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LA STRUTTURA DEL PROCESSO DI COGNIZIONE

Il PROCESSO DI COGNIZIONE, che rappresenta il modello ordinario applicabile per la tutela dei diritti
soggettivi, si piò dividere in 3 fasi:

1. FASE INTRIDUTTIVA (O PREPARATORIA): che serve ad individuare l’oggetto del processo;

2. TRATTAZIONE: fase dedicata ad acquisire tutti quegli elementi di fatto e di diritto che servono
affinché il giudice possa formarsi il proprio convincimento.
All’interno della fase della trattazione si può collocare un’eventuale fase (eventuale perché non
necessariamente è se sempre presente), che è l’ISTRUZIONE PROBATORIA, la quale serve per la
raccolta dei mezzi di prova.

3. FASE DESISORIA: fase funzionale al giudice per emettere la sua decisione.

1. LA FASE INTRODUTTIVA (O PREPARATORIA)

Abbiamo già detto che il processo ordinario di cognizione è un processo che necessita dell’impulso di
parte: quindi è necessario che la parte solleciti il giudice a svolgere la sua funzione tipica che si
concretizza nello IUS DICERE.

Questo diritto di azione viene esercitato attraverso un atto, ovvero l’ATTO DI CITAZIONE, che serve,
appunto, ad INTRODURRE la causa.
L’inizio del processo, però, necessita anche che l’atto di citazione sia notificato alla controparte.

Il CONTENUTO della CITAZIONE è disciplinato all’ART. 163 C.P.C.


Secondo l’art. 163 c.p.c., l’atto di citazione deve contenere:

1) L’indicazione del Tribunale davanti al quale la domanda è proposta: infatti, quando abbiamo
parlato della competenza, abbiamo detto che la prima indicazione contenuta nell'atto di citazione,
reca l'individuazione del giudice davanti al quale si propone la causa.

2) Il nome, il cognome, la residenza è il codice fiscale dell'attore, il nome, il cognome, il codice fiscale,
la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto e delle persone che rispettivamente li
rappresentano o li assistono.
Se attore o convenuto è una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, la
citazione deve contenere la denominazione o la ditta, con l'indicazione dell'organo o ufficio che ne
ha la rappresentanza in giudizio.

3) La determinazione della cosa oggetto della domanda (cioè il petitum);

4) L'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda (cioè la causa
petendi: quindi ciò vale solo per i diritti eteroindividuati), con le relative conclusioni (cioè i concreti
provvedimenti che si chiedono al giudice).

5) l'indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi e in particolare dei
documenti che offre in comunicazione.
6) il nome e il cognome del procuratore e l'indicazione della procura (indicazione della procura alle liti,
a calce o a margine dell'atto di citazione), qualora questa sia stata già rilasciata.

7) l'indicazione del giorno dell'udienza di comparizione; l'invito al convenuto


a costituirsi nel termine di venti giorni prima dell'udienza indicata ai sensi e nelle forme stabilite
dall'articolo 166, ovvero di dieci giorni prima in caso di abbreviazione dei termini, e a comparire,
nell'udienza indicata, dinanzi al giudice designato ai sensi dell'articolo 168bis, con l'avvertimento
che la costituzione oltre i suddetti termini implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167.
(art. 38 c.p.c.: incompetenza eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, nella comparsa di
risposta; art. 167 c.p.c.: domanda riconvenzionale proposta dal convenuto, appena di decadenza,
nella comparsa di risposta).
L'atto di citazione, sottoscritto a norma dell'articolo 125 (9), è consegnato dalla parte o dal
procuratore all'ufficiale giudiziario, il quale lo notifica a norma degli articoli 137 e seguenti.

Nell’atto di citazione è possibile scomporre 2 PARTI:

A) La prima parte (da 1 a 5) allude alla c.d. EDITIO ACTIONIS: cioè serve ad individuare l’azione
esercitata.

FUNZIONE dell’editio actiones:

Dobbiamo tenere presente la distinzione tra diritti eteroindividuati e diritti autoindividuati:


perché la distinzione poggia sulla necessità o meno dell’allegazione e quindi dell’individuazione
della causa petendi, la fine di poter dire individuabile l’azione esercitata.
Quindi:

- Nel caso dei DIRITTI ETEROINDIVIDUATI, nell’atto di citazione sarà necessaria la


specificazione della causa petendi, altrimenti non saremmo in grado di capire qual è
l’azione esercitata nel caso di specie.

L’art. 163, n. 4, dispone che, oltre all'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che
costituiscono le ragioni della domanda (cioè, la causa petendi), occorre anche specificare le
conclusioni (che sono i concreti provvedimenti che si chiedono al giudice).
Ciò assolve un’importante funzione, perché il principio della domanda necessita di
rispettare anche il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (ex art.
112 c.p.c.): cioè il giudice deve formulare la decisione emettendo quei provvedimenti che
gli sono stati chiesti.

Nell’atto di citazione possiamo individuare, appunto, l’editio actionis, cioè la formulazione


dell’azione che viene esercitata nell’ambito del processo come DOMANDA GIUDIZIALE.
Dobbiamo aggiungere che questa domanda giudiziale non può essere alterata nel corso del
processo, o meglio: si può modificare solo se queste modifiche non alterano il diritto
dedotto in giudizio, cioè non comportano una modifica del diritto dedotto in giudizio.

Allora, se applichiamo questa affermazione al caso dei diritti autoindividuati, si può dire che
nel corso del processo si può modificare la causa petendi, perché questo non comporta
una modifica del diritto fatto valere.
Es.: la proprietà resta tale, a prescindere dal fatto costitutivo, che ovviamente rileverà sul
piano probatorio, ma non sul piano dell’allegazione del fatto.
Quindi, questo significa che nel corso del processo si potranno allegare altri fatti costitutivi
del diritto autoindividuato.
Inoltre, nell’art. 163, n. 5 c.p.c. compare, oltre all’indicazione dell’editio actionis,
l’indicazione specifica dei MEZZI DI PROVA dei quali l’attore intende avvalersi e, in
particolare, dei documenti che offre in comunicazione.
Questa necessità di indicare fin dall’atto di citazione i mezzi di prova, NON è posta dal
legislatore a pena di decadenza, cioè non si forma una preclusione: quindi resta aperta la
possibilità di formulare istanze istruttorie anche oltre l’atto introduttivo del giudizio.

B) La seconda parte (6 e 7), invece, prende il nome di VOCATIO IN IUS e serve a chiamare il convenuto
davanti al giudice.

FUNZIONE della vocatio in ius:

L’atto di citazione deve contenere:


- l’indicazione della procura delle parti
- e l’indicazione del giorno dell’udienza di comparizione.

Qui si esplica la funzione della vocazione in ius dell’atto di citazione, cioè l’invito al convenuto a
costituirsi 20 giorni prima dell’udienza (o 10 giorni prima dell’udienza se è stata autorizzata la
prevenzione dei termini), specificando che la costituzione tardiva implica la decadenza di cui agli
artt. 38 e 167 c.p.c.
a) art. 38 c.p.c.: incompetenza eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, nella comparsa di
risposta;
b) art. 167 c.p.c.: domanda riconvenzionale proposta dal convenuto, appena di decadenza,
nella comparsa di risposta.

à Quindi nell'atto di citazione è necessario avvertire il soggetto convenuto che ha termine per
costituirsi, se non vuole decadere dalla possibilità di compiere queste attività processuali, 20
giorni prima dell'udienza che è stata fissata.

L’atto di citazione, che deve essere sottoscritto ed è poi consegnato dalla parte o dal procuratore
all’ufficiale giudiziario, il quale provvede a notificarlo al convenuto secondo le regole contenuto
negli artt. 137 ss. c.p.c.

Il convenuto, quindi, viene citato a comparire ad udienza fissa, cioè è l’attore che indica l’udienza
alla quale il convenuto sarà tenuto a comparire.

Nel fissare questa udienza l’attore deve tenere conto della necessità di rispettare i TERMINI DI
DIFESA, cioè i termini posti dall’art. 163-bis: ovvero deve dare al convenuto la possibilità di avere a
sua disposizione un lasso di tempo adeguato per predisporre la sua difesa.
L’art. 163 bis c.p.c. stabilisce che “Della notificazione della citazione e quello dell'udienza di
comparizione, devono intercorrere termini liberi non minori:
a) di 90 giorni se il luogo della notificazione si trova in Italia;
b) e di 150 giorni se il luogo della notificazione si trova all'estero.

Però può accadere che l’attore speculi sul fatto di essere lui il soggetto che prende l’iniziativa
processuale determinando così la litispendenza (cioè, l’inizio della causa), fissando un’udienza
collocata molto in là nel tempo.
Quindi l’ordinamento prevede un meccanismo correttivo, consentendo al convenuto di chiedere
l’ANTICIPAZIONE DELL’UDIENZA.
• LA NUTTILITA’ DELLA CITAZIONE
L’ART. 164 C.P.C. offre una DISCIPLINA SPECIFICA con riferimento alla NULLITÀ DELLA CITAZIONE data
l’importanza di questo atto.
Questa disciplina offre una regolamentazione diversa a seconda che i vizi attengano:
- alla vocatio in ius;
- o all’editio actionis.

