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PROBATORIA: CASI
PRATICI
LA PROVA
NEL PROCESSO CIVILE:
AMMISSIBILITA’ E RILEVANZA
DECADENZE ISTRUTTORIE
NON CONTESTAZIONE
Nicola Cosentino
Giudice del Tribunale di Varese
“Ciò vuol dire che le attività assertive della parte devono trovare la loro sede
naturale e fisiologica nella memoria ex art. 183, 6° co. "primo termine" e, quanto
alla seconda memoria, sono giustificate unicamente se si traducano in una
"replica" alle deduzioni della controparte o in una "risposta" processuale alle
medesime; restando altrimenti la suddetta appendice riservata alla richiesta di
prova. Ciò vuol anche dire che dove la parte non depositi la memoria ex art. 183,
6° co., primo termine, la controparte non ha diritto ad alcuna attività assertiva,
non avendo alcun argomento a cui replicare o contraddire: principio di recente
rimarcato dalla Suprema Corte, in tema di controprova” (Trib. Milano,
23.5.2013)”.
Più di recente, anche Cass., Sez. 3, Sentenza n. 7556 del 27/03/2009, sempre con
riguardo al sistema anteriore alla novella del 2005, ha statuito che il giudice può
rimettere la causa in decisione, quando non ritenga necessaria l'assunzione di
mezzi di prova (art. 187, primo comma, cod. proc. civ.), non soltanto alla prima
udienza di trattazione (art. 183 cod. proc. civ.), ma anche, come risulta
dall'articolo 80-bis disp. att. cod. proc. civ., all'udienza di prima comparizione di
cui all'art. 180 cod. proc. civ. - nella formulazione precedente le modifiche
apportate dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. nella legge 14 maggio 2005, n. 80
-, non configurandosi in tal caso una lesione del diritto di difesa, soprattutto se la
parte convenuta (come nella specie) abbia rinunciato ad avvalersi del termine di
cui al secondo comma del medesimo art. 180 cod. proc. civ..
Nella stessa linea Cass., Sez. 2, Sentenza n. 4448 del 27/02/2007 secondo la
quale “in tema di udienza di prima comparizione, la mancata concessione da
parte del giudice dei termini di cui agli articoli 180, 183 e 184 cod. proc. civ.
(secondo la formulazione successiva alle norme modificative del d.l. 18 ottobre
1995 n.432 conv. nella legge 20 dicembre 1995 n.534, e prima delle modifiche
apportate dalla legge 14 maggio 2005 n.80, oltre che dalla legge 28 dicembre
2005 n.263), non comporta né la nullità della sentenza di primo grado né la
regressione della causa ai sensi dell'articolo 354 cod. proc. civ., stante la
tassatività delle ipotesi da quest'ultimo previste che non ricomprendono quella
della asserita violazione delle suddette disposizioni del codice di procedura
civile. Ne consegue che, essendo le norme che regolano la sequenza delle
udienze di cui agli articoli 180 e 183 cod. proc. civ. poste a tutela del diritto di
difesa delle parti ed avendo natura inderogabile, qualora il giudice di appello
ravvisi un vizio del procedimento consistente nella mancata assegnazione al
convenuto del termine di cui all'articolo 180 cod. proc. civ., è tenuto soltanto a
rimettere in termini le parti per l'esercizio delle attività deduttive ed istruttorie
non potute esercitare in primo grado".
Il processo sommario regolato dagli artt. 702 bis e segg. c.p.c. si definisce come
un giudizio a trattazione ed istruzione semplificata ma a cognizione piena
(BESSO) e si caratterizza per l’assenza di una predeterminazione legislativa
delle articolazioni delle fasi di trattazione , istruzione e decisione
(GIACOMELLI).
