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D.Lgs. 11-04-2006, n. 198, Art. 36. - Legittimazione processuale(legge 10 aprile 1991, n. 125,
articolo 4, commi 4 e 5)
L. 11-01-1943, n. 138, 6.
La sentenza n. 25400 del 20 settembre 2021 della Suprema Corte offre l'occasione per
riflettere sul tema della prescrizione del diritto a non essere discriminati e, più in generale,
sulle maggiori difficoltà di accesso alla giustizia delle vittime della discriminazione.
Contrariamente a quanto affermato dalla pronuncia in commento, l'Autore propende per la tesi
dell'autonomia di tale diritto, che trova giustificazione nella sua portata superindividuale,
nonché nel suo intrinseco legame con la dignità dell'individuo: ciò conduce, inevitabilmente, a
non ritenere applicabili a tale situazione giuridica termini prescrizionali di natura speciale come
quelli propri del diritto previdenziale.The decree n. 25400 of 20 September 2021 of the
Supreme Court offers the opportunity to reflect on the issue of the limitation period for the
right not to be discriminated against and, more generally, on the greater difficulties faced by
victims of discrimination in accessing justice. Contrary to what is stated in the judgment in
question, the author favors the thesis of the autonomy of this right, which is justified by its
super-individual scope, as well as by its intrinsic link with the dignity of the individual. This
leads, inevitably, not to consider as applicable to this legal situation special limitation periods,
such as those of social security law.
Una volta chiarito questo tema, si è posta allora una nuova questione interpretativa che, negli
anni più recenti, ha diviso la giurisprudenza di merito, ossia - se di discriminazione si deve
dunque parlare - come trattare tutti quei casi in cui le lavoratrici abbiano agito in giudizio solo
successivamente allo spirare del termine di prescrizione speciale previsto per la specifica
prestazione negata. La disciplina previdenziale, infatti, pone dei limiti assai stringenti per
l'azionabilità in giudizio del diritto alla riliquidazione di prestazioni quali il congedo di
maternità, stabiliti nel termine di prescrizione di un anno di cui all'art. 6, L. n. 138/1943 e in
quello di decadenza, anch'esso pari a un anno, di cui all'art. 47, d.P.R. n. 639/1970 (anche se
di questa seconda questione, che negli ultimi anni è stata analizzata in modo speculare dalla
giurisprudenza di merito, non vi è invece traccia nella sentenza in commento)(3).
È di tutta evidenza che, se il diritto a non essere discriminati con riguardo a una determinata
prestazione previdenziale coincidesse, per quanto riguarda il piano dell'azionabilità in giudizio,
con il diritto alla prestazione stessa, allora il termine di prescrizione, nei due casi, non
potrebbe essere che il medesimo. In questo senso, quindi, in assenza di atti interruttivi,
andrebbero respinte tutte quelle domande presentate successivamente a un anno
dall'erogazione della prestazione, sebbene fondate sulla discriminazione, poiché tale diritto
dovrebbe intendersi oramai estinto(4).
Al contrario, numerose pronunce(5) di merito hanno optato, negli anni più recenti, per la tesi
dell'autonomia dell'azione antidiscriminatoria, ritenendo che questa forma di azione si
differenzierebbe da quella previdenziale per diversità di causa petendi (dal momento che
avrebbe ad oggetto non tanto il diritto alla prestazione in sé, bensì quello a non essere
discriminati) e petitum (non il credito, bensì la rimozione degli effetti della discriminazione
attraverso la riliquidazione del beneficio) e che, pertanto, in assenza di diverse disposizioni
normative, essa sarebbe addirittura imprescrittibile e, dunque, nemmeno soggetta a termini
decadenziali di alcun tipo.
Tra le due diverse opzioni interpretative, la Suprema Corte(6) ha preferito aderire alla prima,
intravedendo nel caso di specie una domanda che, "sia pure fondata sulla discriminazione",
resta comunque diretta ad ottenere l'indennità di maternità nella misura prevista dalla legge e
che, pertanto, deve soggiacere alle stesse regole previste dall'ordinamento per l'azione di
adempimento della prestazione previdenziale.
Le ragioni poste alla base di tale orientamento possono essere ravvisate nella preoccupazione
di rispettare la natura inderogabile delle norme che disciplinano la prescrizione estintiva,
dettate a protezione della certezza dei rapporti giuridici.
