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PROCEDURA CIVILE (PARTE ^2)

PROCESSO DI ESECUZIONE:
L’esecuzione forzata occupa l’intero terzo libro. Restano fuori le c.d.
“esecuzioni forzate speciali” => (esecuzione di tasse e tributi, esecuzioni per
insolvenza, etc...).
L’esecuzione forzata rappresenta il lato pratico della tutela giurisdizionale.
Una volta accertato un diritto avente a contenuto una prestazione che un
soggetto è tenuto a garantire, e una volta verificato che questo non sia stato
fatto, entra in campo il processo di esecuzione. I meccanismi dell’esecuzione
forzata si comprendono vedendoli in correlazione con la sentenza di condanna
=> Ricordiamo che il processo di cognizione può concludersi con tre tipi di
sentenze, ossia:
1)la sentenza di accertamento mero => che accerta l’esistenza di un diritto;
2)la sentenza costitutiva => che crea, modifica o estingue un rapporto
giuridico preesistente;
3)la sentenza di condanna => ossia, la sentenza che accerta in capo ad un
soggetto l’esistenza di un diritto a una prestazione, e accerta anche che la
prestazione è mancata e quindi il soggetto tenuto a compierla è rimasto
inadempiente.
Il soggetto nel ‘3 caso viene condannato ad adempiere. Se non lo fa, il titolare
può ottenere il soddisfacimento del diritto in via coattiva, attivando i
meccanismi del processo di esecuzione.
Convenzionalmente nei processi esecutivi si parla di creditore e debitore.
Intuitivamente, verrebbe da considerarli come l’analogo dell’attore e del
convenuto. È vero che il creditore si trova in una posizione assimilabile a quella
dell’attore perché è lui che è tenuto a dare impulso all’esecuzione.
Tuttavia, la posizione del debitore non è identica a quella del convenuto. Nel
processo di cognizione, il convenuto ha la possibilità di reagire attraverso la
costituzione in giudizio e la proposizione di eccezioni.
Nel processo esecutivo, il debitore ha una posizione di soggezione: non ha un
potere di reazione diretta. Questa situazione di soggezione viene meno solo
quando il creditore intraprende le c.d. “opposizioni all’esecuzione” che
implicano l’instaurazione di un giudizio di cognizione all’interno del processo
esecutivo. Si tratta però di una forma di reazione del convenuto puramente
eventuale, nel senso che il debitore non è obbligato a proporre le opposizioni.
Possiamo chiederci se il principio del contradditorio è presente nel processo
esecutivo.
Il tema è stato discusso dalla dottrina, la quale è arrivata alla conclusione che il
principio ha una forma più attenuata, che torna ad essere piena solo nel caso
in cui il debitore proponga una opposizione. Del resto, è lo stesso codice che, in
relazione al processo esecutivo, prevede l’audizione delle parti.
Dal punto di vista strutturale, l’esecuzione forzata è un procedimento che si
sviluppa in vari stadi.
In realtà non è corretto parlare di un solo procedimento, perché il codice
prevede diversi tipi di esecuzione forzata. Ciò che fa la differenza è il tipo di
prestazione a cui il creditore ha diritto e che il debitore ha lasciato
insoddisfatta.
La TEORIA DELLE OBBLIGAZIONI:
Le obbligazioni possono avere ad oggetto crediti pecuniari (ossia, somme di
denaro), la conseguenza di un bene mobile determinato, il rilascio di un bene
immobile, oppure una prestazione di fare o di non fare. Per ciascuna di queste
obbligazioni rimaste insoddisfatte il legislatore predispone un tipo di
procedimento esecutivo, distinguendo tra espropriazione, che comprende le
varie procedure per l’esecuzione forzata degli obblighi o delle obbligazioni
aventi contenuto pecuniario, e l’esecuzione forzata in forma specifica per gli
altri tipi di obbligazioni.
Si parla dell’espropriazione:
di esecuzione forzata in forma generica (il denaro è il bene maggiormente
fungibile, e non rileva la qualità ma la quantità); mentre, di esecuzione forzata
in forma specifica (per le obbligazioni di consegna o rilascio, o per quelle
aventi ad oggetto un facere o un non facere, proprio perché in questi casi il
creditore ha diritto proprio a quella specifica prestazione).
A sua volta l’espropriazione si distingue a seconda che assoggettati alla
procedura esecutiva siano beni mobili, beni immobili o crediti.
Il patrimonio del debitore è comprensivo di beni mobili, beni immobili e di
crediti.
Per ciascuna tipologia di beni il legislatore ha dettato norme specifiche che
hanno come finalità ultima quella di procurare la disponibilità di denaro nelle
mani del debitore, al fine di poter adempiere l’obbligazione. Queste norme
sono state molte rimaneggiate nel corso degli anni e continuano ad esserlo.
COMPETENZA:
Si parla in generale di ufficio esecutivo. Esso è un’entità immateriale che però è
ubicata all’interno del tribunale.
Ciò vuol dire che, in materia di esecuzione forzata l’organo giudiziario
competente in via esclusiva è, per ora, il tribunale (“per ora” perché se le cose
cambieranno, a partire dal 2021 anche il giudice di pace avrà competenze in
materia di esecuzione forzata per ciò che riguarda l’espropriazione di beni
mobili).
Il tribunale è costituito da uno o più giudici dell’esecuzione, dal cancelliere e
dall'ufficiale giudiziario, il quale, nell’ambito delle procedure esecutive svolge
delle funzioni molto più importanti di quelle che gli competono come ausiliario
del giudice. Nei tribunali più grandi c’è spesso la sezione esecuzione. Tuttavia,
non si tratta di una sezione specializzata del tribunale (sezione per le cause
commerciali, la sezione per le controversie agrarie, la sezione per i minorenni,
etc...).
Questa è solo una ripartizione interna (come per es.: la sezione lavoro) dei
carichi di lavoro.
Sempre parlando di competenza in materia di esecuzione forzata, bisogna fare
riferimenti agli artt.26, 26-bis e 27. -
L’art.26 stabilisce che, per l’esecuzione forzata su beni mobili è competente il
giudice del luogo in cui le cose si trovano; mentre per l’esecuzione forzata di
obblighi di fare o di non fare è competente il giudice del luogo dove l’obbligo
deve essere adempiuto.
-L’art.26-bis è importante l’ultimo comma, secondo il quale: per
l’espropriazione forzata di crediti (detta anche espropriazione forzata presso
terzi) è competente il giudice del luogo in cui il debitore ha la residenza, il
domicilio o la dimora.
-L’ART.27 è relativo alle opposizioni dell’esecuzione, ossia le eventuali
parentesi di cognizione nella tutela esecutiva. La norma fissa la competenza del
giudice del luogo dell’esecuzione. Per le opposizioni ai singoli atti esecutivi è
competente il giudice davanti al quale si svolge l’esecuzione.
In materia di spese, la regola generale è quella dell’anticipazione delle spese da
parte del soggetto che compie i singoli atti o li richiede o anche quando è lo
stesso legislatore (o il giudice) a porre a carico di un determinato soggetto
l’anticipazione.
Questa norma è contenuta del T.U. del 2002 sulle “spese di giustizia”, a seguito
dell’abrogazione della regola di contenuto analogo contenuta nell’abrogato
art.90 (c.p.c.). Naturalmente, il carico delle spese sarà stabilito al termine del
processo esecutivo. (A differenza che nel processo di cognizione) => nel
processo esecutivo il ruolo degli avvocati sembra attenuato. Siamo nel campo
delle facoltà riservate al soggetto, nulla gli vieta di farsi rappresentare da un
avvocato di fiducia, avvocato che riassume un ruolo principale quando vi sia
un’opposizione, in quanto si tratta di giudizio di
cognizione.
IL TITOLO ESECUTIVO:
La norma che apre il terzo libro è l’art.474 => rubricato: “titolo esecutivo”.
Questa norma richiede una spiegazione. Si dice che il titolo esecutivo è
condizione necessaria e sufficiente per intraprendere l’esecuzione forzata.
Dal punto di vista pratico, il titolo esecutivo è un documento che incorpora un
diritto. “Il diritto deve essere certo, liquido ed esigibile”.
Parte della dottrina parla del titolo esecutivo come di una fotografia che
cristallizza una certa immagine, una certa situazione di credito e debito in uno
specifico momento storico. Naturalmente può accadere che con il passare del
tempo la realtà non corrisponda più alla fotografia. Tuttavia, per l’esecuzione
forzata basta la fotografia.
Spetterà al debitore, mediante l’opposizione, dimostrare che la realtà non è
più corrispondente a quella del titolo esecutivo.
Altra descrizione frequente del titolo esecutivo è quella che fa riferimento
all’astrattezza dell’azione esecutiva, proprio perché l’azione esecutiva
prescinde dall’esistenza di ogni altro requisito che non sia il possesso del titolo
esecutivo.
-Certezza: significa esatta identificazione del diritto di cui si chiede tutela
coattiva. Quindi, consiste in una serie di elementi che consentono di
identificare chiaramente il tipo di diritto per il quale di procede ad
esecuzione.
Quindi, ad es.: =>se si tratta di diritto di credito pecuniario, la certezza è
individuata dall’importo del credito;
=>se si tratta di diritto alla restituzione di un bene occorre una specifica
indicazione del bene, (etc...).
-Liquidità: si riferisce alle obbligazioni a contenuto pecuniario di cui deve
essere individuato l’importo. Per l’individuazione è indispensabile che l’entità
del credito per cui si procede possa essere ricavata mediante una semplice
operazione matematica.
-Esigibilità: è legata all’assenza di termini o condizioni. Il diritto di credito
esigibile nel momento in cui si avvera la condizione (sospensiva) o scade il
termine.
Posti questi requisiti è necessaria una importante constatazione empirica.
Non ci sono regole rispetto all’identificazione dei titoli esecutivi, nel senso che
non ci sono elementi che facciano desumere di essere in presenza di un titolo
esecutivo. Il titolo esecutivo è tale in seguito a una specifica scelta del
legislatore.
L’art.474 individua due tipi di titoli esecutivi, ossia:
1)titoli esecutivi giudiziali => (si formano in giudizio);
2)titoli esecutivi stragiudiziali => (si formano al di fuori del processo).
1)TITOLI ESECUTIVI GIUDIZIALI: sono: le sentenze, i provvedimenti e gli altri
atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva (art.474,
n.1). Sentenze suscettibili di esecuzione forzata sono solo le sentenze di
condanna. Non ci si deve far trarre in inganno dal fatto che a volte le sentenze
costitutive sembrano necessitare di una sorta di attività
esecutiva.
Es.: La sentenza che dichiara la cessazione degli effetti civili del matrimonio
deve essere annotata sugli atti dello stato civile: non si tratta di esecuzione
forzata, ma di una attività amministrativa che produce effetti erga omnes.
Sono immediatamente, anche se provvisoriamente, esecutive le sentenze
pronunciate in primo grado. Si parla di esecutività provvisoria perché in sede di
proposizione dell’appello la parte soccombente potrà chiedere la c.d. inibitoria,
quindi la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza.
Una situazione di questo genere è particolarmente importante nel caso in cui il
debitore, che ha iniziato a subire l’esecuzione, intenda intraprendere iniziative
perché in questo caso si tratta di stabilire cosa passa davanti prima, se
l’impugnazione o l’opposizione proposta dal debitore.
È necessaria un’attribuzione espressa da parte del legislatore. I provvedimenti,
diversi dalla sentenza, aventi efficacia di titolo esecutivo sono molti, tra cui:
-ordinanza con cui si conclude il procedimento sommario di condanna;
-il decreto ingiuntivo non opposto;
-alcune ordinanze in corso di causa;
-l’ordinanza presidenziale nell’ambito del procedimento di separazione
giudiziale dei coniugi;
Per quanto riguarda gli altri atti, convenzionalmente si ritiene che il riferimento
sia al verbale di conciliazione; quindi, sia il verbale omologato dal giudice, siano
i verbali stragiudiziali che, ricorrendo a particolari condizioni, non la
richiedono. Esempio:
il verbale di conciliazione raggiunto a seguito dell’esperimento con risultato
favorevole di un tentativo di mediazione è immediatamente esecutivo se
sottoscritto dalle parti coinvolte e dagli avvocati delle parti. In questo caso non
è richiesta l’omologazione del giudice e l’atto acquista immediatamente
efficacia di titolo esecutivo. Stesso dicasi per l’accordo raggiunto in sede di
negoziazione assistita e sottoscritto dalle parti e dagli avvocati. Sia la
mediazione, sia la negoziazione assistita sono due forme di risoluzione
stragiudiziali che possono essere obbligatorie o facoltative.
2)TITOLI ESECUTIVI STRAGIUDIZIALI:
I n.2 e 3 dell’art.474 fanno riferimento ai titoli esecutivi stragiudiziali.
Essi sono: le scritture private autentiche (riconosciute o verificate),
relativamente alle sole obbligazioni pecuniarie in esse contenute (ad es.: non
possono essere utilizzate per ottenere il rilascio di un immobile, le cambiali e
gli altri titoli di credito => assegni bancari, assegni circolari, etc...) ai quali la
legge attribuisce espressamente la stessa efficacia. Infine, gli atti ricevuti da
notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli (atto
pubblico).
L’ultimo comma della norma specifica che l’esecuzione forzata per consegna di
un bene mobile o per il rilascio di un bene immobile può avere luogo solo in
virtù di titoli esecutivi giudiziali o stragiudiziali, ma rappresentati da un atto
pubblico. Questo è molto importante per capire quale tipo di esecuzione
forzata può essere supportata da un determinato titolo esecutivo.
LA SPEDIZIONE IN FORMA ESECUTIVA:
Vi sono alcuni tipi di titolo esecutivo che per poter essere utilizzati come titolo
esecutivo devono essere spediti in forma esecutiva.
Questa espressione significa che necessitano l’apposizione di una particolare
formula su una copia autentica del titolo esecutivo: “comandiamo a tutti gli
ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e a chiunque spetti, di mettere a
esecuzione il presente titolo, al pubblico ministero di darvi assistenza, a tutti gli
ufficiali della forza pubblica di concorrervi quando ne siano legalmente
richiesti”.
Non tutti i titoli esecutivi richiedono la spedizione in forma esecutiva. Questa
regola, prevista dall’art.475, riguarda solo i titoli esecutivi giudiziali e quelli
costituiti da atti pubblici. Questo perché l’originale dell’atto resta presso il
soggetto che l’ha formato (ossia, presso la cancelleria o i repertori del notaio).
La copia autentica può e deve essere solo una (art.476), quindi la spedizione in
forma esecutiva può riguardare un’unica copia autentica del titolo esecutivo.
La ratio rinviene nella necessità di evitare che il creditore si procuri tante copie
e inizi tanti procedimenti esecutivi contro lo stesso
debitore.
Naturalmente in presenza di circostanze di particolari gravità può essere
rilasciata una seconda (o terza) copia in forma esecutiva, previa richiesta al
capo dell’ufficio che ha pronunciato il provvedimento giudiziario o al
presidente del tribunale nella cui circoscrizione l’atto è stato formato.
Importante è ricordare che il cancelliere o il notaio, nel caso in cui
contravvengano al divieto di rilascio di più di una copia, possono essere
condannati a una pena pecuniaria compresa tra 1.000 e 5.000 mila euro, con
decreto del capo dell’ufficio o del presidente del tribunale.
Il comma 2 dell’475, riguarda le modificazioni sia dal lato soggettivo sia dal lato
del creditore, sia dal lato del debitore. La spedizione del titolo in forma
esecutiva può farsi solo alla parte a favore della quale fu pronunciato il
provvedimento, o ai suoi successori.
Qui si fa genericamente riferimento a tutti i successori per atto inter vivos o
mortis causa del creditore, senza distinguere il tipo di
successione.
Invece, se consideriamo l’art.477, che riguarda gli eredi, si nota che “il titolo
esecutivo contro il defunto ha efficacia contro gli eredi, ma si può loro
notificare il precetto solo dopo 10gg dalla notificazione del titolo”.
Sembrerebbe che il titolo esecutivo, dal lato passivo, sia trasmissibile solo agli
eredi, quindi ai successori mortis causa a titolo universale.
Si nota una contraddizione tra il regime del soggetto attivo e quello del
soggetto passivo. In realtà, si dice che anche il debitore trova applicazione
nell’art.111, che riguarda la successione a titolo particolare nel diritto
controverso del processo di cognizione.
Attraverso questa interpretazione si viene a riequilibrare la posizione dei due
soggetti. Quando la successione avviene nel corso del processo esecutivo, alla
successione universale si applica l’art.110, mentre per la successione a titolo
particolare il problema è più controverso ed è stato risolto dalla dottrina.
GLI ATTI PRELIMINARI O ATTI PRODROMICI:
Sono la notificazione del titolo esecutivo e il precetto. Essi sono collocati prima
dell’inizio dell’esecuzione forzata. Lo si nota dall’art.482 (termine ad
adempiere), il quale afferma che: “non si può iniziare l’esecuzione prima che
sia decorso il termine indicato nel precetto”, nonché dall’art.491, sull’inizio
dell’espropriazione, che afferma che essa inizia con il pignoramento.
Queste notificazioni possono avvenire separatamente o congiuntamente e
devono essere fatte personalmente al debitore. Se si tratta di sentenza di
condanna, la notificazione fatta al difensore per la decorrenza dei termini di
impugnazione, non vale anche per l’esecuzione forzata. Il termine breve
dell’impugnazione è quello che decorre dalla notificazione (30gg per l’appello e
per la revocazione ordinaria, 60gg per il ricorso in cassazione), mentre il
termine lungo decorre indipendentemente dalla notificazione della sentenza e
consiste in sei mesi dalla pubblicazione della sentenza stessa. Decorso il
termine lungo, la proposizione dell’impugnazione non è più possibile.
L’ATTO DI PRECETTO:
L’art.480 dà una nozione di atto di precetto, il quale consiste in una
intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal titolo esecutivo, entro un
termine non minore di dieci giorni, salva l’autorizzazione attraverso la quale
questo termine può essere ridotto, con l’avvertimento che, in mancanza, si
procederà ad esecuzione forzata. È una sorta di ultimatum che il creditore
rivolge al debitore. Se il debitore non adempie, il creditore è legittimato,
ugualmente, ad intraprendere l’azione esecutiva.
Il comma 2 elenca una serie di requisiti che il precetto deve contenere a pena
di nullità, ossia: indicazione delle parti, data della notificazione del titolo
esecutivo o la trascrizione del titolo stesso, la dichiarazione di residenza o
l’elencazione del domicilio del creditore, in mancanza della quale gli atti
dell’ufficio o le opposizioni del creditore si proporranno dinanzi al giudice del
luogo in cui il titolo è stato notificato e le notificazioni alla parte istante si
faranno presso la cancelleria di questo stesso giudice.
Vi è, poi, un altro requisito, ossia: si tratta dell’avvertimento che il debitore
può, con l’ausilio di un organismo di composizione della crisi o di un
professionista nominato dal giudice, porre rimedio alla situazione di sovra
indebitamento, concludendo con i creditori un accordo di composizione della
crisi o proponendo un piano di composizione del consumatore.
Sovra indebitamento è la situazione del soggetto che si trovi ad avere una
quantità di debiti tali da non poter far fronte a questa situazione. I soggetti che
possono utilizzare questo tipo di procedura dispensata dagli organismi di
composizione delle crisi da sovra indebitamenti sono tutti i soggetti che non
possono avvalersi di procedure fallimentari (consumatore, imprenditore
agricolo, piccolo imprenditore, etc...). Come specifica l’art.480 l’intervento
dell’organismo può aiutare il debitore ad elaborare un piano di rientro, che
consiste in una rateizzazione. Il ricorso a questi organismi funziona solo quando
oggetto dell’obbligazione sia una somma di denaro.
Un problema discusso è quello relativo alla sottoscrizione del precetto.
L’ultimo comma dell’art.480 prevede che il precetto debba essere sottoscritto
a norma dell’art.125. Quest’ultima norma disciplina il contenuto e la
sottoscrizione degli atti di parte, affermando che, salva diversa disposizione di
legge, la citazione, il ricorso, la comparsa, il controricorso, il precetto devono
indicare l’ufficio giudiziario, le parti, l’oggetto, le ragioni della domanda e
devono essere sottoscritti dalla parte, oppure dal difensore. A basarsi su
questa norma, sembrerebbe che anche il precetto debba essere sottoscritto
dal difensore della parte. Comunque, è opinione corrente che non sia
obbligatoria la sottoscrizione del difensore, con la conseguenza che l’assistenza
tecnica è meramente facoltativa. Nel fac-simile di precetto si può notare una
parte relativa al conferimento di una procura all’avvocato; quindi, si tratta di
un atto elaborato da un difensore. Il precetto è un atto a tempo: diventa
inefficace se nel termine di 90gg dalla sua notificazione non è iniziata
l’esecuzione (c.d. perenzione del precetto).
L’ESPROPRIAZIONE FORZATA IN GENERALE:
Riguarda le obbligazioni pecuniarie. Il nostro ordinamento conosce vari tipi di
espropriazione, i quali hanno discipline articolate diversamente a seconda che i
beni che il creditore deve aggredire siano mobili, immobili o crediti.
Dell’espropriazione forzata il legislatore si occupa inizialmente con una serie di
norme generali, non differenziate, a cui fanno poi seguito le disposizioni
particolari. Per quanto riguarda le norme generali, la prima norma che
troviamo è l’art.483, che prevede il cumulo dei mezzi di espropriazione: il
creditore può avvalersi cumulativamente dei mezzi di espropriazione previsti
dalla legge, ma, su opposizione del debitore, il giudice può limitare
l’espropriazione al mezzo che ritiene può opportuno, oppure chiedere al
creditore di scegliere tra i mezzi inizialmente esperiti.
L’art.484 afferma che l’espropriazione è diretta dal giudice dell’esecuzione,
nominato dal presidente del tribunale su presentazione, a cura del cancelliere,
del fascicolo d’ufficio. La norma sembra riguardare solo l’espropriazione. In
realtà riguarda tutte le forme di esecuzione (anche quella in forma specifica),
perché in tutti i casi abbiamo un giudice dell’esecuzione. Si applicano le
disposizioni degli artt.174 e 175. Si tratta delle norme che disciplinano la figura
del giudice istruttore (che esiste solo nei casi in cui opera la riserva di
collegialità), mentre oggi la maggior parte delle cause è decisa dal giudice
monocratico.
L’art.174 riguarda la tendenziale immutabilità del giudice istruttore, mentre
l’art.175 parla della direzione del procedimento ad opera del giudice istruttore,
che esercita tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del
procedimento.
In realtà questa norma non ha applicazione diretta nell’ambito del processo
esecutivo. La fissazione di udienze successive non ha molto senso, perché le
udienze, nel caso dell’espropriazione, sono previste espressamente dal
legislatore.
L’art.485 riguarda l’audizione degli interessati. Nel processo esecutivo il
principio del contraddittorio non ha la stessa espansione che ha nel processo di
cognizione. In effetti la norma prevede che, quando la legge lo richiede o il
giudice lo ritiene necessario, può essere disposto che le parti o eventuali terzi
siano sentiti. La norma è probabilmente in contrasto con quanto previsto
dall’art.111 (cost.) sul giusto processo e sul principio del contraddittorio.
Silvestri non è d’accordo perché ritiene che la procedura esecutiva abbia una
struttura diversa rispetto al processo di cognizione e, in virtù di questa
struttura particolare, lo spazio lasciato al contraddittorio non possa essere il
medesimo spazio che il contraddittorio deve trovare nel processo di
cognizione.
Per quanto riguarda le altre norme generali si nota che gli artt.486 e 487 si
occupano delle domande e delle istanze che possono essere poste al giudice in
forma orale all’udienza o con la forma del ricorso, nonché della forma dei
provvedimenti del giudice dell’esecuzione, che hanno in genere la forma
dell’ordinanza (in base ai principi generali modificabili o revocabili, almeno fino
a quando il provvedimento non ha avuto esecuzione).
Alcune delle ordinanze del giudice dell’esecuzione possono avere contenuto
decisorio, ma la loro efficacia è meramente endo-processuale. Il richiamo
all’art.176 riguarda la conoscenza ad opera delle parti del provvedimento che
si dà per conosciuto, soprattutto, se è pronunciato in udienza.
L’altro richiamo è all’art.186, ed è relativo alla pronuncia dei provvedimenti ad
opera del giudice dell’esecuzione: essi possono essere pronunciati in udienza o,
previa riserva, entro un termine molto breve di 5gg. Le norme successive
parlano del fascicolo dell’esecuzione.
Il luogo della notificazione delle comunicazioni è quello della residenza
dichiarata o del domicilio eletto o, in mancanza, presso la cancelleria del
giudice competente per l’esecuzione.
L’art.490 è una delle norme inserite attraverso le molte modificazioni
apportate alla disciplina dell’espropriazione e riguarda le forme di pubblicità
che sono richieste per taluni tipi di espropriazione.
Si prevede l’affissione di un avviso nel portale delle vendite pubbliche. La
finalità primaria dell’espropriazione è quella di aggredire il patrimonio del
debitore, convertirlo in denaro liquido e con quel denaro soddisfare le esigenze
del creditore. Per questo motivo le fasi dell’espropriazione
sono:
-pignoramento, quindi l’aggressione e l’apposizione di un particolare vincolo
giuridico sui beni del creditore;
-vendita forzata dei beni o l’assegnazione;
-distribuzione del ricavato tra il creditore procedente e gli altri creditori
intervenuti in quella procedura.
Bisogna ricordare il fondamento dell’espropriazione. Esso si ritrova nel diritto
sostanziale, in particolare nell’art.2740 relativo alla responsabilità patrimoniale
del debitore. Secondo questa norma il debitore risponde di tutte le sue
obbligazioni con i propri beni, presenti e futuri. Andando nel dettaglio, nel c.c
incontriamo norme che si riferiscono direttamente all’espropriazione, in
particolare, gli artt. 2910 e 2911.
Secondo la prima norma, il creditore per conseguire quanto gli è dovuto può
far espropriare i beni del debitore secondo le regole stabilite nel codice di
procedura civile. Possono essere espropriati anche i beni di un terzo quando
sono vincolati a garanzia di un credito o quando sono oggetto di un atto che è
stato revocato perché compiuto in pregiudizio di un creditore. Qui si fa
riferimento all’azione revocatoria, che riguarda gli atti compiuti
fraudolentemente in pregiudizio delle ragioni del creditore.
L’art.2911 (beni gravati da pegno o ipoteca) aggiunge che il creditore che ha
pegno su beni del debitore non può pignorare altri beni se non sottopone ad
esecuzione anche i beni gravati da pegno. Non può parimenti, quando ha
ipoteca, pignorare altri immobili se non sottopone a pignoramento anche gli
immobili gravati da ipoteca.
IL PIGNORAMENTO:
Per quanto riguarda l’atto che dà inizio all’espropriazione, l’art.401 afferma
che: salvo l’ipotesi all’art.502, l’espropriazione forzata si inizi con il
pignoramento. La disciplina del pignoramento è contenuta nell’art.492.
La norma è stata rimaneggiata più volte e, a parte i primi due commi, è molto
confusa e complessa. Il pignoramento è atto dell’ufficiale giudiziario (c.1):
consiste in un’ingiunzione al debitore di astenersi da qualunque atto diretto a
sottrarre alla garanzia del credito indicato i beni che si assoggettano
all’espropriazione e i loro frutti.
Questo schema generale può subire variazioni in relazione al tipo di
pignoramento (mobiliare, immobiliare o di credito. In sostanza il nucleo
fondamentale del pignoramento è questa, che vieta di compiere atti diretti a
limitare la garanzia patrimoniale del debitore.
Il c.2 afferma che il pignoramento deve contenere l’invito rivolto al debitore ad
effettuare, presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione, la dichiarazione di
residenza o l’elencazione di domicilio, allo scopo di evitare che le notificazioni
e le comunicazioni gli siano fatte presso la cancelleria del giudice
dell’esecuzione.
I modi per evitare il pignoramento vengono in considerazione, anzitutto,
dall’art.494. Il debitore può evitare il pignoramento versando nelle mani
dell’ufficiale giudiziario la somma per cui si procede e l’importo delle spese,
con l’incarico di consegnarli al creditore. Quindi, un modo per evitare
l’espropriazione è saldare il debito. L’ultimo comma di questo articolo prevede
un’ipotesi ulteriore: il debitore deve depositare nelle mani dell’ufficiale
giudiziario, in luogo delle cose che stanno per essere pignorate, una somma
uguale all’importo del credito per cui si procede e delle spese, aumentato di
due decimi. A pignoramento avvenuto è necessario ritornare all’art.492, il cui
terzo comma riguarda un particolare avvertimento che deve essere contenuto
nel pignoramento. Questo avvertimento riguarda la possibilità che, dopo il
pignoramento, il debitore possa chiedere di sostituire alle cose o ai crediti
pignorati una somma di denaro pari all’importo dovuto al creditore pignorante
e ai creditori intervenuti, comprensiva del capitale, degli interessi e delle spese.
Questo avvertimento va messo in una posizione diversa rispetto alle ipotesi
previsti dall’art.494, perché è una possibilità di ottenere una conversione di
esso. Conversione che è disciplinata dall’art.495. (questo tipo di possibilità
deve essere oggetto di uno specifico avvertimento contenuto nel
pignoramento).
L’art.492, al c.4, stabilisce che: quando per la soddisfazione del creditore
procedente i beni assoggettati a pignoramento i beni appaiono insufficienti o
di lunga e complessa liquidazione, l’ufficiale giudiziario invita il debitore a
indicare ulteriori beni pignorabili. Un’altra ipotesi è prevista dal comma
successivo. Si tratta dell’ipotesi di insufficienza di beni pignorati a seguito
dell’intervento di ulteriori creditori. In questo caso il creditore precedente può
richiedere all’ufficiale giudiziario di procedere ai sensi dei commi precedenti;
quindi, l’ufficiale giudiziario si attiva richiedendo al debitore l’indicazione di
altri beni pignorabili.
Il c.6 presenta l’ipotesi del debitore-imprenditore commerciale: l’ufficiale
giudiziario chiede al debitore che gli indichi il luogo in cui sono tenute le
scritture contabili, provvede a nominare un commercialista o avvocato per
l’esame delle scritture contabili per la ricerca di ulteriori beni pignorabili.
La ricerca dei beni pignorabili può avvenire con modalità telematica.
Il presidente del tribunale può autorizzare, ai sensi dell’art.492-bis, l’ufficiale
giudiziario ad effettuare una ricerca di ulteriori beni pignorabili facendo
appello alle banche dati, in particolare quella dell’agenzia delle entrate.
L’art.493 presenta la possibilità che su un unico bene vi siano più pignoramenti
operati da creditori diversi, oppure che più creditori si mettono insieme per
compiere un solo pignoramento. Se il bene è oggetto di pignoramenti
successivi, i singoli pignoramenti mantengono la loro identità anche se riuniti
in un unico procedimento. Ciò significa che l’eventuale caducazione di un
pignoramento non fa perdere efficacia anche agli altri. Il pignoramento ha
un’efficacia temporale limitata: decorsi 45gg, se non sono compiuti atti
successivi del procedimento, in particolare se il creditore procedente non ha
chiesto la vendita dei beni pignorati o l’assegnazione di essi, il pignoramento
perde efficacia e dovrà essere ripetuto.
Conversione del pignoramento: essa è la sostituzione alle cose o ai crediti
pignorati di una somma di denaro. Questa somma di denaro viene determinata
nel suo importo dal giudice dell’esecuzione e, se si tratta di una somma
ingente, è anche possibile la rateizzazione. Tuttavia, il mancato versamento
anche di una sola rata o il ritardo di più di 30gg nel versamento di essa fa sì che
le somme, anche già versate, formano parte dei beni pignorati. Difatti, è come
se venisse meno la conversione del pignoramento. L’art.496 presenta poi
l’ipotesi della riduzione del pignoramento, che sia ha quando il valore dei beni
pignorati supera l’importo delle spese e dei crediti. In questo caso il giudice
può disporre, sentito il creditore pignorante e quelli intervenuti, la riduzione.
GLI EFFETTI SOSTANZIALI DEL PIGNORAMENTO:
Il pignoramento consiste nell’ingiunzione al debitore di astenersi da qualunque
atto diretto a sottrarre alla garanzia del credito i beni assoggettati a
pignoramento. Il pignoramento crea sui beni pignorati un vincolo giuridico
molto particolare. Esso non priva il debitore della titolarità del bene e
nemmeno del potere di disporre; tuttavia, rende i suoi atti del tutto privi di
effetto nei confronti del creditore (artt.2913 e 2914 c.c.). Si tratta di atti che tra
il debitore e il terzo acquirente sono perfettamente validi, ma non lo sono nei
confronti del creditore (inefficacia relativa). Questa specificazione è
importante perché, nel caso di pignoramento inefficace o nel caso di estinzione
del procedimento esecutivo, l’atto di disposizione riacquista erga omnes.
Questo discorso si biforca sia a seconda del tempo in cui è stato effettuato
l’atto di disposizione, sia dell’oggetto dell’atto di disposizione. Per quanto
riguarda i beni immobili si deve far riferimento alla trascrizione: ciò che fa la
differenza è la data della trascrizione; se il pignoramento è stato trascritto
prima della data di trascrizione dell’atto di disposizione si verifica il fenomeno
di inefficacia relativa. Per quanto riguarda i beni mobili vale la regola del
possesso (art. 1153). Rispetto a questo vincolo si dice che esso è un vincolo a
porta aperta, in quanto di questa inefficacia relativa beneficiano sia il creditore
procedente, sia i creditori intervenuti, a differenza che nel sequestro
conservativo in cui del medesimo vincolo beneficia solo il creditore
sequestrante. Di recente è stata aggiunta una ulteriore norma che riguarda gli
effetti del pignoramento. Si tratta dell’art.2929-bis, la quale afferma che: se il
debitore, dopo il sorgere del debito, compie sui suoi beni immobili o mobili
registrati un atto di disposizione a titolo gratuito, l’atto è ope-legis inefficace se
la trascrizione di questo atto è avvenuta successivamente alla trascrizione del
pignoramento. Quindi c’è una presunzione di volontà del debitore di sottrarre
al creditore questo bene. La regola dell’inefficacia dell’atto e la conseguente
possibilità del creditore di assoggettare il bene a pignoramento riguarda anche
l’ipotesi in cui il bene sia stato trasferito ad un terzo dal soggetto che è
risultato beneficiario dell’atto di disposizione a titolo gratuito. La parte
interessante della norma si rinviene nel fatto che il terzo può contestare le
iniziative del creditore proponendo opposizione
all’esecuzione.
LA TRASCRIZIONE:
È lo strumento attraverso il quale si rendono pubbliche le vicende di beni
immobili o mobili registrati. Questo spiega perché quando il pignoramento
cade su questi beni bisogna fare riferimento a questo istituto (art.2652 e ss.).
LA PAR CONDICIO CREDITORUM APPLICATA AL PROCESSO ESECUTIVO:
L’art.2741 afferma che: tutti i creditori hanno diritto di soddisfarsi sui beni del
debitore, salvo le c.d. cause legittime di prelazione. Si dice che la par condicio
creditorum è un’applicazione pratica del principio della responsabilità
patrimoniale, secondo il quale il debitore risponde delle obbligazioni contratte
con tutti i suoi beni, presenti e futuri (art.2740). In dottrina si è molto discusso
sul significato dell’art.2741. La cosa importante è che la posizione dei creditori
è qualificata a seconda che il credito sia assistito o meno da una causa
legittima di prelazione (pegno, ipoteca e privilegi), oppure no. In caso positivo,
la posizione del creditore è rafforzata rispetto a quella dei c.d. creditori
chirografici. Questo principio interagisce con la struttura dell’esecuzione
forzata quando un debitore ha più creditori. In questo caso si possono avere
varie ipotesi, ossia: ogni creditore può interpretare iniziative individuali
pignorando il medesimo bene o beni diversi del debitore, nel primo caso i vari
pignoramenti rimangono autonomi.
L’ipotesi più frequente è quella in cui, iniziata l’espropriazione dal creditore
procedente, gli altri creditori intervengano nello stesso procedimento.
Il legislatore non contempla una informativa generale a tutti i creditori.
Tuttavia, ci sono delle eccezioni. L’art.498 contempla l’avviso ai creditori
iscritti: i titolari di un diritto di prelazione risultante da pubblici registri hanno
diritto di essere informati dell’inizio dell’espropriazione, in modo da favorire la
loro partecipazione nella forma dell’intervento.
La ratio di questo avviso è molto semplice: l’effetto purgativo della vendita
forzata. Quando c’è una vendita forzata, il bene viene venduto libero da
qualunque vincolo. Attraverso l’avviso il creditore viene posto in condizione di
partecipare alla procedura espropriativa, soddisfacendo le proprie ragioni. A
ciascuno dei creditori iscritti deve essere notificato, a cura del creditore
pignorante, entro 5gg, un avviso che contiene l’indicazione del creditore
pignorante, del creditore per cui si procede, del titolo e delle cose pignorate.
La sanzione nel caso in cui venga rispettato l’avviso è data dall’impossibilità a
procedere sull’istanza di assegnazione o vendita. L’art.499 tratta
dell’intervento dei creditori nell’istanza posta dal creditore procedente. La
legittimazione all’intervento riguarda solo i creditori di uno stesso debitore e
non tutti, solo particolari tipi di creditori. La versione vigente, del 2005, è
considerata da parte della dottrina lesiva della part condicio creditorum.
I creditori legittimati sono: i creditori che hanno il possesso di un titolo
esecutivo (c.d. creditori titolari); i creditori privi di titolo esecutivo, ma che
avevano già eseguito precedentemente un sequestro conservativo; i creditori
privi di titolo esecutivo, ma con un diritto di pegno o di prelazione iscritto in
pubblici registri; infine, i creditori privi di titolo esecutivo, il cui credito è un
credito di somme di denaro risultanti dalla tenuta di scritture contabili
obbligatorie ex art.2214.
Per quanto riguarda la forma e il tempo dell’intervento si fa riferimento al c.2
dell’art.499: l’intervento si realizza mediante ricorso. Il tempo varia a seconda
del tipo di espropriazione. Tuttavia, nella prima parte del c.2 si specifica che
l’intervento deve avvenire prima dell’udienza in cui è disposta la vendita o
l’assegnazione.
La tardività o la tempestività rileva solo per i creditori chirografici, perché i
creditori che abbiano una causa legittima di prelazione passano davanti ai
chirografici nella fase satisfattiva. Se sono intervenuti tempestivamente più
creditori chirografari, il creditore procedente ha la facoltà di indicare loro
ulteriori beni pignorabili (art.499.4).
La ratio di questa regola è data dal fatto che più sono i creditori, più è
necessario che la somma ricavata dalla vendita forzata sia elevata. Per quanto
riguarda gli effetti dell’intervento, vi è una grande differenza tra i creditori
muniti di titolo esecutivo e quelli che non lo hanno. Infatti, l’art.500 stabilisce
che: solo i primi hanno potere di provocare atti del procedimento, quindi ad
es.: proporre istanza di vendita o assegnazione, in caso di inerzia del creditore
procedente. Indipendentemente dal possesso del titolo esecutivo, l’intervento
dà diritto a partecipare alla distribuzione della somma ricavata.
I creditori privi di titolo esecutivo => possono intervenire nell’espropriazione,
ma hanno l’onere di notificare al debitore entro 10gg dal deposito del ricorso
con il quale hanno esperito l’intervento. La posizione del creditore viene
verificata in apposita udienza, questo perché, a differenza dei possessori di
titolo esecutivo, per questi non vi è certezza della esistenza del credito.
L’art.499.5 prevede che: il giudice fissi un’udienza di comparazione dinanzi al
debitore e dei creditori sprovvisti di titolo esecutivo. Se il debitore non
compare, i crediti si hanno per riconosciuti de plano, anche se il
riconoscimento vale solo ai fini della procedura esecutiva in corso. Se il
debitore compare e disconosce in tutto o in parte il credito, il creditore ha
diritto solo all’accantonamento della somma che gli spetterebbe a due
condizioni: deve farne istanza; e nei 30gg successivi dimostri di aver intrapreso
iniziative necessarie per procurarsi il titolo esecutivo. L’art.510.3 tratta
dell’accantonamento. L’accantonamento ha un termine massimo di 3anni.
Decorso il termine fissato dal giudice, su istanza di una delle parti o anche
d’ufficio, il giudice dispone davanti a sé la comparizione del debitore, del
creditore procedente e dei creditori intervenuti, ad eccezioni di quelli che siano
stati integralmente soddisfatti. A questo punto occorrerà vedere se il creditore
intervenuto in assenza di titolo esecutivo se lo sia procurato. Se così non fosse,
la somma accantonata riconfluirebbe nella somma totale e se ne giovano gli
altri creditori che sono riusciti a procurarsi il titolo esecutivo. Se vi è un
residuo, questo deve essere restituito al debitore.
LA LIQUIDAZIONE DEI BENI ASSOGGETTATI A PIGNORAMENTO:
Di norma avviene con “vendita forzata” o “assegnazione”.
L’assegnazione deve essere richiesta dal creditore procedente o da altro
creditore provvisto di titolo esecutivo, ma non può essere proposta se non
sono decorsi almeno 10gg dal pignoramento (e comunque entro 45gg
dall’efficacia di esso). forme della vendita forzata sono due: 1)la vendita con
incanto (o asta) e 2)la vendita senza incanto.
La prima si conclude in un unico momento con offerte di rialzo rispetto a un
prezzo base fissato dal giudice, con aggiudicazione del bene al miglior
offerente.
La seconda consiste in una serie di offerte in busta chiusa, sempre facendo
riferimento a un prezzo base. In un’udienza fissata dal giudice si aprono le
buste. Se il giudice ritiene di poter realizzare un prezzo più alto, dispone
un’asta tra le offerte migliori.
La modalità preferita dl legislatore è la seconda, la quale si è rivelata la
modalità più efficiente.
L’art.503 afferma che: l’incanto può essere disposto solo quando il giudice
ritiene che la vendita con incanto possa aver luogo solo nell’ipotesi in cui il
giudice ritenga di poter realizzare un prezzo superiore della metà rispetto al
valore del bene.
L’art.504 afferma che: se la vendita è fissata in più lotti, deve interrompersi
quando venga raggiunto l’importo delle spese e dei crediti. È un’ipotesi che
non si realizza mail nella pratica.
L’art.164 (disp.att.) segnala la sconfitta definitiva dell’ordinamento,
prevedendo che: quando risulta che non sia più possibile conseguire un
ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto
dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di
liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo, è disposta la chiusura
anticipata del processo esecutivo.
L’alternativa alla vendita forzata è l’assegnazione. Questa può essere di due
tipi: 1)l’assegnazione satisfattiva (art.505), e si ha quando al creditore viene
assegnata la proprietà di uno o più beni pignorati (ma è tenuto al pagamento
di un conguaglio se il valore del bene assegnato è superiore al suo credito);
2)l’assegnazione-vendita (506), che viene richiesta da un creditore concorrente
con altri aventi diritto di prelazione anteriore al proprio: in questo caso, il
valore dell’assegnazione può essere superiore a quello effettivo delle cose
assegnate. L’eventuale eccedenza deve essere depositata nelle forme dei
depositati giudiziari per essere distribuita tra i creditori assegnatari e gli altri
creditori eventualmente concorrenti.
