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I presupposti per la disposizione ed i criteri di scelta

delle misure cautelari personali


Autore: Cavaliere Armando
In: Diritto penale

Le misure cautelari, disciplinate dal Libro IV del Codice di rito (agli artt. 272-325), sono quei
provvedimenti disposti dall’autorità giudiziaria, provvisori ed immediatamente esecutivi, diretti ad evitare
che il trascorrere del tempo possa provocare pericoli in merito all’accertamento del reato (inquinamento
probatorio), all’esecuzione della sentenza definitiva (fuga o, per le reali, depauperamento del patrimonio
da parte del sottoposto al procedimento o processo), alle conseguenze del reato ovvero alla commissione
di altri reati.

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Il contrasto in Costituzione

È di certo facilmente intuibile lo “scontro” tra l’applicabilità di queste misure ed il principio di


presunzione di innocenza o di non colpevolezza[1]: la previsione di cui all’art. 27, comma 2, Cost. a mente
del quale l’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva e quindi secondo cui la pena
può essere applicata solo successivamente la sentenza irrevocabile di condanna, sembra collocarsi in
contraddizione con l’art. 13, comma 5, Cost. che consente la limitazione della libertà personale anche
prima della sentenza irrevocabile – magari al pari livello della pena (si veda la somiglianza tra custodia
cautelare in carcere e la reclusione). Ma, come anticipato e recentemente anche chiarito dal Giudice delle
leggi, nella Sentenza n. 265 del 21 Luglio 2010, questo contrasto è meramente apparente. Precisa
infatti la Consulta che, come rilevato già nella Sentenza n. 64 del 1970, “l’applicazione delle misure
cautelari non può essere legittimata in alcun caso esclusivamente da un giudizio anticipato di
colpevolezza, né corrispondere – direttamente o indirettamente – a finalità proprie della sanzione penale,
né, ancora e correlativamente, restare indifferente ad un preciso scopo (cosiddetto “vuoto dei fini”). Il
legislatore ordinario è infatti tenuto, nella tipizzazione dei casi e dei modi di privazione della libertà, ad
individuare – soprattutto all’interno del procedimento e talora anche all’esterno (sentenza n. 1 del 1980) –
esigenze diverse da quelle di anticipazione della pena e che debbano essere soddisfatte – entro tempi
predeterminati (art. 13, quinto comma, Cost.) – durante il corso del procedimento stesso, tali da
giustificare, nel bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà
personale di chi non è stato ancora giudicato colpevole in via definitiva”.

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Le condizioni di applicabilità

A rigore di ciò, il Codice di rito pone determinate condizioni generali alla applicabilità delle misure
cautelari personali: i) una determinata gravità del delitto contestato; ii) la punibilità in concreto
del delitto, vista come condizione negativa in quanto non devono essere presenti determinati elementi
che non la renderebbero praticabile; iii) la presenza di gravi indizi di colpevolezza.

La prima condizione è prevista dall’art. 280 c.p.p. dal quale si ricava che non sono applicabili le misure
coercitive (ma anche le interdittive per la previsione dell’art. 287 c.p.p.), nei procedimenti per reati
contravvenzionali per i quali possono applicarsi esclusivamente le misure cautelari reali del sequestro
conservativo e preventivo (artt. 316 e 321 c.p.p.). È inoltre impedita l’applicazione delle misure coercitive
(ed interdittive) se non è addebitato un delitto per il quale sia prevista la pena dell’ergastolo ovvero
della reclusione superiore nel massimo a tre anni. La custodia cautelare in carcere può essere
disposta esclusivamente per i delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione
non inferiore (quindi uguale o superiore) nel massimo a cinque anni e per il reato di
finanziamento illecito dei partiti di cui all’art. 7 della legge del 2 Maggio 1974, n. 195 e ss.mm.ii.
(punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e con la multa fino al triplo delle somme versate in
violazione della presente legge: evidentemente per il legislatore sarebbe stato troppo aumentare la pena
massima prevista per quest’ultimo reato; di certo sarebbe stato azzardato, e contro l’orientamento seguito
negli ultimi anni, di cui si dirà dopo – che vede l’applicabilità della misura inframuraria solo come
extrema ratio – diminuire i cinque anni di cui all’art. 280, comma 2, c.p.p.).

