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L’ISTRUZIONE

PROBATORIA: CASI
PRATICI

LA PROVA
NEL PROCESSO CIVILE:
AMMISSIBILITA’ E RILEVANZA
DECADENZE ISTRUTTORIE
NON CONTESTAZIONE

Nicola Cosentino
Giudice del Tribunale di Varese

Milano, 21 marzo 2016


Le preclusioni istruttorie

Le preclusioni istruttorie nel processo civile per fasi: thema probandum e


thema decidendum

Nel processo civile inteso come susseguirsi sequenziale di attività processuali


scandite da termini perentori che delimitano segmenti o fasi ben distinte, tutte
orientate al conseguimento del risultato finale rappresentato, per i processi di
cognizione, dalla decisione della controversia, è essenziale collocare ciascuna
fase e rapportarla alla precedente e alla successiva perché solo tale ricostruzione
permette di delineare con esattezza l’ampiezza e il contenuto delle attività
processuali consentite alle parti e al giudice in ciascun segmento del processo.

Costituisce affermazione ricorrente quella per la quale “il processo è governato,


per esigenze di certezza e ragionevole durata, da scansioni temporali, il cui
mancato rispetto va assoggettato alla sanzione della decadenza dal compimento
di determinate attività (v. Corte cost., ord., 29.4.2010, n. 163). Ecco perché il
vigente modello processuale configura un processo che si articola in fasi
successive e non ammette deroghe (salvo il caso eccezionale previsto dall'art.
153: v. Cass., sez. un., n. 15169/2010). Il mancato rispetto dei termini fissati dal
giudice, determina, consequenzialmente, la decadenza, rilevabile d'ufficio, della
facoltà "assertorie" ed istruttorie delle parti” (Trib. Milano, 25.3.2013).

Questa massima pone immediatamente in relazione la struttura “per fasi” del


processo con la intrinseca e logica necessità di un implicito divieto di
“regressione” del processo a fasi precedenti e già concluse, in quanto ciò
contrasta con l’esigenza primaria che il processo consegua un risultato utile in
tempi ragionevoli (art. 111 Cost.).

L’istruzione probatoria si colloca naturalmente subito dopo la fissazione del


thema decidendum ovvero la cristallizzazione del complesso dei fatti costitutivi
delle domande e delle eccezioni che identificano l’oggetto del giudizio.
Presuppone logicamente l’esaurimento dell’attività assertiva delle parti e da
ciò deriva che la successiva attività di deduzione dei mezzi di prova è
profondamente condizionata dal thema decidendum posto dalle parti, assolvendo
alla funzione di fornire il supporto probatorio delle domande ed eccezioni svolte
e cioè la prova dei fatti allegati dalle parti a fondamento delle rispettive pretese.

Il nesso logico e processuale tra attività assertiva, determinazione e


cristallizzazione del thema decidendum e, dall’altro lato, attività probatoria delle
parti, porta all’affermazione del fondamentale principio per il quale non è
possibile provare fatti che non siano stati ritualmente e tempestivamente
allegati dalle parti. L’allegazione tempestiva del fatto determina la rilevanza
probatoria del fatto medesimo e dei mezzi istruttori articolati per dimostrarne
l’esistenza, in quanto solo il fatto tempestivamente allegato acquista idoneità
decisoria ovvero ha attitudine a produrre gli effetti giuridici di cui si chiede
l’accertamento in giudizio.
La giurisprudenza di legittimità ha posto pienamente in luce la “necessaria
circolarità” fra gli oneri di allegazione, di contestazione e gli oneri della
prova, facendone appunto derivare il summenzionato principio (v. Cass., sez.
un., 17.6.2004, n. 11353). Anche la giurisprudenza di merito ha mostrato di
recepire il principio affermando che è inammissibile, pur se formulata prima
del decorso del termine di cui all'art. 183, co. 6, n. 2, la richiesta probatoria
relativa a circostanze per la prima volta dedotte dopo lo spirare delle
preclusioni assertive di cui all'art. 183, co. 6, n. 1 (Trib. Reggio Emilia,
14.6.2012; Trib. Piacenza, 30.11.2009). L’affermazione dei fatti costitutivi,
modificativi, estintivi e impeditivi costituisce dunque la positio preliminare del
thema probandum (COMOGLIO).
E’ questa la ragione per la quale, pur avendosi una tempestiva deduzione di
prova di un fatto, la stessa risulterà inammissibile nella misura in cui quel fatto
non sia stato allegato tempestivamente entro il maturarsi delle preclusioni
assertive (GIACOMELLI).
E’ discusso se tali affermazioni possano ritenersi valide anche per i fatti posti a
fondamento delle eccezioni in senso lato ovvero rilevabili d’ufficio, potendosi
ritenere (come parte della dottrina dimostra di fare) che il giudice possa rilevare
tali fatti ufficiosamente purchè emergenti dal materiale probatorio ritualmente
acquisito in giudizio, anche se le parti non abbiano proceduto ad un’allegazione
formale di essi, ovvero alla loro enunciazione negli atti difensivi, nei termini
perentori previsti.
La posizione della giurisprudenza di legittimità è nel senso che il divieto per il
giudice di porre a fondamento della propria decisione fatti non allegati dalle
parti operi anche per i fatti posti a fondamento di eccezioni c.d. rilevabili
d’ufficio (si pensi all’eccezione di pagamento, di giudicato esterno, di concorso
colposo ex art. 1227 2° comma c.c., di massimale di polizza assicurativa, di
interruzione o sospensione della prescrizione; di nullità del contratto posto a
fondamento dell’altrui pretesa), ove non fatti oggetto di una specifica attività
assertiva, essendo ciò imposto dal divieto del giudice di pronunciare oltre quanto
allegato dalle parti (art. 112 c.p.c.).

Si veda la motivazione di Cass., sez. un., 1.12.2008, n. 2435: “il giudice ha il


potere-dovere di esaminare i documenti prodotti dalla parte solo nel caso in cui
la parte, interessata, ne faccia specifica istanza esponendo nei propri scritti
difensivi gli scopi della relativa esibizione con riguardo alle sue pretese,
derivandone altrimenti per la controparte la impossibilità di controdedurre e per
lo stesso giudice impedita la valutazione delle risultanze probatorie e dei
documenti ai fini della decisione (cfr. Cass. 16 agosto 1990, n. 8304). Poiché nel
vigente ordinamento processuale, caratterizzato dall'iniziativa della parte e
dall'obbligo del giudice di rendere la propria pronunzia nei limiti delle domande
delle parti, al giudice è inibito trarre dai documenti comunque esistenti in atti
determinate deduzioni o indicazioni, necessarie ai fini della decisione, ove
queste non siano specificate nella domanda, o - comunque - sollecitate dalla
parte interessata (cfr. Cass. 12 febbraio 1994, n. 1419; Cass. 7 febbraio 1995, n.
1385. Nel senso che perché il giudice possa e debba esaminare documenti
versati in atti lo stesso deve accertare, oltre la ritualità della produzione, cioè
verificare che la produzione stessa sia avvenuta nel rispetto delle regole del
contraddittorio, anche la esistenza di una domanda, o di una eccezione,
espressamente basata su quei documenti, Cass. 22 novembre 2000, n. 15103,
specie in motivazione)” (nello stesso senso Cass., Sez. 3, Sentenza n. 22342 del
24/10/2007, secondo la quale “il potere-dovere del giudice di esaminare i
documenti ritualmente versati in atti sussiste solo se la parte che li ha prodotti
o che, comunque, ne intende trarre vantaggio, abbia formulato una
domanda o un'eccezione espressamente fondata sui documenti medesimi”).

Ciò premesso in prima battuta, occorre precisare la portata di tali affermazioni


anche con riferimento alla distinzione tra fatti principali (per i quali la validità
dell’assunto resta pienamente confermata) e fatti secondari (per i quali invece
l’assunto si rivelerà non operante).
Fatti principali devono qualificarsi i fatti costitutivi , modificativi, estintivi o
impeditivi da cui deriva l’esistenza , la modificazione o la cessazione di una
determinata pretesa fatta valere in giudizio, mentre sono fatti secondari quelli la
cui funzione è solamente la prova dell’esistenza di un fatto giuridico.
Ad esempio, fatti secondari sono i fatti dalla cui prova, in via indiziaria, ai sensi
dell’art. 2729 c.c., può inferirsi l’esistenza di un fatto principale ignoto, secondo
lo schema delle presunzioni semplici (v. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 3321 del
19/02/2004).
Per quel che qui rileva, tuttavia, per i fatti secondari, come anticipato, non
opera la regola che vuole la deduzione della prova del fatto subordinata
all’allegazione tempestiva dello stesso, in quanto il fatto secondario potrà
essere allegato unitamente alla deduzione della prova del medesimo
(COMOGLIO).
Prevale, in dottrina, l’idea che solo per i fatti principali (in ossequio al principio
della domanda e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato) sussista un
onere della parte di allegazione espressa e tempestiva, entro i termini preclusivi
propri delle attività assertive volte a individuare gli elementi costitutivi della
domanda svolta in giudizio, mentre per i fatti secondari , in virtù del principio di
acquisizione, si ammette la possibilità che il giudice li rilevi , sottoponga e prova
e utilizzi in fase di decisione sebbene non esplicitamente allegati dalla parte
interessata, salvo poi precisare che occorra quantomeno un’allegazione implicita
(desumibile dalla struttura logica o dall’impostazione argomentativa delle difese
della parte onerata) ovvero un’iniziativa equipollente della controparte e sempre
a condizione che le circostanze di fatto in questione emergano dal materiale
probatorio acquisito in contraddittorio (COMOGLIO, il quale peraltro propone
un analogo trattamento anche ai meri fatti impeditivi o estintivi operanti ipso
iure e deducibili attraverso eccezioni in senso improprio, di cui si è detto in
precedenza, pur con la concessione che anche in tale caso, peraltro, potrebbe
ravvisarsi un’allegazione negativa implicita da parte dell’attore).

Le preclusioni istruttorie nel processo ordinario di cognizione

Cominciando la nostra analisi con il modello del processo ordinario di


cognizione, ricordiamo che la disciplina di tale processo prevede che ciascuna
delle parti indichi già negli atti introduttivi (atto di citazione e comparsa di
risposta), in modo specifico, i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i
documenti offerti in comunicazione (artt. 163 e 167 c.p.c.). Con riguardo alla
fase introduttiva, tuttavia, non si registra il formarsi di preclusioni in quanto
le norme citate non contemplano alcuna sanzione per la mancanza delle
indicazioni istruttorie, né in termini di nullità, né in termini di decadenza.
Ciò significa che è sempre possibile dedurre nuove prove successivamente, nella
fase della trattazione della causa che si impernia sulle attività disciplinate
dall’art. 183 c.p.c. e nella quale operano invece precise e puntuali preclusioni
istruttorie.
Secondo un orientamento restrittivo, ormai di rilevanza solamente storica, le
memorie di cui all’art. 183 6° comma c.p.c. potrebbero essere utilizzate
esclusivamente per la deduzione di mezzi di prova nuovi rispetto a quelli dedotti
negli atti introduttivi, valorizzandosi come insopprimibile l’onere di ciascuna
parte di indicare sin da tali atti i mezzi di prova di cui intende avvalersi. I fatti
allegati negli atti introduttivi avrebbero dovuto cioè provati con documenti o
altri mezzi di prova individuati tempestivamente negli stessi atti. Il tenore
letterale della norma apportava un forte contributo argomentativo a tale tesi, in
quanto l’art. 184 c.p.c., nel testo vigente fino alla novella del 2005, prevedeva
che le parti potessero, con le memorie istruttorie depositate ai sensi dell’art. 184
c.p.c. medesimo, dedurre mezzi di prova nuovi”. Il problema è superato dalla
novella del 2005 e dal nuovo testo dell’art. 183 6° comma c.p.c., il quale non
richiede più la “novità” dei mezzi di prova richiesti dalle parti nelle apposite
memorie istruttorie.

All’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. si delinea il seguente quadro preclusivo


relativo alle preclusioni assertive, che è opportuno richiamare:
è ormai preclusa l’introduzione libera di domande ed eccezioni nuove rispetto a
quelle articolate in atto di citazione e nella comparsa di costituzione e risposta
tempestivamente depositata ai sensi dell’art. 167 c.p.c.,
è consentita la sola proposizione di domande ed eccezioni nuove conseguenziali
alla domanda riconvenzionale e alle eccezioni del convenuto,
è consentita la richiesta di autorizzazione alla chiamata in causa di un terzo ai
sensi dell’art. 106 e 269 terzo comma c.p.c. se conseguenziale alle difese del
convenuto,
è consentita la precisazione e modificazione di domande, eccezioni e
conclusioni già formulate.
Ulteriori allargamenti del thema decidendum sono consentiti dall’appendice di
trattazione scritta cui le parti possono accedere, a loro richiesta, formulando
richiesta di assegnazione dei termini di cui all’art. 183 6° comma c.p.c..
In particolare, la memoria prevista dal n. 1 consente la precisazione e
modificazione di domande, eccezioni e conclusioni già proposte e la memoria di
cui al n. 2 la replica alle domande ed eccezioni nuove o modificate dall’altra
parte nonché la proposizione di eccezioni che sono conseguenza delle domande
e eccezioni nuove o modificate.