A) NULLITA’ che riguardano la VOCATIO IN IUS:

L’art. 164, CO. 1, stabilisce che LA CITAZIONE È NULLA SE:


- mancano o sono assolutamente incerte le indicazioni del tribunale davanti al quale la
domanda è proposta, le indicazioni dell'attore e del convenuto;
- manca l'indicazione della data dell'udienza di comparizione;
- se è stato indicato un termine a comparire inferiore a quello stabilito ex art. 163 bis c.p.c.
(violazione termine a comparire);
- se manca l'avvertimento che la costituzione oltre i termini implica la decadenza di cui agli
artt. 38 e 167.

Il convenuto se NON SI COSTITUISCE IN GIUDIZIO (contumace), il giudice:

- rileva la nullità della citazione;

- e ne dispone d’ufficio la rinnovazione della citazione entro un termine perentorio.


o Se la rinnovazione della citazione viene eseguita dall’attore sana i vizi.
In questo caso gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal
momento della prima notificazione: cioè, la sanatoria opera con effetto retroattivo
al momento della prima notificazione.
o Se la rinnovazione non viene eseguita dall’attore il giudice ordina la cancellazione
della causa dal ruolo ed il processo si estingue (art. 307, co. 3 c.p.c.).

Il convenuto se SI COSTITUISCE IN GIUDIZIO:

- I vizi della citazione sono sanati: cioè, se il convenuto si costituisce in giudizio senza dedurre
niente sulla validità dell’atto di citazione, restano salvi gli effetti sostanziali e processuali
della domanda fin dal momento della notificazione.
La sanatoria opera con effetto retroattivo al momento della prima notificazione.

- Deduce l’inosservanza dei termini a comparire o la mancanza dell’avvertimento ex art. 163


n. 7 c.p.p.: il giudice fissa una nuova udienza nel rispetto dei termini (il giudice istruttore, di
fronte alla deduzione del convenuto concernente l’inosservanza dei termini a comparire o la
mancanza dell’avvertimento, e dopo averne riscontrato la fondatezza, dovrà provvedere in
modo che tra la prima e la nuova udienza decorra quanto meno il termine minimo a
comparire).
Il convenuto potrà, nell’ordinario termine di 20 o 10 giorni prima della nuova udienza,
depositare altra comparsa di risposta che integri le sue difese, eccezioni e domande
riconvenzionali, nel rispetto dell’art. art. 167 c.p.c.
B) NULLITA’ riguardanti L’EDITIO ACTIONIS:

L’art. 164, CO. 4 stabilisce che LA CITAZIONE È NULLA SE:


- è omessa o assolutamente incerta la determinazione della cosa oggetto della domanda;
- se manca l’esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda (questo caso di nullità
della citazione si può verificare solo per i diritti eteroindividuati).

Il convenuto se NON SI COSTITUISCE IN GIUDIZIO (contumace), il giudice:


- rileva la nullità della citazione;
- e fissa all’attore un termine perentorio per rinnovare la citazione.
Se l’attore non provvede alla rinnovazione della citazione: vi è la cancellazione della causa
dal ruolo con la relativa estinzione (art. 307, co. 3 c.p.c.).

Il convenuto se SI COSTITUISCE IN GIUDIZIO, il giudice:


- rileva la nullità della citazione;
- fissa un termine perentorio all’attore per integrare la domanda.: quindi, in caso di
integrazione della domanda, l’attore deve depositare una memoria che contiene, appunto,
queste integrazioni.

In questo caso la sanatoria NON HA EFFICACIA RETROATTIVA: cioè, non vengono fatti salvi gli
effetti della domanda se non dal momento in cui la domanda è stata rinnovata.
Se l’attore non provvede a depositare la memoria contenente le integrazioni: il giudice chiude in
rito il processo.

• LA COMPARSA DI RISPOSTA
(comparsa di risposta= atto con il quale il convenuto si costituisce in giudizio)

All’atto di citazione corrisponde, dalla parte del soggetto convenuto, la possibilità di depositare la
comparsa di risposta.

La comparsa di risposta è l’atto con il quale il convenuto si difende rispetto all’atto di citazione
dell’attore, cioè è l’atto con il quale il convenuto può esercitare quel complesso di diritto di difesa, nel
quale si estrinsecano diverse attività (mere difese, eccezioni o formulazione di azioni: tutta questa attività
viene formalizzata all’interno della comparsa di risposta).

E, a riguardo, l’ART. 167 C.P.C. stabilisce che:

1. “Nella comparsa di risposta il convenuto deve:


- proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento
della domanda;
- indicare le proprie generalità e il codice fiscale;
- indicare i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in comunicazione;
- formulare le conclusioni.

2. A pena di decadenza deve proporre le eventuali DOMANDE RICONVENZIONALI e le ECCEZIONI


processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio.
Se è omesso o risulta assolutamente incerto l'oggetto o il titolo della domanda riconvenzionale, il
giudice, rilevata la nullità, fissa al convenuto un termine perentorio per integrarla.
Restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti acquisiti anteriormente alla integrazione.
3. Se intende chiamare un terzo in causa, deve farne dichiarazione nella stessa comparsa di risposta
e provvedere ai sensi dell'articolo 269 (che è quella norma consente lo spostamento dell'udienza al
fine di consentire al terzo di costituirsi.

à Quindi, con riferimento al CONVENUTO della comparsa di risposta, il convenuto sa, perché glielo ha
detto l'attore nell'atto di citazione, che deve necessariamente, a pena di decadenza, compiere alcune
attività.
Tra queste attività vi è:
a) la proposizione di eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio;
b) e la formulazione di domanda riconvenzionale.
c) Inoltre la norma impone anche al convenuto di esplicare la sua volontà di chiamare il terzo in
causa.

Il legislatore si è preoccupato di richiamare, con riferimento alla domanda riconvenzionale, il contenuto


dell’art. 164 c.p.c. in relazione alla possibilità che la stessa domanda riconvenzionale abbia delle nullità,
che ovviamente si riferiscono alle nullità dell’editio actionis (non possono essere quelle che riguardano la
vocatio in ius, perché la domanda è formulata nei confronti di un soggetto che è già presente nel processo:
ed ecco perché la disciplina fa riferimento alla necessità, nel caso in cui si è incerto l'oggetto o il titolo della
domanda riconvenzionale, che il convenuto provveda ad integrarla)
In questo caso la sanatoria non sarà retroattiva, perché incide, appunto, su quegli elementi di
identificazione dell’azione.

• COSTITUZIONE DELLE PARTI


Per quanto riguarda il CONVENUTO, l’ART. 166 C.P.C. stabilisce che:

“Il convenuto deve costituirsi a mezzo del procuratore, o personalmente nei casi consentiti dalla legge:
- almeno 20 giorni prima dell'udienza di comparizione fissata nell'atto di citazione;
- o almeno dieci giorni prima nel caso di abbreviazione di termini a norma del secondo comma
dell'articolo 163bis
- ovvero almeno venti giorni prima dell'udienza fissata a norma dell'articolo 168bis, quinto comma
depositando in cancelleria il proprio fascicolo contenente la comparsa di risposta di cui
all'articolo 167 con la copia della citazione notificata, la procura e i documenti che offre in comunicazione”.

à quindi il convenuto si deve costituire almeno 20 giorni prima dell'udienza di prima comparizione
fissata nell'atto di citazione

Per quanto riguarda, invece, l’ATTORE, secondo l’ART. 165 C.P.C.,

“L'attore:
- entro 10 giorni dalla notificazione della citazione al convenuto;
- ovvero entro cinque giorni nel caso di abbreviazione di termini a norma del secondo comma
dell'articolo 163bis,
deve costituirsi in giudizio a mezzo del procuratore, o personalmente nei casi consentiti dalla legge,
depositando in cancelleria la nota d'iscrizione a ruolo e il proprio fascicolo contenente l'originale della
citazione, la procura e i documenti offerti in comunicazione.
Se si costituisce personalmente, deve dichiarare la residenza o eleggere domicilio nel comune ove ha sede il
tribunale.
Se la citazione è notificata a più persone, l'originale della citazione deve essere inserito nel fascicolo entro
dieci giorni dall'ultima notificazione.
à Quindi l'attore si deve costituire entro 10 giorni dalla notificazione dell’atto di citazione al convenuto,
depositando la nota di iscrizione a ruolo ed il fascicolo.

L’ART. 171 C.P.C. prevede e disciplina il caso in cui LE PARTI NON SI COSTITUISCONO IN GIUDIZIO,
secondo il quale:

1. “Se nessuna delle parti si costituisce nei termini stabiliti (165 e 166) si applicano le disposizioni
dell'articolo 307, 1° e 2° comma.

à L’art. 307 è la norma che disciplina l’estinzione del processo per inattività delle parti.

2. Se una delle parti si è costituita entro il termine rispettivamente a lei assegnato, l'altra parte può
costituirsi successivamente fino alla prima udienza, ma restano ferme per il convenuto le
decadenze di cui all'articolo 167.

à Questo significa che il convenuto potrà costituirsi all'udienza fissata depositando, In


quell'occasione, il proprio fascicolo.
Il convenuto, se dovesse fare così, vuol dire che non ha né eccezioni e né domande da formulare
nei confronti dell'attore, ma potrà limitarsi a formulare solo delle mere difese o eccezioni che non
siano riservate alla parte, ma che siano anche rilevabili d'ufficio.

3. La parte che non si costituisce neppure in tale udienza è dichiarata contumace con ordinanza del
giudice istruttore, salva la disposizione dell'articolo 291.