In altre parole, il timore condiviso dai giudici di legittimità è quello che l'azione
antidiscriminatoria diventi, sul piano processuale, una corsia preferenziale, che possa essere
percorsa in alternativa all'azione ordinaria - agendo sulla qualificazione della domanda - dai
soggetti portatori di un fattore protetto. In questa prospettiva, si realizzerebbe quello che la
Cassazione stessa definisce uno "squilibrio al contrario", ossia un trattamento privilegiato per il
soggetto discriminato, che fruirebbe, così, di un termine di prescrizione più ampio rispetto a
tutte le altre lavoratrici o agli altri lavoratori in posizioni comparabili, che sarebbero invece
soggetti al termine di prescrizione più breve previsto per la specifica prestazione o per una
prestazione analoga.
Il percorso argomentativo seguito dalla Suprema Corte non convince per un duplice ordine di
ragioni. Lasciando da parte, per un momento, la questione della "medesima natura del
beneficio", su cui si tornerà più avanti, è necessario spendere alcune considerazioni sul
paventato rischio di una discriminazione "al rovescio".
In primo luogo, tale interpretazione sembra confondere la fase della discriminazione, vale a
dire del momento in cui avviene la disparità di trattamento nell'accesso ad un determinato
bene della vita o a un'opportunità, da quello della tutela, ossia dell'operazione con la quale
l'ordinamento, attraverso il sindacato giudiziale(9), si prefigge di rimuovere gli effetti generati
dalla discriminazione sulla vittima, o, addirittura, sull'intero gruppo sociale a cui essa
appartiene.
Secondo le direttive europee e le norme nazionali in materia, ciò in cui deve essere trattato in
modo eguale il soggetto portatore del fattore protetto è il "trattamento", ossia la fase di
accesso a un bene della vita o a un'opportunità(10). È infatti con riferimento a tale momento
che, secondo la Dir. 2000/43/CE, la Dir. 2000/78/CE e la Dir. 2006/54/CE(11), al fine verificare
la sussistenza di una discriminazione, deve avvenire la comparazione con un altro soggetto che
sia, sia stato o sarebbe stato in una posizione analoga al soggetto discriminato. Non vi è
invece traccia, in tale normativa, di alcun principio che imponga che, una volta avvenuta la
discriminazione, anche il regime di tutela debba essere il medesimo di quello di cui avrebbe
potuto godere il soggetto non discriminato nel caso di violazione del proprio diritto ad accedere
al medesimo bene e, pertanto, appare del tutto inconferente il richiamo operato dalla Suprema
Corte alla tutela a cui potrebbe ambire il lavoratore a cui venga negata l'indennità di malattia,
il quale, a differenza delle lavoratrici madri, in assenza di altri fattori protetti (es. disabilità)
non ha subito né avrebbe potuto subire alcuna discriminazione nell'accesso a tale prestazione.
Prevedere una forma più intensa di protezione per una specifica fattispecie (la discriminazione)
rispetto a un'altra (es. un semplice errore di calcolo nella liquidazione dell'indennità) non
significa realizzare alcuna disparità di "trattamento", bensì riconoscere alla prima un più
intenso disvalore rispetto a tutte le altre possibili offese a quello che, apparentemente, sembra
essere il medesimo bene della vita: da tale maggior disvalore deriva, inevitabilmente, la scelta
di approntare forme di tutela più incisive. Del resto, si consideri che la previsione di una
disciplina di tutela rafforzata volta a garantire un esito equo del procedimento non è affatto
nuova al nostro ordinamento (si pensi al caso alla tutela approntata dal diritto del lavoro) e
viene predisposta dal legislatore ogniqualvolta(12) si intenda riequilibrare situazioni di
strutturale debolezza(13).
Tale svalutazione della differenza che intercorre tra i due momenti del "trattamento" e della
"tutela" viene confermato dal fatto che il concetto di "discriminazione alla rovescia" ha avuto
origine all'interno del dibattito attorno alle azioni positive(14), che però rappresenta una
questione assai differente rispetto a quella in esame. Il principale argomento di critica a tale
forma di intervento, finalizzato alla realizzazione dell'uguaglianza sostanziale, si è fondato in
larga parte nella considerazione che un regime di particolare favore, sul piano delle
opportunità, per una determinata categoria minoritaria provocasse delle conseguenze
sfavorevoli nei confronti delle posizioni individuali di alcuni soggetti appartenenti alla categoria
maggioritaria. Come sempre osservato, tuttavia, dalla dottrina formatasi sul tema, detta
apparente ingiustizia è facilmente risolvibile tenendo conto dell'obiettivo perseguito da simili
interventi, ossia quello di "rimuovere ostacoli di fatto che pregiudicano l'eguaglianza di
possibilità"(15): in questo senso, allora, lo svantaggio subito da alcuni individui del gruppo
maggioritario diviene "un costo che deve essere pagato per un maggior vantaggio collettivo"
(16).
