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CONSOLO ESTRATTO 2

GIULIA NACAR

IL PROCESSO DI COGNIZIONE IN RIFORMA

Il Libro II del Codice di Procedura Civile tratta il c.d. processo di cognizione, cioè il giudizio ordinario a
cognizione piena, volto ad emanare una sentenza che accerti il rapporto controverso, alla presenza di
un’autorità di giudicato.

Tale processo fu profondamente modificato dalla Legge 353/1990, la quale però fu applicata solo 5 anni più
tardi, in quanto ritenuta troppo restrittiva. Essa, infatti, dava vita ad un processo strutturato in varie fasi
(atti introduttivi, udienza di trattazione, tentativo di conciliazione, discussione della causa da parte degli
avvocati, udienza nella quale gli avvocati depositavano i documenti necessari), talmente rigido che,
addirittura, gli avvocati scioperarono contro questa riforma e le sue preclusioni.

Dunque, al fine di rendere più disteso tale rito, fu introdotta la c.d. udienza di prima comparizione, in cui vi
era un primo avvicinamento tra il giudice e le parti e durante la quale il giudice poteva controllare le
eventuali patologie della fase introduttiva del processo (come, ad esempio, la nullità dell’atto di citazione,
della notificazione ect.). Successivamente, se il giudice non rilevava alcun vizio, assegnava alle parti un
termine per la redazione delle loro memorie. Poi fissava l’udienza di trattazione, nella quale si discuteva
l’oggetto della domanda.

Questo rito è stato applicato fino al 2006 e continuerà ad essere applicato a tutte le cause nate prima del 1°
marzo 2006. A metà del 2005, infatti, è stata introdotta una Riforma del Processo Civile, la quale suddivide
il processo di cognizione in tre fasi:

- Fase introduttiva;
- Fase della trattazione: durante la quale si svolge l’istruttoria (volta alla raccolta delle prove);
- Fase decisoria.

DOMANDA GIUDIZIALE

La domanda giudiziale è l’atto che da inizio al processo e che indica il contenuto sul quale il giudice dovrà
decidere. Essa può assumere due diverse forme:

- Atto di citazione: che è la normale forma della domanda, nel senso che, a meno che la legge non
richiede diversamente, le domande giudiziali devono avere la forma della citazione;
- Ricorso: con cui una parte richiede al giudice di esaminare una determinata situazione, al fine di
ottenere un provvedimento;

La domanda giudiziale produce:

- Effetti processuali: come ad esempio la c.d. perpetuatio iurisdictionis (“la giurisdizione e la


competenza si determinano con riguardo alla legge vigente ed allo stato di fatto esistente al
momento della proposizione della domanda e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi
mutamenti della legge e dello stato di fatto medesimo”);
- Effetti sostanziali: quelli che indicono direttamente sulla situazione soggettiva dedotta in causa (ad
esempio, l’interruzione della prescrizione, l’impedimento della decadenza ect.);

Essa può essere considerata come una monade (entità indivisibile), in quanto produce anche degli effetti
estranei al processo. Ad esempio, attraverso la proposizione della domanda, si può interrompere la
prescrizione del diritto, la quale si “sospende” e non corre fino al momento in cui la sentenza che definisce il
giudizio passa in giudicato.

Merita di essere menzionato l’art. 111 c.p.c., il quale afferma che “se nel corso del processo, si trasferisce il
diritto controverso, il processo prosegue comunque tra le parti originarie, ma gli effetti della sentenza si
producono anche contro il successore a titolo particolare (colui che subentra nel rapporto)”.

La domanda giudiziale è composta da tre elementi:

- Personae: l’identità delle parti;


- Petitum: la richiesta effettuata. Tuttavia, dato che la domanda viene rivolta sia al giudice che,
indirettamente, anche al convenuto, bisogna distinguere due tipi di petitum:
• Petitum immediato: il provvedimento che viene richiesto al giudice;
• Petitum mediato: il bene della vita che si vuole ottenere dal convenuto;
- Causa petendi: i c.d. elementi costituitivi della domanda (i fatti e gli elementi di diritto su cui essa si
fonda, il diritto sostanziale fatto valere in giudizio);

Bisogna specificare che esistono dei diritti che possono essere identificati grazie all’oggetto sui quali si
fondano, senza la necessità di allegare dei fatti costitutivi. A tal proposito, si distingue tra:

- Diritti autodeterminati: quei diritti che possono essere identificati solo con il petitum (senza la
necessità di indicare anche la causa petendi). Essi non possono coesistere sul medesimo bene (ad
esempio, il caso del diritto di proprietà: anche se cambia il modo di acquisto, il diritto rimane lo
stesso, dato che non è possibile essere più volte proprietari dello stesso bene);
- Diritti eterodeterminati: quei diritti che devono essere individuati sia tramite il petitum sia tramite
la causa petendi. Essi possono esistere un numero indefinito di volte tra le stesse parti e con lo
stesso oggetto (ad esempio, il diritto di credito: il quale può essere vantato nei confronti di una
stessa persona e per ragioni diverse. Ad esempio, in quanto è il prezzo riscosso da una vendita, un
risarcimento di danno ect.);

In virtù del principio iura novit curia, il giudice è libero di applicare le norme che ritiene si adattino meglio
al caso concreto, prescindendo quelle eventualmente indicate dalle parti nelle rispettive richieste.

Le varie attività delle parti sono scandite da termini, per lo più perentori (cioè, dopo la loro scadenza le
parti non potranno più compiere quel determinato atto). Il principio fondamentale è quello del dies a quo
non computatur, in virtù del quale non si tiene conto, nel computo del termine, del giorno a partire dal
quale si deve iniziare il calcolo. Bisognerà, invece, prendere in considerazione il c.d. dies ad quem (l’ultimo
giorno utile per compiere l’attività), a meno che non si faccia riferimento a giorni liberi. Se il termine scade
il sabato o in un giorno festivo, la scadenza sarà automaticamente prorogata al giorno successivo non
festivo.

L’ATTO DI CITAZIONE

L’atto di citazione è l’atto introduttivo del processo, il quale si compone di due parti:

- Editio Actionis: l’oggetto della domanda, la pretesa che l’attore fa valere nei confronti del
convenuto;
- Vocatio in ius: che, mediante l’invito a comparire dinanzi al giudice competente, consente al
convenuto di partecipare al processo e di esercitare il diritto alla difesa;

La vocatio in ius deve indicare:

- L’ufficio giudiziario competente;


- Nome, cognome, residenza e codice fiscale delle parti e degli avvocati;
- La procura (se già rilasciata);
- Il numero di fax e la PEC;
- L’invito rivolto al convenuto a comparire almeno 70 (non più 20) giorni prima dell’udienza, con
l’avvertimento che in mancanza incorrerà in delle decadenze (al fine di definire il thema
decidendum);
- L’obbligo per il convenuto di avvalersi della difesa tecnica di un avvocato per le liti dinanzi al
Tribunale;
- I mezzi di prova di cui l’attore intende valersi;
- L’indicazione, nei casi in cui la domanda è soggetta a condizioni di procedibilità, degli oneri previsti
per il suo superamento;
- L’esposizione in modo chiaro e specifico dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni
della domanda;
- La data dell’udienza di comparizione, la cui scelta spetta all’attore (e che potrà essere prorogata dal
giudice fino ad un massimo di 45 giorni);

Tuttavia, la scelta dell’attore è limitata da due previsioni:

- Entro il 30 novembre di ogni anno, il Presidente del Tribunale stabilisce con decreto le ore ed i
giorni della settimana dedicati alle udienze di prima comparizione, con la conseguenza che se la
data scelta dall’attore non rientri in una di queste, dovrà essere rimandata all’udienza successiva
tenuta dal giudice competente;
- Tra il giorno in cui viene notificata la citazione e il giorno dell’udienza, intercorrono dei termini
liberi non inferiori a 90 giorni (150 se la notificazione deve essere effettuata all’estero);

L’editio actionis, invece, deve indicare: petitum mediato, petitum immediato e causa petendi.

Con l’atto di citazione, l’attore deve anche indicare i mezzi di prova di cui intende valersi e il valore della
causa (rispetto al quale poi si calcolerà il contributo unificato per l’iscrizione della causa al ruolo).

L’atto deve essere redatto e sottoscritto dalla parte (ove questa stia in giudizio personalmente) oppure dal
difensore munito di procura. Successivamente sarà notificato alla controparte.

NULLITA’ DELL’ATTO DI CITAZIONE

Essendo l’atto di citazione un atto complesso che si compone di due parti (vocatio ed editio), bisogna
distinguere tra:

- Nullità per vizi della vocatio in ius: quando manchi o risulti incerta l’indicazione dell’autorità
giudiziaria, manchi la data dell’udienza di comparizione, manchi l’invito al convenuto a costituirsi 70
giorni prima dell’udienza. Si tratta di “requisiti formali” che permetto al convenuto di costituirsi
tempestivamente, proponendo le proprie difese.
Il giudice, rilevata la nullità, dispone la rinnovazione dell’atto. Dunque, se l’attore rinnova l’atto e lo
notifica nuovamente al convenuto, i vizi vengono sanati e gli effetti della domanda si producono fin
dal momento della prima notificazione (quindi la sanatoria opera retroattivamente). Se, invece, la
rinnovazione non viene eseguita, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e il processo
si estingue.
Se la rinnovazione viene eseguita, ma tardivamente, la sanatoria produce effetti ex nunc (e quindi
gli effetti della citazione si producono dal momento della rinnovazione);
Tuttavia, se l’atto raggiunge il suo scopo (il convenuto si è costituito), la nullità è sanata. Inoltre,
bisogna specificare che, il convenuto tardivamente costituitosi non può essere rimesso nei termini,
se la nullità della citazione gli ha comunque consentito di avere conoscenza;
- Nullità per vizi della editio actionis: è omesso o risulti incerto il petitum o la causa petendi.
I vizi della editio actionis sono costituiti, dunque, dalla mancata esposizione dei fatti posti a
fondamento della domanda e dall’omissione o assoluta incertezza dell’oggetto della domanda.
A tal proposito, bisogna distinguere:
• Se il convenuto non si è costituito: il giudice fisserà un termine perentorio entro il quale
l’attore deve rinnovare la notifica della citazione (e la sanatoria opera con effetto ex nunc,
dal momento della rinnovazione);
• Se il convenuto si è costituto: il giudice ordina all’attore di integrare la domanda (e la
sanatoria opera con effetto ex nunc, quindi gli effetti si produrranno dal momento
dell’integrazione).

LA COMPARSA DI RISPOSTA

La comparsa di risposta è l’atto con cui il convenuto propone le proprie difese. Si tratta di un atto recettizio
che deve indicare:

- L’indicazione delle parti e dei loro difensori;


- Le generalità e il codice fiscale del convenuto;
- I mezzi di prova di cui intende valersi;
- L’ufficio giudiziario davanti a cui pende il processo;

Tale atto assume un ruolo fondamentale nel fissare la materia del contendere e porre, insieme all’atto di
citazione, dei limiti al potere del giudice circa l’oggetto del processo.

Il convenuto deve proporre tutte le sue difese e deve prendere posizione sui fatti posti a fondamento della
domanda dell’attore.

Con le mere difese (eccezioni in senso proprio), invece, il convenuto effettua una semplice contestazione dei
fatti allegati dall’attore.

A pena di decadenza, il convenuto deve proporre eventuali:

- Domande riconvenzionali: con cui il convenuto, in occasione del processo instaurato nei suoi
confronti, si avvalga del diritto di ampliare il tema della controversia, proponendo una sua
“controdomanda”, a seguito della quale intende conseguire un provvedimento positivo. Tuttavia,
tale potere deve intendersi condizionato alla sua tempestiva costituzione in giudizio. Affinchè possa
essere ammissibile, è necessario che essa dipenda dallo stesso titolo dedotto in giudizio dall’attore.
In caso di omissione o assoluta incertezza circa il suo oggetto, il giudice, dopo averne rilevato la
nullità, deve fissare al convenuto un termine perentorio per integrarla, al fine di sanarla.
L’attore contro il quale il convenuto abbia proposto domanda riconvenzionale potrà opporre a sua
volta altra riconvenzionale, assumendo la qualità di “convenuto” rispetto alla prima (tale principio
costituisce una deroga a quello secondo cui l’attore non può proporre domande diverse rispetto a
quelle originariamente formulate nell’atto di citazione);
- Eccezione di rito: lo strumento attraverso il quale il convenuto contesta la validità di un atto
processuale (ad esempio, il difetto di giurisdizione o di competenza);
- Eccezione di merito: con cui fa valere un fatto estintivo/modificativo/impeditivo del diritto fatto
valere dall’attore. Si distingue tra eccezioni in senso stretto (rilevabili solo su istanza di parte, sono
iscritte nel Codice) ed eccezioni in senso lato (rilevabili anche d’ufficio);
Con la comparsa di risposta il convenuto può anche chiamare in causa un terzo. Egli contestualmente deve
chiedere al giudice di fissare una nuova udienza, al fine di consentire la citazione del terzo (entro 5 giorni il
giudice, con decreto, fissa la data per la nuova udienza). La chiamata in causa del terzo implica un c.d.
“cumulo soggettivo” (il terzo acquista la qualità di parte). Così come afferma la Corte Costituzionale, il terzo
chiamato in causa è un “convenuto in seconda battuta”, nei cui confronti vanno mantenute tutte le
garanzie di difesa che operano nei confronti del primo convenuto.

La parte che chiama in causa il terzo deve depositare la citazione notificata entro 10 giorni dall’avvenuta
notifica, mentre il terzo deve costituirsi almeno 70 giorni prima dell’udienza di comparizione fissata
nell’atto di citazione.

Il Codice effettua una distinzione tra:

- Convenuto: il quale deve solo dichiarare la chiamata in causa del terzo;


- Attore: il quale, invece, deve essere autorizzato;

Tale asimmetria è giustificata dal fatto che, mentre il convenuto è all’esordio del processo, l’attore invece
ha già svolto l’azione e, dunque, il giudice deve bilanciare la richiesta dell’attore con altre esigenze
processuali (come, ad esempio, la ragionevole durata).

L’art. 115 c.p.c. enuncia il principio di non contestazione, in virtù del quale “il giudice decide sulla base delle
prove proposte dalle parti e dal pubblico ministero, e dei fatti non contestati dalla parte costituita”. Egli,
dunque, non dovrà effettuare un controllo probatorio sui fatti non contestati.

La non contestazione è un “fenomeno intimamente processuale”, nel senso che, qualora il processo in cui
essa si sia verificata si estinguesse e poi se ne aprisse un altro sulla stessa controversia, la parte (che nel
primo processo si poteva giovare della non contestazione), nel secondo non potrà invocarla.

L’ammissione, invece, è l’atto con il quale il convenuto dichiara esplicitamente un fatto a se sfavorevole.
Grazie ad essa, la parte che ha allegato tale fatto in giudizio, non avrà l’onere di provarlo (a differenza della
confessione che fornisce la prova dei fatti su cui verte).

LA COSTITUZIONE DELLE PARTI IN GIUDIZIO

Con la notificazione dell’atto di citazione, il processo è pendente e si producono tutti gli effetti sostanziali e
processuali che derivano da questa pendenza. Tuttavia, l’autorità giudiziaria non è ancora a conoscenza
della controversia in corso. E’, infatti, con la costituzione delle parti che si rende edotto il giudice,
depositando i propri scritti e documenti difensivi.

Le parti normalmente si costituiscono entro dei termini ben precisi. Gli atti del processo sono di norma
compiuti dal difensore, fatta eccezione per quelle attività che devono essere compiute dalla parte
personalmente.

Bisogna distinguere tra la costituzione in giudizio del:

- Attore: il quale deve costituirsi entro 10 giorni dalla notificazione della citazione al convenuto (in
caso di più convenuti, il termine decorre dalla prima notificazione). L’attore deve depositare presso
la cancelleria del Tribunale:
• La nota di iscrizione al ruolo: in cui sono indicati gli estremi della causa, le parti, l’oggetto
del giudizio ect. Tale documento è necessario affinchè la causa possa essere iscritta nel
ruolo generale, un registro nel quale sono indicati tutti i processi pendenti presso
quell’ufficio. Da questo momento in poi, la causa oltre ad essere pendente, è anche
incardinata presso l’ufficio giudiziario competente;
• Il proprio fascicolo: che contiene l’atto di citazione, la procura e i documenti che l’attore ha
depositato in questa fase iniziale del giudizio;
Se l’attore si costituisce tardivamente, il processo prosegue se il convenuto ne faccia
richiesta. Altrimenti il processo si estingue;
- Convenuto: il quale deve costituirsi almeno 70 giorni prima dell’udienza indicata nell’atto di
citazione, mediante deposito della comparsa di risposta. Se la sua costituzione è tempestiva, non
incorrerà in nessuna preclusione. Se, invece, la costituzione è tardiva, egli non potrà proporre
domande riconvenzionali, chiamare in causa terzi o sollevare eccezioni processuali o di merito (a
meno che non siano rilevabili d’ufficio). Qualora il convenuto decidesse di restare estraneo al
processo, dopo aver verificato la regolarità dell’atto di citazione, il giudice dichiara la sua
contumacia;

Se entrambe le parti (attore e convenuto) si costituiscono tardivamente, il processo potrà comunque


proseguire se ne manifestano la volontà.

Dopo la costituzione in giudizio e l’iscrizione della causa al ruolo, il cancelliere forma il fascicolo d’ufficio, da
presentare al Presidente del Tribunale (che designa il giudice istruttore davanti al quale le parti devono
comparire).

Entrambe le parti possono costituirsi anche tramite strumenti telematici: gli atti verranno redatti in
formato elettronico, firmati dall’avvocato mediante firma digitale e poi trasmessi tramite pec alla
cancelleria del tribunale.

MEDIAZIONE

Chiunque ritenga che un proprio diritto sia stato violato da altri, potrà, nei modi previsti, adire l’autorità
giudiziaria, al fine di tutelare la propria situazione soggettiva. Tuttavia, vi sono dei casi in cui il soggetto può
ritenere più conveniente ricorrere a degli strumenti deflattivi, che assicurano una risoluzione della
controversia più celere e che non prevedono l’intervento dell’autorità giudiziaria. Essi si dividono in:

- Autonomi: quando sono stesso le parti a determinare il contenuto dell’atto con cui risolvono la lite
(ad esempio, il contratto di transizione);
- Eteronomi: quando invece il contenuto dell’atto è stabilito da un terzo;

Tra gli strumenti eteronomi ricordiamo la c.d. mediazione, uno strumento con il quale le parti si rivolgono
ad un soggetto terzo (c.d. mediatore), al fine di risolvere in via stragiudiziale, delle controversie civili e
commerciali. Egli ha il compito di assistere i soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la
risoluzione della causa.

Il difensore deve sempre avvisare il proprio assistito della possibilità di esperire il procedimento di
mediazione. A tal proposito, dovrà redigere una c.d. informativa (a pena di annullabilità del contratto), nella
quale dovranno essere indicati i vantaggi fiscali connessi all’esercizio della procedura.

La mediazione può vertere solo su dei diritti disponibili (quelli che possono essere alienati dal titolare).

Esistono vari tipi di mediazione:

- Mediazione facoltativa: attivabile a scelta delle parti. La parte interessata deve proporre una c.d.
domanda di mediazione, nella quale deve indicare l’ufficio giudiziario, le parti, l’oggetto e le ragioni
della pretesa. Entro 30 giorni dal deposito della domanda, il mediatore deve fissare la data del
primo incontro. Il procedimento non può durare più di 3 mesi. La controparte non è tenuta a
parteciparvi, tuttavia si prevede una sanzione nel caso in cui abbia deciso di non partecipare senza
giustificato motivo.
Se all’esito del procedimento le parti raggiungono un accordo, questo verrà messo a verbale, il
quale sarà omologato a istanza di parte e costituirà “titolo esecutivo”. L’omologazione non sarà
necessaria nel caso in cui tutte le parti siano assistite da un difensore.
Se, invece, le parti non raggiungono un accodo spontaneamente, il mediatore dovrà formulare una
proposta di conciliazione, alla quale le parti potranno liberamente scegliere se aderire o meno;
- Mediazione obbligatoria: essa deve essere attivata quando la controversia riguarda un diritto
reale, divisioni e successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione e comodato, affitto di aziende,
responsabilità medica. In tutti questi casi, le parti dovranno necessariamente attivare un processo
di mediazione, in quanto senza di esso non sarà possibile proporre la domanda giudiziale (la
mediazione, dunque, è condizione di procedibilità). Tuttavia, si tratta di una improcedibilità solo
temporanea, dato che il procedimento di mediazione non può durare più di 3 mesi. Essa deve
essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio, non oltre la prima udienza.
Un esempio di mediazione obbligatoria è la c.d. “mediazione demandata”, la quale viene disposta
dal giudice (anche in sede di appello), dopo aver valutato la natura della causa e il comportamento
delle parti. Contestualmente dovrà assegnare alle parti un termine di 15 giorni per la presentazione
della domanda;
- Mediazione concordata (o contrattuale): quando è il contratto concluso dalle parti a stabilire la
necessità del procedimento di mediazione. Le parti, entro 15 giorni devono proporre la domanda di
mediazione, in caso contrario non sarà possibile procedere al giudizio (l’improcedibilità della
domanda potrà essere eccepita solo dal convenuto, e non anche rilevata d’ufficio);

Il mediatore, non esprime alcuna opinione (a meno che non sia richiesta dalle parti) e non emette alcuna
decisione. A differenza dell’arbitrato, in cui il terzo imparziale viene chiamato ad emettere una vera e
propria decisione (e quindi, in definitiva, giudica).

NEGOZIAZIONE ASSISTITA

La negoziazione assistita è un accordo con cui le parti (assistite da uno o più avvocati), decidono di
risolvere in via amichevole una controversia. La parte istante, dovrà notificare alla controparte un invito a
stipulare un accordo, assistita da degli avvocati. Inoltre, deve indicare l’oggetto della controversia (che non
può riguardare diritti indisponibili). L’altra parte, entro 30 giorni, deve decidere se aderire o meno al
procedimento. In caso di adesione, le parti devono sottoscrivere una c.d. convenzione di negoziazione
assistita, volta a disciplinare la procedura (tale accordo costituisce titolo esecutivo per l’iscrizione
dell’ipoteca giudiziale).

La negoziazione assistita è obbligatoria quando la controversia riguarda il risarcimento dei danni per la
circolazione di veicoli natanti (quelli che si spostano sull’acqua) oppure il pagamento di somme di denaro
inferiori ai 50mila euro (escluse le domande già coperte da mediazione obbligatoria ex lege). In questi casi,
l’esperimento del procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della domanda.

TRASFERIMENTO IN SEDE ARBITRALE DEI PROCEDIMENTI PENDENTI


Il trasferimento in sede arbitrale dei procedimenti pendenti è uno strumento deflattivo, introdotto nel
2014, grazie al quale un processo pendente può essere trasferito dinanzi ad un arbitro, facendo comunque
salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda, nonché le preclusioni e le decadenze intervenute.

Possono essere devolute agli arbitri tutte le cause pendenti dinanzi al Tribunale o in grado d’appello, che
non siano ancora state decise, purchè non abbiano ad oggetto diritti indisponibili e non vertano in materia
di lavoro o assistenza sociale.

La richiesta deve provenire da entrambe le parti e può essere proposta fino all’inizio della fase decisoria
(cioè, non oltre l’udienza di precisazione delle conclusioni). Tuttavia è prevista un’eccezione: se la lite è
pendente tra un privato ed una pubblica amministrazione (ed il valore della causa non supera i 50mila
euro), l’istanza potrà provenire anche solo da un privato. La pubblica amministrazione potrà evitare il
trasferimento, disponendo per iscritto il suo dissenso entro 30 giorni dalla richiesta della controparte. In
caso contrario, il consenso della pubblica amministrazione si considera manifestato per fatti concludenti.

Lo scopo è quello di ridurre gli arretrati dei contenziosi civili.

Se il trasferimento è disposto in grado di appello e il procedimento arbitrale non si conclude con la


pronuncia del lodo entro 120 giorni dall’accettazione della nomina del Collegio Arbitrale, il processo deve
essere riassunto entro i successivi 60 giorni. Se nessuna delle parti procede alla riassunzione nel termine, il
procedimento si estingue.

Se è stata dichiarata la nullità del lodo pronunciato entro il termine di 120 giorni, il processo deve essere
riassunto entro 60 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di nullità.

TENTATIVO OBBLIGATORIO DI CONCILIAZIONE NELLE IPOTESI DI RESPONSABILITA’ SANITARIA

La c.d. Legge Gelli-Bianco ha introdotto una nuova ipotesi di condizione di procedibilità della domanda. Essa
ha introdotto delle modifiche alla disciplina della responsabilità medica, prevedendo che:

- La responsabilità della struttura sanitaria è di tipo “contrattuale”;


- La responsabilità del medico è di tipo “extracontrattuale” (a meno che non agisca in base ad un
contratto con il paziente);

Si dispone che, qualora la controversia riguardi il risarcimento del danno derivante da responsabilità
sanitaria, dovrà essere preventivamente richiesta al giudice competente la c.d. consulenza tecnica
preventiva (delle valutazioni approfondite, svolte da un esperto munito di specifiche competenze).

Essa può essere richiesta anche quando la lite non è ancora pendente. Il perito, nominato dal giudice, deve
tentare la conciliazione delle parti. Se questa riesce, verrà redatto un verbale, cui il giudice attribuisce
efficacia di titolo esecutivo.

Il mancato esperimento del tentativo di conciliazione deve essere eccepito (o rilevato d’ufficio) entro la
prima udienza.

Il procedimento di consulenza tecnica preventiva ha una durata massima di 6 mesi, a partire dal momento
del deposito del ricorso. Trascorso questo termine, o qualora la conciliazione non dovesse riuscire, la
domanda è di nuovo procedibile.

Al procedimento devono prendere parte: il ricorrente-danneggiato, il danneggiante (medico, struttura


sanitaria o entrambi) e l’assicurazione del danneggiante (la polizza assicurativa stipulata dalla struttura
sanitaria dovrà coprire anche i medici di cui si avvale).
Se una di queste parti decide di non partecipare al procedimento di conciliazione, sarà condannata al
pagamento delle spese della consulenza tecnica, della lite (indipendentemente dall’esito del giudizio) e ad
una pena pecuniaria a favore della parte che invece è comparsa alla conciliazione.

IL PROCESSO CONTUMACIALE

A seguito della proposizione della domanda giudiziale, attore e convenuto diventano “parte” del processo.
Qualora entrambe le parti non dovessero costituirsi, non vi sarà nessuna conseguenza, in quanto nessun
organo è stato ancora investito della cognizione della causa e, di fatto, per l’ordinamento è come se
nessuna domanda fosse ancora stata proposta.

Tuttavia, la situazione è diversa se solo una delle parti scelga di non costituirsi. Quest’ultima sarà dichiarata
contumace dal giudice, e si aprirà il c.d. processo contumaciale, caratterizzato da speciali disposizioni volte
a garantire il c.d. contraddittorio formale (cioè, l’uguaglianza formale tra le parti).

In passato, il rito societario considerava la contumacia del convenuto come una sorta di “confessione”,
tuttavia questa previsione fu dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Ad oggi, infatti, il nostro
ordinamento non sanziona in alcun modo la contumacia di una parte.

Il contumace deve essere messo a conoscenza degli atti del processo che gli possono procurare delle
conseguenze particolarmente gravi e che potrebbero quindi spingerlo a costituirsi, ad esempio:

- Delle comparse che propongono domande nuove (nei limiti in cui sono ammissibili) o domande
riconvenzionali;
- Delle ordinanze che danno luogo ad interrogatorio o giuramento;

Il contumace perde la possibilità di formulare eccezioni in senso stretto (e quindi non rilevabili d’ufficio).

La dichiarazione di contumacia viene fatta durante la prima udienza di trattazione e vale per il solo grado di
giudizio in cui è stata pronunciata. Bisogna distinguere tra:

- Attore: qualora egli non si costituisca alla prima udienza, la causa deve essere cancellata dal ruolo
ed il processo si estingue, a meno che il convenuto (che evidentemente si era costituito e aveva
iscritto la causa al ruolo, altrimenti il giudice non avrebbe neanche potuto conoscere della lita) non
chieda che si proceda anche in assenza dell’attore, che sarà appunto dichiarato contumace;
- Convenuto: la dichiarazione di contumacia viene pronunciata con ordinanza se egli non si
costituisce nel termine assegnato e neanche alla prima udienza. Tuttavia, se il giudice istruttore
rileva la nullità della notificazione della citazione, fissa all’attore un termine perentorio per
rinnovarla. La rinnovazione impedisce ogni decadenza. Se l’ordine di rinnovazione non è eseguito, il
giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo ed il processo si estingue. (la rinnovazione
consiste in una riformulazione dell’atto, consentendogli di produrre i suoi effetti, sanandone i vizi
ex tunc);

La parte dichiarata contumace ha in ogni caso il diritto di costituirsi in giudizio in ogni tempo e fino
all’udienza delle conclusioni. Se si costituisce tardivamente, entra nel processo nello stato in cui esso si
trova e non potrà più esercitare le attività ormai precluse (fatta eccezione per la possibilità di disconoscere
le scritture prodotte contro di lui e per i casi di c.d. contumacia involontaria, cioè qualora egli dimostri di
non essersi costituito a causa della nullità della citazione).

CAPITOLO 2
UDIENZA DI TRATTAZIONE ART. 183 C.P.C.

L’art. 183 c.p.c. disciplina la c.d. udienza di prima comparizione e di trattazione della causa.

Nella prima udienza le parti devono comparire personalmente. La mancata comparizione, senza giustificato
motivo, può far desumere al giudice degli argomenti di prova.

Durante tale udienza, il giudice deve verificare la regolarità del contraddittorio e, quando occorre,
pronuncia i provvedimenti previsti per regolarizzare eventuali vizi.

Salvo il caso in cui il giudice decida di rimettere le parti al Collegio, qualora l’attore chieda di essere
autorizzato a chiamare in causa un terzo, il giudice deve provvedere alla medesima istanza. L’accoglimento
di tale richiesta comporta la fissazione di una nuova udienza di trattazione.

Il giudice, in caso di richiesta da entrambe le parti, fissa la comparizione delle medesime al fine di
interrogarle liberamente e di effettuare un tentativo di conciliazione. Tale tentativo può essere rinnovato in
qualunque momento dell’istruzione, nel rispetto del calendario del processo. Inoltre, nel caso in cui esso
abbia esito positivo e le parti giungano ad una conciliazione, viene emanata un’ordinanza di cancellazione
della causa dal ruolo e una dichiarazione di estinzione del giudizio in corso. Dall’avvenuta conciliazione
viene redatto processo verbale (il quale costituisce titolo esecutivo).

Durante tale udienza, il giudice fissa il calendario del processo e fissa l’udienza di assunzione delle prove
entro 90 giorni.

Ciascuna delle parti può, entro un termine perentorio stabilito dal giudice, dedurre i mezzi di prova che
ritengono necessari, nonché depositare memorie di replica.

Prima dell’udienza di trattazione c.p.c., le parti possono depositare le c.d. memorie integrative, nei seguenti
termini:

- La 1° memoria, almeno 40 giorni prima dell’udienza di comparizione;


- La 2° memoria, almeno 20 giorni prima dell’udienza di comparizione;
- La 3° memoria, almeno 10 giorni prima dell’udienza di comparizione;

Si tratta delle stesse tre memorie contemplate dal comma 6 dell’art. 183 c.p.c., le quali, invece di essere
depositate dopo l’udienza, vengono anticipate ad un termine anteriore, per consentire che all’udienza il
tema della causa sia perfettamente delineato.

Se all’esito dell’udienza, le difese del convenuto risultano manifestatamente infondate, il giudice può, su
istanza di parte, emanare l’ordinanza di accoglimento della domanda. Allo stesso modo, se la domanda
dell’attore risulti manifestamente infondata, oppure nel caso in cui non sia stata sanata la nullità della
citazione, il giudice può, su istanza di parte, emanare l’ordinanza di rigetto della domanda.

Inoltre il giudice ha la facoltà, dopo aver valutato la complessità della lite e dell’istruzione probatoria e
sentite le parti, di disporre con ordinanza non impugnabile, la prosecuzione del processo nelle forme del
nuovo rito semplificato.

IL RILIEVO OFFICIOSO DELLE QUESTIONI E LA NULLITA’ DELL’ATTO DI CITAZIONE

Durante l’udienza di trattazione delle conclusioni e per tutto il primo grado (fino all’udienza di precisazione
delle conclusioni), il giudice ha il potere e il dovere di rilevare d’ufficio le:

- Questioni processuali: relative ai vizi da sanare;


- Questioni di merito: su cui si fondano le c.d. eccezioni in senso lato (ad esempio, la nullità del
contratto);

Ad esempio, qualora il convenuto non eccepisca nulla, il giudice potrà rilevare la nullità del contratto posto
a fondamento della domanda dell’attore, sollevando lui stesso la questione, al fine di consentire il
contraddittorio tra le parti. Ovviamente, il fatto che il giudice abbia rilevato la questione, non significa che
egli sia convinto che il contratto sia nullo, semplicemente “avvisa” le parti che va considerata anche questa
ipotesi.

Qualora una delle parti eccepisca la nullità, dovrà proporre la c.d. domanda di accertamento di nullità. In
questo caso il processo si amplia, diventando ad “oggetto plurimo”: accanto alla domanda originaria,
infatti, vi è la domanda di accertamento della nullità.

In virtù del principio del contraddittorio, alle parti deve essere garantita la possibilità di partecipare al
processo, nonché di influire sul suo svolgimento e sul contenuto della decisione.

Ad ogni modo, il Codice di Procedura Civile sancisce che: “se il giudice vuole basare la propria decisione su
una questione rilevata d’ufficio, deve assegnare alle parti (a pena di nullità), un termine non inferiore a 20
giorni e non superiore a 40 per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione”. Sulla base di
ciò, possiamo ritenere nulle le c.d. sentenze a sorpresa (o della terza via), con le quali il giudice, nel
decidere una controversia, si basa su una questione rilevata d’ufficio, senza garantire il rispetto del
contraddittorio.

Tuttavia, tale nullità è sanata se:

- Nonostante la mancata attivazione del contraddittorio, le parti siano comunque riuscite ad


esercitare le proprie difese;
- Quando emerge che se pure il contraddittorio fosse stato attivato, esso sarebbe risultato “inutile”;

LE TRE MEMORIE SUCCESSIVE ALL’UDIENZA DI TRATTAZIONE

Le memorie sono degli strumenti con le quali le parti possono precisare o modificare le domande e le
eccezioni proposte. In linea di principio, le parti, già durante l’udienza di trattazione, possono procedere
alla c.d. emendatio libelli (e quindi modificare le domande e le eccezioni proposte).

Tuttavia, qualora esse non siano pronte per la trattazione della causa nel merito, potranno chiedere al
giudice le tre memorie successive all’udienza, le quali prevedono tre termini:

- 30 giorni per il deposito della prima memoria;


- Ulteriori 30 giorni per il deposito della seconda memoria;
- 20 giorni per il deposito della terza memoria;

La prima memoria, anche detta “memoria di emendamento”, serve a precisare e modificare le domande e
le eccezioni proposte. Tuttavia, tali modifiche non sono sempre ammissibili e, dunque, bisogna distinguere
tra:

- Domanda autodeterminata: quando l’oggetto della domanda è chiaro. Solitamente, nell’atto di


citazione, l’attore deve spiegare come ha acquistato il diritto, tuttavia, nulla vieta che egli possa
modificare la sua versione individuando un titolo acquisitivo diverso (il quale potrà essere esposto
nella prima memoria). In questo modo non si cambia la domanda giudiziale, ma semplicemente la
si fonda su un fatto diverso;
- Domanda eterodeterminata: quando il diritto è identificato non solo dal petitum, ma anche dalla
causa petendi. Essa, se modificata, vale come una domanda nuova e diversa da quella originaria
(avente ad oggetto un diritto diverso);

A tal proposito, è considerata ammissibile la c.d. domanda complanare, cioè una domanda concorrente con
quella originaria e che è caratterizzata da un oggetto diverso, nonostante si fondano sullo stesso fatto
socio-economico. Essa, seppur nuova, è legata alla domanda originaria da un vincolo di alternatività (nel
senso che il giudice non potrà accoglierle entrambe).

La seconda memoria: è composta da due parti:

- La prima, serve a replicare alle attività svolte dalla controparte nella prima memoria (ecco perché la
domanda complanare non lede il diritto alla difesa, perché la parte ha la possibilità di difendersi
grazie a questa seconda memoria);
- La seconda, serve a provare i fatti affermati da una parte e contestati dall’altra. Essa consiste nelle
istanze istruttorie e nella produzione di documenti;

La terza memoria, invece, serve a formulare le prove contrarie rispetto a quelle contenute nella seconda
memoria. Bisogna distinguere tra:

- Prova contraria diretta: quando si basa sugli stessi fatti e sulle stesse prove allegate dalla parte
avversaria (ad esempio, si chiede al giudice che anche i propri testimoni rispondano alle domande
indicate dalla controparte);
- Prova contraria indiretta: quando si basa su fatti nuovi, formulati ad hoc per dimostrare
l’incompatibilità con quelli dell’avversario;

Il fine è sempre lo stesso, cambia solo la modalità con cui si intende smentire quanto sostenuto dalla
controparte.

MUTAMENTO DEL RITO DA ORDINARIO A SOMMARIO

L’art. 183bis c.p.c. disciplina il passaggio dal rito ordinario al rito semplificato, prevedendo che: “durante
l’udienza di trattazione, il giudice, valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria e sentite
tutte le parti, può disporre con ordinanza non impugnabile la prosecuzione del processo nelle forme del rito
semplificato. E’ necessario che i fatti in causa non siano controversi, la domanda sia fondata su prova
documentale e non sia richiesta un’istruzione complessa”.

L’udienza di trattazione costituisce il termine iniziale e finale entro cui disporre il mutamento del rito.

Il rito semplificato è un rito alternativo a quello ordinario, il cui scopo è quello di rendere più celere la
definizione delle controversie.

Se viene disposta la prosecuzione del processo nelle forme del rito semplificato, troverà applicazione l’art.
281 duodecies c.p.c.