Si viene quindi alle preclusioni istruttorie.


Le deduzioni istruttorie vanno quindi svolte dedotte con la seconda memoria
(n. 2) , la quale conterrà l’articolazione dei mezzi di prova diretta e alla quale si
accompagnerà la produzione di documenti anch’essi in funzione di prova diretta.
Con la memoria di cui al n. 3 è possibile unicamente dedurre le prove contrarie,
anche documentali.

“Ciò vuol dire che le attività assertive della parte devono trovare la loro sede
naturale e fisiologica nella memoria ex art. 183, 6° co. "primo termine" e, quanto
alla seconda memoria, sono giustificate unicamente se si traducano in una
"replica" alle deduzioni della controparte o in una "risposta" processuale alle
medesime; restando altrimenti la suddetta appendice riservata alla richiesta di
prova. Ciò vuol anche dire che dove la parte non depositi la memoria ex art. 183,
6° co., primo termine, la controparte non ha diritto ad alcuna attività assertiva,
non avendo alcun argomento a cui replicare o contraddire: principio di recente
rimarcato dalla Suprema Corte, in tema di controprova” (Trib. Milano,
23.5.2013)”.

La formulazione di richieste istruttorie può avvenire, in realtà, già negli atti


introduttivi, nel qual caso all’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. le parti potrebbero
non avere alcun interesse a chiedere di depositare memorie aggiuntive ma
chiedere già una pronuncia sulle richieste istruttorie formulate a quel momento.
La formulazione della richiesta di assegnazione dei termini di cui all’art. 183, 6°
comma, c.p.c., costituisce una facoltà delle parti stesse, il cui esercizio consente
alle parti medesime di elaborare in modo progressivo la strategia processuale e
probatoria in particolare, in funzione delle posizioni assunte dalla controparte
del processo attraverso le scansioni sopra velocemente illustrate. Non vi può
essere pertanto alcun dubbio circa la possibilità che le parti rinuncino ai termini
in esame.
Si ritiene che il giudice debba assegnare sempre tutti e tre i termini a tutte le
parti, se anche solo una di esse ne faccia richiesta e che ciò debba avvenire
avvenga anche in favore di parti contumaci, al fine di assicurare il corretto
contraddittorio delle parti nell’eventualità della tardiva costituzione del
contumace.
Il giudice non può ampliare né ridurre i termini di trenta e venti giorni
previsti nei nn. 1), 2) e 3) del comma 6 né può accordare i termini unicamente
alla parte istante, ovvero fissare solo il primo (o solo il primo ed il secondo)
termine perentorio (SCARPA, L'introduzione e la trattazione della causa, in Giur
merito, 2011, 254). Non sembra legittima la prassi, invalsa presso alcuni uffici
giudiziari, di concedere alle parti il termine complessivo di ottanta giorni di cui
ai punti nn. 1) 2) e 3) del comma 6 computandolo a ritroso a decorrere dalla
successiva udienza fissata per l'ordinanza ammissiva, intesa come dies a quo,
dovendosi i termini perentori ivi stabiliti calcolare secondo le regole generali di
cui all'art. 155 c.p.c. Si tratta invero di tipici termini perentori a decorrenza
successiva, in relazione ai quali il dies a quo — che non si deve computare nel
termine — coincide sempre, ed immodificabilmente, anche sull'accordo delle
parti (art. 153 comma 1 c.p.c.) con il giorno del compimento dell'atto dal quale
decorre il computo del termine (SCARPA). Nemmeno pare legittima, pertanto,
la prassi che differisce il dies a quo ad una data successiva a quella dell’udienza,
configurandosi in tal modo una proroga non consentita di termini perentori.

La prova contraria nel sistema delle preclusioni istruttorie


La prova contraria costituisce per la parte uno strumento di reazione e
contrasto rispetto alle prove dedotte dalla controparte (PALMIERI), allo
scopo di influenzare in misura concreta il convincimento del giudice e l’esito
della decisione offrendo una rappresentazione della realtà storica dei fatti
diversa da quella offerta dalla controparte , in un contesto permeato dal principio
del contraddittorio. Essa, pertanto, si contrappone logicamente alla prova diretta.
La prova contraria mira sempre ad uno stesso risultato: dimostrare la falsità
degli assunti (ovvero dei fatti allegati) della controparte. Tale definizione si
ritrova sia nel caso in cui la prova contraria abbia ad oggetto lo stesso fatto
oggetto della prova diretta , nel qual caso si parla di prova contraria diretta,
sia nel caso in cui la prova contraria abbia ad oggetto fatti diversi, ma pur
sempre idonei alla dimostrazione dell’infondatezza della prospettazione della
controparte (prova contraria indiretta).
La prova contraria, va dedotta nel termine assegnato per il deposito della terza
memoria di cui all’art. 183, 6° comma, c.p.c. e la sua modalità di deduzione
può consistere semplicemente, laddove si tratti di prova contraria diretta, nel
richiamo dei capitoli dedotti dalla parte avversaria, sui quali si chiede siano
sentiti testi diversi.
Secondo Cass., 9.2.2005, n. 2656 le prove contrarie non sono solo quelle che
contrastano con quelle dedotte nel secondo termine di cui all’art. 183 6° comma
c.p.c. ma tutte quelle che contrastano con tutte le prove dirette svolte dalla
controparte.
L’art. 183, 6° comma, n. 3, c.p.c. prevede l’assegnazione alle parti di un termine
di giorni venti per le indicazioni di prova contraria e, dalla stessa formulazione
della norma (come pure dalla formulazione letterale del comma 8 della
medesima) appare evidente come caratteristiche fondamentali della prova
contraria siano quella della dipendenza e subordinazione rispetto alla prova
diretta e della contrarietà a questa.
In primo luogo, è lo stesso potere della parte di dedurre prove contrarie che
risulta condizionato e subordinato alla deduzione della prova diretta, tanto che si
esclude l’ammissibilità della prova contraria laddove difetti l’allegazione della
prova diretta, sotto il profilo dell’assenza di interesse alla prova (non essendovi
prova del fatto favorevole ad una parte, l’altra non ha interesse a provare la
falsità di quel fatto). La mancata allegazione di prove dirette, dunque,
esclude la possibilità stessa, per la parte avversaria, di dedurre prove
contrarie.
Tale dipendenza logica opera anche in fase di assunzione della prova , nel senso
che laddove l’assunzione della prova diretta ne rivelasse l’inidoneità a
dimostrare i fatti addotti, verrebbe meno ancora una volta l’interesse della
controparte all’assunzione della propria prova contraria, in quanto l’esito del
giudizio non ne sarebbe comunque influenzato (la prova contraria diverrebbe
cioè superflua).
L’elemento della contrarietà, tipico della prova contraria, appare essenziale per
identificare la fattispecie in esame. Non basta, a tale scopo, fare riferimento alla
mera provenienza della deduzione istruttoria dalla parte contro cui è dedotta la
prova diretta chè, altrimenti, la mera deduzione di prove aventi ad oggetto fatti
estintivi, modificativi o impeditivi del diritto azionato costituirebbe deduzione di
prova contraria, essendo invece pacificamente deduzione di prova diretta.
Occorre, per riconoscere il requisito della contrarietà, che la prova verta su fatti
che siano in relazione di negazione rispetto ai fatti oggetto di prova diretta.
Tale conclusione è vera a condizione di una precisazione: che la negazione può
essere non solo diretta ma anche indiretta. Ciò è chiaro valorizzando il profilo
funzionale e teleologico della prova contraria, finalizzata appunto alla
dimostrazione della falsità degli assunti di controparte. Si riconosce la
contrarietà, pertanto, anche laddove sia la risultante della deduzioni di fatti che,
indirettamente, dimostrino quella falsità.
Oggetto della prova contraria possono essere fatti principali, fatti secondari ed
elementi indiziari, idonei a dimostrare fatti incompatibili con quello oggetto di
prova diretta, ovvero che sia verificato con diverse modalità. Parte della dottrina
ritiene che possano costituire oggetto di prova contraria anche fatti diretti solo
a ingenerare incertezze in relazione ai fatti addotti con la prova diretta e a
inficiare la credibilità della fonte che fornisce conoscenze. Lo standard di
valutazione della prova contraria, è bene rilevarlo, è ben minore di quello
riservato alla prova diretta in quanto essa non deve necessariamente dimostrare
in modo inconfutabile la falsità dei fatti avversi è sufficiente che essa determini
uno stato di incertezza nell’accertamento degli stessi. Ciò in applicazione
della regola di riparto dell’onere della prova, ex art. 2697 c.c..
La prova contraria può essere offerta attraverso tutti gli strumenti istruttori
offerti dalla legge processuale (prova testimoniale o documenti, ad esempio).
Prova contraria e presunzioni relative
La presunzione legale relativa costituisce una valutazione legale della prova del
fatto medesimo che, tuttavia, ammette la possibilità di provare il fatto contrario
a quello presunto. Si ritiene che sia possibile dedurre in tal caso la prova
contraria, la quale tende a negare non già il fatto oggetto di prova diretta (prova
non richiesta e non necessaria) ma la stessa allegazione del fatto medesimo.
L’interesse alla prova contraria nasce non già dalla deduzione della prova
diretta, che non ha luogo, ma dalla mera allegazione del fatto dal quale la legge
trae la presunzione. Ci si deve chiedere, in tal caso, se la prova contraria possa
essere tempestivamente dedotta nella terza memoria di cui all’art. 183 6°
comma c.p.c. (la n. 3), atteso che , in realtà, la reazione di contrasto istruttorio
all’allegazione del fatto a base della presunzione può essere svolta pienamente
dalla controparte già nella seconda memoria (art. 183 6° comma n. 2 c.p.c.). Al
di là del riconoscimento o meno di una prova contraria, il sistema delle memorie
per le deduzioni istruttorie delineato dall’art. 183 6° comma c.p.c. è congegnato
in modo tale da consentire a ciascuna parte l’esercizio dei propri diritti di difesa
e alla prova non appena reso possibile dalle analoghe attività dell’avversario,
sicchè tale congegno sarebbe alterato consentendo da una replica differita a
deduzioni già in precedenza svolte (in tal senso v. Cass., Sez. 3, Sentenza n.
12119 del 17/05/2013). Vi è cioè una sequenzialità progressiva delle rispettive
deduzioni che mal si concilierebbe con la possibilità di articolare per la prima
volta con la memoria n. 3 fatti contrari a quelli posti a base delle presunzioni
invocate dalla controparte già nell’atto introduttivo (atto di citazione o comparsa
di risposta) in quanto identificanti elementi costitutivi di domande o eccezioni in
senso stretto. Deve ritenersi, pertanto, che la prova negativa di fatti di rilievo
presuntivo sia offerta quale prova diretta con la memoria di cui al n. 2.
Un particolare problema applicativo si pone nell’ipotesi in cui sorga
l’esigenza, per una delle parti, di dedurre prove volte a contrastare le
asserzioni della parte avversaria contenute nella seconda memoria di cui
all’art. 183 6° comma c.p.c., quella destinata ad ospitare sia le repliche a
domande ed eccezioni nuove o modificate articolate nella precedente prima
memoria ovvero per proporre eccezioni conseguenti a queste sia le deduzioni di
prova diretta.
Più in generale, la questione è quella della deduzione di prove dirette volte a
contrastare le attività assertive svolte dalle altre parti, in particolare, nella
seconda memoria, essendo la progressione delle decadenze di cui al sesto
comma dell’art. 183 c.p.c. tale da impedire la deduzione di prova diretta, facoltà
ormai consumata dal decorso del secondo termine assegnato dal giudice.
Si tratta di stabilire se dette prove possano essere qualificate come contrarie ed
essere quindi dedotte nella terza memoria, ovvero se debbano qualificarsi come
prove dirette, dovendo essere dedotte già con la seconda memoria di cui all’art.
183, 6° comma, c.p.c..