à La dichiarazione di contumacia presuppone l'applicazione al procedimento di alcune norme


che offrono la disciplina di alcune fattispecie processuali, nelle quali, appunto, si deve provvedere
ma compiere alcuni atti nei confronti nel soggetto contumace (cioè del soggetto che non si è
costituito).
La norma fa salvo l’art. 291, secondo il quale “Se il convenuto non si costituisce e il giudice
istruttore rileva un vizio che importi nullità nella notificazione della citazione, fissa all'attore
un termine perentorio per rinnovarla (cioè per rinnovare non l'atto di citazione, ma per rinnovare
la notificazione dell'atto di citazione). La rinnovazione impedisce ogni decadenza”.

L’ART. 168 C.P.C., inoltre, stabilisce che:

“All'atto della costituzione dell'attore o, se questi non si è costituito, all'atto della costituzione del
convenuto, su presentazione della nota d'iscrizione a ruolo, il cancelliere iscrive la causa nel ruolo
generale.

à è un libro nel quale compaiono tutte le cause iscritte ed alle quali viene assegnato un numero, che è il
numero di ruolo generale.

Contemporaneamente il cancelliere forma il fascicolo d'ufficio, nel quale inserisce la nota di iscrizione a
ruolo, copia dell'atto di citazione, delle comparse e delle memorie in carta non bollata, e successivamente,
i processi verbali di udienza, i provvedimenti del giudice, gli atti d'istruzione e la copia del dispositivo delle
sentenze.”

à Cioè, il cancellerie forma il fascicolo d’ufficio, il quale conterrà tutti gli atti che le parti si sono
scambiate, tutti i provvedimenti del giudice, tutti i documenti che le parti avranno depositato, tutti i
processi verbali nei quali si darà conto di quello che è accaduto nel corso delle udienze.
L’ART. 168-BIS C.P.C. stabilisce che:

1. Formato un fascicolo d'ufficio a norma dell'articolo precedente, il cancelliere lo presenta al


presidente del tribunale, il quale, con decreto scritto in calce della nota d'iscrizione a ruolo, designa
il giudice istruttore davanti al quale le parti debbono comparire, se non creda di procedere egli
stesso all'istruzione. Nei tribunali divisi in più sezioni il presidente assegna la causa ad una di esse, e
il presidente di questa provvede nelle stesse forme alla designazione del giudice istruttore.

2. La designazione del giudice istruttore deve, in ogni caso, avvenire non oltre il secondo giorno
successivo alla costituzione della parte più diligente.

3. Subito dopo la designazione del giudice istruttore il cancelliere iscrive la causa sul ruolo della
sezione, su quello del giudice istruttore e gli trasmette il fascicolo.

4. Se nel giorno fissato per la comparizione il giudice istruttore designato non tiene udienza, la
comparizione delle parti è d'ufficio rimandata all'udienza immediatamente successiva tenuta dal
giudice designato.

5. Il giudice istruttore può differire, con decreto da emettere entro 5 giorni dalla presentazione del
fascicolo, la data della prima udienza fino ad un massimo di 45 giorni.
In tal caso il cancelliere comunica alle parti costituite la nuova data della prima udienza.

àSarà questa la data a cui il convenuto dovrà far riferimento per calcolare i 20 giorni entro i quali
si deve costituire se non vuole incorrere nelle decadenze indicate dalle norme che abbiamo
esaminato.

Sappiamo che in realtà il giudice è quasi sempre monocratico.


E’ l’art. 50 bis c.p.c. che stabilisce quando il giudice deve essere in composizione collegiale.

- la regola generale è contenuta nell’art. 50 ter c.p.c., secondo il quale “fuori dei casi previsti
dall’art. 50 bis, il tribunale giudica in composizione monocratica”.

Queste cause indicate nell’art. 50 bis sono:


a) quelle nelle quali è obbligatorio l'intervento del PM;
b) quelle di opposizione;
c) quelle di impugnazione;
d) quelle di revocazione;
e) quelle di dichiarazioni tardive di fallimento;
f) quelle devolute alle sezioni specializzate;
g) quelle di omologazione del concordato fallimentare;
h) quelle di impugnazione delle deliberazioni assembleari;
i) quelle di impugnazione del testamento;
j) quelle previste nel codice del consumo
k) i procedimenti camerali salvo che sia altrimenti disposto

à si tratta di un'elencazione che non segue una ratio comune, per cui si ritiene che questi siano
casi che devono essere sottoposti ad un’interpretazione rigida e che rappresenti un’elencazione
tassativa.

L’art. 50-ter c.p.c. disciplina le cause nelle quali il Tribunale giudica in composizione monocratica.
L’art. 50-bis c.p.c. disciplina le cause nelle quali il Tribunale giudica in composizione collegiale.
• ISTRUZIONE DELLA CAUSA
Con riferimento ai poteri che ha il giudice, l’ART. 175 C.P.C. stabilisce che:

“Il giudice istruttore esercita tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento.
Egli fissa le udienze successive e i termini entro i quali le parti debbono compiere gli atti processuali”.

Questa è una norma generale che attribuisce in qualche modo dei POTERI DIRETTIVI AL GIUDICE.

2. TRATTAZIONE DELLA CAUSA

• PRIMA COMPARIZIONE DELLE PARTI E LA TRATTAZIONE DELLA CAUSA


- La trattazione della causa è ORALE;
- e della trattazione della causa SI REDIGE PROCESSO VERBALE.

L’ART. 183 C.P.C. disciplina la prima comparizione delle parti e la trattazione della causa.
Tale norma dispone che:

- il giudice, all’udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione, la prima cosa
che deve fare è verificare la REGOLARITA’ DEL CONTRADDITTORIO.

- Nel procedere a questa verifica compie una serie di accertamenti che possono obbligarlo a
pronunciare diversi provvedimenti.
Se vi sono irregolarità nel contraddittorio, il giudice pronuncerà tali provvedimenti:
a) integrazione del contraddittorio in caso di litisconsorzio necessario;
b) sanatoria della citazione/rinnovazione della citazione;
c) sanatoria della domanda riconvenzionale;
d) sanatoria di difetti di rappresentanza, assistenza e autorizzazione;
e) sanatoria dei vizi di notificazione della citazione.

Il giudice, se vi sono irregolarità nel contraddittorio, pronuncia questi provvedimenti e FISSA


UNA NUOVA UDIENZA, che sarà un’udienza di trattazione.
Lo stesso farà se deve procedere ai sensi dell’art. 185 c.p.c., che disciplina il tentativo di
conciliazione.
• TENTATIVO DI CONCILIAZIONE
Con la riforma del 1990 era stato introdotto l’interrogatorio libero delle parti, il quale aveva, tra l’altro,
anche la funzione di rendere possibile il tentativo di conciliazione ad opera del giudice.
Però i tentativi di conciliazione esercitati davanti al giudice sono stati molti pochi e quindi non si è
ottenuto quel risultato che ci si attendeva, cioè ridurre il numero delle cause pendenti, attraverso il fatto,
appunto, che le stesse si potevano concludere davanti al giudice, già conciliando.

I limiti attribuiti a questa scelta legislativa erano:


- da un lato l’obbligatorietà: cioè il fatto che comunque si trattasse di un iter processuale imposto
dal legislatore;
- e, dall’altro, il fatto che il tentativo di conciliazione fosse rimesso al giudice: cioè, allo stesso
soggetto che poi avrebbe dovuto giudicare della lite.
Soggetto che si riteneva non potesse svolgere correttamente quella funzione conciliativa che
andrebbe riconosciuta ad un soggetto diverso da quello che, in un secondo momento, sarebbe
stato chiamato a decidere la controversia.

Infatti, ad un certo punto il Tribunale di Milano, facendosi promotore di un utilizzo più moderno della
conciliazione, aveva promosso il c.d. progetto conciliamo, istituendo presso lo stesso Tribunale un organo
di conciliazione, al quale i giudici inviavano le parti nelle ipotesi in cui avessero verificato che c’era spazio
per una conciliazione, consentendo in questo modo che la conciliazione si svolgesse, non davanti al
giudice, ma davanti ad un soggetto conciliatore/mediatore.

à Tutto questo avveniva prima dell’entrata in vigore del PROVVEDIMENTO LEGISLATIVO che ha
INTRODOTTO nel nostro ordinamento la MEDIAZIONE (provvedimento del marzo 2010), che impone la
mediazione come condizione di procedibilità per una serie di controversie.
In questo caso, ovviamente, non ha più senso l’obbligo del tentativo di conciliazione davanti al giudice,
perché le parti, in realtà, avranno in un gran numero di casi, già provveduto a tentare la conciliazione.

Ciò nonostante, l’ART. 185 C.P.C. consente comunque al giudice di fissare una nuova udienza quando le
parti concordemente gli richiedono di espletare la conciliazione.

Quindi l’ART. 185 C.P.C. disciplina il TENTATIVO DI CONCILIAZIONE e stabilisce che:

1. OGGI IL TENTATIVO DI CONCILIAZIONE GIUDIZIALE (perché è un tentativo di conciliazione


endoprocessuale, che si svolge all’interno del processo) È RIMESSO AD UNA RICHIESTA
CONGIUNTA DELLE PARTI.