Stando alla lettera della legge, uniche decadenze espressamente codificate sono,
in effetti, quelle inerenti alle facoltà del convenuto di proporre domande
riconvenzionali e di sollevare eccezioni in senso stretto (ovvero non rilevabili
d’ufficio). La disciplina del contenuto degli atti introduttivi prevede
indubbiamente che in essi avvenga l’allegazione dei fatti posti a fondamento
delle rispettive posizioni processuali ma non vi sono specifiche decadenze
collegate agli atti introduttivi medesimi e al momento della costituzione in
giudizio, se si eccettua, con riguardo al resistente, la decadenza espressa relativa
alle domande riconvenzionali e alle eccezioni in senso stretto che devono essere
formulate – appunto – nella comparsa di costituzione tempestivamente
depositata nel termine previsto dall’art. 702 bis 3° comma c.p.c..
l’art. 416 c.p.c. prevede che il convenuto debba, nella propria memoria
difensiva, prendere posizione in maniera precisa e non generica sui fatti
affermati dall’attore a fondamento della domanda , proporre tutte le sue difese in
fatto e in diritto ed indicare specificamente , a pena di decadenza, i mezzi di
prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve
contestualmente depositare.
Si veda , con riguardo alla posizione del ricorrente, Cass., sez. L, Sentenza n.
22305 del 24/10/2007, secondo la quale “nel rito del lavoro, il ricorrente è
tenuto ad indicare in ricorso i mezzi di prova, che devono essere specificati così
come prescritto dall'art. 414 n. 5 cod. proc. civ.; l'omessa indicazione dei mezzi
di prova comporta non la nullità del ricorso ma la decadenza dalla possibilità di
successiva deduzione delle prove nel corso del processo” e, con riguardo alla
posizione del resistente, Cass., Sez. L, Sentenza n. 16337 del 13/07/2009; Sez. L,
Sentenza n. 16781 del 29/07/2011, secondo le quali “l'omessa indicazione dei
documenti probatori nell'atto di costituzione in giudizio, imposta dall'art. 416,
terzo comma cod. proc. civ., e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a
tale atto, determinano la decadenza dal diritto di produrli, salvo che i documenti
si siano formati successivamente ovvero la loro produzione sia giustificata dallo
sviluppo del processo (art. 420, quinto comma, cod. proc. civ.”).
Il fondamento argomentativo per l’affermazione del carattere perentorio dei
termini in esame si rinviene nelle disposizioni di cui all’art. 420, 1° e 5°
comma: la prima previsione consente alle parti, a condizione che ricorrano gravi
motivi, di modificare le domande , eccezioni e conclusioni già formulate,
all’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c., previa autorizzazione del giudice; la
seconda prevede che il giudice, ad esito dell’udienza, ammetta i mezzi di prova
già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima.
Entrambe le previsioni presuppongono, evidentemente, la formazione anteriore
(e dunque collegata al deposito degli atti introduttivi) di barriere preclusive sia
per le attività assertive sia per le attività istruttorie.
Si veda, in tale senso, Cass., Sez. 3, Sentenza n. 24900 del 25/11/2005, secondo
la quale “la decadenza prevista dall'art. 414, n. 5, e 416, terzo comma, cod.
proc. civ. ha carattere assoluto ed inderogabile e deve essere rilevata d'ufficio
dal giudice indipendentemente dal silenzio serbato dalla controparte o dalla
circostanza che la medesima abbia accettato il contraddittorio, atteso che nel rito
del lavoro la disciplina dettata per il giudizio risponde ad esigenze di ordine
pubblico attinenti al funzionamento stesso del processo, in aderenza ai principi
di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano”.
le prove d’ufficio, sia ex art. 421, che ex art. 437 c.p.c., possono riguardare
soltanto fatti tempestivamente allegati dalle parti
(Cass., Sez. Un., 20 aprile 2005, n. 8202; Cass., 17 giugno 2004, n. 11535;
Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572; Cass., 1 luglio 2010, n. 15653; Cass., 2
febbraio 2009, n. 2577; Cass., 13 settembre 2003, n. 13467; Cass., 6 marzo
2001, n. 3228).