Un’interpretazione restrittiva della nozione di “prova contraria” (come


prova volta a contrastare le prove dirette dedotte dalla controparte) indurrebbe
ad escludere la possibilità di dedurre , con la terza memoria, prove con le quali
si adducono (e si chiede di provare) fatti contrari a quelli allegati dalla
controparte, in quanto si tratterebbe di prove dirette e non contrarie in senso
stretto (in tal senso Cass., Sez. 3, Sentenza n. 12119 del 17/05/2013, secondo la
quale con il terzo termine ex art. 183, 6° comma, c.p.c., previsto per
l'indicazione dell’eventuale prova contraria, è possibile dedurre solo la
"controprova" rispetto alle richieste probatorie ed al deposito di documenti
compiuto nel primo termine, con la conseguenza che è già il primo termine di
cui alla norma suddetta quello entro cui la parte interessata ha l'onere di
richiedere prova contraria in relazione ai fatti allegati dalla controparte e
definitivamente fissati nel thema decidendum, ai sensi dell'art. 183 cod. proc.
civ.).
Si propone pertanto un’interpretazione più ampia ed elastica della nozione di
“prova contraria”, estesa a comprendere tutte le prove dirette a negare, per la
prima volta, i fatti costitutivi dell’altrui pretesa , assumendo come riferimento
non solo le prove dirette avversarie ma anche i fatti costitutivi dedotti dalla
controparte (GIACOMELLI).
L’esempio che può disegnarsi è quello della reconventio reconventionis
proposta dall’attore nella prima memoria e dell’eccezione di prescrizione
sollevata dal convenuto nella seconda memoria. L’attore, a rigore, non avrebbe
possibilità di replicare con la controeccezione di interruzione della prescrizione
nella terza memoria , a meno che non se ne allarghi il campo all’allegazione e
prova del fatto nuovo rappresentato appunto dall’atto interruttivo della
prescrizione.
Certamente, nell’affrontare l’ampia casistica che può presentarsi occorre
assumere come stella polare il rispetto del diritto di difesa di entrambe le parti e
trovare sempre, nella scansione sequenziale delle preclusioni progressive, lo
spazio indispensabile a che ciascuna delle parti possa sempre svolgere attività
difensiva a seguito delle mutazioni del thema decidendum legittimamente
introdotte dalle altre parti, pena la compromissione del principio costituzionale
del giusto processo, caratterizzato dall’essenziale valore della parità delle armi.
Il contraddittorio deve essere sempre assicurato, pertanto, in relazione al
concerto svolgimento del processo, se del caso ammettendo l’ingresso
riequilibratore del rimedio della rimessione in termini di cui all’art. 153
c.p.c., quale rimedio giudiziale alla perdita incolpevole di facoltà processuali
delle parti.

Prova contraria e principio di non contestazione


La prova contraria non può valere a contrastare fatti non specificamente (e
tempestivamente) contestati. Qui la perdita o limitazione del diritto alla prova
è del tutto esente da profili di lesione del diritto di difesa in quanto discende da
un contegno processuale qualificato dall’inosservanza di un onere (quello di
contestare i fatti allegati dalla controparte) espressamente previsto dalla legge
(art. 115 c.p.c.).
Ammissibilità e rilevanza della prova contraria
La prova contraria deve essere in primo luogo sottoposta al vaglio di
ammissibilità al pari della prova diretta, incorrendo in quelle stesse limitazioni
previste dalla legge processuale per quest’ultima. Non sembra possibile accedere
a quelle tesi che vogliono la prova contraria ammissibile per il solo fatto che sia
stata ritenuta tale la prova diretta.
Il vaglio di rilevanza può ritenersi, più che superfluo, condizionato dalla
ritenuta rilevanza della prova diretta, quando si tratti di prova contraria diretta.
E’ invece necessario un puntuale riscontro della rilevanza nel caso di prova
contraria indiretta, nel quale occorre apprezzare l’idoneità dei fatti contrari
addotti a provare la falsità dei fatti addotti dalla controparte ovvero,
quantomeno, ad inficiarne la certezza e la credibilità.
La verifica della contrarietà è essenziale condizione di ammissibilità in
quanto, in difetto di tale requisito, la prova deve essere correttamente qualificata
come diretta con la conseguente probabile tardività della relativa deduzione.
In fase di assunzione, occorre ricordare che il giudice istruttore può sempre
esercitare il potere di dichiarare chiusa anticipatamente l’istruzione quando
ravvia la superfluità dell’ulteriore prosecuzione, alla luce dei risultati già
raggiunti. Il giudice potrà considerare superflua la prova contraria solo quando
è conforme al convincimento che si è formato sui fatti, sulla base delle prove
assunte fino a quel momento. Al contrario, non potrà ritenere superflua la
prova contraria quando ritenga di avere già acquisito sufficiente certezza
dei fatti alla stregua delle prove dirette, non potendo precludere il diritto
all’assunzione di prove potenzialmente in grado di inficiare quella certezza
solo provvisoriamente raggiunta.
La prova contraria non sarà quindi assunta quando l’esito della prova diretta sarà
stato sfavorevole alla parte che l’aveva dedotta.
Parte della dottrina ritiene il diritto alla prova contraria pervasivo e dunque
esercitabile anche con riguardo ai fatti emersi a seguito delle domande a
chiarimento poste dal giudice in fase di assunzione, nella misura in cui si tratti
di fatti nuovi e diversi da quelli allegati dalle parti , vigendo il principio generale
secondo il quale alle parti deve essere sempre garantito il diritto di riaprire la
trattazione della causa e la deduzione di nuovi mezzi di prova per fare fronte
opponendovisi alle nuove emersioni processuali anche a seguito dell’esercizio
dei poteri istruttori officiosi del giudice.
Preclusioni ed esercizio dei poteri istruttori del giudice

Il sistema delle preclusioni istruttorie risulta profondamente ridisegnato


dall’esercizio dei poteri istruttori ufficiosi attribuiti al giudice (per la cui
trattazione specifica si rinvia alle altre relazioni). L’art. 183, 8° comma, infatti,
prevede che il giudice disponga i mezzi istruttori d’ufficio con l’ordinanza di cui
al settimo comma, che provvede sulle richieste istruttorie avanzate dalle parti e,
contestualmente, assegni alle parti un primo termine perentorio per la deduzione
delle prove che si rendano necessarie per contrastare l’ingresso nel processo di
elementi probatori avversi attraverso i mezzi ufficiosi, nonché un secondo
termine per replicare.
E’ evidente che l’esercizio di poteri istruttori ufficiosi, quando consentito (e
sempre, naturalmente, nei limiti del thema decidendum determinato dalle attività
assertive delle parti, uniche arbitre delle domande ed eccezioni costituenti
l’oggetto del giudizio), deve avvenire nel rispetto del contraddittorio tra le parti,
assicurato dall’esercizio del diritto alla prova contraria sui mezzi indicati dal
giudice.
Essenziale , tuttavia, verificare la stretta necessarietà delle nuove deduzioni
istruttorie svolte a seguito dell’istruzione ufficiosa, al fine di evitare
l’aggiramento delle preclusioni istruttorie già verificatesi.

Insopprimibilità dell’assegnazione di termini per le deduzioni istruttorie

Il giudice è davvero sempre obbligato a concedere i termini per le deduzioni


istruttorie ?

La questione è quella dell’esistenza o meno di un potere del giudice di


rifiutare l’assegnazione dei termini. In altri termini, può il giudice ritenere la
causa matura per la decisione “saltando” la trattazione scritta ? L’art. 80
bis disp. att. c.p.c. stabilisce che la rimessione al collegio, a norma dell'articolo
187 del codice, può essere disposta dal giudice istruttore anche nell'udienza
destinata esclusivamente alla prima comparizione delle parti e da tale
previsione, scritta in funzione del rito ordinario di cognizione collegiale
originariamente previsto dal codice ma ad oggi pur sempre vigente, sembrerebbe
ricavarsi che la concessione dei termini per la trattazione scritta è subordinata
alla valutazione del giudice che la causa non sia già matura per la decisione di
merito.

Con riguardo al modello processuale introdotto dalla novella del 1995,


caratterizzato dalla previsione di un’udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. con
l’eventuale appendice di trattazione scritta ai sensi del quinto comma all’epoca
vigente e dal differimento ad altra udienza, ai sensi dell’art. 184 c.p.c., con
assegnazione dei termini per le deduzioni istruttorie, Cass., Sez. III, 21-02-
2002, n. 2504, aveva affermato che “nel procedimento ordinario di cognizione,
l'udienza per le deduzioni istruttorie indicata dall'art. 184 c.p.c. non costituisce
un momento indefettibile che debba necessariamente precedere la rimessione
della causa al collegio. Ed infatti, a norma dell'art. 187 del codice di rito, il
giudice, ove ritenga che la causa sia matura per la decisione senza necessità di
assunzione di mezzi di prova - ciò che può avvenire se tra le parti sia insorta
controversia solo in punto di diritto relativamente a diritti disponibili delle parti,
o se i fatti controversi siano provati attraverso documenti, ovvero quando le parti
stesse non abbiano chiesto l'ammissione di prove sui punti controversi - rimette
le parti davanti al collegio per la decisione”. Analogamente, per Trib. Torino,
22.7.2002 “al termine della prima udienza di trattazione il giudice istruttore ove
ritenga la causa matura per la decisione senza bisogno di assunzione di mezzi di
prova, può legittimamente rimettere le parti davanti al collegio, così
disattendendo la richiesta formulata da una di esse per la concessione dei termini
per la trattazione scritta e conseguente fissazione di udienza per l'adozione dei
provvedimenti di cui all'art. 184 c. p. c.”. Si affermava dunque la natura
eventuale della fase istruttoria e, pertanto, della insussistenza di un obbligo del
giudice istruttore di concedere i termini (In senso contrario alla sussistenza di un
obbligo del giudice istruttore di fissare i termini anche ex art. 183, 5° comma, c.
p. c. pur in presenza di istanza di una delle parti, si vedano: con riferimento al
processo di divorzio. Per la precisazione delle circostanze in presenza delle quali
un tale obbligo sussisterebbe cfr. Trib. Pavia, 15.2.1999. V., infine, Trib.
Brindisi, 26 maggio 1997 secondo il quale l’udienza ex art. 184 c. p. c. avrebbe
dovuto essere fissata dal giudice istruttore solo nell’ipotesi in cui le parti
avessero richiesto i termini per la cosiddetta appendice di trattazione scritta).

Più di recente, anche Cass., Sez. 3, Sentenza n. 7556 del 27/03/2009, sempre con
riguardo al sistema anteriore alla novella del 2005, ha statuito che il giudice può
rimettere la causa in decisione, quando non ritenga necessaria l'assunzione di
mezzi di prova (art. 187, primo comma, cod. proc. civ.), non soltanto alla prima
udienza di trattazione (art. 183 cod. proc. civ.), ma anche, come risulta
dall'articolo 80-bis disp. att. cod. proc. civ., all'udienza di prima comparizione di
cui all'art. 180 cod. proc. civ. - nella formulazione precedente le modifiche
apportate dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. nella legge 14 maggio 2005, n. 80
-, non configurandosi in tal caso una lesione del diritto di difesa, soprattutto se la
parte convenuta (come nella specie) abbia rinunciato ad avvalersi del termine di
cui al secondo comma del medesimo art. 180 cod. proc. civ..

In senso contrario, Cass., Sez. 3, Sentenza n. 4497 del 24/02/2011, secondo la


quale la concessione del termine di cui all'art. 184 cod. proc. civ. - nel testo
modificato dall'art. 18 della legge 26 novembre 1990, n. 353, applicabile
"ratione temporis" - non è rimessa alla discrezionalità del giudice, ma consegue
automaticamente alla richiesta proveniente dalla parte, ove funzionale alla
corretta estrinsecazione del diritto di difesa; ne consegue che il giudice di merito
non può negare il termine per le istanze e produzioni istruttorie sul rilievo che la
causa è di natura documentale e, nel contempo, rigettare la domanda per carenza
delle prove documentali che la parte avrebbe potuto produrre nel termine
ingiustamente negato.

La giurisprudenza di legittimità ha poi delineato le conseguenze della


violazione del diritto all’assegnazione dei termini nel senso che “Qualora
venga dedotto il vizio della sentenza di primo grado per avere il tribunale deciso
la causa nel merito prima ancora che le parti avessero definito il "thema
decidendum" e il "thema probandum", l'appellante che faccia valere tale nullità -
una volta escluso che la medesima comporti la rimessione della causa al primo
giudice - non può limitarsi a dedurre tale violazione, ma deve specificare quale
sarebbe stato il "thema decidendum" sul quale il giudice di primo grado si
sarebbe dovuto pronunciare ove fosse stata consentita la richiesta
appendice di cui all'art. 183, quinto comma, cod. proc. civ., e quali prove
sarebbero state dedotte, poiché in questo caso il giudice d'appello è tenuto
soltanto a rimettere le parti in termini per l'esercizio delle attività istruttorie non
potute svolgere in primo grado (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 23162 del
31/10/2014; Sez. 1, Sentenza n. 9169 del 09/04/2008).