Alla prima udienza, l’attore può chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo (se l’esigenza è
sorta dalle difese del convenuto). Il giudice, se lo autorizza, fissa la data della nuova udienza, fissando un
termine perentorio per la citazione del terzo.

Le parti possono proporre le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale e delle
eccezioni proposte dalle altre parti. Se richiesto e sussiste giustificato motivo, il giudice può concedere alle
parti un termine non superiore a 20 giorni per precisare e modificare le domande, le eccezioni e le
conclusioni, per indicare i mezzi di prova e produrre documenti, e un ulteriore termine di 10 giorni per
replicare e dedurre prova contraria.

LA EVENTUALE FASE ISTRUTTORIA

Dopo aver effettuato il triplice giro di memorie, il giudice va in “riserva”: egli, entro 30 giorni dell’ultimo
termine previsto per lo scambio delle memorie, con ordinanza, ammette le prove costituende che ritiene
ammissibili e rigetta le altre.

A tal proposito:

- Se il giudice ammette alcune prove: fisserà l’udienza istruttoria (per la loro assunzione);
- Se il giudice non ammette alcuna prova: fisserà direttamente l’udienza di precisazione delle
conclusioni;

Con la medesima ordinanza (e tenendo conto del principio di ragionevole durata del processo), il giudice
fissa il c.d. calendario del processo, nel quale sono fissate le date delle udienze successive. Questa
operazione potrà essere effettuata solo dopo aver sentito le parti e aver valutato la natura della causa, in
quanto solo così il giudice avrà un quadro complessivo delle attività che dovranno essere svolte. I termini
fissati nel calendario possono essere prorogati, anche d’ufficio, quando sussistano gravi motivi
sopravvenuti. Il mancato rispetto dei termini può costituire violazione disciplinare.

CAPITOLO 3

LE DIVERSE MODALITA’ DI DECISIONE DEL COLLEGIO E DEL GIUDICE MONOCRATICO

La fase decisoria si svolge in modo parzialmente diverso a seconda che la controversia debba essere decisa
dal giudice monocratico o dal giudice collegiale.

Tendenzialmente, il Tribunale giudicherà in composizione monocratica, fatta eccezione per i casi in cui la
decisione deve essere presa da un Collegio (composto da tre membri):

- Nelle cause in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero;


- Nelle cause di opposizione, impugnazione e revocazione;
- Nelle cause di omologazione del concordato fallimentare e del concordato preventivo;

La scelta tra composizione monocratica e collegiale viene effettuata durante la fase decisoria (dopo
l’udienza p.c.). La precedente fase di trattazione, infatti, è affidata al Giudice Istruttore, il quale sarà o uno
dei membri che comporranno il Collegio, oppure lo stesso giudice monocratico che sarà chiamato a
decidere.

Dunque, bisogna distinguere se la causa è a:

- Composizione collegiale: dopo l’udienza p.c., il giudice istruttore rimette la causa al Collegio ed
assegna alle parti un termine di 60 giorni per il deposito delle comparse conclusionali (con cui si
espongono le ragioni di fatto e di diritto su cui si basano le istanze già proposte dinanzi al giudice
istruttore) ed un termine di 20 giorni per le memorie di replica (che consentono alla parte di
replicare alla comparsa conclusionale avversaria). La decisione viene adottata in Camera di
Consiglio, a maggioranza dei voti dei componenti del Collegio. Chiusa la votazione, il Presidente del
Tribunale redige il dispositivo della decisione e il giudice relatore redige la motivazione.
Le parti possono chiedere che la causa venga discussa oralmente. In tal caso il Presidente, con
decreto, fisserà la data dell’udienza (da tenersi entro 60 giorni);
- Composizione monocratica: la decisione può essere adottata in tre modi:
• Modello ordinario: il giudice dopo aver disposto lo scambio delle comparse conclusionali e
delle memorie di replica, deposita la sentenza entro 30 giorni;
• Modello intermedio: il giudice dispone lo scambio delle sole comparse conclusionali e poi,
nei successivi 30 giorni, fissa un’udienza di discussione orale (invece della memoria di
replica scritta). Successivamente, entro 30 giorni deposita la sentenza in cancelleria;
• Modello semplice: il giudice durante l’udienza di precisazione delle conclusioni invita i
difensori a discutere oralmente la causa e, all’udienza stessa (dopo la discussione),
pronuncia sentenza “dando lettura del dispositivo e delle ragioni di fatto e di diritto della
decisione”.

LA RIMESSIONE ANTICIPATA DELLA CAUSA DELLA DECISIONE: LE SENTENZE NON DEFINITIVE

Una volta conclusa la fase preparatoria del processo e qualora non sia intervenuta fra le parti alcuna
conciliazione, si prospettano diverse eventualità. Ai sensi dell’art. 187 c.p.c.:

- Il Giudice Istruttore può rimettere le parti davanti al Collegio, qualora ritenga che la causa possa
essere decisa nel merito senza la necessità di assumere alcun mezzo di prova (egli si limiterà a
verificare la regolarità dell’atto introduttivo e della costituzione delle parti). Tuttavia, ciò può
verificarsi solo se i fatti di causa non sono controversi, se non è possibile decidere la causa sulla
base dei documenti prodotti in giudizio e se nessuna delle parti ha richiesto l’ammissione di mezzi
di prova (o se nonostante siano stati richiesti, il giudice li consideri inammissibili, irrilevanti o
superflui);
- Il Giudice Istruttore può rimettere le parti al Collegio, qualora ritenga che vi sia una questione
preliminare di merito che possa definire il giudizio. Le questioni di merito sono quelle questioni
inerenti al merito della controversia, la cui risoluzione pregiudica la decisione finale del giudizio in
corso (esse sono introdotte con le c.d. eccezioni in senso stretto, ed il loro accoglimento
renderebbe inutile l’istruttoria e consentirebbe di risolvere la controversia. Ad esempio, l’eccezione
di prescrizione del diritto controverso);
- Il Giudice Istruttore può rimettere le parti al Collegio se sorgono questioni attinenti alla
giurisdizione o alla competenza o altre questioni pregiudiziali (ad esempio, le questioni di capacità o
legittimità processuale, le questioni di nullità della citazione). Si tratta di questioni di rito, la cui
risoluzione condiziona necessariamente lo svolgimento del processo;

Nel caso in cui la causa debba essere decisa dal giudice monocratico, non si avrà nessuna “remissione al
Collegio”, ma semplicemente il Giudice Unico rimetterà la causa in decisione, pronunciando egli stesso la
sentenza. Tale sentenza può essere:

- Definitiva: se chiude il processo decidendo su tutte le domande e le eccezioni proposte;


- Non definitiva: se non chiude il processo, ma decide specifiche questioni. In questo caso il giudice
disporrà, con ordinanza, la prosecuzione dell’istruttoria (ammettendo le eventuali prove);

La rimessione anticipata può essere disposta sia durante l’udienza di trattazione (senza neanche
assegnare i termini per le tre memorie), sia con l’ordinanza emessa dal giudice dopo aver letto le tre
memorie.
Le sentenze non definitive sono quelle che non definiscono il giudizio e che non pongono fine al
processo, ma hanno lo scopo di decidere specifiche questioni e di rimandare la pronuncia sulle restanti
ad una sentenza successiva. Possono essere pronunciate su:

- Questioni pregiudiziali di rito: si intendono le c.d. condizioni di ammissibilità del ricorso. Ad


esempio, la tempestività del ricorso, l’appello proposto entro i 6 mesi, la competenza, la
giurisdizione, l’integrità del contraddittorio;
- Questioni preliminari di merito: si intendono le questioni idonee a definire da sole il processo. Ad
esempio, la decadenza, la prescrizione, il difetto di notifica;
- Singole domande: mentre il processo prosegue sulle altre domande;
- Condanna generica: qualora sia accertata la responsabilità del convenuto, ma il processo deve
proseguire per quantificare la prestazione dovuta;

Effetto della sentenza non definitiva è quello di non consentire al giudice che l’ha pronunciata di ritornare
sulla questione. Tuttavia, tale sentenza può essere impugnata con i normali mezzi di impugnazione e, in
caso contrario, essa è idonea a passare in giudicato formale (quindi non è più soggetta alle impugnazioni
ordinarie e non può più essere modificata dal giudice superiore, ne dal giudice che la ha emessa).

SENTENZA DI PRIMO GRADO E L’ISTITUTO DELLA CORREZIONE

La sentenza che decide il merito della causa può essere di:

- Accoglimento della domanda: in tal caso, potrà accogliere un’azione di condanna e dunque sarà
una sentenza esecutiva (vincolante per le parti), oppure può accogliere una domanda di
accertamento e dunque sarà una sentenza di mero accertamento (che si limita ad accertare la
realtà giuridica);
- Rigetto della domanda: in tal caso è sempre una sentenza di mero accertamento;

La sentenza di primo grado è una sentenza immediatamente esecutiva tra le parti (anche se
provvisoriamente), nel senso che produce i suoi effetti sin dal momento della sua pubblicazione. Tuttavia,
ciò non vale per tutte le sentenze, ma solo con riferimento a quelle di condanna, le quali sono le uniche che
per loro natura possono costituire titolo esecutivo.

Dei problemi nascono in relazione a quelle sentenze che presentano solo un capo condannatorio che però
sia legato da un nesso di sinallagmaticità ad un capo di accertamento o costitutivo. In questo caso, i capi
condannatori produrranno i loro effetti solo con il passaggio in giudicato della sentenza.

La sentenza deve indicare:

- Il giudice che l’ha pronunciata;


- Le parti e i loro difensori;
- Le conclusioni del pubblico ministero e delle parti;
- L’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione;
- La sottoscrizione del giudice;

Qualora la sentenza presenti degli errori materiali è possibile procedere alla sua correzione (la quale non è
un mezzo di impugnazione, ma anzi essa fa in modo che non ci sia bisogno di ricorrervi). L’errore materiale
è quello commesso a causa di una mera distrazione, di una svista o di una disattenzione momentanea. Esso
rappresenta la difformità tra quando deciso dal giudice e quanto concretamente riportato nella sentenza.
La parte può proporre richiesta di correzione con ricorso, da presentare al giudice che ha pronunciato la
sentenza. L’errore, per essere correggibile, deve essere “evidente”, cioè deve riconoscersi attraverso la sola
lettura del documento, senza l’ausilio di ulteriori indagini.

Se la richiesta proviene:

- Da tutte le parti: il giudice provvede con decreto;


- Da una sola parte: il giudice fissa l’udienza di comparizione e successivamente provvede con
ordinanza;

Con la correzione (che è un’attività amministrativa e non giurisdizionale), si uniformano le espressioni


erronee (contenute nella sentenza) con la decisione stessa.

Le parti, dopo la correzione, hanno comunque la possibilità di impugnare le parti modificate.


L’impugnazione può essere proposta a partire dalla notificazione dell’ordinanza di correzione. Tuttavia non
è impugnabile il provvedimento con cui si rigetta la richiesta di correzione.

Il procedimento di correzione degli errori materiali è esperibile anche verso le sentenze e le ordinanze della
Corte di Cassazione. La richiesta va proposta dalla parte che ne abbia interesse, con ricorso, da notificare
entro 60 giorni dalla notificazione della sentenza (o entro un anno dalla sua pubblicazione). Sul ricorso, la
Corte decide in Camera di Consiglio e si pronuncia con ordinanza. Inoltre, la correzione può essere rilevata
anche d’ufficio dalla Corte, la quale può correggere le sue pronunce.

Bisogna specificare che l’istituto della correzione delle sentenze è espressione del principio di integrazione
del dispositivo con la motivazione, in virtù del quale il contenuto della sentenza deve essere individuato
tenendo conto sia del dispositivo che del voluto.

LE ORDINANZE ANTICIPATORIE DI CONDANNA: RINVIO

Nel corso del processo e prima che venga pronunciata la sentenza che definisce il giudizio, le parti possono
chiedere al giudice di pronunciare dei provvedimenti di condanna immediatamente esecutivi ed anticipatori
(in tutto o in parte) della sentenza. Si tratta delle c.d. ordinanze anticipatorie di condanna.

Ricordiamo:

- Ordinanza per il pagamento delle somme non contestate: con cui il giudice, su istanza di parte, può
disporre il pagamento delle somme non contestate dalle parti costituite. Essa costituisce titolo
esecutivo, tuttavia, non contenendo nessun accertamento idoneo al giudicato, è sempre revocabile
e modificabile con la sentenza di merito che definisce il giudizio (art. 186bis c.p.c.);
- Ordinanza-ingiunzione: con cui il giudice, su istanza di parte, può in ogni stato del processo di primo
grado e fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, ingiungere al pagamento di una somma di
denaro o alla consegna di una determinata quantità di cose fungibili. Essa consente di ottenere,
durante un giudizio di 1° grado, un provvedimento anticipatorio che produca gli stessi effetti di un
decreto ingiuntivo, allo scopo di recuperare una somma di denaro o dei beni di cui la parte è
creditrice (art. 186ter c.p.c.);
- Ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione: con cui il giudice, conclusa la fase istruttoria, può
ordinare il pagamento oppure il rilascio/consegna dei beni, nei limiti per cui ritiene già raggiunta la
prova. Essa è revocabile con la successiva sentenza che definisce il giudizio.

CAPITOLO 4
LE VICENDE ANOMALE DEL PROCESSO: L’ESTINZIONE

Le vicende anomale del processo sono quelle che ritardano, o addirittura bloccano, l’emanazione della
sentenza.

Tra queste ricordiamo sicuramente l’estinzione del processo di 1° grado, che può verificarsi per rinuncia
agli atti o per inattività delle parti.

Per quanto riguarda il primo caso, si dispone che “il processo si estingue se una delle parti rinuncia agli atti
del giudizio. E’ necessaria l’accettazione delle altre parti costituite”. Ciò in virtù del fatto che, una volta
instaurato il rapporto processuale, il diritto alla decisione di merito diviene bilaterale (dunque, spetta tanto
all’attore quanto al convenuto).

L’accettazione non è efficace se contiene riserve o condizioni (ad esempio, il convenuto non può decidere di
accettare a patto che l’attore non ricominci il processo non riproponga l’azione. Nel caso in cui questa
venga apposta, vale come non accettazione della rinuncia).

Bisogna specificare, che non si rinuncia alla titolarità del diritto sostanziale controverso, ma si rinuncia al
solo rapporto processuale.

La rinuncia può essere espressa:

- Dall’attore: in questo caso è necessaria l’accettazione del convenuto che si sia costituito. Qualora
quest’ultimo sia contumace, si presume che egli non abbia interesse a proseguire il processo (e,
dunque, la rinuncia diventa immediatamente efficace ed il processo si estingue);
- Dal convenuto: a condizione che abbia proposto una domanda riconvenzionale (in tal caso si avrà
l’estinzione della sola causa nata dalla riconvenzionale e, quindi, l’estinzione solo parziale del
processo cumulato);

La dichiarazione può essere fatta dalle parti personalmente, oppure dai loro avvocati (ma solo a condizione
che gli sia stato espressamente conferito questo potere).

La parte rinunciante deve rimborsare le spese alle altre parti (salvo diverso accordo tra di loro).

A seguito della rinuncia il processo si estingue immediatamente. Dunque, si può affermare che l’ordinanza
che dichiara l’estinzione del processo ha valore meramente “ricognitivo”. Contro di essa è proponibile
reclamo che, a seconda dei casi, può essere presentato al Collegio o al giudice monocratico. Esso va
presentato con una semplice dichiarazione nel verbale dell’udienza, o con ricorso al giudice istruttore.

A tal proposito:

- Se il reclamo viene respinto: il giudice, con sentenza, conferma l’estinzione del processo. Contro
quest’ultima è proponibile appello (che, se accolto, fa si che la causa venga rimessa in 1° grado e
proseguirà dal punto in cui era arrivato. Se invece l’appello viene respinto, verrà confermata con
sentenza l’estinzione del processo. Contro quest’ultima è proponibile a sua volta ricorso per
cassazione);
- Se il reclamo viene accolto: viene revocata l’ordinanza di estinzione e verrà pronunciata un’altra
ordinanza (non impugnabile) che disporrà la prosecuzione del processo;

Prima che l’ordinanza divenga definitiva, vi è una fase di c.d. litispendenza contratta: il processo non è
pienamente pendente, ha una pendenza “diminuita”, quel tanto che servirà al giudice per dichiarare
l’estinzione. Esso uscirà da questa fase con l’atto di riassunzione, o terminerà con l’estinzione.

Per quanto riguarda l’estinzione del processo per inattività delle parti, bisogna distinguere due ipotesi:
- Il processo non è stato riassunto nei termini: il che si verifica quando l’attore avrebbe dovuto
costituirsi entro 10 giorni dalla notifica dell’atto di citazione e non l’ha fatto, oppure il convenuto
avrebbe dovuto costituirsi 70 giorni prima dell’udienza e non l’ha fatto. A tal proposito, se nessuno
si è costituto, significa che non è stata fatta neanche l’udienza fissata nell’atto di citazione e
dunque, la causa non è stata neanche iscritta al ruolo. In tutti questi casi, non potrà esserci alcun
ordine di cancellazione e si avrà una c.d. causa quiescente (temporaneamente in stato di inattività);
- E’ stata ordinata la cancellazione della causa dal ruolo: in questo caso, la causa è stata iscritta al
ruolo ma è stata cancellata. Essa potrà rimanere quiescente per 3 mesi (durante i quali il processo
deve considerarsi comunque pendente). Se poi entro questo termine il processo viene riassunto da
una delle parti, esso prosegue; altrimenti si estingue per duplice inattività delle parti. La
riassunzione è un atto di impulso endoprocessuale;

Bisogna distinguere tra:

- Inattività semplice: quando le parti omettono di dare impulso al processo. In questo caso il
processo non si estingue immediatamente, ma dopo un periodo di quiescenza di 3 mesi, durante i
quali le parti possono compiere un atto che rimetta in moto il processo (la riassunzione). In
mancanza, il processo si estingue;
- Inattività qualificata: quando sulle parti grava l’onere di regolarizzare il processo viziato (ad
esempio, le parti avrebbero dovuto rinnovare la citazione e non l’hanno fatto; oppure avrebbero
dovuto proseguire il processo che era stato sospeso; oppure avrebbe dovuto integrarlo con un
litisconsorte necessario). In questo caso il processo si estingue immediatamente. L’estinzione può
essere dichiarata anche d’ufficio, con ordinanza del giudice, oppure con sentenza del Collegio;

Per quanto riguarda gli effetti che derivano dall’estinzione, si sancisce che:

- L’estinzione del processo non estingue il potere di azione (cioè non preclude la possibilità di
proporre la stessa domanda in un secondo giudizio);
- Le prove raccolte durante il processo estinto, in caso di riproposizione della domanda, valgono
come “argomenti di prova”. Tuttavia, ciò vale solo per le c.d. prove costituende (quelle formate nel
processo) e non per le c.d. prove precostituite (cioè quelle formate prima del processo e che quindi
la parte dovrà solo esibire);
- Le spese sono a carico di chi le anticipa. In caso di estinzione per inattività, infatti, non si applica il
criterio della soccombenza (dato che non vi è stata una sentenza definitiva che determini il
soccombente);
- L’estinzione rende inefficaci tutti gli atti processuali, fatta eccezione per:
• I provvedimenti della Cassazione che regolano la giurisdizione e la competenza;
• Sentenze di merito non definitive: tra di esse resistono al processo le:
➢ Sentenze di merito parziali: quelle che hanno accolto o rigettato una delle domande
cumulate. Esse sopravvivono al processo in quanto hanno già proclamato il
vincitore su quella determinata lite (e quindi hanno piena efficacia
extraprocessuale). Sono definite “parziali” in quando decidono solo una delle liti
cumulate (ma quella lite la decidono tutta, quindi rispetto ad essa sono delle
sentenze complete);
➢ Sentenze di condanna generica: con cui il giudice accerta l’esistenza della
prestazione senza definirne il quantum;

Si ritiene che sopravvivono al processo estinto anche: le ordinanze anticipatorie di condanna; il decreto
ingiuntivo e l’ordinanza di rilascio.
LA CESSAZIONE DELLA MATERIA DEL CONTENDERE

La cessazione della materia del contendere è una vicenda anomala di estinzione del processo. Si verifica
quando durante il processo interviene un atto o un fatto che elimina il contrasto tra le parti e, di
conseguenza, fa venir meno la necessità di una pronuncia del giudice. Ciò può accadere a causa di:

- Eventi processuali: quando la cessazione deriva da un provvedimento reso in un altro processo che
condiziona quello in corso;
- Eventi sostanziali: ad esempio, la soddisfazione stragiudiziale del diritto controverso, il
riconoscimento del diritto, la morte di una delle parti (ma solo quando essa comporta il venir meno
della ragion d’essere del processo come, ad esempio, nel caso della morte di uno dei due coniugi
nel giudizio di separazione) ect. A tal proposito, alcuni di questi eventi, fanno si che vi sia la
realizzazione del diritto (e quindi il provvedimento richiesto diviene inutile), altri invece fanno si che
vi sia una sostituzione della fonte alla base del rapporto (e quindi il provvedimento richiesto diviene
inattuale, perché riferito ad un rapporto tra le parti ormai superato);

La cessazione della materia del contendere viene dichiarata con sentenza (e contiene normalmente anche
la pronuncia sulle spese del giudizio). Essa può essere rilevata d’ufficio solo se il fatto nuovo è ammesso e
riconosciuto da entrambe le parti e queste concordano sulle conseguenze giuridiche.

Dei dubbi sussistono nel caso in cui la cessazione della materia del contendere si verifichi in pendenza del
ricorso per cassazione. Ci si interroga su quale sia il modo più opportuno per terminare il giudizio di
cassazione. A tal proposito, sono stati previsti vari modi:

- La prima alternativa: prevede di pronunciare una sentenza dichiarativa con cui si dichiara la
sopravvenuta inammissibilità o improcedibilità del ricorso per cassazione;
- La seconda alternativa: prevede di dichiarare la c.m.c. direttamente nel giudizio di cassazione
(tuttavia, ciò non consente di capire se la pronuncia sia in grado di sostituirsi e annullare le
precedenti);
- La terza alternativa: prevede che la Corte dichiari la c.m.c. cassando senza rinvio la sentenza
impugnata;
- La quarta alternativa (e quella preferibile): prevede una decisione della causa nel merito, previa
dichiarazione di c.m.c.;

Un ulteriore vicenda anomala di estinzione del processo è la c.d. conciliazione giudiziale della lite. Il
giudice, di propria iniziativa o su richiesta di entrambe le parti, fissa un’apposita udienza per l’esperimento
di un tentativo di conciliazione. Se questa va a buon fine, verrà redatto un verbale di conciliazione, il quale
costituisce titolo esecutivo.

LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO PENDENTE

La sospensione consiste in un arresto temporaneo del processo, il quale entra in una fase di quiescenza
(durante la quale deve considerarsi comunque pendente), in attesa di essere riattivato con un atto di
impulso.

Durante la sospensione non può essere compiuto nessun atto processuale (fatta eccezione per gli atti
urgenti e la tutela cautelare). Inoltre, vengono interrotti i termini processuali in corso, i quali decorrono ex
novo dal momento in cui il processo riprende.

Bisogna distinguere tra:


- Sospensione facoltativa: il giudice, ove sussistano gravi motivi e su istanza di tutte le parti,
sospende il processo per un periodo non superiore ai 3 mesi (può essere effettuata solo una volta).
Inoltre, tenuto conto che il provvedimento di sospensione facoltativa è di competenza del giudice
istruttore, lo stesso può essere richiesto solo durante la fase istruttoria;
- Sospensione necessaria: il giudice, con ordinanza, sospende il processo quando deve risolvere una
controversia dalla cui risoluzione dipende la decisione della causa. Egli, infatti, non può decidere nel
merito, perché prima c’è una questione pregiudiziale che deve essere decisa in altra sede e con
efficacia di giudicato. Può trattarsi di:
• Pregiudizialità interna: quando la questione pregiudiziale si riferisce allo stesso rapporto
processuale, ma deve essere trattata in altra sede;
• Pregiudizialità esterna: quando le due questioni (connesse) pendono in due processi
autonomi;

Tuttavia, si ritiene che la sospensione non deve per forza durare fino al passaggio in giudicato della
decisione sulla causa pregiudicante (l’altro processo). Le parti della causa dipendente potranno comunque
riassumere il processo sospeso, il quale però non potrà comunque proseguire liberamente, in quanto la
causa principale è ancora prendente. Dunque, la sospensione del processo verrà meno quando sia stata
pronunciata sentenza (seppur ancora impugnabile) sulla causa pregiudicante. A tal proposito, il giudice
della causa dipendente può scegliere se:

- Far proseguire il processo, adeguandosi alla sentenza resa sulla causa pregiudicante;
- Sospendere nuovamente il processo, qualora ritenga che l’impugnazione proposta contro la
sentenza della causa pregiudicante possa essere accolta;

La sospensione necessaria può essere evitata tramite la c.d. riunione dei processi la quale, tuttavia, non può
essere disposta quando, ad esempio: una causa pende in appello e l’altra in primo grado; oppure quando
una causa sia giunta alla fase decisoria e l’altra sia in fase di trattazione.

La sospensione viene pronunciata con ordinanza, la quale è impugnabile davanti alla Corte di Cassazione
entro 30 giorni dalla sua comunicazione. Non può invece essere impugnata l’ordinanza con cui il giudice
nega la sospensione (tuttavia può essere revocata dal giudice che l’ha pronunciata).

Il Codice di Procedura Civile prevede una c.d. pregiudizialità penale, rimandando direttamente all’art. 3
c.p.p. (tuttavia, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, l’art. 3 tratta di
tutt’altro e, dunque, il riferimento non ha più molto senso). Il vecchio art. 3 sanciva che: “ogni volta in cui,
nell’ambito di un processo civile, emerga un fatto costituente reato, il giudice civile deve informare il
Pubblico Ministero e sospendere il processo, in attesa di sapere se il PM voglia procedere o meno su quel
fatto. Se poi viene instaurato il giudizio penale, il giudice civile deve lasciare il proprio processo sospeso fino
al passaggio in giudicato della sentenza”.

In passato si riteneva che il giudice civile dovesse adeguarsi alla decisione presa nel processo penale. Ad
oggi, invece, le cose sono cambiate. Il c.p.p. vigente si basa sulla autonomia tra i due processi, fatta
eccezione per i casi in cui:

- Il danneggiato si sia costituito prima come parte civile nel processo penale e poi, revocando tale
costituzione, abbia iniziato un processo civile;
- Il danneggiato abbia iniziato la causa dinanzi al giudice civile dopo sia stata emanata una sentenza
di 1° grado nel processo penale, appellata;

In questi due casi, al fine di evitare che il danneggiato “fugga” da un processo penale che sta assumendo
una piega per lui sfavorevole, il processo civile dovrà essere necessariamente sospeso ed il giudice dovrà
poi conformarsi alla decisione presa in sede penale.
Per quanto riguarda, invece, la c.d. pregiudizialità amministrativa, bisogna distinguere tra:

- Giurisdizione amministrativa: quando il giudice amministrativo conosce degli interessi legittimi e dei
diritti soggettivi;
- Giurisdizione di legittimità: quando il giudice verifica se l’atto sia lesivo di interessi legittimi (per
violazione, incompetenza o eccesso di potere);

I casi di pregiudizialità amministrativa sono piuttosto rari, essi si verificano ad esempio quando, in una
causa tra privato e pubblica amministrazione, vi sia un decreto di esproprio per pubblica utilità di un
terreno che è stato impugnato innanzi al giudice amministrativo e, contemporaneamente, penda una causa
civile relativa ai confini di quel fondo.

Chi vuole far proseguire il processo, deve riassumerlo entro 3 mesi dalla sua sospensione. L’istanza di
riassunzione si propone con ricorso al Presidente del Tribunale o al giudice istruttore, a seconda che, il
processo fosse pendente dinanzi al Collegio oppure al Tribunale. Il processo continua nell’udienza fissata.
Legittimati a riassumere il processo sono solo coloro che rivestono la qualità di “parte”. La notificazione del
ricorso viene effettuata al procurate (qualora la parte si sia costituita tramite quest’ultimo) o alla parte che
si sia costituita personalmente. Se la notificazione è stata effettuata fuori termine, allora il giudice dovrà
fissare una nuova udienza e ordinare la rinnovazione della notificazione del ricorso. Diversamente, se la
notificazione non è stata eseguita, il processo si estingue.

L’INTERRUZIONE DEL PROCESSO

L’interruzione consiste in un arresto temporaneo del processo, che si verifica a seguito di:

- Morte o perdita di capacità di stare in giudizio della parte;


- Morte o perdita di capacità del rappresentante;
- Morte, radiazione dall’albo o sospensione dell’avvocato;

Tali eventi sono disciplinati in maniera diversa a seconda che si tratti di una persona fisica o giudica. Per
quest’ultime (enti o società), la giurisprudenza equiparava le vicende di fusione e scissione alla morte di una
persona fisica e, dunque, il loro verificarsi causava l’interruzione del processo. Tuttavia, ad oggi, le Sezioni
Unite, hanno chiarito che la fusione non può essere intesa come la morte della società, ma semplicemente
come una reciproca integrazione tra le società stesse (inidonea ad interrompere il processo). La fusione,
infatti, è un evento che si verifica per volontà della società.

L’interruzione del processo si verifica per: dichiarazione di fallimento, liquidazione coatta amministrativa,
amministrazione straordinaria e per la cancellazione della società dal registro delle imprese.

Il processo rimasto interrotto può essere:

- Proseguito: la prosecuzione è un atto di impulso processuale, attraverso il quale è possibile far


riprendere al giudizio il suo corso naturale dopo l’evento interruttivo. Il giudizio può essere
proseguito solo dalla parte colpita dall’evento interruttivo. Se il processo è stato interrotto per
morte di una delle parti, l’atto di prosecuzione spetta al successore universale. Inoltre, si
prevedono due forme di prosecuzione del giudizio, in alternativa fra loro, a seconda che al
momento dell’evento risulti fissata o meno una udienza:
• Quando vi sia una udienza già fissata, il successore può costituirsi nelle stesse forme
previste per il convenuto;
• Se, invece, l’udienza non sia già stata fissata, vi sarà l’onere di chiedere con ricorso la
fissazione dell’udienza al giudice istruttore (o nel caso in cui questi non sia ancora stato
designato, al Presidente del Tribunale). Una volta adempiute tutte le attività, il processo
riprende dalla stessa fase processuale in cui è stato interrotto;
- Riassunto: se il processo non è proseguito dalla parte colpita dall’evento, possono attivarsi le altre
parti, ripristinando dunque il contraddittorio nei confronti della parte rimasta inerte o del suo
successore universale. La legittimazione attiva a porre in essere la riassunzione compete a tutte le
parti diverse da quella colpita dall’evento (anche se contumaci). Nel caso in cui la parte colpita
dell’evento interruttivo sia rimasta contumace, verrà chiamato in giudizio un suo successo, il quale
potrà poi scegliere se costituirsi o rimanere a sua volta contumace.
La parte che voglia riassumere il processo ha l’onere di chiedere la fissazione dell’udienza;

Il processo deve essere sempre proseguito o riassunto nel termine di 3 mesi, altrimenti si estingue.

CAPITOLO 6

IL C.D. DIRITTO ALLA PROVA, LE DIVERSE CATEGORIE DI PROVE E LE PROVE ATIPICHE

L’art. 24 Cost., oltre a sancire il diritto di azione ed il diritto alla difesa, riconosce anche il c.d. diritto alla
prova, cioè il diritto per la parte di fornire in giudizio la prova dei fatti rilevanti per l’accoglimento della
domanda (o delle eccezioni del convenuto). Questi fatti, se vengono provati, dovranno essere posti a
fondamento della decisione del giudice. Viceversa, se non provati, il giudice dovrà decidere come se quei
fatti non esistessero.

Le parti devono allegare i fatti rilevanti per la causa e devono descrivere al giudice la situazione giuridica
oggetto della lite. A tal proposito, l’attore deve allegare i fatti costitutivi; e il convenuto i fatti impeditivi,
modificativi ed estintivi.

Il giudice, dal suo lato, ha il potere-dovere di esaminare i documenti prodotti dalla parte solo nel caso in cui
essa dichiari gli scopi che intende perseguire attraverso la loro esposizione.

Bisogna distinguere tra:

- Mezzi di prova: gli strumenti previsti dalla legge per dimostrare in giudizio la verità dei fatti
rilevanti per la decisione;
- Prova: è lo strumento con il quale si cerca di convincere il giudice sulla veridicità di un fatto;

Nell’ordinamento civile, a differenza di quello penale, manca una norma che affermi la tassatività dei mezzi
di prova, per cui si ritengono ammissibili anche le c.d. prove atipiche, cioè quelle non espressamente
disciplinate dal legislatore. Esse possono essere acquisite al processo, purchè nel rispetto del principio del
contraddittorio e delle regole che disciplinano il processo civile.

Altra parte della dottrina, invece, ritiene che le prove atipiche possano essere utilizzate come degli
“argomenti di prova”, cioè come degli elementi sussidiari di convincimento, che non possono da soli essere
posti alla base della decisione, ma devono essere utilizzati dal giudice insieme ad altri elementi di prova veri
e propri, come ausilio nella formazione del proprio convincimento.

Le prove illecite, invece, sono quelle prove che pur essendo concretamente previste dalla legge, siano state
acquisite in violazione della legge o comunque con sistemi antigiuridici (ad esempio, si è entrati in possesso
di un documento rubandolo). A tal proposito:

- Parte della dottrina ritiene che esse siano ammissibili, in quanto l’illecito si verifica al di fuori del
processo;
- Altra parte della dottrina, invece, ritiene che siano inutilizzabili;

Le prove possono idealmente dividersi in diverse categorie:

- Prove costituite: che si formano prima e all’esterno del processo (ad esempio, le prove
documentali, le quali vengono introdotte attraverso la produzione di un documento);
- Prove costituende: che si formano all’interno del processo, nel contraddittorio tra le parti e dinanzi
al giudice (su di esse il giudice deciderà con ordinanza);

A seconda di come il giudice viene a conoscenza della prova bisogna distinguere tra:

- Prove dirette: con le quali il giudice viene immediatamente a conoscenza del fatto da provare;
- Prove indirette: con le quali il giudice viene a conoscenza del fatto da provare tramite un altro
documento o dichiarazione orale;

E tra:

- Prove storiche: che hanno ad oggetto il fatto da provare (ad esempio, la testimonianza diretta);
- Prove critiche: quando l’esistenza o meno del fatto da provare viene desunta attraverso la prova di
un altro fatto (ad esempio, le presunzioni semplici).

I PRINCIPI GENERALI IN MATERIA DI PROVE

Tra i principi che riguardano le prove, ricordiamo:

- Divieto di non liquet: in virtù del quale il giudice, quando viene proposta una domanda giudiziale,
deve sempre rendere una decisione (anche se non ritiene sufficientemente provati i fatti). Inoltre, il
giudice deve essere terzo ed imparziale, per cui non potrà attivarsi per cercare di scoprire se i fatti
allegati siano veri o meno. Ugualmente, egli non può far uso della c.d. scienza privata (cioè del
bagaglio di conoscenze proprio di ogni persona);
- Principio di disponibilità delle prove: in virtù del quale le prove devono essere introdotte dalle parti
o dal Pubblico Ministero. Il processo, infatti, deve essere mosso su impulso di parte;
- Principio dell’onere della prova: in virtù del quale il giudice non deve prendere in considerazione il
fatto non provato. Tuttavia, non necessitano di essere provati i c.d. fatti pacifici (quei fatti che siano
stati esplicitamente ammessi dalla controparte) e i c.d. fatti notori (quei fatti che siano noti alla
generalità delle persone di un determinato contesto di tempo e di luogo);
- Principio di acquisizione processuale: in virtù del quale la parte che ha prodotto una prova non
potrà decidere di ritararla senza il consenso del giudice e delle altre parti (in quanto ciascuna parte
può usare a proprio favore anche le prove fornite dall’avversario);
- Principio del libero convincimento: il giudice deve valutare le prove secondo il suo equo
apprezzamento (a tal proposito, si parla di c.d. prove libere). Ovviamente però la valutazione del
giudice non può essere fatta in modo arbitrario, ma facendo ricorso all’uso della ragione e alle c.d.
massime di esperienza (cioè delle regole di giudizio che esprimono quello che avviene nella maggior
parte dei casi). Una deroga al principio del libero convincimento del giudice è costituita dalle c.d.
prove legali, cioè quelle prove la cui efficacia è predeterminata dalla legge e non lasciano margini di
valutazione discrezionale (ad esempio, il documento, la confessione ed il giuramento);

- Principio di non contestazione: in virtù del quale si sancisce che il giudice deve porre a fondamento
della propria decisione anche i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita.
La contestazione, invece, consiste nella narrazione di fatti che siano incompatibili con quelli dedotti
dalla controparte.
Possono formare oggetto di non contestazione solo i fatti di cui la parte abbia avuto una percezione
diretta. Distinguendo tra:
• Fatti principali: quelli posti a fondamento della domanda (o dell’eccezione);
• Fatti secondari: quelli con i quali si verifica la sussistenza o meno dei fatti principali;

Un fatto può considerarsi “provato” quando raggiunge uno standard di probabilità-persuasione elevato.

Inoltre, sulla decisione possono assumere grande rilevanza anche i c.d. argomenti di prova, i quali consento
al giudice di trarre degli elementi utili per la sua decisione anche da alcuni accadimenti (come ad esempio, il
comportamento delle parti durante l’interrogatorio libero, oppure il rifiuto di sottoporsi ad un’ispezione).
Non sono delle vere e proprie prove, infatti, il giudice non può basarsi solo su di essi per decidere la causa.
Tuttavia, qualora le “prove piene” gli avessero lasciato qualche dubbio, potrà utilizzarli per colmarli.

Le c.d. presunzioni, invece, sono il meccanismo con cui da un fatto noto si può risalire ad un fatto ignoto.
Esse si dividono in:

- Presunzioni semplici (o hominis): ricavate dal giudice (e non dalla legge). Esse devono essere gravi,
precise e concordanti;
- Presunzioni legali: dettate dal legislatore. Esse possono a loro volta suddividersi in presunzioni
relative (superabili con la prova contraria) e presunzioni assolute (che non ammettono prova
contraria).