Contrariamente al caso delle azioni positive, la cui funzione è dunque quella di intervenire ex
ante, nel mondo materiale, per riequilibrare situazioni di diseguaglianza strutturale, le
questioni trattate circa il caso delle assistenti di volo già discriminate (e così quello dei
lavoratori a termine), non sembra avere nulla a che fare con il tema della ridistribuzione delle
opportunità. Il tracciato nel quale, invece, sembra più opportuno riportare la questione è quello
della tutela, ossia della reazione dell'ordinamento che, a discriminazione avvenuta, si realizza
attraverso il processo, tutela che, nel caso della condotta discriminatoria, deve essere
orientata secondo i noti principi di efficacia, proporzionalità e dissuasività sanciti dalle direttive
europee in materia, e dunque, perseguendo un obiettivo generale di massima effettività(17).
Altre letture non sembrano essere possibili, se non fondate su un'idea del tutto formalistica del
concetto di uguaglianza.
Un secondo ordine di ragioni che non permette di condividere il richiamo operato dai giudici di
legittimità al concetto "discriminazione al contrario" nel caso delle assistenti di volo - che,
come riconosciuto dalla stessa Corte, è un caso di discriminazione diretta fondata sul sesso(18)
-, è quello che riguarda il campo di applicazione in cui si è sviluppata la giurisprudenza
sopracitata, ossia quello della parità di trattamento dei lavoratori a tempo determinato prevista
dalla clausola 4 all'Accordo Quadro allegato alla Dir. 99/70/CE. Detta disciplina, pur enucleando
anch'essa un divieto di discriminazione diretta (i lavoratori a termine non possono essere
trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato a essi
comparabili per quanto riguarda le condizioni di impiego) ammette, tuttavia, come nel caso
delle discriminazioni indirette o di quella diretta per età, la possibilità che ricorrano delle
giustificazioni oggettive che consentano di derogare al principio di parità nei criteri di calcolo
del periodo di anzianità di tali lavoratori.
In questo senso, allora, l'interpretazione fornita dalla Corte potrebbe essere letta come un
tentativo di giustificare ex post la disparità di trattamento subita dai lavoratori a termine
(sebbene del tutto discutibile sul piano della tecnica giuridica, poiché sembra confondere,
ancora una volta, il momento del trattamento con quello della tutela). Perseguendo il fine di
evitare che tali lavoratori possano vantare eventuali diritti nei confronti della P.A. per un tempo
eccessivamente lungo(19), la Corte sceglie così di trattare la discriminazione, nonostante il suo
maggiore disvalore, come una qualsiasi altra tipologia di violazione di diritti retributivi. Tale
operazione ermeneutica, però, quand'anche ritenuta legittima, non potrebbe di certo essere
estesa al di fuori del campo di applicazione dell'Accordo Quadro e non potrà, pertanto, essere
applicata ad altre forme di discriminazione diretta che non tollerano, invece, alcun tipo di
giustificazione.
La prescrizione come problema di accesso sostanziale alla giustizia
È difficile non notare, poi, come l'interpretazione offerta dalla Cassazione conduca a
conseguenze incredibilmente più gravose, sul piano dell'accesso alla giustizia, nel caso delle
assistenti di volo rispetto a quello dei lavoratori a termine. Come nota ancora la sentenza in
commento, infatti, una volta che sia accertata l'identità della "natura" del diritto fatto valere,
dovrà allora applicarsi anche con riferimento alla discriminazione il principio generale "secondo
cui la prescrizione matura di giorno in giorno, risolvendosi in un complesso di diritti a ratei
giornalieri, e decorre dal giorno in cui tali ratei sono dovuti". Ciò significa, però, che il
momento in cui inizia a decorrere la prescrizione per la lavoratrice discriminata sarebbe,
addirittura, quello dell'erogazione del primo rateo del congedo, ossia nei primissimi mesi di
gravidanza della stessa, posto che le attività di volo sono considerate dall'all. A del D.Lgs. n.
151/2001 lavori pericolosi idonei a collocare tali lavoratrici in maternità anticipata ai sensi
dell'art. 17 del medesimo decreto sin dal momento della comunicazione dello stato di
maternità. La conseguenza di una simile operazione interpretativa, tuttavia, conduce al fatto
che la lavoratrice discriminata, per non vedersi prescritto nessun rateo, dovrebbe non solo
avere immediata contezza della particolare violazione subita, ma anche agire in giudizio entro
un anno e, dunque, in un arco temporale di particolare delicatezza come quello dei mesi
immediatamente successivi alla nascita del bambino.