Nella stessa linea Cass., Sez. 2, Sentenza n. 4448 del 27/02/2007 secondo la
quale “in tema di udienza di prima comparizione, la mancata concessione da
parte del giudice dei termini di cui agli articoli 180, 183 e 184 cod. proc. civ.
(secondo la formulazione successiva alle norme modificative del d.l. 18 ottobre
1995 n.432 conv. nella legge 20 dicembre 1995 n.534, e prima delle modifiche
apportate dalla legge 14 maggio 2005 n.80, oltre che dalla legge 28 dicembre
2005 n.263), non comporta né la nullità della sentenza di primo grado né la
regressione della causa ai sensi dell'articolo 354 cod. proc. civ., stante la
tassatività delle ipotesi da quest'ultimo previste che non ricomprendono quella
della asserita violazione delle suddette disposizioni del codice di procedura
civile. Ne consegue che, essendo le norme che regolano la sequenza delle
udienze di cui agli articoli 180 e 183 cod. proc. civ. poste a tutela del diritto di
difesa delle parti ed avendo natura inderogabile, qualora il giudice di appello
ravvisi un vizio del procedimento consistente nella mancata assegnazione al
convenuto del termine di cui all'articolo 180 cod. proc. civ., è tenuto soltanto a
rimettere in termini le parti per l'esercizio delle attività deduttive ed istruttorie
non potute esercitare in primo grado".

Il sistema delle preclusioni delineatosi all’indomani della novella del 1995


consentiva l’esercizio del potere del giudice istruttore di diniego dei termini per
le deduzioni istruttorie in quanto l’art. 184 c.p.c. lasciava espressamente salvo il
potere di disporre ex art. 187 c.p.c. e, dunque, di mandare la causa a decisione
ove la stessa fosse ritenuta matura per la decisione. La novella del 2005,
concentrando le udienze ex art. 183 e 184 c.p.c. e prevedendo l’assegnazione in
un unico contesto dei tre termini per la determinazione del thema decidendum e
probandum, ha reso più ardua la soluzione, prima prospettata, della
discrezionalità dell’assegnazione dei termini istruttori. La formulazione letterale
della norma fa propendere per la necessarietà dell’assegnazione dei termini e
per l’insindacabilità da parte del giudice istruttore dell’esercizio della correlativa
facoltà delle parti.
Inoltre, negare i termini alle parti che lo richiedano comporterebbe la perdita sia
di quelli afferenti all’attività assertiva e alla determinazione dell’oggetto del
giudizio che di quelli afferenti alle deduzioni probatorie. Infine, si dice, il 7°
comma dell’art. 183 c.p.c., che prevede ancora la salvezza dell’applicazione
dell’art. 187 c.p.c., sembra collocare la possibilità di rimessione in decisione
della causa ad un momento comunque successivo al decorso dei termini di cui al
6° comma.

Occorre tuttavia considerare l’ulteriore novità costituita dal disposto di cui


all’art. 183 bis c.p.c., norma che, introdotta dall’art. 14 d.l. 12.9.2014, n. 132,
conv. con modif. nella l. 10.11.2014, n. 162 e applicabile alle procedure iniziate
successivamente al trentesimo giorno della entrata in vigore della legge di
conversione (dunque all’11.12.2014), prevede che, in prima udienza di
trattazione, il giudice istruttore possa disporre il passaggio al rito sommario e
che le parti deducano alla stessa udienza i mezzi di prova (la richiesta di
assegnazione di un breve termine per dedurli potrebbe non essere accolta dal
giudice, al quale è rimessa la facoltà di concedere il termine). Tale istituto
attribuisce al giudice un amplissimo potere di gestione della lite che contiene in
sé , evidentemente, il potere di pervenire alla decisione immediata della
causa in prima udienza secondo la seguente sequenza: atto di citazione –
comparsa di risposta – udienza ex art. 183 c.p.c. – valutazione della complessità
della lite e dell’istruzione probatoria – ordinanza di passaggio al rito sommario –
deduzione in udienza delle prove – valutazione della loro irrilevanza/superfluità
– emissione dell’ordinanza ex art. 702 ter 5° comma c.p.c. alla medesima prima
udienza. Il giudice istruttore non è tenuto a consentire inutili appendici di
trattazione laddove sia certo l’esito della controversia e del tutto prevedibile
l’inidoneità delle attività processuali ancora consentite in prima udienza e nella
trattazione scritta successiva a condurre ad un esito differente (TEDOLDI).
Occorre occuparsi, senza peraltro potere svolgere una trattazione sistematica,
dell’istituto in esame, frutto di recente intervento riformatore ispirato all’ansia
“semplificatoria” che pervade il legislatore nel campo del processo civile e al
principio della razionale allocazione delle “risorse processuali” secondo un
criterio di proporzionalità, in quanto l’art. 183 bis c.p.c. costituisce uno
strumento di flessibilità del processo di cognizione , realizzato attribuendo al
giudice istruttore un ampio potere discrezionale di valutazione del modulo
processuale più adatto in relazione alla semplicità / complessità della lite (in
relazione all’oggetto del giudizio) e della relativa istruzione (in relazione alla
numerosità e complessità dei mezzi istruttori necessari all’accertamento dei fatti
di causa) realizzando una profonda incisione sulle cadenze processuali della
trattazione e, in particolare, sul sistema delle preclusioni assertive e, per quanto
ci interessa direttamente, probatorie.

Il giudice è chiamato ad effettuare una valutazione prognostica all’udienza di


trattazione, ex art. 183 c.p.c., in un momento in cui le parti potrebbero non
avere svolto alcuna deduzione istruttoria , tenendo conto che nessuna decadenza
è comminata dalla legge alla mancata indicazione dei mezzi di prova negli atti
introduttivi e, successivamente, all’udienza in questione, ove almeno una delle
parti chieda l’assegnazione dei termini di cui all’art. 183 6° comma c.p.c..
Dunque, la valutazione del giudice è gioco forza effettuata sulla base una
cognizione incompleta delle allegazioni delle parti ma è, nondimeno,
irreversibile: qualora l’istruzione, ad esempio, si rivelasse successivamente
complessa, non sarà possibile tornare indietro in quanto l’ordinanza di
passaggio dal rito ordinario a quello sommario è espressamente dichiarata non
impugnabile e dunque non è revocabile o modificabile dal giudice, ai sensi
dell’art. 177 c.p.c..

Qualora il giudice istruttore valuti la sussistenza dei presupposti del passaggio al


rito sommario, inviterà le parti ad indicare , a pena di decadenza, nella
stessa udienza i mezzi di prova e i documenti di cui intendono avvalersi,
mentre l’assegnazione alle parti, ove queste lo richiedano, di un termine
perentorio di quindici giorni per indicazione dei mezzi di prova e produzioni
documentali e di un termine perentorio di ulteriori giorni dieci per le sole
indicazioni di prova contraria, appare affidata alla discrezionalità del giudice, il
quale può o meno concederli.
E’ questo il punto di maggiore tensione introdotto dall’istituto, il quale prevede
in sostanza l’eventualità, sia pure subordinata ad una valutazione
(necessariamente munita di margini di elasticità e non pienamente prevedibile ex
ante) di semplicità della causa, dell’anticipazione “a sorpresa” (nella stessa
udienza di trattazione) delle decadenze afferenti alla definizione del thema
decidendum e del thema probandum con la conseguenza di onerare i legali, in
via di fatto, di giungere all’udienza pronti ad articolare le proprie richieste
istruttorie e a depositare documenti, non potendo contare sulla certa
assegnazione di un termine allo scopo. Soprattutto, si rappresenta l’estrema
difficoltà (nel caso di mancata assegnazione dei termini) di una deduzione, in
udienza, delle prove contrarie e il più che probabile appesantimento dell’udienza
per consentire ai difensori lo svolgimento seduta stante delle necessarie difese.
Appare evidente come l’istituto ponga in forte tensione il diritto di difesa delle
parti mentre, sotto altro profilo, si segnala anche il possibile contrasto con il
principio costituzionale della riserva di legge in materia di disciplina del
processo (art. 111 , 1° comma, Cost.: la giurisdizione si attua mediante il giusto
processo regolato dalla legge), con riferimento alla paventata imprevedibilità
del modulo processuale applicabile, soggetto ad una valutazione eccessivamente
discrezionale del giudice.
L’antidoto a tali criticità (senza che valga ad attenuarla la previsione, quale
contraltare volto a bilanciare il possibile sacrificio delle facoltà di difesa delle
parti, del maggiore spazio consentito ai nova istruttori in appello dall’art. 702
quater c.p.c.) viene riconosciuto, allora, in un’interpretazione
costituzionalmente orientata e correttiva della norma nel senso che, laddove
sembra attribuire al giudice una mera facoltà discrezionale di assegnazione dei
termini, deve ritenersi che imponga al giudice detta assegnazione a semplice
richiesta.
Riassumendo, nel caso di passaggio dal rito ordinario al rito sommario di
cognizione le preclusioni assertive e istruttorie si verificano all’udienza,
originariamente destinata alla trattazione della causa ex art. 183 c.p.c., in cui il
giudice dispone il mutamento del rito, dovendo pertanto le parti procedere al
compimento in udienza di tutte le attività concernenti la definitiva definizione
del thema decidendum e del thema probandum, salva l’assegnazione di termini
per le deduzioni di prova e di prova contraria.
Il giudice può assegnare i predetti termini se richiesto da almeno una delle parti
ma se ritiene di negare l’assegnazione deve consentire alle parti, alla stessa
udienza, di dedurre le prove di cui intendono avvalersi.
Laddove il termine sia assegnato si viene a delineare uno sdoppiamento delle
barriere preclusive: all’udienza si consuma il potere di intervenire sull’oggetto
del giudizio e sull’allegazione dei fatti principali mentre nei termini viene a
consumarsi il potere di allegazione delle prove. Il che consente effettivamente di
evitare quella sovrapposizione e contemporaneità tra preclusioni assertive ed
istruttorie che costituisce indubbiamente un fattore di difficoltà per l’esercizio
delle facoltà processuali delle parti.

Le preclusioni istruttorie nel rito sommario

Il processo sommario regolato dagli artt. 702 bis e segg. c.p.c. si definisce come
un giudizio a trattazione ed istruzione semplificata ma a cognizione piena
(BESSO) e si caratterizza per l’assenza di una predeterminazione legislativa
delle articolazioni delle fasi di trattazione , istruzione e decisione
(GIACOMELLI).

Nondimeno, anche nel processo sommario si delinea un sistema di preclusioni


assertive e probatorie che trova il suo perno non tanto negli atti introduttivi
quanto piuttosto nella prima udienza di trattazione della causa.

Stando alla lettera della legge, uniche decadenze espressamente codificate sono,
in effetti, quelle inerenti alle facoltà del convenuto di proporre domande
riconvenzionali e di sollevare eccezioni in senso stretto (ovvero non rilevabili
d’ufficio). La disciplina del contenuto degli atti introduttivi prevede
indubbiamente che in essi avvenga l’allegazione dei fatti posti a fondamento
delle rispettive posizioni processuali ma non vi sono specifiche decadenze
collegate agli atti introduttivi medesimi e al momento della costituzione in
giudizio, se si eccettua, con riguardo al resistente, la decadenza espressa relativa
alle domande riconvenzionali e alle eccezioni in senso stretto che devono essere
formulate – appunto – nella comparsa di costituzione tempestivamente
depositata nel termine previsto dall’art. 702 bis 3° comma c.p.c..

Un primo orientamento dottrinario, pertanto, esclude la configurabilità di


decadenze ulteriori valorizzando l’elasticità e la deformalizzazione che
caratterizzerebbero il rito sommario di cognizione.

Secondo un diverso orientamento, al contrario, all’udienza e non oltre la stessa


le parti dovranno fissare in modo definitivo il thema decidendum e il thema
probandum. Pure in udienza le parti potranno produrre nuovi documenti e
indicare nuovi e ulteriori mezzi di prova, senza incontrare alcuna barriera
preclusiva. Siffatta barriera si forma, tuttavia, al termine dell’udienza medesima,
oltre la quale le parti non potranno ulteriormente dedurre prove. Tale
preclusione va istituita in via interpretativa sulla scorta di una duplice
considerazione:

a) all’udienza il giudice deve formulare la sua valutazione di compatibilità


del rito semplificato prescelto dal ricorrente con la complessità
dell’istruzione della causa al fine dell’eventuale passaggio al rito
ordinario (disposto con ordinanza non impugnabile che fissa l’udienza di
cui all’art. 183 c.p.c.) e tale valutazione richiede necessariamente il
quadro completo delle deduzioni istruttorie delle parti e, soprattutto, la sua
cristallizzazione, in quanto non sarebbe ammissibile un’ulteriore attività
di deduzioni istruttorie che rendano successivamente, quando il giudice
non ha più il potere di mutare il rito, l’istruzione eccessivamente
complessa per le forme semplificate del rito sommario;
b) all’udienza il giudice, sentite le parti, ove non ritenga di adottare il
provvedimento di mutamento del rito, procede all’istruzione della causa e
quindi emette l’ordinanza che definisce il giudizio, delineandosi una
concentrazione di ogni attività processuale che non lascia
evidentemente spazio ad appendici di trattazione ulteriore (come si è detto
non è previsto che le parti possano chiedere e ottenere termini per ulteriori
allegazioni assertive e probatorie).