PATTI RELATIVI ALL’ONERE DELLA PROVA

L’onere della prova comporta che: la parte che abbia allegato un fatto a se favorevole, deve provare la sua
esistenza.

A tal proposito, il Codice Civile ammetta la possibilità per le parti di stipulare dei patti con cui invertire o
modificare l’onere della prova. Fatta eccezione:

- Per i casi in cui la controversia abbia ad oggetto diritti indisponibili;


- Quando l’inversione/modifica renderebbe ad una delle parti eccessivamente difficile l’esercizio del
diritto. Questa limitazione è posta a tutela del contraente debole, il quale potrebbe essere indotto
dalla parte economicamente forte a concludere patti troppo svantaggiosi;

Quindi le parti possono decidere di:

- Invertire l’onere della prova: ad esempio, sarà il convenuto a provare l’inesistenza del fatto
allegato dall’attore (e non l’attore a dover provare la sua esistenza);
- Modificare l’onere della prova: e quindi le parti interverranno sulle modalità della prova, cioè i
mezzi di prova in concreto utilizzabili (ad esempio, prevedendo che un determinato contratto per il
quale la legge non prevede la forma scritta, possa essere provato solo per iscritto).

LE MODALITA’ DI ASSUNZIONE DELLE PROVE

Dopo aver assegnato i tre termini per lo scambio delle memorie difensive, il giudice, entro 30 giorni,
pronuncia un’ordinanza con cui: o fissa l’udienza di precisazione delle conclusioni oppure ammette le prove
costituende richieste dalle parti, fissando una specifica udienza.

Il giudice deve ammettere solo le prove che, a seguito di un giudizio di rilevanza e ammissibilità, risultino
appunto ammissibili e rilevanti.
Solitamente deve essere effettuato prima il giudizio di rilevanza e poi il giudizio di ammissibilità poiché, se
un fatto è irrilevante ai fini della decisione, è inutile chiedersi se la sua prova sia ammissibile. Viceversa, se
una prova risulti sin da subito inammissibile, è inutile valutare la sua rilevanza.

Il giudizio di rilevanza e ammissibilità viene effettuato solo sulle c.d. prove costituende. Invece, la
valutazione delle c.d. prove precostituite (cioè formate prima e fuori dal processo) sarà effettuata al
momento della decisione della causa.

Se la parte che abbia chiesto l’assunzione di una prova non si presenti all’udienza apposita, il giudice la
dichiara decaduta dal diritto di farla assumere. Tuttavia, l’altra parte ha comunque la facoltà di chiederne
l’assunzione. Il giudice dovrà però revocare la decadenza dalla prova, qualora la parte dimostri di non aver
partecipato all’udienza per causa ad essa non imputabile (a condizione che ne faccia richiesta nella prima
udienza successiva).

Dopo aver assunto tutte le prove necessarie, il giudice dichiara chiusa la fase istruttoria e fissa l’udienza di
precisazione delle conclusioni. Allo stesso modo procederà qualora ritenga superflua, alla luce delle prove
già assunte, l’assunzione di ulteriori mezzi di prova (a meno che non si tratti di prove contrarie, le quali
devono essere sempre assunte).

Nel caso in cui, durante un processo celebrato in Italia, vengano pronunciati dei provvedimenti istruttori la
cui esecuzione debba essere effettuata all’estero (ad esempio, l’assunzione di una testimonianza di un
soggetto residente in un altro Stato), bisognerà ricorrere alla c.d. rogatoria (cioè una richiesta rivolta per
via “diplomatica”, con cui il giudice nazionale chiede all’autorità estera di dare esecuzione al proprio
provvedimento istruttorio). Sarebbe infatti vietato, compiere atti di autorità in territorio estero.

CAPITOLO 7

I SINGOLI MEZZI DI PROVA

Le prove vengono disciplinate dal:

- Codice Civile: il quale contiene le norme che disciplinano i singoli mezzi di prova e la loro efficacia;
- Codice di procedura civile: il quale contiene le norme che disciplinano i modi in cui le prove
vengono assunte al processo;

Tra i vari mezzi di prova ricordiamo:

ISPEZIONE: l’ispezione è il mezzo di prova con cui il giudice esamina direttamente una cosa o un luogo, le
cui caratteristiche sono rilevanti per la decisione della causa. Essa può essere disposta anche sulle persone
(parti o terzi), purchè siano indispensabili per la conoscenza del fatto e siano svolte nel rispetto della
persona. La parte o il terzo sui quali il giudice ordina l’ispezione possono opporsi ad essa, ma il loro rifiuto
provocherà delle conseguenze:

- Il terzo sarà tenuto a pagare una somma di denaro da 150 a 1500 euro;
- Se invece è la parte ad opporsi, il giudice potrà desumere da ciò degli argomenti di prova;

A seguito dell’ispezione, si tiene conto delle impressioni e delle percezioni che il giudice ha avuto sulla cosa
o sul luogo che sono stati verbalizzati.

Con l’ordinanza che dispone l’ispezione, il giudice fissa il tempo, il luogo e le modalità in cui essa deve
svolgersi. Egli vi procede personalmente (anche nel caso in cui debba avvenire fuori dalla sua
circoscrizione). Ai fini dell’ispezione, il giudice può ordinare l’esibizione della cosa da esaminare o sentire
testimoni per avere informazioni sul luogo.
Non possono essere oggetto di ispezione i documenti (cioè quelle res che possono essere acquisite al
processo mediante la loro inclusione nel fascicolo della causa, eventualmente a seguito di un ordine di
esibizione).

ESIBIZIONE: l’esibizione serve per far acquisire al processo un documento o una cosa indispensabile per la
decisione della causa, ma che la parte interessata non sia in grado di produrre spontaneamente, in quanto
non ne ha la materiale disponibilità. Essa deve esse disposta dal giudice su istanza di parte, nella quale
devono precisamente essere indicati il documento o la cosa di cui si richiede l’esibizione. Ove questa
comporti un esborso monetario, dovrà essere posto a carico della parte che abbia chiesto la prova.

E’ inammissibile la c.d. esibizione esplorativa, cioè quella volta ad acquisire genericamente dei documenti
che riguardano la causa, tra i quali la parte spera di trovare qualcosa di utile (ad esempio, la richiesta
generica di esibire “tutta la corrispondenza tra due soggetti”).

In alcuni casi eccezionali il giudice può disporre l’esibizione d’ufficio:

- Quando l’esibizione riguarda libri, scritture contabili, lettere e fatture di un’impresa soggetta a
registrazione e che riguardino la controversia in corso;
- Quando deve ordinare all’autorità che ha emesso un provvedimento ingiuntivo-sanzionatorio
impugnato, di depositare in cancelleria la copia degli atti di accertamento della violazione
sanzionata;

L’esibizione non può essere ordinata quando la parte abbia la possibilità di procurarsi la prova
personalmente oppure quando possa provocare un “grave danno” (come, ad esempio, la divulgazione di
informazioni riservate).

Se la parte non adempie senza giustificato motivo all’ordine di esibizione, può essere condannata al
pagamento di una pena pecuniaria da 500 a 3mila euro ed, inoltre, da tale rifiuto si possono desumere degli
argomenti di prova (non è previsto alcuno strumento per l’attuazione coattiva dell’esibizione). Se, invece, è
il terzo a non adempiere, egli può essere condannato ad una pena pecuniaria da 200 a 1500 euro.

In generale, può essere ordinata l’esibizione di tutti i mezzi di prova ammissibili dinanzi al giudice.

In dottrina si è discusso del rapporto che sussiste tra l’esibizione ed il sequestro giudiziario, ovvero una
misura cautelare il cui scopo è garantire che certi beni siano conservati e resi indisponibili alle parti, fino a
quando la controversia non sia stata definita. Esso riguarda tutte le cose mobili, immobili, documenti,
registri e le altre cose da cui si possano desumere degli elementi di prova, qualora sia controverso il diritto
alla esibizione e sia quindi opportuno provvedere alla loro custodia temporanea. A tal proposito, la Corte di
Cassazione ha però sancito che il sequestro probatorio possa prescindere dalla controversia sul diritto di
esibizione e, dunque, possa essere concesso ogniqualvolta la cosa serva come prova e la sua acquisizione
sia indispensabile per risolvere la controversia.

LA RICHIESTA DI INFORMAZIONI ALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: tale mezzo di prova può essere
disposto d’ufficio dal giudice quando non sia possibile ordinare l’esibizione. Il rapporto tra i due istituti è
controverso, infatti:

- Alcuni autori (Balena), ritengono che la richiesta di informazioni abbia un oggetto più generico
rispetto all’ordine di esibizione;
- Altri (Luiso), invece, ritengono che sia uno strumento che si aggiunge all’ordine di esibizione,
quando il documento sia detenuto da un ente pubblico;
La richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione deve essere coordinata con il c.d. diritto di
accesso (il quale consente di ottenere una copia della documentazione in possesso della pubblica
amministrazione, senza bisogno di alcun intervento da parte del giudice civile, ma solo grazie alla
spontanea collaborazione della pubblica amministrazione).

PROVA DOCUMENTALE: secondo la definizione di Carnelutti, il documento può essere definito come “un
oggetto materiale idoneo a rappresentare e dare conoscenza di un fatto”. Bisogna distinguere tra:

- Atto pubblico: è un documento redatto da un notaio o altro pubblico ufficiale, secondo le modalità
stabilito dalla legge. Esso ha efficacia di prova legale e serve ad attestare che il documento è stato
prodotto da un pubblico ufficiale e che i fatti attestati all’interno dello stesso siano avvenuti in sua
presenza.
E’ necessario che siano rispettati l’ambito territoriale di competenza (che per i notai corrisponde
alla Regione ove hanno sede) e la forma dell’atto.
Se l’atto pubblico viene prodotto in giudizio, non sarà più contestabile il fatto che esso sia stato
redatto da un pubblico ufficiale, in un determinato luogo, data e ora. A tal proposito, nel
documento si può distinguere:
• L’intrinseco: la verità dei fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua
presenza;
• L’estrinseco: l’autenticità dell’atto e la provenienza da un pubblico ufficiale;

Tuttavia, è possibile che esso rappresenti un’ipotesi di:

➢ Falso materiale: quando l’atto pubblico non è genuino in quanto è stato alterato;
➢ Falso ideologico: quando l’atto pubblico riporta delle dichiarazioni che non sono state
realmente rese o dichiarazioni diverse da quelle che sono state effettivamente rese dinanzi
al pubblico ufficiale;
- Scrittura privata: qualunque documento scritto che non provenga da un pubblico ufficiale e che sia
stato sottoscritto dalla parte. Essa fa piena prova, fino a querela di falso, delle dichiarazioni
contenute. E’ necessario un riconoscimento espresso con cui chi ha sottoscritto il documento,
riconosce come propria la sottoscrizione.
La parte può effettuare anche un disconoscimento tempestivo della propria sottoscrizione, in modo
che non le venga immediatamente attribuita la paternità dell’atto.
A seguito del disconoscimento, bisogna attivare il c.d. procedimento di verifica della scrittura
privata, al fine di accertare l’autenticità della scrittura o della sottoscrizione. Sulla verificazione
decide il Collegio con sentenza, e se esso riconosce che la sottoscrizione o la scrittura provengono
dalla parte che l’ha disconosciuta, potrà condannare la stessa al pagamento di una pena pecuniaria;

La querela di falso è l’istanza volta ad accertare la falsità di un atto pubblico o di una scrittura privata. Essa
può essere proposta in via principale (con citazione) oppure in via incidentale (con dichiarazione all’interno
del processo in cui il documento è stato prodotto come mezzo di prova). Attraverso la proposizione della
querela di falso, la parte chiede al giudice di accertare la falsità di un determinato documento e, in caso di
esito positivo, di eliminare definitivamente il documento dal mondo giuridico.

La decisione viene presa dal Collegio con sentenza. Se questo accerta la falsità del documento, dispone la
sua cancellazione totale o parziale e, se è il caso, la rinnovazione dell’atto (precisando il modo in cui essa
deve essere eseguita).
GLI ALTRI DOCUMENTI: vi sono poi dei documenti di grande rilievo disciplinati espressamente dal Codice
Civile:

- Telegramma: esso ha la stessa efficacia della scrittura privata qualora l’originale sia stato
sottoscritto dal mittente oppure, anche se non sottoscritto, sia stato consegnato personalmente
dal mittente o dall’ufficio postale;
- Telex: il quale nonostante indichi gli apparecchi da cui è stato inviato e la data, non è tuttavia
possibile individuare il soggetto che l’ha inviato ne quello che lo a ricevuto;
- Fax: consente di individuare sia le linee telefoniche dalle quali è stato inviato sia quelle alle quali è
diritto. Tuttavia, l’ora, la data o il mittente, possono essere modificati a piacimento di chi li ha
inviati;
- Riproduzioni meccaniche: cioè le riproduzioni fotografiche, informatiche, cinematografiche e ogni
altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose;
- Scritture contabili: acquisiscono efficacia probatoria se si tratta di imprese soggette a registrazione;
- Documento informatico: cioè la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente
rilevanti. Essi sono dotati di firma digitale;
- Mail: essa, non avendo nessuna sottoscrizione che consenta di individuare il suo autore, può avere
efficacia probatoria solo se la parte contro la quale è stata prodotta non ne disconosca la
conformità ai fatti medesimi.

CONFESSIONE: la dichiarazione con cui la parte riconosce la verità di un fatto a se sfavorevole e favorevole
alla controparte. Deve provenire dalla persona a cui i fatti confessati si riferiscono.

In passato, si riteneva necessario anche il c.d. animus confitendi, cioè la volontà di confessare e la
consapevolezza delle conseguenze negative che da essa sarebbero derivate. Ad oggi, invece, è necessaria la
semplice consapevolezza di affermare fatti a se sfavorevoli.

La confessione ha efficacia di prova legale, nel senso che è vincolante sia nei confronti della parte che l’ha
resa (che non potrà più provare il contrario), sia nei confronti del giudice (che non potrà più valutare la
dichiarazione liberamente).

Si distingue tra:

- Confessione giudiziale: quando viene resa nel corso del giudizio, spontaneamente o a seguito di
interrogatorio formale. Può essere considerata “spontanea” quando è resa in udienza o è
contenuta in un atto processuale firmato dalla parte.
In virtù del principio di inscindibilità della confessione, se durante la dichiarazione, la parte racconta
anche altri fatti, ulteriori rispetto a quelli confessati, e la controparte non li contesti: tutte le
dichiarazioni faranno piena prova e, dunque, il giudice sarà tenuto a prendere in considerazione sia
i fatti sfavorevoli che quelli favorevoli alla parte. Nel caso in cui, invece, essi vengano contestati,
saranno liberamente valutabili dal giudice;
La confessione non è revocabile, fatta eccezione per i casi in cui sia stata effettuata per errore di
fatto (cioè una falsa rappresentazione della realtà che ha indotto il dichiarante a ritenere vero un
fatto in realtà mai accaduto o comunque svoltosi in maniera diversa) o per violenza morale (c.d. vis
compulsiva);
- Confessione stragiudiziale: quando viene resa fuori dal processo. Può essere contenuta in un
documento, oppure essere resa oralmente. Inoltre, proprio perché effettuata fuori dal processo,
deve essere provato il fatto che sia stata resa.
INTERROGATORIO FORMALE: è lo strumento con cui una parte cerca di provocare la confessione
dell’avversario su determinati fatti. Può essere disposto solo su istanza di parte. La parte interessata deve
formulare delle frasi che poi il giudice dovrà sottoporre alla controparte, la quale dovrà semplicemente
rispondere “si” (qualora intenda confessare i fatti) o “no” (in caso contrario).

La parte non può essere interrogata su fatti diversi da quelli indicati, tuttavia, il giudice può sempre
richiedere i chiarimenti che ritiene necessari.

La parte deve rispondere personalmente alle domande e, affinchè la dichiarazione sia il più spontanea
possibile, non può servirsi di appunti o note (fatta eccezione per i casi in cui il giudice li autorizzi). Se essa
non si presenta all’interrogatorio, o si rifiuti di rispondere senza giustificato motivo, l’organo decidente può
ritenere i fatti dedotti come “ammessi” (c.d. ficta confessio).

GIURAMENTO: è un mezzo di prova con cui una parte, su richiesta della controparte o del giudice, dichiara
la verità su un fatto decisivo per la definizione della causa. Si distingue tra:

- Giuramento decisorio: con cui la parte prova i propri assunti, qualora non abbia a disposizione altri
mezzi di prova. Tramite esso, invita la controparte a giurare su determinati fatti a se favorevoli.
L’atto con cui si invita la controparte a giurare è il c.d. deferimento, il quale può proporsi in qualsiasi
stato e grado del processo, personalmente. Esso è revocabile fino a che la parte non sia pronta a
giurare. Colui contro cui è stato deferito, può a sua volta riferirlo alla controparte, sullo stesso fatto,
nei limiti fissati dal Codice;
- Giuramento suppletorio: in questo caso è il giudice ad ordinare ad una parte di giurare su
determinati fatti della causa, qualora le prove raccolte non siano sufficienti a definire il giudizio;
- Giuramento estimatorio: quando il giuramento viene deferito dal giudice ad una delle parti, al fine
di stabilire il valore di una cosa, qualora questa non sia altrimenti determinabile (esso è una
sottospecie del giuramento suppletorio);

Inoltre, si distingue tra:

- Giuramento de veritate: che ha ad oggetto un fatto che riguarda la parte che giura;
- Giuramento de scientia: che ha ad oggetto un fatto altrui di cui la parte che giura abbia conoscenza;

La caratteristica del giuramento è la sua capacità di definire il giudizio. Non è possibile, infatti, deferire
giuramento solo su alcuni fatti controversi, in quanto altrimenti non sarebbe più idoneo a definire la lite.

Una volta esperito il giuramento, i fatti in esso dichiarati sono da considerare come accertati e vincolanti
per il giudice. Se poi dovesse emergere che erano falsi, non si potrebbe ottenere la revocazione della
sentenza civile, ma il soccombente può richiedere il risarcimento dei danni.

Il giuramento presenta vari limiti:

- Oggetto di giuramento possono essere solo fatti relativi a dritti disponibili;


- La persona che deferisce deve essere capace di disporre del diritto;
- Il giuramento non è ammesso su fatti illeciti (al fine di evitare che il soggetto che deve giurare sia
chiamato a scegliere tra l’ammettere qualcosa che può avere conseguenze in sede penale o non
giurare e perdere la causa);
- Il giuramento non è ammesso su contratti per la cui validità è richiesta la forma scritta ad
substantiam;
- Con il giuramento non è possibile negare un fatto avvenuto alla presenza di un pubblico ufficiale,
risultante da atto pubblico.
PROVA TESTIMONIALE: la testimonianza è una dichiarazione effettuata da un soggetto terzo che non è
parte del processo. Egli viene invitato a presentarsi in udienza, al fine di narrare al giudice lo svolgimento
dei fatti in causa di cui abbia conoscenza. Tale conoscenza può essere:

- Diretta: quando si tratta di avvenimenti del passato ai quali il testimone ha assistito personalmente;
- Indiretta: quando il testimone ha acquisito le sue conoscenze da un soggetto terzo;

Sono previsti dei limiti oggettivi:

- La testimonianza non è ammessa quando abbia ad oggetto un contratto di valore superiore ai 2,58
euro (tuttavia, il giudice può consentirla, in considerazione della qualità delle parti, della natura del
contratto e di qualunque altra circostanza);
- La testimonianza non è ammessa per provare l’esistenza di patti aggiunti o contrari al contenuto di
un documento scritto prodotto in giudizio;
- La testimonianza non è ammessa quando la legge o la volontà delle parti, richiedano la forma
scritta ab probationem;

Tuttavia, essa è sempre ammessa quando:

• Vi sia un principio di prova scritta: cioè un qualsiasi documento scritto, proveniente dalla persona
contro la quale è stata proposta la domanda, e che faccia apparire il fatto come verosimile (ad
esempio, quando il fatto da provare sia citato nella corrispondenza intercorsa tra le parti e
introdotta in giudizio);
• Quando il contraente sia moralmente o materialmente impossibilitato a procurarsi la prova scritta;
• Quando il contraente ha, senza sua colpa, perduto il documento che gli forniva la prova;

Per quanto riguarda, invece, i c.d. limiti soggettivi, non possono essere sentiti come testimoni tutti quei
soggetti che, per qualunque motivo, abbiano un interesse nella causa, tale che essi potrebbero assumere
anche la qualità di “parte” nel processo (ad esempio, il coniuge in regime di comunione dei beni, nei giudizi
in cui l’altro coniuge sia parte e che possono incidere sul patrimonio comune).

La parte che richiede la testimonianza, deve indicare in modo specifico le persone da ascoltare ed i fatti sui
quali queste dovranno pronunciarsi. L’istanza così formulata viene poi valutata dal giudice il quale, se lo
ritiene opportuno, riduce la lista dei testimoni o elimina quelli che non possono essere sentiti per legge.

In virtù del principio di acquisizione, se una testimonianza è stata ammessa, la parte che l’ha richiesta non
può rinunciare alla sua acquisizione senza il consenso della controparte e del giudice.

I testimoni hanno un vero e proprio obbligo di rendere la testimonianza. Se essi non compaiono, il giudice
può disporne l’accompagnamento coattivo e possono essere condannati al pagamento di una sanzione
pecuniaria. Qualora, invece, la mancata presenza sia determinata da impossibilità fisica a presentarsi, il
giudice può recarsi presso il teste al fine di assumere la testimonianza.

Il giudice interroga il testimone sui capitoli di prova dedotti e, se lo ritiene necessario, pone tutte le
domande necessarie per chiarire tali fatti. Se il teste durante la testimonianza si sia riferito ad altre
persone, il giudice può disporne l’audizione. Se, invece, vi sono più testimonianze tra loro contraddittorie, il
giudice può disporre il confronto tra tutti i testi.

La prova solitamente si forma davanti al giudice, mediante deposizione orale del teste, in modo da
consentire al giudice di valutare il suo comportamento e di chiedergli eventuali chiarimenti. Tuttavia, dopo
la riforma del 2009, è possibile ricorrere anche alla testimonianza scritta, la quale può essere disposta dal
giudice, su accordo delle parti. Il testimone scriverà le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato,
su un apposito modulo (il quale è liberamente scaricabile dal sito del Ministero della Giustizia).

Il teste deve apporre la sua firma su ogni foglio della testimonianza e dovrà anche indicare i capitoli di
prova a cui non è eventualmente in grado di rispondere, specificandone le ragioni. Il modulo, debitamente
compilato, dovrà essere spedito in una busta chiusa con plico raccomandato, o consegnato alla cancelleria
del giudice, nel termine previsto dall’ordinanza che ammette la testimonianza.

Il giudice, dopo aver letto le risposte scritte, potrà sempre richiedere che il teste sia comunque chiamato a
deporre oralmente davanti a lui o, eventualmente, davanti ad altro giudice delegato.

Accanto alla testimonianza scritta, è stato cercato di introdurre un nuovo tipo che però non è mai stato
approvato: le c.d. dichiarazioni rese al difensore, in forza del quale la parte deve depositare in giudizio le
dichiarazioni rese da soggetti terzi al difensore, che dovrà poi attestarne l’autenticità. I soggetti chiamati dal
difensore a rendere queste dichiarazioni devono avere la capacità di testimoniare e dovranno essere
avvertiti dell’eventualità che le loro dichiarazioni potranno essere utilizzate in giudizio, nonché della
possibilità di essere chiamati a rendere testimonianza.

CONSULENZA TECNICA: il consulente tecnico (o perito) è un organo ausiliario del giudice, che lo aiuta
qualora egli non sia in possesso delle conoscenze tecniche adeguate per la comprensione di tutti i fatti in
causa. Dunque, gli fornisce gli strumenti necessari per la valutazione dei documenti e delle prove raccolte.
Essa deve essere sempre disposta d’ufficio.

In alcuni casi, la consulenza può essere considerata come fonte di prova, purchè si tratti di fatti rilevabili
unicamente dal consulente. In nessun caso, infatti, egli potrà mai “sopperire all’inerzia delle parti nella
allegazione di fatti rilevanti”.

Il consulente deve essere scelto tra coloro che sono iscritti in un apposito albo, istituito presso ciascun
tribunale. Il giudice provvede alla sua nomina con ordinanza (la quale deve indicare anche i quesiti a cui il
consulente dovrà rispondere). Egli è obbligato a prestare il suo ufficio, fatta eccezione per i casi in cui il
giudice rilevi un valido motivo di astensione o le parti lo ricusino.

Il giudice può farsi assistere dal consulente per il compimento di singoli atti istruttori o per tutta la durata
del processo. Inoltre, le parti hanno sempre la facoltà di intervenire personalmente e con i propri difensori.

Dopo aver svolto le indagini che gli sono state affidate dal giudice, il consulente redige una relazione. Ove
poi, il giudice, in sede decisoria, decide di discostarsi dai risultati raggiunti dal consulente, dovrà motivare la
sua scelta.

Il Codice di Procedura Civile, disciplina anche le ipotesi in cui il consulente tecnico deve esaminare i
documenti contabili e i registri (c.d. esame contabile). In questo caso egli può, previo consenso delle parti,
tentare la conciliazione. Se essa viene raggiunta, il giudice redige verbale della conciliazione, che viene poi
inserito nel fascicolo d’ufficio (e a cui viene attribuita efficacia di titolo esecutivo).

PROVA DEL DNA: la prova del DNA è una prova atipica, uno strumento utilizzato per capire, ad esempio, se
A sia il figlio di B (e, quindi, di presumere il rapporto di filiazione tra i medesimi). Il DNA, infatti, è il
materiale genetico contenuto in tutte le cellule del nostro corpo, sottoforma di cromosomi. Ogni nostra
cellula contiene 23 copie di cromosomi, sempre identiche. Al momento del concepimento, i patrimoni
genetici si fondono e ogni individuo eredita, per metà dalla madre e per metà dal padre.
Con il test del DNA si prelevano i c.d.d. markers genetici (cioè pezzi di DNA) della madre, del figlio e del
presunto padre, dai quali si può ricavare il rapporto di filiazione.

La Corte ha riconosciuto valore probatorio all’ingiustificato rifiuto del presunto padre di sottoporsi a tali
esami. In particolare, ha sancito che da tale comportamento possano essere desunti degli argomenti di
prova e che, addirittura, sulla base di tale rifiuto, il giudice può accogliere la domanda volta ad ottenere la
dichiarazione di paternità.

DOCUMENTI PROVENIENTI DA TERZI: i documenti provenienti da terzi, costituiscono una prova atipica. Essi
contengono le loro dichiarazioni su fatti rilevanti per la decisione della causa.

Normalmente, la scienza del terzo entra nel processo tramite la c.d. testimonianza. Tuttavia, vi è chi ritiene
che in realtà, non si pone un problema di “ammissibilità della prova atipica”, quanto piuttosto un problema
di “prova tipica (testimonianza) assunta senza il rispetto delle norme che la disciplinano (in particolare del
principio del contraddittorio)”, e che quindi si tratti di un caso di nullità della testimonianza.

CAPITOLO 8

PROCEDIMENTO SEMPLIFICATO DI COGNIZIONE

L’art. 281 decies disciplina il c.d. rito semplificato di cognizione, il quale si pone come alternativa rispetto a
quello ordinario. A tal proposito, si sancisce che tale rito può essere utilizzato quando: i fatti in causa non
sono controversi, quando la domanda è fondata su prova documentale oppure non richiede un’istruzione
complessa. Al ricorrere di tali casi, la causa deve essere trattata secondo questo rito, a prescindere dalla
composizione dell’organo giudicante.

Nel caso in cui, invece, il Tribunale giudica in composizione monocratica, la domanda può essere sempre
proposta in tali forme.

La domanda si propone con ricorso, il quale deve indicare:

- Il Tribunale davanti al quale la domanda è proposta;


- Nome, cognome, residenza e codice fiscale delle parti;
- Oggetto e ragioni della domanda;
- I mezzi di prova di cui l’attore intende valersi;
- L’avvertimento al convenuto che la costituzione oltre i termini implica delle decadenze;

Il giudice, entro 5 giorni dalla designazione, fissa con decreto la data dell’udienza di comparizione,
assegnando il termine per la costituzione del convenuto (la quale non deve avvenire oltre i 10 giorni prima
dell’udienza). Il ricorso, insieme al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato sia all’attore
che al convenuto. Tra il giorno della notificazione e quello dell’udienza devono intercorrere termini liberi
non inferiori ai 40 giorni (o 60 se il luogo della notificazione si trova all’estero).

Il convenuto si costituisce mediante il deposito della comparsa di risposta, nella quale deve proporre le sue
difese e prendere posizione sui fatti posti a fondamento della domanda dell’attore. A pena di decadenza,
deve chiamare in causa un terzo (chiedendo lo spostamento dell’udienza), proporre eventuali domande
riconvenzionali ed eccezioni non rilevabili d’ufficio.

Alla prima udienza, se il giudice rileva che non ricorrono i presupposti per procedere con il rito semplificato,
dispone con ordinanza non impugnabile la prosecuzione del processo secondo le forme ordinarie.
Una volta rimessa la causa in decisione, il Tribunale in composizione monocratica, dovrà fissare la
discussione orale tra le parti, per poi pronunciare sentenza mediante lettura del dispositivo ed una concisa
esposizione delle ragioni di fatto e di diritto poste alla base della sua decisione.

Il Tribunale in composizione collegiale, invece, fisserà la discussione orale davanti al Collegio, su iniziativa
del giudice istruttore, ed a prescindere da una previa richiesta di ciascuna delle parti.

Il provvedimento finale, a seguito della Riforma Cartabia, avrà la forma della sentenza (e non
dell’ordinanza), la quale sarà impugnabile nei modi ordinari (e pertanto anche con revocazione ed
opposizione di terzo). Tale sentenza potrà essere pronunciata al termine della discussione dando lettura del
dispositivo, oppure essere depositata in cancelleria entro 30 o 60 giorni successivi alla discussione, a
seconda che il Tribunale decida in composizione monocratica o collegiale.

CAPITOLO 9

PROCESSO DI COGNIZIONE RETTO DAL RITO DEL LAVORO

Il processo a cognizione piena può essere regolato, per la trattazione di tutte le controversie relative ai
rapporti di lavoro, da un rito speciale: il c.d. rito del lavoro. Esso è caratterizzato da:

- Oralità: vanno redatti per iscritto solo gli atti introduttivi;


- Immediatezza: dato che vi è una riduzione dei tempi processuali;
- Concentrazione degli atti: al fine di ottenere una rapida definizione della controversia;

Esso viene disciplinato dagli artt. 409 e seguenti del Codice di Procedura Civile.

Il rito del lavoro si applica alle controversie relative ai:

- Rapporti di lavoro subordinato: sia pubblico che privato;


- Rapporti di lavoro parasubordinato: cioè quei rapporti di collaborazione svolti in modo continuativo
nel tempo, con cui ci si impegna a svolgere una certa attività a favore di un altro soggetto,
coordinandosi con la sua attività aziendale ma senza alcun vincolo di subordinazione;
- Rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale;
- Rapporti inerenti alla materia di previdenza ed assistenza obbligatoria;
- Lavoro agricolo;
- Controversie inerenti alla repressione della condotta antisindacale;
- Lavoro svolto dai detenuti a favore dell’amministrazione penitenziaria o di terzi;

La competenza spetta sempre al Tribunale in composizione monocratica, in funzione di Giudice del Lavoro.
Il giudice territorialmente competente andrà individuato diversamente a seconda che la controversia sia
relativa ad un:

- Rapporto di lavoro subordinato: in questo caso sarà competente o il tribunale del luogo ove è sorto
il rapporto di lavoro (c.d. foro del contratto) o il luogo in cui si trova la sede dell’azienda (c.d. foro
dell’azienda);
- Rapporto di lavoro parasubordinato: è competente il tribunale del luogo del domicilio del
collaboratore;

Nel caso in cui nessuno di questi criteri potrà essere applicato, sarà competente il tribunale del luogo di
residenza/domicilio o dimora del convenuto.

Nel caso in cui l’attore proponga il ricorso nei confronti di un giudice incompetente, il difetto di competenza
può essere eccepito dal convenuto nel suo primo atto difensivo, o può essere rilevato d’ufficio entro la
prima udienza di discussione. Il giudice adito, rimetterà gli atti al giudice competente e fisserà un termine di
30 giorni per la riassunzione del processo (pena la sua estinzione).

In alcuni casi, può anche accadere che vi sia un errore nella scelta del rito: l’attore potrebbe ritenere che la
controversia debba essere risolta con il rito del lavoro quando invece dovrebbe essere risolta con il rito
ordinario, o viceversa. In questi casi, si dovrà semplicemente provvedere al mutamento del rito.

Più complesso è invece il caso in cui il tribunale adito in veste di giudice del lavoro, dopo aver rilevato che la
controversia promossa non deve essere decisa con tale rito, si ritenga anche incompetente in veste di
giudice ordinario. In questo caso, la questione di rito si somma a quella di competenza. A tal proposito, il
tribunale dovrà rimettere con ordinanza la causa al giudice competente, fissando per le parti un termine
perentorio di 30 giorni per la sua riassunzione.

Bisogna distinguere se la causa è promossa dal:

- Lavoratore: essa avrà principalmente ad oggetto il diritto alla retribuzione, le mansioni e le


eventuali liti, le sanzioni disciplinari irrogate, le invalidità del contratto di lavoro, il risarcimento del
danno da infortuni;
- Datore di lavoro: la controversia potrà riguardare le eventuali condotte negligenti del lavoratore, il
danneggiamento dei beni d’impresa, ed in generale la violazione dell’obbligo di fedeltà del
lavoratore.

Le controversie relative ai licenziamenti, invece, sono soggette al rito introdotto dalla c.d. Legge Fornero
(eliminato dalla Riforma Cartabia). Il rito Fornero si contraddistingue per una forte celerità rispetto ai
giudizi ordinari. Esso inizia con il ricorso presentato dal lavoratore. Una volta ricevuto il ricorso, il giudice
fissa l’udienza di comparizione, durante la quale procede agli atti di istruzione. Esaurita l’istruttoria, il
giudice accoglie o rigetta la domanda (con ordinanza). Contro tale ordinanza è possibile proporre
opposizione. Il procedimento di opposizione si conclude con una sentenza, che potrà essere impugnata con
reclamo, da proporsi davanti alla Corte d’Appello. Contro la sentenza che decide il reclamo, è possibile
presentare ricorso per cassazione.

Nel rito del lavoro ci sono 3 fasi:

- Fase introduttiva: l’atto introduttivo del giudizio è il ricorso, il quale deve contenere l’indicazione
del giudice, le generalità del ricorrente e del convenuto, l’oggetto della domanda, l’esposizione dei
fatti e i mezzi di prova di cui l’attore intende avvalersi. Con il ricorso, l’attore porta la sua pretesa
direttamente a conoscenza del Tribunale (giudice del lavoro) e, solo in un secondo momento, sarà
notificata al convenuto (dunque, rispetto al rito ordinario, l’atto introduttivo verrà portato prima a
conoscenza del giudice e poi della controparte).
Entro 5 giorni dal deposito del ricorso, il giudice deve fissare con decreto l’udienza di discussione,
alla quale le parti sono tenute a comparire personalmente;
- Fase di istruzione e discussione: la principale caratteristica del rito del lavoro è data dal fatto che la
fase della trattazione e quella dell’istruzione probatoria si svolgono in un’unica udienza, cioè
nell’udienza di discussione (la quale potrà materialmente svolgersi in più giorni, a breve distanza,
ma dovrà comunque considerarsi unica).
Durante l’udienza di discussione, il giudice innanzitutto controlla la regolarità degli atti e l’integrità
del contraddittorio. Successivamente procede all’interrogatorio libero delle parti e al tentativo di
conciliazione.
Nel rito del lavoro, il giudice dispone di ampi poteri istruttori. Egli può:
• Assumere ogni mezzo di prova, anche al di fuori dei limiti previsti dal Codice Civile (fatta
eccezione per il giuramento e la prova testimoniale);
• Assumere prove da cui le parti siano decadute (purchè tale decisione sia adeguatamente
motivata);
• Può fare un’audizione, mediante interrogatorio libero, anche a colui che è incapace a
testimoniare;
• Può, su istanza del lavoratore, disporre con ordinanza il pagamento anticipato di una
somma a titolo provvisorio, qualora ritenga il diritto accertato e la prova raggiunta (tale
ordinanza può poi essere revocata con la sentenza che decide il giudizio);
- Fase decisoria: dopo la discussione, il giudice, sempre nella stessa udienza, emana la sentenza di
decisione della causa, mediante lettura del dispositivo (la cui omissione determina la nullità
insanabile della sentenza).
La motivazione della sentenza, invece, verrà resa pubblica successivamente, con il deposito della
stessa in cancelleria entro 15 giorni dall’udienza.
Le sentenze di condanna pronunciate a favore del lavoratore sono provvisoriamente esecutive. Per
procedere all’esecuzione è sufficiente la sola copia del dispositivo (il che comporta che l’azione
esecutiva può essere intrapresa ancora prima del deposito della sentenza). Dunque, si attribuisce
stesso al dispositivo efficacia di “titolo esecutivo”, rendendo così il rito del lavoro ancora più celere
(ovviamente, il dispositivo deve contenere il riconoscimento di un credito certo, liquido ed
esigibile).
Il giudice d’appello può disporre la sospensione dell’esecuzione se da essa ne possa derivare un
danno gravissimo. Tale sospensione può essere anche parziale e, in ogni caso, l’esecuzione
provvisoria resta autorizzata fino alla somma di 258 euro.
Inoltre, si sancisce la provvisoria esecutività anche delle sentenze pronunciate a favore del datore di
lavoro (il quale, però, non potrà intraprendere l’esecuzione forzata sulla sola base del dispositivo).
(si applica quanto disposto dall’art. 283 c.p.c., vedi giù).

Bisogna specificare che, nel rito del lavoro, alle parti vengono offerte delle vie alternative alla risoluzione
del processo, che non prevedono il coinvolgimento del giudice: il tentativo di conciliazione e l’arbitrato.