GLI EFFETTI SOSTANZIALI DELLA VENDITA FORZATA:
La vendita forzata è una vendita abbastanza diversa dal punto di vista
strutturale, da una vendita di diritto comune.
Innanzitutto, il bene non è venduto dal proprietario, ma dallo stato. Si tratta di
una vendita che termina in capo al terzo acquirente; quindi, è un acquisto a
titolo derivativo.
L’art.2919 (effetto traslativo della vendita forzata) implica che è necessario che
il soggetto che è stati espropriato sia il proprietario legittimo del bene.
All’acquirente del bene in vendita forzata non sono opponibili gli stessi atti che
a seguito del pignoramento, non erano opponibili al creditore procedente e ai
creditori intervenuti. Qui si fa riferimento agli atti di alienazione e disposizione
compiuti dal debitore sui beni assoggettati a pignoramento, che sono soggetti
a inefficacia relativa (art.2913). Tuttavia, può accadere che successivamente
l’acquirente della cosa espropriata subisca l’evizione. Si ha evizione quando un
terzo rivendica con successo la proprietà o un altro diritto reale su un
determinato bene. In questo caso, secondo l’art.2921, l’acquirente della cosa
espropriata può ripetere il prezzo, se il prezzo della cosa venduta non è ancora
stato distribuito, dedotte le spese, mentre se la distribuzione è già avvenuta
può ripetere da ciascun creditore la parte riscossa e dal debitore l’eventuale
residuo. In ogni caso può sempre agire contro i creditori per il risarcimento dei
danni.
L’ultimo comma esclude che l’acquirente possa ripetere il prezzo nei confronti
dei creditori privilegiati o ipotecari ai quali la causa di evizione non era
opponibile. All’assegnazione si applicano le medesime disposizioni, in quanto
compatibili.
LA NULLITA’ DEL PROCESSO ESECUTIVO:
L’art.2929 afferma che: la nullità degli atti esecutivi che hanno preceduto la
vendita o l’assegnazione non ha effetto riguardo all’acquirente o
all’assegnatario, salvo il caso di collusione con il creditore procedente. Gli altri
creditori non sono in nessun caso tenuti a restituire quanto hanno ricevuto per
effetto dell’esecuzione. Questa norma ha dato vita a una serie di problemi
interpretativi molto complessi. Il riferimento agli atti esecutivi anteriori alla
vendita ci fa capire che si tratta di nullità puramente formali. La nullità di
questi atti non incide sulla stabilità della vendita forzata. Le nullità degli atti
esecutivi possono essere fatte valere con le opposizioni agli atti esecutivi. Ci si
è posti il problema se la regola della stabilità degli effetti della vendita forzata
valga anche per nullità diverse da quelle formali. L’opinione prevalente è che
neppure questi tipi di vizi incidano sulla vendita e sulla stabilità, perché la
tendenza è quella di tutelare il più possibile il terzo acquirente e quindi gli
effetti della vendita che egli ha compiuto. Questo, anche, per stimolare la
partecipazione alle procedure esecutive e in particolare a quelle di vendita
forzata, che rischierebbero di andare deserte se il terzo acquirente non fosse in
qualche modo tutelato rispetto alla stabilità della vendita stessa.
LA DISTRIBUZIONE DELLA SOMMA RICAVATA:
L’art.509 tratta della composizione della somma ricavata, affermando che la
somma da distribuire è formata da quanto proviene a titolo di prezzo o
conguaglio delle cose vendute o assegnate (vendita forzata), di rendita o
provento delle cose pignorate (eventuali frutti), di multa e risarcimenti di
danno da parte dell’aggiudicatario (versamento del prezzo ad opera del terzo
che acquista o si aggiudica il bene).
La distribuzione è semplice se vi è un solo creditore, mentre si complica se i
creditori sono diversi.
Le ipotesi sono due: se la somma è sufficientemente elevata per consentire il
soddisfacimento di tutti; se essa non è sufficiente occorre che il giudice
proceda alla redazione di un piano di riparto in cui i creditori verranno collocati
a seconda del possesso di cause legittime di prelazione e, se chirografari, a
seconda che abbiano compiuto un intervento tempestivo o tardivo. Può anche
accadere che il piano di riparto venga concordato dagli stessi creditori. Proprio
nell’ambito della redazione del piano di riparto è probabile se sorgano
controversie tra i creditori, oppure tra i creditori e il debitore sulla sussistenza
o l’ammontare di uno o più crediti o circa la sussistenza o meno di un diritto di
prelazione. Questo tipo di controversie devono essere risolte dallo stesso
giudice di esecuzione, sentite le parti e compiuti i necessari accertamenti
(art.512). Il giudice provvede con ordinanza impugnabile nelle forme
dell’opposizione agli atti esecutivi e può, con la stessa ordinanza sospendere,
in tutto o in parte, la distribuzione della somma ricavata.
L’opposizione si conclude in un unico grado con sentenza che non è
appellabile, ma è suscettibile di ricorso straordinario per cassazione. Questo
tipo di giudizio affidato al giudice dell’esecuzione implica un elemento di
cognizione, in quanto il giudice deve raccogliere le informazioni necessarie per
capire se la contestazione di un creditore rispetto alla sua posizione nel piano
di riparto è fondata o infondata. Questa cognizione ha efficacia solo endo-
processuale. Al di fuori di questa specifica procedura esecutiva è possibile da
parte del creditore che aveva avanzato contestazione, instaurare un giudizio
per contestare il fatto che un altro creditore intervenuto abbia effettivamente
un diritto di prelazione.
VARI TIPI DI ESPROPRIAZIONE:
La costruzione dell’espropriazione voluta dal legislatore è complessa, in quanto
comprensiva di una serie di disposizioni di carattere generale, unitamente a
una serie di disposizioni speciali, che distinguono vari tipi di espropriazione in
funzione della natura dei beni espropriati. La disciplina specifica delle varie
forme di espropriazione è complessa, perché rimaneggiata negli ultimi anni dal
legislatore. A complicare le cose contribuisce il fatto che i recenti interventi
legislativi hanno creato spesso norme complesse e farraginose. Restano ferme
le disposizioni generali.
•L’ESPROPRIAZIONE MOBILIARE PRESSO IL DEBITORE:
Questo tipo di espropriazione ha per oggetto beni mobili appartenenti al
debitore.
Nel pignoramento mobiliare presso il debitore emerge l’importanza del ruolo
dell’ufficiale giudiziario, perché in questo tipo di espropriazione è questo che
provvede alla scelta dei beni sui quali creare il vincolo del pignoramento.
Perché l’ufficiale giudiziario si metta in moto è necessaria un’istanza del
creditore. Dopodiché, è l’ufficiale giudiziario che, ai sensi dell’art.513 provvede
alla ricerca delle cose da pignorare. Il primo comma
chiarisce che l’ufficiale giudiziario, munito di titolo esecutivo e del precetto,
può ricercare le cose da pignorare nella casa del debitore e negli altri luoghi a
lui appartenenti. Può, anche, ricercarle sulla persona del debitore osservando
le opportune cautele per rispettarne il decoro. La
dottrina sottolinea che i luoghi possono, anche, non appartenere al debitore,
ma essere nella sua disponibilità, es.: autovettura che si trova in un garage di
proprietà di un terzo, rispetto al quale il debitore, in virtù di un contratto di
locazione, ha la disponibilità. Nel caso concreto può rendersi necessario
l’ausilio della forza pubblica. Rispetto a questo tipo di espropriazione sussiste
una serie di limiti. Il codice all’art.514 comprende una lunga lista di beni
impignorabili. Questa lista riflette uno stato di fatto e una immagine della
società italiana che è quella degli anni ‘40 (es.: anello nuziale, vestiti,
biancheria, cassettoni, frigorifero, armi, oggetti, etc...). Interessanti sono gli
ultimi due numeri della norma (6-bis e 6-ter), che sono aggiunte recenti e
riguardano gli animali (cane, gatto, etc...). Il codice prevede agli artt.515 e 516
anche una lista di beni impignorabili, cioè dei beni che in determinate
circostanze di tempo e fatto non possono essere pignorate. Il c.2
dell’art.516 è la perfetta dimostrazione che la norma non è mai stata
modificata perché parla della pignorabilità dei bachi da seta solo quando sono
sui rami per formare il bozzolo.
Più importante è l’art.517, che dà delle indicazioni all’ufficiale giudiziario
rispetto ai beni che è opportuno vengano fatti oggetto di pignoramento prima
di qualunque altro: gioielli preziosi, titoli di credito, altri beni che appaiono di
sicura realizzazione e, in generale, tutto ciò che secondo l’ufficiale giudiziario
appare di facile e pronta liquidazione.
È importante tenere conto dei limiti di tempo del pignoramento previsti
dall’art.519. Il pignoramento non può essere eseguito nei giorni festivi, né fuori
dalle ore indicate dall’art.147, salvo che sia data autorizzazione dal presidente
del tribunale o da un giudice da lui delegato. Il pignoramento iniziato nelle ore
prescritte può, tuttavia, essere proseguito fino al suo compimento.
LA FORMA DEL PIGNORAMENTO:
Il pignoramento si compie oralmente e deve contenere l’ingiunzione di non
sottrarre i beni alla garanzia del credito più tutti gli altri avvertimenti e
informative presenti nella disciplina del pignoramento in generale (possibilità
di conversione del pignoramento, possibilità di estendere il pignoramento ad
altri beni, etc...).
Della forma orale del pignoramento è necessario conservare traccia, quindi
l’ufficiale giudiziario redige processo verbale, ai sensi dell’art.518, quindi dà
atto dell’ingiunzione di cui all’art.492 e descrive le cose pignorate, avvalendosi
di riproduzioni fotografiche. L’art. 165 (disp.att.) afferma che il creditore può
chiedere di partecipare personalmente o mediante rappresentanza del
difensore di fiducia al pignoramento.
In relazione al pignoramento sono importanti due fasi: 1)la stima del valore del
bene pignorato, stima alla quale procede direttamente l’ufficiale giudiziario o
uno stimatore nominato per l’occasione; 2)le disposizioni relative alla custodia
di beni pignorati.
Fermo restando che per gioielli e titoli di credito la custodia spetta al
cancelliere, per gli altri beni l’art.520.2 provvede l’ufficiale giudiziario, su
richiesta del creditore, trasportandole presso un luogo di custodia o
affidandole a un custode diverso dal debitore, sempre che, trattandosi di beni
deperibili, non sia necessario adottare altre disposizioni.
L’art.521 stabilisce che: non può essere designato custode del bene pignorato.
Sono esclusi il creditore o il debitore o i coniugi, a meno che non ci sia
l’autorizzazione dell’altro soggetto. Gli obblighi del custode sono particolar:
egli non può usare le cose pignorate senza l’autorizzazione del giudice
dell’esecuzione. La responsabilità del custode ha anche un aspetto penalistico,
che è dato dall’aver sottratto o distrutto le cose pignorate.
Importante è la nota di iscrizione a ruolo per la formazione del fascicolo
d’ufficio.
Il c.6 dell’art.518, stabilisce che: un termine di 15gg per il deposito della nota
da parte del creditore presso la cancelleria del tribunale. Al momento del
deposito, il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio. Questa norma si ricollega
con l’art.164-ter (disp.att.), secondo il quale: quando il pignoramento è
divenuto inefficace per il mancato deposito della nota di iscrizione a ruolo nel
termine stabilito, il creditore entro 5gg dalla scadenza del termine ne fa
dichiarazione al debitore e all’eventuale terzo, mediante atto notificato (onere
di informazione). In ogni caso l’obbligo del debitore e del terzo termina quando
la nota iscrizione a ruolo non è depositata nei termini di legge.
In sintesi: il termine di efficacia del pignoramento si verifica per l’inutile
decorso dei 45gg (art.497) senza l’istanza di vendita o assegnazione, oppure
per il mancato deposito della nota di iscrizione a ruolo, in quest’ultimo caso
con l’aggiunta di un onere di informazione a carico del creditore.
L’INTERVENTO DEI CREDITORI:
Secondo l’art.525 esso deve aver luogo non oltre la prima udienza fissata per
l’autorizzazione della vendita o per l’assegnazione, a meno che non si tratti
della c.d. piccola espropriazione (in cui il valore dei beni non supera i 20mila
euro), in cui l’intervento deve essere contestuale alla presentazione del ricorso
per la richiesta della vendita o dell’assegnazione.
Il problema della tempestività o tardività dell’intervento si pone solo per i
creditori chirografari. Infatti, l’art.528 afferma che: i creditori che hanno un
diritto di prelazione, anche se intervengono tardivamente, concorrono
comunque alla distribuzione della somma ricavata in ragione della loro
prelazione. Nel caso in cui vi sia un intervento, l’art.527 fa riferimento alla
possibilità per il creditore procedente di indicare si creditori intervenuti
l’esistenza di altri beni del debitore pignorabile. Questo articolo è stato
abrogato nel 2005, ma la norma è integralmente riprodotta nelle disposizioni
generali, al c.4 dell’art.499.
FASE DELLA VENDITA/ASSEGNAZIONE:
La vendita è tendenzialmente senza incanto.
Qui viene in considerazione una forma di vendita particolare: “la vendita a
mezzo di commissionario”. Secondo l’art.1731 la commissione è il contratto
che ha ad oggetto l’acquisto o la vendita di beni per conto del committente e
in nome del commissario. Il commissario è un istituto di vendite giudiziarie, che
opera come soggetto che compie materialmente la vendita in nome proprio
ma per conto del committente, che in questo caso è lo stato nella persona
dell’ufficiale giudiziario o del giudice dell’esecuzione. Solo nel caso in cui la
vendita senza incanto non dia esito positivo si procede alla vendita con
incanto. L’art.534-bis parla della delega alle operazioni di vendita, ma è più
importante nell’ambito delle espropriazioni immobiliari.
Altra norma è l’art.534-ter, riguardante le possibili difficoltà che sorgono nel
corso delle operazioni di vendita. In questo caso è possibile rivolgersi
direttamente al giudice dell’esecuzione che provvede con decreto.
LA DISTRIBUZIONE DEL RICAVATO:
Per quanto riguarda la distribuzione, il dato interessante è la possibilità di una
distribuzione “amichevole” della somma ricavata. L’art.541 prevede che: se i
creditori concorrenti chiedono la distribuzione secondo un piano di riparto
concordato, il giudice dell’esecuzione provvede, sentito il debitore. Nel caso in
cui l’accordo tra i creditori o tra creditori e debitori non venga raggiunto, ogni
creditore può chiedere che si proceda alla distribuzione giudiziale.
•L’ESPROPRIAZIONE MOBILIARE PRESSO TERZI:
Si tratta di un procedimento molto complesso. Questa forma di espropriazione
riguarda beni mobili del debitore nella disponibilità di un terzo o crediti che il
debitore vanta nei confronti di un terzo.
Dunque, abbiamo tre soggetti coinvolti: il creditore, il debitore principale e il
terzo, che è a sua volta debitore del debitore principale.
Per quanto riguarda l’esecuzione riguarda direttamente il debitore, il terzo è
coinvolto, in quanto il creditore vuole soddisfare le sue ragioni sui beni o sul
credito che il debitore ha nei confronti del terzo.
Es.: Tizio è creditore di Caio. Caio non ha beni pignorabili, però è dipendente di
Apple. Lo stipendio mensile viene depositato sul conto di Caio. Allora, Tizio
ricorre al pignoramento presso terzi, ossia al procedimento che gli consente di
soddisfare le proprie ragioni sulla somma che Apple, in quanto datore di lavoro
di Caio, deve a quest’ultimo.
I crediti possono anche non essere ancora esigibili, in quanto sottoposti a
condizione o termine, o anche futuri, purché derivanti da un rapporto
preesistente.
IL PIGNORAMENTO:
Anche in relazione al pignoramento presso terzi, in particolare al pignoramento
di crediti, dobbiamo fare una distinzione tra crediti assolutamente
impignorabili e crediti relativamente impignorabili. -I crediti
assolutamente impignorabili sono quelli che in nessuna circostanza possono
essere assoggettati a pignoramento (art.545, c.1 e 2). Si tratta di: crediti
alimentari, crediti aventi ad oggetto sussidi, di grazia, di sostentamento,
indennità di maternità, malattie, ecc.
-Tra i crediti relativamente impignorabili vi sono ipotesi importanti che
riguardano, ad es., le somme dovute da privati a titolo di salario o di stipendio
o di altre indennità.
Si tratta di crediti pignorabili solo entro specifici limiti prefissati dal legislatore
(art.545). Il pignoramento in violazione dei divieti e oltre i limiti previsti
dall’articolo è parzialmente inefficace. L’inefficacia è rilevata dal giudice anche
d’ufficio. La struttura del pignoramento è complicata. Il pignoramento ha, in
questo caso, forma scritta e consiste in un atto notificato al debitore e al terzo.
Questo atto, ai sensi dell’art.543 deve contenere l’indicazione del credito, del
titolo esecutivo e del precetto; le ingiunzioni e avvertimenti tipici del
pignoramento; l’indicazione, almeno, generica delle cose o somme dovute dal
terzo al debitore e l’intimazione al terzo di non disporne in assenza di ordine
del giudice; la dichiarazione di residenza o elezione di domicilio nel comune in
cui ha sede il tribunale; la citazione del debitore a comparire davanti al giudice
competente (quello del luogo di residenza del debitore stesso) in una apposita
udienza.
L’art.546 stabilisce che: dal momento in cui gli è notificato l’atto di precetto, il
terzo è costituito custode dei beni o delle somme assoggettate a
pignoramento. Al di là della definizione, il dato significativo è che, quand’anche
restituisse i beni al debitore principale o pagasse il suo debito al debitore
principale, non interverrebbe alcun effetto liberatorio. L’art.2917 (estinzione
del credito pignorato) afferma che: se oggetto del pignoramento è un credito,
l’estinzione di esso per cause verificatesi in epoca successiva al pignoramento
non ha effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori
intervenuti nell’esecuzione.
Tornando alla struttura del pignoramento e alla parte del pignoramento che
riguarda il terzo, la parte più importante è l’invito a rendere una particolare
dichiarazione che chiarisca qual è la sua posizione debitoria, con
l’avvertimento che, in caso di mancata comunicazione, questa stessa
comunicazione dovrà essere resa in apposita udienza. Se anche in udienza il
terzo non compare o non rende dichiarazione, il credito pignorato o il possesso
delle cose si avranno per non contestati ai fini del procedimento de quo.
L’art.547 stabilisce il contenuto della dichiarazione del terzo. Si tratta di una
dichiarazione che deve essere inviata al creditore procedente per mezzo di
raccomandata o pec. Il terzo la può inviare personalmente o tramite
procuratore speciale e deve specificare di quali cose o somme è debitore nei
confronti del debitore principale o si trova in possesso e quando ne deve
eseguire il pagamento o la consegna. Il terzo deve in sostanza chiarire la sua
posizione debitoria nei confronti del debitore principale. Le cose si complicano
se il terzo non invia al creditore la dichiarazione.
Abbiamo detto che il pignoramento deve contenere l’invito al debitore a
comparire davanti al giudice competente in un'apposita udienza. Se in questa
udienza il creditore dichiara di non aver ricevuto la dichiarazione, il giudice
fissa un’udienza successiva. Se anche a questa seconda udienza il terzo non
compare o, pur comparendo, non rende dichiarazione, il credito pignorato si
considera non contestato. Quindi, molto dipende dalla condotta del terzo.
Si procede all’esecuzione sia quando il terzo compaia in udienza e renda
dichiarazione, sia nel caso in cui il terzo non sia comparso o non abbia reso
dichiarazione e il suo credito sia considerato non contestato nell’ipotesi in cui
le allegazioni del creditore consentano l’identificazione del credito o dei beni di
appartenenza del debitore in possesso del terzo. Il creditore deve, infatti,
indicare, almeno genericamente, i beni in possesso del terzo. Se l’indicazione è
abbastanza dettagliata e facilmente individuabile, anche se il terzo non rende
la dichiarazione o non compare, si può procedere ad esecuzione forzata. La
situazione è totalmente diversa nell’ipotesi di cui all’art.549, quando a seguito
di dichiarazione del terzo sorgono contestazioni o se, nel caso di mancata
dichiarazione del terzo non è possibile verificare l’esatta identificazione del
credito o dei beni del debitore in possesso del terzo. Su istanza di parte il
giudice dell’esecuzione provvede all’accertamento della posizione del terzo nel
contraddittorio tra le parti (creditore, debitore principale e terzo). È una vera e
propria parentesi di cognizione del giudice dell’esecuzione che provvederà in
materia con ordinanza impugnabile esclusivamente con opposizione agli atti
esecutivi. L’opposizione non è soggetta ad appello, ma è esperibile ricorso
straordinario per cassazione ai sensi dell’art.111.
L’accertamento della posizione del terzo non è dotato di autorità di cosa
giudicata, quindi non può valere erga omnes. Avendo efficacia endo-
processuale, al di fuori di quella procedura esecutiva la posizione del terzo
potrà essere contestata senza timori di incorrere in una eccezione di giudicato.
•L’ESPROPRIAZIONE IMMOBILIARE:
IL PIGNORAMENTO:
L’espropriazione immobiliare ha ad oggetto beni immobili. Questo è un istituto
complesso.
Trattandosi di beni immobili assoggettati a pignoramento è onere del creditore
verificare che nel patrimonio del debitore siano compresi beni
immobili.
In considerazione della natura del bene il pignoramento nasce direttamente
come atto scritto. Infatti, l’art.555 afferma che: il pignoramento immobiliare si
esegue mediante notificazione al debitore e successiva trascrizione di un atto
nel quale si indicano esattamente i beni e i diritti immobiliari che intendono
sottoporre a esecuzione, e gli si fa l’ingiunzione prevista dall’art.492.
Gli elementi dell’atto di pignoramento immobiliare sono due: la notificazione
al debitore e la trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari.
La tesi migliore (secondo silvestri) è quella della efficacia costitutiva della
trascrizione rispetto all’atto del pignoramento, anche in considerazione
dell’inefficacia relativa degli atti di disposizione compiuti dopo il pignoramento,
in cui ciò che fa la differenza è la data della trascrizione. Immediatamente dopo
la notificazione, l’ufficiale giudiziario consegna copia autentica dell’atto con le
note di trascrizione al competente conservatore dei registri immobiliari che
trascrive l’atto e gli restituisce una delle note. La nota di trascrizione è un
elemento indispensabile per ottenere la trasposizione dell’atto nei registri
immobiliari. Il codice ci parla della possibilità che, insieme ai beni immobili,
siano espropriati i beni mobili che arredano l’immobile. Per quanto
riguarda l’art.557 importante è il c.1. Secondo la
norma, eseguita l’ultima notificazione, l’ufficiale giudiziario consegna senza
ritardo al creditore l’atto di pignoramento e la nota di trascrizione.
Il c.2 dispone che: il creditore deve depositare in cancelleria tutta la
documentazione per la formazione del fascicolo d’ufficio.
L’ultimo comma prevede la perdita di efficacia del pignoramento quando la
nota di iscrizione al ruolo, le copie dell’atto di pignoramento del titolo
esecutivo e del precetto sono depositate oltre il termine di 15gg dalla
consegna al creditore.
L’art.164-ter (disp.att.) prevede l’onere di informazione al debitore della
perdita di efficacia del pignoramento. Anche in relazione ai beni immobili si
pone il problema della custodia del bene pignorato. In linea di principio, è lo
stesso debitore che è costituito custode. L’art.560 ci fa comprendere che le
modalità della custodia devono essere tali da favorire la futura vendita forzata
del bene.
L’INTERVENTO DEI CREDITORI:
Anche per il pignoramento immobiliare possiamo avere l’intervento. Questo è
disciplinato dagli artt.563 e ss.
Oggi, l’art.563 (condizioni e tempi dell’intervento) non esiste più, in quanto si
fa riferimento alla normativa generale in tema di espropriazione forzata di cui
agli artt.499 e 500. L’intervento non può avvenire oltre la prima udienza fissata
per l’autorizzazione alla vendita. Il tempo dell’intervento per comprendere se
l’intervento è tardivo o tempestivo è rilevante solo per i creditori chirografari,
in quanto quelli privilegiati sono anteposti ai primi in sede di distribuzione.
LA VENTIDA FORZATA:
L’art.567 dice che: il creditore pignorante e ognuno dei creditori intervenuti
muniti di titolo esecutivo possono chiedere la vendita dell’immobile pignorato.
Chi richiede la vendita deve, oltre a fare la relativa istanza, procurare e allegare
all’istanza di vendita tutta la documentazione necessaria a identificare
l’immobile e ricostruire i vari passaggi di mano, le varie vicende dell’immobile.
Tutto questo è importante, in quanto se la documentazione non è depositata
nel termine o dopo un primo tentativo non è integrata come richiesta dal
giudice, il giudice dell’esecuzione, anche d’ufficio, dichiara l’inefficacia del
pignoramento. L’inefficacia è dichiarata con ordinanza, sentite le parti. Il
giudice dispone, con l’ordinanza, la cancellazione della trascrizione del
pignoramento e dichiara l’estinzione del processo esecutivo se non ci sono altri
beni pignorati.
Qualunque sia la forma della vendita si richiede che venga determinato da un
esperto il valoro dell’immobile, tenendo conto del valore di mercato (c.d.
stima). La vendita può essere senza incanto o con incanto, e il legislatore
privilegia la prima. L’art.571, in relazione alle offerte d’acquisto, stabilisce che:
tutti possono formulare offerte relative all’acquisto dell’immobile pignorato,
personalmente o a mezzo del proprio difensore. Sono anche possibili le offerte
per persona da nominare.
La vendita con incanto ha luogo solo quando il giudice ritiene che la vendita
avverrà ad un prezzo migliore, ossia ad un prezzo superiore rispetto alla metà
del valore di stima. Quindi, è un’ipotesi eventuale e non molto frequente.
L’art.584 stabilisce che: avvenuto l’incanto, possono essere fatte offerte di
acquisto entro il termine perentorio di 10gg, ma esse non sono efficaci se il
prezzo offerto non supera di un quinto quello raggiunto nell’incanto.
L’aggiudicazione dell’asta è quindi solo provvisoria. Decorso inutilmente il
termine di 10gg, l’aggiudicazione si stabilizza. Importante è l’art.585 relativo al
versamento del prezzo: esso deve essere versato nel termine e nel modo fissati
dall’ordinanza che dispone la vendita e deve essere consegnato al cancelliere il
documento comprovante l’avvenuto versamento. Il versamento è un elemento
indispensabile per il perfezionamento dell’acquisto. Lo si ricava dall’art.587,
secondo il quale: se il prezzo non è depositato nel termine stabilito, il giudice
dichiara la decadenza dell’aggiudicatario, pronuncia la perdita della cauzione a
titolo di multa e dispone un nuovo incanto. L’art.586 tratta del trasferimento
del bene espropriato. Il trasferimento del bene espropriato al soggetto che l’ha
acquistato è disposto con decreto di trasferimento, che il giudice pronuncia
ripetendo la descrizione contenuta nell’ordinanza che dispone la vendita e
ordinando che si cancellino le trascrizioni dei pignoranti e le iscrizioni
ipotecarie, se queste ultime non si riferiscono ad obbligazioni assuntesi
dall’aggiudicatario.
I creditori dello stesso debitore non sono avvisati dell’iniziativa del creditore
procedente, salvo i creditori iscritti, ad es.: quelli con privilegi risultanti da
pubblici registri.
La ratio dell’avviso è data dal fatto che, se la procedura esecutiva andasse
avanti senza un avviso e si arrivasse ad una vendita forzata perderebbero la
garanzia sul bene. Perderebbero la garanzia sul bene pignorato in quanto
questa norma ci dice che con la vendita forzata viene disposta la cancellazione
di trascrizioni e inscrizioni sul bene pignorato (c.d. effetto purgativo della
vendita forzata).
La disposizione ha la finalità specifica di favorire la vendita forzata dei beni. Le
vendite forzate molto spesso vanno deserte. La forma più comune di vendita
forzata è quella che viene affidata a specifici professionisti. Viene in rilievo la
delega delle operazioni di vendita, che è entrata a far parte del nostro
ordinamento alla fine degli anni ‘90 ed è stata negli anni potenziata. La delega
delle operazioni è disciplinata dall’art.591-bis e ss.
L’art.591-bis afferma che: il giudice dell’esecuzione, con l’ordinanza con la
quale provvede sull’istanza di vendita, delega a un notaio, a un avvocato o a un
commercialista il compimento delle operazioni di vendita, fissando anche un
termine entro il quale tali operazioni devono essere concluse. I delegati alla
vendita hanno poteri amplissimi e discrezionali. Questi poteri sono talmente
ampi da comprendere che: da un lato, la predisposizione del decreto di
trasferimento interviene dopo la vendita, anche se il sigillo di garanzia dovrà
essere apposta dal giudice; e dall’altro, la redazione del progetto di
distribuzione della somma ricavata, nonché la sua trasmissione al giudice
dell’esecuzione.
Inoltre, l’art.591-ter prevede che: in caso di difficoltà, il professionista possa
rivolgersi al giudice dell’esecuzione, il quale provvede con decreto. Contro
questo decreto è esperibile la procedura di reclamo. Anche sul reclamo
provvede il giudice dell’esecuzione e, a sua volta, contro l’ordinanza
pronunciata dal giudice dell’esecuzione sarà possibile un ulteriore reclamo
nella forma del reclamo cautelare. Per quanto riguarda la distribuzione del
ricavato, possiamo fare riferimento all’art.596. La norma prevede la
predisposizione del progetto di distribuzione, redatto o dal giudice
dell’esecuzione o dal delegato alla vendita. Il progetto deve essere depositato
in cancelleria nelle prospettive di una apposita udienza alla quale
parteciperanno il debitore e i creditori in cui si deciderà il da farsi, nel senso
che viene data loro la possibilità di consultare il progetto e di rendere noto il
loro parere sulla accettabilità dello stesso.
•L’ESPROPRIAZIONE DEI BENI INDIVISI:
Il riferimento è a un bene rispetto al quale esistono più comproprietari, uno dei
quali è il debitore, mentre gli altri non hanno un rapporto di debito nei
confronti del debitore procedente.
In questo caso il pignoramento è possibile, ma devono essere avvisati gli altri
comproprietari. Lo si ricava dall’art.599, secondo il quale possono essere
pignorati i beni indivisi anche quando non tutti i comproprietari sono obbligati
verso il creditore.
In tal caso del pignoramento è notificato avviso, a cura del creditore
pignorante, anche agli altri comproprietari, ai quali è fatto divieto di lasciare
separare dal debitore la sua parte delle cose comuni senza ordine del giudice.
Tutti i comproprietari vengono invitati a comparire in apposita udienza,
rispetto alla quale dobbiamo far riferimento all’art.180 (disp.att.).
Con l’avviso che viene notificato ai comproprietari che non sono debitori del
creditore procedente, il giudice dell’esecuzione fissa anche apposita udienza,
in relazione alla quale si deve procedere alla separazione della parte di cui è
proprietario il debitore, rispetto alla parte dei comproprietari che rimangono
fuori dal rapporto obbligatorio. Nulla quaestio se la separazione è possibile in
natura. Se la separazione in natura non è possibile, occorre ricorrere a un
normale giudizio di divisione a norma del cod.civile. Giudizio di divisione che è
affidato al giudice dell’esecuzione. In una situazione di questo genere,
l’esecuzione rimane sospesa, ai sensi dell’art.601, finché sulla stessa non sia
intervenuto un accordo tra le parti o sia stata pronunciata una sentenza di
divisione giudiziale passata in giudicato. Una volta intervenuta la sentenza sarà
necessario riassumere il processo esecutivo.
•L’ESPROPRIAZIONE CONTRO IL TERZO PROPRIETARIO:
Il riferimento è a due ipotesi: a)il bene è gravato da pegno o ipoteca per un
debito altrui; b)i creditori hanno esperito dell'azione revocatoria nei confronti
del debitore alienante, e siano risultati vittoriosi.
La prima ipotesi è una conseguenza del c.d. diritto di sequela che caratterizza
le garanzie reali, nel senso che il vincolo sul bene si trasferisce in capo al terzo
che ha acquistato il bene; quindi, è possibile che il terzo subisca
l’espropriazione.
Nella seconda ipotesi, il trasferimento è dichiarato inefficace nei loro confronti
e i creditori possono pignorare il bene come se fosse del debitore. (vedi =>
art.2929-bis, riguardante gli atti di disposizione a titolo gratuito).
L’ESECUZIONE FORZATA IN FORMA SPECIFICA:
La ratio è quella di consentire al creditore di conseguire il bene o la prestazione
cui ha diritto. L’esecuzione in forma specifica trova una disciplina nel cpc, negli
artt.2930-2933.
L’art.2930 si occupa della prima forma di esecuzione forzata in forma specifica,
che è quella per consegna di un bene mobile determinato o rilascio di un bene
immobile. La norma afferma che se non è adempiuto l’obbligo di consegnare
una cosa determinata, mobile o immobile, l’avente diritto può ottenere la
consegna o il rilascio forzati.
La seconda forma di esecuzione forzata in forma specifica riguarda gli obblighi
di fare e di non fare. Per gli obblighi di fare, l’art.2931 dispone che: se non è
adempiuto un obbligo di fare, l’avente diritto può ottenere che esso sia
eseguito a spese dell’obbligato nelle forme stabilite dal cpc. Per gli obblighi di
non fare, l’art.2933 prevede che: se non è adempiuto un obbligo di non fare,
l’avente diritto può ottenere che sia distrutto, a meno che la distruzione della
cosa non arrechi pregiudizio all’economia nazionale.
1)L’ESECUZIONE FORZATA PER CONSEGNA O RILASCIO:
È la forma più semplice di esecuzione forzata.
L’oggetto è un bene mobile o immobile determinato, bene di cui nel titolo
esecutivo e nel precetto è necessario fornire una descrizione almeno
sommaria.
L’ESECUZIONE PER CONSEGNA => procedura: l’ufficiale giudiziario, con il titolo
esecutivo e con il precetto si reca sul luogo in cui le cose si trovano, le ricerca e
ne fa consegna al creditore o alla persona da questi designata. Quindi, si tratta
di un procedimento interamente affidato all’ufficiale giudiziario. Le norme che
vengono in rilievo sono gli artt.605-606 e inoltre, anche, l’art.607 che riguarda
il caso in cui le cose da consegnare sono oggetto di pignoramento: in tal caso il
creditore dovrà far valere le sue ragioni mediante opposizione a norma degli
artt.619 e ss.
L’ESECUZIONE PER RILASCIO => esso ha ad oggetto un bene immobile. Es.,
convalida di uno sfratto in capo al debitore: in questo caso l’immobile deve
essere liberato e il possesso deve essere reso disponibile al creditore. In questo
caso la procedura è più complessa: ai sensi dell’art.608, almeno 10gg prima,
l’ufficiale giudiziario deve notificare al debitore, tenuto a rilasciare l’immobile,
un avviso che indichi il giorno e l’ora in cui si procederà. Nel giorno e l’ora
stabiliti l’ufficiale giudiziario si recherà sul posto e, avvalendosi anche dei
poteri lato senso coercitivi immette la parte istante nel possesso dell’immobile.
L’immissione nel possesso avviene attraverso la consegna delle chiavi
dell’immobile.
Di recente è stato aggiunto al codice l’art.609, che riguarda i provvedimenti
circa i mobili estranei all’esecuzione.
Gli art.610 e 611 riguardano sia l’esecuzione per consegna, sia quella per
rilascio.
L’art.610, provvedimenti temporanei, stabilisce che: se nel corso
dell’esecuzione sorgono difficoltà che non ammettono dilazione, ciascuna
parte può chiedere al giudice dell’esecuzione, anche verbalmente, i
provvedimenti temporanei occorrenti. Deve trattarsi di difficoltà puramente
materiali, i soli di cui può occuparsi il giudice dell’esecuzione. Se di tratta di
contestazione relative all’esistenza del diritto di procedere all’esecuzione
forzata, questo articolo non si applica.
L’art.611, spese dell’esecuzione, stabilisce che: nel processo verbale l’ufficiale
giudiziario deve specificare tutte le spese anticipate dalla parte istante e che la
liquidazione delle spese è fatta dal giudice esecutivo con decreto che
costituisce titolo esecutivo. Secondo la giurisprudenza, questo decreto è
equivalente al decreto ingiuntivo e contro di esso il debitore può proporre
opposizione. La norma segnala, anche, un’ipotesi particolare di titolo esecutivo
giudiziale, il decreto però vale come titolo esecutivo perché il legislatore gli
attribuisce espressamente tale efficacia.
2)L’ESECUZIONE FORZATA DEGLI OBBLIGHI DI FARE e DI NON FARE:
GLI OBBLIGHI DI FARE: Nell’ambito di tali obblighi si è soliti compiere una
distinzione, a seconda che siano obbligazioni di fare fungibili o infungibili. Si
parla di “fungibilità” quando la prestazione consistente nel realizzare qualcosa
può essere realizzata dal debitore o da un soggetto terzo (senza differenze).
Es.: costruzione di un muro che divide due proprietà. L’obbligo di realizzare
una costruzione è un tipo di fare che non richiede il soggetto obbligato).
Si parla di “infungibilità” quando un obbligo di fare è caratterizzato
dall’intuizione personale, potendo essere realizzato solo dal soggetto
obbligato. (Es.: cantante d’opera che si è contrattualmente obbligato a cantare
in un certo teatro).
dibattito sull’infungibilità inizia nel 1970 con lo statuto dei lavoratori, quando
viene previsto che: in caso di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro è
tenuto a reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato. In relazione
all’obbligo di reintegrare il lavoratore, si inizia a discutere del problema della
fungibilità o infungibilità di questo particolare fare che in questo particolare
obbligo di reintegrazione, il datore di lavoro non può essere sostituito con
nessun altro.
Il nostro ordinamento, fino al 2009, non ha previsto nulla per questa
situazione.
GLI OBBLIGHI DI NON FARE: si tratta di obblighi infungibili, però hanno un
particolare destino, ossia: si trasformano in obblighi di fare fungibili nel caso in
cui vengano violati (es.: distruzione del muro realizzato in violazione
dell’obbligo di non costruire). Il legislatore si occupa esclusivamente degli
obblighi di fare fungibili e degli obblighi di non fare nel momento in cui, a causa
dell’inadempimento, si sono trasformati in obblighi di fare. Art.2931,
esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto. La norma si
riferisce al fatto che: se le parti si impegnano attraverso un preliminare a
stipulare un definito e una delle parti non adempie, l’altra può rivolgersi al
giudice e ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non
concluso (sentenza costitutiva). Per quanto riguarda le norme processuali,
bisogna fare riferimento agli artt.612 e ss. Nel c.1
dell’art.612, la prima cosa che si nota è il riferimento alla sentenza, che sembra
essere l’unico titolo esecutivo che legittima questa forma di esecuzione. In
realtà, anche in anni recenti, si è giunti alla conclusione che anche il verbale di
conciliazione stragiudiziale, in particolare se raggiunto attraverso un
procedimento di mediazione che ha avuto esisto positivo, costituisce un
idoneo titolo esecutivo. Il ruolo dell’ufficiale giudiziario è minimo, venendo in
considerazione solo in un secondo momento. Infatti, il procedimento si apre
con il ricorso al giudice dell’esecuzione che, sentita la parte obbligata,
provvede mediante ordinanza, designando l’ufficiale giudiziario e i terzi che
devono provvedere alla realizzare/distruzione dell’opera.
L’obbligo di fare o di non fare deve essere individuato dal titolo esecutivo.
Quindi, sarà il giudice della cognizione ad individuare gli aspetti e i limiti del
diritto del creditore, in quanto il provvedimento del giudice dell’esecuzione ha
una funzione meramente integrativa a questo riguardo, dovendo provvedere,
ad es., sulle cautele e le autorizzazioni e i permessi necessari all’adempimento
dell’obbligo.
L’art.613 tratta delle difficoltà sorte nel corso dell’esecuzione e prevede la
facoltà dell’ufficiale giudiziario di farsi assistere dalla forza pubblica, nonché
quella di richiedere al giudice dell’esecuzione le opportune disposizioni per
eliminare le difficoltà che sorgono nel corso dell’esecuzione. In questo caso, il
giudice provvede con decreto.
LE OPPOSIZIONI ESECUTIVE:
La struttura del processo esecutivo non si presta ad ospitare delle forme di
cognizione, essendo caratterizzato da un soggetto procedente, il creditore, e
un soggetto passivo, il debitore, il quale è in una situazione di assoluta
soggezione rispetto all’iniziativa del creditore.
Non vi è spazio per un vero contradditorio all’interno del processo esecutivo, il
quale, in sé o per sé non è strutturato in modo tale da consentire al debitore si
contrastare l’iniziativa dei creditori. Per questo motivo, l’ordinamento deve
mettere a disposizione del debitore e dei terzi degli strumenti che consentano
di reagire all’iniziativa del creditore denunciando l’illegittimità dell’esecuzione
o di singoli atti del processo esecutivo. Le opposizioni esecutive servono a
questo. Infatti, sono giudizi di cognizione che introducono un procedimento
autonomo, ma strettamente collegato alla procedura esecutiva. Non a caso, la
proposizione delle opposizioni serve in prima battuta come strumento per
ottenere una sospensione dell’esecuzione.
Le opposizioni sono di tre tipi: 1)opposizioni all’esecuzione; 2)opposizioni agli
atti esecutivi e 3)opposizioni di terzi all’esecuzione (non va confusa con
l’opposizione di terzo ex art.404, che è un mezzo di impugnazione del processo
di cognizione).
Tutti questi tipi di opposizione introducono un giudizio di cognizione e hanno
una struttura bifasica. Esistono, però, delle importanti differenze tra i vari tipi
di opposizione, in particolare tra l’opposizione all’esecuzione e l’opposizione
agli atti esecutivi.
In linea di principio l’opposizione all’esecuzione non incontra limiti particolari.
Tuttavia, per quanto riguarda l’espropriazione, l’ultimo comma dell’art.615,
afferma che: l’opposizione diviene inammissibile se proposta dopo che sia
disposta la vendita o l’assegnazione, a meno che non sia fondata su fatti
sopravvenuti o anche quando l’opponente dimostri di non averla potuta
proporre tempestivamente per causa a lui non imputabile.
Questa norma è stata aggiunta nel 2016 e non si concilia bene con la disciplina
dell’opposizione all’esecuzione che, appunto, non dovrebbe incontrare limiti
temporali di proposizione. Con l’opposizione agli altri esecutivi, invece, si
contesta la regolarità formale di singoli atti esecutivi e, secondo una certa
interpretazione, anche dei provvedimenti del giudice dell’esecuzione. Il
termine di proposizione è in genere molto breve.
L’altra grande differenza è la sentenza con cui vengono definite le opposizioni.
Nel caso di opposizione all’esecuzione si tratta di una sentenza di primo grado
appellabile, mentre nel caso di opposizione agli atti esecutivi si tratta di una
sentenza non soggetta ad appello, ma assoggettabile a ricorso straordinario
per cassazione ex art.111.
1)L’OPPOSIZIONE ALL’ESECUZIONE:
L’art.615 stabilisce che: quando si contesta il diritto della parte istante a
procedere ad esecuzione forzata e questa non è ancora iniziata, si può
proporre opposizione al precetto con citazione davanti al giudice competente
per materia o per valore per territorio a norma dell’art.27.
