Sei sulla pagina 1di 19

Lezione 11/11

Nel chiudere la lezione di ieri ho lasciato l’analisi della disciplina in materia di


estinzione, perché avrei voluto riprendere quanto a suo tempo avevamo già anticipato in
ordine agli effetti della estinzione. In gran parte questa disposizione ci è nota ma è
opportuno riprenderla.

L’estinzione, abbiamo detto che è un modo anomalo di chiusura del processo, perché è
una delle ipotesi in cui il processo a cognizione piena si chiude con una sentenza di
rito. Quindi il giudice non si pronuncia sulla esistenza o non esistenza del diritto fatto
valere in giudizio, non risponde alla domanda che è stata proposta. L’estinzione, vi
ricordate, può basarsi sulla rinuncia delle parti (prendiamo la normativa), quindi ci può
essere la rinuncia agli atti del giudizio oppure ci può essere l’estinzione per inattività.
In tutti i casi, gli effetti dell’estinzione sono disciplinati dall’art 310 cpc. É una norma
su cui ci siamo soffermati a lungo, soprattutto quando abbiamo parlato delle sentenze
non definitive, ma è opportuno riprenderla.

In base all’art 310 primo comma: ‘’l’estinzione del processo non estingue l’azione’’.
Abbiamo detto che la dichiarazione di estinzione è una pronuncia di rito, il giudice non
si pronuncia sull’esistenza o non esistenza del diritto fatto valere in giudizio, quindi il
provvedimento che dichiara l’estinzione non è suscettibile di acquistare l’autorità della
cosa giudicata e questo spiega perché il primo comma dell’art 310 afferma che
l’estinzione non estingue l’azione. Questo significa che potrà essere aperto un secondo
autonomo processo fra le stesse parti con riferimento alla stessa domanda giudiziale.

In base al secondo comma, “l’estinzione rende inefficaci gli atti compiuti ma non le
sentenze di merito pronunciate nel corso del processo e le pronunce che regolano la
competenza.” L’ espressione “sentenze di merito” non può essere identificata con la
sentenza definitiva, perché ci fosse stata una sentenza definitiva di merito non ci
sarebbe stato lo spazio per una dichiarazione di estinzione, perché la sentenza se è
definitiva, se chiude il processo, è chiaro che non lascia spazio per una chiusura in rito.
Le sentenze di merito a cui fa riferimento il secondo comma dell’art 310 sono invece
le sentenze non definitive. Come vedremo nel secondo semestre, con riferimento alla
sentenza non definitiva il legislatore ha dettato un particolare regime di impugnazione.
La sentenza non definitiva emessa a conclusione del processo di primo grado è
suscettibile infatti di appello immediato oppure è suscettibile di riserva di
impugnazione, nel qual caso i termini per impugnare cominceranno a decorrere
unitamente ai termini relativi alla sentenza definitiva. Laddove il processo principale si
estingue e laddove la sentenza non definitiva non viene impugnata entro i termini
stabiliti dalla legge, la sentenza non definitiva dovrebbe passare in giudicato
formale. Si tratta di stabilire se è in grado di sopravvivere all’estinzione del processo
originario. Come vedete, qui si fa riferimento espressamente alle sentenze di merito.
Allora, la sentenza non definitiva di merito può sopravvivere all’estinzione ?
Evidentemente sì, lo dice espressamente questa disposizione. Si tratta però di
chiarire, una volta che è passata in giudicato formale, che tipo di efficacia può
maturare ?
Se vi ricordate a questa domanda non possiamo dare una risposta semplice, ma occorre
effettuare una serie di distinzioni, cioè occorre andare a verificare qual è stato
l’oggetto della sentenza non definitiva .

E in questo senso noi abbiamo distinto le sentenze non definitive per il cui tramite il
giudice si è pronunciato sulla cosiddetta causa pregiudiziale, quindi si è pronunciato
con autorità di cosa giudicata sull’esistenza o non esistenza del rapporto
pregiudiziale, a seguito, ad esempio, di proposizione di domanda di accertamento
incidentale ex art 34 , o ancora più in genere, in tutti i casi in cui nel processo sono
state cumulate la domanda pregiudiziale e la domanda dipendente e la domanda
pregiudiziale è matura per la decisione in via anticipata rispetto alla domanda
dipendente.