il potere officioso non può riguardare i fatti pacifici, sottratti, come tali,
all’istruttoria di parte e d’ufficio, così come non può esplicarsi mediante
una prova atipica o non voluta dalle parti, né per sminuire una prova già
espletata
(Cass., Sez. Un., n. 11353/2004 e 8202/2005)
il giudice non può utilizzare i suoi poteri istruttori per sopperire alla totale
e ingiustificata inerzia della parte ormai decaduta, bensì solo per risolvere
un dubbio residuato dopo l’istruttoria di parte e non per capovolgerne l’esito
emersione nella espletata istruttoria di risultanze che offrono già dati di indagine
significativi ma che in relazione ad essi il giudice reputi insufficienti le prove
già acquisite la condizione per l’ammissibilità, anche in appello, di prove
indispensabili per la dimostrazione o negazione di fatti allegati, è pur sempre la
preesistenza di altri mezzi istruttori, ritualmente dedotti ed acquisiti, meritevoli
di approfondimento, con esclusione, quindi, dell’ammissibilità dei medesimi
mezzi di prova, orale o scritta, che per le parti siano definitivamente preclusi.
Nel processo davanti al giudice di pace non vi sono preclusioni legate agli atti
introduttivi né termini di costituzione la cui violazione importi, in particolare per
il convenuto, decadenze specifiche.
Solo quando sia reso necessario dalle attività assertive svolte dalle parti in prima
udienza, il giudice per una sola volta fissa una nuova udienza per ulteriori
produzioni e richieste di prova.
solo quando il giudice abbia fissato una nuova udienza reputandola necessaria in
considerazione delle attività processuali svolte dalle parti alla prima udienza,
sarà possibile dedurre nuove prove e produrre nuovi documenti alla nuova
udienza;
il giudice non ha il potere di disporre delle preclusioni previste dalla legge
sicchè un ulteriore rinvio, non consentito, non rimette le parti in termini rispetto
all’esercizio delle facoltà inerenti le attività probatorie e lascia consumata la
decadenza verificatasi (in tal senso: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 27925 del
21/12/2011 secondo la quale “a norma dell'art. 320 cod. proc. civ., nel
procedimento davanti al giudice di pace non è configurabile una distinzione tra
prima udienza di comparizione e prima udienza di trattazione, pur essendo il rito
caratterizzato dal regime di preclusioni tipico del procedimento davanti al
tribunale; ne consegue che la produzione documentale, laddove non sia avvenuta
nella prima udienza, rimane definitivamente preclusa, né il giudice di pace può
restringere l'operatività di tale preclusione rinviando ad un'udienza successiva
alla prima al fine di consentire la produzione non avvenuta tempestivamente”; v.
anche Sez. 3, Sentenza n. 18498 del 25/08/2006);
Essa contiene, in primo luogo, l’esito, motivato (l’art. 134 c.p.c. prescrive che
l’ordinanza sia succintamente motivata) del vaglio di ammissibilità e rilevanza
di ciascuno dei mezzi istruttori oggetto delle richieste delle parti. Non occorre
che siano esaminati entrambi i due profili, in quanto non vi è una pregiudizialità
logica dell’uno all’altro né si rende necessario esaminare l’uno se si è già
pervenuto, secondo un criterio di maggiore “liquidità”, all’esclusione dell’altro.
In realtà la portata della motivazione dell’ordinanza istruttoria è notevolmente
depotenziata dalla giurisprudenza di legittimità, la quale esclude che il giudice
istruttore sia tenuto ad esplicitare , per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui
lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia
possa essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (Cass., 10.6.2009, n.
13375). L’ordinanza, infine, conterrà l’eventuale disposizione di mezzi istruttori
ufficiosi, con ogni conseguente provvedimento conseguenziale in ordine alla
riapertura del contraddittorio tra le parti al fine di consentire loro la deduzione di
eventuali prove che sia conseguenziale all’allargamento del thema probandum.