L’oggetto principale dell’opposizione all’esecuzione è la contestazione del
diritto di procedere all’esecuzione forzata. Ovviamente può accadere che la
contestazione riguardi il titolo esecutivo. In questo caso la contestazione del
diritto a procedere all’esecuzione passa attraverso la contestazione della
legittimità del titolo esecutivo.
Questo tipo di opposizione può essere proposta quando manchi il titolo
esecutivo, perché ad es.: il creditore ha preteso di iniziare l’opposizione forzata
sulla base di una sentenza di accertamento o costitutiva.
Un’altra ipotesi è la inidoneità del titolo esecutivo utilizzato dal creditore a
sopportare il procedimento esecutivo intrapreso. Ad es.: possiamo pensare alla
scrittura privata autentica o riconosciuta o verificata, che può costituire titolo
esecutivo stragiudiziale solo per l’espropriazione: se viene usata per
l’esecuzione forzata per consegna o rilascio, il debitore è legittimato a proporre
opposizione. Altra
ipotesi è il difetto di legittimazione attiva o passiva del creditore o del debitore.
Si tratta dei fenomeni di successione dal lato attivo o passivo. Vi è poi la
violazione di specifici divieti, riguardanti la materia delle procedure
concorsuali. Si tratta di ipotesi in cui l’invalidità del titolo esecutivo avrebbe
potuto essere rilevata anche d’ufficio dal giudice o dall’ufficiale giudiziario che,
accorgendosi di queste carenze del titolo esecutivo avrebbe potuto rifiutare
l’esecuzione tratta di ipotesi poco utilizzate.
2)LE OPPOSIZIONI DI MERITO:
Molto più importanti sono le opposizioni all’esecuzione c.d. di merito, con le
quali si contesta l’esistenza del diritto di procedere all’esecuzione forzata.
Diritto che deve sussistere per tutto lo svolgimento della procedura esecutiva.
L’ipotesi più banale è che il debito esisteva all’inizio del procedimento, ma è
stato saldato nel corso del processo. In linea di principio il debitore potrà
proporre opposizione. In realtà il problema diventa complesso perché: in
relazione a questo tipo di opposizione di merito, occorre fare una distinzione a
seconda che l’esecuzione sia iniziata sulla base di un titolo esecutivo giudiziale
o stragiudiziale.
-Se il titolo esecutivo è un titolo giudiziale, occorre tenere conto delle
preclusioni che derivano dal giudicato o anche dalla mera litispendenza. Il
riferimento al giudicato è dato dalla preclusione delle questioni dedotte e
deducibili che sono state decise o avrebbero dovuto e potuto essere sollevate
e decise dalla sentenza. Questo significa che vi è una serie di circostanze e di
elementi che non possono essere messi in discussione. Per quanto riguarda la
litispendenza, essa è la situazione che deriva da un processo in cui è stata
pronunciata una sentenza di condanna di primo grado.
Bisogna fare riferimento alle regole generali in materia di nullità della
sentenza. Il riferimento è previsto dall’art.161, dove afferma che: la nullità
delle sentenze soggette ad appello o ricorso per cassazione possono essere
fatte valere solo nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di
impugnazione. Essa è rilevante nel contesto del discorso dell’opposizione
all’esecuzione perché, se l’opposizione è iniziata sulla base di una sentenza di
condanna di primo grado, per bloccare questo tipo di esecuzione il debitore
dovrà chiedere la sospensione del procedimento esecutivo al giudice
dell’appello.
Per quanto riguarda l’ipotesi in cui il processo esecutivo sia iniziato sulla base
di una sentenza passata in giudicato, in sede di opposizione all’esecuzione
potranno essere fatti valere solo i fatti impeditivi, modificativi o estintivi
successivi alla formazione del giudicato stesso.
-Per i titoli esecutivi stragiudiziali non ci sono limiti; quindi, con l’opposizione
all’esecuzione qualunque fatto può essere fatto valere come elemento che
determina l’illegittimità dell’esecuzione in virtù della circostanza che il diritto di
procedere all’esecuzione non esisteva o è venuto a mancare nel corso della
procedura.
L’opposizione all’esecuzione è proponibile anche per tutto ciò che riguarda la
pignorabilità dei beni, come si ricava dal c.2 dell’art.615. Questa scelta del
legislatore è abbastanza strana: se non fosse lui a dirci che in questo caso è
esperibile l’opposizione all’esecuzione, sembrerebbe più ragionevole pensare
che si tratti di un’ipotesi in cui il rimedio più adatto è l’opposizione agli atti
esecutivi.
IL PROCEDIMENTO: dal
punto di vista del procedimento occorre fare una distinzione.
Questo tipo di procedimento può essere proposto prima dell’inizio del vero
processo esecutivo.
Gli atti prodromici vengono in considerazione perché, prima dell’inizio del
processo esecutivo, l’opposizione all’esecuzione può essere proposta come
opposizione a precetto.
In questo caso l’opposizione si propone con atto di citazione davanti al giudice
competente per materia e per valore, e le norme seguite sono quelle di un
ordinario giudizio di cognizione, facendo però riferimento ai riti speciali nel
caso in cui la materia lo richieda.
Il c.1 dell’art.615, ci dice che: il giudice, concorrendo gravi motivi, sospende su
istanza di parte l’efficacia esecutiva del titolo; quindi, adotta un provvedimento
che impedisce il vero e proprio inizio dell’esecuzione. Quando invece
l’esecuzione è già iniziata le cose si fanno più complicate.
Questo tipo di opposizione si propone con ricorso al giudice dell’esecuzione, il
quale fissa un’apposita udienza di comparizione delle parti e un termine
perentorio per la notificazione del ricorso e del decreto. È a questo punto che
viene in considerazione la struttura bifasica dell’opposizione all’esecuzione, in
quanto questa udienza di comparizione regolata dalle norme sui procedimenti
in camera di consiglio (artt.737 e ss.) è l’udienza in cui si decide come il
processo proseguirà.
La giurisprudenza dice che: questa prima fase del procedimento, è una fase
sommaria, ed è seguita da una fase di cognizione piena. Inoltre, la struttura
bifasica non impedisce che si tratti di un procedimento unitario. Il riferimento
alla prima udienza è importante perché se il giudice dell’esecuzione verifica
che è competente l’ufficio giudiziario cui lui appartiene, si limita a fissare un
termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito, anche tenendo
conto di eventuali norme di rito speciale in relazione alla materia, con
riduzione della metà dei termini. Se, invece, risulta competente un ufficio
giudiziario diverso da quello del giudice dell’esecuzione, questi fisserà un
termine perentorio entro il quale la causa dovrà essere riassunta davanti al
giudice.
3)L’OPPOSIZIONE AGLI ATTI ESECUTIVI:
Anche questo tipo di opposizione introduce un giudizio di cognizione
autonomo, ma collegato al procedimento di esecuzione. L’art.617 stabilisce al
c.1 che le opposizioni relative alla regolarità formale del titolo esecutivo e del
precetto si propongono davanti al giudice indicato nell’art.480, c.3, con atto di
citazione da notificarsi nel termine perentorio di 20gg dalla notificazione del
titolo esecutivo o del precetto. Il concetto di regolarità formale è molto ampio.
Il riferimento è alle norme sulla nullità degli atti, art.256, c.2, in base al quale:
può essere pronunciata la nullità di un atto quanto questo manca dei formali
per il raggiungimento dello scopo per il conseguimento del quale l’atto in
quella forma è finalizzato.
Inoltre, con riferimento al titolo esecutivo, è necessario stare molto attenti. Il
discorso sulla nullità dell’atto non vale per il titolo esecutivo, perché una nullità
di questo dovrà essere fatta valere solo attraverso l’opposizione all’esecuzione.
Il titolo esecutivo è condizione necessaria e sufficiente per l’inizio e la
prosecuzione dell’esecuzione forzata; quindi, la sua nullità o inesistenza non
può essere considerato una forma di irregolarità formale e non potrà essere
dedotto con l’opposizione agli atti esecutivi.
Invece, è diverso il caso del precetto per il quale questa distinzione non è
necessaria. (...)
LEGITTIMAZIONE:
per quanto riguarda i legittimati attivi, essi sono il debitore o il terzo coinvolto
nella procedura esecutiva, ma sono, anche, tutti i soggetti destinatari di singoli
atti o provvedimenti del giudice, quindi anche i creditori.
Nel caso in cui più soggetti siano interessati alla pronuncia sulla regolarità o
meno dell’atto si verifica un’ipotesi di litisconsorzio necessario.
IL PROCEDIMENTO:
anche in questo caso si hanno delle forme differenziate a seconda che
l’opposizione riguardi gli atti preliminari o si rivolga contro atti del
procedimento esecutivo già iniziato.
Nel primo caso, è necessario un atto di citazione proposto davanti al giudice
competente per l’esecuzione.
Nel secondo caso, il c.2 dell’art.617 stabilisce che: l’opposizione si propone con
ricorso al giudice dell’esecuzione. Si ha una applicazione del principio della
struttura bifasica delle opposizioni esecutive. Una volta proposta opposizione
agli atti, il giudice dell’esecuzione fissa con decreto l’udienza di comparizione
delle parti dando, se necessario, i provvedimenti opportuni (art.618).
A questa udienza il giudice dà con ordinanza i provvedimenti che ritiene
dilazionali, ovvero sospende la procedura. Infine, fissa un termine per
l’instaurazione del giudizio di merito, previa iscrizione della causa a ruolo a
cura della parte interessata. Il dato importante che segna la differenza rispetto
all’opposizione dell’esecuzione è che, in ogni caso, sull’opposizione agli atti
esecutivi si pronuncia sempre e solo il giudice dell’esecuzione, senza che si
abbia una diversa allocazione della causa a seconda che l’ufficio giudiziario del
giudice dell’esecuzione sia competente o meno. Altra particolarità che segna
una differenza rispetto all’opposizione dell’esecuzione e che la sentenza
pronunciata in relazione alla opposizione agli atti esecutivi è una sentenza
espressamente dichiarata non impugnabile dal c.2 dell’art.618. Però, si tratta
di una sentenza non impugnabile con gli ordinari mezzi di impugnazione, con
l’eccezione prevista dal legislatore nelle disposizioni di attuazione del
regolamento di competenza, ma impugnabile per ricorso straordinario per
cassazione ex art.111, che è anche esperibili per tutti i motivi di ricorso previsti
dall’art.360.
4)L’OPPOSIZONE DEI TERZI:
Si tratta di una particolare opposizione alla quale è legittimato il terzo che
vanta la proprietà o altro diritto reale di godimento sul bene che è stato
oggetto della procedura esecutiva.
Si tratta di un’opposizione che non incontra limiti di tempo, ma deve essere
comunque proposta prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione
(art.619). Qui si seguono le norme previste per l’opposizione all’esecuzione.
L’esito di questa particolare opposizione proposta con ricorso al giudice
dell’esecuzione può essere diverso. È possibile che all’udienza fissata dal
giudice le parti raggiungano un accordo, in quel caso il giudice ne dà atto con
ordinanza adottando ogni provvedimento necessario per assicurarne: o
continuazione nel processo esecutivo o per prevederne l’estinzione.
Nel caso in cui le parti non raggiungano un accordo, le norme rinviano
all’art.616, quindi alla disciplina dell’opposizione all’esecuzione.
IL TEMPO:
ci sono delle norme particolari che riguardano il tempo della proposizione
dell’opposizione. L’opposizione può essere proposta fino a che non sia disposta
la vendita o l’assegnazione dei beni. Peraltro, l’art.620 prevede un’opposizione
tardiva che si verifica quando il giudice dell’esecuzione al quale l’opposizione è
stata proposta, non ha deciso di sospendere la procedura esecutiva, oppure
quando l’opposizione è proposta dopo la vendita. In questo caso, i diritti del
terzo potranno essere fatti valere esclusivamente sulla somma ricavata.
Per il terzo questa non è l’unica possibile difesa. Infatti, è possibile che questi,
dopo la procedura esecutiva, proponga un’azione di rivendica, specie se il bene
è un immobile e quindi non è soggetto all’applicazione della regola sul
processo di buona fede (art.1153). L’azione di rivendica è proposta nei
confronti del soggetto che ha acquistato il bene in vendita forzata oppure nei
confronti dell’assegnatario del bene. I problemi di ricorso tra le due forme di
tutela sono complessi.
GLI EVENTI ANOMALI:
Nel processo di cognizione si parla di eventi anomali con riferimento a tre
istituti: sospensione, interruzione ed estinzione.
Nella procedura esecutiva non esiste l’interruzione.
LA SOSPENSIONE:
nel processo esecutivo è un istituto molto importante, perché consente di
bloccare almeno temporaneamente la procedura esecutiva per vedere se essa
ha o meno un fondamento.
Secondo l’art.623, salvo che la sospensione sia disposta dalla legge o dal
giudice davanti al quale è impugnato un titolo esecutivo, l’esecuzione forzata
non può essere sospesa che con provvedimento del giudice dell’esecuzione.
La norma dice chiaramente che la sospensione po' verificarsi solo:
a)per espressa previsione di una norma di legge;
b)per un provvedimento specifico del giudice dell’esecuzione;
c)per un provvedimento del giudice dinanzi al quale è impugnato il titolo
esecutivo.
Quest’ultima ipotesi è importante e si ricollega al discorso delle opposizioni di
merito (riguardano nello specifico l’esistenza del diritto di procedere ad
esecuzione forzata).
Quando il titolo esecutivo è di formazione giudiziale occorre tenere conto delle
preclusioni derivanti dal giudicato e dalla litispendenza. Ciò significa che: se il
titolo è rappresentato da una sentenza di condanna, ad es.: di primo grado, la
sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo o, nel caso la procedura sia già
iniziata, la sospensione della procedura esecutiva potrà essere richiesta in sede
di proposizione dell’appello. Quindi il debitore, nell’atto con cui proporrà
appello contro la sentenza di primo grado utilizzata come titolo esecutivo per
promuovere l’esecuzione forzata, farà istanza al giudice di appello al fine di
ottenere l’inibitoria, cioè la sospensione dell’efficacia, del titolo esecutivo
oppure l’effettiva sospensione della procedura esecutiva, se già iniziata. Tutto
ciò si comprende dall’art.615, c.1, secondo il quale: la sospensione
dell’efficacia esecutiva del titolo, nel caso in cui l’opposizione sia stata
proposta contro uno degli atti prodromici, è legata alla presenza di gravi motivi
che rendano ragionevole in capo al giudice il disporre la sospensione. I gravi
motivi consentono la sospensione in caso di opposizione all’esecuzione, quindi
opposizione proposta nel caso di esecuzione già iniziata.
Infatti, l’art.624, c.1, afferma che: se è proposta opposizione all’esecuzione il
giudice, concorrendo gravi motivi, sospende su istanza di parte il
procedimento. I gravi motivi sono ciò che determina la sospensione del
processo esecutivo, oppure la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo
esecutivo, a seconda che l’istanza di sospensione intervenga a esecuzione già
iniziata o prima. Si ritiene che nella sospensione dell’esecuzione, a seguito di
proposizione di opposizione agli atti esecutivi, i giusti motivi non siano neppure
necessari, posto che nell’udienza fissata dal giudice dell’esecuzione per dettare
i provvedimenti necessari e anche per assegnare alle parti un termine entro il
quale instaurare il giudizio di merito si parla genericamente di sospensione
della procedura senza alcun riferimento ai gravi motivi.
La sospensione è disposta dal giudice dell’esecuzione con ordinanza. Contro
questa ordinanza è esperibile la procedura del reclamo cautelare. In
considerazione di questo mezzo di impugnazione particolare, la tendenza è
quella di considerare la sospensione dell’esecuzione come un provvedimento
che ha natura in senso lato cautelare, in quanto mira ad evitare che si arrechi
al debitore un pregiudizio irreparabile.
L’art.624, c.3, consente di comprendere come dalla sospensione della
procedura esecutiva si possa arrivare alla sua estinzione.
La norma prevede che: se contro l’ordinanza che ha disposto la sospensione
non viene proposto reclamo, oppure se questa ordinanza viene confermata in
sede di reclamo, o se il giudizio di merito non è stato introdotto nel termine
perentorio assegnato dal giudice, il giudice, anche d’ufficio, dichiara con
ordinanza l’estinzione della procedura esecutiva. Nel disporre l’estinzione del
processo ordina anche la cancellazione della trascrizione del pignoramento
(immobiliare) e provvede sulle spese. Anche questa ordinanza è suscettibile di
richiamo.
L’ultimo comma dell’art.624, stabilisce che: la norma si applica, in quanto
compatibile, anche alla ipotesi di sospensione del processo prevista
dall’art.618, cioè alla sospensione della procedura esecutiva a seguito di
opposizioni agli atti esecutivi.
L’art.624-bis disciplina un’ipotesi particolare data dalla sospensione su istanza
delle parti, in particolare di tutti i creditori muniti di titolo esecutivo. In questo
caso, il giudice può disporre per una sola volta la sospensione del processo per
un periodo massimo di 24mesi. Anche qui il giudice provvede sull’istanza
proposta dalle parti con ordinanza.
EFFETTI DELLA SOSPENSIONE:
la sospensione ha come effetto l’impossibilità di compiere qualunque atto del
procedimento, salvo specifica disposizione del giudice. Tuttavia, la sospensione
non può essere illimitata: nel disporre la sospensione il giudice fissa un termine
perentorio entro il quale la causa deve essere riassunta con ricorso. Il termine
non può essere superiore a sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di
primo grado resa sull’opposizione o dalla comunicazione della sentenza di
appello che abbia rigettato l’opposizione.
L’ESTINZIONE:
L’estinzione del processo esecutivo può avvenire per rinuncia delle parti,
oppure per inattività delle parti.
ESTINZIONE PER RINUNCIA (delle parti) => l’art.629 stabilisce che: il processo
si estingue se, prima dell’aggiudicazione o dell’assegnazione, il creditore
pignorante e quelli intervenuti muniti di titolo esecutivo rinunciano agli atti.
Dopo la vendita il processo si estingue se rinunciano agli atti i creditori
concorrenti.
Questa norma e quelle relative all’estinzione in generale, sembrano riferirsi
solo all’espropriazione. Un parziale riempimento di questa lacuna si ha solo
relativamente all’esecuzione per consegna o rilascio, in quanto l’art.608-bis
prevede l’estinzione dell’esecuzione di cui all’art.605 (per consegna o rilascio)
per rinuncia della parte istante. A questa disposizione, tutto il resto sembra
riferirsi all’espropriazione. Non si completa nulla con specifico riferimento, ad
es., all’estinzione per rinuncia nella esecuzione forzata in forma specifica degli
obblighi di fare o di non fare. La rinuncia è operativa in momenti diversi a
seconda dei soggetti che la formulano.
ESTINZIONE PER INATTIVITA’ (delle parti) => (più importante).
Il processo esecutivo si estingue quando le parti non lo proseguono o non lo
riassumo nel termine perentorio stabilito dalla legge o dal giudice. Le ipotesi
possono essere diverse. Due ipotesi oltre alla mancata riassunzione del giudizio
di merito una volta proposta l’opposizione sono: la perdita di efficacia del
pignoramento decorsi i 45gg senza che vengano compiuti ulteriori atti del
procedimento, nonché l’ipotesi legata all'omesso o tardivo deposito della nota
di iscrizione a ruolo e di altri documenti.
L’estinzione opera di diritto ed è dichiarata dal giudice dell’esecuzione, anche
d’ufficio, con ordinanza non di oltre la prima udienza successiva al verificarsi
della causa estintiva. Contro questa ordinanza è ammesso reclamo nel termine
perentorio di 20gg dall’udienza o dalla comunicazione dell’ordinanza.
L’impugnazione avviene nelle forme del controllo da parte del collegio sulle
ordinanze del giudice istruttore. Infatti, la parte finale dell’art.630, c.3, afferma
che: il collegio provvede in camera di consiglio con sentenza, osservando le
norme di cui all’art.178.
Altra forma di inattività delle parti è quella che fa da pendant all’art.181, c.1. Si
tratta della mancata comparizione delle parti a due udienze successive. Ai sensi
dell’art.631, se nessuna delle parti si presenta all’udienza, fatta eccezione per
quella in cui ha luogo la vendita, il giudice dell’esecuzione fissa una udienza
successiva di cui il cancelliere dà comunicazione alle parti. Se nessuna delle
parti si presenta alla nuova udienza, il giudice dichiara con ordinanza
l’estinzione del processo esecutivo.
Un’ipotesi recente di estinzione, introdotta nel 2015, riguarda l’art.631-bis,
ossia l’omessa pubblicità sul portale delle vendite pubbliche. Essa si ha quando
l’avviso relativo alla vendita non è postato sul sito entro il termine stabilito dal
giudice. Tuttavia, va detto che nella parte finale della norma si esclude che
l’estinzione possa conseguire al fatto che il mancato inserimento dell’avviso sia
legato alla funzionalità della piattaforma.
EFFETTI DELL’ESTINZIONE:
sono disciplinati dall’art.632, il quale afferma che: con l’ordinanza che
pronuncia l’estinzione è disposta sempre la cancellazione della trascrizione del
pignoramento e si provvede a liquidare le spese, comprese quelle relative al
delegato alla vendita.
Ciò che fa la differenza è il momento in cui viene dichiarata l’estinzione: se si
verifica prima dell’aggiudicazione o dell’assegnazione, essa rende inefficaci gli
atti compiuti, se avviene dopo, la somma ricavata è consegnata al debitore.
I PROCEDIMENTI SPECIALI:
Sono disciplinati dal libro quarto del codice civile.
Il significato di sommarietà della cognizione si comprende facendo riferimento
alla cognizione piena, che è propria del giudizio ordinario di primo grado.
La cognizione piena è un tipo di cognizione che si svolge nel pieno e assoluto
rispetto delle garanzie fondamentali. La cognizione sommaria rappresenta
qualcosa di meno: è una cognizione che, almeno nella fase iniziale del
procedimento, è meramente superficiale e solo in un momento successivo,
puramente eventuale, prevede una verifica del provvedimento attraverso un
giudizio di merito (a cognizione piena). Molto spesso sommarietà della
cognizione significa che non vi è in questa fase un pieno rispetto del principio
del contraddittorio, proprio perché nella sostanza per la concessione del
provvedimento ci si basa sulle affermazioni formulate del soggetto richiedente
il provvedimento stesso.
Peraltro, quando il provvedimento viene emanato sulla base di una cognizione
sommaria e tendenzialmente inaudita altera parte, il contraddittorio viene
recuperato in un momento successivo.
Quando si parla di procedimento sommario non si intende un provvedimento
unico: la sommarietà assume caratteristiche diverse in funzione dei vari tipi di
provvedimento ed è anche questo un elemento di cui va tenuto conto nel
valutare la pluralità di procedimenti di cui al libro quarto.
IL PROCEDIMENTO SOMMARIO DI COGNIZIONE:
Il procedimento sommario di cognizione è disciplinato agli artt.720-bis e 702-
quater. Si tratta di un procedimento piuttosto nuovo, introdotto dal legislatore
nel 2009, per tentare di far fronte alla necessità di una definizione più rapida
dei procedimenti. Nel 2014 è stato introdotto l’art.183-bis, che si ricollega al
processo sommario di cognizione.
Nonostante la denominazione, si tratta di un giudizio caratterizzato da una
cognizione piena. L’oggettivo “sommario” è riferito al fatto che il
procedimento ha una struttura semplificata rispetto al giudizio ordinario di
cognizione. Un’altra particolarità del procedimento è data dal fatto che la sua
disciplina è collocata alla fine delle misure cautelari, ossia di procedimenti
finalizzati a far fronte a una situazione emergenziale che potrebbe pregiudicare
il soggetto titolare di un diritto nel tempo mediamente necessario per ottenere
una tutela attraverso un giudizio di merito o una procedura esecutiva. La scelta
del legislatore è estremamente discutibile perché questo tipo di procedimento
non ha nulla a che fare con le misure cautelari, posto che si tratta di un
ordinario giudizio di cognizione piena, che ha solo una scansione più accelerata
rispetto a quella del giudizio ordinario di cognizione.
L’art.702-bis enuncia l’ambito di applicazione del procedimento, facendo
riferimento alle cause in cui il tribunale giudica in composizione monocratica.
In questi casi la domanda può essere proposta al tribunale competente nelle
forme del procedimento sommario di cognizione. Le cause in cui il
tribunale giudica in composizione monocratica sono quelle indicate dall’art.50-
bis, che distingue tra le cause che sono di competenza del collegio e quelle di
competenza del giudice monocratico. Le cause in cui il tribunale decide in
composizione collegiale sono un numero abbastanza limitato: la regola, in base
all’art.50-ter, è quella del tribunale in composizione monocratica. Ciò significa
che le cause affidate alla competenza del giudice di pace non possono mai
avvalersi di questo modello procedimentale. Vi sono poi anche altri tipi di
cause esclusive: esse sono quelle cause che devono essere trattate nelle forme
dei riti speciali di cognizione. Tipico caso è quello delle cause di lavoro e delle
cause in materia di locazione. Le norme non dicono nulla di preciso, infatti il
punto è controverso. Tuttavia, vi sono dei riferimenti normativi che inducono
ad escludere che si possa utilizzare tale modello procedimentale. Se facciamo
riferimento all’art.702-bis, c.1, troviamo un riferimento all’art.163, quindi
all’atto di citazione, e il processo di lavoro è introdotto da ricorso.
Analogamente, l’art.702-ter, c.3, fa riferimento all’udienza ex art.183, cioè
l’udienza di prima comparizione e trattazione della causa, mentre nel processo
del lavoro c’è una specifica udienza (l’unica) disciplinata
dall’art.420.
Da tutti questi elementi si desume che il rito sommario non è utilizzabile per i
riti speciali di cognizione.
FORMA DELLA DOMANDA E COSTITUZIONE DELLE PARTI (ART.720-BIS):
L’atto introduttivo di questo tipo di procedimento è un ricorso. Dal punto di
vista dell’attore, l’atto introduttivo prende il nome di ricorso. Per il convenuto,
invece, prende il nome di comparsa di risposta, mentre di norma di fronte a un
ricorso si parla di memoria di replica. Il
ricorso contiene nella sostanza quasi tutti gli elementi previsti da un normale
atto di citazione e deve essere sottoscritto a norma dell’art.125 da un
difensore al quale la parte abbia conferito la procura alle liti. Il ricorso segue
poi il normale iter. Il convenuto si costituisce mediante comparsa di risposta
che ha esattamente lo stesso contenuto di quella del processo di cognizione.
La parte più significativa della comparsa di risposta è data, sia dalla
proposizione delle difese da parte del convenuto, ma anche dal dovere di
prendere posizione sui fatti posti dal ricorrente a fondamento della domanda
attraverso il normale meccanismo delle eccezioni. Il convenuto dovrà anche
indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti, formulare le
conclusioni, proporre eventuali domande riconvenzionali, nonché le eventuali
chiamate di terzi in garanzia. L’elemento importante che va sottolineato è il
fatto che il termine per la costituzione del convenuto è di soli 30gg, mentre nel
processo di cognizione ordinario è di 70gg, per il combinato disposto degli
artt.163-bis e 166; addirittura, il termine per la difesa del convenuto davanti al
giudice di pace è di 45gg. La dottrina ha messo in evidenza questa differenza
perché, soprattutto con riferimento al procedimento dinanzi al giudice di pace
e considerando la limitata competenza di questi, pare strano che nel processo
dinanzi a questo giudice il termine concesso al convenuto per difendersi sia
superiore a quello di cui gode in un procedimento sommario di cognizione
davanti a un tribunale, per non parlare poi della differenza rispetto al processo
ordinario di cognizione. (Balena solleva la possibilità che si sia in presenza di un
caso di illegittimità costituzionale).
Un’altra considerazione che possiamo fare è che l’iniziativa di avvalersi di
questo procedimento spetta all’attore: non è previsto che il convenuto
reagisca in alcun modo rispetto a questa scelta compiuta dell’attore e che
potrebbe essere dettata da ragioni puramente strategiche. Probabilmente il
convenuto avrà la possibilità in udienza di persuadere il giudice che la causa
non vada trattata in maniera sommaria, ma questa possibilità ipotetica è poca
cosa rispetto alla circostanza che, normativamente, il convenuto si trovi nella
situazione di dover subire questa iniziativa dell’attore senza avere strumenti di
reazione. Non convince neanche la tesi di chi sostiene che questo tipo di
procedimento è previsto solamente per le cause poco complesse, quelle in cui
c’è un’istruzione documentale. Queste sono speculazioni della dottrina, perché
non è scritto da nessuna parte: in linea di principio questo tipo di
procedimento è utilizzabile per qualunque causa, semplice o complessa, a
scelta dell’attore. Tra l’altro, occorre tenere presente che questo tipo di
procedimento può essere utilizzato per qualunque tipo di azione: non vi sono
particolari limiti e questo rende ancora più particolare la debolezza della
posizione del convenuto di fronte a tale iniziativa.
IL PROCEDIMENTO (ART.702-TER):
All’udienza di comparizione possono verificarsi vari scenari. Come in tutte le
prime udienze, il giudice verificherà l’esistenza delle condizioni dell’azione e
dei presupposti processuali. La norma disciplina due ipotesi specifiche: il caso
in cui il giudice rilevi di essere incompetente dal punto di vista territoriale; il
caso in cui il giudice rilevi che la domanda dell’attore non rientra tra quella
proponibili con rito di sommario di cognizione.
Nel primo caso, il giudice provvede a dichiarare la propria incompetenza con
ordinanza impugnabile con il regolamento di competenza.
Nel secondo caso, la domanda viene dichiarata inammissibile, ma l’ordinanza
con cui si dichiara l’inammissibilità è espressamente dichiarata non
impugnabile.
Il tipo di accertamento più interessante è quello che il giudice è tenuto a
compiere a norme del c.3. Il c.3 afferma che: se ritiene che le difese svolte
dalle parti richiedano un’istruzione non sommaria, il giudice, con ordinanza
impugnabile, fissa l’udienza di cui all’art.183. In tal caso si applicano le
disposizioni del libro II. Quindi, può accadere che durante la prima udienza il
giudice si renda conto che la controversia non può essere istruita in maniera
sommaria. In questo caso il giudice provvede al mutamento del rito. Tuttavia,
in questo caso è lo stesso giudice che fissa l’udienza di prima comparizione e
trattazione del giudizio ordinario di cognizione. Da quel momento, troveranno
applicazione le norme del rito ordinario di cognizione.
L’altra ipotesi è quella in cui il giudice si ritenga soddisfatto del ricorso e dei
suoicontenuti sotto il profilo dell’adeguatezza rispetto all’istruzione sommaria.
Il c.5 stabilisce che: se il giudice non provvede ai sensi dei commi precedenti,
alla prima udienza il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non
essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli
atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento
richiesto.
Questa norma è importante perché affida al giudice un potere ampio, che è
quello di decidere in maniere ampiamente discrezionale come configurare la
fase istruttoria. L’unico limite è rappresentato dall’obbligatoria osservanza del
principio del contraddittorio. È l’unica norma del nostro processo civile che
attribuisce al giudice un potere che i giudici degli altri ordinamenti non hanno
più: il potere di case management. Ciò significa che il giudice, in relazione alle
peculiarità del caso concreto, ha la libertà di organizzare l’istruttoria nella
maniera che ritiene più opportuna e più efficiente, nella prospettiva di
accelerare la definizione del processo. Questa significa che il giudice è
autorizzato a utilizzare le prove dedotte dalle parti nella maniera che ritiene
migliore e più idonea alla luce delle circostanze del caso concreto.
Esaurita la fase istruttoria, il giudice provvede con ordinanza di accoglimento o
di rigetto delle domande. Si tratta di un’ordinanza in tutto e per tutto
equiparabile alla sentenza con la quale viene definito un normale giudizio
ordinario di cognizione. L’ordinanza è provvisoriamente esecutiva e costituisce
titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione. In questa stessa
ordinanza il giudice pronuncia anche sulle spese.
PASSAGGIO DI RITO ORDINARIO AL RITO SOMMARIO DI COGNIZIONE:
L’art.183-bis dice che: nelle cause in cui il tribunale in composizione
monocratica il giudice dell’udienza di trattazione (ex art.183), valutata la
complessità della lite e dell’istruzione probatoria, può disporre, previo
contraddittorio anche mediante trattazione scritta, con ordinanza non
impugnabile, che si procede a norma dell’art.702-ter e invita le parti ad
indicare, a pena di decadenza, nella stessa udienza i mezzi di prova, ivi
compresi i documenti, di cui intende avvalersi e la relativa prova contraria.
Questa norma dice che: nel momento in cui la domanda è stata presentata al
giudice nelle forme dell’atto di citazione introduttivo di un giudizio ordinario di
cognizione alla prima udienza il giudice può disporre la conversione del rito.
Qui compaiono degli elementi che negli artt.702-bis e 702-ter non compaiono,
ossia: il riferimento è alla complessità della lite e dell’istruzione probatoria.
Probabilmente l’idea per cui tutti tendono a dire che il rito sommario di
cognizione funziona solo per le cause semplici è ciò che ha indotto il legislatore
a introdurre questo inciso. Anche qui ci troviamo in una situazione particolare:
nel rito sommario di cognizione, l’iniziativa spetta all’attore, il quale sceglie
questa modalità procedurale senza che il convenuto possa fare alcunché. La
conversione è decisa dal giudice con un tipo di valutazione discrezionale ed è
disposta con ordinanza non impugnabile: né l’attore, né il convenuto hanno la
possibilità di contrastare questa scelta.
Ad ogni modo questa norma è stata scarsamente utilizzata perché sono pochi i
giudici disposti ad assumersi una responsabilità di questo genere, ma
soprattutto sono pochi i giudici che arrivano all’udienza ex art.183 avendo ben
presente il contenuto della causa da decidere.
L’APPELLO (ART.702-QUATER):
L’ordinanza emessa ai sensi dell’art.702-ter è soggetta ad appello. Anche
questo è uno dei tanti aspetti criticabili del procedimento, in quanto è come se
alla compressione dell’istruzione in primo grado si volesse far fronte rendendo
l’appello ampio. L’appello si propone nel termine molto breve di 30gg che
decorre dalla comunicazione o dalla notificazione, a seconda di quale delle due
viene effettuata prima. Noi sappiamo che il termine breve per l’impugnazione
di norma decorre dalla notificazione; quindi, questa è un’altra cosa che
distingue il rito sommario di cognizione. Resta fermo il termine lungo di 6mesi
che decorre dalla pubblicazione della sentenza. L’appello, in assenza di
precisazioni normative, si propone con atto di citazione, altra stranezza
rispetto a un procedimento di primo grado che inizia con ricorso. Al giudizio di
appello non si applica il filtro previsto dagli artt.348-bis e 348-ter, che
prevedono che l’appello venga dichiarato inammissibile quando non ha
nessuna prospettiva di accoglimento.
La parte più critica della norma è quella che prevede la possibilità di nova in
appello, cioè la possibilità di dedurre nuovi mezzi di prova e nuovi documenti
quando il collegio li ritiene indispensabili. Questa possibilità è sparita nel rito
ordinario (c’è ancora nel rito del lavoro), dopo una vita molto breve, ma è stata
introdotta in questo tipo di giudizio, quasi a voler ripristinare in appello una
cognizione piena che non c’è nel giudizio di primo grado. La norma prosegue
dicendo che, oltre ai mezzi di prova ritenuti dal collegio indispensabili, possono
essere proposte le prove o i documenti che la parte dimostri di non aver
potuto produrre in primo grado per la causa non imputabile a sua colpa.
Quanto alla indispensabilità delle prove, la cassazione a sezioni unite nel 2017
ha chiarito cosa debba intendersi per prova indispensabile. La corte ha
affermato: “la nuova indispensabile è quella di per sé idonea ad eliminare ogni
possibile incertezza circa la ricostruzione attuale accolta dalla pronuncia di
primo grado, smentendo tale ricostruzione o confermando tale ricostruzione
senza lasciare margine di dubbio. Si considera indispensabile anche una prova
che fornisce dimostrazione di ciò che era rimasto sprovvisto di prova o non
sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia
incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie
del primo grado”.
Se l’ordinanza non viene impugnata con l’appello passa in giudicato come una
qualunque sentenza e acquisisce gli effetti di cui all’art.2909, quindi efficacia di
cosa giudicata sostanziale che fa stato tra le parti, gli eredi e i loro aventi causa
(art.702-quater).
IL PROGETTO DI SEMPLIFICAZIONE:
Nel 2011, d.lgs.150/2011 ha tentato la c.d. semplificazione dei riti. Cioè, ha
considerato tutti quei procedimenti in materia civile e commerciale che si
trovavano fuori dal codice. Questi procedimenti spesso avevano norme
diverse, non erano riconducibili a un unico modello. Erano applicazioni un po'
fuorvianti della c.d. tutela giurisdizionale differenziata, ossia ad ogni tipo di
situazione sostanziale, secondo una certa scuola di pensiero, doveva
corrispondere un particolare tipo di procedimento che, in caso di violazione di
quella situazione consentisse al soggetto di rivolgersi al giudice, trovando così
una forma di tutela adeguata. Questo tipo di idea funziona solo fino a un certo
punto, perché le situazioni sostanziali tutelabili sono moltissime e sono in
crescita. Il rischio è una proliferazione ad infinitum dei procedimenti. Con
questo decreto legislativo si è pensato di consolidarli, facendoli confluire verso
tre modelli: -il
processo ordinario di cognizione; -il
processo del lavoro;
-il procedimento sommario di cognizione.
Il problema è stato che, ognuno di questi procedimenti che sono stati oggetto
di riforma ha richiesto norme particolari di adattamento dal vecchio
procedimento al nuovo modello procedurale, con diverse complicazioni. Per
questo motivo sono tutti d’accordo che il progetto di semplificazione è stato
un completo fallimento.
LE PROSPETTIVE DI RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE:
Ultimo rilievo che possiamo fare sul processo sommario di cognizione è dato
dalle prospettive di riforma del processo civile. Prospettive che, al momento,
sono state abbandonate, ma sono interessanti. (...).
IL PROCEDIMENTO DI INGIUNZIONE:
COGNIZIONE PIENA e COGNIZIONE SOMMARIA:
Il significato di cognizione sommaria si apprezza meglio considerandolo in
contrapposizione con la cognizione ordinaria. Quest’ultima consiste in un tipo
di accertamento compiuto dal giudice nella forma più completa. Infatti, si dice
che è una cognizione piena ed esauriente, compiuta nel rispetto di tutte le
garanzie del procedimento e della garanzia del contraddittorio. In genere, la
cognizione ordinaria sfocia in una sentenza, quindi in un provvedimento dotato
di una particolare forza, che prende il nome di cosa giudicata sostanziale. La
cognizione sommaria è qualcosa di meno. Si è soliti indicarla come una
cognizione più superficiale, anche se in concreto poi essa prende aspetti
variabili. Per questo non è così importante saper indicare le diverse forme che
la sommarietà assume in concreto.
Quando il provvedimento finale assume la forma di una sentenza si è quasi
sempre certi che il procedimento retrostante è a cognizione piena. Sarebbe
però errato pensare che la cognizione piena si possa avere solo con il giudizio
ordinario di cognizione. Questo perché esistono anche dei procedimenti
speciali di cognizione (es.: processo del lavoro, applicabile anche alle
controversie in materia di locazione). Quindi, anche se il provvedimento ha una
forma diversa dalla sentenza, non è detto che il procedimento retrostante
abbia una cognizione sommaria. Il fatto che il provvedimento finale sia
un’ordinanza impone allo studioso di verificare com’è effettivamente
disciplinato il procedimento retrostante. Una riprova di tutto ciò si trova nel
giudizio sommario di cognizione: qui si parla di giudizio sommario (quanto a
struttura) che si conclude con ordinanza che, per espressa volontà del
legislatore, è idonea ad acquistare autorità di cosa giudicata.
La sommarietà del procedimento assume forme diverse. Si distingue tra:
procedimenti sommari cautelari e procedimenti sommari non cautelari.
Sono procedimenti sommari cautelari quelli che hanno un carattere
strumentale rispetto a un giudizio di cognizione o un processo di esecuzione,
nell’ottica di assicurare la fruttuosità dell’uno o
dell’altro.
I procedimenti sommari non cautelari sono delle scorciatoie rispetto al
processo ordinario. Consentono di raggiungere il risultato più rapidamente
rispetto a un ordinario giudizio di cognizione.
Per entrambi si pone un problema di stabilità del provvedimento finale, ma
non si comprende l’utilità di questa distinzione.
Tra i provvedimenti sommari di natura cautelare, il più importante è il
procedimento di ingiunzione (o procedimento monitorio).
NATURA DEL PROCEDIMENTO DI INGIUNZIONE:
Si tratta di un procedimento che ha natura risalente ed ha un’applicazione
pratica molto importante, essendo utilizzato per ovviare alla normale lentezza
del procedimento ordinario. Il procedimento monitorio mira ad ottenere un
provvedimento che le veci di una sentenza di condanna, nel senso che è
utilizzabile come titolo esecutivo, in tempi molto più rapidi rispetto
all’instaurazione di un giudizio ordinario. Inoltre, va segnalato che il
procedimento di ingiunzione è stato il primo procedimento a cui sono state
applicate le regole del c.d. PCT, ossia il “processo civile telematico”.
Il procedimento di ingiunzione è disciplinato dagli art.633 (e ss.) ed è
applicabile per il recupero di tutti quei crediti che abbiano ad oggetto una
somma liquida di denaro, una quantità di cose fungibili o la consegna di una
cosa mobile determinata. Nella pratica, si tratta di un procedimento che viene
soprattutto utilizzato per il recupero di un credito pecuniario, a condizione che
si tratti di una somma liquida.
Il procedimento è esperibile a condizione che del credito vantato venga fornita
una prova scritta. Quindi è indispensabile che il creditore sia in grado di
provare i fatti costitutivi del proprio credito mediante prova scritta. Per questo
motivo si parla di procedimento monitorio scritto. A questo tipo di
procedimento si contrappone il c.d. procedimento monitorio puro, cui si basa
solo ed esclusivamente sulle allegazioni formulate dal creditore, cioè dal
soggetto che richiede l’emanazione del provvedimento. Nel caso italiano,
invece, la mera affermazione dell’esistenza del diritto del creditore non è
sufficiente, essa deve essere supportata da prove scritte. Quando il creditore
fornisce, attraverso la prova scritta, dimostrazione dell’esistenza dei fatti
costitutivi del proprio credito, il giudice concede il provvedimento. In questo
risiede la sommarietà del procedimento monitorio.
In questa prima fase sommaria del procedimento compare, di fatto, solo il
creditore in veste di richiedente. Il giudice verifica sommariamente la
fondatezza della sua pretesa, sulla base delle prove scritte, mentre in questa
fase non vi è alcuno spazio per il contraddittorio: il provvedimento che prende
il nome di decreto ingiuntivo, viene pronunciato inaudita altera parte, senza
che il debitore venga chiamato in causa.
Quindi, in questo caso la sommarietà consiste nell’assenza di un
contraddittorio, che potrà essere recuperato, in via eventuale, in una seconda
fase del procedimento a cognizione piena.
IL CONCETTO DI PROVA SCRITTA:
È importante tenere conto che il concetto di prova scritta utilizzato dal
legislatore con riferimento al procedimento monitorio, è un concetto molto
ampio.