Le preclusioni istruttorie nel processo del lavoro

Nel rito del lavoro si delinea il seguente quadro di preclusioni assertive ed


istruttorie:

ai sensi dell’art. 414 c.p.c. il ricorrente deve determinare l’oggetto della


domanda ed esporre i fatti e gli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda
con le relative conclusioni nonché indicare in modo specifico i mezzi di prova di
cui intende avvalersi e dei documenti offerti in comunicazione;

l’art. 416 c.p.c. prevede che il convenuto debba, nella propria memoria
difensiva, prendere posizione in maniera precisa e non generica sui fatti
affermati dall’attore a fondamento della domanda , proporre tutte le sue difese in
fatto e in diritto ed indicare specificamente , a pena di decadenza, i mezzi di
prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve
contestualmente depositare.

Il codice prevede espressamente la sanzione della decadenza , con riguardo, tra


l’altro, alle attività istruttorie, solo nella disciplina dell’atto introduttivo del
convenuto. Tuttavia, l’orientamento pacifico della S.C. è fermo nel ritenere che,
sia il ricorrente sia il resistente incorrano in decadenza ove non indichino i
mezzi di prova negli atti introduttivi, tempestivamente depositati, e non
producano i documenti contestualmente al deposito di detti atti.

Si veda , con riguardo alla posizione del ricorrente, Cass., sez. L, Sentenza n.
22305 del 24/10/2007, secondo la quale “nel rito del lavoro, il ricorrente è
tenuto ad indicare in ricorso i mezzi di prova, che devono essere specificati così
come prescritto dall'art. 414 n. 5 cod. proc. civ.; l'omessa indicazione dei mezzi
di prova comporta non la nullità del ricorso ma la decadenza dalla possibilità di
successiva deduzione delle prove nel corso del processo” e, con riguardo alla
posizione del resistente, Cass., Sez. L, Sentenza n. 16337 del 13/07/2009; Sez. L,
Sentenza n. 16781 del 29/07/2011, secondo le quali “l'omessa indicazione dei
documenti probatori nell'atto di costituzione in giudizio, imposta dall'art. 416,
terzo comma cod. proc. civ., e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a
tale atto, determinano la decadenza dal diritto di produrli, salvo che i documenti
si siano formati successivamente ovvero la loro produzione sia giustificata dallo
sviluppo del processo (art. 420, quinto comma, cod. proc. civ.”).
Il fondamento argomentativo per l’affermazione del carattere perentorio dei
termini in esame si rinviene nelle disposizioni di cui all’art. 420, 1° e 5°
comma: la prima previsione consente alle parti, a condizione che ricorrano gravi
motivi, di modificare le domande , eccezioni e conclusioni già formulate,
all’udienza di discussione ex art. 420 c.p.c., previa autorizzazione del giudice; la
seconda prevede che il giudice, ad esito dell’udienza, ammetta i mezzi di prova
già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima.
Entrambe le previsioni presuppongono, evidentemente, la formazione anteriore
(e dunque collegata al deposito degli atti introduttivi) di barriere preclusive sia
per le attività assertive sia per le attività istruttorie.

Il deposito tardivo, ad esempio, all’udienza di discussione, di documenti, così


come l’indicazione tardiva dei mezzi di prova , non sono dunque ammissibili in
quanto la violazione delle preclusioni poste implica decadenza dal relativo
potere processuale, rilevabile d’ufficio dal giudice e non disponibile dalle parti.

Si veda, in tale senso, Cass., Sez. 3, Sentenza n. 24900 del 25/11/2005, secondo
la quale “la decadenza prevista dall'art. 414, n. 5, e 416, terzo comma, cod.
proc. civ. ha carattere assoluto ed inderogabile e deve essere rilevata d'ufficio
dal giudice indipendentemente dal silenzio serbato dalla controparte o dalla
circostanza che la medesima abbia accettato il contraddittorio, atteso che nel rito
del lavoro la disciplina dettata per il giudizio risponde ad esigenze di ordine
pubblico attinenti al funzionamento stesso del processo, in aderenza ai principi
di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano”.

Attenuazioni del rigore delle barriere preclusive – anche – istruttorie si


rinvengono nei seguenti casi:

- formazione del documento successiva al maturarsi delle barriere


preclusive;
- più in generale, sussistenza dei presupposti della rimessione in termini, ex
art. 153 c.p.c., trattandosi di istituto di generale applicazione operante in
tutti i moduli processuali predisposti dal legislatore;
- necessità della prova emergente dallo “sviluppo del processo”;
- esercizio dei poteri istruttori ufficiosi del giudice ai sensi dell’art. 421
c.p.c. (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 12902 del 23/06/2015, con riguardo al
processo agrario, governato anch’esso dalla disciplina del processo del
lavoro), il quale consente l’ingresso nel processo di prove pur se le parti
sono incorse in decadenze e, dunque, delle stesse prove dedotte , ad
esempio, tardivamente dalle parti; in tali casi, secondo un principio
generale che impone la “riapertura” dei termini per lo svolgimento di
attività difensive ogni qualvolta il giudice, nell’esercizio dei propri poteri
istruttori ufficiosi, allarghi il thema probandum, occorrerà assegnare
all’altra parte un termine per dedurre prove contrarie rispetto a quelle
ammesse al fine di realizzare il riequilibrio delle “armi” processuali delle
parti.

Con riguardo all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio, è possibile sintetizzare i


seguenti limiti , funzionali ad assicurare il rispetto del principio dispositivo e il
principio della parità delle armi, che sovrintendono comunque anche il processo
lavoristico (PISANI):

le prove d’ufficio, sia ex art. 421, che ex art. 437 c.p.c., possono riguardare
soltanto fatti tempestivamente allegati dalle parti
(Cass., Sez. Un., 20 aprile 2005, n. 8202; Cass., 17 giugno 2004, n. 11535;
Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572; Cass., 1 luglio 2010, n. 15653; Cass., 2
febbraio 2009, n. 2577; Cass., 13 settembre 2003, n. 13467; Cass., 6 marzo
2001, n. 3228).

la produzione documentale è utile soltanto a provare fatti già allegati e non


ad introdurne di nuovi; è inammissibile l’utilizzo delle prove documentali
come fonti di allegazioni non contenute nell’atto difensivo
(Cass., Sez. Un., n. 8202/2005),

il potere officioso non può riguardare i fatti pacifici, sottratti, come tali,
all’istruttoria di parte e d’ufficio, così come non può esplicarsi mediante
una prova atipica o non voluta dalle parti, né per sminuire una prova già
espletata
(Cass., Sez. Un., n. 11353/2004 e 8202/2005)

il giudice non può utilizzare i suoi poteri istruttori per sopperire alla totale
e ingiustificata inerzia della parte ormai decaduta, bensì solo per risolvere
un dubbio residuato dopo l’istruttoria di parte e non per capovolgerne l’esito
emersione nella espletata istruttoria di risultanze che offrono già dati di indagine
significativi ma che in relazione ad essi il giudice reputi insufficienti le prove
già acquisite la condizione per l’ammissibilità, anche in appello, di prove
indispensabili per la dimostrazione o negazione di fatti allegati, è pur sempre la
preesistenza di altri mezzi istruttori, ritualmente dedotti ed acquisiti, meritevoli
di approfondimento, con esclusione, quindi, dell’ammissibilità dei medesimi
mezzi di prova, orale o scritta, che per le parti siano definitivamente preclusi.

È ormai superata la distinzione tra prove costituite (documenti) e prove


costituende ai fini dell’operatività delle preclusioni dei nova istruttori nel
giudizio d’appello
(Cass., Sez. Un., Sentenza n. 8203 del 20/04/2005)
Le preclusioni istruttorie nel processo davanti al giudice di pace.

Nel processo davanti al giudice di pace non vi sono preclusioni legate agli atti
introduttivi né termini di costituzione la cui violazione importi, in particolare per
il convenuto, decadenze specifiche.

E’ all’udienza di prima comparizione e trattazione, disciplinata dall’art. 320


c.p.c., che si consumano, pertanto, le preclusioni sia concernenti le attività
assertive e la determinazione dell’oggetto del giudizio sia le attività di
deduzione e allegazione istruttoria.

Il momento centrale dell’udienza si individua proprio nell’invito del giudice alle


parti affinchè precisino definitivamente i fatti posti a fondamento della
domanda, difese ed eccezioni, producano i documenti e indichino i mezzi di
prova da assumere.

Solo quando sia reso necessario dalle attività assertive svolte dalle parti in prima
udienza, il giudice per una sola volta fissa una nuova udienza per ulteriori
produzioni e richieste di prova.

Anche nel processo davanti al giudice di pace, dunque, opera un sistema di


preclusioni che così può riassumersi:

l’indicazione dei mezzi di prova e la produzione di documenti deve essere


effettuata, al più tardi, all’udienza ex art. 320 c.p.c. e, deve ritenersi, alla prima
udienza fissata, a pena di decadenza (“nel procedimento davanti al giudice di
pace non è configurabile una distinzione tra udienza di prima comparizione e
prima udienza di trattazione, per cui deve ritenersi che le parti all'udienza di cui
all'art. 320 cod. proc. civ. possano ancora allegare fatti nuovi e proporre nuove
domande od eccezioni, in considerazione del fatto che esse sono ammesse a
costituirsi fino a detta udienza; il rito è tuttavia caratterizzato dal regime di
preclusioni che assiste il procedimento dinanzi al tribunale, le cui disposizioni
sono applicabili in mancanza di diversa disciplina; ne consegue che, dopo la
prima udienza, in cui il giudice invita le parti a "precisare definitivamente i
fatti", non è più possibile proporre nuove domande o eccezioni e allegare a
fondamento di esse nuovi fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi, né
tale preclusione è disponibile dal giudice di pace mediante un rinvio della prima
udienza, per consentire tali attività oramai precluse, e parimenti l'omissione da
parte del giudice del predetto formale invito non impedisce la verificazione della
preclusione.( Sez. 1, Sentenza n. 12454 del 16/05/2008);

solo quando il giudice abbia fissato una nuova udienza reputandola necessaria in
considerazione delle attività processuali svolte dalle parti alla prima udienza,
sarà possibile dedurre nuove prove e produrre nuovi documenti alla nuova
udienza;
il giudice non ha il potere di disporre delle preclusioni previste dalla legge
sicchè un ulteriore rinvio, non consentito, non rimette le parti in termini rispetto
all’esercizio delle facoltà inerenti le attività probatorie e lascia consumata la
decadenza verificatasi (in tal senso: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 27925 del
21/12/2011 secondo la quale “a norma dell'art. 320 cod. proc. civ., nel
procedimento davanti al giudice di pace non è configurabile una distinzione tra
prima udienza di comparizione e prima udienza di trattazione, pur essendo il rito
caratterizzato dal regime di preclusioni tipico del procedimento davanti al
tribunale; ne consegue che la produzione documentale, laddove non sia avvenuta
nella prima udienza, rimane definitivamente preclusa, né il giudice di pace può
restringere l'operatività di tale preclusione rinviando ad un'udienza successiva
alla prima al fine di consentire la produzione non avvenuta tempestivamente”; v.
anche Sez. 3, Sentenza n. 18498 del 25/08/2006);

le decadenze che derivano dalla violazione dei termini perentori sopra


ricostruiti, sono rilevabili d’ufficio (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 7270 del
18/03/2008 , secondo la quale “le norme che prevedono preclusioni assertive ed
istruttorie nel processo civile (tanto dinanzi al giudice di pace, quanto dinanzi al
tribunale) sono preordinate a tutelare interessi generali, e la loro violazione è
sempre rilevabile d'ufficio, anche in presenza di acquiescenza della parte
legittimata a dolersene. Ne consegue che nel procedimento dinanzi al giudice di
pace, ove il convenuto si costituisca tardivamente e formuli domanda
riconvenzionale (di rivalsa, nella specie) nei confronti di altro convenuto,
l'inammissibilità di tale domanda è sempre rilevabile d'ufficio, tanto nell'ipotesi
in cui il destinatario della domanda riconvenzionale si sia costituito (salva
l'ipotesi, eccezionale, in cui sia chiesta ed ottenuta la rimessione in termini),
quanto - a maggior ragione - in quella in cui sia rimasto contumace”).

