annullamento, come abbiamo visto
l’altra volta, il numero 6 detta una disciplina complicata per cui vi risparmio la
seconda lettura. Comunque dovremmo fare applicazione di tutto quanto previsto
nei numeri che compongono l’articolo 2652cc.

Con questo possiamo ritenere esaurita la trattazione delle tematiche che


riguardano la connessione tra parti diverse. Possiamo aprire l’ultimo tema, quello
delle impugnazioni, che ci terranno impegnati da oggi fino alla conclusione del
corso. Le impugnazioni sono disciplinate nel terzo titolo del secondo libro del cpc.
Si rinvengono nel capo primo le disposizioni relative alle impugnazioni in generale
e successivamente una serie di disposizioni relative ai singoli mezzi di
impugnazione. Cominciamo con l’analisi delle disposizioni generali. I mezzi di
impugnazioni sono considerati istituti che si correlano al diritto di azione e al diritto
di difesa. Volendo offrire una prima generica definizione possiamo dire che si tratta
di strumenti per il cui tramite si porta un precedente provvedimento, emanato dal
giudice precedente, che è il giudice a quo, di fronte a un giudice diverso, il giudice
ad quem, chiedendogli di verificare l’esistenza o meno di alcuni vizi. È una
definizione generica dalla quale vi chiedo di non trarre alcuna considerazione. I
mezzi di impugnazione si dirigono sempre contro un precedente provvedimento
del giudice, provvedimento che generalmente ha la forma della sentenza.
L’impugnazione è proposta, come regola generale, da una delle parti del
precedente grado di giudizio. Come requisito ulteriore si richiede che la parte sia
rimasta almeno parzialmente soccombente. Allora sul rilievo di questi due
presupposti, la qualità di parte e la soccombenza, diciamo che ci sono delle
discussioni in dottrina. Secondo l’interpretazione preferibile la qualità di parte
fonda la legittimazione ad impugnare, mentre la soccombenza fonda l’interesse ad
impugnare. Questi sono presupposti che riguardano tutti i mezzi di impugnazione.
Mezzi di impugnazione che, per altro verso, hanno caratteristiche molto diverse gli
uni dagli altri. Le disposizioni generali prendono avvio dall’articolo 323 cpc.
L’articolo 323 cpc afferma che “i mezzi per impugnare le sentenze, oltre al
regolamento di competenza nei casi previsti dalla legge, sono l’appello, il ricorso
per cassazione, la revocazione e l’opposizione di terzo.” Nelle norme
immediatamente successive troviamo la disciplina dei cosiddetti termini per
impugnare. In particolare nelle primissime lezioni del corso abbiamo avuto modo
di confrontarci con l’articolo 324 cpc che si occupa del giudicato formale, che è il
presupposto necessario ma non sufficiente per la cosa giudicata sostanziale.
L'articolo 324 afferma che “si intende passata in giudicato la sentenza che non è
più soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per
332
cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai n 4 e 5 dell’articolo 395”. Il
giudicato formale è dunque correlato all’esperimento di alcuni dei mezzi di
impugnazione precedentemente richiamati dall’articolo 323. Questi mezzi di
impugnazione, proprio perché correlati alla formazione del giudicato, prendono il
nome di mezzi di impugnazione ordinari. Mentre i mezzi di impugnazione che sono
sganciati dal passaggio in giudicato della sentenza, prendono il nome di mezzi di
impugnazione straordinari.

SECONDA PARTE

Abbiamo introdotto la distinzione fra mezzi di impugnazione ordinari e mezzi di


impugnazione straordinari; abbiamo detto che quelli ordinari sono i mezzi di
impugnazione che si legano alla formazione del GIUDICATO.

La disciplina dei TERMINI di impugnazione, con riferimento ai mezzi ordinari, si


ricostruisce sulla base di quanto previsto dagli artt 325, 326 e 327 cpc —> la
REGOLA GENERALE è fissata nell'art 327, secondo cui l'appello, il ricorso per
cassazione e la revocazione per i motivi indicati nei numeri 4 e 5 dell'articolo 395,
devono essere proposti entro 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza. Vi ricordo
che la pubblicazione della sentenza coincide con la data di deposito della
sentenza nella cancelleria da parte del giudice. Questo è il termine generale, il
termine lungo. C'è poi un ulteriore termine, un termine accelerato, un termine
breve, la cui disciplina si ricostruisce dalla lettura degli artt 325 e 326: in base
all'art 325 il termine per proporre appello, revocazione nei casi di cui ai numeri 4 e
5 e ricorso per cassazione, può essere anche abbreviato; l’abbreviazione dipende
dalla cosiddetta notificazione della sentenza. Quindi la parte vittoriosa, che ha
interesse a far decorrere il termine per impugnare, deve procedere alla
notificazione della sentenza alla parte soccombente. Dalla notificazione della
sentenza decorrono i cosiddetti termini brevi per impugnare (vi ricordo che la
notificazione è un procedimento che viene messo in moto su iniziativa di una
parte, che è affidato a uno degli ausiliari del giudice, all’UFFICIALE GIUDIZIARIO, e
ha come scopo quello di portare un atto nella sfera di conoscibilità del suo
destinatario). Allora la parte che è interessata a far decorrere il termine accelerato,
che è quella vittoriosa, dovrà procedere a mettere in moto il processo di
notificazione.

Il termine breve per impugnare è, in base all'art 325, di 30 giorni per quanto
riguarda l'appello e la revocazione, mentre, in base all'art 325. 2, è di 60 giorni
nel caso di ricorso per cassazione. Questi termini, con riferimento ai mezzi di
impugnazione ordinari, decorrono dalla notificazione della sentenza.

Andiamo adesso ad esaminare i mezzi straordinari di impugnazione, perché la


disciplina è diversa: i mezzi straordinari sono la revocazione della sentenza, nei
casi di cui all'art 395 numeri 1,2,3 e 6, e l'opposizione di terzo, sia ordinaria, art
404.1, sia l'opposizione di terzo revocatoria, art 404.2.

333
In base all'art 325.1 il termine per proporre la revocazione e l'opposizione di terzo
di cui all'art 404.2 è di 30 giorni. In base al successivo art 326, i termini indicati
decorrono, nell'ipotesi di cui ai numeri 1,2, 3 e 6 dell'art 395, dal giorno in cui è
stato scoperto il dolo o la falsità, o la collusione, o è stato recuperato il
documento, o è passata in giudicato la sentenza di cui al numero 6 dell’art 395.
Con riferimento all'opposizione di terzo revocatoria, sempre in base all'art 326, il
termine decorre dal giorno in cui il terzo è venuto a conoscenza del dolo o della
collusione delle parti a suo danno.

Con riferimento invece all'opposizione di terzo ordinaria, abbiamo detto che


questa è esperibile in qualsiasi momento, quindi è esperibile contro una sentenza
anche passata in giudicato e NON è soggetta a termini di decadenza.

Vi è poi una particolare previsione fissata nell'art 327, che si occupa del processo
contumaciale: vi ricordate che l'ordinamento prevede la possibilità per la parte di
non costituirsi, di rimanere contumace, e il processo può proseguire.

Abbiamo analizzato nel primo semestre separatamente la disciplina della


contumacia dell'attore e quella del convenuto, perché divergono —> vi ricordate
che l'ordinamento attribuisce alla parte contumace il diritto di costituirsi in
qualsiasi momento nel processo, salvo precisare che però deve accettare il
processo nello stato in cui si trova. In via del tutto eccezionale l'art 294 consente al
contumace che si costituisce di chiedere al giudice istruttore di essere ammesso a
compiere attività che gli sarebbero precluse, se dimostra che la nullità della
citazione o della sua notificazione gli ha impedito di avere conoscenza del
processo, o che la costituzione è stata impedita da causa a lui non imputabile =
classico esempio di RIMESSIONE IN TERMINI.

L'art 327.2 prevede la possibilità di una remissione in termini del contumace


anche con riferimento al potere di impugnazione: infatti la norma stabilisce che la
disposizione del primo comma in base alla quale, indipendentemente dalla
notificazione, “l'appello, il ricorso per cassazione, la revocazione non possono
proporsi decorsi 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza”, NON si applica
quando la parte contumace dimostra di non aver avuto conoscenza del processo
per nullità della citazione, o della notificazione di essa, o per nullità della
notificazione degli atti di cui all'art 292. Si tratta evidentemente di una previsione
che si riallaccia alla disciplina generale della contumacia e che prevede un
ulteriore ipotesi di rimessione in termini. Così come il contumace, nel corso del
primo grado di giudizio può costituirsi ed essere rimesso in termini nell'esercizio
dei poteri processuali che ha perduto, ove dimostra il carattere involontario della
sua contumacia, così l'art 327.2 prevede un ulteriore rimessione in termini con
riferimento specifico al potere di impugnazione.

Queste sono le disposizioni generali. Ci sono poi delle previsioni ulteriori, che
riguardano l'impugnazione del pubblico ministero, che per adesso lasciamo da
parte.

334
Ancora, rimaniamo nell'ambito delle disposizioni che riguardano le impugnazioni in
generale e riprendiamo quanto vi ho detto in apertura di questa parte della lezione:
ovvero il potere di impugnazione è un potere che generalmente ha come SCOPO
quello di voler suscitare il controllo di un precedente provvedimento da parte di un
giudice diverso. Attraverso i mezzi di impugnazione allora, la parte che è rimasta
soccombente potrà denunciare tutti gli errores in procedendo e tutti gli errores
in iudicando, che siano stati commessi dal giudice che ha emanato la prima
sentenza.

Nell'ambito quindi dei mezzi di impugnazione, trova applicazione il principio di


conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione (l’abbiamo
anticipato più volte nelle nostre lezioni): tutte le nullità, tutti i vizi derivanti dalla
violazione delle regole processuali, (quindi può trattarsi di vizi derivanti da difetto di
un requisito extra formale, oppure di un vizio derivante da un difetto di forma), se
non vengono sanati si riverberano nel provvedimento finale, in virtù del principio
fissato nell'art 159 cpc, secondo cui la nullità di un atto si ripercuote sugli atti
successivi che da questo dipendono, e naturalmente alla fine si riverberano nella
sentenza. In base all'art 161 quindi, qualunque vizio che affetti la sentenza, e può
essere un vizio relativo alla sentenza come tale, ma può essere anche un vizio
relativo a un atto precedente che si è riverberato nella sentenza, o un vizio
derivante dal difetto di un requisito extra formale, devono essere denunciati al
giudice superiore attraverso i mezzi di impugnazione che l'ordinamento mette a
disposizione; e quindi dovranno essere denunciati attraverso le FORME, ma
soprattutto nel rispetto dei TERMINI posti dall'ordinamento processuale
nell’ambito della disciplina dei mezzi di impugnazione.

L'art 161 cpc vale con riferimento a TUTTI i possibili vizi che possono riguardare
la sentenza, e i mezzi di impugnazione sono costruiti proprio per consentire alle
parti di denunciare questi vizi; come vi ho detto, il potere di impugnazione può
servire a denunciare tutti i possibili errores in procedendo, vizi che naturalmente
non si siano sanati, o comunque che non sono sanabili, quindi ancora esistenti, di
tipo formale o extra formale, ma anche errores in iudicando, quindi si può
denunciare non soltanto l'INVALIDITÀ della sentenza, ma anche la sua
INGIUSTIZIA. In quest'ultimo contesto ciò che la parte impugnante denuncia al
giudice superiore è un errore compiuto dal giudice nel momento in cui ha statuito
sul merito, quindi si va a denunciare un errore che riguarda il sillogismo
giudiziale, che abbiamo detto sintetizza l’attività logica che il giudice del merito è
chiamato a svolgere.

Questi errores in iudicando possono riguardare sia la questio iuris, quindi si può
contestare la scelta della norma generale astratta che il giudice ha ritenuto dover
applicare con riferimento al caso di specie, sulla cui base ha risolto la controversia,
oppure l'interpretazione che il giudice ne ha fornito, o la sua applicazione; sia la
quaestio facti, cioè la ricostruzione che il giudice ha effettuato dei fatti
giuridicamente rilevanti, e sulla cui base è stata emanata la sentenza di merito —>

335
ad esempio sotto questo profilo si possono denunciare errori compiuti dal giudice
precedente in ordine all'assunzione o valutazione delle prove.

Questi sono i possibili VIZI che si possono denunciare attraverso i mezzi di


impugnazione, anche se è molto importante introdurre fin da subito la distinzione
fra i mezzi di impugnazione a motivi illimitati e quelli a motivi limitati: infatti
abbiamo mezzi di impugnazione per il cui tramite si possono denunciare TUTTI i
possibili vizi della sentenza, e mi riferisco in particolare all'APPELLO, perché
attraverso l'appello le parti possono muovere qualsiasi contestazione contro la
sentenza di primo grado; ma vi sono anche mezzi di impugnazione con riferimento
ai quali si possono denunciare soltanto i vizi indicati dalla legge, gli esempi sono il
RICORSO PER CASSAZIONE, ma anche la REVOCAZIONE e la OPPOSIZIONE
DI TERZO.

Ora, nella ricostruzione generale delle impugnazioni è molto importante soffermarsi


sulla previsione contenuta negli artt da 331 a 335, in cui troviamo espressa la
cosiddetta direttiva dell'unità oggettiva e soggettiva del processo di
impugnazione: Infatti in queste disposizioni noi troviamo una serie di meccanismi,
che agiscono in direzione e contesti molto diversi, uniti dallo scopo di far sì che un
processo che in primo grado si è svolto in maniera UNITARIA, (e non facciao
riferimento solo a processi litisconsortili, può trattarsi anche di processi a due sole
parti), si mantenga unitario anche nel passaggio di fronte al giudice delle
impugnazioni. Quindi queste disposizioni hanno uno scopo comune, che è quello
di evitare che da un processo che si è svolto in maniera unitaria in primo grado, nel
passaggio di fronte al giudice superiore, si biforchi in due o più processi di
impugnazione.

Naturalmente tutti questi meccanismi riguardano vuoi i giudizi che in primo grado
si sono svolti fra due parti, vuoi i giudizi che invece in primo grado si sono svolti fra
più parti, e in questo secondo ordine le norme che rilevano sono in anzitutto gli
artt 331 e 332, che abbiamo richiamato più volte parlando della connessione fra
parti diverse, e che si occupano della litisconsorzio in fase di gravame.

Ecco, è un argomento piuttosto complesso.

Ma direi di dare avvio allo studio di queste disposizioni partendo dall'ipotesi più
semplice, quindi dai giudizi che in primo grado si sono svolti fra due sole parti.
Pensiamo a un processo che si è svolto fra un attore un convenuto e che abbia
raggiunto il suo esito fisiologico, quindi si sia chiuso con un provvedimento redatto
in forma di sentenza che si pronuncia sul merito, quindi che statuisce sulla
esistenza o non esistenza del diritto fatto valere in giudizio.

Naturalmente partiamo dall'ipotesi più semplice: la domanda è stata accolta


totalmente, o totalmente rigettata. Questa è un'ipotesi semplice, perché all'esito
di questo processo noi abbiamo una parte totalmente vittoriosa e una totalmente
soccombente. Se la domanda è stata accolta nella sua totalità, l'attore sarà
totalmente vittoriosa e il convenuto sarà totalmente soccombente. Se invece fosse
stata rigettata, le parti sono invertite.

336
In queste ipotesi problemi non se ne pongono, perché noi già sappiamo che
l'impugnazione deve essere proposta dalla parte che è legittimata e chi ha
interesse, e nel caso di specie sarà la parte totalmente soccombente, quindi, se la
parte soccombente, che nel primo caso è il convenuto e nel secondo è l’attore,
intenda aprire il giudizio di impugnazione, non farà altro che proporre
impugnazione. E questa impugnazione determinerà l'apertura del processo di
impugnazione.

Per adesso non andiamo a pensare e a preoccuparci del se l'apertura del


processo di impugnazione significhi il trasferimento di fronte al secondo giudice di
tutta la controversia, quindi di tutto l'oggetto e di tutto il materiale cognitivo che è
stato introdotto e conosciuto dal giudice di primo grado; diciamo semplicemente
che si apre il giudizio di impugnazione.

Il discorso è diverso e comincia a complicarsi laddove ad esito del processo di


primo grado, ad esempio, la domanda sia stata parzialmente accolta, perché in
questo caso abbiamo una situazione diversa rispetto a quella precedentemente
esaminata, perché entrambe le parti risulteranno sia vittoriose, sia soccombenti.

Abbiamo appena detto che la direttiva della unità oggettiva e soggettiva delle
impugnazioni richiede qualche aggiustamento già nell'ambito dei processi a due
parti, laddove nel processo di primo grado si sia verificata una soccombenza
parziale, una soccombenza diciamo ripartita, nel senso che entrambe le parti
risultano sia soccombenti sia vittoriose.

Facciamo alcuni rapidi ESEMPI:

‣ supponiamo che l'attore abbia agito nei confronti del convenuto chiedendo la
condanna di questi al pagamento di 100, e supponiamo che il giudice abbia
accolto la domanda, ma per un valore pari a 50; appare evidente che rispetto a
una sentenza che ha accolto la domanda per un quantum più ridotto rispetto a
quello inizialmente chiesto dall'attore, sia l'attore che il convenuto risultano
vittoriosi e soccombenti: l'attore è vittorioso nella parte in cui la sentenza ha
accolto la sua domanda di pagamento di 50, ma per la parte restante, per la
differenza fra ciò che ha chiesto e ciò che ha ottenuto, risulta soccombente. Al
contrario il convenuto, è soccombente per la parte della domanda che è stata
accolta, e vittorioso per la parte in cui invece è stata respinta.

‣ Ipotesi ancora di soccombenza parziale si registrano sempre nell’ambito del


processo a due parti, in caso di processo cumulativo, quando cioè il processo
ha ad oggetto due o più domande, perché è possibile che le domande risultino
alcune accolte ed altre respinte, e di conseguenza entrambe le parti risultino sia
soccombenti sia vittoriose. Supponiamo che l'attore abbia agito nei confronti
del convenuto proponendo domanda di condanna al pagamento sia del capitale
sia degli interessi, supponiamo che la domanda relativa al capitale venga
accolta mentre l’altra relativa agli interessi venga respinta: anche in questo caso
abbiamo una soccombenza ripartita, perché l’attore risulta vittorioso sulla
337
domanda relativa al capitale, ma soccombente sulla domanda relativa agli
interessi, mentre il convenuto risulta soccombente nella domanda relativa al
capitale e vittorioso nella domanda relativa agli interessi, che è stata respinta.

Ora, sulla base di quanto abbiamo precedentemente detto in tema di


legittimazione e di interesse ad impugnare, è chiaro che entrambe le parti possono
proporre impugnazione, sia l’attore che il convenuto: entrambi infatti hanno
rivestito la qualità di parte nel precedente grado di giudizio e sono soccombenti.
Ora, se il legislatore si fosse limitato a disciplinare l'impugnazione, senza
preoccuparsi di inserire dei meccanismi volti a garantire la unità oggettiva del
processo, si sarebbe creata una situazione di rischio, nel senso che, se le due parti
avessero entrambi proposto impugnazione separatamente, dal giudizio che in
primo grado si è svolto in maniera unitaria, si sarebbero potuti aprile due giudizi di
impugnazione separati, autonomi; e allora, per evitare una situazione del genere il
legislatore si è mosso e ha previsto una serie di MECCANISMI tesi a garantire che,
nel passaggio di fronte al giudice superiore, un processo che in primo grado si è
svolta in maniera unitaria continui ad essere unitario, quindi NON possa scindersi.
Il primo di questi meccanismi è l’IMPUGNAZIONE INCIDENTALE, che troviamo
all'art 333 cpc: "le parti alle quali sono state fatte le notificazioni previste negli
articoli precedenti, devono proporre appena di decadenza le loro impugnazioni in
via incidentale nello stesso processo" che cosa significa? Significa che una volta
che una delle parti ha proposto impugnazione, (impugnazione che chiamiamo
principale perché proposta per prima), se le parti destinatarie dell'impugnazione
intendono a loro volta proporre impugnazione, devono farlo nelle forme
dell'impugnazione incidentale, dove attenzione il termine incidentale NON sta ad
indicare che si tratti di un'impugnazione di qualità inferiore, o dipendente da quella
principale, ma il termine incidentale sta a significare che si tratta di
un'impugnazione proposta nell'ambito di un giudizio di impugnazione che è già
stato aperto, quindi all'impugnazione proposta per seconda, proposta in corso di
causa.

Ciò premesso, nell'ipotesi di cui all'art 333 cpc NON è previsto alcun tipo di
dipendenza o di subordinazione dell'impugnazione incidentale, quindi proposta
per seconda, rispetto all'impugnazione principale, proposta per prima.
Quindi ,qualunque sia l'esito dell'impugnazione principale, che venga accolta, che
venga rigettata nel merito, che non possa andare avanti perché inammissibile o
improcedibilità, (questi sono i vizi che si possono verificare in sede di
impugnazione), l'impugnazione incidentale ha una sua VITA AUTONOMA, quindi
obbliga il giudice dell'impugnazione a pronunciarsi sulla stessa.

Ora, l'art 333 deve essere coordinato con alcune disposizioni che si occupano
proprio della impugnazione proposta per seconda con riferimento ai singoli mezzi
di impugnazione, e in modo particolare mi soffermo sul disposto dell’art 343 cpc:
che si occupa dell'impugnazione incidentale nell'ambito del giudizio di appello.
L'articolo in questione prevede che l'appello incidentale si propone a pena di
338
decadenza nella comparsa di risposta, all'atto della costituzione in cancelleria ai
sensi dell'art 166 —> questa è una norma molto importante, è una norma che mi
fornisce, con riferimento all'appello incidentale, due elementi molto importanti: il
primo mi risolve un PROBLEMA DI FORMA, perché mi indica l'atto per il cui
tramite deve essere avanzato l'appello incidentale, che vedete essere chiaramente
la comparsa di risposta. 

Vedremo che l'appello si apre con un atto di citazione, l'atto di citazione ad
udienza fissa in appello. La parte destinataria dell'appello deve costituirsi in
giudizio con un atto che riveste la forma della comparsa di risposta. Il processo di
appello vedremo, per tutto quanto non espressamente previsto negli articoli da
339 a 358, è disciplinato dalle disposizioni dettate con riferimento al processo di
fronte al tribunale. Questa comparsa di risposta contenente l'appello incidentale
deve essere depositata a pena di decadenza all'atto della costituzione in
cancelleria: quindi 20 giorni prima della data dell'udienza fissata dall'attore.

Quindi una volta che è stata proposta impugnazione principale, in questo caso
appello principale, le altre parti sono costrette ad utilizzare l'impugnazione
incidentale, cioè devono proporre la propria impugnazione nel rispetto delle
FORME, ma soprattutto dei TERMINI imposti per l'appello incidentale. 

L'art 343 è una norma molto importante perché si occupa dei TERMINI entro i
quali deve essere proposto l’appello incidentale —> la norma è chiara: l’APPELLO
INCIDENTALE deve essere proposto a pena di decadenza nella comparsa di
risposta depositata 20 giorni prima della data dell’udienza —> da questa
considerazione si trae una regola molto importante, ovvero che la circostanza che
una delle parti prenda l'iniziativa per prima e proponga impugnazione principale,
ha un effetto molto importante sull'altra parte, o sulle altre parti, (perché questo
vale anche nei processi a più parti), perché impone a queste l’onere di proporre le
ulteriori impugnazioni in forma incidentale, e questo si traduce in una riduzione
del termine che originariamente la parte avrebbe avuto a sua disposizione.

Noi abbiamo visto che l'APPELLO è soggetto ad un termine per impugnare, a un


termine ordinario per impugnare, che è di 6 mesi dalla pubblicazione della
sentenza, oppure di 30 giorni dalla notificazione della sentenza. Supponiamo
che, depositata la sentenza, una delle parti assuma immediatamente l’iniziativa e
notifichi alla controparte il suo appello principale, a questo punto, in base all'art
343 cpc la parte destinataria dell'appello principale, che chiamiamo appellato, ha
l’onere, se a sua volta desidera proporre impugnazione, di attivarsi depositando la
propria cCOMPARSA DI RISPOSTA contenente l'appello incidentale nel termine di
20 giorni precedenti alla data dell'udienza. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che
se l'impugnazione principale venga proposta quando ancora è in corso di
svolgimento il termine ordinario per impugnare, il che verosimilmente si può
verificare non tanto se decorre il termine breve, quanto sede corre il termine lungo,
la controparte, stante il suo obbligo di proporre la propria impugnazione in forma
incidentale, nonché la previsione contenuta nell'art 343, può essere costretta ad
avanzare la propria impugnazione incidentale in un MOMENTO ANTERIORE
339
rispetto alla scadenza del termine ordinario per impugnare, perché può darsi che il
termine del 343, quindi i 20 giorni precedenti alla data dell'udienza fissata
dall'attore, che in appello è l'appellante, scada in un momento anteriore rispetto
alla scadenza del termine semestrale. Quindi, la forma incidentale ha delle
conseguenze molto importanti a livello di TERMINI, perché la parte che propone
appello incidentale deve rispettare non solo il termine ordinario per impugnare, ma
anche il termine del 343, i 20 giorni precedenti la data dell'udienza, e vedremo che
questo secondo termine è un termine assolutamente inderogabile per questa parte
(salta l’audio min -7.12) … in forma principale sono proposte due impugnazioni
attraverso due distinti atti di citazione.

Vi ripeto, è un'evenienza che si può verificare tranquillamente, che non


presuppone un errore di una delle due parti: se il procedimento di notificazione
non è completato, è chiaro che la parte che è partita per seconda, può non essere
stata a conoscenza della già avvenuta proposizione dell'impugnazione principale
della controparte.

Ebbene, con riferimento a queste ipotesi, il legislatore ha predisposto l'istituto


della riunione delle impugnazioni separatamente proposte, che troviamo
nell'art 335 cpp: "tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa
sentenza devono essere riunite anche d'ufficio in un solo processo". Questo
articolo in pratica realizza ex post quello che l'art 333 vuole conseguire ex ante,
allorquando, per un motivo che può NON dipendere da un errore di parte, anche la
seconda impugnazione è stata proposta in forma principale.

Questa possibilità trova un LIMITE: infatti, è un'ipotesi di scuola, però può


accadere che il giudice NON si renda conto che sono state proposte due
impugnazioni in forma principale, separatamente, contro la stessa sentenza, e che
quindi si aprano due processi di impugnazione con riferimento alla medesima
controversia. Ebbene, in questo caso si deve ritenere che, una volta che una delle
due cause, in particolare in appello, si sia chiusa con sentenza, questa decisione
renda improcedibile il giudizio di appello che è ancora pendente.

Come vedremo, la competenza del giudice d'appello è automatica, perché voi vi


ricordate che la competenza territoriale di ogni singola corte d'appello
tendenzialmente coincide con il territorio di una singola regione, e quindi la regola
è quella secondo cui gli appelli proposti contro provvedimenti di tribunale che si
trovano in un determinato distretto si propongono tutti alla stessa corte d'appello,
per cui si dice che la competenza è automatica.

Quindi, siccome le diverse impugnazioni proposte contro la stessa sentenza


necessariamente vanno di fronte allo stesso ufficio giudiziario, è molto difficile che
il giudice non si accorga delle due o più impugnazioni proposte contro la stessa
sentenza e che quindi non venga disposta la riunione.

Una seconda puntualizzazione molto importante: secondo la giurisprudenza,


anche se la seconda impugnazione è proposta in forma principale anziché
incidentale, è VALIDA, ma subordinatamente alla circostanza che la seconda
impugnazione venga proposta nel rispetto del TERMINE del 343, quindi è
340
necessario che venga depositata in cancelleria 20 giorni prima della data
dell'udienza fissata nel primo atto di citazione in appello.

Quindi, l'errore sulla forma può essere sanato ma NON l'errore sul termine!

All’art 333 cpc segue l'art 334 cpc che ci introduce una particolare ipotesi di
impugnazione incidentale, ed è l’impugnazione incidentale tardiva.

341
Lezione 20 - 20/05/20
esaminiamo nella lezione di oggi la cosiddetta:

impugnazione incidentale tardiva la cui disciplina rinveniamo all'articolo 334


del codice di procedura civile.

Leggiamo intanto la disposizione:

“le parti contro le quali è stata proposta impugnazione e quelle chiamate integrare il
contraddittorio a norma dell'articolo 331 possono proporre impugnazione
incidentale anche quando per esse è decorso il termine o hanno fatto
acquiescenza alla sentenza.
In tal caso se impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione
incidentale perde ogni efficacia”


Come si evince da questa disposizione l’impugnazione incidentale tardiva è una


sottospecie dell'impugnazione incidentale tempestiva.

Non a caso la norma, l'articolo 334 segue l'articolo 333 che si occupa appunto
dell’impugnazione incidentale.

Perché si parla di impugnazione incidentale tardiva?


Come vedete, la lettera della disposizione afferma che ho le parti possono
proporre impugnazione incidentale anche quando è decorso termine o hanno
acquiescenza alla sentenza, infatti l’impugnazione di cui all’articolo 334 è una
impugnazione che è proposta dopo che è spirato il termine ordinario di
impugnazione.

Occorre però fare chiarezza perché come vi ricordate le impugnazioni incidentali in


verità sono soggette ad un duplice termine:

− non soltanto il termine ordinario di impugnazione, che può essere il


cosiddetto termine lungo dei sei mesi dalla pubblicazione della sentenza o il
termine breve dei 30 giorni dalla notificazione della stessa

− Ma è soggetta anche ad un altro termine che nell’ipotesi dell'appello è il


termine di cui all'articolo 343 dal momento in cui l'appello incidentale deve
essere proposto nella comparsa di risposta depositata 20 giorni prima della
data dell'udienza.

e abbiamo già rilevato che questo termine di fatto può scadere anche prima
che sia scaduto il termine ordinario di impugnazione. Per cui abbiamo detto:
il fatto che una delle parti assuma per prima l'iniziativa impugnatori ha una
conseguenza sulla controparte, perché può significare che questa deve
rinunciare ad una parte del termine per impugnare.

In nessun caso, abbiamo detto, l’impugnazione incidentale può violare il termine di


cui all'articolo 343.

Ora, il caso a cui si riferisce il legislatore dettando l'articolo 334 è quello in cui la
parte -che assume l'iniziativa impugnatoria- lo fa nell’imminenza della scadenza
del termine per impugnare. Per cui la controparte, la parte destinataria

342
dell'impugnazione, può non essere nella condizione di apprestare la sua
impugnazione incidentale.

Ora, dovete considerare quanto ci siamo già detti a suo tempo, ovvero che
l’impugnazione incidentale è una vera e propria impugnazione e il presupposto
generalmente è una soccombenza cosiddetta ripartita quindi una soccombenza
parziale.

Quando ciascuna delle parti si trova a decidere se proporre impugnazione o meno


è chiamata inevitabilmente ad effettuare una valutazione di opportunità, cioè deve
fare una valutazione complessiva del risultato di merito cui è approdato il
precedente grado di giudizio.

Mentre se c'è stata una soccombenza totale è chiaro che se la parte ritiene che la
sentenza sia ingiusta o illegittima reagirà sicuramente, quindi prenderà iniziativa
impugnaotria, e non si pone un problema di impugnazione incidentale almeno,
diciamo, nel senso che la controparte risulterà vittoriosa nel merito (ma su questo
mettete un asterisco perché dovremo fare il suo tempo una precisazione
importante).

Invece, laddove entrambe le parti sono risultate in parte vittoriose in parte


soccombenti è inevitabile che ciascuna parte porrà sul piatto della bilancia i
vantaggi e gli svantaggi che ha maturato dalla sentenza.

Ed è verosimile che ci sia una parte che pur di chiudere la lite sia disposta ad
accettare l'assetto di interessi stabilito nella sentenza precedente, anche se ci
rimette qualcosa.

Naturalmente, la prospettiva muta radicalmente laddove una delle parti assuma


l'iniziativa impugnatoria e quindi apra il giudizio di impugnazione perché appare
evidente che se poi questa impugnazione viene accolta la controparte anziché
risultare parzialmente soccombente ma anche parzialmente vittoriosa rischia di
ritrovarsi totalmente soccombente, quindi la proposizione di impugnazione
principale va ad incidere pesantemente sulle valutazioni che la parte avrà
compiuto. Allora il legislatore ha dettato l'articolo 334 pensando proprio all’ipotesi
in cui una delle parti assuma la propria iniziativa impugnatoria alla scadenza o poco
prima della scadenza del termine per impugnare.
Prendendo quindi per prima l'iniziativa in un momento che rischia di creare
incertezza, difficoltà alla controparte perché se la prima impugnazione viene
notificata, non dico l'ultimo giorno del termine ordinario per impugnare, ma anche
una settimana prima o comunque poco prima della scadenza del termine per
impugnare, la parte destinataria di questa impugnazione non potrebbe avere il
tempo materiale per proporre a sua volta impugnazione.

E allora, in mancanza di un meccanismo messo a punto dall’articolo 334 che,


come capite, consente alla parte che è destinataria di un’impugnazione di reagire
343
e di proporre a sua volta impugnazione incidentale anche quando è decorso il
termine, in assenza di una previsione di questo tipo si avrebbe una situazione
tale da incentivare le parti a proporre impugnazione immediatamente->
quindi sarebbe una un incentivo alla proposizione di impugnazione se non altro a
scopo cautelativo per evitare cioè il rischio di trovarsi notificata una impugnazione
della controparte quando non c'è più il tempo per reagire, quindi per impugnare a
sua volta l'ha la sentenza.

Ora l'articolo 334, quindi viene dettato allo scopo di favorire l'accettazione della
sentenza per disincentivare la proposizione di impugnazione meramente
cautelative, che in assenza di una simile previsione indubbiamente sarebbe
scattata.

Ricordatevi che un conto è accettare una sentenza in cui entrambe le parti


risultano in parte vittoriose e parte soccombente altra cosa invece è trovarsi
esposto al rischio che la soccombenza parziale si trasforma in una soccombenza
totale-> quindi l'articolo 334 è una sorta di rimessione in termini.
come vi dicevo c'è però da fare un chiarimento molto importante perché la
disposizione fa riferimento al decorso del termine ma quello che è importante
puntualizzare è che qui abbiamo un riferimento solo al termine ordinario di
impugnazione di cui agli articoli 326 e seguenti del codice di procedura civile,
mentre invece l'articolo 334 non può consentire la deroga all’ulteriore termine che
nel caso dell'appello fissato dall' articolo 343 per cui l’impugnazione incidentale va
proposta a pena di decadenza nella comparsa di risposta, all'atto della
costituzione in cancelleria ai sensi dell'articolo 166.

Quindi l’impugnazione incidentale di cui all'articolo 334 è tardiva rispetto al


termine ordinario di impugnazione (=dei sei mesi di cui all’articolo 327 o dei 30
o 60 nel caso di ricorso per Cassazione di cui all’art 326) ma non anche rispetto
al termine dei 20 giorni prima dell'udienza; questo termine non può mai essere
derogato e qualsiasi impugnazione proposta al di là di questo termine è destinata
ad essere dichiarata inammissibile.

Cerchiamo di vedere la disciplina di questo istituto dopo averne capiti i


presupposti e avendo compreso la funzione fondamentale.

Allora, intanto il secondo comma stabilisce che:

“se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione


incidentale perde ogni efficacia”
Questa previsione distingue l’impugnazione incidentale tardiva dall' impugnazione
incidentale tempestiva.

Parlando dell'impugnazione incidentale in generale ho affermato che


l’impugnazione incidentale è semplicemente un'impugnazione proposta per
seconda quindi ciò che separa l’impugnazione principale dall'impugnazione
incidentale è un dato meramente cronologico, quel principale non deve essere

344
letto nel senso che è l’impugnazione più importante o così come il termine
incidentale non sta a indicare che la seconda impugnazione dipende dalla prima
per cui se è la prima, diciamo, è rigettata o è dichiarata inammissibile o
improcedibile o c’è l’estinzione anche l’impugnazione incidentale tempestiva cade.

Abbiamo detto che l’impugnazione incidentale tempestiva è autonoma è idonea a


rimanere in vita autonomamente rispetto all’impugnazione principale quindi
prescinde dall’esito dell’impugnazione principale.

Ciò non vale con riferimento all’impugnazione incidentale tardiva perché come
stabilisce il secondo comma dell’articolo 334:

“Se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione


incidentale perde efficacia”

Quindi impugnazione incidentale tardiva è legata all’impugnazione principale anzi


diciamo meglio all’ammissibilità dell’impugnazione principale

E qui si rende necessario un chiarimento perché intanto vedete che si parla di


inammissibilità -> l’inammissibilità è una sanzione che l'ordinamento correla alla
violazione di norme processuali quindi attenzione che nel disposto dell’articolo
334 secondo comma si fa dipendere la impugnazione incidentale tardiva dalla
ammissibilità non dalla fondatezza della impugnazione principale, per cui la
circostanza che l’impugnazione principale venga rigettata nel merito non fa cadere
l’impugnazione incidentale tardiva.

poi bisogna intendersi sul significato dell’espressione inammissibilità.

L’inammissibilità è, come vedremo, una sanzione molto pesante, una sanzione più
pesante rispetto alla nullità che è il regime di invalidità generale, disciplinato dagli
articoli 156 e seguenti del codice di procedura civile.

Ma con riferimento ai giudizi di impugnazione il legislatore ha previsto una serie di


sanzioni più rigide perché queste sanzioni prima fra tutte l’ammissibilità non
prevedono dei meccanismi di sanatoria e in ciò si distinguono nettamente rispetto
alla nullità con riferimento alla quale abbiamo visto gli articoli 156 e seguenti
prevedono appunto, in senso contrario, diversi meccanismi di sanatoria a partire
dalla convalidazione oggettiva, la convalidazione soggettiva, la rinnovazione degli
atti nulli.
Invece la caratteristica di queste sanzioni previste per i mezzi di impugnazione è
proprio la loro rigidità cioè una volta che il vizio è stato rilevato dal giudice non c'è
più spazio per una sanatoria. Il giudice dell'impugnazione chiuderà in rito il
processo e la conseguenza sarà pesantissima perché sarà il passaggio in
giudicato della sentenza impugnata.

Allora, quando l'articolo 334 secondo comma fa riferimento alla inammissibilità


come limite dell'efficacia dell'impugnazione incidentale tardiva fa riferimento ai
casi in cui l'ordinamento prevede che la impugnazione possa essere
dichiarata inammissibile.

345
Quindi esempio tipico è:

− l’impugnazione proposta dal soggetto che non era parte del giudizio, quindi
da chi non era legittimato ad impugnare

− oppure impugnazione proposta dopo che sono già decorsi i termini per
impugnare

− oppure impugnazione proposta contro un provvedimento non suscettibile di


impugnazione.

questi sono i casi tipici.

non ci rientra, attenzione, la inammissibilità di cui agli articoli 348 bis e 348 ter che
si occupano del cosiddetto filtro in appello.

su questo punto dovremmo tornare con maggiore attenzione.

Per quanto riguarda la disciplina e c'è anche da notare che la disposizione


attribuisce la legittimazione a proporre impugnazione incidentale tardiva:

- alla parte contro cui è proposta impugnazione e quindi è la parte


destinataria dell'impugnazione, la parte che si vede notificata
l’impugnazione;

- e anche le parti chiamate integrare il contraddittorio a norma dell'articolo


331. Questa disposizione l’abbiamo già richiamata altre volte, andremo ad
occuparcene subito dopo.

Si tratta dei terzi chiamati a integrare il contraddittorio in ipotesi di causa


inscindibile quindi siamo nell'ambito di un processo a più parti, sappiamo
già, perché lo abbiamo già anticipato parlando delle diverse forme di
connessione e di litisconsorzio fra parti diverse, sappiamo già che a fronte di
alcune ipotesi di connessione molto intensa - che possono intercorrere fra
rapporti giuridici che corrono fra parti diverse- talvolta il legislatore impone
la necessaria partecipazione al giudizio di impugnazione di tutti coloro che
erano già parti nel precedente grado di giudizio. Per cui se l’impugnazione
viene proposta da o contro soltanto alcuni dei litisconsorti, il giudice deve
ordinare l'integrazione del contraddittorio.

E bene l'articolo 334 afferma chiaramente che anche coloro nei cui confronti viene
disposto l'ordine di integrazione del contraddittorio possono utilizzare l'articolo
334 quindi esperire impugnazione incidentale tardiva (ma sul processo di
impugnazione fra parte diverse mi riservo di tornare dopo aver trattato la disciplina
degli articoli 331, 332 che si occupano proprio del litisconsorzio in fase di
gravame)

Due i problemi che l’impugnazione incidentale tardiva pone:

1. le limitazioni oggettive
2. e le limitazioni soggettive

346
per quanto riguarda le limitazioni oggettive si tratta di limiti che sono ad un certo
punto emersi nell’ambito dei giudizi a due parti.

Dagli anni '60 fino alla fine degli anni '80 infatti si è affermato un orientamento
della giurisprudenza di legittimità in base al quale l’impugnazione incidentale
tardiva intanto era ammissibile in quanto si dicesse contro lo stesso capo di
sentenza impugnata in via principale o contro un capo dipendente da questo.

Ora, in verità l'articolo 334 non ha mai recato alcuna traccia di una simile
limitazione oggettiva, la norma si occupa solo del dei profili di legittimazione attiva
facendo riferimento, come abbiamo appena rilevato, alle parti contro cui è
proposta impugnazione a quelle chiamate ad integrare il contraddittorio a norma
dell'articolo 331.

Probabilmente la giurisprudenza ha lavorato sul riferimento all'articolo 331 e quindi


alle cause incedibili e dipendenti per elaborare questo indirizzo restrittivo.
D’altra parte questo indirizzo oltre a non trovare alcun addentellato nel testo della
disposizione rischiava di avere un effetto perverso cioè contrario rispetto a quella
che è la ratio dell’istituto che abbiamo detto è quella di evitare la proposizione di
impugnazione meramente cautelativa perché siccome nei giudizi a due parti la
valutazione che le parti effettuano del risultato del processo abbiamo detto è
complessiva quindi non legata a un singolo capo o Capi dipendenti, il rischio era
che a fronte delle numerose incertezze relative all’ambito applicativo di questo
istituto le parti finissero sempre per proporre impugnazione principale
impugnazione, tempestiva a scopo meramente cautelativo e quindi molto
opportunamente nel 1989 sono intervenute le sezioni unite che con la famosa
sentenza numero 4640 hanno finalmente rimosso questo precedente
orientamento per cui oggi è pacifico che l’impugnazione incidentale tardiva nei
giudizi a due sole parti può essere rivolta contro qualsiasi capo i sentenza.

File audio n 2
Lasciamo per un momento la impugnazione incidentale tardiva e proseguiamo le
lezioni relative alle impugnazioni in generale.

Andiamo ad analizzare l'articolo 329 del codice di procedura che ci introduce


l’acquiescenza:
Co.1 -> “salvi i casi di cui ai numeri 1,2,3, 6 dell'articolo 395 l’acquiescenza
risultante da accettazione espressa o atti compatibili con la volontà di avvalersi
delle impugnazioni ammesse dalla legge ne esclude la proponibilità”
Co. 2 -> “l’impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza
non impugnata”

allora dividiamo il primo dal secondo comma, il primo comma fa riferimento alla
acquiescenza espressa o implicita o tacita il cui effetto è quello di escludere
l’impugnazione.

347
possiamo tracciare un parallelo fra l’acquiescenza espressa o implicita di cui al
primo comma dell'articolo 329 e il decorso dei termini per impugnare, salvo
sottolineare che l’acquiescenza, come dice espressamente il 329, determina
l'esclusione dell'impugnazione, mentre, l'inutile decorso dei termini per impugnare
preclude la impugnazione.

l'effetto però dei due istituti è lo stesso, ovvero, il passaggio in giudicato della
sentenza. No
Che cos'è l’acquiescenza espressa? È una dichiarazione di accettazione della
sentenza svolta dalla parte soccombente. una volta rilasciato questa dichiarazione
la sentenza passa in giudicato.

L'acquiescenza implicita o tacita invece si correla al compimento di atti


incompatibili con la volontà di impugnare e quindi occorre effettuare una
precisazione e cioè: Non vale come acquiescenza implicita l'esecuzione spontanea
della sentenza di condanna. Sappiamo che in base all'articolo 282 cpc la sentenza
di condanna nasce provvisoriamente esecutiva ex lege, allora si ritiene che il
debitore possa avere interesse a darle esecuzione spontanea per risparmiarsi il
processo esecutivo quindi la circostanza che il debitore di attuazione
spontaneamente alla condanna non vale come acquiescenza implicita e di
conseguenza consente comunque al debitore soccombente di proporre
impugnazione.

Invece, completamente differente è il fenomeno che è considerato nel secondo


comma della disposizione laddove si parla della acquiescenza tacita cosiddetta
qualificata.

La disposizione ci dice che: “la impugnazione parziale importa acquiescenza alle


parti della sentenza non impugnata”

quindi si fa riferimento ad una situazione diversa da quella contemplata nel primo


comma. Qui si parla di una parte che propone impugnazione, quindi che si attiva,
ma si fa riferimento ad una impugnazione parziale cioè una impugnazione che è
rivolta contro alcune delle parti della sentenza.

La disposizione mi dice che all’impugnazione parziale segue l’acquiescenza alle


parti della sentenza non impugnate, il che significa che la parte della sentenza non
impugnata e passa in giudicato. La conseguenza ulteriore è che queste altre parti
della sentenza, su cui la stessa parte è rimasta soccombente ma su cui non ha
proposta impugnazione, passano in giudicato quindi non potranno essere oggetto
di una ulteriore impugnazione anche laddove i termini per impugnare non sono
ancora decorsi.

Tutta questa parte della disposizione come vedete ruota attorno alla nozione di
parte di sentenza e questa nozione di parte della sentenza ha impegnato molto la
giurisprudenza e la dottrina.

Sono state prospettate le tesi più diverse, oggi però un’analisi della giurisprudenza
(e lo vedremo bene parlando dell'appello) ci conferma che la nozione di parte
della sentenza è molto ampia.

348
Allora sicuramente:

1) la nozione di parte dalla sentenza sta ad indicare la decisione contenuta nella


sentenza di una, fra più domande. Quindi, qui parte di sentenza significa capo di
sentenza, capo di domanda. Se l'attore ha avanzato domanda di pagamento del
capitale degli interessi e la sentenza ha respinto entrambe le domande, se l'attore
propone impugnazione con riferimento limitato al capo relativo al capitale, si ha
l’acquiescenza tacita qualificata del capo di sentenza relativo agli interessi. Quindi
questa statuizione di rigetto emessa dal primo giudice passa in giudicato e non
potrà più essere rimesso in discussione quindi l'attore non può ripensarci e
proporre un secondo appello.

2) Ma, non è soltanto questo il significato di parte di sentenza perché nella nozione
di parte di sentenza rientra anche la frazione di domanda, di una delle domande
che sono state proposte. Se viene proposta domanda di pagamento di 100 e
questa domanda viene respinta, se viene proposta impugnazione con riferimento
limitato al rigetto della domanda per 50, anziché per i 100 originari, si ha con
riferimento ai 50 che non sono oggetto dell'impugnazione una acquiescenza tacita
qualificata. Con riferimento a questa frazione del rapporto (vedete qui si fa
riferimento ad una frazione interna la domanda) si forma l’autorità della cosa
giudicata quindi sicuramente nella nozione di parte di sentenza rientra la
frazione del rapporto giuridico controverso.

3) Ma, la giurisprudenza è andata ben oltre, perché la nozione di parte della


sentenza comprende anche:

la statuizione sulla singola questione preliminare di merito, lasciamo stare le


questioni di rito per il momento:

noi sappiamo che un giudice per statuire suona esistenza non esistenza del
rapporto giuridico dedotto in giudizio deve risolvere una lunga serie di questioni e
fra queste vi sono le cosiddette questioni preliminari di merito che hanno di oggetti
fatti giuridicamente rilevanti che sono stati legittimamente acquisiti al processo e
su cui il giudice si è legittimamente pronunciato.

Ora, il giudice nel momento in cui statuisce sulla esistenza o non esistenza del
diritto fatto valere in giudizio, soprattutto laddove si pronuncia affermando
l'esistenza del diritto, avrà risolto una certa serie di questioni preliminari di merito.

Nel momento in cui viene proposta impugnazione, come vedremo, la parte (sia in
appello ma vedremo anche in sede di ricorso per Cassazione) è tenuta a formulare
i motivi di impugnazione.

Con riferimento ai motivi di impugnazione la parte è tenuta ad indicare le questioni


di merito che intende portare alla condizione del giudice dell'impugnazione.

Quindi l'apertura dell'impugnazione, oggi, in Italia non determina il passaggio di


fronte al secondo o terzo giudice di tutto il materiale cognitivo ma sta alla parte

349
impugnante indicare al giudice la questione o le questioni che ritiene essere state
erroneamente risolte dal precedentemente giudice e su cui lo chiama a statuire di
nuovo.

Allora, la giurisprudenza ritiene che parte di sentenza sia anche la situazione


relativa alle singole questioni di merito.

Che cosa vuol dire vuol dire?

Vuol dire che se la parte soccombente, proponendo impugnazione, denuncia errori


relativi ad alcune soltanto delle questioni su cui il giudice precedente si è
pronunciato, con riferimento a quelle questioni su cui è rimasto soccombente e
che non sono state colpite dai motivi di impugnazione si forma l’acquiescenza
tacita qualificata, ovvero passa in giudicato. Naturalmente qui la nozione di
giudicato non è giudicato esterno perché sappiamo che la nozione di autorità
della cosa giudicata ha ad oggetto sempre rapporti o parti di rapporti o frazione di
rapporti giuridici, qui abbiamo una situazione su una singola questione infatti si
parla di giudicato interno che vedremo ha una ampiezza ben maggiore del
giudicato esterno.

4) Ma la giurisprudenza è andata ancora avanti affermando che, in effetti, anche le


questioni di merito si prestano ad essere parcellizzate perché il giudice per
statuire sulla fondatezza di una questione di merito in verità deve occuparsi di una
molteplicità di questioni che sono interne alla questione di merito.