Quanto appena detto non è valido per chi abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una misura
cautelare. Deve precisarsi, poi, che il Codice di rito impone, all’art. 278, che al fine dell’applicazione delle
misure cautelari, per determinare la quantità di pena detentiva non deve tenersi conto della
continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato tranne che dell’aggravante dell’aver profittato
di situazioni di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa (art. 61, n. 5,
c.p.) e dell’attenuante del danno o del lucro di speciale tenuità (art. 62, n. 4, c.p.) nonché di quelle
circostanze c.d. autonome (per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria
del reato: art. 69, comma 4, c.p.) e di quelle ad effetto speciale (che importano un aumento o diminuzione
della pena superiore ad un terzo: art. 63, comma 3, c.p.).

La seconda condizione è descritta analiticamente dall’art. 273, comma 2, c.p.p. laddove si prevede che
nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di
giustificazione o scriminante (ad es. la legittima difesa) o di una causa di estinzione del reato (ad
es. la prescrizione) ovvero una causa di estinzione della pena (ad es. l’indulto di quattro anni, se la
pena non sarà superiore a questa) che si ritiene possa essere irrogata.

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Analisi degli indizi e caratteri

I gravi indizi di colpevolezza sono posti dall’art. 273, comma 1, c.p.p. Con l’utilizzo del termine “indizio”,
come intuibile anche dal fatto che, di regola, ci si trova in una fase quale quella delle indagini preliminari,
si vuole evidenziare che si tratta di una base probatoria ancora in evoluzione per ricevere una
conferma in dibattimento: si vuole far riferimento tanto alle prove critiche (procedimento logico
mediante il quale da un fatto noto si desume l’esistenza di un fatto ancora da provare tramite
l’applicazione di massime di esperienza o leggi scientifiche: si pensi ad una testimonianza tramite la quale,
in un procedimento volto ad accertare la colpevolezza di un indagato di un omicidio perpetrato
nell’abitazione della vittima, si dichiara di aver visto, all’incirca all’ora del decesso, l’asserito soggetto
agente del delitto uscire di corsa dall’abitazione – tale prova indiziaria può suggerire al giudice che la
persona sottoposta ad indagini si trovava sul luogo del delitto, ma non anche che sia stato egli a
commetterlo) quanto alle prove rappresentative (ragionamento che ricava per diretta rappresentazione
da un fatto noto, un fatto che deve essere accertato: ad es. la testimonianza di chi riferisca aver visto
l’indagato porre in essere la condotta oggetto di contestazione).

Recentemente ed in modo costante gli Ermellini hanno inteso specificare, appunto, che ai fini
dell’adozione di una misura cautelare personale, la nozione di indizi di colpevolezza non coincide con
quella applicabile per la formulazione del giudizio finale di colpevolezza, bastando, in sede cautelare,
l’emersione di qualunque elemento probatorio idoneo a fondare una qualificata probabilità sulla
responsabilità dell’indagato[2] e che sia anche solo “grave”, giacchè il comma 1 bis dell’articolo 273 c.p.p.
richiama espressamente i soli commi 3 e 4, ma non il comma 2 dell’art. 192 c.p.p., che prescrive la
precisione e la concordanza accanto alla gravità degli indizi: derivandone, quindi, che gli indizi, ai fini
cautelari, non devono essere valutati secondo gli stessi criteri richiesti per il giudizio di merito dall’art.
192, comma 2, c.p.p., cioè con i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza. Con
l’aggettivo “gravi”, alla quale si è giunti dal precedente termine “sufficiente” utilizzato nel Codice del
1930, si è voluto specificare che si deve avere una elevata probabilità circa l’effettiva responsabilità
penale dell’indagato, dovendo il giudice compiere un giudizio prognostico, anche se allo stato degli atti,
sulla “colpevolezza” dell’indagato. Questo quantum è da tenere presente, per ovvie ragioni legate al
principio di cui all’art. 27, comma 2, Cost. soprattutto se si è in presenza di una prova critica. Un
problema potrebbe porsi nel caso in cui si fosse in presenza di più elementi indizianti, infatti, in tale
fattispecie, le valutazioni del giudice della cautela deve essere duplice alla luce del principio di diritto
secondo cui “la gravità degli indizi di colpevolezza postula una considerazione non frazionata ma
coordinata degli stessi, che consenta di verificare se la valutazione sinottica di essi sia o meno idonea a
sciogliere le eventuali incertezze o ambiguità discendenti dall’esame parcellizzato dei singoli elementi di
prova, e ad apprezzare quindi la loro effettiva portata dimostrativa e la loro congruenza rispetto al tema di
indagine prospettato nel capo di imputazione provvisoria”[3].