L’ordinanza istruttoria e il calendario del processo


L’ordinanza istruttoria

L’ordinanza istruttoria costituisce il provvedimento conclusivo della fase


caratterizzata dal dispiego delle deduzioni delle parti in merito alle richieste di
assunzione dei mezzi di prova.

Essa contiene, in primo luogo, l’esito, motivato (l’art. 134 c.p.c. prescrive che
l’ordinanza sia succintamente motivata) del vaglio di ammissibilità e rilevanza
di ciascuno dei mezzi istruttori oggetto delle richieste delle parti. Non occorre
che siano esaminati entrambi i due profili, in quanto non vi è una pregiudizialità
logica dell’uno all’altro né si rende necessario esaminare l’uno se si è già
pervenuto, secondo un criterio di maggiore “liquidità”, all’esclusione dell’altro.
In realtà la portata della motivazione dell’ordinanza istruttoria è notevolmente
depotenziata dalla giurisprudenza di legittimità, la quale esclude che il giudice
istruttore sia tenuto ad esplicitare , per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui
lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia
possa essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (Cass., 10.6.2009, n.
13375). L’ordinanza, infine, conterrà l’eventuale disposizione di mezzi istruttori
ufficiosi, con ogni conseguente provvedimento conseguenziale in ordine alla
riapertura del contraddittorio tra le parti al fine di consentire loro la deduzione di
eventuali prove che sia conseguenziale all’allargamento del thema probandum.

L’ordinanza istruttoria è divenuta poi atto pianificatorio delle attività


processuali, dovendo il giudice programmare i successivi incombenti istruttori e
la stessa precisazione delle conclusioni o, comunque, ogni attività inerente la
fase decisoria della causa, “calendarizzando” le attività medesime secondo
quanto richiesto dall’art. 81 bis disp. att. c.p.c., norma istitutiva, appunto, del
c.d. calendario del processo, istituto introdotto dalla novella di cui alla l. n.
69/2009 e operante in tutte le cause iniziate successivamente al 4.7.2009 (art. 58
l. n. 69/2009), per la cui trattazione si rinvia al paragrafo successivo. Collegato a
questo tema è quello della possibilità che il giudice effettui un’ammissione
“frazionata” delle prove, pronunciandosi in un primo tempo solo su quelle utili a
dirimere questioni pregiudiziali di merito che potrebbero definire rapidamente il
giudizio (ad esempio, al fine di accertare l’avvenuta interruzione della
prescrizione del diritto azionato, eccepita dalla controparte) e riservandosi
all’esito la valutazione delle prove ulteriori, necessarie per la decisione delle
questioni logicamente successive. Non sembra che vi siano ostacoli processuali
a tale modus procedendi, a condizione che lo stesso sia ben calibrato sul caso
concreto perché assolva effettivamente ad una funzione di dosatura razionale
delle risorse giudiziarie, evitando una dispendiosa istruttoria su fatti che
potrebbero divenire irrilevanti al fine della decisione. Occorre tenere conto che ,
in molti casi, il rischio di eccessivo appesantimento dell’istruttoria potrebbe
disinnescarsi posponendo l’assunzione dei mezzi istruttori la cui utilità è
subordinata all’esito di altri ed esercitando quindi, ove del caso, il potere del
giudice istruttore di revocare l’ordinanza istruttoria in relazione alla
sopravvenuta irrilevanza delle altre prove inizialmente ammesse.

L’esame del contenuto dell’ordinanza istruttoria si appunta, innanzitutto, sul


vaglio di ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova dedotti dalle parti, cui è
subordinata l’ammissione dei mezzi di prova ai sensi dell’art. 183, 7° comma,
c.p.c..

Occorre premettere che siffatto duplice vaglio non attiene ai documenti, le c.d.
prove costituite, le quali sono acquisite al processo in virtù della mera e rituale
produzione in giudizio (competendo poi al giudice, in fase decisoria,
apprezzarne il concreto apporto probatorio), ma solo alle prove costituende.
La valutazione di ammissibilità ha natura strettamente giuridica ed attiene ai
profili di legalità della prova , richiedendo di verificare che il mezzo istruttorio
in concreto richiesto dalla parte sia conforme allo schema legale di disciplina
dello stesso ovvero se presenti profili di difformità da esso. eccedendo i limiti o
disattendendo le modalità di deduzione prescritte dalla legge. Occorrerà,
pertanto, verificare:

- la tempestività della deduzione del mezzo, entro i termini preclusivi


dettati dalla disciplina del modello processuale adottato;
- il rispetto dei limiti di ammissibilità e delle modalità di deduzione
prescritte dalla legge dello specifico mezzo istruttorio richiesto, previa
risposta al quesito se la violazione eventuale di tali limiti debba essere
rilevata d’ufficio dal giudice o richieda una specifica (e tempestiva)
eccezione della controparte (v. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 21395 del
10/10/2014, nel senso della non rilevabilità d’ufficio della violazione delle
prescrizioni di cui all’art. 244 c.p.c.; analoga soluzione, con riguardo alla
violazione dei divieti di prova testimoniale di cui agli artt. 2722 e 2723
cod. civ, è affermata, tra le molte, da Sez. 2, Cass., Sentenza n. 21443 del
19/09/2013).

La valutazione di rilevanza implica un giudizio prognostico formulato ex ante


sulla idoneità del mezzo in concreto richiesto ad accertare utilmente nel
processo l’esistenza o l’inesistenza dei fatti allegati in causa. Va pertanto esclusa
la rilevanza:

- di mezzi istruttori finalizzati a provare fatti estranei all’oggetto del giudizio


come tempestivamente dedotto e determinato in causa, nel rispetto delle
preclusioni c.d. assertive operanti ovvero fatti afferenti a domande ed eccezioni
non ritualmente o tempestivamente dedotte;

- di mezzi istruttori finalizzati a provare fatti pacifici o non contestati ovvero


ancora già solidamente provati o, comunque, fatti che, anche ove provati, non
inciderebbero sul percorso logico-argomentativo della decisione.

Per converso, non può ritenersi irrilevante una prova diretta a contrastare l’esito
di altre prove o comunque a fornire una diversa versione dei fatti che debbono
essere provati in quanto una prova può dirsi superflua solo quando mira a
provare un fatto già dimostrato. Inoltre, esula dal giudizio di rilevanza (oltre che
di ammissibilità) ogni valutazione prognostica sull’esito probabile del mezzo
istruttorio o sulla verosimiglianza delle circostanze che si intendono provare.

L'ordinanza ammissiva dei mezzi istruttori articolati dalle parti è un


provvedimento insuscettibile di impugnazione dinanzi al Giudice superiore o a
mezzo di ricorso per Cassazione in quanto trattasi di provvedimento tipicamente
ordinatorio, con funzione strumentale rispetto alla futura definizione della causa,
ed in quanto tale privo di efficacia decisoria (Cass., sez. II, 7.4.2015, n. 6921)”.
Dopo la scomparsa del rimedio del reclamo al collegio contro l’ordinanza
istruttoria, ai sensi dell’art. 178 c.p.c., la parte potrà unicamente invocare la
revoca e modifica dell’ordinanza medesima e reiterare la richiesta di
ammissione dei mezzi di prova non ammessi dal giudice istruttore. Come si è
accennato, l’ordinanza istruttoria è sempre modificabile e revocabile dal giudice
istruttore, il quale potrebbe , in particolare, apprezzare nel corso dell’assunzione
delle prove la sopravvenuta irrilevanza o superfluità di prove inizialmente
ammesse. In tali casi è doverosa l’assunzione di un diverso provvedimento volto
ad arrestare attività processuali divenute inutili e foriere di ingiustificato
allungamento dei tempi del processo e di dispendio di risorse.

Il calendario del processo

L’istituto, introdotto dalla l. n. 69/2009 e oggetto di modifica a seguito


dell’intervento legislativo di cui al d.l. 13.8.2011, n. 138, conv. con modif. nella
l. 14.9.2011, n. 148, prevede che il giudice, nell’ordinanza ammissiva dei mezzi
di prova, fissi il calendario delle udienze successive indicando gli incombenti
che in ciascuna verranno espletati , compresi quelli di cui all’art. 189 c.p.c. e,
cioè, la precisazione delle conclusioni all’esito dell’istruttoria della causa.

Vengono ad essere prefissati, pertanto, i tempi del processo, attraverso una


programmazione legata agli specifici atti istruttori da compiere, al fine di
realizzare una “prenotazione” dell’udienza di precisazione delle conclusioni, con
indubbi vantaggi nella razionale gestione del ruolo.

Il calendario del processo non è uno strumento in grado di risolvere il problema


della durata dei processi, se non nella limitata misura in cui evita che l’udienza
di precisazione delle conclusioni, in cause complesse e caratterizzate da una
lunga istruttoria, sia fissata solo ad istruttoria ultimata con allungamento dei
tempi di decisione. E’evidente che il “collo di bottiglia” rappresentato dalla fase
decisoria della causa resta non scalfito dall’istituto, ma indubbiamente la
calendarizzazione permette una programmazione della decisione che può
contenere i tempi massimi di definizione delle cause.

Essenziale premessa di un corretto utilizzo dell’istituto è, pertanto, la


conoscenza del ruolo e del numero di cause che vi sono iscritte nonché della
durata media in concreto “esigibile” nella sua gestione.

L’iniziale reazione all’introduzione dell’istituto è stata improntata ad una certa


insofferenza, spiegabile per le sue ricadute negative in termini di gestione
burocratica del processo e del ruolo. Ne è seguita la negazione
dell’obbligatorietà della calendarizzazione dei processi, quantomeno in presenza
di circostanze che la rendessero difficilmente attuabile.
A seguito dell’intervento del 2011, cui si accennava, con la quale è stata
introdotta la rilevanza disciplinare, per magistrato e avvocati, per il mancato
rispetto dei termini stabiliti nel calendario, l’obbligatorietà dell’adozione del
calendario è fuori discussione, anche alla luce della pronuncia della Corte
costituzionale che ha escluso profili di illegittimità in relazione, appunto, a tale
obbligo (Corte cost., 18.7.2013, n. 216).

L’ambito applicativo dell’istituto sembra comprendere tutte le cause in cui vi


siano incombenti istruttori da svolgere che, dunque, si frappongano alla
decisione e si ritiene che si estenda a tutte le tipologie di procedimenti di
cognizione, da quelli ordinari ai sommari (in presenza di, sia pur limitati,
incombenti istruttori), da quelli lavoristici e locatizi, da quelli davanti al giudice
di pace a quelli, addirittura, d’appello (GIACOMELLI).

Il giudice procederà alla calendarizzazione sentite le parti e ciò pone il problema


di un’audizione che, per avere un concreto significato, dovrebbe avvenire
quando il giudice abbia già provveduto all’ammissione dei mezzi istruttori,
dovendosi evidentemente conoscere quali siano gli incombenti da pianificare.

Una delle soluzioni prospettate può essere quella di calendarizzare alla prima
udienza istruttoria, la quale ospiterà, appunto, il dibattito delle parti sul
programma dell’istruzione e decisione della causa sulla base del provvedimento
istruttorio già assunto dal giudice. In alternativa, il contradittorio sul punto non
può che essere anticipato, da svolgere all’udienza fissata appena dopo la
scadenza dei termini ex art. 183 6° comma, c.p.c., ma all’oscuro dell’effettivo
contenuto dei provvedimenti istruttori del giudice.

La norma consente la proroga dei termini stabiliti nel calendario, secondo lo


schema della disciplina dei termini ordinatori (dunque l’istanza della parte dovrà
essere presentata prima della scadenza del termine) e, inoltre, la possibilità di
una proroga d’ufficio. In entrambi i casi la proroga presuppone l’esistenza di
gravi motivi sopravvenuti.

Al di là dei profili disciplinari di cui si è detto, la violazione dei termini del


calendario non comporta alcuna sanzione processuale, in particolare di nullità.
Il principio di non contestazione:
una tecnica di semplificazione probatoria

L’art. 115 c.p.c., rubricato “disponibilità delle prove” recita, al primo comma
“salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della
decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti
non specificatamente contestati dalla parte costituita”. La norma è stata sostituita
dall’art. 45, comma 14, della l. 18 giugno 2009, n. 69 e si applica ai giudizi
instaurati dopo il 4 luglio 2009 (art. 58, comma 1, legge cit.).

Con la norma in esame il legislatore codifica un principio, già emerso sul piano
giurisprudenziale , per il quale non occorre onerare la parte della prova di
fatti che la parte avversaria non abbia specificamente contestato.

La non contestazione non è un mezzo di prova ma uno strumento in grado di


delimitare il thema probandum espungedone tutti quei fatti che, in quanto non
specificamente contestati, non abbisognano di sforzi istruttori. La non
contestazione agisce dunque come semplice relevatio ab onere probandi.