Facciamo un esempio: per statuire sulla eccezione di prescrizione il giudice dovrà


accertare:

− il Dies a quo

− La durata della prescrizione

− L'eventuale esistenza di cause di sospensione o interruzione della


prescrizione

Ecco, la giurisprudenza afferma che se la parte impugnante denuncia soltanto


errori relativi a uno o comunque ad alcuni soltanto dei profili interni alla singola
questione, con riferimento ai profili non investiti dal motivo di impugnazione si
forma il giudicato interno.

Quindi vedete che questa nozione di parte di sentenza, in verità, è stata


frantumata dalla giurisprudenza. Questo è un meccanismo, lo vedremo parlando
dell'appello, di cui la giurisprudenza si è servita per ridurre il più possibile l’ambito
del giudizio di impugnazione e favorire così la rapida conclusione del processo.

Detto questo, esaurita la trattazione della acquiescenza, cominciamo il nuovo


tema e andiamo ad analizzare la disciplina del passaggio di fronte al giudice
dell'impugnazione di una controversia che si è svolta tra una pluralità di parti.

350
Come ampiamente anticipato nel momento in cui abbiamo trattato la connessione
fra parte diverse, queste problematiche trovano la propria soluzione in due
disposizioni, articoli 331 e 332 cpc.
Nell'articolo 331 troviamo la disciplina dettata con riferimento alle cause
inscindibili oh dipendenti mentre nell'articolo 332 troviamo la disciplina relativa
alle cosiddette cause scindibili.
Andiamo ad esaminare queste due discipline processuali e poi andiamo a
delimitare l’ambito applicativo di questi due istituti.

Art 331 co.1 -> “se la sentenza pronunciata tra più parti in causa inscindibile o in
casa e fra loro dipendenti non è stata impugnata nei confronti di tutte, il giudice
ordina l'integrazione del contraddittorio fissando il termine nel quale la notificazione
deve essere fatta e, se necessario, l'udienza di comparizione.
Co. 2 -> L'impugnazione è dichiarata inammissibile se nessuna delle parti
provvede all’integrazione nel termine fissato”

la scelta che legislatore ha manifestato in questo articolo è molto chiara. Nelle


fattispecie che rientrano nell'ambito applicativo di questa disposizione impone
l'integrità del contraddittorio cioè vuole che il giudizio di impugnazione prosegua
fra le stesse parti già presenti nel presente grado di giudizio.

Quindi il grado di impugnazione deve svolgersi in presenza di tutti i litisconsorti già


presenti nel precedente grado di giudizio.

Laddove il giudice riscontra che la impugnazione è stata proposta da o nei


confronti di alcuni soltanto dei litisconsorti ordina l'integrazione del
contraddittorio cioè fissa un termine, a pena di decadenza, entro il quale le parti
dovranno chiamare in causa il litisconsorte pretermesso e se questo non avviene
la conseguenza è molto pesante perché si ha la inammissibilità della
impugnazione cui consegue il passaggio in giudicato della sentenza impugnata.

Come vedete l'articolo 331 prevede uno di quei meccanismi di sanatoria che
abbiamo riscontrato molte volte nell’ambito del primo semestre quando ci siamo
occupati del primo grado di giudizio e della disciplina dei requisiti formali o extra
formali relativi sia il giudice che le parti cioè un meccanismo che consente di
eliminare il vizio e che consente al processo di proseguire come servizio non si
fosse mai verificato.

Vedete che la disciplina è analoga a quella dettata con riferimento all'articolo 102
in tema di litisconsorzio necessario, anche se qui le conseguenze della
mancata integrazione del contraddittorio sono più pesanti perché nell’ipotesi
del 331 si ha la inammissibilità dell'impugnazione e di conseguenza il passaggio in
giudicato della precedente sentenza mentre in primo grado abbiamo l'estinzione
del processo però noi sappiamo che l'estinzione non estingue l'azione e di
conseguenza la domanda potrà essere riproposta.

351
Nell'ambito della disposizione successiva l'articolo 332 troviamo invece la
disciplina delle cause scindibili:
Co.1 -> “se la impugnazione di una sentenza pronunciata in cause scindibili è stata
proposta soltanto da alcuna delle parti o nei confronti di alcune di esse, il giudice
ne ordina la notificazione alle altre, in confronto delle quali la impugnazione non è
preclusa esclusa, fissando il termine nel quale la notificazione deve essere fatta e,
se necessario, l'udienza di comparizione.
Co. 2 –> “Se la notificazioni ordinata dal giudice non avviene, il processo rimane
sospeso fino a che non siano decorsi i termini previsti negli articoli 325 e 327 primo
comma”

la ratio che il legislatore persegue nell'ambito delle fattispecie riconducibili


all'articolo 332 è diversa da quella sottesa all'articolo 331 perché nel caso
dell’articolo 332 il legislatore vuole più semplicemente evitare che è un processo
che in primo grado si è svolta in forma unitaria, posso a biforcarsi nel passaggio
dal giudice precedenti a quello successivo.

Quindi qui legislatore si pone un obiettivo più limitato rispetto all’integrità del
contraddittorio, ciò che interessa è soltanto evitare la divisione.
la norma infatti prevede che ove si versi in un'ipotesi di causa scindibile e
l’impugnazione sia stata proposta da o nei confronti di alcune soltanto delle parti
già presenti nel precedente grado di giudizio, il giudice, intanto, non deve integrare
il contraddittorio ma ordina che l’impugnazione venga notificata alle altre parti.
Questa notifica non è una chiamata in causa ma è una denuncia che viene
effettuata alle parti pretermesse.

E poi badate bene, il giudice non ordina questa notifica a tutte le altre parti ma
soltanto alle parti nei confronti delle quali l’impugnazione non è preclusa o è
esclusa.
Quindi il giudice, rilevato che l’impugnazione è stata proposta da o nei confronti di
alcuni soltanto dei litisconsorti presenti in primo grado, verifica che nei confronti
delle parti rimaste estranee alla proposta impugnazione, l’impugnazione stessa
non sia già preclusa per decorrenza dei termini per impugnare o esclusa per
avvenuta acquiescenza ai sensi dell'articolo 329 primo comma.

− Quindi se nei confronti delle altre parti, l’impugnazione è già preclusa o


esclusa si va avanti.

− Viceversa, se riscontra che queste condizioni non sono presenti ordina la


notifica dell'impugnazione a questi litisconsorti.

Allora nel caso in cui le parti pretermesse hanno già subito l'esaurimento dei
termini per impugnare oppure hanno già prestato acquiescenza il processo può
tranquillamente proseguire fra le parti che hanno proposto o contro le quali è stata
proposta impugnazione.

352
Se invece le parti rimaste estranee a questo giudizio sono ancora in termini per
impugnare e non hanno prestato acquiescenza alla precedente sentenza, il giudice
ordina la notifica dell'impugnazione.
La notifica dell'impugnazione non è una chiamata in causa è una provocatio ad
impugnandum, cioè viene notificata loro la impugnazione affinché sappiano che
già pendente il giudizio di impugnazione e se vogliono, possono ancora attivarsi
punto

Peraltro, in queste ipotesi se l'ordine del giudice non viene rispettato, quindi
nessuno provvede a notificare l'avvenuta impugnazione nei confronti dei
litisconsorti pretermessi la norma anche secondo comma, prevede semplicemente
che il processo rimanga sospeso finché non siano decorsi i termini per
impugnare.
Quindi, quello che il legislatore ha voluto ottenere nelle ipotesi di cause scindibili,
soggette alla disciplina dell’articolo 332 è solo che le impugnazioni proposte
nell'ambito di un processo che si è svolto nel precedente grado di giudizio fra più
parti siano convogliate nello stesso giudizio di impugnazione e quindi siano
trattate unitariamente.

Si vuole escludere il rischio della biforcazione e infatti, quando questo rischio non
c'è perché nei confronti di questi litisconsorti i termini per impugnare sono scaduti
o comunque hanno prestato acquiescenza il giudizio può proseguire soltanto tra i
litisconsorti che materialmente hanno proposto impugnazione.

Andiamo adesso ad esaminare la parte più problematica del litisconsorzio in fase


di gravame ovvero la delimitazione dell'ambito applicativo rispettivamente
degli articoli 331 332 cpc.
Vedete che le norme fanno riferimento a nozioni come quelle di cause inscindibile
o dipendenti o cause scindibili, che non hanno, almeno all'apparenza, un aggancio
con la terminologia che abbiamo riscontrato in altre disposizioni che si occupano
del processo litisconsortile, salvo in parte.

evidentemente si tratta di una questione molto delicata perché è un errore circa


l'applicazione di una o dell’altra disciplina può avere delle conseguenze pesanti.

cominciamo l'analisi della individuazione dell’ambito applicativo dei due istituti


partendo dalle forme di connessione più estreme perché con riferimento a
queste la soluzione può essere abbastanza intuitiva.

Da una parte possiamo sicuramente ritenere che il litisconsorzio necessario,


articolo 102, rientra nell'ambito applicativo dell'articolo 331. La legge,
sappiamo, in queste ipotesi impone che questo processo si svolga
necessariamente fra più parti.

353
e questo ci porta a ritenere tranquillamente che il litisconsorzio debba proseguire
anche nel passaggio al giudice dell'impugnazione perché è un litisconsorzio
necessario quanto alla impugnazione ma che quanto alla trattazione e decisione.

In queste ipotesi non è immaginabile che il giudizio di impugnazione possa


svolgersi in assenza di uno dei litisconsorti necessari, quindi che un litisconsorte
necessario che ha preso parte al primo grado di giudizio possa tranquillamente
rimanere estraneo al grado di impugnazione quindi non essere neppure chiamato.

Considerazione in gran parte analoghe possono essere svolte con riferimento a


quelle ipotesi che abbiamo chiamato litisconsorzio unitario; cioè ipotesi di
litisconsorzio che pur essendo facoltativo quanto alla instaurazione è
necessario quanto a trattazione e decisione, è il classico esempio delle azioni di
impugnativa delle delibere assembleari articoli 2377 e 2378 cc.

Qua il legislatore ha compiuto una scelta molto precisa, ovvero, che il


litisconsorzio una volta che si è formato, debba essere mantenuto lungo tutto il
corso di svolgimento del processo perché la sentenza deve essere una ed unica,
se così è, possiamo tranquillamente ritenere che anche nel passaggio di fronte al
giudice dell'impugnazione il litisconsorzio dovrebbe mantenersi intatte, e che
quindi si applichi l'articolo 331.

Al polo opposto possiamo ritenere che rientrino nell'ambito applicativo delle


cause cosiddette scindibili le ipotesi di processi litisconsorti aventi ad oggetto
rapporti che pendono fra parti parzialmente diverse e che esibiscono forme
di connessione molto blande; si pensi ad esempio, la connessione per identità
parziale della causa petendi o per identità parziale del titolo. Sappiamo che si
tratta di una forma di connessione che mette in gioco esigenze di economia
processuale quindi non pone alcuna esigenza legata al coordinamento delle
decisioni.

Il litisconsorzio è facoltativo sia con riferimento alla instaurazione che con


riferimento alla trattazione e decisione, questo porta a ritenere tranquillamente che
il litisconsorzio possa sciogliersi non soltanto nel corso di causa ma anche nel
passaggio di fronte al giudice dell'impugnazione e che quindi se più domande
sono state riunite e decise con una sentenza unitaria è ben possibile che il giudizio
di impugnazione prosegue con riferimento ad una sola delle cause riunite fra le
parti di essa e che invece il capo di sentenza relativa all’altra causa passi
tranquillamente in giudicato.

Non sorgono problemi neppure con riferimento alle obbligazioni solidali ad


interesse comune, abbiamo già detto che anche se le obbligazioni solidali
esprimono una forma di connessione intensa, data dalla identità sia della causa
petendi che del petitum, a livello sostanziale la caratteristica di queste obbligazioni
è rappresentata dalla spiccata autonomia dei rapporti che corrono fra le parti
comuni e le parti legate in via solidale.

354
Questa autonomia si manifesta ampiamente nel primo grado di giudizio perché
abbiamo detto che le più cause riunite possono tranquillamente sortire esiti di
merito diversi, così come è possibile che una causa ad un certo punto venga
chiusa o si estingua e che le altre proseguono.

Il litisconsorzio dunque è facoltativo sia con riferimento all’insaturazione che con


riferimento alla trattazione e decisione e non c'è motivo di ritenere che esso non
debba rimanere tale anche nel passaggio di fronte al giudice superiore, infatti, la
giurisprudenza è assolutamente pacifica nel ritenere che alle obbligazioni solidali si
applichi il regime dell'articolo 332.

Senza che questa scelta comporti alcun rischio che il processo vada a
disarticolare una realtà che sul piano sostanziale è unitaria. E questo perché, lo
abbiamo visto analizzando la disciplina sostanziale, è proprio la legge sostanziale,
la disciplina sostanziale a non essere unitaria.

(lo Abbiamo visto -d'altra parte- dalla circostanza che il comune creditore può
decidere di porre in essere atti di estinzione del proprio diritto di credito nei
confronti di uno soltanto dei più condebitori e questo effetto può produrre nei
confronti degli altri debitori effetti diversi dall' estensione, dalla liberazione).

Invece, Un grosso problema si pone con riferimento a tutto il settore della


connessione per pregiudizialità dipendenza.
Ora, è vero che la lettera dell'articolo 331 parla espressamente di cause dipendenti
e la connessione per pregiudizialità dipendenza sembrerebbe dunque rientrare in
questa dicitura.

invece, nell'ambito dei rapporti che esibiscono questa forma di connessione la


disciplina di passaggio di fronte al giudice dell'impugnazione, diversamente da
quanto abbiamo visto con riferimento alle altre fattispecie, è molto più complessa
perché la disciplina da applicare non è sempre la medesima. Infatti, è molto
importante ricordarsi che il vincolo di connessione per pregiudizialità
dipendenza non è un vincolo permanente ma è un vincolo che si può spezzare.

Qual è la definizione di connessione per pregiudizialità dipendenza?

Si ha la connessione per pregiudizialità dipendenza quando un rapporto, che è il


rapporto pregiudiziale, è elemento in senso lato dalla fattispecie da cui deriva il
secondo rapporto che il rapporto dipendente.

Il rapporto pregiudiziale però non esaurisce tutti gli elementi della fattispecie
giuridicamente rilevante ai fini dell’esistenza o non esistenza del rapporto
dipendente, è solo uno degli elementi, ve ne sono anche altri.

La conseguenza è che in determinate ipotesi può sussistere il rapporto


pregiudiziale ma non anche quello dipendente perché assume rilevanza un
elemento della fattispecie giuridica del rapporto dipendente diverso dal rapporto
pregiudiziale, quindi è possibile che il rapporto pregiudiziale sussista ma il
rapporto dipendente no.

355
In questa ipotesi si deve ritenere che la connessione per pregiudizialità dipendenza
si sia spezzata perché il rapporto dipendente ha acquisito autonomia rispetto al
rapporto pregiudiziale.

Questa considerazione complica non poco la ricostruzione della disciplina di


passaggio delle cause connesse per pregiudizialità dipendenza dal grado
precedente a quello successivo e giustifica la considerazione secondo cui la
disciplina, diversamente da quanto abbiamo visto con riferimento alle altre ipotesi
di connessione, non sarà sempre la stessa ma occorrerà effettuare un’analisi
casistica muovendo dalla considerazione di diversi profili, ovvero:

− i diversi esiti di merito a cui le 2 controversie possono pervenire ad esito del


precedente grado di giudizio

− Il soggetto che si attiva e propone in condizione

− e poi i motivi su cui l’impugnazione è fondata

Tutti questi elementi assumono rilevanza al fine di stabilire se la disciplina


applicabile è quella delle cause inscindibili o dipendenti ovvero quella delle cause
scindibili.

Ora, l'analisi noi andremo a svolgerla con riferimento alla chiamata in garanzia
(che abbiamo detto è tipicamente uno dei settori in cui si manifesta la connessione
per pregiudizialità dipendenza fra parti diverse) ma i ragionamenti, gli argomenti
che utilizzeremo possono tranquillamente essere versati - con gli opportuni
cambiamenti - anche negli altri settori di connessione per pregiudizialità
dipendenza tra parti diverse a cui abbiamo fatto già cenno.

prima di andare ad intraprendere l’analisi casistica, devo tornare sul problema


della impugnazione incidentale tardiva nell'ambito dei processi più parti che, vi
ricordate, avevamo lasciato in sospeso in attesa di introdurre la disciplina del
litisconsorzio in fase di gravame.

Avevamo già rilevato che l’ambito applicativo dell’articolo 334 pone alcuni
problemi non soltanto nei rapporti a due parti ma anche nell’ambito delle
controversie che pendono tra parti diverse.

torniamo al testo della disposizione:

“le parti, contro le quali è stata proposta impugnazione e quelle chiamate ad


integrare il contraddittorio a norma dell'articolo 331, possono proporre
impugnazione incidentale anche quando per esse è decorso il termine o hanno
fatto acquiescenza alla sentenza”.

Avevamo già rilevato che questa disposizione si preoccupa, disciplina


semplicemente il profilo di legittimazione attiva laddove stabilisce che la
impugnazione incidentale tardiva può essere proposta dalle parti contro cui è
proposta impugnazione e dai terzi chiamati ad integrare il contraddittorio a norma
dell'articolo 331.

356
Ora, la disciplina della legittimazione attiva possiamo dire che è perfettamente in
linea con il disposto della disciplina degli articoli 331 332.

Infatti, partiamo dall' articolo 331, abbiamo detto che nell'ambito delle cause
inscindibili i litisconsorti già presenti nel presente grado di giudizio e che vengono
pretermessi dal giudizio di impugnazione sono dei litisconsorti necessari del
giudizio di impugnazione ed infatti il giudice, rilevata l’assenza di uno dei
litisconsorti necessari, ordina l'integrazione del contraddittorio. abbiamo detto è
una chiamata in causa a tutti gli effetti.

la circostanza che l’art 334 attribuisca a questi terzi l'attribuzione ad avvalersi


dell'impugnazione incidentale tardiva e perfettamente in linea con la disciplina
dell'articolo 331 perché questi terzi diventano parti necessarie del giudizio di
impugnazione ed è possibile che l'integrazione del contraddittorio avvenga dopo
che è già scaduto il termine per impugnare.

la norma non richiama invece l'articolo 332 ma a suo tempo abbiamo visto che la
notifica dell'impugnazione, che abbiamo detto non è una chiamata in causa ma è
una provocatio ad impugnandum, viene ordinata dal giudice solo nei confronti
dei litisconsorti nei cui confronti l’impugnazione non sia già preclusa o
esclusa.

Quindi, se il termine ordinario di impugnazione è già scaduto nei confronti del


litisconsorte oppure se questo litisconsorte ha prestato acquiescenza alla
sentenza, ormai quel capo di sentenza ha già acquistato autorità di cosa dedicata
quindi lo scopo dell’articolo 332 che consiste, abbiamo detto, nell’evitare la
biforcazione del processo si è già realizzato, per questo il giudice in queste
ipotesi non ordina la notifica dell'impugnazione.

Il giudizio di impugnazione può andare avanti tra le parti (=da e nei cui confronti
l’impugnazione è stata proposta).

E questo giustifica il perché l'articolo 334 non attribuisca anche al terzo cui
l’impugnazione è notifica ex 332 la legittimazione all’impugnazione incidentale
tardiva.

Intanto il terzo riceve la notifica dell'impugnazione in quanto ancora il suo termine


per impugnare non sia scaduto, quindi il 334 per quanto riguarda la
legittimazione attiva si coordina perfettamente con gli articoli 331 e 332.

la disposizione lascia, invece, del tutto impregiudicato l’ulteriore profilo cioè quello
relativo alla individuazione della parte nei cui confronti può essere diretta
l’impugnazione incidentale tardiva.

Quindi il profilo della legittimazione passiva.

Ora, è pacifico che legittimato passivo sia innanzitutto:

− la parte che ha proposto l’impugnazione principale. Abbiamo detto che


l'articolo 334 disciplina una sorta di strumento di reazione

357
Per cui la vera grossa questione è quella relativa al se l’impugnazione tardiva
possa essere rivolta anche contro una parte diversa da quella che ha proposto
l’impugnazione principale.

La risposta che affiora dalla lettura dei repertori della giurisprudenza è che
l’impugnazione incidentale tardiva possa essere proposta dalla parte contro cui è
diretto l’impugnazione principale, il cosiddetto:

− impugnato in via principale nei confronti di una parte diversa


dall'impugnante principale solo in ipotesi di cause inscindibili.

Quindi, in pratica, la giurisprudenza applica con riferimento alla legittimazione


passiva lo stesso criterio che l'articolo 334 utilizza per la legittimazione attiva.

Questo orientamento, diciamolo subito, ha delle origini molto risalenti e non trova
alcun addentellato nel testo della disposizione che è chiara nel richiamare l'articolo
331 solo per quanto riguarda la legittimazione attiva, ma soprattutto ,ed è questa
dice la parte sicuramente più importante, questo orientamento con riferimento a
ipotesi molto importanti di cause scindibili di causa e quindi soggetti all’articolo
332 conduce a delle conseguenze inaccettabili cioè contrarie alle esigenze sottese
all’articolo 334.

Introduciamo degli esempi che possono aiutarci a capire di che cosa sto parlando
-> il riferimento è al settore delle obbligazioni solidali ad interesse comune e
secondo una giurisprudenza e diciamo pacifica, ma che a questo punto è stata
superata (e poi spiegheremo il motivo) con riferimento alle cause di garanzia
cosiddetta impropria.
Vediamo in quali esempi in modo particolare questo orientamento
giurisprudenziale trova applicazione.

Consideriamo il caso delle obbligazioni solidale ad interesse comune;

il creditore agisce nei confronti di due condebitori solidali. Supponiamo che il


giudice di primo grado accolga una sola di queste due domande e rigetti l'altra.
Quindi il creditore è vittorioso nei confronti di un convenuto e soccombente nei
confronti dell'altro.

Ora, questo creditore pur essendo rimasto soccombente nei confronti di uno dei
condebitori convenuti in giudizio, perché la tua domanda è stata respinta a tutti gli
effetti, non sopporta da questa soccombenza delle conseguenze economiche.

Qual è la nozione di solidarietà?

È che ciascuno degli obbligati è tenuto per l'intero quindi il creditore può
pretendere l’adempimento dell'intera obbligazione da uno solo dei debitori. Allora,
nel caso di specie, il creditore nel momento in cui il risultato comunque vittorioso
nei confronti di uno dei condebitori convenuti in giudizio non subisce conseguenze
dalla soccombenza riportati nei confronti dell’altro condebitore.

Se però il condebitore rimasto soccombente propone impugnazione nei confronti


del creditore, questi può avere interesse a impugnare il capo di sentenza che
contiene il rigetto della seconda domanda, quella avanzata nei confronti del
secondo condebitore perché se l'impugnazione principale dovesse essere accolta
358
si troverebbe a dover subire, diciamo, il non soddisfacimento del suo interesse
perché nel momento in cui viene accertata la non esistenza del suo diritto anche
nei confronti del primo dei condebitori convenuti è chiaro che la sua soccombenza
e avrebbe delle conseguenze economiche.

La giurisprudenza però afferma che alle obbligazioni solidali si applica l'articolo


332, per cui proposta dal condebitore rimasto soccombente impugnazione nei
confronti del creditore, questi non sarebbe legittimato a impugnare in via
incidentale tardiva nei confronti del condebitore rimasto vittorioso.

Per cui, se il termine per impugnare è ancora aperto, potrà proporre impugnazione
incidentale tempestiva ma se invece il termine ormai è già decorso, oppure se ha
prestato acquiescenza il creditore non potrà valersi dell'articolo 334 e quindi la
conseguenza di questo orientamento è quello di incentivare il creditore, mettere
il creditore nella condizione di dover proporre delle impugnazioni cautelative
onde evitare di trovarsi nello scenario che abbiamo appena descritto.

Lez. 20 audio 19 file 4

Una situazione analoga si viene a creare nell'ambito della garanzia impropria.

Tradizionalmente la giurisprudenza (su questo torno immediatamente dopo) ha


sempre ritenuto che le fattispecie di garanzia impropria andassero soggette alla
disciplina dell'articolo 332. Di conseguenza, nel caso in cui risultavano accolte: sia
la domanda principale proposta dall’attore nei confronti del convenuto garantito,
sia la domanda di garanzia proposta dal convenuto garantito nei confronti del
garante, si riteneva che ove l'impugnazione principale veniva proposta dal garante
nei confronti del garantito, il garantito non poteva proporre impugnazione
incidentale tardiva nei confronti dell'attore originario perché la fattispecie andava
soggetta alla disciplina dell'articolo 332.

Anche in questo settore la massima elaborata dalla giurisprudenza portava a


risultati esattamente opposti rispetto a quella che è la ratio dell'art 134. Infatti (se
voi tornate a considerare tutto quanto ci siamo detti con riferimento alle fattispecie
che danno luogo sul piano processuale alla chiamata in garanzia), vi renderete
conto che la posizione del convento garantito, è si di soccombenza nei confronti
dell'attore nella causa principale, ma, ancora una volta, siamo di fronte a una
soccombenza che non pesa economicamente sul patrimonio del garantito perché
se, come abbiamo stabilito, il garantito risultata vittorioso nei confronti del garante,
sarà il garante a supportare le conseguenze economiche negative derivanti al
garantito dalla soccombenza nella causa principale. Viceversa laddove il garante
assume l'iniziativa impugnatoria, è chiaro che questa impugnazione rischia di
avere delle conseguenze molto pesanti sul garantito perché se questa
impugnazione viene accolta il garantito si troverà a dover sopportare in proprio il
359
peso economico della soccombenza riportata nei confronti dell'attore. Allora, se
anche in questo caso, non si riconosce al garantito la possibilità, a seguito
dell’impugnazione proposta nei suoi confronti del garante, di proporre
impugnazione incidentale se del caso tardiva nei confronti dell’attore, si finisce per
metterlo nella condizione di proporre questa impugnazione immediatamente a
scopo meramente cautelativo.

L'analisi di questi due gruppi di fattispecie fonda la considerazione secondo cui


l'orientamento della giurisprudenza laddove esclude che: in ipotesi di cause
inscindibili l’impugnazione incidentale tardiva possa essere proposta anche contro
una parte diversa dall’impugnante principale, mentre invece in ipotesi di causa
scindibile questo non è possibile, non trova alcun riscontro. Ne’ nella lettera della
disposizione perché (abbiamo detto) la lettera della disposizione fa riferimento
all’art 331 solo con riferimento alla legittimazione attiva e in ciò abbiamo osservato
si coordina perfettamente con la disciplina sia dell'articolo 303 sia del 332.; ma
non corrisponde neppure a quella che è la ratio dell'istituto perché in due settori
che tipicamente si riportano nell'ambito applicativo delle cause scindibili,
l'applicazione della massima elaborata dalla giurisprudenza porta a conseguenze
inaccettabili perché costringe il creditore ed il convenuto garantito a proporre
un'impugnazione meramente cautelativa.

Da qui la proposta di alcuni esponenti della dottrina di risolvere la questione


relativa alla individuazione dei legittimati passivi all'impugnazione incidentale
tardiva, non appoggiandosi alla distinzione tra cause scindibili e cause inscindibili,
ma sulla base del requisito dell'interesse. Ritenendo cioè che l'impugnazione
incidentale tardiva proposta dalla parte contro cui è proposta impugnazione
principale, possa essere avanzata nei confronti di una parte diversa
dall'impugnante principale quando l'impugnazione principale stessa determina il
sorgere o il risorgere dell'interesse a proporre impugnazione incidentale, perché
l'impugnazione principale è tale da provocare un forte cambiamento nella
posizione del destinatario (nella prospettiva del suo accoglimento). Per cui soltanto
dove l'accoglimento dell'impugnazione principale è tale da far sorgere l'interesse
del garantito o del creditore (negli esempi che abbiamo formulato) ma diciamo nei
confronti della parte destinataria dell'impugnazione principale, si può ammettere
che questa possa essere rivolta anche contro una parte diversa dall’impugnante
principale. Quindi questo a prescindere dal se la fattispecie rientrano nell’ambito
applicativo delle cause inscindibili oppure scindibili.

Chiusa, questa lunghissima parentesi, andiamo ad esaminare la DISCIPLINA in


fase di gravame delle cause di garanzia.
Qui dobbiamo premettere un cenno storico perché con riferimento alle fattispecie
di garanzia la giurisprudenza per molto tempo ha attribuito rilevanza alla
distinzione tra garanzia propria e garanzia impropria (lo avevo accennato parlando

360
della impugnazione incidentale tardiva) perché per molto tempo la giurisprudenza
ha affermato che mentre le fattispecie di garanzia propria rientrano nell'ambito
applicativo dell'articolo 331, le cause di garanzia impropria rientrano nell'ambito
applicativo dell'articolo 332. E’ solo una delle conseguenze che la giurisprudenza
traeva dalla contrapposizione tra garanzia propria e impropria che (vi ricordate) era
elaborata sulla base della considerazione secondo cui soltanto in ipotesi di
garanzia impropria si aveva la identità o la connessione obiettiva dei titoli. Vi
ricordate però che, parlando della chiamata in garanzia, abbiamo evidenziato che
questa contrapposizione è finalmente caduta perché nel 2015 le sezioni unite con
la sentenza 4 dicembre 2015 n.24707 hanno finalmente riconosciuto che questa
contrapposizione non ha ragione d'essere perché si tratta di casi che esibiscono la
medesima struttura, perché si tratta di rapporti giuridici che esibiscono il nesso
della connessione per pregiudizialità dipendenza, ed hanno affermato
solennemente che nessuna disparità di trattamento era giustificata.

Le sezioni unite approfittarono un po' per ridisegnare tutta la disciplina applicativa,


processuale della chiamata in garanzia, ma in verità il loro intervento era stato
sollecitato per un problema legato alle impugnazioni e quindi una grossa parte
della motivazione di questa sentenza si occupa proprio di un problema di
impugnazione. In particolare la Corte era chiamata a risolvere la questione relativa
al se, nell’ipotesi in cui risultassero accolte sia la domanda principale sia la
domanda di garanzia, il garante è legittimato a proporre impugnazione con
riferimento al rapporto pregiudiziale. Ma prima, oltre a risolvere questa questione,
la cassazione ha voluto ricostruire l'intera disciplina delle cause di garanzia in fase
di gravame e lo ha fatto recependo l'insegnamento proveniente da alcuni
esponenti della dottrina, quella dottrina minoritaria che da tempo andava dicendo
che la contrapposizione tra garanzia propria e impropria non aveva alcuna ragione
di essere.

Allora; seguendo questo ragionamento, andiamo a distinguere i diversi casi che si


possono prospettare.

Cominciamo dal caso in cui la domanda dell'attore viene respinta.

Se la domanda principale viene respinta, ripensando a quanto ci siamo detti in


ordine alla struttura della chiamata in garanzia, ovvero che si tratta di una
domanda necessariamente condizionata come conseguenza del nesso di
consequenzialità logico e cronologica che connota questi rapporti, allora il giudice
(tendenzialmente) non pronuncerà il rigetto della domanda di garanzia ma ne
dichiarerà l'assorbimento.

Sapete che l'assorbimento è un esito a cui può pervenire qualsiasi domanda


proposta in forma condizionata laddove non si realizza la stessa condizione.
Quindi il giudice, in questa ipotesi, dovrebbe pronunciarsi in rito dichiarando
l'assorbimento, cioè di non potersi pronunciare sulla domanda di garanzia a causa
del mancato verificarsi della condizione a cui la stessa era stata subordinata.

361
In questa ipotesi l'unico soccombente è l'attore che si è visto respingere nel merito
la domanda e quindi dovrà essere l'attore a proporre impugnazione. Questa
impugnazione dovrà essere rivolta nei confronti del garantito.

A questo punto si pone il problema relativo al se, in questa particolare ipotesi, si


debba applicare la disciplina delle cause inscindibili o delle cause scindibili,
ovvero, detto in altre ma non diverse parole, si tratta di stabilire se il garante come
terzo titolare di un rapporto giuridicamente dipendente è tenuto o meno a
partecipare al giudizio di impugnazione. La risposta che la Cassazione ha dato
seguendo le indicazioni già offerte dalla dottrina, è che in questa particolare ipotesi
si applica senz’altro la disciplina dell'articolo 331 e quindi il garante è parte
necessaria in questo giudizio di impugnazione. Si deve infatti ritenere che il
giudice, siccome siamo di fronte ad un processo di impugnazione che si apre con
riferimento al rapporto pregiudiziale e il garante che è terzo titolare di un rapporto
giuridicamente dipendente già stato presente al giudizio di primo, è indispensabile
che prenda parte anche al giudizio di impugnazione. Ricordiamoci che il terzo
titolare di un rapporto giuridicamente dipendente, nel momento in cui entra nel
processo altrui, rimane sicuramente soggetto all'efficacia della sentenza. Allora,
nel caso in cui si consentisse al garante di rimanere estraneo al giudizio di
impugnazione, si dovrebbe poi dare una risposta ad una domanda molto delicata,
e cioè quella relativa al se il garante deve ritenersi soggetto all’efficacia della
sentenza emanata a conclusione del giudizio di primo grado a cui ha partecipato,
oppure se si possa ritenere soggetto alla eventuale sentenza di riforma emanata a
conclusione del giudizio di impugnazione a cui non ha preso parte. Siccome
sarebbe molto difficile rispondere a questa domanda, la soluzione più opportuna è
quella di imporre l'applicazione dell'articolo 331 e quindi ritenerlo parte necessaria
del giudizio di impugnazione.

Si tratta a questo punto di chiarire se la partecipazione del garante al giudizio di


impugnazione, trascini, di fronte al giudice dell'impugnazione, anche il rapporto di
garanzia. Quindi se, nel momento in cui il giudice ordina l'integrazione del
contraddittorio e una delle parti ottempera all’ordine del giudice, questa chiamata
comporti la riemersione di fronte al giudice dell'impugnazione anche del rapporto
dipendente di garanzia.

Su questo punto si sono soffermate le sezioni unite nel 2016, le quali hanno
affermato che in verità, in applicazione di quelle che sono le regole generali in
tema di effetto devolutivo dell'appello, trattandosi di una domanda rimasta
assorbita è necessario che venga posto in essere dalla parte interessata, in questo
caso il garantito, un atto di impulso processuale. Nel senso che se ha interesse a
che il giudice dell’appello si pronunci sulla domanda di garanzia, dovrà riproporla
espressamente attraverso l’articolo 346 (che andremo poi ad analizzare parlando
del giudizio di appello).

Per cui soltanto se viene compiuto questo atto, questa istanza di riproposizione,
allora anche il rapporto di garanzia riemergerà di fronte al giudice dell'appello che
quindi dovrà pronunciarsi sullo stesso.

362
La seconda possibilità è che ad esito del giudizio di primo grado risulti accolta la
domanda principale e rigettata la domanda di garanzia.

Siamo di fronte ad un caso in cui evidentemente il nesso di dipendenza che


intercorre tra il rapporto pregiudiziale e il rapporto di garanzia si è spezzato,
perché, se la domanda principale è stata accolta e la domanda di garanzia è stata
rigettata, evidentemente questo rigetto deve basarsi su motivi diversi dal rapporto
principale. Quindi è un rigetto che si basa su un accertamento compiuto su un
altro elemento della fattispecie giuridica da cui deriva il rapporto di garanzia.
Quindi siccome il rapporto di connessione per pregiudizialità dipendenza si è
spezzato, allora sarà sicuramente applicabile la disciplina dell'articolo 332, cioè si
tratta di un'ipotesi di cause scindibili.

Quale scenari è possibile immaginare?

- E’ possibile intanto che sia il garantito a proporre impugnazione nei confronti


del garante per contestare il rigetto della sua domanda di garanzia.

Qui si applica sicuramente l'articolo 332.

In questa ipotesi il garante, alla stessa identica stregua di come emergerà


parlando del terzo possibile esito del giudizio di merito (cioè il caso in cui
entrambe le domande siano accolte e sia il garante ad assumere l'iniziativa
impugnatoria), potrà difendersi; non soltanto in relazione all'impugnazione
che il garantito avrà mosso nei suoi confronti e che riguarderà il rapporto di
garanzia, ma potrà essere ammesso anche a contestare, sia pure incidenter
tantum (quindi senza autorità di cosa giudicata), l'esistenza e il modo
d'essere del rapporto pregiudiziale così come fissato nella sentenza di primo
grado. Infatti non è possibile immaginare di privare il garante di un potere di
impugnazione, di un margine di difesa che invece gli viene tranquillamente
riconosciuto nella terza ipotesi (che andremo ad analizzare, ovvero il caso in
cui entrambe le domande risultano accolte) e quindi con l'unica differenza
che nella terza anziché essere uscito vittorioso (come in questo caso) è
riuscito soccombente. Quindi il diverso esito della domanda di garanzia,
detto in altre ma non diverse parole, non può sicuramente incidere
sull’ampiezza del diritto di difesa del garante.

- La seconda possibilità è che sia il garantito a proporre impugnazione nei


confronti dell’attore.

Anche in questo caso sarà applicabile l'articolo 332 perché abbiamo detto
che la causa di garanzia è diventata autonoma, quindi il garante non è parte
necessaria di questo giudizio. Se il garantito ha interesse a che il giudice
dell'impugnazione si pronunci anche sulla causa di garanzia, l’unica scelta
che ha è quella di proporre impugnazione nei confronti di tutte e due le parti:
nei confronti dell'attore sulla causa pregiudiziale e nei confronti del garante
sulla causa di garanzia. Pare evidente infatti che in queste ipotesi il garantito
è la parte unica, soccombente con riferimento ad entrambe le cause perché
nella causa principale è stata accolta la domanda proposta dall'attore nei
confronti del garantito, mentre nella causa di garanzia la domanda proposta

363
dallo stesso garantito nei confronti del garante è stata rigettata, quindi è
l'unico soccombente e se vuole portare di fronte al giudice
dell'impugnazione entrambe le controversie, ha l’onere di proporre la sua
impugnazione con riferimento ad entrambi i rapporti nei confronti dei due
titolari degli stessi.

Vediamo l'ultimo scenario possibile ovvero l'ipotesi in cui entrambe le domande


risultano accolte, quindi: sia la domanda principale dell'attore nei confronti del
garantito, sia la domanda dipendente proposta dal garantito nei confronti del
garante.

In questa ipotesi abbiamo due soggetti che sono rimasti soccombenti: il garantito
nella causa principale e il garante nella causa dipendente. Quindi entrambi sono
legittimati a proporre impugnazione.

-- Supponiamo che l’iniziativa impugnatoria venga assunta dal garantito che


quindi decide di proporre impugnazione nei confronti dell'attore principale. In
questo caso l'esito della causa di merito porta a ritenere sussistente il vincolo di
connessione per pregiudizialità dipendenza perché se entrambe le domande sono
accolte, il vincolo di dipendenza lo possiamo ritenere esistente. Questo porta a
ritenere che si debba applicare l'articolo 331 che, non a caso, parla di cause
dipendenti. Proposta quindi impugnazione dal garantito nei confronti dell’attore, si
ritiene applicabile alla fattispecie l'articolo 331, con la conseguenza che il garante
si deve ritenere parte necessaria del giudizio di impugnazione.

D’altra parte, come abbiamo già osservato in un altro degli scenari che abbiamo
disegnato, questa è una soluzione che si impone per evitare delle conseguenze
bizzarre. Infatti ricordiamoci che nel momento in cui il garante, in qualità di terzo
titolare di un rapporto giuridicamente dipendente, entra nella nel processo avente
ad oggetto il rapporto pregiudiziale, è destinato a rimanere soggetto all'efficacia
della sentenza che sarà emessa inter partes.

Se si ammettesse che il garante che ha preso parte al primo grado di giudizio


potesse rimanere estraneo invece al giudizio di impugnazione, alla fine si
tratterebbe di stabilire se questo garante è soggetto all'efficacia della sentenza
resa a conclusione del primo grado a cui ha preso parte, oppure se possa essere
ritenuto soggetto all'efficacia della sentenza eventuale di riforma emanata a
conclusione del giudizio di impugnazione a cui non ha preso parte.

Ma in questo caso, c'è da fare anche un ulteriore considerazione perché se si


ammettesse che il giudizio di impugnazione si possa svolgere solo tra garantito e
attore e che quindi il capo di sentenza relativa al rapporto di garanzia possa
rimanere fissato nei termini stabiliti dal giudice di primo grado, si potrebbe andare
incontro a conseguenze paradossali per cui il garantito se riuscisse ad ottenere
l'accoglimento della sua impugnazione: da una parte otterrebbe un accertamento
di non esistenza del rapporto pregiudiziale, dall'altro si vedrebbe garantito, dal
passaggio in giudicato della parte di sentenza di primo grado relativa al rapporto

364
di garanzia, la prestazione di garanzia del garante. Quindi verrebbe a conseguire
un arricchimento del tutto ingiustificato.

In verità qui opera il disposto dell’articolo 336 primo comma, per cui si deve
ritenere che l'eventuale riforma o Cassazione parziale ha effetto anche sulle parti
della sentenza dipendente dalla parte riformata o cassata, cioè opera il cosiddetto
effetto espansivo interno della sentenza di cui al primo comma dell'articolo 336,
per cui l'accoglimento dell’appello proposto dal garantito nei confronti dell’attore
sicuramente travolgerebbe anche il capo di sentenza relativo al rapporto
dipendente di garanzia.

-- Seconda possibilità. Supponiamo che ancora una volta risultate accolte


entrambe le domande, l'iniziativa impugnatoria venga assunta invece dal garante
nei confronti del garantito muovendo censure relative al solo rapporto di garanzia.

E’ un'ipotesi semplice. Il garante propone impugnazione muovendo censure


relative al rapporto dipendente, quindi il garante contesta l'accertamento di
esistenza e del modo d’essere del rapporto dipendente per motivi attinenti al
rapporto dipendente stesso.

Per esempio il venditore potrebbe impugnare contro il compratore affermando che


nel contratto di compravendita la clausola di garanzia per evizione era stata
esclusa o limitata.

In queste ipotesi si può tranquillamente applicare l'art 332 dal momento in cui la
contestazione del garante riguarda esclusivamente il rapporto di garanzia.

Il problema che si pone è quello relativo al se il garantito, a seguito


dell’impugnazione mossa dal garante, possa a sua volta agire in via incidentale se
del caso tardiva nei confronti dell'attore.

Stante quanto abbiamo in precedenza osservato parlando dei limiti soggettivi


dell'impugnazione incidentale tardiva, la risposta deve essere positiva perché
come abbiamo evidenziato in quel momento, è chiaro che l'impugnazione mossa
dal garante nei confronti del garantito incide sulla posizione del garantito quindi fa
sorgere il suo interesse ad impugnare, nei confronti dell'attore, il capo di sentenza
relativo al rapporto pregiudiziale. Perché finché il garantito può contare sulla
prestazione di garanzia del garante, appare chiaro che la soccombenza riportata
nella causa principale è neutra sul piano economico e patrimoniale, viceversa, se
perde la prestazione di garanzia si trova nella condizione di dover far fronte in
proprio alla soccombenza nella causa principale. Quindi la risposta deve essere
positiva ma qui probabilmente la giurisprudenza non sarebbe molto d'accordo
stante l'orientamento che con alti e bassi continua a portare avanti.

-- L'ultima ipotesi che ci troviamo ad analizzare è quella relativa al se il garante


possa proporre impugnazione con riferimento al rapporto pregiudiziale, quindi non
con riferimento al rapporto dipendente, di cui è titolare passivo, ma possa
impugnare la statuizione relativa al rapporto pregiudiziale.

Su questo punto per molto tempo la giurisprudenza ha dato risalto alla


contrapposizione tra garanzia propria e garanzia impropria, affermando che in

365
ipotesi di garanzia propria si applica il 331 e di conseguenza si ammetteva che il
garante potesse proporre impugnazione con riferimento al rapporto pregiudiziale
con effetti anche nei confronti delle parti del rapporto pregiudiziale, quindi si
applicava la disciplina del 331, mentre invece, con riferimento alla garanzia
impropria, si è sempre affermato che applicandosi l'articolo 332 il garante poteva
si muovere censure relative al rapporto pregiudiziale ma queste potevano essere
rivolte solo nei confronti del garantito. Quindi l'impugnazione era proposta nei
confronti del garantito e, in tale ambito di impugnazioni aventi ad oggetto il capo di
sentenza relativa al rapporto di garanzia, il garante poteva ridiscutere incidenter
tantum l'esistenza del rapporto pregiudiziale; quindi con un impugnazione
destinata ad avere effetti solo con riferimento al rapporto di garanzia, senza
produrre invece effetti diretti nei confronti delle parti del rapporto pregiudiziale che
quindi rimaneva fissato nei termini stabiliti dal giudice precedente a meno che il
garantito non decidesse di proporre impugnazione incidentale nei confronti
dell'attore.

Su questo punto sono intervenute le Sezioni Unite del 2015 cui abbiamo fatto
precedente riferimento. La questione rimessa alle sezioni unite era proprio questa:
se il garante può ritenersi legittimato a proporre impugnazione sul rapporto
pregiudiziale con effetto anche tra le parti di esso, quindi in applicazione del 331,
oppure no.

La Corte di Cassazione a sezioni unite dopo aver affermato solennemente che la


contrapposizione tra garanzia propria e impropria non è sostenibile perché si tratta
di rapporti che esibiscono la medesima struttura, ha da ciò tratto che la soluzione
da applicarsi è la stessa e quindi ha offerto una soluzione unitaria destinata a
valere con riferimento a tutte le fattispecie che danno luogo sul piano processuale
alla chiamata in garanzia.

Qual è stata la soluzione sostenuta dalle sezioni unite? Le Sezioni Unite hanno
affermato che nel momento in cui il garante viene chiamato in causa, (viene
chiamato in causa tramite chiamata in garanzia o tramite chiamata in causa per
comunanza di causa, quindi senza deduzione in giudizio del rapporto di garanzia)
il garante diventa parte necessaria del processo. Le sezioni unite parlano di un
litisconsorzio necessario di origine processuale e muovendo da questo
presupposto, affermano che è necessario applicare sempre l'articolo 331. Per cui
hanno affermato che il garante come litisconsorte necessario sia pure di origine
processuale, è legittimato ex art 331 a proporre impugnazione con riferimento al
rapporto pregiudiziale.

Quindi le sezioni unite in pratica hanno affermato che, come parte necessaria, il
garante non soltanto deve essere chiamato ogni volta che viene proposta
impugnazione sul rapporto pregiudiziale da una delle parti di esso, ma, da ciò,
hanno tratto l'ulteriore conseguenza secondo cui il garante è altresì legittimato ad
impugnare direttamente il rapporto pregiudiziale con effetto anche fra le parti di
esso. Quindi ha sostenuto l’applicazione dell'articolo 331.

366
Ora questa soluzione è una soluzione solo apparentemente lineare che mi sentirei
di criticare.

Dobbiamo infatti distinguere le diverse ipotesi a cui la Cassazione ha fatto


riferimento in questo ragionamento perché: è vero che il garante è il titolare di un
rapporto giuridicamente dipendente e di conseguenza (come è emerso nella
ricostruzione che vi ho proposto) se una delle parti del rapporto principale propone
impugnazione con riferimento al rapporto stesso, il garante deve essere chiamato
nel giudizio di impugnazione per evitare quell'effetto bizzarro relativo all'efficacia
della sentenza che vi ho segnalato altre volte; ma altra cosa è sostenere che sia il
garante ad essere legittimato a proporre impugnazione sul rapporto pregiudiziale
nei confronti delle parti di esso.

Dovete ricordarvi infatti che il potere di impugnazione è una proiezione del diritto di
azione e il garante come regola non ha una legittimazione con riferimento al
rapporto pregiudiziale, non è legittimato straordinario, quindi non si giustifica
l’attribuzione di questo potere di impugnazione.

Possiamo forse isolare solo alcune particolari ipotesi che sono ipotesi che si
possono verificare nell’ambito della garanzia per evizione e dei vincoli di
coobbligazione (riferimento alla solidarietà unisoggettiva). Si tratta dell'ipotesi in
cui ricorre quello schema complesso che vi ho indicato come connessione per
pregiudizialità dipendenza bilaterale. In questa ipotesi infatti il garante è titolare di
un rapporto giuridico che lo legga direttamente all'attore e che è il rapporto
giuridico pregiudiziale rispetto al rapporto dedotto in giudizio dall'attore nei
confronti del garantito, quindi rapporto oggetto originario della controversia.

L’esempio più facile si ha nella fideiussione. ll garante, che è il nostro debitore, è


legato al creditore, che è l'attore della causa principale, nel rapporto di credito
debito principale che è il rapporto di base di tutta questa vicenda. In questa ipotesi
si giustifica l'impugnazione del garante nei confronti dell'attore (nell’esempio della
fideiussione, del debitore nei confronti del creditore) perché questa impugnazione
avrà ad oggetto il rapporto che li lega direttamente.

Ma a parte queste particolari ipotesi, negli altri casi non c'è un rapporto giuridico
che lega direttamente il garante all’attore, ne’ il garante è un legittimato
straordinario sul rapporto oggetto originario della causa, per cui la soluzione delle
sezioni unite è una soluzione che sicuramente deve essere attentamente valutata.

Anche perché lo stesso effetto che le sezioni unite vogliono raggiungere, quindi
garantire pienamente il diritto di difesa del terzo chiamato in garanzia, lo si poteva
ottenere passando attraverso un'altra strada. Cioè applicando l'articolo 332,
quindi ritenendo che il garante la sua impugnazione la possa rivolgere solo e
soltanto nei confronti del garantito, e ritenendo che nell’ambito di questo giudizio
di impugnazione il garante possa ridiscutere incidenter tantum (quindi senza che
questa impugnazione possa avere effetto nei confronti delle partI del rapporto
pregiudiziale che corre tra il garantito e l'attore). Dopodiché si poteva altresì
riconoscere al garantito il potere di reagire a questa impugnazione proponendo
impugnazione incidentale, se del caso tardiva ex articolo 334, nei confronti
dell'attore. Anche in questo caso appare chiaro infatti che la reazione del garante
367
avanzata nei confronti del garantito è un impugnazione destinata ad incidere
profondamente sulla posizione del garantito e quindi tale da giustificare il sorgere
o risorgere del suo interesse ad agire in via incidentale nei confronti dell’attore.