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Le esigenze cautelari

Alle condizioni generali di applicabilità appena sopra trattate deve aggiungersi che le misure cautelari
personali possono essere applicate esclusivamente quando esiste in concreto almeno una delle
tassative esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p.: i) il pericolo di inquinamento della prova; ii) il
pericolo di fuga (per la cui rilevanza deve sussistere anche il convincimento del giudice del fatto che
possa essere irrogata una pena superiore a due anni) e iii) quello di reiterazione ovvero di
commissione di determinati reati.

La nuova previsione dell’attualità oltre alla concretezza

Con la legge n. 47/2015, il legislatore ha inteso introdurre, oltre al già presente requisito della
concretezza, quello della attualità in relazione al pericolo di fuga e di reiterazione, rispettivamente
previsti alle lett. b) e c) del suddetto articolo. L’aggettivo “attuale” veniva inizialmente inserito nel testo
dell’art. 274 c.p.p. dalla legge n. 332/1995 che, tramite l’art. 3, comma 1, riscriveva integralmente la lett.
a) della stessa disposizione del Codice di rito, precisando che il pericolo per l’acquisizione o la genuinità
della prova doveva essere concreto e attuale e non meramente concreto, come in precedenza. Sia per il
percolo di fuga, sia per quello di reiterazione, continuava a bastare la semplice concretezza fino al
2015.

Non c’è dubbio alcuno sul fatto che questa recentissima riforma abbia inteso imporre al giudice della
cautela un più gravoso onere motivazionale, ma non sono mancati gli sforzi di enucleare elementi
circostanziali attualizzanti in grado di evidenziare la persistenza delle esigenze cautelari.
Ovviamente i tentativi non hanno prodotto particolari risultati positivi, posto che il giudice dovrà
scandagliare nei dettagli la fattispecie concreta sottoposta alla sua attenzione, così da cogliere ogni
elemento diretto a dimostrare che, nonostante il decorso di un significativo lasso di tempo rispetto al
momento di consumazione del reato addebitato, le esigenze cautelari risultano ancora attuali.

Risulta comunque pacifico ormai che possono considerarsi rilevanti, ai fini della valutazione della
sussistenza del pericolo di reiterazione della condotta criminosa (e di conseguenza della attualità dello
stesso), i precedenti contenuti nel certificato penale piuttosto che i procedimenti pendenti dell’indagato,
essendo questi idonei ad indicare la presenza di un concreto pericolo di reiterazione di reati della stessa
specie, ove riguardino ipotesi delittuose caratterizzate da eventi similari oppure, a maggior ragione,
identici[4]. Lo stesso vale per le denunce all’autorità giudiziaria per fatti analoghi a quello per cui si sta
procedendo posto che gli elementi per una valutazione di pericolosità possono trarsi pure solo da
comportamenti o atti concreti non necessariamente aventi natura processuale[5]. Identico sforzo resta,
quindi oggi, da farsi per l’individuazione degli elementi che portano a concludere per la presenza del
pericolo di fuga e quello di inquinamento probatorio. Si badi bene però che non si richiede che siano

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attuali i reati per cui si procede, bensì che lo siano le esigenze cautelari[6].

È bene precisare comunque che il trascorrere del tempo dalla commissione del reato non è totalmente
irrilevante poiché, anche successivamente all’entrata in vigore della riforma del 2015, non può bastare ad
attenuare oppure annullare le esigenze cautelari al fine della sostituzione ovvero della revoca della misura
in origine applicata, ma il passare del tempo deve essere valutato, per motivare in ordine agli elementi di
fatto da cui sono desunti esigenze cautelari e indizi, solo in fase applicativa e non al fine della sostituzione
o della revoca del regime cautelare, come può ricavarsi dal fatto che l’art. 299 c.p.p. non richiede tale
valutazione della attualità, a differenza dell’art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p.