Nel giudizio ordinario le prove scritte sono soggette a regole particolari che le
qualificano e consentono di utilizzarle in determinati contesti, o meglio, solo se
la prova scritta risponde a determinati requisiti. Nel procedimento monitorio,
in considerazione del carattere sommario della sua prima fase, il concetto è
molto meno severo.
In base all’art.634, sono prove scritte idonee a norma dell’art.633 le polizze e
le premesse unilaterali per scrittura privata e i telegrammi, anche se mancanti
dei requisiti previsti dal codice civile. Se si pensa ai procedimenti necessari per
l’ammissione della scrittura privata nel procedimento ordinario, la differenza si
nota immediatamente. Viene indicata poi tutta una serie di altre prove scritte
utilizzabili nel contesto del procedimento monitorio anche se non rispecchiano
tutti i requisiti richiesti. In particolare, vengono in considerazione gli estratti
autentici delle scritture contabili purché vidimate e bollate nelle forme di legge
e regolarmente tenute che fanno prova a favore dell’imprenditore anche nei
rapporti con un soggetto privato, mentre di regola queste possono essere
utilizzate solo nelle controversie tra imprenditori. L’art.635 riguarda la prova
scritta per i crediti dello stato e degli enti pubblici.
I nn.2 e 3 dell’art.633 riguardano altre ipotesi in cui la prova scritta non è
necessaria.
Il riferimento di cui al n.2 è agli onorari per prestazione giudiziale o
stragiudiziale o rimborso di spese fatte da avvocati, procuratori, cancellieri,
ufficiali giudiziari o chiunque altro abbia prestato la sua opera in occasione di
un processo.
Il n.3 è relativo ai crediti che riguardano onorari, diritti o rimborsi spettanti ai
notai oppure ad altri esercenti una libera professione o arte per la quale esiste
una tariffa legalmente approvata.
Questa norma crea un po' di problemi, perché oggi per le professioni
regolamentate le tariffe non esistono più: esse sono state sostituite da
parametri ai quali occorre fare riferimento quando professionista e cliente non
abbiano concordato consensualmente l’entità dei compensi.
Ai sensi dell’art.636, nei casi previsti dai nn.2 e 3 dell’art.633, le domande
devono essere accompagnate dalla parcella delle spese e prestazioni
sottoscritta dal soggetto che l’ha redatta e corredata dal parere della
competente associazione professionale (es.: consiglio dell’ordine degli
avvocati). Il parere non occorre se l’ammontare delle spese e delle prestazioni
è determinato in base a tariffe obbligatorie (non tariffe fissate tra un min e un
max).
LA DOMANDA:
La domanda si propone con ricorso al giudice competente per territorio e per
valore (quindi, giudice di pace o tribunale in composizione monocratica).
Tuttavia, per i crediti relativi ad attività svolte in occasione di un processo o per
quelli vantati dai liberi professionisti esistono dei fori concorrenti: in questi casi
la domanda può essere proposta o al giudice davanti al quale si è svolto il
giudizio cui la richiesta di pagamento si riferisce, oppure al giudice del luogo cui
appartiene l’ordine professionale dove è iscritto il professionista. In ogni caso,
nella determinazione della competenza per valore si applicano le regole
ordinarie. La forma della domanda resta sempre la stessa: il ricorso deve
contenere tutti gli elementi di cui all’art.125, compresa l’indicazione
dell’avvocato cui è stato conferito il mandato. L’art.638 fa riferimento, anche,
alla possibilità che la parte si costituisca personalmente, in quelle ipotesi in cui
ciò è possibile, ma nella prassi questo accade molto raramente, quindi la
norma ha scarsa rilevanza. Il ricorso va depositato in cancelleria, insieme ai
documenti che costituiscono la prova dei fatti costitutivi del credito.
L’art.640 considera la particolare ipotesi del rigetto della domanda. Il giudice
può rigettare la domanda per qualunque ragione processuale o di merito (per
incompetenza, difetto di giurisdizione, etc...).
Tuttavia, la norma tratta dell’ipotesi particolare in cui il giudice consideri
insufficientemente giustificata la domanda: ciò significa che il ricorrente non è
stato in grado di fornire l’adeguata prova documentale che era richiesta dalle
norme. In questo caso è previsto che il cancelliere dia notizia al ricorrente,
invitandolo a provvedere all’integrazione della prova. Se l’invito non è accolto
o la domanda non può essere accolta per altre ragioni p non è ancora
adeguatamente supportata, il giudice la rigetta con decreto motivato. L’ultimo
comma specifica che il rigetto non pregiudica la riproposizione della domanda,
sia in via monitoria, sia in via ordinaria.
L’art.641 disciplina l’ipotesi dell’accoglimento della domanda. Il giudice, dopo
aver compiuto un accertamento sui presupposti ex art.633, con decreto
motivato da emettere entro 30gg dal deposito del ricorso, ingiunge all’altra
parte con l’espresso avvertimento che nello stesso termine può essere
proposta opposizione che, in mancanza si procederà a esecuzione forzata.
La pronuncia del decreto presuppone, oltre all’esistenza dei presupposti di cui
all’art.633, che non vi siano ragioni di rito o ragioni di merito che la
impediscano e che non si verifichi l’ipotesi di cui all’art.640, ossia il rigetto
derivante da una scarsa documentazione, non integrata come richiesto dal
giudice.
Chi presenta ricorso per ottenere decreto ingiuntivo lo fa nella prospettiva di
poter procedere il prima possibile all’esecuzione forzata: in sé e per sé il
decreto non è immediatamente efficace. Ciò non toglie la possibilità di
richiedere la provvisoria esecuzione ai sensi dell’art.642. La norma distingue
due ipotesi: 1)l’ipotesi in cui il giudice deve concedere l’esecuzione provvisoria,
e 2)l’ipotesi in cui può concederla.
1)La prima ipotesi si verifica quando il credito è fondato su cambiale, assegno
bancario o circolare, certificato di liquidazione di borsa, o su atto ricevuto da
notaio. In questo caso il giudice, su richiesta del ricorrente, ingiunge al debitore
di pagare o consegnare senza dilazione, autorizzando in mancanza l’esecuzione
provvisoria del decreto e fissando il termine ai soli effetti dell’opposizione.
2)La seconda ipotesi prevede la possibilità, ma non l’obbligo, di prevedere la
provvisoria esecuzione se vi è pericolo di grave pregiudizio nel ritardo o se il
ricorrente produce documentazione sottoscritta dal debitore. Nel caso in cui il
giudice conceda immediata esecutorietà, termine di 40gg viene fissato solo ai
fini della proposizione dell’opposizione. La norma sulla provvisoria esecuzione
deroga all’art.482, secondo il quale non si può iniziare l’esecuzione forzata
prima che sia decorso il termine indicato nel precetto e in ogni caso prima che
siano decorsi 10gg dalla notificazione di esso.
Infatti, il decreto va notificato all’ingiunto ai sensi dell’art.643, il quale afferma
che copia autentica del ricorso e del decreto sono notificati al debitore, mentre
gli originali rimangono depositati in cancelleria. Inoltre, si stabilisce che la
notificazione determina la pendenza della lite. Effetti tipici della litispendenza
sono gli effetti sostanziali e processuali della domanda. Il decreto di
ingiunzione perde efficacia se la notificazione non è eseguita nel termine di
60gg dalla pronuncia (art.644). Occorre fare riferimento all’art.188 (disp.att.):
nel caso in cui si sia verificata la notificazione, il debitore, con ricorso, può
chiedere al giudice che ha pronunciato il decreto ingiuntivo di dichiararne
l’inefficacia. Il giudice fisserà allora un’udienza per la comparizione delle parti e
il termine entro il quale ricorso e decreto devono essere notificati alla
controparte. Se all’udienza viene accolta la domanda del debitore, il giudice
dichiara con ordinanza non impugnabile l’inefficacia del decreto ingiuntivo a
tutti gli effetti. Se l’istanza è rigettata, il debitore può proporre ordinaria
domanda di accertamento negativo e instaurando il giudizio ordinario di
cognizione.
L’OPPOSIZIONE:
Dal punto di vista descrittivo si può considerare un’impugnazione del decreto
ingiuntivo. Essa è la difesa concessa al debitore ingiunto ed è anche l’atto con il
quale si riequilibra la posizione delle parti e si compensa quella sommarietà
caratteristica della prima fase del provvedimento.
L’opposizione introduce un ordinario giudizio di cognizione, il cui oggetto non è
limitato alla sussistenza o meno delle condizioni del decreto, ma è dato
dall’esistenza o meno del diritto di credito che il creditore aveva vantato
chiedendo l’emanazione del decreto ingiuntivo.
L’opposizione si propone con atto di citazione davanti all’ufficio giudiziario al
quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo (art.645). A
norma del c.2 dell’articolo, il giudizio, in seguito all’opposizione, si svolge
secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito, quindi il
procedimento ordinario di cognizione, oppure se il credito deriva da lavoro o
da locazione si seguiranno gli art.409 e ss.
OPPOSIZIONE TEMPESTIVA e OPPOSIZIONE TARDIVA (ART.650):
L’opposizione è tempestiva se proposta entro i 40gg assegnati dal giudice nel
momento in cui pronuncia il decreto ingiuntivo.
L’opposizione tardiva è prevista dall’art.650 solo nel caso in cui l’intimato
dimostri che non ha avuto tempestiva conoscenza del decreto per irregolarità
della notificazione, caso fortuito o forza maggiore.
La prima particolarità del procedimento di opposizione è che esso viene
instaurato dal debitore ingiunto, il quale dal punto di vista processuale è
l’attore. Si ritiene però che, nonostante questa posizione processuale, sia
sempre il creditore il soggetto sul quale grava l’onere di provare i fatti
costitutivi del diritto di credito secondo le regole ordinarie. Sul debitore grava
solo l’onere di provare eventuali fatti impeditivi, modificativi o estintivi del
diritto di credito.
Altra peculiarità che si riconnette a questa particolare inversione dei ruoli che
troviamo nel giudizio di opposizione riguarda proprio le prove. Per la prova
dell’esistenza del diritto di credito, il creditore opposto dovrà fare riferimento
alla disciplina ordinaria delle prove: il concetto di prova in senso ampio tipico
del giudizio sommario del procedimento di ingiunzione non trova applicazione
in questa seconda fase.
Ulteriore particolarità risiede nell’esecutorietà del decreto per mancata
opposizione o mancata attività dell’opponente. Ai sensi dell’art.647, se il
debitore non propone opposizione entro il termine stabilito, o non si è
costituito, il giudice che ha pronunciato il decreto, su istanza anche verbale del
ricorrente, lo dichiara esecutivo. In questo caso l’opposizione non può più
essere proposta né proseguita, a meno che non ricorrano le condizioni ex
art.650 per l’opposizione tardiva. In pendenza di giudizio di opposizione, il
decreto ingiuntivo, se non è già stato dotato ab origine di efficacia esecutiva,
può essere dichiarato provvisoriamente esecutivo on base all’art.648.
Anche qui, si distinguono due ipotesi: l’ipotesi in cui il decreto ingiuntivo deve
essere dichiarato provvisoriamente esecutivo dal giudice e quella in cui può
essere dichiarato tale.
Nel primo caso, il giudice deve concedere esecuzione provvisoria se la parte
che la chiede offre cauzione.
Nel secondo caso, il giudice può concedere l’esecuzione se l’opposizione non è
fondata su prova scritta o di pronta soluzione, sempre che l’esecuzione
provvisoria non sia già stata concessa nella fase sommaria.
Il dibattito della dottrina è abbastanza controverso riguardo al significato di
“pronta soluzione”, poiché la locuzione non si riferisce al giudizio di
opposizione, ma alla prova dedotta dall’opponente. La dottrina parla
genericamente di una prova documentale che non richiede una grande attività
istruttoria.
Nel caso in cui il decreto ingiuntivo avesse già efficacia esecutiva, l’art.649
prevede che il giudice, su istanza dell’opponente e quando ricorrono gravi
motivi, può sospendere l’esecuzione provvisoria del decreto concessa a norma
dell’art.642, con ordinanza non impugnabile. Queste ipotesi sono molto
importanti perché, dal punto di vista del creditore vi è il vantaggio di ottenere
rapidamente un titolo esecutivo, mentre dal punto di vista del debitore è
altrettanto importante cercare di bloccare l’inizio dell’esecuzione forzata
attraverso questi meccanismi.
Altra particolarità è la possibilità che nel corso del giudizio di opposizione le
parti si concilino. In questo caso, in base all’art.652, il giudice con ordinanza
non impugnabile dichiara o conferma l’esecutività del decreto, oppure riduce
la somma o la quantità a quella stabilita dalle parti. In quest’ultimo caso
rimane ferma la validità degli atti esecutivi compiuti e dell’ipoteca iscritta fino
a concorrenza della somma o quantità ridotta. Inoltre, della riduzione deve
darsi annotazione nei registri immobiliari.
Il giudizio di opposizione introduce un normale giudizio a cognizione piena. La
sentenza che chiude il giudizio di opposizione si sostituisce al decreto, sia che
accolga l’opposizione, sia che la rigetti. L’art.653 afferma che: se l’opposizione
è rigettata con sentenza passata in giudicato o provvisoriamente esecutiva,
oppure è dichiarata con ordinanza l’estinzione del processo, il decreto che non
ne sia già munito acquista efficacia esecutiva. In questo caso, il decreto
ingiuntivo acquista la particolare efficacia della sentenza passata in giudicato.
Se l’opposizione viene accolta, il decreto è immediatamente caducato, quindi
perde efficacia immediatamente. Se l’opposizione è accolta solo in parte, il
titolo esecutivo è costituito dalla sentenza, ma gli atti di esecuzione già
compiuti conservano i loro effetti.
L’IMPUGNAZIONE:
Se non viene proposta opposizione (l’opposizione è stata rigettata o il giudizio
si è istinto) si dice che: il decreto ingiuntivo acquisisce efficacia assolutamente
equiparabile a quello di sentenza passata in giudicato, ossia l’efficacia di cosa
giudicata sostanziale ex art.2909.
La dottrina e la giurisprudenza sono concorsi su questa equivalenza, ma non
troviamo da nessuna parte una norma che enunci questo principio. L’unico
indizio normativo che ci fa propendere questa tesi è contenuto nell’art.656,
che menziona le impugnazioni esperibili contro il decreto ingiuntivo.
Secondo la norma, il decreto di ingiunzione divenuto esecutivo a norma
dell’art.647 possa impugnarsi per revocazione nei casi previsti dall’art.395
nn.1, 2, 5 e 6, nonché con opposizione di terzo nei casi previsti dall’art.404, c.2.
Quindi, il decreto ingiuntivo non opposto o rispetto al quale l’opposizione è
rigettata è suscettibile di impugnazione straordinaria. Se noi andiamo ad
analizzare il motivo di revocazione straordinaria esperibili contro il decreto
ingiuntivo, vediamo che uno dei motivi di revocazione (il n.5) è il contrasto con
una precedente sentenza passata in giudicato: si desume il principio secondo
cui il decreto ingiuntivo nelle tre ipotesi indicate ha efficacia di una sentenza
passata in giudicato.
LA CONVALIDA DI SFRATTO:
Si tratta di un procedimento molto tecnico, abbastanza complesso, ma con una
rilevanza pratica notevole. È un procedimento sommario in cui la sommarietà
non significa assenza di contraddittorio nella prima fase del procedimento.
Il procedimento per convalida di sfratto inizia con atto di citazione; quindi, il
contraddittorio è assicurato fin dall’inizio.
La sommarietà è legata alla struttura del procedimento stesso, ossia al fatto
che determinate conseguenze relative all’esito della procedura dipendono dal
comportamento del convenuto. Questo procedimento è una scorciatoia
attraverso la quale il locatore può ottenere, rispetto ad un ordinario giudizio, il
rilascio della cosa che ha dato in locazione.
L’art.657 parla, oltre che del locatore, anche del concedente. Il riferimento è ai
contratti agrari, che però oggi hanno una scarsa rilevanza.
Il locatore è colui che concede, dietro il pagamento di un canone, il godimento
di un immobile al conduttore. Questa scorciatoia tende ad ottenere un
provvedimento che condanni il conduttore al rilascio dell’immobile locato.
L’ambito di applicazione della norma è individuato dall’art.657, rubricato:
intimazione di licenza e di sfratto per finita locazione, nonché dall’art.658,
rubricato: intimazione di sfratto per morosità. Da qui di
comprende che il locatore può intimare il rilascio dell’immobile in due ipotesi:
per finita locazione o per morosità. -Per quanto
riguarda la finita locazione, l’intimazione può essere fatta prima della scadenza
del contratto o anche dopo. Prima della scadenza del contratto l’intimazione
dovrà rispettare i termini previsti dal contratto. In questo caso il locatore può
anche citare per la convalida della licenza, ossia per la convalida del
provvedimento di rilascio dell’immobile. Dato che il rilascio può essere
intimato anche prima della locazione, siamo in presenza di un locatore che
chiede, di fatto, la pronuncia di una condanna pro-futuro, ossia una tutela
preventiva, che opera in casi specifici previsti dalla legge, operante rispetto ad
un futuro di eventuale inadempimento. La condanna diventa operativa se
l’inadempimento si verifica. Qui si tratta della scadenza di un contratto.
L’intimazione è possibile anche dopo la scadenza del contratto, sempre che le
disposizioni non prevedano la proroga automatica del contratto e sempre che
il locatore non abbia messo in atto i meccanismi che ne prevedono la proroga
di diritto. -Per quanto riguarda l’intimazione di sfratto per
morosità, avviene per il mancato pagamento dei canoni. In questo caso, il
locatore può contestualmente richiedere che il giudice pronunci un
provvedimento per il pagamento dei canoni già scaduti.
Il giudice competente è il giudice del luogo in cui si trova l’immobile oggetto
del contratto di locazione.
LA FORMA DELL’INTIMAZIONE:
L’intimazione assume la forma di una norma atto di citazione, il quale è, però,
privo di alcuni degli elementi di cui all’art.163, posto che l’art.660 (c.3)
richiama solo l’art.125. In particolare, l’intimazione non deve contenere quel
requisito previsto dal n.7, ossia l’invito al convenuto a comparire, pena le
decadenze di cui all’art.38 (le varie eccezioni di competenza) e 167 (decadenze
relative a domande riconvenzionali e alle eccezioni processuali e di merito non
rilevabili d’ufficio).
Al posto di quanto previsto dall’art.163, c.3, n.7, l’intimazione deve contenere
l’invito a comparire all’udienza e l’avvertimento che, in caso di mancata
comparizione, il giudice convaliderà la licenza o lo sfratto. Altra differenza
rispetto all’ordinario atto di citazione è che il termine di comparizione è di
almeno 20gg liberi, mentre di norma il termine per la comparizione davanti al
tribunale è di 90gg. Per quanto riguarda le cause di pronta spedizione, ossia le
cause che presentano profili di urgenza, il giudice può, su istanza
dell’intimazione, abbreviare fino alla metà il termine.
La costituzione delle parti non segue le regole ordinarie, potendo avvenire
anche mediante deposito dell’intimazione da parte del locatore e, per il
conduttore, deposito della comparsa di risposta in cancelleria, oppure in
alternativa presentando i documenti, ossia l’intimazione e la comparsa di
risposta necessaria una formale costituzione mediante difensore: se compare
in udienza perché vuole opporsi alla convalida e svolgere particolari attività, è
sufficiente la comparizione personale.
L’intimazione deve essere notificata al conduttore. Se la notificazione non è
fatta in mani proprie del conduttore, è necessario che l’ufficiale giudiziario ne
dia comunicazione all’intimato mediante raccomandata. La raccomandata
dovrà poi essere allegata all’intimazione.
L’UDIENZA:
Questa fase può avere esiti diversi. La prima ipotesi è quella contemplata
dall’art.662, che disciplina la mancata comparizione del locatore, sancendo che
gli effetti dell’intimazione cessano se questi non compare all’udienza fissata.
Presumibilmente il giudice in questo caso adotterà una pronuncia in rito, e
dichiarerà il processo estinto per inattività della parte, oppure la domanda
inammissibile o improcedibile. Tuttavia, si deve ritenere che l’intimazione,
anche se gli effetti processuali cessano, mantenga gli effetti sostanziali e valga
come atto che impedisce la rinnovazione del contratto di locazione.
Più complessa è l’ipotesi prevista dall’art.663, sulla mancata comparizione o
opposizione dell’intimato. Se l’intimato non compare o non si oppone in
udienza, il giudice convalida la licenza o lo sfratto mediante ordinanza scritta in
calce all’atto di citazione e dispone che con questa ordinanza sia apposta la
formula esecutiva.
Tuttavia, se appare probabile o risulta con certezza che il conduttore non ha
avuto conoscenza della citazione o non è potuto comparire per caso fortuito o
forza maggiore, il giudice dispone la rinnovazione della citazione e fissa una
nuova udienza.
Se si tratta, invece, di sfratto per morosità, per la convalida è necessario che il
locatore o il suo procuratore attestino che la morosità persiste. Se questa
attestazione manca o il locatore conferma che la morosità è cessata lo sfratto
non può essere intimato, ma il processo può proseguire come giudizio
ordinario se l’attore vuole in ogni caso la risoluzione del contratto per
inadempimento. Nello sfratto per morosità può essere anche chiesto
congiuntamente un decreto ingiuntivo per i canoni scaduti o quelli che
scadranno fino all’effettiva esecuzione dello sfratto, oltre alle spese per
l’intimazione. Con la convalida dello sfratto il giudice pronuncia anche questo
decreto ingiuntivo che è immediatamente esecutivo ai sensi dell’art.654, ma
suscettibile di opposizione da proporsi come normale opposizione a decreto
ingiuntivo.
In tutto ciò sta la sommarietà del procedimento, il quale si ricollega a una
omissione dell’intimato, in quanto o non c’è la comparizione all’udienza, o non
c’è la proposizione dell’opposizione che consentirebbe di bloccare l’iniziativa
del locatore.
In ogni caso, il giudice nella pronuncia della convalida dovrebbe, oltre che
verificare le condizioni di cui abbiamo parlato, compiere anche un
accertamento in ordine ai presupposti processuali, nonché a ciò che
renderebbe la domanda fondata da un punto di vista sostanziale (es.:
verificando che la morosità è effettiva, che la disdetta data dal locatore sia
valida, etc...).
L’art.667 si occupa del comportamento attivo del conduttore ingiunto. Se il
conduttore compare e si oppone alla convalida, per qualunque ragione, si essa
processuale o di merito, il processo deve proseguire come un normale giudizio
di cognizione, previo mutamento del rito con ordinanza ex art.426.
Mediante questa ordinanza, il giudice, avendo verificato che è stata instaurata
mediante rito ordinario una causa rientrante tra quelle da trattarsi con il rito
del lavoro, dispone la fissazione dell’udienza ex art.420 (udienza di trattazione)
e assegna alle parti un termine perentorio per l’integrazione degli atti
introduttivi. Questo tipo di ordinanza si adotta in quanto il rito segue il rito del
lavoro, in quanto compatibile, secondo quanto dispone l’art.447-bis.
Prima di disporre il mutamento del rito, il giudice può emettere, ai sensi
dell’art.667 (prima parte), due provvedimenti: si tratta dei provvedimenti di cui
all’art.665 e 666. Per quanto riguarda l’ipotesi di cui all’art.665, se il conduttore
intimato compare alla prima udienza e propone eccezioni non fondate su
prova scritta, il giudice, su istanza del locatore e se non sussistono gravi ragioni
contrarie, pronuncia ordinanza non impugnabile di rilascio con riserva delle
eccezioni del convenuto. L’ordinanza è immediatamente esecutiva, ma può
essere subordinata ad una cauzione. Si tratta dell’ipotesi che prende il nome di
“condanna con riserva di eccezioni”. Essa è una condanna sommaria e
provvisoria, in quanto il suo destino dipende dall’esito del successivo
svolgimento del processo. L’altra ipotesi
riguarda esclusivamente il caso in cui sia stata richiesta licenza di sfratto per
morosità. In questo caso il conduttore può comparire e contestare la morosità
solo per quanto riguarda l’ammontare dei canoni. In questo caso c’è
un’implicita ammissione di inadempimento. Il giudice può disporre il
pagamento della somma non contestata, concedendo al conduttore un
termine per adempiere. Anche qui, se il convenuto non adempie, il giudice
convalida l’intimazione di sfratto e, se il locatore l’aveva richiesto, emette un
decreto ingiuntivo per il pagamento dei canoni. Qui la similitudine con
l’ordinanza per il pagamento delle somme non contestate ex art.186-bis.
L’ORDINANZA DI CONVALIDA:
L’opinione prevalente ritiene che l’ordinanza di convalida di licenza o di sfratto
abbia efficacia corrispondente a quella di una sentenza passata in giudicato, o
di una sentenza di condanna al rilascio o, nel caso di sfratto per morosità, di
una sentenza di condanna per risoluzione del contratto di locazione.
Contro l’ordinanza di convalida il legislatore prevede solo l’opposizione tardiva
di cui all’art.668, che è possibile solo quando la convalida è stata pronunciata
senza che il conduttore o intimato sia comparso all’udienza e sempre che sia in
grado di dimostrare di non aver avuto notizia della intimazione per vizi della
notificazione o per caso fortuito o forza maggiore. Questa opposizione non è
più proponibile decorsi 10gg dall’inizio dell’esecuzione forzata in forma
specifica per rilascio dell’immobile.
L’opposizione tardiva (dopo la convalida) si propone al tribunale del luogo dove
si trova l’immobile e che ha disposto il rilascio, nelle forme dell’opposizione a
decreto ingiuntivo, sempre con l’applicazione del rito di cui all’art.447-bis.
L’opposizione non sospende l’esecuzione, ma il giudice può disporre la
sospensione per gravi motivi ed eventualmente con cauzione. Al di là
dell’opposizione tardiva, si discute in dottrina su quali siano i rimedi contro
l’ordinanza di convalida. Balena menzione l’orientamento giurisprudenziale
che tende a considerare l’ordinanza di convalida come equivalente a una
sentenza di primo grado suscettibile di impugnazioni ordinarie. Menziona
anche l’orientamento della Corte Costituzionale, secondo il quale l’ordinanza
sarebbe suscettibile di revocazione ordinaria per errore di fatto e straordinaria
per dolo di una parte in danno dell’altra, oltre che suscettibile di opposizione di
terzo ex art.404. Infine, bisogna ricordare che,
se il locatore, nel caso di sfratto per morosità, non aveva chiesto il decreto
ingiuntivo per i canoni non pagati, l’ordinanza di convalida in base all’art.669
risolve la locazione, ma lasci impregiudicata la questione dei canoni non
pagati.
I PROCEDIMENTI IN CAMERA DI CONSIGLIO:
Molto spesso questo tipo di procedimenti viene fatto coincidere con la
volontaria giurisdizione. Questa è una giurisdizione inter volentes, tra soggetti
che non divisi da una situazione di conflitto. È una nozione tralatizia, nel senso
che si continua a parlare di giurisdizione volontaria in contrapposizione a
quella contenziosa.
Con riferimento a questa ipotesi, che riguardano le materie più disparate
(stato, capacità delle persone, famiglia, assenza, scomparsa, morte presunta,
etc...), si dice che il giudice svolge un’attività che non è propriamente
giurisdizionale, ma è un’attività amministrativa, in quanto spesso si limita ad
integrare con un’autorizzazione una fattispecie normativa. Si tratta di un
procedimento particolare snello e semplificato. L’atto introduttivo è un ricorso
da proporre al tribunale in composizione collegiale. Il procedimento si
conclude, in genere, mediante decreto motivato o ordinanza.
Rispetto alla struttura, l’art.738 si limita a prevedere che tra i componenti
viene scelto dal presidente un relatore che riferisce in camera di consiglio, che
deve essere sentito il pubblico ministero nei casi previsti dalla legge e, per
quanto riguarda l’attività istruttoria, che il giudice può assumere informazioni.
Da questa constatazione deriva l’affermazione: per cui in questo procedimento
sarebbe particolarmente ampia e frequente l’iniziativa ufficiosa del giudice
nell’assunzione delle prove. Si tratterebbe per di più, di un’istruttoria
deformalizzata, in quanto il legislatore non dice nulla la riguardo e non lascia
supporre che debbano essere seguite le norme in tema di istruzione della
causa che riguardano il procedimento ordinario.
Quanto al provvedimento finale, l’art.739 prevede che contro i decreti si possa
proporre reclamo al giudice superiore rispetto a quello che ha pronunciato il
provvedimento. I termini per la proposizione sono molto brevi (termine
perentorio di 10gg) e il reclamo ha il carattere di un gravame, in quanto può
essere proposto per qualunque motivo di rito o di merito.
In particolare, uno dei motivi più frequenti è l’emergere di nuove circostanze
perché questi provvedimenti sono pronunciati con la clausola “rebus sic
stantibus”.
Contro il provvedimento emesso in sede di reclamo è esclusa l’esperibilità di
successive impugnazioni, come prevede l’ultimo comma dell’art.739.
L’art.741 disciplina l’efficacia dei provvedimenti, limitandosi a dire che: se vi
sono ragioni di urgenza, il giudice può disporre che il decreto abbia efficacia
immediata, altrimenti il decreto acquista efficacia quando sono decorsi i
termini senza sia stato proposto reclamo. Ricordiamo che, comunque, si tratta
di efficacia relativa priva dell’autorità di cosa giudicata, proprio perché i
provvedimenti sono in ogni tempo modificabili e revocabili, ai sensi
dell’art.742.
Nel 1950 è stato aggiunto al codice l’art.742-bis, che voleva disciplinare
l’ambito di applicazione dei procedimenti camerali, ma ha creato un po' di
confusione.
La norma afferma che: le disposizioni del presente capo si applicano a tutti i
procedimenti in camera di consiglio, ancorché non regolati dai precedenti o
che non riguardino materia di famiglia o di stato delle persone.
La norma ha consentito l’utilizzazione del rito camerale per una serie di ipotesi
che il legislatore non aveva contemplato.
Il procedimento camerale è un procedimento snello e agile e il legislatore ha
spesso fatto ricorso a questo tipo di procedimento quando si proponevano
nuove situazioni sostanziali. Si è quindi iniziato a parlare di procedimenti
camerali su diritti (per distinguerli da quelli che avevano ad oggetto la
volontaria giurisdizione). L’espansione del modello camerale a queste
controversie ha creato reazioni contrastanti nell’ambito della dottrina, proprio
perché tradizionalmente la tutela giurisdizionale dei diritti è affidata al
processo di cognizione che è ancorato a regole ben precise e predeterminate. I
primi interventi della corte costituzionale hanno affermato, in realtà, la
legittimità dei procedimenti camerali su diritti, facendo leva sul fatto che il
processo ordinario di cognizione e la cognizione piena non sono coperti da una
specifica garanzia costituzionale. In particolare, per il procedimento camerale
relativo alla revisione della condizione di divorzio, fin dagli anni 70, la corte ha
affermato che l’adozione del procedimento camerale risponde a criteri di
politica legislativa “inerente alla valutazione che il legislatore ha compiuto in
relazione alla natura degli interessi regolati e alle opportunità di adottare
determinate forme processuali. Questa scelta è del tutto discrezionale e non
consente alcun tipo di sindacato ad opera della corte”. Tuttavia, più volte
investita di questioni di legittimità di vari tipi di procedimento camerale su
diritti, la corte ha dettato una sorta di elenco di requisiti immancabili da
applicare a un procedimento camerale avente ad oggetto situazioni di diritto.
Così la corte ha sostenuto che uno di questi elementi è il rispetto del principio
della domanda e del contraddittorio, nonché la previsione di termini
compatibili con l’esercizio del diritto di difesa. Inoltre, la corte costituzionale ha
affermato che nel procedimento camerale su diritti deve essere prevista la
possibilità di acquisire prove precostituite e di assumete prove costituende, a
condizione che il modo di assunzione risulti compatibile con la struttura
semplificata del procedimento. Tuttavia, il dato più importante del
procedimento camerale su diritti riguarda la ricorribilità in cassazione del
provvedimento finale e, più specificamente, del provvedimento emanato in
sede di reclamo ai sensi dell’art.111 c.7 (c.d. ricorso straordinario per
cassazione). Questo ha contribuito ad aumentare in maniera significativa il
carico di lavoro della corte di cassazione.
Il legislatore ha continuato a utilizzare il modello camerale almeno fino al 2011,
quando è entrata in vigore la riforma sulla semplificazione dei riti, che non ha
più contemplato il rito camerale come uno dei riti verso i quali i vari
procedimenti extra codice dovevano essere convogliati. Una famosa sentenza
della cassazione a sezioni unite del 1996 ha definito il rito camerale come un
“contenitore neutro nel quale possono trovare spazio sia i procedimenti di
volontaria giurisdizione, sia provvedimenti di natura contenziosa, ciascuno con
le proprie peculiari caratteristiche sia strutturali che funzionali, con il
conseguente superamento degli innegabili conflitti tra profili formali o
procedurali e profili sostanziali connessi all’oggetto della controversia”.
LA TUTELA CAUTELARE:
Si tratta di una forma di tutela che va ad aggiungersi a quella dichiarativa e a
quella esecutiva. La tutela cautelare che, secondo alcuni autori, si ricollega ad
una specifica azione detta azione cautelare è una forma di tutela importante,
soprattutto nella prospettiva costituzionale dell’art.24, che garantisce il diritto
di difesa e di azione.
La tutela cautelare ha come finalità precisa quella di assicurare che la durata
del processo non vada a danno del soggetto che ha ragione. Questo è
importante, soprattutto negli ordinamenti come il nostro, caratterizzati da una
particolare lunghezza in termini di tempo di definizione delle cause.
CARATTERISTICHE PRINCIPALI:
In primo luogo viene in considerazione la sommarietà. Questa tutela viene
concessa senza che vi sia un accertamento completo del diritto per il quale la
tutela viene chiesta. È evidente che, se così non fosse, verrebbe meno la
funzione stessa della tutela cautelare.
I presupposti sono identificabili nel periculum in mora e nel fumus boni iuris.
-Il periculum in mora, o pericolo nel ritardo, fa riferimento alla finalità delle
misure cautelari: evitare che nel periodo di tempo di accertamento della
sussistenza del diritto questo venga esposto a rischi di perdita o diminuzione.
-Fumus boni iuris significa verosimiglianza dell’esistenza del diritto per il quale
la misura viene chiesta. Il termine fumus fa riferimento a qualcosa che non
postula un vero e proprio accertamento, ma fa riferimento all’appartenenza
dell’esistenza del diritto.
Le misure cautelari hanno un contenuto vario, poiché mirano a fronteggiare i
diversi tipi di pericoli che si possono verificare in concreto. Un’altra
caratteristica è la loro assenza di autonomia, o meglio, il loro carattere
strumentale. La tutela cautelare è al servizio della tutela dichiarativa o, della
tutela esecutiva. Possiamo dire, in generale, che le misure cautelari mirano a
garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, sia quella di cognizione, sia
quella esecutiva.
La conseguenza di questo carattere strumentale è un’altra caratteristica, quella
della provvisorietà. La misura cautelare dura tanto quanto il processo
principale cui è strumentale. Una volta concluso il giudizio ordinario di
cognizione o il procedimento esecutivo il provvedimento cautelare sarà
sostituito da una sentenza o dalla misura esecutiva.
In virtù di alcune riforme legislative è necessario introdurre una distinzione
riguardo al carattere della strumentalità. Prima del 1990, il nostro sistema
delineava le misure cautelari come una sorta di numero chiuso, la cui disciplina
era lacunosa. In aggiunta a queste misure tipiche vi era una norma di chiusura,
ossia una misura che ora, ed è ancora oggi, il provvedimento d’urgenza
(art.700).
IL PROCEDIMENTO CAUTELARE UNIFORME:
Con la riforma del 1990 è stato introdotto il procedimento cautelare uniforme,
disciplina processuale unitaria che presenta varie novità. Tra queste, novità, vi
è la previsione di uno strumento di controllo della misura, il reclamo cautelare.
L’ambito di applicazione del procedimento cautelare uniforme è ampio ed è
individuato dall’art.669-quater-decies. La norma specifica che le disposizioni
della sezione si applicano ai provvedimenti previsti dalle sez.II, III e V, nonché,
in quanto compatibili, agli altri provvedimenti cautelari previsti dal codice civile
e dalle leggi speciali: essi si applica a tutte le misure cautelari, tranne che ai
procedimenti di istruzione preventiva, contenuti nella sez.IV.
L’art.669-bis disciplina la forma della domanda. La domanda si propone con
ricorso depositato nella cancelleria del giudice competente. Innanzitutto, è
necessario identificare l’editio actionis, con riferimento al periculum in mora e
al fumus boni iuris, identificando almeno in maniera sommaria il diritto per il
quale la tutela viene richiesta e qual è la situazione di pericolo imminente alla
quale il diritto è esposto. Non sussiste alcun problema se la misura cautelare è
richiesta quando già è pendente un giudizio per l’accertamento del diritto
oggetto della misura cautelare. La situazione è diversa se la misura cautelare
viene richiesta ante causam. In questo caso, restano fermi i due presupposti,
ma l’identificazione del diritto dovrà essere più consistente: non basterà
l’illustrazione del fumus, in quanto qui non c’è un giudizio di merito che
consenta di comprendere in maniera quasi immediata quel è il diritto a tutela
del quale viene richiesta la misura cautelare.
Gli artt.669-ter e 669-quater, trattano della competenza. Quando la domanda
cautelare viene proposta in corso di causa è competente il giudice dinanzi al
quale pende il merito (art.669-quater). Analogamente, se la domanda
cautelare è proposta ante causam, si propone al giudice che ordinariamente
sarebbe competente per il merito (669-ter).
Con tre importanti eccezioni:
1)La prima riguarda il giudice di pace non ha alcuna competenza cautelare. In
questo caso, la domanda cautelare dovrà essere proposta al tribunale nel cui
circondario ha sede il giudice di pace.
2)La seconda riguarda gli arbitri, che nel nostro ordinamento non hanno
potestà cautelare. La domanda cautelare va posta al giudice che sarebbe
competente per la controversia se le parti non avessero optato per la
convenzione di arbitro (art.669-quinquies).
3)La terza riguarda il giudice straniero. La domanda si propone dinanzi al
giudice che sarebbe competente per materia o per valore del luogo in cui deve
essere eseguito il provvedimento cautelare.
La domanda, di regola, si pone al giudice che ha emanato la sentenza. In linea
di principio, si può dire che è legittimata alla richiesta della misura cautelare la
parte che è risultata vittoriosa nel giudizio.
Va detto che anche la parte soccombente può essere legittimata se allega fatti
o circostanze sopravvenuti, che non potevano essere fatti valere nel processo
che si è concluso con la sentenza. Se l’impugnazione è già stata proposta, la
misura cautelare si chiede al giudice dell’impugnazione. Questo vale solo in
caso di appello, revocazione, opposizione di terzo.
Nel caso in cui l’impugnazione proposta sia un ricorso per cassazione, a misura
cautelare non potrà essere richiesta a questo giudice, ma andrà richiesta al
giudice a quo, che ha emanato il provvedimento oggetto di ricorso per
cassazione. Dopo il passaggio in giudicato della sentenza si torna ad applicare
l’art.669-ter, che disciplina la competenza anteriore alla causa.
IL PROCEDIMENTO:
L’art.669-sexies disciplina il procedimento.
In linea di principio, l’emanazione della misura cautelare presuppone
l’instaurazione di un contraddittorio. Il giudice, sentite le parti, omessa ogni
formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più
opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai fini e ai
presupposti del provvedimento richiesto. Occorre sottolineare che, in linea di
principio, l’emanazione della misura cautelare presuppone l’effettiva
instaurazione del contraddittorio presso il giudice, quindi la fissazione di
un’udienza con decreto da notificare all’altra parte con ricorso introduttivo.
Peraltro, è anche possibile che l’emanazione del provvedimento cautelare
avvenga inaudita altera parte, come prevede l’art.669-sexies al c.2.
Il decreto deve essere motivato e deve fissare l’udienza per sentire le parti. Le
possibili ragioni che giustificano questa eccezione sono delineate dalla prima
parte del c.2: il decreto può essere attuato inaudita altera parte quando la
convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del
provvedimento. Si tratta di casi di assoluta urgenza o di casi in cui, se il
destinatario del provvedimento venisse a conoscenza della situazione,
metterebbe a rischio il diritto dell’istante. In questo caso, il contraddittorio
viene recuperato in un’udienza successiva all’emissione del provvedimento in
cui il giudice dovrà confermare, modificare o annullare il provvedimento.
Anche questo caso, come il procedimento monitorio, la sommarietà non è
legata alla assenza del contraddittorio, ma alla verifica dei presupposti
dell’esistenza del diritto.
Tornando al procedimento, si fa riferimento ad atti di istruzione indispensabili
in relazione ai presupposti e ai fini, sempre in relazione ai presupposti generali
del procedimento cautelare.
IL PROVVEDIMENTO FINALE:
Può essere un provvedimento di rigetto o di accoglimento dall’istanza
cautelare.
L’ordinanza di rigetto: è disciplinata dall’art.669-septies, può essere
pronunciata dal giudice per qualunque motivo, di rito o di merito. In realtà, la
norma parla solo di incompetenza, dando quasi l’impressione che l’unico
motivo in cui può pronunciarsi un rigetto sia questo. Ma, in realtà non è così.
L'incompetenza viene in rilievo solo per quanto riguarda la riproposizione
dell’istanza, nel senso che se l’ordinanza di rigetto è pronunciata per
incompetenza, non è pregiudicata la riproposizione dell’istanza così com’è.
Diversamente, per la riproposizione dell’istanza è necessario addurre
mutamenti nelle circostanze, oppure dedurre nuove ragioni di fatto o di diritto.
In relazione al c.2 e c.3 della norma, che fanno riferimento alla pronuncia sulle
spese, è necessario notare che, se l’ordinanza è pronunciata prima dell’inizio
della causa di merito, con essa il giudice provvede definitivamente sulle spese
del procedimento cautelare. Questo riferimento si spiega perché può accadere
che non abbia luogo un giudizio di merito. In questo caso le spese rimangono a
carico dell’istante.
L’ordinanza di accoglimento: è disciplinata dall’art.669-octies. Questa, ove la
domanda sia stata proposta prima dell’inizio della causa di merito, deve fissare
un termine perentorio non superiore a 70gg per l’inizio del giudizio di merito.
La norma ci dà la misura del carattere strumentale e accessorio del
provvedimento cautelare. In caso di mancata fissazione del termine da parte
del giudice è di 60gg dalla pronuncia dell’ordinanza, se avvenuta in udienza,
dalla sua comunicazione.
In assenza di instaurazione del giudizio nel termine, il provvedimento cautelare
perde efficacia. Particolarmente importante è il c.6, secondo il quale: le
disposizioni di cui al presente articolo e al c.1 dell’art.669-novies sull’inefficacia
del provvedimento non si applicano ai provvedimenti d’urgenza di cui
all’art.700 e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti
della sentenza di merito. Questa esclusione implica che, nell’ambito delle
misure cautelari, occorre operare una distinzione tra misure conservative e
provvedimenti anticipatori.
-Le misure cautelari conservative, sono caratterizzate da una strumentalità
forte: la misura cautelare deve appoggiarsi a un giudizio di merito.