Al di là della soluzione che si vuole cui si vuole aderire è importante ricordare che
la soluzione deve essere applicata non soltanto nelle ipotesi in cui, nei confronti
del garante, viene esercitata la vera e propria chiamata in garanzia, ma anche nel
caso in cui il garante sia chiamato in causa per comunanza di causa. Su questo
punto le sezioni unite sono state chiare e sicuramente questa indicazione è giusta.

Ricordatevi quanto abbiamo sottolineato lungo tutte le nostre lezioni dedicate alla
connessione tra parti diverse. La disciplina processuale non si trae mai dal modo
in cui il processo litisconsortile si è formato perché ciò che rileva è soltanto la
struttura dei rapporti giuridici che corrono fra le parti. Che il garante entri in causa
a seguito di chiamata in garanzia o a seguito di chiamata in causa per comunanza
di causa, è un elemento assolutamente indifferente, si tratta comunque di un terzo
titolare di un rapporto giuridicamente dipendente che è entrato nel processo
avente ad oggetto il rapporto pregiudiziale, e quindi, qualsiasi soluzione si voglia
sostenere la si deve applicare con riferimento ad entrambi i casi.

Mi sentirei di fare un passettino oltre e affermare che questa stessa soluzione deve
essere applicata anche ad una terza ipotesi, ovvero il caso in cui il garante, in
qualità di terzo titolare di un rapporto giuridico dipendente, è entrato nel processo
avente ad oggetto il rapporto pregiudiziale, volontariamente, esperendo intervento
adesivo dipendente. Qui torno sui poteri dell’interventore adesivo dipendente in
quella lezione avevo chiesto di lasciare in sospeso la questione del potere di
impugnazione del terzo titolare di un rapporto giuridicamente dipendente. Il potere
di impugnazione è un potere fondamentale per assicurare pienamente la difesa del
terzo e abbiamo detto che tutta la ricostruzione dei poteri deve essere svolta
nell’ottica di valorizzare al massimo il suo diritto di difesa.

Allora sulla base di tutti i ragionamenti che abbiamo svolto anche oggi appare
chiaro che qualunque soluzione si voglia proporre con riferimento al garante
nell'ipotesi in cui questi sia destinatario della chiamata in garanzia, si dovrà
applicare anche all'ipotesi in cui il garante, o qualsiasi terzo titolare di un rapporto
giuridicamente dipendente, entra volontariamente nel processo altrui attraverso
l’intervento adesivo dipendente.

> Quindi se vogliamo seguire la strada indicata dalle sezioni unite, dobbiamo
riconoscere anche all'interventore adesivo dipendente il potere di impugnare
direttamente la sentenza resa nei confronti di entrambe le parti del rapporto
pregiudiziale.

> Se invece si decide di seguire l'altra strada, si dovrà riconoscere allo stesso
terzo il potere di proporre impugnazione solo nei confronti della controparte del
rapporto dipendente, potendo in questa sede ridiscutere incidenter tantum
l’esistenza e il modo d’essere del rapporto pregiudiziale. Questa considerazione
trova una conferma indiretta nell'ultimo comma dell'articolo 111 quando consente

368
al successore a titolo particolare nel diritto controverso, il potere di impugnare la
sentenza resa, anche se rimane estraneo al processo. Vi ricordate che parlando
dei terzi aventi causa in ipotesi di processo avente ad oggetto l'azione di
impugnativa negoziale, io vi ho detto che probabilmente questa ipotesi non rientra
nell'ambito applicativo dell'articolo 111 ma è maturato un orientamento teso a
ritenere che questo ultimo comma dell'articolo 111 sia espressione di una regola
generale per cui colui che ha acquistato un diritto nel corso del processo, oppure
all'indomani della chiusura del processo, deve considerarsi legittimato ad
impugnare questa sentenza. ll quadro in questo senso acquista una sua coerenza.

369
Lezione 21 - 21/05/20
Andiamo oggi ad analizzare il regime di impugnazione delle sentenze non
definitive. Ricordiamo che la sentenza non definitiva è prevista all’articolo 279
comma secondo n.4 là dove si legge che “il collegio (da leggersi come “il giudice”)
pronuncia sentenza quando decidendo alcune delle questioni di cui ai nn.1,2 e 3,
non definisce il giudizio e impartisce distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione
della causa”. Come abbiamo già detto nell’ordinamento italiano il giudice non è
mai tenuto ad esaurire l’attività istruttoria prima di rimettere la causa in fase
decisoria. In base all’articolo 187, infatti, se ritiene che una questione pregiudiziale
di rito o preliminare di merito idonea a definire il giudizio è fondata, il giudice può
invitare le parti a precisare le conclusioni immediatamente di fronte a sé e a far
transitare l’intera causa, quindi non la singola questione ma l’intera causa, in fase
decisoria. Dopodiché in questa sede potrà confermare la precedente delibazione e
quindi chiudere il processo emanando una sentenza definitiva, di rito o di merito,
oppure rovesciare la precedente delibazione e quindi ritenere che la questione non
sia fondata. In questo caso ha la possibilità di rimettere tutta la causa sul ruolo
oppure di pronunciarsi sulla questione con una sentenza non definitiva. Stante il
richiamo al numero 3 sappiamo che la sentenza non definitiva può contenere
anche una pronuncia avente attitudine alla cosa giudicata su una domanda
giudiziale e in base a quanto già detto in ordine al processo cumulativo questa
sentenza non definitiva avrà ad oggetto la causa pregiudiziale: laddove nel
processo si trovano cumulate la causa pregiudiziale e la causa dipendente, se la
causa pregiudiziale è matura per la decisione anticipatamente rispetto alla causa
dipendente il giudice può pronunciare sulla stessa sentenza, ma per assicurare il
coordinamento delle due decisioni si è detto che questa sentenza sarà una
sentenza non definitiva.

Andiamo adesso a verificare qual è il regime di impugnazione messo a punto dal


legislatore. Cominciamo con il dare lettura all’articolo 340 c.p.c. L’articolo 340 si
riferisce alle sentenze di primo grado perché è una disposizione contenuta in
quelle dedicate all’appello: “Contro le sentenze previste dall’articolo 278 e dal n.4
del secondo comma dell’articolo 279, l’appello può essere differito qualora la parte
soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per appellare
e, in ogni caso, non oltre la prima udienza dinanzi al giudice istruttore successiva
alla comunicazione della sentenza stessa.” Come vedete questa disposizione
equipara la disciplina processuale della sentenza di condanna generica (in ciò è il
rinvio all’articolo 278) e delle sentenze non definitive. Da questa disposizione
posiamo ricavare che a seguito della emanazione di una sentenza non definitiva la
parte interessata ha una duplice scelta di fronte a sé, ovvero la parte può decidere
di formulare una riserva di impugnazione. L’effetto della riserva di impugnazione
viene descritto nel secondo comma della disposizione. In pratica “l’appello deve
essere proposto unitamente a quello della sentenza che definisce il giudizio o con
quello che venga proposto, dalla stessa o da altra parte, contro altra sentenza
successiva che non definisca il giudizio”. L’effetto della riserva di impugnazione è
quello di spostare in avanti il decorso dei termini per impugnare. La riserva di
370
impugnazione deve essere effettuata prima che scada il termine per appellare e in
ogni caso non oltre la prima udienza dinanzi al giudice istruttore successiva alla
comunicazione della sentenza non definitiva. In base all’articolo 129 delle
disposizioni di attuazione, “la riserva d’appello può essere fatta nell’udienza del
giudice istruttore con dichiarazione orale da inserirsi nel processo verbale o con
dichiarazione scritta su foglio a parte da allegare ad esso”. In base al secondo
comma della disposizione “la riserva può essere fatta anche con atto notificato ai
procuratori delle altre parti costituite, a norma dell’articolo 170 primo e terzo
comma del codice, o personalmente alla parte, se questa non è costituita”. Invece,
laddove la parte non formuli la riserva, cominciano a decorrere i termini per
impugnare. Se invece la sentenza non definitiva viene emessa dal giudice
dell’appello, l’articolo 360 c.p.c, che è la prima disposizione di quelle che si
occupano del ricorso per Cassazione, al terzo comma prevede che “non sono
immediatamente impugnabili con ricorso per Cassazione le sentenze che decidono
di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio. Il ricorso per
Cassazione avverso tali sentenze può essere proposto, senza necessità di riserva,
allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio”.
Allora, se la sentenza non definitiva è emessa da giudice dell’appello, occorre
distinguere le sentenze non definitive su domande e le sentenze non definitive su
questioni. Con riferimento alle sentenze non definitive su domande vale lo stesso
regime che abbiamo visto con riferiamo alle sentenze non definitive emesse dal
giudice di primo grado; con riferimento alle sentenze non definitive aventi ad
oggetto questioni, dalla lettura dell’articolo 360 terzo comma si evince che esiste
soltanto la possibilità di impugnare la sentenza unitamente alla sentenza che
definisce il giudizio, totalmente o parzialmente, senza la necessità che sia
formulata la riserva di impugnazione. Con riferimento alle ipotesi che abbiamo
aperto è chiaro che, laddove è possibile e laddove venga formulata la riserva di
impugnazione non si pongono problemi, perché la sentenza non definitiva verrà
impugnata unitamente alla successiva sentenza che definisce anche parzialmente
il giudizio e quindi si applicano le regole previste per ciascuno dei mezzi di
impugnazione. Invece, è opportuno soffermarsi sui casi in cui la parte interessata
non formuli la riserva di impugnazione. Abbiamo detto che, se non viene formulata
la riserva di impugnazione, cominciano a decorrere i termini per impugnare, da qui
due possibilità: la parte può lasciare inutilmente decorrere i termini per impugnare,
oppure può esperire impugnazione. Cosa succede se la parte lascia inutilmente
decorrere i termini per impugnare? Evidentemente, una volta che questi termini
sono decorsi, la sentenza non definitiva passerà in giudicato formale perché non
saranno più esperibili i mezzi ordinari di impugnazione. Si tratta di stabilire però la
stabilità che questa sentenza va ad acquistare. Sotto questo profilo la risposta non
può essere unitaria, ma dobbiamo distinguere a seconda dell’oggetto della
sentenza non definitiva e andiamo a riprendere tutto quanto ci siamo detti a suo
tempo, quando abbiamo trattato gli effetti della estinzione del processo, l’articolo
310 c.p.c. Dunque, se la sentenza non definitiva passata in giudicato formale ha
ad oggetto la causa pregiudiziale, quindi è una sentenza per il cui tramite il giudice
371
si è pronunciato con autorità di cosa giudicata su una domanda e sarà la
domanda avente ad oggetto la causa pregiudiziale, trattandosi di un accertamento
avente ad oggetto un rapporto giuridico e trattandosi di un accertamento
effettuato con autorità di cosa giudicata, la sentenza passata in giudicato formale
acquisterà l’autorità della cosa giudicata materiale o sostanziale, di cui all’articolo
2909 c.c. Invece, se ha ad oggetto una questione preliminare di merito, ad
esempio la prescrizione, allora la sentenza non è idonea ad acquistare l’autorità
della cosa giudicata materiale ma acquisterà la più limitata efficacia pan
processuale esterna. La sentenza non definitiva, in pratica, oltre a vincolare i
giudici che interverranno nell’ambito del primo processo, e quindi oltre a produrre
efficacia vincolante all’interno del processo in cui è stata resa (il riferimento
naturalmente è ai giudici dell’impugnazione), produrrà anche la cosiddetta efficacia
pan processuale esterna, nel senso che, laddove il primo processo dovesse
estinguersi, questa sentenza vincolerà il secondo giudice di fronte a cui sarà
riproposta, eventualmente, tra le stesse parti la stessa causa. Ricordiamo che
l’estinzione del processo non estingue l’azione per cui è ben possibile che venga
aperto uno stesso processo fra le stesse parti con riferimento al medesimo
rapporto giuridico. Infine, se la sentenza non definitiva aveva ad oggetto una
questione preliminare di rito, questa sentenza, pur producendo efficacia preclusiva
interna, quindi pur vincolando gli altri giudici dello stesso processo al cui interno è
stata resa, non sarà idonea a sopravvivere ad una eventuale estinzione del
processo, e quindi non potrà esplicare all’esterno del processo in cui è stata resa
alcuna efficacia vincolante.

Veniamo adesso all’ipotesi in cui, resa la sentenza non definitiva, la parte


interessata decida di proporre immediata impugnazione. Intanto occorre
soffermarsi sulla questione relativa a chi può proporre impugnazione contro la
sentenza non definitiva. Allora, naturalmente la impugnazione potrà essere
proposta dalla parte che è legittimata e che ha interesse. Se la sentenza non
definitiva ha ad oggetto una vera e propria domanda, la parte legittimata e
interessata ad impugnare sarà la parte rimasta praticamente soccombente, quindi
quella che ha perso nel merito, secondo quelle che sono le regole generali. Se
invece la sentenza ha ad oggetto una questione, allora non esiste un soccombente
pratico, perché in quella sentenza il giudice non ha attribuito o negato un bene
della vita. Si parla allora di soccombenza teorica ed è la parte a cui sfavore è stata
risolta la questione oggetto della sentenza non definitiva. Quindi se (faccio un
esempio banale) il giudice con sentenza non definitiva ha dichiarato infondata la
prescrizione, il soccombente teorico è il convenuto e quindi sarà lui ad avere la
legittimazione e l’interesse a proporre impugnazione. Supponiamo che questa
impugnazione venga tempestivamente proposta, allora avremo il contemporaneo
svolgimento di due processi perché il processo di primo grado prosegue
(all’emanazione della sentenza non definitiva, vi ricordo che segue la remissione
della causa sul ruolo) e il processo di impugnazione aperto a seguito della
impugnazione della sentenza non definitiva. Ora, se la sentenza ha ad oggetto una
domanda non si pongono problemi perché il processo di primo grado e il processo
372
di impugnazione avranno ad oggetto due rapporti giuridici distinti. Si tratterà di
assicurare il coordinamento dei due processi e in particolare fra la sentenza resa
nel processo di impugnazione e il processo di primo grado, però non si pongono
problemi in ordine alla individuazione dell’oggetto di questi processi. Se invece la
sentenza non definitiva ha ad oggetto una questione, allora l’apertura del giudizio
di impugnazione produce, si può dire, una rottura dell’unità oggettiva del giudizio
di impugnazione che il legislatore, come abbiamo visto, ha cercato di assicurare
attraverso la previsione contenuta negli articoli 333 e 334 c.p.c. Infatti il processo
di primo grado proseguirà con riferimento al rapporto giuridico che ne costituisce
l’oggetto originario, il processo di impugnazione avrà ad oggetto il medesimo
rapporto con la particolarità che il giudice dell’impugnazione ne potrà conoscere
per il tramite della sola questione oggetto della sentenza non definitiva impugnata.
Quindi abbiamo la contemporanea pendenza di due gradi di giudizio aventi ad
oggetto lo stesso rapporto giuridico.

Vediamo che cosa succede quando il giudizio di impugnazione ad un certo punto


raggiunge la sentenza finale, quindi il giudice dell’impugnazione si pronuncia. Ora,
appare chiaro che se il giudizio di appello si chiude con una sentenza di conferma
della sentenza non definitiva, grossi problemi non se ne pongono. Ora, in verità,
l’articolo 279 prevede al quarto comma, seconda parte, che “quando sia stato
proposto appello immediato contro una delle sentenze previste dal n.4 del
secondo comma, il giudice istruttore, su istanza concorde delle parti, qualora
ritenga che i provvedimenti dell’ordinanza collegiale siano dipendenti da quelli
contenuti nella sentenza impugnata, può disporre con ordinanza non impugnabile
che l’esecuzione o la prosecuzione dell’ulteriore istruttoria sia sospesa sino alla
definizione del giudizio di appello”. Allora, come si evince da questa disposizione,
le parti hanno la possibilità di rimanere passive e quindi il giudizio di primo grado
andrà avanti regolarmente, oppure di rivolgersi al giudice istruttore e chiedere, ma
lo devono fare concordemente, la sospensione del giudizio di primo grado. Allora,
se il processo è andato avanti e se il giudizio di appello contro la sentenza non
definitiva si chiude con una sentenza di conferma, quindi il giudice rigetta
l’impugnazione confermando la sentenza non definitiva, non si pongono problemi.
Nel caso in cui le parti concordemente abbiano chiesto la sospensione, il giudice
l’abbia accordata e poi viene emanata la sentenza di conferma, allora le parti
dovranno rimettere in moto il processo e lo faranno attraverso quanto previsto
dall’articolo 125 bis delle disposizioni di attuazione, a tenore del quale “se il
giudice istruttore ha sospeso l’esecuzione o la persecuzione dell’ulteriore istruzione
a norma dell’articolo 279 quarto comma del codice, le parti debbono riassumere la
causa davanti a lui nelle forme stabilite dall’articolo che precede, entro il termine
perentorio di sei mesi dalla comunicazione della sentenza che definisce il giudizio
sull’appello immediato che ha dato luogo alla sospensione”. Però, diciamo
problemi non se ne pongono. Problemi si pongono invece nel caso in cui
l’impugnazione della sentenza non definitiva venga accolta e quindi il giudice
dell’impugnazione emana un provvedimento di riforma della sentenza non
definitiva. Ora, se voi vi ricordate, la sentenza non definitiva è il presupposto su cui
373
si basa la prosecuzione del giudizio di primo grado, quindi nel momento in cui la
sentenza non definitiva viene riformata dal giudice dell’appello, viene meno il
presupposto sulla cui base è proseguito il giudizio di primo grado. Dov’è che si
pongono i problemi? I problemi si pongono perché si potrebbe anche
semplicisticamente ritenere che la sentenza di riforma emanata dal giudice
dell’appello travolge immediatamente il giudizio di primo grado. Però questa
soluzione deve essere attentamente meditata. Infatti anche la sentenza di riforma
della sentenza non definitiva emessa dal giudice dell’appello è a sua volta
suscettibile di essere impugnata attraverso ricorso per Cassazione e naturalmente
è possibile che la Cassazione la confermi, ma è anche possibile che la corte di
Cassazione riformi la sentenza di riforma della sentenza non definitiva. Come se ne
esce? La soluzione preferibile la possimao evincere dal disposto dell’articolo 129
bis delle disposizione di attuazione del codice di procedura civile. Questa norma
prevede che “se sia stato proposto ricorso per Cassazione contro sentenza
d’appello che abbia riformato alcuna delle sentenze previste nel n.4 del secondo
comma dell’articolo 279 del codice, il giudice istruttore, su istanza della parte
interessata, qualora ritenga che i provvedimenti dati con l’ordinanza collegiale per
l’ulteriore istruzione della causa siano dipendenti da quelli contenuti nella sentenza
riformata, può disporre con ordinanza non impugnabile che la esecuzione o la
prosecuzione dell’ulteriore istruzione rimanga sospesa fino alla definizione del
giudizio di cassazione”. Allora questa disposizione, vedete, ha un contenuto
analogo a quello posto dall’articolo 279 comma quarto seconda parte, cioè
prevede la possibilità che, impugnata attraverso ricorso per Cassazione la
sentenza d’appello di riforma della sentenza non definitiva, il giudice possa
disporre, su istanza della parte interessata, quindi non di entrambe le parti, ma
della parte interessata, la sospensione del processo. Ma allora laddove questa
disposizione apre questa possibilità se ne può desumere (è un ragionamento
piuttosto delicato) che l’emanazione della sentenza d’appello di riforma non è
sufficiente a travolgere il processo di primo grado, perché laddove questa
sentenza venga impugnata attraverso il ricorso per Cassazione è ancora aperta la
possibilità per il giudice di primo grado di disporne la separazione. L’effetto
caducatorio consegue soltanto al passaggio in giudicato della sentenza di riforma.
È una operazione interpretativa piuttosto complessa, ma sicuramente è quella
preferibile. In base all’ultimo comma dell’articolo 129 bis delle disposizioni di
attuazione, “se la sentenza è cassata, la causa deve essere riassunta davanti al
giudice istruttore nelle forme stabilite dall’articolo 125, entro il termine perentorio di
sei mesi dalla comunicazione della sentenza che accoglie il ricorso”. Quindi se la
Cassazione cassa la sentenza di riforma della sentenza non definitiva il processo
di primo grado che sia stato sospeso dovrà essere riassunto nel termine indicato.
Invece, se la sentenza emanata dalla corte di Cassazione conferma la sentenza di
riforma della sentenza non definitiva a quel punto si avrà la caducazione del
giudizio di primo grado.

Consideriamo adesso l’ipotesi in cui si abbia, all’indomani della emanazione di una


sentenza non definitiva, la estinzione del giudizio di primo grado, non importa che
374
si tratti di estinzione per inattività delle parti o per rinuncia. L’emanazione di una
sentenza non incide sul processo di primo grado e sui poteri processuali delle
parti, quindi l’estinzione è uno scenario che rimane assolutamente possibile. Ai
sensi dell’art 129 delle disposizioni di attuazione, terzo comma, “se il processo si
estingue in primo grado, la sentenza di merito contro la quale fu fatta la riserva
acquista efficacia di sentenza definitiva dal giorno in cui diventa irrevocabile
l’ordinanza, o passa in giudicato la sentenza che pronuncia l’estinzione del
processo. Da questa data decorrono i termini stabiliti dall’articolo 325 del codice
per impugnare la sentenza già notificata e, se questa non è stata notificata, decorre
il termine di decadenza stabilito dall’articolo 327 del codice stesso”. Quindi, se il
processo si estingue e con riferimento alla sentenza non definitiva di merito è stata
formulata una riserva di impugnazione si ha che la sentenza acquista efficacia di
sentenza definitiva dal giorno in cui diventa irrevocabile l’ordinanza o passa in
giudicato la sentenza che pronuncia l’estinzione del processo, e cominciano a
decorrere da queste date i termini per impugnare, che possono essere i termini
brevi e i termini lunghi, in relazione al se vi è stata o meno notifica della sentenza.
Appare chiaro che il richiamo alle sole sentenze non definitive di merito si spiega in
base alla considerazione secondo cui le sentenze non definitive di rito, stante il
disposto dell’articolo 310 c.p.c, non sono destinate a sopravvivere alla estinzione
del processo. Ove le parti non propongano impugnazione la sentenza passerà in
giudicato formale, la sua stabilità varia naturalmente in relazione all’oggetto della
sentenza non definitiva secondo quanto abbiamo già ricordato poc’anzi. Quindi
potrà acquistare l’autorità della cosa giudicata se ha ad oggetto una domanda
giudiziale; acquisterà l’efficacia pan processuale esterna se invece ha ad oggetto
la questione preliminare di merito. Ove invece venga proposta impugnazione
avverso la sentenza non definitiva si apre il giudizio di appello. Ora, se la sentenza
aveva ad oggetto una domanda giudiziale, l’appello a sua volta avrà ad oggetto il
relativo rapporto; ma se aveva ad oggetto una questione, allora avremo un giudizio
di appello che ha ad oggetto lo stesso rapporto giuridico, rapporto che però il
giudice potrà conoscere solo passando attraverso la conoscenza della questione
risolta nella sentenza non definitiva impugnata. Allora, se all’esito dell’appello è
emanata una sentenza di conferma della sentenza non definitiva, questa sentenza,
se passa in giudicato, produrrà la sua solita efficacia pan processuale esterna; se
invece la sentenza è di riforma, essa potrà diventare una sentenza e passa in
giudicato formale e potrà diventare una sentenza che contiene l’accertamento di
non esistenza del diritto (noi sappiamo che la non esistenza del diritto si può
basare su un unico motivo portante) come tale suscettibile di acquistare l’autorità
della cosa giudicata.

Possiamo iniziare ad analizzare la disciplina dell’appello. L’appello trova la propria


disciplina nel capo II del terzo titolo del secondo libro del codice di procedura
civile, negli articoli che vanno dall’articolo 339 all’articolo 359. Attraverso la
proposizione dell’appello si chiede ad un giudice diverso, un giudice superiore, di
controllare la giustizia e/o la validità della sentenza precedentemente emessa.
Tradizionalmente si afferma che l’appello è un istituto volto a dare attuazione al
375
principio del doppio grado di giurisdizione. Questa affermazione però non è più
attuale. Il principio del doppio grado di giurisdizione, alla lettera, indica che la
stessa causa venga conosciuta in tutti i suoi profili da due giudici diversi. In verità
così non avviene. Come cercheremo di fare emergere nel corso della trattazione, ci
sono numerose ipotesi in cui il giudice d’appello è giudice di primo e unico grado,
quindi è giudice che conosce per primo e, in un certo senso da solo, di alcune
domande o di una lunga serie di questioni che riguardano la controversia.
L’appello non è un istituto che ha rilevanza costituzionale, quindi non è coperto da
garanzia costituzionale, come lo è il ricorso per Cassazione che trova espressa
menzione nell’articolo 111 cost. dove stabilisce che tutte le sentenze possono
essere impugnate di fronte alla Cassazione. Se andiamo a leggere le statistiche
giudiziarie italiane, scopriamo che il giudizio di appello è l’anello debole della
catena che rappresenta il processo civile. L’arretrato che si misura con riferimento
ai giudizi di appello è abnorme, vediamo proprio che se i processi di primo grado
già sono lenti, il giudizio di appello rappresenta un vero “collo di bottiglia”.
L’arretrato come vi dicevo è incommensurabile. I motivi di questa situazione sono
vari, anche di politica giudiziaria. Nel momento in cui è stato creato il giudice unico
di primo grado ed è stato abolito l’ufficio del pretore e tutte le controversie
rientranti nella competenza del pretore sono state spostate sul tribunale,
improvvisamente il tribunale ha dovuto coprire un contenzioso maggiore, ma
anche la corte di appello è diventata il giudice d’appello di tutte le controversie che
prima erano di competenza del pretore, il cui appello precedentemente rientrava
nella competenza del tribunale. Ora, il tribunale ha potuto far fronte all’aumento del
contenzioso grazie alla regola del giudice monocratico, mentre invece di fronte alla
corte d’appello il giudizio è sempre un giudizio collegiale, in tutte le sue fasi, non
solo in quella decisoria. Questo ha fatto sì che l’arretrato a seguito dell’entrata in
vigore delle riforme degli anni ‘90, è aumentato a dismisura e le corti non sono
state in grado di amministrarlo. Otre a questo ci sono ulteriori considerazioni
pratiche da svolgere perché gli uffici giudiziari di corte d’appello sono uffici
giudiziari che hanno, diciamo a livello concreto, una organizzazione del tutto
inadeguata a far fronte al contenzioso, dal numero dei giudici, al numero del
personale amministrativo, ed è un ufficio a cui sono devolute competenze sempre
maggiori, competenze che non riguardano soltanto l’amministrazione della
giustizia, ma competenze anche di tipo amministrativo. Questo ha portato ad una
vera e propria paralisi di questi uffici. C’è però da dire che molti operatori pratici e
teorici, a fronte della situazione che emerge dalla lettura delle statistiche
giudiziarie, hanno inteso prospettare la possibilità di abolire il giudizio di appello
perché stante la mancanza di una copertura costituzionale non è necessario
passare attraverso il procedimento di revisione costituzionale. In verità queste
proposte sono proposte inaccettabili. Storicamente parlando tutti i sistemi
giudiziari che hanno raggiunto un certo grado di evoluzione hanno sempre previsto
il giudice di secondo grado. Il giudice d’appello, infatti, svolge una funzione
fondamentale. Innanzitutto è uno strumento di impugnazione chiamato a svolgere
una funzione di garanzia soggettiva, perché l’appello consente di denunciare tutti i
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possibili vizi della sentenza di primo grado. È infatti un mezzo di impugnazione a
motivi illimitati. Non solo. Oltre ad essere espressione fondamentale del diritto di
difesa delle parti, l’appello svolge anche un’altra funzione altrettanto
fondamentale, ovvero la funzione di filtro rispetto al successivo ricorso per
Cassazione. Noi sappiamo che la corte di Cassazione è chiamata nell’ordinamento
italiano a svolgere la funzione nomofilattica, così come espressamente previsto
nell’articolo 65 della legge sull’ordinamento giudiziario. La funzione nomofilattica
consiste nell’assicurare l’esatta e uniforme interpretazione del diritto. Ora, affinché
la corte possa correttamente svolgere questa funzione è importante che il numero
delle controversie che pervengono alla Cassazione sia il più ridotto possibile.
Infatti, se arrivano centinaia, migliaia di controversie, è facile che la corte non
possa svolgere in maniera appropriata il proprio ruolo e infatti tutti gli ordinamenti,
anche quello italiano, hanno inserito dei meccanismi più o meno stringenti di filtro
per tentare di limitare l’accesso alla corte suprema. Ora, se il giudizio di appello
fosse soppresso, il ricorso per Cassazione diverrebbe l’unico sfogo per il cittadino
che ritiene di aver subito una sentenza ingiusta o invalida e quindi è presumibile
che il numero dei ricorsi per Cassazione aumenterebbe in modo esponenziale e
quindi si rischierebbe la paralisi della corte suprema. Il problema dell’appello,
come ho già cercato di accennare, è anzitutto un problema di organizzazione, c’è
una carenza di organico, dei magistrati, c’è una carenza di organico nel personale
amministravo. Si tratta di un problema che va risolto a livello di organizzazione
della giustizia e su questo punto vi ricordo che l’articolo 107 affida la
responsabilità di tutto ciò al ministro della giustizia.

Fatta questa premessa, andiamo ad esaminare le caratteristiche dell’appello.


Intanto abbiamo già ricordato che è un mezzo di impugnazione a motivi illimitati,
quindi attraverso l’appello il cittadino può denunciare tutti i possibili errores in
procedendo, quindi derivanti per esempio dal difetto di un requisito di forma
contenuto, o dal difetto di un requisito extra formale relativo al giudice o relativo
alle parti, oppure tutti gli errores in iudicando, quindi gli errori relativi alla quaestio
facti o alla quaestio iuris, da cui si ritiene affetta la sentenza di primo grado.
Nessuna norma del codice di procedura civile mi indica i vizi che possono essere
denunciati attraverso l’appello, per questo si è soliti ritenere che la funzione svolta
dall’appello sia quella di garanzia soggettiva. La seconda caratteristica dell’appello
è il suo effetto sostitutivo. Come vedremo, l’oggetto del giudizio di appello è il
rapporto giuridico già controverso di fronte al giudice di primo grado, o una
frazione del rapporto giuridico già oggetto del giudizio di primo grado, perché nel
passaggio dal giudice precedente al giudice superiore è possibile che ci sia una
restrizione dell’oggetto della lite perché entra in gioco il meccanismo
dell’acquiescenza tacita qualificata, di cui all’articolo 329 comma 2 c.p.c. Su che
cosa possiamo fondare la considerazione secondo cui l’oggetto del giudizio di
appello è il rapporto giuridico controverso? Innanzitutto sulla circostanza che il
giudizio di appello si introduce attraverso un atto che ha la forma dell’atto di
citazione in base all’articolo 342 c.p.c che contiene un rinvio all’articolo 163 che è
la norma che disciplina l’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado.
377
Quindi dovrà contenere gli stessi requisiti di forma contenuto, compresi quelli
relativi alla identificazione del diritto che ne costituisce l'oggetto, quindi le parti, il
petitum e la causa petendi. In seconda battuta la circostanza che in base
all’articolo 359 c.p.c la regola generale è che al giudizio di appello si applicano le
stesse norme previste per il procedimento di primo grado davanti al tribunale se
non sono incompatibili con le disposizioni del presente capo, salvo quanto
espressamente previsto negli articoli dedicati all’appello. Ora, fra le disposizioni
relative all’appello non ce n’è nemmeno una che si occupa della forma dei
provvedimenti emanati dal giudice di appello, in ciò c’è una differenza netta
rispetto al ricorso per Cassazione perché vedremo che con riferimento al giudizio
per Cassazione invece il legislatore ha stabilito in maniera chiara, agli articoli 382 e
seguenti, i provvedimenti che la corte suprema può emanare. Da ciò si ricava che il
giudice dell’appello emana gli stessi provvedimenti che può emanare il tribunale,
quindi c’è un rinvio innanzitutto all’articolo 279 con riferimento ai provvedimenti
che hanno la forma della sentenza. Il terzo elemento che possiamo richiamare è
l’articolo 393 c.p.a che è una norma che in verità è dettata con riferimento al
giudizio di rinvio. Ci è già capitato di ricamare il giudizio di rinvio, un giudizio che
può aprirsi all’indomani dell’accoglimento del ricorso per Cassazione allorquando
si renda necessario il compimento di attività che la suprema corte non può
compiere, ad esempio le attività istruttorie, e quindi è una sorta di “delegato” della
corte di Cassazione, è la fase rescissoria del ricorso per Cassazione. Ebbene,
l’articolo 393 c.p.c prevede espressamente che se si estingue il giudizio di rinvio,
l’intero processo si estingue, ma “la sentenza della corte di cassazione conserva il
suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la
riproposizione della domanda”. La norma mi dice, dunque, che se il giudizio di
rinvio si estingue, rimane soltanto la sentenza della cassazione. Ora, che la
sentenza di appello non sopravviva alla estinzione del giudizio di rinvio è
facilmente comprensibile perché l’apertura del giudizio di rinvio presuppone
l’accoglimento del ricorso per Cassazione, quindi la corte suprema avrà già
cassato, annullato, la sentenza di appello che è stata impugnata; ma che non
sopravviva la sentenza di primo grado si può spiegare solo considerando che è la
sentenza di appello che ha sostituito la sentenza di primo grado che quindi non
esiste più nel mondo giuridico. Quindi l’articolo 393 c.p.c dà per presupposto il
cosiddetto effetto sostitutivo dell’appello: l’esito fisiologico dell’appello è appunti
la emanazione di ha sentenza che si pronuncia sul merito, quindi si pronuncia sulla
esistenza/non esistenza del rapporto giuridico ancora controverso fra le parti che
va a sostituire la sentenza di primo grado e questo vale sia nel caso in cui il
giudice dell’appello abbia accolto l’appello e quindi abbia riformato la sentenza di
primo grado, vuoi nel caso in cui l’appello sia stato rigettato e quindi il giudice
dell’appello abbia confermato la sentenza di primo grado. Anche in questa ultima
ipotesi la sentenza d’appello sostituisce la sentenza di primo grado.

La terza caratteristica è l’impedimento al giudicato: l’apertura del giudizio di


appello impedisce alla sentenza di primo grado di passare in giudicato per cui nel
momento in cui viene notificato l’atto di citazione in appello sia ha la litispendenza
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del giudizio di appello che impedisce il decorso dei termini per impugnare e quindi
impedisce alla sentenza precedente, alla sentenza di primo grado, di passare in
giudicato formale.

SECONDA PARTE

Abbiamo già ricordato che l’appello è un mezzo di impugnazione a motivi illimitati.


Vediamo chi può proporre appello, di fronte a chi può essere proposto, e quali
sono i provvedimenti suscettibili di appello.

Per quanto riguarda la legittimazione a proporre appello valgono le regole generali.


Quindi -in base a tutto quanto abbiamo già detto- l’appello è proponibile da chi ha
rivestito la qualità di parte nel processo di primo grado ed è rimasto almeno
parzialmente soccombente. Vedremo che una precisazione dovrà essere svolta
con riferimento all’appello incidentale.

Per quanto riguarda la competenza questa è regolata dall’art. 341 cpc, a tenore
del quale “L'appello contro le sentenze del giudice di pace e del tribunale si
propone rispettivamente al tribunale ed alla corte di appello nella cui circoscrizione
ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza.” Vediamo che il legislatore ha
fatto una scelta molto chiara, si dice infatti che la competenza del giudice di
appello è automatica. In particolare, le sentenze emesse dal tribunale vengono
impugnate presso la corte d’appello nel cui distretto ha sede il tribunale stesso.
Per quanto riguarda i provvedimenti impugnabili la questione è risolta dall’art. 339
cpc -che è la prima tra le disposizioni che si occupano dell’appello- a tenore della
quale “Possono essere impugnate con appello le sentenze pronunciate in primo
grado, purché l'appello non sia escluso dalla legge o dall'accordo delle parti a
norma dell'articolo 360, secondo comma.” La norma introduce il principio generale
di appellabilità della sentenza di primo grado, ma pone alcune eccezioni.

Intanto viene richiamato l’accordo delle parti di cui all’art. 360 co.2 nel quale si
prevede “Può essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza
appellabile del tribunale, se le parti sono d'accordo per omettere l'appello; ma in
tal caso l'impugnazione può proporsi soltanto a norma del primo comma, n. 3”. Si
tratta di un’ipotesi che si basa sull’accordo delle parti che decidono di saltare un
grado di giurisdizione e andare direttamente di fronte alla suprema corte, in tal
caso però, precisa lo stesso co. 2 dell’art. 360, che l’impugnazione può proporsi
solo per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi
collettivi nazionali di lavoro. Quindi può essere un ricorso per cassazione avente
ad oggetto solo e soltanto la questio iuris.
La seconda ipotesi in cui è escluso l’appello è rappresentata dai casi in cui è la
stessa legge a stabilirlo.

La prima ipotesi è contemplata nel co. 2 dell’art. 339 dove si legge che “è
inappellabile la sentenza che il giudice ha pronunciato secondo equità a norma
dell'articolo 114.” Si tratta del caso in cui il giudice, su istanza concorde delle parti
con riferimento ad una causa avente ad oggetto diritti disponibili, la decide nel
merito secondo equità, quindi senza applicare la norma di diritto. In questa ipotesi
379
quindi la sentenza del giudice basata su equità potrà essere impugnata
direttamente in cassazione ma soltanto per denunciare errores in procedendo.
Quindi il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 co. 1, 2, 4 e 5, non anche per
violazione di legge perché l’equità è un criterio di giudizio diverso dalla norma di
legge.
Una ulteriore ipotesi è contemplata nel co. 3 dell’art. 339 e si tratta delle “Le
sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell'articolo 113,
secondo comma, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul
procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei
principi regolatori della materia”. Si tratta delle ipotesi in cui il giudice di pace
decide secondo equità le cause avente un valore inferiore attualmente a 1100
euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo
le modalità di cui all’art. 1342 cc. Anche in questa ipotesi è lo stesso art. 339 a
stabilire che queste sentenze pronunciate secondo equità non sono appellabili se
non per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme
costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia. In verità
questi “principi regolatori della materia” sono un principio che ha destato grosse
discussioni, è piuttosto evanescente, però diciamo che ci limitiamo a richiamarle.
Altre ipotesi di sentenze non suscettibili di appello sono previsti in casi specifici da
parte della legge. Ci limitiamo a richiamare la sentenza che chiude il procedimento
di opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 cpc.

Fatta questa premessa apriamo l’indagine relativa all’appello e andiamo ad


occuparci dell’oggetto del giudizio di appello, quindi dei meccanismi di
formazione dell’oggetto del giudizio di appello.

Nel vigore del codice del 1865 abbiamo già ricordato che il passaggio della causa
dal primo al secondo grado avveniva sulla base del c.d. effetto devolutivo
automatico, cioè era sufficiente che la sentenza di primo grado fosse aggredita
attraverso la notifica di un atto introduttivo del giudizio di appello -ed era
sufficiente un appello c.d. generale- perché di fronte al giudice di appello si
trasferisse l’intera causa già discussa e decisa in primo grado. Questo effetto
devolutivo automatico è stato progressivamente cancellato dal legislatore. Già con
l’entrata in vigore del codice del 1942 il legislatore lo aveva pesantemente
attenuato attraverso l’introduzione dell’art. 346, nel quale si prevede l’onere di
riproposizione delle domande ed eccezione non accolte. Successivamente però
l’effetto devolutivo è stato quasi del tutto soppresso, prima dall’opera
interpretatrice della corte di cassazione e poi dal legislatore che nel 2012 ha
recepito a livello normativo importanti e ormai stabili orientamenti giurisprudenziali.
Quindi una volta chiarito che quasi ogni forma di automatismo è stata cancellata, i
meccanismi per il cui tramite si forma l’oggetto del giudizio di appello si basano e
sono espressione del principio dell’impulso di parte. Si chiede sempre alle parti,
seppur in termini e forme diverse, di attivarsi per portare di fronte alla cognizione
del giudice dell’appello domande, questioni e prove di cui si vuole ottenere un

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riesame. Nell’intraprendere questa indagine dobbiamo distinguere l’oggetto c.d.
quantitativo dall’oggetto c.d. qualitativo, andando prima ad evidenziare i
meccanismi per il cui tramite si fissa l’oggetto del giudizio di appello inteso come
rapporto o frazione di rapporto controverso tra le parti; e poi dobbiamo andare ad
analizzare i meccanismi relativi all’oggetto qualitativo, cioè gli strumenti per il cui
tramite si individuano le questioni di cui si vuole che il giudice di appello svolga il
proprio accertamento al fine di statuire l’esistenza o non esistenza del rapporto
giuridico che è devoluto alla sua cognizione.

OGGETTO QUANTITATIVO

Per quanto riguarda l’oggetto quantitativo sono 3 le disposizioni su cui dobbiamo


lavorare, ovvero sull’art. 342 che introduce l’appello principale, l’art. 343 che
invece tratta l’appello incidentale e l’art. 329 co.2 che invece riguarda
l’acquiescenza tacita qualificata.

L’art. 342 nella sua attuale formulazione, che gli è stata attribuita dall’intervento di
riforma del 2012, stabilisce che “L'appello si propone con citazione contenente le
indicazioni prescritte nell'articolo 163. L'appello deve essere motivato. La
motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità:
1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle
modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di
primo grado;
2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro
rilevanza ai fini della decisione impugnata.”
La norma si occupa evidentemente dell’appello principale e quindi dell’appello che
viene proposto per primo e che determina l’apertura del processo. Accanto all’art.
342 dobbiamo sicuramente richiamare l’art. 343 che ci introduce l’appello
incidentale e che non rappresenta altro che una forma di impugnazione incidentale
di cui all’art. 333.

Così dispone la norma dell’art. 343 “L'appello incidentale si propone, a pena di


decadenza, nella comparsa di risposta, all'atto della costituzione in cancelleria ai
sensi dell'articolo 166”.

Quindi l’appello incidentale si propone con comparsa di risposta da depositarsi


almeno 20 giorni prima della data dell’udienza; ed essendo una forma di
impugnazione incidentale -già sappiamo che si tratta di una vera e propria
impugnazione che semplicemente è proposta per seconda- presuppone una
soccombenza ripartita (una soccombenza parziale) presuppone cioè che ad esito
del giudizio di primo grado entrambe le parti siano rimaste parzialmente vittoriose
e parzialmente soccombenti, di guisa che entrambe hanno la legittimazione e
l’interesse a proporre impugnazione. L’appello incidentale è una vera e propria
impugnazione e come tale è pacifico che debba contenere -come l’appello
principale- i motivi di impugnazione che debbono essere redatti secondo le
rigidissime forme indicate nell’art. 342 co.1 n. 1) e 2) a pena di inammissibilità.

Allora come si individua l’oggetto quantitativo dell’appello? Attraverso l’appello


principale e l’appello incidentali le parti, quindi l’appellante e l’appellato, devono
381
innanzitutto indicare le parti di sentenza che intendono appellare, e qui “parti di
sentenza” deve essere sicuramente letto in combinato disposto con quanto
previsto nell’art. 329 co.2 relativo all’acquiescenza tacita qualificata. Ricordiamo
che la norma prevede che l’impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti
della sentenza non impugnate. Quindi la parte nel momento in cui propone appello
individua, indicando la parte della sentenza, la domanda o le domande o le frazioni
di domanda che intende portare di fronte al giudice di appello. Di conseguenza le
parti della sentenza/ l’una o più domande/ frazioni di domande che non sono state
aggredite attraverso l’appello passeranno in giudicato per l’acquiescenza tacita
qualificata. Quindi attraverso questi meccanismi appare chiaro che, se è vero che
l’appello ha ad oggetto il rapporto giuridico già controverso tra le parti -questo lo
abbiamo già spiegato introducendo il c.d. effetto sostitutivo dell’appello-, è anche
vero che in virtù di questi meccanismi, nel passaggio dal giudice di primo grado al
giudice dell’appello si possono registrare dei cambiamenti. È possibile cioè che le
parti attraverso l’appello principale, ed eventualmente l’appello incidentale,
devolvano al giudice di secondo grado una parte soltanto della precedente
controversia, cioè solo una frazione della domanda o una sola delle più domande
portate e decide di fronte al giudice di primo grado.

Facciamo un esempio: supponiamo che in primo grado venga proposta domanda


di accertamento del diritto della proprietà e domanda di risarcimento del danno,
supponiamo che entrambe le domande vengano accolte e supponiamo che il
convenuto rimasto totalmente soccombente proponga appello con riferimento
limitata io al risarcimento del danno. In applicazione degli artt. 342 e 329 co.2
avviene che di fronte al giudice di secondo grado verrà portata semplicemente la
domanda dipendente, quindi la domanda relativa al risarcimento del danno, con la
conseguenza che la parte di sentenza che contiene la pronuncia sulla domanda di
accertamento della proprietà acquisterà l’autorità della cosa giudicata. Questo
vale non soltanto con riferimento all’appello principale ma anche con riferimento
all’appello incidentale, di cui all’art. 343 (appello incidentale che può essere sia
tempestivo sia tardivo). Quindi in ipotesi di soccombenza ripartita, se la parte
contro cui è stato proposto appello (c.d. appellato) intende a sua volta portare alla
cognizione del giudice di secondo grado le parti di sentenza, quindi i capi di
domanda su cui è rimasto soccombente, deve attivarsi nelle forme e nei termini
stabiliti per l’appello incidentale. Quindi anche attraverso l’appello incidentale si va
ad incidere sulla formazione dell’oggetto del giudizio di appello. Nonostante
l’iniziativa di entrambe le parti resta comunque possibile e generalmente avviene
che la cognizione del giudice di secondo grado sia tendenzialmente più ristretta
rispetto alla cognizione del giudice di primo grado. Un’ulteriore precisazione:
ricordiamo che se di fronte al giudice di primo grado sono state cumulate due o
più domande connesse per pregiudizialità dipendenza, se le domande risultano
accolte e se l’impugnazione tocca soltanto la domanda principale (quindi il
rapporto pregiudiziale), se questa impugnazione viene accolta si produrrà il c.d.
effetto espansivo interno, di cui all’art. 336 co.1, per cui la riforma della sentenza
determinerà la caducazione delle altre parti di sentenza che da essa dipendono.

382
OGGETTO QUALITATIVO

Adesso andiamo invece ad occuparci di un secondo profilo, ovvero della


questione relativa all’oggetto qualitativo dell’appello. Trattandosi in questa sede di
determinare le questioni che potranno essere conosciute dal giudice d’appello ai
fini della statuizione in ordine all’esistenza o non esistenza del rapporto giuridico o
dei rapporti giuridici o delle frazioni di rapporto giuridico di sua cognizione.
Sappiamo infatti che il giudice di merito per rispondere a qualsiasi domanda
giudiziale deve risolvere una lunga serie di questioni, che sono questioni di rito e di
merito: deve valutare la valida istaurazione del processo, la sussistenza di tutti i
requisiti extra-formali relativi alle parti e al giudice; e sul piano del merito deve
risolvere la questio iuris e la questio facti, quindi: l’individuazione della norma
generale ed astratta sotto la qual sussumere la fattispecie dedotta in giudizio e la
sua interpretazione, e per quanto riguarda la questio facti dovrà procedere alla
ricostruzione dei fatti giuridicamente rilevanti.

Ora l’art. 342, che è la norma portante di tutto il giudizio di appello, è la norma alla
cui luce dobbiamo ricostruire l’intera disciplina del giudizio di appello, prevede che
la parte non debba semplicemente indicare la parte di sentenza che vuole
impugnare ma deve altresì individuare le questioni di fatto e di diritto su cui vuole
che il giudice di appello effettui un controllo. La norma dell’art. 342 pone a carico
dell’appellante un onere molto pesante perché la formazione dei motivi di appello
è operazione piuttosto complessa e alquanto delicata per la parte (ovvero per il
suo avvocato) anche perché se sbaglia la conseguenza è pesantissima, ossia la
dichiarazione di inammissibilità con una precisazione:

1. L’inammissibilità è una sanzione rigidissima perché non prevede alcuna


sanatoria, e anzi la conseguenza è il passaggio in giudicato della precedente
sentenza (della sentenza impugnata).

2. Attenzione perché la valutazione di ammissibilità la giurisprudenza la effettua


motivo per motivo. Per cui se anche un motivo di impugnazione è
inammissibile perché non corrisponde ai parametri imposti dall’art. 342, ciò
non toglie che gli altri motivi possano essere ammissibili e che quindi il
giudizio di appello si possa svolgere con riferimento a questi altri.