Occorre premettere che siffatto duplice vaglio non attiene ai documenti, le c.d.
prove costituite, le quali sono acquisite al processo in virtù della mera e rituale
produzione in giudizio (competendo poi al giudice, in fase decisoria,
apprezzarne il concreto apporto probatorio), ma solo alle prove costituende.
La valutazione di ammissibilità ha natura strettamente giuridica ed attiene ai
profili di legalità della prova , richiedendo di verificare che il mezzo istruttorio
in concreto richiesto dalla parte sia conforme allo schema legale di disciplina
dello stesso ovvero se presenti profili di difformità da esso. eccedendo i limiti o
disattendendo le modalità di deduzione prescritte dalla legge. Occorrerà,
pertanto, verificare:
Per converso, non può ritenersi irrilevante una prova diretta a contrastare l’esito
di altre prove o comunque a fornire una diversa versione dei fatti che debbono
essere provati in quanto una prova può dirsi superflua solo quando mira a
provare un fatto già dimostrato. Inoltre, esula dal giudizio di rilevanza (oltre che
di ammissibilità) ogni valutazione prognostica sull’esito probabile del mezzo
istruttorio o sulla verosimiglianza delle circostanze che si intendono provare.
Una delle soluzioni prospettate può essere quella di calendarizzare alla prima
udienza istruttoria, la quale ospiterà, appunto, il dibattito delle parti sul
programma dell’istruzione e decisione della causa sulla base del provvedimento
istruttorio già assunto dal giudice. In alternativa, il contradittorio sul punto non
può che essere anticipato, da svolgere all’udienza fissata appena dopo la
scadenza dei termini ex art. 183 6° comma, c.p.c., ma all’oscuro dell’effettivo
contenuto dei provvedimenti istruttori del giudice.
L’art. 115 c.p.c., rubricato “disponibilità delle prove” recita, al primo comma
“salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della
decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti
non specificatamente contestati dalla parte costituita”. La norma è stata sostituita
dall’art. 45, comma 14, della l. 18 giugno 2009, n. 69 e si applica ai giudizi
instaurati dopo il 4 luglio 2009 (art. 58, comma 1, legge cit.).
Con la norma in esame il legislatore codifica un principio, già emerso sul piano
giurisprudenziale , per il quale non occorre onerare la parte della prova di
fatti che la parte avversaria non abbia specificamente contestato.
Si veda la fondamentale Cass., Sez. un, Sentenza n. 761 del 23/01/2002: «nel rito
del lavoro, il difetto di specifica contestazione dei conteggi elaborati dall'attore
per la quantificazione del credito oggetto di domanda di condanna, allorché il
convenuto si limiti a negare in radice l'esistenza del credito avversario, (a) può
avere rilievo solo quando si riferisca a fatti, non semplicemente alle regole legali
o contrattuali di elaborazione dei conteggi medesimi, e sempre che si tratti di
fatti non incompatibili con le ragioni della contestazione sull'"an debeatur"; (b)
rileva diversamente, a seconda che risulti riferibile a fatti giuridici costitutivi
della fattispecie non conoscibili di ufficio, ovvero a circostanze dalla cui prova
si può inferire l'esistenza di codesti fatti, giacché mentre nella prima ipotesi la
mancata contestazione rappresenta, in positivo e di per sè, l'adozione di una
linea incompatibile con la negazione del fatto e, quindi, rende inutile provarlo,
in quanto non controverso, nella seconda ipotesi (cui può assimilarsi anche
quella di difetto di contestazione in ordine all'applicazione delle regole tecnico -
contabili) il comportamento della parte può essere utilizzato dal giudice come
argomento di prova "ex" art. 116, secondo comma, cod. proc. civ.; (c) si
caratterizza, inoltre, per un diverso grado di stabilità a seconda che investa fatti
dell'una o dell'altra categoria, perché, se concerne fatti costitutivi del diritto, il
limite della contestabilità dei fatti originariamente incontestati si identifica con
quello previsto dall'art. 420, primo comma, del codice di rito per la
modificazione di domande e conclusioni già formulate, mentre, se riguarda
circostanze di rilievo istruttorio, trova più ampia applicazione il principio della
provvisorietà, ossia della revocabilità della non contestazione, le sopravvenute
contestazioni potendo essere assoggettate ad un sistema di preclusioni solo nella
misura in cui procedono da modificazioni dell'oggetto della controversia».