-I provvedimenti anticipatori sono caratterizzati da strumentalità debole o
attenuata: si tratta dei provvedimenti d’urgenza ex art.700 e di quei
provvedimenti cautelari idonei ad anticipare la sentenza di merito.
Questi ultimi sono idonei a far conseguire al soggetto quella utilità che gli
potrebbe derivare alla fine del processo della sentenza di merito. La distinzione
è molto importante perché, mentre le misure cautelari conservative perdono
efficacia nel momento in cui il giudizio di merito non venga instaurato o si
estingua, i provvedimenti anticipatori possono rimanere in vigore ad nutum,
senza liti di durata, in quanto la parte non ha bisogno di instaurare il giudizio di
merito. Ciò non vuol dire che non debba farlo, ma solo che l’instaurazione è
facoltativa. Peraltro, il legislatore prevede delle strategie particolari per fare in
modo che nessuna delle parti sia indotta a instaurare il giudizio di merito. Una
di queste strategie è data dall’obbligo per il giudice di provvedere già sulle
spese della fase cautelare. Quand’anche venga instaurato il giudizio di merito a
seguito di un provvedimento anticipatorio, la sua estinzione non determina
l’inefficacia di tale provvedimento, anche quando la relativa domanda è stata
proposta in corso di causa. A ulteriore conferma della possibilità di
sopravvivenza di questa misura cautelare interviene l’ultimo comma,
affermando che l’autorità del provvedimento cautelare non è invocabile in un
altro processo. Ciò significa che se anche l’istante otterrà una misura cautelare,
questa non potrà essere invocata in altro processo per dimostrare l’esistenza
del diritto, perché non è un accertamento pieno e definitivo Individuato il caso
delle misure cautelari a carattere anticipatorio, per tutte le altre viene in
considerazione l’art.669-novies, che disciplina le ipotesi di inefficacia del
provvedimento cautelare.
Le ipotesi di inefficacia sono varie:
A)se il giudizio di merito non è iniziato nel termine perentorio indicato dal
giudice con l’ordinanza di accoglimento, o in assenza di termine, in quello
previsto dal codice si 70gg.
B)se il giudizio di merito iniziato si è estinto.
C)se non è stata versata la cauzione al pagamento della quale era subordinato
il provvedimento.
D)se il giudizio di merito, con sentenza anche non passata in giudicato, è stato
dichiarato inesistente il diritto a tutela del quale il provvedimento era stato
richiesto, oppure se il provvedimento si è concluso in mero rito.
In questi casi ci sono differenze per quanto riguarda la declaratoria di
inefficacia.
Nei casi a) e b) è il giudice che ha emesso inefficacia.
Nei casi a) e b) è il giudice che ha emesso il provvedimento che dichiara la
perdita di efficacia, se non c’è contestazione, con ordinanza dichiara l’efficacia
esecutiva e dà le disposizioni per la riduzione in pristino. Se vi è contestazione
lo strumento è quello della sentenza provvisoriamente esecutiva.
Nei casi c) e d) è lo stesso giudice che provvede alla declaratoria e all’adozione
delle misure necessarie alla riduzione in pristino e lo fa nella stessa sentenza
con cui provvede nel merito. S e il giudice non lo fa nella sentenza di merito, la
declaratoria di inefficacia e la riduzione in pristino possono essere richieste con
un ricorso allo stesso giudice, il quale provvederà con ordinanza.
LA REVOCA e LA MODIFICA DEL PROVVEDIMENTO:
Secondo l’art.669-decies, queste di possono richiedere allo stesso giudice che
ha pronunciato il provvedimento, se il giudizio di merito non è ancora iniziato o
è stato dichiarato estinto, oppure al giudice del merito nel caso in cui pensa il
giudizio di merito, anche se la misura è stata dichiarata ante causam.
MOTIVI DELLA RICHIESTA:
si può chiedere una revoca o una modifica per mutamenti delle circostanze o
per fatti anteriori al procedimento cautelare dei quali si abbia avuto
conoscenza successivamente alla emanazione del provvedimento cautelare. In
quest’ultimo caso sarà necessaria la prova del momento in cui si è avuta la
conoscenza del provvedimento. Significativa è la prima parte della norma che
introduce la clausola “salvo che sia stato proposto reclamo sei sensi
dell’art.669--terdecies”. Infatti, sembra difficile comprendere come sia
concepibile ottenere la revoca o la modifica del provvedimento proponendo
reclamo.
IL RECLAMO:
Si tratta di un gravame, quindi di un’impugnazione a critica libera, proponibile
anche semplicemente denunciando l’ingiustizia della misura cautelare. Il
reclamo, ai sensi dell’art.669-terdecies, può essere proposto nel termine
perentorio di 15gg dalla pronuncia in udienza del provvedimento, ovvero dalla
sua comunicazione o notificazione se anteriore. L’unico indice rispetto ai
motivi per i quali l’impugnazione può essere proposta si trova al c.4, il quale
afferma che le circostanze e i motivi sopravvenuti al momento della
proposizione del reclamo devono essere proposti, nel rispetto del principio del
contraddittorio, nel relativo procedimento.
Ciò significa che se vi sono dei motivi sopravvenuti che vengono in
considerazione quando è stato proposto il reclamo, dovranno essere fatti
valere nel procedimento di reclamo e non potranno più essere motivo di
richiesta di revoca o modifica.
Il procedimento è quello in camera di consiglio, come si può notare dal
richiamo agli artt.737 e 738. Si tratta di un’impugnazione che ha un carattere
devolutivo e sostitutivo; quindi, l’ordinanza non impugnabile resa sul reclamo
si sostituisce in pieno al provvedimento reclamato. Il reclamo non ha efficacia
sospensiva dell’esecuzione del provvedimento, ma il presidente del tribunale o
della corte investiti del reclamo possono disporre la sospensione quando, per
motivi sopravvenuti, il provvedimento arrechi grave danno. Il concetto di grave
danno è una clausola generale che dovrà essere validata con riferimento al
caso concreti.
L’ATTUTAZIONE DEL PROVVEDIMENTO CAUTELARE:
L’attuazione del provvedimento cautelare è disciplinata dall’art.669-duodecies.
Salvo quanto disposto dagli art.667 (e ss.) in ordine ai sequestri, l’attuazione
dei provvedimenti cautelari aventi ad oggetto somme di denaro avviene nelle
forme degli artt.491 (e ss.) in quanto compatibili, mentre l’attuazione delle
misure cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non
fare avviene sotto il controllo dei giudici che ha emanato il provvedimento
cautelare. Il legislatore ha deciso di non usare il termine esecuzione forzata in
ordine ai provvedimenti cautelari, ma è ovvio che non siano utilizzabili forme
diverse da queste.
Il legislatore ha voluto utilizzare il termine attuazione, prevedendo però che le
misure cautelari che abbiano ad oggetto una somma di denaro si eseguano
nelle forme proprie dell’espropriazione, a condizione che siano compatibili con
la misura cautelare stessa. Per quanto riguarda le altre ipotesi, l’attuazione
avviene in forma breve: è lo stesso giudice che ha emesso la misura cautelare a
decidere come avrà luogo il provvedimento. Naturalmente, posto che nel
diritto non ci si può inventare nulla, si ritiene che anche questa attuazione in
via breve si svolga avendo come punto di riferimento le norme sull’esecuzione
forzata in forma specifica. Tuttavia, queste dovranno essere applicate con gli
adattamenti richiesti dal caso concreto. Ogni altra questione che riguardi
l’attuazione dovrà essere proposta, se del caso, nel giudizio di merito.
I SEQUESTRI:
I sequestri sono due:
1)il sequestro giudiziario (che a sua volta si distingue in due
tipologie);
2)il sequestro conservativo.
Le norme comuni dettate dal legislatore hanno poca ragion d’essere perché
interviene il procedimento cautelare uniforme.
IL SEQUESTRO GIUDIZIARIO:
IL SEQUESTRO DI BENI => secondo l’art.670, n.1, il giudice può autorizzare il
sequestro di beni mobili o immobili, aziende o altre universalità di beni,
quando ne è controversa la proprietà o il possesso, ed è opportuno provvedere
alla loro custodia e alla loro gestione temporanea. Questo è il c.d. “sequestro
di beni” che, a norma dell’art.677, esegue in base agli artt.605 (e ss.), in quanto
applicabili, ossia nelle forme proprie dell'esecuzione per consegna o rilascio.
L’effetto del sequestro giudiziario di beni è quello di determinare la sottrazione
della disponibilità di un determinato bene. Quindi, è utilizzato in funzione
dell’esecuzione per consegna o rilascio.
Esempio: Tizio vanta un diritto che implica la disponibilità di un determinato
bene, o meglio, l’esercizio di un potere di fatto su di esso. Però, questo bene è
detenuto da Caio. Tizio agisce in giudizio contro Caio, ma per tornare nella
disponibilità del bene deve attendere la sentenza di condanna con la quale
Caio viene condannato al rilascio del bene. In una situazione come questa,
nelle more del giudizio, Tizio può chiedere il sequestro giudiziario del bene
stesso. Il riferimento al tempo per ottenere la sentenza contro Caio fa
comprendere quale possa essere il periculum in mora. Essa può essere
costituita da perimento o danneggiamento della cosa nel tempo necessario per
la conclusione del processo.
Ad es.: un immobile che richiede interventi di manutenzione. Se Caio non li
compie, il valore del bene si ridurrà moltissimo, con la conseguenza che,
quand’anche Tizio ottenesse a suo favore una sentenza di condanna al rilascio,
otterrebbe un immobile di valore minore rispetto a quello iniziale. C’è anche
un rischio giuridico molto più importante, che riguarda i bene mobili: è il
rischio del trasferimento in applicazione dell’art.1153.
Supponiamo che Caio abbia il possesso o detenga un bene mobile di cui Tizio si
asserisce proprietario. Nelle more del giudizio instaurato contro di lui, Caio
trasferisce a Sempronio il bene in virtù di un atto astrattamente idoneo al
trasferimento con consegna del bene a Sempronio che lo acquisisce in buona
fede. L’art.1153 fa acquistare a Sempronio, che è in buona fede, la proprietà
bene a titolo originario, anche se il suo dante causa non ne era proprietario. In
un’ipotesi del genere dovrebbe trovare applicazione l’art.111, che disciplina
l’ipotesi della successione a titolo particolare nel diritto controverso. Questo
articolo fa salvi gli effetti di buona fede, quindi Tizio non avrebbe più la
possibilità di recuperare il bene che gli spetta. In una fattispecie di questo
genere, Tizio può chiedere il sequestro giudiziario del bene. PRESUPPOSTI:
Anche in questo caso sono il fumus iuris e il periculum in mora.
Il fumus implica la necessità di provare, anche se solo sommariamente, il
diritto dell’istante e, in genere, un qualunque diritto che possa avere ad
oggetto beni determinati, quindi cose fungibili, ma anche titoli di credito (es.:
azioni), in quanto il titolo di credito è di solito incorporato in un documento, il
quale è un bene materiale.
Per quanto riguarda il periculum in mora, si suole dire che è richiesto, in questo
genere, un pericolo molto basso, ossia la semplice necessità della custodia o
della gestione del bene, proprio perché il sequestro giudiziario serve ad
assicurare che, nelle more del processo, il bene oggetto del diritto in
contestazione si mantenga integro.
IL SEQUESTRO PROBATORIO => il n.2 dell’art.670 tratta del sequestro di libri,
registri, documenti, modelli, campioni e ogni altra cosa da cui si pretende
desumere elementi di prova, quando è controverso il diritto alla esibizione o
alla comunicazione ed è opportuno provvedere alla loro custodia temporanea.
La norma ha creato qualche problema in relazione al presupposto
dell’esistenza di una controversia sul diritto all’esibizione o comunicazione di
un oggetto che possa essere utilizzato a fini probatori.
Occorre compiere un coordinamento con le norme sull’esibizione. Il
riferimento è all’art.210 che, in realtà, rinvia all’art.118 sull’ispezione. In
sostanza, sulla base di queste norme, l’ordine di esibizione risulta incoercibile.
In base all’art.118, nel caso in cui vi sia un rifiuto del soggetto di esibire il
documento, le conseguenze sono diverse. Se rifiuta il terzo, il giudice gli
infligge una pena pecuniaria modesta. Se il rifiuto proviene da una parte, il
giudice potrà desumere argomenti di prova ex art.116 c.2, quindi considerare
come provati i fatti in senso sfavorevole alla parte che ha rifiutato l’esibizione.
Con il sequestro probatorio vi vuole mettere al sicuro le prove che si intendono
utilizzare nel processo, nonché dimostrare che la prova è effettivamente nella
disponibilità del soggetto contro il quale il sequestro è rivolto. Secondo l’art.94
(disp.att.), infatti, l’istanza di esibizione di un documento o di una cosa in
possesso di una parte o di un terzo deve contenere la specifica indicazione del
documento o della cosa e, quando è necessario, l’offerta della prova che la
parte o il terzo li possiede. Naturalmente, nel momento in cui si svolge un
giudizio di merito, se il giudice ordinerà l’esibizione, il sequestrato deciderà se
adempiere o meno. La funzione di questo tipo di sequestro è quella di
consentire pro-futuro, nell’ambito di un giudizio di merito, la possibilità di
utilizzare documenti a fini probatori.
LA CUSTODIA:
In entrambi i tipi di sequestro viene in considerazione l’opportunità della
custodia dei beni. Secondo l’art.676, il giudice può nominare custode quello
dei contendenti che offre maggiori garanzie e dà cauzione; quindi, in linea
teorica potrebbe essere nominato custode anche il sequestrato.
Naturalmente, in questo caso, la sua veste cambia, in quanto assume i diritti e
gli obblighi propri del custode. In alternativa, è possibile il c.d. “sequestro
convenzionale” a norma dell’art.1798, che è il contratto con il quale due o più
persone affidano a un terzo una cosa o una pluralità di cose rispetto alla quale
è nata una controversia, affinché la restituisca alla parte cui spetti
legittimamente quando la controversia sarà definita. I presupposti sono gli
stessi del sequestro di beni, ossia: esistenza di una controversia tra le parti
sull’esistenza di un diritto se un certo bene. La differenza è data dalla
stipulazione di un contratto e dall’affidamento del bene a un terzo.
Il sequestro giudiziario può perdere efficacia per i motivi dettati dal
procedimento uniforme, ossia: mancata instaurazione del giudizio di merito nel
termine fissato dal giudice; estinzione del giudizio già iniziato; riconoscimento
dell’inesistenza del diritto del sequestrante con sentenza anche non passata in
giudicato. Per il sequestro, pe rò,
vi è un’ipotesi ulteriore di perdita di efficacia. Secondo l’art.675, il
sequestro perde efficacia se non è eseguito nel termine di 30gg dalla pronuncia
del provvedimento. Per quanto riguarda
l’esecuzione, si fa riferimento alle norme dell’esecuzione per consegna o
rilascio, ma in versione semplificata, in quanto si omette la notificazione del
precetto. Vi sono delle ipotesi particolari che danno lo spunto per le riflessioni
della dottrina, per es.: sequestro di azienda. IL SEQUESTRO
CONSERVATIVO: Il sequestro
conservativo trova la sua disciplina sia nel cc, sial nel cpc. Per quanto
riguarda il cpc, l’art.671 afferma che il giudice, su istanza del creditore che ha
fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può autorizzare il
sequestro conservativo di beni mobili e immobili del debitore o delle somme e
cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne permette il pignoramento.
L’art.2905 precisa che il creditore può chiedere il sequestro conservativo dei
beni del debitore secondo le regole stabilite dal cpc.
Lo scopo del sequestro conservativo è quello di tutelare le ragioni di un
creditore che non dispone ancora di un titolo esecutivo in virtù del quale
espropriare i beni del debitore. Quindi, è necessario che il creditore si procuri il
titolo esecutivo e l’ordinamento predispone una tutela che gli consente di
evitare che, nelle more del giudizio necessario per procurarsi il titolo esecutivo,
il debitore compia atti che riducano la consistenza della sua garanzia
patrimoniale. Se il patrimonio del debitore si riducesse, infatti, il creditore al
termine del processo non avrebbe nulla su cui soddisfarsi. Il sequestro
conservativo è un modo per assicurare la futura fruttuosità dell’esecuzione
forzata nel tempo necessario al creditore per acquisire il titolo esecutivo.
Il sequestrato conservativo è utilizzabile per tutti i diritti che si possono attuare
coattivamente mediante l’espropriazione; quindi, per tutti i diritti di credito e
per i crediti aventi ad oggetto somme di denaro, anzi, si dice che il credito non
deve neppure essere liquido, in quanto la liquidazione verrà effettuata nel
giudizio di merito da cui deriverà la sentenza-titolo esecutivo, e neppure certo
perché, anche in questo caso, la certezza deriva dalla sentenza. Infatti, a quel
punto la sentenza dovrà rispondere dei requisiti di cui all’art.474, quindi essere
utilizzabile per l’attuazione di un credito certo, liquido ed esigibile.
Normalmente il sequestro conservativo è rivolto contro il debitore, ma può
riguardare anche un terzo. Ai sensi del c.2 dell’art.2905, il sequestro può essere
chiesto anche nei confronti del terzo acquirente dei beni del debitore qualora
sia stata proposta l’azione per far dichiarare l’inefficacia dell’alienazione.
Questa è l’azione revocatoria (art.2901). L’azione revocatoria è uno dei mezzi
di conservazione della garanzia patrimoniale del debitore. Ai sensi del c.1
dell’art.2901, il creditore, anche se il credito è soggetto a condizione o a
termine, può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli
atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle
sue ragioni quando ricorrono particolari condizioni.
PRESUPPOSTI:
Per ciò che concerne il fumus abbiamo la necessità di elementi che dimostrino
l’alta e probabile esistenza del diritto di credito a tutela del quale viene chiesto
il sequestro. Per il periculum è necessario qualcosa di più specifico: il fondato
timore per integrare il presupposto. Per valutare se sussiste il fondato timore
occorre compiere un giudizio comparativo tra quello che è il patrimonio del
debitore e l’entità del credito a tutela del quale il creditore chiede il sequestro
conservativo. Es.: si può considerare l’ipotesi in cui il debitore è titolare di un
solo bene immobile. Se nelle more del giudizio necessario al creditore per
procurarsi il titolo esecutivo il debitore si liberasse di questo unico bene, l’atto
di alienazione sarebbe estremamente pregiudizievole per il creditore. Se,
invece, nel patrimonio de debitore vi è una pluralità di beni il cui valore supera
in maniera consistente il credito a tutela del quale viene richiesto il sequestro,
se anche vendesse un singolo immobile, la garanzia patrimoniale rimarrebbe
comunque molto consistente. Di conseguenza non avrebbe ragion d’essere un
sequestro conservativo.
Anche con riferimento a questo sequestro trova l’applicazione l’art.675, quindi
il sequestro perde efficacia se non è eseguito entro 30gg dalla pronuncia del
provvedimento autorizzativo. Il provvedimento che autorizza il sequestro
conservativo, in genere si limita a dire che l’istante è autorizzato a procedere al
sequestro nel limite massimo di una somma che viene fissata dal giudice. Sarà
il creditore, sotto propria responsabilità, a scegliere i beni da sottoporre a
sequestro. Del resto, come afferma l’art.671, il sequestro è ammissibile nei
limiti in cui la legge ammette il pignoramento, Quindi, sarà nella responsabilità
del creditore anche la scelta del tipo di espropriazione più idoneo nel caso
concreto (artt.678 e 679). La responsabilità del creditore potrà anche integrare
un’ipotesi di responsabilità aggravata e, quindi, la condanna non solo alle
spese, ma anche ai danni ai sensi dell’art.96 c.2. Il fatto di intraprendere una
espropriazione immobiliare per un credito dall’entità molto ridotta potrebbe,
ad es., determinare una responsabilità di questo tipo. L’esecuzione del
sequestro, quindi, coincide con il pignoramento.
Di fatto si tratta di una sorta di pignoramento anticipato, i cui effetti sono
disciplinati dall’art.2906, il quale afferma che non hanno effetto in pregiudizio
del creditore sequestrante le alienazioni e gli altri atti che hanno per oggetto la
cosa sequestrata, in conformità delle regole stabilite per il pignoramento. In
sostanza, anche qui abbiamo come effetto del sequestro l’inopponibilità di
tutti gli atti di disposizione compiuti dal debitore sequestrato su tutti i beni
assoggettati a sequestro. Però, c’è una grossa differenza rispetto al
pignoramento perché, in quel caso, dell’inefficacia si giovano sia il creditore
procedente, sia i creditori intervenuti nella procedura esecutiva (c.d. vincolo a
porta aperta). Nel caso del sequestro, al contrario, l’inefficacia relativa degli
atti di disposizione è limitata al creditore sequestrante (c.d. vincolo a parta
chiusa).
LA REVOCA e L’ESTINZIONE:
Essa non ha niente a che vedere con la revoca del procedimento cautelare
uniforme. Quest’ultima può essere richiesta per mutamenti sopravvenuti delle
circostanze o per fatti anteriori alla misura cautelare di cui il soggetto sia
venuto a conoscenza dopo il provvedimento per cause di forza maggiore o a lui
non imputabili.
La revoca del sequestro, ai sensi dell’art.684, è un’ipotesi particolare e identica
alla conversione del pignoramento prevista dall’art.495. Il debitore può
sottrarsi al pignoramento di un bene sostituendo al bene una somma di
denaro. Analogamente, in questo caso, il debitore può ottenere dal giudice la
revoca del sequestro conservativo prestando idonea cauzione per l’ammontare
del credito che ha dato causa al sequestro e per le spese, in ragione del valore
delle cose sequestrate.
Il sequestro si estingue, convertendosi in pignoramento, quando il creditore
ottiene una sentenza di condanna esecutiva.
IL SEQUESTRO LIBERATORIO:
Disciplinato dall’art.687, si tratta dell’ipotesi in cui il debitore abbia offerto o
messo a disposizione del creditore per la sua liberazione una somma di denaro
o delle cose. Il creditore rifiuta l’offerta del debitore e si cade nell’ambito
dell’istituto denominato mora credenti (artt.1206 e ss.). In questo caso il
sequestro ha la mera funzione di custodire la somma di denaro o le cose
offerte al creditore fino al momento in cui si accerti se l’adempimento o
l’offerta erano effettivamente conformi al contenuto dell’obbligazione così
come previso dal diritto sostanziale.
I PROCEDIMENTI DI ISTRUZIONE PREVENTIVA:
Si tratta di misure cautelari la cui finalità è quella di raccogliere prove prima del
processo o anche quando è altamente probabile che quelle stesse prove non
possano essere assunte in un momento successivo. L’assunzione preventiva
delle prove è possibile solo per le prove costituende, mentre per le prove
precostituite non si pone un problema di acquisizione preventiva.
Le misure di istruzione preventiva sono misure cautelari che hanno una
funzione conservativa, nel senso che mirano a procurarsi e a conservare una
prova che altrimenti potrebbe non essere più disponibile. Si tratta però di
misure cautelari sui generis, in quanto la loro disciplina sottrae all’applicazione
del rito cautelare uniforme, come si evince dall’art.669-quaterdecies, tranne
che per il caso dell’art.669-septies che riguarda il provvedimento negativo,
ossia quel provvedimento con cui viene rigettata l’istanza del provvedimento
cautelare.
Altro aspetto importante è dato dall’assenza di qualunque onere di
instaurazione del giudizio di merito nel termine perentorio assegnato dal
giudice (c.d. misure a strumentalità debole). Possono essere assunte in via
preventiva la prova testimoniale, l’ispezione e l’accertamento tecnico.
LA PROVA TESTIMONIALE:
Per quanto riguarda la prova testimoniale, il riferimento è all’art.692, il quale
afferma che chi ha fondato motivo di temere che stiano per mancare uno o più
testimoni le cui deposizioni possono essere necessarie in una causa da
proporre può chiedere che ne sia ordinata l’audizione a futura memoria.
L’elemento importante è il fondato timore che il testimone non sia più
disponibile nel momento in cui la prova dovrebbe essere assunta. La parte
istante deve dimostrare il periculum, ma anche i fatti oggetto della prova e
l’esposizione sommaria del fumus. Queste indicazioni si trovano ai sensi
dell’art.693, nella forma del ricorso al giudice che sarebbe competente per la
causa di merito. Il ricorso deve contenere l’esplicazione dei motivi dell’urgenza
(periculum) e dei fatti sui quali devono essere interrogati i testimoni, nonché
l’esposizione sommaria delle domande e eccezioni alle quali la prova è
preordinata (fumus boni iuris).
L’ISPEZIONE e L’ACCERTAMENTO TECNICO:
Sono disciplinati dall’art.696, il quale sancisce che chi ha urgenza di far
verificare lo stato dei luoghi o la qualità o la condizione di cose può chiedere, a
norma degli artt.692 e ss., che sia disposto un accertamento tecnico o
un’ispezione giudiziale. L’accertamento tecnico e l’ispezione giudiziale, se ne
ricorre l’urgenza, possono essere disposti anche sulla persona dell’istante e, se
questa vi consente, sulla persona nei cui confronti l’istanza è proposta.
L’accertamento tecnico e l’ispezione possono avere ad oggetto cose o anche
persone.
Per l’accertamento tecnico è importante il c.2, dove si dice che: esso può
comprendere anche valutazioni in ordine alle cause e ai danni relativi
all’oggetto della verifica. Questa aggiunta alla norma è stata determinata dalla
poca chiarezza del termine verifica. La verifica non è una semplice fotografia
dell’oggetto della verifica stessa. (Es.: Tizio appalta la costruzione di un
fabbricato a Caio. Una volta costruito il fabbricato, Tizio si accorge che non è
stato realizzato ad opera d’arte e presenta dei vizi. Allora chiede un
accertamento tecnico preventivo che descriva i vizi e valuti i danni causati
dall’imperizia di Caio. In questo modo potrà far riparare l’edificio, ma
conservare la dimostrazione dei vizi da far valere nel giudizio contro Caio,
nonché per avere una valutazione dei danni da richiedere a titolo di
accertamento).
Sia per l’ispezione, sia per l’accertamento tecnico preventivo, l’oggetto può
anche essere una persona. Se si tratta della persona contro la quale l’istanza è
proposta, è necessario il consenso. Questa norma è stata riformulata a seguito
di due sentenze della corte costituzionale che avevano dichiarato illegittima la
versione originale della norma. Allo stato attuale, possiamo dire che né
l’accertamento tecnico preventivo, né l’ispezione sono di per sé coercibili.
Tuttavia, bisogna considerare le conseguenze di un eventuale rifiuto. La
soluzione che sembra più ragionevole è quella di applicare l’art.118 sulle
conseguenze dell’ispezione, il quale, al c.2 e c.3, prevede che: se la parte rifiuta
di eseguire l’ordine senza giusto motivo, il giudice può desumere da questo
comportamento argomenti di prova a norma dell’art.116, c.2.
IL PROCEDIMENTO:
Nel caso dei procedimenti di istruzione preventiva non si applica il rito
cautelare uniforme, ad eccezione dell’art.669-septies. Bisogna considerare che,
a seguito di una sentenza della corte costituzionale, è esperibile il reclamo
cautelare, ma solo contro il provvedimento che abbia accolto l’istanza
concedendo la misura cautelare.
Il provvedimento può essere richiesto ante causam, o anche nel corso di un
processo già pendente.
Nel primo caso l’istanza si propone con ricorso al giudice che sarebbe
competente per il giudizio di merito; nel secondo caso si propone al giudice
dinanzi al quale pende già la causa. Per le misure di istruzione preventiva può
essere competente anche il giudice di pace, il quale non è competente a
decidere sulle altre misure cautelari. Questa regola è enunciata dall’art.693.
In caso di eccezionale urgenza, il c.2 dell’art.693 prevede che: l’istanza possa
essere proposta anche al tribunale del luogo in cui la prova deve essere
assunta.
In condizioni normali, le misure di istruzione preventiva vengono adottate nel
rispetto del principio del contraddittorio tra le parti. Sulla base dell’art.695 il
giudice valuta l’esistenza dei presupposti e la rilevanza della prova rispetto ai
fatti da provare, fatti che a loro volta fanno riferimento a un certo diritto
(fumus boni iuris). Questa valutazione può avvenire anche assumendo
sommarie informazioni. Nel momento in cui è proposto il ricorso, il presidente
del tribunale fissa con decreto l’udienza di comparizione e stabilisce il termine
perentorio per la notificazione del decreto (art.694). A questa udienza, previa
comparizione delle parti assunte, se necessario, sommarie informazioni, il
giudice provvede con ordinanza non impugnabile e, se ammette la prova
testimoniale, fissa l’udienza per l’assunzione e designa il giudice che deve
provvedere (art.695). Nel caso in cui si tratti di accertamento tecnico
preventivo o di spedizione, il giudice fisserà la data definizione delle
operazioni, avendo preventivamente individuato il consulente tecnico.
In caso di eccezionale urgenza, l’art.697 prevede la possibilità di un
provvedimento pronunciato inaudita altera parte dal presidente del tribunale,
il quale dispensa il ricorrente dalla notificazione alle altre parti. Tuttavia, in
questo caso mentre le altre misure cautelari concesse inaudite altera parte
mediante procedimento cautelare uniformi esiste una fase successiva
eventuale in cui si può recuperare il contraddittorio, un meccanismo di questo
genere non è previsto, almeno prima dell’assunzione. L’ultimo comma
dell’art.697 ci dice che: deve essere fatta notificazione immediata del decreto
alle parti non presenti all’assunzione, non oltre il giorno successivo.
Importante è l’art.698, relativo all’assunzione ed efficacia delle prove
preventive. Il c.2 afferma che l’assunzione preventiva di una prova non
pregiudica in nessun modo le questioni relative alla loro ammissibilità e
rilevanza, né impedisce la loro rinnovazione nel giudizio di merito. Ciò significa
che, se il giudizio di merito è già pendente o viene instaurato, il fatto che una
certa prova sia già stata assunta in via preventiva è irrilevante, in quanto il
giudice del merito dovrà provvedere alla valutazione dei due elementi tipici
delle prove: l’ammissibilità, che fa riferimento ai tipi di prova di cui il nostro
ordinamento consente l’assunzione, e la rilevanza, ossia l’idoneità della prova
ad assumete una funzione dimostrativa rispetto al fatto cui si riferisce. L'ultimo
comma afferma che i processi verbali delle prove non possono essere prodotti,
né richiamati, né riprodotti in copia nel giudizio di merito prima che i mezzi di
prova siano stati dichiarati ammissibili nel giudizio stesso.
LA CONSULENZA TECNICA PREVENTIVA AI FINI DELLA COMPOSIZIONE DELLA
LITE:
Si tratta di un istituto nuovo, introdotto nel 2005, disciplinato dall’art.696-
bis.
La norma è stata introdotta partendo da una banale considerazione di quello
che accade in pratica. Molto spesso nel processo di cognizione l’unica
questione controversa tra le parti è una questione che solo un consulente
tecnico può risolvere. In questi casi il processo è un mero involucro, che serve
solo ad acquisire la consulenza tecnica. Una volta acquisita, non essendoci altre
questioni controverse tra le parti, o esse raggiungono una conciliazione,
oppure il giudice pronuncia sentenza, limitandosi a recepire quanto accertato
nella consulenza tecnica.
L’art.696-bis vuole evitare che in situazioni di questo tipo sia instaurato un
processo. La norma non ha finalità cautelare vera e propria perché non è
necessaria l’urgenza. Come sancisce la norma, consulenza tecnica può essere
richiesta anche al di fuori delle condizioni previste dal c.1 dell’art.696, ossia la
condizione di urgenza. La consulenza tecnica può essere richiesta ai fini
dell’accertamento e della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla
mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito. Le
opinioni in dottrina e giurisprudenza sono varie.
Per l’assunzione della consulenza tecnica preventiva si applicano gli artt.191 e
ss., in quanto compatibili. Tuttavia, il riferimento è anche all’accertamento
tecnico preventivo ex art.696.
L’aspetto più interessante della norma è dato dall’ultima frase del c.1, secondo
cui: il consulente, prima di provvedere al deposito della relazione, tenta la
conciliazione delle parti. Questo è un altro elemento utile a dimostrare la
finalità della norma. Quello del consulente tecnico è da ritenersi un vero e
proprio dovere, benché la norma non sia molto chiara. Se le parti si conciliano,
si forma processo verbale della conciliazione, al quale il giudice attribuisce con
decreto l’efficacia di titolo esecutivo. Vi è anche una sorta di favor in tema
fiscale, in quanto il processo verbale è esente dall’imposta di registro. Se la
conciliazione non riesce, ciascun parte, nell’ambito di un processo futuro,
potrà chiedere che la relazione del consulente sia acquisita agli atti. In questo
caso il passaggio è più diretto, perché non sembra necessaria una valutazione
del nuovo giudice in ordine all’ammissibilità e alla rilevanza del processo
verbale, ma la parte può richiedere direttamente l’acquisizione.
Questo istituto è stato introdotto come passaggio obbligato anche per le
controversie che riguardano il risarcimento dei danni da responsabilità medica.
La riforma del 2017 ha previsto la consulenza come obbligatoria, in alternativa
alla mediazione (anch’essa obbligatoria). Nel caso in cui la consulenza tecnica
preventiva non venga esperita e non venga esperito nemmeno il tentativo di
mediazione, vi sono meccanismi analoghi a quelli che il d.lgs. 28/2010 prevede
nel caso in cui non si osservi l’obbligo di esperire in tentativo preliminare di
mediazione. In ogni caso, decorsi sei mesi dal deposito dell’istanza di
consulenza tecnica preventiva, la domanda diviene procedibile. Il
procedimento seguirà le norme del procedimento sommario di cognizione.
Altra ipotesi di applicazione della consulenza tecnica preventiva ai fini
conciliativi è come passaggio obbligato è quella dell’art. 445bis, in materia di
invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità (etc...).
IL PROVVEDIMENTO D’URGENZA:
Il provvedimento d’urgenza è disciplinato da un’unica norma, l’art.700,
essendo stati abrogati gli artt.701 e 702. Questo tipo di provvedimento è
particolare, in quanto, già prima dell’introduzione del cautelare uniforme,
presentava delle peculiarità significative. Il sistema delle nostre misure
cautelari era costruito come sistema di misure tipiche, con un’unica misura
atipica che fungeva da norma di chiusura. Laddove le prime non potevano
essere utilizzate in ragion della natura del periculum, poteva esservi spazio per
la misura innominata di cui all’art.700. Misura innominata e atipica perché, sia
il periculum, sia il contenuto concreto della norma rispondono a questi
caratteri di atipicità.
La norma afferma che, fuori dei casi regolati dalle precedenti sezioni di questo
capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far
valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio
imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti
d’urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare
provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito. Innanzitutto, dobbiamo
constatare che il provvedimento d’urgenza ha una funzione sussidiaria, in
quanto entra in campo quando le altre misure cautelari non sono utilizzabili.
La nozione di fondato motivo deve essere elaborata tenendo conto delle
misure cautelari e del fatto che la cognizione è di tipo sommario, ma che in
questo caso il periculum presenti requisiti tali da rendere fondata la
preoccupazione dell’istante rispetto al pregiudizio imminente e irreparabile
che il suo diritto può subire. Per quanto riguarda il diritto, sono stati scritti
fiumi di inchiostro cercando di chiarirne in senso. L’opinione prevalente è che
si tratti di una situazione giuridica di vantaggio, riconosciuta dall’ordinamento
come vero e proprio diritto soggettivo. Non sarebbe quindi compreso
l’interesse mero. Per quanto riguarda gli interessi legittimi, il codice del
processo amministrativo consente una tutela cautelare con una norma,
l’art.55, che è abbastanza corrispondente all’art.700, in quanto prevede
l’emanazione di misure cautelari che appaiono, secondo le circostanze, più
idonee ad assicurare gli effetti della decisione sul ricorso.
L’espressione “tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria”,
non si riferisce semplicemente al giudizio ordinario di cognizione, perché non
necessariamente la situazione di pregiudizio imminente e irreparabile discende
da questo tipo di giudizio. È possibile che la situazione si verifichi in un
procedimento di cognizione piena, ma speciale, come il rito del lavoro, o anche
nell’ambito di un procedimento a cognizione sommario, anche se qui la
dottrina avanza molti dubbi.
I requisiti dell’imminenza e dell’irreparabilità del pregiudizio fanno riferimento
a un dato temporale. Deve, infatti, trattarsi di un pregiudizio che si verifica in
un arco di tempo temporalmente breve. Per quanto riguarda l’irreparabilità,
non ci sono parametri fissi per la sua identificazione: questa valutazione
dipenderà dalle circostanze del caso concreto.
Questo spiega perché un discorso puramente teorico sul procedimento
d’urgenza non ha molta ragion d’essere. La tematica si apprezza di più
studiando la casistica giurisprudenziale, che ricomprende le materie più varie
(societaria, lavoro, proprietà, intellettuale, etc..). Un discorso simile può anche
essere fatto in relazione al contenuto del provvedimento d’urgenza, in quanto
esso deve essere quello che appare, secondo le circostanze, più idoneo ad
assicurare gli effetti della decisione sul merito. Questo ricollega all’altro dato
sulla natura anticipatoria del provvedimento d’urgenza: l’avverbio
provvisoriamente fa riferimento a questa anticipazione. Gli effetti provvisori,
come tutti i provvedimenti anticipatori, sono idonei a durare per un tempo
indefinito, finché il soggetto non decide di instaurare il giudizio di merito.
LE AZIONI DI NUNCIAZIONE:
tratta dei procedimenti di denuncia di nuova opera e di danno temuto. E’
indispensabile fare riferimento alla disciplina contenuta negli artt.1171 e 1172.
-L’art.1171 disciplina la denunzia di nuova opera e stabilisce che: il
proprietario, è il titolare di altro diritto reale di godimento, o il possessore, che
ha ragione di temere che da una nuova opera da altri intrapresa sul proprio o
sull’altrui fondo stia per derivare danno alla cosa che forma oggetto del suo
diritto o del suo possesso, può denunziare all’autorità giudiziaria la nuova
opera purché questa non sia terminata e non sia trascorso un anno dal suo
inizio.
-L’art.1172, che disciplina la denunzia di danno temuto, disciplina che: il
proprietario, il titolare di altro diritto reale di godimento, o il possessore, il
quale ha ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa sovrasti
pericolo di un danno grave e prossimo alla cosa che forma oggetto del suo
diritto o del suo possesso, può denunziare il fatto all’autorità giudiziaria e
ottenere, secondo le circostanze, che si provveda per ovviare al pericolo.
La legittimazione è connessa al proprietario, al titolare di altro diritto reale di
godimento e al possessore.
La prima norma ha la finalità di vietare che venga continuata l’esecuzione
dell’opera, mentre la seconda quella di ottenere un provvedimento che
neutralizzi il pericolo. I presupposti sostanziali sono facilmente individuabili.
Nel caso dell’art.1171 si tratta di timore che possa derivare un danno dalla
nuova opera; nel caso dell’art.1172 del timore del pericolo di un danno grave e
prossimo.
IL PROCEDIMENTO:
Il procedimento è regolato dagli artt.688 e 691.
-Per quanto riguarda l’art.688, si comprende che si tratta di misure cautelari
completamente assoggettate al procedimento cautelare uniforme. Il rinvio
all’art.669-quater ci fa comprendere che si tratta di azioni che possono essere
proposte sia ante-causam, sia nel corso del giudizio di merito.
Nel primo caso, il ricorso introduttivo andrà proposto al giudice competente a
norma dell’art.21, c.2, ossia il giudice del luogo dove è avvenuto il fatto
denunciato; nel secondo caso, è competente lo stesso giudice del merito. Al di
là di questo si applica in toto il rito cautelare uniforme. Ricordiamo, che si
tratta di misure a carattere anticipatorio per la sopravvivenza delle quali non è
necessaria l’instaurazione del giudizio di merito (c.d. misure a strumentalità
debole).
-L’art.691 (contravvenzione al divieto del giudice) stabilisce che: se la parte alla
quale è fatto divieto di compiere l’atto dannoso di mutare lo stato di fatto
contravviene all’ordine, il giudice, su ricorso della parte interessata, può
disporre con ordinanza che le cose siano rimesse al pristino stato a spese del
contravventore.
Questa è un’altra indicazione dell’assoggettamento al rito cautelare uniforme,
in quanto questa norma integra e rafforza quanto previsto dall’art.669-
duodecies in merito all’attuazione delle misure cautelari. La parte finale di tale
norma fa riferimento ai poteri del giudice che ha concesso la misura cautelare
di risolvere con ordinanza eventuale difficoltà che sorgano nel corso
dell’esecuzione adottando i provvedimenti ritenuti necessari.
I PROCEDIMENTI POSSESSORI:
azioni possessorie non sono vere e proprie misure cautelari, ma sono in parte
assoggettate alla disciplina del cautelare uniforme. Prima di analizzare le
norme del cpc, bisogna far riferimento agli artt.1168 e 1170 (cc), ossia alle
azioni di reintegrazione, di manutenzione e di spoglio.
-Art.1168 (azione di reintegrazione): chi è stato volontariamente od
occultamente spogliato del possesso può, entro l’anno dal sofferto spoglio,
chiedere contro l’autore di esso la reintegrazione nel possesso medesimo.
L’azione è altresì concessa a chi ha la detenzione della cosa, a meno che questa
sia determinata da ragioni di servizio o di ospitalità.
-Art.1170 (azione di manutenzione): chi è stato molestato nel possesso di un
immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di un’universalità di mobili
può, entro un anno dalla turbativa, chiedere la manutenzione del possesso
medesimo. Anche colui che ha subito uno spoglio non violento o clandestino
può chiedere di essere rimesso nel possesso, ai sensi dell’ultimo comma
dell’articolo.
La disciplina processuale di queste azioni è contenuta negli artt.703-705.
-Per quanto riguarda l’analisi dell’art.703, innanzitutto bisogna ricordare che
non si tratta di misure cautelari vere e proprie, ma le analogie sono varie.
Questo si comprende dal riferimento al rito cautelare uniforme, presente nel
c.2. Dopo la proposizione con ricorso al giudice competente (quello del luogo
in cui è avvenuto il fatto denunciato), il giudice provvede ai sensi degli artt.669-
bis e ss., in quanto compatibili. Altra
analogia è riscontrabile nel c.3, che prevede la possibilità di esperire reclamo
ex art.669-terdecies, contro l’ordinanza che concede o nega il provvedimento
cautelare. La
particolarità rispetto al rito cautelare uniforme, sono le seguenti:
1)la prima è indicata dal c.4 dell’art.703, secondo il quale: nel concedere il
provvedimento, il giudice fissa il termine per la prosecuzione del giudizio di
merito, ma solo se richiesto da una delle parti; mentre per il cautelare non è
necessaria l’istanza delle parti, ma è lo stesso giudice che fissa il termine per
l’introduzione del giudizio di merito.
2)la seconda è data dal fatto che si applica l’art.669-novies, c.3. Ciò significa
che il provvedimento perde efficacia se, con la sentenza di merito anche non
passata in giudicato, è dichiarato inesistente il diritto per il quale il
provvedimento era stato concesso. Questa è l’unica ipotesi di perdita di
efficacia del provvedimento, mentre l’art.669-novies prevede anche altre
ipotesi.