Un’ultima precisazione: Ricordiamo ancora una volta che ciò che affermiamo con
riferimento all’appello principale (al quale è dedicato l’art. 342) vale anche per
l’appello incidentale che è a tutti gli effetti un’impugnazione salvo il fatto di essere
proposto per seconda

File 4

Con riferimento alla delimitazione dell’oggetto qualitativo dell’appello un ruolo


centrale è svolto dall’art. 342, che attualmente possiamo leggere nella versione
che gli è stata attribuita dal legislatore del 2012. Precedentemente, infatti, la
formulazione della norma era più ridotta: non si parlava né della sanzione
dell’ammissibilità, né si trovavano i numeri 1 e 2; la norma dopo aver richiamato
l’art. 163 si limitava a stabilire che l’atto di citazione in appello doveva contenere i
motivi specifici di impugnazione. Ora il legislatore del 2012 nel riformare il testo

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della disposizione, non ha modificato (non è stato un intervento innovatore), non
ha fatto altro che recepire a livello normativo un orientamento giurisprudenziale
ormai stabile. Infatti, questi motivi specifici di impugnazione dal 1942 al 2012 sono
stati oggetto di una lenta ma profonda evoluzione. Naturalmente il significato dei
motivi specifici di impugnazione era stato raccordato con l’art. 429 co.2, quindi
con il meccanismo della acquiescenza tacita semplificata. In verità, in un primo
tempo -parlo dei tempi immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice
del ’42- la giurisprudenza ha ritenuto che attraverso i motivi specifici di
impugnazione l’appellante avesse l’onere di indicare la parte di sentenza -intesa
come capo di domanda- che intendeva devolvere al giudice di secondo grado;
dopodiché tutte le questioni relative a quel capo si riteneva che emergessero
automaticamente di fronte al giudice dell’appello.

Nel corso degli anni però la giurisprudenza ha rielaborato la nozione di “parti di


sentenza” utilizzata dall’art. 329, e di conseguenza anche la nozione di “motivi
specifici di impugnazione”.

In un primo tempo ha richiesto all’appellante -in una fase successiva rispetto a


quella che vi ho appena riportato- di indicare non solo i capi di domanda (o il capo
di domanda) ma anche le singole questioni preliminari di merito su cui chiedeva un
nuovo accertamento al giudice di appello. Con la conseguenza che le questioni
preliminari di merito relative allo stesso capo di domanda/ sentenza (non oggetto
di motivi specifici di impugnazione) si ritenevano ormai coperte da giudicato
interno, quindi la giurisprudenza ha sempre utilizzato l’espressione di “giudicato
interno”.

Questo non è stato però l’orientamento definitivo perché, a partire dalla metà degli
anni ’90, si è affermato un ulteriore orientamento ancora più restrittivo e rigido, in
base a questo è stata rielaborata la nozione di “questione” ritenendosi che, in
verità, nell’ambito dei motivi specifici di impugnazione acquisissero rilevanza le
unità decisionali minime interne alla stessa questione pregiudiziale oggetto di
censura, purché si trattasse di segmenti suscettibili di acquisire una certa
autonomia nel ragionamento del giudice.

Facciamo un esempio: con riferimento alla più semplice delle questioni preliminari
di merito, per es. la prescrizione, la giurisprudenza ha individuato 3 segmenti (unità
decisionali minime): il dies a quo, la durata e l’assenza di cause di sospensione e
di interruzione. La giurisprudenza, quindi, da un certo momento in poi ha imposto
all’appellante l’onere di indicare, non soltanto la questione, ma all’interno della
questione l’unità decisionale minima intesa come sequenza fatto-norma-effetto
che riteneva affetta da errore. La conseguenza è che la questione preliminare di
merito oggetto del motivo di impugnazione era devoluta al giudice dell’appello, il
quale però era chiamato a riesaminare soltanto l’unità decisionale minima con
riferimento al quale l’appellante aveva formulato il proprio motivo di impugnazione
ritenendola affetta da errore; e di conseguenza la giurisprudenza ha affermato che
se sulle unità decisionali minime interne alla stessa questione preliminare di merito,
ma non oggetto a motivi di impugnazione, si era formato il giudicato interno.
Quindi per tornare all’esempio: se con riferimento alla questione di prescrizione
384
l’appellante contesta che erroneamente il giudice aveva fissato la data di
decorrenza della prescrizione (quindi il dies a quo nel giorno X anziché nel giorno
Y) il giudice di secondo grado può tornare ad accertare solo il profilo del dies a
quo, perché se invece va a sindacare profili ulteriori, ad es. quello della durata
della prescrizione, si ritiene che violi il cd giudicato interno.

Questo orientamento restrittivo si è sviluppato anche con riferimento alla questio


iuris perché se, per un certo periodo, la giurisprudenza ha affermato che anche a
favore del giudice dell’appello operi il principio iura novit curia, per cui anche il
giudice dell’appello è libero di riqualificare giuridicamente la fattispecie dedotta in
giudizio; da un certo momento in poi si è incominciato a rilevare che in fin dei conti
la questione di diritto è una questione che il giudice di primo grado, nel momento
in cui si è pronunciato sull’esistenza o non esistenza del diritto fatto valere in
giudizio, ha espressamente risolto. Il giudice cioè per rispondere alla domanda
giudiziale ha individuato, interpretato ed appiccato la norma generale astratta al
caso concreto. Partendo da questo assunto la giurisprudenza ha affermato che
ove la parte impugnate (appellante) non formuli un motivo di impugnazione relativo
alla questio iuris non si vede per quale motivo il giudice dell’appello dovrebbe
poter tornare sulla questione di diritto, soprattutto se i motivi di impugnazione che
sono stati formulati danno per presupposta la qualificazione giuridica svolta dal
giudice di primo grado. Naturalmente questo orientamento ha un solo limite e
sono i casi (non molto numerosi) in cui, attraverso i motivi di impugnazione relativi
alla questio facti, le parti abbiamo di fatto inciso sulla stessa fattispecie. Quindi,
qualora questi motivi siano tali da comportare una modifica della fattispecie così
come ricostruita dal giudice di primo grado, in ragione della quale si rende
necessario anche il cambiamento della norma generale ed astratta da applicare.

Dopodiché invece la giurisprudenza ha sempre riconosciuto che, se l’appellante


denuncia espressamente un errore da parte del giudice nell’individuazione o
interpretazione della norma generale ed astratta -quindi un errores in giudicando
della questio iuris-, allora a quel punto anche a favore del giudice dell’appello si
riapre il principio iura novit curia. Questo orientamento sembra che sia stato
recepito dal legislatore del 2012 perché ora l’art. 342 nel n.2, a proposito dei
motivi di impugnazione, fa espresso riferimento ai motivi afferenti alla questio iuris.

Ricordiamoci ancora una volta che tutto quanto si è detto vale, non soltanto con
riferimento all’appello principale, ma anche all’appello incidentale, perché l’appello
incidentale -non mi stancherò mai di ripeterlo- non è altro che un appello proposto
per secondo, in un momento temporalmente successivo.

Ora, proprio con riferimento all’appellante incidentale, in giurisprudenza


recentemente si è posta una questione molto importante su cui sono intervenute le
sezioni unite della corte di cassazione. La questione riguarda lo strumento che la
parte appellata, che è rimasta totalmente vittoriosa nel merito ma è rimasta
teoricamente soccombente su una singola questione, deve utilizzare per portare la
questione sulla quale è rimasta teoricamente soccombente di fronte al giudice
dell’appello.

385
Già sappiamo (recuperiamo una nozione che ci è nota ed è da sempre pacifica)
che se sulla questione il giudice di primo grado ha emesso sentenza non definitiva
e se la parte, rimasta teoricamente soccombente sulla sentenza non definitiva, ha
formulato riserva di impugnazione, l’appellato se vuole portare la questione di
fronte al giudice dell’appello deve formulare appello incidentale.

Ma la questione su cui la giurisprudenza si è arrovellata era un’altra cioè, il caso in


cui il giudice di primo grado non aveva emesso una sentenza non definitiva, ma
aveva risolto la questione in senso sfavorevole alla parte (risultata poi totalmente
vittoriosa nel merito) nella sentenza definitiva. In base ad un orientamento
tradizionale, che è rimasto assolutamente fermo fino al 2008, si è affermato che
l’appellato, con riferimento a questa ipotesi, non avesse la necessità di proporre
l’appello incidentale potendo limitarsi a riproporre la questione in base all’art.
346, che si occupa delle domande e delle eccezioni non accolte.

Ora, tra appello incidentale e riproposizione c’è una fondamentale differenza:

- L’appello incidentale: intanto, deve essere proposto a pena di decadenza


nella comparsa di risposta depositata 20 giorni prima della data
dell’udienza; in secondo luogo, deve contenere a pena di inammissibilità i
motivi di impugnazione.

- L’istanza di riproposizione è un istituto che opera ancora oggi, ad es., per le


eccezioni che sono rimaste assorbite, quindi eccezioni su cui il giudice
legittimamente non si è pronunciato. L’istanza di riproposizione non richiede
tutto questo sforzo perché la parte può limitarsi a riprodurre al giudice
dell’appello l’eccezione che è rimasta assorbita perché d’altronde, non
essendoci stata statuizione dal giudice precedente, non c’è neppure la
possibilità di articolare i motivi di impugnazione; e poi è sempre stato
pacifico che la riproposizione può avvenire in qualsiasi momento del giudizio
di appello, addirittura, si diceva fino a pochi mesi fa, fino all’udienza di
prefissazioni delle conclusioni.

Questo indirizzo è cominciato ad entrare in crisi nel 2008, anno in cui la corte di
cassazione ha affermato, con riferimento ad una ipotesi in cui la questione risolta a
sfavore dell’appellato vittorioso era la questione di giurisdizione, che in verità
l’appellato ha l’onere di proporre appello incidentale. La corte ha lavorato sulla
circostanza secondo cui

1. Se quella questione fosse stata risolta nella sentenza non definitiva sarebbe
stato pacifico che sarebbe stato necessario l’appello incidentale;

2. Lavorando sulla considerazione secondo cui, in questa ipotesi, nonostante


la parte fosse risultata vittoriosa, c’era stata comunque una statuizione da
parte del giudice precedente e quindi era giusto imporre alla parte appellata
l’onere di formulare motivi di impugnazione.

Dal 2008 i due indirizzi hanno continuato a trovare accoglimenti. Evidentemente


l’indirizzo tradizionale era un indirizzo che valorizzava al massimo l’equivalenza tra
appello principale ed appello incidentale, cioè si diceva che in fin dei conti
l’appello incidentale è una vera e propria impugnazione che può essere proposta

386
solo dalla parte soccombente -qui ci troviamo di fronte ad una parte che è risultata
totalmente vittoriosa e quindi non sarebbe legittimata a proporre appello
incidentale-. Dall’altra parte però, si rispondeva che era necessario assicurare la
parità delle parti, quindi dal momento in cui era pacifico che se la questione fosse
stata risolta con sentenza non definitiva sarebbe stato necessario l’appello
incidentale, e dal momento in cui comunque il presupposto era che il giudice di
primo grado si fosse pronunciato sulla questione ritenendola non fondata, sarebbe
stato giusto imporre all’appellato l’onere di formulare i motivi di impugnazione e di
proporre appello incidentale. Quindi, era giusto assicurare la parità delle parti
anche per dare coerenza al sistema, perché così l’art. 346 opera solo con
riferimento a domande ed eccezioni su cui non c’è stata una statuizione, mentre
l’appello incidentale opera laddove una statuizione vi è stata.

La questione è stata rimessa alle s.u., che si sono pronunciate con sentenza
11799 del 2017, in cui è trovato accoglimento l’orientamento più recente. Quindi le
sezioni unite hanno solennemente affermato che la parte appellata, totalmente
vittoriosa nel merito ma teoricamente soccombente sulla singola questione, ha
l’onere di proporre appello incidentale per portare davanti al giudice dell’appello la
questione, pena il formarsi del giudicato interno sulla stessa. Si tratta di una
sentenza che sicuramente ha addossato al soccombente teorico un compito più
arduo rispetto all’orientamento tradizionale, perché un conto è articolare i motivi di
impugnazione nell’appello incidentale, altro conto, è riproporre un’eccezione ai
sensi dell’art. 346. Tuttavia, si tratta di un orientamento che sicuramente è
meritevole di accoglimento proprio perché dà coerenza al sistema e soprattutto
assicura la parità delle parti, che è un valore che non dovrebbe mai essere perso di
vista.

Diciamo con questo di aver esaurito l’analisi dell’appello principale e dell’appello


incidentale. Ai fini della delimitazione dell’oggetto del giudizio di appello acquista
rilievo anche un altro istituto che abbiamo richiamato più volte, ossia la

RIPROPOSIZIONE IN APPELLO DELLE DOMANDE ED ECCEZIONI NON


ACCOLTE.

Leggiamo la norma di riferimento, che è l’art. 346 “Le domande e le eccezioni non
accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in
appello, si intendono rinunciate.”

Questo articolo è stato introdotto dal legislatore nel 1942 ed è la disposizione che
ha incrinato il cd effetto devolutivo automatico, perché, sotto l’egida del codice del
1865, era pacifico che domande ed eccezioni non accolte e favorevoli alla parte
rimasta vittoriosa ad esito del giudizio di primo grado riemergessero
automaticamente tutte quante di fronte al giudice dell’appello. Vediamo il
significato di questa disposizione ed il suo ambito applicativo.

La norma parla delle domande non accolte, naturalmente è bannale, ma è


opportuno ricordare che non bisogna confondere le domande non accolte con le
domande rigettate. Se una domanda è stata rigettata evidentemente c’è una parte
che è rimasta praticamente soccombente, la quale, se interessata a far

387
riesaminare questa domanda dal giudice dell’appello, ha l’onere di proporre
appello principale o incidentale. La domanda non accolta è la domanda su cui il
giudice di primo grado legittimamente non si è pronunciato, si tratta infatti della
domanda cd assorbita.

Abbiamo più volte accennato che, laddove in primo grado si è avuto un cumulo cd
condizionale di domande, si ha che, laddove la condizione cui è sottoposta una
delle due domande non si verifica, il giudice la chiude in rito dichiarandone
l’assorbimento.

Ricordiamo che esistono diverse forme di condizionamento:

- La subordinazione, che ricorre laddove vi è una domanda principale e, in via


condizionata al suo mancato accoglimento, la domanda subordinata;

- Il cumulo condizionale successivo, in cui vi è una domanda principale e, in


via subordinata al suo accoglimento, la domanda successiva;

- Il cumulo condizionale alternativo, in cui la parte chiede al giudice di


accogliere o l’una o l’altra domanda.

In tutti i casi abbiamo una domanda che è proposta in via sospensivamente


condizionata ed è possibile che ad esito del giudizio di merito la condizione non si
verifichi, ed è qui che il giudice dichiarerà l’assorbimento della domanda, quindi è
una domanda su cui il giudice non si pronuncia legittimamente. Quindi, la
dichiarazione di assorbimento non va confusa con l’omissione di pronuncia che è
un vizio, è una violazione dell’art. 112 cpc e quindi la parte, che ha subito
l’omissione di pronuncia, ha l’onere di proporre sul punto appello principale o
incidentale. Laddove siamo di fronte ad una domanda assorbita, l’art. 346 prevede
che, affinché questa domanda possa essere esaminata dal giudice dell’appello -
che peraltro la esaminerà in primo e unico grado-, è necessario il compimento di
un atto di impulso della parte interessata che prenderà la forma della
riproposizione, ai sensi dell’art. 346.

File 5

Con riferimento alla riproposizione delle domande assorbite qualche anno fa si


sono pronunciate anche le sezioni unite con la sentenza 19 aprile 2016 n. 7700. Il
caso di specie riguardava la chiamata in garanzia ed in particolare l’ipotesi in cui,
respinta la domanda principale, il giudice di primo grado aveva dichiarato
l’assorbimento della domanda di garanzia, e la questione che si era posta era
quella relativa al se, ai fini della riemersione del rapporto di garanzia di fronte a
giudice dell’impugnazione, fosse necessario o meno il compimento di un atto di
impulso da parte del garantito. In quell’occasione le s.u. hanno espressamente
affermato che, trattandosi di una domanda rimasta assorbita, era necessaria la
riproposizione, non importando invece l’appello incidentale in quanto il giudice
precedente non si era ancora pronunciato sulla seconda domanda.

L’art. 346 parla anche delle eccezioni non accolte. Noi parlando dell’appello
incidentale abbiamo già affrontato la questione dello strumento per il cui tramite la
388
parte appellata può riportare di fronte al giudice dell’appello le questioni su cui è
rimasta teoricamente soccombente. Ricordiamo l’ipotesi della parte totalmente
vittoriosa nel merito ma rimasta soccombente su singola questione, e,
ripercorrendo la questione fino ad arrivare alla sentenza 11799 del 2017, abbiamo
già ricordato il criterio adottato dalla corte di cassazione, ovvero quello secondo
cui laddove c’è stata una statuizione del giudice a quo si rende sempre necessaria
l’impugnazione principale o incidentale. D’altra parte, ricordiamo che abbiamo
rilevato che la stessa cassazione nella sentenza del 2017 aveva utilizzato come
argomentazione anche la necessità di offrire un’interpretazione coerente dell’art.
346 e quindi offrire la medesima lettura del termine “non accolte” sia con
riferimento alle domande sia con riferimento alle eccezioni. La domanda non
accolta non è la domanda respinta, perché se la domanda è stata respinta c’è un
soccombente pratico che dovrà proporre impugnazione principale o incidentale, è
la domanda assorbita. Lo stesso vale con riferimento alle eccezioni, quindi le
eccezioni non accolte sono le eccezioni rimaste assorbite.

Come si può arrivare all’assorbimento delle eccezioni? L’assorbimento delle


eccezioni può avvenire nell’ipotesi in cui la domanda sia stata rigettata per un
motivo diverso dall’eccezione proposta.

Quindi (facciamo un esempio), l’attore ha proposto domanda di adempimento del


contratto, il convenuto solleva eccezione di nullità e di prescrizione, il giudice
accoglie l‘eccezione di nullità e non si pronuncia sull’eccezione di prescrizione.
Quindi, l’eccezione è assorbita perché manca la statuizione del giudice, ed è a
questa ipotesi che si riferisce l’onere di riproposizione di cui all’art. 346, con una
precisazione svolta proprio dalle s.u. nella sentenza 7700 del 2016, la sentenza
che si è occupata della riproposizione sella domanda assorbita e che aveva
tracciato un quadro molto preciso degli strumenti di riemersione delle domande e
delle questioni preliminari di merito. In quella occasione le s.u. si sono soffermate
sulle eccezioni rimaste assorbite ed hanno tracciato una distinzione a seconda che
l’eccezione rimasta assorbita fosse un’eccezione in senso lato o un’eccezione in
senso stretto. Infatti, in quella occasione le s.u. hanno rilevato che, se l’eccezione
rimasta assorbita è un’eccezione in senso stretto, è indispensabile che la parte
interessata la riproponga ai sensi dell’art. 346; mentre invece, laddove si tratti di
eccezioni in senso lato, si ritiene che queste eccezioni possano essere rilevate dal
giudice dell’appello anche d’ufficio. Questo per applicare una regola coerente
all’art. 345 che pone il divieto di eccezioni nuove in senso stretto, quindi
implicitamente lascia aperta la possibilità di proporre eccezioni in senso lato, e
secondo gli orientante più restrittivi le eccezioni in senso lato possono essere
proposte dalla parte interessata o rilevate dal giudice anche d’ufficio, purché il
fatto sottostante sia stato tempestivamente allegato in primo grado.

Ora, in ipotesi di eccezione rilevabile d’ufficio rimasta assorbita, siamo di fronte ad


un’eccezione il cui fatto sottostante è regolarmente entrato in primo grado, e
naturalmente non è stata rilevata né tratta e decisa dal giudice di primo grado.
Quindi, volendo assicurare la coerenza del sistema, la cassazione ha riconosciuto
che, anche se la parte interessata non si attiva e non la ripropone espressamente
389
ex art. 346, trattandosi di un fatto che opera di diritto e che è già stato
regolarmente acquisito agli atti, possa essere rilevato d’ufficio anche dal giudice
laddove emerga legittimamente di fronte a lui in sede di appello.

Una precisazione. L’istanza di riproposizione diventa molto importante nell’ipotesi


in cui venga impugnata una sentenza di rigetto, sia essa fondata su una questione
di rito o una questione di merito. Già sappiamo che la sentenza di rigetto può
basarsi su un’unica questione, ed è il cd motivo portante, il giudice nel momento
in cui rileva la fondatezza di una questione, sia essa preliminare di merito o
pregiudiziale di rito, idonea a definire il giudizio può chiudere il processo di fronte a
sé. Quindi tutte le altre questioni diverse dalla questione su cui si basa la sentenza
di rigetto rimangono assorbite. In questi casi, nel momento in cui la parte propone
impugnazione -e sarà l’attore naturalmente- dovrà avere cura di riproporre tutti i
fatti posti a fondamento della sua domanda; così come il convenuto dovrà avere
cura di riproporre tutti i fatti modificativi, impeditivi ed estintivi già introdotti di
fronte al giudice di primo grado, nonché le eventuali eccezioni processuali. Quanto
ai tempi della riproposizione, se in base ad un orientamento tradizionale si è
sempre sostenuto che la riproposizione potesse avvenire lungo tutto il corso del
processo di appello fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, da ultimo, sul
punto è intervenuta la Cassazione a sezioni unite con la sentenza 21 Marzo del
2019 n. 7940. Questa ha espressamente affermato che, in base all’attuale
disciplina processuale del giudizio di appello, l’istanza di riproposizione delle
domande ed eccezioni non accolte in primo grado in quanto rimaste assorbite
deve essere proposta con il primo atto difensivo, e comunque non oltre la prima
udienza. Si tratta di un intervento che sicuramente merita di essere approvato
perché si pone in linea con gli orientamenti restrittivi che la giurisprudenza ha
maturato con riferimento al giudizio di appello, con riferimento ai meccanismi di
formazione dell’oggetto del giudizio di appello – che abbiamo visto che sono
estreemamente rigidi-, e sicuramente -poiché l’istanza di riproposizione incide
sulla formazione thema decidendum e probandum del giudizio di appello- è anche
in linea con il processo di appello che andremo ad analizzare.

390
Lezione 22 - 29/05/20
(file 1) Passiamo adesso ad esaminare l’art 345 che si occupa dei cd nova in
appello, ovvero disciplina la possibilità di introdurre di fronte al giudice d’appello
domande, eccezioni e prove nuove. Andiamo per ordine: il primo comma della
disposizione così recita “nel giudizio di appello non possono proporsi domande
nuove, e se proposte debbano essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Possono
tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza
impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa”. La
disposizione contiene l’espressione del divieto di domande nuove in appello. Si
tratta di un divieto che è posto in maniera perentoria, tant’è vero che il giudice, a
fronte della domanda nuova, può rilevarne d’ufficio la inammissibilità, e quindi non
ha alcun rilievo la circostanza che la controparte accetti il contraddittorio. Questa è
una scelta che distingue l’ordinamento italiano da altri ordinamenti, anche vicini a
noi per tradizione, come quello francese, in cui l’appello si configura come un
giudizio sicuramente più aperto rispetto al nostro; invece il legislatore italiano ha
compiuto una scelta di chiusura che probabilmente meriterebbe di essere
rimeditata.

La norma, come vedete, come unica deroga al divieto contempla la possibilità di


proporre le cd domande consequenziali, ovvero ammette che possano esser
chiesti gli interessi, i frutti, gli accessori, maturati dopo la sentenza impugnata,
oltre il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza. Le domande restitutorie
peraltro sono oggetto di una interpretazione ampia da parte della giurisprudenza
perché, nonostante il silenzio della legge, la giurisprudenza ammette da sempre
che l’appellante possa avanzare immediatamente la domanda di restituzione di
quanto prestato volontariamente, quindi spontaneamente, o coattivamente, in
esecuzione della sentenza impugnata. Noi sappiamo che la sentenza di primo
grado nasce provvisoriamente esecutiva ex lege, in base all’art 282 cpc, però già
si è visto che in base all’art 336.1 la riforma o la cassazione della sentenza
impugnata estende i suoi effetti ai provvedimenti ed agli atti dipendenti dalla
sentenza riformata o cassata. Quindi la sentenza di riforma in verità determina la
immediata caducazione degli atti conseguenti al provvedimento impugnato, e il
riferimento è a tutti gli atti di esecuzione o all’eventuale adempimento del
provvedimento della sentenza di primo grado che è stata impugnata. Allora, a
fronte della previsione contenuta nell’art 336 comma 2 (su cui torneremo
successivamente parlando delle regole di svolgimento del processo di appello)
ritiene per evidente ragione di economia processuale, che la parte appellante
possa chiedere immediatamente al giudice dell’appello la restituzione di quanto ha
già corrisposto in adempimento della sentenza di primo grado, onde evitare che la
parte, per ottenere ciò che ha prestato, sia costretta ad aprire un secondo
processo.

La giurisprudenza è andata poi oltre il testo della disposizione, perché ha


ammesso anche, ad esempio che proposta azione di adempimento del contratto,
in base all’art 1453 cc, la parte possa in appello passare dalla domanda di
391
adempimento alla domanda di risoluzione del contratto, come espressamente
previsto nell’art 1453. La giurisprudenza afferma che la domanda di risoluzione è
domanda nuova rispetto alla domanda di adempimento del contratto, ma l’art
1453 cc rappresenta una deroga espressamente prevista dalla legge al divieto
dell’art 345 cpc, e ammette altresì che se la parte che ha subito l’inadempimento
domanda al giudice dell’appello per la prima volta la risoluzione del contratto,
possa cumulare a questa domanda, non soltanto la domanda di restituzione di
quanto prestato in adempimento del contratto impugnato(questa è una domanda
cd restitutoria, che potrebbe rientrare nella previsione del 345 comma1), ma possa
altresì chiedere, per la prima volta, l’azione di risarcimento del danno, che
certamente non rientra nella nozione di domanda restitutoria perché il risarcimento
del danno è una delle reazioni che l’ordinamento mette a disposizione dei
consociati, laddove si verifica la crisi del rapporto negoziale, quindi laddove il
programma del rapporto negoziale non viene attuato, e voi sapete che la domanda
di risarcimento del danno può esser presentata non soltanto in via cumulativa
rispetto alla azione di adempimento e all’azione di risoluzione, ma può esser anche
presentata in via autonoma. La corte ha lavorato in una sentenza del 2014 sulla
esigenza di dare piena apertura a questa domanda per consentire al processo di
offrire una tutela effettiva alla parte che ha subito la crisi di cooperazione. Quindi,
questa è una apertura che merita sicuramente di esser segnalata perché molto
importante.

Ora, la circostanza che la norma ponga in maniera espressa il divieto di domanda


nuova, porta a ritenere tranquillamente che in appello sia possibile la modifica
della domanda. Perché, nel momento in cui c’è un divieto espresso dettato con
riferimento specifico alla domanda nuova, si ritiene che la modifica della domanda
debba ritenersi ammessa. Quindi, a fronte dell’art 345 si pone, anche in appello, la
necessità di tracciare una linea di confine tra domanda nuova e domanda
modificata, tra mutatio libelli (oggetto del divieto) e emendatio libelli, che invece
sembra essere consentita.

Allora, anche con riferimento all’appello, dobbiamo richiamare tutto quanto ci


siamo a suo tempo detti parlando del giudizio di primo grado, sulla difficoltà di
mettere a fuoco la nozione di modifica della domanda, in contrappunto a quella di
domanda nuova. Come vi avevo già detto, parlando del primo grado e della
preclusione segnata dall’art 183 quinto comma, ovvero 183 sesto comma n°1, la
nozione di modifica della domanda la si dovrebbe tracciare in relazione ai limiti
oggettivi del giudicato, e quindi tutto ciò che sta al di fuori dei limiti oggettivi del
giudicato è domanda nuova, ciò che invece è compreso è domanda modificata.

Vi ricordate che, secondo l’ordinamento tradizionale della giurisprudenza, ogni


variazione degli elementi identificativi della domanda giudiziale porta a configurare
la esistenza di una domanda nuova. Questo orientamento tradizionale però, negli
anni ha sofferto non poche eccezioni, per un verso, e per altro verso, viene
applicato in maniera non coerente e non convincente, ma andiamo con ordine.

La giurisprudenza, ad esempio, è sempre stata propensa ad ammettere che, se


l’oggetto del giudizio di appello, è un diritto autodeterminato, come per esempio la
392
proprietà, o un altro diritto assoluto, la parte appellante ha la possibilità di
introdurre per la prima volta di fronte al giudice di secondo grado, fatti costitutivi
alternativamente concorrenti rispetto a quelli fatti valere in primo grado. Quindi,
proposta per esempio azione di rivendica, basata sulla esistenza di un contratto, si
ammette che, difronte al giudice dell’appello la parte possa prospettare la
esistenza della usucapione. Oppure, proposta domanda di accertamento di una
servitù basata su un eredità, si ammette che difronte al giudice dell’appello, possa
esser per la prima volta prospettata l’esistenza di un contratto. Questo
orientamento è un orientamento molto aperto, ed è un orientamento che
sicuramente merita di esser condiviso. Merita di esser condiviso perché i fatti
costitutivi dei diritti autodeterminati non sono individuatori, quindi il mutamento del
fatto costitutivo, il mutamento del titolo, non incide sulla identità della situazione
giuridica dedotta in giudizio. D’altra parte non si può non osservare che tra i fatti
costitutivi che la giurisprudenza ammette possano esser introdotti per la prima
volta difronte al giudice dell’appello, ci sono anche fatti che non operano ipso iure,
quindi non operano di diritto, ma sono fatti che se spesi in forma di eccezione
danno luogo a eccezione in senso stretto, come ad esempio la usucapione, e
attenzione, in secondo comma dell’art 345 pone il divieto di nuove eccezioni in
senso stretto, quindi, qualche perplessità sotto questo profilo la potremmo anche
avere.

Se, con riferimento ai diritti autodeterminati si registrano orientamenti di apertura,


se si vanno ad analizzare altri filoni, altri orientamenti della giurisprudenza, ci
troviamo difronte invece a delle chiusure che difficilmente si prestano ad essere
condivise. Per esempio, con riferimento ad obbligazioni aventi ad oggetto il
pagamento, quindi rapporti giuridici aventi ad oggetto il pagamento di somme di
denaro, la giurisprudenza tradizionalmente è ferma nel ritenere che al giudice
dell’appello si possano chiedere degli importi più ridotti rispetto quelli chiesti al
giudice di primo grado, ma non anche importi maggiori. Perché se si aumenta il
quantum richiesto si configura una domanda nuova. Questa affermazione non è
condivisibile se applicata con riferimento ai rapporti cd di valore, tipiche le
obbligazioni risarcitorie, laddove, si è visto parlando dei limiti oggettivi del
giudicato, che siamo difronte a rapporti giuridici unitari seppure complessi,
seppure formati diciamo da più voci, da più segmenti, che però sono parti interne,
non distinti. D’altra parte vi ricordate che nel 2011 la cassazione ha affermato il
principio di non frazionabilità della domanda risarcitoria in più processi; quindi la
coerenza vorrebbe che difronte al giudice dell’appello si potessero chiedere delle
voci di danno ulteriori rispetto a quelle chieste in primo grado, perché la domanda
rimane sempre la stessa.

Con riferimento alle modifiche relative alla norma applicata, anche qua ci
potremmo aspettare degli orientamenti di apertura, siccome abbiamo detto tante
volte che la norma giuridica non svolge, come regola generale, una funzione
individuatrice nell’ordinamento italiano, ci saremmo aspettati un atteggiamento di
aperturadella giurisprudenza, e quindi, proposta ad esempio domanda di
responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art 2043, ci aspetteremmo di trovare
393
orientamenti favorevoli a consentire alla parte di prospettare, per la prima volta
difronte al giudice dell’appello, una azione di responsabilità derivante dall’esercizio
di attività pericolose ai sensi del 2050; oppure, proposta in primo grado azione di
adempimento del contratto, ci potremmo aspettare la disponibilità ad ammettere
che in appello possa essere prospettata, per la prima volta, una azione, una
domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento; oppure, proposta in primo
grado una domanda basata sull’esistenza di un rapporto di mandato, quindi actio
mandati, in appello invece la stessa pretesa possa esser configurata come una
actio negotiorum gestio. Siamo di fronte a tipiche ipotesi di concorso di norme, in
cui la norma non svolge funzione individuatrice, il passaggio dall’una a l’altra
norma non determina la novità della domanda, la novità del rapporto giuridico,
invece la giurisprudenza tradizionale inspiegabilmente è ferma nel negare questo
passaggio, affermando che si tratta di modifiche che debbono esser inquadrate
nella mutatio libelli. Altre volte la giurisprudenza è meno diciamo tranchan, nel
senso che afferma che la modifica delle norme giuridiche è ammessa purché però
la parte non introduca a supporto di questa variazione, non debba introdurre dei
temi di indagine, quindi dei fatti nuovi rispetto a quelli tempestivamente allegati in
primo grado.

Questa posizione è una posizione che chiaramente non si presta ad esser


condivisa, proprio per quello che ci siamo detti in tema di concorso di norme e
concorso di diritti, che, vi ricordate è configurabile in ipotesi veramente residuali,
possiamo anzi fare due osservazioni:

1. La mancanza di coerenza tra questo orientamento e l’orientamento che


invece la giurisprudenza segue con riferimento ai diritti autodeterminati, dal
momento che, con riferimento ai diritti autodeterminati si ammette
tranquillamente la introduzione del nuovo fatto alternativamente concorrente
rispetto a quello già dedotto in primo grado.

2. Non possiamo non rilevare come orientamenti di questa specie finiscono per
penalizzare molto la parte laddove questa, o meglio, il suo avvocato, si è
dimenticato di prospettare tempestivamente in primo grado, la possibilità
appunto di sussumere la fattispecie dedotta in giudizio sotto due norme
diverse, e non abbia provveduto ad allegare tempestivamente in giudizio
tutti i possibili fatti giuridicamente rilevanti. Vi è da dire però che si stanno
aprendo delle nuove prospettive, nel senso che la giurisprudenza prima o
poi dovrà fare i conti con gli orientamenti e i segnali che la cassazione sta
dando in questo momento con riferimento soprattutto al primo grado di
giudizio: vi ricordate quando abbiamo parlato delle preclusioni relative al
primo grado di giudizio vi ho segnalato l’intervento del 2015 delle sezioni
unite le quali hanno ammesso che è possibile in sede di prima memoria, ex
art 183 comma 6, passare dalla azione di adempimento in forma specifica
dell’obbligo di conclusione del contratto ex 2932 cc, alla azione di
accertamento dell’avvenuto effetto traslativo basato sulla diversa qualifica
del contratto come contratto definitivo, e vi ricordate che in quella occasione
le sezioni unite si sono soffermate sulla nozione di modifica della domanda
394
affermando che la variazione di uno degli elementi identificativi della
domanda non porta necessariamente a configurare una domanda nuova,
perché in talune ipotesi il bene della vita, il rapporto giuridico, è sempre lo
stesso. Questa sentenza ha avuto un certo seguito nella giurisprudenza di
legittimità, sempre con riferimento al primo grado di giudizio. Per esempio
nel 2018 sono intervenute delle sezioni unite che hanno affermato che anche
nella prima memoria ex art 183.6, dove si parla di modifica della domanda, è
possibile che per l’attore, che in via originaria ha esercitato la azione di
adempimento del contratto, proporre la azione di indennizzo per
ingiustificato arricchimento, introducendo anche ifatti costitutivi della azione
di arricchimento senza giusta causa, che non hanno alcun rilievo per la
azione di adempimento contrattuale, ovvero l’impoverimento e la
locupletazione. Quindi la coerenza vuole che prima o poi la giurisprudenza
debba fare i conti con quest’altri orientamenti perché l’espressione usata,
stiamo parlando sempre di modifica della domanda, e perché soprattutto
questa chiusura alla possibilità di introdurre in appello fatti nuovi, fatti diversi
e ulteriori rispetto a quelli tempestivamente allegati in primo grado, non
trova alcun riscontro nel testo del cpc; senza contare il fatto che
orientamenti di questa specie si traducono in una sostanziale ingiustizia per
la parte che non ha la possibilità di recuperare difronte al giudice
dell’appello un proprio errore, l’errore dell’avvocato, in virtù dei limiti
oggettivi del giudicato così ampi che la giurisprudenza sta portando avanti,
né dall’altra parte, dicevo, tantomeno ha la possibilità di aprire un secondo e
autonomo processo.

(file 2) il secondo comma dell’art 345 stabilisce che non possono proporsi nuove
eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio. La norma ha una formulazione
infelice, ma ci dice senz’altro che non possono esser proposte in appello nuove
eccezioni in senso stretto. Anche in quest’ipotesi dando di questa norma una
lettura a contrario, si afferma che in appello possono esser proposte nuove
eccezioni in senso lato. Ora, vi ricordate che il catalogo delle eccezioni in senso
lato è estremamente ampio, quindi sembrerebbe essere una notevole apertura.
Anche in questo caso però dobbiamo fare i conti con orientamenti
giurisprudenziali altalenanti.

Proporre una eccezione significa non soltanto sollevare l’eccezione, ma significa


anche allegare, introdurre, nel processo il fatto sottostante, il fatto modificativo,
estintivo e impeditivo. Ora, se il fatto sottostante non può entrare, sollevare una
eccezione non ha molto senso, eppure in giurisprudenza si confrontano due
orientamenti contrapposti:

- Orientamento restrittivo, a tenore del quale: la parte può sì sollevare nuove


eccezioni in senso lato davanti al giudice di appello, ma a condizione che il
fatto sottostante sia già stato tempestivamente allegato in primo grado

- Orientamento contrapposto, che afferma che la nuova eccezione in senso


lato può esser proposta in appello anche introducendo il nuovo fatto ad

395
essa sottostante, quindi introducendo per la prima volta in appello
direttamente il fatto sottostante.

Si torna al problema della allegazione dei fatti, e quindi anche con riferimento alle
eccezioni in senso lato torno a ripetere quanto ho già osservato con riferimento
alla modifica delle domande. Siamo difronte a un contegno di chiusura che non
trova spiegazioni:

1.primo perché il testo normativo non parla di un divieto di allegazione di nuovi


fatti, e quindi, laddove non si prevede un divieto non si capisce perché si debba
restringere questa attività

2.secondo, perché si tratta di orientamenti che sono in contrasto con gli


orientamenti che vi ho segnalato precedentemente di apertura alla possibilità di
portare di fronte al giudice dell’appello per la prima volta fatti costitutivi
alternativamente concorrenti, rispetto a quelli già dedotti in primo grado, posti a
base di domande che hanno ad oggetto diritti autodeterminati, quindi si tratta di
fatti non individuatori

3. terzo, perché questo atteggiamento di chiusura di fatto si traduce in un grave


pregiudizio per la parte che non ha la possibilità di ottenere ragione, di ottenere
una sentenza giusta e, d’altronde non potrà neppure aprire un secondo processo.
Quindi si tratta di atteggiamenti di chiusura che diciamo devono essere senz’altro
contrastati.

Per quanto riguarda infine il terzo comma, il terzo comma si occupa delle nuove
prove. In base al terzo comma, attualmente vigente e che deriva da reiterati
interventi del legislatore, si ha che “non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non
possono esser prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver
potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non
imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio”.
Allora, lasciamo stare il giuramento decisorio che è sempre un mezzo di prova
legale che ha sempre avuto un canale preferenziale, probabilmente per motivi
storici. Pe quanto riguarda invece il divieto di introduzione dei nuovi mezzi di
prova, come vedete la norma, nella sua attuale previsione, equipara la produzione
dei nuovi documenti alla richiesta di ammissione dei nuovi mezzi di prova, saranno
in particolare le prove costituende, ponendo un divieto assoluto, salvo la
possibilità per la parte di dimostrare di non aver potuto proporli o produrli nel
giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Quindi sono
tipicamente mezzi di prova che sono sopravvenuti, di cui la parte ha avuto
quantomeno la disponibilità in un momento successivo alla chiusura del giudizio di
primo grado. Quindi l’unica possibilità è che la parte ottenga una sorta di
rimessione in termini.

La scelta originaria del legislatore del 1990 era diversa perché si consentiva la
possibilità anche di chiedere la assunzione di nuove prove, se indispensabili. Ora,
questo requisito della indispensabilità, in verità, aveva creato delle grossissime
discussioni perché non si capiva che cosa era questa indispensabilità, però

396
certamente era una apertura significativa, era una apertura importante.
Attualmente dobbiamo prendere atto di questo atteggiamento di totale chiusura.

Non rientra nel divieto sancito nel terzo comma dell’art 345 i poteri istruttori
d’ufficio. Perché i poteri istruttori d’ufficio possono esser esercitati in qualsiasi
momento del processo. Non c’è nessuna disposizione che imponga un limite
temporale. Naturalmente, laddove il giudice esercita un potere d’ufficio, dovrà in
ogni caso attivare il contraddittorio delle parti, e quindi consentire loro di esercitare
poteri consequenziali al potere esercitato.

L’osservazione che possiamo fare a questo punto e alla luce della disciplina che
abbiamo delineato con riferimento ai meccanismi di formazione dell’oggetto del
giudizio di appello, e segnatamente degli art 342 343 345 e 346, è che, come già
osservato in apertura della trattazione dell’appello, ci sono numerosissime ipotesi
in cui il giudice dell’appello si trova a conoscere come giudice diprimo ed unico
grado di determinati elementi: è vero che tendenzialmente in giudice d’appello
torna a pronunciarsi sul rapporto giuridico, su una frazione del rapporto giuridico
già dedotto davanti al giudice di primo grado, e su cui il giudice di primo grado ha
statuito, e quindi il giudice dell’appello è chiamato ad assicurare il cd doppio
grado di giurisdizione. Ma l’analisi delle disposizioni su cui ci siamo fin ora
soffermati ha fatto emergere una serie di ipotesi in cui il giudice dell’appello
procede all’accertamento di elementi che non sono stati conosciuti dal giudice di
primo grado, per cui è il giudice d’appello il giudice di primo e unico grado.

In particolare il riferimento è alle domande cd assorbite, che vengono riproposte in


appello ai sensi dell’art 346 e che il giudice dell’appello decide come giudice di
primo e unico grado. Ma direi anche delle eccezioni non accolte, che siano
riproposte ai sensi dell’art 346. Ancora, in ipotesi di riforma in appello della
sentenza definitiva che il giudice di primo grado ha emanato sulla base di una
questione pregiudiziale di rito o di una questione preliminare di merito, il giudice
dell’appello si troverà a dover statuire per le prima volta sulla causa già portata
difronte al giudice di primo grado. Perché verosimilmente il giudice di primo grado
avrà accertato soltanto la questione sulla cui base ha basato la sua sentenza di
rigetto, che poi probabilmente sarà la cd ragione più liquida.

Se siamo d’accordo nel ritenere che difronte al giudice dell’appello possono esser
dedotti non soltanto nuovi fatti costitutivi alternativamente concorrenti rispetto a
quelli già dedotti a fondamento della domanda in primo grado in ipotesi di rapporti
autodeterminati, ma anche fatti costitutivi che vanno a integrare la fattispecie
costitutiva del diritto fatto valere in giudizio, ove l’attore difronte al giudice
dell’appello proceda a una riqualificazione giuridica del rapporto dedotto in
giudizio; oppure fatti modificativi estintivi impeditivi posti a base di eccezioni
rilevabili d’ufficio. Laddove vengano dedotte in giudizio delle nuove prove, sia pure
nei limiti oggi molto severi segnati dall’art 345 terzo comma; ma ancora, laddove
vengano dedotti fatti sopravvenuti o norme sopravvenute, di cui non abbiamo
parlato, ma che il processo civile deve accogliere in qualsiasi momento la parte
interessata ne venga a conoscenza. A questo possiamo aggiungere, ma su questo

397
tor niamo successivamente anticipando qualcosa su cui tor neremo
successivamente, le ipotesi in cui, attraverso l’appello venga denunciata una
nullità che si è verificata in primo grado, con la conseguenza che laddove il giudice
dell’appello accerti che questa nullità, questa eccezione, effettivamente è fondata,
applichi la regola generale di cui all’art 354, e quindi disponga la rinnovazione
difronte a sé degli atti nulli. Quindi significa in tali ipotesi che questi atti saranno
computi in maniera valida nel solo giudizio di appello. Quindi, da questi rilievi
possiamo offrire una risposta al quesito che ci eravamo posti in apertura delle
lezioni dedicate all’appello ed affermare che il principio del doppio grado di
giurisdizione è un principio che trova attuazione soltanto in via tendenziale, nel
senso che ciò che il nostro ordinamento assicura è la appellabilità della sentenza
di primo grado, la possibilità di adire un giudice di secondo grado, un giudice
superiore che può controllare la sentenza di primo grado.

Per quanto riguarda la regole di svolgimento del processo di appello, fin adesso
ci siamo confrontati soltanto con l’art 342 che si occupa della forma dell’atto
introduttivo che è l’atto di citazione. In base all’art 359, che è l’ultima norma tra
quelle che si occupano dell’appello,“nei procedimenti di appello davanti alla corte
o al tribunale, si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per il
procedimento di primo grado davanti al tribunale, se non sono incompatibili con le
disposizioni del presente capo”. Quindi, il giudizio di appello, per tutto ciò che non
è espressamente previsto nelle norme precedenti, all’art 359, tendenzialmente si
applicano le norme dettate con riferimento al processo di primo grado, purché
compatibili.

Allora, intanto ricordiamo che se l’appello è proposto contro sentenze del giudice
di pace la competenza appartiene al tribunale, peraltro il tribunale decide queste
controversie in composizione monocratica, perché nell’art 50 bis che si occupa
delle ipotesi in cui il tribunale decide in composizione collegiale, questo caso non
viene richiamato. Mentre invece, se l’appello è proposto contro le sentenze del
tribunale la competenza appartiene alla corte d’appello. La corte d’appello giudica
in composizione collegiale, i collegi sono composti da tre giudici. La caratteristica
del giudice dell’appello è che la collegialità è una collegialità che investe tutto il
processo, quindi l’intero processo d’appello, dalla fase introduttiva fino alla fase
decisoria si svolge difronte ad un collegio. E in questo il giudizio di fronte alla corte
di appello si distingue nettamente rispetto al giudizio di primo grado che invece
adesso è a trattazione e decisione collegiale come regola generale (lapsus
evidentemente intendeva dire “monocratica”).

L’appello si introduce con l’atto di citazione, redatto nelle rigidissime forme


imposte dall’art 342, atto di citazione che dovrà essere notificato nel rispetto dei
termini ordinari per impugnare a pena di inammissibilità. Se l’appellato a sua volta
vuole proporre appello, perché vi è una ipotesi di soccombenza ripartita, deve
attivarsi e proporre l’appello incidentale a pena di decadenza nella comparsa di
risposta depositata 20 giorni prima della data della udienza. In questo senso si
applicano difronte al giudice dell’appello regole perfettamente corrispondenti a
quelle dettate con riferimento al processo di primo grado.

398
Il giudice deve in via preliminare effettuare una serie di attività e verifiche. La
prima attività che il giudice d’appello effettua è una verifica relativa alla regolare
costituzione del giudizio, quindi dovrà verificare ad esempio la regolarità della
citazione, e \ o della sua notificazione nel caso in cui l’appellato non si sia
costituito. E quindi si potrà applicare in queste ipotesi la disciplina dettata dall’art
164 per la nullità della citazione come atto di vocatio in ius, o l’art 291 se la nullità
investe invece la notificazione dell’atto di appello. Invece, abbiamo già visto
analizzando l’art 342 che, se l’atto di citazione non contiene i motivi di
impugnazione nelle forme imposte dalla stessa disposizione, il giudice dovrà
dichiarare la inammissibilità e se la inammissibilità investe l’intero atto di citazione
in appello, la conseguenza è la chiusura del giudizio di appello e il passaggio in
giudicato della sentenza di primo grado, lo stesso si deve dire con riferimento
all’appello incidentale. Dopodiché il giudice, se il processo di primo grado è stato
un processo litisconsortile dovrà verificare se si tratta di una controversia soggetta
alla disciplina dell’art 331, e quindi se del caso disporre la integrazione del
contraddittorio se manca qualcuno dei litisconsorti necessari, oppure, se si versa
in ipotesi di cause scindibili, ordinare la notifica dell’atto di citazione ai litisconsorti
nei cui confronti la impugnazione non è ancora esclusa ne preclusa. Inoltre dovrà
verificare che non sussista una causa di inammissibilità o improcedibilità che
andremo ad analizzare successivamente.

A seguito della riforma del 2012 il giudice d’appello è chiamato inoltre a effettuare
una ulteriore verifica preliminare applicando il cd filtro in appello, disciplinato
dall’art 348 bis e 348 ter. Che cos’è questi filtro in appello? è una valutazione che il
giudice d’appello effettua in limine litis, quindi nella apertura del processo
d’appello, e che ha ad oggetto la ragionevole probabilità di accoglimento
dell’appello stesso. Se ad esito di questa valutazione in giudice si convince che
l’appello non abbia la ragionevole probabilità di essere accolto, dovrà dichiararne
la inammissibilità, cui conseguono gli effetti di cui all’art 348 ter, che andiamo
adesso a analizzare.

(File 3)

Abbiamo che il legislatore del 2012 ha introdotto il cosiddetto filtro in appello la cui
disciplina è contenuta negli articoli 348bis e 348ter.

Premettiamo che si tratta di un istituto molto infelice. Lo scopo che il legislatore si


era prefisso nel 2012 era quello di introdurre un meccanismo teso ad alleggerire il
carico dei giudici d’appello perché il giudizio d’appello rappresenta l’anello più
debole della catena processuale. I giudizi d’appello hanno una durata abnorme e i
carichi pendenti di fronte alle corti d’appello sono enormi. Da qui l’esigenza di
alleggerire il carico di questi uffici giudiziari. In questa ottica il legislatore del 2012
ha pensato di inserire un meccanismo di filtro che consentisse ai giudici di appello
di chiudere velocemente gli appelli destinati a non trovare accoglimento. Se l’idea
di alleggerire il carico dei giudici d’appello è senza dubbio meritevole di
considerazione, la soluzione trovata si è rivelata molto infelice. E’ noto infatti che
questo istituto in molte corti d’appello non viene utilizzato, la Corte d’Appello di
Firenze ad es. non lo utilizza.