In questa ipotesi, abbiamo già detto che, se il giudice intende pronunciarsi


anticipatamente, lo può fare ma lo farà con sentenza non definitiva, perché il regime
di impugnazione delle sentenze non definitive consente di salvaguardare l’esigenza di
armonia delle decisioni, in nome della quale (abbiamo già anticipato) il legislatore
favorisce in ogni modo la formazione e la conservazione del cumulo processuale fra
domanda pregiudiziale e domanda dipendente. Allora, trattandosi di una sentenza non
definitiva che contiene una pronuncia con autorità di cosa giudicata su un vero rapporto
sostanziale, non abbiamo difficoltà a riconoscere che questa sentenza non definitiva è
idonea ad acquistare la piena autorità della cosa giudicata, quindi si applica il 2909 del
cc.

Cosa succede, invece, se la sentenza non definitiva ha ad oggetto un rapporto


giuridico che però il giudice ha accertato senza autorità di cosa giudicata oppure ha
ad oggetto una questione preliminare di merito che ha la consistenza del fatto
storico?

Vi ricordate che, in base alla disciplina degli articoli 187 secondo e terzo comma e 279
comma secondo numero 4, è possibile che il giudice ritenga una questione preliminare di
merito idonea a definire il giudizio che poi si renda conto, arrivato in fase decisoria, che
invece la questione non è fondata e che decida di pronunciare sentenza non definitiva
per il cui tramite appunto dichiara la non fondatezza della stessa questione, questione
preliminare di merito che può essere un fatto storico (come per esempio la
prescrizione) oppure può essere un fatto-diritto che però il giudice in assenza di
domanda di parte avrà accertato senza autorità di cosa giudicata. Con riferimento a
questa ipotesi, abbiamo detto che la sentenza per definizione non può acquistare
l’autorità della cosa giudicata; il giudice si è pronunciato senza autorità di cosa
giudicata e quindi la sentenza conserverà sì la sua efficacia anche a seguito
dell’estinzione del processo da cui ha tratto origine (lo dice espressamente il secondo
comma dell’art 310) , ma si potrà parlare semplicemente di un’ efficacia pan-
processuale esterna, cioè questa sentenza non definitiva potrà esplicare la propria
efficacia vincolante solo e soltanto nel secondo e autonomo processo in cui tra le stesse
parti sarà riproposta la medesima domanda (quindi è un’efficacia molto più limitata).

Dalla stessa lettera dell’art 310 secondo comma si ricava invece che, la sentenza non
definitiva che ha ad oggetto questioni pregiudiziali di rito, come regola generale,
perderà efficacia. Quindi è una sentenza che è suscettibile di passare in giudicato
formale, ma se il processo al cui interno è stata resa si estingue, evidentemente perde
ogni efficacia. L’inciso finale del secondo comma dell’art 310 fa salve soltanto le
pronunce che regolano la competenza. Ora, intanto quel termine “pronunce” lo
dobbiamo intendere come ordinanze, perchè vi ricordate che in base all’art 279 del cpc,
quando il giudice si pronuncia solo sulla competenza, emana provvedimenti aventi la
forma dell’ordinanza. Per opinione comune di giurisprudenza e dottrina, quelle
pronunce che regolano la competenza sono solo e soltanto le ordinanze emanate dalla
corte di Cassazione. Quindi se la pronuncia sulla competenza è di un giudice di merito,
di primo o secondo grado, questa pronuncia non può sopravvivere all’estinzione del
processo, mentre sopravvive l’ordinanza in tema di competenza emanata dalla corte
di Cassazione. Intatti, come andremo a verificare nelle lezioni dedicate ai mezzi di
impugnazione e in particolare alla corte di Cassazione, la corte di Cassazione è l’organo
chiamato a disciplinare in ultima istanza il riparto di competenza fra i diversi uffici
giudiziari.

Come ci arriva la questione di competenza in Cassazione? Ci può arrivare attraverso


varie strade.

1-Esiste sia la strada ordinaria del ricorso per Cassazione che verrà proposto ai sensi
dell’art 360 (ricordatevi che il ricorso per Cassazione è un mezzo di impugnazione che
può essere proposto solo per i motivi indicati dalla legge) e tale art 360 indica proprio al
numero 2 la violazione delle norme sulla competenza. Quindi la prima strada per il cui
tramite la questione di competenza può arrivare alla corte di Cassazione è il ricorso
ordinario ex art 360 numero 2.