2. In questo caso il GIUDICE E’ TENUTO AD ORDINARE LA COMPARIZIONE PERSONALE


(rappresentanza volontaria e non tecnica perché la norma prevede la comparizione personale delle
parti) DELLE PARTI AL FINE ANCHE DI TENTARE LA CONCILIAZIONE

3. Inoltre, la norma prevede per le parti la possibilità di farsi rappresentare anche da un procuratore
speciale, quindi da un procuratore che viene nominato ad hoc per questo interrogatorio.
La norma, per altro, dice che il soggetto deve essere però a conoscenza dei fatti di causa, perché,
comunque, le mancata conoscenza potrà essere valutata come argomento di prova.
à Quindi vi è una deroga alla rappresentanza volontaria disciplinata dall’art. 77 c.p.c., rispetto alla
quale occorre che ci sia coincidenza tra piano processuale e piano sostanziale: cosa che qua,
invece, non è prevista perché, appunto, la parte può farsi rappresentare anche da un procuratore
speciale
In questo caso, L’ART. 183 C.P.C., stabilisce che:

1. Il GIUDICE ISTRUTTORE FISSA UNA NUOVA UDIENZA SE DEVE PROCEDERE, appunto, AL


TENTATIVO DI CONCILIAZIONE.

2. Nell’udienza di trattazione o in questa nuova udienza, il giudice richiede alle parti, sulla base dei
fatti allegati:
- i chiarimenti necessari;
- ed indica le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione.

à Questa è una norma molto importante perché va collegata con la necessità per il giudice di realizzare il
CONTRADDITTORIO SULLE QUESTIONI CHE IL GIUDICE STESSO RILEVA.

3. Nell’udienza di trattazione o in questa nuova udienza:

- l'ATTORE può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda
riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto.
Può altresì chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli
articoli 106 e 269, co. 3, se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto.

- Le PARTI possono precisare e modificare:


a) le domande;
b) le eccezioni;
c) e le conclusioni già formulate.

Questa parte della norma dell’art. 183, così come quella successiva, è molto importante, perché ci
aiuta a capire entro che limiti si può incidere sul contenuto della citazione nella comparsa di
risposta.
Cioè:
- fino a che punto si possono allegare nuovi fatti e nuove prove;
- e fino a che punto si possono modificare le domande che sono già state formulate.

La norma ci consente di scindere queste nuove acquisizioni in 2 tranche, cioè:

a) Quando la norma stabilisce che “l'attore può proporre domande ed eccezioni che sono
conseguenza delle domande riconvenzionali e delle eccezioni proposte dal convenuto”, si
riferisce ad un'attività che si rende necessaria a seguito della dialettica processuale, come
risposte a ciò che il convenuto ha detto (diritto di replicare a quanto compiuto dal
convenuto).

b) Ma nuove acquisizioni possono caratterizzare il c.d. ius poenitendi della parte.


A questo ius poenitendi si riferisce la norma quando stabilisce che “le parti possono
precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate”.
In questo caso la norma si riferisce alla possibilità per le parti di modificare o di precisare
domande, eccezioni e conclusioni già formulate.

1) Per quanto riguarda la PRIMA TRANCHE di attività che l’ATTORE può compiere a seguito di
come si è difeso il convenuto, come effetto della dialettica processuale, l’attore può:

- poniamo che il convenuto abbia contestato la questione pregiudiziale, l'attore


formulare domanda di accertamento incidentale;
- poniamo che l'attore abbia chiesto l'adempimento del contratto ed il convenuto
abbia eccepito la nullità del contratto, a questo punto l'attore chiedere la
riconsegna/la restituzione del bene che rappresentava la sua prestazione;

- la norma, inoltre, dice che l’attore può chiamare in causa un terzo.


Ma quando può chiamare in causa un terzo?
a) l'attore agisce in giudizio per chiedere l'adempimento di una prestazione a
Caio e Caio dice che non è lui obbligato, ma il soggetto obbligato è
Sempronio: allora da qui nascerà l'interesse per l'attore di chiamare in causa
Sempronio.
b) oppure l'attore agisce in giudizio per chiedere l'adempimento
dell'obbligazione di Caio e Caio dice che è vero che è il soggetto obbligato, ma
non sa se è obbligato perso l'attore o verso Tizio: allora in questo caso
l'attore chiama in giudizio Tizio.

- inoltre, l’attore può allegare fatti impeditivi, estintivi o modificativi del diritto fatto
valere dal convenuto con la sua domanda riconvenzionale.

à Tutte queste attività che l’attore può compiere a seguito della dialettica processuale con
il convenuto, si ritiene che possano determinare anche quello dello IUS POENITENDI di cui
alla seconda tranche, in quanto si ritiene che possa essere esercitato anche come
conseguenza della dialettica processuale, dalla quale può sorgere l’esigenza per le parti di
modificare le loro domande, le loro eccezioni e le loro conclusioni.

à Ciò che abbiamo visto con riferimento all’attore PUO’ VALERE CON IL CONVENUTO: cioè
teniamo presente che a parti contrapposte deve essere garantita la possibilità di
interloquire.

2) Per quanto riguarda invece la SECONDA TRANCHE (che abbiamo detto che può essere o non
essere agganciato alla dialettica processuale), la norma stabilisce che “le parti possono in
ogni caso precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate”.

Allora si tratta di capire che DIFFERENZA c’è tra precisare e modificare:

- La PRECISAZIONE della domanda e dell’eccezione consiste nell’allegazione di fatti


secondari.
Es.: causa per risarcimento di danni da incidente stradale: la precisazione riguarderà
l’introduzione di ulteriori modalità con le quali si è svolto l’incidente.

- Quando invece parliamo di MODIFICAZIONE:


a) della domanda, vuol dire che si allegano in giudizio nuovi fatti storici
principali, cioè nuovi e diversi elementi della fattispecie del diritto fatto
valere.
Affinché sia consentita l’allegazione di nuovi fatti storici, questa allegazione
non deve modificare il diritto fatto valere, perché non si può modificare
nell’arco del processo il diritto fatto valere.
à Quindi possiamo dire quindi che l’allegazione di nuovi fatti costitutivi sarà
sempre ammessa con riferimento ai diritti autoindividuati e con riferimento
ai diritti eteroindividuati non sarà ammissibile tutte le volte in cui questa
comporti la modificazione della causa petendi e quindi del diritto dedotto in
giudizio.
b) Quando parliamo della modificazione delle conclusioni, essa è una
conseguenza di quanto si è modificato con riferimento alla domanda o alle
eccezioni.

4. Le attività di cui abbiamo parlato fino ad adesso, sono attività che il legislatore concede vengano
formulate oralmente all’udienza.
L’art. 183 c.p.c. dice però anche che QUESTE ATTIVITA’ POSSONO ESSERE COMPIUTE CON UNA
TRATTAZIONE SCRITTA: questo però occorre che VENGA RICHIESTO AL GIUDICE, IL QUALE
ASSEGNERA’ UN TERMINE PERENTORIO PER LO SCAMBIO DI 3 ATTI:

- Il primo atto avrà ad oggetto solo le attività di cui abbiamo parlato, cioè si potrà depositare
una memoria nella quale precisare, modificare: le domande, le eccezioni e le conclusioni
già proposte.
Cioè tutto quello che può essere fatto oralmente, si può chiedere al giudice che venga fatto
oggetto di una trattazione scritta attraverso lo scambio di queste tre memorie
(30 giorni);

- La seconda memoria è mista, perché oltre a contenere le repliche alle domande e alle
eccezioni nuove modificate dall’altra parte, deve contenere l’indicazione dei mezzi di prova
e le produzioni documentali: questo rappresenta il momento in cui le parti devono
assolvere anche agli oneri probatori formulando le istanze istruttorie, perché dopo questo
momento decadono dalla possibilità di formulare queste istanze istruttorie
(30 giorni);

- L’ultimo termine per lo scambio di memorie, riguarda le sole indicazioni di prova contraria,
cioè quelle indicazioni che si possono formulare contro le istanze istruttorie formulate
dalla controparte.
(20 iorni).

5. Inoltre, la norma stabilisce che se il giudice istruttore non ritiene la causa matura per la decisione:

- Il giudice istruttore provvede sulle richieste fissando l'udienza di assunzione dei mezzi di
prova mediante ordinanza emanata fuori udienza: questa ordinanza deve essere
pronunciata entro 30 giorni;

- Il giudice istruttore dispone d'ufficio mezzi di prova con ordinanza emanata fuori dal
processo.
Ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice con
l'ordinanza stessa, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione a quelli disposti
d'ufficio dal giudice e depositare memoria di replica nell'ulteriore termine perentorio
assegnato dal giudice.

àCon ordinanza che ammette le prove il giudice può disporre, se lo ritiene utile, il libero
interrogatorio delle parti.

Se invece il giudice ritiene la causa matura per la decisione (ex art. 187) Senza bisogno di
assunzione di mezzi di prova, rimette le parti davanti al collegio
Bisogna aggiungere che chiusa la fase di trattazione in senso stretto, ULTERIORI ALLEGAZIONI sono
ammissibili solo eccezionalmente, cioè:
- nel caso di sopravvenienze di fatto o di diritti;
- o in caso di mancato funzionamento corretto del contraddittorio, per cui si deve procedere,
appunto, consentendo l’allegazione di nuovi fatti.

Con riferimento alle attività che può compiere il giudice istruttore, già abbiamo detto dell’importanza
sistematica che viene sempre più a svolgere l’art. 175 c.p.c.

• LA FORMA DEI PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE ISTRUTTORE


Vediamo che FORMA hanno i PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE.

- L’ART. 176 C.P.C. stabilisce che:

“Tutti i provvedimenti del giudice istruttore, salvo che la legge disponga altrimenti, hanno la
forma dell'ORDINANZA.
o Le ordinanze pronunciate in udienza si ritengono conosciute dalle parti presenti e da quelle
che dovevano comparirvi;
o quelle pronunciate fuori dell'udienza sono comunicate a cura del cancelliere entro i tre
giorni successivi”.