399
Vediamo la disciplina. L’art. 348bis prevede che “Fuori dei casi in cui deve essere
dichiarata con sentenza l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello,
l'impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha
una ragionevole probabilità di essere accolta.Il primo comma non si applica
quando: a) l'appello è proposto relativamente a una delle cause di cui all'articolo
70, primo comma;b) l'appello è proposto a norma dell'articolo 702-quater”. Ci
sono dunque dei casi in cui il filtro per espressa previsione di legge non può
funzionare. Tali casi sono: le cause in cui è previsto l’intervento obbligatorio del
pubblico ministero (rimando all’ art. 70 comma 1) e l’appello proposto contro i
provvedimenti resi a conclusione del procedimento sommario di cognizione. Il
primo comma poi esclude la possibilità che il filtro possa operare anche quando
l’appello è inammissibile o improcedibile. Il filtro è destinato ad operare quando il
giudice ritiene che l’appello non ha una ragionevole probabilità di essere accolto.
Quindi si tratta di una valutazione che riguarda il merito dell’appello stesso. La
disciplina la troviamo nella art. 348 ter. La norma prevede che il giudice nella prima
udienza (rinvio all’art. 350), prima di procedere alla trattazione, sentite le parti,
quindi previa attivazione del contraddittorio, dichiara inammissibile l'appello, a
norma dell'articolo 348-bis, con ordinanza succintamente motivata, anche
mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il
riferimento a precedenti conformi e provvede sulle spese. L'ordinanza di
inammissibilità è pronunciata solo quando sia per l'impugnazione principale che
per quella incidentale di cui all'articolo 333 ricorrono i presupposti di cui al primo
comma dell'articolo 348-bis. In mancanza, il giudice procede alla trattazione di
tutte le impugnazioni comunque proposte contro la sentenza. La dichiarazione di
inammissibilità appare chiaro che può essere emessa dal giudice soltanto dopo
aver attivato il contraddittorio, quindi in prima udienza. E’ fatta con un’ordinanza e,
laddove sia stato proposto sia l’appello principale che l’appello incidentale
(tempestivo o tardivo che sia), solo nel caso in cui il giudice valuti che entrambe le
impugnazioni non abbiano una ragionevole probabilità di essere accolte, altrimenti
procede alla trattazione. Il terzo comma dell’art. 348 prevede che, laddove è
pronunciata l'inammissibilità, in base alla disposizione in esame, è possibile
proporre, a norma dell'articolo 360, ricorso per cassazione contro il provvedimento
di primo grado. In tal caso il termine per il ricorso per cassazione avverso il
provvedimento di primo grado decorre dalla comunicazione o notificazione, se
anteriore, dell'ordinanza che dichiara l'inammissibilità. Si applica l'articolo 327, in
quanto compatibile. Quando l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni inerenti
alle questioni di fatto poste a base della decisione impugnata, il ricorso per
cassazione, di cui al comma precedente, può essere proposto esclusivamente per
i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 4 del primo comma dell’art. 360. La disposizione
di cui al quarto comma si applica, fuori dei casi di cui all'articolo 348bis, secondo
comma, lettera a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello
che conferma la decisione di primo grado.

A seguito dell’emanazione dell’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità


dell’appello che il giudice ha ritenuto non avere ragionevole probabilità di essere
400
accolto, il terzo comma dell’art. 348 ter prevede che è possibile proporre ricorso
per cassazione contro la sentenza di primo grado. Salvo precisare però che se
l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni relative alle questioni di fatto poste a
base della decisione impugnata non è possibile proporre ricorso per cassazione ai
sensi del numero 5 dell’art 360. Ci torneremo quando parleremo del ricorso per
cassazione.

E’ un meccanismo molto infelice per diversi motivi. Osserviamo che il legislatore


ha previsto la dichiarazione di inammissibilità, che è una sanzione di solito
utilizzata per vizi relativi ad errores in procedendo, vizi formali, legandola invece ad
una valutazione di merito perché il presupposto dell’ordinanza dichiarativa di
inammissibilità è evidentemente la non ragionevole probabilità che l’appello venga
accolto.Si ha quindi una deviazione rispetto a quella che è la disciplina generale.
E’ un’ipotesi un po’ bizzarra di inammissibilità. Inoltre, in tutti i casi in cui un
appello viene dichiarato inammissibile si ha il passaggio in giudicato della
sentenza impugnata, invece in questa ipotesi si prevede che, a seguito della
dichiarazione d’inammissibilità, la sentenza di primo grado può essere impugnata
direttamente in cassazione con ricorso. Questa è una deviazione da tutti i principi
generali dell’ordinamento processuale perché il rito del processo d’impugnazione
in genere consolida la sentenza impugnata mentre qua miracolosamente la
sentenza impugnata può essere portata di fronte all’organo ancora superiore, la
suprema corte. Naturalmente un meccanismo di questo tipo fa sì che la parte che
sente di aver subito un’ingiustizia proporrà il ricorso in cassazione e abbiamo già
avuto modo di precisare che in questo momento, se vogliamo assicurare che la
corte di cassazione possa assolvere la funzione di nomofilachia che l’art. 65 della
legge sull’ordinamento giudiziario le affida, è molto importante ridurre il numero dei
ricorsi e questa è quindi una previsione che va contro questa esigenza.
Successivamente, nonostante che la disposizione preveda espressamente che il
giudice pronunci l’inammissibilità con ordinanza, si è posta immediatamente la
questione relativa al se questa ordinanza sia suscettibile di impugnazione che non
può che essere il ricorso per cassazione. All’indomani dell’entrata in vigore di
queste norme, subito si è posta la questione. Le parti hanno subito proposto il
ricorso per cassazione, si sono formati due orientamenti contrapposti. Nel 2016
sono intervenute le Sezioni Unite affermando che l’ordinanza dichiarativa
dell’inammissibilità emessa ai sensi dell’art. 348ter è un provvedimento che, pur
avendo la forma dell’ordinanza, ha però un contenuto decisorio e definitivo perché
va a incidere su posizioni di diritto e in quanto tale l’ha ritenuta suscettibile di
ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 della Costituzione, laddove si prevede
che tutte le sentenze sono suscettibili di ricorso per cassazione, dove la
giurisprudenza, fin dagli anni 50, ritiene che quel termine sentenza sia riferito non
ai provvedimenti in forma di sentenza ma ai provvedimenti aventi il contenuto di
sentenza. Quindi, a seguito di questa ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità,
cosa succede? Contro l’ordinanza stessa può essere proposto ricorso
straordinario per cassazione per denunciare non la valutazione del giudice, che
non è suscettibile di controllo da parte della suprema corte, ma la pretesa
401
violazione dei limiti entro cui l’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità può
essere emanata. Quindi per violazione di quanto previsto nell’articolo 348bis.
Contemporaneamente può essere proposto ricorso ordinario per cassazione, ai
sensi dell’art. 360 del codice di procedura civile, contro la sentenza di primo
grado. Naturalmente i due ricorsi dovranno essere riuniti e trattati congiuntamente.
Si crea così un panorama complesso. E’ per questo che i giudici e molte corti
d’appello non utilizzano questo strumento perché crea situazioni di difficile
gestione, senza contare la difficoltà di capire che cos’è questa valutazione di non
ragionevole probabilità di essere accolta. Qual è il grado di fondatezza? Qui si apre
la possibilità di interpretazioni anche molto diverse l’una dall’altra e sono
interpretazioni che vanno a incidere sul diritto d’azione della parte che dovrebbe
essere sganciato dalla probabilità di accoglimento, come ben sappiamo. L’errore
che ha fatto il legislatore del 2012 è quello di non rendersi conto che l’ordinamento
già prevedeva uno strumento che poteva consentire di alleggerire il carico degli
uffici giudiziari. Nel 2011 era stata apportata una modifica molto importante alla
disciplina dell’appello. Il legislatore del 2011 ha modificato la disciplina del
processo di appello innestando nell’appello, nell’ultimo comma dell’art. 352 e
nell’ultimo comma dell’art. 351,la possibilità per il giudice di emanare la cosiddetta
sentenza contestuale. C’è infatti un rinvio all’art. 281sexies per cui il giudice, se si
rende conto che la causa, già in prima udienza, o addirittura prima della prima
udienza, è matura per la decisione, invita le parti a precisare le conclusioni di
fronte a sé e emana sentenza in udienza, dando lettura vuoi del dispositivo, vuoi
della motivazione. Siccome l’ordinanza dichiarativa della inammissibilità di cui agli
art. 348bis e 348ter, che è pensata per gli appelli infondati, deve essere emanata in
udienza, dopo che il giudice ha sentito le parti, è evidente che non c’è nessun
risparmio di tempo rispetto alla possibilità di chiudere il processo in udienza
attraverso l’emanazione della sentenza contestuale che non dà luogo a tutte quelle
complicazioni che invece si aprono laddove viene utilizzato e applicato il filtro in
appello. La sentenza contestuale è infatti una sentenza ordinaria suscettibile di
ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360. Quindi molte corti d’appello
deliberatamente non utilizzano gli art. 348bis e 348ter. Nell’ultimo progetto di
riforma che il ministro della giustizia ha presentato, si prevedeva l’abolizione di
questo istituto, e credo che non lo rimpiangerà nessuno perché è complicatissimo
e non serve a niente.

Fatta questa precisazione torniamo al processo d’appello e vediamo le attività che


il giudice va a compiere. Nella prima udienza il giudice, oltre alle verifiche su cui ci
siamo già soffermati, svolge anche un’ulteriore attività. Infatti valuterà la richiesta
di sospensione della esecutività della sentenza di primo grado che verosimilmente
l’appellante avrà presentato. L’art. 282 del codice di procedura civile ha introdotto
la regola della provvisoria esecutiva ex lege della sentenza di primo grado. In base
all’art. 337 primo comma, l'esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto
dell'impugnazione di essa, questa norma ha di fatto soppresso il cosiddetto effetto
sospensivo dell’appello, che è una delle caratteristiche tradizionali dell’appello.
Però la parte che propone impugnazione, e qui ci riferiamo non solo all’appello
402
principale ma anche a quello incidentale, in base all’art. 283 del codice di
procedura civile, quando sussistono gravi e fondati motivi, anche in relazione alla
possibilità' di insolvenza di una delle parti, può chiedere al giudice dell’appello di
sospendere in tutto o in parte l'efficacia esecutiva o l'esecuzione della sentenza
impugnata, con o senza cauzione. Verosimilmente, l’appellante principale o
incidentale, se impugna una sentenza provvisoriamente esecutiva, proporrò
questa istanza, l’istanza di inibitoria. Da notare che il legislatore del 2011 ha
integrato l’art. 283 con un secondo comma, il quale stabilisce che, se l’istanza di
sospensione (cosiddetta inibitoria) è inammissibile o manifestamente infondata, il
giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l’ha
proposta ad una pena pecuniaria non inferiore ad euro 250 e non superiore ad
euro 10.000. L’ordinanza è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio.
Questa una tagliola pesante che mette in guardia le parti contro richieste
inammissibili o manifestamente infondate.

Dove è che il giudice va a trattare la richiesta di inibitoria? La regola generale è


fissata dall’ art. 351 al primo comma, dove si prevede che sull'istanza presentata a
norma dell’art. 283 il giudice provvede con ordinanza non impugnabile nella prima
udienza. Nei successivi commi dell’art. 351 è però prevista la possibilità che la
parte chieda, con ricorso al giudice, che la decisione sulla sospensione sia
pronunciata prima dell'udienza di comparizione. Davanti alla corte d'appello il
ricorso è presentato al presidente del collegio. In questa ipotesi la norma, nel terzo
comma, prevede che il presidente del collegio o il tribunale, con decreto in calce al
ricorso, fissa la data di un’udienza precedente alla prima udienza, per la
comparizione delle parti in camera di consiglio, rispettivamente. Con lo stesso
decreto, se ricorrono giusti motivi di urgenza, può disporre provvisoriamente
l'immediata sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza;
in tal caso, all'udienza successiva in camera di consiglio il giudice, conferma,
modifica o revoca il decreto con ordinanza non impugnabile. In base all’ultimo
comma della disposizione, il giudice, all’udienza prevista dal primo comma, se
ritiene la causa matura per la decisione, può provvedere ai sensi dell’articolo 281-
sexies. Se per la decisione sulla sospensione è stata fissata l’udienza anticipatoria
su richiesta di parte, in questo caso il giudice fissa apposita udienza per la
decisione della causa nel rispetto dei termini a comparire.

(file 4) Con riferimento alla pronuncia del giudice d’appello riguardo alla richiesta di
inibitoria, è necessario notare che per l’ordinanza emanata ai sensi del primo
comma dell’art. 351, quindi in udienza, la norma non ci dice alcunché in ordine
all’impugnabilità o meno, e quindi la dovremmo ritenere soggetta al regime dei
provvedimenti cautelari perché la pronuncia sulla inibitoria è tipicamente una
misura cautelare e come tale suscettibile di essere revocata e modificata da parte
del giudice che l’ha emanata, ai sensi dell’art. 669deces. Con riferimento invece
alla ordinanza emanata a conclusione della eventuale udienza fissata in data
anteriore alla prima udienza su istanza di parte perché ricorrono gravi motivi, ci
dice la disposizione che questa ordinanza non è impugnabile. Questa diversità di
403
regime è una diversità del tutto irragionevole. C’è una evidente disparità di
trattamento tra le due ipotesi che invece riguardano lo stesso tipo di
provvedimento emanato in due momenti diversi del processo. Per questo motivo
una interpretazione costituzionalmente orientata di questa previsione porta a
disapplicare l’inciso non impugnabile contenuto in questa parte della norma.

Torniamo al procedimento d’appello. Una volta effettuate le attività fin qui


descritte, quindi una verifica sulla regolare instaurazione del giudizio d’appello e la
pronuncia sull’inibitoria e l’applicazione del filtro in appello, se non è necessario
svolgere attività istruttoria, oppure, in ogni caso, laddove, il giudice d’appello rileva
questioni di rito o di merito che sono idonee a definire il giudizio per cui ritiene che
la causa sia già matura per le decisioni, il giudice può immediatamente in udienza
invitare le parti a precisare le conclusioni e il processo si avvia verso la fase
decisoria. E’ possibile che anche in appello venga disposta l’assunzione di prove.
E’ un caso raro ma il giudice d’appello lo può fare, in caso in cui sia stata
censurata la sentenza di primo grado nella parte in cui, ad es., l’appellante afferma
che il giudice di primo grado, erroneamente, illegittimamente, non ha assunto una
prova o la prova è stata assunta in maniera illegittima, non conforme a quanto
previsto dalle legge. Può farlo anche nel caso in cui sia stata ammessa una nuova
prova, pur nei limiti strettissimi del terzo comma dell’art. 345, o nel caso in cui il
giudice disponga d’ufficio l’acquisizione di un mezzo di prova, oppure nel caso
che venga disposta, in base all’art. 356, comma 1 seconda parte, la rinnovazione
totale o parziale dell'assunzione già avvenuta in primo grado, cosa che anche in
questo caso determina l’apertura di una fase istruttoria. Chiusa l’eventuale
assunzione delle prove, il giudice invita le parti a precisare le conclusioni ed il
processo entra nella fase decisoria. A mente dell’art. 352, la fase decisoria avviene
con richiamo alla disciplina dettata con riferimento al processo che si svolge di
fronte al tribunale perché la norma dispone che, esaurita l'attività prevista negli
articoli 350 e 351, il giudice, ove non provveda a norma dell'articolo 356, invita le
parti a precisare le conclusioni e dispone lo scambio delle comparse conclusionali
e delle memorie di replica a norma dell'articolo 190. Dopodiché si prevede che la
sentenza è depositata in cancelleria entro sessanta giorni dalla scadenza del
termine per il deposito delle memorie di replica. In base al secondo comma, se
l'appello è proposto alla corte di appello, ciascuna delle parti, nel precisare le
conclusioni, può chiedere che la causa sia discussa oralmente dinanzi al collegio.
In tal caso, fermo restando il rispetto dei termini indicati nell'articolo 190 per il
deposito delle difese scritte, la richiesta deve essere riproposta al presidente della
corte alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. Il
presidente provvede sulla richiesta fissando con decreto la data dell'udienza di
discussione da tenersi entro sessanta giorni e la sentenza viene depositata entro i
sessanta giorni successivi. Nelle successive parti della disposizione si trova la
disciplina relativa al giudizio di appello che si svolge di fronte al tribunale. Da
segnalare l’ultimo comma dell’art. 352 che innesta nel giudizio d’appello la
sentenza contestuale di cui all’art. 281sexies, frutto dell’intervento normativo del
legislatore nel 2011.

404
Soffermiamoci un attimo anche sull’intervento del terzo in appello disciplinato
dall’Art. 344 per ricordare che il codice ammette soltanto l’intervento volontario del
terzo, quindi è escluso l’intervento coatto su istanza di parte o per ordine del
giudice. In base all’art. 344 nel giudizio d'appello è ammesso soltanto l'intervento
dei terzi che potrebbero proporre opposizione a norma dell'articolo 404. Secondo
un’opinione assolutamente pacifica possono intervenire volontariamente in appello
anche i disconsorti necessari pretermessi e il terzo successore a titolo particolare
nel diritto controverso di cui all’art. 111 del codice di procedura civile. Per quanto
riguarda i terzi che sono legittimati a proporre opposizione di terzo, si ritiene
pacificamente che possono intervenire i terzi titolari di diritti autonomi e
incompatibili, e in questo caso l’entrata nel processo del terzo comporta un
ampliamento dell’oggetto dell’appello e quindi si ha un’ulteriore deroga al principio
del doppio grado di giurisdizione, qui la scelta si ritiene comunque comprensibile
considerando che il terzo, anche se proponesse opposizione di terzo ordinaria, ai
sensi dell’art. 404 primo comma, comunque perderebbe un grado di giudizio. Poi
vi è la possibilità che esperiscano intervento i terzi legittimati all’opposizione di
terzo revocatoria, quindi i terzi titolari di diritti giuridicamente dipendenti, e in
questo caso non si pone alcun problema con riferimento a questa ipotesi perché il
terzo non propone una domanda ma entra nel processo chiedendo che il rapporto
giuridico pregiudiziale pendente fra le parti venga accertato anche nei propri
confronti. La giurisprudenza da molti anni porta avanti un orientamento in base al
quale il terzo titolare di un diritto giuridicamente dipendente può intervenire solo
facendo valere il dolo e la collusione a suo danno delle parti. Sono i presupposti
dell’opposizione di terzo revocatoria, quindi questo intervento viene ricostruito
come un’opposizione di terzo revocatoria esercitata in forma incidentale. Andiamo
ora ad esaminare le possibili invalidità che si possono verificare nel giudizio di
appello perché le scelte che sono state fatte del legislatore, ma anche in parte
dalla giurisprudenza, divergono rispetto al regime generale, previsto nel codice di
procedura civile, in particolare nel primo libro, il quale ha scelto come forma
generale di invalidità quella della nullità, che come sappiamo è attenuata da una
serie di meccanismi tesi ad eliminarla. Ricordiamo i meccanismi di convalidazione
oggettiva, soggettiva e l’ordine di rinnovazione che il giudice, rilevata una nullità
non sanata, deve disporre. I vizi che si possono verificare in appello sono vizi che
danno luogo a forme di invalidità molto rigide che non ammettono alcuna forma di
sanatoria. Questa scelta si giustifica con il fatto che nel momento in cui la
controversia arriva in appello c’è già una sentenza di primo grado e
tendenzialmente sarà una sentenza di merito e quindi il sistema ha già offerto una
risposta alla domanda di tutela, per questo motivo si giustifica l’adozione di una
disciplina diversa.

Cominciamo dall’atto introduttivo del processo. Il processo d’appello si introduce


con atto di citazione che deve contenere i medesimi requisiti di forma/contenuto
previsti per l’atto di citazione introduttivo del processo di primo grado. Se manca
uno dei requisiti relativi alla vocatioius deve ritenersi senz’altro nullo e come tale
soggetto alla disciplina dell’art. 164. Con riferimento invece a difetti che riguardano
405
i requisiti relativi alla editioactionis, oggi, secondo quella che è l’interpretazione
preferibile, dobbiamo ritenere che questo tipo di vizio rientri nella previsione
dell’art. 342 laddove stabilisce che la mancanza dei motivi di impugnazione
determina la inammissibilità, ha come sanzione la inammissibilità. E’ chiaro quindi
che i motivi di impugnazione sono volti a delimitare l’oggetto qualitativo e
quantitativo dell’appello e, a fronte del testo dell’art. 342, all’indomani della riforma
del 2012, dobbiamo ritenere che queste ipotesi rientrino nell’ambito di questa
previsione. Si ha inammissibilità dell’atto di appello anche se i motivi
d’impugnazione non sono redatti nelle forme indicate nell’art. 342. In questa
ipotesi la giurisprudenza applica la regola secondo cui il giudice deve valutare ogni
singolo motivo separatamente dagli altri per cui è possibile che la sanzione di
inammissibilità copra soltanto uno o alcuni dei più motivi che l’appellante ha fatto
valere. Tutto ciò vale anche con riferimento alla comparsa di risposta contenente
l’eventuale appello incidentale della parte appellata. Con riferimento alla
inammissibilità ci sono altre ipotesi. Questa forma di inammissibilità è limitata
perché colpisce solo uno o alcuni dei motivi dell’atto di appello e di conseguenza
questi motivi non potranno essere trattati dal giudice d’appello ma lo potranno
essere i motivi annessi. Ci sarà quindi la dichiarazione di inammissibilità di alcuni
dei motivi d’appello e seguirà il passaggio in giudicato delle corrispondenti parti di
sentenza. Ci sono ipotesi in cui l’inammissibilità va a colpire l’intero appello e di
conseguenza a ciò segue il passaggio in giudicato dell’intera sentenza di primo
grado. L’appello è inammissibile in ipotesi di causa inscindibile o dipendente, art.
331, allorquando il giudice ha disposto l’ordine di integrazione del
contraddittorioentro un termine perentorio e nessuna delle parti provvede. E’
inammissibile quando viene proposto oltre la scadenza dei termini ordinari
d’impugnazionedi cui agli art. 325 e seguenti, o dopo che la parte ha prestato a
quiescenza ai sensi dell’art. 329 primo o secondo comma. E’ inammissibile se
viene proposto contro una sentenza inappellabile nei casi indicati dall’art. 339 e,
con riferimento all’appello incidentale, si ha inammissibilità anche se questo è
proposto oltre il termine di cui all’ art. 343. In base all’art. 334 è necessario
ricordare che laddove l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, anche
quella incidentale tardiva perde efficacia. Sono altresì inammissibili le eventuali
domande nuove, avanzate per la prima volta dinanzi al giudice dell’appello in base
all’art. 345 primo comma. La conseguenza della inammissibilità è fissata dall’art.
358 nella non riproponibilità dell’atto di appelloe di conseguenza del passaggio in
giudicato della precedente sentenza anche se non sono nel frattempo ancora
decorsi i termini per appellare. A questo punto è diventata un’ipotesi di scuola ma
è importante ricordarselo. Laddove l’intero appello viene dichiarato inammissibile,
nei casi appena richiamati, la sentenza d’appello non produce il suo effetto
sostitutivo perché passa in giudicato la sentenza precedente. Un altro vizio che è
previsto con riferimento all’appello è la improcedibilità, disciplinata nell’ art. 348, il
quale stabilisce che l’'appello è dichiarato improcedibile, anche d'ufficio, se
l'appellante non si costituisce nei termini oppure laddove l'appellante non
compare alla prima udienza, benché si sia anteriormente costituito, e non compare
406
neppure alla successiva udienza fissata dal il collegio, con ordinanza non
impugnabile. Anche con riferimento all’appello procedibile l’art. 358 stabilisce che
non può essere riproposto, anche se non è decorso il termine fissato dalla legge.
Queste due ipotesi, mancata costituzione e mancata comparizione dell’appellante,
sono soggette ad una disciplina molto più rigida rispetto a quella stabilita con
riferimento agli stessi casi laddove questi si presentino nel giudizio di primo grado.
Infatti la mancata costituzione dell’attore è regolata dall’art. 171 a tenore del quale,
intanto egli conserva la possibilità di costituirsi in prima udienza laddove il
convenuto si sia regolarmente costituito e, laddove questi non si costituisca
neppure in udienza, si prevede che, su richiesta del convenuto, il processo possa
andare avanti nella contumacia dell’attore, oppure si prevede che se il convenuto
non è interessato nella prosecuzione del processo, il processo si estingua. La
sanzione dell’estinzione è una sanzione molto meno grave della improcedibilità
perché la improcedibilità determina la chiusura del processo ed il passaggio in
giudicato della sentenza precedente mentre l’estinzione non estingue l’azione e
quindi consente l’apertura di un successivo secondo processo tra le stesse parti
avente lo stesso contenuto. Se l’improcedibilità riguarda solo l’appello principale e
la controparte ha proposto appello incidentale, questo appello incidentale può
andare avanti laddove è stato proposto nella comparsa di risposta
tempestivamente depositata. Quanto alla mancata comparizione dell’appellante,
sia esso principale o incidentale, anche nella seconda udienza all’uopo fissata, qui
il legislatore ha previsto l’improcedibilità dell’appello, mentre invece con
riferimento al primo grado si prevede che il processo possa proseguire in assenza
della parte oppure si prevede l’estinzione ai sensi dell’art. 181 secondo comma e
anche in questo caso evidentemente si tratta di una conseguenza molto meno
pesante rispetto a quella esaminata. Anche con riferimento all’appello
improcedibile vale l’osservazione secondo cui l’appello non può produrre il proprio
effetto sostitutivo.

(file 5) LEZIONE 21 FILE 5

Una ulteriore ipotesi di chiusura di rito del processo di appello è la sua eventuale
estinzione. Il giudizio d’appello si piò estinguere per gli stessi motivi già previsti
con riferimento al processo di primo grado. SI può avere estinzione per rinuncia
agli atti del giudizio oppure per inattività delle parti. La dichiarazione di estinzione è
prevista nell’art. 338, in cui si legge che “fa passare in giudicato la sentenza
impugnata, salvo che ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti
pronunciati nel procedimento estinto”. La regola generale è che anche la
dichiarazione di estinzione determina il passaggio in giudicato della sentenza di
primo grado ma l’art. 338 prevede una eccezione importante. Si prevede la
possibilità che nel corso del processo d’appello, quindi prima che ne venga
dichiarata l’estinzione, il giudice abbia emanato provvedimenti che impediscono
alla sentenza di primo grado di diventare immutabile. Si tratta di chiarire a quali
ipotesi la norma fa riferimento. Si deve escludere la possibilità che il giudice abbia
già emesso sentenza definitiva perché questa preclude la possibilità che il giudizio
407
possa estinguersi. Non può trattarsi neppure di una ordinanza istruttoria, ma la
stessa ordinanza che si pronuncia sull’istanza inibitoria, ai sensi dell’art. 351,
perché all’indomani della sospensione della efficacia esecutiva o dell’esecuzione
di sentenza di primo grado in processo di appello si estingue certamente
l’ordinanza inibitoria perde la sua efficacia. I provvedimenti a cui fa riferimento l’art.
338 sono le sentenze non definitive di merito emanate dal giudice dell’appello, ma
non tutte. E’ necessario distinguere la casistica. Supponiamo che la sentenza di
primo grado fosse una sentenza di rigetto basata su una questione preliminare di
merito idonea a definire il giudizio e che il giudice ha ritenuto fondata e
supponiamo che il giudice abbia rigettato la domanda accogliendo l’eccezione di
prescrizione. Supponiamo che questa sentenza venga impugnata da parte
dell’attore e supponiamo che il giudice dell’appello con senza non definitiva
dichiari che l’eccezione di prescrizione non è fondata. Siamo di fronte ad una
sentenza non definitiva d’appello che è in grado di incidere sull’effetto della
sentenza di primo grado per cui se, all’indomani, dell’emanazione di questo
provvedimento, il processo di appello si estingue, la sentenza non definitiva, di
riforma della sentenza appellata, impedisce alla sentenza di primo grado di
passare in giudicato, perché ormai è già stata riformata. Ci sono però dei casi in
cui la sentenza non definitiva di merito non è idonea a riformare la sentenza di
primo grado, per cui, in caso di estinzione del processo di appello, si applica la
regola generale, quindi si ha il passaggio in giudicato della sentenza precedente.
Supponiamo che la sentenza di primo grado abbia accolto la domanda di
adempimento del contratto, che venga proposto appello, che in appello venga
sollevata l’eccezione di nullità del contratto e che il giudice, con sentenza non
definitiva, dichiari l’eccezione di nullità non fondata. Questa sentenza non è idonea
a riformare e modificare la sentenza impugnata, per cui, se poi si verifica
l’estinzione del processo d’appello, si avrà, in applicazione della regola generale, il
passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.

Vediamo adesso in generale i provvedimenti che possono essere emanati da parte


del giudice dell’appello. In base alla regola generale fissata dall’art. 359 si
applicano, in quanto compatibili, le disposizioni già previste per il processo di
fronte al tribunale. Siccome non si rinvengono nelle disposizioni di cui agli art. 339
e seguenti norme che disciplinano la forma e il contenuto dei provvedimenti del
giudice d’appello, si applicano le regole generali. Il giudice d’appello, che, ove il
processo di svolga di fronte alla corte d’appello, è sempre un collegio, emanerà
ordinanza laddove assume delle misure di tipo ordinatorio, quindi ad es. laddove
emana provvedimenti istruttori, ad es. laddove provvede in ordine alla assunzione
delle prove nuove che sono state richieste dalle parti oppure laddove dispone la
rinnovazione totale o parziale delle prove già acquisite in primo grado ai sensi
dell’art. 356. Il giudice d’appello invece pronuncia sentenza nei casi previsti ancora
oggi dal secondo comma dell’art. 379, quindi può emanare sentenze non definitive
sia con riferimento a questioni pregiudiziali di rito astrattamente idonee a definire il
giudizio, sia sentenze non definitive di merito avendo ad oggetto cioè questioni
preliminari di merito, anche queste astrattamente idonee a definire il giudizio,
408
sempre che non ritenga di chiudere il processo. Per quanto riguarda le sentenze
definitive si distinguono:

• le sentenze di rito, inerenti al giudizio d’appello

• le sentenze di rito relative a vizi del procedimento o della sentenza di


primo grado

• le sentenze di merito

Cominciamo con l’esame delle sentenze di rito basate su motivi che riguardano il
giudizio d’appello. Il giudice d’appello accetta il difetto di requisiti formali o
extraformali che sono richiesti perché il procedimento d’appello possa portare alla
emanazione di una nuova decisione sul merito. Si può trattare di sentenze che
dichiarano, per es., la inammissibilità, la improcedibilità, la estinzione del giudizio
di appello, nei casi appena esaminati. Come già notato si tratta di sentenze che
non producono l’effetto sostitutivo, anzi, determinano il passaggio in giudicato
della sentenza impugnata, per cui è la sentenza di primo grado che acquisterà
l’autorità della cosa giudicata, ai sensi dell’art. 2209 del codice civile. Le altre
sentenze definitive possono essere sentenze di conferma o di riforma della
sentenza impugnata.

Analizziamo le sentenze di conferma. Il giudice dell’appello statuisce sul rapporto


o sulla frazione di rapporto che gli è stata devoluta attraverso l’appello principale e
incidentale oppure statuisce sull’esistenza o meno di un requisito extraformale
nello stesso senso stabilito dal giudice di primo grado. Questo può avvenire sulla
base di percorsi diversi, per esempio il giudice dell’appello può ritenere infondati
tutti i motivi d’appello, oppure anche se ritiene fondati alcuni dei motivi di appello,
ritiene di confermare la statuizione del giudice di primo grado ad es. sulla base di
eccezioni che in primo grado non erano state accolte e che sono state riproposte
ai sensi dell’art. 346, o nuove eccezioni introdotte ai sensi dell’art. 345 secondo
comma, o nuove prove introdotte ai sensi dell’art. 345 terzo comma. Oppure una
nuova soluzione della questioiurische è stata denunciata dalle parti e che il giudice
ha risolto su indicazione delle parti o utilizzando il principio iuranovit cura quindi
autonomamente. Oppure, laddove ha disposto la rinnovazione degli atti nulli ai
sensi dell’ultimo comma dell’art. 354 che vedremo successivamente. E’
importante ricordare che la sentenza di appello di conferma della precedente
sentenza produce il suo effetto sostitutivo, quindi, anche se nel dispositivo la
sentenza si limita a stabilire che l’appello è rigettato e si conferma tutto quanto già
previsto dal giudice di primo grado, è la sentenza d’appello che contiene la
disciplina del rapporto giuridico controverso tra le parti. La sentenza d’appello va a
sostituire comunque la sentenza di primo grado che quindi scompare dal mondo
giuridico. Questo è molto importante da ricordare anche in riferimento al ricorso
per cassazione.

Passiamo ora alle sentenze di riforma. Queste possono riguardare motivi di rito
afferenti al processo o alla sentenza di primo grado oppure motivi di merito.
Cominciamo dalle sentenze di riforma basate su motivi di rito relativi al giudizio di
primo grado. Può trattarsi di motivi relativi alla giurisdizione, alla competenza
oppure ad un altro error in procedendo che si è verificato nel corso del processo di
409
primo grado. Dobbiamo fare delle distinzioni perché gli effetti di queste sentenze
possono essere molto diversi a seconda della casistica.

Cominciamo dalla giurisdizione. Supponiamo che venga impugnata in appello la


sentenza declinatoria della giurisdizione, emanata dal giudice di primo grado.
Questa è una sentenza suscettibile di appello ove il giudice dell’appello la riformi,
disporrà, in base al disposto dell’art. 353, la remissione della causa di fronte al
giudice di primo grado. Si tratta infatti di una delle ipotesi, tassativamente previste
dalla legge, in cui il giudice d’appello, accolto l’appello e disposto l’annullamento
della sentenza impugnata, rimette le parti di fronte al giudice di primo grado,
quindi si ricomincia da capo. Invece una sentenza di appello che riforma una
sentenza di merito per difetto di giurisdizione, quindi il giudice di primo grado si
era ritenuto fornito di giurisdizione, si era pronunciato sul merito, ma il giudice
dell’appello ritiene che ci sia un difetto di giurisdizione, è una sentenza meramente
rescindente. Quindi il giudice d’appello si limita ad annullare la precedente
sentenza e contro questa precedente sentenza potrà essere proposto ricorso per
cassazione.

Passiamo adesso alla competenza. Se il giudice di primo grado aveva declinato la


propria competenza con ordinanza declinatoria di competenza, già sappiamo che
l’unico rimedio esperibile è il regolamento necessario di competenza, ai sensi
dell’art. 42 del codice di procedura civile, per cui non si pone un problema di
appello, a meno che non si tratti del giudice di pace. Se invece la sentenza
d’appello dichiara che la sentenza di primo grado contiene l’accertamento della
competenza e la pronuncia sul merito, sappiamo che le parti hanno la possibilità di
proporre regolamento facoltativo di competenza, sarà il convenuto, oppure
avranno la possibilità di proporre appello, il convenuto se è rimasto sappiamo
parzialmente soccombente (richiamo al regolamento facoltativo di competenza). In
ogni caso può essere proposto appello. Se il giudice d’appello ritiene che non
sussisteva la competenza del giudice di primo grado, si fa applicazione della
disciplina ordinaria. Intanto si avrà la caducazione anche della pronuncia sul merito
perché si tratta di una parte della sentenza che dipende dall’accertamento della
competenza, quindi si applica il primo comma dell’art. 336. Dopodiché il giudice
d’appello indica il giudice competente e le parti potranno riassumere la causa
dinanzi ad esso in base alla disciplina generale di cui all’art. 50. Quindi la sentenza
ha un contenuto meramente rescindente e la successiva causa rescissoria si
svolgerà di fronte al giudice di primo grado che è competente. La corte d’appello
che riforma la sentenza di primo grado dovrà contenere l’indicazione del giudice
competente. Una disciplina leggermente diversa si ha nell’ipotesi in cui l’ordinanza
sulla competenza sia emessa dal giudice di pace. Infatti in base all’art. 46 con
riferimento ai giudizi davanti al giudice di pace non trovano applicazione gli art. 42
e 43. Questo significa che, se il giudice di pace ha emanato un’ordinanza
declinatoria di competenza può essere proposto appello contro questo
provvedimento. Se il tribunale la riforma e ritiene quindi che il giudice di pace sia
competente, deve rimettere la causa davanti al giudice di pace ai sensi dell’art. 50.
Al contrario, se il giudice di pace si è affermato competente, ha pronunciato sul
410
merito, e il provvedimento viene impugnato di fronte al tribunale e questi ritiene
che il giudice di pace non fosse competente ma ritiene di essere lui stesso
competente, deve trattenere la causa e deciderla. Con riferimento a tutti gli altri
errores in procedendo, relativi al giudizio di primo grado e fatti valere in appello,
dobbiamo individuare le ipotesi eccezionali in cui, in applicazione degli art. 353 e
354, il giudice d’appello, rilevato il vizio, deve annullare la sentenza impugnata e
rimettere le parti di fronte al giudice di primo grado, dalla regola generale che
troviamo fissata nell’ultimo comma dell’art. 354, laddove si legge che il giudice
d’appello dichiara la nullità dei fatti compiuti in primo grado e ordina, in quanto
possibile, la rinnovazione di fronte a sé degli atti nulli. Vediamo dunque quali sono
le ipotesi di remissione della causa di fronte al giudice di primo grado. Si tratta di
ipotesi tassative che non sono suscettibili di essere applicate in via analogica e
non sono suscettibili di interpretazione estensiva. L’art. 353 fa riferimento alla
remissione al primo giudice per ragioni di giurisdizione. Le altre ipotesi le troviamo
invece nell’art. 354. I casi richiamati sono: dichiarazione di nullità della
notificazione della citazione introduttiva del giudizio di primo grado, oppure
mancata indicazione del contraddittorio in ipotesi di disconsorzio necessario (art.
102), erronea estromissione di una parte (art. 108 e 109), oppure nullità o
inesistenza della sentenza di primo grado per difetto di sottoscrizione a norma
dell'articolo 161 secondo comma.Il secondo comma dell’art. 354 prevede poi la
remissione della causa al primo giudice anche nel caso di riforma della sentenza
che ha pronunciato sull'estinzione del processo a norma e nelle forme dell’art.
308. Si tratta di ipotesi tassative quindi non suscettibili di essere ampliate. E’ da
sottolineare l’incongruenza della legge processuale nella misura in cui prevede che
la nullità della notifica dell’atto di citazione comporta, se rilevata in appello, la
remissione della causa di fronte al giudice di primo grado, mentre invece la nullità
del sotto atto di citazione relativo alla vocatio in iusche ha la stessa funzione della
notifica dell’atto di citazione, è sempre attivazione del contraddittorio, è soggetto
alla regola generale. Quindi, il giudice d’appello deve, annullata la sentenza
impugnata, disporre la rinnovazione degli atti di fronte a sé. E’ questa
un’incongruenza che non può essere superata in via interpretativa, si tratta
semplicemente di attenuarla nei termini a suo tempi approfonditi. Quanto invece
ai vizi relativi all’atto di citazione di primo grado come atto di editioactionis, se
rilevati dal giudice dell’appello, questi dovrà necessariamente annullare la
sentenza precedente e chiudere in rito il processo. In questo casi si ritiene che non
possa trovare applicazione l’ultimo comma dell’art. 354 stante il divieto di
proposizione di domande nuove di fronte al giudice dell’appello sancito dall’art.
345 primo comma. Ugualmente il giudice deve disporre ogni volta che rileva il
difetto di un requisito extra formale che non è suscettibile di sanatoria. Ad es.
nell’ipotesi in cui venga rilevato il difetto di legittimazione ad agire, il difetto di
interesse ad agire, oppure laddove rilevi il mancato perfezionamento di un
meccanismo di sanatoria che, se rilevato dal giudice di primo grado, avrebbe
comportato la chiusura in rito del processo di primo grado. Ad es. nell’ipotesi in
cui il giudice di primo grado rilevato il difetto di un litis consorte necessario abbia
411
disposto l’ordine d’integrazione del contraddittorio entro un termine perentorio e,
nonostante che nessuna delle parti abbia ottemperato tempestivamente, abbia
proseguito il processo e si sia pronunciato sul merito. In tutte queste ipotesi il
giudice non potrà fare altro che annullare la sentenza impugnata ed emanare una
pronuncia meramente rescindente

(file 6) Ci mancano da esaminare le sentenze definitive di riforma basate su


motivi di merito. Quindi, il giudice si pronuncia sulla esistenza o non esistenza del
rapporto, o della frazione di rapporto giuridico che gli è stata devoluta dalla parte
in senso opposto rispetto a quanto accertato dal giudice precedente.

Anche in questo caso questo può essere il frutto di situazioni diverse, per
esempioil giudice ritiene di risolvere in maniera difforme le questioni di fatto che
sono state oggetto dei motivi di impugnazione valutando diversamente le stesse
prove o disponendo l’assunzione di nuove prove ove ammesse in base all’art 345
comma terzo. Oppure il giudice risolve diversamente la questio iuris che è stata
espressamente censurata, quindi decide di applicare alla fattispecie una diversa
norma giuridica indicata dall’appellante o indicata dal giudice sulla base del
principio iura novit curia.

Naturalmente il diverso esito di merito può esser causato anche dagli elementi di
novità introdotti nel giudizio di appello, quindi le nuove eccezioni passate
attraverso il secondo comma dell’art 345; oppure l’esame di fatti sopravvenuti,
della legge sopravvenuta; oppure a seguito della avvenuta disposizione della
rinnovazione di atti nulli compiuti nel giudizio di primo grado. Naturalmente in tutti
questi casi, la sentenza d’appello produrrà il suo pieno effetto sostitutivo.

412
Lezione 23 - 29/05/20

Ricorso per Cassazione:

Il termine “ricorso per cassazione” è polivalente perché lo si usa per indicare vuoi il
mezzo di impugnazione, vuoi l’atto attraverso il quale si adisce la suprema corte.
Questo ricorso investe la corte suprema di Cassazione, organo di vertice del
sistema delle impugnazioni. 

Abbiamo già menzionato l’art. 65 ordinamento giudiziario il quale attribuisce alla


corte di cassazione varie funzioni, la più importante consiste nell’assicurare
l’esatta osservanza e uniforme interpretazione della legge e, in seconda battuta,
garantire l’unità del diritto oggettivo nazionale. L’altra funzione molto importante è
quella relativa alla vigilanza sul rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni e la
regolamentazione dei conflitti di competenza e attribuzione. 

La corte di cassazione è un organo unitario che ha sede a Roma, in quanto tale


esercita la sua giurisdizione con riferimento all’intero territorio statale. 

Come vediamo dall’art. 65 la funzione più importante è la funzione nomofilattica:


quella di assicurare che ogni giudice dell’ordinamento applichi e interpreti la legge,
sia essa la legge sostanziale o la legge processuale, in maniera uniforme. In
questo senso il compito svolto dalla suprema corte è quella di assicurare che tutti i
giudici applichino e interpretino la legge in maniera uniforme. 

I giudici devono non solo conoscere la legge così come formalmente espressa, ma
devono anche tenere conto dell’interpretazione giudiziaria che della legge viene
offerta, della cd giurisprudenza. In questo senso si dice che la corte di cassazione
regola la giurisprudenza. Si capisce allora il motivo per cui si è soliti ritenere che,
mentre l’appello svolge una funzione di garanzia soggettiva perché il cittadino può
denunciare al giudice d’appello qualsiasi forma di ingiustizia e di invalidità della
sentenza di primo grado; la funzione svolta dal ricorso per cassazione è diversa
perché la funzione primaria svolta dal ricorso per cassazione è una funzione di
garanzia  oggettiva, lo scopo del ricorso per cassazione risponde a un interesse
generale: è l’interesse di unificare la giurisprudenza, anche se la funzione di
garanzia soggettiva non le è estranea perché il ricorso per cassazione come regola
generale, viene proposto dalla parte rimasta soccombente ad esito del giudizio di
appello. 

Questa funzione di garanzia oggettiva si correla sicuramente alla garanzia


costituzionale di uguaglianza dei cittadini, quindi all’art. 3 comma 2 cost., perché,
affinché l’uguaglianza sostanziale dei cittadini venga assicurata, è importante che
casi analoghi, anche se portati davanti a giudici diversi, abbiano lo stesso esito. 

Siccome il nostro ordinamento si compone di una serie di norme generali e


astratte, è possibile che i diversi giudici, in casi analoghi, di fronte a disposizioni
che talvolta non sono chiare, talvolta presentano lacune o disposizioni in contrasto
l’una con l’altra o che contengano clausole generali che rendano necessaria
l’opera di interpretazione del giudice, arrivino a conclusioni difformi. 

413
Lo scopo della corte di cassazione è proprio quello di evitare tutto ciò, ecco
perché si dice che la sua sia una funzione oggettiva diretta a dare attuazione a un
principio costituzionale: l’uguaglianza dei cittadini.

La sentenza della corte di cassazione peraltro vincola il giudice del processo al cui
interno è stata resa, vedremo che talvolta è la stessa cassazione che chiude il
processo, talvolta non lo può fare perché a seguito dell’accoglimento del ricorso si
rendono necessarie attività istruttorie che la corte non può compiere e quindi
dovrà delegarle a un altro giudice, e i giudici del processo al cui interno è stato
presentato il ricorso per cassazione sono vincolati al dictum della corte, al
provvedimento della corte.

Le pronunce della corte di cassazione svolgono anche una funzione  didattica,


persuasiva  nei confronti di altri giudici dell’ordinamento che però, non sono però
vincolati perché l’art. 101 co. 2 cost prevede che il giudice è soggetto solo alla
legge. 

Vediamo quali sono le disposizioni previste dalla legge che confermano questa
funzione di garanzia oggettiva svolta dalla corte di cassazione che la distingue
dagli altri mezzi di impugnazione. Intanto l’art. 70 comma 2 cpc prevede l’obbligo
intervento del pubblico ministero nel processo davanti alla corte di cassazione. Il
pm è un magistrato che porta l’interesse pubblico nel processo necessariamente
prende parte al processo di cassazione in tutti i casi. 

In seconda battuta possiamo richiamare l’istitutore del ricorso per cassazione


nell’interesse della legge, art. 363 c.p.c. in cui si prevede che “Quando le parti non
hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il
provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il
Procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte
enunci nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito
avrebbe dovuto attenersi.” E’ questo il ricorso nell’interesse della legge. 

La legittimazione è attribuita al procuratore generale presso la corte di cassazione,


quindi al pm. 

E’ evidente dal primo comma che il ricorso presentato nell’interesse della legge è
un ricorso di cui le parti non possono giovarsi perché si fa riferimento a ipotesi in
cui il ricorso per cassazione non è proponibile o non è più proponibile dalle parti.
Le ipotesi peraltro sono state ampliate a seguito della riforma del 2006 che ha
allargato l’ambito applicativo di questo istituto che si ritiene possa svolgere una
funzione importante. Infatti questo ricorso può essere proposto quando le parti
ormai hanno fatto decorrere i termini per proporre ricorso per cassazione o vi
hanno rinunciato oppure quando il provvedimento non è ricopribile per cassazione
e non è altrimenti impugnabile. si tratta di un’iniziativa di cui le parti non possono
giovarsi. Questo istituto è volto a soddisfare un interesse pubblico perché lo scopo
è che la corte di cassazione enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al
quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi. Lo scopo dunque è quello di
eliminare una possibile non corretta interpretazione della legge, nel far emergere
un precedente della corte che possa guidare la giurisprudenza successivamente. 

414

Affinché la corte possa svolgere in maniera adeguata la propria funzione


nomofilattica si rendono necessarie alcune condizioni. Abbiamo già visto che la
corte di cassazione è un organo unitario e questa unitarietà è stata attuata nel
1923, perché precedentemente esistevano 5 corti di cassazioni regionali: la corte
di cassazione aveva una sede a Torino, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e nel 1923
fu unificata e la sede stabilita a Roma. 

La prima condizione affinché la suprema corte possa assolvere alla sua funzione è
che il numero dei collegi giudicante e giudici sia ridotto al minimo. Il modello che
possiamo richiamare è quello della Corte Suprema degli Stati Uniti che assomiglia
alla nostra corte costituzionale quindi un collegio ristretto che giudica sempre nella
stessa composizione —> questa sarebbe la condizione per eccellenza per
assicurare la funzione nomofilattica perché questo assicurerebbe continuità nella
giurisprudenza della Corte di cassazione. Così non è: i giudici addetti alla corte di
cassazione nelle sezioni civili sono più di 150, i collegi sono numerosi e sappiamo
che anche la giurisprudenza della cassazione non è così lineare. 

La seconda condizione indispensabile sarebbe quella di  limitare al massimo il


numero dei ricorsi per cassazione, le occasioni in cui la corte interviene. Non
corrisponde alla realtà dell’ordinamento italiano perché abbiamo una disposizione
nella Cost. art. 111 che prevede la garanzia del ricorso per cassazione per tutte le
sentenze (torneremo su questo successivamente). 

Il fatto è che a fronte di questo numero abnorme di ricorsi è impensabile andare a


toccare l’organico della corte di cassazione e, di fatto, anche se la corte è molto
produttiva, il fatto è che il numero dei ricorso sopravvenuti è sempre molto
superiore rispetto a quelli che la corte riesce a definire, quindi il risultato è che di
fronte alla corte di cassazione c’è un arretrato di almeno 4 anni di lavoro. Quali
sono le cause di questa situazione?

Oltre all’art. 111 cost. ci sono una serie di ipotesi in cui la sentenza di primo grado
è definita dalla legge come “non impugnabile” -> questo è un grande problema
perché i provvedimenti che non possono essere impugnati in appello vengono
impugnati davanti alla corte di cassazione. La funzione svolta dall’appello è quella
di filtro davanti alla Cassazione, è nell’appello che il cittadino dà sfogo alle proprie
esigenze di garanzia soggettiva, quindi se si trova privato dell’appello, ovviamente
questo sfogo avviene davanti alla corte suprema. Anche se taluno vorrebbe abolire
l’appello considerato anello debole della sistema della giustizia civile, abolire
l’appello vuol dire paralizzare la corte di cassazione perché il numero di ricorsi
aumenterebbe a dismisura. 