Anche ammettendo la correttezza di tale tesi, non si potrebbe non notare come le
conseguenze prodotte confliggerebbero in maniera evidente con i principi costantemente
affermati dalla Corte di Giustizia per quanto riguarda le azioni dirette a garantire la tutela dei
diritti riconosciuti dall'Unione, le quali, secondo il principio di effettività della tutela affermato
dall'art. 47 della Carta di Nizza, "non devono rendere praticamente impossibile o
eccessivamente difficile l'esercizio" degli stessi(20), cosa che, qualora avvenisse, dovrebbe, in
ogni caso, condurre il giudice nazionale alla disapplicazione della relativa normativa nazionale
in contrasto con detti principi(21).
Per di più, la Corte sembra dimenticare che quello delle vittime da discriminazione è sempre un
accesso più difficoltoso alla giustizia. Nel caso di specie, infatti, la discriminazione non si
realizza in ragione di un comportamento esorbitante dell'istituto previdenziale contro questa o
quella lavoratrice - e dunque, come tale, immediatamente percepibile - bensì sulla base di
un'interpretazione normativa che lo stesso ente applica alla generalità delle assistenti di volo
aventi diritto al congedo. Diviene allora tanto più rilevante il carattere strutturale della
condotta, che colpisce le lavoratrici non come singole, bensì in quanto madri, circostanza che
inciderà in maniera assai più incisiva sulla possibilità delle stesse di avere contezza della
propria condizione di soggetti discriminati e, di conseguenza, di poter agire in giudizio per
chiederne tutela(22).
Del resto, mentre, normalmente, la negazione di un determinato diritto trova la sua causa
nella sfera particolare del soggetto che ne è titolare, come insegna invece la dottrina più
attenta, la discriminazione diretta radica il suo fondamento nell'appartenenza del soggetto
discriminato a un determinato gruppo sociale, indipendentemente dalla condizione individuale
di quest'ultimo(23). Nel primo caso, il processo di presa di consapevolezza della violazione
subita e la successiva capacità o volontà di reazione dipenderanno, allora, da fattori
squisitamente personali; nel secondo, invece - a meno di non trovarsi di fronte a soggetti
particolarmente consapevoli della propria appartenenza "di gruppo", cosa che tuttavia la legge
non può certo dare per scontata - ciò richiederà, sul piano sostanziale, un complesso processo
che coinvolga anche altri attori sociali. Di tale processo, tuttavia, non è possibile non tenere
conto se si voglia discutere di un regime di prescrizione in armonia con il richiamato principio
di effettività della tutela.
Detto principio è divenuto, con il tempo, un punto focale della tutela lavoristica. Riconoscere al
lavoratore la condizione di soggetto posto in una condizione di strutturale inferiorità sul piano
contrattuale non può però, allora, che portare a riconoscere anche al discriminato la condizione
di soggetto posto in un'analoga condizione di inferiorità sul piano sociale, la quale, tuttavia,
richiederà i medesimi strumenti che ne garantiscano un efficace accesso alla giustizia.
L'oggetto dell'azione antidiscriminatoria
Del resto, se non stessimo parlando di una situazione giuridica a sé stante, a cui, come già
accennato, attribuire un peculiare e più intenso disvalore, sarebbe inspiegabile la scelta del
legislatore nazionale ed europeo di configurare una specifica azione che, sebbene attivabile
mediante riti speciali parzialmente diversi(26), si fonda sempre sui medesimi capisaldi:
l'alleggerimento dell'onere probatorio in capo al ricorrente; la legittimazione processuale a
sostegno o, addirittura, per conto delle vittime da parte di organismi pubblici preposti alla
promozione delle pari opportunità o di enti esponenziali portatori di interessi diffusi; la
possibilità di adottare, da parte del giudice, qualsiasi provvedimento che comporti la rimozione
degli effetti della discriminazione, oltreché di disporre la pubblicazione del provvedimento; la
possibilità del risarcimento del danno anche non patrimoniale; la dissuasività a cui devono
tendere le sanzioni. Piuttosto, si ritiene che solo attraverso questi strumenti "rafforzati" il
legislatore abbia inteso possibile, per la vittima, ottenere una tutela capace di ristabilire le
condizioni di parità nell'acquisizione o nel godimento di beni o opportunità e, al tempo stesso,
di riequilibrare sul piano materiale situazioni di minore potere sociale.
La sentenza in commento, come già prima la citata giurisprudenza di legittimità in merito alla
stabilizzazione dei lavoratori a termine, si concentra, invece, unicamente sullo strumento della
"rimozione degli effetti" e, da questo, deduce che la vittima della discriminazione non farebbe
altro che, attraverso la propria azione, chiedere il medesimo bene della vita o l'opportunità che
in precedenza gli siano stati negati. Limitandosi a tale aspetto, tuttavia, la Cassazione sembra
dimenticare che la funzione dell'azione antidiscriminatoria è intrinsecamente risarcitoria(27), in
un senso tuttavia assai più ampio di quello ordinario e che, oltre a ristorare la vittima della
negazione ad accedere a un bene o a una possibilità, mira a proteggerne anche la dignità,
oltre che l'interesse del gruppo a cui essa appartiene a che tale offesa non si realizzi
nuovamente.