2-esistono però anche altri percorsi, e infatti, come vedremo nelle lezioni dedicate ala
competenza, la questione di competenza può arrivare in Cassazione anche attraverso la
strada del regolamento: c’è il regolamento necessario di competenza (art 42), c’è il
regolamento facoltativo di competenza (art 43). È un particolare mezzo di impugnazione
per il cui tramite le parti possono portare la questione pregiudiziale di competenza
direttamente di fronte alla corte di Cassazione. È un vero e proprio mezzo di
impugnazione. (e poi andremo a vedere quando si può proporre regolamento necessario
e quando quello facoltativo)

In ogni caso quando la questione di competenza arriva di fronte alla corte di


cassazione, a prescindere dalla strada per il cui tramite c’è arrivata, (questo è
indifferente) ci dice l’art 382, una delle norme che disciplinano i provvedimenti della
corte di Cassazione, che la corte di Cassazione statuisce sulla competenza.
E quell’espressione “statuisce” ci sta ad indicare che il dictum della corte, la
pronuncia della corte, è una pronuncia che vincola tutti i i giudici dell’ordinamento.
Quindi, la pronuncia, che sarà sempre in forma di ordinanza, della corte di Cassazione in
tema di competenza, è una pronuncia che sopravvive all’eventuale estinzione del
processo al cui interno è stata resa e che vincolerà tutti i giudici, quindi anche il
secondo giudice di fronte a cui sarà riproposta eventualmente la stessa domanda tra le
stesse parti. Nonostante l’art 310 faccia riferimento esclusivo alle pronunce che
regolano la competenza, è pacifico che sopravvivano all’estinzione del processo
anche i provvedimenti emessi dalla corte di cassazione in tema di giurisdizione. La
corte di cassazione, infatti, in base all’art 111 della carta costituzionale, è l’organo che
è chiamato a disciplinare, a pronunciarsi, in maniera vincolante, sul riparto di
giurisdizione tra le diverse magistrature, tra i diversi giudici. Infatti, l’ultimo comma
dell’art 111 della costituzione, prevede espressamente che anche le decisioni del
Consiglio di Stato e della Corte dei Conti sono suscettibili di ricorso per Cassazione per
motivi inerenti alla giurisdizione. Inoltre, tra i compiti che l’art 65 dell’ordinamento
giudiziario attribuisce alla suprema Corte c’è proprio quello di disciplinare il riparto di
giurisdizione. Ancora, l’art 382 proprio come prevede con riferimento alla competenza,
stabilisce che anche con riferimento alla questione di giurisdizione la corte statuisce su
questa, determinando quando occorre il giudice competente. Quindi in base alla lettura
di queste 3 disposizioni si ritiene che sopravvivano all’estinzione del processo a
cognizione piena anche i provvedimenti emanati in tema di giurisdizione, sempre
emanati dalla Corte di Cassazione.

Anche in questo caso è indifferente la strada per il cui tramite la questione di


giurisdizione arriva alla Corte di Cassazione. Ancora una volta la questione di
giurisdizione può arrivare alla Corte sia attraverso la strada ordinaria, (quindi attraverso
il ricorso ordinario per Cassazione, presentato ai sensi dell’art 360 numero 1, perchè è
quello che richiama espressamente la giurisdizione) sia anche attraverso il regolamento
di giurisdizione, che è disciplinato dall’art 41 cpc, ma che vedremo, non è un mezzo di
impugnazione (a differenza del regolamento di competenza) ma è una sorta di istanza,
per il cui tramite le parti, fin dal primo grado di giudizio, possono portare la questione
di giurisdizione di fronte alla suprema Corte, senza attendere che la stessa si sia
pronunciata, anzi lo devono fare proprio prima che il giudice di merito si sia pronunciato
sulla questione di giurisdizione.

Torniamo all’art 310. Il terzo comma afferma che le prove raccolte nel processo estinto
sono valutate dal giudice a norma dell’art 116 secondo comma. Questa disposizione si
occupa dell’ efficacia delle prove che sono state raccolte nel corso del processo
prima che questo si sia estinto. Naturalmente la rilevanza delle prove si riferisce al
secondo e autonomo processo in cui fra le stesse parti viene riproposta la stessa
domanda. Il richiamo all’art 116 secondo comma è il richiamo ai cosiddetti argomenti di
prova. Quindi le prove raccolte nel processo estinto hanno il valore di argomenti di
prova. ( vedremo nelle lezioni dedicate alle prove che cosa sono questi argomenti di
prova). Diciamo che non perdono del tutto la loro efficacia.
Come vedremo meglio nelle prossime lezioni, il riferimento alle prove raccolte qua deve
essere però limitato. Noi già sappiamo che il giudice acquisisce diversi mezzi di prova, ci
sono le prove precostituite (che sono le prove documentali) e ci sono le prove
costituende (che sono le prove che si formano nel corso del processo, tipicamente la
testimonianza che ha ad oggetto la dichiarazione di scienza del terzo). In verità con
riferimento alle prove documentali non c’è la necessità di passare attraverso questa
previsione, nel senso che le parti potranno tranquillamente produrre gli stessi documenti
di fronte al secondo giudice, quindi per i documenti non c’è nessun problema a ritenere
che abbiano la stessa identica efficacia probatoria che avevano nel primo processo.
Invece il problema si pone con riferimento alla testimonianza e più in generale alle
prove costituende. [Con riferimento a questa ipotesi appunto mettetevi un asterisco
perché ne parleremo nelle lezioni dedicate alle prove]. La categoria degli argomenti di
prova è una categoria estremamente eterogenea in cui ritroviamo, lo vedremo, prove
diverse l’una dall’altra. L’argomento di prova per tradizione viene ritenuto un mezzo di
prova avente un’ efficacia più limitata rispetto alla prova in senso tecnico. Questa
considerazione, però, mal si concilia con questa previsione perché qui sono delle prove
in senso tecnico regolarmente acquisite dal giudice.(ci torneremo nelle prossime
lezioni).