Un altro elemento che non aiuta a diminuire il numero di ricorsi per cassazione è
l’inabilità della corte ad assicurare orientamenti continuativi. Spesso le diverse
sezioni della corte di cassazione si contraddicono, si pronunciano in maniera
opposta con riferimento alla medesima questione e questo rappresenta un
incentivo a proporre ricorso per cassazione perché, anche anche a fronte di un
orientamento che è sfavorevole, la parte si spera sempre che il proprio affare
415
venga attribuito  una sezione che disattenda il precedente orientamento.

La crisi della corte di cassazione è fonte di ulteriori crisi, quindi c’è un circolo
vizioso presso la corte di cassazione.

A fronte di questo quadro la soluzione della profonda crisi in cui versa il ricorso per
cassazione è strettamente legato alla possibilità di introdurre dei  meccanismi di
selezione dei ricorsi, quindi dando alla corte la possibilità di pronunciarsi solo
laddove la questione posta è una questione di interesse generale. L’ostacolo a
questa possibilità è rappresentato dal disposto dell’art. 111 cost. che al 7 comma
prevede la garanzia del ricorso per cassazione contro tutti i provvedimenti resi in
forma di sentenza. 

La situazione di profonda crisi in cui versa la corte di cassazione è senz’altro da


imputare al numero enorme di ricorsi proposti davanti ad essa. Ogni anno vengono
presentati infatti dai 30-40.000 ricorsi. La corte riesce a smaltirne un numero
maggiore rispetto a quelli sopravvenuti, ma la pendenza è enorme; si calcola che i
ricorsi pendenti davanti alla corte, se non ci fossero ricorsi nuovi, richiederebbero
comunque 3\4 anni di lavoro. Quali sono le cause di questo stato?

Sono varie. Innanzitutto il  gran numero di provvedimenti che possono essere
impugnati in cassazione e dall’altro lato è la stessa giurisprudenza che incentiva la
proposizione del ricorso. 

In terzo luogo possiamo richiamare anche il numero di avvocati cassazionisti.

Andiamo a vedere prima gli ultimi due motivi e poi i provvedimenti suscettibili di
ricorso. 

Abbiamo visto quante volte la corte contraddice i propri orientamenti, le varie


sezioni risolvono la medesima questione in modo difforme, spesso le stesse
sezioni unite si contraddicono intervenendo sulla medesima questione a pochi
anni di distanza. Questo rappresenta un incentivo alla proposizione del ricorso per
cassazione perché c’è sempre la speranza di trovare una sezione e un collegio che
disattenda i precedenti.

Per quanto riguarda l’altro elemento richiamato, l’elevatissimo numero di avvocati


cassazionisti, purtroppo la legge professionale italiana consente a qualsiasi
avvocato che abbia maturato 15 anni di esercizio della funzione di ottenere
l’abilitazione all’esercizio della funzione davanti alle giurisdizioni superiori. Il
numero di cassazionisti italiani è enorme, sono migliaia e questo, messo    a
confronto con quello che avviene in altri ordinamenti, stupisce molto: pensiamo
che il numero dei cassazionisti in Franca non arriva a 100, in Germania sono 140.
Sono numeri inferiori rispetto al numero in Italia, eppure presentare un ricorso per

416
cassazione è un lavoro completamente diverso che proporre una impugnazione
davanti al giudice, ma su questo torneremo. 

Il problema più grande è da fissare nell’elevato numero di provvedimenti che sono


suscettibili di ricorso per cassazione. Ci stiamo occupando del ricorso ordinario
per cassazione, che è un mezzo ordinario e, in base all’art. 360 comma 1, sono
suscettibili di ricorso per cassazione le sentenze pronunciate in grado d’appello o
in unico grado. Il numero di sentenze pronunciate in unico grado è abbastanza
elevato, alcune le abbiamo esaminate come la sentenza che decide
sull’opposizione agli atti esecutivi, art. 617 ss. altri numerosi sono previsti
nell’ambito di leggi speciali.

Accanto al ricorso ordinario per cassazione c’è anche il ricorso straordinario per
cassazione  che è un rimedio che passa attraverso la previsione dell’art. 111
comma 7 a seguito della riforma del 1999 che ha integrato il contenuto dell’art.
111 con tutte le garanzie che abbiamo esaminato. Ovvero la parte dell’art 111 che
stabilisce che “Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale,
pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso
ricorso in Cassazione per violazione di legge.”

Laddove la norma parla di ricorso per cassazione contro le sentenze si ritiene


pacificamente che il riferimento sia alle sentenze emanate nel corso, a conclusione
del processo civile. 

Cosa si intende per sentenza? 

Dobbiamo fare un passo indietro e porci in una prospettiva storica.


Nell’immediatezza dell’entrata in vigore della carta costituzionale il controllo di
legittimità costituzionale era svolto dalla corte di cassazione, questo perché la
corte costituzionale, a cui la carta affida la funzione di verifica della costituzionalità
della legge, non era stata istituita. La legge istitutiva della corte cost. è una legge
del 1953 e la corte costituzionale è entrata in funzione nel 1956. Fino a quel mento
la verifica di costituzionalità è stata svolta dalla corte di cassazione che svolgeva
in quel momento svolgeva la funzione di una corte suprema: si vedeva affidata da
una parte la funzione nomofilattica (assicurare l’esatta e uniforme interpretazione
del diritto), dall’altra effettuava un controllo di costituzionalità. 

In questa sua veste la corte di cassazione si occupò dell’art. 111 e si trovò nella
condizione di dover chiarire il termine “sentenza” qua utilizzato. La corte subito
aderì a un’interpretazione di tipo sostanziale, affermando cioè che per sentenza
deve intendersi non un provvedimento reso in forma di sentenza (che reca
l’intestazione sentenza), ma  qualsiasi provvedimento che a prescindere dal sua
forma ha il contenuto di sentenza, ovvero è relativo a situazioni di diritto ed    ha
l’attitudine ad acquistare la qualità di cosa giudicata formale e sostanziale. 

Questa interpretazione in quel momento storico era probabilmente corretta perché


aderire a una nozione formale di sentenza avrebbe certamente messo in pericolo
la garanzia del ricorso per cassazione perché il legislatore, attribuendo a un

417
provvedimento una forma diversa dalla sentenza, avrebbe facilmente potuto
bypassare il controllo in cassazione. Quindi la soluzione era corretta, anche se, a
detta di molti, la corte di cassazione aveva in un certo senso abusato di questo
principio, era stata larga nel definirne l'ambito applicativo poiché vi aveva
compreso una serie di provvedimenti rilasciati a conclusione di procedimenti che
si erano volti in forme sommarie, che avevano la forma dell’ordinanza e del
decreto e che, in base alla legge, avrebbero dovuto avere semplicemente efficacia
esecutiva, quindi avrebbero dovuto essere considerati come provvedimenti privi di
attitudine al giudicato. Invece, in quel momento, però prevalse l’orientamento
secondo cui, trattandosi di provvedimenti relativi a situazioni di diritto, doveva
essere garantito la suscettibilità del provvedimento di acquistare l’autorità di cosa
giudicata e, di conseguenza, il ricorso per cassazione. Quindi su questa
operazione parte della dottrina non era d’accordo. 

Quando però, nel 1956 è entrata in funzione la corte costituzionale e quindi fu


questa ad assumere il controllo della verifica della legittimità delle disposizioni di
legge, la corte di cassazione avrebbe dovuto limitarsi a verificare la non manifesta
infondatezza della questione di costituzionalità con riferimento a norme di legge
che prevedevano, con riferimento situazioni di diritto, l’emanazione di
provvedimenti resi in forme diverse dalla sentenza. Infatti la corte di cassazione in
quel momento, come giudice ordinario, avrebbe dovuto rispettare quanto previsto
dall’art. 23 della legge istitutiva della corte costituzionale laddove si prevede che
per le questioni di legittimità costituzionale di una legge, rilevata d’ufficio o dalle
parti, dinanzi a un’autorità giurisdizionale, questa, ove ritenga la questione
rilevante e non manifestamente infondata, deve rimettere la questione alla corte
costituzionale e sospendere il processo in attesa della decisione della corte
costituzionale.

La corte di cassazione avrebbe dovuto fare applicazione di questa disposizione di


legge molto chiara, invece questa, anche all’indomani dell’entrata in funzione della
corte costituzionale ha continuato a ritenere immediatamente applicabile la
garanzia dell’art. 111 del ricorso per cassazione per violazione di legge contro tutti
i provvedimenti, anche diversi della sentenza, che fossero relativi a diritti e
avessero attitudine al giudicato, cioè avessero i requisiti della decisorie e
definitività, senza sentirsi obbligata a rimettere alla corte costituzionale la
disposizione che a suo avviso andava interpretata nel senso di escludere il ricorso
per cassazione. 

Questa prassi deve essere valutata in maniera negativa perché così la corte di
cassazione ha privato la corte cost. della possibilità di esaminare le singole
disposizione di legge ordinaria che, ad avviso della corte di cassazione,
escludevano il ricorso per cassazione per violazione di legge con riferimento a

418
provvedimenti decisori e definitivi e che, in quanto tale, dovevano essere ritenute
costituzionalmente illegittime. 

Questa interpretazione, quindi, portata avanti dalla corte di cassazione a partire


dagli anni ’50, se nel momento in cui è sorta aveva una sua ragion d’essere, dopo
l’entrata in vigore della corte cost. sicuramente non lo aveva più. Anche perché
bisogna tenere in considerazione la circostanza che la garanzia del ricorso per
cassazione, prevista dall’art. 111 è una garanzia che deve essere interpretata in
maniera difforme con riferimento al processo civile, rispetto al processo penale.
Infatti l’art. 111 estende il ricorso per cassazione sia ai provvedimenti resi sulla
libertà personale, sia con riferimento alle sentenze. Nella parte in cui fa riferimento
ai provvedimenti sulle libertà personali è chiaro il collegamento dell’art. 111 con
l’art. 27 co. 2 cost secondo cui l’imputato non è considerato colpevole fino alla
sentenza definitiva per cui il ricorso per cassazione finisce per svolgere una
insopprimibile funzione di garanzia soggettiva.

Così non è nell’ambito del processo civile perché qui l’esecutività della sentenza è
sempre stata sganciata dal passaggio in giudicato della stessa. Anche prima della
riforma del ’90 la legge stabiliva che era la sentenza di appello ad essere
provvisoriamente esecutiva, quindi era un momento necessariamente anteriore al
passaggio in giudicato della sentenza. Ora poi dal 1990 sappiamo che, a mente di
quanto previsto dall’art. 282 cpc è addirittura la sentenza di primo grado che
nasce provvisoriamente esecutiva. Quindi nell’ambito del processo civile il ricorso
per cassazione svolge una funzione di garanzia oggettiva, cioè svolge una
funzione di garanzia nell’interesse pubblico alla eliminazione di un’interpretazione
inesatta della legge. 

Questa consapevolezza dovrebbe indurre gli operatori a riflettere sulla


interpretazione che è portata avanti dalla corte di cassazione distinguendo il
processo civile da quello penale.

Andiamo ad analizzare il rapporto che corre tra corte di cassazione e le altre


magistrature superiori. La corte di cassazione viene comunemente indicata
come  suprema corte, ma bisogna chiarire la posizione che viene ad assumere
perché se torniamo all’art. 111 comma 8 troviamo che “Contro le decisioni del
Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i
soli motivi inerenti alla giurisdizione.” 

Quindi la corte di cassazione a mente di questa disposizione chiaramente svolge


la funzione nomofilattica con riferimento limitato ai provvedimenti emanati dai
giudici ordinari e dai giudici speciali diversi dal consiglio di Stato Corte dei conti
perché è evidente che le decisioni emesse da Consiglio di Stato e Corte dei conti
possono sì essere impugnate in cassazione ma solo per motivi di giurisdizione.
Quindi con riferimento alla giurisdizione amministrativa e giurisdizione contabile
sono rispettivamente il Consiglio di Stato e Corte dei conti a svolgere la funzione
nomofilattica. 

419
Questa scelta crea dei grandi problemi. Dobbiamo infatti ricordare che se per un
lungo periodo di tempo, e ci riferiamo in particolare al rapporto tra giudice
ordinario e amministrativo, le due giurisdizioni erano tendenzialmente separate nel
senso che, mentre il giudice civile era chiamato a trattare la controversie che
opponevano il privato alla pubblica amministrazione e che mettevano in gioco
posizioni di diritto soggettivo pertanto applicando il codice civile e le leggi civili, il
giudice amministrativo era chiamato a trattare le controversie che vedevano
opposto il cittadino alla PA laddove il cittadino si faceva portatore di situazioni di
interesse legittimo e quindi il giudice amministrativo applicava le leggi
amministrative che regolano il potere della pubblica amm. Nell’ultimi decennio del
XX sec. ci sono stati dei grandissimi cambiamenti perché il legislatore ha
progressivamente aumentato gli ambiti della cd  giurisdizione esclusiva, quelle
materie in cui il giudice amm. si vede affidato in via esclusiva il contenzioso che
può sorgere tra cittadino e pubblica amm., a prescindere dal se sono in gioco
posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo, controversie che interessano
rapporti spesso regolati dal codice civile. 

Quindi, a seguito di questa evoluzione, i due giudici si trovano spesso ad applicare


le stesse norme anche sul piano processuale perché il legislatore spesso ha
innestato nel processo amm. istituti del codice di procedura civile (es. sistema
cautelare). E’ successo quindi che con riferimento alle stesse norme la funzione
nomofilattica è assicurata dalla corte di cassazione se vengono applicate dal
giudice civile, e dal Consiglio di Stato se vengono applicate dal giudice
amministrativo. Il tutto non giova alla nomofilachia, alla funzione di assicurare
l’esatta e uniforme interpretazione del diritto. Sono considerazioni che dovrebbe
far riflettere il legislatore che dovrebbero portare a una revisione della carta
costituzionale e dei rapporti che intercorrono tra le diverse giurisdizioni. 

SECONDA PARTE

RAPPORTI FRA CASSAZIONE E CORTE COSTITUZIONALE

Abbiamo già anticipato che dall'entrata in vigore della costituzione fino al 1956,
anno in cui entrò in funzione la Corte Costituzionale, la corte di Cassazione aveva
svolto non soltanto la funzione di nomofilachia ma anche il controllo di
costituzionalità della legge sulla falsariga di quanto già accadeva per le corti
supreme di altri ordinamenti. In questo periodo storico, si ha nell'ordinamento, una
forma di controllo di costituzionalità diffuso fra i giudici comuni, quindi la corte di
Cassazione si trovò a svolgere un ruolo simile a quello per es svolto dalla corte
federale statunitense. Quando entrò in funzione la corte costituzionale, la
situazione cambiò, perché i due organi di vertice avrebbero dovuto svolgere
funzioni diverse: l'una l'assicurare l'esatta ed uniforme interpretazione del diritto;
l'altro il controllo di costituzionalità.

Questo riparto di funzioni può rivelarsi meno netto di quanto si possa immaginare.

420
Abbiamo già menzionato il principio della applicazione diretta delle norme
costituzionali da parte del giudice. Il giudice è chiamato oggi a giudicare non
soltanto sulla non manifesta infondatezza delle questioni di costituzionalità orma di
sollevare il conflitto davanti alla corte costituzionale, ma spesso è chiamato in
sede di interpretazione di una norma di legge ad offrire una interpretazione in via
adeguatrice col dettato costituzionale, evitando l'intervento della corte. Da parte
sua, la Corte Costituzionale, interpreta le norme di legge sottoposte al suo
controllo, quindi, laddove svolge una funzione interpretativa (pensate alle sentenze
interpretative emanate dalla corte cost) invade il campo che l'art 65 ord giudiz
attribuisce in via esclusiva alla Cassazione. Questo problema di riparto dei compiti
assegnati alle due corti supreme si è delineato: mentre alla corte di Cassazione
spetta il compito di individuare l'esatta interpretazione della legge; alla Corte Cost
spetta il controllo di ciò che la legge, così come interpretata dal giudice ordinario,
sia conforme alla Costituzione. Ciò che la corte Cost dovrebbe controllare è il
diritto vivente consolidatosi sulla base dei diversi interventi della Cassazione.

Naturalmente, questa situazione presuppone che il diritto vivente si sia formato,


cioè che dal momento in cui una norma entra in vigore, si sia formata
quell'interpretazione consolidata rimessa poi al controllo della corte Cost. Fino a
qualche anno fa, questo distacco temporale è stato rispettato, perché prima che la
Corte Cost emanasse la propria decisione potevano passare anche 4/5 anni
poiché l'arretrato davanti alla corte era enorme, e questo offriva spazio al formarsi
di una giurisprudenza da parte della corte di Cassazione. Nel 1988/1989, la corte
Cost è riuscita ad abbattere in maniera molto significativa il proprio arretrato,
soprattutto grazie al presidente della corte che ha riorganizzato il lavoro della
corte. La conseguenza è stata che la corte Cost ha notevolmente compresso i
tempi della sua decisione, mettendosi nella condizione di pronunciarsi a distanza
di 6/7 mesi da quando la questione è stata sollevata. E questo ha portato a
situazioni in cui la corte Cost si è trovata a pronunciarsi su questioni di
costituzionalità con riferimento a leggi appena entrate in vigore senza che ci fosse
il tempo che si formasse una giurisprudenza consolidata e senza che sul punto
fosse già intervenuta la Cassazione.

DISCIPLINA PROCESSUALE RICORSO PER CASSAZIONE

E' un mezzo di impugnazione a motivi limitati. A differenza di quanto abbiamo


verificato con riferimento all'appello art 242, il ricorso per cassazione può essere
presentato solo per i motivi indicati dalla legge indicati in via tassativa all'art 360
cpc. Con riferimento al carattere di questo mezzo di impugnazione, dobbiamo dire
che gli interventi che si sono verificati negli ultimi anni ne hanno profondamente
modificato la struttura. Oggi, secondo l'interpretazione preferibile, la norma
fondamentale per chiarire l'oggetto del ricorso per cassazione è l'art 384 cpc
laddove si prevede che “la corte quando accoglie il ricorso, se non sono necessari
ulteriori accertamenti di fatto, decide del merito”. Il legislatore ha utilizzato il tempo
presente che, a livello normativo, è sempre indicativo di un obbligo (deve decidere

421
nel merito). Questa è la norma che ci consente di stabilire che oggi il ricorso per
cassazione è un mezzo di impugnazione che ha ad oggetto il rapporto giuridico
controverso, seppur nei limiti in cui gli viene devoluto delle parti, poiché il
meccanismo dell'acquiescenza tacita qualificata art 329 c. 2 opera anche nel
passaggio dall'appello al ricorso per cassazione.

Ci sono però delle particolarità, perché il giudizio di cassazione si apre sempre con
una fase RESCINDENTE, in cui la corte valuta la fondatezza del motivo o dei
motivi di ricorso e, laddove il motivo sia ritenuto fondato, annulla (cassa) la
sentenza impugnata e, se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, si
pronuncia sul merito.

Si apre così la FASE RESCISSORIA → non sempre si svolge davanti alla corte di
cassazione poiché, se sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la corte
rinvierà la causa al giudice del rinvio, che non è altro che un giudice delegato dalla
corte di cassazione che svolge le attività necessarie ai fini della pronuncia sul
merito della controversia, e che la corte stessa non può svolgere per motivi
istituzionali (es attività istruttoria).

Cominciamo con qualche puntualizzazione circa i provvedimenti che possono


essere impugnati. Art 360 c.1 ci ricorda che “possono essere impugnate in
cassazione le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado”, e il c.2
prevede che “possono essere impugnate con ricorso per cassazione anche le
sentenze appellabili del tribunali se le parti sono d'accordo per omettere l'appello,
ma in tal caso l'impugnazione può proporsi solo a norma del c. 1 n3”.

Quindi il ricorso per cassazione può essere presentato:

1. contro le sentenze d'appello

2. sentenze pronunciate in unico grado → quelle che in base all'art 339 la


legge dichiara non appellabili.

3. Ricorso per saltum → le parti si accordano per saltare l'appello e andare


direttamente di fronte alla Cassazione, ma qui il ricorso può essere
presentato solo per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e di
contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro. È il motivo di ricorso più
importante.

Non sono invece immediatamente impugnabili in Cassazione le sentenze non


definitive emanate dal giudice dell'appello su questioni preliminari di merito o
pregiudiziali di rito che non definiscono, neppure parzialmente, il giudizio. Queste
sentenze ex art 360 c.3 possono essere impugnate senza necessità di formulare la
riserva, unitamente alla sentenza che definisce anche parzialmente il giudizio.

MOTIVI DEL RICORSO: art 360

n.1 → le sentenze richiamate possono essere impugnate con ricorso davanti alla
Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione. Questo n.1 art 360 va inteso
come un richiamo alle questioni di giurisdizione di cui all'art 37 cpc nonché alle
disposizioni contenute nella legge di riforma del diritto internazionale privato e
422
processuale del 1995. quindi le questioni che possono essere denunciate ex n.1
sono:

· difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della PA;

· difetto di giurisdizione del GO nei confronti dei giudici speciali;

· difetto della giurisdizione italiana.

Sono le uniche ipotesi che passano attraverso il n.1. Nella prassi accade però che
altri vizi vengano denunciati attraverso sempre questo n.1: per esempio il principio
di corrispondenza fra chiesto e pronunciato; la violazione del principio della
domanda; la violazione del precedente giudicato sostanziale. Queste non sono
questioni di giurisdizione, possono sicuramente essere portate davanti alla
Cassazione, ma attraverso del n.4. Il motivo per cui si fanno passare per il n. 1 è
infatti il tentativo di applicare a queste fattispecie gli altri istituti che l'ordinamento
prevede per le questioni di giurisdizione, cioè il regolamento di giurisdizione di
cui all'art 41, ma anche l'esigenza di estendere l'ambito del controllo della
Cassazione nei confronti delle decisioni emesse dal consiglio di stato e dalla corte
dei conti che ex art 111 c.8 cost, possono essere impugnati in Cassazione solo
per motivi attinenti alla giurisdizione.

Ricordiamoci che la a questione di giurisdizione può arrivare in Cassazione


attraverso 2 percorsi; noi adesso stiamo vedendo la strada del ricorso ordinario in
Cassazione, ma la questione di giurisdizione può arrivare in Cassazione anche
attraverso il regolamento di giurisdizione art 41.

N.B. Il regolamento di giurisdizione non è un mezzo d'impugnazione ma è


un'istanza che le parti possono proporre finché il giudice non emana sentenza
(intesa anche quella non definitiva) per il cui tramite le parti possono investire la
corte suprema della questione di giurisdizione durante il processo e probabilmente
anche in una fase anticipata, in modo che la questione sia risolta una volta per
tutte, perché le questioni di giurisdizione della corte di Cassazione vincola tutti i
giudici e sopravvive anche all'eventuale estinzione del processo.

Per quanto riguarda il contenuto dei provvedimenti che la corte adotta nel caso
in cui venga proposto ricorso ai sensi del n.1 e venga accolto il ricorso, l'art 382 c.
1 stabilisce che “la corte, quando decide una questione di giurisdizione, statuisce
su questa, determinando quando occorre il giudice competente”, e questa hp si
applicherà con riferimento al rapporto fra giudice ordinario e giudici speciali. Il c.3
art 382 prevede che : “se riconosce che il giudice del quale si impugna il
provvedimento e ogni altro difettano di giurisdizione, cassa senza rinvio”. È l'hp che
si applica negli altri 2 casi in cui la corte accerta il difetto di giurisdizione del
giudice ordinario nei confronti della PA, cioè i casi in cui viene accertato che il
cittadino ha fatto valere nei confronti della PA una situazione di mero fatto; oppure
laddove accerta il difetto della giurisdizione italiana.

Per capire meglio le situazioni che si possono prospettare davanti alla corte e i
provvedimenti che la stessa è chiamata ad emanare, occorre distinguere: i casi in
423
cui viene proposto ricorso in cassazione contro una sentenza che, previo
accertamento della giurisdizione, si è pronunciata sul merito; da quelli in cui viene
impugnata la sentenza declinatoria di giurisdizione, quella in cui il giudice si è
dichiarato non fornito di giurisdizione e pertanto non ha deciso il merito.

Come abbiamo detto precedentemente, prendiamo innanzitutto in considerazione


l'hp in cui venga accolto il ricorso presentato avverso la sentenza in cui il giudice,
previo accertamento della propria giurisdizione, si è pronunciato sul merito. Se la
corte accoglie il ricorso, dichiara il difetto di giurisdizione, dopodiché, qualora si
tratti di difetto di giurisdizione del giudice civile nei confronti della PA o del giudice
italiano, si applica l'art 382 c.3 → la Cassazione emette una sentenza di
Cassazione senza rinvio, non esiste un giudice che possa pronunciarsi si quella
sentenza. Abbiamo un provvedimento che rescinde la sentenza impugnata.

Se invece il ricorso per difetto di giurisdizione del giudice civile nei confronti del
giudice speciale o viceversa viene accolto, si applica l'art 382 c.1: la corte
suprema statuisce sulla giurisdizione, così come previsto anche dall'art 65 dell'ord
giudiziario nella parte in cui assegna alla Cassazione il compito di assicurare il
rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni. La Cassazione cassa la sentenza e
indica il giudice fornito di giurisdizione, e questo accertamento è vincolante nei
confronti di ogni giudice di fronte a cui viene riproposta la stessa domanda.

Se invece viene accolto il ricorso per la sentenza per il cui tramite il giudice ha
declinato la propria giurisdizione, quindi non ha deciso il merito, se la corte
accoglie il ricorso, accerta la giurisdizione del giudice civile. Se viene impugnata la
sentenza d'appello e la corte accoglie il ricorso, questa dovrà cassare la sentenza
impugnata e dovrà rinviare:

- al giudice dell'appello se il giudice di primo grado, accertata la giurisdizione,


si era pronunciato sul merito, quindi è la sentenza d'appello che ha annullato
la sentenza di primo grado affermando il difetto della giurisdizione ordinaria
(si applica l'art 383 c.1)

- laddove anche il giudice di primo grado aveva declinato la propria


giurisdizione e questo accertamento era stato confermato a parte del
giudice dell'appello, allora il giudice di cassazione, cassa con rinvio al
giudice di primo grado. Questo in applicazione dell'art 383 c.3 prevede che:
“la corte, se riscontra una nullità del giudizio di primo grado per la quale il
giudice d'appello avrebbe dovuto rimettere le parti al primo giudice, rimette
le parti davanti a quest'ultimo”. La corte fa quello che avrebbe dovuto fare il
primo giudice: rimette le parti davanti al giudice di primo grado.

Se la corte rigetta la questione perché la ritiene infondata, la sentenza passa in


giudicato, almeno con riferimento alla statuizione relativa alla giurisdizione.

n.2 → impugnazione per violazione di norme sulla competenza quando non è


prescritto il regolamento di competenza.

Questa precisazione ci ricorda che i provvedimenti che hanno la forma


dell'ordinanza che si pronunciano solo sulla competenza, sono suscettibili di
424
essere impugnati solo attraverso regolamento necessario di competenza ex art 42,
che al contrario di quanto appena ricordato per il regolamento di giurisdizione, è
un mezzo di impugnazione ordinario per il cui tramite il provvedimento che si
pronuncia solo sulla competenza viene impugnato direttamente in cassazione a
prescindere da chi l'ha emessa.

Il ricorso in Cassazione presentato ai sensi del n.2 dell'art 360 è anch'esso un


mezzo di impugnazione ordinario che consente di portare davanti alla Cassazione
la sentenza che si è pronunciata non soltanto sulla competenza, ma anche sul
merito.

Quali sono le differenze che separano il regolamento necessario di competenza


dal ricorso ordinario ai sensi del n. art 360? vi ricordate che il regolamento di
competenza deve essere presentato entro 30 gg dalla comunicazione della
sentenza, che avviene ad iniziativa dell'ufficio e si tratta semplicemente di un
biglietto che contiene il dispositivo della sentenza art 47 c.2 cpc.

Il ricorso per Cassazione è invece soggetto al termine di 60gg ai sensi dell'art 325
c.2 laddove la sentenza sia stata notificata o 6 mesi laddove non sia stata
notificata, per cui i 6 mesi decorrono dalla pubblicazione della sentenza
impugnata.

Con riferimento al regolamento, si prevede che , in deroga a quanto previsto


dall'art 82, la parte possa essere assistita anche da un difensore non abilitato al
patrocinio davanti alle corti superiori, cosa che non vale per il ricorso in
cassazione. Infine, il regolamento di competenza è sempre deciso in camera di
consiglio.

Attraverso ricorso per Cassazione ai sensi del n.2 può essere impugnata per
motivi di competenza, la sentenza che si pronuncia sia sulla competenza che sul
merito. Ove la corte accolga il ricorso, si applica l'art 382 c.2 in cui si legge che:
“quando cassa per violazione delle norme sulla competenza, statuisce su questa”.
La corte quindi indicherà sempre, laddove accolga il ricorso in questo caso, il
giudice competente e, come già ricordato parlando della disciplina della
competenza, questo accertamento è vincolante non soltanto per il giudice
designato dalla corte come insignito di competenza, ma anche per tutti gli altri
giudici dell'ordinamento.

La causa potrà essere riassunta davanti a questo giudice entro 6 mesi dalla
comunicazione della sentenza e in questo caso, il processo proseguirà davanti a
nuovo giudice facendo salvi gli effetti sostanziali e processuali della prima
domanda. Questa statuizione, alla stregua di quanto visto per la pronuncia sulla
giurisdizione, è destinato a sopravvivere in hp di estinzione del processo ex art 310
ed esplicherà la propria efficacia vincolante anche nel secondo eventuale
processo “riproposto” tra le stesse parti.

n.3 → violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti o accordi


collettivi nazionali di lavoro. È sicuramente il motivo di ricorso più importante
poiché è attraverso questo tipo di ricorsi che la corte di Cassazione svolge il suo
425
scopo istituzionale → assicurare la nomofilachia, cioè l'esatta e uniforme
interpretazione del diritto.

Il n.3 si riferisce quasi esclusivamente alla violazione o falsa applicazione delle


norme di diritto sostanziale perché la violazione delle norme di diritto processuale
rientra piuttosto nei n. 1, 2 e 4 art 360. cosa si intende per violazione e falsa
applicazione.

FALSA APPLICAZIONE → errore compiuto dal giudice nell'individuazione della


norma generale e astratta da applicare alla fattispecie concretamente dedotta in
giudizio. È un errore che può derivare: sia da un'erronea soluzione della quaestio
iuris; ma anche la conseguenza di un'erronea soluzione della quaestio facti, poiché
se il giudice sbaglia in questa valutazione, a ciò può conseguire un errore
consequenziale nella individuazione della norma generale e astratta da applicare
alla stessa fattispecie. Il ricorso ai sensi del n.3 riguarda soltanto il primo caso,
poiché l'errore relativo alla questione di fatto ormai può essere denunciato solo
negli strettissimi limiti del n.5 art 360. In effetti, qui si coglie il limite molto sottile
che separa quaestio facti e quaestio iuris, e la lettera della norma ci fa capire
quanto il legislatore sia superficiale, perché mostra di non capire come gli errori
compiuti sulla quaestio facti si ripercuotano necessariamente sulla quaestio iuris.

VIOLAZIONE DI NORMA DI DIRITTO → è una violazione dell'interpretazione


della norma correttamente individuata. Il giudice ha quindi individuato la norma
giusta da applicare al fatto concreto, ma poi la interpreta in maniera sbagliata e ne
fa derivare degli effetti diversi da quelli che sarebbero derivati ove la stessa norma
fosse stata applicata correttamente.

Un chiarimento sull'espressione “norme di diritto” → è espressione


omnicomprensiva di tutte le fonti del diritto: non solo le norme dello stato e quelle
che hanno forza di legge, ma anche le norme regionali e degli enti, i regolamenti
regionali e degli enti, ma anche il diritto internazionale e dell'UE, come anche le
sentenze di accoglimento della corte Costituzionale, il diritto antico, il diritto
straniero. Nel testo si fa riferimento anche ai contratti e accordi collettivi nazionali
di lavoro, questa è un'integrazione successiva ad un intervento normativo del
2006.

Quali sono i provvedimenti che la corte emana laddove venga accolto il ricorso
presentato ai sensi del n.3 art 360?

La norma principale è l'art 384 laddove si dice che “la corte quando accoglie il
ricorso, cassa la sentenza e decide la causa nel merito qualora non siano necessari
ulteriori accertamenti di fatto”. Solo in via subordinata si può ritenere applicabile il
disposto dell'art 383 c. 1, laddove si legge che :”se la corte accoglie il ricorso per
motivi diversi da quelli richiamati nell'art precedente, rinvia la causa ad altro giudice
di grado pari a quello che ha emanato la sentenza cassata”.

L'art 384 c.2 seconda parte è frutto della novella del 1990. Come già anticipato,
questa è la disposizione che secondo l'interpretazione preferibile ha segnato e
segna oggi la reale fisionomia del ricorso per cassazione, cioè ci consente di
affermare che il ricorso per cassazione è un mezzo di impugnazione avente ad
426
oggetto il rapporto giuridico ancora controverso fra le parti. Quella espressione
”decide la causa nel merito” va intesa nel senso che la corte DEVE decidere la
causa nel merito. In queste hp la corte, che accoglie il ricorso, non si limita a
cassare la sentenza, ma pronuncia lei stessa sul merito, quindi la sentenza della
corte non ha un contenuto meramente rescindente, ma anche rescissorio perché
contiene la lex specialis, cioè l'accertamento dell'esistenza e del modo d'essere
del rapporto giuridico nei limiti in cui è ancora controverso fra le parti. È la
sentenza di cassazione quindi che contiene l'accertamento destinato ad
acquistare l'autorità della cosa giudicata.

Accanto a queste hp, si colloca un ulteriore caso, cioè l'hp contemplata


nell'ultimo comma art 384. sono hp in cui la corte emana una pronuncia di rigetto
del ricorso. La norma dice che “non sono soggette a cassazione le sentenze
erroneamente motivate in diritto, quando il dispositivo sia conforme al diritto, in tal
caso la corte si limita a correggere la motivazione”. Si tratta di hp in cui il ricorso è
fondato, quindi la Cassazione ritiene esistente la violazione o falsa applicazione
delle norme di diritto, ma ritiene che il dispositivo sia conforme al diritto, che
quindi regga la statuizione del giudice del merito, ma ne corregge la motivazione.

Quali sono le hp che possiamo ricondurre a questa previsione?

· Certamente l'hp in cui il giudice del merito abbia dichiarato l'esistenza o non
esistenza del diritto fatto valere in giudizio sulla base di ragioni
alternativamente concorrenti → es riconosce il diritto ad ottenere il
risarcimento del danno per responsabilità extracontrattuale ex artt sia 2019
sia 2050, proposto il ricorso in cassazione, che dovrà ovviamente contenere
entrambi i motivi a pena di inammissibilità, la corte, se ritiene che l'art 20150
non sia applicabile rigetta il ricorso correggendo la motivazione. Lo stesso
vale laddove per esempio il giudice del merito abbia chiuso il processo col
rigetto della domanda sulla base della prescrizione sia breve che ordinaria e
la corte, proposto ricorso per Cassazione con riferimento ad entrambe le
prescrizioni, la corte ritenga non applicabile alla fattispecie la sola
prescrizione breve. Anche in questa hp la corte rigetta il ricorso correggendo
la motivazione del provvedimento.

· Secondo l'interpretazione preferibile in quest'ultimo comma dell'art 384


possiamo anche far rientrare un'hp diversa → supponiamo che il giudice
abbia accolto la domanda di risarcimento del danno ex art 2049,
supponiamo che la parte soccombente proponga ricorso per cassazione ai
sensi del n.3 art 360 affermando la non applicabilità della norma (art 2049) e
invece l'applicabilità dell'art 2050; la corte, può ritenere invece applicabile la
norma generale art 2043 cc, poiché una volta denunciata la quaestio iuris
davanti alla corte di cassazione, si riapre il principio iura novit curia, e allora
la corte può ritenere applicabile al caso di specie l'art 2043 e quindi rigettare
il ricorso, limitandosi a correggere in diritto la motivazione. Questo è
possibile poiché anche di fronte alla Cassazione si riapre il principio iura
novit curia e, in particolare in queste hp, la corte può correggere la

427
motivazione allorquando, nel passaggio dall'una all'altra norma non si rende
necessario allegare e provare fatti giuridici ulteriori rispetto a quelli già
allegati e provati, in base ai quali è stato reso il provvedimento impugnato.

L'altra hp è quella in cui la Corte enuncia il principio di diritto a cui si deve


uniformare il giudice del rinvio. In questa hp, contemplata dall'art 383 c.1, appare
chiaro che la Cassazione emana una sentenza che:

- ha un contenuto rescindente, perché cassa la sentenza impugnata;

- dà avvio alla fase rescissoria, perché la corte enuncia il cd principio di


diritto;

- delega tutte le attività ad un giudice ulteriore, il giudice del rinvio, di cui ci


occuperemo più avanti.

Questa sentenza, che emana il principio di diritto, è sicuramente vincolante per il


giudice del rinvio che deve applicare il principio di diritto ai fatti della causa.

Laddove poi il giudizio di rinvio si estingua, tutto il processo cade, ma il principio


di diritto sopravvive all'estinzione e vincolerà il secondo giudice del processo
riproposto. Questo principio di diritto deve essere tenuto separato dal giudicato,
ci sono delle differenze molto importanti.

Il principio di diritto infatti, a differenza del giudicato sostanziale, è elaborato solo


sulla norma generale e astratta, quindi solo sulla premessa maggiore del
sillogismo giudiziale, mentre manca l'applicazione alla fattispecie concreta. Per
questo motivo si ritiene che il principio di diritto non possa prevalere rispetto ad
una norma sopravvenuta retroattiva o alla eventuale dichiarazione di
incostituzionalità della norma. Laddove si verifichi una di queste 2 hp, il principio di
diritto cade e il giudice del rinvio non è più vincolato.

Il principio di diritto è lo strumento attraverso il quale la Cassazione svolge la sua


funzione nomofilattica. Abbiamo detto che nei confronti del giudice del rinvio e nei
confronti del giudice del processo riproposto, è vincolante. Non è vincolante per
gli altri giudici, ma, nei confronti di essi, svolge una efficacia “didattica” di
precedente, che si basa sulla autorevolezza dell'organo che l'ha emanato. Di
conseguenza gli altri giudici, laddove si trovino a dover statuire su una fattispecie
analoga a quella con riferimento alla quale è stato elaborato il principio di diritto,
dovrebbero guardare al principio di diritto formulato dalla Cassazione e
dovrebbero anche risolvere le controversie conformemente al precedente della
corte di Cassazione. Tanto è vero che ex art 143 disp. att. la Corte, nelle sentenze
di accoglimento deve enunciare SPECIFICAMENTE il principio con riferimento al
quale il giudice deve uniformarsi.

Come già detto altre volte, l'art 101 c.2 secondo cui “il giudice è soggetto solo alla
legge”, crea un rapporto immediato e diretto fra ciascun giudice e la norma
generale ed astratta; inoltre la Corte di Cassazione, anche a causa del numero
elevatissimo di ricorsi annualmente presentati, spesso contraddice se stessa,
quindi sulla stessa questione troviamo sentenze (magari provenienti dalle diverse
sezioni) che si contraddicono l'una con l'altra. A ciò si può aggiungere che spesso
sono le stesse sezioni unite della Cassazione a contraddirsi a distanza di anni, e
428
ciò incide negativamente sulla efficacia persuasiva e didattica che le pronunce
della Cassazione dovrebbero avere.

Presso la corte è predisposto Ufficio del Massimario che svolge funzioni


amministrative e ha il compito di estrarre le massime dalle decisioni della corte
suprema. È una funzione importante, che si collega alla funzione nomofilattica
svolta dalla corte e che può aiutare gli altri giudici ad individuare il principio di
diritto di volta in volta in volta affermato dalla Corte al fine di poterlo tenere in
considerazione laddove si trovino a dover risolvere controversie con fattispecie
analoghe a quelle con riferimento alle quali il principio di diritto è stato elaborato.

429
Lezione 24 - 29/05/20
Andiamo adesso ad analizzare il motivo di cui al numero 4 dell’articolo 360, ovvero
il ricorso presentato per nullità della sentenza o del procedimento. Attraverso il
ricorso per Cassazione presentato ai sensi del numero 4 dell’articolo 360, vengono
denunciati errores in procedendo, cioè viene denunciata la violazione delle norme
processuali, da intendere in senso ampio. Non soltanto perché, come si evince dal
testo, si fa riferimento a nullità vuoi della sentenza come provvedimento vuoi a
nullità che si sono verificate nel corso del procedimento e poi in virtù del principio
di estensione della nullità agli atti successivi e dipendenti si sono riverberate nella
sentenza finale. Ma anche perché attraverso questo numero quattro è possibile
denunciare vizi relativi al difetto di forma contenuto quindi nullità formali, ma è
possibile anche denunciare nullità che derivano da un difetto di requisito
extraformale, diversi dalla giurisdizione e competenza, perché questi possono
essere fatti valere attraverso i motivi di cui al numero 1 e al numero 2. Com’ è che
un vizio di tipo formale (intendo formale in senso ampio) può essere denunciato in
Cassazione? Occorre ricordarsi tutto quanto ci siamo detti nel tempo in ordine alla
disciplina dei singoli vizi e ai meccanismi che sovraintendono il passaggio dal
giudice a quo al giudice ad quem. In questo senso se ad esempio viene
denunciato un vizio che è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del
processo (ad esempio difetto di legittimazione ad agire, difetto di interesse ad
agire) in tanto il vizio potrà essere dedotto in Cassazione, in quanto questo vizio,
se è stato trattato e deciso dai giudici precedenti, sia stato mantenuto aperto dalle
parti. Quindi le parti abbiano avuto cura di denunciarlo espressamente. Se il vizio
si è verificato in primo grado deve essere stato denunciato sia al giudice d’appello
sia portato poi di fronte alla Corte di Cassazione. Se invece è stato trattato e
deciso solo dal giudice di secondo grado dovrà essere stato messo ad oggetto di
un motivo di impugnazione. Se si tratta di un vizio rilevabile in ogni stato e grado
del processo che non è stato mai rilevato nei precedenti gradi di giudizio, si
ammette che possa essere rilevato anche d’ufficio da parte della Corte di
Cassazione e indipendentemente da che sia stato messo ad oggetto di uno
specifico motivo di ricorso. Se si tratta di un vizio che non è rilevabile d’ufficio
allora, affinché il vizio possa essere denunciato in Cassazione è necessario che la
parte interessata lo abbia tempestivamente rilevato (secondo la disciplina prevista
a seconda del vizio) e che questa stessa parte, se si è verificato in primo grado, lo
abbia posto ad oggetto di un motivo di impugnazione di fronte al giudice
dell’appello e poi lo abbia denunciato di fronte alla Corte di Cassazione.

Quali sono le sentenze che può emanare la Cassazione che accoglie il ricorso
presentato ai sensi del numero 4 dell’art 360? Possiamo distinguere tre diversi
casi. Abbiamo ipotesi in cui la Corte di Cassazione emanerà una sentenza di
cassazione senza rinvio. Abbiamo ipotesi in cui la Corte di Cassazione emanerà
sentenza di cassazione con rinvio. Probabilmente c’è anche lo spazio, ma si tratta
di ipotesi residuali, in cui a seguito dell’accoglimento del ricorso presentato ai
sensi del numero 4 dell’art 360 potrà essere la Corte di Cassazione a emanare la
decisione sul merito. Questa possibilità non è esclusa stante il testo dell’articolo
430
384, ma probabilmente in queste ipotesi possiamo immaginare che lo spazio,
perché la Corte intervenga, sia più ridotto rispetto alle altre ipotesi.

Andiamo ad esaminare i casi in cui la Corte di cassazione può emanare una


sentenza di cassazione senza rinvio. Il riferimento lo troviamo all’articolo 382 al
terzo comma seconda parte laddove si prevede che la Corte provvede a emanare
una decisione di cassazione senza rinvio “in ogni altro caso in cui ritiene che la
causa non poteva essere proposta o il processo proseguito”. Allora le ipotesi in cui
la causa non poteva essere proposta sono i casi in cui si tratta di una
improponibilità della domanda. Sono i casi in cui la Corte rileva il difetto di un
requisito extraformale (ad esempio il difetto di legittimazione ad agire, il difetto di
interesse ad agire), che non si presta ad essere sanato. Per questo motivo la Corte
di cassazione emanerà una sentenza di cassazione senza rinvio e non rimarrà più
niente di quel processo. Mentre le ipotesi in cui la Corte di Cassazione accerta che
il processo non poteva essere proseguito probabilmente meritano di essere
precisate. Perché è possibile immaginare che il motivo di improseguibilità si sia
verificato in primo grado. Pensiamo all'ipotesi in cui il giudice di primo grado ha
rilevato un difetto di litisconsorzio necessario, ordina l’integrazione del
contraddittorio entro un termine perentorio, nessuna delle parti ottempera ma si
pronuncia sul merito. Sappiamo che in base all’articolo 102 se nessuna delle parti
ottempera tempestivamente all’ordine del giudice, il giudice deve dichiarare
l’estinzione del processo. Se è la Cassazione ad accertare questo vizio dovrà
emanare una sentenza di cassazione senza rinvio, quindi travolgerà l’intero
processo. Laddove la causa di improseguibilità si sia verificata nel corso del
giudizio di appello allora la Corte si limiterà a cassare la sentenza di appello,
mentre la sentenza di primo grado passerà in giudicato. È questo quanto si verifica
nelle ipotesi che rientrano nell’articolo 338 e 358. Quindi i casi in cui la Corte di
cassazione accerta che il giudice d’appello avrebbe dovuto dichiarare
l’inammissibilità, l’improcedibilità o l‘estinzione del giudizio di appello. Per esempio
il giudice di appello, rilevato che si versa in ipotesi di cause inscindibili o
dipendenti, ordina l’integrazione del contraddittorio, nessuna delle parti ottempera
e nonostante ciò va avanti. In questa ipotesi il giudice d’appello avrebbe dovuto
dichiarare l’inammissibilità a cui sarebbe seguito il passaggio in giudicato della
sentenza di primo grado. Se non lo fa, illegittimamente, e la Cassazione rileva il
vizio, emanerà una sentenza di cassazione senza rinvio a cui segue il passaggio in
giudicato della sentenza di primo grado. Sono le ipotesi in cui la sentenza di
appello non avrebbe dovuto produrre il suo effetto sostitutivo e quindi la sentenza
di primo grado si consolida. La regola generale è che, al di fuori di queste ipotesi,
rientranti nel secondo comma dell’art 382, la Corte di cassazione, rilevato il vizio,
dovrà rinviare la causa a un giudice di pari grado a quello che ha emanato la
sentenza impugnata e cassata perché si svolga la fase rescissoria. E’ questa la
regola generale, è la regola che risponde alla disciplina generale dettata nel codice
di procedura civile con riferimento ai vizi di forma contenuto e ai vizi extraformali.
In fin dei conti la ratio in questa ipotesi consiste nella circostanza per cui il
legislatore ha previsto tutta una serie di meccanismi di sanatoria tesi ad eliminare
431
dal mondo giuridico il vizio formale o extraformale in modo che il processo si
chiuda con una sentenza di merito, cioè una sentenza che statuisca sull’esistenza
o non esistenza del diritto fatto valere in giudizio. In base all’articolo 383 primo
comma, la Corte, quando accoglie il ricorso per motivi diversi da quelli indicati
nell’articolo precedente, rinvia la causa a un giudice di pari grado a quello che ha
pronunciato la sentenza cassata. Quindi se la sentenza è annullata per un vizio che
si è verificato in primo grado e che poi in virtù della regola di cui all’articolo 159 si
è riverberato sulla sentenza finale, come regola generale, il rinvio dovrà avvenire di
fronte al giudice dell’appello. Questo risponde alla regola generale, che abbiamo
esaminato già nel giudizio di appello, cioè l’ultimo comma dell’articolo 354. In basa
a tale articolo se il giudice d’appello rileva una nullità relativa al giudizio di primo
grado deve disporre la rinnovazione di fronte a sé degli atti nulli. Le uniche
eccezioni sono i casi tassativamente previsti negli articoli 353 e 354, in cui il
giudice d’appello deve rimettere la causa di fronte al giudice di primo grado.
Queste ipotesi sono espressamente richiamate nel terzo comma dell’articolo 383
dove si legge che “se la Corte di Cassazione riscontra una nullità del giudizio di
primo grado per la quale il giudice d’appello avrebbe dovuto rimettere le parti al
primo giudice rinvia la causa a quest‘ultimo”. Se il vizio rilevato in Cassazione è un
vizio che si è verificato in primo grado e rientra nella elencazione tassativa degli
articoli 353 e 354, allora la Corte di Cassazione fa quello che avrebbe dovuto fare
la corte di appello: rimette la causa di fronte al giudice di primo grado.