- L’ART. 177 C.P.C. stabilisce che:

“Le ordinanze, comunque motivate, non possono mai pregiudicare la decisione della causa.
Salvo quanto disposto dal seguente comma, le ordinanze possono essere sempre modificate o
revocate dal giudice che le ha pronunciate.
Non sono modificabili né revocabili dal giudice che le ha pronunciate:
o le ordinanze pronunciate sull'accordo delle parti, in materia della quale queste possono
disporre; esse sono tuttavia revocabili dal giudice istruttore o dal collegio quando vi sia
l'accordo di tutte le parti;
o le ordinanze dichiarate espressamente non impugnabili dalla legge;
o Le ordinanze per le quali la legge predisponga uno speciale mezzo di reclamo.

- L’ART. 178 C.P.C. stabilisce che:

“Le parti, senza bisogno di mezzi di impugnazione, possono proporre al collegio, quando la causa è
rimessa a questo, a norma dell'art. 189 tutte le questioni risolute dal giudice istruttore con
ordinanza revocabile.
L'ordinanza del giudice istruttore, che non operi in funzione del giudice unico, quando dichiara
l'estinzione del processo, è impugnabile dalle parti con reclamo immediato al collegio”.

Ai sensi gli ARTT. 177 E 178 C.P.C. LE ORDINANZE CHE VENGONO PRONUNCIATE DAL GIUDICE
ISTRUTTORE NON POSSONO MAI PREGIUDICARE LA DECISINE DELLA CAUSA.

Questo significa che LE PARTI POSSONO RIPROPORRE TUTTO AL COLLEGIO.


Ma:
- mentre le questioni che devono essere decise con sentenza (quindi, le questioni che riguardano il
merito della causa ed i presupposti processuali), verranno riesaminate d’ufficio dal collegio nella
fase decisoria, a prescindere dal fatto che le parti le abbiano riproposte;
- le questioni che invece non devono essere decise con sentenza (es. ammissione di un mezzo di
prova), devono essere necessariamente riproposte dalle parti affinché il collegio le prenda in
considerazione.

• CASI IN CUI IL GIUDICE RIMETTE LA CAUSA AL COLLEGIO


L’ART. 187 C.P.C. stabilisce che “il giudice istruttore, se ritiene che la causa sia matura per la decisione di
merito senza bisogno di assunzione di mezzi di prova, rimette le parti davanti al collegio”.

Questa norma si applica quando la causa è matura per la decisione.


La causa è matura per la decisione:
- quando vi è una controversia che riguarda solo l’applicazione del diritto: sui fatti le parti sono
d’accordo tra loro, si tratta di applicare a questi fatti il diritto;
- oppure può accadere che i fatti allegati dall’attore debbano essere considerati fatti pacifici,
perché non vengono contestati dal convenuto.
Ricordiamoci che l’accertamento di fatti allegati dall’attore che siano disponibili, se non contestati,
è escluso; mentre, se si tratta di diritti indisponibili, non è sufficiente che il convenuto non contesti,
affinché il fatto non debba essere provato.
Oppure può accadere che, nonostante i fatti siano contestati, siano documentalmente provati, per
cui non occorra passare attraverso la fase istruttoria.

I co. 2 e 3 dell’art. 187 c.p.c. si riferiscono alle questioni preliminari di rito e di merito.

- Il CO. 2 stabilisce che “il giudice istruttore può rimettere le parti al collegio, affinché sia decisa
separatamente una questione di merito avente carattere preliminare, solo quando la decisione di
essa può definire il giudizio”.

- Il CO. 3 stabilisce che “il giudice provvede analogamente se sorgono questioni attinente alla
giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali, ma può anche disporre che siano decise
unitamente al merito”.

Per capire questa norma dobbiamo soffermarci su una considerazione:

- il giudice dovrà accogliere la domanda quando sono sussistenti tutti gli elementi costitutivi della
fattispecie del diritto fatto valere e sono inesistenti tutti i fatti estintivi, modificativi o impeditivi:
questo è il presupposto affinché il giudice possa accogliere la domanda.

- Affinché il giudice possa rigettare la domanda è sufficiente che si che si convinca dell’inesistenza di
un elemento della fattispecie costitutiva del diritto, oppure dell’inesistenza di anche di un solo
fatto estintivo, modificativo o impeditivo: in questo caso la causa è matura per la decisione perché
per lui sarà scontato l’esito.

à Lo stesso vale con riguardo alle questioni preliminari di rito, che sono quelle questioni che devono
essere idonee a venire in giudizio (ES.: giudice che ritenga di essere incompetente: è stata sollevata
questione di incompetenza, il giudice pensa che tutto sommato l'eccezione sia fondata e dice che è inutile
che andiamo avanti, rimettiamo la decisione).

• LE ORDINANZE ANTICIPATORIE DI CONDANNA


Ci dobbiamo occupare ora di 3 provvedimenti che possono essere assunti dal giudice, che costituiscono le
c.d. ordinante anticipatorie di condanna.
Queste ordinanze sono state introdotte nel 1990 quando si è sentita la necessità di anticipare il momento
in cui si forma all’interno di un processo il titolo esecutivo.

In considerazione del solito tema della lunghezza del processo, il legislatore è intervenuto dettando
queste 3 norme, che contengono la disciplina di altrettanti provvedimenti anticipatori di condanna:
- l’art. 186-bis c.p.c.: ordinanza per il pagamento delle somme non contestate;
- l’art. 186-ter c.p.c.: istanza di ingiunzione;
- l’art. 186-quater c.p.c.: ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione.

1) ART. 186-BIS C.P.C. – ORDINANZA PER IL PAGAMENTO DELLE SOMME NON


CONTESTATE:

L’art. 186-bis c.p.c. stabilisce che “su istanza di parte, il giudice istruttore può disporre, fino al
momento della precisazione delle conclusioni, il pagamento delle somme non contestate dalle
parti costituite.

Con riferimento al provvedimento contenuto nell’art. 186-bis c.p.c.:

- l’ordinanza sarà sempre soggetta alla disciplina delle ordinanze revocabili, quindi potrà
sempre essere revocata e non comporta uno stralcio di una parte del giudizio (perché
quello che le parti hanno inizialmente contestato, potranno contestarlo in un momento
successivo e determinare così la necessità di procedere alla revoca dell'ordinanza);

- si tratta di un provvedimento che può essere pronunciato solo nei confronti delle parti
costituite.
Quindi la non contestazione non potrà evincersi dal semplice silenzio, necessitato dal
soggetto che ha deciso di restare estraneo al processo.
Allora, la non contestazione si evincerà da un sistema di difese utilizzate dalla parte, che,
in qualche modo, viene implicitamente ad ammettere di dovere almeno una parte delle
somme dovute.

- Questa ordinanza costituisce titolo esecutivo: viene pronunciata ben prima della sentenza
e vale già come titolo esecutivo e quindi è un’ordinanza anticipatoria di condanna ed il
momento utile fino alla quale si può pronunciare è la precisazione delle conclusioni.

- Inoltre, se il processo, nell’ambito del quale l’ordinanza è stata pronunciata, si dovesse


estinguere e quindi non c’è sentenza, la norma ci dice che questa ordinanza conserva la
sua efficacia.
Alcuni dicono che non sarebbe solo una preclusione la possibilità di impugnare questa
ordinanza, ma addirittura la stessa acquisterebbe l’autorità del giudicato.
2) ART. 186-TER C.P.C. – ISTANZA DI INGIUNZIONE (DI PAGAMENTO O DI CONSEGNA):

L’art. 186-ter c.p.c. richiama la possibilità di ottenere, nell’ambito del processo ordinario di
cognizione, un provvedimento che altrimenti si può ottenere attraverso un processo speciale (che
è quello disciplinato dall’art. 633 c.p.c.)
Il procedimento di ingiunzione disciplinato dall’art. 633 c.p.c. è un procedimento speciale in
quanto:

- è un procedimento molto veloce che consente di ottenere in breve tempo la formazione di


un titolo esecutivo;

- è un procedimento molto veloce perché non si svolge in contraddittorio con la


controparte, ma si svolge inaudita altera parte;

- Il contraddittorio è riservato ad una seconda fase eventuale, nella quale il destinatario


dell’ingiunzione di pagamento potrà fare opposizione al decreto;

- per poter utilizzare questo procedimento, gli artt. 633 e 634 c.p.c. pongono come
condizione di ammissibilità la prova scritta del credito fatto valere: quindi è in
procedimento che può essere utilizzato quando, a fondamento del diritto di credito fatto
valere, si producono prove scritte.

- questo provvedimento può essere chiesto fino al momento della precisazione delle
conclusioni, quindi fino al momento in cui si conclude la fase di trattazione.
La dottrina dice che l’interesse a chiedere questo provvedimento sorge nel corso del
giudizio perché, per esempio, la prova scritta è sopravvenuta in quel momento (l'attore
non ce l'aveva nel momento in cui ha assunto l'iniziativa processuale scegliendo il
procedimento ordinario di cognizione e ha scelto quel procedimento proprio perché, per
provare il diritto fatto valere, aveva bisogno di articolare delle prove costituende. Durante il
processo, sopravviene la prova scritta ed ecco che ha la possibilità di chiedere questo
provvedimento).