In passato, il tentativo di conciliazione, era obbligatorio: il mancato esperimento da parte dell’attore


(prima della proposizione del ricorso), determinava l’improcedibilità della domanda. Ad oggi, invece, il suo
esperimento non è più condizione di procedibilità.

Il tentativo di conciliazione è esperibile:

- O in sede sindacale;
- O in sede amministrativa;

La conciliazione amministrativa si svolge avanti ad una Commissione istituita presso ogni Direzione
Provinciale Del Lavoro. La richiesta deve essere inoltrata alla Commissione competete, la quale convoca le
parti per una riunione da tenersi entro i 10 giorni successivi.

La controparte che riceve la comunicazione della richiesta di conciliazione può aderirvi (e in questo caso
dovrà depositare una memoria contente le proprie difese ed eventuali domande riconvenzionali) o non
aderirvi. Se la controparte ha deciso di aderire al tentativo ma non presenta la memoria entro 20 giorni
dalla richiesta di conciliazione, “ciascuna delle parti è libera di adire l’autorità giudiziaria”.

Se la conciliazione ha esito positivo, viene redatto un verbale che, su istanza di parte, potrà essere
dichiarato esecutivo dal giudice. Se, invece, le parti non raggiungono un accordo, la Commissione deve
formulare una proposta di bonaria definizione della controversia, alla quale le parti saranno libere di aderire
o meno.
La c.d. conciliazione in sede sindacale, invece, è quella che si svolge presso le sedi sindacali. Questo
procedimento non è regolato dal codice di procedura civile, ma dai contratti collettivi di lavoro. Si svolge tra
datore di lavoro e lavoratore (assistito dal suo sindacato), e può avere ad oggetto le questioni relative
all’applicazione del contratto collettivo. Anche qui all’esito del procedimento verrà redatto un verbale che,
su istanza di parte, può essere dichiarato esecutivo dal giudice.

Ulteriore modello di conciliazione è la c.d. conciliazione presso le sedi di certificazione. Gli organi di
certificazione sono quegli organismi che hanno, appunto, il compito di certificare (su istanza di parte), la
correttezza del contratto del lavoro. Il tentativo di conciliazione è facoltativo (fatta eccezione per il caso in
cui si intende impugnare un contratto di lavoro certificato).

Per quanto riguarda, invece, l’arbitrato, esso è stato oggetto di modifiche da parte del c.d. Collegato del
Lavoro.

Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra loro insorte che non abbiano ad oggetto diritti
indisponibili. Invece, le controversie in materia di lavoro, possono essere decise da arbitri solo se previsto
dalla legge o nei contratti collettivi di lavoro.

Si sancisce che in qualunque fase del tentativo di conciliazione o al suo termine (in caso di mancata
riuscita), le parti possono indicare la soluzione (anche parziale) sulla quale concordano e possono
accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla Commissione di Conciliazione il mandato a risolvere in
via arbitrale la controversia. Nel conferire il mandato per la risoluzione arbitrale, le parti devono indicare:

- Il termine per l’emanazione del lodo: che non può comunque superare i 60 giorni dal conferimento
del mandato (in mancanza, l’incarico deve intendersi revocato);
- Le norme invocate dalle parti a sostegno delle loro pretese;

Inoltre l’arbitrato, nelle materie di cui all’art. 409 c.p.c., può essere svolto anche presso le sedi e con le
modalità previste dai contratti collettivi, sottoscritti dalle associazioni maggiormente rappresentative.

Il Collegio di arbitrato deve essere composto da 3 membri: i due rappresentanti di ciascuna parte ed un
terzo (con funzioni di presidente), che deve essere scelto di comune accordo dagli arbitri di parte. Qualora
tale accordo non venga raggiunto, sarà il Presidente del Tribunale nella cui circoscrizione si trova la sede
dell’arbitrato, su richiesta di parte, a scegliere il terzo arbitro.

La domanda si propone con ricorso, il quale deve contenere: il domicilio, la nomina dell’arbitro di parte,
l’oggetto della domanda, le ragioni di fatto e di diritto, i mezzi di prova ed il valore della causa.

Il convenuto non è vincolato a tale richiesta, solo qualora decida di accettare la procedura arbitrale, deve
nominare il proprio arbitro.

Una volta composto il Collegio, il convenuto, entro 30 giorni dalla data do scelta del terzo arbitro, deve
depositare la propria memoria difensiva.

Le parti possono replicare agli atti introduttivi, rispettivamente:

- Il ricorrente, con una memoria di replica, entro 10 giorni dal deposito della memoria difensiva;
- Il convenuto, con una memoria di controreplica, entro 10 giorni dal deposito della memoria di
replica;

Successivamente, il Collegio fissa l’udienza di discussione, nel corso della quale: in primis bisogna tentare la
conciliazione, segue la fase istruttoria e, infine, la fase decisoria. Entro 20 giorni successivi all’udienza di
discussione della causa, deve essere emesso il lodo. Quest’ultimo può essere impugnato con ricorso al
tribunale (in funzione di giudice del lavoro) della circoscrizione in cui ha sede l’arbitrato.

L’arbitrato si distingue in:

- Arbitrato rituale: la decisione finale (“lodo”) ha la stessa efficacia della sentenza e ha efficacia di
titolo esecutivo. Essa può essere impugnata per nullità (se la convenzione di arbitrato è invalida, se
gli arbitri non sono stati nominati nei modi previsti, se il lodo è stato pronunciato dopo la scadenza
del termine previsto ect.);
- Arbitrato irrituale: esso viene instaurato per volontà delle parti e ha gli effetti di un contratto. Esso
può essere impugnato in caso di mancata previsione dell’arbitrato nel contratto o per difetto
dell’accordo individuale;

Il compenso del Presidente del Collegio è pari al 2% del valore della controversia ed è versato dalle parti,
per metà ciascuna. Ciascuna parte poi provvede a compensare l’arbitro da essa nominato.

CAPITOLO 10

LE IMPUGNAZIONI: NOZIONI E DISTINZIONI

Le impugnazioni (o gravami) sono dei rimedi con cui la parte che sia rimasta soccombente in un giudizio,
può far valere l’ingiustizia della decisione resa. In questo modo, la parte provoca un controllo sulla
correttezza della sentenza già pronunciata, attraverso un ulteriore grado di giudizio il quale (fatta eccezione
per le impugnazioni straordinarie) si pone all’interno dello stesso rapporto processuale.

Il sistema delle impugnazioni si snoda in vari gradi di giudizio:

- Primo grado: il giudice è quasi sempre monocratico;


- Secondo grado (l’appello): l’organo giudicante è un collegio di 3 membri:
- Terzo grado (Cassazione): l’organo giudicante è un collegio di 5 membri (che diventano 9 quando è
chiamata a giudicare a Sezioni Unite);

Per quanto riguarda, invece, i lodi arbitrali rituali, sono previsti tre tipi di impugnazioni: la revocazione,
l’opposizione del terzo e l’apposita impugnazione per nullità. L’ordinamento, infatti, li tratta come se
fossero delle sentenze, seppur frutto dell’opera di giudici privati.

Nell’ambito delle impugnazioni esistono vari tipi di distinzioni. Tra:

- Impugnazioni devolutive: quando la causa devoluta al secondo giudice ha lo stesso oggetto del
giudizio di primo grado (nei limiti dei capi e dei punti della sentenza impugnata). Tipico esempio è
l’appello;
- Impugnazioni limitatamente devolutive: quando la legge consente al giudice dell’impugnazione di
conoscere solo parte della materia che è stato oggetto di impugnazione;

Ulteriore distinzione è tra:

- Impugnazioni ordinarie: le quali si collocano all’interno dell’unitaria pendenza del processo,


nell’arco cioè di un unico rapporto processuale. Nel tempo intercorrente tra il deposito della
sentenza (che chiude il grado precedente) e la proposizione dell’impugnazione (che apre il grado
successivo), la pendenza della lite prosegue.
Gli organi preposti ai vari “gradi” del processo non sono legati tra di loro da un rapporto gerarchico,
ma da un rapporto di coordinazione, anche perché ciascun giudice è soggetto soltanto alla legge.
- Impugnazioni straordinarie: esse hanno invece lo scopo di riaprire un processo già chiuso, dando
vita ad una nuova pendenza della lite (seppur collegata a quella vecchia);

Un’altra distinzione fondamentale è quella tra:

- Impugnazioni sostitutive: quando la sentenza pronunciata in seguito all’impugnazione porta ad una


nuova decisione che si sostituisce a quella impugnata. Tipico esempio è l’appello, il quale si
ripronuncia sullo stesso oggetto della sentenza di primo grado.
Oggetto del giudizio di appello, infatti, rimane la domanda giudiziale (e non la sentenza di primo
grado);
- Impugnazioni rescindenti: nelle quali vi è la fase rescindente (in cui si annulla il provvedimento
impugnato) e la fase rescissoria (in cui il provvedimento annullato viene sostituito da una nuova
pronuncia). Tipico esempio è il ricorso per cassazione, che serve a controllare i vizi della sentenza
impugnata, al fine di decidere se annullarla o meno;

LE CONDIZIONI PER IMPUGNARE

Per poter validamente impugnare, è necessario che ricorrano due condizioni:

- Legittimazione ad impugnare: spetta a chi è stato parte nel grado di processo che si è concluso con
la sentenza che viene impugnata. Questo vale sia per le parti originarie, che per gli intervenienti.
Inoltre, è necessario che la parte sia risultata soccombente in relazione al motivo di impugnazione;
- Interesse ad impugnare: cioè l’interesse a che la sentenza venga modificata in modo più favorevole
per la parte che l’ha impugnata. Dunque, l’interesse ad impugnare sussiste nel caso di
soccombenza. A tal proposito, si possono distinguere vari tipi di soccombenza:
• Soccombenza formale: quando viene rigettata la propria domanda/accolta quella
avversaria;
• Soccombenza parziale: ad esempio, una domanda di condanna per 100, accolta per un
minore importo;
• Soccombenza reciproca: quando possono impugnare sia l’attore che il convenuto;
• Soccombenza virtuale: che è quella che deve stabilire il giudice nel caso in cui la causa si sia
conclusa con la cessata materia del contendere. In questi casi, la soccombenza è virtuale
perché, di fatto, il giudizio si è concluso senza vincitori ne vinti;
• Soccombenza teorica: quando la parte vittoriosa sia comunque soccombente su alcune
questioni. In questo caso, essa non potrà avere interesse ad impugnare, in quanto il
passaggio in giudicato della sentenza va comunque a suo favore. Quindi, si può dire che
l’interesse ad impugnare per colui che è soccombente solo su una delle questioni, sorge
dopo e per effetto della impugnazione principale. Si avrà così una impugnazione in via
incidentale (che viene svolta in caso di accoglimento di quella principale).

L’IMPUGNAZIONE DELLE SENTENZE NON DEFINITIVE

Durante lo svolgimento del processo, possono insorgere questioni che devono essere necessariamente
risolte prima di altre, potendo influenzare l’esito della causa. Pertanto, il nostro Codice di Procedura Civile
ha previsto le c.d. sentenze non definitive (sentenze di condanna generica, sentenze preliminari di merito,
sentenze su questioni pregiudiziali al processo, sentenze su questioni di giurisdizione o competenza).

Esse possono essere impugnate con la riserva facoltativa di appello o con la riserva facoltativa di ricorso.
La parte interessata può scegliere se impugnare la sentenza non definitiva immediatamente, oppure in un
momento successivo (insieme alla sentenza definitiva) facendone apposita riserva.

La riserva d’appello va fatta dalla parte soccombente, entro il termine per appellare e, in ogni caso, non
oltre la prima udienza dinanzi al giudice istruttore successiva alla comunicazione della stessa.

La riserva è vincolante per la parte, nel senso che, una volta formulata, non può essere revocata. Inoltre, la
parte soccombente che fa riserva non può proporre appello immediato.

Se, invece, la parte sceglie di impugnare subito la sentenza non definitiva, il c.d. appello immediato deve
essere proposto entro i termini ordinari di impugnazione.

Se una parte ha formulato riserva di appello contro una sentenza non definitiva e un’altra parte, anch’essa
soccombente, propone appello immediato contro la medesima sentenza, la riserva si caduca.

Inoltre, la riserva si scioglie quando nel processo viene emessa ed impugnata una successiva sentenza. In tal
caso, la parte che aveva formulato la riserva di impugnazione, deve proporre l’appello incidentale,
altrimenti la sentenza non definitiva passa in giudicato nei suoi confronti.

La riserva di ricorso può essere proposta solo contro le sentenze di condanna generica o contro le sentenze
che decidono solo una o alcune delle domande, senza definire il giudizio.

La richiesta deve essere fatta con dichiarazione orale (da inserire nel verbale dell’udienza) o con
dichiarazione scritta. Essa va proposta entro il termine previsto per la proposizione del ricorso e, in ogni
caso, entro la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza non definitiva. In ogni caso, non
può essere fatta se un’altra parte ha proposto ricorso immediato contro la stessa pronuncia.

La riserva deve essere sciolta, qualora nel medesimo processo venga pronunciata un’altra sentenza non
definitiva che sia stata immediatamente impugnata da un’altra parte. In tal caso deve essere presentato il
ricorso per cassazione.

Le sentenze non definitive possono essere impugnate anche immediatamente, nei termini previsti. In caso
di impugnazione immediata, il giudice, su istanza di entrambe le parti, può emanare un’ordinanza non
impugnabile con la quale dispone che il processo sia sospeso fino alla definizione del giudizio di appello.
Inoltre, gli effetti dell’eventuale riforma o cassazione della sentenza non definitiva, si riflettono sugli atti ad
essa dipendenti (c.d. effetto espansivo esterno).

I TERMINI DI IMPUGNAZIONE

I termini per proporre impugnazione sono tutti perentori, dunque, al loro scadere la parte decade dal
potere di compiere l’atto. Decorsi i termini per proporre impugnazione, la sentenza passa in giudicato.

Tuttavia, la parte che dimostri di essere incorsa in decadenza per causa ad essa non imputabile, può
chiedere, allo stesso giudice dell’impugnazione, di essere rimessa nei termini.

Possiamo distinguere un:

- Termine lungo: vale solo per le impugnazioni ordinarie (appello, ricorso per cassazione,
revocazione). In questi casi, l’impugnazione deve essere proposta entro 6 mesi dalla pubblicazione
della sentenza.
Tuttavia, tale termine non si applica al contumace involontario, cioè colui che dimostri di non aver
avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione. Se invece, la
sentenza era stata correttamente notificata al contumace, decorrerà il termine breve di 30 giorni;
- Termine breve: è diverso a seconda del tipo di impugnazione:
• Appello (contro le sentenze del giudice di pace o dei tribunali): 30 giorni;
• Revocazione ordinaria: 30 giorni (ma sarà di 60 giorni per la revocazione delle sentenze
della Cassazione);
• Revocazione straordinaria: proponibile, dunque, contro le sentenze di primo grado già
passate in giudicato (o contro le quali l’appello sia già stato proposto), il termine è di 30
giorni. Il termine però decorre, non dalla notificazione della sentenza, ma dal momento
“mobile” e “non presagibile” in cui il fatto è stato scoperto;
• Regolamento di competenza ad istanza di parte: 30 giorni decorrenti dalla comunicazione
del provvedimento;

Nel caso in cui la parte (o il suo procuratore) muoiano o perdano la capacità di stare in giudizio, il termine
breve per le impugnazioni viene interrotto e riprende a decorrere dal giorno in cui la notificazione della
sentenza è rinnovata.

“PARTE” O “CAPO” DI SENTENZA: L’ACQUIESCENZA

L’acquiescenza consiste nella rinuncia all’impugnazione. E’ un fenomeno che consiste nell’accettazione


della sentenza, il quale si realizza prima della scadenza dei termini per impugnare e che determina, in capo
al soggetto soccombente, l’estinzione del potere di proporre l’impugnazione in via principale.

Essa può essere:

- Esplicita: quando viene espressa con una dichiarazione (verbale o scritta), con cui la parte esprime
la volontà di accettare la sentenza a lei sfavorevole o, comunque, di non impugnarla. Tale
dichiarazione può provenire anche da un procuratore munito di mandato speciale;
- Tacita: quando viene espressa tramite comportamenti incompatibili con la volontà di avvalersi
dell’impugnazione;
- Impropria: quando la sentenza presenta più capi autonomi e indipendenti e viene impugnata solo
parzialmente. A tal proposito, proprio perché il soccombente ha impugnato solo alcune parti della
sentenza, si presume che abbia voluti prestare acquiescenza rispetto alle altre (le non impugnate);

Tuttavia, tale tipo di acquiescenza pone il problema di capire quale sia la nozione di “parte” o “capo” della
sentenza. In dottrina sussistono due orientamenti:

- 1° orientamento: sostiene che la sentenza sia scomponibile in tanti capi quante sono le domande su
cui il giudice si è dovuto pronunciare (capo di sentenza=capo di domanda). Tesi preferibile;
- 2° orientamento: sostiene che nella sentenza vi siano tanti capi quante sono le questioni, di fatto o
di diritto, che il giudice ha dovuto affrontare per decidere sulla domanda proposta (capo di
sentenza=capo di questione);

Inoltre, bisogna specificare che: si consente alla parte che abbia prestato acquiescenza (e dunque abbia
deciso di non impugnare e di conseguenza abbia perso il potere di proporre impugnazione), la facoltà di
proporre un’impugnazione tardiva in via incidentale, quando nei suoi confronti venga proposta
impugnazione; al fine di concludere il nuovo grado di giudizio in modo a lui più favorevole.

L’EFFETO ESPANSIVO INTERNO ED ESTERNO DELLA RIFORMA O DELLA CASSAZIONE DELLA SENTENZA
L’effetto espansivo della riforma o della cassazione della sentenza, si distingue in:

- Effetto espansivo interno: in virtù del quale, la riforma o la cassazione parziali producono effetti
anche sulle parti della sentenza che non sono state impugnate ma che dipendono dalla parte
riformata o cassata. Tale effetto non si verifica quando la sentenza è stata interamente impugnata
e l’impugnazione è stata accolta solo per alcune parti di essa (dunque, vale solo per i casi di
impugnazione parziale);
- Effetto espansivo esterno: in virtù del quale, la riforma o la cassazione della sentenza impugnata,
estende i suoi effetti anche ai provvedimenti e agli atti che dipendono da essa. La dipendenza
sussiste quando un provvedimento basa la sua decisione sulla decisione presa con un altro
provvedimento (ad esempio, sentenze non definitive, parzialmente definitive ect.);

Inoltre, perderanno immediatamente di efficacia gli atti esecutivi compiuti sulla base della sentenza
riformata (fatta eccezione per la vendita forzata).

L’ESTINZIONE, INAMISSIBILITA’ E IMPROCEDIBILITA’ DELL’IMPUGNAZIONE

L’estinzione del giudizio di impugnazione comporta il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Da
ciò consegue che contro la sentenza impugnata saranno ammissibili solo i mezzi di impugnazione
straordinari.

La decisione sull’estinzione viene pronunciata con sentenza, la quale deve anche contenere la pronuncia
sulle spese ed è a sua volta ricorribile per cassazione.

Nel corso del procedimento di impugnazione, prima di poter valutare la fondatezza dell’impugnazione, il
giudice è chiamato a valutare (anche d’ufficio) se l’impugnazione stessa sia ammissibile e procedibile.

L’impugnazione è inammissibile quando:

- Manca la legittimazione a impugnare;


- Manca l’interesse a impugnare;
- L’impugnazione è stata proposta senza rispettare i termini;
- L’impugnazione è stata proposta nonostante l’acquiescenza;
- E’ stato impugnato un provvedimento che la legge ritenga non impugnabile;
- Non è stato rispettato l’ordine di integrazione del contradittorio;

Invece, l’impugnazione è improcedibile quando la parte non compie gli atti d’impulso necessari per far
proseguire il giudizio. Ad esempio, l’appello è improcedibile quando l’appellante, costituito, non compare
alla prima udienza e a quella successiva fissata dal collegio.

L’inammissibilità si riferisce a vizi che sono originari dell’impugnazione, invece, l’improcedibilità si riferisce a
vizi che si manifestano durante il corso dell’impugnazione.

LA NOTIFICAZIONE DEL GRAVAME

Le impugnazioni possono essere notificate con:

- Atto di citazione: nel caso di appello, revocazione, opposizione di terzo;


- Ricorso: nel caso di ricorso per cassazione, revocazione contro le sentenze della cassazione, il
regolamento di competenza;
La notificazione dell’atto di impugnazione deve essere effettuata presso il domicilio eletto o la residenza
indicata dalla parte, purchè questi luoghi siano situati nella circoscrizione del giudice che ha pronunciato la
sentenza. In mancanza, l’impugnazione dovrà essere notificata alla parte presso il procuratore o nella
residenza/domicilio eletto per il giudizio svoltosi nel grado precedente.

Se manca il procuratore, la dichiarazione di residenza e l’elezione di domicilio, e se l’impugnazione sia


proposta dopo un anno dalla pubblicazione della sentenza, la notificazione si esegue presso la parte
personalmente.

Se tali regole non vengono rispettate, la notificazione è nulla. Tuttavia, essa potrà essere sanata con
efficacia ex tunc, se la parte nei cui confronti sia stata eseguita la notificazione viziata si sia comunque
costituita in giudizio (e quindi l’atto abbia comunque raggiunto il suo scopo).

Invece, la notificazione è inesistente se sia avvenuta in un luogo totalmente dissociato e non riconducibile
in alcun modo alla parte destinataria dell’atto. Essa è insanabile.

Se la parte sia deceduta dopo la notificazione della sentenza, l’impugnazione può essere notificata
collettivamente e impersonalmente ai suoi eredi.

SIGNIFICATO E AMBITO DI OPERATIVITA’ DELL’ART. 337 COMMA 2

L’art. 337 comma 1 prevede che se viene proposta impugnazione contro una sentenza, non se ne sospende
l’esecutorietà (essa continuerà comunque a produrre i suoi effetti). Tuttavia, al comma 2, si prevede
un’ipotesi di sospensione facoltativa del processo. Il processo può essere sospeso quando all’interno dello
stesso venga invocata l’autorità di una sentenza resa in un altro giudizio, che sia stata impugnata e che in
qualche modo pregiudica l’esito del processo in cui viene invocata. E’ necessario, dunque, che ci sia un
rapporto di pregiudizialità tra i due giudizi e che quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non
passata in giudicato.

In questi casi, il giudice può scegliere di: adeguarsi alla sentenza pronunciata nell’altro processo, oppure
sospendere il processo in attesa di conoscere l’esito dell’impugnazione.

Accanto a questa ipotesi di sospensione facoltativa, l’art. 295 c.p.c. prevede anche una ipotesi di
sospensione necessaria: “il giudice sospende il processo quando egli stesso, o altro giudice, deve risolvere
una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa”.

L’IMPUGNAZIONE INCIDENTALE

L’impugnazione incidentale è quella che viene proposta successivamente all’impugnazione principale.

In virtù del principio di concentrazione dei gravami, si sancisce che tutte le impugnazioni proposte contro
la stessa sentenza debbano essere riunite, anche d’ufficio, in un solo processo.

Affinchè possa essere proposta impugnazione incidentale è necessario che in un processo vi siano una
pluralità di soccombenti (ad esempio, si pensi ad una soccombenza parziale reciproca: l’attore chiede la
condanna al pagamento di capitale e interessi, ma il giudice accoglie solo la domanda relativa al capitale,
rigettando quella relativa agli interessi).

Affinchè le altre parti soccombenti possano impugnare in via incidentale è necessario che esse siano venute
a conoscenza della proposizione dell’impugnazione principale, mediante notifica della stessa.
L’impugnazione incidentale deve essere contenuta nell’atto di difesa che il soggetto deve porre in essere
contro l’impugnazione principale, cioè:

- La comparsa di risposta: nel caso dell’appello;


- Il controricorso: nel caso di Cassazione;

E’ inammissibile l’impugnazione incidentale proposta dopo il termine ultimo per il compimento dell’atto
difensivo.

L’impugnazione incidentale può essere:

- Tempestiva: quando viene proposta entro i termini per impugnare (in questo caso, l’impugnazione
incidentale non ha nessun rapporto con quella principale, nel senso che, se l’impugnazione
principale non viene ammessa, questa comunque rimane valida);
- Tardiva: quando la parte propone l’impugnazione dopo il termine per impugnare o abbia fatto
acquiescenza della sentenza. Tuttavia, essa perde ogni efficacia laddove quella principale sia
dichiarata inammissibile. Essa può essere proposta dalla parte contro cui sia stata proposta
impugnazione e da quelle chiamate ad integrare il contraddittorio.

CAUSE SCINDIBILI E CAUSE INSCINDIBILI

Le cause inscindibili sono quelle nelle quali sussiste un litisconsorzio necessario nel giudizio di primo grado.
In questi casi la sentenza deve essere pronunciata necessariamente nei confronti di tutti i soggetti.

A tal proposito, se la sentenza pronunciata tra più parti in una causa inscindibile, non è stata impugnata nei
confronti di tutte, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio, fissando un termine entro il quale la
notificazione deve essere fatta. A partire da questo momento, i soggetti destinatari della notificazione
acquistano la qualità di “parte” nel giudizio di impugnazione e, pertanto, la loro mancata costituzione da
luogo a dichiarazione di contumacia.

L’impugnazione è dichiarata inammissibile se nessuna delle parti provvede all’integrazione nel termine
fissato.

L’obbligo di integrazione del contraddittorio si ha, oltre che nel caso di cause inscindibili, anche in quello di
cause dipendenti: sono tali quelle legate dal vincolo di pregiudizialità (in virtù del quale la decisione
dell’impugnazione del rapporto principale condiziona quella sul rapporto dipendente).

Le cause scindibili sono quelle che nel giudizio di primo grado sono state trattate unitamente per ragioni di
“connessione oggettiva” (c.d. litisconsorzio facoltativo). Tuttavia, esse, in 2° grado restano autonome (in
quanto la decisione riferita ai diversi litisconsorti può essere differente e quindi ciascuno, se soccombente,
potrà decidere se impugnare o meno).

A tal proposito, se l’impugnazione di una sentenza pronunciata in cause scindibili è stata proposta solo da
alcune delle parti (o nei confronti di alcune di esse), il giudice ne ordina la notificazione alle altre. Se tale
notificazione non avviene entro il termine stabilito, il processo rimane sospeso fino a quando le parti
rimaste estranee siano decadute dal potere di proporre impugnazione.

A differenza delle cause inscindibili, la denuntiatio litis non fa acquistare ai soggetti destinatari della
notificazione la qualità di “parte” nel giudizio di impugnazione e, pertanto, la loro mancata costituzione non
da luogo a dichiarazione di contumacia.

CAPITOLO 11
IL GIUDIZIO DI APPELLO

L’APPELLO

L’appello è un mezzo di impugnazione ordinario, con cui si apre un giudizio di secondo grado volto a
giudicare nuovamente sulla controversia già decisa dal primo giudice (e quindi non a verificare la
correttezza del provvedimento di 1° grado).

Esso presenta diverse caratteristiche:

- Natura di gravame: comporta un riesame totale della controversia e viene sempre concesso alla
parte soccombente (viene anche definitivo come mezzo di impugnazione a critica libera, proprio
perché permette di impugnare la sentenza per qualsiasi motivo);
- Effetto devolutivo non automatico: nel senso che il giudice di appello sarà chiamato a decidere
sullo stesso oggetto del giudizio di 1° grado, nei limiti dei capi e dei punti della sentenza impugnata.
Tutte le domande e le eccezioni proposte in 1° grado devono essere espressamente riproposte in
appello, intendendosi, in mancanza, rinunciate. Inoltre, non sono ammesse domande nuove, ne
sono proponibili nuove eccezioni;

Possono essere appellate:

- Sentenze di 1° grado: salvo quelle per le quali la legge, o le parti di comune accordo, abbiano
deciso di escludere l’appello. Oppure qualora il giudice sia stato incaricato dalle parti di decidere
secondo equità (in tal caso, si parla di sentenze in unico grado);
- Sentenze pronunciate dal giudice di pace e decise secondo equità (il cui valore non ecceda i 1.100
euro);
- Sentenze in materia di opposizione alle sanzioni amministrative pecuniarie;

Sono inappellabili:

- Le sentenze che le parti, di comune accordo, decidono di impugnare direttamente in cassazione


(c.d. ricorso per saltum);
- I provvedimenti resi durante il giudizio di opposizione agli atti esecutivi;
- In generale, ogni decisione per la quale la legge sancisce espressamente l’inappellabilità;
- I provvedimenti che il giudice di 1° grado ha erroneamente emesso in forma di sentenza, ma che in
realtà hanno natura di ordinanza (ad esempio, un provvedimento ordinatorio adottato con
sentenza);

L’appello va proposto al giudice immediatamente superiore a quello che ha pronunciato la sentenza da


impugnare, dunque:

- Se si deve impugnare la sentenza del Giudice di Pace, ci si dovrà rivolgere al Tribunale;


- Se si deve impugnare una sentenza del Tribunale, ci si dovrà rivolgere alla Corte d’Appello;

In entrambi i casi, è competente per territorio, il giudice nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha
pronunciato la sentenza di 1° grado.

L’appello si propone con atto di citazione. Nel caso in cui invece il 1° grado si sia svolto secondo il rito del
lavoro, l’appello si propone con ricorso.

L’atto difensivo della parte appellata è la comparsa di risposta, come nel processo di primo grado.

L’appello deve contenere una:

- Parte volitiva: le richieste dell’appellante;


- Parte argomentativa: la contestazione delle argomentazioni del giudice di primo grado;
L’appello è un mezzo di impugnazione a critica libera, dunque, la legge non indica i vizi che l’appellante può
far valere, per questo è necessario che l’atto sia motivato. La motivazione deve contenere a pena
d’inammissibilità:

- L’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare;


- L’indicazione delle modifiche che vengono richieste;
- L’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini
della decisione impugnata.

LE QUESTIONI RILEVABILI D’UFFICIO

In virtù del principio tantum devolutum quantum appellatum, la causa devoluta al giudice di 2° grado ha lo
stesso oggetto del giudizio di 1° grado, nei limiti dei capi e dei punti della sentenza impugnata. L’effetto
devolutivo non è automatico: tutte le domande e le eccezioni proposte in 1° grado devono essere
espressamente riproposte in appello, intendendosi, in mancanza, rinunciante.

L’appello continua la pendenza della causa originaria che attende di essere nuovamente decisa.

Tuttavia, questo principio subisce dei temperamenti, in particolare con riguardo alle questioni pregiudiziali
di rito, rilevabili d’ufficio (la sussistenza o meno della legittimazione, l’esistenza di condizioni dell’azione
oppure l’irregolarità della citazione).

Possiamo distinguere tre tesi:

- 1° tesi: si riteneva che il giudice potesse rilevare d’ufficio solo le questioni pregiudiziali di rito che
non fossero espresse nella motivazione della sentenza impugnata;
- 2° tesi: si basa sull’idea che, ogniqualvolta in cui il giudice decide nel merito la lite, egli ha già
ritenuto implicitamente sussistenti i presupposti processuali e le condizioni di ammissibilità;
- 3° tesi: afferma che in caso di impugnazione solo sul merito, si deve sempre attribuire al giudice
dell’appello il potere di rilevare d’ufficio la mancanza della condizione di decidibilità della domanda;

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che, se viene emanata la sentenza di primo
grado che abbia deciso nel merito la lite, il giudice non può rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione. Sarà
necessaria la formulazione di un apposito motivo di appello della sentenza di primo grado.

Per quanto riguarda invece le questioni di merito, esse possono essere rilevate d’ufficio solo se con
l’impugnazione si richiede una nuova decisione sul capo della domanda in relazione al quale l’eccezione di
merito viene in rilievo. E’ necessario però che il convenuto abbia impugnato il capo di sentenza che l’ha
condannato ad adempiere.

L’ONERE DI RIPROPOSIZIONE E L’APPELLO INCIDENTALE

L’art. 346 c.p.c. afferma che “le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non
sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate”.

Dunque, bisogna distinguere tra:

- Domande non accolte: cioè le domande rigettate o le c.d. domande assorbite (quando la decisione
sulla domanda diviene superflua in conseguenza della decisione di altre questioni ad essa
pregiudiziali);
- Eccezioni non accolte: quelle respinte o dichiarate assorbite dal giudice di primo grado;
Con questa norma, il legislatore ha inserito una presunzione assoluta di rinuncia alle domande ed eccezioni
non espressamente riproposte in appello. Tuttavia, tale presunzione non si applica nei confronti
dell’appellato contumace (in quanto le domande e le eccezioni da questi proposte nel giudizio di primo
grado, devono essere riesaminate d’ufficio dal giudice di appello).

La riproposizione non è un’impugnazione, dunque, la parte che la effettua non deve essere
necessariamente soccombente. Si tratta di un soggetto che vuole proteggersi dal rischio che la sua vittoria
avvenuta nel primo grado, possa vacillare nel caso in cui vengano accolti i motivi di appello dell’appellante.

APPELLO INCIDENTALE: L’appello incidentale si utilizza nelle ipotesi di “soccombenza reciproca” e consente
anche all’appellato che sia rimasto soccombente su un capo di sentenza (diverso da quello impugnato con
l’appello principale) di proporre impugnazione.

Affinchè possa essere proposto appello incidentale è necessario che si sia venuti a conoscenza
dell’impugnazione principale, mediante notifica della stessa. Esso va proposto con la comparsa di risposta,
da depositare in cancelleria almeno 20 giorni prima dell’udienza fissata per la comparizione delle parti. La
comparsa di risposta d’appello, deve contenere tutte le difese dell’appellato: questi deve prendere
posizione sui fatti posti a fondamento della domanda dell’appellante, indicare i mezzi di prova di cui
intende valersi (sono inammissibili le domande riconvenzionali, le eccezioni in senso stretto e la chiamata in
causa di terzi).

L’appello incidentale non può proporsi se la stessa parte aveva già proposto impugnazione principale (in
virtù del principio dell’acquiescenza per le parti della sentenza non impugnate).

quando una delle parti propone appello contro la sentenza di primo grado, le altre parti che vogliono a loro
volta proporre appello contro i punti della sentenza a loro sfavorevoli possono proporre appello
incidentale.

I NOVA IN APPELLO

L’art. 345 comma 1 c.p.c. sancisce il divieto di proporre nuove domande in appello, le quali dovranno
essere dichiarate inammissibili d’ufficio (tuttavia, esse potranno essere fatte valere in un autonomo
processo, poiché non sono state rigettate nel merito).

La domanda è “nuova” quando presenta, rispetto a quelle proposte in primo grado, elementi identificativi
diversi.

Non è possibile effettuare delle modifiche alle domande originarie, fatta eccezione per le domande nuove
dei terzi che siano ammessi a fare intervento per la prima volta in appello.

A tal proposito, bisogna distinguere tra:

- Mutatio libelli: quando si ha un radicale mutamento della domanda (vietato dalla normativa
vigente);
- Emendatio libelli: quando si tratta di una semplice modifica (come tale pertanto ammissibile, fatta
eccezione per le ipotesi in cui l’attore introduce per la prima volta in appello una nuova “ragione”,
cioè un fatto idoneo a sorregge la domanda originariamente proposta);

Il comma 2 sancisce che non possono proporsi nuove eccezioni che non possono essere rilevate d’ufficio
(ovvero, le c.d. eccezioni in senso stretto, cioè quelle che deve proporre il convenuto).

Sono invece ammissibili le c.d. eccezioni in senso lato (in quanto rilevabili d’ufficio).
Il comma 3, invece, sancisce che non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti
nuovi documenti, salvo che il Collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione e che la parte
dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Inoltre, si
può sempre essere sottomessi a giuramento decisorio.

Il nuovo mezzo di prova è “indispensabile” solo quando, anche isolatamente considerato, è capace di
cambiare la decisione di primo grado.

E’ fondamentale che la decisione sia quanto più veritiera possibile, proprio per questo motivo si possono
ammettere anche le c.d. prove cruciali, cioè quelle che da sole possono eliminare ogni dubbio sulla
ricostruzione del fatto effettuata dal giudice di primo grado.

LE IPOTESI TASSATIVE DI APPELLO RESCINDENTE

Con l’appello rescindente, il giudice d’appello rimette la causa al giudice di 1° grado. (La rimissione è l’atto
con cui si determina lo spostamento del processo dinnanzi ad altro giudice). Si può avere rimessione solo se
il giudice di appello dichiara la nullità della sentenza di primo grado.

Le parti devono riassumere il processo entro 3 mesi dalla notificazione della sentenza. Se contro la sentenza
d’appello è proposto ricorso per cassazione, il termine è interrotto.

Dunque, le ipotesi di appello rescindente sono:

- Il giudice di appello riconosce l’esistenza della giurisdizione che il giudice di primo grado aveva
negato;
- Il giudice d’appello dichiara la nullità della notificazione dell’atto di citazione;
- Il giudice di appello riconosce che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il
contraddittorio;
- Il giudice di appello riconosce che nel giudizio di primo grado non doveva essere estromessa una
parte;
- Il giudice di appello dichiara la nullità della sentenza di primo grado per mancata sottoscrizione del
giudice;
- Il giudice di appello riconosce che il giudice di primo grado ha errato nel dichiarare l’estinzione del
processo (in quanto non si è verificato un evento estintivo);

A parte questi casi espressamente previsti dal Codice di Procedura Civile, vi è un altro caso fortemente
discusso: quello della nullità dell’atto di citazione, quando il giudice di primo grado non la abbia rilevata e
abbia dunque deciso nel merito (di solito nella contumacia del convenuto). A tal proposito, bisogna
distinguere se il vizio riguarda:

- Editio Actionis: (la quale non è sanabile con efficacia retroattiva, ma solo ex nunc) in questo caso
una rimessione in primo grado avrebbe poca utilità;
- Vocatio in ius: la tesi prevalente ritiene che il giudice di appello, rilevata la nullità, dovrebbe
sostituire la sentenza di merito di primo grado con una sentenza di rigetto della domanda (in
quanto l’atto di citazione non è idoneo a dare impulso al rapporto processuale).