Per quanto riguarda il primo di questi profili, non sfuggirà che il binomio dignità-uguaglianza
sia uno dei pilastri su cui si fonda la nostra Carta costituzionale e che, più in generale, ispira
tutti gli atti giuridici a protezione dei diritti umani del dopoguerra e, in particolare, proprio le
direttive di c.d. nuova generazione che disciplinano oggi il diritto antidiscriminatorio(28).
Per quanto attiene il secondo, invece, basti notare come il legislatore abbia disegnato la tutela
antidiscriminatoria non solo come uno strumento utile a fornire difesa al diritto dell'individuo a
essere trattato in modo eguale nell'accesso a un bene o a un'opportunità, ma abbia inteso la
discriminazione anche come un fenomeno in grado di dispiegare i suoi effetti sulla comunità o,
quantomeno, su una "determinata" comunità, ossia quella rappresentata dal gruppo
svantaggiato. In questo senso, allora, si giustificano gli specifici strumenti processuali
predisposti, quali la legittimazione attiva di soggetti diversi dalle vittime (si pensi alla
consigliera di pari opportunità oppure agli enti esponenziali portatori di interessi diffusi), che
possono intervenire sia a sostegno di queste ultime, sia, addirittura in loro sostituzione quando
esse non siano identificate o identificabili(29); si consideri, inoltre, lo strumento della
pubblicazione del provvedimento che accerti la discriminazione, il quale risponde sia al bisogno
di ridare dignità alla vittima, sia di rendere edotta la collettività di quanto avvenuto; oppure,
ancora, il sopracitato principio di dissuasività a cui devono tendere le sanzioni irrogate, il
quale, fuoriuscendo dalla semplice funzione risarcitoria individuale, mira in maniera evidente a
che nuove e possibili future discriminazioni del medesimo tipo, commesse nei confronti di altri
soggetti, non vengano ulteriormente realizzate(30).
A tal riguardo, è allora necessario resistere all'inganno - certamente verificatosi nel caso di
specie - che il risarcimento da discriminazione possa in alcuni casi coincidere, quando la
condotta vietata riguardi un diritto di natura patrimoniale, proprio con la somma
originariamente negata, come peraltro avviene, per stessa giurisprudenza costante della Corte
di Giustizia(31), nel caso delle prestazioni previdenziali. La rimozione degli effetti (e la
conseguente attribuzione di un diritto precedentemente negato) è, piuttosto, solamente uno
degli approdi conseguenti alla domanda di accertamento della discriminazione.
Ciò che distingue l'azione antidiscriminatoria da ogni altro tipo di azione sembra piuttosto
risiedere nell'obiettivo di fornire tutela a una situazione giuridica più complessa del singolo
diritto o interesse legittimo ad accedere o fruire del bene o dell'opportunità negati al soggetto
discriminato, una situazione che abbraccia anche la lesione della dignità individuale nel suo
significato più profondo(32) e, in ottica afflittivo-deterrente, persino l'interesse collettivo che
tale comportamento non si verifichi in futuro nei confronti di altri soggetti. Tutti questi obiettivi
trovano il loro fulcro nello strumento del risarcimento del danno da discriminazione, la cui
liquidazione, come detto, nel caso di negazione di beni della vita di natura patrimoniale, dovrà
certamente considerare nella loro entità le somme negate, ma che, al pari di queste, dovrà
altresì tener conto di tutti gli ulteriori aspetti non patrimoniali legati alla dignità della vittima e
agli interessi della comunità coinvolta(33).
L'originalità dell'azione di cui si discute, peraltro, è stato un tema già affrontato e risolto in
senso positivo nella nota sentenza Cass. Civ. n. 7186/2011 dalle Sezioni Unite(34), chiamate a
pronunciarsi sulla giurisdizione dell'AGO a conoscere del diritto a non essere discriminati - in
quanto "diritto soggettivo assoluto", la cui fonte è ravvisabile direttamente nell'art. 3 della
Costituzione - anche quando la discriminazione sia stata realizzata mediante l'emanazione di
atti amministrativi, ossia in presenza di una situazione giuridica apparentemente riconducibile
all'alveo dell'interesse legittimo. Come è stato sottolineato dai commentatori di tale pronuncia,
detto orientamento appare tanto più condivisibile proprio se si considera che il diritto
antidiscriminatorio prevede, nei casi di discriminazione collettiva, la legittimazione attiva di
enti o associazioni, la quale non avrebbe altrimenti senso se l'azione fosse rivolta
esclusivamente a ottenere il bene o l'opportunità negati alle vittime dalla P.A., "perché le
associazioni non richiedono per se stesse alcun bene della vita, se non appunto una rimozione
della discriminazione collettiva per la generalità dei soggetti discriminati"(35).