-Per quanto riguarda l’art.704, esso fa riferimento alle domande di
provvedimento possessorio nel corso del giudizio petitorio. Il giudizio petitorio
è il giudizio promosso dal titolare del diritto di proprietà rivolto ad ottenere la
difesa del suo diritto nelle forme di un giudizio ordinario di cognizione. Qui si fa
riferimento al gruppo di norme del cc che riguardano le azioni a difesa della
proprietà o petitorie (artt.948-951).
Queste azioni sono: l’azione di rivendicazione; l’azione negatoria (che mira ad
ottenere la declaratoria di inesistenza di diritti vantatati da altri sulle cose,
quando si ha motivo di temere pregiudizio); l’azione di regolamento dei confini
e l’azione per l’apposizione di termini.
Ai sensi dell’art.704, ogni domanda relativa al possesso, per fatti che
avvengono durante la pendenza del giudizio petitorio, deve essere proposta
davanti al giudice di quest’ultimo. Quindi nel caso in cui sorga un problema di
turbativa del possesso e sia già pendente un giudizio petitorio, la relativa
domanda deve essere proposta nell’ambito del giudizio petitorio.
Tuttavia, in considerazione dei tempi lunghi del giudizio petitorio, l’azione di
reintegrazione nel possesso può anche essere richiesta autonomamente al
giudice competente ex art.703. Il giudice che dà i provvedimenti temporanei
indispensabili. Sarà poi onere di una delle due parti di proporre l’istanza al
giudice del petitorio per la trattazione del merito.
A questo quadro si aggiunge l’art.705, che disciplina il divieto di proporre
giudizio petitorio. Il convenuto nel giudizio possessorio non potrà proporre
giudizio petitorio, finché il primo giudizio non sia definito e la decisione non sia
stata eseguita. Tuttavia, egli può proporre giudizio quando dimostra che
l’esecuzione del provvedimento possessorio non può compiersi per fatto
dell’attore. La regola è stata attuata da una pronuncia della corte
costituzionale, nel caso in cui da essa possa derivare un pregiudizio irreparabile
del convenuto.
I PROCEDIMENTI DI SEPARAZIONE e DIVORZIO:
Per entrambi i procedimenti esiste un retroterra molto consistente disciplinato
dal codice civile. In realtà le norme del codice civile riguardano essenzialmente
la “separazione”, in quanto il divorzio è diventato legale nel nostro
ordinamento solo nel 1970. Le due normative sono state più volte modificate,
in particolare nel 2006.
Le due procedure sono molto simili. Ci sono previsioni assolutamente
corrispondenti, fenomeno accentuato di più nel 2006. Tuttavia, il legislatore ha
voluto tenere le due procedure distinte, quindi formalmente esse sono
disciplinate da fonti diverse: la l.898/1970 in tema di divorzio e il codice civile.
Separazione e divorzio non sono le sole procedure per ottenere lo scioglimento
del vincolo coniugale. Dal 2014 vi sono importanti procedure stragiudiziali che
consentono di ottenere separazione, divorzio, o la modifica delle condizioni di
questi senza passare attraverso il giudice. Si tratta della negoziazione assistita e
della procedura davanti all’ufficiale dello stato civile.
-Per quanto riguarda la separazione è necessario fare, in prima battuta,
riferimento all’art.150, dove prevede che: la separazione personale dei coniugi
può essere giudiziale o consensuale.
-In tema di divorzio, invece, esiste solo un procedimento giudiziale su domanda
congiunta.
LA SEPARAZIONE GIUDIZIALE e IL DIVORZIO:
Il diritto di chiedere la separazione giudiziale, il divorzio e l’omologazione della
separazione consensuale spetta ai coniugi.
I PRESUPPOSTI:
-Per quanto riguarda la separazione giudiziale i presupposti sono disciplinati
dall’art.151, per il quale la separazione può essere chiesta quando si verificano,
anche indipendentemente dalla volontà delle parti, fatti tali da rendere
intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio
all’educazione o alla prole. Questa dizione è importante perché è sparito dal
nostro ordinamento quello che era l’unico motivo per ottenere la separazione,
ossia la colpa di un coniuge in danno dell’altro. Nel momento attuale la colpa è
irrilevante, anche se è possibile ottenere la pronuncia dell’addebito della
separazione. In base al c.2, il giudice pronunciando la separazione dichiara, se
richiesto, a quelle dei coniugi sia addebitabile la separazione in considerazione
del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio. La
separazione con addebito ha delle conseguenze patrimoniali molto rilevanti. In
particolare, in base all’art.156, c.1, il coniuge al quale è stata addebitata la
responsabilità della separazione è escluso dalla attribuzione dell’assegno di
mantenimento. Vi sono poi conseguenze negative anche in materia
successoria.
-Per quanto riguarda il divorzio, si parla di scioglimento del matrimonio o di
cessazione degli effetti civili. I presupposti sono disciplinati dall’art.3 della
l.89/1970, lett.b). Il divorzio può essere pronunciato solo quando la
separazione giudiziale è stata pronunciata con sentenza passata in giudicato o
è stata omologata una separazione consensuale, a condizione che, nel caso
della separazione giudiziale siano trascorsi almeno 12 mesi di separazione
ininterrotta dei coniugi che decorrono dalla comparizione di essi davanti al
tribunale e, nel caso della separazione consensuale e della negoziazione
assistita quando siano trascorsi almeno 6 mesi dalla comparizione delle parti
davanti al presidente del tribunale o dal raggiungimento dell’accordo. Questi
termini sono il frutto della riduzione operata nel 2015.
LA DOMANDA:
Si propone al tribunale del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi.
Consideriamo l’art.706, a norma del quale la domanda di separazione
personale si propone al tribunale del luogo dell’ultima residenza comune dei
coniugi, in mancanza, del luogo in cui il coniuge convenuto ha la residenza o il
domicilio.
Per quanto riguarda il divorzio, anche qui si prevedeva come criterio quello
dell’ultima residenza comune, ma la corte costituzionale ha abrogato la norma
per irrazionalità. Infatti, dovendo il divorzio essere preceduto dalla
separazione, i coniugi non mantengono una residenza comune. Quindi la
norma va letta nel senso di prevedere che il giudice competente sia il giudice
del luogo di residenza del coniuge convenuto. Ricordiamo che il giudice
competente in senso gerarchico è il tribunale.
Per quanto riguarda il contenuto della domanda, l’art.706 richiede che il
ricorso contenga l’esposizione dei fatti sui quali la domanda si fonda. Un po'
diversa è la formulazione relativa alla domanda di divorzio, rispetto alla quale
si richiede l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la domanda
di scioglimento del vincolo coniugale è fondata.
Sia per la separazione, sia per il divorzio, alla domanda deve essere allegata
l’ultima dichiarazione dei redditi dei coniugi e l’indicazione dei figli dei coniugi.
Depositato il ricorso, nei 5gg successivi il presidente del tribunale fissa la data
di comparizione dei coniugi davanti a sé, il termine per la notificazione del
ricorso e del decreto e quello per l’eventuale deposito ad opera del coniuge
convenuto della memoria difensiva. Il testo delle norme è identico.
L’UDIENZA:
All’udienza i coniugi devono comparire personalmente davanti al presidente
con l’assistenza del difensore, ai sensi dell’art.707. In base all’art.87, che tratta
della difesa tecnica, l’assistenza è diversa dalla vera e propria rappresentanza
in giudizio: la prima significa avere un legale di fiducia con sé, ma senza che sia
stato necessario conferirgli una procura alle liti. La prescrizione relativa
all’assistenza del difensore dovrebbe valere, secondo qualcuno, solo per il
convenuto, in quanto l’attore attraverso la proposizione del ricorso si è
necessariamente costituito in giudizio, cosa fattibile, secondo le regole
generali, solo con il patrocinio di un difensore. In ogni caso nella pratica, in
genere, le parti compaiono sempre con il difensore di fiducia; dunque, la
differenza tra rappresentanza e assistenza diventa quasi irrilevante.
Se il ricorrente non compare in udienza o rinuncia, secondo l’art.707, c.2, la
domanda non ha effetto. Qui però bisogna far riferimento alla legge sul
divorzio, la quale prevede la stessa cosa, ma, per quanto riguarda la mancata
comparizione, fa salvi gravi e comprovati motivi.
L’opinione prevalente ritiene che gravi e comprovati motivi possano
giustificare l’assenza del ricorrente anche nel caso della separazione.
Addirittura, si rietine che la mancata comparizione per gravi e comprovati
motivi del ricorrente o del convenuto debba essere tenuta dal giudice in
considerazione, eventualmente per quanto riguarda il convenuto mediante
una rinnovazione della notificazione del ricorso e del decreto e con la
fissazione di una nuova udienza. All’udienza il presidente sente le parti
separatamente e poi congiuntamente, tentando di conciliarle. Se i coniugi si
conciliano, il presidente fa redigere processo verbale alla conciliazione. In
questa sede non si tratta dell’attività svolta dal presidente al fine di riconciliare
le parti, ossia di persuadere le parti a ritornare pacificamente a vivere la vita
coniugale. Il termine farebbe riferimento alla possibilità per i coniugi di
raggiungere un accordo sulle condizioni di separazioni o di divorzio in modo da
convertire la separazione da giudiziale in consensuale e il divorzio contenzioso
in divorzio su domanda congiunta. Se la cosa riesce si redige processo verbale,
se non riesce, il presidente, anche d’ufficio, sentiti i coniugi e i loro difensori,
adotta con ordinanza i provvedimenti temporanei e urgenti che ritiene
opportuni nell’interesse della prole e dei coniugi. Peraltro, occorre tenere
presente che, prima dell’adozione di questi provvedimenti, la legge sul divorzio
prevede l’ascolto del figlio di almeno 12anni o anche di età inferiore se capace
di discernimento. L’ascolto del minore è finalizzato a stabilire quali saranno le
modalità di affidamento, se congiunto o esclusivo. In questa stessa udienza e
con la stessa ordinanza, il presidente del tribunale e con la stessa ordinanza, il
presidente del tribunale e con la stessa ordinanza, il presidente del tribunale
nomina l’istruttore e fissa un’udienza di comparizione delle parti per la
trattazione della causa.
I provvedimenti nell’interesse del coniuge e della prole:
sono disciplinati dall’art.289 e sono provvedimenti molto importanti perché
hanno un regime particolare.
La norma non afferma che queste ordinanze hanno efficacia di titolo esecutivo
e sono caratterizzate dalla c.d. “ultrattività”, nel senso che rimangono efficaci
anche quando il giudizio si estingue e finché non sono costituite da un altro
provvedimento o del giudice istruttore o del presidente. In base all’art.709 e
all’art.4 della l.89/1970, queste ordinanze, oltre a essere revocabili o
modificabili dal giudice istruttore, sono anche assoggettabili a reclamo da
proporsi alla corte d’appello che provvede in camera di consiglio.
Questi stessi provvedimenti possono essere adottati dal presidente del
tribunale anche nell’ipotesi in cui compaia all’udienza il ricorrente e non il
convenuto.
Il riferimento al giudice istruttore e all’udienza necessaria per la trattazione
della causa nel merito ci dà la misura del fatto che, all’esaurimento della fase
presidenziale, si passa a una fase contenziosa da trattarsi secondo le norme del
giudizio ordinario di cognizione. Il passaggio dalla fase presidenziale a quella di
trattazione nel merito, tuttavia, non è automatico. Sia per la separazione che
per il divorzio si prevede che con l’ordinanza presidenziale venga assegnato al
ricorrente un termine per il deposito di una memoria integrativa che ha, di
fatto, il contenuto di un atto di citazione. Infatti, la memoria deve avere, ai
sensi degli artt.709 e 4 della l.89/1970, il contenuto di cui all’art.163, c.3, nn.2,
3, 4, 5 e 6. Il giudice assegna anche al convenuto un termine per la costituzione
in giudizio ai sensi degli artt.166 e 167, nonché per la proposizione delle
eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio. Questo ci dà
l’indicazione che il passaggio tra le due fasi non è automatico, ma postula il
deposito di atti sostanzialmente corrispondenti all’atto di citazione e alla
comparsa di risposta. A ulteriore conferma di quanto detto, vi è il richiamo agli
artt.180 e 183 contenuto sia nelle norme sulla separazione (art.709-bis), sia sul
divorzio (art.4 c.11).
LA SENTENZA:
Se la causa è matura per la decisione, ma devono essere ancora effettuate
attività istruttorie rispetto a domande cumulate nello stesso processo, il
giudice può pronunciare sentenza di separazione o di divorzio. È ovvio che in
una causa di separazione o di divorzio possono essere cumulate varie domande
oltre a quella principale: la domanda riguardante l’affidamento dei figli,
l’assegno di mantenimento, l’assegnazione della casa coniugale, e così via.
Sono domande accessorie sulle quali l’istruzione può essere molto più lunga
rispetto a quella della domanda principale.
Il legislatore consente, sia nel caso del divorzio, sia in quello della separazione,
che sia pronunciata una sentenza non definitiva sulla separazione o sullo
scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Qui c’è una svista del legislatore, che ha qualificato non definitiva una vera e
propria sentenza definitiva, cioè che decide in maniera totale e non più
sindacabile, salvo impugnazione, la domanda relativa alla separazione o al
divorzio. Probabilmente, l’uso di questo attributo fa riferimento al fatto che il
processo deve continuare per le altre eventuali domande accessorie, ma, con
riferimento alla domanda principale, la sentenza è a tutti gli effetti definitiva.
LE IMPUNGNAZIONI:
Sia per il divorzio, sia per la separazione, il legislatore ammette l’appello deciso
in camera di consiglio. Dottrina e giurisprudenza hanno analizzato molto
l’espressione “appello deciso in camera di consiglio”. Sembra prevalere
l’opinione per cui il riferimento alla camera di consiglio significa applicazione
delle norme comuni sui procedimenti camerali, ossia gli artt. 737 e ss. Dal
punto di vista pratico, la conseguenza più rilevante è che l’appello si proporrà
non con atto di citazione, ma con ricorso.
LA SEPARAZIONE CONSENSUALE e IL DIVORZIO SU DOMANDA CONGIUNTA:
LA SEPARAZIONE CONSENSUALE:
Per quanto riguarda la separazione consensuale, i riferimenti si trovano agli
artt. 150 e 158 c.c. L’art. 158, in particolare, afferma che la separazione per il
solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del giudice.
L’omologazione è il controllo del tribunale, preliminare alla idoneità
dell’accordo raggiunto dai coniugi sulle condizioni di separazione, che rende
esecutivo l’accordo. Ci si può interrogare su quale tipo di controllo venga
svolto durante l’omologazione. La risposta è data dal secondo comma dell’art.
158, che stabilisce che quando l’accordo dei coniugi relativamente
all’affidamento e al mantenimento dei figli è in contrasto con l’interesse di
questi, il giudice riconvoca i coniugi indicando loro le modificazioni da
adottare. In caso di inidoneità della soluzione può rifiutare, allo stato,
l’omologazione. In sostanza, quindi il controllo riguarda il mantenimento dei
figli.
IL PROCEDIMENTO:
Per quanto riguarda il procedimento, questo è dettato dall’art. 711. Anche in
questo caso, il presidente del tribunale deve compiere un tentativo di
conciliazione, convocando le parti che presentano domanda di separazione
consensuale nelle forme del ricorso, il quale conterrà tutte le condizioni su cui
esse si sono accordate. In questo caso, essendo la separazione consensuale, si
presume che le parti abbiano raggiunto un accordo su tutti gli aspetti
dell’affidamento dei figli e della risoluzione dei rapporti patrimoniali. Quindi, in
questo caso, forse il legislatore intende far riferimento ad un vero e proprio
tentativo di riconciliare i coniugi. Il tentativo di conciliazione si limita, nella
prassi, alla domanda rivolta ai coniugi “Avete intenzione di riconciliarvi?”, la
risposta nel 99% dei casi è no, e il tentativo di conciliazione si esaurisce.
Importante è il penultimo comma dell’art. 711, in base al quale la separazione
consensuale acquista efficacia con l’omologazione del tribunale che provvede
in camera di consiglio su relazione del presidente.
IL DIVORZIO SU DOMANDA CONGIUNTA:
Per quanto riguarda il divorzio su domanda congiunta, viene in rilievo l’art. 4 l.
89/1970. Il sedicesimo comma afferma che la domanda congiunta dei coniugi
deve contenere compiutamente le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti
economici ed è proposta con ricorso al tribunale in camera di consiglio. Qui si
richiede quindi che il ricorso contenga una dettagliata e specifica previsione di
tutte le condizioni sulle quali le parti hanno raggiunto un accordo.
Il tribunale in composizione collegiale, sentiti i coniugi, verificata l’esistenza dei
presupposti di legge e valutata la rispondenza delle condizioni all’interesse dei
figli decide con sentenza. La verifica del tribunale è quindi una verifica doppia:
sui presupposti del divorzio – ossia la previa separazione con sentenza passata
in giudicato o separazione consensuale omologata dal tribunale, il tempo
necessario per fare il passo successivo – e sulla rispondenza delle condizioni
pattuite all’interesse dei figli. Se il controllo dà esito positivo, il tribunale
pronuncia sentenza. Se ritiene che le condizioni stabilite dalle parti,
soprattutto per ciò che riguarda l’interesse dei figli, siano in contrasto con
l’interesse degli stessi, la procedura si trasforma in una sorta di giudizio
ordinario, quindi si procede alla nomina dell’istruttore e alla fissazione
dell’udienza per la trattazione della causa. Questa, infatti, è una procedura
semplificata, che può funzionare solo quando il controllo del tribunale abbia
dato esito positivo.
LA SENTENZA:
Nel caso in cui il controllo del tribunale abbia esito positivo, il legislatore non
dice nulla riguardo alla sentenza. Si è posto, quindi, il problema delle
impugnazioni, le quali presuppongono la soccombenza di uno dei due soggetti.
Infatti, legittimato a proporre impugnazione è sempre e solo il soggetto che,
rispetto a tutta la sentenza o a un singolo capo, risulti soccombente. In questo
caso non c’è una parte soccombente. L’opinione prevalente è che questa
sentenza nasca già passata in giudicato; quindi, sia una sentenza che a nessun
titolo è suscettibile di impugnazioni. Questo ha tutta una serie di conseguenze
in quanto, proprio sulla base della sentenza pronunciata in primo ed unico
grado, si può procedere alle annotazioni sui registri dello stato civile e
successivamente a contrarre un nuovo matrimonio, senza che occorra
necessariamente aspettare il passaggio del termine utile per la proposizione di
eventuali impugnazioni (es. il termine lungo di sei mesi che consente il
passaggio in giudicato della sentenza nel caso in cui non vi sia stata la
notificazione e non sia scattato il termine breve).
LA REVISIONE DELLE CONDIZIONI DI SEPARAZIONE e DIVORZIO:
Per quanto riguarda la modificazione dei provvedimenti relativi alla
separazione provvede l’art. 710, mentre l’art. 9 l. 89/1970 provvede per il
divorzio.
L’art. 710 afferma che: le parti possono sempre chiedere, con le forme del
procedimento in camera di consiglio, la modificazione dei provvedimenti
riguardanti i coniugi e la prole conseguenti la separazione. Si tratta dei
provvedimenti originariamente contenuti nell’ordinanza del presidente del
tribunale o nella sentenza di separazione o di divorzio. La modifica deve essere
richiesta al tribunale, il quale provvede in camera di consiglio ai sensi dell’art.
737. La cosa interessante è che, mentre il codice di procedura non prevede
particolari limitazioni rispetto ai motivi deducibili per giustificare questa
richiesta di modifica delle condizioni, la legge sul divorzio parla di giustificati
motivi.
L’ultima norma che andremo ad analizzare, perché interessante anche se poco
applicata, è l’art. 709ter, che prevede la soluzione delle controversie e i
provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni. Tale norma – che si ritiene
valga anche per il divorzio – riguarda le controversie insorte tra i genitori in
ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale e delle modalità
dell’affidamento. Competente è il giudice davanti al quale pende il giudizio di
separazione o divorzio, oppure, se il giudizio si è già concluso, il tribunale
individuato secondo le regole di competenza che si applicano in questa
materia. Per i procedimenti di cui all’art. 710 è competente il tribunale del
luogo di residenza del minore, fermo restando che il minore ha la residenza
con il genitore affidatario.
Il dato interessante della norma si rinviene nelle sanzioni che il giudice può
applicare. È proprio questa varietà di sanzioni che ha fatto sì che la norma
risulti pochissimo applicata. Le sanzioni possono essere: l’ammonimento del
genitore inadempiente, la condanna al risarcimento dei danni a carico di uno
dei genitori nei confronti del minore, la condanna al risarcimento dei danni a
carico di uno dei genitori nei confronti dell’altro, la condanna del genitore
inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria in
favore della Cassa delle ammende. La somma, che potrebbe sembrare simile a
quella prevista dall’art. 614 bis, ossia una misura coercitiva finalizzata a indurre
all’adempimento il genitore inadempiente, in realtà va a favore della Cassa
delle ammende; quindi, si tratta di una vera e propria sanzione amministrativa
pecuniaria. Incomprensibile è poi l’ultimo comma, secondo il quale i
provvedimenti assunti dal giudice sono impugnabili nei modi ordinari. Non è
chiaro come questa impugnazione sia possibile, se questi provvedimenti
possano avere una vita autonoma ed essere pronunciati dal giudice con
ordinanza o debbano essere pronunciati dal giudice con la sentenza
pronunciata a conclusione del giudizio. In ogni caso, la norma non ha mai avuto
un’applicazione considerevole.
IL RITO DEL LAVORO:
LE CONTROVERSIE INDIVIDUALI DI LAVORO:
Per comprendere correttamente la collocazione sistematica del rito del lavoro
è necessario tornare alla distinzione tra procedimenti a cognizione piena ed
esauriente e procedimenti a cognizione sommaria. Il rito del lavoro è
certamente un procedimento a cognizione piena ed esauriente, ma ha un
carattere di specialità. Ciò significa che ha un ambito di applicazione ben
preciso, all’interno del quale le norme sul procedimento ordinario di
cognizione (artt. 163 e ss.) non trovano applicazione.
In linea generale questo rito si applica alle controversie individuali di lavoro e,
in virtù dell’art. 447bis, alle controversie in materia di locazione e di comodato
di immobili, nonché in quelle di affitto di aziende. Si applica anche in tutta una
serie di altri casi in cui il decreto del 2011 sulla semplificazione dei riti prevede
che un certo procedimento sia ricondotto alle norme proprie del rito del
lavoro.
Il c.d. procedimento sommario di cognizione, indipendentemente da questo
nome fuorviante, è un procedimento a cognizione piena. La differenza tra
questo e il rito del lavoro è data dal fatto che il procedimento sommario di
cognizione ha carattere alternativo rispetto al procedimento ordinario di
cognizione. Ricorrendo determinati presupposti e, in particolare, quando si
tratti di una causa che rientra nella competenza del tribunale in composizione
monocratica l’attore è libero di scegliere se introdurre la causa con atto di
citazione ai sensi dell’art. 163, oppure con ricorso introduttivo ex art. 702bis.
Così non è per il rito del lavoro, il quale ha un carattere di assoluta esclusività e
non prevede nessuna norma integrativa mutuata dal procedimento ordinario
di cognizione.
Il rito del lavoro è stato introdotto dal legislatore con L. 533/1973,
rimpiazzando tutta una serie di norme che risalivano all’epoca del fascismo,
quindi all’epoca corporativa. La L. 533/1973 ha avuto una grandissima
importanza e ha un significato storico particolare, in quanto fu proprio negli
anni Settanta del secolo scorso che vennero combattute le grandi battaglie a
tutela dei diritti del lavoratore. Nel 1970 venne introdotto lo Statuto dei diritti
del lavoratore, il quale contiene delle norme particolari che hanno anche un
risvolto processuale interessante. Il riferimento è all’art. 28 che prevede un
procedimento volto alla repressione della condotta antisindacale posta in
essere dal datore di lavoro e all’art. 18 sul procedimento di reintegrazione nel
posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo. Successive riforme hanno,
di fatto, smantellato la rilevanza e l’operatività dell’art. 18, ma negli anni
Settanta queste due norme hanno molto impegnato dottrina e giurisprudenza.
Sempre nello stesso arco temporale e in questo clima volto ad assicurare ai
lavoratori la tutela dei loro diritti si colloca la nuova disciplina del rito del
lavoro. Per molto tempo il procedimento del lavoro è stato considerato una
specie di faro che avrebbe dovuto guidare il legislatore in una riforma generale
del processo civile, in quanto nel processo del lavoro avevano idealmente
trovato attuazione alcuni principi considerati basilari nella disciplina di un
processo civile efficiente:
oralità (prevalenza della modalità orale sullo scritto e dialogo tra le parti e il
giudice), immediatezza (immediato e diretto contatto del giudice con le prove)
e concentrazione (assenza delle c.d. udienze di mero rinvio e teorica possibilità
di conclusione in unica udienza, addirittura con lettura del dispositivo).
Inizialmente il processo del lavoro ha funzionato molto bene, poi come spesso
succede il fattore umano e altri fattori logistici hanno diluito la sua effettività.
Resta un modello di processo al quale in qualche misura il legislatore si è
ispirato per le varie riforme del processo ordinario di cognizione. Tuttavia, non
si può più dire che il rito del lavoro sia ancora oggi un modello di processo
particolarmente funzionante.
L’AMBITO DI APPLICAZIONE:
L’ambito di applicazione è disciplinato dall’art. 409. La norma fa riferimento
alle controversie individuali di lavoro e le elenca ai vari numeri dell’articolo.
-Il n. 1 si occupa delle controversie relative ai rapporti di lavoro subordinato
privato, anche se non inerenti all’esercizio di un’impresa. Elemento
significativo di questo tipo di rapporti di lavoro privato è la subordinazione, che
si ha quando il datore di lavoro esercita poteri direttivi, organizzativi e
disciplinari rispetto all’attività svolta dal lavoratore. Non è, peraltro,
indispensabile che questo tipo di lavoro subordinato sia collegato
all’organizzazione di un’impresa. Il rapporto di lavoro domestico, di
conseguenza, rientra in questa qualificazione.
- Il n. 2 si occupa delle controversie relative ai rapporti agrari c.d. associativi,
ossia mezzadria, colonia parziaria e compartecipazione agraria, ai quali si
aggiunge l’affitto al coltivatore diretto. Sono ipotesi poco ricorrenti, ma ciò che
è significativo è che questo tipo di controversie rientra nella competenza di
una delle poche sezioni specializzate esistenti nel nostro ordinamento, ossia le
sezioni specializzate agrarie. Ricordiamo che la nostra Costituzione vieta
l’istituzione di giudici speciali per la trattazione di determinati tipi di
controversie, ma non vieta la creazione di sezioni specializzate, anche con la
partecipazione di laici estranei all’amministrazione della giustizia. In effetti, le
sezioni specializzate agrarie operano con tre giudici professionali e due giudici
laici (geometri, agronomi, ecc.). Le sezioni specializzate agrarie operano in
primo grado e in appello. Altri esempi di sezioni specializzate sono le sezioni
per i minorenni con competenza civile e penale, nonché le sezioni specializzate
per la tutela della proprietà civile e industriale che oggi vengono
genericamente chiamate come sezioni specializzate per le controversie
commerciali. I rapporti tra sezione ordinaria del tribunale e sezione
specializzata sono molto particolari. La Cassazione ha affermato che in alcuni
casi il problema di stabilire se una certa causa appartiene a una sezione
specializzata o a quella ordinaria si configura come una vera e propria
questione di competenza rispetto alla quale è esperibile il regolamento di
competenza (artt. 42 e 43). Altre volte, come vedremo riguardo alla c.d.
sezione lavoro all’interno dei tribunali, l’orientamento prevalente è nel senso
che non è un vero problema di competenza quello dei rapporti tra le due
sezioni, ma semplicemente un problema della ripartizione del carico di lavoro
all’interno di un ufficio giudiziario. Vedi paragrafo “La giurisdizione e la
competenza”.
- Il n. 3 disciplina i rapporti di para subordinazione. La norma menziona i
“rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale e altri rapporti di
collaborazione che si concretano in una prestazione di opera continuativa e
coordinata prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato.
La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di
coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore
organizza autonomamente l’attività lavorativa”. I requisiti dei rapporti di para
subordinazione sono il carattere continuativo della prestazione, il suo carattere
coordinato e la prevalente personalità della prestazione offerta dal lavoratore.
È necessario che le modalità di svolgimento della prestazione siano stabilite di
comune accordo tra le parti; quindi, si tratta di un’attività svolta
autonomamente dal soggetto, in assenza di un rapporto di subordinazione
gerarchica rispetto al datore di lavoro. Per quanto riguarda il carattere
continuativo deve trattarsi di una prestazione non episodica, non occasionale,
ma protratta nel tempo. La prevalente personalità riguarda, invece, il fatto che
l’attività svolta dal lavoratore deve qualitativamente essere l’elemento
principale o predominante. Possiamo fare l’esempio che fa il professor Luiso
nel manuale perché è illuminante. Una società instaura un rapporto con un
commercialista per la tenuta della contabilità. Si tratta di un rapporto di para
subordinazione perché il commercialista continua a lavorare come libero
professionista ed è irrilevante che si avvalga di segretarie per lo svolgimento di
questa funzione. Ciò che conta è il suo personale contributo allo svolgimento
della prestazione. Per quanto riguarda gli esempi menzionati dal codice, ossia i
rapporti di agenzia e rappresentanza, dobbiamo semplicemente ricordare che
il rapporto di agenzia, oggetto di un contratto ai sensi dell’art. 1746, è quello
con il quale l’agente si impegna a promuovere dietro corrispettivo la
conclusione di contratti in una determinata zona per conto dell’azienda
proponente. Per quanto riguarda la differenza tra agente e rappresentante è
che il primo è incaricato della promozione e della stipulazione di contratti per
conto dell’impresa, mentre il secondo è colui che ha lo specifico incarico di
stipulare i contratti per conto dell’azienda proponente.
I nn. 4 e 5 sono relativi, rispettivamente, ai rapporti di lavoro dei dipendenti di
enti pubblici c.d. economici e di altri enti pubblici. Sono rapporti che non
hanno più particolare significato perché dal 1998 il rapporto di impiego con le
PA in generale è stato quasi completamente privatizzato, ossia assoggettato
alle norme di diritto privato, salvo per un numero limitato di categorie. Per
queste limitate categorie (militari, magistrati e docenti universitari) rimane la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, che era quella che in origine
riguardava tutti i rapporti di pubblico impiego. Ricordiamo che, mentre in linea
di principio la giurisdizione del giudice amministrativo si limita a valutare la
legittimità degli atti amministrativi, nell’ambito della c.d. giurisdizione esclusiva
la cognizione si estende anche ai diritti soggettivi della parte, escludendo
appunto la giurisdizione del giudice ordinario.
Proprio con riferimento ai rapporti di pubblico impiego possiamo ricordare il
d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, recante norme generali sull’ordinamento del
lavoro alle dipendenze dell’amministrazioni pubbliche e successive
modificazioni, nello specifico l’art. 63. L’articolo stabilisce la devoluzione al
giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro di tutte le controversie
relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle PA, con l’eccezione dei casi
che abbiamo menzionato. Interessante è la parte finale del primo comma, ove
si dice che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario “ancorché vengano in
questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti
ai fini della decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi. L’impugnazione
davanti al giudice amministrativo dell’atto amministrativo rilevante nella
controversia non è causa di sospensione del processo”. La norma è importante
perché nella cognizione di una controversia di lavoro relativa a un pubblico
dipendente è abbastanza normale che venga in considerazione un atto
amministrativo presupposto. Possiamo pensare all’esito del concorso in virtù
del quale il pubblico dipendente è stato assunto. Nel caso in cui il giudice
ordinario ritenga che questo atto amministrativo sia illegittimo non può,
ovviamente, annullarlo. Tuttavia, egli può disapplicarlo, decidendo della
controversia come se quell’atto non esistesse. Vengono segnati così i confini
dei poteri della giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica
amministrazione. Molto importante è anche il secondo comma della norma: “Il
giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i
provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla
natura dei diritti tutelati”. Generazioni su generazioni di studenti avevano
imparato che il giudice ordinario non poteva condannare la PA, né emanare
provvedimenti costitutivi nei suoi confronti. Questo insegnamento è ormai
vanificato dal secondo comma dell’art. 63.
LA GIURISDIZIONE e LA COMPETENZA:
Con riferimento alla giurisdizione va rilevato che non esistono norme
particolari. Va però segnalata una disposizione contenuta nel regolamento n.
1215/2012 – il c.d. regolamento Bruxelles Ibis – relativo a competenza
giurisdizionale, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia civile e
commerciale. L’art. 23 del regolamento stabilisce che: “Le disposizioni della
presente sezione [Competenze in materia di contratti individuali di lavoro]
possono essere derogate solo da un accordo: 1) posteriore al sorgere della
controversia; o 2) che consenta al lavoratore di adire un’autorità
giurisdizionale diversa da quelle indicate nella presente sezione”.
Per quanto riguarda la competenza, il riferimento è all’art. 413. La norma dice
chiaramente che le controversie individuali di lavoro sono in primo grado di
competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro. Il discorso sulle
sezioni specializzate agrarie va qui modificato con riferimento alle sezioni
lavoro. Quasi tutti i tribunali di una certa dimensione hanno una sezione
ordinaria e almeno una sezione lavoro. La sezione lavoro non è una sezione
specializzata, ma un modo di ripartizione del lavoro all’interno di un ufficio
giudiziario. Quindi nei rapporti tra sezione ordinaria e sezione lavoro non
sorgono problemi di competenza in senso proprio. Questo per quanto riguarda
la competenza verticale.
L’art. 413 fissa al terzo comma anche tre criteri per determinare la competenza
orizzontale o per territorio, individuando tre fori concorrenti: il luogo in cui è
sorto il rapporto di lavoro, il luogo in cui si trova l’azienda (facendo riferimento
alla sede effettiva in cui si concentrano la direzione e l’amministrazione
dell’azienda, sede che può anche non coincidere con la sede legale), nonché il
luogo in cui si trova una dipendenza dell’azienda presso la quale il lavoratore è
addetto o prestava la sua opera al momento della cessazione del rapporto. Più
di recente per le controversie relative ai rapporti di lavoro parasubordinato è
stato individuato un foro diverso, che non è concorrente con gli altri tre, ma è
esclusivo. Il quarto comma stabilisce che “Competente per territorio per le
controversie previste dal n. 3 dell’art. 409 è il giudice nella cui circoscrizione si
trova il domicilio dell’agente, del rappresentante di commercio, ovvero del
titolare degli altri rapporti di collaborazione di cui al predetto n. 3 dell’art.
409”. Per il pubblico impiego (quinto comma) è competente il giudice nella cui
circoscrizione ha sede l’ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al
momento della cessazione del rapporto. Ciò significa che non trova
applicazione il c.d. foro erariale previsto dall’art. 25, che prevede – per le cause
nelle quali è parte un’amministrazione dello Stato – la competenza del giudice
del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto su
trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie.
L’art. 413 prevede, infine, una norma di chiusura: “Qualora non trovino
applicazione le disposizioni dei commi precedenti, si applicano quelle dell’art.
18”. Il riferimento è, in realtà anche all’art. 19. Queste norme disciplinano il
foro generale delle persone fisiche e il foro generale delle persone giuridiche.
La norma conclude stabilendo la nullità assoluta delle clausole derogative della
competenza per territorio. Alcuni manuali sottolineano il possibile contrasto
con l’art. 23 del regolamento Bruxelles Ibis riguardante, come abbiamo detto,
accordi di deroga della competenza in materia contrattuale, purché successivi
al sorgere della controversia. In realtà la norma del nostro codice non fa
distinzione. Il riferimento è, a giudizio di Silvestri, alle clausole derogative della
competenza ex ante, ossia quelle clausole inserite in un contratto di lavoro.
IL MUTAMENTO DEL RITO:
Il rito del lavoro è un rito a cognizione piena ed esauriente, ma comunque
speciale e deve essere utilizzato quando venga in considerazione una
controversia in una materia enunciata dall’art. 409. Dobbiamo quindi chiederci
cosa succede se una controversia che rientra in tale ambito sia iniziata per
errore con le forme del giudizio ordinario di cognizione o ricorra l’ipotesi
inversa.
Si tratta di stabilire se il legislatore considera la scelta corretta del rito come
una condizione di procedibilità della domanda o meno, ossia come una
condizione che, se soddisfatta, consente al giudice di arrivare ad una decisione
sul merito della controversia, intendendo per merito la fondatezza o
infondatezza della domanda proposta. Se il legislatore avesse configurato la
scelta del rito come condizione di procedibilità della domanda, nel caso in cui il
giudice si accorgesse, ex officio o su eccezione di parte, che il rito non è
corretto avrebbe una sola possibilità: dichiarare questo errore con una
sentenza ex art. 279, ossia con una pronuncia su questioni di rito a carattere
impediente. In realtà, se noi consideriamo gli artt. 426 e 427 capiamo che le
cose non stanno così. L’errore nella scelta del rito non è condizione di
improcedibilità della domanda, essendo possibile il mutamento del rito. Sorge
spontanea una domanda. Sulla base di quali elementi si valuta se si è in
presenza di una controversia individuale di lavoro ex art. 409? Il giudice compie
questa valutazione sulla base della domanda, quindi sulla base delle allegazioni
e della situazione sostanziale indicata nella domanda stessa. Se la verifica dà
esito negativo, il giudice non si limita a dire che il rito non è quello giusto
chiudendo il processo con sentenza, ma dispone il mutamento del rito. Se
invece la verifica dà esito positivo il processo va avanti, si procede con
l’istruttoria sul merito e alla fine si vedrà se il diritto vantato dall’attore sussiste
o meno. Se sussiste il giudice verificherà in quella sede se è effettivamente
riconducibile a quel rapporto di lavoro che l’attore aveva dedotto proponendo
la domanda con rito del lavoro. Se il giudice accerta, invece, che il diritto esiste,
ma non è riconducibile a un rapporto di lavoro rigetterà la domanda nel
merito. È quindi una verifica che viene compiuta in prima battuta sulla
domanda, ma che può essere ripetuta nel corso del processo.
Con riferimento a quelli che vengono chiamati passaggi di rito, si pone un
problema. Bisogna vedere se c’è solo un mutamento di rito legato al fatto di
aver iniziato la causa con il rito sbagliato, o se c’è una vera e propria questione
di competenza in senso proprio, ad esempio un problema di competenza per
valore. Facciamo un esempio. Consideriamo una causa di valore inferiore a
€5.000. Se la causa riguarda una controversia individuale di lavoro ex art. 409 è
comunque competente il tribunale. Se invece si tratta di una causa ordinaria,
per valore è competente il giudice di pace. Occorre, quindi, stare molto attenti
nel capire se quando si parla di difetto di competenza si fa riferimento al rito
utilizzato o alla competenza in senso proprio.
Per il rilievo della competenza dobbiamo, innanzitutto, fare riferimento all’art.
428, che però qui fa riferimento ad un’incompetenza territoriale. In questo
caso il problema del passaggio di rito non si pone, in quanto si tratta di una
causa di lavoro proposta ad un giudice incompetente per territorio. La norma –
rubricata “Incompetenza del giudice” – afferma: “1. Quando una causa relativa
ai rapporti di cui all’art. 409 sia stata proposta a un giudice incompetente,
l’incompetenza può essere eccepita dal convenuto soltanto nella memoria
difensiva di cui all’art. 416 ovvero rilevata d’ufficio dal giudice non oltre
l’udienza di cui all’art. 420. – 2. Quando l’incompetenza sia stata eccepita o
rilevata ai sensi del comma precedente, il giudice rimette la causa al tribunale
in funzione di giudice del lavoro, fissando un termine perentorio non superiore
a trenta giorni per la riassunzione con rito speciale”. Questa è una mera ipotesi
di proposizione della domanda nelle forme corrette, ma dinanzi ad un giudice
territorialmente incompetente e comporta semplicemente una rimessione
della causa verso il giudice effettivamente competente.
I veri passaggi di rito, cioè il passaggio dal rito ordinario al rito speciale e
viceversa, sono regolati dagli artt. 426 e 427. Nell’art. 426 – “Passaggio dal rito
ordinario al rito speciale” – è previsto che il giudice fissi con ordinanza
l’udienza di cui all’art. 420 e il termine perentorio entro il quale le parti
dovranno provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi
mediante deposito di memoria e documenti in cancelleria.
Questa norma aveva un senso prima delle ultime riforme del processo civile,
quando sussisteva ancora una grande differenza per ciò che riguarda il regime
delle preclusioni, molto rigoroso nel processo del lavoro rispetto al giudizio
ordinario. Questa fissazione del termine oggi non ha un gran senso. La cosa
importante da ricordare è che se si sono già verificate nel processo ordinario
delle preclusioni rispetto allo svolgimento di determinate attività, queste
stesse attività non potranno essere poi compiute nel rito del lavoro nonostante
il passaggio di rito.
Secondo l’art. 427 – “Passaggio dal rito speciale al rito ordinario” – il giudice,
quando rileva che una causa promossa nelle forme del rito del lavoro non
rientra tra le materie previste dall’art. 409, si trova di fronte a due possibili
ipotesi. Se la competenza per valore e per territorio è comunque del tribunale
non c’è nessun particolare problema, dovendo il giudice limitarsi a verificare
che gli atti siano messi in regola con le disposizioni tributarie (gli atti del
processo del lavoro hanno un trattamento privilegiato che non coincide con
quello del processo ordinario). Se invece la competenza è di un altro giudice il
giudice deve optare per una rimessione con ordinanza al giudice competente,
fissando un termine perentorio non superiore a trenta giorni per la
riassunzione con il rito ordinario. Quindi, nell’ipotesi precedente della causa di
valore inferiore a €5.000 promossa dinanzi al tribunale come causa di lavoro,
ma in realtà legata ad un rapporto sostanziale di tipo diverso, il giudice
rimetterà le parti con ordinanza dinanzi al giudice di pace, fissando il termine
per la riassunzione con rito ordinario. L’ultimo comma della norma afferma che
in questo caso le prove acquisite durante il rito speciale avranno l’efficacia
consentita dalle norme ordinarie. Questa specificazione è necessaria in quanto
la materia probatoria nell’ambito del rito del lavoro prevede la possibilità di
assumere prove anche al di là dei limiti previsti per il rito ordinario.
In particolare, il giudice dispone di ampi poteri di iniziativa istruttoria
esercitabili ex officio, cosa che non succede nel processo di cognizione
ordinario. Per quanto riguarda le prove di cui il giudice ha disposto ex officio
l’assunzione, queste conservano comunque validità anche dopo il passaggio di
rito.
In ogni caso, i passaggi di rito sono disposti con ordinanza. Non avendo le
ordinanze carattere decisorio sono sempre modificabili o revocabili dal giudice
sia d’ufficio, sia su istanza di parte. La questione della correttezza del rito
intrapreso può essere riconsiderata o riproposta di fatto fino alla pronuncia
della sentenza.
L'INSTAURAZIONE DEL PROCESSO.
GLI ATTI INTRODUTTIVI:
Gli atti introduttivi non si differenziano molto, quanto a contenuto, dagli atti
introduttivi del processo ordinario di cognizione, se non per il fatto che il rito
del lavoro è un processo da ricorso.
Il ricorso introduttivo contiene l’editio actionis nei suoi vari elementi.