Andiamo adesso a vedere i diversi vizi che possono essere denunciati e la


disciplina che si applica, quindi dove trovano applicazione le previsioni che ho
appena richiamato. Cominciamo dall’analisi dei vizi e delle nullità che riguardano la
sentenza come provvedimento. Naturalmente parliamo dei vizi propri della
sentenza. La sentenza che chiude il processo a cognizione piena deve essere
redatta in conformità a quanto previsto dall’articolo 132 cpc che ci indica i requisiti
forma contenuto della sentenza. Nella lettera dell’articolo 132 non si prevede che
questi requisiti siano presenti a pena di nullità, ma naturalmente, in assenza di un
espressa previsione di legge, si farà applicazione della disciplina generale, quindi
dell’articolo 156 secondo comma laddove si prevede che “al di fuori dei casi
espressamente previsti dalla legge l’atto è nullo quando mancano i requisiti che
sono indispensabili al raggiungimento del suo scopo”. Quindi in applicazione di
tale criterio si potrà ritenere che se la sentenza impugnata non contiene il
dispositivo si ha sicuramente un’ipotesi di nullità. In questa particolare ipotesi la
Corte di Cassazione quando accerta la nullità dovrà applicare la regola generale di
cui al primo comma dell’articolo 383, quindi cassare la sentenza e rinviare la causa
a un giudice di pari grado a quello che ha emanato la sentenza. Se manca la
sottoscrizione della sentenza impugnata sappiamo che si ha un vizio grave, si
parla di sentenza inesistente. Allora se il difetto di sottoscrizione viene accertato
con riferimento alla sentenza di appello, allora la Cassazione dovrà cassare la
sentenza impugnata e rinviare al giudice dell’appello. Se invece manca la
sottoscrizione nella sentenza di primo grado allora la Corte di cassazione fa quello
che avrebbe dovuto fare il giudice d’appello, quindi cassa la sentenza e rinvia le
432
parti al giudice di primo grado. Questo perché in base all’articolo 350 primo
comma il difetto di sottoscrizione della sentenza di primo grado è uno dei casi in
cui il giudice d’appello, rilevato il vizio, avrebbe dovuto rimettere la causa di fronte
al giudice di primo grado. Un altro vizio che inficia direttamente la sentenza è la
violazione del principio fra chiesto e pronunciato. È il classico vizio che si
concretizza nella sentenza. Che tipo di decisione deve emanare la Cassazione?
Probabilmente occorre distinguere a seconda che il vizio sia un vizio di omissione
di pronuncia o sia un vizio di extra o ultrapetizione. Infatti nel caso in cui la Corte di
Cassazione accerti l’omissione di pronuncia, la Corte dovrà accogliere il ricorso e
emanare una pronuncia di cassazione con rinvio al giudice di pari grado a quello
che ha emanato la sentenza impugnata (si applica la regola generale di cui
all’articolo 383 primo comma). Se viene accertato un vizio di ultrapetizione, la
Cassazione emanerà una pronuncia di cassazione senza rinvio con riferimento alla
sola parte della sentenza viziata da ultrapetizione. Un altro vizio relativo alla
sentenza è quello che deriva dalla violazione delle norme sulla costituzione del
giudice (art 158 c.p.c). Anche in queste ipotesi siamo di fronte a un caso che
rientra nella regola generale dell’articolo 383 primo comma. Quindi la Corte di
Cassazione accertato il vizio dovrà cassare la sentenza e rinviare a un giudice di
pari grado rispetto a quello che ha emanato la sentenza impugnata.

Esaminiamo adesso la casistica relativa alla nullità che riguarda il procedimento e


che in virtù dell’articolo 159 primo comma si è poi riverberata sulla sentenza come
provvedimento finale. Distinguiamo a seconda che la nullità derivi da un difetto di
requisito extraformale o dal difetto di un requisito di forma contenuto. Allora
cominciamo con il considerare l’ipotesi in cui la Corte di Cassazione rileva un vizio
che è insanabile, un vizio con riferimento al quale non è previsto un meccanismo di
sanatoria. Pensiamo alle ipotesi in cui viene rilevato il difetto della legittimazione
ad agire o il difetto dell’interesse ad agire. In questa ipotesi la Corte di Cassazione
emanerà una sentenza di cassazione senza rinvio che avrà come conseguenza la
caducazione dell’intero processo, non residua niente. In seconda battuta bisogna
considerare i vizi che derivano da un difetto di un requisito extraformale con
riferimento ai quali è previsto un meccanismo di sanatoria. Pensiamo all’ipotesi in
cui viene accertato il difetto di un litisconsorte necessario. In questa ipotesi la
Corte di Cassazione dovrà fare applicazione del terzo comma dell’articolo 383,
cioè dovrà cassare la sentenza e rinviare la parti di fronte al giudice di primo
grado. Questo perché si tratta di una delle ipotesi in cui in base alla previsione
contenuta nell’articolo 354, il giudice d’appello rilevato il vizio avrebbe dovuto
rimettere la causa in primo grado, quindi fa ciò che avrebbe dovuto fare il giudice
dell’appello. In terzo luogo è possibile considerare le ipotesi in cui viene
denunciato che il giudice del merito aveva rilevato il vizio, aveva messo in moto il
meccanismo di sanatoria che però non si è perfezionato e ciò nonostante il giudice
si è pronunciato nel merito. Se questo vizio si è verificato in primo grado, la Corte
di cassazione dovrà cassare la sentenza senza rinvio e non residuerà più niente.
Supponiamo che il giudice di primo grado avesse rilevato il difetto di litisconsorte
necessario e avesse dato l’ordine di integrazione del contraddittorio, ordine a cui
433
le parti non hanno ottemperato. Se lo stesso vizio si è verificato in appello
(pensiamo alla mancata integrazione del contraddittorio ex art 331, anche qui
laddove il giudice abbia rilevato il vizio ha fissato il termine entro cui le parti
dovevano provvedere all’integrazione del contraddittorio, ma queste non hanno
tempestivamente ottemperato) la Corte di Cassazione casserà solo la sentenza di
secondo grado con conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo
grado. Passiamo alle nullità derivanti da un difetto di un requisito forma contenuto.
Con riferimento a queste ipotesi il legislatore prevede un ampio ventaglio di rimedi
tesi a eliminare il vizio, a partire dalla convalidazione oggettiva, convalidazione
soggettiva e l’ordine di rinnovazione degli atti di fronte al giudice (art.162 c.p.c).
Allora in tanto la nullità potrà essere denunciata e rilevata di fronte alla Corte di
Cassazione, in quanto questo vizio non si sia sanato. Perché se è scattato uno dei
meccanismi di sanatoria è chiaro che non c’è più spazio per la proposizione di un
ricorso per Cassazione. Anche qua occorre effettuare una serie di distinzioni. Ci
sono alcuni vizi che ove non sanati comunque lasciano lo spazio affinché il giudice
possa emanare la decisone sul merito, previa rinnovazione degli atti nulli. Se
queste nullità si sono verificate nel giudizio di appello, la Corte di Cassazione, nel
momento in cui le rileva, cassa la sentenza impugnata e rinvia al giudice
dell’appello (si applica la regola generale del 383 primo comma). Se invece si
tratta di vizi del giudizio di primo grado si applica come regola generale il 383
primo comma (cassazione con rinvio al giudice d’appello). Se però si versa in una
delle ipotesi tipiche, dove a mente dell’articolo 354 c.p.c, il giudice d’appello
rilevato il vizio avrebbe dovuto rimettere le parti di fronte al giudice di primo grado,
allora la Cassazione dovrà cassare la sentenza impugnata e rimettere le parti di
fronte al giudice di primo grado. Questo è quanto si verifica ad esempio dove
viene accertata una nullità della notifica dell’atto di citazione di primo grado. In
seconda battuta è possibile considerare quelle nullità formali che non sono
suscettibili di sanatoria in appello e che quindi impediscono una decisone sul
merito. Di conseguenza, se rilevate da parte della Corte di Cassazione danno
luogo a una sentenza di cassazione senza rinvio. Si tratta dei casi in cui il giudice
avrebbe dovuto chiudere in rito il processo e invece ha adottato una decisone di
merito. Supponiamo ad esempio che in primo grado si sia verificata una delle
cause di estinzione del processo, che la parte abbia ritualmente sollevato
eccezione di estinzione e che nonostante ciò il giudice si sia pronunciato sul
merito. Se il vizio viene denunciato e accertato dalla Corte di Cassazione questa
non dovrà fare altro che cassare senza rinvio, in base a quanto previsto
nell’articolo 383.3. Se invece il vizio si è verificato nel corso del giudizio di appello
(per esempio si è verificato un motivo di inammissibilità, improcedibilità, estinzione
del giudizio di appello e il giudice d’appello non lo ha rilevato pronunciandosi sul
merito), se il vizio viene dedotto e accertato dalla Corte di cassazione questa
emanerà una sentenza di cassazione della sola sentenza di appello, a cui seguirà il
passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. Un’ ipotesi particolare è
quella in cui viene accertata la nullità della citazione introduttiva del giudizio di
primo grado per vizi che riguardano l’edictio actionis. Si tratta di un’ipotesi in cui
434
anche il giudice d’appello nel momento in cui rileva il vizio è costretto a emanare
una sentenza di annullamento della sentenza di primo grado con conseguente
chiusura in rito dell’intero processo. Perché si tratta di un vizio non suscettibile di
sanatoria in secondo grado, stante il divieto di domande nuove sancito
nell’articolo 345 primo comma. Se il giudice d’appello non lo ha fatto e il vizio
viene denunciato e rilevato di fronte alla Corte di Cassazione, questa dovrà
cassare la sentenza impugnata con caducazione dell’intero processo, si avrà una
cassazione senza rinvio ai sensi dell‘articolo 382 terzo comma. In alcune ipotesi
l’accoglimento del ricorso presentato ai sensi del numero quattro dell’articolo 360,
può consentire alla Corte di Cassazione di pronunciarsi nel merito. Esempio è
quello in cui viene proposto ricorso per cassazione in cui viene denunciato il
difetto di interesse ad agire, l’interesse ad agire è ritenuto sussistente dalla Corte
di cassazione, in contrario avviso rispetto a quanto accertato dalla sentenza di
appello, e quindi è possibile che sia la Corte a emanare la sentenza di chiusura
dell’intero processo.

Esaminiamo il successivo motivo di ricorso per cassazione ovvero il motivo di cui


al numero 5, che in base al testo attualmente in vigore e che è frutto dell’intervento
di riforma del 2012, prevede il ricorso per “omesso esame circa un fatto decisivo
per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. I limiti entro cui la
Corte di Cassazione può sindacare la decisione della questione di fatto sono molto
limitati. Già sotto l’egida del codice del 1865, il difetto di motivazione relativo
all’accertamento dei fatti, che era stato introdotto in assenza di una esplicita
previsione normativa, ebbe un effetto negativo sulla Corte di Cassazione. Perché
apriva la possibilità di aprire ricorsi ulteriori rispetto a quelli per il cui tramite si
denunciava la violazione di legge. Per cui attraverso questo motivo, come rilevato
dagli studiosi dell’epoca, si riuscì a portare un numero di controversie enormi che
altrimenti non avrebbero mai potuto raggiungere la corte suprema. Il legislatore,
attraverso reiterati interventi, è sempre intervenuto per ridurre la possibilità di
denunciare la questione di fatto. Nel 1950 fu introdotta la previsione secondo cui,
in base al numero cinque, poteva essere presentato ricorso per “omessa,
insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per
il giudizio”. Mentre la formula attuale, che è frutto di una riforma del 2012, è molto
simile alla formula originaria del 1940. La ratio che sta a fondamento della modifica
del 2012 è stata quella di limitare il sindacato della Corte di Cassazione sulla
motivazione in fatto. Secondo quanto affermato dalla Cassazione a sezioni unite
nelle sentenze 8053 e 8054 del 2014, attraverso il numero cinque dell’art 360, il
legislatore ha introdotto un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un
fatto principale o secondario, la cui esistenza deve risultare dal testo della
sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le
parti, oltre ad avere carattere decisivo, cioè un fatto che se fosse stato esaminato
da parte del giudice avrebbe influito sull’esito di merito della controversia. In base
a questa prospettazione la Corte ha ritenuto che l’omesso esame di elementi
istruttori di per sé non vale a integrare il vizio di omesso esame di un fatto decisivo
se il fatto è stato comunque preso in considerazione da parte del giudice, anche
435
se nella sentenza il giudice non ha avuto cura di analizzare tutte le risultanze
istruttorie. In base a questo numero cinque dell’articolo 360 allora si può
denunciare la mancanza assoluta dei motivi, quindi mancanza assoluta significa
mancanza materiale, mancanza grafica. Oppure una motivazione apparente.
Oppure una motivazione di contrasto tra affermazione che sono inconciliabili.
Oppure una motivazione che obiettivamente è incomprensibile. Quindi la Corte di
Cassazione sulla base di questa impostazione, ritiene insindacabile in Cassazione
la violazione da parte del giudice delle regole della valutazione del giudice in base
al prudente apprezzamento di cui all’articolo 116 primo comma. Questa limitazione
che la Corte si è imposta è oggetto di serrate critiche, perché di fatto vale a
impedire una delle funzioni chiave fino a quel momento svolte dalla suprema
Corte, nel momento in cui va a controllare la legittimità delle decisioni, ovvero il
controllo sulla congruità logica della motivazione di fatto. Si tratta di una posizione
che la Corte di cassazione ha dovuto assumere nell’intento di ridurre il numero di
ricorsi che è costretta a trattare, andando quindi a porre una pezza rispetto ad un
‘altro problema che il legislatore non è riuscito a risolvere, ovvero quello di
introdurre un filtro di ammissibilità ai ricorsi per Cassazione. A completamento
ricordo quanto abbiamo già avuto modo di vedere quando abbiamo trattato il filtro
in appello. Ovvero la previsione contenuta nell’articolo 348 ter del cpc, il quale nel
quarto comma stabilisce che laddove “l’ordinanza di inammissibilità dell’appello è
fondata sulle stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto poste a base della
decisione impugnata, il ricorso per Cassazione contro la sentenza di primo grado
può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1 2 3 4 del primo
comma dell’articolo 360.” Quindi si esclude, in ipotesi in cui l’ordinanza di
inammissibilità sia fondata su ragioni inerenti alle questioni di fatto poste alla base
della decisione impugnata, la possibilità di proporre ricorso per Cassazione contro
la sentenza di primo grado in base al numero cinque, cioè omesso esame di un
fatto decisivo. Il comma successivo (quinto comma) estende l’applicazione della
previsione del quarto comma anche al ricorso per Cassazione avverso la sentenza
di appello che conferma la decisione di primo grado. Quindi se la sentenza di
appello ha confermato la decisione della quaestio facti già contenuta nella
sentenza di primo grado. Quindi siamo di fronte a due sentenze conformi, si parla
di doppia conforme, contro questa sentenza non può essere proposto ricorso per
Cassazione in base al numero cinque dell’articolo 360. Laddove la Corte di
cassazione accoglie il ricorso presentato ai sensi del numero cinque dell’articolo
360 si applica sempre la regola generale di cui all’articolo 383 primo comma.
Quindi la Corte cassa la sentenza e rinvia la causa ad un giudice di grado pari a
quello che ha pronunciato la sentenza cassata. In tal caso il giudice del rinvio
dovrà ripetere il giudizio di fatto dandone conto nella motivazione.

SECONDA PARTE

Torniamo adesso ad analizzare la previsione contenuta nell’art.384 co.2 laddove si


dice che la Corte decide la causa nel merito quando accoglie il ricorso e non sono
436
necessari ulteriori accertamenti di fatto, è l’ipotesi in cui la stessa Corte di
cassazione emana la sentenza di merito che chiude il processo.
I presupposti sono evidentemente due:

- l’accoglimento del ricorso

- la condizione che per la decisione del merito non siano necessari ulteriori
accertamenti di fatto

Come può essere spiegata questa condizione? In quali situazioni si può dire
realizzata la seconda condizione? Sul piano astratto sono due le possibilità:

1. si può pensare alle ipotesi in cui tutti i fatti giuridicamente rilevanti ai fini
dell’accertamento di esistenza o non esistenza del rapporto giuridico
controverso siano già stati accertati nella sentenza impugnata per cui non
rimane altro che applicare il principio di diritto alla fattispecie concreta già
ricostruita dal giudice a quo;

2. la seconda possibilità è che a seguito dell’accoglimento del ricorso si renda


necessaria l’assunzione di nuovi mezzi di prova perché dovendosi ancora
accertare l’esistenza o non esistenza di alcuni dei fatti rilevanti per la decisione
sia necessario valutare prove che sono già state acquisite da parte del giudice,
quindi manca l’attività di valutazione volta, come sappiamo, a stabilire se i fatti
oggetto di prova esistono o non esistono. Questa seconda possibilità deve
essere scartata perché significherebbe andare a incidere su quella che è la
fisionomia della Corte di cassazione che non è giudice di merito ma è giudice
di legittimità e quindi consentire alla Corte di valutare prove anche già
acquisite da parte di altri giudici significherebbe trasformarla in un giudice di
merito.

Quindi la possibilità per la Corte di cassazione di decidere la causa nel merito


resta limitata alle ipotesi in cui non è necessario svolgere attività di valutazione
delle prove ma si tratta semplicemente di applicare il principio di diritto a fatti già
accertati.

Quali sono le ipotesi in cui questo si può verificare? Possiamo sicuramente rilevare
che la decisione di merito da parte della Corte si può avere solo a seguito
dell’accoglimento del ricorso presentato nei casi di cui ai nn.1, 2, 3 e 4,
certamente non laddove è stato accolto un ricorso presentato ai sensi del n.5
perché questo riguarda le ipotesi in cui vi è stato un omesso esame di un fatto
decisivo per il giudizio. Cerchiamo di fare qualche esempio per capire esattamente
i casi ai quali si fa riferimento.

Il caso più semplice è quello in cui viene impugnata in Cassazione una sentenza
che ha accolto una domanda, quindi una sentenza in cui è stata dichiarata
l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio quindi il giudice ha accertato
l’esistenza di tutti i fatti costitutivi e la non esistenza dei fatti modificativi, estintivi e
impeditivi. Proposto ricorso per Cassazione ai sensi del n.3 dell’art.360 viene
censurata la decisione in iure in ordine all’esistenza di uno dei fatti costitutivi o con
riferimento alla non esistenza di un fatto modificativo, estintivo, impeditivo, se la
Corte ritiene che la censura è fondata appare chiaro che avrà sicuramente la

437
possibilità di decidere la causa nel merito perché sappiamo che la decisione, che
in questo caso sarà una decisione di rigetto della domanda, una decisione che
accerta la non esistenza del diritto, può basarsi anche sull’accertamento di non
esistenza di uno dei fatti costitutivi o sull’accertamento di esistenza di un fatto
modificativo, estintivo o impeditivo. Invece qualora il giudice abbia accertato
l’inesistenza del diritto nella circostanza che il ricorso venga accolto, laddove
venga ancora una volta censurata la decisione in iure svolta dal giudice
precedente, è molto più difficile immaginare che ci possa essere lo spazio per una
decisione nel merito da parte della Corte perché la dichiarazione di esistenza di un
fatto costitutivo o la dichiarazione di non esistenza di un fatto modificativo,
estintivo o impeditivo fa riemergere l’esigenza di accertare l’esistenza o non
esistenza di tutti gli altri fatti rilevanti e controversi che verosimilmente saranno
stati dichiarati assorbiti nella sentenza cassata-> per esempio se il giudice
precedente aveva rigettato la domanda di adempimento per prescrizione e quindi
ha dichiarato l’assorbimento di tutte le altre eccezioni sollevate da parte del
convenuto è chiaro che accolto il ricorso per Cassazione i fatti assorbiti tornano ad
essere rilevanti e quindi dovranno essere accertati e siccome questa attività non
può essere compiuta dalla Corte di cassazione appare chiaro che in questa ipotesi
e in ipotesi simili la Corte non potrà decidere il merito della causa ma dovrà
rimetterla davanti al giudice del rinvio. Abbiamo visto precedentemente che anche
in ipotesi di accoglimento del ricorso presentato ai sensi del n.4 dell’art.360 si può
intravedere lo spazio per una pronuncia sul merito da parte della Corte di
cassazione.

In base all’art.391-ter il provvedimento con cui la Corte decide la causa nel merito
è impugnabile per revocazione ed è impugnabile per opposizione di terzo ai
sensi dell’art.404. Questi due rimedi dovranno essere proposti davanti alla stessa
Corte di cassazione la quale, laddove accolga l’impugnazione pronunciando
quindi la revocazione o accogliendo l’opposizione di terzo, se non sono necessari
ulteriori accertamenti di fatto deciderà la causa nel merito altrimenti, pronunciata la
revocazione o accolta l’opposizione, rinvierà la causa al giudice che ha
pronunciato la sentenza che precedentemente era stata cassata.

Andiamo adesso ad analizzare la DISCIPLINA DI SVOLGIMENTO DEL


PROCESSO DAVANTI ALLA CORTE DI CASSAZIONE. Già sappiamo dal nome
stesso del rimedio che il ricorso per Cassazione si propone con ricorso, appunto.
Il ricorso deve essere proposto nel rispetto dei termini per impugnare quindi 60 gg
dalla notifica della sentenza o 6 mesi dalla pubblicazione della stessa. Il ricorso in
base all’art.365 deve essere a pena di inammissibilità sottoscritto da un
avvocato iscritto nell’apposito albo munito di procura speciale. Il ricorso deve
essere notificato al destinatario e poi in base all’art.369 deve essere depositato
nella cancelleria della Corte a pena di inammissibilità nel termine di giorni 20
dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto.

In base all’art.366 il ricorso deve contenere a pena di inammissibilità tutta una


serie di requisiti di forma-contenuto fra cui importanti sono:

438
- l’indicazione al n.4 dei motivi per i quali si chiede la cassazione;

- l’esposizione sommaria dei fatti della causa, requisito di cui al n.3 dell’art.366;

Nel 2009 è stato abrogato l’art.366-bis che era stato introdotto dal legislatore nel
2006 e che poneva a carico del ricorrente nelle ipotesi di motivi presentati in base
ai nn.1, 2, 3 e 4 dell’art.360 l’onere di concludere a pena di inammissibilità con la
formulazione di un quesito di diritto che consenta alla Corte di enunciare un
corrispondente principio di diritto e con riferimento al ricorso presentato ai sensi
del n.5 richiedeva l’illustrazione di ciascun motivo e l’obbligo che lo stesso motivo
contenesse a pena di inammissibilità la chiara indicazione del fatto controverso in
relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le
ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a
giustificare la decisione. Questa previsione era stata introdotta all’evidente scopo
di munire la Corte di cassazione di uno strumento che le consentisse di eliminare
un numero molto elevato di ricorsi ma era stata usata in maniera formalistica: era
stata usata dalla Corte di cassazione per bloccare la maggior parte dei ricorsi
presentati, era una sorta di grossa trappola in cui cadevano facilmente gli avvocati
anche perché vi ho già detto che la legge professionale italiana consente a tutti gli
avvocati, dopo aver maturato un certo numero di anni di esercizio della
professione, di iscriversi all’albo degli avvocati che possono esercitare davanti alle
c.d. giurisdizioni superiori; la verità però è che molti si improvvisano cassazionisti,
quindi anche l’ultimo avvocato di una città di provincia si improvvisa cassazionista
e non esita a presentare un ricorso. Non è un caso che in altri ordinamenti il
numero dei cassazionisti è molto ridotto, vi ho parlato della situazione francese e
di quella tedesca, fare il cassazionista significa fare un lavoro completamente
diverso rispetto a quello svolto come avvocato davanti alle giurisdizioni di merito
ma è una differenza che viene del tutto sottovalutata in Italia e molti avvocati che si
sono improvvisati cassazionisti hanno inciampato nel c.d. quesito di diritto e si
sono quindi visti rigettare come inammissibili anche ricorsi che erano del tutto
fondati. Il legislatore quindi nel 2009, molto opportunamente, è intervenuto e ha
eliminato l’art.366-bis.

Come vedete l’art.366 è molto chiaro nello stabilire che i requisiti di forma-
contenuto indicati devono essere presenti a pena di inammissibilità del
ricorso stesso. Se poi andiamo avanti nella lettura delle disposizioni relative allo
svolgimento del procedimento per Cassazione e torniamo all’art.369 vedete che
non soltanto il ricorrente deve depositare nella cancelleria della Corte a pena di
improcedibilità nel termine di giorni 20 dall’ultima notificazione alle parti
contro le quali è proposto il ricorso ma prevede anche che con il ricorso
debbano essere depositati ancora una volta a pena di improcedibilità:
1. il decreto di concessione del gratuito patrocinio (questo è eventuale)
2. copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la
relazione di notificazione
3. la procura speciale se questa è conferita con atto separato

439
4. gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il
ricorso si fonda
si prevede inoltre che il ricorrente debba chiedere alla cancelleria del giudice che
ha pronunciato la sentenza impugnata o del quale si contesta la giurisdizione la
trasmissione alla cancelleria della Corte di cassazione del fascicolo d’ufficio e tale
richiesta è restituita dalla cancelleria al richiedente munita di visto e deve essere
depositata insieme col ricorso. Come vedete la disciplina è formale, molto rigida,
perché se il ricorso viene dichiarato inammissibile o improcedibile l’art.387 ci dice,
in maniera moto chiara, che non può essere riproposto anche se non è scaduto il
termine fissato dalla legge. Si tratta quindi di una sanzione molto severa che
risponde un po’ a quella line anche abbiamo evidenziato precedentemente per cui
il legislatore, avuto riguardo ai gradi di impugnazione, ha previsto discipline molto
più rigide rispetto alla disciplina della nullità che è quella generale disciplinata negli
artt.156 ss., disciplina con riferimento alla quale sono previsti molti meccanismi di
sanatoria. Il pensiero che guida il legislatore è che in fondo se si arriva davanti al
giudice dell’impugnazione significa che c’è già un precedente provvedimento, c’è
un provvedimento che ha già pronunciato sulla controversia, e questo secondo il
legislatore giustifica l’adozione di forme più pesanti di invalidità.

La parte intimata, quindi quella contro cui è stato proposto il ricorso (che vedete a
differenza di quanto abbiamo visto per i procedimenti di primo grado introdotti con
ricorso viene prima notificato al destinatario e poi depositato), può costituirsi nel
giudizio di cassazione e lo deve fare notificando un controricorso. L’art.370
prevede infatti che la parte contro la quale il ricorso è diretto se deve contraddire
deve farlo mediante controricorso che dovrà essere notificato al ricorrente entro 20
gg dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso, in mancanza di
tale notificazione essa non può presentare memorie ma soltanto partecipare alla
discussione orale. in base all’ultimo comma dell’art.370 il controricorso è
depositato nella cancelleria della Corte entro 20 gg dalla notificazione insieme con
gli atti e i documenti e con la procura speciale se conferita con atto separato. Il
controricorso è un atto che ha uno scopo meramente difensivo quindi in esso
l’intimato per esempio farà valere eventuali cause di inammissibilità o di
improcedibilità del ricorso, cercherà di contrastare la fondatezza delle censure
mosse dal ricorrente, tuttavia in ipotesi di soccombenza ripartita, quindi di
soccombenza parziale, potrà a sua volta proporre domanda di accertamento
incidentale, il c.d. ricorso incidentale, che si collega alla previsione degli artt.333 e
334 c.p.c. Contro l’eventuale ricorso incidentale il ricorrente principale potrà
resistere notificando a sua volta un controricorso. Nell’ambito del ricorso
incidentale dobbiamo sicuramente fare menzione di un istituto che non troviamo
disciplinato espressamente nel Codice di procedura civile ma che diciamo è stato
creato dall’elaborazione della giurisprudenza ed è il ricorso incidentale
condizionato all’accoglimento del ricorso principale: si tratta dello strumento
per il cui tramite si consente alla parte che è rimasta teoricamente soccombente
su una questione pregiudiziale di rito o premiare di merito di provocare il riesame

440
della questione stessa, risolta in senso a lei sfavorevole, da parte della Corte. Sono
situazioni che ci sono familiari perché ne abbiamo parlato a proposito dell’appello:
se il giudice dell’appello ha respinto la domanda di adempimento del contratto
ritenendo il contratto nullo ma ha altresì rigettato l’eccezione di prescrizione
sollevata dal convento quest’ultimo è parte vittoriosa nel merito ma è rimasto
teoricamente soccombente sulla questione di prescrizione. Secondo la
giurisprudenza una volta che è stato proposto ricorso per Cassazione dalla parte
che è rimasta praticamente soccombente, che nell’esempio appena fatto è
l’attore, se il ricorso viene accolto e quindi viene cassata la sentenza impugnata la
controparte che è praticamente vittoriosa ma è rimasta tonicamente soccombente
sulla questione di prescrizione ha interessa a mantenere aperta la questione di
prescrizione in modo che eventualmente ne possa conoscere il giudice del rinvio e
la giurisprudenza ha affermato, ormai da decenni, che affinché questa questione
possa rimanere aperta è onere della parte interessata proporre impugnazione
incidentale condizionata, condizionata all’accoglimento del ricorso principale. Il
ricorso incidentale serve quindi al soccombente teorico per mantenere aperta la
questione su cui è rimasto teoricamente soccombente, si tratta dello stesso
fenomeno che abbiamo analizzato relativamente all’appello e con riferimento al
quale abbiamo detto che recentemente le Sezioni Unite hanno affermato il
principio secondo cui anche davanti all’appello è necessario proporre un
impugnazione incidentale. Un’ultima precisazione con riferimento al ricorso
incidentale condizionato. Abbiamo detto che la prassi giurisprudenziale ha creato
questo istituto con riferimento alle questioni che sono state rigettate e quindi
risolte in senso sfavorevole alla parte intimata risultata praticamente vittoriosa.
Non ho parlato delle questioni rimaste assorbite cioè non ho parlato di quelle
questioni su cui il giudice del merito legittimamente non si è pronunciato.
L’orientamento tradizionale è sempre stato nel senso di ritenere che queste
questioni potessero essere ripresentate direttamente davanti al giudice del rinvio
ma questo orientamento è auspicabile che venga rivisto, abbiamo infatti letto l’art.
384 co.2 nella parte in cui stabilisce che la Corte di cassazione decide la causa nel
merito, quindi deve decidere la causa nel merito, quando non sono necessari
ulteriori accertamenti di fatto; se così è, se la parte intimata praticamente vittoriosa
non è ammessa a ripresentare alla Corte di cassazione la questione assorbita
rischia di perderla perché se la Cassazione decide nel merito il giudizio di rinvio
chiaramente non si apre. Torniamo al procedimento per Cassazione. Abbiamo
parlato degli atti introduttivi: il ricorso, il controricorso contenente eventualmente
anche il ricorso incidentale o incidentale condizionato.

Prima di andare ad esaminare le regole di svolgimento del procedimento davanti


alla Corte di cassazione è importante ricordare che le sentenze soggette al ricorso
per Cassazione se sono sentenze di condanna sono esecutive. La proposizione
del ricorso per Cassazione non sospende l’esecuzione o l’esecutività della
sentenza impugnata e lo dice espressamente l’art.373 che però prevede la
possibilità di chiedere la sospensione dell’esecutività o dell’esecuzione della
sentenza impugnata, la possibilità cioè di chiedere un provvedimento c.d.
441
inibitorio. In base all’art.373 il ricorso per Cassazione non sospende l’esecuzione
della sentenza tuttavia il giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata può,
su istanza di parte e qualora dall’esecuzione possa derivare grave e irreparabile
danno, disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa o
che sia prestata congrua cauzione. Come vedete il provvedimento inibitorio deve
essere chiesto al giudice a quo, non alla Cassazione ma al giudice che ha emanato
la sentenza impugnata. Il presupposto cui è subordinato il rilascio del
provvedimento inibitorio, oltre all’istanza di parte, è che dall’esecuzione possa
derivare grave e irreparabile danno. Ora, il danno grave non vuol dire molto, un
danno è grave quando il beneficio di chi ottiene l’esecuzione è sproporzionato
rispetto al pregiudizio di chi subisce l’esecuzione oppure adempie
spontaneamente. D’altra parte è importante ricordare che la gravità del danno
deve essere sempre valutata in vista del possibile accoglimento dell’impugnazione
quindi dell’annullamento della sentenza impugnata perché se la sentenza viene
confermata, quindi se l’impugnazione viene rigettata, ci può essere anche il danno
ma comunque è legittimo perché è conforme a quanto previsto dalla legge, invece
il requisito della irreparabilità è sicuramente più impegnativo. Come viene
interpretata? Il requisito della irreparabilità viene spiegato come impossibilità di
remissione in pristino della situazione in caso in cui la parte soccombente che
propone impugnazione veda accolta la propria impugnazione. Per questo motivo
tendenzialmente si esclude che possa parlarsi di un pregiudizio irreparabile
laddove venga impugnato un provvedimento avente ad oggetto il pagamento di
somme di denaro perché la somma di denaro può essere sempre restituita a meno
che non ci sia il pericolo dell’insolvenza della parte obbligata; lo stesso si può dire
con riferimento a provvedimenti aventi ad oggetto un ordine di consegna o di
rilascio perché il bene, così come viene consegnato o rilasciato, può essere
ripreso. Si parla quindi di danno irreparabile nei casi in cui l’esecuzione della
sentenza porta alla distruzione fisica o giuridica del bene e più in generale nei casi
in cui c’è una sproporzione enorme, notevole, fra il vantaggio che ha la parte
vittoriosa attraverso l’esecuzione forzata e il pregiudizio che subisce la parte
soccombente a causa della stessa esecuzione.

Torniamo al procedimento per Cassazione. Il cancelliere una volta che sono


scaduti i termini per il deposito del controricorso proposto contro l’ultimo ricorso
incidentale, art.375, trasmette il fascicolo al primo presidente il quale assegna la
causa alle Sezioni Semplici o alle Sezioni Unite. La regola generale è che la
Cassazione si pronuncia a sezione semplice ma nei casi di cui all’art.374 si
pronuncia a Sezioni Unite ed è la composizione più autorevole della Corte di
cassazione. Vediamo quali sono le ipotesi in cui la Corte si pronuncia a Sezioni
Unite. La Corte pronuncia a Sezioni Unite nei casi previsti nel n.1 dell’art.360 e
nell’art.362: si tratta di ricorsi aventi ad oggetto questioni di giurisdizione infatti se
torniamo indietro vediamo che nell’art.360 n.1 si parla del ricorso ordinario per
Cassazione avente ad oggetto motivi attinenti alla giurisdizione, mentre nell’art.362
si fa riferimento al ricorso per Cassazione proposto avverso decisioni in grado di
appello o in unico grado di un giudice speciale per motivi attinenti alla giurisdizione
442
del giudice stesso e nel secondo comma si parla del ricorso per Cassazione per il
cui tramite vengono fatti valere conflitti positivi o negativi di giurisdizione tra giudici
speciali o fra questi e i giudici ordinari e i conflitti negativi di attribuzione tra la
pubblica amministrazione e il giudice ordinario. Nel secondo comma dell’art.374 si
prevede che il primo presidente possa disporre che la Corte pronunci a Sezioni
Unite anche sui ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso
difforme dalle Sezioni Semplici dunque laddove vi è un contrasto di giurisprudenza
tra le stesse sezioni semplici e su quelli che presentano una questione di massima
di particolare importanza. Nel terzo comma si prevede che anche la sezione
semplice possa ritenere di rimettere una questione alle Sezioni Unite quando
ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, un
precedente principio di diritto, e quindi ha la possibilità di rimettere ancora una
volta la questione alle Sezioni Unite. Il quarto comma dell'articolo 374 ci detta la
regola generale: in tutti gli altri casi la Corte pronuncia a sezione semplice.

Come si svolge il procedimento di fronte alla Corte di Cassazione? Il procedimento


può svolgersi in forme semplificate o nelle forme ordinarie. Le forme
semplificate si hanno nel caso in cui procedimento si svolge in camera di
consiglio senza passare attraverso un'udienza pubblica mentre invece il
procedimento ordinario che ormai si segue in ipotesi residuali è un procedimento
che passa attraverso un'udienza pubblica. Come vi ho detto la regola generale è
quella secondo cui procedimento si svolge nelle forme in camera di consiglio,
l'articolo 375 stabilisce che la Corte sia a Sezioni Unite sia a Sezioni Semplici
pronuncia con ordinanza in camera di consiglio quando riconosce di dover:

1. dichiarare l'inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale


eventualmente proposto anche per mancanza dei motivi previsti

2. abrogato

3. abrogato

4. pronunciare sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione

5. accogliere o rigettare il ricorso principale e l'eventuale ricorso incidentale per


manifesta fondatezza o infondatezza

Lasciamo stare l'ipotesi di cui al n.4 che riguarda la pronuncia sul regolamento di
competenza e di giurisdizione, sappiamo che il regolamento di competenza è un
mezzo di impugnazione ordinario (art.42) che si propone contro provvedimenti ora
in forma di ordinanza che si pronunciano sulla sola competenza, sappiamo che il
regolamento di giurisdizione (art.41) è un'istanza per il qui tramite le parti nel
processo di primo grado, prima che venga emessa sentenza, possono portare la
questione di giurisdizione direttamente di fronte alla Corte di cassazione, quindi
questo n.4 lasciamo da parte, ricordiamoci i nn. 1 e 5. Il secondo comma aggiunge
che la Corte a Sezione Semplice pronuncia con ordinanza in camera di consiglio in
ogni altro caso salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna
dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare
ovvero che il ricorso sia stato rimesso all'apposita sezione di cui all’art.376 in esito
alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio. Cerchiamo di spiegare. Nel

443
momento in cui scadono i termini per il deposito del controricorso contro l'ultimo
ricorso incidentale il cancelliere trasmette ricorso al presidente della Cassazione il
quale stabilisce subito, art.377 co.1, se la causa va rimessa alle Sezioni Unite
oppure no. A questo punto però si impone, sia che vada davanti alle Sezioni Unite,
sia che vada davanti alla Sezione Semplice, di stabilire se il procedimento si
svolge in forme semplificate oppure nelle forme ordinarie. Vediamo in che cosa
consiste la differenza.

Il procedimento in camera di consiglio è descritto dall’art.380-bis.1 in cui si dice


che della fissazione del ricorso in camera di consiglio dinanzi alla Sezione
Semplice ai sensi dell’art.375 co.2 è data comunicazione gli avvocati delle parti e
al pubblico ministero almeno 40 giorni prima, il pubblico ministero può depositare
in cancelleria le sue conclusioni scritte non oltre 20 giorni prima dell’adunanza in
camera di consiglio, le parti possono depositare le loro memorie non oltre 10 giorni
prima dell'adunanza in camera di consiglio, in camera di consiglio la Corte giudica
senza l'intervento del pubblico ministero e delle parti. Quindi laddove si segua la
procedura semplificata viene dato avviso al pubblico ministero e alle parti almeno
40 giorni prima e il pubblico ministero e le parti sono ammessi a depositare il
primo delle conclusioni scritte non oltre 20 giorni prima dell’adunanza, le seconde
memorie non oltre 10 giorni prima dell'adunanza in camera di consiglio, dopodiché
in camera di consiglio la Corte giudica in assenza sia del pubblico ministero sia
delle parti. Il provvedimento finale, lo si evince dall’art.375 che abbiamo letto
precedentemente, è redatto informa di ordinanza.

Vediamo adesso il procedimento ordinario. Questo passa attraverso la pubblica


udienza, l’art.377 prevede che dell'udienza è data comunicazione dal cancelliere
agli avvocati delle parti almeno 20 giorni prima. Nell’art.378 si prevede che le parti
possono presentare le loro memorie cancelleria non oltre cinque giorni prima
dell’udienza e l’art.379 si dice che all'udienza il relatore riferisce i fatti rilevanti per
la decisione del ricorso, il contenuto del provvedimento impugnato e, in riassunto,
se non vi è discussione delle parti, i motivi del ricorso del controricorso; nel
secondo comma si stabilisce che dopo la relazione il presidente invita il pubblico
ministero a esporre regolarmente le sue conclusioni motivate e quindi i difensori
delle parti a svolgere le loro difese, non sono ammesse repliche. L’art.380 afferma
che la Corte dopo la discussione della causa delibera nella stessa seduta la
sentenza in camera di consiglio, quindi all'indomani dell'udienza in cui prima
interviene il relatore, poi interviene il pubblico ministero e poi i difensori delle parti
senza la possibilità di replicare, si conclude con un provvedimento che ha la forma
della sentenza.

Una precisazione pratica: la numerazione dei provvedimenti della Corte di


cassazione è unitaria quindi vengono numerati in maniera progressiva in base a un
criterio cronologico a prescindere dal se rivestano la forma dell'ordinanza oppure
della sentenza.

444
Vediamo adesso in pratica come si muove la causa all'interno della Corte di
cassazione. Il primo presidente una volta che il cancelliere presenta il ricorso deve
immediatamente valutare se rimettere la causa alle sezioni unite oppure no:

- se ricorrono le condizioni dell’art.374 rimette alle Sezioni Unite;

- altrimenti, dice l’art.376, assegna i ricorsi ad un'apposita sezione che verifica se


sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’art.
375 co.1 nn.1 e 5;

Precisiamo. In base a questa disposizione il primo presidente se non rimette la


causa alle Sezioni Unite assegna il ricorso alla sezione filtro, che è la sesta
sezione della Corte di cassazione, la quale è chiamata a verificare se sussistono i
presupposti per dichiarare l'inammissibilità del ricorso principale e di quello
incidentale anche per mancanza dei motivi oppure, n.5, accogliere o rigettare il
ricorso principale e l'eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o
infondatezza. Se, art.380-bis, la sesta sezione ritiene sussistente uno di questi
presupposti su proposta del relatore il presidente fissa con decreto l'adunanza
della corte indicando se è stata ravvisata un'ipotesi di inammissibilità, di manifesta
infondatezza o di manifesta fondatezza del ricorso; comma secondo: almeno 20
giorni prima della data stabilita per l’adunanza il decreto è notificato agli avvocati
delle parti i quali hanno facoltà di presentare memorie non oltre 5 giorni prima, se a
questo punto la valutazione viene confermata la sesta sezione della Corte
pronuncia con ordinanza rispettivamente la inammissibilità, la manifesta
infondatezza la manifesta fondatezza, in caso contrario, ultimo comma dell’art.
380-bis, se non ritiene che ricorrano le ipotesi previste dall’art.375 co.1 nn.1 e 5 la
Corte in camera di consiglio rimette la causa alla sezione semplice che la dovrà
trattare in pubblica udienza quindi si prosegue nelle forme ordinarie così come già
previsto nell’art.375 co.2 seconda parte.

Torniamo all’art.376, se invece la sesta sezione in base a un esame sommario


ritiene che non sussistano i presupposti di cui all’art.375 co.1 nn.1 e 5 allora il
presidente omessa ogni formalità rimettere gli atti alla sezione semplice la quale,
torniamo ancora all’art.375 co.2, come regola generale pronuncerà ordinanza in
camera di consiglio a meno che la trattazione in pubblica udienza sia resa
opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve
pronunciare.

Queste sono le regole di svolgimento del procedimento per Cassazione.

Due precisazioni:

1. Per quanto riguarda l'eventuale attività istruttoria ricordatevi che nel corso del
giudizio di Cassazione non sono ammesse nuove prove. Questo divieto è
assoluto con riferimento alle prove costituende mentre con riferimento alle
prove precostituite, quindi alle prove documentali, l’art.372 consente il
deposito di atti e documenti che riguardano la nullità della sentenza impugnata
e l'ammissibilità del ricorso e del controricorso. Questa previsione è stata letta
in senso ampio dalla Corte di cassazione la quale ha ritenuto ammissibili

445
anche i documenti volti a dimostrare eventi che determinano la cessazione
della materia del contendere, per esempio un’avvenuta transazione.

2. Il procedimento in Cassazione è un procedimento dominato dall'impulso


d'ufficio e non dall'istanza di parte quindi una volta che viene messo in moto
dal deposito del ricorso il processo va avanti d’ufficio, infatti non è prevista
l'interruzione del processo, non è prevista l’estinzione per inattività delle parti,
è prevista soltanto l'estinzione per rinuncia (art.390).

Abbiamo detto fin dall'apertura della trattazione del ricorso per Cassazione che
una condizione imprescindibile affinché la Corte possa veramente svolgere la
funzione nomofilattica che le viene assegnata dall’art.65 dell’ordinamento
giudiziario è la riduzione del numero dei ricorsi che vengono annualmente
presentati, solo questa è la condizione che consentirebbe alla Corte di svolgere la
propria funzione assicurando l'esatta e uniforme interpretazione del diritto. A
questo scopo secondo un'opinione molto diffusa che però non è sicuramente
unanime sarebbe fondamentale introdurre un filtro all'accesso in Cassazione
quindi prevedendo che possono essere presentati ricorsi soltanto, ad esempio,
laddove c'è una violazione di una norma di diritto sostanziale o processuale che
ponga una questione generale oppure con riferimento alla quale si siano verificati
dei contrasti tra le sezioni della Corte di cassazione o comunque sussistano degli
orientamenti non conformi all'interno della Cassazione. Abbiamo già ricordato il
disposto dell’art.366-bis che aveva introdotto il c.d.quesito di diritto che in effetti
era stato abusato dalla Corte, era una sorta di trappola in cui finivano per cadere
soprattutto gli avvocati inesperti che si sono improvvisati cassazionisti, era uno
strumento che ad un certo punto molto opportunamente è stato eliminato dal
legislatore del 2009 perché non era un filtro era una trappola nella quale finivano
per cadere anche i ricorsi per il cui tramite venivano portate questioni della
massima importanza davanti alla Corte di cassazione. Il legislatore del 2009 allora
dopo aver abrogato il famigerato quesito di diritto ha introdotto l’art.360-bis per il
cui tramite sono stati previsti due ulteriori casi di inammissibilità del ricorso:

• Il primo caso riguarda l'ipotesi in cui il provvedimento impugnato ha deciso le


questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame
dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della
stessa. Non è un vero e proprio filtro, qui viene dichiarato inammissibile un
ricorso che evidentemente è infondato nel merito e quindi non è di alcuna utilità.

• Il numero 2 prevede invece il caso in cui è manifestamente infondata la censura


relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo. Qui si fa
riferimento evidentemente a motivi che hanno ad oggetto vizi di tipo formale o
extra formale ma anche questa è una previsione che è del tutto inutile perché se
viene denunciato il difetto di un requisito extra formale i requisiti formali
riguardano sicuramente tutti il giusto processo, si parla della legittimazione delle
parti e del giudice; per quanto riguarda invece la violazione delle disposizioni
relative alla validità degli atti processuali, quindi al difetto di requisiti formali, se si
aderisce alla ricostruzione che vuole che la disciplina delle forme del processo
vada ricostruita in vista dello scopo dell'atto quindi nell'ottica di ritenere l'atto
446
nullo se impedisce all'atto di raggiungere il suo scopo, quindi di consentire alle
altre parti e al giudice di esercitare i propri poteri processuali, i poteri processuali
sono esercizio del diritto di azione, del diritto di difesa, della giurisdizione, quindi
in ogni caso comportano una violazione dei principi regolatori del giusto
processo quindi si tratta in questo caso di uno strumento che non è di alcuna
utilità, che non riesce a consentire un filtro dei ricorsi che sono presentati.

447
Lezione 25 - 29/05/20
Andiamo adesso ad analizzare la disciplina del GIUDIZIO DI RINVIO, disciplina
contenuta negli articoli da 392 a 394 cpc. A fronte dell'attuale testo normativo,
secondo quella che è l'interpretazione preferibile, il giudizio di rinvio deve essere
ritenuto la prosecuzione del giudizio di cassazione, quindi la sua eventuale fase
rescissoria. Il giudizio di rinvio nel quadro del sistema delle impugnazioni ha dato
adito a grossi dibattiti, nel tempo sono state presentate almeno tre diverse opzioni
interpretative:

1) c’è chi lo ha ritenuto la ripetizione del giudizio di appello

2) chi una fase del tutto autonoma del quadro del sistema delle impugnazioni
civili

3) c'è chi lo ha ritenuto la fase rescissoria del giudizio di cassazione. Oggi come
oggi si può dire che è quest'ultima la tesi che trova riscontro nel testo
normativo, cerchiamo di dire i motivi di questa affermazione:

vediamo innanzitutto perché il giudizio di rinvio non si presta ad essere


considerato la rinnovazione del giudizio di appello. L'equivoco nasce dal fatto che
come regola generale l'art 383 primo comma stabilisce che “la corte di
cassazione, quando accoglie il ricorso per motivi diversi rispetto a quelli richiamati
nel precedente articolo, rinvia la causa ad altro giudice di grado pari a quello che
ha pronunciato la sentenza cassata”, quindi è generalmente un giudice di appello.
Però se noi andiamo a leggere l'art 393, vediamo che se la riassunzione non
avviene entro il termine di cui all'articolo precedente, o se si avvera
successivamente ad essa una causa di estinzione del giudizio di rinvio, l'intero
processo si estingue, ma la sentenza della corte di cassazione conserva il suo
effetto vincolante anche nel nuovo processo che si è instaurato con la
riproposizione della domanda —> Qui si fa riferimento alle ipotesi in cui il giudizio
di rinvio NON sia tempestivamente riassunto, come imposto dall'art 392, entro 3
mesi dalla pubblicazione della sentenza della corte di cassazione, oppure al caso
in cui, tempestivamente riassunto, si estingua; e l'art 393 stabilisce che in questo
caso cade tutto il processo, cadono tutti gli atti del processo, salvo la sentenza
della corte di cassazione. Quindi sarà la sentenza che contiene l'enunciazione
del PRINCIPIO DI DIRITTO, che conserva il suo effetto vincolante anche nel
processo cosiddetto riproposto, cioè il secondo e autonomo processo che si è
instaurato tra le stesse parti con riferimento alla stessa domanda.

Perché questa disposizione preclude la possibilità di considerare il giudizio di


rinvio una rinnovazione del giudizio di appello? La differenza la cogliamo mettendo
a confronto la regola dell'art 393 cpc, quindi la caducazione dell'intero processo,
con il disposto dell'art 338 cpc, laddove questa disposizione afferma che a
seguito della estinzione del giudizio di appello, passa in giudicato la sentenza di
primo grado.

Le due regole sono diverse e da questo possiamo tranquillamente desumere che il


giudizio di rinvio NON è la rinnovazione del giudizio di appello, il giudizio di rinvio è
un qualcosa di successivo, che anzi dà per presupposto lo svolgimento
448
dell'appello, e dà per presupposto anche l'effetto sostitutivo della sentenza
d'appello, perché, che la sentenza d'appello non sopravviva all'estinzione del
giudizio di rinvio è comprensibile, perché il presupposto del giudizio di rinvio è che
la corte, accolto il ricorso, abbia annullato la sentenza impugnata, ma la
spiegazione del perché non sopravviva neppure la sentenza di primo grado la si
rinviene soltanto nell'effetto sostitutivo dell'appello, nella considerazione secondo
cui cioè, la sentenza di appello ha preso il posto della sentenza di primo grado,
che quindi ha perso rilevanza nell'ordinamento giuridico.