Al di fuori dei sei casi espressamente previsti, quando il giudice di appello rilevi una nullità degli atti
compiuti in primo grado, non deve disporre la rimessione al primo giudice, ma ordinare la rinnovazione
nello stesso giudizio di appello. Essa comporta la sostituzione dell’elemento viziato con un elemento
conforme alle norme.
Se la rinnovazione non è possibile, il giudice di appello decide nel merito scartando gli atti nulli. La
rinnovazione in ogni caso avviene secondo le regole del giudizio di primo grado, non secondo quelle del
giudizio di appello.

IL PROCEDIMENTO DI APPELLO

L’appello si propone con atto di citazione (o ricorso se si tratta di rito del lavoro) il quale deve contenere:

- L’esposizione dei fatti in causa;


- Una sintesi dell’attività processuale svolta in primo grado;
- Una sintesi del contenuto della sentenza appellata;
- I motivi di impugnazione;
- Qualora manchi la motivazione dell’appello, l’impugnazione deve essere dichiarata inammissibile;

L’appellante deve costituirsi in giudizio entro 10 giorni dalla notifica dell’atto di appello (e se questo sia
stato notificato a più parti, entro 10 giorni dalla prima notificazione). La mancata o tardiva costituzione
dell’appellante comporta l’improcedibilità dell’appello.

Bisogna distinguere:

- Se la sentenza impugnata è stata emessa dal giudice di pace, competente in appello sarà il
Tribunale in composizione monocratica;
- Se la sentenza è stata emessa dal tribunale, la competenza apparterrà alla Corte d’appello in
composizione collegiale;

L’appellante ha il dovere di comparire alla prima udienza poiché altrimenti, con ordinanza non impugnabile,
il Collegio rinvia ad altra udienza e, se neppure ad essa l’appellante compaia, l’appello verrà dichiarato
improcedibile d’ufficio. Tuttavia, bisogna specificare che nel caso in cui sia stato proposto appello
incidentale, l’improcedibilità riguarderà solo l’impugnazione principale, mentre il giudizio di secondo grado
proseguirà per decidere solo l’appello incidentale.

La prima udienza si svolgerà davanti al Collegio, durante la quale il giudice competente:

- Verifica la regolarità del contraddittorio;

E se occorre ordina:

- La sua integrazione;
- La notificazione;
- Effettua la eventuale dichiarazione di contumacia;
- Dispone, ove necessario, la riunione degli appelli contro la stessa sentenza;
- Pone in essere il tentativo di conciliazione ordinando, se occorre, la comparizione personale delle
parti;

Inoltre, durante la prima udienza di appello, il giudice può, con ordinanza non impugnabile, e su istanza di
parte, sospendere l’efficacia esecutiva della sentenza quando ricorrano gravi e fondati motivi.

Inoltre, può accadere che la parte chieda che la decisione sulla sospensione sia pronunciata prima
dell’udienza di comparizione. In tal caso, il Presidente del Collegio (o il Tribunale), con decreto, ordina la
comparizione delle parti in Camera di Consiglio e, se ricorrono i giusti motivi d’urgenza, può disporre in via
provvisoria l’immediata sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza. Per la decisione della causa,
viene poi fissata un’apposita udienza.
Diverso è il caso in cui la sospensione dell’efficacia della sentenza venga disposta nei confronti di una
sentenza che contiene una c.d. pronuncia inibitoria accompagnata da una penalità di mora o astreinte (cioè
una misura coercitiva che consiste nel pagamento di una somma di denaro per ogni comportamento posto
in essere in violazione della inibitoria).

Secondo un orientamento prevalente, nel periodo durante il quale ha avuto luogo la sospensione
dell’inibitoria (comminata con la sentenza di primo grado), il titolare del diritto violato, oltre all’eventuale
risarcimento del danno, potrà avere anche la liquidazione della penale.

Ove siano state richieste ammissibilmente nuove prove, il Collegio ne può disporre l’assunzione con
ordinanza. Ove, invece, non vi siano prove da assumere, il Collegio fissa l’udienza di precisazione delle
conclusioni.

Entro 60 giorni dall’udienza di precisazione delle conclusioni, le parti devono presentare le comparse
conclusionali ed, entro 20 giorni, le memorie di replica.

Successivamente, entro 60 giorni, la sentenza deve essere depositata in cancelleria.

Nel giudizio di appello, la fase decisoria può svolgersi con diverse modalità:

- Decisione a seguito di trattazione solo scritta: in questo caso, una volta precisate le conclusioni, il
Collegio dispone lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. La sentenza
sarà poi depositata in cancelleria entro 60 giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle
memorie di replica;
- Decisione a seguito di trattazione mista, scritta e orale: nel caso in cui, a seguito della trattazione
scritta, la parte chieda la trattazione orale davanti al Collegio. In questo caso, il Presidente fisserà
con decreto l’udienza di discussione, e la sentenza dovrà essere depositata in cancelleria entro i 60
giorni successivi;
- Decisione a seguito di trattazione solo orale: quando la causa sia decisa a seguito di discussione solo
orale. La sentenza sarà pronunciata all’esito dell’udienza di discussione, dando lettura del
dispositivo e delle ragioni di fatto e di diritto;

La Legge del 2012 ha introdotto una nuova ipotesi di inammissibilità dell’appello, prevedendo che:
“l’impugnazione deve essere dichiarata inammissibile, dal giudice competente, anche quando non ha
ragionevole probabilità di essere accolta”. Tuttavia, questa norma pone dei dubbi, soprattutto perché,
facendo riferimento alla “ragionevole probabilità di accoglimento dell’impugnazione” (concetto astratto e
troppo generico), si pone in conflitto con il principio (desumibile anche dalla CEDU) per cui una volta
concesso il grado di impugnazione, l’accesso allo stesso non può essere precluso in forza di valutazioni
troppo discrezionali del legislatore.

Il Decreto Sviluppo 2012 ha introdotto una novità molto importante, una sorta di c.d. udienza filtro, in cui il
giudice è tenuto a pronosticare la ragionevole probabilità di accoglimento dell’appello e, in caso negativo, a
dichiararlo inammissibile con ordinanza non reclamabile.

A seguito dell’ordinanza con cui viene dichiarata l’inammissibilità dell’appello, l’appellante può proporre
ricorso per cassazione direttamente contro il provvedimento di primo grado (e non contro l’ordinanza di
inammissibilità), entro 60 giorni dalla sua notificazione.

Se poi la Corte di Cassazione accoglie il ricorso, rinvierà la causa al giudice che si sarebbe dovuto
pronunciare sull’appello.

Tuttavia, ci si è chiesti se vi siano dei casi in cui il ricorso per cassazione possa essere esperito anche
direttamente contro la stessa ordinanza.
A tal proposito, le Sezioni Unite hanno chiarito che l’ordinanza sarà impugnabile con:

- Ricorso per cassazione straordinario: quando il giudice dell’appello non abbia rispettato le
disposizioni sul filtro di inammissibilità;
- Ricorso per cassazione ordinario: quando l’ordinanza pronunci l’inammissibilità dell’appello per
ragioni processuali.

ESECUZIONE PROVVISORIA IN APPELLO ART. 283 C.P.C.

Il giudice dell’appello, su istanza di parte (proposta con impugnazione principale o incidentale), sospende,
in tutto o in parte, l’efficacia esecutiva della sentenza impugnata, se l’impugnazione appare
manifestatamente fondata oppure se si accerti che dall’esecuzione della sentenza possa derivare un
pregiudizio grave ed irreparabile. Dunque, si prevede che:

- L’esecutività della sentenza può essere sospesa se sulla base di un giudizio prognostico, si rilevi la
manifesta infondatezza dell’impugnazione, oppure la possibilità di un pregiudizio grave e
irreparabile derivante dall’esecuzione della sentenza (anche quando la stessa contiene la condanna
al pagamento di una somma di denaro);
- La richiesta di sospensione può essere effettuata nel corso del giudizio di appello anche con ricorso
autonomo, a condizione che il ricorrente indichi gli specifici elementi sopravvenuti dopo la
proposizione dell’impugnazione;
- Qualora la richiesta di sospensione sia dichiarata inammissibile o manifestatamente infondata, il
giudice (con ordinanza non impugnabile) può condannare la parte che l’ha proposta al pagamento
di una somma di denaro tra i 150 e i 10mila euro, a favore della cassa delle ammende.

L’APPELLO NEL RITO DEL LAVORO

Nel rito del lavoro, l’appello può essere proposto dinanzi alla Corte d’Appello (in funzione di giudice del
lavoro), nel cui circondario si trova il Tribunale che ha emesso la sentenza di 1° grado.

L’appello può essere proposto entro il termine breve (30 giorni dalla notifica della sentenza, che saranno 40
se la notifica è stata effettuata all’estero) o entro il termine lungo (di 6 mesi dalla pubblicazione della
sentenza).

L’atto introduttivo è il ricorso, il quale va depositato nella cancelleria del giudice e deve indicare, a pena di
inammissibilità, i motivi specifici di impugnazione. Successivamente, il Presidente della Corte d’Appello
fissa, con decreto, non oltre 60 giorni, l’udienza di discussione della causa. L’appellante nei 10 giorni
successivi notifica il ricorso ed il decreto alla parte appellata.

L’appellato deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell’udienza, mediante deposito in cancelleria del
fascicolo e di una memoria difensiva. Egli può proporre anche appello incidentale.

Durante l’udienza di discussione della causa, il giudice redige la relazione. Successivamente il Collegio,
sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo. Anche qui opererà il
meccanismo del “filtro di inammissibilità”.

Si prevede la possibilità di proporre l’appello con riserva sui motivi, i quali dovranno essere poi depositati
entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza.

In appello non sono ammesse nuove domande ne nuove eccezioni e non è possibile proporre nuovi mezzi di
prova (tranne il giuramento estimatorio). Viene comunque fatta salva la possibilità per il giudice di
ammettere le prove che ritiene indispensabili. Se vengono ammesse nuove prove, il Collegio è tenuto a
fissare, entro un termine di 20 giorni, l’udienza nel corso della quale le stesse dovranno essere assunte.

La sentenza deve essere depositata entro 60 giorni dalla pronuncia. Il cancelliere ne da immediata
comunicazione alle parti.

Inoltre, il lavoratore, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro venga condannato al pagamento di crediti
derivanti dal rapporto lavorativo, può avviare l’esecuzione forzata sulla base del solo dispositivo della
sentenza. Si consente al giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata di concedere la sospensione
dell’esecuzione, nel caso in cui da tale esecuzione possa derivarne un danno grave ed irreparabile.

CAPITOLO 12

IL RICORSO PER CASSAZIONE

IL RICORSO PER CASSAZIONE: EVOLUZIONE DELL’ISTITUTO

Il ricorso per cassazione costituisce il grado di chiusura del rapporto processuale. Essa è una impugnazione
ordinaria, che sospende il giudicato, e può essere esperita per soli motivi di diritto.

Mira all’annullamento della sentenza (fase rescindente), al fine di ricevere una nuova e più corretta
definizione (fase rescissoria).

Oggetto del controllo, non è la lite, ma la sentenza (e quindi indirettamente l’operato dei giudici di merito).
Si distinguono così gli:

- Errores in procedendo: i vizi dell’attività;


- Errores in iudicando: i vizi del giudizio (cioè gli errori commessi dal giudice nell’applicazione della
legge);

La Corte di Cassazione è composta da 6 sezioni civili (le quali comprendono anche la sezione del lavoro e la
sezione tributaria). La sesta sezione è denominata “Sezione-filtro”, essa decide dei ricorsi in Camera di
Consiglio (e non in pubblica udienza), in tutti quei casi in cui il ricorso risulti
inammissibile/improcedibile/manifestatamente infondato.

Ciascuna sezione è composta da 5 giudici, incluso il Presidente.

In caso di contrasto tra le singole sezioni della Corte, essa decide a Sezioni Unite. La pronuncia delle Sezioni
Unite acquista una particolare autorevolezza, tanto che le singole sezioni della Corte non possono
discostarsene senza una preventiva autorizzazione.

I giudici della Corte di Cassazione sono dei magistrati togati che hanno esercitato le funzioni di giudice della
Corte di Appello per almeno 7 anni. La valutazione circa la loro capacità spetta al Consiglio Superiore della
Magistratura.

Alla Corte di Cassazione sono attribuite determinate funzioni:

- Funzione nomofilattica: finalizzata ad assicurare l’osservanza e l’uniforme interpretazione della


legge;
- Garantire l’unità del diritto oggettivo nazionale;
- Regolare gli eventuali conflitti di competenza e di attribuzione;

La funzione nomofilattica è volta a garantire l’osservanza della legge, la sua interpretazione uniforme e
l’unità del diritto nazionale.
Proprio per questo motivo la Corte di Cassazione è “giudice di legittimità”, ovvero, non si occupa di entrare
nel merito della controversia, ma effettua un riesame del provvedimento giurisdizionale. All’esito del
riesame, la Corte pronuncia il principio di diritto cui il Giudice di Rinvio dovrà attenersi. Il principio di diritto
è vincolante solo per il giudice del rinvio la cui sentenza è stata impugnata in Cassazione. Tuttavia, anche
per gli altri giudici assume un carattere autorevole e particolarmente influente, sebbene non vincolante.

Presso la Corte di Cassazione è istituito l’Ufficio del Massimario, il quale ha il compito di esaminare le
pronunce di legittimità della Corte e di darne adeguata diffusione.

A tal proposito, bisogna distinguere tra:

- Jus consitutionis: tutte le sentenze che consento alla Cassazione di emanare delle pronunce che
sanciscano dei principi giuridici da rispettare anche nei casi futuri;
- Jus litigatoris: tutte le questioni che interessano solo il ricorrente e non consentono alla Cassazione
di svolgere funzione di nomofilachia;

La Riforma del 2006 ha valorizzato la funzione nomofilattica della Cassazione, con:

- Art. 363c.p.c.: il quale sancisce che “se le parti non hanno proposto ricorso nei termini previsti dalla
legge, o vi hanno rinunciato, oppure nel caso in cui il provvedimento non sia ricorribile per
cassazione, il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, può chiedere che la Corte enunci,
nell’interesse della legge, il principio di diritto a cui il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi”.
Inoltre, è stata introdotta la possibilità che il principio di diritto possa essere enunciato anche
d’ufficio dalla Corte di Cassazione, qualora dichiari inammissibile il ricorso proposto dalle parti;
- Pronuncia a Sezioni Unite: le Sezioni Unite sono una particolare struttura della Corte, cioè un
collegio di 9 giudici, che sono chiamate a pronunciarsi:
• Se il ricorso è stato proposto per motivi attinenti alla giurisdizione;
• In caso di conflitti (positivi o negativi) tra giudici speciali e giudici ordinari;
• Qualora richiesto dal primo Presidente;

Se la sezione semplice non condivide il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite,
rimette a queste ultime, con ricorso;

- Art. 111 comma 7 Cost.: il quale consente a tutti i cittadini di promuovere ricorso per Cassazione
contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali. Tale ricorso
è ammesso senza dover prima esperire appello in materia civile o penale. Unica deroga a tale
facoltà si ha soltanto in tempo di guerra per i provvedimenti dei Tribunali Militari;

I MOTIVI DI RICORSO

Il ricorso per cassazione può essere proposto solo per motivi di puro diritto. Se il ricorso deduce una
pluralità di motivi, l’ordine di pregiudizialità fra essi può essere fissato dalla Corte. Essa, infatti, dichiarerà
“assorbiti” i motivi di rango successivo e di rilievo solo residuale rispetto a quelli accolti.

Il ricorso per cassazione è un mezzo di impugnazione “a critica vincolata”, in quanto può essere proposto
solo per i motivi espressamente indicati dalla legge. I 5 motivi di ricorso sono enunciati dall’art. 360 c.p.c.:

MOTIVO N. 1, Difetto di giurisdizione:

- Quando il giudice abbia violato le norme sulla giurisdizione nei confronti di un giudice straniero (in
questo caso la Corte potrà solo decidere se il giudice italiano potrà conoscere della lite);
- Quando il giudice si sia occupato di questioni riservate alla giurisdizione di un giudice diverso o di
un altro potere dello Stato;
- Quando il giudice per errore abbia ritenuto di non poter decidere per difetto di sua giurisdizione;

La pronuncia sulla giurisdizione deve indicare il giudice ritenuto competente dalla Suprema Corte. Tale
statuizione è vincolante sia per le parti che per il giudice ad quem (ovvero il giudice ritenuto competente).

MOTIVO N. 2, Violazione delle norme sulla competenza: il ricorso per cassazione può essere esperito
quando vengano violate le norme che disciplinano il riparto della competenza, fondate sui criteri della
materia, del valore e del territorio.

Esso non può essere proposto quando è necessario il regolamento di competenza. Qualora al posto del
regolamento di competenza venga proposto erroneamente il ricorso ordinario per cassazione, il ricorrente
potrà convertire il ricorso in regolamento, ma solo se sono stati rispettati i presupposti per la proposizione
(per il regolamento 30 giorni dalla comunicazione della sentenza, e per il ricorso 60 giorni dalla
notificazione).

La causa può essere riassunta davanti al giudice indicato come competente entro 6 mesi. Se la causa non
viene riassunta, con conseguente estinzione del processo, l’eventuale successiva proposizione della
medesima domanda dovrà essere comunque rivolta al giudice indicato come competente dalla Corte.

MOTIVO N. 3, Errore di diritto: il terzo motivo di ricorso è dato dalla violazione o falsa applicazione delle
norme di diritto e dei contratti collettivi nazionali di lavoro.

Bisogna distinguere tra:

- Violazione: l’interpretazione di una norma in maniera diversa dal suo contenuto;


- Falsa applicazione: la riconduzione di una fattispecie concreta ad una norma non pertinente;

Possono essere censurati per errori di diritto in iudicando:

- Concetti giuridici indeterminati: o anche definiti “concetti elastici”, ovvero quei concetti che
adattano il diritto al continuo cambiamento sociale;
- Controllo del giudizio di equità: ad esempio, il giudice di pace, quando decide secondo equità, può
prendere in considerazione talune peculiarità del caso concreto, prescindendo dall’applicazione di
una norma giuridica;
- Ius superveniens: quando una sentenza abbia correttamente applicato la legge vigente, ma
successivamente non risulti più conforme all’ordinamento giuridico, a causa del sopravvenire di una
norma diversa avente efficacia retroattiva;

Se devono essere effettuati ulteriori accertamenti di fatto, essa si limita ad enunciare il principio di diritto al
quale il giudice di rinvio deve uniformarsi. Tale principio mantiene efficacia vincolante anche se il giudizio di
rinvio non viene riassunto o si estingue. Esso continuerà ad avere rilievo obbligatorio (c.d.
“panprocessuale”) anche nei nuovi e successivi giudizi di primo grado che fossero proposti dopo l’estinzione
di quello precedente.

Qualora, invece, non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto, la Corte decide la causa nel merito.

MOTIVO N. 4, Nullità della sentenza o del procedimento: esso riguarda la violazione di norme processuali,
commessa dal giudice che ha deciso nel grado precedente.

Tali violazioni possono riguardare:


- Errori inconsapevoli di conduzione del procedimento: ad esempio, il giudice non si è accorto della
assenza di un litisconsorte necessario, della nullità della citazione, della non sottoscrizione di una
sentenza ect.;
- Errato giudizio sul significato di una norma processuale: la quale è stata si applicata, ma in modo
sbagliato;

MOTIVO N. 5, Omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione: Il “fatto decisivo” è quello idoneo
a provocare una decisione di merito diversa rispetto a quella impugnata.

Tale motivo fa riferimento a tutti quei casi in cui non sia stato rispettato l’obbligo di motivazione. E’
necessario che la motivazione manchi in radice (se essa sia solo insufficiente o illogica dovrà essere
applicato il motivo n. 4).

La motivazione potrà dunque dirsi “mancante” se risulti:

- Graficamente mancante: dunque materialmente omessa;


- Apparente: nel senso che seppur graficamente presente, non abbia alcuna efficacia esplicativa;
- Contraddittoria;
- Manifestatamente illogica: cioè incomprensibile;

Vi sono dei casi in cui il motivo in esame non è utilizzabile:

- Quando l’appello viene dichiarato inammissibile per ragionevole probabilità di non essere accolto;
- Quando la sentenza di appello conferma la pronuncia di primo grado con riferimento ai fatti in
causa (c.d. doppia conforme).

IL CONTENUTO DEL RICORSO. IL C.D. “FILTRO” DELL’ART. 360 BIS

Nel tentativo di porre un filtro all’afflusso incontrollato di ricorsi, è stato introdotto il c.d. principio di
autosufficienza, in virtù del quale, le parti hanno l’onere di indicare con precisione gli elementi posti alla
base dell’impugnazione. Il motivo deve essere dotato di un’autonomia tale da consentire, senza il sussidio
di altre fonti, l’immediata individuazione delle questioni da risolvere.

A tal proposito, il ricorso deve contenere:

- L’esposizione dei fatti;


- I motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano;
- La specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti collettivi su cui il ricorso
si fonda;

Sempre a pena di inammissibilità, il ricorso deve contenere l’indicazione:

- Delle parti;
- Della sentenza (o nel caso di ricorso straordinario, della decisione avente diversa forma che si
impugna);
- Dei fatti della causa e dello svolgimento del processo;
- La procura alle liti (la quale conterrà l’elezione del domicilio del ricorrente in Roma presso il suo
difensore cassazionista, a cui saranno fatte le notificazioni dei successivi atti del giudizio);

Nel 2006, fu introdotto l’art. 366bis c.p.c., che, nel giudizio avanti la Corte di Cassazione, imponeva l’obbligo
di concludere l’illustrazione di ciascun motivo (fatta eccezione per il n.5) con la formulazione di un c.d.
quesito di diritto, a pena di inammissibilità del ricorso.
La norma in esame, tuttavia, non ha specificato quali siano le caratteristiche e il contenuto del quesito di
diritto. Si tratta di una domanda che si rivolge alla stessa Corte di Cassazione, affinchè quest’ultima possa
enunciare un principio di diritto.

Il quesito di diritto doveva essere specifico (esso doveva porre la Corte di Cassazione nella possibilità di
enunciare la regola iuris) e conferente (doveva essere adeguato al motivo al quale faceva riferimento). Lo
scopo era quello di facilitare l’attività della Corte, la quale poteva più facilmente riconoscere il vizio
lamentato ed individuare i ricorsi inammissibili/infondati.

Nel 2009, l’art. 366bis è stato abrogato, ed è stato introdotto il c.d. filtro di ammissibilità. Il ricorso è
inammissibile quando:

- Il provvedimento impugnato abbia deciso le questioni di diritto in modo conforme ai precedenti


della Corte e dall’esame dei motivi, la Suprema Corte, non ritenga di dover confermare o
modificare il proprio orientamento;
- E’ stata infondatamente affermata la violazione dei principi regolatori del giusto processo (quali:
principio del contraddittorio, di difesa, di terzietà e imparzialità del giudice);

Tale controllo di inammissibilità verrà compiuto da una apposita sezione della Corte di Cassazione, la c.d.
Sezione Filtro.

Una volta redatto il ricorso completo di tutti i suoi elementi, esso sarà notificato entro 6 mesi dal deposito
della decisione impugnata, oppure entro 60 giorni dalla sua notificazione (se la notifica sia avvenuta al
difensore del soccombente, anziché a lui personalmente). Il ricorso dovrà poi essere depositato in
cancelleria, entro 20 giorni dalla notifica, a pena di improcedibilità.

Inoltre, il ricorrente ha la facoltà di chiedere la sospensione della provvisoria esecutorietà della sentenza
impugnata. L’istanza non deve essere rivolta alla Corte di Cassazione (che in veste di giudice di legittimità
non ha il potere di conoscere del fatto), ma al giudice che ha pronunciato quella decisione. E’ necessario
che l’interessato dimostri di aver subito un “danno grave e irreparabile” dall’esecuzione del provvedimento.
L’ordinanza con cui il giudice decide sull’istanza di inibitoria, può essere modificata o revocata laddove, in
un momento successivo, venga meno il pericolo di danno grave e irreparabile che aveva determinato la
concessione dell’inibitoria.

IL CONTRORICORSO E IL RICORSO INCIDENTALE (ANCHE CONDIZIONATO)

Il controricorso è l’atto con cui la parte resistente in un giudizio in Cassazione chiede che sia rigettato il
ricorso. Esso deve essere notificato al ricorrente entro 40 giorni dalla notificazione del ricorso principale.
Deve essere sottoscritto da un avvocato iscritto nell’albo speciale dei cassazionisti, e deve esporre i fatti di
causa ed indicare i motivi che sorreggono l’atto.

Il controricorso può essere usato per:

- Contrastare il ricorso principale;


- Oppure può contenere, a sua volta, un’impugnazione incidentale;

Lo scopo è quello di replicare alle affermazioni contenute nel ricorso principale, difendendo il
provvedimento impugnato.

Con il ricorso incidentale, la parte resistente, oltre a difendersi, impugna le parti della sentenza che gli sono
sfavorevoli, chiedendone l’annullamento.
Il ricorso incidentale può essere proposto dal:

- Destinatario del provvedimento impugnato in caso di soccombenza anche sua (c.d. soccombenza
parziale reciproca);
- Dalle altre parti del giudizio del grado precedente che abbiano ricevuto la notifica del ricorso per
cassazione;

Il ricorso incidentale si propone con lo stesso atto contenente il controricorso.

Possiamo distinguere tra:

- Ricorso incidentale autonomo;


- Ricorso incidentale condizionato: lo strumento usato dalla parte vittoriosa nel merito, ma a cui sia
stata respinta una questione pregiudiziale o una questione preliminare. Ciò al fine di evitare che tali
questioni non possano poi essere riesaminate dall’eventuale giudice del rinvio;

A seguito dell’impugnazione incidentale, il ricorrente principale può soltanto reagire con lo strumento del
controricorso.

Il ricorso incidentale è un atto di impugnazione autonomo rispetto a quello principale, con la conseguenza
che, qualora il ricorso principale dovesse essere dichiarato inammissibile, quello incidentale assume la
funzione di “ricorso principale” (del quale deve possedere i requisiti di tempestività, con la conseguenza
che esso è inammissibile se notificato oltre il termine di 60 giorni dalla notifica della sentenza impugnata).

I DIVERSI CONTENUTI DELLA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE

Una volta notificato e depositato, il ricorso viene assegnato dal Primo Presidente della Corte di Cassazione
alla c.d. Sezione Filtro. Tutti i ricorsi in Cassazione (ad eccezione di quelli di competenza delle Sezioni Unite)
devono essere precedentemente controllati dalla Sezione Filtro, la quale sarà chiamata a valutare se
sussistano le condizioni per dichiararli (con procedimento in Camera di Consiglio): inammissibili,
manifestatamente fondati o manifestatamente infondati.

Quando la Corte decide in Camera di Consiglio, il decreto di fissazione dell’udienza deve essere notificato ai
difensori delle parti almeno 20 giorni prima. Quest’ultimi non potranno partecipare all’adunanza, ma
possono depositare almeno 5 giorni prima una memoria a sostegno della propria tesi.

All’esito dell’adunanza, la Sezione Filtro può con ordinanza:

- Rigettare il ricorso: in caso di manifesta infondatezza o inammissibilità;


- Accogliere il ricorso: qualora sia fondato;

Successivamente, tra i ricorsi vagliati dall’apposita Sezione, quelli dichiarati “fondati” ritornano al Primo
Presidente, il quale provvederà ad assegnarli ad una delle Sezioni Semplici per essere da questa decisi.

Le Sezioni Semplici, invece, decidono a seguito di udienza pubblica e con sentenza quando:

- Il ricorso è stato loro rimesso dalla Sezione Filtro che, all’esito della Camera di Consiglio, ritenga che
non debba pronunciarsi sulla manifesta fondatezza/infondatezza/inammissibilità del ricorso;
- Quando la questione di diritto sulla quale si deve pronunciare sia di particolare importanza;

In questi casi, il presidente fissa l’udienza pubblica, che verrà comunicata ai difensori almeno 20 giorno
prima.
Il procedimento per cassazione non può estinguersi per inattività delle parti. Queste però possono
rinunciare al ricorso principale o incidentale, prima dell’inizio dell’udienza pubblica. Se la rinuncia investe
tutte le domande di cassazione e tutti i motivi, la sentenza impugnata passerà in giudicato.

Dopo la discussione della causa, la decisione è deliberata in segreto nella Camera di Consiglio. Ad essa
possono partecipare soltanto i giudici che hanno assistito alla discussione. A tal proposito, la Corte può
procedere alla:

Cassazione senza rinvio: quando riconosce che il giudice che ha emanato il provvedimento
impugnato difetta di giurisdizione; quando decide la causa nel merito non essendo necessari
ulteriori accertamenti di fatto, se ritiene che la causa non poteva essere proposta o il processo
proseguito. In quest’ultimo caso, inoltre, bisogna distinguere tra:
• Improponibilità oggettiva: quando la tutela richiesta al giudice non può essere data perché
non prevista dal nostro ordinamento (ad esempio, richiesta di condanna della pubblica
amministrazione ad un facere specifico);
• Improponibilità soggettiva: nel caso in cui sussista un vizio insanabile di un presupposto
processuale attinente alle parti (ad esempio, difetto di legittimazione o di interesse ad
agire);
- Cassazione con rinvio: la Corte rinvia la causa ad altro giudice.

IL GIUDIZIO DI RINVIO DOPO LA CASSAZIONE

Se la sentenza cassata non può essere sostituita già dalla stessa Corte di Cassazione (come accade invece
nella cassazione senza rinvio), si procederà alla cassazione con rinvio. Più precisamente, una volta cassata
la sentenza, la Corte rimetterà la causa al c.d. giudice di rinvio che, di regola, è un diverso giudice di pari
grado rispetto a quello che ha emesso la sentenza cassata.

Davanti a tale giudice si svolgerà la fase rescissoria.

Si avrà cassazione con rinvio:

- Se viene riscontrata la violazione o la falsa applicazione delle norme di diritto e dei contratti
collettivi nazionali di lavoro;
- Per i casi di nullità della sentenza o del procedimento;
- Per la presenza di un vizio di motivazione;

Nel caso in cui non si ravvisi la necessità di ulteriori accertamenti sul fatto, la Corte può anche decidere
direttamente la causa nel merito. Si parla in questi casi di c.d. cassazione sostitutiva, la quale consente di
evitare un giudizio di rinvio che sarebbe del tutto inutile.

Se, invece, non ricorrono i presupposti per la decisione di merito da parte della Corte di Cassazione, la
regola generale vuole che, dopo l’accoglimento del ricorso, vi sia il rinvio ad un giudice di pari grado a
quello che ha pronunciato il provvedimento impugnato. Tuttavia fanno eccezione i casi di:

- Ricorso per salutm: in tale ipotesi la Corte può rinviare liberamente allo stesso giudice di primo
grado oppure al giudice che sarebbe stato competente per l’appello;
- Se la Corte rileva un vizio per cui il giudice di appello avrebbe dovuto rimettere la causa al giudice di
primo grado, rimette la causa direttamente a quest’ultimo (c.d. rinvio improprio);

Una volta disposto il rinvio da parte della Corte, le parti hanno l’onere di riassumere la causa davanti al
giudice del rinvio. La riassunzione dovrà avvenire mediante atto di citazione, notificato personalmente a
tutte le parti del precedente giudizio, entro 3 mesi. Nel caso in cui il termine non venga rispettato, il
processo si estingue, ma la sentenza della Cassazione conserva efficacia vincolante anche laddove la
domanda venga eventualmente riproposta in un nuovo processo.

Il giudice del rinvio si deve limitare alla sostituzione, nella sentenza cassata, delle parti affette da vizi o
errori. Affinchè ciò avvenga, è necessario che il giudice vada ad applicare il principio di diritto formulato
dalla Corte.

In sede di rinvio, si applicano le norme stabilite per il procedimento dinanzi al giudice al quale la Corte ha
rinviato.

Non è possibile richiedere nuove prove e proporre domande nuove (fatta eccezione per le domande di
restituzione o di riduzione).

Il giudice di rinvio non può esaminare questioni pregiudiziali di rito che la Corte avrebbe potuto rilevare
anche d’ufficio. Se la questione non è stata sollevata, si dovrà intendere che la Corte l’abbia ritenuta
implicitamente infondata.

In giurisprudenza e dottrina si distingue tra:

- Giudizio di rinvio prosecutorio: quando la Cassazione ha annullato la sentenza per: violazione o


falsa applicazione delle norme di diritto o per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e
che è stato oggetto di discussione tra le parti;
- Giudizio di rinvio restitutorio: quando la sentenza è stata annullata perché nulla o per nullità del
procedimento. Esso fa si che si possa ripetere la fase di merito che è risultata priva di alcuni requisiti
necessari per un corretto svolgimento del processo;

La sentenza pronunciata dal giudice di rinvio è soggetta alle impugnazioni normalmente esperibili contro le
sentenze emesse in quel grado di giudizio. (Ad esempio, se il giudice di rinvio è un giudice d’appello, la sua
sentenza potrà formare oggetto di ricorso per cassazione).

CAPITOLO 13

LA REVOCAZIONE

FUNZIONE E STRUTTURA DELLA REVOCAZIONE

La revocazione è un mezzo di impugnazione a critica vincolata, disciplinata dagli artt. 395 ss. C.p.c.

Essa si caratterizza per essere composta da due fasi:

- Fase rescindente: volta ad accertare il vizio lamentato;


- Fase rescissoria: che si svolge sempre dinanzi al giudice della fase rescindente, volta a creare una
nuova decisione da sostituire a quella revocata;

Essa trova il suo fondamento nella scoperta di nuove circostanze che, se conosciute in precedenza,
avrebbero comportato una decisione diversa.

A tal proposito, possiamo distinguere tra:

- Revocazione ordinaria: Essa può essere proposta entro 30 giorni dalla notifica della sentenza. In
mancanza di notifica, varrà il termine lungo di 6 mesi che decorre dal deposito della sentenza;
- Revocazione straordinaria: quella che viene proposta dopo il passaggio in giudicato della sentenza.
Essa può essere proposta entro 30 giorni che decorrono dal momento della scoperta del vizio;

Rispetto ai tre gradi di giudizio previsti dal legislatore, la revocazione è uno strumento ulteriore.
Si possono impugnare con la revocazione:

- Le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado;


- Le sentenze di 1° grado passate in giudicato ed anche i provvedimenti che pur non avendo la forma
della sentenza hanno contenuto decisorio (ad esempio, il decreto ingiuntivo non opposto);
- Le sentenze della Cassazione per errore di fatto e le sentenze della Cassazione che decidono nel
merito (questo perché la Cassazione rigetta il ricorso e, dunque, la revocazione si proporrà contro la
sentenza di appello);

Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in un unico grado possono essere impugnate se:

- Motivo 1: se sono l’effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra;
- Motivo 2: se la sentenza si sia basata su prove false, come ad esempio quando vi sia stata una falsa
consulenza tecnica (fa eccezione il caso di falso giuramento, in cui infatti sarà possibile chiedere
solo il risarcimento del danno). Inoltre, la sentenza che accerta la falsità della prova deve essere già
passata in giudicato prima dell’esperimento della revocazione;
- Motivo 3: se viene scoperto un documento decisivo per la causa che la parte non aveva potuto
produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per causa dell’avversario;
- Motivo 4: se la sentenza sia frutto di un errore di fatto risultante dagli atti e documenti della causa.
E’ necessario che si tratti di un errore nella percezione (una falsa rappresentazione della realtà da
parte del giudice);
- Motivo 5: se la sentenza impugnata contrasta con la precedente sentenza passata in giudicato tra
le parti;
- Motivo 6: se vi sia dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato. Si tratta dei casi in
cui il giudice abbia tenuto volutamente un comportamento a favore di una parte, violando in tal
modo il suo dovere di imparzialità.

IL PROCEDIMENTO DI REVOCAZIONE

La revocazione si propone allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Si tratta di una
competenza funzionale e inderogabile.

La domanda di revocazione si propone con atto di citazione, sottoscritto da un difensore munito di procura
speciale e deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione del motivo. Inoltre, quando si tratta di
revocazione straordinaria, occorre indicare anche le prove relative ai fatti dedotti e alla loro scoperta.

L’impugnate deve costituirsi, a pena di improcedibilità, entro 20 giorni dalla notificazione dell’atto di
revocazione. Gli intimati si devono costituire nello stesso termine con deposito in cancelleria della
comparsa di risposta.

E’ prevista la possibilità che il giudice, su istanza della parte che ha proposto la revocazione, possa
sospendere l’esecuzione della sentenza impugnata.

Se la revocazione viene accolta, la stessa sentenza contiene, di regola, anche la nuova pronuncia sul merito
della causa (che si sostituirà a quella revocata).

Tuttavia, se dopo aver accolto la revocazione, il giudice ritiene necessario assumere nuovi mezzi prova, egli
pronuncerà la revocazione con sentenza non definitiva, disponendo con ordinanza la prosecuzione del
giudizio per l’ulteriore fase istruttoria.

La sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione è soggetta agli stessi mezzi di impugnazione che si
sarebbero potuti proporre contro la sentenza revocata: dunque, appello o ricorso per cassazione a seconda
che si tratti di una decisione di 1° o 2° grado. Inoltre, la sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione
non è a sua volta impugnabile per revocazione.

Revocazione e ricorso per cassazione possono coesistere: la stessa sentenza può essere
contemporaneamente soggetta tanto a revocazione e a ricorso per cassazione. Pertanto, si può verificare la
contemporanea pendenza dei due mezzi di impugnazione.

Si sancisce che la domanda di revocazione non sospende il termine per proporre il ricorso per cassazione.

Contro le sentenze di 2° grado è possibile proporre la revocazione, in quanto essa è fondata su motivi
diversi rispetto a quelli che legittimano il ricorso per cassazione. Il giudizio di revocazione è “pregiudiziale” a
quello di cassazione in quanto, nell’iter logico della decisione, i vizi che si fanno valere con la revocazione si
collocano in un momento anteriore rispetto a quelli che si fanno valere con la cassazione.

La subordinazione del ricorso per cassazione rispetto alla revocazione è giustificata dal fatto che bisogna
dare priorità all’impugnazione di merito (volta a far valere i vizi di giustizia della sentenza), rispetto a quella
di pura legittimità (volta a verificare la falsa applicazione delle norme di legge).