La gravità del titolo di reato

Il riformatore del 2015 ha altresì introdotto, alle lettere b) e c) dell’art. 274 c.p.p. che le situazioni di
concreto e attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato
per cui si procede, con ciò volendo sottolinearsi la necessità di fare un’analisi concreta dell’esistenza
delle esigenze cautelari che non si limiti alla valutazione dell’allarme sociale ricavabile dalla gravità del
fatto quanto, invece, ad altri ed ulteriori elementi indicativi della possibilità che vengano posti in essere
nel prossimo futuro fatti omogenei per quelli per cui si procede ovvero che l’interessato si dia alla fuga.
Con questa esplicita espressione utilizzata dal legislatore, quest’ultimo, ritiene graniticamente la
giurisprudenza che, non ha certamente inteso riferirsi alla modalità e la gravità del fatto-reato, i quali
devono, senza soluzione di continuità con quanto avveniva in precedenza, essere presi sempre in
considerazione, ma alla sola fattispecie incriminatrice in astratto contestata nel procedimento[7].
Detto orientamento deve ritenersi attuale, dovendo comunque mantenersi fermo quanto previsto dal
secondo periodo dell’art. 275, comma 3, c.p.p. dal quale, a parere di chi scrive, può ricavarsi che solo il
legislatore può selezionare delitti talmente gravi e allarmanti dal punto di vista sociale che possono
giustificare, sulla base esclusivamente della fattispecie astratta (salvo prove contrarie ammesse in ordine
alla presenza di gravi indizi di colpevolezza o delle esigenze cautelari), l’adozione della misura coercitiva
della custodia cautelare in carcere ovvero di un’altra in grado comunque di soddisfare le esigenze
cautelari presenti in concreto evidenziate – terzo periodo.

Esigenze cautelari di eccezionale rilevanza

Si è trattato fin qui delle esigenze cautelari di natura ordinaria, ma il Codice di rito (art. 275, comma 4 e 4
ter) e leggi speciali (art. 89, D.P.R. 309/1990) prevedono anche che in determinati casi soggettivi e/o
circostanze oggettive debbano sussistere esigenze cautelari c.d. di eccezionale rilevanza, le quali si
differenziano dalle prime solo per il grado o dall’intensità del pericolo[8] senza trascurare che le
esigenze cautelari di eccezionale rilevanza comportano l’esistenza di puntuali e specifici elementi dai quali
emerga un non comune, spiccatissimo ed allarmante rilievo dei pericoli ai quali fa riferimento l’art. 274

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c.p.p.

La scelta tra le tante misure previste

La scelta della misura cautelare, da parte del giudice che abbia accertato l’esistenza dei gravi indizi di
colpevolezza e di almeno una delle esigenze cautelari, non è libera ma vincolata a limiti formali, in
quanto non può disporre una misura più grave di quella richiesta dal P.M., e sostanziali, dovendo
rispettare i criteri che sono espressi dall’art. 275 c.p.p. ovvero quelli: i) di adeguatezza della misura
cautelare concreta in relazione alla natura ed al grado delle esigenze cautelari da soddisfare; ii) di
proporzionalità alla gravità del fatto e della sanzione che si ritiene potrà essere inflitta; iii) di
gradualità, così da applicare la custodia cautelare in carcere esclusivamente qualora ogni altra misura
risulti inadeguata ovvero come extrema ratio. Di regola non sono ammessi automatismi né
presunzioni e dell’esercizio del potere discrezionale il giudice deve dare conto con autonoma valutazione
nella motivazione della ordinanza genetica in relazione a tutti i temi principali: indizi, esigenze cautelari,
motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi (eventualmente) forniti dalla difesa, nonché,
in caso di applicazione della misura cautelare inframuraria, l’enucleazione delle concrete e specifiche
ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 c.p.p. non possono essere soddisfatte con altre misure.
Sempre a tal proposito, e per meglio comprendere l’importanza di una motivazione così completa, l’art.
309, comma 9, c.p.p. modificato dalla legge n. 47/2015 dispone che il Tribunale del riesame (anche
conosciuto come Tribunale delle libertà) annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o
non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292 c.p.p., degli indizi, delle esigenze cautelari e
degli elementi forniti dalla difesa.