Si veda la fondamentale Cass., Sez. un, Sentenza n. 761 del 23/01/2002: «nel rito
del lavoro, il difetto di specifica contestazione dei conteggi elaborati dall'attore
per la quantificazione del credito oggetto di domanda di condanna, allorché il
convenuto si limiti a negare in radice l'esistenza del credito avversario, (a) può
avere rilievo solo quando si riferisca a fatti, non semplicemente alle regole legali
o contrattuali di elaborazione dei conteggi medesimi, e sempre che si tratti di
fatti non incompatibili con le ragioni della contestazione sull'"an debeatur"; (b)
rileva diversamente, a seconda che risulti riferibile a fatti giuridici costitutivi
della fattispecie non conoscibili di ufficio, ovvero a circostanze dalla cui prova
si può inferire l'esistenza di codesti fatti, giacché mentre nella prima ipotesi la
mancata contestazione rappresenta, in positivo e di per sè, l'adozione di una
linea incompatibile con la negazione del fatto e, quindi, rende inutile provarlo,
in quanto non controverso, nella seconda ipotesi (cui può assimilarsi anche
quella di difetto di contestazione in ordine all'applicazione delle regole tecnico -
contabili) il comportamento della parte può essere utilizzato dal giudice come
argomento di prova "ex" art. 116, secondo comma, cod. proc. civ.; (c) si
caratterizza, inoltre, per un diverso grado di stabilità a seconda che investa fatti
dell'una o dell'altra categoria, perché, se concerne fatti costitutivi del diritto, il
limite della contestabilità dei fatti originariamente incontestati si identifica con
quello previsto dall'art. 420, primo comma, del codice di rito per la
modificazione di domande e conclusioni già formulate, mentre, se riguarda
circostanze di rilievo istruttorio, trova più ampia applicazione il principio della
provvisorietà, ossia della revocabilità della non contestazione, le sopravvenute
contestazioni potendo essere assoggettate ad un sistema di preclusioni solo nella
misura in cui procedono da modificazioni dell'oggetto della controversia».

La disposizione di legge, sopra riportata, trova applicazione ai giudizi iniziati


successivamente alla sua entrata in vigore, come si è sopra precisato e, tuttavia,
proprio la genesi giurisprudenziale della norma ha indotto la giurisprudenza di
merito a dare applicazione al principio anche alle cause iniziate in data
anteriore.

In tal senso si vedano le seguenti massime, entrambe riportate in ilcaso.it:

Anche prima dell’introduzione nell’ordinamento del principio di non


contestazione ad opera di Cass. Sez. Un. nn. 761/2002 e 11353/2004 e della
modifica dell’articolo 115 comma 1 c.p.c. tramite la legge 69/2009, si era
sempre ritenuto non contestato un fatto non solo nel caso di sua espressa
ammissione, ma anche nel caso di contestazione di una parte sola delle
circostanze dedotte, ed altresì nel caso di linea difensiva incentrata su argomenti
incompatibili con il disconoscimento (Tribunale Reggio Emilia 14 giugno 2012)

Il principio di non contestazione, pur se codificato legislativamente solo con la


L. n. 69/2009 tramite la modifica dell’art. 115 c.p.c., in base alla precedente
consolidata interpretazione della Corte di Cassazione opera anche con
riferimento alle cause promosse prima dell’entrata in vigore della norma, che va
quindi ricostruita come ricognizione di un precetto già sancito in via
interpretativa (Tribunale Piacenza 23 febbraio 2012)

I limiti soggettivi

Il dato più importante da rilevare è l’inapplicabilità di qualsiasi onere di


contestazione a carico della parte contumace, facendo la norma riferimento alla
contestazione delle sole parti costituite. Si conferma pertanto un tradizionale
principio del nostro ordinamento di neutralità della posizione processuale di
contumace, dalla quale non è possibile ricavare nemmeno argomenti prova
contro la parte che eserciti la facoltà di non costituirsi in giudizio.
Non si rinviene invece nella norma alcun limite ulteriore sotto il profilo
soggettivo.
Si ritiene che il principio (e dunque l’onere di contestazione) non possa operare
nei giudizi in cui è parte il pubblico ministero (giudizi nei quali sovente si
registra anche l’indisponibilità dei diritti che ne costituiscono l’oggetto) o sia
avvenuto un intervento del terzo titolare del diritto dipendente o contitolare
dello stesso diritto o obbligo oggetto del processo: in tali casi la non
contestazione del pubblico ministero o del terzo rileverà come contegno
processuale valutabile ai fini della decisione.
Nel processo litisconsortile, inoltre, si esclude l’operatività dell’onere di
contestazione con riguardo ai fatti comuni a più parti in quanto non è possibile
che il giudice , nella sentenza che decide la lite, consideri il medesimo fatto
esistente (in quanto non contestato) nei confronti di uno dei litisconsorti e
inesistente, in quanto contestato e non dimostrato, da parte dell’altra (FRUS).
Nel caso di litisconsorzio facoltativo, il diverso operare della non contestazione
solo di alcune delle parti potrebbe giustificare la separazione delle cause, in
quanto solo quelle in cui la non contestazione si è verificata richiederebbero una
compiuta istruzione per acquisire la prova dei fatti contestati (Trib. Napoli,
12.10.2006).

I limiti oggettivi

Uno dei punti di maggiore discussione è quello relativo all’applicabilità


dell’onere di contestazione nelle controversie aventi ad oggetto diritti
indisponibili. La norma dell’art. 115 c.p.c. non contiene un espresso divieto di
attribuire rilievo alla non contestazione in tale tipologia di giudizi.
La soluzione del problema dipende dall’individuazione , nella non
contestazione, di un comportamento “dispositivo” del diritto controverso,
operante sul piano sostanziale, ovvero come semplice contegno processuale ,
strategia difensiva, avente rilievo esclusivo quale relevatio ab onere probandi.
In tale ultimo caso, infatti, non vi saranno difficoltà ad ammettere l’operatività
del principio accogliendone gli effetti di semplificazione dell’istruzione
probatoria anche in tale tipologia di processi.
Coloro i quali negano tale soluzione, del resto, ammettono che in tali casi la non
contestazione avrebbe comunque rilievo processuale come argomento di prova
ai sensi dell’art. 116 c.p.c..
La S.C., la quale ha elaborato la nozione e ricostruito gli effetti della non
contestazione essenzialmente nell’ambito del processo del lavoro (la Sez. un. n.
761/2002 sopra riportata si riferisce a materia previdenziale, tipicamente
indisponibile), afferma: “nel processo del lavoro, il principio di non
contestazione si applica anche ai diritti indisponibili, dovendosi ritenere che la
mancata contestazione - quale condotta idonea ad escludere, in via immediata, i
fatti non contestati dal novero di quelli bisognosi di prova - operi in relazione
alla prova dei fatti costitutivi del diritto e non alla disponibilità del diritto
medesimo” (Cass., Sez. L, Sentenza n. 11047 del 28/05/2015). Anche il tema di
azione di disconoscimento di paternità si è ritenuto operante il principio di non
contestazione, con l’unica precisazione dell’assoluta libertà del giudice da
ogni vincolo in fase decisoria nella valutazione complessiva del materiale
probatorio acquisito (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 13217 del 11/06/2014; analogo
l’approccio di Cass., Sez. 5, Sentenza n. 2196 del 06/02/2015 che ritiene
operante il principio di non contestazione anche nel processo tributario).
Particolari fattispecie sono quelle relative alla non contestazione di contratti
formali:

- quanto alla prova dei contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad
substantiam, la non contestazione non esimerebbe la parte dall’onere di
produrre il contratto in forma scritta in quanto la non contestazione della
stipula di tale tipo di contratti non può far ritenere la sussistenza del
requisito formale; ma , da un altro punto di vista, si afferma la rilevanza del
silenzio serbato sul contratto dalla parte nei cui confronti è prodotto, nel
senso di escludere, in applicazione dell’art. 115 1° comma c.p.c., l’onere di
provarlo, pur se di carattere formale (RICCI);
- quanto alla prova dei contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad
probationem: qui la non contestazione riprende tutta la sua efficacia
esonerando la parte dall’onere di provare il contratto per iscritto (v. in tal
senso Trib. Lamezia Terme, 30.6.2010, in ilcaso.it).

La non contestazione rileva per esonerare dalla prova non solo di fatti storici,
esterni al processo ma anche di fatti processuali, fermo che in entrambi i casi
deve trattarsi di fatti oggettivi in quanto la qualificazione giuridica dei fatti stessi
esula dal campo applicativo dell’istituto e rientra nell’ambito dei potere
cognitivi del giudice. Potrà essere incontestata, ad esempio, la data di notifica di
un atto ma non la consumazione di una decadenza processuale, trattandosi
appunto non più di un fatto ma di un giudizio, non soggetto ad oneri di
contestazione.

Si esclude l’applicabilità del principio di non contestazione alla legitimatio ad


causam: “il principio di non contestazione mira a selezionare i fatti pacifici e a
separarli da quelli controversi, per i quali soltanto si pone l'esigenza
dell'istruzione probatoria, operando in un ambito soggettivamente ed
oggettivamente dominato dalla disponibilità delle parti, al quale resta estranea la
"legitimatio ad causam", che attiene al contraddittorio e deve essere verificata
anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo, con il solo limite del giudicato
interno” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 21176 del 20/10/2015; conf. Cass., Sez. 6 - 2,
Sentenza n. 8969 del 05/05/2015).

La contestazione deve sempre riferirsi a fatti specifici (e la specificità


dell’allegazione si correla, come si vedrà, alla specificità che dovrà assumere la
stessa contestazione) e, si ritiene da parte di taluni, comuni alla parte nei cui
confronti si allegano (in questo senso Cass., Sez. 3, Sentenza n. 3576 del
13/02/2013, la quale esclude l’esistenza di un onere di contestare fatti ignoti).
Ciò in quanto sarebbe inesigibile dalla parte contestare in modo specifico fatti
estranei alla sua sfera giuridica e di controllo, in contrasto con gli assunti di
fondo posti a base del parametro della vicinanza della prova.
In realtà, una corrente giurisprudenziale ritiene la non contestazione rilevante
anche se riferibile a fatti non comuni alla parte, in considerazione dell’assenza
di prescrizioni normative espresse che richiedano tale requisito (V. Cass., Sez. L,
Sentenza n. 15326 del 30/06/2009, ancora in tema di processo previdenziale;
App. Torino, 5.10.2009, in ilcaso.it).
Il problema può forse assumere una diversa prospettiva considerando che l’art.
115 c.p.c. pone l’onere non tanto di formulare una contestazione dei fatti allegati
dalle altre parti quanto di prendere posizione su di essi, come esplicitato dalle
prescrizioni in tema di atti introduttivi del convenuto/resistente in giudizio. Un
siffatto onere di prendere posizione, “in maniera specifica e e non limitata ad
una generica contestazione” (arg. ex art. 416 c.p.c.) sulle allegazioni fattuali
della controparte comporta che nessuna conseguenza, in termini di relevatio ab
onere probandi, deriverebbe alla parte dal precisare che, in relazione a quel
fatto, non è in grado, per le ragioni che verranno evidentemente esposte e
argomentate, di formulare un’espressa e specifica contestazione in quanto ignora
incolpevolmente se sia vero o no (FRUS).

Dunque, se l’allegazione del fatto avviene in termini specifici e precisi, scatta


l’onere di contestazione o, meglio, di prendere posizione in modo specifico sul
fatto, attraverso le seguenti possibili alternative (FRUS):
a) ammissione esplicita del fatto;
b) negazione espressa del fatto , che non potrà però consistere in una
generica contestazione;
c) ammissione implicita, attraverso l’articolazione di difese incompatibili
con la negazione del fatto;
d) negazione implicita, attraverso l’articolazione di difese incompatibili con
l’ammissione del fatto;
e) dichiarazione di ignorare incolpevolmente il fatto.

La valutazione del tasso di specificità richiesto alla contestazione va fatta con


riguardo al caso concreto e alla vicinanza della parte al fatto allegato: in taluni
casi l’onere potrà ritenersi soddisfatto pur risolvendosi la contestazione in una
semplice negazione secca del fatto (ad esempio, negazione del pagamento del
debito o della consegna del bene).
In questa prospettiva si veda la seguente interessante pronuncia:

“la parte nei cui confronti vengano allegati determinati fatti in modo analitico e
specifico ha l'onere, qualora detti fatti rientrino nella sua sfera di conoscibilità,
di contestarli in modo altrettanto specifico, fornendo la propria versione ed
indicando fatti diversi, contenenti precisi riferimenti, che li smentiscano.
Tenendo presente che il grado di specificità della contestazione deve essere
valutato in concreto in relazione alle singole controversie - potendo variare a
seconda del livello di conoscenza del fatto da parte del soggetto nei cui confronti
è allegato e a seconda della precisione del fatto allegato dalla controparte - una
contestazione generica produce l'effetto, proprio per la sua genericità, di
determinare una relevatio ab onere probandi e di rendere i fatti allegati pacifici”
(Trib. Monza 5.1.2011, ilcaso.it).