- Può darsi che l’iniziativa processuale non sia stata assunta dal creditore ma dal debitore
che ha agito in sede di accertamento negativo (il debitore può chiedere che venga
accertata l'assenza del vincolo che lo Lega al creditore): in questo caso, il creditore che ha
nelle sue mani la priva scritta del credito fatto valere, e che si è trovato coinvolto in un
giudizio ordinario di cognizione, potrà utilizzare quella prova scritta per ottenere il
provvedimento di cui all’art. 186-ter c.p.c.

3) ART. 186-QUATER C.P.C. – ORDINANZA SUCCESSIVA ALLA CHIUSURA


DELL’ISTRUZIONE:

Tale articolo stabilisce che:


“Esaurita all'istruzione, il giudice istruttore, su istanza della parte che ha proposto domanda di
condanna al pagamento di somme ovvero alla consegna o al rilascio di beni, può disporre con
ordinanza il pagamento ovvero la consegna o il rilascio, nei limiti per cui ritiene già raggiunta la
prova.
L’ordinanza è titolo esecutivo. Essa è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio”.
In questo caso il legislatore ha preso in considerazione i tempi, che spesso sono molto lunghi, tra:
- la fase esaurita dell’istruzione;
- ed il momento in cui viene a perfezionamento la sentenza.
Il legislatore consente, appunto, che colui che ha formulato la domanda possa chiedere la
pronuncia di questo provvedimento, che presuppone, appunto, che:
- sia stata esaurita l’istruzione;
- quindi presuppone che non ci siano da compiere ulteriori attività sul piano
dell’accertamento dei fatti.

Inoltre, la norma stabilisce che:

- “se dopo la pronuncia dell'ordinanza, il processo si estingue, l'ordinanza acquista l'efficacia


della sentenza impugnabile sull'oggetto dell'istanza”.
à Attenzione, perché l’impugnazione riguarda non quanto stabilito nel provvedimento,
ma quanto richiesto nella domanda con la quale si è formulata l’istanza per ottenere
questa ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione.

- “L'ordinanza acquista l'efficacia della sentenza impugnabile l'oggetto dell'istanza se la parte


intimata non manifesta entro 30 giorni dalla sua pronuncia in udienza o dalla
comunicazione, con ricorso notificato all'altra parte e depositato in cancelleria, la volontà
che sia pronunciata la sentenza”.
Quindi, in questo caso, il legislatore, tra l’altro, è intervenuto recentemente sul contenuto di
questa norma per rimettere alla controparte la richiesta che sia pronunciata comunque
una sentenza

Noi non trattiamo dell’istruzione, ma dobbiamo ragionare come se l’istruzione fosse esaurita:

A) TRIBUNALE GIUDICA IN COMPOSIZIONE COLLEGIALE – ART. 50-BIS C.P.C.:

- Abbiamo già interpretato l’art. 187 c.p.c., quando abbiamo visto i provvedimenti del giudice
istruttore, il quale può ritenere che la causa sia matura per la decisione di merito, senza
bisogno di assumere mezzi di prova.
à art. 187 c.p.c. = no istruttoria.

- Adesso ragioniamo ma come se fossimo, invece, davanti ad un processo nel quale si è


svolta l'istruttoria.
In questo processo l’ART. 188 C.P.C. stabilisce che: “il giudice istruttore provvede
all'assunzione dei mezzi di prova e, esaurita l'istruzione, rimette le parti al collegio per la
decisione, a norma dell’art. 189 c.p.c.”.
à art. 188 c.p.c. = si istruttoria

à Qui ragioniamo come se il processo fosse un processo di competenza del Tribunale che svolge la
sua funzione in composizione collegiale, all’interno del quale si distingue la figura del giudice
istruttore che procede all’assunzione dei mezzi di prova (casi in cui c'è un giudice istruttore che ha
svolto l'istruttoria e che, esaurita l'istruzione, rimette le parti al collegio, nel senso che si
presuppone che sia uno di quei casi in cui il tribunale giudica in composizione collegiale ex art. 50
bis c.p.c.).
• L’UDIENZA DI PRECISAZIONE DELLE CONCLUSIONI – ARTT. 189 E 190
C.P.C.
Per rimettere la causa al Tribunale collegiale, prima di tutto il giudice istruttore deve invitare le parti a
precisare le conclusioni.

Le CONCLUSIONI sono le RICHIESTE CHE LE PARTI FANNO AL COLLEGIO E CHE POSSONO AVERE AD
OGGETTO LE QUESTIONI PIU’ VARIE (possono avere ad oggetto istanze istruttorie, richieste di rito,
richieste di merito, etc.).

Questa udienza di precisazione delle conclusioni è importante perché:

- la sentenza statuisce con riferimento alla situazione di fatto e di diritto che esiste nel momento in
cui sono state precisate le conclusioni.

- è con riferimento alle conclusioni che si riesce ad individuare la parte soccombente, la quale avrà
quindi interesse ad impugnare la sentenza.

- con la precisazione delle conclusioni le parti non possono fare nuove allegazioni, non possono
produrre nuovi documenti e non possono formulare nuove istanze istruttorie, perché tutte
queste sono attività che ormai sono precluse alla parte.
Potranno semplicemente modificare le conclusioni quando ciò non comporti, appunto, nuove
allegazioni o nuove richieste istruttorie (es. potranno modificare in più o meno la somma
richiesta).

Le parti in questa sede devono riproporre al collegio tutte le questioni che sono state decise dal giudice
istruttore con ordinanza e che non devono essere riesaminate d’ufficio in sede decisoria.
Es.: se il giudice istruttore ha rigettato un’istanza istruttoria e lo ha fatto con ordinanza, le parti dovranno
riproporre al collegio la questione perché su questa questione il collegio non è tenuto a decidere d’ufficio.

Con l’udienza di precisazione delle conclusioni, la causa passa in decisione, cioè il giudice istruttorio si
spoglia di quelli che sono i suoi poteri, si spoglia della causa che viene acquisita al collegio, di fronte al
quale si svolgono le successive attività processuali.
3. LA FASE DECISORIA

• RIMESSIONE DELLA CAUSA DAVANTI AL COLLEGIO


Successive attività processuali consistono fondamentalmente nello SCAMBIO DEGLI ATTI DIFENSIVI
FINALI, che sono le comparse conclusionali e le memorie di replica.

Nelle comparse conclusionali le parti non potranno modificare le conclusioni che hanno già precisato, ma
useranno la comparsa conclusionale PER SVILUPPARE GLI ARGOMENTI POSTI A SOSTEGNO DELLE LORO
POSIZIONI PROCESSUALI: quindi per sviluppare le ragioni poste a sostegno della domanda o per
sviluppare le difese formulate dal convenuto.

- L’ART. 275 C.P.C.: prima della riforma del 1990, la discussione orale era una tappa obbligatoria del
procedimento ed in realtà essa si traduceva, quasi sempre, in un rimettersi alle conclusioni già
formulate.
Così, il legislatore, nell’art. 275 c.p.c. ha previsto che DEVONO ESSERE LE PARTI A RICHIEDERE DI
DISCUTERE ORALMENTE LA CAUSA DAVANTI AL COLLEGIO ed ha così evitato di considerare la
discussione orale una tappa obbligatoria del procedimento.
Inoltre, i termini per il deposito della sentenza presso la cancelleria del Tribunale (60 giorni) sono
dei termini semplicemente ordinatori (cioè, per la sua inosservanza, non sono previste sanzioni o
effetti sfavorevoli).

- L’ART. 276 C.P.C. si occupa della DELIBERAZIONE.


Tale articolo dispone che il “Collegio deve decidere segretamente in camera di consiglio e ad essa
possono partecipare soltanto i giudici che hanno assistito alla discussione.
La decisione è presa a maggioranza di voti.
Se intorno ad una questione si prospettano più soluzioni e non si forma la maggioranza alla prima
votazione: il presidente mette ai voti due delle soluzioni per escluderne una, quindi mette ai voti la
non esclusa e quella eventualmente restante, e così successivamente finché le soluzioni siano ridotte
a due, sulle quali avviene la votazione definitiva.
Chiusa la votazione, il presidente scrive e sottoscrive il dispositivo. la motivazione e quindi stesa dal
relatore, a meno che il presidente non creda di stenderla egli stesso affidarla all'altro giudice”
Quindi quando la sentenza non è stata stesa dal relatore è perché nel momento della
deliberazione il relatore è andato in minoranza, quindi è opportuno che la sentenza venga stesa
da uno dei giudici che si è fatto portatore della soluzione poi adottata dalla sentenza.

• MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA – ART. 118 DISP. ATT. C.P.C. E


REDAZIONE DELLA SENTENZA – ART. 119 DISP. ATT. C.P.C.
- Della MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA si occupa l’art. 118 delle disposizioni di attuazione del
Codice di procedura civile.
Tale norma è stata modificata nel 2009 perché una delle esigenze per velocizzare i processi quella
di agevolare i giudici nel momento in cui devono redigere la sentenza: ecco perché la norma è
stata modificata consentendo una “succinta” esposizione dei fatti rilevanti della causa.

- Della REDAZIONE DELLA SENTENZA si occupa l’art. 119 delle disposizioni di attuazione del Codice
di procedura civile.
Tale norma dispone che la sentenza viene sottoscritta dal Presidente e dal relatore.
à Queste norme valgono con riferimento al processo che si è svolto davanti al collegio, quindi nei casi di
cui all’art. 50-bis c.p.c.

B) TRIBUNALE GIUDICA IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA – ART. 50-TER C.P.C.