Ora, se il primo dei principi detti sopra (di adeguatezza) non sembra particolarmente vincolare il giudice
della cautela nella scelta della misura da applicare – se non per la motivazione –, lo stesso non può dirsi
per il secondo ed il terzo principi detti (quello di gradualità nel senso sopra specificato e di
proporzionalità) considerati determinati divieti imposti, alla base dei quali deve essere compiuta una
difficile e delicata prognosi “allo stato degli atti” anche del quantum della condanna, e che oggi si prevede
la possibilità di applicazione cumulativa di misure coercitive e interdittive (art. 275, comma 3, c.p.p.) e che
il giudicante che intendesse disporre la misura carceraria dovrà comunque indicare le specifiche ragioni
per cui ritenga inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico
(art. 275, comma 3 bis, c.p.p.).

Risulta lapalissiano da queste scelte del legislatore la volontà di questo di spingere l’autorità decidente
a disporre la custodia inframuraria solo in casi estremi, salvi specifici casi e circostanze. In
particolare, al giudice sono posti determinati divieti quali, a norma dell’art. 275, comma 2 bis, c.p.p.
quello di provvedere la custodia cautelare in carcere oppure gli arresti domiciliari nel caso in cui ritenga
che sarà concessa la sospensione condizionale della pena ex artt. 163 e 164 c.p.p., dunque quando si
riterrà che la pena detentiva che verrà irrogata con sentenza in concreto non superi i due anni ed il

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giudice ritenga che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati; salva sempre la previsione di cui
al successivo comma 3 e gli artt. 276, comma 1 ter, e 280, comma 3, c.p.p., ed i casi espressamente
previsti dal terzo periodo dello stesso art. 275, comma 2 bis[9], il giudice non può disporre la carcerazione
cautelare ove ritenga che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni
(art. 275, comma 2 bis, secondo periodo, c.p.p.) e quindi la stessa sarà sospesa in attesa dell’applicazione
di una misura alternativa (art. 656, comma 5 e 9 c.p.p.)[10].

Presunzioni relative e assoluta in casi determinati

Meritano di essere trattate, anche per l’attenzione ad esse dedicate dal Giudice delle leggi dal 2010 al
2015, le presunzioni relative e assoluta[11] di cui ai periodi secondo e terzo dell’art. 275, comma 3, c.p.p.
Nello specifico, il legislatore, in linea con l’orientamento espresso nel tempo dalla Consulta, ha previsto la
presunzione assoluta di adeguatezza della carcerazione preventiva e quella di natura relativa della
presenza di almeno una esigenza cautelare (perché “salvo che – a contrario dal modello per così dire
ordinario – siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”), laddove
sussistano gravi indizi di colpevolezza, esclusivamente nei casi in cui si proceda per i delitti di cui agli
artt. 270, 270 bis e 416 bis c.p.: in altre parole, in questi casi ed una volta accertata l’esistenza di gravi
indizi di colpevolezza, la difesa che intenda chiedere la revoca della custodia cautelare – la sostituzione è
ovviamente esclusa data l’applicabilità della sola misura estrema – non potrà dimostrare l’adeguatezza
di una misura diversa al caso concreto ma, perché possa cadere la presunzione assoluta, è necessario
che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussiste alcuna esigenza cautelare, di modo da non
poter applicare nessuna delle misure.

Dispone infatti la Corte costituzionale, nella Sentenza n. 265/2010, che “dalla struttura stessa della
fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche – connesse alla circostanza che l’appartenenza ad
associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma
fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di
particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una
regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe
adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra
l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità)”.