L’art. 414 afferma espressamente che: “La domanda si propone con ricorso, il
quale deve contenere:
1)l’indicazione del giudice;
2)il nome, il cognome, nonché la residenza o il domicilio eletto dal ricorrente
nel comune in cui ha sede il giudice adito, il nome, il cognome e la residenza o
il domicilio o la dimora del convenuto; se ricorrente o convenuto è una
persona giudica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, il ricorso
deve indicare la denominazione o ditta nonché la sede del ricorrente o del
convenuto;
3)la determinazione dell’oggetto della domanda;
4)l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda
con le relative conclusioni;
5)l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi
e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione.
Ai sensi dell’art. 415 il ricorso è depositato nella cancelleria del giudice
competente insieme con i documenti in esso indicati. Il giudice fissa con
decreto entro cinque giorni dal deposito la prima udienza di discussione, nella
quale le parti devono comparire personalmente. Il tutto è poi notificato al
convenuto. Ciò significa che la vocatio in ius è opera dell’ufficio, a differenza
del giudizio ordinario che vede la vocatio come parte integrante dell’atto di
citazione. Tra il giorno del deposito del ricorso e l’udienza di discussione ex art.
420 non devono decorrere più di sessanta giorni.
Per quanto riguarda la costituzione del convenuto, questa si compie
depositando una memoria difensiva nei termini di cui all’art. 416, quindi
almeno dieci giorni prima dell’udienza. Nella memoria difensiva devono essere
proposte a pena di decadenza le eventuali domande riconvenzionali, nonché le
eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio. Inoltre,
sempre in questa memoria il convenuto deve prendere posizione in maniera
precisa e non limitata a una generica contestazione circa i fatti affermati
dall’attore a fondamento della domanda, proporre tutte le sue difese in fatto e
in diritto e indicare specificamente, sempre a pena di decadenza, i mezzi di
prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve
contestualmente depositare.
LA COSTITUZIONE e LA DIFESA PERSONALE DELLE PARTI:
Secondo l’art. 417, in primo grado la parte può stare in giudizio personalmente
quando il valore della causa non eccede €129,11. È una norma assolutamente
ridicola perché nessuna causa di lavoro ha un valore non eccedente tale
somma.
L’UDIENZA DI DISCUSSIONE DELLA CAUSA:
Disciplinata dall’art. 420, essa è il fulcro del processo del lavoro. Nell’idea del
legislatore questa doveva essere l’unica udienza del procedimento.
Ovviamente la cosa in concreto non accade, in quanto se c’è necessità di
attività istruttoria è improbabile che questa venga svolta nell’udienza di cui
stiamo parlando. La ratio dell’idea dell’udienza unica si rifà ai principi che
caratterizzano questo tipo di procedimento, ossia oralità, immediatezza e
concentrazione.
- Il principio di oralità si riferisce a uno scambio dialettico tra le parti e i loro
difensori ed il giudice.
- Il principio di immediatezza comporta un rapporto privo di intermediazioni
tra l’assunzione della prova e la decisione finale. Ciò significa che il giudice
dinanzi al quale le prove sono assunte deve essere anche il giudice che prende
la decisione. Il suo convincimento, infatti, si forma proprio sulla base delle
prove alla cui assunzione ha assistito.
- Il principio di concentrazione, infine, postula che non vi siano interruzioni
temporali tra l’assunzione delle prove, la discussione finale e la deliberazione
della sentenza. Questo ha lo scopo di garantire che la memoria del giudicante
che ha assistito all’assunzione delle prove non si volatilizzi con il passare del
tempo.
Precisati i principi ispiratori al processo del lavoro torniamo all’udienza di
discussione della causa. Il primo comma indica gli adempimenti che deve
compiere il giudice: l’interrogatorio libero delle parti e il tentativo di
conciliazione.
In anni più recenti alla norma è stata aggiunta una parte che impone al giudice
di formulare una proposta transattiva o conciliativa. Molti manuali mettono in
evidenza l’assurdità di una previsione di questo tipo, in quanto è improbabile
che il giudice, sulla base dei soli atti introduttivi del giudizio riesca a formulare
ragionevolmente una proposta di tale genere. Ancora più assurda appare la
previsione delle conseguenze, non tanto della mancata comparizione
personale delle parti, che vede dei precedenti già nel processo ordinario, ma
del rifiuto della proposta. La norma prevede, infatti, che se il rifiuto non è
adeguatamente giustificato il giudice può desumerne argomenti di prova
(“comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio” ai sensi dell’art.
116). È assurdo prevedere una sanzione per un rifiuto in assenza di giustificati
motivi: in questa fase i giustificati motivi sono praticamente impossibili da
configurare e non si capisce su quali basi possano essere valutati dal giudice.
Il secondo comma afferma che “Le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da
un procuratore generale o speciale, il quale deve essere a conoscenza dei fatti
della causa. La procura deve essere conferita per atto pubblico o scrittura
privata autenticata e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare o
transigere la controversia. La mancata conoscenza, senza gravi ragioni, dei fatti
della causa da parte del procuratore è valutata dal giudice ai fini della
decisione”. Su questa previsione ci sarebbe moltissimo da dire. È una
previsione che, in linea di principio, tende a vanificare il significato
dell’interrogatorio libero della parte presente personalmente al processo. La
funzione dell’interrogatorio libero (o di chiarificazione) è quella di consentire al
giudice di conoscere i fatti della causa dalla viva voce della parte interessata.
Questo si verifica più raramente se la parte può essere sostituita da un
rappresentante sostanziale. Il medesimo problema si pone, ad esempio, nella
mediazione, dove la più recente giurisprudenza della Cassazione sostiene che
la parte può essere sostituita dal soggetto che abbia una procura sostanziale,
intesa come una procura notarile conferita con atto pubblico o scrittura privata
autenticata. Nella mediazione, come anche in questa ipotesi (ma anche nel
processo ordinario) la giurisprudenza e parte della dottrina sostengono che la
parte può essere rappresentata dal suo stesso difensore, a condizione che il
difensore abbia oltre alla procura alle liti una procura sostanziale che gli
consenta di transigere o conciliare la controversia. Ovviamente, il difensore
interpellato nell’interrogatorio libero non darà le stesse risposte che darebbe
la parte direttamente coinvolta nella controversia. È un problema molto
discusso, sul quale esistono opinioni diverse. Dobbiamo analizzare la struttura
di questi primi atti e confrontarli con quelli del giudizio ordinario di cognizione.
L’art. 185 stabilisce che l’interrogatorio libero delle parti e il tentativo di
conciliazione ha luogo solo su richiesta congiunta delle parti. Anche qui le parti
hanno facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale,
quindi il problema si pone negli stessi termini. L’art. 185bis prevede, inoltre, la
facoltà del giudice di formulare una proposta transattiva o conciliativa,
indipendentemente da qualunque istanza di parte. Le norme, esattamente
come quelle del processo del lavoro, mirano ad incentivare la possibilità delle
parti di raggiungere un accordo, alleggerendo così il carico giudiziario. In realtà,
raramente si verifica la conciliazione perché, come è noto, i giudici di norma
sono dei pessimi conciliatori.
Se la conciliazione riesce si forma processo verbale e il verbale di conciliazione
ha efficacia di titolo esecutivo (terzo comma). Se la conciliazione non riesce e il
giudice ritiene la causa matura per la decisione, ai sensi del quarto comma
invita le parti alla discussione e pronuncia sentenza dando lettura del
dispositivo. Lo stesso accade nel caso in cui sorgano questioni pregiudiziali di
rito o preliminari di merito che il giudice ritiene rilevanti: in tal caso il giudice
decide anche con sentenza non definitiva. La norma chiarisce quali sono
queste questioni, parlando di questioni attinenti alla giurisdizione o alla
competenza o ad altre pregiudiziali (condizioni dell’azione, ecc.) la cui
decisione può definire il giudizio. In questo caso la questione può essere decisa
dal giudice nel senso di consentire la prosecuzione del rito (e quindi l’esame
del merito), con una sentenza che per questo motivo sarà non definitiva.
Tornando alla parte finale del primo comma dell’art. 420, se non ricorrono
tutte queste ipotesi di pronuncia nel merito o su questioni preliminari o
pregiudiziali e quindi se l’udienza è destinata a proseguire con la trattazione,
“Le parti possono, se ricorrono gravi motivi, modificare le domande, eccezioni
e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice”. Il processo del
lavoro è dominato dal c.d. principio di preclusione, nel senso che vi sono
determinate attività che vanno esaurite negli atti introduttivi o, per gravi
motivi e previa autorizzazione del giudice, in questa stessa udienza.
Se non ricorre nessuna delle ipotesi analizzate finora – non c’è conciliazione, la
causa non è matura per la decisione, non ci sono questioni preliminari o
pregiudiziali a carattere impediente – il giudice ammette i mezzi di prova
proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima, se
ritiene che siano rilevanti, disponendo con ordinanza per la loro assunzione
(quinto comma). Il riferimento è alle prove dedotte dalle parti negli atti
introduttivi e ad eventuali prove che esse non avevano potuto dedurre per
cause a loro non imputabili. Il giudice provvede alla valutazione di
ammissibilità e rilevanza della prova, disponendone l’immediata assunzione.
Qualora ciò non sia possibile, ove ricorrano giusti motivi, il giudice fissa una
nuova udienza concedendo alle parti il deposito in cancelleria di note difensive.
Nel caso in cui addirittura vengano ammessi nuovi mezzi di prova, viene
sempre fissata una nuova udienza, ma viene autorizzata la controparte a
dedurre controprove. L’udienza successiva deve essere molto ravvicinata. Lo
stesso art. 420 prevede che essa debba tenersi non oltre dieci giorni dalla
prima udienza. Nella prassi questo non avviene mai.
Interessante è l’ultimo comma dell’art. 420, il quale prevede che le udienze di
mero rinvio sono vietate. Anche questa è una di quelle norme che sono
rispettate molto raramente.
I POTERI ISTRUTTORI DEL GIUDICE:
Di norma il giudice, salvo limitate eccezioni, non può disporre d’ufficio
l’assunzione di prove. Nel processo del lavoro, invece, il giudice ha poteri
istruttori molto ampi. In realtà, il primo comma dell’art. 421 non riguarda i
poteri istruttori del giudice, ma fa riferimento al generico potere di qualunque
giudice di segnalare le irregolarità degli atti e dei documenti e di promuoverne
la sanatoria, sempre che si tratti di vizi formali che non determinino la nullità
dell’atto. Per questo tipo di vizi il giudice assegna anche un termine per
provvedervi.
Il secondo comma parla proprio dei poteri istruttori del giudice, dicendo che il
giudice “può altresì disporre in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo
di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del
giuramento decisorio, nonché della richiesta di informazioni e osservazioni, sia
scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti”. Questi poteri
istruttori sono stati oggetto di moltissimi studi perché rappresentano
un’eccezione rispetto alla regola secondo cui il giudice può formare il suo
convincimento solo ed esclusivamente sulle prove dedotte dalle parti. In
realtà, non siamo in presenza di poteri assolutamente arbitrari e
incondizionati. Il giudice incontra dei limiti nel disporre l’assunzione dei mezzi
di prova che ritiene più opportuni per pervenire a una decisione nel merito.
Innanzitutto, secondo il principio per cui il giudice deve giudicare iuxta, alligata
et probata partium, i poteri istruttori del giudice possono essere esercitati solo
in relazione ai fatti specificamente allegati dalle parti. Ulteriormente, questi
poteri istruttori sono esercitabili solo quando la fonte di prova emerge
direttamente dagli atti di parte. Infine, elemento più importante di tutti,
l’esercizio di questi poteri ha un carattere supplementare, integrativo e mai
sostitutivo della necessaria attività delle parti. Ciò significa che il giudice non
potrà mai utilizzare questi poteri istruttori per sollevare una delle parti
dall’onere della prova che incombe su quella stessa parte. Di conseguenza,
possiamo dire che questi poteri possono essere utilizzati solo se una volta
assunte le prove proposte dalle parti risultano ancora profili di incertezza.
Luiso richiama una norma che vale per il processo penale, ma chiarisce
abbastanza bene i termini del problema. Si tratta dell’art. 507 c.p.p., dove si
dice che “Terminata l’acquisizione delle prove, il giudice, se risulta
assolutamente necessario, può disporre, anche d’ufficio, l’assunzione di nuovi
mezzi di prova”. Possiamo, quindi, dire che anche nel processo civile, assunte
le prove dedotte dalle parti, il giudice, se risultano ancora degli elementi di
incertezza, può esercitare questi suoi poteri di iniziativa istruttoria ufficiosa.
Ma questo solo dopo che ciascuna parte ha provveduto a fare assumere le
prove indicate e senza che l’uso dei poteri istruttori del giudice risulti essere
stato utilizzato per esonerare una parte o l’altra dall’onere probatorio che
incombeva su di lei. Dato interessante è la possibilità che questi poteri siano
esercitabili anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del
giuramento decisorio. Anche se la norma non lo dice, si ritiene che questi limiti
siano di fatto i limiti posti dal codice civile all’utilizzazione della prova
testimoniale. Ricordiamo che nel nostro ordinamento la prova ritenuta più
solida è quella documentale; quindi, l’utilizzazione della prova testimoniale
incontra tutta una serie di limiti molto particolari. Ad esempio, in relazione ai
contratti e alle rimessioni di debito, l’art. 2721 pone un limite di valore molto
basso che è ormai convenzionalmente superato anche nel processo ordinario
di cognizione. Altri limiti superabili dal giudice del lavoro riguardano la
disciplina dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento con
disposizioni diverse a seconda che questi patti siano anteriori o
contemporanei, oppure successivi alla redazione del documento. Però si ritiene
che i poteri istruttori del giudice siano tali da consentire che nell’ambito della
simulazione la prova per testi possa essere fornita anche dalle parti e non solo
dai terzi. Cadrebbe anche il limite di cui all’art. 2729 secondo comma, che
esclude l’utilizzabilità delle presunzioni semplici nei casi in cui è esclusa la
prova per testi. Infine, con riferimento alla prova documentale richiesta ad
probationem o ad substantiam, si ritiene che la prova testimoniale possa
essere ugualmente disposta dal giudice del lavoro, ma solo quando la prova
scritta sia richiesta ad probationem, riguardando la prova scritta ad
substantiam la stessa validità del documento e quindi si tratta di un limite che
neanche il giudice può superare.
Un’altra peculiarità dei poteri istruttori del giudice è prevista dall’ultimo
comma dell’art. 421, secondo il quale “il giudice, ove lo ritenga necessario, può
ordinare la comparizione anche di quelle persone che siano incapaci di
testimoniare a norma dell’art. 246 o a cui sia vietato a norma dell’art. 247”. Si
tratta dei limiti soggettivi all’utilizzo della prova testimoniale.
Vi sono anche due prove peculiari nel rito del lavoro, ossia la richiesta di
informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali (art. 425) e l’accesso sul
luogo di lavoro (art. 421, penultimo comma). Ambedue possono essere
disposte solo su istanza di parte. Con riferimento all’accesso sul luogo di lavoro
c’è una differenza rispetto alla prova equivalente nel processo ordinario –
l’ispezione – che è una delle pochissime prove che il giudice può ordinare
d’ufficio.
LE ORDINANZE INTERINALI:
Nel processo ordinario di cognizione sono disciplinate dagli artt. 186bis e
186ter. Cronologicamente nascono prima le ordinanze interinali del processo
del lavoro, in quanto quelle del processo ordinario sono state introdotte dalla
riforma del 1990.
L’ordinanza per il pagamento delle somme non contestate. Ai sensi del primo
comma dell’art. 423, il giudice “su istanza di parte, in ogni stato e grado del
giudizio, dispone con ordinanza il pagamento delle somme non contestate”. Il
richiamo è all’art. 186bis. L’ordinanza può essere richiesta sia dall’attore che
dal convenuto, come dimostra la formula “su istanza di parte”. L’oggetto del
provvedimento è chiaramente il pagamento di una somma, in merito alla quale
non vi sia stata contestazione. In merito all’elemento della non contestazione
sono stati versati fiumi di inchiostro. Alcuni hanno addirittura ritenuto che la
non contestazione riguardi i fatti costitutivi del diritto in virtù del quale si
chiede il pagamento della somma, col risultato che questa ordinanza potrebbe
essere concessa solo quando vi è un riconoscimento anche implicito dei fatti
che fondano il diritto al pagamento della somma. Secondo Luiso, la cui tesi
sembra particolarmente attendibile, la non contestazione è qualcosa di molto
più semplice e riguarda sostanzialmente l’entità della somma richiesta.
Facciamo un esempio. Tizio chiede a Caio in giudizio il pagamento di 100. Di
questi 100, 20 sarebbero dovuti per straordinari, 30 per ferie non godute. Caio
non contesta globalmente la somma, ma solo i 30 riguardanti le ferie. In questa
ipotesi, Tizio può chiedere al giudice un’ordinanza per il pagamento dei 70 non
contestati. Si tratta comunque di un tipo di provvedimento che non ha mai
avuto molto successo. È importante ricordare che questo provvedimento non
può essere mai pronunciato in favore della parte rimasta contumace. Il
riferimento, in questo caso, non è all’art. 423, bensì all’art. 186bis, il quale
afferma che l’ordinanza può essere concessa solo a favore delle parti
costituite. Ricordiamo che la contumacia è il fenomeno che si verifica quando
le parti non si costituiscono in giudizio, quindi non equivale a non
contestazione. Per questo la parte rimasta contumace non può chiedere
questo tipo di provvedimento. Naturalmente, questa ordinanza è un
provvedimento provvisorio. La sentenza finale sul merito potrà assorbire
l’ordinanza confermandone il contenuto, oppure negare l’esistenza del diritto
del beneficiario di questa ordinanza e disporre la restituzione di quanto pagato
in applicazione dell’ordinanza stessa.
L’ordinanza per il pagamento di una somma a titolo provvisionale. Prevista dal
secondo comma dell’art. 423, riguarda la possibilità del giudice di “disporre
con ordinanza il pagamento di una somma a titolo provvisorio, quando ritenga
il diritto accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la
prova”. Anche in questo caso è necessaria l’istanza di parte. Questo tipo di
provvedimento può essere emesso solo ed esclusivamente a favore del
lavoratore. È abbastanza evidente che si tratti di un accertamento sommario
sull’esistenza del diritto e del credito. Possiamo anche notare la somiglianza
con la condanna generica ex art. 278. La norma prevede che “Quando è già
accertata la sussistenza di un diritto, ma è ancora controversa la quantità della
prestazione dovuta, il collegio, su istanza di parte, può limitarsi a pronunciare
con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza
che il processo prosegua per la liquidazione. In tal caso il collegio, con la stessa
sentenza e sempre su istanza di parte, può altresì condannare il debitore al
pagamento di una provvisionale nei limiti della quantità per cui ritiene già
raggiunta la prova”.
L’art. 423 afferma al terzo comma che le due ordinanze costituiscono titolo
esecutivo, ma aggiunge al comma successivo che l’ordinanza per il pagamento
di una somma a titolo provvisionale è revocabile con sentenza che decide la
causa. Il che è abbastanza ovvio, nel senso che il giudice nel momento in cui
pronuncia la sentenza sul merito dovrà rivalutare la questione; quindi, vedere
se effettivamente sussiste il credito del lavoratore ed è adeguatamente
provato, posto che il primo accertamento è un accertamento sommario.
L’ACCERTAMENTO PREGIUDIZIALE SULL’EFFICACIA, VALIDITA’ ED
INTERPRETAZIONE DEI CONTRATTI E ACCORDI COLLETTIVI:
L’art. 420bis fa da pendant all’art. 64 del d.lgs. 165/2001 e prevede una
particolare forma di accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed
interpretazione dei contratti e accordi collettivi. L’art. 420 bis riguarda i
contratti collettivi c.d. di diritto comune, cioè quelli che riguardano i rapporti di
lavoro privato, mentre l’art. 64 riguarda i rapporti di pubblico impiego. Il
meccanismo è interessante, in quanto richiama la questione pregiudiziale
sottoposta al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione europea che, proprio
perché è un accertamento pregiudiziale, precede e condiziona la decisione sul
merito della controversia. La norma stabilisce che: “Quando per la definizione
di una controversia di cui all’art. 409 è necessario risolvere in via pregiudiziale
una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle
clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale, il giudice decide con
sentenza tale questione, impartendo distinti provvedimenti per l’ulteriore
istruzione o, comunque, per la prosecuzione della causa fissando una
successiva udienza in data non anteriore a novanta giorni”. Questa sentenza
interpretativa è impugnabile solo ed esclusivamente con ricorso immediato per
cassazione, da proporsi entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’avviso di
deposito della sentenza stessa. In questo caso, il giudizio a quo viene sospeso
in attesa della decisione della Cassazione. Se la sentenza pronunciata dal
giudice a quo non viene impugnata passa in giudicato e l’interpretazione data
al contratto collettivo dal giudice della causa diventa vincolante. La
vincolatività permane anche nel caso in cui la decisione sul merito della causa
venga impugnata con appello e con ricorso per cassazione. Altrettanto
vincolante è la sentenza della Cassazione nel caso di impugnazione della
sentenza interpretativa del giudice a quo. Quest’ultima resta vincolante anche
se il procedimento si estingue e nel caso in cui la medesima domanda venga
riproposta tra le stesse parti. Se una causa avente il medesimo oggetto viene
proposta tra altre parti non si produce questo vincolo, ma il meccanismo è lo
stesso.
LA FASE DECISORIA NEL RITO DEL LAVORO:
L’art. 429, rubricato “Pronuncia della sentenza”, presenta due distinte ipotesi.
La prima ipotesi è quella di una sostanzialmente semplice. In questo caso il
giudice, esaurita la discussione orale e ascoltate le conclusioni delle parti,
pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura sia del
dispositivo, sia dei motivi in fatto e in diritto a sostegno del dispositivo. La
norma richiama l’art. 281sexies (“Decisione a seguito di trattazione orale”). Si
tratta di una modalità semplificata. La seconda ipotesi disciplina le cause più
complesse e prevede che, esaurita la discussione e ascoltate le conclusioni
delle parti, il giudice si limiti a leggere il dispositivo della sentenza, fissando
nello stesso dispositivo un termine non superiore a sessanta giorni un termine
per l’integrazione del dispositivo con la motivazione. C’è da dire che l’ipotesi
cui fa riferimento questa norma, richiamando con riguardo alla discussione
l’art. 420 – il quale parla di “causa matura per la decisione” e quindi della
successiva discussione orale – prevede la possibilità per il giudice, se lo ritiene
necessario e su richiesta delle parti, di concedere alle stesse parti un termine
per il deposito di note difensive, rinviando la causa all’udienza
immediatamente successiva alla scadenza di tale termine per la discussione e
la pronuncia della sentenza. In realtà la discussione della causa anche nel
processo del lavoro avviene raramente: nella quasi totalità dei casi essa è
sostituita dallo scambio di note, previsto dallo stesso art. 429.
È importante fare alcune considerazioni sulla possibile scissione del dispositivo
dalla motivazione. La sentenza è tale nel suo complesso, ossia solo quando al
dispositivo viene, nel termine indicato dalla norma (e allegramente superato
nella prassi), allegata la motivazione e vengono insieme depositati. La
motivazione è un elemento indispensabile della sentenza e di qualunque
organo giurisdizionale e no. Dal punto di vista processuale è fondamentale
perché è da questa che la parte soccombente individua i possibili motivi di
impugnazione. Tuttavia, qui ci troviamo in una situazione un po’ particolare,
caratterizzata appunto dalla scissione del dispositivo dalla motivazione. È
importante sottolineare che, quando ciò si verifica, il dispositivo una volta
pronunciato non può essere modificato, corretto o integrato dal giudice. Con la
pronuncia, infatti, il giudice esaurisce la sua funzione. L’eventuale contrasto tra
dispositivo e motivazione si risolve a favore del primo. Se il giudice omette di
depositare la motivazione, si è in presenza di una sentenza che si può definire
realmente inesistente. Secondo la dottrina, in questo caso occorre ripercorrere
integralmente la fase decisoria, quindi ripetere la discussione o le note scritte
di fronte a un giudice diverso, il quale, a conclusione di questa fase pronuncerà
il dispositivo e depositerà la motivazione della sentenza.
In relazione alla fase decisoria va segnalato l’ultimo comma dell’art. 429, che
riguarda il pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro. La sentenza, in
questo caso, deve determinate oltre agli interessi nella misura legale “il
maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di
valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con
decorrenza dal giorno della maturazione del diritto”. Si tratta di una
rivalutazione dei crediti del lavoratore. Va anche menzionata la valutazione
equitativa delle prestazioni, che si ha quando sia certo il diritto ma non sia
possibile determinare la somma dovuta. In questo caso il giudice la liquida con
valutazione equitativa.
Ai sensi dell’art. 430, la sentenza deve essere depositata in cancelleria entro
quindici giorni dalla pronuncia e il cancelliere deve darne immediata
comunicazione alle parti. Si tratta di un termine puramente ordinatorio che
viene il più delle volte disatteso.
L’ESECUTORIETA’ DELLA SENTENZA:
L’art. 431 disciplina l’esecutorietà della sentenza. Dobbiamo tenere presente
che quando le norme sono state emanate si era in una situazione in cui le
sentenze di primo grado per definizione non erano esecutive. Potevano essere
provvisoriamente esecutive, ma difettavano ex lege di immediata esecutorietà.
La situazione è completamente cambiata: oggi, tutte le sentenze di primo
grado sono immediatamente esecutive, per cui la norma va attualizzata. Vi
sono però delle differenze che riguardano il soggetto a favore del quale la
sentenza viene pronunciata, ossia il lavoratore o il datore di lavoro.
Se la condanna è a favore del lavoratore, questi può procedere ad esecuzione
forzata anche sulla base del solo dispositivo, quindi può utilizzare come titolo
esecutivo il solo dispositivo. Diversamente, il datore di lavoro per poter
procedere ad esecuzione forzata nel caso in cui la condanna sia a lui favorevole
dovrà attendere il deposito dell’intera sentenza.
L’esecutorietà provvisoria della sentenza di condanna a favore del lavoratore
può essere sospesa solo se alla controparte deriva gravissimo danno (terzo
comma). Diversamente, se la sentenza di condanna è a favore del datore di
lavoro, la sua esecutorietà può essere sospesa – genericamente – per gravi
motivi. Sotto questo profilo, la norma si avvicina all’art. 283, che disciplina la
sospensione dell’esecutorietà della sentenza di condanna resa nel processo
ordinario di cognizione, in quanto l’art. 283 parla di “gravi e fondati motivi”.
La sospensione dell’esecutorietà va richiesta al giudice d’appello.
L’ultimo comma dell’art. 431 richiama l’ultimo comma dell’art. 283,
prevedendo che “se l’istanza per la sospensione dell’esecutorietà è
inammissibile o manifestamente infondata, il giudice, con ordinanza non
impugnabile, può condannare la parte che l’ha proposta ad una pena
pecuniaria non inferiore a €250 e non superiore a €10.000. L’ordinanza è
revocabile con sentenza che definisce il giudizio (d’appello)”.
L’APPELLO:
Giudice competente è la Corte d’appello, nello specifico la sezione lavoro (che
esiste in quasi tutte le Corti d’appello). L’atto introduttivo è un ricorso che
deve contenere gli elementi di cui all’art. 434. Il meccanismo è sempre lo
stesso: ricorso, fissazione dell’udienza con decreto del presidente, termine per
la costituzione dell’appellato, udienza di discussione. La struttura è quindi
identica a quella del giudizio di primo grado.
All’appello del rito del lavoro vengono applicate le norme sul filtro in appello
(artt. 348bis e 348ter), ma la parte più interessante è un istituto peculiare:
l’appello con riserva dei motivi (art. 433, secondo comma).
Questo tipo di appello si ricollega alla possibilità del lavoratore risultato
vittorioso in giudizio di iniziare l’esecuzione sulla base del solo dispositivo.
Infatti, se il lavoratore ha iniziato l’esecuzione della sentenza di condanna sulla
base del solo dispositivo, il datore di lavoro potrà proporre l’appello con riserva
dei motivi. I motivi di appello dovranno essere depositati entro trenta giorni
dalla notificazione della sentenza, ai sensi dell’art. 434. La proposizione
dell’appello con riserva dei motivi serve semplicemente a richiedere la
sospensione dell’esecutorietà della sentenza.
Nel processo del lavoro sono ammissibili i c.d. nova in appello. Non sono
ammesse nuove domande e nuove eccezioni, ma sono ammesse nuove prove
e nuovi documenti se indispensabili alla decisione della causa. Ci siamo
imbattuti nel problema delle prove indispensabili quando abbiamo parlato
dell’appello nel giudizio sommario di cognizione. Anche in questa forma di
appello, quasi a recuperare quello che non si è verificato nel giudizio di primo
grado è prevista la possibilità di dedurre nuovi mezzi di prova, a condizione che
risultino indispensabili. Il concetto di indispensabilità è molto discusso da
dottrina e giurisprudenza. In proposito è illuminante una pronuncia delle
Sezioni Unite del 2017 dove si chiarisce che “Il giudizio di indispensabilità
implica una valutazione sull’idoneità del mezzo istruttorio a dissipare ogni
possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia
gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margine di dubbio,
oppure provando quello che era rimasto non dimostrato o non
sufficientemente dimostrato”. In sostanza, la prova è indispensabile quando
senza ombra di dubbio conferma o nega la ricostruzione dei fatti offerta dal
giudice di prime cure.
IL RITO FORNERO:
Il rito Fornero per i licenziamenti, previsto dalla l. 92/2012, è un procedimento
estremamente articolato del quale tutti auspicano l’abrogazione. È un rito
obbligatorio nel caso in cui si intenda impugnare un licenziamento, a
condizione che esso riguardi un rapporto di lavoro subordinato sorto
anteriormente all’entrata in vigore del Jobs Act del 2015. La parte che riguarda
il rito è disciplinata dai commi 47 e ss.
Il procedimento inizia con un ricorso al tribunale in funzione di giudice del
lavoro. Il ricorso deve contenere gli elementi di cui all’art. 125 è seguito dalla
fissazione dell’udienza di comparizione mediante decreto e dalla notificazione
del ricorso e del decreto al convenuto e dalla sua costituzione.
L’udienza di comparizione delle parti. La dicitura della norma riproduce quanto
visto nel rito sommario del lavoro e nei procedimenti cautelari. Il giudice,
sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio,
procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione che ritiene
indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’ufficio ex art. 421 c.p.c. Anche
nell’ambito di questo procedimento, quindi, il giudice potrà esercitare tutti
quei poteri istruttori esercitabili d’ufficio che caratterizzano il rito del lavoro
(con i limiti già visti). Qui apparentemente il giudice dispone anche di un certo
potere di case management (gestione manageriale della causa), in quanto può
“procedere nel modo che ritiene più opportuno alla trattazione della
controversia”. A conclusione della trattazione provvede con ordinanza
immediatamente esecutiva – esecutività che non può essere sospesa fino alla
definizione del giudizio di opposizione – accogliendo o rigettando la domanda.
Qui iniziano i problemi. Contro questa ordinanza può essere proposta
opposizione con ricorso dinanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento
entro un termine molto breve. L’opposizione da proporsi con ricorso mette in
moto il solito meccanismo che culmina con un’udienza di discussione prima
della quale l’opposto deve costituirsi e, nuovamente, il giudice, sentite le parti
e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo
che ritiene più opportuno agli atti di istruzione che ritiene indispensabili
richiesti dalle parti o disposti d’ufficio ex art. 421 c.p.c. Qui ci sono elementi
che ci fanno pensare a un provvedimento cautelare, ma non siamo nell’ambito
della tutela cautelare; il riferimento all’opposizione fa pensare all’opposizione
a decreto ingiuntivo, quindi a un procedimento che da sommario nella prima
fase si trasforma in procedimento di cognizione ordinaria a tutti gli effetti. Ma
non è finita qui.
Contro questa sentenza pronunciata sull’opposizione all’ordinanza pronunciata
in primo grado non è proponibile appello, ma reclamo davanti alla Corte
d’appello, la quale fissa con decreto l’udienza di discussione e, a conclusione
dell’udienza di discussione provvede con sentenza. In sintesi, abbiamo quindi
uno stranissimo procedimento di primo grado che si conclude con ordinanza.
Contro questa ordinanza può essere proposta opposizione che somiglia
vagamente all’opposizione a decreto ingiuntivo, ma si sviluppa secondo le
peculiarità proprie dell’udienza di discussione del rito del lavoro. Contro la
sentenza con cui si chiude questa seconda fase non è proponibile appello, ma
reclamo alla Corte d’appello. Anche la proposizione del reclamo mette in
movimento un procedimento che assomiglia a tutti gli effetti a un processo
ordinario del lavoro, con un’udienza in cui il giudice provvede alla fase
istruttoria in base alle prove prodotte dalle o disposte d’ufficio. L’udienza si
chiude con sentenza contro la quale è ulteriormente proponibile il ricorso per
cassazione.
Questo procedimento non ha logica. In esso sono confluiti istituti
completamente diversi e sganciati dalla problematica dell’accertamento della
legittimità o meno di un licenziamento (qualche pezzo di tutela cautelare,
qualche pezzo di tutela del decreto ingiuntivo, il reclamo cautelare, il ricorso
per cassazione).
Nel disegno di legge delega per la riforma del processo civile presentato e
approvato dalla Camera poco prima che iniziasse il lockdown dovuto al Covid-
19 si proponeva la totale abrogazione del rito Fornero.
LE CONTROVERSE IN MATERIA DI LOCAZIONE, DI COMODATO e DI AFFITTO:
Le norme del processo del lavoro trovano applicazione non solo in materia di
controversie individuali di lavoro, ma hanno un campo di applicazione più
ampio. L’art. 447bis prevede l’applicazione di questo rito anche alle
controversie in materia di locazione e di comodato di immobili, nonché alle
controversie in materia di affitto di aziende.
Ricordiamo che il codice prevede il procedimento per convalida di licenza o di
sfratto. Tuttavia questo non è l’unico tipo di controversia che può nascere in
materia di locazione, comodato e affitto. Inoltre, anche nei casi in cui sarebbe
esperibile il procedimento di convalida di sfratto, la parte ha facoltà di scelta
tra quel rito sommario e il rito a cognizione piena ma speciale regolato dalle
norme sul rito del lavoro. Il primo comma dell’art. 447 bis dispone che tali
controversie sono disciplinate dalle norme sul rito del lavoro “in quanto
applicabili”. La competenza verticale è ovviamente del tribunale. Dal punto di
vista del territorio è competente il giudice del luogo in cui si trova l’immobile. Il
secondo comma prevede che sono nulle le clausole di deroga alla competenza.
La competenza del tribunale è funzionale, quindi inderogabile.
Quali sono le principali differenze rispetto al processo del lavoro? Innanzitutto
il terzo comma dispone che “il giudice può disporre d’ufficio, in qualsiasi
momento, l’ispezione della cosa e l’ammissione di ogni mezzo di prova, ad
eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni, sia
scritte che orali, alle associazioni di categoria indicate dalle parti”. Sulla base di
questo comma comprendiamo che, anche qui come nel processo del lavoro, il
giudice può disporre d’ufficio l’ammissione di ogni mezzo di prova. Tuttavia,
mentre nel processo del lavoro si fa riferimento al possibile superamento dei
limiti previsti dal codice civile, qui il riferimento manca. Di conseguenza, è
necessario che l’esercizio dei poteri istruttori avvenga nel rispetto dei limiti del
codice civile. Lo stesso terzo comma parla delle informazioni che possono
essere richieste alle associazioni di categoria indicate dalle parti, mentre nel
processo del lavoro la richiesta di informazioni può essere fatta alle
associazioni sindacali. Infine, l’ispezione della cosa può essere disposta anche
d’ufficio come nel processo ordinario, mentre l’accesso al luogo di lavoro
richiede sempre e comunque l’istanza di parte.
Anche in questo caso la pronuncia della sentenza avviene mediante lettura del
dispositivo. Tuttavia, va sottolineato che, per quanto la sentenza sia
provvisoriamente esecutiva, in questo caso si può procedere all’esecuzione
sulla base della sola copia del dispositivo in pendenza del termine per il
deposito della sentenza. Non si distingue tra una parte che può procedere e
una che non può, mentre nel processo del lavoro si distingue tra lavoratore che
può procedere all’esecuzione con il solo dispositivo e datore di lavoro che non
può. Infine, l’efficacia esecutiva e l’esecuzione della sentenza possono essere
sospese solo quando dalle stesse possa derivare all’altra parte gravissimo
danno. Si tratta di un’altra differenza importante perché nel processo del
lavoro il riferimento al gravissimo danno riguarda solo la sospensione
dell’esecutorietà delle sentenze pronunciate a favore del lavoratore.
I METODI DI RISOLUZIONE ALTERNATIVA DELLE CONTROVERSIE.
(ALTERNATIVE DISPUTE RESOLUTIONS):
Si tratta di metodi che mirano a portare alla definizione della controversia
senza che questa sia decisa da un giudice; quindi, si sviluppano prima e di solito
al di fuori di un’aula di tribunale. I metodi alternativi esistono da sempre. Noi ci
occupiamo ovviamente di quelli che riguardano il momento attuale. I metodi
alternativi di risoluzione delle controversie si sono sviluppati a partire dalla
metà degli anni Settanta del secolo scorso negli Stati Uniti per tutta una serie
di circostanze particolari legate alla società americana. Una società che è stata
definita “litigiosa”, in quanto la tendenza a instaurare processi è molto forte.
Era molto forte soprattutto intorno alla metà del secolo scorso. Per questo si è
iniziato a pensare alla possibilità di dirottare una parte delle controversie che
gravavano sulle corti statunitensi statali e federali verso metodi che non
implicassero necessariamente la pronuncia di una sentenza da parte del
giudice. La lettura di questo fenomeno può essere di due tipi: una in bonam
partem, come tentativo di assicurare ai cittadini una giustizia intesa in senso
lato (possibilità di vedere la controversia risolta in tempi più rapidi e a costi più
ridotti di quanto non accadeva davanti al tribunale); una in malam partem,
come volta a fare del ricorso alla giustizia formale dello Stato una sorta di
situazione elitaria, riservata ai casi che a torto o ragione venivano considerati
più importanti in ragione del valore della domanda. Comunque si voglia
leggere il fenomeno, i metodi alternativi si sono sviluppati in forma sempre più
numerosa e consolidata e sono approdati anche in Europa alla fine degli anni
Novanta del secolo scorso. L’UE ha subito colto le potenzialità di questi metodi
alternativi, considerati come funzionali agli obiettivi dell’Unione stessa, ossia
libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali. Questo
perché nell’immaginario – ma la realtà è molto diversa – delle istituzioni
europee i cittadini dei diversi Stati membri dovrebbero intrattenere rapporti
sempre più stretti, dai quali possono nascere controversie transfrontaliere. I
metodi alternativi possono costituire un valido metodo per la risoluzione di
queste controversie per superare i problemi che sorgono relativamente
all’individuazione di un giudice dotato di giurisdizione e della legge applicabile,
soprattutto per il loro carattere privato.
Le alternative al processo, note come ADR (Alternative dispute resolutions)
sono di due tipi: metodi facilitativi e metodi aggiudicativi. I metodi facilitativi
sono volti a consentire alle parti, da sole o con l’interposizione di un soggetto
terzo, di raggiungere una soluzione consensuale in una controversia, soluzione
che sono le parti stesse ad elaborare. I metodi aggiudicativi sono quelli che
portano ad una vera e propria decisione che individua chi ha ragione e chi ha
torto. Basandoci su questa distinzione possiamo dire che nel nostro
ordinamento l’unico metodo veramente aggiudicativo è l’arbitrato, perché gli
arbitri, proprio come i giudici dello Stato, pronunciano una decisione, ossia
stabiliscono chi ha ragione e chi ha torto nell’ambito di una controversia. Nei
metodi facilitativi la decisione non esiste, quindi non c’è una parte vittoriosa o
una parte perdente. La funzione di questi metodi è quella di consentire alle
parti di raggiungere un accordo che entrambe gradiscono. Metodi facilitativi
sono la conciliazione e la mediazione. In realtà, mediazione e conciliazione
sono la stessa cosa, anche se a giudizio di Silvestri queste non sono
determinanti. Il problema della terminologia è legato al fatto che nella
tradizione giuridica di civil law si è sempre parlato soprattutto di conciliazione
(ricordiamo la conciliazione giudiziale o stragiudiziale nel processo di
cognizione, il tentativo di conciliazione obbligatorio nelle cause di lavoro, ecc.).
Il termine mediazione deriva dal linguaggio della tradizione di common law,
dove si preferisce usare il termine mediation.
N.B. Nel nostro ordinamento, mediazione è sempre stato – fino all’avvento
delle ADR – quel contratto per mezzo del quale un soggetto si interpone tra
due parti per la conclusione di un affare. Si tratta di fenomeni completamente
diversi (uno sostanziale e l’altro processuale) e regolati da fonti diverse.
Riassumere in poche battute tutto quello che si potrebbe dire a proposito delle
ADR è impossibile. Per quanto riguarda il nostro ordinamento possiamo dire
che, al di là delle prime iniziative dell’Unione che riguardano alcune
raccomandazioni seguite da un Libro verde sui metodi alternativi, l’atto
normativo più importante è la direttiva sulla mediazione. A questa direttiva ha
fatto seguito un’altra direttiva sui c.d. metodi alternativi per le controversie dei
consumatori. Possiamo dire che la promozione della mediazione nel nostro
ordinamento si deve proprio all’attuazione della direttiva sulle controversie
civili e commerciali del 2008. Si tratta di un documento molto interessante che
fissa alcuni principi basilari, tra cui norme che contengono definizioni.
In particolare, la definizione di mediazione data dalla direttiva è la seguente:
per mediazione si intende il procedimento mediante il quale le parti
raggiungono una soluzione consensuale della controversia, con l’intervento di
un terzo neutrale e imparziale che opera da interfaccia tra le parti, ma che può
essere denominato in qualunque modo (mediatore, conciliatore, ecc.). Nel
nostro ordinamento, proprio in considerazione della tradizione della
conciliazione, il legislatore, nel dare attuazione alla direttiva con d.lgs.
28/2010, ha scelto una soluzione abbastanza strana. Ha denominato
mediazione il procedimento seguito davanti al mediatore e conciliazione
l’accordo eventualmente raggiunto, tant’è che subito dopo l’entrata in vigore
del decreto si era diffuso l’orribile nome media-conciliazione. In ogni caso, ciò
che conta è la posizione del terzo neutrale che funge da catalizzatore,
occupandosi di sentire le ragioni delle parti e aiutandole a raggiungere un
accordo.
Sul soddisfacimento delle esigenze delle parti sorgono diverse interpretazioni.