Conclusioni
Una volta chiarita la questione circa l'autonomia della situazione giuridica tutelata mediante
l'azione antidiscriminatoria, rimane dunque da chiedersi quale sia il regime di prescrizione ad
essa applicabile. Ciò che appare certo, se si condivide tale tesi, è che non sia possibile, a
questo punto, estendere a essa regimi di prescrizione o decadenza speciali che l'ordinamento
predispone per diritti diversi e la cui negazione, piuttosto che essere l'oggetto della tutela
richiesta, sembra rappresentare invece l'occasione nella quale la discriminazione trova la sua
realizzazione sul piano materiale.
L'ultimo dubbio da sciogliere rimane dunque solo quello se optare per la tesi
dell'imprescrittibilità di cui all'art. 2934, comma 2, c.c. in quanto il diritto a non essere
discriminati dovrebbe considerarsi, a tutti gli effetti, indisponibile per le vittime, oppure per
l'applicazione del regime ordinario decennale di cui all'art. 2946 c.c.
In ogni caso, qualora non si dovesse ritenere fondate tali considerazioni, in assenza di
specifiche disposizioni in senso contrario, il regime da applicarsi, come anche affermato da
un'isolata pronuncia di merito(39), non potrà che essere quello ordinario.
(*) N.d.R.: Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato
di valutazione.
(2) Più nello specifico, la condotta dell'I.N.P.S. accertata come discriminatoria consisteva (e
consiste tutt'oggi) nel conteggiare, come base di calcolo per la retribuzione da prendere a
riferimento per la liquidazione del congedo di maternità, unicamente il 50% dell'indennità di
volo percepita ogni mese da tali lavoratrici, e ciò in ragione di un'interpretazione fornita dal
Ministero del Lavoro all'interpello n. 63/2008, che pretendeva di applicare anche a detta
prestazione previdenziale i medesimi criteri di calcolo utilizzati per individuare il reddito da
lavoro a fini contributivi e fiscali di cui alla L. n. 153/1969 e al d.P.R. n. 917/1986. Sul tema,
cfr. I.C. Maggio, Il divieto di discriminazione delle lavoratrici madri. Una rassegna della più
recente giurisprudenza, in Responsabilità civile e previdenza, 2021, 4, 966.
(3) Si ritiene che il tema della decadenza dall'azione previdenziale, pari a un anno, sia
altrettanto rilevante, al pari di quello della prescrizione trattato dalla sentenza in commento.
La decadenza speciale prevista in tale materia, infatti, se si segue la prospettazione fornita
dalla Suprema Corte in merito all'"identità di natura" tra il diritto fatto valere nell'azione
antidiscriminatoria e in quella previdenziale, rappresenta un ulteriore ostacolo all'accesso alla
giustizia delle lavoratrici vittime di discriminazione. La questione - che è stata ampiamente
trattata dalla giurisprudenza di merito - non viene invece toccata dalla sentenza in commento,
poiché non è stata oggetto di eccezione da parte dell'I.N.P.S. e pertanto non si approfondirà
ulteriormente il tema. Basti solo rilevare che le medesime considerazioni contenute nel
presente contributo al fine di sostenere l'autonomia dell'azione antidiscriminatoria rispetto a
qualsiasi altro tipo di azione comportano, conseguentemente, l'esclusione dell'applicazione non
solo di regimi prescrizionali speciali, ma anche di decadenze aventi anch'esse natura speciale.
(4) Cfr., ex multis, App. Torino 18 febbraio 2021, anche se quest'ultimo provvedimento si
concentra, nello specifico, sul tema della decadenza dell'azione. In merito, si faccia riferimento
a quanto detto nella nota che precede.
(6) Per un primo commento di tale pronuncia, cfr. I.C. Maggio, Eccezione di prescrizione e
preclusioni nell'azione contro la discriminazione, disponibile al seguente link:
https://www.dirittoantidiscriminatorio.it/eccezione-di-prescrizione-e-preclusioni-nellazione-
contro-la-discriminazione/.
(7) Si specifica che la Corte d'Appello, aderendo alla tesi dell'imprescrittibilità del diritto, aveva
accertato la discriminazione e condannato l'I.N.P.S. alla riliquidazione della prestazione.
(10) Nessun dubbio pare esserci sul punto: gli artt. 3, Dir. 2000/43/CE e art. 3, Dir.