I limiti soggettivi
I limiti oggettivi
- quanto alla prova dei contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad
substantiam, la non contestazione non esimerebbe la parte dall’onere di
produrre il contratto in forma scritta in quanto la non contestazione della
stipula di tale tipo di contratti non può far ritenere la sussistenza del
requisito formale; ma , da un altro punto di vista, si afferma la rilevanza del
silenzio serbato sul contratto dalla parte nei cui confronti è prodotto, nel
senso di escludere, in applicazione dell’art. 115 1° comma c.p.c., l’onere di
provarlo, pur se di carattere formale (RICCI);
- quanto alla prova dei contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad
probationem: qui la non contestazione riprende tutta la sua efficacia
esonerando la parte dall’onere di provare il contratto per iscritto (v. in tal
senso Trib. Lamezia Terme, 30.6.2010, in ilcaso.it).
La non contestazione rileva per esonerare dalla prova non solo di fatti storici,
esterni al processo ma anche di fatti processuali, fermo che in entrambi i casi
deve trattarsi di fatti oggettivi in quanto la qualificazione giuridica dei fatti stessi
esula dal campo applicativo dell’istituto e rientra nell’ambito dei potere
cognitivi del giudice. Potrà essere incontestata, ad esempio, la data di notifica di
un atto ma non la consumazione di una decadenza processuale, trattandosi
appunto non più di un fatto ma di un giudizio, non soggetto ad oneri di
contestazione.
“la parte nei cui confronti vengano allegati determinati fatti in modo analitico e
specifico ha l'onere, qualora detti fatti rientrino nella sua sfera di conoscibilità,
di contestarli in modo altrettanto specifico, fornendo la propria versione ed
indicando fatti diversi, contenenti precisi riferimenti, che li smentiscano.
Tenendo presente che il grado di specificità della contestazione deve essere
valutato in concreto in relazione alle singole controversie - potendo variare a
seconda del livello di conoscenza del fatto da parte del soggetto nei cui confronti
è allegato e a seconda della precisione del fatto allegato dalla controparte - una
contestazione generica produce l'effetto, proprio per la sua genericità, di
determinare una relevatio ab onere probandi e di rendere i fatti allegati pacifici”
(Trib. Monza 5.1.2011, ilcaso.it).
“Nel rito del lavoro, il difetto di specifica contestazione dei conteggi elaborati
dall'attore per la quantificazione del credito oggetto di domanda di condanna,
allorché il convenuto si limiti a negare in radice l'esistenza del credito
avversario, (a) può avere rilievo solo quando si riferisca a fatti, non
semplicemente alle regole legali o contrattuali di elaborazione dei conteggi
medesimi, e sempre che si tratti di fatti non incompatibili con le ragioni della
contestazione sull'an debeatur; (b) rileva diversamente, a seconda che risulti
riferibile a fatti giuridici costitutivi della fattispecie non conoscibili di ufficio,
ovvero a circostanze dalla cui prova si può inferire l'esistenza di codesti fatti,
giacché mentre nella prima ipotesi la mancata contestazione rappresenta, in
positivo e di per sè, l'adozione di una linea incompatibile con la negazione del
fatto e, quindi, rende inutile provarlo, in quanto non controverso, nella seconda
ipotesi (cui può assimilarsi anche quella di difetto di contestazione in ordine
all'applicazione delle regole tecnico - contabili) il comportamento della parte
può essere utilizzato dal giudice come argomento di prova "ex" art. 116,
secondo comma, cod. proc. civ.; (c) si caratterizza, inoltre, per un diverso grado
di stabilità a seconda che investa fatti dell'una o dell'altra categoria, perché, se
concerne fatti costitutivi del diritto, il limite della contestabilità dei fatti
originariamente incontestati si identifica con quello previsto dall'art. 420, primo
comma, del codice di rito per la modificazione di domande e conclusioni già
formulate, mentre, se riguarda circostanze di rilievo istruttorio, trova più
ampia applicazione il principio della provvisorietà, ossia della revocabilità della
non contestazione, le sopravvenute contestazioni potendo essere assoggettate ad
un sistema di preclusioni solo nella misura in cui procedono da modificazioni
dell'oggetto della controversia”.