LA REVOCAZIONE DELLE DECISIONI DELLA CASSAZIONE

La revocazione per errore di fatto di una sentenza della Corte va proposta entro 60 giorni dalla
notificazione o entro 6 mesi dalla sua pubblicazione. L’atto sarà un ricorso, il quale deve indicare i motivi
della revocazione, e deve essere depositato, a pena di improcedibilità, entro 20 giorni dalla notificazione e
deve essere sottoscritto da un avvocato iscritto nell’apposito albo e munito di procura speciale.

La Corte, nel decidere sull’istanza di revocazione, deve adottare il procedimento in Camera di Consiglio.
Bisogna distinguere:

- Nel caso in cui venga dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione: la decisione assumerà la
forma dell’ordinanza;
- Nel caso in cui il ricorso debba essere dichiarato fondato o infondato: la Corte dovrà rinviare alla
pubblica udienza e, quindi, al termine di questa dovrà necessariamente emanare un provvedimento
che abbia la forma della sentenza;

La revocazione delle pronunce di cassazione è un mezzo di impugnazione straordinario.

Inoltre, ad oggi si prevede la possibilità di proporre la revocazione straordinaria anche contro le decisioni di
merito della Corte di Cassazione (per i motivi n. 1,2,3,6). Quando pronuncia la revocazione, la Corte decide
la causa nel merito, qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto. Altrimenti, pronunciata la
revocazione, rinvia la causa al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata.

CAPITOLO 14

LE OPPOSIZIONI DI TERZO ALLE SENTENZE

L’OPPOSIZIONE DEL TERZO: NATURA E FUNZIONI

L’opposizione del terzo è un mezzo di impugnazione straordinario, in quanto esso può essere proposto
anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza alla quale ci si oppone. Esso è esperibile dai terzi, cioè
coloro che non hanno mai assunto la qualità di “parte formale” nel processo (nonché coloro che da esso
siano stati estromessi con decisione divenuta definitiva).

Bisogna distinguere tra:

- Opposizione di terzo ordinaria: consente al terzo di proporre opposizione contro una sentenza
passata in giudicato (o comunque esecutiva), pronunciata tra altri soggetti, quando questa
pregiudica i suoi diritti.
E’ necessario che il terzo sia titolare di un diritto incompatibile e prevalente rispetto a quello
conteso tra le parti, e che intenda evitare un pregiudizio che può derivargli dall’attuazione della
sentenza. Inoltre, tale rimedio può essere utilizzato anche dal litisconsorte necessario pretermesso
o dal falsamente rappresentato.
L’opposizione di terzo ordinaria può essere proposta senza limiti di tempo;
- Opposizione di terzo revocatoria: è riservata solo a due categorie di terzi: gli aventi causa (coloro
che succedono a titolo particolare nel diritto di una delle parti, e non anche gli eredi) e i creditori
delle parti. L’opposizione revocatoria deve essere proposta entro 30 giorni dalla scoperta del dolo o
dell’intesa tra le parti, e l’atto introduttivo deve indicare (oltre alla sentenza impugnata) anche il
giorno in cui il terzo è venuto a conoscenza del fatto, nonché i relativi mezzi di prova;
Per quanto riguarda gli aventi causa, bisogna distinguere vari scenari:
• Se l’acquisto dell’avente causa è avvenuto prima dell’inizio del processo: allora vuol dire
che il dante causa non era neanche legittimato a partecipare in quel processo e quindi il
giudicato non sarà vincolante per l’avente causa che ne doveva essere “giusta parte”;
• Se l’acquisto è avvenuto in corso del processo: l’avente causa potrà o meno divenire parte
in senso formale. Se egli non interviene, la sentenza influirà su un diritto ormai “suo” e, di
conseguenza, potrà esperire contro di essa le impugnazioni della parte (appello e ricorso
per cassazione);
• Se l’acquisto è avvenuto successivamente al processo (che si è concluso con una pronuncia
sfavorevole per il dante causa), l’avente causa potrebbe proporre l’opposizione revocatoria.
Tuttavia, il fatto che l’acquisto sia successivo al giudicato, rende difficile immaginare che ci
siano i presupposti dell’opposizione revocatoria.

IL PROCEDIMENTO DI OPPOSIZIONE

Il procedimento di opposizione di terzo si svolge innanzi al medesimo giudice che ha pronunciato la


sentenza impugnata.

L’opposizione si propone con atto di citazione (tuttavia, avanti al giudice del lavoro e alla Corte di
Cassazione, l’opposizione sarà introdotta con ricorso). L’atto introduttivo deve contenere l’indicazione della
sentenza impugnata e, nel solo caso di opposizione revocatoria, anche l’indicazione del giorno in cui l’attore
è venuto a conoscenza del dolo o della collusione, con relativa prova.

Sono impugnabili: le sentenze di merito passate in giudicato e le sentenze di condanna esecutive. Inoltre, la
Corte Costituzionale, ha chiarito che per “sentenza” deve intendersi quella in “senso sostanziale”, cioè ogni
provvedimento che statuisca un diritto (così ad esempio, anche il decreto ingiuntivo esecutivo).

Il giudice dell’opposizione, su istanza di parte, e se sussiste il rischio di ricevere un pregiudizio grave e


irreparabile dalla esecuzione della sentenza, può disporre l’inibitoria della pronuncia, con ordinanza non
impugnabile.

Al termine del procedimento, il giudice può:


- Accogliere l’opposizione: dichiarando, quindi, la sentenza impugnata illegittima nei confronti del
terzo;
- Rigettare l’opposizione (oppure dichiarare la domanda inammissibile o improcedibile): e in tal caso
condanna l’opponente al pagamento di una pena pecuniaria (il cui valore tuttavia è esiguo, 2 euro);

La sentenza che decide sull’opposizione è impugnabile con i mezzi di gravame previsti contro le sentenze
del grado in cui è stata emessa.

Problemi complessi derivano dal concorso fra l’opposizione e un altro mezzo di impugnazione, ad esempio,
l’appello. In questo caso bisogna distinguere:

- Se l’appello è stato proposto per primo: il terzo dovrà intervenirvi e non potrà proporre
un’autonoma opposizione al giudice di 1° grado;
- Se l’opposizione è stata proposta per prima: i due procedimenti non possono svolgersi in parallelo
e, dunque, l’opposizione andrà declinata, affinchè sia riassunta e riunita presso il giudice
dell’appello;

Nel caso di concorso tra opposizione e ricorso per cassazione, invece, si darà precedenza all’opposizione,
con conseguente sospensione del giudizio di cassazione.

L’OPPOSIZIONE DEL TERZO CONTRO LE SENTENZE DELLA CORTE DI CASSAZIONE

L’opposizione del terzo è proponibile anche contro le decisioni della Corte di Cassazione.

In questo caso, l’opposizione si propone con ricorso alla stessa Corte, il quale deve essere sottoscritto, a
pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto nell’apposito albo, e dovrà contenere l’indicazione:

- Delle parti;
- Della sentenza impugnata;
- Della procura;
- L’esposizione sommaria dei fatti della causa;
- L’indicazione del diritto leso del terzo e le relative prove;
- In caso di opposizione revocatoria, anche l’indicazione del giorno in cui è venuto a conoscenza del
dolo o della collusione;

La Cassazione potrà decidere la causa nel merito (ove non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto). In
caso contrario, dovrà limitarsi a dichiarare l’inammissibilità dell’opposizione del terzo, rinviando la causa per
la decisione di merito al giudice che aveva emesso la sentenza.

IL REGOLAMENTO DI COMPETENZA

Il regolamento di competenza è un mezzo di impugnazione con il quale si risolve un conflitto relativo alla
competenza tra due o più giudici. I conflitti possono essere positivi (se entrambi i giudici si ritengono
competenti) oppure negativi.

Il regolamento va richiesto con ricorso alla Corte di Cassazione, da notificare entro 30 giorni.

Con tale rimedio la questione sulla competenza giunge immediatamente innanzi alla Corte di Cassazione
per ottenere una pronuncia definitiva e in tempi brevi.
Quando viene richiesto il regolamento di competenza, il processo viene sospeso. Le parti sono, poi, tenute a
riassumere il processo davanti al giudice dichiarato competente entro 3 mesi, a pena di estinzione del
processo.

La Corte decide con ordinanza pronunciata in Camera di Consiglio, indicando il giudice competente. La
pronuncia della Corte è vincolante per tutti i giudici. Inoltre, il giudice indicato come competente non potrà
sottrarsi a tale decisione.

Si distingue:

- Se la Corte afferma la competenza del giudice adito: il processo va avanti e gli atti compiuti da quel
giudice sono da considerarsi validi;
- Se la Corte dichiara l’incompetenza del giudice adito: il processo deve essere ricominciato dinanzi al
giudice indicato come competente;

Bisogna distinguere tra:

- Regolamento di competenza necessario: quando è l’unico mezzo per impugnare la controversia.


Esso si propone quando l’ordinanza ha deciso unicamente sulla questione di competenza, senza
pronunciarsi sul merito della causa;
- Regolamento di competenza facoltativo: qualora possano essere utilizzati anche altri mezzi di
impugnazione. Esso si propone quando la sentenza ha deciso sul merito e sulla competenza.
Inoltre, la proposizione dell’impugnazione ordinaria non toglie alle altre parti la facoltà di proporre
il regolamento. Se il regolamento è proposto prima dell’impugnazione ordinaria, i termini per
proporre quest’ultima riprendono a decorrere dalla comunicazione dell’ordinanza che ha deciso
sulla competenza;
- Regolamento di competenza d’ufficio: se in seguito all’ordinanza che dichiara l’incompetenza del
giudice adito, la causa viene riassunta dinanzi ad altro giudice e questi, a sua volta, ritiene di essere
incompetente, richiede d’ufficio il regolamento di competenza.

REGOLAMENTO DI GIURISDIZIONE

Il difetto di giurisdizione sussiste quando l’organo giudicante non ha il potere di decidere, in quanto la
giurisdizione è devoluta dalla legge ad altri giudici, appartenenti non semplicemente ad altri uffici (sarebbe
difetto di competenza), ma ad altri ordini (cioè, di diversa natura, ad esempio il giudice amministrativo), o
ad altri poteri pubblici.

Il difetto di giurisdizione può essere fatto valere da ciascuna delle parti, mediante la proposizione del
regolamento di giurisdizione.

L’istanza si propone con ricorso, dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, prima che il giudice
adito statuisca nel merito in primo grado. Se il giudice ritiene che il ricorso sia infondato o inammissibile,
sospende il giudizio in corsoIl provvedimento che la Corte di Cassazione emette a seguito di tale istanza è
incontestabile e vincola il giudice dinanzi al quale il procedimento dovrà proseguire.

Il regolamento di giurisdizione non può essere qualificato come mezzo di impugnazione, in quanto si tratta
di uno strumento con il quale il legislatore ha voluto consentire alle parti di ottenere, già nel corso del
giudizio di primo grado, una pronuncia definitiva sulla giurisdizione. Inoltre, si tratta di uno strumento
processuale di cui non ci si può avvalere nei processi esecutivi, ove eventuali questioni attinenti alla
giurisdizione possono solo formare oggetto di opposizione all’esecuzione.
Lo scopo di tale strumento è quello di evitare che il processo si svolga inutilmente dinanzi ad un giudice
privo di giurisdizione. Si tratta di un rimedio preventivo.

CAPITOLO 15

LE AZIONI SOMMARIE NON CAUTELARI: IL DECRETO INGIUNTIVO, LA CONVALIDA DI SFRATTO ED ALTRE


FIGURE

PROFILI GENERALI E INTRODUTTIVI

I procedimenti sommari sono dei normali processi a cognizione piena, dove l’aggettivo “sommario” si
riferisce alla semplificazione della fase istruttoria. Tra questi ricordiamo: il procedimento per decreto
ingiuntivo ed il procedimento per convalida di sfratto o licenza.

Essi sono facoltativi, infatti spetta al titolare del diritto decidere se procedere per le vie ordinarie o
semplificate. Lo scopo è quello di far ottenere al titolare del diritto un titolo esecutivo, in tempi brevi e con
costi ridotti, al fine di poter iniziare un processo esecutivo per soddisfare la sua pretesa. Dunque, sarà
l’obbligato a dover iniziare un processo a cognizione ordinaria, volto ad accertare che il provvedimento
sommario fosse errato.

Il procedimento per decreto ingiuntivo è un procedimento sommario, utilizzato dal creditore al fine di
ottenere rapidamente un titolo esecutivo che gli consenta di recuperare il proprio credito vantato nei
confronti del debitore.

Il giudice competente, su istanza del creditore, ingiunge al debitore di adempiere alla sua obbligazione
entro 40 giorni dalla notifica, avvertendolo che potrà proporre opposizione o che in mancanza si procederà
ad esecuzione forzata. Il procedimento si svolge inaudita altera parte (cioè senza l’instaurazione del
contraddittorio tra le parti). Il credito vantato deve essere:

- Liquido: cioè di ammontare già determinato o facilmente determinabile;


- Fungibile;
- Fondato su prova scritta: fatta eccezione per i casi di c.d. monitorio puro (cioè non basato su
particolari documenti);

La domanda monitoria va proposta con ricorso, da depositare presso la cancelleria del giudice che sarebbe
stato competente qualora la domanda fosse stata proposta secondo le forme del rito ordinario.

In primis, il giudice dovrà verificare d’ufficio la propria competenza e la sussistenza delle condizioni di
ammissibilità e dei presupposti processuali necessari. A tal proposito, se il ricorso risulta ammissibile, il
giudice pronuncerà il decreto ingiuntivo, con cui ingiunge al debitore ad adempiere alla prestazione dovuta
(cioè, il pagamento del credito, la consegna della cosa mobile o della quantità di cose fungibili). Inoltre, il
debitore viene anche condannato al pagamento delle spese sostenute dal creditore durante il
procedimento.

Il debitore dovrà adempiere alla prestazione entro 40 giorni (50 se residente in un altro Stato membro, 60
se residente in uno Stato extra europeo). In caso contrario, potrà proporre opposizione al decreto
ingiuntivo. Essa si propone, dinnanzi allo stesso giudice che ha pronunciato il decreto, con atto di citazione.
Il procedimento si svolge secondo le norme del procedimento ordinario davanti al giudice adito.
Caratteristica particolare è che:
- L’opponente assume la posizione di “attore”, ma in sostanza è un convenuto. Egli, infatti, deve
provare l’inesistenza del credito;
- E l’opposto, invece, riveste il ruolo di “attore in senso sostanziale”. Egli, infatti, deve provare
l’esistenza del suo diritto di credito che viene contestato con l’opposizione;

La sentenza che decide sull’opposizione sarà impugnabile con appello o ricorso per cassazione. Si tratta,
infatti, di un provvedimento che definisce un giudizio ordinario di 1° grado.

Il debitore che non abbia avuto conoscenza del decreto ingiuntivo, o che ne abbia avuto ma non abbia
potuto proporre opposizione per caso fortuito o forza maggiore, può proporre una c.d. opposizione tardiva.
Essa deve essere proposta, a pena di inammissibilità, entro 10 giorni dal primo atto di esecuzione.

A seguito dell’informatizzazione degli ultimi anni, tutte le attività che prima potevano essere svolte
dall’avvocato presso la cancelleria del giudice, possono ora essere effettuate con modalità telematiche. Ciò
vale anche per il decreto ingiuntivo, il quale dovrà essere formato su file word, successivamente esportato
in pdf e dovrà essere apposta la firma digitale. Successivamente sarà inoltrato, insieme a tutti gli altri
documenti, presso l’indirizzo pec dell’ufficio giudiziario.

Il procedimento europeo di ingiunzione di pagamento presenta delle differenze rispetto al procedimento


ingiuntivo di diritto interno. Esso è stato adottato da tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, fatta
eccezione per la Danimarca che non vi ha aderito. Tale procedimento può essere attivato per qualsiasi
credito civile e commerciale (eccezion fatta per quelli successori), purchè almeno una delle parti abbia
residenza in uno Stato membro diverso rispetto a quello in cui ha sede il giudice competente.

La domanda si presenta compilando un modulo standard. Essa deve indicare: le parti, l’oggetto, il credito, i
motivi ed il carattere transfrontaliero della controversia. Nel caso in cui essa venisse accolta, verrà emanata
l’ingiunzione di pagamento europea, la quale contiene l’avvertimento al debitore della possibilità di
presentare opposizione entro 30 giorni e che in mancanza diventerà esecutiva in tutti gli Stati membri.

L’opposizione determina il passaggio al procedimento ordinario, il quale si svolgerà secondo la legge dello
Stato membro dove l’ingiunzione è stata pronunciata. Il creditore può sottrarsi facendone apposita opzione.

IL PROCEDIMENTO PER CONVALIDA DI SFRATTO

Il procedimento per convalida di sfratto è un procedimento sommario con cui il locatore può ottenere, in
tempi brevi, un titolo esecutivo per conseguire il rilascio dell’immobile. Esso può essere utilizzato in varie
ipotesi:

- Licenza per finta locazione: che consente di ottenere un provvedimento, mentre il rapporto di
locazione è ancora esistente, per il momento in cui verrà a scadere;
- Convalida di sfratto per finta locazione: quando il contratto di locazione sia già scaduto, ma il
conduttore non ha ancora lasciato l’immobile;
- Convalida di sfratto per morosità: quando non è stato pagato il canone di affitto nei termini
previsti;

La domanda si propone con atto di citazione, la quale deve contenere l’avvertimento che se il conduttore
non compare all’udienza, il giudice convaliderà la licenza o lo sfratto. Tra il giorno della notificazione e
quello dell’udienza devono intercorrere non meno di 20 giorni.
A tal proposito, se il conduttore:

- Non compare all’udienza: il giudice, se la sua assenza è dovuta ad una irregolarità della citazione,
dispone la rinnovazione. In caso contrario, convalida la licenza o lo sfratto, con ordinanza (non si
tratterà di un decreto come nel procedimento ingiuntivo, in quanto qui la pronuncia del
provvedimento è stata preceduta dalla possibilità di instaurare il contraddittorio);
- Compare e non si oppone: sarà pronunciata ordinanza di convalida;
- Compare e si oppone: il giudizio procederà secondo le forme del rito del lavoro;
- Compare e si oppone, ma le prove non sono fondate su documento scritto e dunque non sono
immediatamente plausibili: l’ordinanza di convalida non potrà comunque essere pronunciata in
quanto vi è stata una contestazione ma, per anticipare la tutela del locatore, è possibile emanare
una “ordinanza esecutiva di condanna al rilascio” (ed il processo continuerà nelle forme ordinarie);
- Compare e non nega la sua morosità: ma solo l’ammontare del dovuto così come individuato
dall’attore, il giudice può pronunciare ordinanza con cui dispone il pagamento delle somme non
contestate, entro 20 giorni. Se il convenuto non adempie, il giudice convaliderà lo sfratto e su
richiesta pronuncia decreto ingiuntivo.

ALTRE FIGURE

Nell’ambito dei procedimenti sommari, va ricordata anche la c.d. condanna con riserva di eccezioni, in virtù
della quale il giudice, conosciuti solo i fatti costituitivi del diritto, emana un provvedimento di condanna,
rinviando ad una fase successiva del processo l’acquisizione delle eccezioni del convenuto. Dunque, il
giudizio si divide in due fasi:

- La prima: volta ad accertare i fatti costitutivi del diritto. Essa si chiude con una sentenza di
condanna (incompleta) che anticipa la tutela dell’attore;
- La seconda: volta ad accertare le eccezioni del convenuto (senza che il giudice possa negare
l’esistenza dei fatti costituivi già precedentemente accertati).

Le ordinanze di condanna sono dei provvedimenti anticipatorii non cautelari, subito esecutive e che
anticipano gli effetti della sentenza. Esse possono essere richieste al giudice istruttore nel corso del
procedimento ordinario. Distinguiamo:

- Ordinanza per il pagamento delle somme non contestate: con cui il giudice, su istanza di parte, può
disporre il pagamento delle somme non contestate dalle parti costituire. Essa costituisce titolo
esecutivo, tuttavia, non contenendo nessun accertamento giudiziale idoneo al giudicato, è sempre
revocabile e modificabile con la sentenza di merito che definisce il giudizio;
- Ordinanza-ingiunzione: con cui il giudice, su istanza di parte, può in ogni stato del processo di primo
grado e fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, ingiungere al pagamento di una somma di
denaro o alla consegna di una determinata quantità di cose fungibili;
- Ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione: con cui il giudice, conclusa la fase istruttoria, può
ordinare il pagamento oppure il rilascio o consegna dei beni, nei limiti per cui ritiene già raggiunta
la prova. Essa è revocabile con la successiva sentenza che definisce il giudizio.

CAPITOLO 16 E 17

LA TUTELA CAUTELARE
La tutela cautelare serve ad evitare che il tempo necessario per la definizione del giudizio di merito possa
pregiudicare la pretesa della parte ricorrente. Essa è:

- Strumentale: in quanto è sempre collegata al processo a cognizione piena (infatti serve a tutelare il
diritto che ne è oggetto);
- Provvisoria: in quanto sarà sostituita da un provvedimento definitivo;
- Immediatamente efficace;
- Ipotetica: in quanto essa viene offerta in base ad un diritto non ancora accertato;

Affinchè il giudice possa concedere la tutela cautelare, è necessario che ricorrano due presupposti:

- Fumus boni iuris: la probabile esistenza del diritto fatto valere;


- Periculum in mora: il pregiudizio grave ed irreparabile che il diritto può subire;

Bisogna distinguere tra:

- Provvedimenti cautelari conservativi: che mirano a conservare la situazione esistente al momento


della proposizione della domanda;
- Provvedimenti cautelari anticipatori: che anticipano gli effetti della sentenza definitiva;

Tra le misure cautelari tipiche ricordiamo:

- Istruzione preventiva: la quale consente di assumere una prova pur in assenza di un procedimento
pendente. Essa, a differenza delle altre misure cautelari, ha come presupposto solo il priculum in
mora, il quale consiste nell’eventualità che venga a mancare la possibilità di udire testimoni (ad
esempio, perché in pericolo di vita), di verificare lo stato di un luogo o la condizione di una cosa, o
che venga a mancare la possibilità di effettuare una ispezione giudiziale sulle persone. La richiesta
va presentata con ricorso al giudice che sarebbe stato competente per la causa di merito. Tuttavia,
in casi di urgenza, può essere richiesta anche al giudice del luogo in cui la prova deve essere
assunta. Il giudice decide con ordinanza non impugnabile;
- Consulenza tecnica ai fini della composizione della lite: essa può essere promossa nelle
controversie relative al pagamento delle somme di denaro, derivante da illeciti contrattuali o
extracontrattuali. La richiesta si propone con ricorso al giudice che sarebbe stato competente per il
merito. Lo scopo del consulente è quello di tentare la conciliazione tra le parti. Qualora poi il
tentativo di conciliazione dovesse avere esito positivo, il verbale può acquisire efficacia di titolo
esecutivo;

Inoltre, tra le misure cautelari ricordiamo i c.d. sequestri.

Il sequestro giudiziario è una misura cautelare con cui il giudice può sottrarre un certo bene contesto tra le
parti, alla libera disponibilità di una di esse. Tale bene viene affidato ad un custode, al fine di garantire che il
vincitore della lite potrà ottenere la consegna di quel bene, integro e senza difficoltà di ricerca. Possono
essere sequestrati:

- Beni mobili e immobili;


- Prove: ad esempio, documenti, libri, registri o qualunque altro oggetto che possa servire come
mezzo di prova;

E’ necessario che sussistano i requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora.

Dopo aver nominato il custode, il giudice fissa i limiti ed i criteri con i quali gestire le cose sequestrate.
Generalmente il soggetto incaricato della custodia è un terzo, tuttavia, in alcuni casi si prevede la possibilità
di nominare come custode anche una delle parti (quella che offra maggiori garanzie e presta cauzione).
Il bene non viene considerato in relazione al suo valore di marcato, ma nella sua individualità (non sarebbe
infatti possibile sostituire l’oggetto del sequestro). Il vincitore avrà diritto ad avere quel bene e non il
corrispondente valore.

Discussa è poi la possibilità di sequestrare quote di società di persone. Esse, infatti non rientrerebbero nella
categoria dei beni previsti, in quanto il rapporto socio-società non può essere inquadrato in termini di
proprietà o possesso. Inoltre, le società personali sono caratterizzate dal c.d. intuitus personae, in virtù del
quale non tollerano l’ingerenza di un soggetto estraneo quale il custode. Tuttavia, i diversi diritti che
concorrono a configurare lo status di “socio”, possono considerarsi delle entità patrimoniali ben definite e,
dunque, suscettibili di essere sottoposte a sequestro giudiziario.

Il sequestro conservativo è una misura cautelare con cui il giudice, su istanza del creditore che abbia
fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può autorizzare il sequestro di determinati beni
mobili o immobili del debitore, o delle somme dovute. Tali beni vanno intesi genericamente, cioè
considerando il loro valore di scambio in sede di una eventuale vendita forzata.

E’ necessaria la presenza del fumus boni iuris e del periculum in mora.

I beni da sottoporre a sequestro devono essere individuati dal creditore, mentre il giudice si limiterà solo a
stabilire il limite massimo di valore entro il quale il sequestro può essere disposto.

Il sequestro conservativo rappresenta una anticipazione del “pignoramento” ed in quanto tale, verrà
eseguito con le stesse forme di quest’ultimo. Dunque, si distingue tra:

- Beni mobili: possono essere pignorati solo i beni del debitore (e non anche quelli dei terzi). Una
volta sequestrati, i beni vengono affidati al custode;
- Beni immobili: il sequestro si esegue con la trascrizione del provvedimento nei registri immobiliari
in cui i beni sono situati;

Il debitore può disporre del bene come meglio crede. Egli, infatti, rimane proprietario degli stessi e potrà
pertanto compiere atti di alienazione o disposizione perfettamente validi ed efficaci. Tuttavia, il creditore
sequestrante conserverà la facoltà di sottoporli ad esecuzione forzata.

Il giudice può disporre in ogni momento, con ordinanza impugnabile, la revoca del sequestro, se si
verificano dei mutamenti nelle circostanze.

Nel caso in cui venisse emanata una sentenza di condanna esecutiva, il sequestro si converte
automaticamente in pignoramento. Di conseguenza, il sequestrante (ormai esecutante, in quanto il
processo esecutivo è da considerarsi già pendente) dovrà dare impulso al processo, a pena di sua estinzione
per inattività.

Il sequestro liberatorio è un provvedimento cautelare con cui il giudice può ordinare il sequestro delle
somme di denaro o delle cose che il debitore aveva messo a disposizione del creditore, nel caso in cui sorga
una controversia circa l’esistenza dell’obbligo, del modo di pagamento o della consegna della cosa offerta.
A tal proposito, le somme o il bene oggetto della prestazione, saranno affidate ad un custode.

Esso consente al debitore di evitare gli effetti della mora, in tutti quei casi in cui il giudice è chiamato ad
accertare se il debitore stia adempiendo correttamente o meno. Infatti, nel tempo necessario per ottenere
la decisione di merito, il debitore risulterebbe inadempiente e di conseguenza si determinerebbero in capo
ad egli tutti gli effetti della mora. Proprio per questo motivo l’ordinamento offre la possibilità di chiedere il
sequestro liberatorio.
MISURE CAUTELARI D’URGENZA

I provvedimenti cautelari sono solitamente tipici, tuttavia, in alcuni casi è possibile chiedere anche dei
provvedimenti cautelari atipici: i c.d. provvedimenti cautelari d’urgenza.

L’art. 700 c.p.c. sancisce che “chi ha fondato motivo di temere che il tempo necessario per la definizione del
giudizio di merito, possa provocargli un pregiudizio grave e irreparabile, può chiedere con ricorso i
provvedimenti d’urgenza più idonei ad assicurare gli effetti della decisione di merito”. Affinchè possa essere
concesso un provvedimento d’urgenza è necessario che ricorrano due presupposti:

- Fumus boni iuris: la probabile esistenza del diritto che si vuole tutelare;
- Periculum in mora: il pregiudizio grave e irreparabile;

In assenza di tali presupposti il giudice rigetta il ricorso e condanna la parte al pagamento delle spese
processuali. Tuttavia, il ricorrente potrà ricominciare la causa, ma questa volta attivando il procedimento
ordinario.

La funzione della tutela d’urgenza è quella di anticipare, in tutto o in parte, gli effetti della sentenza di
merito. Essa ha carattere “residuale”, in quanto può essere richiesta solo quando non sia possibile chiedere
altre misure cautelari tipiche o quando la misura cautelare tipica non risulti adeguata a garantire la
soddisfazione del diritto.

In linea generale sono tutelabili: diritti a contenuto non patrimoniale, i diritti di proprietà e gli altri diritti
reali, e i diritti di credito.

La domanda va proposta con ricorso ed il procedimento si deve svolgere nel contraddittorio tra le parti,
tuttavia, il giudice può adottare una misura cautelare atipica con “decreto emesso inaudita altera parte”,
quando abbia fondato motivo di ritenere che la convocazione della controparte possa pregiudicare
l’attuazione del provvedimento cautelare.

Il procedimento si conclude con ordinanza non impugnabile, ma revocabile o modificabile.

CAPITOLO 18

IL PROCEDIMENTO CAUTELARE UNIFORME

In passato, quasi tutti i sequestri venivano disposti senza la necessità di instaurare il contraddittorio. Veniva
solo avviato un apposito giudizio a cognizione ordinaria (parallelamente alla causa di merito), dove veniva
accertata la legittimità del sequestro. Tale giudizio era il c.d. giudizio di convalida del sequestro, il quale
durava spesso molti anni ed era destinato a concludersi con una sentenza. Il sequestro era inefficace solo se
non si instaurava tale giudizio nel termine previsto.

Dunque, è stato introdotto un procedimento cautelare uniforme per tutte le cautele, il quale ha ripristinato
il rispetto del principio del contraddittorio.

Ai sensi dell’art. 669bis c.p.c., la domanda cautelare si propone con ricorso, il quale deve essere depositato
presso la cancelleria del giudice competente. Esso deve indicare: le parti, il tipo di provvedimento richiesto,
i fatti costituitivi del diritto, i presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora, e le conclusioni. Nel
caso in cui si tratti di un ricorso ante causam, è necessario indicare anche il diritto controverso di cui si
chiede la tutela.
Ai sensi dell’art. 669ter c.p.c., se la domanda cautelare viene proposta prima dell’inizio della causa di
merito, essa va proposta al giudice competente per il giudizio di merito. Tuttavia, esistono alcune eccezioni:

- Se la cognizione della causa spetta al giudice di pace, è competente il Tribunale;


- La denuncia di nuova opera e di danno temuto va inoltrata nel luogo dove è posto l’immobile;
- Nel caso in cui il giudice italiano non sia competente a conoscere la causa di merito, la domanda
dovrà essere proposta al giudice del luogo in cui il provvedimento deve essere eseguito;

L’art. 669quater c.p.c., disciplina le ipotesi in cui la domanda cautelare viene proposta in pendenza della lite
(cioè, dopo che sia stato notificato l’atto di citazione). A tal proposito, si precisa che:

- Quando la causa pende dinanzi al Tribunale, la domanda cautelare va rivolta al giudice istruttore;
- Se la causa pende dinanzi al Giudice di pace, la domanda si propone al Tribunale;
- In pendenza dei termini per proporre impugnazione, la domanda si propone al giudice che ha
pronunciato la sentenza;

Ai sensi dell’art. 669septies c.p.c., il rigetto della domanda cautelare può essere disposto in caso di:

- Incompetenza: con ordinanza, la quale non impedisce al ricorrente di proporre nuovamente il


ricorso davanti al giudice indicato come competente;
- Questioni di rito: come, ad esempio, il difetto di giurisdizione o di legittimazione ad agire;
- Questioni di merito: in caso di infondatezza della domanda cautelare, per insussistenza del fumus
boni iuris e del periculum in mora;

Se, invece, la domanda cautelare viene accolta, il giudice fissa (con la stessa ordinanza), un termine non
superiore a 60 giorni per l’inizio del giudizio di merito. Se il giudizio di merito non viene instaurato nel
termine previsto, il provvedimento cautelare perde efficacia.

Ai sensi dell’art. 669terdecies c.p.c., contro l’ordinanza (con la quale si accoglie o rigetta il provvedimento
cautelare) è possibile presentare reclamo, entro 15 giorni dalla sua pronuncia in udienza o dalla sua
notificazione. A tal proposito, si distingue:

- Se il provvedimento cautelare è stato emesso dal giudice singolo del Tribunale, il reclamo si
propone al Collegio (del quale non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento
reclamato);
- Se il provvedimento cautelare è stato emesso dalla Corte d’Appello, il reclamo si propone ad altra
Sezione della stessa Corte o, in mancanza, alla Corte d’Appello più vicina;

Il procedimento di reclamo si conclude con un’ordinanza non impugnabile, che deve essere emanata entro
20 giorni dal deposito del ricorso. Se poi il provvedimento, per motivi sopravvenuti, arreca grave danno, il
giudice del reclamo può (con ordinanza non impugnabile) disporre la sospensione dell’esecuzione
(prevedendo, eventualmente, anche una cauzione).

Per quanto riguarda l’attuazione della misura cautelare, si prevede che:

- Se si deve attuare una misura cautelare avente ad oggetto una somma di denaro: si procederà con
le forme dell’esecuzione forzata e il giudice competente sarà quello dell’esecuzione (e non l’organo
che ha emesso il provvedimento cautelare);
- Se si deve attuare una misura cautelare avente ad oggetto obblighi di consegna/rilascio/fare o non
fare: sarà competente il giudice che ha emanato il provvedimento cautelare, il quale potrà scegliere
le modalità di esecuzione della misura cautelare stessa.

I PROCEDIMENTI NUNCIATIVI E POSSESSORI


I procedimenti nunciativi e possessori seguono le regole del procedimento cautelare uniforme.

Le azioni possessorie possono essere esercitate dal titolare del diritto di proprietà o altro diritto reale (c.d.
ius possessionis), al fine di tutelare, non un diritto soggettivo, ma uno stato di fatto. Esse sono:

- Azione di reintegrazione: qualora il possessore sia stato privato del possesso in modo violento;
- Azione di manutenzione: esperibile dal possessore di beni mobili o immobili, laddove vi sia una
turbativa che gli abbia impedito il godimento del bene;

La tutela possessoria viene concessa anche al proprietario che può disporre materialmente della cosa.

Il procedimento si divide in due fasi:

- Fase interdittale: cautelare ed urgente, volta ad adottare i provvedimenti necessari per garantire il
godimento della cosa o la cessazione della turbativa;
- Fase di merito: eventuale e facoltativa, in quanto attivabile su istanza di parte;

La domanda si propone con ricorso, da depositare presso la cancelleria del giudice ove è avvenuto il fatto
denunciato. Conclusa la fase istruttoria, il procedimento entra in una fase di c.d. quiescenza. Infatti, il
giudice fissa l’udienza per la prosecuzione del giudizio sul merito, solo se una delle parti ne abbia fatto
richiesta entro 60 giorni dalla comunicazione del provvedimento che ha deciso il reclamo.

Il giudice decide con ordinanza, contro la quale è possibile presentare reclamo:

- Se il provvedimento è stato emesso dal giudice del Tribunale, il reclamo si propone al Collegio (del
quale non potrà prendere parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato);
- Se il provvedimento è stato emanato dalla Corte d’Appello, il reclamo si propone ad altra Sezione
della Corte d’Appello;

Le azioni di nunciazione sono dei mezzi utilizzabili dal possessore/proprietario o dal titolare di un qualsiasi
altro diritto di godimento, al fine di tutelare la res. Esse tendono alla conservazione di uno stato di fatto,
cercando di prevenire un danno che può derivare da una cosa altrui. Esse sono:

- Denuncia di nuova opera: con cui il soggetto denuncia un’opera intrapresa da altri e non terminata,
qualora abbia ragione di temere che da essa possa derivare un danno al suo diritto;
- Denuncia di danno temuto: con cui il soggetto si rivolge all’autorità giudiziaria al fine di ottenere
tutela, qualora teme che da un albero, da una costruzione o da altre cose già esistenti, possa
derivare un danno grave e prossimo alla sua cosa;

Tali azioni si propongono con ricorso, da depositare presso il Tribunale del luogo ove è avvenuto il fatto
denunciato. Se il giudice accoglie la domanda, la causa di merito può essere attivata solo su istanza di una
delle parti. Contro il provvedimento che accoglie o rigetta il provvedimento cautelare, è possibile proporre
reclamo.

CAPITOLO 19

LA RESPONSABILITA’ PATRIMONIALE DEL DEBITORE E IL PROCESSO DI ESECUZIONE FORZATA


La responsabilità patrimoniale del debitore è disciplinata dal Codice Civile, in virtù del quale: il debitore
risponde delle sue obbligazioni con tutti i suoi beni (presenti e futuri).

Il diritto del creditore sul patrimonio del debitore è un diritto potestativo espropriativo.

La norma si pone a tutela del creditore il quale, in virtù della c.d. garanzia generica può, in caso di
inadempimento, soddisfarsi agendo su tutti i beni del debitore. (La garanzia generica si distingue dai diritti
reali di garanzia, come ad esempio pegno e ipoteca, poiché questi hanno ad oggetto solo alcuni beni del
debitore).