Secondo la concezione classica della mediazione, le parti devono
essenzialmente trovare una soluzione che privilegi i loro reali interessi. Non a
caso si dice spesso che “la mediazione si svolge all’ombra del diritto”, non nel
senso che è protetta da un ombrello legislativo che la mette al riparo da
pericoli di varia natura, ma nel senso che il diritto è un’altra cosa, sta al di fuori
della mediazione. Questa interpretazione sviluppata all’estremo è accettata e
diffusa solo negli USA, dove paradossalmente un accordo raggiunto in
mediazione potrebbe addirittura essere diverso, se non addirittura contrario a
quello che un’applicazione rigorosa delle norme sulla fattispecie
determinerebbero. Da noi questo non è possibile, in quanto la soluzione
consensuale raggiunta dalle parti può essere differente da quella che il giudice
presumibilmente investito della controversia raggiungerebbe in punto di
diritto, tuttavia non può essere contra legem, se non altro perché l’accordo
raggiunto dalle parti nella mediazione deve essere certificato dai loro avvocati
o dal giudice come conforme all’ordine pubblico e alle norme imperative. È
comunque certo che nell’ambito di un procedimento di mediazione le parti
sono nella posizione di esprimere quelli che sono i loro reali interessi,
realizzando un buon contemperamento delle esigenze di entrambe le parti. Si
dice che una soluzione consensuale concordata tra le parti è un tipo di
soluzione che le parti sono disposte a rispettare e ad attuare spontaneamente.
Si dice anche che se le parti riescono a raggiungere un accordo si mantiene
aperto tra di loro un canale di comunicazione molto importante. Ad esempio,
se la controversia sorge nell’ambito di rapporti commerciali tra due partner
che in condizioni normali hanno lavorato insieme benissimo, risolvendola in
modo consensuale le parti possono tornare a cooperare senza problemi.
Affermazioni di questo genere appartengono a quella che è la retorica della
mediazione e dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie. L’idea che
la risoluzione delle controversie è utopistica. La realtà è che molto spesso il
ricorso a questi metodi ha funzione deflativa del carico giudiziario.
L’ordinamento italiano, infatti, nel momento in cui è stato necessario attuare la
direttiva sulla mediazione ha scelto di rendere la mediazione obbligatoria in un
lungo elenco di cause civili e commerciali. Ciò significa che in questi casi essa è
configurata come condizione di procedibilità della domanda, in assenza della
quale il processo non può proseguire; quindi, occorre che si fermi e che la
parte più diligente si adoperi per soddisfare la condizione di procedibilità prima
di tornare davanti al giudice. Il giudice, nel caso in cui la condizione di
procedibilità non sia stata comunque soddisfatta, chiuderà il processo in rito.
La scelta del legislatore italiano è stata dunque in questa direzione, direzione
che era lasciata aperta dalla direttiva che non precludeva la possibilità di
rendere obbligatorio il tentativo di mediazione. Questa scelta è stata fatta solo
dal legislatore italiano. Anche la Romania aveva adottato una scelta simile,
tuttavia la Corte costituzionale rumena aveva dichiarato incostituzionali le
norme sulla mediazione obbligatoria. In realtà, anche in Italia interviene la
Corte costituzionale. Nel momento in cui entra in vigore il d.lgs. 28/2010 c’è
una fortissima opposizione alla mediazione obbligatoria da parte soprattutto
del ceto forense, che addirittura sciopera contro tali norme. Dopo varie
vicissitudini la questione arriva davanti alla Consulta, alla quale viene posta la
questione di costituzionalità dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione in
rapporto al diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost. e, in collegamento con
questo, al principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. La Corte arriva a una
decisione particolare: dichiara illegittimo il tentativo obbligatorio di
mediazione per un vizio meramente formale, ossia perché il legislatore ha
superato i limiti della legge delega che aveva previsto l’attuazione della
direttiva sulla mediazione.
I giudici della Consulta hanno riflettuto a lungo per arrivare a una soluzione di
questo tipo, la quale da un lato abroga le norme sulla obbligatorietà del
tentativo preliminare di mediazione, ma dall’altro non preclude al legislatore la
possibilità di reintrodurla.
In questo modo il legislatore si è trovato a distanza di pochi mesi nella
possibilità di reintrodurre la mediazione obbligatoria, con alcune modifiche. Il
succo di queste modifiche è un “contentino” dato agli avvocati, nel senso che,
per evitare una nuova ostilità, il legislatore ha riconosciuto agli avvocati tutta
una serie di facoltà e di poteri prima non previsti. Uno in particolare è il fatto
che ora, fin dall’inizio del procedimento di mediazione, le parti devono
comparire davanti al mediatore assistite dal loro difensore di fiducia. In realtà,
il discorso è più complesso. Il fatto che le parti vadano in mediazione assistite
dall’avvocato è una vera e propria negazione dei sacri principi della
mediazione. Si ritiene, infatti, che la mediazione, dovendo essere espressione
della volontà delle parti, cioè il luogo in cui le parti espongono al mediatore il
loro punto di vista in assoluta libertà nella prospettiva di raggiungere insieme
all’avversario un accordo soddisfacente per entrambe, la presenza
dell’avvocato con la sua forma mentis particolare modifichi gli equilibri tra le
parti. I puristi ritengono quindi che la presenza dell’avvocato nella mediazione
non sia qualcosa di particolarmente auspicabile. In effetti, chi si occupa di
mediazione dirà molto spesso che le parti partecipano personalmente al
procedimento di mediazione un po’ come convitati di pietra, nel senso che
lasciano che le loro ragioni siano sempre e comunque esposte dal difensore
che le assiste, anche se qui è fondamentale il ruolo del mediatore nel mitigare
l’influenza dell’avvocato. Si potrebbero fare dei sofismi tra assistenza del
difensore e rappresentanza, che è quella che il difensore svolge nel processo e
che implica una pregnanza di facoltà e poteri che in linea di principio l’avvocato
non ha nel procedimento di mediazione. Un altro contentino dato dal
legislatore del 2013 nel ripristinare il tentativo obbligatorio di mediazione è la
previsione secondo la quale gli avvocati sono mediatori di diritto. Per diventare
mediatore occorre seguire un particolare percorso formativo. L’espressione
all’inizio sembrava che per gli avvocati questo percorso formativo non fosse
necessario. Oggi anche gli avvocati devono seguire dei particolari corsi di
formazione. Questa nuova (e attualmente in vigore) disciplina sulla mediazione
obbligatoria dimostra che, nel tentativo di mantenere l’obbligatorietà della
disciplina, il legislatore ha dovuto fare tutta una serie di concessioni alla classe
forense. La sostanza del discorso è che sull’obbligatorietà del tentativo di
mediazione la Corte costituzionale ha sempre adottato soluzioni collaterali
senza entrare nel merito del problema, dicendo ad esempio che rientra nella
discrezionalità del legislatore adottare le soluzioni che ritiene più adatte per
un’efficiente gestione della giustizia, che accesso alla giustizia non significa
necessariamente accesso agli organi giurisdizionali, che le forme alternative
sono tollerabili nella misura in cui non ritardino o rendano più complicato
l’accesso agli organi giurisdizionali, e così via. Del resto, la stessa Corte di
Lussemburgo ha sostenuto più volte – in cause che riguardavano anche ricorsi
di cittadini italiani – un orientamento simile, affermando che l’obbligatorietà di
tentativi di mediazione non è necessariamente contraria al diritto di azione e ai
diritti garantiti ai soggetti dalla CEDU e dalla Carta di Nizza: i tentativi
obbligatori sono ammissibili se non precludono il ricorso agli organi
giurisdizionali nel caso in cui le parti non riescano ad addivenire a una
soluzione
Peraltro, a distanza di anni dall’entrata in vigore della mediazione, in Italia –
come in altri ordinamenti europei – è risultato che la mediazione non è
particolarmente seguita. Da un lato questo è legato al fatto che ogni
ordinamento ha dato alle norme un’attuazione diversa. Ad esempio, rispetto
all’esecutività dell’accordo raggiunto dalle parti, mentre in Italia se c’è la
sottoscrizione degli avvocati delle parti è automatica, in Spagna per il
conferimento dell’esecutorietà è necessario un exequatur notarile. Inoltre,
lasciando da parte la mediazione obbligatoria, quello che non riesce a
decollare è la mediazione volontaria. È certo che ai vari Stati membri e all’UE il
successo delle ADR interessa soprattutto con riguardo alla funzione deflativa
che può svolgere. Il problema è stato in minima parte ovviato per quanto
riguarda il carico di lavoro delle corti di primo grado, ma ha lasciato immutata
la situazione delle corti d’appello e, soprattutto, della Cassazione, che rimane
la corte con il maggior carico di lavoro arretrato.
LA MEDIAZIONE DEI CONSUMATORI:
La direttiva in materia di ADR dei consumatori è stata adottata in Italia
attraverso il d.lgs. 130/2015, che ha istituito delle forme particolari di
risoluzione alternativa delle controversie, implicando una modifica del Codice
del consumo. Questo ha portato a una serie di problemi (che comprenderemo
leggendo il manuale di Silvestri) in tema di compatibilità con le norme sulla
mediazione. Secondo Silvestri non c’era bisogno di un’altra direttiva che
complicasse la situazione del panorama delle ADR. La situazione nel nostro
ordinamento, ma anche in altri, è di una pluralità forse eccessiva di metodi
alternativi di risoluzione delle controversie, in quanto molto spesso alle parti
non è chiaro quale sia la forma alternativa più adeguata alla controversia che si
trovano davanti.
L’APPROCCIO DEL NOSTRO LEGISLATORE RISPETTO ALLA MEDIAZIONE:
Mentre la mediazione nelle cause civili e commerciali è disciplinata in maniera
abbastanza dettagliata e a questa disciplina normativa si è aggiunto un corpus
giurisprudenziale molto articolato su vari aspetti della mediazione, il nostro
legislatore nazionale ignora completamente la mediazione familiare. C’è solo
un piccolissimo accenno in alcune norme del codice civile e nelle norme sulla
negoziazione assistita in ambito familiare, alla quale peraltro non fa riscontro
una disciplina specifica a livello nazionale. Ci sono delle discipline regionali, che
però non hanno una valenza generale, proprio perché la materia delle
professioni regolamentate è stata affidata dalla riforma del Titolo V della
Costituzione alla legislazione concorrente. Le legislazioni regionali dovrebbero
svilupparsi all’interno di un quadro normativo delineato dal legislatore
nazionale, cosa che non avviene.
Possiamo, quindi, notare il paradosso dell’esistenza di una regolamentazione
dettagliata di cause che riguardano perlopiù beni materiali (mediazione civile e
commerciale) e della mancata esistenza di una disciplina nazionale che
riguarda situazioni ben più importanti (mediazione familiare).
L’ARBITRATO:
L’arbitrato è l’unico metodo di risoluzione delle controversie a carattere
aggiudicativo presente nel nostro ordinamento. Ciò significa che, come i
giudici, anche gli arbitri decidono una controversia, emettendo un lodo in base
al quale si determina chi ha torto e chi ha ragione. Gli arbitri sono soggetti terzi
e imparziali che pronunciano una decisione, tant’è che molto spesso vengono
definiti come giudici privati, posto che l’arbitrato implica che siano le parti
stesse o, più spesso, un’istituzione arbitrale se queste non riescono a trovare
un accordo a scegliere i soggetti che saranno arbitri di quella controversia. Si
può dire che l’arbitrato sia un metodo di risoluzione della controversia
fortemente determinato e caratterizzato dall’autonomia delle parti. Dal punto
di vista sistematico, l’arbitrato è disciplinato alla fine del Libro quarto, o
meglio, in quella che fino a poco tempo fa era la fine del Libro quarto (artt. 806
e ss.). Il fatto che l’arbitrato sia collocato alla fine del quarto libro ha un
significato storico. Il codice di procedura civile è stato adottato in piena epoca
fascista; quindi, ha subito gli influssi di una concezione statalista. A partire dal
novembre di quest’anno, le norme sull’arbitrato non saranno più le ultime, ma
saranno quelle sulle azioni collettive risarcitorie e inibitorie.
Tornando all’arbitrato, dobbiamo rilevare che nel corso degli ultimi anni la
disciplina ha subito modifiche piuttosto significative. Il senso di queste
modifiche è stato quello di procedimentalizzare sempre più l’arbitrato; quindi,
di dettarne una disciplina che per certi versi è estremamente dettagliata. Il che
è, da un lato, contro intuitivo e, dall’altro, mette l’arbitrato italiano in una
posizione abbastanza marginale per come è disciplinato rispetto ad altri
ordinamenti. Abbiamo detto che l’arbitrato è espressione dell’autonomia delle
parti. Naturalmente questa autonomia dovrebbe implicare la possibilità di
utilizzare un procedimento snello, flessibile e adattabile alle esigenze delle
parti. Non è così nel nostro ordinamento, dove la disciplina codicistica
dell’arbitrato è estremamente strutturata. Lo vedremo soprattutto nella
disciplina delle impugnazioni, in quanto le cause (tassative) di impugnazione
per nullità del lodo ex art. 829 sono ben dodici.
Va anche segnalato il fatto che la disciplina italiana dell’arbitrato si discosta da
quello che è lo stato dell’arte della disciplina a livello internazionale degli
arbitrati. Il riferimento è alla legge-modello Uncitral (organismo collegato alle
Nazioni Unite che ha il compito di realizzare leggi-modello alle quali gli Stati
possono fare riferimento nel disciplinare l’arbitrato di diritto interno e anche
l’arbitrato internazionale. La nostra disciplina dell’arbitrato non tiene
assolutamente conto di tale legge-modello, ad esempio non concede ai nostri
arbitri il potere di adottare misure cautelari. Questo è un dato indicativo che
dimostra l’eccezionalismo (in senso negativo) della situazione italiana. Nel
codice manca una qualunque disciplina dell’arbitrato internazionale. Questa è
una lacuna grave, in considerazione del fatto che proprio a livello di
controversie internazionali o transnazionali l’arbitrato è allo stato uno dei
metodi di risoluzione più utilizzati.
Le ultime riforme hanno reso sempre più simile la disciplina dell’arbitrato
italiano a quella del processo, almeno sotto certi aspetti. Possiamo domandarci
se il ricorso alla giustizia arbitrale ha senso in un ordinamento in cui l’art. 24
Cost. parla di diritto di tutti all’accesso alla giustizia. La domanda è più che
legittima e viene in rilievo anche rispetto all’obbligatorietà del tentativo di
mediazione. La Corte costituzionale ha avuto modo di occuparsi anche
dell’arbitrato, non tanto sotto al profilo della sua contrarietà con l’art. 24, che
è stata riconosciuta solo in relazione ai c.d. arbitrati obbligatori, ma ha
canonizzato la forte somiglianza dell’arbitrato al procedimento giurisdizionale
con una serie di pronunce. In particolare, la pronuncia n. 376/2001 ha statuito
sull’illegittimità delle norme che non consentivano agli arbitri di sospendere il
procedimento e sollevare la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla
Corte. La Corte, nel dire che anche gli arbitri possono porre in questione la
costituzionalità di norme di diritto, fa importanti affermazioni a livello di obiter
dicta. Secondo la Corte, “L’arbitrato costituisce un procedimento previsto e
disciplinato dal codice civile per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso
concreto ai fini della risoluzione di una controversia con le garanzie del
contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria.
Sotto l’aspetto considerato, il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che
si svolge dinanzi agli organi statali della giurisdizione, anche per quanto
riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme applicabili alla fattispecie”. Si
afferma quindi un parallelismo tra la pronuncia che si può ottenere davanti a
un giudice e quella che si può ottenere davanti a un arbitro. Del resto, lo stesso
legislatore ha dettato una serie di norme dalle quali comprendiamo benissimo
che il parallelismo tra fenomeno giurisdizionale e fenomeno arbitrale è
effettivamente molto forte. L’attuale art. 824bis parla dell’efficacia del lodo,
dicendo che esso ha, dalla data della sua ultima sottoscrizione, gli stessi effetti
della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria, salvo gli effetti esecutivi.
Per attribuire al lodo anche efficacia esecutiva occorre un passaggio ulteriore
davanti al tribunale. Anche l’art. 826 ci dà la misura di questo parallelismo.
Questa norma consente la correzione del lodo in presenza di errori materiali o
di calcolo. È un procedimento che c’è anche per le sentenze.
IL RICORSO ALL’ARBITRATO:
È ben difficile che in una controversia tra privati cittadini si ricorra all’arbitrato.
Questo perché in genere è più rapido del procedimento ordinario davanti al
giudice, ma è anche particolarmente costoso. Questo spiega perché sia un tipo
di metodo di risoluzione molto utilizzato per le controversie commerciali.
LA CONVENZIONE DI ARBITRATO:
L’art. 806 stabilisce che “Le parti possono far decidere da arbitri le controversie
tra di loro insorte che non abbiano ad oggetto diritti indisponibili, salvo
espresso divieto di legge”. Decodificando la norma, possiamo dire che
l’arbitrato è utilizzabile per la risoluzione di tutte le controversie relative a
diritti disponibili, sempre che il legislatore non abbia, in relazione a una
specifica materia, posto un divieto di arbitrabilità. In linea di massima le
materie escluse sono materie in relazione alle quali le parti sono prive del
potere di transigere. Uno degli indici che suggeriscono che la materia è relativa
a diritti indisponibili è dato dalla partecipazione del Pm obbligatoria o
facoltativa in considerazione dell’interesse pubblico. Per il ricorso all’arbitrato
– ma anche a tante altre forme di ADR – l’indisponibilità del diritto costituisce,
quindi, un limite invalicabile. Un altro limite riguarda le controversie individuali
di lavoro. In questi casi l’arbitrato è possibile solo se espressamente previsto
dalla legge o, come avviene di frequente, dai contratti o accordi collettivi.
I due articoli successivi parlano specificamente della convenzione di arbitrato,
ossia della fonte dell’arbitrato. Nella convenzione le parti possono manifestare
la loro intenzione di far risolvere la controversia da arbitri. Essa può assumere
due forme: il compromesso e la clausola compromissoria. Il compromesso (art.
807) è uno specifico contratto che richiede la forma scritta ad substantiam e, a
pena di nullità, deve determinare l’oggetto della controversia. La stipulazione
ad opera delle parti di un compromesso presuppone che vi sia già una
controversia in atto.
La clausola compromissoria (art. 808) è propria di una situazione in cui il
conflitto non c’è ancora. Si tratta di una clausola inserita in un contratto avente
un qualsivoglia oggetto, mediante la quale le parti si impegnano a risolvere
mediante arbitrato le eventuali controversie che derivano dal contratto stesso.
Anche in questo caso, è richiesta la forma scritta a pena di nullità. In
particolare, la clausola compromissoria, essendo considerata una clausola
vessatoria (soprattutto nei contratti per adesione) richiede una sottoscrizione
specifica. Il secondo comma dell’art. 808 sancisce il principio dell’autonomia
della clausola compromissoria. Esso recita: “La validità della clausola
compromissoria deve essere valutata in modo autonomo rispetto al contratto
al quale si riferisce; tuttavia, il potere di stipulare un contratto comprende il
potere di convenire la clausola compromissoria”. Questa ipotesi si riferisce al
caso in cui il contratto di cui è parte la clausola sia per qualsiasi ragione
dichiarato nullo o venga annullato, oppure perda efficacia. Il vizio che riguarda
il contratto non necessariamente riguarda la clausola, essendo necessario
valutare la situazione caso per caso. L’esempio del Luiso è il seguente. Tizio e
Caio stipulano un contratto di locazione all’interno del quale è contenuta una
clausola compromissoria. Alla scadenza del contratto Caio (conduttore) non
rilascia l’immobile. Tizio non può chiedere la convalida di sfratto per finita
locazione, in quanto c’è una clausola compromissoria. Saranno gli arbitri a
dover decidere tutto ciò che riguarda il problema della restituzione
dell’immobile e l’eventuale risarcimento dei danni. Questo perché la clausola
compromissoria è separabile dal resto del contratto.
L’arbitrato è utilizzabile nelle controversie aventi ad oggetto diritti disponibili
e, tipicamente, in materia contrattuale. Tuttavia, una delle norme aggiunte
nelle tante riforme dell’arbitrato è l’art. 808bis, relativo alla materia non
contrattuale. La norma stabilisce che “Le parti possono stabilire, con apposita
convenzione, che siano decise da arbitri le controversie future relative a uno o
più rapporti non contrattuali determinati. La convenzione deve risultare da
atto avente la forma richiesta per il compromesso dall’art. 807”. Si è molto
discusso di quali possano essere le materie non contrattuali nelle quali
l’arbitrato può essere utilizzato. Possiamo fare due esempi: uno riguarda la
materia condominiale, dove possono sorgere controversie che non hanno
origine da un contratto, anzi, possono derivare da diritti reali vantati da un
soggetto nei confronti di un altro; l’altro è dato dalla materia successoria, ad
esclusione delle controversie che derivano dalla successione legittima.
L’ARBITRATO IRRITUALE:
Nell’ambito dell’arbitrato viene operata una distinzione particolarmente
importante: quella tra arbitrato rituale e arbitrato irrituale. L’arbitrato rituale
ha la sua integrale disciplina nel codice di procedura, mentre all’arbitrato
irrituale si riferisce specificamente la disciplina dell’art. 808ter. Si tratta di due
fenomeni completamente diversi. Creato dalla giurisprudenza, l’arbitrato
irrituale è stato riconosciuto solamente in seguito dal legislatore. È un altro
aspetto dell’eccezionalità italiana. Infatti, per quanto sull’arbitrato irrituale (o
libero) siano stati versati dalla dottrina fiumi di inchiostro, questa forma di
arbitrato esiste solo in Italia. Tant’è vero che è sostanzialmente impossibile che
è impossibile tradurlo in qualsiasi altra lingua.
L’art. 808ter afferma: “Le parti possono, con disposizione espressa per iscritto,
stabilire che, in deroga a quanto disposto dall’art. 824bis, la controversia sia
definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale. Altrimenti si
applicano le disposizioni del presente titolo”. Il nucleo della norma è questa
“definizione della controversia mediante determinazione contrattuale”.
Questo significa che le parti, mediante la convenzione di arbitrato,
conferiscono all’arbitro il potere di elaborare una soluzione transattiva della
controversia e si impegnano ad assumere come propria, cioè come
manifestazione della loro stessa volontà, questa soluzione transattiva. Quindi,
di fatto, le parti stipulano un contratto il cui contenuto non è stato
determinato da loro stesse, ma è stato determinato da un terzo, sul
presupposto che le parti si sono impegnate a riconoscerlo come
manifestazione della loro diretta volontà. Siamo al di fuori dell’arbitrato
rituale, in quanto la norma parla specificamente di “deroga a quanto disposto
dall’art. 824bis”, quindi non c’è un lodo arbitrale, ma un contratto. Se le parti
non hanno indicato espressamente che l’arbitrato è irrituale, il legislatore
presume che si tratti di un arbitrato rituale.
La differenza fondamentale è che la definizione della controversia realizzata
dal terzo mediante determinazione contrattuale è, appunto, un contratto e
non un lodo. Si tratta quindi di qualcosa che dovrà essere impugnato, nel caso
in cui una delle parti non lo osservi, secondo le regole ordinarie, ossia
instaurando un giudizio di cognizione. Ciò significa che, a differenza del lodo
che è soggetto a impugnazioni specifiche per nullità, revocazione e opposizione
di terzo, chi voglia impugnare il contratto frutto di un arbitrato irrituale dovrà
necessariamente farlo per i motivi indicati dallo stesso art. 808ter secondo
comma, ai quali si aggiungono i normali vizi in ragione dei quali un contratto
può essere impugnato (incapacità delle parti; vizi del consenso, quali errore,
dolo o violenza).
C’è anche un’altra differenza. Il lodo rituale depositato e rispetto al quale il
giudice ha concesso l’exequatur può essere immediatamente utilizzato come
titolo esecutivo. Diversamente, il lodo irrituale, nel caso in cui una delle parti
non adempia al contratto che ha posto fine alla controversia, richiederà che
venga instaurato un ordinario giudizio di cognizione per la condanna della
parte inadempiente, oppure che venga proposto decreto ingiuntivo se ne
ricorrono i presupposti.
L’INTERPRETZIONE e L’EFFICACIA DELLA CONVENZIONE D’ARBITRATO:
L’art. 808quater – rubricato “Interpretazione della convenzione d’arbitrato”
stabilisce che: “Nel dubbio, la convenzione di arbitrato si interpreta nel senso
che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal
contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce”. A giudizio di Silvestri,
la norma si riferisce, in particolare, alla clausola compromissoria; quindi, a
tutte le controversie relative a quello specifico contratto in cui la clausola è
contenuta.
L’art. 808quinquies – intitolato “Efficacia della convenzione d’arbitrato” –
afferma che: “La conclusione del procedimento arbitrale senza pronuncia sul
merito non toglie efficacia alla convenzione d’arbitrato”. Ciò significa che, nel
caso in cui l’arbitrato rituale si concluda senza pronuncia sul merito, quindi gli
arbitri decidano con una pronuncia in rito a carattere impediente (rilevando ad
esempio il difetto di legittimazione delle parti) la convenzione continua ad
essere operativa.
GLI ARBITRI (ARTT.809-815):
Di tutte le norme sugli arbitri, una norma su cui è necessario riflettere è data
dall’art. 815 in tema di ricusazione degli arbitri. La norma prevede delle cause
di ricusazione che sono assolutamente analoghe a quelle per cui è prevista la
ricusazione del giudice. Naturalmente, in tutte le ipotesi in cui è prevista la
ricusazione dell’arbitro è anche possibile la sua astensione. Il punto principale
è che nel nostro ordinamento non è prevista la c.d. disclosure dell’arbitro. La
maggior parte dei regolamenti arbitrali – anche italiani – prevedono che gli
arbitri, una volta nominati dalle parti, sottoscrivano una particolare
dichiarazione in cui affermano che non hanno in passato intrattenuto rapporti
personali o professionali con le parti della controversia. Non a caso, molto
spesso i problemi sorgono quando emerge la non veridicità di queste
dichiarazioni. Pensiamo, ad esempio, alla controversia tra due soggetti
rappresentati dallo stesso grande studio legale. Può porsi un problema di
imparzialità dell’arbitro? È necessario dire nella dichiarazione che ci sono stati
rapporti di colleganza con l’avvocato di una delle parti? Si tratta di un
problema molto studiato e molto importante, soprattutto con riferimento ai
c.d. arbitri di parte. È vero che l’arbitro è nominato dalla parte, ma non per
questo deve essere meno terzo, meno imparziale nello svolgere le sue funzioni.
La ricusazione si propone al presidente del tribunale del luogo in cui ha sede
l’arbitrato. L’ultimo comma della norma è interessante, in quanto prevede che
“La proposizione dell’istanza di ricusazione non sospende il procedimento
arbitrale, salvo diversa determinazione degli arbitri. Tuttavia, se l’istanza è
accolta, l’attività compiuta dall’arbitro ricusato o con il suo concorso è
inefficace”. Il che è abbastanza ovvio, posto che la ricusazione serve a mettere
in evidenza il difetto di terzietà e imparzialità dell’arbitro.
L’art. 813ter disciplina la responsabilità degli arbitri per danni causati alle parti
determinata da dolo o colpa grave. Possiamo mettere in evidenza il
parallelismo con le norme che riguardano la responsabilità civile dei giudici.
Tuttavia, a differenza di quanto specificato per gli arbitri, la responsabilità per
colpa grave dei giudici ha una specifica declinazione, consistendo nella
manifesta violazione della legge o del diritto UE o anche nel travisamento dei
fatti o delle prove o nell’affermazione dell’esistenza di un fatto la cui esistenza
è incontestabilmente esclusa dagli atti del procedimento (o nell’ipotesi
inversa). Questo è il frutto delle più recenti modificazioni della legge sulla
responsabilità civile dei magistrati (l. 117/1988).
Sempre con riferimento agli arbitri, l’art. 814 parla dei diritti degli arbitri e, in
particolare, il riferimento è al rimborso delle spese e all’onorario per l’opera
prestata. Il riferimento è qui ai regolamenti arbitrali, in cui i compensi degli
arbitri sono regolamentati in maniera specifica, come del resto i costi del
procedimento che si articolano in base a scaglioni.
IL PROCEDIMENTO:
L’analisi delle norme mette in evidenza la grande autonomia lasciata alle parti
nella determinazione dello svolgimento del procedimento, a partire
dall’individuazione della sede dell’arbitrato (ovviamente nel territorio della
Repubblica). Se le parti non hanno determinato la sede dell’arbitrato, ai sensi
dell’art. 816 questa è nel luogo in cui è stata stipulata la convenzione di
arbitrato. Ciò non significa, peraltro, che gli arbitri debbano sempre
necessariamente riunirsi in tale sede, potendo anche svolgere la loro attività in
luoghi diversi dalla sede dell’arbitrato e anche all’estero (ult. comma).
Un altro elemento che le parti possono determinare liberamente o, se non lo
fanno in prima persona, gli arbitri possono determinare riguarda la lingua
dell’arbitrato e la disciplina del procedimento. È molto importante nell’art.
816bis la norma che afferma l’obbligo di attuazione del principio del
contraddittorio. Gli arbitri devono, infatti, concedere alle parti “ragionevoli ed
equivalenti possibilità di difesa” (c.d. parità delle armi). La norma è importante
perché uno degli elementi che concretizzano questa equipollenza tra arbitrato
e giurisdizione statale è proprio il rispetto di una delle norme fondamentali del
nostro ordinamento, ossia il principio del contraddittorio. La norma prosegue
facendo riferimento alla possibile assistenza dei difensori.
L’art. 816ter detta poi le disposizioni in tema di istruzione probatoria. La norma
non presenta nessuna particolare difficoltà. Siamo dispensati
dall’interpretazione degli artt. 816quater e quinquies. Tendenzialmente si
suole dire che le varie parti si devono polarizzare attorno agli interessi. Il
problema è particolarmente complesso è Silvestri non vuole che perdiamo
tempo a cercare di capire le sofisticazioni dell’arbitrato multi parte.
Proseguendo nell’analisi delle norme, interessante è l’art. 818, il quale afferma
che gli arbitri non possono concedere sequestri, né altri provvedimenti
cautelari, salva diversa disposizione di legge. La “diversa disposizione di legge”
nel nostro ordinamento non esiste, tant’è che quando abbiamo analizzato la
disciplina dei provvedimenti cautelari abbiamo visto che per l’individuazione
competente vi sono delle disposizioni apposite che riguardano proprio il
giudizio arbitrale. Nella normativa italiana, la potestà cautelare spetta
solamente al giudice. Non è così in altri ordinamenti che seguono la legge-
modello Uncitral, in cui anche gli arbitri possono concedere misure cautelari.
Nell’art. 817 – rubricato “Eccezione di incompetenza” – il primo comma fa
riferimento a una espressione tedesca, ossia la kompetenz-kompetenz.
Secondo questa espressione gli arbitri sono giudici della propria competenza,
quindi, nel caso in cui venga sollevata un’eccezione di incompetenza nel
procedimento arbitrale sono gli arbitri stessi a pronunciarsi. Il secondo comma,
in maniera un po’ criptica, prevede che la disposizione si applichi anche se i
poteri degli arbitri sono contestati in qualsiasi sede per qualsiasi ragione
sopravvenuta nel corso del giudizio. Silvestri non sa dirci a cosa si riferisca
questa “contestazione”, ma magari studiando il manuale diventeremo
abilissimi nel comprendere il significato di questa norma. L’eccezione di
competenza deve essere sollevata subito. La norma, infatti, prosegue dicendo
che “La parte che non eccepisce nella prima difesa successiva all’accettazione
degli arbitri l’incompetenza di questi per inesistenza, invalidità o inefficacia
della convenzione d’arbitrato, non può per questo motivo impugnare il lodo,
salvo il caso di controversia non arbitrabile”. È, quindi, indispensabile
un’eccezione di incompetenza tempestiva, al fine di non trovarsi preclusa la
possibilità di impugnare il lodo per incompetenza sotto il profilo dell’invalidità
della clausola arbitrale.
L’art. 819ter disciplina i rapporti tra arbitri e autorità giudiziaria. Per ragionare
sul tema è necessario partire dall’ultimo comma, secondo il quale “In
pendenza del procedimento arbitrale non possono essere proposte domande
giudiziali aventi ad oggetto l’invalidità o inefficacia della convenzione
d’arbitrato”. Se noi leggiamo la norma a contrario capiamo che, se non è già
pendente un procedimento arbitrale, è possibile proporre davanti ad un
giudice una domanda di accertamento volta a far dichiarare l’invalidità o
l’inefficacia di una convenzione di arbitrato. Perché si dovrebbe proporre una
domanda di questo genere? Perché una volta che si disponga di una sentenza
che dichiara l’invalidità o l’inefficacia della convenzione di arbitrato, nel caso in
cui l’avversario tenti di iniziare un procedimento di questo tipo si ha uno
strumento che esclude tassativamente la possibilità che l’arbitrato prosegua.
Non si può invece bloccare un procedimento già iniziato. Il primo comma
stabilisce che “La competenza degli arbitri non è esclusa dalla pendenza della
stessa causa davanti al giudice”. Ciò significa che, in relazione a una medesima
controversia, la procedura giudiziaria e quella arbitrale possono (almeno
temporaneamente) coesistere. Naturalmente, noi sappiamo che se c’è una
convenzione di arbitrato la giurisdizione è esclusa. Qui viene in considerazione
il seguito del primo comma in cui si dice che “L’eccezione di incompetenza del
giudice in ragione della convenzione di arbitrato deve essere proposta, a pena
di decadenza, nella comparsa di risposta. La mancata proposizione
dell’eccezione esclude la competenza arbitrale limitatamente alla controversia
decisa in quel giudizio”. Supponiamo che, in relazione alla medesima
controversia, una parte abbia instaurato un procedimento arbitrale e l’altra un
normale giudizio davanti all’autorità giudiziaria. La parte che intende far valere
la convenzione arbitrale e quindi bloccare la prosecuzione del giudizio
ordinario deve sollevare un’eccezione di incompetenza nella prima difesa,
ossia a pena di decadenza nella comparsa di risposta. Naturalmente, quando
questa eccezione è sollevata, trattandosi di una questione preliminare di rito, il
giudice dovrà ovviamente pronunciarsi con sentenza. Contro questa sentenza è
esperibile il regolamento di competenza ex artt. 42 e 43. Nel 2013 il secondo
comma della norma è stato dichiarato incostituzionale nella parte in cui
escludeva l’applicabilità della c.d. translatio iudicii ai rapporti tra arbitrato e
processo (art. 50). Nel momento attuale, quindi, nel caso in cui venga
dichiarata la giurisdizione del collegio arbitrale a danno del giudice dello Stato,
si verifica un fenomeno equivalente alla translatio iudicii. In sostanza, è
possibile che gli effetti sostanziali e processuali della domanda non vengano
meno se la causa viene riassunta tempestivamente (nel termine indicato dalla
sentenza di regolamento di competenza), pena l’estinzione del giudizio. Questo
vale in entrambe le direzioni.
È necessario un accenno anche all’art. 819. Secondo la norma – “Questioni
pregiudiziali di merito” – “Gli arbitri risolvono senza autorità di giudicato tutte
le questioni rilevanti per la decisione della controversia, anche se vertono su
materie che non possono essere oggetto di convenzione di arbitrato, salvo che
debbano essere decise con efficacia di giudicato per legge”. Se le questioni
sono ricomprese in materie che possono essere oggetto di convenzione
d’arbitrato e vi è un’istanza di una parte, queste sono decise con efficacia di
giudicato; se non sono comprese nella convenzione d’arbitrato, invece, è
necessario il consenso di tutte le parti. È un meccanismo che abbiamo già
incontrato studiando nella prima parte l’art. 34 sugli accertamenti incidentali.
Secondo la disposizione, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti
è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che
appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, il
giudice “rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine
perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui”. Altrimenti, si tratta di
questioni che vengono decise incidenter tantum, cioè per passare alla
decisione sul merito. Questo principio si applica anche nell’arbitrato e per
questioni che per loro natura non potrebbero essere oggetto di convenzione
d’arbitrato. Anzi, a maggior ragione, per questa loro impossibilità di essere
parte di tale convenzione, esse devono essere decise incidenter tantum.
Tuttavia, se si tratta di questioni che per legge devono essere decise con
efficacia di giudicato, come ad esempio se si tratti di questioni di stato, la
decisione con efficacia di giudicato richiede l’istanza di tutte le parti.
L’ARBITRATO AMMINISTRATIVO:
Prima di parlare dell’efficacia del lodo e delle sue impugnazioni possiamo fare
un breve cenno relativamente agli artt. 832 e ss. Queste norme disciplinano
l’arbitrato secondo i regolamenti precostituiti. La tendenza maggioritaria è
quella di svolgere l’arbitrato presso un’istituzione arbitrale. Questo implica
l’adozione del regolamento approvato da quell’istituzione arbitrale, la
possibilità di avvalersi di tutto l’apparato logistico dell’istituzione arbitrale e
anche una ragionevole previsione dei costi, proprio perché i regolamenti
arbitrali consentono di fare una previsione dei costi. Nel caso in cui vi sia
contrasto tra la convenzione di arbitrato e quanto previsto dal regolamento,
prevale la convenzione. I regolamenti arbitrali sono perfettamente in linea con
le norme del codice di procedura civile, anzi, talvolta richiedono qualcosa di
più. Possiamo fare l’esempio del problema della Disclosure degli arbitri, ossia
dell’autocertificazione riguardante la loro indipendenza e imparzialità che è
richiesta da moltissime istituzioni arbitrali, ma non dal codice.
Una norma stranamente collocata in questa parte, ma ha una portata generale
è l’art. 834, riguardante le norme applicabili al merito. L’autonomia delle parti
si manifesta non solo in relazione alla scelta delle norme di procedura, che
possono essere o le norme del codice, o le norme del regolamento arbitrale, o
anche norme diverse, ma anche in relazione alle norme applicabili al merito
della controversia. Le parti possono anche decidere che il merito, e quindi la
fondatezza della domanda, siano valutati o alla luce del diritto sostanziale
italiano, o alla luce di una legge diversa. Questo nel caso in cui gli arbitri
vengano incaricati di decidere secondo diritto. Ma come dice lo stesso articolo
834, gli arbitri possono essere incaricati di pronunciare come amichevoli
compositori, quindi secondo equità. È interessante l’ultima parte del primo
comma dell’art. 834, dove si dice che ove le parti non provvedano, si applica la
legge con la quale il rapporto è più strettamente collegato. Questo riguarda
soprattutto gli arbitrati internazionali, in cui molto spesso il diritto sostanziale
applicabile è il diritto del luogo in cui è stato stipulato il contratto, ma può
anche essere il diritto di un paese terzo.
Tornando al discorso dei regolamenti arbitrali, abbiamo detto che in genere la
scelta fatta dalle parti è quella dell’arbitrato amministrato. Più rara è la
previsione del c.d. arbitrato ad hoc; quindi, di un arbitrato che si svolge
secondo regole specificamente dettate dalle parti per quella specifica
controversia.
IL LODO:
Vi sono diversi articoli sul lodo, ma si tratta di questioni che non pongono
particolari problemi e sulle quali in sede d’esame nessuno ha mai insistito più
di tanto, perché si tratta di meccanismi tecnici che diventano particolarmente
familiari a chi si occupa specificamente di arbitrato. A Silvestri interessa che
abbiamo una visione generale.
Le norme rilevanti sono l’art. 824bis (“Efficacia del lodo”) e l’art. 825
(“Deposito del lodo”). L’art. 824bis afferma che l’efficacia del lodo dalla data
dell’ultima sottoscrizione coincide con l’efficacia di una sentenza pronunciata
dall’autorità giudiziaria, salvo uno specifico effetto, ossia l’efficacia esecutiva. Il
lodo ottiene efficacia esecutiva mediante il deposito da effettuarsi, insieme
con l’atto contenente la convenzione di arbitrato, nella cancelleria del
tribunale nel cui ha sede l’arbitrato. Il tribunale concede il c.d. exequatur con
decreto, dopo aver verificato la regolarità formale del lodo. Il controllo, quindi,
non è un controllo di sostanza, non potendo il tribunale invalidare il lodo in
questa sede ritenendo che il suo contenuto abbia dei problemi.
L’art. 826 riguarda la correzione del lodo, assolutamente parallelo all’art. 287
in tema di correzione per errori materiali o di calcolo.
LE IMPUGNAZIONI:
La peculiarità dell’ordinamento italiano è data dal fatto che le possibilità di
impugnativa del lodo sono davvero molte. Ai sensi dell’art. 827, le possibili
impugnazioni sono tre: nullità, revocazione e opposizione di terzo.
Per quanto riguarda l’impugnazione per nullità, tutti i manuali lamentano la
carenza di dettagli da parte del legislatore, in quanto si parla semplicemente
del fatto che l’impugnazione per nullità si propone con atto di citazione dinanzi
alla Corte d’appello nel cui distretto ha sede l’arbitrato, senza dire nulla sul
procedimento. La dottrina maggioritaria ritiene che, nonostante il fatto che
l’impugnazione per nullità si proponga davanti alla Corte d’appello, le norme
da seguire siano quelle in materia di giudizio di primo grado, quasi che il
giudizio arbitrale fosse stato una sorta di prova generale. I termini di
proposizione indicati dall’art. 828 sono il solito termine breve – novanta giorni
dalla notificazione del lodo – e il termine lungo – un anno dalla data dell’ultima
sottoscrizione del lodo –. Le cause di nullità sono ben dodici. Importanti sono il
n. 9 sull’inosservanza del principio del contraddittorio nel regolamento
arbitrale e il n. 11 quando il lodo contiene disposizioni contraddittorie. Si tratta
di casi tassativi, in quanto l’impugnazione per nullità è a critica vincolata. L’art.
829 specifica, inoltre, due cose importanti. La prima è che la parte “che ha dato
causa a un motivo di nullità, o vi ha rinunciato, o che non ha eccepito nella
prima istanza o difesa successiva la violazione di una regola che disciplina lo
svolgimento del procedimento arbitrale, non può per questo motivo
impugnare il lodo”. Inoltre, l’impugnazione delle regole di diritto relative al
merito della controversia è ammessa solo se espressamente prevista dalle
parti o dalla legge, mentre è sempre ammessa l’impugnazione del lodo per
violazione dell’ordine pubblico. Per quanto riguarda la decisione
dell’impugnazione è necessario fare una distinzione. In linea di principio, la
corte d’appello non solo elimina il lodo nel caso in cui lo consideri nullo, ma
procede anche alla decisione nel merito; quindi, la pronuncia della corte ha
efficacia rescindente e rescissoria (art. 830, secondo comma), salvo che le parti
abbiano previsto diversamente nella convenzione d’arbitrato. In tutti i casi non
espressamente previsti dall’art. 830, la decisione della Corte ha una mera
efficacia rescindente. In questo caso viene in considerazione il comma
successivo: “Quando la corte d’appello non decide nel merito, alla controversia
si applica la convenzione di arbitrato, salvo che la nullità dipenda dalla sua
invalidità o inefficacia”. Qui occorre fare riferimento alla causa per cui la nullità
è stata dichiarata. Se essa non ha niente a che vedere con l’inefficacia o
l’invalidità della clausola arbitrale, questa continua ad essere operativa, quindi,
dopo l’annullamento del primo lodo le parti potranno decidere di far decidere
la stessa controversia da un altro collegio arbitrale. Viceversa, quando la
declaratoria di nullità del lodo è stata pronunciata per ragioni che hanno a che
fare con la nullità o inefficacia della convenzione di arbitrato, occorrerà che la
domanda venga proposta davanti al giudice ordinario.
Per quanto riguarda la revocazione e l’opposizione di terzo non c’è nulla da
dire, in quanto si tratta delle medesime impugnazioni esperibili contro
un’ordinaria sentenza.

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