“Già prima della recente modifica dell’art 115 c.p.c. - da ritenersi di portata
interpretativa e non già innovativa – la Corte di Cassazione ha ritenuto vi fosse a
carico del convenuto un vero e proprio onere di contestazione, con la
conseguenza che il giudice, in materia di diritti disponibili, deve ritenere
sussistente, senza alcun bisogno di prova, non solo il fatto costitutivo non
contestato ma anche tutti gli altri fatti allegati in giudizio, ivi compresi quelli che
rilevano solo ai fini probatori. Questo principio è del resto connaturato al
sistema di preclusioni cui è improntato il processo civile, il quale comporta che
il potere di contestazione “si consumi” nello stesso modo in cui “si
consuma”, secondo il rito prescelto, il potere di allegazione consentito alle
parti” (App. Milano 29 giugno 2011, in ilcaso.it).
Anche la S.C., tuttavia, sembra orientata nel medesimo senso. Si veda, ad
esempio, Cass., sez. III, 18 maggio 2011, n. 10860 , secondo la quale il potere di
contestazione, concorrendo con quello di allegazione nell'individuazione del
thema decidendum e probandum, soggiace agli stessi limiti preclusivi di
quest'ultimo, costituiti dall'udienza di trattazione, di cui agli artt. 183 e 420, per
il processo del lavoro.
V. anche Cass., Sez. lav., Sentenza n. 4854 del 28/02/2014, secondo la quale
“nel rito del lavoro, il divieto di "nova" in appello, ex art. 437 cod. proc. civ.,
non riguarda soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto, ma è esteso alle
contestazioni nuove, cioè non esplicitate in primo grado, sia perché l'art. 416
cod. proc. civ. impone un onere di tempestiva contestazione a pena di
decadenza, sia perché nuove contestazioni in secondo grado, oltre a modificare
i temi di indagine (trasformando il giudizio di appello da revisio prioris
instantiae in iudicium novum, estraneo al vigente ordinamento processuale),
altererebbero la parità delle parti, esponendo l'altra parte all'impossibilità di
chiedere l'assunzione di quelle prove alle quali, in ipotesi, aveva rinunciato,
confidando proprio nella mancata contestazione ad opera dell'avversario.
La non contestazione del fatto comporta la non necessità della prova dello stesso
nel giudizio ma non integra una prova legale, insuperabile dal giudice e
vincolante in sede di decisione (parla invece di effetto vincolante per il giudice,
che non potrebbe sottoporre a controllo probatorio il fatto non contestato, Cass.,
Sez. 3, Sentenza n. 3727 del 09/03/2012).
La non contestazione opera nel senso di delimitare il thema probandum ma non
vale a rendere assoluto l’accertamento della ontologica esistenza del fatto non
contestato, dovendosi riconoscere al giudice il potere-dovere di valutare il
materiale probatorio emerso nel corso del processo e di pervenire ad una
decisione che potrà essere fondata sui fatti non contestati ma che potrà andare
anche in una diversa direzione laddove quei fatti si dimostrino non veri alla
stregua di altre risultanze probatorie ritualmente acquisite, di segno diverso
(COMOGLIO. In giurisprudenza, Cass., Sez. 3, Sentenza n. 3951 del
13/03/2012).
Nicola Cosentino
Giudice del Tribunale di Varese
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