Con riferimento ai CASI in cui, invece, il TRIBUNALE GIUDICA IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA:

- L’ART. 281-QUATER C.P.C. stabilisce che: “le cause nelle quali il tribunale giudica in composizione
monocratica sono decise, con tutti i poteri del collegio, dal giudice istruttore”.

- L’ART. 281-QUINQUIES C.P.C. stabilisce che: “Il giudice, fatte precisare le conclusioni a norma
dell’art. 189, dispone lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica a norma
dell’art. 190 e, quindi, deposita la sentenza in cancelleria entro 30 giorni dalla scadenza del
termine per il deposito delle memorie di replica.

Anche in questo caso è prevista la possibilità di una discussione orale.

- L’ART. 281-SEXTIES C.P.C. stabilisce che “la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da
parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria”.

• FORMA DEI PROVVEDIMENTI DEL COLLEGIO – ORDINANZA


Vediamo QUALI SONO I PROVVEDIMENTI CHE IL COLLEGIO PUÒ ASSUMERE IN SEDE DI DECISIONE.

L’ART. 279, CO. 1 C.P.C. stabilisce che


“il collegio pronuncia ordinanza:
1. quando provvede soltanto su questioni relative all'istruzione della causa, senza definire il giudizio;
2. e quando decide soltanto questioni di competenza”.

La prima parte dell’art. 279 c.p.c. si riferisce ai provvedimenti che abbiamo ad oggetto l’istruttoria della
causa e, in questi casi, il provvedimento ha la forma dell’ORDINANZA.

- Quando il collegio pronuncia ORDINANZA SU QUESTIONI RELATIVE ALL’ISTRUZIONE, la causa


torna in fase di trattazione: il che significa che occorrerà una nuova udienza di precisazione delle
conclusioni.
Ad es.: il Collegio andrà di contrario avviso sull’ammissione di un mezzo istruttorio che era stato
negato dal giudice istruttore. Il collegio dirà: doveva essere ammesso quel mezzo di prova e quindi
pronuncia un’ordinanza istruttoria e a quel punto la causa torna nella fase di trattazione.
Tornando nella fase di trattazione sarà necessario quell’ulteriore precisazione delle conclusioni, che
rappresenta il passaggio della fase di trattazione alla fase decisoria.

- Quando il collegio pronuncia ORDINANZA SU QUESTIONI DI COMPETENZA, il legislatore si è


adeguato alle ultime novità legislative che, come abbiamo visto, fanno le decisioni della
competenza oggetto di provvedimenti che hanno la forma dell'ordinanza, ma che, peraltro,
tradiscono dal punto di vista del contenuto, il loro essere equiparabili ad una sentenza.
• RINNOVAZIONE DI PROVE DAVANTI AL COLLEGIO
Un ulteriore possibile contenuto delle ordinanze istruttore pronunciate dal collegio è quello di cui all’ART.
281 C.P.C., secondo il quale “quando ne ravvisa la necessità, il collegio, anche d'ufficio, può disporre la
riassunzione davanti a sé di uno o più mezzi di prova”,

In questo caso il collegio è incerto sulla valutazione o il contenuto dei mezzi di prova che sono stati
acquisiti dal giudice istruttore ed ordina la ripetizione/riassunzione del mezzo di prova davanti a sé.

È una norma che difficilmente trova applicazione.

In questo caso LA CAUSA NON TORNA IN ISTRUTTORIA e quindi, la differenza rispetto al caso in cui ci
siamo occupati prima, è che QUI NON SARA’ NECESSARIA UN’ULTERIORE UDIENZA DI PRECISAZIONE
DELLE CONCLUSIONI.

• FORMA DEI PROVVEDIMENTI DEL COLLEGIO – SENTENZA – 5 CASI


TASSATIVI
I CASI in cui il GIUDICE DEVE PRONUNCIARSI con SENTENZA sono quelli INDICATI nel CO. 2 DELL’ART. 279
C.P.C.

I casi tassativamente previsti sono:

- Il giudice definisce (cioè conclude) il giudizio decidendo:


1) questioni di giurisdizione;
2) questioni preliminari di rito o di merito;
3) totalmente il merito.

- Il giudice decidendo alcune delle questioni sopra indicate, non definisce (cioè non conclude) il
giudizio ed impartisce distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa: SENTENZE
NON DEFINITIVE DI RITO E DI MERITO.

• FORMA DEI PROVVEDIMENTI DEL COLLEGIO – ORDINANZA VS.


SENTENZA
Che differenza c’è tra ordinanza e sentenza?

- Quando il giudice pronuncia un’ORDINANZA: non si spoglia del potere di ritornare su quanto ha
costituito oggetto del suo provvedimento.

- Quanto, invece, il giudice pronuncia sulla questione SENTENZA: il giudice perde il potere di tornare
su quanto ha lui deciso con la sentenza.
La decisione potrà essere messa in discussione solo in quanto attaccata con i mezzi di
impugnazione.
Quando il collegio si pronuncia con sentenza, il collegio non potrà più ritornare sull’oggetto su cui
si è pronunciato: tale facoltà spetterà solo al giudice d’appello.
Il giudice non è libero nell’adottare la forma del provvedimento, perché la scelta è stata già fatta dal
legislatore.

Però può succedere che il giudice sbagli (es: ammetta un mezzo di prova con la sentenza invece che con il
provvedimento dell’ordinanza): in questo caso, il regime del provvedimento non dipende dalla forma in
concreto scelta dal giudice, ma dalla forma che in astratto il provvedimento avrebbe dovuto avere.
Cioè, non è che siccome il provvedimento ammissivo della prova è stato assunto con sentenza, quel
provvedimento sarà impugnabile come sono impugnabili le sentenze: il regime sarà quello dell’ordinanza
revocabile dal giudice che l’ha pronunciata.

à Quindi vale un PRINCIPIO DI PREVALENZA DELLA SOSTANZA SULLA FORMA.

Però la regola generale è che IL GIUDICE SI PRONUNCIA CON ORDINANZA TUTTE LE VOLTE IN CUI LA
LEGGE NON GLI IMPONGA DI PRONUNCIARSI CON SENTENZA.

• SENTENZE DEFINITIVE DI RITO – NEL CASO DI: GIURISDIZIONE O


QUESTIONI PRELIMINARI DI RITO

Abbiamo detto che, secondo l’ART. 279, CO. 2 C.P.C., I CASI in cui il GIUDICE DEVE PRONUNCIARSI con
SENTENZA sono:

- Il giudice definisce (cioè conclude) il giudizio decidendo:


1. questioni di giurisdizione;
2. questioni preliminari di rito o di merito;
3. totalmente il merito.

- Il giudice decidendo alcune delle questioni sopra indicate, non definisce (cioè non conclude) il
giudizio ed impartisce distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa: SENTENZE
NON DEFINITIVE DI RITO E DI MERITO.

Il N. 1 e la PRIMA PARTE DEL N. 2 si riferiscono alle SENTENZE DEFINITIVE DI RITO: quando il giudice
definisce il giudizio decidendo questioni di giurisdizione allude al caso in cui il giudice dichiara di non
avere giurisdizione per la causa che è sottoposta al suo esame e questo comporta la definizione
(conclusione) del giudizio.

Il giudizio può essere definito (concluso) quando il giudice decide di questioni pregiudiziali attinenti al
processo (=QUESTIONI PRELIMINARI DI RITO): se il giudice si pronuncia, per esempio, sull’assenza delle
condizioni dell’azione, definisce (conclude) il processo decidendo, appunto, di questioni che attengono il
rito.
• SENTENZA DEFINITIVA DI MERITO
La SENTENZA DEFINITIVA DI MERITO è prevista nella SECONDA PARTE DEL N. 2, quando si allude al fatto
che il giudice definisce il giudizio decidendo questioni preliminari di merito o quando il giudice definisce
il giudizio decidendo totalmente il merito.

Qui la terminologia del legislatore non è del tutto corretta perché il N. 2 si riferisce alle preliminari di
merito.

Allora, è evidente che quando il giudice definisce il giudizio, in accoglimento, per esempio, di una
questione preliminare di merito quale la prescrizione, il giudice definisce totalmente il merito (è vero che
andrà a verificare se il diritto effettivamente sia mai esistito; ma, decidendo che comunque quel diritto si è
prescritto, decide totalmente il merito e quindi questa pronuncia viene ad equivalere a quella di cui al
numero 3 che allude al caso in cui il giudice definisce il giudizio decidendo totalmente il merito perché, per
esempio, dichiara che il diritto fatto valere non esiste).

• SENTENZE NON DEFINITIVE DI RITO O DI MERITO


Nel N. 4, il legislatore si riferisce al caso delle SENTENZE NON DEFINITIVE DI RITO E DI MERITO, che
devono essere ricollegata alle preliminari di rito e di merito.

In che senso devono essere ricollegate?

Facciamo l’esempio di prima: il giudice rimette la decisione al collegio su una questione preliminare di
merito, per esempio sulla questione di prescrizione.
Quando rimette la questione è perché è convinto che quella questione si in grado di definire il giudizio,
quindi sia fondata.
In sede decisoria, si rende conto che la questione non è fondata: a questo punto succede che pronuncia
una sentenza non definitiva nella quale dirà che non c’è stata prescrizione, ma nello stesso tempo deve
fissare con ordinanza la prosecuzione del processo, perché, a questo punto, l’istruttoria non si è svolta
per verificare se effettivamente il diritto esisteva o meno e quindi è necessario che vi sia l’istruttoria.
A questo punto avremo una sentenza non definitiva sulla questione di merito ed un ulteriore
provvedimento con il quale si dispone che avvenga l’istruttoria.