2000/78/CE, così come l'art. 7, Dir. 2006/54/CE, sono infatti espliciti nel menzionare
esclusivamente l'accesso a beni della vita e non, invece, il campo dell'accesso alla giustizia o
dei sistemi di tutela.
(12) Come sottolineano ancora A. Guariso - M. Militello, La tutela giurisdizionale, cit., 446, gli
strumenti predisposti dal legislatore per garantire l'accesso alla giustizia del soggetto debole e
un esito equo al procedimento sono sempre gli stessi: "gratuità del processo, rapidità e
concentrazione del procedimento; modulazione dell'onere della prova in favore della parte
debole; valorizzazione dei poteri d'ufficio per supplire alle difficoltà del soggetto debole di
accedere alle prove".
(13) Cfr. M. Barbera, Discriminazione e pari opportunità (diritto del lavoro), in Enc. dir., Annali
VII, 2014, 391, nella quale l'Autrice sottolinea come "[l]'elenco dei fattori vietati rivela
immediatamente l'esistenza di fenomeni storici di stigmatizzazione e di negazione del valore
intrinseco della persona umana; rinvia a strutture politiche e sociali diseguali; segnala una
riconoscibile disparità di potere, di capacità di rappresentanza degli interessi di gruppo e di
forza di mobilitazione, e di situazioni radicate di vulnerabilità sociale".
(14) Per un approfondimento del tema, cfr. C. Alessi, Le azioni positive, in La tutela
antidiscriminatoria, cit., 501; D. Izzi, Eguaglianza e differenze nei rapporti di lavoro. Il diritto
antidiscriminatorio tra genere e fattori di rischio emergenti, Napoli, 2005, 269; M. Barbera,
Discriminazioni indirette e azioni positive: riflessioni comparate dal caso nordamaricano, in Riv.
giur. lav., 1984, 273; R. Dworkin, Discriminazione alla rovescia, in I diritti presi sul serio,
Bologna, 1982, 293.
(15) T. Treu, Azioni positive e discriminazioni alla rovescia. Una importante sentenza della
Corte Suprema degli Stati Uniti, in Lav. dir., 1988, 67.
(17) In questo senso, E.M. Mastinu, Diritto e processo nella lotta contro le discriminazioni di
genere, Milano, 2010, 31.
(18) Ciò viene riconosciuto in modo esplicito dalla stessa sentenza in commento al punto 13 e,
del resto, è lo stesso considerando 23 della Dir. 2006/54/CE a prevedere esplicitamente che
"Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia risulta chiaramente che qualsiasi trattamento
sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce
una discriminazione diretta fondata sul sesso". Per un approfondimento del tema, A. Vimercati,
La "vittimizzazione" collegata alla discriminazione fondata sul sesso, in Riv. giur. lav., 2019,
368.
(19) Della cui legittimità è tuttavia lecito dubitare, anche alla luce di quanto affermato in Corte
di Giustizia UE 18 ottobre 2012, cause riunite da C-302/11 a C-305/11. Per un
approfondimento del tema, S. Zitti, L'anzianità di servizio dei precari pubblici: una
discriminazione alla rovescia?, in Riv. giur. lav., 2013, II, 15. Sul tema, cfr. anche A. Rondo,
Divieti di discriminazione nel contratto a termine, in questa Rivista, 2014, 6, 553.
(20) Si veda, ex multis, Corte di Giustizia UE 28 marzo 2019, Cogeco Communications Inc., C-
637/17, punto 43; Corte di Giustizia UE 5 giugno 2014, Kone e a., C-557/12, punto 25.
(21) Cfr. Corte di Giustizia UE 27 febbraio 2003, C-327/00, punto 65, nella quale la Corte ha
riconosciuto il potere del giudice nazionale di disapplicare la norma interna sulla decadenza che
non consenta di rispettare il principio di effettività della tutela.
(24) Per un approfondimento del tema, su tutti, cfr. E. Ghera, La prescrizione dei diritti del
lavoratore e la giurisprudenza creativa della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. lav., 2008, III,
3. Cfr. anche, per gli sviluppi più recenti della questione, M. Guerini, Decorrenza della
prescrizione e accesso alla giustizia nella recente giurisprudenza di merito, in Riv. giur. lav.,
2019, III, 449.
(26) Ossia quello previsto per le discriminazioni di genere di cui agli art. 36 ss. CPO, quello per
le discriminazioni aventi ad oggetto gli altri fattori protetti di cui all'art. 28, D.Lgs. n.
150/2011; o ancora, in particolare dopo i chiarimenti della Cassazione nella sentenza Cass.