Il creditore ha a disposizione i c.d. mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, al fine di evitare che
il debitore sottragga al proprio patrimonio i beni posti a garanzia dell’adempimento:

- Azione revocatoria: la quale fa rientrare nel patrimonio del debitore il bene che sia stato
dolosamente allontanato;
- Azione surrogatoria: mediante la quale il creditore, per assicurare che siano soddisfatte le sue
ragioni, può esercitare i diritti e le azioni che spettano verso terzi al proprio debitore (purchè si
tratti di diritti o azioni che abbiano contenuto patrimoniale);
- Sequestro conservativo: con cui il creditore può chiedere l’indisponibilità dei beni del debitore;

Tuttavia, vi sono delle eccezioni al principio della responsabilità patrimoniale:

- Vi sono dei debitori che non sono obbligati personalmente verso il creditore, ma soltanto in
relazione ad un determinato bene, da esso posseduto;
- Non si possono espropriare i beni pubblici demaniali o facenti parte del patrimonio indisponibile
dello Stato e delle Regioni, e quelli destinati allo svolgimento di funzioni pubbliche;
- Sono nulli tutti quei patti volti a derogare o a sottrarre in tutto o in parte i beni alla garanzia
generica;
- Una deroga alla responsabilità patrimoniale è apportata dai c.d. vincoli di destinazione, cioè quei
vincoli che destinano uno o più beni ad una data finalità, sottraendoli così all’esecuzione forzata
esperita dal creditore;

Quanto ai beni mobili, si distingue:

- Le cose mobili assolutamente impignorabili;


- Le cose mobili relativamente impignorabili: ad esempio, le cose che il proprietario del fondo vi tiene
per la coltivazione del medesimo possono essere pignorate separatamente dall’immobile soltanto
in mancanza di altri mobili;
- Le cose pignorabili in particolari circostanze di tempo: ad esempio, i frutti non raccolti o separati dal
suolo, non possono essere pignorati separatamente dal suolo se non nelle ultime sei settimane
precedenti alla loro maturazione;

In virtù del principio della par condicio creditorum, qualora vi siano più creditori, essi hanno un euguale
diritto sui beni del debitore, salve le cause di prelazione. Al fine di assicurare la parità di trattamento,
nessuna azione individuale o esecutiva può essere iniziata o proseguita dai creditori.

Bisogna distinguere due categorie di creditori:

- Creditori titolari di un diritto di prelazione: che, in forza di tale diritto, verranno soddisfatti prima
degli altri creditori e per l’intero credito vantato;
- Creditori chirografari: i quali verranno soddisfatti solo dopo i creditori privilegiati e in proporzione
ad essi (non per l’intero).
ESECUZIONE FORZATA INDIVIDUALE

L’esecuzione forzata è il rimedio di cui può avvalersi il creditore al fine di ottenere l’adempimento di una
prestazione che non viene eseguita volontariamente dal debitore.

Affinchè la parte possa ritenersi integralmente soddisfatta, non è sufficiente che il giudice riconosca come
fondata la sua pretesa, ma è necessario che tale riconoscimento si traduca in una modificazione della
situazione esistente. Questa azione, infatti, si differenzia dall’azione di cognizione che, al contrario, ha come
scopo solo quello di far accertare l’esistenza del diritto.

L’azione esecutiva può essere esercitata solo in presenza di diritti realmente esistenti, così da evitare abusi
volti ad ottenere dei vantaggi indebiti. Proprio per questo motivo, il legislatore ha stabilito che tale
accertamento deve necessariamente risultare da un documento definito titolo esecutivo.

Affinchè l’esecuzione forzata possa aver luogo è necessario che il titolo esecutivo si riferisca ad un diritto:

- Certo: quando non vi è alcun dubbio circa la sua esistenza;


- Liquido: quando il suo ammontare è già determinato;
- Esigibile: quando non è sottoposto a condizioni o termini, e può essere fatto valere in giudizio per
ottenere una sentenza di condanna;

I titoli esecutivi possono essere suddivisi in vari tipi:

- Titoli esecutivi giudiziali: le sentenze di condanna passate in giudicato, le sentenze di 1° grado


provvisoriamente esecutive, i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce
espressamente efficacia esecutiva (ad esempio, i decreti ingiuntivi non opposti e i verbali di
conciliazione dichiarati esecutivi dal giudice);
- Titoli esecutivi stragiudiziali: le scritture private autenticate relativamente alle somme di denaro in
esse contenute, le cambiali, gli altri titoli di credito a cui la legge attribuisce espressamente efficacia
esecutiva, gli atti ricevuti dal notaio o altro pubblico ufficiale che sia autorizzato a riceverli;

Inoltre, l’efficacia di titolo esecutivo spetta anche alle sentenze della Corte di Giustizia dell’UE, agli atti del
Consiglio e della Commissione.

I soggetti coinvolti nella procedura esecutiva sono:

- Creditore: colui che propone la domanda esecutiva ed esercita l’azione esecutiva;


- Debitore;
- Ufficiale giudiziario: l’organo esecutivo che deve limitarsi ad attuare l’esecuzione;
- Ufficio giudiziario: nel cui ambito opera l’organo esecutivo. Tale ufficio è sempre il Tribunale,
poiché il Giudice di Pace non ha competenza in materia esecutiva. Ad ogni modo, il ruolo più
importante viene svolto dal giudice dell’esecuzione che dirige e coordina l’attività delle parti e si
pronuncia mediante ordinanza;

Vi sono degli atti che, indipendentemente dalla tipologia di processo esecutivo che si intende istaurare,
devono essere compiuti prima di procedere all’esecuzione:

- Notificazione del titolo esecutivo: le sentenze e gli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria,
oppure gli atti ricevuti da notaio o altro pubblico ufficiale, per poter valere come “titolo esecutivo”,
devono essere muniti della formula esecutiva. Si tratta di un’apposita ingiunzione scritta (dal
cancelliere, dal notaio o dall’ufficiale giudiziario), che ordina a tutti gli ufficiali giudiziari di dare
attuazione al titolo esecutivo. Il titolo esecutivo deve poi essere notificato alla parte
personalmente, quindi nel luogo in cui il debitore è residente o nel luogo presso il quale ha eletto
domicilio. Qualora si tratti di sentenza, sarà necessaria una doppia notificazione: alla parte
personalmente (per dare inizio all’esecuzione) e al difensore (per l’eventuale impugnazione);
- Notificazione del precetto: dopo la notificazione del titolo esecutivo, qualora il debitore non abbia
provveduto ad adempiere, si deve procedere alla notifica del precetto. Quest’ultimo consiste
nell’intimazione ad adempiere entro un termine non inferiore a 10 giorni con l’avvertimento che, in
mancanza, si procederà all’esecuzione forzata. Inoltre, il precetto deve contenere a pena di nullità,
anche l’indicazione delle parti e la data di notificazione del titolo esecutivo (fatta eccezione per i
casi in cui il titolo e il precetto vengano notificati contemporaneamente al debitore).

INTRODUZIONE DEL PROCESSO ESECUTIVO

Iniziamo con l’immagine della dea della giustizia, la quale è raffigurata con una:

- Benda: la benda sugli occhi rappresenta l’imparzialità del giudice;


- Bilancia: che simboleggia l’equilibrio tra il bene e il male;
- Spada: che incarna il significato del giudizio, in quanto simboleggia la forza e, dunque, la punizione
(sanzione) comminata dalla legge. La spada non deve essere intesa come un’arma, ma come
“disciplina” (la quale viene solo dalla legge);

A differenza del processo di cognizione (che mira ad accertare l’esistenza di un diritto), il processo esecutivo
si instaura su un diritto di cui l’esistenza è già accertata: bisogna semplicemente dare attuazione a quanto
accertato. Infatti, nel processo di cognizione possiamo parlare indistintamente di giudizio o di processo;
mentre, con riferimento al processo esecutivo, parlare di giudizio sarebbe errato, in quanto non vi è alcuna
valutazione di accertamento.

Bisogna specificare che ci sono degli obblighi che non possono essere oggetto di “esecuzione diretta”. A tal
proposito si prevedono delle forme di c.d. esecuzione indiretta con cui il legislatore prevede delle misure
coercitive, volte a convincere il debitore all’adempimento spontaneo. Si prevede in capo al soggetto
inadempiente l’obbligo di pagare una somma di denaro, al fine di indurlo a realizzare la sua obbligazione.
Tra queste, ad esempio, ricordiamo che:

- Il giudice, su istanza di parte, insieme al provvedimento di condanna ad un fare o non fare, fissa una
somma di denaro per ogni violazione successiva o per ogni ritardo nell’esecuzione del
provvedimento. Nel determinare il valore della somma dovuta, il giudice dovrà tener conto della
natura della prestazione, del danno, delle condizioni personali e patrimoniali delle parti ed ogni
altra circostanza utile. Il provvedimento costituisce titolo esecutivo;
- Si prevede la pena della reclusione o della multa, in caso di mancata osservanza del provvedimento
del giudice;

Nell’esecuzione indiretta, non si può fare a meno del comportamento dell’obbligato, ma anzi l’ordinamento
continua ad ancorarsi ad esso per l’esecuzione del credito.

Tale tecnica può essere utilizzata quando sussistano degli obblighi infungibili

I TITOLI ESECUTIVI GIUDIZIALI E STRAGIUDIZIALI

Affinchè l’esecuzione forzata possa aver luogo è necessario che il titolo esecutivo si riferisca ad un diritto:

- Certo: quando non vi è alcun dubbio circa la sua esistenza;


- Liquido: quando il suo ammontare è già determinato;
- Esigibile: quando non è sottoposto a condizioni o termini, e può essere fatto valere in giudizio per
ottenere una sentenza di condanna;

In questo senso, il titolo esecutivo assume un’efficacia incondizionata, esso, cioè, serve a far si che il diritto
(così come è stato accertato), si possa isolare rispetto a una realtà.

Possiamo distinguere tra:

- Titoli esecutivi giudiziali: si formano nel giudizio e, pertanto, consistono in un provvedimento


emesso da u giudice (sentenza, decreto ingiuntivo, ordinanza ect.). Tra questi ricordiamo: le
sentenze di condanna passate in giudicato, le sentenze di 1° grado provvisoriamente esecutive, i
provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva (ad
esempio, il verbale di conciliazione, l’accordo di mediazione o di negoziazione assistita);
- Titoli esecutivi stragiudiziali: si forma per volontà delle parti. Tra questi ricordiamo: le scritture
private autenticare relative alle somme di denaro, le cambiali, gli altri titoli di credito a cui la legge
attribuisce tale efficacia;

Inoltre, a questi bisogna aggiungere anche il c.d. Titolo Esecutivo Europeo, attraverso il quale si procede
all’esecuzione delle decisioni giudiziarie, aventi ad oggetto crediti pecuniari, nell’ambito dell’Unione
Europea. Esso consiste, sostanzialmente, in un certificato che consente al documento cui si riferisce di
circolare liberamente nell’Unione Europea (senza necessità di alcun provvedimento autorizzativo da parte
dell’Autorità dello Stato in cui se ne chiede l’esecuzione).

Tuttavia, solo alcuni titoli esecutivi sono muniti sin dall’origine di efficacia esecutiva. Per tutti gli altri,
invece, tale efficacia viene acquisita successivamente, mediante la c.d. formula esecutiva. Essa, altro non è
che l’apposizione in fondo al titolo, da parte del cancelliere/notaio/pubblico ufficiale che ha formato l’atto,
di una formula con cui si attesta tale efficacia.

Possedere un titolo esecutivo significa essere titolari di un diritto processuale di azione esecutiva, che
consente di porre in essere il processo esecutivo. A tal proposito, l’esecutato, potrà impedire questo
processo tramite l’opposizione all’esecuzione, affermando che non sussiste attualmente il diritto di credito
e chiedendo intanto al giudice la sospensione dell’esecuzione, ove ricorrano gravi motivi.

Al contrario, in caso di titolo esecutivo non ancora passato in giudicato, perché soggetto a impugnazione, si
potrà chiedere al giudice la sospensione della sua efficacia di provvisoria esecutorietà, introducendo il c.d.
procedimento di inibitoria, che non caduca la decisione, ma la sua efficacia di titolo esecutivo.

Un’altra questione da affrontare è quella relativa alla sorte di un processo esecutivo instaurato in forza di
un titolo esecutivo che venga sostituito da un altro titolo esecutivo, prima della sua conclusione (ad
esempio, una sentenza di condanna di 1° grado che viene sostituita da una sentenza di appello comunque
favorevole al creditore). In questi casi, il processo potrà legittimamente proseguire se il titolo esecutivo
originario viene sostituito da un altro che però riconosce l’esistenza dello stesso diritto oggetto del primo.

Discorso diverso, invece, va fatto nei casi in cui il titolo esecutivo viene eliminato in radice senza essere
sostituito. In questo caso, il problema non riguarda il creditore procedente, ma i creditori intervenuti.
Infatti, nel processo esecutivo instaurato da un creditore, possono intervenire anche altri creditori, tra cui:

- Alcuni di essi potrebbero essere legittimati ad instaurare un autonomo processo esecutivo (anziché
intervenire in quello pendente, come invece hanno scelto di fare);
- Altri, invece, potrebbero essere legittimati ad intervenire, perché hanno nei confronti del debitore
un credito fondato su un titolo esecutivo, oppure al momento del pignoramento avevano già
eseguito il sequestro sui beni pignorati, oppure perché al momento del pignoramento vantavano
un diritto di prelazione risultante da pubblici registri;
A tal proposito, le Sezioni Unite, hanno chiarito che potranno intervenire solo quei creditori muniti di
autonomo titolo esecutivo.

Ulteriore problema da chiarire, è se il titolo esecutivo possa essere utilizzato da o contro soggetti diversi da
quelli che in esso sono indicati. A tal proposito, sappiamo che se il titolo esecutivo deve essere munito della
formula esecutiva, la quale non viene apposta sull’originale del provvedimento, ma su una copia conforme
all’originale e può essere rilasciata solo alla parte in favore della quale è stato pronunciato il
provvedimento, oppure ai suoi successori (infatti, in calce alla formula esecutiva bisogna indicare la persona
alla quale è stata spedita). Dunque, possiamo dedurre che colui che sia diventato creditore dopo la
formazione del titolo esecutivo (ad esempio, il successore), potrà instaurare un processo esecutivo in forza
del titolo esecutivo originario.

Nel caso in cui, invece, l’estensione riguardi il lato passivo del rapporto (e quindi il debitore), si ritiene che
essa sia limitata ai soli eredi del debitore, e pertanto solo nei casi di successione mortis causa.

L’ESECUZIONE COLLETTIVA

Inizialmente, l’istituto dell’azione di classe era regolato dal Codice del Consumo. Tuttavia, a seguito delle
Riforme introdotte nel 2019, esso ad oggi viene disciplinato dal Codice di Procedura Civile. Tale scelta è
motivata dall’intenzione del legislatore di estendere il campo di applicazione della class action, allargando
le categorie di soggetti che possono utilizzare tale istituto e le situazioni giuridiche che possono costituirne
oggetto di tutela.

Bisogna innanzitutto specificare che l’azione di classe non pregiudica la possibilità, per il titolare del diritto,
di agire attraverso un’azione individuale. Essa, infatti, ha carattere alternativo e complementare.

L’azione può essere esperita da ciascun componente della “classe” di persone che ha subito la lesione di
diritti individuali omogenei, oppure dalle organizzazioni senza scopo di lucro che hanno come obiettivo la
tutela dei predetti diritti e che siano iscritte in un apposito elenco istituito presso il Ministero della
Giustizia.

L’azione può essere promossa nei confronti di una impresa o di un gestore di servizi pubblici o di pubblica
utilità, se autori della condotta lesiva.

La domanda per l’azione di classe si propone con ricorso, da depositare dinanzi alla Sezione Specializzata in
materia di impresa, competente per il luogo in cui ha sede la parte residente.

Dato che i membri della classe, per poter partecipare all’azione collettiva, devono necessariamente
proporre domanda di adesione, il legislatore ha previsto un particolare meccanismo di pubblicità della
domanda, al fine di renderla conoscibile a tutti i soggetti interessati: in particolare, si prevede che il ricorso,
una volta depositato, debba essere pubblicato (insieme al decreto di fissazione dell’udienza), sul portale dei
servizi telematici del Ministero della Giustizia.

Decorsi 60 giorni dalla data di pubblicazione del ricorso, non possono essere proposte ulteriori azioni di
classe sulla base dei medesimi fatti e nei confronti dello stesso resistente. Quelle eventualmente proposte
saranno cancellate dal ruolo.

Con l’ordinanza con cui ammette l’azione di classe, il Tribunale fissa un termine non inferiore a 60 giorni e
non superiore a 150 giorni, per l’adesione dei soggetti interessati. L’aderente non assume la qualità di
“parte” e ha diritto ad accedere a tutte le comunicazioni a cura della cancelleria.
Il Tribunale procede nel modo più opportuno agli atti di istruzione rilevanti. Esso può ordinare, su istanza
del ricorrente, l’esibizione al resistente delle prove rilevanti che rientrano nella sua disponibilità. Se essa
rifiuta senza giustificato motivo, oppure non adempie, il giudice applica una sanzione amministrativa.

Con la sentenza che accoglie l’azione di classe, il Tribunale:

- Provvede alle domande risarcitorie proposte dal ricorrente;


- Accerta che il resistente ha leso diritti individuali omogenei;
- Dichiara aperta la procedura di adesione;

La domanda di adesione deve contenere, a pena di inammissibilità:

- L’indicazione del Tribunale competente;


- I dati relativi all’azione di classe;
- Dati identificativi dell’aderente;
- Il conferimento al rappresentante comune (già nominato o che sarà nominato dal giudice) del
potere di rappresentare l’aderente e di compiere tutti gli atti nel suo interesse;
- La dichiarazione di aver provveduto al versamento del fondo spese;

Entro 120 giorni dalla scadenza del termine per l’adesione, il resistente deposita una memoria contenente
le sue difese e prende posizione sui fatti posti dagli aderenti a fondamento della domanda. I fatti dedotti
dagli aderenti e non contestati dal resistente si considerano ammessi.

Il rappresentante comune, entro 90 giorni, predispone il progetto dei diritti individuali omogenei, il quale
viene comunicato agli aderenti e al resistente.

Il giudice delegato, con decreto motivato, quando accoglie in tutto o in parte la domanda di adesione,
condanna il resistente al pagamento delle somme o delle cose dovute a ciascun aderente. Il provvedimento
costituisce titolo esecutivo.

In caso di inadempimento delle obbligazioni di pagamento, è possibile attivare la procedura di esecuzione


forzata, esercitabile anch’essa in forma collettiva.

Contro il decreto, può essere proposta opposizione o ricorso, depositato presso la cancelleria del Tribunale.

Fino alla discussione orale della causa, il tribunale, ove possibile, formula una proposta transattiva
conciliativa da comunicare all'indirizzo pec indicato da ciascun aderente. In caso di esito positivo
dell’accordo, esso costituirà titolo esecutivo.

La procedura di adesione si chiude:


- Quando il rappresentante comune effettua tutte le ripartizioni tra gli aderenti;
- Quando nel corso della procedura risulta che non è possibile conseguire un ragionevole
soddisfacimento delle pretese degli aderenti;
La chiusura è dichiarata con decreto motivato, reclamabile.
Gli aderenti riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro
crediti per capitale e interessi.
E’ stata inoltre introdotta la possibilità, per chiunque ne abbia interesse, di esperire, accanto alla class
action, un’azione inibitoria collettiva, al fine di ottenere dal giudice una pronuncia che ordini alle imprese o
agli enti gestori dei servizi pubblici, la cessazione o il divieto di reiterare la condotta lesiva.

CAPITOLO 20
I PROCEDIMENTI DI ESECUZIONE FORZATA
I DIVERSI TIPI DI ESECUZIONE FORZATA E GLI ATTI PRODROMICI

L’esecuzione forzata è l’attività giurisdizionale alla quale può ricorrere il creditore nel caso in cui il debitore
non adempia spontaneamente alle sue obbligazione. Essa si distingue in:

- Esecuzione in forma generica: è quel procedimento attraverso il quale al debitore vengono


sottratti coattivamente alcuni beni che compongono il suo patrimonio. Da essi poi si ricava in
maniera coattiva, il denaro necessario per soddisfare le pretese del creditore.
Ne esistono varie tipologie: espropriazione immobiliare, espropriazione mobiliare, espropriazione
mobiliare presso terzi, espropriazione di beni indivisi e espropriazione contro il terzo proprietario;
- Esecuzione in forma specifica: alla quale appartengono due tipologie di processi esecutivi:
• Esecuzione per rilascio o consegna: è quel procedimento esecutivo attraverso il quale il
creditore consegue direttamente la materiale disponibilità della cosa (mobile o immobile),
oggetto delle sue pretese. La consegna riguarda le cose mobili, il rilascio le cose immobili;
• Esecuzione degli obblighi di fare o non fare: è quel procedimento esecutivo attraverso il
quale il creditore può ottenere che il debitore compia, in maniera coattiva, il suo obbligo di
eseguire una specifica prestazione a vantaggio del creditore;

Ognuno dei procedimenti esecutivi menzionati è governato da regole peculiari sue proprie, tuttavia, essi
hanno tutti in comune la fase prodromica all’instaurazione del procedimento. In particolare, il creditore che
intenda agire dovrà:

- Notificare il titolo esecutivo: a tal proposito, si prevede che “le sentenze e gli altri provvedimenti
per poter valere come titolo esecutivo devono muniti della formula esecutiva”. Essa è un’apposita
ingiunzione scritta (realizzata dal cancelliere, dal notaio o dall’ufficiale giudiziario) che ordina agli
ufficiali giudiziari di dare attuazione al titolo esecutivo. L’originale dell’atto rimane sempre presso
colui che l’ha redatto, mentre l’ufficiale giudiziario consegna al debitore la copia che, ai fini della
notificazione, funzionerà da originale;
- Notificare il precetto: il precetto è un atto con il quale il creditore intima al debitore di adempiere
alla propria obbligazione così come risultante dal titolo esecutivo, entro un termine che non potrà
essere inferiore a 10 giorni e con l’avviso che, spirato inutilmente il termine, si farà luogo
all’esecuzione forzata. Inoltre, il creditore deve anche avvertire il debitore della possibilità di evitare
l’esecuzione forzata concludendo un accordo di composizione della crisi con il creditore.
Il precetto deve essere notificato insieme al titolo esecutivo, a cura del creditore, alla parte
personalmente. Tuttavia, qualora all’adempimento debbano provvedere gli eredi del debitore (i
quali potrebbero non conoscere l’esistenza del debito del de cuius), dovrà essere notificato prima il
titolo esecutivo e poi dopo 10 giorni anche il precetto.
Inoltre, qualora l’azione esecutiva si rivolga alle amministrazioni dello Stato o ad enti pubblici non
economici, si prevede che il creditore possa notificare il precetto solo dopo 120 giorni dalla notifica
del titolo esecutivo;

Decorso inutilmente il termine fissato nel precetto, il creditore potrà procedere con l’esecuzione forzata.

Qualora il procedimento esecutivo non venga instaurato entro 90 giorni dalla notificazione del precetto,
questo diventa inefficace. A meno che non venga proposta opposizione, nel qual caso, il termine di 90
giorni rimane sospeso e riprende a decorrere dalla riassunzione (la quale deve avvenire entro 6 mesi dal
passaggio in giudicato della sentenza di 1° grado che decide sull’opposizione, o se appellata, entro 6 mesi
dalla comunicazione della sentenza di appello).

Per quanto riguarda la c.d. procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, si tratta di un
procedimento introdotto a favore di tutti quei soggetti non fallibili. Tali soggetti potranno rivolgersi ad
appositi “organismi di composizione della crisi”, che li aiuteranno a predisporre una proposta di accordo per
soddisfare i loro creditori.

La proposta potrà seguire tre vie diverse:

- Innanzitutto, è necessario l’accordo con i creditori. La proposta per essere omologata dal Tribunale
dovrà essere accettata da tanti creditori che nel complesso rappresentano almeno il 60% dei crediti
del debitore;
- Oppure si potrà optare per il c.d. piano del consumatore, che non richiede l’accordo con i creditori;
- Oppure ancora, si procederà con la liquidazione del patrimonio, cioè la cessione di tutti i propri beni
ai creditori;

Qualsiasi sia la via prescelta, l’omologazione della proposta da parte del Tribunale e la sua esecuzione,
consentiranno la c.d. esdebitazione (cioè la definitiva liberazione del debitore da qualsiasi debito rimasto
non pagato).

IL GIUDICE DELL’ESECUZIONE E IL PIGNORAMENTO

Il più importante tra i procedimenti di esecuzione forzata è quello diretto a soddisfare il creditore di una
prestazione pecuniaria, cioè l’espropriazione forzata. In questo caso, la soddisfazione del creditore si potrà
ottenere attraverso 3 passaggi:

- L’individuazione, con il pignoramento, dei beni facenti parte del patrimonio del debitore;
- La trasformazione di questi beni in denaro (la quale si otterrà con la vendita forzata degli stessi, o
con la loro assegnazione);
- La distribuzione del ricavato al creditore procedente/creditori intervenuti;

Dunque, decorso inutilmente il termine contenuto nel precetto e assegnato per consentire al debitore di
adempiere, il creditore dovrà richiedere l’intervento dell’Ufficiale Giudiziario, a cui spetta il compito di
pignorare i beni del debitore.

Bisogna distinguere, qualora l’esecuzione forzata abbia ad oggetto:

- Cose mobili o immobili: la competenza è del giudice del luogo in cui le cose si trovano;
- Autoveicoli o rimorchi: la competenza è del giudice del luogo di residenza, domicilio o dimora del
debitore;
- Obblighi di fare e non fare: la competenza è del giudice del luogo ove l’obbligo deve essere
eseguito;
- Crediti: la competenza è del giudice del luogo in cui il debitore ha la residenza, domicilio o dimora;

Il pignoramento può essere definito come “l’ingiunzione con cui l’ufficiale giudiziario avverte il debitore di
astenersi da qualunque atto diretto a sottrarre, alla garanzia del credito, i beni che si assoggettano
all’espropriazione e i frutti di essi”.

A tal proposito, è previsto che l’ufficiale giudiziario, se contata che i beni assoggettati all’espropriazione
sono insufficienti (perché la loro alienazione forzata non risulterebbe in grado di soddisfare il creditore
procedente) oppure che la loro liquidazione richiede troppo tempo, deve invitare il debitore ad indicare
altri suoi beni o crediti utilmente pignorabili e i luoghi in cui questi si trovano. Poi, se si tratta di:

- Beni mobili: l’ufficiale giudiziario, munito di titolo esecutivo e del precetto, può ricercare le cose da
pignorare nella casa del debitore e negli altri luoghi a lui appartenenti. Può anche ricercarle sulla
persona del debitore, osservando le opportune cautele per rispettarne il decoro;
- Beni immobili: il pignoramento si esegue mediante notificazione al debitore e successiva
trascrizione di un atto nel quale si indicato i beni e i diritti immobiliari che si intendono sottoporre
ad esecuzione;
- Crediti: il pignoramento dei crediti del debitore che ha nei confronti di terzi, si esegue mediante
atto da notificare al terzo e al debitore, il quale deve indicare il credito per il quale si procede, il
titolo esecutivo e il precetto;

Inoltre, bisogna distinguere tra:

- Pignoramento in estensione: in virtù del quale, se sono intervenuti altri creditori muniti di titolo
esecutivo, il creditore pignorante ha la facoltà di indicare loro l’esistenza di altri beni del debitore
utilmente pignorabili e di invitarli ad estendere il pignoramento. Se essi, senza giusto motivo, non
estendono il pignoramento ai beni indicati entro 30 giorni, il creditore pignorante avrà diritto di
essere loro preferito in sede di distribuzione;
- Pignoramento congiunto: in virtù del quale, più creditori possono, con un unico pignoramento,
colpire il medesimo bene. Ogni pignoramento ha effetto indipendente, anche se è unito ad altri in
un unico processo;
- Pignoramento successivo: in virtù del quale, il bene sul quale è stato compiuto un pignoramento,
può essere pignorato successivamente su istanza di uno o più creditori;

Tuttavia, la disciplina è stata oggetto di importanti modifiche nel 2014, che hanno notevolmente accelerato
e semplificato le attività di ricerca ed individuazione dei beni da assoggettare a procedura esecutiva. In
particolare, il Presidente del Tribunale, su istanza del creditore procedente o di altro creditore intervenuto,
autorizza la ricerca dei beni da pignorare con modalità telematiche. L’Ufficiale Giudiziario, munito di titolo
esecutivo e di precetto, può accedere, mediante collegamento telematico, ai dati contenuti nelle banche
delle pubbliche amministrazioni, in modo da poter acquisire tutte le informazioni rilevanti per
l’individuazione dei beni e dei crediti da sottoporre ad esecuzione.

Se l’Ufficiale Giudiziario non dovesse riuscire a individuare i beni mediante l’accesso alle banche dati, può
intimare al debitore di indicare entro 15 giorni, sotto minaccia di sanzione penale, il luogo in cui tale cosa si
trova.

Per quanto riguarda, invece, le disposizioni a favore del debitore:

- Egli ha la facoltà di evitare il pignoramento pagando il debito e le spese esecutive, oppure


consegnando all’Ufficiale Giudiziario una somma di denaro pari all’importo del credito e delle spese
esecutive maggiorato di due decimi;
- Dopo il pignoramento e prima della vendita, potrà chiedere che i beni siano sostituiti in denaro che
egli si impegna a versare anche ratealmente (c.d. conversione del pignoramento);
- Se il valore dei beni pignorati eccede il valore del credito, può domandare la riduzione del
pignoramento e, così, la parziale liberazione dal vincolo;

Il creditore procedente dovrà effettuare l’iscrizione al ruolo del processo esecutivo (mediante deposito, che
deve avvenire in via telematica, della nota di iscrizione al ruolo, del verbale di pignoramento e del
precetto). Il deposito deve avvenire entro 15 o 30 giorni.

Inoltre, si prevede che il creditore, se ritiene che gli atti di alienazione compiuti dal debitore abbiano avuto
come unico scopo quello di sottrarre quei beni alla garanzia patrimoniale, deve instaurare un apposito
giudizio di cognizione e, tramite questo, dimostrare la sua qualità di creditore ed il c.d. evento dannoso
fraudolento.

Si prevede che, il creditore che sia pregiudicato da un atto del debitore (che ha per oggetto beni mobili o
immobili iscritti nei pubblici registri e compiuto successivamente a sorgere del credito), può procedere,
munito di titolo esecutivo, ad esecuzione forzata, se trascrive il pignoramento entro 1 anno dalla data in cui
l’atto è stato trascritto. Il debitore e ogni altro soggetto interessato alla conservazione del vincolo, possono
proporre opposizione all’esecuzione.

Bisogna poi specificare, che gli atti di alienazione dei beni soggetti a pignoramento sono sottoposti ad una
inefficacia relativa, in quanto non producono effetti verso il creditore pignorante e gli altri creditori che
partecipano alla fase esecutiva. Tuttavia, è prevista un’eccezione in relazione ai terzi che abbiano
acquistato in buona fede: se, quindi, l’atto di alienazione ha avuto ad oggetto un bene mobile non
registrato, ed il terzo acquirente non sapeva che questo fosse assoggettato a pignoramento, tale atto potrà
essere opposto ai creditori, i quali di conseguenza non potranno sottoporlo a procedura esecutiva (non
facendo ormai più parte del patrimonio del debitore).

Invece, gli atti di alienazione posti in essere prima del pignoramento, se riguardano beni mobili o immobili
registrati, producono effetti verso il creditore procedente solo se siano stati sottoposti a trascrizione prima
del pignoramento.

L’INTERVENTO DI ALTRI CREDITORI

Il procedimento di espropriazione forzata prevede principalmente due parti: il creditore procedente ed il


debitore esecutando (o già esecutato). Tuttavia, poiché anche altri creditori possono trovarsi nella stessa
situazione del procedente, essi, anche dopo la vendita, potranno intervenire nel processo espropriativo e
chiedere di partecipare alla distribuzione del ricavato.

Si distingue innanzitutto tra:

- Creditori tempestivamente intervenuti: i quali, salve le cause legittime di prelazione, partecipano


alla distribuzione del ricavato in posizione paritaria con il procedente;
- Creditori chirografari tardivamente intervenuti: i quali si soddisfano del residuo;

Inoltre, bisogna anche distinguere tra:

- Creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo: i quali possono compiere autonomamente gli atti
della procedura;
- Creditori intervenuti non muniti di titolo esecutivo: che possono solo partecipare alla distribuzione
del ricavato;

Sono legittimati ad intervenire i creditori che:

- Vantano nei confronti del debitore un credito risultante da un titolo esecutivo;


- Quelli che, al momento del pignoramento, avevano eseguito un sequestro conservativo sui beni
pignorati;
- I debitori che avevano sui beni pignorati un diritto di pegno o un diritto di prelazione risultante dai
pubblici registri;
- I debitori che, al momento del pignoramento, erano creditori di una somma di denaro risultante
dalle scritture contabili obbligatorie;

E’ inoltre previsto che, il giudice, tramite l’ordinanza con cui è disposta la vendita forzata, possa fissare
l’udienza di comparizione davanti a se del debitore e dei soli creditori che siano privi di titolo esecutivo,
affinchè il debitore possa prendere posizione sulle loro domande: riconoscendo o disconoscendo il credito
affermato da ciascuno. In caso di eventuale disconoscimento da parte del debitore, il creditore deve avviare
il giudizio per munirsi di titolo esecutivo. Contemporaneamente, il giudice dell’esecuzione accantona le
somme a lui spettanti, per il tempo necessario affinchè il creditore possa dotarsi di titolo esecutivo, e in
ogni caso per un periodo non superiore ai 3 anni. Se entro tale tempo il creditore consegue un titolo
esecutivo, la distribuzione potrà avvenire anche in suo favore, altrimenti le somme andranno ripartite tra
gli altri creditori ed il residuo consegnato al debitore.

Bisogna distinguere tra:

- Azione esecutiva espropriativa: consistente nei poti idonei a dare impulso al processo esecutivo e
di cui sono titolari il creditore procedente e i soli creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo;
- Azione esecutiva satisfattiva: che nasce con la vendita forzata e consiste nel potere di partecipare
alla distribuzione del ricavato della vendita e viene riconosciuta a tutti i creditori intervenuti (anche
quelli privi di titolo esecutivo).

LA FASE DI LIQUIDAZIONE DEI BENI PIGNORATI. LA VENDITA FORZATA E L’ASSEGNAZIONE

Dopo aver pignorato i beni del debitore, dovrà avvenire la c.d. vendita forzata o la c.d. assegnazione,
dirette a trasformare i beni pignorati in denaro, con il quale soddisfare il creditore (o i creditori).

In entrambi i casi, sarà necessaria una istanza del creditore procedente o di uno dei creditori intervenuti
(purchè muniti di titolo esecutivo), che dovrà essere proposta dinanzi al giudice dell’esecuzione, non prima
che siano decorsi 10 giorni dal pignoramento.

Ad ogni modo, sarà possibile procedere alla assegnazione o vendita immediata, qualora l’espropriazione
abbia ad oggetto cose deteriorabili.

La vendita forzata prevede l’intervento di un soggetto terzo, il quale acquisterà il bene, versandone il
relativo prezzo. La somma versata sarà così destinata ad essere distribuita ai creditori. Il giudice
dell’esecuzione dovrà fissare le modalità della vendita, che potrà avvenire:

- Senza incanto: le offerte vengono fatte in una busta chiusa. All’udienza, si procederà all’apertura
delle buste e all’individuazione dell’aggiudicatario;
- Con incanto: la c.d. “asta”, le offerte vengono fatte a voce in udienza e diventerà aggiudicatario il
soggetto che farà l’offerta più alta. Questo tipo di vendita potrà essere preferito a quella senza
incanto, solo se il giudice ritenga probabile che in tal modo si consegua un prezzo superiore della
metà del valore del bene;

Il soggetto che farà l’offerta più alta, non diviene immediatamente proprietario del bene, ma solo
“aggiudicatario”. L’aggiudicazione diventerà definitiva solo dopo che siano decorsi 10 giorni dalla gara. Ciò
al fine di consentire ad altri soggetti di poter proporre, a gara conclusa, ulteriori offerte, le quali, se
superano di 1/5 il prezzo dell’aggiudicazione, determineranno la riapertura della gara.

L’aggiudicatario diviene “proprietario” del bene, solo dopo aver pagato il prezzo di vendita e dopo la
pronuncia del c.d. decreto di trasferimento della proprietà.

La vendita forzata ha un effetto traslativo, nel senso che l’acquirente diventa titolare dei diritti che
spettavano al debitore (ciò dal momento del pignoramento e non dal momento della vendita). Inoltre, essa
produce anche un effetto purgativo, in forza del quale, il bene viene trasferito all’acquirente libero da ogni
peso o vincolo derivante da iscrizioni e trascrizioni in pubblici registri.

Tuttavia, resta ferma, a favore dei terzi, la regola del c.d. possesso vale titolo: in virtù della quale, se una
persona diversa dal proprietario della cosa, trasferisce la stessa ad altro soggetto (con atto astrattamente
idoneo al trasferimento di proprietà), quest’ultimo ne diviene proprietario, purchè in buona fede alla
consegna della cosa. (è dunque necessaria la presenza di tre elementi: la provenienza della cosa da un
soggetto che non è proprietario, un titolo in astratto capace di trasferire la proprietà, la consegna effettiva
della cosa al soggetto).

L’acquirente, tuttavia, potrebbe subire un’evizione: si intendono tutti quei casi in cui un terzo fa valere il
suo diritto di proprietà sulla cosa venduta e la sottrae a colui che l’ha comprata. Il venditore, dunque, ha
l’obbligo di garantire l’assenza di tale rischio. Si tratta di un difetto del venditore, il quale:

- In caso di evizione totale: deve restituire al compratore il prezzo pagato e rimborsargli le spese di
contratto;
- In caso di evizione parziale: il compratore può ottenere una riduzione del prezzo e il risarcimento
del danno;

A tal proposito, si prevede che, il compratore del bene espropriato, se ne subisce l’evizione, può richiedere
il prezzo non ancora distribuito e, se la distribuzione è già avvenuta, può chiedere al ciascun creditore la
parte riscossa. In ogni caso, l’acquirente non può recuperare il prezzo nei confronti dei creditori privilegiati
o ipotecari, ai quali la causa di evizione non era opponibile.

L’altra modalità con cui si può raggiungere la soddisfazione dei creditori è l’assegnazione dei beni. Essa
consiste nell’attribuzione dei beni pignorati al creditore che ne faccia richiesta. Generalmente,
l’assegnazione non può aver luogo se non è stato prima compiuto un tentativo di vendita forzata.

L’assegnazione può essere, a seconda dei casi:

- Satisfattiva: se il valore del bene assegnato corrisponde all’ammontare della somma dovuta al
creditore;
- Parzialmente satisfattiva: quando al creditore viene assegnato un bene di valore inferiore
all’ammontare del suo credito oppure quando dovrà versare la differenza tra il valore del bene e
l’ammontare del suo credito;
- Non satisfattiva, c.d. assegnazione-vendita: quando il creditore non abbia interesse ad ottenere la
proprietà del bene. In tale ipotesi, il bene potrà essere assegnato ad uno degli altri creditori, il
quale ne verserà però il valore. La somma così ottenuta verrà distribuita tra i creditori;

L’assegnazione viene pronunciata con ordinanza, la quale trasferisce la proprietà del bene in capo al
creditore assegnatario.