Gli unici problemi si pongono con riferimento a quelle ipotesi eccezionali in cui la
sentenza di appello NON esplica la propria efficacia sostitutiva rispetto alla
sentenza di primo grado, sono i casi in cui il giudice di secondo grado abbia
chiuso in rito il processo dichiarando l'INAMMISSIBILITÀ, l'IMPROCEDIBILITÀ,
l'ESTINZIONE dell'appello; perché a queste particolare ipotesi di sentenze emesse
dal giudice dell'appello consegue il passaggio in giudicato della sentenza di
primo grado, sono ipotesi eccezionali che probabilmente devono essere sottratte
dalla regola generale dell'art 393.

Allora esclusa la possibilità di ritenere il giudizio di rinvio come una rinnovazione


del giudizio di appello, si tratta di verificare perché NON può essere considerata
una fase autonoma, rispetto alla cassazione, come invece autorevolmente
sostenuto in dottrina: la spiegazione la troviamo nell'art 384, laddove si legge che
“la corte di cassazione deve decidere la causa nel merito se non sono necessari
ulteriori accertamenti di fatto”. Il giudizio di rinvio a questo punto è un'alternativa
rispetto alla decisione della corte di cassazione, e questo porta a ritenere che il
giudice del rinvio non sia altro che una sorta di delegato della corte di cassazione,
siccome la corte di cassazione NON può svolgere attività probatoria, attività
istruttoria, non può assumere prove, e non può nemmeno valutare prove che siano
già state acquisite dal giudice precedente, deve delegare queste attività ad un
altro giudice, che è il giudice del rinvio. Quindi il giudice del rinvio delegato è
chiamato a compiere quelle attività che la corte, per motivi istituzionali, non ha
potuto svolgere.

In base a questi rilievi possiamo confermare che il giudizio di rinvio è la fase


rescissoria del giudizio di cassazione.

Vediamo l'OGGETTO del giudizio di rinvio e vediamo le REGOLE DI


SVOLGIMENTO.

Innanzitutto, è pacifico che il giudizio di rinvio si deve chiudere con una sentenza
di merito, perché il giudice di rinvio non può più rilevare eventuali vizi insanabili
del procedimento, cioè tutte quelle questioni di rito rilevabili anche d'ufficio in ogni
stato e grado del processo —> o sono rilevate dalla corte di cassazione, oppure
sono sanate, perché il giudice di rinvio NON può più rilevarle. La conclusione è che
quindi questa fase del processo necessariamente si chiude con una sentenza di
merito.

449
Vediamo l'OGGETTO del giudizio di rinvio: si ritiene che l'oggetto del giudizio di
rinvio sia determinato sia dall’iniziativa delle parti, sia dalla sentenza della corte
di cassazione. Le parti, nel momento in cui propongono il ricorso per cassazione,
naturalmente ricorso principale e ricorso incidentale, individuano l'oggetto
QUANTITATIVO, quindi il rapporto o la frazione di rapporto che è ancora
controverso e che viene portato alla cognizione della corte suprema.

Ma individuano anche l'oggetto QUALITATIVO, quindi le questioni o i segmenti


interni alle questioni (ripensiamo a tutto quanto abbiamo detto dell'art 329.2,
parlando dell’appello), che sono ancora aperte, che si vuole che siano riesaminate
dalla corte. Tutto ciò che non è oggetto di motivi di ricorso per cassazione, passa
in giudicato, e, se si tratta di questioni, si forma su queste il cosiddetto giudicato
interno, quella preclusione che fa sì che su quella questione nessun giudice possa
tornare in quel processo.

Quindi sicuramente l'iniziativa delle parti è il primo elemento che contribuisce a


individuare l'oggetto del giudizio di cassazione e, successivamente, l'oggetto del
giudizio di rinvio.

L’altro elemento è rappresentato sicuramente dalla sentenza della corte di


cassazione, che dispone il rinvio —> il rinvio viene disposto a seguito
dell'accoglimento di uno o più dei motivi di ricorso che sono stati proposti, certo,
abbiamo detto nella spiegazione del ricorso per cassazione che i motivi respinti
determinano il passaggio in giudicato della parte li sentenza che ne costituiva
l'oggetto, quindi attraverso la propria sentenza, la corte individua sia il capo di
domanda, quindi il rapporto o la frazione di rapporti ancora controverso, che è
quello in cui si inserisce la questione oggetto del motivo che è stato accolto, sia la
questione o le questioni su cui gravano i vizi ritenuti esistenti; quindi al giudice del
rinvio viene rimesso il rapporto o frazione di rapporto in cui si inserisce il motivo di
ricorso che è stato accolto, e che ha occasionato il rinvio, e quindi la questione su
cui oggetto del motivo di ricorso che è stato accolto e con riferimento al quale
viene disposto il rinvio.

Con riferimento naturalmente a questa questione, la corte dà un'indicazione al


giudice del rinvio, formulando il principio di diritto che dovrà applicare. Quindi il
giudizio di rinvio parte laddove finisce la pronuncia della corte di cassazione, il
giudice del rinvio non deve fare altro che portare a compimento il giudizio
sull'esistenza o non esistenza del diritto azionato, nei limiti in cui la lite è ancora
aperta. Quindi, a seconda del motivo accolto, e con riferimento al quale viene
disposto il rinvio, l'attività delegata dalla corte al giudice di rinvio è più o meno
ampia. Quindi se il rinvio viene disposto a seguito dell'accoglimento di un motivo
di ricorso di cui al numero 3 dell'art 360, quindi "per violazione o falsa
applicazione delle norme di diritto”, la corte indicherà al giudice di rinvio, nel suo
principio di diritto, la norma da applicare o la sua corretta interpretazione.

Il giudice di rinvio dovrà svolgere le attività successive a questo punto, quindi


dovrà lasciare intatte le questioni logicamente precedenti a quella oggetto del
ricorso che è stato accolto, quindi questa parte della ricostruzione della fattispecie
450
si consolida, perché non è toccata dalla pronuncia della corte di cassazione,
mentre invece il giudice del rinvio dovrà accertare tutti quei fatti che, in base al
principio di diritto elaborato dalla corte di cassazione, hanno acquistato giuridica
rilevanza. Se è stato accolto un motivo di ricorso relativo alla nullità della sentenza
o del procedimento, quindi numero 4 del 360, il giudice del rinvio dovrà
semplicemente ripetere l'atto su cui gravi la nullità, nonché tutti gli atti successivi e
dipendenti; quindi le parti potranno essere rimesse in termini nell’esercizio di quei
poteri processuali che a causa della nullità non hanno potuto esercitare.
L'ampiezza dell'attività in questo caso dipende dal punto, dal momento in cui si è
verificato il vizio: se il vizio riguardava l'atto introduttivo, è chiaro che dovrà essere
rinnovato tutto il processo, se riguarda invece la fase decisoria, sarà rinnovata
soltanto questa.

Infine, nell'ipotesi in cui venga accolto il ricorso per omesso esame circa un fatto
decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, il giudice del
rinvio dovrà procedere semplicemente all'accertamento del fatto che, pur essendo
stato controverso tra le parti, non è stato esaminato dal giudice precedente.
Quindi l'attività del giudice di rinvio è più o meno ampia, dipende dai limiti stabiliti
vuoi dalle parti vuoi dalla corte di cassazione nel momento in cui ha disposto il
rinvio.

Vediamo le REGOLE DI SVOLGIMENTO del giudizio di rinvio, che sono


estremamente scarne: il giudizio di rinvio NON si mette in moto di ufficio, infatti
l'art 392 stabilisce che “la riassunzione della causa davanti al giudice del rinvio
può essere fatta da ciascuna delle parti non oltre 3 mesi dalla pubblicazione della
sentenza della corte di cassazione”, e nel secondo comma stabilisce che “la
riassunzione si fa con citazione, la quale è notificata personalmente a norma degli
articoli 137 e seguenti”. Vorrei farvi notare che la previsione contenuta nell'art 392,
a tenore della quale il giudizio di rinvio si apre attraverso la riassunzione,
corrisponde perfettamente alla ricostruzione che abbiamo offerto del giudizio di
rinvio come fase riescissoria del giudizio di cassazione, come proseguimento del
giudizio di cassazione: infatti la riassunzione nell'ambito del codice di procedura
civile, il termine riassunzione, sta sempre ad indicare la ripresa di un processo che
è già pendente di fronte allo stesso giudice —> pensate alla riassunzione del
processo sospeso o alla riassunzione del processo interrotto, oppure di fronte a un
giudice diverso, pensate alla riassunzione del processo di fronte al giudice
competente.

Quindi, in questa previsione la forma della riassunzione conferma la ricostruzione


che abbiamo offerto.

Sull'art 393 ci siamo già soffermati.

L'art 394 si occupa dello svolgimento del procedimento e il primo comma afferma
che in sede di rinvio si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti al
giudice al quale la corte ha rinviato la causa, e in ogni altro caso deve essere
prodotta copia autentica della sentenza di cassazione.

451
Nel secondo comma si prevede che le parti conservano la stessa posizione
processuale che avevano nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza
cassata, e diciamo questa previsione è conforme a quanto ci siamo detti, cioè che
il giudice del rinvio non deve fare altro che portare a compimento il giudizio,
svolgere quell'attività che la corte di cassazione non ha potuto svolgere, non è che
si ricomincia da capo, le parti non possono svolgere qualsiasi potere processuale,
ma potranno svolgere soltanto i poteri processuali che sono consequenziali
rispetto alla pronuncia della corte di cassazione.

Nell'ambito dell'ultimo comma troviamo la previsione secondo cui, nel giudizio di


rinvio, può deferirsi giuramento decisorio, ma le parti ma NON possono prendere
conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu pronunciata la
sentenza cassata, salvo che la necessità delle nuove conclusioni sorga dalla
sentenza di cassazione.

Come vedete le uniche ATTIVITÀ NUOVE che sono ammesse, a parte il


giuramento decisorio, che abbiamo visto ha una sorta di corsia preferenziale nel
processo civile (per motivi storici), le uniche attività nuove saranno:

> la possibilità di introdurre i fatti sopravvenuti, perché il processo civile deve


essere sempre in grado di accogliere i fatti sopravvenuti

> la legge sopravvenuta,

> e in via interpretativa, si ritiene possano essere ammessi anche i documenti su


cui la parte potrebbe fondare una revocazione ai sensi dell'art 395 che
andremo poi a vedere.

Per il resto la disposizione prevede che le parti possono svolgere solo le attività
che si rendono necessarie in base a quanto stabilito nella sentenza di cassazione.

Prima di chiudere la parte relativa all'appello e al ricorso per cassazione, è


opportuno fare qualche breve osservazione finale: abbiamo visto che il legislatore
e l'ordinamento nel dettare la disciplina dei mezzi di impugnazione, ha valorizzato
al massimo l'iniziativa delle parti. Sono le parti infatti, attraverso l'esercizio del
potere di impugnazione o, nel caso dell'appello, anche della riproposizione ex art
346, ad individuare l'oggetto del giudizio di impugnazione sotto un profilo
quantitativo, ma anche qualitativo.

La disciplina del processo di primo grado è informata sull'equilibrio, nel senso che
le norme che regolano il processo di primo grado e che attribuiscono alle parti e al
giudice del processo di primo grado i loro poteri processuali, sono norme che in
gran parte possono essere collegate al principio dispositivo, da una parte, perché
riguarda le parti, e per quanto riguarda il giudice, non possiamo dimenticare che il
legislatore, nel dettare la disciplina generale delle invalidità derivanti dal difetto di
un requisito di forma contenuto ha adottato il regime della nullità. Nullità con
riferimento alla quale ha previsto tutta una serie di meccanismi di SANATORIA: la
convalidazione soggettiva, oggettiva, la rinnovazione degli atti nulli, aventi come
scopo quello di eliminare la nullità e consentire al processo di raggiungere il suo
esito fisiologico. Cioè la pronuncia sul merito.

452
Nell'ambito dei giudizi di impugnazione invece, il legislatore ha valorizzato il
principio dell'impulso di parte, partendo da rilievo secondo cui, nel momento in
cui si prende l'iniziativa per aprire il giudizio di impugnazione, c'è già stata una
sentenza, una prima sentenza quanto meno. Quindi lo stato, attraverso il giudice,
ha già risposto alla domanda di giustizia, è già stato emanato un provvedimento
che contiene la regolamentazione del rapporto giuridico controverso, e questo
consente al legislatore di comportarsi diversamente, di adottare dei criteri diversi,
nel momento in cui detta la disciplina relativa al giudizio di impugnazione. E infatti,
nel passaggio dal grado precedente al grado successivo, l'esercizio dei poteri di
impulso processuale della parte, nella forma dell'impugnazione, oppure della
riproposizione, generalmente determina una diminuzione della lite. Nel senso che
le parti, attraverso l'esercizio di questo potere, normalmente portano di fronte al
giudice dell'impugnazione solo una parte dell'originaria controversia, cioè l'oggetto
del giudizio di impugnazione è generalmente più ridotto rispetto all'oggetto del
grado precedente di giudizio; anche sotto il profilo qualitativo, perché il numero
delle questioni devolute al giudice ad quem è tendenzialmente inferiore rispetto a
quelle portate al giudice precedente. Quindi nel passaggio dei vari gradi di
impugnazione si ha una sorta di progressiva diminuzione o composizione della lite,
perché attraverso l'esercizio dei propri poteri processuali, le parti producono il
progressivo passaggio in giudicato delle parti della sentenza impugnata. Fanno
scattare la formazione di forme di giudicato che sarà la vera e propria autorità di
cosa giudicata, se nel passaggio dal giudice inferiore al giudice superiore non
vengono impugnate parti di sentenza avente ad oggetto rapporti giuridici diversi, o
danno luogo a giudicato interno, se nel momento in cui viene impugnata la parte
di sentenza relativa al determinato rapporto giuridico i motivi di impugnazione
vengono formulati con riferimento ad alcune soltanto delle questioni decise dal
giudice precedente.

Inoltre, ricordiamoci che a livello formale, la disciplina dei giudizi di impugnazione


è una disciplina in cui lo stesso legislatore ha adottato forme di invalidità molto più
rigide della nullità. Abbiamo visto la inammissibilità o la improcedibilità, che non
ammette la sanatoria, perché una volta dichiarato in ammissibile o improcedibilità
impugnazione, la conseguenza è il passaggio in giudicato della sentenza
impugnata.

Quello che possiamo quindi osservare alla luce della ricostruzione del sistema del
processo civile che passa attraverso i suoi diversi gradi, è che l'accertamento
definitivo dell'esistenza o non esistenza e del modo di essere del rapporto
giuridico controverso, non è contenuta necessariamente in una sola sentenza, ma
passa attraverso le diverse sentenze che vengono emanate dai diversi giudici che
intervengono in quel processo nei diversi gradi, perché in ognuna delle sentenze
che vengono emanate nel corso di questo processo, vi saranno delle parti che nel
passaggio della stessa causa davanti al giudice successivo risulteranno non
toccate dai motivi di impugnazione e per questo saranno coperte dal giudicato.
D'altra parte, sappiamo che nella ricostruzione che la giurisprudenza offre, la

453
possibilità di introdurre elementi di novità nei gradi successivi al primo è molto
ridotta, l'art 345 è stato in gran parte soffocato dalla giurisprudenza, e lo stesso
vale per il giudizio di cassazione, però abbiamo detto che, con riferimento a
RICORSO PER CASSAZIONE, la scelta è una scelta comprensibile, perché la corte
di cassazione chiamata a svolgere una funzione di garanzia oggettiva, si serve
dell'iniziativa della parte soccombente, quindi indirettamente è chiaro che svolge
anche una funzione di garanzia soggettiva, ma il suo compito è un altro.

Il problema è sull'APPELLO, perché l'appello dovrebbe essere uno strumento di


garanzia soggettiva, cioè dovrebbe essere strutturato in maniera tale da offrire
alle parti la possibilità di dare il pieno sfogo alla proprie esigenze di garanzia
soggettiva, denunciando qualsiasi errore, non soltanto del giudice precedente, ma
anche errori propri. Il che tra l'altro sarebbe auspicabile alla luce degli orientamenti
che la stessa giurisprudenza ha intrapreso in tema di limiti oggettivi del giudicato,
perché l'adozione di una nozione così ampia dei limiti oggettivi del giudicato,
come quelle che la nostra giurisprudenza sta portando avanti, imporrebbe come
contropartita quella di offrire alle parti almeno due gradi di giudizio aperti, per far
valere tutti i fatti giuridicamente rilevanti, fare in modo quindi che quella vicenda
sostanziale venga definita in maniera giusta nel primo e unico processo.

Però su questo rinvio alle osservazioni di volta in volta svolte precedentemente.


Quello che mi interessa farvi notare è che quindi nel passaggio della causa da un
grado di giudizio all'altro si ha un progressivo assottigliamento della lite e di
conseguenza una formazione progressiva del giudicato.

Tradizionalmente i mezzi di impugnazione sono sempre stati divisi in due categorie


in Italia —> si tratta di due schemi teorici:

A. le AZIONI DI GRAVAME

B. le AZIONI DI IMPUGNATIVA

Si tratta di una statuizione che risale al ‘900 e che fu elaborata con la massima
chiarezza da Piero Calamandrei, che ha insegnato procedura civile qui a Firenze
ed è stato anche rettore dell'università di Firenze.

Cosa sono i MEZZI DI GRAVAME? Le azioni di gravame sono sostanzialmente


degli strumenti di impugnazione volte a dare attuazione piena al principio del
doppio grado di giurisdizione, quindi consentire a due diversi giudici l'esame
pieno della stessa controversia. Quindi, nei mezzi di impugnazione, che si
prestano ad essere ricondotti allo schema delle azioni di gravami, la parte
soccombente si rivolge al giudice superiore per ottenere il riesame completo di
tutto ciò che è stato accertato dal giudice precedente. Quindi si tratta di mezzi di
impugnazione che tradizionalmente si caratterizzano per essere aperti, cioè aperti
anche alla possibilità di introdurre anche elementi di novità, nuove domande,
nuove eccezioni, nuove prove.

Quindi l'oggetto dei mezzi di gravame è sempre il rapporto giuridico controverso e


la decisione finale è la decisione esecutiva, quindi si chiudono sempre con
provvedimenti di merito che sostituiscono quelli precedenti, quindi dotati di piena
efficacia sostitutiva e sono anche esecutivi.

454
Invece, le AZIONI DI IMPUGNATIVA erano concepite come strumenti per il cui
tramite si denunciavano al giudice superiore vizi predeterminati dalla legge, quindi
l'oggetto dei giudizi di impugnazione, delle azioni di impugnativa, non era il
rapporto giuridico controverso, ma il vizio, era la sentenza impugnata, perché lo
scopo delle azioni di impugnativa era quello di annullare la sentenza precedente, e
quindi c'era necessariamente uno sdoppiamento, una fase rescindente e volta ad
ottenere l'annullamento, la rescissione della precedente sentenza e poi la fase
cosiddetta rescissoria, che generalmente si svolgeva di fronte al giudice diverso.
Per tradizione, mentre l'appello è sempre stato ricondotto al modello delle azioni di
gravame, il ricorso per cassazione è sempre stato ricondotto alla categoria delle
azioni di impugnativa, quindi i due mezzi di impugnazione erano ritenuti
espressioni di due schemi diversi.

Quello che mi preme osservare in questo momento, e alla luce di tutta la


spiegazione che vi ho già dato, è che a seguito degli interventi che si sono
succeduti nel tempo, ma anche nell'opera portata avanti dalla giurisprudenza della
Corte di cassazione, questi due strumenti, questi due istituti finiscono per avere
molti profili in comune, perché il legislatore e la giurisprudenza hanno
progressivamente cancellato molte delle caratteristiche originarie di questi mezzi
di impugnazione, al punto da renderli quasi, non del tutto, ma quasi sovrapponibili.
L’appello continua ad essere un mezzo di impugnazione a motivi illimitati, e
questo è il profilo che lo distingue nettamente dal ricorso per cassazione, ma per il
resto molte differenze si sono attenuate, l’appello ha ad oggetto il rapporto
giuridico controverso o la frazione di rapporto giuridico denunciato dalla parte
soccombente, tuttavia, con riferimento al capo di domanda che viene impugnato,
non funziona più l'effetto devolutivo automatico, la fissazione del materiale
cognitivo è rimesso all'esame del giudice di secondo grado passa in maniera
esclusiva attraverso l'impulso delle parti.

Il ricorso per cassazione dal canto suo non si presta più ad essere ricondotto alla
categoria delle azioni di impugnativa, perché non è vero che ha ad oggetto la
sentenza impugnata, che la sua caratteristica è quella di essere un giudizio a
carattere meramente rescindente: l’art 384 ci dice infatti che la corte di cassazione
deve decidere nel merito la causa, quando non sono necessari ulteriori
accertamenti di fatto, e questo si dice che ricorso per cassazione è un mezzo di
impugnativa rescissorio, che ha ad oggetto il rapporto giuridico controverso.
Entrambi i giudizi hanno una struttura tendenzialmente CHIUSA, perché abbiamo
detto che l'art 345 è stato soffocato dalla giurisprudenza, che di fatto limita attività
come quella della modifica della domanda o della proposizione delle nuove
eccezioni rilevabili d’ufficio, imponendo un divieto non scritto da nessuna parte di
allegazione di nuovi fatti di fronte al giudice dell'appello.

D'altra parte, la corte di cassazione ha anche notevolmente ridotto il novero delle


nuove prove che possono essere dedotte in appello: il legislatore del 2012 ha
accolto l'orientamento della cassazione che ha cancellato la possibilità di
introdurre nuove prove documentali di fronte al giudice dell'appello.

455
Inoltre, vi ricordo che in non poche ipotesi il giudice dell'appello è il giudice di
primo e unico grado.

Questi brevi rilievi, che sono un rinvio a cose già dette, fondano la conclusione
secondo cui questi mezzi di impugnazione non sono poi così diversi, anzi sono
molto avvicinati e entrambi hanno la tendenza, pur avendo ad oggetto ancora oggi
il rapporto giuridico controverso, ad assumere sempre più le forme dell’AZIONE DI
IMPUGNATIVA. Si tratta di una realtà su cui vale la pena meditare, perché, da una
parte si tratta di di un sistema che finisce per non funzionare, perché l'appello non
consente alle parti di svolgere in maniera adeguata il proprio diritto di azione e di
difesa, perché non consente alle parti di recuperare propri errori, e la corte di
cassazione finisce per non assolvere la sua funzione assegnatale dall'ordinamento
giudiziario, la funzione nomofilattica, che richiederebbe una drastica diminuzione
di ricorsi.

Queste potrebbero essere osservazioni di base su cui meditare e su cui fondare


una revisione coraggiosa della disciplina di questi strumenti di impugnazione.

SECONDA PARTE

andiamo adesso ad esaminare la revocazione.


la revocazione è un mezzo di impugnazione a motivi limitati, i motivi li ritroviamo
indicati tassativamente nell'articolo 395, come forse è emerso quando abbiamo
trattato i termini cui sono soggetti i mezzi di impugnazione, nell'ambito della
revocazione si distinguono i motivi:

• di cui ai numeri 4 e 5, con riferimento ai quali la revocazione prende le forme


di un mezzo di impugnazione ordinario
• e invece i motivi di cui ai numeri 1,2,3 e 6, nonché l’art 397 n 1 e 2 in cui la
revocazione è un mezzo di impugnazione straordinaria

i motivi che stanno alla base della revocazione come un mezzo di impugnazione
ordinario sono motivi palesi cioè sono motivi che la parte può conoscere nel
momento stesso in cui la sentenza viene pubblicata invece i motivi posti a base
della revocazione come mezzo di impugnazione straordinario sono occulti cioè la
parte non li conosce immediatamente nel momento in cui la sentenza viene
pubblicata, ma sono sopravvenuti. Quindi, sono conoscibili dalla parte solo a
seguito della scoperta di fatti che in precedenza la parte poteva non conoscere.

quali sono le sentenze impugnabili attraverso la rievocazione?

Allora, la revocazione ordinaria può essere proposta solo contro le sentenze di


appello o le sentenze pronunciate in unico grado, non può mai essere proposta
contro le sentenze di primo grado perché le sentenze di 1° grado sono appellabili,
l'appello è mezzo di impugnazione a motivi illimitati e quindi i motivi della
revocazione ordinaria possono essere fatti valere attraverso l'appello.

456
Con riferimento invece alla revocazione straordinaria sono impugnabili le
sentenze d'appello o le sentenze pronunciate in unico grado e le sentenze di
primo grado ove queste ultime siano passate in giudicato.
Infatti, se la parte viene a conoscenza dei motivi della revocazione straordinaria nel
corso dei termini per appellare questi motivi devono essere fatti valere attraverso
l'appello, per altro l’art 396 prevede che in questo caso il termine per appellare è
prorogato dal giorno della conoscenza del motivo in modo da raggiungere
comunque i 30 gg.

Il giudice competente a conoscere della revocazione è lo stesso giudice che ha


pronunciato la sentenza impugnata, come afferma espressamente l'articolo 398.

La revocazione è soggetta a termini posti a pena di decadenza, questi termini


sono con riferimento:

➢ alla revocazione ordinaria torniamo gli articoli 325 e ss. Il termine per la
revocazione è di 30gg, questi 30 giorni - ci dice l'articolo 326, nei casi
previsti- sono termini perentori che decorrono dalla notificazione della
sentenza e questa regola generale vale con riferimento ai motivi di cui ai
numeri 4 e 5 dell'articolo 395 quindi vale con riferimento alla revocazione
come mezzo ordinario di impugnazione.
➢ mentre invece, con riferimento ai casi previsti nei numeri 1,2,3 e 6
dell'articolo 395 e ai casi di cui all’art 397, il termine decorre dal giorno in
cui viene scoperto il fatto che costituisce l'oggetto del motivo di
revocazione. Quindi dal giorno in cui è stato scoperto il dolo o la falsità o la
collusione o è stato recuperato il documento o è passata in giudicato la
sentenza di cui al numero 6 dell'articolo 395.

Il giudizio di revocazione è un giudizio in cui si distinguono due fasi:

i. c'è una fase rescindente


ii. e una fase rescissoria

la fase rescindente ha ad oggetto il motivo di revocazione dove il giudice


accerta la fondatezza del motivo di revocazione, rescinde la sentenza impugnata e
si apre la fase rescissoria.

La fase rescissoria ha ad oggetto il rapporto sostanziale su cui è stata


pronunciata la sentenza annullata e si conclude con una sentenza che decide il
merito della controversia.

Se per la decisione non devono essere assunti nuovi mezzi di prova, la sentenza
che pronuncia la revocazione può pronunciare immediatamente e contestualmente
sul merito, come prevede l'articolo 402.

La sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione è suscettibile di


impugnazione attraverso i mezzi di impugnazione cui era soggetta la
sentenza impugnata per revocazione, quindi dipende dal se si tratta di una
sentenza di primo grado - nel qual caso sarà suscettibile appello - oppure una
sentenza d’appello- nel qual caso sarà suscettibile di ricorso per Cassazione.

457
La revocazione si propone con citazione che a pena di inammissibilità deve
contenere il motivo di revocazione.

la citazione viene depositata a pena di improcedibilità entro 20 giorni dalla


notificazione nella cancelleria del giudice competente e le altre parti devono
costituirsi entro lo stesso termine mediante deposito in cancelleria di una
comparsa.

La revocazione non sospende l'efficacia esecutiva o l'esecuzione della sentenza


impugnata ma l'articolo 401 richiama l’art 373 cpc per cui al giudice della
revocazione può essere chiesta la sospensione qualora dall'esecuzione possa
derivare grave e irreparabile pregiudizio. Il procedimento in base all'art 400, per
quanto non esplicitamente derogato, è quello del giudizio in cui è stata emanata la
sentenza impugnata.

Il fatto che venga proposta revocazione contro una sentenza d'appello pronunciata
in unico grado non sospende il termine per proporre ricorso per Cassazione, così
come, se è stato proposto prima il ricorso per Cassazione non sospende il
procedimento di Cassazione, ma la legge nell'articolo 398 ultimo comma
attribuisce al giudice della revocazione la possibilità su istanza di parte di
sospendere il termine o il procedimento di Cassazione fino alla comunicazione
della sentenza sulla revocazione.

Il tutto subordinatamente ad una valutazione di non manifesta infondatezza della


revocazione stessa.

Andiamo ad analizzare adesso i motivi di revocazione partendo dall’analisi dei


numeri 4 e 5 quindi della revocazione come mezzo ordinario di impugnazione che
abbiamo detto è esperibile contro le sentenze d'appello o pronunciate in unico
grado.

il numero 4 prevede “la revocazione della sentenza che è effetto di un errore di


fatto risultante dagli atti o documenti della causa.
Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la
cui verità è incontrastabilmente esclusa oppure quando e supposta la non
esistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita e tanto nell’uno quanto
nell'altro caso se il fatto non costituisce un punto controverso sul quale la sentenza
ebbe a pronunciare.”

Allora, appare chiaro che questo motivo di revocazione concerne un errore di fatto
che deve risultare dagli atti o documenti della causa e che non deve essere
controverso fra le parti. Si tratta quindi è di un errore di percezione, una svista.
Vedete che c'è una situazione che richiama la previsione di cui al numero 5
dell'articolo 360 quindi del motivo di ricorso per Cassazione per omesso esame di
un fatto decisivo che è stato discusso tra le parti.

458
La differenza fra i due motivi (fra motivo di ricorso per Cassazione di cui al
numero 5 dell'articolo 360 e il motivo di revocazione ex n 4 dell'articolo 395) sta
nel fatto che con riferimento al motivo di revocazione si parla di un fatto non
controverso fra le parti, mentre l'articolo 360 prevede espressamente che il fatto
è stato oggetto di discussione fra le parti.

Si rileva che il vizio di cui al numero quattro dell'articolo 395 presenta delle affinità
con gli errori materiali, con gli errori di calcolo di cui agli articoli 287 e ss ma
mentre l'errore materiale risulta dal testo della sentenza, l'errore di fatto - che
costituisce motivo di revocazione- ha un fondamento extra testuale cioè non
emerge dalla sentenza ma emerge dagli atti e dai documenti del processo.

Il numero 5 dell'articolo 395 fa riferimento “alla sentenza che è contraria ad altra


avente fra le parti autorità di cosa giudicata purché non abbia pronunciato sulla
relativa eccezione”

Allora c'è un orientamento della giurisprudenza che è assolutamente consolidato


nel senso di ritenere che questo motivo di revocazione riguarda soltanto il
giudicato esterno perché le violazioni del giudicato interno debbono essere fatte
valere attraverso ricorso per Cassazione presentato ai sensi del n 4 art 360.

Inoltre, affinché possa essere proposta la revocazione, la giurisprudenza richiede


che l’eccezione di giudicato esterno non sia stata fatta valere né in primo grado né
in secondo grado perché se l’eccezione è stata sollevata allora è necessario
proporre ricorso per Cassazione.

Nella disciplina del processo questo motivo di revocazione è importante perché è


in virtù di questa previsione che si ritiene che l'eccezione di giudicato esterno
possa essere rilevata -> attualmente è ritenuta un'eccezione rilevabile d’ufficio a
prescindere da qualsiasi preclusione, per cui l'ultimo momento per proporre o
rilevare questa eccezione sta nel momento in cui scadono i termini per
proporre revocazione, se può costituire motivo di revocazione si dice, infatti,
tanto vale per rilevarla nel corso del processo che è già aperto a prescindere dal
sistema di preclusioni messo a punto dal legislatore.

In secondo luogo, è importante perché nel momento in cui si può ritenere, a fronte
di questo numero 5 dell'articolo 395, che la violazione di un precedente giudicato è
un vizio della seconda sentenza che deve essere fatto valere entro il termine posto
a pena di decadenza per la proposizione della revocazione ordinaria, allora si ritiene
che di conseguenza laddove questo vizio non venga rilevato e quindi non venga
proposta la revocazione ordinaria il vizio si sana, per cui nel conflitto fra i due
giudicarti prevale necessariamente il secondo.

459
secondo la giurisprudenza la revocazione ordinaria può essere proposta non
soltanto nel caso in cui l'oggetto dei due processi è lo stesso diritto ma anche
nelle ipotesi in cui il secondo processo ha ad oggetto un diritto giuridicamente
dipendete rispetto al diritto oggetto del precedente giudicato.

Allora, questi sono i motivi di revocazione ordinaria, siccome la revocazione


ordinaria può essere esperita contro le sentenze d'appello pronunciate in unico
grado questo è un rimedio che concorre con il ricorso per Cassazione.
Quindi, contro la stessa sentenza d'appello è possibile proporre ricorso per
Cassazione per i motivi di cui all'articolo 360 numeri da 1 a 5 o revocazione
ordinaria per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell'articolo 395, quindi si ha una
concorrenza dei due rimedi, se è proposta la revocazione ordinaria si apre un
processo per il cui tramite si chiede al giudice della revocazione un nuovo esame
della decisione già presa dal giudice precedente e che è suscettibile di ricorso per
Cassazione. Questo spiega anche il motivo per cui si attribuisce al giudice della
revocazione il potere - laddove il processo sia proposto contestualmente,
parallelamente ricorso per Cassazione - si ammette che il giudice della
revocazione possa sospendere il procedimento di Cassazione perché sul piano
logico la decisione del giudizio di revocazione che ha ad oggetto la decisione
assunta dal giudice precedente è pregiudiziale, è precedente rispetto all'oggetto
del giudizio Cassazione.

File audio 4

Andiamo adesso ad esaminare i motivi che sfondano la revocazione


straordinaria che abbiamo detto può essere esperita contro sentenze d'appello
o pronunciate in unico grado o sentenze di primo grado passate in giudicato,
quindi è l'unico mezzo di impugnazione che può essere esperito contro il
giudicato, peraltro entro un termine perentorio che è di 30 giorni che decorre dal
giorno:

o in cui è stato scoperto il dolo,

o la falsità della prova,

o è stato recuperato il documento

o o è passata in giudicato la sentenza che abbia accertato il dolo del giudice,

quindi si fa riferimento al giorno in cui la parte viene a conoscenza del fatto


oggetto del motivo di revocazione.

Nel n1 si fa riferimento alla sentenza effetto del dolo di una delle parti in danno
dell’altra.

La norma fa riferimento ad un dolo unilaterale e questo segna la distanza rispetto,


invece, a quanto considerato nell’articolo 397 n 2 in tema di revocazione del

460
pubblico ministero e 404 secondo comma in tema di opposizione di terzo
revocatoria -> in queste fattispecie infatti ciò che rileva è un dolo bilaterale.

Che cos’è il dolo?

secondo l’interpretazione giurisprudenziale prevalente il DOLO REVOCATORIO


non è semplicemente un comportamento sleale o scorretto quindi non è l’ipotesi in
cui la parte abbia fatto dichiarazioni e affermazioni false o allegazioni false
nell’ambito del processo, si richiede qualcosa di più, si richiede che questa parte
abbia posto in essere artifizi, raggiri, generalmente a livello di realtà extra
processuale, realizzati allo scopo deliberato di pregiudicare, di sviare, di ingannare
la difesa della controparte -> quindi per far apparire una situazione diversa
rispetto a quella reale e quindi impedire al giudice di conoscere la realtà così
com’è.

Nel N.2 si fa riferimento all’ipotesi in cui si è giudicato in base a prove che sono
state riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza, oppure che la parte
soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della
sentenza.

Allora, il riferimento è a tutte le prove - compresa la consulenza tecnica - ad


eccezione del giuramento, perché in base all'articolo 2738 cc, in caso di condanna
penale per falso giuramento si può proporre domanda di risarcimento del danno
ma non anche la revocazione della sentenza.

La falsità in che cosa consiste?

È costituita da una sentenza civile o penale passata in giudicato che l'abbia


accertata nei confronti della parte che ha utilizzato la prova risultata falsa.

andiamo avanti -> N 3 dell'articolo 395 fa riferimento all’ipotesi in cui “dopo la


sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva
potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario”.
Anche in questa ipotesi si fa riferimento a prove documentali che si ritiene
debbano essere decisive cioè prove rilevanti ai fini dell’accertamento del fatto che
abbiano la idoneità ad incidere quindi sull’esito di merito della sentenza.

Perché si possa proporre la domanda di revocazione è necessario che la parte che


è rimasta soccombente non sia stata in grado di produrre il documento ma
neppure sia stata in grado di chiedere al giudice l'ordine di esibizione ai sensi
dell'articolo 210 perché per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario
ne ignorava in maniera incolpevole l'esistenza.
Oppure si fa riferimento al caso in cui la parte ha chiesto l’esibizione alla
controparte o al terzo, questi non abbiano esibito il documento e il giudice abbia
ritenuto non esistenti i fatti rappresentati nel documento.

questo motivo di ricorso fa riferimento solo ad ipotesi di documenti già esistenti


al momento del processo quindi non a documenti sopravvenuti.

461
Infine, il N. 6 dell'articolo 395 fa riferimento alla sentenza effetto di dolo del
giudice accertato con sentenza passata in giudicato.

attraverso la revocazione in questa ipotesi la parte può ottenere una forma di


tutela in forma specifica quindi l'annullamento della sentenza che è cosa diversa
rispetto alla tutela risarcitoria che può ottenere laddove eserciti l’azione di
responsabilità civile nei confronti del giudice.

veniamo adesso alla revocazione del pubblico ministero articolo 397 -> siamo
nell'ambito delle ipotesi cui è previsto l'intervento obbligatorio del pubblico
ministero articolo 70 cpc-

La revocazione può essere esercitata contro sentenze d'appello o pronunciato


unico grado e le sentenze di primo grado passate in giudicato.

Le ipotesi sono in via tassativa solo due:

i. nel n.1 dell’articolo 397 si fa riferimento alla sentenza pronunciata senza


che il pubblico ministero sia stato sentito;
ii. nel n.2 alla sentenza che è effetto della collusione posta in essere dalle
parti per frodare la legge.

Allora il numero uno si riferisce alle ipotesi in cui nonostante il processo rientrasse
nella previsione dell'articolo 70, il pubblico ministero non abbia preso parte. Come
vedete qui legislatore ha applicato il principio della conversione dei motivi di
nullità in motivi di impugnazione, sebbene abbia creato un mezzo di
impugnazione ad hoc per far valere questa nullità.

naturalmente se il pubblico ministero non esercita questa azione che è soggetta a


termini decadenza di 30 giorni dal momento in cui ho avuto conoscenza della
sentenza, quindi se il termine di 30 giorni decorre inutilmente, il vizio si sana.
Quindi vedete che la disciplina dettata con riferimento alla mancata obbligatoria
partecipazione del pubblico ministero è diversa rispetto a quella dettata con
riferimento al mancato intervento di un litisconsorte necessario, perché in quelle
ipotesi abbiamo visto che la sentenza è una sentenza che anche se passa in
giudicato è inutiliter data, perché non produce effetti - non soltanto nei confronti
del terzo, ma non produce effetti neppure nei confronti delle parti nel processo -.

Il numero due invece riguarda le ipotesi in cui il pubblico ministero ha preso parte
al processo ma può impugnare la sentenza, nel momento in cui scopre l'effetto
della collusione delle parti.

il motivo di revocazione qui è integrato dalla collusione cioè un dolo bilaterale,


posto in essere dalle parti attraverso dichiarazioni o affermazioni false o false
allegazioni, allo scopo di frodare la legge sostanziale o processuale quindi per
ottenere attraverso il processo risultati che in base alla legge sostanziale non
avrebbero potuto conseguire.

462
Facciamo l'esempio dei due coniugi che si mettono d'accordo per ottenere la
sentenza che dichiara la nullità del loro matrimonio in ipotesi non rientrante nella
previsione dell'articolo 117 del codice civile.

È importante sottolineare che la frode delle parti alla legge sostanziale può essere
denunciata solo dal pubblico ministero nelle ipotesi in cui il suo intervento è
obbligatorio, mentre invece non può essere denunciato dalle parti private.

Infine, abbiamo la revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione

ci fu nel 1986 una sentenza che dichiarò la non costituzionalità dell'articolo 395
numero quattro nella parte in cui non prevedeva la revocazione delle sentenze
della Corte di Cassazione per errore di fatto.

così la legge del 1990 ha introdotto l'articolo 391 bis in base a questa
disposizione se la decisione della Corte di Cassazione è affetta da errore di fatto
ai sensi dell'articolo 395 n. 4 la parte interessata può chiederne la revocazione
con ricorso presentato nelle forme degli articoli 365 e ss.

questo ricorso deve essere notificato nel termine perentorio di 60 giorni dalla
notificazione della sentenza ovvero di 6 mesi dalla pubblicazione.

In questa ipotesi la revocazione si atteggia come impugnazione straordinaria e


come tale, la circostanza che sia pendente il termine per la proposizione della
revocazione della sentenza della Corte di Cassazione non impedisce il passaggio
in giudicato della sentenza impugnata col ricorso per Cassazione respinto.

Infatti, è previsto che in caso di impugnazione per revocazione della sentenza della
Corte di Cassazione non è ammessa la sospensione dell'esecuzione della
sentenza passata in giudicato né è sospeso il giudizio di rinvio o il termine per
riassumerlo.

Ancora, in base al successivo articolo 391 ter-> il provvedimento con cui la Corte
ha deciso la causa nel merito è altresì impugnabile per revocazione per i motivi di
cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 del primo comma dell'articolo 395.
Il ricorso si presenta alla corte e debbono contenere gli elementi di cui all'articolo
398 co. 2 e 3.

In base Al co.2 “quando pronuncia la revocazione, la Corte decide la causa nel


merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto, altrimenti
pronunciata la revocazione, rinvia la causa al giudice che ha pronunciato la
sentenza cassata”


andiamo adesso ad esaminare l’opposizione di terzo;


art 404 disciplina due diversi mezzi di impugnazioni, che sono molto diversi sotto
tanti profili.

Si tratta:

463
i. dell’opposizione di terzo ordinaria disciplinata al primo comma della
disposizione

ii. e dell’opposizione di terzo revocatoria disciplinata invece nel secondo


comma.

in base all’articolo 404 co.1 “un terzo può fare opposizione contro la sentenza
passata in giudicato o comunque esecutiva pronunciata tra altre persone quando
pregiudica i suoi diritti”

invece, 404 co.2 “gli aventi causa o creditori di una delle parti possono fare
opposizione alla sentenza quando è l'effetto di dolo, collusione a loro danno”


l'opposizione di terzo ordinaria non è soggetta ad alcun termine di decadenza,


può essere presentata contro una sentenza passata in giudicato o comunque
esecutiva senza limiti di tempo. invece l'opposizione di terzo revocatoria deve
essere proposta entro il termine perentorio 30 giorni, dal giorno in cui è stato
scoperto il dolo o la collusione.

il giudice competente a conoscere l'opposizione di terzo è lo stesso giudice che


ha emanato la sentenza impugnata, articolo 405 primo comma e la disciplina del
procedimento della decisione della sospensione sono contenuti dagli articoli 405-
406- 407.

come vi ho detto le sentenze impugnabili sono:

- sentenze passate in giudicato

- o comunque esecutiva

sentenza esecutiva ricordatevi che può essere anche una sentenza di primo
grado.

Ora, se vi ricordate l'articolo 344 cpc stabilisce che “i terzi legittimati a proporre
opposizione di terzo possono anche intervenire in appello”.
da questo si desume che ove la sentenza esecutiva sia stata appellata,
l’opposizione di terzo ordinaria e revocatoria deve essere proposta nella forma
dell’intervento in appello, deve o può essere proposta della forma dell’intervento in
appello.

Se è proposta anteriormente dovrebbe essere riunita all’appello in applicazione del


principio generale della riunione delle impugnazioni separatamente proposte
contro la stessa sentenza di cui all'articolo 335 cpc.

vediamo l'opposizione di terzo ordinaria ->

si tratta di un mezzo di impugnazione che è esperibile da terzi pregiudicati dalla


sentenza pronunciata tra altre persone.

si richiede in base ad una opinione pacifica che la legittimazione spetti a terzi e


non sono soggetti all’efficacia diretta o riflessa della sentenza emessa inter
alios.

464
E che quel termine pregiudizio stia a indicare non l'efficacia ma il danno che la
sentenza può loro arrecare.

in che cosa consiste questo danno?

consiste innanzitutto nell’incertezza che la sentenza può creare a livello di titolarità


di contenuto del diritto del terzo, ma può essere anche un danno che deriva dalla
esecuzione della sentenza emessa inter alios, che può pregiudicare il terzo;

infatti, se ad esempio viene messa in esecuzione una sentenza che abbia


accertato il diritto di proprietà dell’attore nei confronti del convenuto e c’è un terzo
che ritiene di essere il proprietario del bene è chiaro che se si presenta l’ufficiale
giudiziario per mettere in esecuzione la condanna al rilascio del bene, è chiaro che
MEVIO (?) viene a subire un pregiudizio da questa sentenza.

In base all’opinione pacifica la legittimazione ad esperire questo rimedio spetta:

1. ai terzi titolari di diritti autonomi e incompatibili rispetto al diritto oggetto


della sentenza

2. ai litisconsorti necessari pretermessi art 102

3. i falsi rappresentanti, rappresentati in ipotesi di rappresentanza sia


volontaria sia legale sia organica.

in tutte queste ipotesi si ritiene che il giudicato o la sentenza esecutiva sebbene


non producano effetti diretti o riflessi nei confronti dei terzi, sia fonte di incertezza
a livello di relazioni sociali e ancora possano pregiudicare il terzo nel momento in
cui vengono messe in esecuzione per questo motivo - per eliminare questa
incertezza o per prevenire il danno da esecuzione - il terzo, anche se non è
soggetto all’efficacia di questa sentenza - può avere interesse ad impugnarla allo
scopo di ottenere la eliminazione della sentenza dal mondo giuridico e
l’accertamento di esistenza del suo diritto.

l'opposizione di terzo ordinaria è un mezzo di impugnazione facoltativo per il


terzo infatti il terzo non è soggetto all’efficacia della sentenza resa Inter partes e
quindi ha sempre la possibilità di aprire un secondo e autono processo per
ottenere l'accertamento del suo diritto.

Il vantaggio che gli offre l'opposizione di terzo è rappresentata dalla circostanza


che- trattandosi di un mezzo di impugnazione avente ad oggetto la sentenza
altrui- gli consente di ottenere la eliminazione del mondo giuridico della
sentenza resa Inter partes che è fonte di incertezza e che gli può provocare un
danno da esecuzione.

Dall’altra parte dobbiamo anche considerare che se l'opposizione di terzo viene


esercitata contro una sentenza d'appello, perde un grado di giurisdizione.

I motivi su cui si può basare l'opposizione di terzo ordinaria sono:

- la titolarità da parte del terzo di un diritto autonomo e incompatibile

- la violazione della regola del litisconsorzio necessario

465
- oppure la falsità della rappresentanza

nel 1° caso quindi laddove l'opposizione di terzo ordinaria venga esercitata dal
terzo titolare di un diritto autonomo e incompatibile con il diritto oggetto
della sentenza -> questo rimedio – l’opposizione di terzo ordinaria - se viene
accolto metterà capo ad una sentenza che accerta l'esistenza del diritto del terzo
nei confronti di entrambe le parti del processo originario e elimina dal mondo
giuridico la sentenza resa Inter partes.

mentre invece se viene rigettata, conterrà l'accertamento di non esistenza del


diritto del terzo.

In ipotesi di violazione delle norme relative al litisconsorte necessario -


l'opposizione di terzo ordinaria si configura come un mezzo di impugnazione a
fase rescindente e rescissoria.

Infatti, nella prima fase il giudice accerta la fondatezza del motivo e porta alla
rescissione della sentenza resa inter alios.

A questa fase segue la fase rescissoria che ha come scopo quello di decidere nel
merito la controversia.

Se la domanda viene proposta difronte al giudice dell’appello, il giudice può se


del caso rimettere la causa di fronte al giudice di primo grado in base all'articolo
354 co.1;

infine, nell’ipotesi di falsa rappresentanza- l'opposizione di terzo ordinaria e


mezzo di impugnazione che si compone di una un’unica fase rescindente.

perché laddove il giudice accerta la fondatezza del motivo rescinde la sentenza


resa Inter alios in quanto accerta che è stato esercitato in maniera invalido il diritto
di azione a causa o della non imputabilità della domanda all’attore o della mancata
attivazione del contraddittorio nei confronti del convenuto.

per quanto riguarda l'opposizione di terzo revocatoria questo è un mezzo di


impugnazione che può essere esperito:

- dai creditori

- dagli aventi causa

- e quindi da terzi che sono titolari di rapporti giuridicamente dipendenti


rispetto a quello oggetto della sentenza emessa Inter partes e soggetti
all’efficacia riflessa forte della sentenza resa sul rapporto pregiudiziale.

in questa ipotesi il terzo può fondare la propria opposizione o sul dolo o la


collusione delle parti a suo danno, anche in questa ipotesi l'opposizione di terzo
revocatoria si configura come un mezzo di impugnazione a fase sia rescindente,
sia rescissoria, quindi nella prima fase il giudice verifica la fondatezza del motivo e
laddove lo ritenga esistente si apre la fase rescissoria che è diretta a ottenere una

466
sentenza che sostituisca la sentenza precedente e contenga un nuovo
accertamento nel merito della controversia;

in ipotesi in cui la opposizione di terzo revocatoria sia esercitata dai creditori, si


discute in ordine al se l'effetto di questa impugnazione sia quella di rescindere la
sentenza anche tra le parti originarie oppure se l'effetto sia più limitato: consista
cioè nel rendere la sentenza non opponibile nei confronti del creditore in senso
sostanzialmente analogo a quanto previsto dagli articoli 2901 e 2902 riguardo
all’azione revocatoria.

infine abbiamo già avuto modo di ricordare che l'opposizione di terzo può essere
presentata anche nei confronti delle decisioni emesse dalla Corte di Cassazione, la
disciplina la vita abbiamo dell'articolo 391 ter del codice di procedura civile.

467

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