Civ., Sez. lav., 2 gennaio 2020, n. 1, anche il rito di cui all'art. 28, L. n. 300/1970 per le
discriminazioni collettive di natura sindacale. Per un approfondimento del tema dell'attuale
frammentazione dei riti antidiscriminatori, si veda ancora A. Guariso - M. Militello, La tutela
giurisdizionale, cit., 447.
(27) Sul tema, cfr. più diffusamente M. Mastinu, Diritto e processo nella lotta contro le
discriminazioni di genere, cit., 49, nel quale la funzione del "risarcimento da discriminazione"
viene individuata, da un lato, nella sua natura restitutoria e, dall'altro, nella sua natura
"spiccatamente afflittiva e quindi dissuasiva", le quali vengono perseguite attraverso il
risarcimento del danno patrimoniale (per equivalente o in forma specifica) e di quello non
patrimoniale. Cfr. anche, M. Malzani, Inidoneità alla mansione e soluzioni ragionevoli: oltre il
repêchage, in Arg. dir. lav., 2020, IV, 963. La natura principalmente risarcitoria delle sanzioni
contro la discriminazione è stata, peraltro, ripetutamente affermata dalla Corte di Giustizia UE
sin dalla sentenza 2 agosto 1993, Marshal, C-271/91.
(28) M. Barbera, Eguaglianza e differenza nella nuova stagione del diritto antidiscriminatorio
comunitario, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2003, 399.
(29) Ci si chiede, a tal riguardo, come debba essere considerato il risarcimento che può essere
liquidato dal giudice in favore degli enti esponenziali, se non proprio come un ristoro collettivo
diverso dal bene giuridico negato alla vittima e, in ottica general-preventiva, un sostegno
all'attività di un soggetto collettivo che opera ogni giorno contro le discriminazioni.
(30) Tale finalità è resa esplicita dallo stesso art. 28, D.Lgs. n. 150/2011, nella parte in cui
dispone che "Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di
adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle
discriminazioni accertate".
(31) Nel caso in cui si trovi di fronte a comportamenti della pubblica amministrazione che
abbiano violato il principio di parità di trattamento in ragione di uno dei fattori protetti, la
giurisprudenza pacifica della Corte di Giustizia UE sostiene da tempo che finché non siano
adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, l'osservanza del principio di
uguaglianza può essere garantito solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla
categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria
privilegiata. Cfr. Corte di Giustizia UE 7 settembre 2006, Cordero Alonso, C-81/05; Corte di
Giustizia UE 22 gennaio 2019, Cresco Investigation, C-193/17. Tale principio si realizza,
dunque, con la concessione, sul piano patrimoniale, di una somma equivalente a quella della
prestazione negata.
(32) Il tema della dignità viene, inoltre, espressamente enunciato nel caso delle molestie: le
tre direttive eurounitarie citate individuano, infatti, la molestia quale "comportamento
indesiderato avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona". Sul collegamento
indissolubile tra eguaglianza e dignità, si veda anche, ad esempio, Corte di Giustizia UE 30
aprile 1996, P. v. S., C-13/94.
(33) Trib. Napoli Nord 26 novembre 2021, n. 5192, in cui si parla di "natura non
esclusivamente ripristinatoria dello status quo ante attribuibile al risarcimento del danno da
discriminazione". Sul tema, cfr. ancora F. Malzani, Inidoneità alla mansione e soluzioni
ragionevoli: oltre il repêchage, cit., 976.
(34) Cass. Civ., SS.UU., 30 marzo 2011, n. 7186, in Riv. it. dir. lav., 2011, II, 1095. Sul tema
cfr. anche C. A. Giovanardi - G. Guarnieri - G. Ludovico - G. Treglia, Procedimento contro la
discriminazione per motivi razziali e giurisdizione, in questa Rivista, 2011, 6, 627; A.
Venchiarutti, Incertezze sulla giurisdizione in tema di tutela giudiziaria delle persone con
disabilità vittime di discriminazione, in Nuova giur. civ. comm., 2015, IV, 370; G. Carapezza
Figlia, Il divieto di discriminazione quale limite all'autonomia contrattuale, in Riv. dir. civ.,
2015, VI, 1387; P. Adami, L'azione civile anti-discriminazione ex art. 44 t.u. immigrazione, in
Giur. mer., 2013, III, 502.
(36) In particolare, all'art. 9, comma 3, Dir. 2000/78/CE; all'art. 7, comma 3, Dir. 2000/43/CE;
all'art. 17, comma 3, Dir. 2006/54/CE.
(37) Anche se si ritiene che tale possibilità riguardi più precisamente l'istituto della decadenza
e non tanto quello della prescrizione.
(38) Un esempio sono le due ordinanze del Trib. Busto Arsizio, 24 novembre 2021, n. 496 e
Trib. Busto Arsizio, 24 novembre 2021, n. 498.