Ora: il soggetto che si è visto respingere l’eccezione di prescrizione è, rispetto alla sentenza non
definitiva, un soggetto soccombente perché si è visto non accolta la propria eccezione.
Teniamo presente che queste questioni preliminari di rito e di merito sono questioni che non hanno
l’idoneità ad essere oggetto autonomo del processo (non possiamo istaurare un processo per chiedere solo
l’accertamento sull’intervenuta prescrizione).

Da questo punto di vista, il fatto di risultare soccombenti rispetto a queste questioni, fa sì che si parli di una
soccombenza meramente teorica, perché questa soccombenza RIGUARDA SOLO LA QUESTIONE
PRELIMINARE DI RITO O DI MERITO.

Perché è una soccombenza meramente teorica?

Tornando al caso che abbiamo fatto: sollevata l’eccezione di prescrizione, essa costituisce una questione
preliminare di merito. Il giudice pensa che questa questione sia idonea a definire (concludere) il giudizio, la
rimette indecisione e in quella sede ci si rende conto che la questione non è fondata: viene pronunciata
una sentenza non definitiva che dice che il diritto non si è prescritto.
A quel punto, però, si svolgerà un’istruttoria per accertare se effettivamente il diritto è venuto ad
esistenza e nulla esclude che quel processo si concluda con una sentenza che dica che il diritto non è mai
venuto ad esistenza, quindi una sentenza che assorbe in qualche modo il pregiudizio causato al
convenuto dall’essere risultato soccombente sulla questione preliminare di merito rappresentata dalla
prescrizione.

Ripetiamo: ci stiamo occupando delle sentenze non definitive. Queste sentenze non definitive possono
essere sentenze non definitive di rito, oppure sentenze non definitive di merito.
Abbiamo utilizzato l’esempio di una sentenza non definitiva di merito, pronunciata quindi su una
questione preliminare di merito quale può essere l’eccezione di prescrizione sollevata dal convenuto.
Che cosa accade: accade che il giudice abbia rimesso la questione preliminare di merito in decisione,
convinto della fondatezza della stessa.
In sede di decisione, ci si rende conto che quella questione non è fondata, e allora pronuncia una sentenza
nella quale si dice che il diritto non è prescritto.
A quel punto, però, occorrerà svolgere l’istruttoria per verificare che quel diritto che se anche fosse venuto
ad esistenza, comunque, si sarebbe prescritto in una prima fase si è ritenuto di non svolgere l’istruttoria
per verificarne l’effettiva esistenza, occorrerà svolgere l’istruttoria per capire se questo diritto è esistito o
meno.
Allora, queste questioni preliminari di rito o di merito, sono questioni che non possono essere oggetto di
un autonomo processo / non hanno un oggetto idoneo a reggere un processo, e questo spiega anche il
fatto che la soccombenza del soggetto che si vede respinta l’eccezione, nel caso di specie, di prescrizione, è
una soccombenza meramente teorica, perché nulla esclude che nel caso che il giudice, in sede di pronuncia
della sentenza definitiva, dica comunque che il diritto non è mai venuto ad esistenza: in quel caso, la
soccombenza del convenuto sulla questione preliminare di merito, è assorbita da una sentenza per lui
comunque favorevole, perché è una sentenza che dirà che comunque il diritto non si era prescritto, ma
comunque non è mai neanche venuto ad esistenza.
Quindi, il soccombente teorico, è “teorico” perché nulla esclude che egli possa avere poi ragione sulla
definitiva in modo pieno.

IN CASO DI SENTENZA NON DEFINITIVA, IL SOCCOMBENTE MERAMENTE TEORICO PUÒ:

- IMPUGNAZIONE IMMEDIATA: quindi impugnare subito la sentenza non definitiva, sospendendo o


meno il processo fino alla decisione presa in appello.
2 processi con lo stesso oggetto e quindi bisogna coordinare le decisioni.

- Lasciare che la SENTENZA NON DEFINITIVA PASSI IN GIUDICATO, così la questione diventa
immutabile ed incontestabile.

- Esercitare la RISERVA FACOLTATIVA DI APPELLO/RISERVA DI IMPUGNAZIONE (art. 340 c.p.c.): cioè


riservarsi di esercitare l’appello e quindi impugnare dopo e non nei confronti della sentenza non
definitiva.
Ovvero: riservarsi di decidere e impugnare quando verrà emessa la sentenza definitiva.
Deciderà se impugnare nel momento in cui sia stata pronunciata una sentenza definitiva.
• SENTENZA NON DEFINITIVA – CONDANNA GENERICA
Vediamo una fattispecie particolare di sentenza non definitiva: ART. 278 C.P.C. – CONDANNA GENERICA.

Qui siamo di fronte ad un caso in cui si ha una scissione del CONTENUTO della sentenza tra l’an ed il
quantum.

La possibilità per il collegio di pronunciare questo provvedimento, presuppone che ci sia una RICHIESTA
DI PARTE e, in questo caso, il collegio pronuncia con sentenza una condanna generica perché manca della
quantificazione.

à Allora, il processo, in questo caso, proseguirà per arrivare alla liquidazione.

Questo è un provvedimento che si pronuncerà soprattutto in caso di risarcimento dei danni, quando si
tratterà di verificare l’ASTRATTA esistenza del diritto al risarcimento, che potrà poi essere negata in sede
di liquidazione (perché è possibile che pur astrattamente configurandosi una fattispecie risarcitoria, poi di
fatto non si sia verificato alcun danno risarcibile).

Che interesse ha la parte a chiedere un provvedimento di condanna generica?

l’interesse deriva dal fatto che a questo provvedimento di condanna generica, sono collegati alcuni effetti
tipici della sentenza di condanna, cioè vale ad iscrivere l’IPOTECA GIUDIZIALE sui beni del debitore e
trasforma la prescrizione breve in PRESCRIZIONE DECENNALE.

• SENTENZA PRONUNCIATA NEL CASO DI PROCESSO CON CUMULO


OGGETTIVO
Sentenza che viene pronunciata nel caso di un processo con cumulo oggettivo (il cumulo oggettivo
presuppone che siano state formulate PIÙ DOMANDE, e che quindi il processo abbia una pluralità di
oggetti).

In questo caso:

A) il giudice può decidere con UNA UNICA SENTENZA (art. 277 comma 1 c.p.c.).

B) oppure può succedere che il collegio decida SOLO SU ALCUNE DOMANDE PROPOSTE e questo
accadrà quando per le altre sia necessaria un’ulteriore attività istruttoria.
Questa fattispecie, in cui il giudice ne decide solo alcune, ha luogo in 2 casi:

1. Il primo è quello previsto dal n. 5 dell’art. 279 c.p.c.: in questo caso siamo di fronte ad un
esplicito provvedimento di separazione delle cause, a cui segue:
- la decisione delle cause mature;
- e la rimessione in istruttoria per le cause che, invece, necessitano ancora di istruttoria;

à Le sentenze che vengono emesse sono sentenze definitive e per tanto non trova
applicazione la tecnica della riserva di appello (che presuppone che si tratti di sentenze non
definitive): quindi o si impugna subito o la sentenza passa in giudicato.
2. L’altra fattispecie che dobbiamo prendere in considerazione è disciplinata dal co. 2 dell’art. 277
c.p.c..
In questo caso:
o è necessario l’istanza di parte per la decisione di alcune soltanto delle domande e;
o se il giudice ritiene apprezzabile l’interesse di chi gli ha formulato l’istanza, decide solo
su alcune delle domande e rimette in istruttoria le altre.

In questo caso, a differenza di quello previsto dal n. 5 dell’art. 279 c.p.c., non abbiamo un
provvedimento di separazione delle cause.

Le sentenze di cui si occupa questo comma, vengono chiamate sentenze parzialmente


definitive ed è con riferimento ad esse che si pone il problema della possibilità di applicare ad
esse la riserva di appello.
o secondo alcuni ciò non sarebbe possibile;
o secondo altri, invece, se la sentenza definitiva non è idonea ad assorbire gli effetti della
sentenza parzialmente definitiva, tuttavia si dice che la parte potrebbe avere
interesse, nel momento in cui deve decidere se impugnare la sentenza, a valutarla
nella sua globalità: cioè potrebbe accadere che la parte sia risultata vittoriosa su una
domanda e soccombente sull'altra, e cioè nonostante possa decidere di accontentarsi,
dal punto di vista economico, del risultato globale della controversia.
ES.: soggetto che si è visto vittorioso sulla domanda relativa al capitale e soccombente la
domanda relativa agli interessi: ecco questo soggetto potrebbe valutare
complessivamente la controversia e decidere di non impugnare: allora, questo è
possibile, però, solo se si riconosce a queste tipo di sentenze parzialmente definitive, la
possibilità di applicare la riserva di appello.

LA RISERVA FACOLTATIVA DEL RICORSO IN CASSAZIONE È ESPRESSAMENTE AMMESSA DALL’ART 361,


CO. 1 C.P.C.: allora, se questo è previsto per il ricorso in Cassazione si dice che tanto più deve essere
previsto con riferimento all'appello.

Tale articolo dispone che per le sentenze non definitive sulle questioni preliminari di merito e di rito non
si ha la possibilità della riserva dell’impugnazione in cassazione.

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