Il legislatore aveva operato la stessa scelta per le ipotesi in cui si procedeva per altri reati e, con la
medesima Sentenza, la Consulta dichiarava la illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e
terzo periodo, c.p.p. nella parte in cui prevedeva che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in
ordine ai delitti di cui agli articoli 600 bis, primo comma, 609 bis e 609 quater c.p., doveva applicarsi la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono
esigenze cautelari e non faceva salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione
al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. In

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relazione a questi reati appena detti oltre ad altri, infatti, il terzo comma dell’art. 275 c.p.p. prevede,
sempre nel caso in cui sussistano gravi indizi di colpevolezza in capo all’indagato, la presunzione della
adeguatezza della carcerazione cautelare come relativa (non assoluta, dal momento che si ammette
la prova contraria in ordine al fatto che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte anche con altre
misure) e della esistenza di almeno una esigenza cautelare sempre ammettendo la prova contraria.

Volume consigliato

Note

[1] L’ultima formulazione, scolpita nella Costituzione italiana all’art. 27, comma 2, a differenza di quanto
si trova nella C.E.D.U. all’art. 6, par. 2, è preferibile in quanto pone la concentrazione sulla principale
questione del processo che è, appunto, la colpevolezza e non l’innocenza. Resta fermo che il significato del
principio non muta.

[2] Cass. Pen., Sez. IV, Sentenza n. 53369 del 15 Dicembre 2016.

[3] Cass. Pen., Sez. II, Sentenza n. 57410 del 13 Novembre 2018.

[4] Ex plurimis Cass. Pen., Sez. II, Sentenza n. 7045 del 12 Novembre 2013.

[5] Cass. Pen., Sez. VI, Sentenza n. 6274 del 15 Febbraio 2016.

[6] Basti come esempio il caso di cui alla Sentenza della Suprema Corte n. 32485 del 7 Maggio 2015.

[7] Cass. Pen., Sez. II, Sentenza n. 50179 del 9 Dicembre 2015; Cass. Pen., Sez. II, Sentenza n. 2758 dell’8
Ottobre 2015 a mente della quale “difatti se da un lato si è previsto che le situazioni di concreto ed attuale
pericolo di reiterazione di condotte criminose non possano essere desunte esclusivamente dalla gravità
dei reato per il quale si procede, da un altro lato non si è certo esclusa la possibilità che la pericolosità
sociale dell'indagato venga desunta prendendo in esame le concrete modalità attuative della condotta”.

[8] Cass. Pen., Sez. VI, Sentenza n. 7983 del 1 Febbraio 2017 dove, in riferimento alla reiterazione, si è
precisato che le qualificate esigenze cautelari richieste dall’art. 275, comma 4, c.p.p. si distinguono da
quelle ordinarie solo per il grado del pericolo in quanto “a fronte dell’elevata probabilità di rinnovazione
dell’attività delittuosa richiesta dall’art. 274 c.p.p., è necessaria la certezza che l’indagato, ove sottoposto
a misure cautelari diverse dalla custodia in carcere, continui nella commissione di delitti della stessa
specie di quello per cui si procede”.

[9] Quando l’indagato abbia trasgredito le prescrizioni di una misura cautelare; nei procedimenti per i più

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gravi delitti o di violenza personale; quando non può essere applicata la misura cautelare degli arresti
domiciliari perché il domicilio è inidoneo e nessun’altra misura risulti adeguata.

[10] Con la Sentenza n. 41 del 6 Febbraio 2018 (motivazioni depositate il 2 marzo 2018) la Corte
costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5 c.p.p. “nella parte in cui si
prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo
di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni” considerato il limite di pena per
accedere alla misura alternativa più adottata nella prassi, e cioè l’affidamento in prova al servizio sociale
di cui all’art. 47 L. 354/1975. Per un approfondimento in merito alle ricadute di tale Sentenza anche
sull’art. 275, comma 2 bis, c.p.p. si consiglia Incostituzionalità dell’art. 656, c. 5 c.p.p. e ricadute in
materia cautelare: liberi (quasi) tutti dopo la sentenza n. 41/2018 della Corte Costituzionale?, Matteo
Cherubini e Andrea Mingione.

[11] A seconda che sia ammessa o meno prova contraria.

https://www.diritto.it/i-presupposti-per-la-disposizione-ed-i-criteri-di-scelta-delle-misure-cautelari-personali
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