La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che l’onere di contestazione


operi solo con riguardo ai fatti c.d. principali e non con riguardo a quelli
secondari, rispetto ai quali la non contestazione costituirebbe unicamente un
comportamento processuale valutabile ex art. 116 c.p.c. (da ultimo, ad esempio,
v. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 19709 del 02/10/2015; in senso contrario, invece,
Trib. Piacenza, 2.2.2010, in ilcaso.it).
V. ad esempio Cass., Sez. 1, Sentenza n. 19709 del 02/10/2015, secondo la quale
“la mancanza di specifica contestazione, se riferita ai fatti principali, comporta
la superfluità della relativa prova perché non controversi, mentre se è riferita ai
fatti secondari consente al giudice solo di utilizzarli liberamente quali argomenti
di prova ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.c., sicché nel giudizio
d'impugnazione il riesame dell'accertamento risultante dalla sentenza impugnata
è subordinato alla proposizione di specifiche censure solo rispetto ai primi,
operando in mancanza la preclusione derivante dal giudicato interno, mentre per
i secondi è sufficiente, anche in assenza di contestazione, l'avvenuta
impugnazione dell'accertamento riguardante i fatti costitutivi della domanda per
la riapertura del relativo dibattito processuale”. Conf. Cass., Sez. 1, Sentenza n.
5191 del 27/02/2008.

Il tessuto giurisprudenziale imbastito attorno alla distinzione appena delineata è


articolato, prevedendo una differenziazione anche con riguardo alle scansioni
processuali entro le quali si consuma il potere di contestazione delle parti. Si
veda Cass., sez. un. n. 761/2002, cit.:

“Nel rito del lavoro, il difetto di specifica contestazione dei conteggi elaborati
dall'attore per la quantificazione del credito oggetto di domanda di condanna,
allorché il convenuto si limiti a negare in radice l'esistenza del credito
avversario, (a) può avere rilievo solo quando si riferisca a fatti, non
semplicemente alle regole legali o contrattuali di elaborazione dei conteggi
medesimi, e sempre che si tratti di fatti non incompatibili con le ragioni della
contestazione sull'an debeatur; (b) rileva diversamente, a seconda che risulti
riferibile a fatti giuridici costitutivi della fattispecie non conoscibili di ufficio,
ovvero a circostanze dalla cui prova si può inferire l'esistenza di codesti fatti,
giacché mentre nella prima ipotesi la mancata contestazione rappresenta, in
positivo e di per sè, l'adozione di una linea incompatibile con la negazione del
fatto e, quindi, rende inutile provarlo, in quanto non controverso, nella seconda
ipotesi (cui può assimilarsi anche quella di difetto di contestazione in ordine
all'applicazione delle regole tecnico - contabili) il comportamento della parte
può essere utilizzato dal giudice come argomento di prova "ex" art. 116,
secondo comma, cod. proc. civ.; (c) si caratterizza, inoltre, per un diverso grado
di stabilità a seconda che investa fatti dell'una o dell'altra categoria, perché, se
concerne fatti costitutivi del diritto, il limite della contestabilità dei fatti
originariamente incontestati si identifica con quello previsto dall'art. 420, primo
comma, del codice di rito per la modificazione di domande e conclusioni già
formulate, mentre, se riguarda circostanze di rilievo istruttorio, trova più
ampia applicazione il principio della provvisorietà, ossia della revocabilità della
non contestazione, le sopravvenute contestazioni potendo essere assoggettate ad
un sistema di preclusioni solo nella misura in cui procedono da modificazioni
dell'oggetto della controversia”.

Il termine processuale della contestazione

Quando si consuma il potere di contestazione dei fatti allegati dalla controparte?


La tendenza giurisprudenziale è , comprensibilmente, quella di sviluppare al
massimo le potenzialità dell’istituto al fine della semplificazione massima
dell’istruzione della causa, con la conseguenza che la non contestazione va
sempre ad inquadrarsi nel sistema delle barriere preclusive inerenti al thema
decidendum e acquisendo caratteri di tendenziale irreversibilità.
In tal senso si muovono le seguenti massime di merito:
“In virtù del principio di non contestazione previsto dall'art. 115, c.p.c., devono
ritenersi pacifici non solo i fatti esplicitamente o implicitamente ammessi, ma
anche quelli su cui la controparte rimanga silente. La contestazione deve
intervenire nella prima occasione processuale utile o, al più tardi, con la
prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c., così da consentire all'altra parte,
nella seconda memoria, di formulare le proprie istanze istruttorie alla luce di ciò
che si sia vista o meno contestare” (Trib. Roma 27.1.2011, in ilcaso.it).

“Già prima della recente modifica dell’art 115 c.p.c. - da ritenersi di portata
interpretativa e non già innovativa – la Corte di Cassazione ha ritenuto vi fosse a
carico del convenuto un vero e proprio onere di contestazione, con la
conseguenza che il giudice, in materia di diritti disponibili, deve ritenere
sussistente, senza alcun bisogno di prova, non solo il fatto costitutivo non
contestato ma anche tutti gli altri fatti allegati in giudizio, ivi compresi quelli che
rilevano solo ai fini probatori. Questo principio è del resto connaturato al
sistema di preclusioni cui è improntato il processo civile, il quale comporta che
il potere di contestazione “si consumi” nello stesso modo in cui “si
consuma”, secondo il rito prescelto, il potere di allegazione consentito alle
parti” (App. Milano 29 giugno 2011, in ilcaso.it).
Anche la S.C., tuttavia, sembra orientata nel medesimo senso. Si veda, ad
esempio, Cass., sez. III, 18 maggio 2011, n. 10860 , secondo la quale il potere di
contestazione, concorrendo con quello di allegazione nell'individuazione del
thema decidendum e probandum, soggiace agli stessi limiti preclusivi di
quest'ultimo, costituiti dall'udienza di trattazione, di cui agli artt. 183 e 420, per
il processo del lavoro.
V. anche Cass., Sez. lav., Sentenza n. 4854 del 28/02/2014, secondo la quale
“nel rito del lavoro, il divieto di "nova" in appello, ex art. 437 cod. proc. civ.,
non riguarda soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto, ma è esteso alle
contestazioni nuove, cioè non esplicitate in primo grado, sia perché l'art. 416
cod. proc. civ. impone un onere di tempestiva contestazione a pena di
decadenza, sia perché nuove contestazioni in secondo grado, oltre a modificare
i temi di indagine (trasformando il giudizio di appello da revisio prioris
instantiae in iudicium novum, estraneo al vigente ordinamento processuale),
altererebbero la parità delle parti, esponendo l'altra parte all'impossibilità di
chiedere l'assunzione di quelle prove alle quali, in ipotesi, aveva rinunciato,
confidando proprio nella mancata contestazione ad opera dell'avversario.

Si afferma, inoltre, la irretrattabilità della non contestazione e la sua


irreversibilità quale approdo processuale che condiziona la trattazione della
causa e che, ove fosse sovvertito, determinerebbe un’ingiustificata regressione
dell’intero processo (secondo Trib. Mondovì, 12.3.2010, in ilcaso.it, secondo la
quale una volta che la non contestazione si è perfezionata, non si può più tornare
indietro, né è ammessa la prova che la parte non intendeva prestare acquiescenza
alle allegazioni avversarie).

Si consideri l’ipotesi di tardiva costituzione del contumace il quale contesti i


fatti allegati dall’attore a fondamento del proprio diritto. Appare evidente che,
per l’inapplicabilità dell’onere di non contestazione alla parte contumace,
l’attore avrà dovuto sviluppare integralmente le proprie deduzioni istruttorie
senza poter contare su alcuna relevatio ab onere probandi. La non contestazione
del contumace che si costituisce tardivamente in giudizio, peraltro, potrà indurre
il giudice a ridurre le attività istruttorie divenute superflue, con beneficio della
razionale gestione del processo e senza pregiudizio alcuno per le parti. La
tardiva contestazione del contumace, tardivamente costituitosi in giudizio, non
appensentirà in alcun modo l’onere probatorio della controparte, già massimo
fino a quel momento stante – appunto – l’assenza di qualsiasi possibilità di
relevatio.
Il problema della tardiva contestazione assume rilievo esclusivamente nel caso
di superamento dell’iniziale non contestazione ad opera di una successiva
contestazione. In tal caso, se la contestazione tardiva si reputa ammissibile,
occorre evidentemente ammettere la parte contro cui si dirige alla prova dei fatti
contestati, da dedurre peraltro entro la prima difesa utile successiva alla
conoscenza del fatto reso controverso (FRUS).

Contestato l’an può ritenersi implicitamente contestato anche il quantum oppure


occorre una contestazione specifica gradata anche sul quantum ?
La questione se la contestazione sull'an debeatur si estenda o meno alla
contestazione del quantum della pretesa non può essere risolta sulla base di
criteri astratti, ma caso per caso, verificando se i fatti allegati ai fini della
quantificazione della pretesa sono investiti dalla contestazione sull’an debeatur
(nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che qualora il convenuto contesti in
radice la pretesa di pagamento dell'attore, egli non sia anche tenuto a contestare i
conteggi allegati per la sua determinazione) (Trib. Milano 3.1.2014, in ilcaso.it).

Non contestazione e vincoli per il giudice nella decisione della controversia.

La non contestazione del fatto comporta la non necessità della prova dello stesso
nel giudizio ma non integra una prova legale, insuperabile dal giudice e
vincolante in sede di decisione (parla invece di effetto vincolante per il giudice,
che non potrebbe sottoporre a controllo probatorio il fatto non contestato, Cass.,
Sez. 3, Sentenza n. 3727 del 09/03/2012).
La non contestazione opera nel senso di delimitare il thema probandum ma non
vale a rendere assoluto l’accertamento della ontologica esistenza del fatto non
contestato, dovendosi riconoscere al giudice il potere-dovere di valutare il
materiale probatorio emerso nel corso del processo e di pervenire ad una
decisione che potrà essere fondata sui fatti non contestati ma che potrà andare
anche in una diversa direzione laddove quei fatti si dimostrino non veri alla
stregua di altre risultanze probatorie ritualmente acquisite, di segno diverso
(COMOGLIO. In giurisprudenza, Cass., Sez. 3, Sentenza n. 3951 del
13/03/2012).

Nicola Cosentino
Giudice del Tribunale di Varese
BIBLIOGRAFIA

Sull’istruzione probatoria in generale

COMOGLIO, Le prove civili, Torino, 2010

GIACOMELLI, L’ammissione della prova tra potere officioso del giudice e


potere dispositivo delle parti, Relazione tenuta al Corso di formazione del
C.S.M., 28.3.2011-1.4.2011

BESSO, La vicinanza della prova, Riv. dir. proc., 2015, 1383

PALMIERI, La prova contraria nei giudizi civili: lo stato delle questioni, in Riv.
trim. dir. e proc. civ., 2014, 1195

Sulle preclusioni nel rito ordinario

SCARPA, L'introduzione e la trattazione della causa, in Giur. merito 2011, pag. 254

Sul passaggio dal rito ordinario al rito sommario (art. 183 bis c.p.c.)

MARTINO, Conversione del rito ordinario in sommario e processo semplificato


di cognizione, in Riv. dir. proc., 2015, 916

TEDOLDI, La conversione del rito ordinario nel rito sommario ad nutum iudicis
(art. 183 bis c.p.c.), in Riv. dir. proc., 2015, 490

TURATTO, Il passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione: il


nuovo art. 183 bis c.p.c., in Nuove leggi civ. comm., 2015, 737

Sul rito sommario

BESSO, Il nuovo rito ex art. 702 bis c.p.c.: tra sommarietà del procedimento e
pienezza della cognizione, in Giur. it., 2010, 723

Sulle preclusioni nel rito del lavoro

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2011, 141

Sulla non contestazione

COMOGLIO, Fatti non contestati e poteri del giudice, in Riv. dir. proc., 2014,
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RICCI, Questioni controverse in tema di onere della prova, in Riv. dir. proc.,
2014, 321

FRUS, Il principio di non contestazione tra innovazioni normative,


interpretazioni giurisprudenziali e applicazioni giurisprudenziali, in Riv. trim.
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Sul calendario del processo

GHIRGA, Le novità sul calendario del processo: le sanzioni previste per il suo
mancato rispetto, in Riv. dir. proc., 2012, 166

GUGLIELMINO, Brevi osservazioni sulla costituzionalità dell’obbligo di


fissazione del calendario del processo, in Giur. it., 2013, 2587

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