Inoltre, si prevede che: “le nullità degli atti esecutivi compiuti prima della vendita o dell’assegnazione, non
hanno effetto nei confronti dell’assegnatario o dell’acquirente”. In tal modo, tutti quei vizi che avrebbero
dovuto essere fatti valere con l’opposizione, non potranno inficiare la validità della vendita o
dell’assegnazione. Fatta eccezione per i casi in cui:

- Vi sia stato un accordo diretto alla frode del debitore o degli altri creditori;
- Qualora la nullità riguardi direttamente la vendita o l’assegnazione.

LA DISTRIBUZIONE DEL RICAVATO

Dopo la liquidazione dei beni oggetto di pignoramento, inizierà la fase di distribuzione del ricavato.

In questa fase tutti i creditori hanno eguali poteri di impulso (non sussiste più la differenza tra creditori
muniti di titolo e creditori non muniti di titolo).
La distribuzione avverrà, se i creditori da soddisfare sono più di uno, in forza di un piano di riparto, il quale
potrà essere concordato tra creditori e debitore e successivamente omologato dal giudice, oppure redatto
direttamente dal giudice dell’esecuzione.

Il piano di riparto, in primo luogo, indica in che ordine devono essere soddisfatti i creditori: prima coloro
che vantano una causa legittima di prelazione, poi i creditori chirografari (tra i quali andrà diviso il residuo)
e poi i creditori postergati (cioè coloro che sono intervenuti dopo l’udienza nella quale si decidono le
modalità della vendita forzata o dell’assegnazione).

Può poi accadere che in questa fase sorgano delle contestazioni: se in sede di distribuzione sorge una
controversia, circa la sussistenza o l’ammontare di uno o più crediti, o circa la sussistenza di diritti di
prelazione, il giudice dell’esecuzione (sentite le parti e compiuti i necessari accertamenti), provvede con
ordinanza (contro la quale può essere proposta opposizione).

L’ESPROPRIAZIONE MOBILIARE PRESSO IL DEBITORE

L’espropriazione mobiliare presso il debitore è un procedimento esecutivo che ha ad oggetto i beni mobili
di proprietà del debitore, i quali vengono sottratti coattivamente al possessore con il pignoramento, al fine
di soddisfare il creditore con la loro vendita o assegnazione.

Il creditore deve notificare al debitore il precetto, con cui gli intima il pagamento, entro 10 giorni, delle
somme a lui dovute, insieme al titolo esecutivo che attesta l’esistenza del credito.

Trascorso inutilmente il termine previsto dal precetto, si può procedere con il pignoramento dei beni del
debitore.

Il pignoramento mobiliare è un atto orale dell’Ufficiale Giudiziario, documentato in un apposito processo


verbale, nel quale da atto della compiuta ingiunzione, descrivendo le cose pignorate (anche mediante
rappresentazione fotografica o audiovisiva) e determinandone appositamente il valore. Se il creditore poi
dovesse ritenere insufficiente il valore dei beni così pignorati, potrà chiedere al giudice dell’esecuzione (con
istanza) la pronuncia di un ordine di integrazione del pignoramento.

L’Ufficiale deve ricercare le cose da pignorare nella casa del debitore o negli altri luoghi a lui appartenenti.

Il pignoramento deve essere preferibilmente eseguito sul denaro contante, gli oggetti preziosi ed in genere
le cose che l’Ufficiale Giudiziario ritiene più facili da liquidare.

Non tutti i beni del debitore possono essere sottoposti al vincolo del pignoramento, vi sono infatti dei beni
che sono considerati assolutamente impignorabili, perché indispensabili ai bisogni della famiglia o destinati
a finalità pubbliche.

Vi sono anche dei casi di impignorabilità relativa, in base alla quale le cose che il proprietario di un fondo
detiene per il servizio e la coltivazione del medesimo possono essere pignorate separatamente
dall’immobile solo in mancanza di altri mobili (l’impignorabilità relativa può essere fatta valere solo con
l’opposizione agli atti esecutivi).

Per quanto riguarda, invece, il pignoramento di autoveicoli/motoveicoli/rimorchi, esso può avvenire o


secondo le modalità descritte oppure mediante atto notificato e poi trascritto nel registro automobilistico.

Nell’espropriazione mobiliare presso il debitore, l’intervento dei creditori deve avvenire non oltre la
conclusione della prima udienza di fissazione della vendita o dell’assegnazione. Se l’intervento avviene
dopo (c.d. intervento tardivo), esso sarà ammissibile, ma il creditore interveniente può soddisfarsi solo
sull’eventuale residuo dopo la soddisfazione del creditore procedente e degli intervenienti tempestivi.

Decorsi 10 giorni dal pignoramento, il creditore procedere e i creditori intervenuti (muniti di titolo
esecutivo), possono chiedere, con ricorso, la vendita dei beni pignorati. Successivamente, il giudice
dell’esecuzione fissa l’udienza per l’audizione delle parti e per il tempo e le modalità di vendita. Poi, fissati il
prezzo minimo e l’importo globale che la vendita deve raggiungere, il giudice affida l’incarico all’Istituto
delle vendite giudiziarie.

Non possono essere compiuti più di 3 esperimenti di vendita, limite oltre il quale, potrà essere disposta la
chiusura anticipata del processo.

Se non ci sono opposizioni o se si raggiunge un accordo, il giudice dispone con ordinanza l’assegnazione o la
vendita (altrimenti decide le opposizioni con sentenza e dispone con ordinanza l’assegnazione o la vendita).

Disposta la vendita o l’assegnazione, se il pignoramento è insufficiente a soddisfare le ragioni dei creditori,


il giudice può disporre una integrazione successiva del pignoramento.

L’ESPROPRIAZIONE IMMOBILIARE

Nell’espropriazione immobiliare, i beni da pignorare vengono scelti dal creditore procedente (e non
dall’Ufficiale Giudiziario). L’unico limite è costituito dal fatto che egli non può pignorare altri immobili se
non sottopone a pignoramento anche quelli gravati da ipoteca.

L’atto di pignoramento immobiliare, consiste in un atto scritto, predisposto e sottoscritto dal creditore
procedente. L’atto così formato, viene poi consegnato all’Ufficiale Giudiziario, che provvede a consegnarlo
al debitore. L’atto di pignoramento sarà perfetto solo in seguito alla sua trascrizione nei pubblici registri
immobiliari.

Per la custodia dei beni pignorati può essere nominato un terzo, oppure lo stesso debitore esecutato. Si
prevede, infatti, che il debitore esecutato, che abiti nell’immobile pignorato, non perda il possesso del bene
finchè non è pronunciato il decreto di trasferimento del bene. Se viene nominato come custode un soggetto
terzo, costui avrà solo l’obbligo di controllare che il debitore mantenga integro l’immobile. Solo se
l’immobile non è adeguatamente mantenuto o conservato, per colpa o dolo del debitore o dei suoi
familiari, il giudice dell’esecuzione potrà disporre l’immediata liberazione del bene (prima ancora della
pronuncia del decreto di trasferimento).

Non oltre 30 giorni prima dell’udienza, il creditore procedente e quelli intervenuti, devono depositare un
atto in cui indicare l’ammontare del credito residuo per cui si procede, comprensivo degli interessi
maturati.

Entro 60 giorni dal deposito (oggi telematico) del ricorso contente l’istanza di vendita, il creditore
procedente deve depositare in cancelleria una serie di documenti necessari all’individuazione della
situazione catastale, ipotecaria e fiscale dell’immobile pignorato, o un certificato notarile sostitutivo degli
stessi.

Successivamente, il giudice dell’esecuzione provvede a fissare un’udienza per l’audizione delle parti e a
nominare un esperto stimatore, chiamato a redigere la stima dei beni. In tale udienza, le parti, a pena di
decadenza, dovranno proporre le eventuali opposizioni agli atti esecutivi. Se non vi sono opposizioni o se su
di esse le parti raggiungono un accordo, il giudice dispone con ordinanza la vendita del bene pignorato.

Lo scopo è la vendita forzata dell’immobile del debitore. A tal proposito, per ottenere questo risultato,
l’atto di pignoramento appone un vincolo di indisponibilità sul bene, al fine di evitare che tale bene possa
essere alienato prima della sua vendita. Per far si che tale vincolo venga rispettato e conosciuto, il
pignoramento deve essere trascritto. La trascrizione, infatti, permette che i terzi possano conoscere la
situazione.

La trascrizione nei registri immobiliari ha una durata di 20 anni. Inoltre, ove dovesse essere stato notificato
solo il pignoramento (senza essere trascritto), il giudice non potrà disporre la vendita.

L’ESPROPRIAZIONE MOBILIARE PRESSO TERZI E L’ESPROPRIAZIONE CONTRO IL TERZO PROPRIETARIO

L’espropriazione mobiliare presso terzi ha ad oggetto:

- I crediti vantati dal debitore nei confronti di terzi;


- I beni mobili del debitore in possesso di terzi;

Innanzitutto, sarà necessario sapere dal terzo se egli è veramente debitore del debitore o se egli si trovi in
possesso di cose del debitore. Proprio per tale motivo, l’atto di pignoramento presso terzi è un atto scritto
“complesso”, in quanto in esso sono presenti sia caratteri del processo esecutivo sia caratteri del processo
di cognizione, ed in quanto è posto in essere da due soggetti (creditore ed ufficiale giudiziario) nei confronti
di altri due soggetti (debitore e terzo).

L’atto di pignoramento viene notificato ai due destinatari, il debitore ed il terzo. Dal momento in cui gli è
notificato l’atto di pignoramento, il terzo è soggetto ai medesimi obblighi del custode.

Il terzo deve rendere una dichiarazione al creditore procedente, nella quale specifica di quali cose/somme
è debitore o si trova in possesso.

Qualora all’udienza il creditore dichiari di non aver ricevuto la dichiarazione, il giudice fissa un’ulteriore
udienza. Se poi, in occasione di tale udienza successiva, il terzo non compare, oppure rifiuta di fare la
dichiarazione, il credito pignorato o il possesso del bene di appartenenza del debitore, si considera non
contestato.

Se il terzo, all’udienza appositamente fissata, ha invece riconosciuto l’esistenza del suo obbligo nei
confronti del debitore, oppure se tale obbligo non è contestato, il pignoramento può dirsi perfezionato ed il
giudice dell’esecuzione provvederà:

- Se si tratta di beni mobili: alla loro assegnazione o vendita;


- Se si tratta di crediti: se essi sono esigibili immediatamente o entro 90 giorni, il giudice
dell’esecuzione provvederà alla loro assegnazione; se essi sono esigibili in un termine superiore a
90 giorni, l’assegnazione è possibile solo se richiesta dai creditori (altrimenti il credito verrà
venduto secondo le norme previste per la vendita di cose mobili).

ESPROPRIAZIONE CONTRO IL TERZO PROPRIETARIO

L’espropriazione contro il terzo proprietario è una procedura espropriativa che ha ad oggetto un bene di
proprietà di un soggetto estraneo al rapporto debitorio.

Si tratta di un bene gravato da pegno o ipoteca, oppure la cui alienazione al debitore sia stata revocata per
frode.

Il terzo proprietario, dunque, non è debitore del creditore. Inoltre, può essere considerato tale solo colui
che ha trascritto il suo acquisto (dal debitore) prima del pignoramento.
Il titolo esecutivo deve essere notificato sia al debitore che al terzo. Il titolo da notificare è quello formato
nei confronti del debitore (non è infatti necessario che il proprietario ottenga un titolo esecutivo nei
confronti del terzo.

Bisogna distinguere:

- In relazione ai casi in cui il terzo ha acquistato un bene già gravato da pegno o ipoteca, si sancisce
che in virtù del diritto di sequela, il creditore può espropriare il bene anche quando fuoriesce dal
patrimonio del debitore e confluisce in quello del terzo;
- Oppure può succedere che il terzo abbia concesso che sul proprio bene venisse costituito un diritto
reale di garanzia per debito altrui (c.d. terzo datore di pegno);
- Nel caso in cui il terzo abbia acquistato un bene poi revocato per frode ai creditori, si parlerà di c.d.
responsabilità senza debito, nel senso che l’esecuzione forzata colpisce il terzo in quanto egli è
proprietario di un bene la cui alienazione è inopponibile al creditore.

L’ESPROPRIAZIONE DI BENI INDIVISI

L’espropriazione di beni indivisi (beni la cui titolarità è in comune a più soggetti. Ciascun comproprietario
ha diritto ad una quota dello stesso), si verifica quando il creditore procedente è creditore di uno solo dei
comproprietari o vuole agire nei confronti di uno solo di essi.

Ad ogni modo, il pignoramento deve essere sempre notificato anche a tutti gli altri comproprietari.

L’espropriazione del bene indiviso può avvenire in tre modi:

- Separazione: Una volta separata la quota, si procede con la vendita forzata della stessa o con
l’assegnazione;
- Divisione: qualora la separazione non sia possibile oppure nessuno la richiede, il giudice può
scegliere di procedere con la divisione. Durante lo svolgimento del processo di divisione, il processo
esecutivo è automaticamente sospeso. Dopo la sospensione il processo riprende a seguito di
riassunzione da parte del creditore, da presentarsi mediante ricorso;
- Vendita: se la separazione della quota non è possibile, il giudice, in alternativa alla divisione, può
anche disporre la vendita della quota indivisa.

L’ESECUZIONE PER CONSEGNA O RILASCIO

L’esecuzione per consegna o rilascio viene eseguita quando l’obbligazione sia di consegna di un bene
mobile o di rilascio di un bene immobile. Il creditore dovrà redigere il precetto e notificarlo, insieme al titolo
esecutivo, al debitore.

Il precetto deve contenere anche l’esposizione sommaria dei beni che devono essere consegnati o rilasciati
ed indicare il termine entro il quale il debitore potrà adempiere spontaneamente. Una volta decorso
inutilmente tale termine, il creditore potrà rivolgersi all’Ufficiale Giudiziario, affinchè esso provveda:

- A recarsi sul luogo ove si trova il bene mobile, prendendolo materialmente e consegnandolo
all’istante;
- Se, invece, si tratta di un bene immobile, l’Ufficiale Giudiziario dovrà notificare al debitore un avviso
circa il suo obbligo di rilascio dell’immobile, nonché il giorno e l’ora in cui l’Ufficiale provvederà al
riguardo.
L’ESECUZIONE FORZATA DEGLI OBBLIGHI DI FARE E NON FARE

L’esecuzione forzata degli obblighi di fare e non fare è finalizzata a realizzare un obbligo positivo oppure a
rimuovere gli effetti derivanti dall’inadempimento di un obbligo negativo.

Il creditore, dopo aver proceduto alla notifica del titolo esecutivo e del precetto, non coinvolgerà
immediatamente l’Ufficiale Giudiziario, ma adirà il giudice dell’esecuzione, mediante ricorso, affinchè egli
(una volta sentita la parte obbligata) determini le modalità dell’esecuzione.

Il giudice decide con ordinanza, nominato anche l’Ufficiale Giudiziario e i soggetti realizzazione dell’opera
non eseguita o alla demolizione di quella illegittima.

Si prevede che il giudice, su richiesta di parte, può fissare una somma di denaro che il debitore deve versare
per ogni violazione o ritardo nell’esecuzione.

CAPITOLO 21

LE VICENDE ANOMALE DI SVOLGIMENTO E CONCLUSIONE DEL PROCESSO ESECUTIVO

LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO ESECUTIVO

La sospensione del processo esecutivo consiste in un arresto temporaneo del processo, durante il quale
nessun atto può essere compiuto, salva diversa disposizione del giudice dell’esecuzione. Il processo
esecutivo potrà uscire da questo stato di quiescenza grazie alla riassunzione, la quale se non avviene nel
termine fissato dal giudice dell’esecuzione o, in mancanza, entro 6 mesi dal passaggio in giudicato della
sentenza di 1° grado, il processo esecutivo si estingue.

Esistono vari tipi di sospensione:

SOSPENSIONE DISPOSTA DAL GIUDICE DELL’ESECUZIONE: la sospensione può essere disposta dal giudice
dell’esecuzione quando:

- Ogniqualvolta venga proposta un’opposizione, il processo esecutivo può essere sospeso in attesa
della definizione della controversia instaurata appunto con l’opposizione. E’ necessaria la
sussistenza di gravi motivi. Sull’istanza di sospensione, il giudice provvede con ordinanza, contro la
quale può essere proposto reclamo. Se il giudice concede la sospensione, fisserà un termine
perentorio per l’introduzione del giudizio di merito. Il mancato rispetto di questo termine
determina l’estinzione del processo esecutivo;
- Il giudice dell’esecuzione, dopo aver ricevuto l’istanza di sospensione e valutato la sussistenza dei
gravi motivi, potrà (con ordinanza) disporre la sospensione del processo. Dovrà anche fissare un
termine perentorio entro il quale si dovrà introdurre il processo di esecuzione (il quale non potrà
essere affidato allo stesso magistrato che ha deciso sulla sospensione). Il mancato rispetto del
termine comporterà l’estinzione del processo esecutivo;
- Se durante la fase distributiva, sorgano controversie tra creditori, o tra creditore e debitore circa la
distribuzione del ricavato, il giudice può sospendere l’esecuzione con ordinanza (la quale è soggetta
a reclamo). In questo caso non è necessaria la sussistenza dei gravi motivi.

SOSPENSIONE PREVISTA DIRETTAMENTE DALLA LEGGE: essa può essere disposta, ad esempio, quando
nell’espropriazione per beni indivisi debba farsi luogo alla divisione del bene. In questo caso, la sospensione
si verifica automaticamente (a differenza degli altri casi in cui deve essere disposta dal giudice con
ordinanza);
SOSPENSIONE PRONUNCIATA DAL GIUDICE INVESTITO DELL’IMPUGNAZIONE DEL TITOLO ESECUTIVO: in
questo caso sarà competente il giudice innanzi al quale è stato impugnato il titolo esecutivo. Quindi:

- Se è stata impugnata una sentenza del Tribunale, sarà competente la Corte d’Appello;
- Nell’ipotesi di opposizione al decreto ingiuntivo già esecutivo, la sospensione sarà disposta dal
giudice dell’opposizione;
- Se venisse proposta la revocazione, sarà competente il giudice che ha emanato il provvedimento
impugnato;

L’unica eccezione è prevista per i casi di ricorso per cassazione: qui la sospensione andrà richiesta alla Corte
d’appello, oppure al giudice che ha pronunciato il provvedimento oggetto di ricorso.

Bisogna distinguere due ipotesi:

- Il giudice dell’impugnazione sospende l’efficacia del titolo prima dell’inizio dell’esecuzione, ma il


creditore, nonostante ciò, procede comunque alla notifica del titolo esecutivo e del precetto e poi
al pignoramento. In questo caso, il debitore dovrà proporre opposizione, facendo valere la carenza
del titolo esecutivo. L’accoglimento dell’opposizione farà venir meno tutti gli atti esecutivi posti in
essere prima della sospensione del processo;
- Il giudice dell’impugnazione sospende il processo esecutivo già pendente. In questo caso, il giudice
dovrà prendere atto dell’avvenuta sospensione, ma gli atti compiuti prima della stessa resteranno
in vita, in attesa di conoscere l’esito dell’impugnazione del titolo esecutivo.

SOSPENSIONE DISPOSTA DAL GIUDICE COMPETENTE A CONOSCERE DELL’OPPOSIZIONE AL PRECETTO: il


giudice dell’opposizione a precetto, può disporre la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo
impugnato (la quale può essere anche parziale, qualora il diritto del creditore sia contestato solo in parte).
Egli, però, non potrà anche disporre la sospensione del processo esecutivo non ancora iniziato.

SOSPENSIONE CONCORDATA: in questo caso è necessario l’accordo di tutti i creditori muniti di titolo
esecutivo, che presentano un’istanza di sospensione cumulativa, oppure più istanze singole rivolte al
giudice dell’esecuzione. Egli, comunque, non sarà vincolato a disporre la sospensione, potendola anche
rifiutare.

Dopo 10 giorni dal deposito dell’istanza del creditore, il giudice fissa con decreto un’udienza, nella quale
verranno sentite le parti in contraddittorio e al termine della quale si deciderà con ordinanza (revocabile,
anche su richiesta di uno solo dei creditori).

La durata della sospensione, fermo restando il limite massimo di 24 masi, è rimessa alla scelta del giudice.

Se la parte interessata non procede alla riassunzione del processo esecutivo entro 10 giorni dalla scadenza
del termine finale fissato dal giudice, il processo si estingue.

L’ESTINZIONE DEL PROCESSO ESECUTIVO

In generale, il processo esecutivo si conclude una volta raggiunta la soddisfazione del creditore (o dei
creditori, procedenti o intervenuti). Tuttavia, può accadere che il processo si concluda in modo anomalo, e
così non giunga nemmeno al soddisfacimento dei creditori stessi.

L’estinzione del processo può avvenire per:

- Rinuncia agli atti: la quale deve provenire da parte dei creditori e non è richiesta l’accettazione del
debitore. Se la rinuncia interviene prima della vendita o dell’assegnazione, essa deve provenire dal
creditore pignorante e da quelli intervenuti purchè muniti di titolo esecutivo. Se, invece, la rinuncia
interviene dopo, tutti i creditori devono rinunciare agli atti, e così anche coloro che sono
intervenuti pur privi di titolo esecutivo (dato che in questa seconda fase tutti i creditori sono
equiparati, in quanto tutti hanno diritto di soddisfarsi sul ricavato della vendita o della
assegnazione). Le spese del giudizio estinto saranno poste a carico del rinunciante;
- Inattività delle parti: l’estinzione si verifica in tutti quei casi nei quali si prevede che le parti
debbano compiere determinate attività entro termini perentori. Ad esempio, in caso di mancata
comparizione all’udienza: si prevede, infatti, che se nessuna delle parti si presenta all’udienza, il
giudice ne fissa una successiva. La mancata partecipazione anche a questa seconda udienza
determinerà l’estinzione del processo (che verrà dichiarata dal giudice con ordinanza). Contro
l’ordinanza, è ammesso il reclamo al Collegio, il quale deciderà con sentenza appellabile secondo le
regole generali.
Le spese del giudizio estinto saranno poste a carico delle parti che le hanno anticipate;

Dall’estinzione del processo esecutivo derivano vari effetti come, ad esempio, la cancellazione del
pignoramento, la quale verrà disposta con ordinanza.

Altri effetti, invece, dipendono dallo stadio in cui si trovava il processo esecutivo estinto. Ad esempio:

- Se non è già stata effettuata l’assegnazione dei beni pignorati, questi andranno restituiti liberi da
vincoli al debitore;
- Al contrario, se è già stata effettuata l’assegnazione dei beni pignorati, questi resteranno
comunque di proprietà dell’acquirente o del creditore assegnatario. Al debitore verrà consegnata la
somma ricavata dalla vendita;

E’ stata introdotta la c.d. chiusura anticipata del processo esecutivo, la quale prevede che il giudice possa
disporre la chiusura anticipata del processo, qualora risulti, nel corso dello stesso, che non sia più possibile
conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori. Essa viene pronunciata con un
provvedimento impugnabile con opposizione agli atti esecutivi.

LA SUCCESSIONE NEL PROCESSO ESECUTIVO

Durante la pendenza del processo esecutivo, è possibile che si verifichi un mutamento del soggetto del
creditore o del debitore.

Bisogna distinguere se la successione interviene sul:

- Lato attivo del rapporto (creditore): i successori a titolo universale (eredi) del creditore possono
proseguire il processo esecutivo da questi intrapreso. Analogo discorso vale anche per il successore
a titolo particolare (cioè, colui che ha acquistato il diritto del creditore durante la pendenza del
processo esecutivo);
- Lato passivo del rapporto (debitore): il processo esecutivo potrà essere proseguito nei confronti
dei successori del debitore. La successione processuale presuppone il “venir meno della parte” (la
sua morte, nel caso di persona fisica) il che determinerà l’interruzione del processo, al fine di
consentire che il contraddittorio venga ripristinato nei confronti di quei soggetti rispetto ai quali la
sentenza dovrà avere effetto.
Tuttavia, l’interruzione non ricorre quando l’evento morte si verifichi nel corso del processo
esecutivo.. Di conseguenza, se nel corso del processo verrà reso noto il “venir meno del debitore”,
il processo proseguirà nei confronti dei successori universali, senza alcuna interruzione. Se, invece,
di tale evento non venisse data notizia, il processo esecutivo proseguirà nei confronti del debitore
originario e porterà alla soddisfazione dei creditori (senza che ciò possa determinare alcun vizio).
CAPITOLO 22

ESECUZIONE FORZATA E LE VARIE PARENTESI COGNITIVE DI OPPOSIZIONE

L’OPPOSIZIONE ALL’ESECUZIONE EX ART. 615

Con l’opposizione all’esecuzione il debitore esecutato contesta il diritto della controparte (creditore) di
procedere ad esecuzione forzata nei suoi confronti. Essa può avere ad oggetto l’esistenza del titolo
esecutivo, ma non può tornare sul merito del contenuto del provvedimento che si è ormai formato.

Bisogna distinguere due tipi di opposizione:

- Opposizione al precetto (preventiva): se proposta prima che il processo sia iniziato. Essa si propone
con atto di citazione al giudice competente;
- Opposizione all’esecuzione (oppure opposizione al pignoramento): se sia proposta dopo l’inizio del
processo esecutivo. Essa si propone con ricorso al giudice dell’esecuzione, il quale fisserà con
decreto l’udienza per la comparizione delle parti davanti a se;

Essa non è ammissibile se proposta dopo che sia stata disposta la vendita o l’assegnazione dei beni
pignorati, salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti, oppure se l’opponente dimostri di non aver potuto
proporla tempestivamente per causa a lui non imputabile.

L’esecuzione si può contestare per:

- Inesistenza o inefficacia del titolo esecutivo;


- Inesistenza del diritto vantato dal creditore procedente;
- Impignorabilità del bene oggetto di esecuzione;

Il giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti, stabilendo un termine perentorio entro il
quale l’istante deve notificare sia il ricorso che il decreto. Il giudizio che fa seguito all’opposizione
all’esecuzione si configura come un vero e proprio giudizio di cognizione (nel quale il creditore assume la
veste sostanziale di “convenuto”).

Il procedimento da seguire in caso di opposizione, si distingue a seconda che si tratti di:

OPPOSIZIONE PREVENTIVA (AL PRECETTO): Se l’opposizione all’esecuzione è stata proposta prima


dell’inizio dell’esecuzione, Il debitore, dopo aver ricevuto la notifica del precetto e del titolo esecutivo,
contesta il diritto del creditore a procedere nei suoi confronti.

Dunque, se l’esecuzione non è ancora iniziata, il debitore deve proporre opposizione al precetto. Essa si
propone con atto di citazione da notificare al creditore procedente. Apre, in tal modo, un procedimento
incidentale rispetto al procedimento esecutivo.

Il giudice, su istanza di parte e qualora lo ritenga necessario per la sussistenza di gravi motivi, potrà
sospendere l’efficacia esecutiva del precetto. La sospensione viene ammessa con ordinanza reclamabile.

La competenza per valore spetta al Giudice di Pace (se l’opposizione ha un valore inferiore a 5mila euro),
oppure al Tribunale, se l’opposizione ha un valore maggiore. Invece, la competenza per territorio spetta al
giudice del luogo dell’esecuzione.

L’opposizione preventiva può essere esperita dal momento della notifica del precetto, fino a quando viene
realizzato il primo atto esecutivo (il pignoramento).
OPPOSIZIONE SUCCESSIVA: Qualora, invece, l’esecuzione forzata fosse in corso, l’opposizione si propone
con ricorso, da depositare presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione. Il giudice, con decreto, fissa
l’udienza di comparizione delle parti e il termine per la notifica del ricorso e del decreto.

Durante tale udienza, il giudice, con ordinanza, decide anche sull’eventuale sospensione dell’esecuzione, la
quale può essere disposta se sussistono gravi motivi.

La sentenza con cui viene decisa la causa può essere di:

- Accoglimento dell’opposizione: viene in questo modo impedita la prosecuzione del processo


esecutivo e caducati gli effetti degli atti già compiuti. Inoltre, tale sentenza ha un’efficacia
“preclusiva”, in quanto rende:
• Impignorabile il bene che ne era stato oggetto (il processo di espropriazione può
continuare solo sugli altri beni sottoposti ad esecuzione);
• Inefficace il titolo esecutivo (l’esecuzione non potrà più proseguire, ma il creditore potrà
instaurare un nuovo processo esecutivo sulla base di un nuovo titolo che egli si procuri);
• Inesistente il credito vantato (il creditore non potrà procedere ad una nuova esecuzione);
- Rigetto dell’opposizione: quando il giudice afferma l’esistenza del credito;

Il giudizio di opposizione è un giudizio ordinario di cognizione, pertanto la sentenza sarà impugnabile con i
classici mezzi di impugnazione previsti contro le sentenze.

L’opposizione tardiva, cioè quella proposta oltre il termine assegnato dal giudice, è inammissibile.

L’OPPOSIZIONE AGLI ATTI ESECUTIVI

L’opposizione agli atti esecutivi è il procedimento con il quale si possono far valere le irregolarità degli atti
esecutivi. Lo scopo è quello di promuovere un controllo sulla legittimità dell’atto e determinare
l’annullamento dell’atto viziato.

Sono “atti esecutivi” sia gli atti di parte che quelli del giudice, emessi nell’ambito del processo esecutivo.

L’opposizione agli atti esecutivi può essere proposta dal: debitore esecutato, dal terzo proprietario o dal
destinatario dell’atto esecutivo. Anche il creditore può proporre opposizione, quando l’atto esecutivo
irregolare produce un danno a suo carico (ad esempio, l’ordinanza di conversione del pignoramento).

Il titolo esecutivo ed il precetto possono essere impugnati con l’opposizione agli atti esecutivi quando sono
irregolari (ad esempio, manca la procura nel precetto presentato dal rappresentante legale, oppure manca
la formula esecutiva nel titolo esecutivo). L’irregolarità consiste nella difformità rispetto alla forma degli atti
(i quali non hanno i requisiti previsti a pena di nullità dell’atto stesso). Invece, tutti gli altri atti esecutivi,
possono essere impugnati con tale opposizione, non solo in caso di irregolarità, ma anche nei casi di
illegittimità dello stesso.

L’opposizione agli atti esecutivi viene proposta quando il debitore ritiene che non siano corrette le modalità
con cui è stata introdotta l’esecuzione (ad esempio, in riferimento alla notifica del precetto o del titolo
esecutivo). Se, invece, le sue contestazioni hanno ad oggetto il diritto del creditore a procedere ad
esecuzione, dovrà effettuare l’opposizione all’esecuzione.

A seguito dell’opposizione agli atti esecutivi si instaura un giudizio ordinario.


Il procedimento di opposizione agli atti esecutivi è un vero e proprio giudizio di cognizione. Esso si
introduce in modo diverso a seconda che abbia ad oggetto:

- Irregolarità del titolo esecutivo o del precetto: l’opposizione si propone con atto di citazione, entro
20 giorni dalla notifica del titolo esecutivo o del precetto;
- Irregolarità degli altri atti dell’esecuzione e della notificazione del titolo esecutivo o del precetto:
l’opposizione si propone con ricorso al giudice dell'esecuzione, entro 20 giorni dal primo atto di
esecuzione. Il Giudice fissa con decreto la data per l’udienza di comparizione. A tale udienza, il
giudice stabilisce un termine entro il quale la parte interessata dovrà iscrivere a ruolo ed introdurre
la causa di merito. L’atto introduttivo della causa di merito avrà la forma dell’atto di citazione o del
ricorso a seconda del rito con cui l’opposizione deve essere trattata (rito ordinario o rito del lavoro);

L’opposizione tardiva (proposta oltre i 20 giorni) è inammissibile.

L’accoglimento dell’opposizione potrà, a seconda dei casi, condurre alla chiusura del processo esecutivo (se
il vizio denunciato è insanabile), oppure alla sua prosecuzione previa rinnovazione dell’atto viziato (e di tutti
i successivi atti già compiuti e da quello dipendenti).

L’OPPOSIZIONE DEL TERZO

Alcune volte è possibile che, durante il procedimento esecutivo, vengano assoggettati a pignoramento beni
appartenenti ad un terzo, i quali erano stati erroneamente ritenuti di appartenenza del debitore.

In tali casi, il terzo (il quale non è parte del processo esecutivo), può far valere la sua pretesa di proprietà o
di altro diritto reale sul bene oggetto di pignoramento tramite la c.d. opposizione del terzo. Essa va
proposta con ricorso al giudice dell’esecuzione, in modo da instaurare un giudizio di cognizione nel quale
saranno litisconsorti necessari: il creditore, gli eventuali creditori intervenuti e muniti di un titolo esecutivo,
e il debitore.

L’opposizione di terzo da luogo ad un processo ordinario di cognizione in cui il terzo opponente, non
essendo parte del processo esecutivo, è legittimato a far valere il proprio diritto reale sul bene, ma non ad
eccepire i vizi della relativa procedura. Con questo mezzo processuale il terzo chiede l’arresto
dell’esecuzione, mirando ad ottenere la separazione dei suoi beni da quelli pignorati.

Ciò che viene posto in discussione non è il rapporto processuale, bensì l’oggetto dell’esecuzione.

Se l’opposizione del terzo viene accolta, bisogna distinguere due ipotesi:

- Se il procedimento esecutivo era basato sul pignoramento di quell’unico bene, si concluderà ed il


creditore potrà solo iniziarne un altro;
- Se, invece, i beni pignorati erano vari, il processo esecutivo potrà proseguire anche dopo
l’accoglimento dell’opposizione, ma solo sui beni sui quali il terzo non ha fatto valere un suo diritto;

Il diritto vantato dal terzo può consistere in un diritto di proprietà, diritto di godimento (usufrutto, uso,
abitazione, servitù) su cosa altrui, un diritto di pegno.

L’opposizione può essere proposta dal momento in cui il bene viene colpito dal pignoramento. Bisogna
distinguere se si tratta di:

- Opposizione tempestiva: se proposta prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione del bene;
- Opposizione tardiva: se proposta in un momento successivo o quando, seppure proposta prima
della vendita, il giudice non sospende il relativo giudizio. In tal caso i diritti del terzo si potranno far
valere solo sulla somma ricavata, fino al momento in cui essa non sia distribuita tra i creditori (ciò
può verificarsi solo con riguardo alle cose mobili, in quanto a seguito della vendita forzata dei beni
mobili, il diritto del terzo si estingue. Sempre che l’aggiudicatario abbia effettuato il suo acquisto in
buona fede. Invece, in caso di beni immobili, il terzo può tutelare il suo diritto solo con un’azione di
rivendicazione);

La sentenza che decide sull’opposizione di terzo non incide sul diritto vantato dal creditore, ma riguarda
solo l’assoggettabilità o meno dei beni al pignoramento. Il giudice, dunque, procederà solo
all’accertamento del diritto del terzo in via incidentale.

Se il giudice dichiara inammissibile, improcedibile o rigetta la domanda, condanna l’opponente al


pagamento di una pena pecuniaria (di 2 euro).

Inoltre, va specificato che l’opposizione del terzo può proporsi solo nei casi di espropriazione. Restano
invece esclusi i casi di esecuzione in forma specifica (in quanto in questi casi si tratta di un procedimento
ben determinato, che non lascia margini di errore). Nell’esecuzione in forma specifica, infatti, i danni che si
potrebbero verificare nei confronti del terzo sono solo due:

- Quando già nel titolo esecutivo il diritto per cui si procede sia pregiudizievole per il terzo (in questi
casi si potrà proporre l’opposizione del terzo);
- Quando il creditore pretende di far valere nei confronti del terzo un titolo esecutivo che in realtà è
destinato a un diverso debitore (in questi casi il terzo potrà proporre l’opposizione all’esecuzione).

LE CONTESTAZIONI IN SEDE DI DISTRIBUZIONE DEL RICAVATO

In sede di distribuzione del ricavato può accadere che sorgano delle contestazioni inerenti al riparto tra
creditori concorrenti, creditore e debitore o terzo assoggettato all’espropriazione.

I soggetti legittimati a proporre le contestazioni sono:

- Debitore esecutato: il quale può opporsi in caso di credito inesistente o di ammontare superiore
(avendo egli diritto alla somma residua);
- Creditori concorrenti: essi dovranno dimostrare il loro interesse ad agire, il quale sussisterà solo se
dall’accoglimento della contestazione derivi loro un concreto vantaggio;
- Terzo assoggettato all’espropriazione;

La controversia, dunque, può riguardare:

- La sussistenza o l’ammontare del credito: legittimati a sollevare questo tipo di contestazione sono
il debitore/terzo esecutato (il quale ha interesse ad escludere dal riparto uno o più creditori, nella
speranza di incrementare il residuo che gli spetta sul ricavato dalla vendita una volta soddisfatti
tutti i creditori) ed i creditori (qualora la massa attiva sia insufficiente);
- La sussistenza di diritti di prelazione: in caso di massa insufficiente (sono legittimati a sollevare tale
contestazione solo i creditori);

Tali contestazioni possono essere proposte esclusivamente nell’udienza destinata alla distribuzione del
ricavato, con ricorso scritto o orale (indicando l’oggetto della contestazione e i motivi specifici su cui essa si
fonda). Oggetto del procedimento è il diritto a partecipare alla distribuzione del ricavato.

Il giudice dell’esecuzione provvede con ordinanza. Inoltre, con la medesima ordinanza può sospendere, in
tutto o in parte, la distribuzione della somma ricavata.

Si discute se, l’esecutato, una volta distribuito il ricavato e chiuso il procedimento esecutivo, possa esperire
la condictio indebiti contro i creditori (cioè di ottenere da questi la ripetizione di quanto percepito dalla
distribuzione del ricavato). Tuttavia, tale possibilità si ritiene preclusa, dato che l’esecutato ha la possibilità
di insorgere prima della distribuzione.

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