Infine in base all’ultimo comma le spese del processo estinto sono a carico delle parti
che le hanno anticipate. Con questo è esaurita l’analisi dell’estinzione del processo.

Proseguendo nell’analisi della disciplina dei principi fondamentali del processo,


possiamo tornare all’art 111 della costituzione per completare l’analisi dei principi
costituzionali.

Allora, l’art 111, torniamo al primo comma: ‘’la giurisdizione si attua mediante il
giusto processo regolato dalla legge’’.

Noi finora abbiamo parlato del diritto di azione, poi abbiamo introdotto il principio
del contraddittorio (perché nel processo non c’è solo l’attore ma c’è sempre una
controparte) e poi ci siamo interessati al giudice e abbiamo introdotto la garanzia di
terzietà ed imparzialità di cui parla il secondo comma dell’art 111 e abbiamo fatto un
quadro degli istituti che danno attuazione alla garanzia di terzietà ed imparzialità del
giudice. Ora, con riferimento invece al processo, appunto rileva la previsione del
primo comma dell’art 111, quindi il giusto processo regolato dalla legge. Come vi
avevo anticipato nelle lezioni dedicate al processo a cognizione piena, secondo
l’interpretazione preferibile, il giusto processo regolato dalla legge è il processo a
cognizione piena, perché una delle caratteristiche fondamentali del processo a
cognizione piena è la rigida predeterminazione a livello legale delle forme e dei termini
dello svolgimento del processo, di tutti i poteri, doveri, facoltà spettanti a coloro che al
processo prendono parte; e questa definizione si ritiene appunto che corrisponda
pienamente a quanto previsto nel primo comma dell’art 111.
Vi ho detto che è l’interpretazione preferibile perchè non è un interpretazione univoca,
nel senso che ci sono dei settori della dottrina ed anche della giurisprudenza i quali
ritengono che il giusto processo regolato dalla legge non necessariamente è il
processo disciplinato nel secondo libro del cpc,( non importa se a rito ordinario o del
lavoro, le caratteristiche sono le stesse) ma il giusto processo regolato dalla legge
possa essere anche un processo, moduli processuali più semplici, che trovano la
propria disciplina in altre parti del cpc. Si tratterebbe di processi che è vero si
svolgono in forme più semplici rispetto al processo a cognizione piena, ma che nella
misura in cui garantiscono il nucleo fondamentale di garanzie, possono ritenersi a
tutti gli effetti processi che rientrano nella previsione dell’art 111. E’ una scuola a
cui io non aderisco e non aderisce per tradizione la scuola fiorentina e quindi su questo
punto torneremo a parlarne nel secondo semestre quando andremo ad introdurre la
tutela sommaria e individueremo le caratteristiche della tutela sommaria rispetto al
processo a cognizione piena e spiegheremo meglio il dibattito che si è aperto riguardo al
primo comma art 111.

Il secondo comma lo abbiamo analizzato in ogni sua parte salvo il principio della
ragionevole durata del processo. E’ un principio che è stato costituzionalizzato nel
1999, perché in precedenza non trovava previsione nel nostro ordinamento, anche se,
l’Italia, essendo uno degli Stati aderenti alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo,
era comunque vincolata al rispetto del principio della garanzia della ragionevole durata
perché espressamente previsto nell’art 6 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo. Abbiamo già ricordato che l’Italia innumerevoli volte è stata condannata per
violazione della garanzia della ragionevole durata. Ora, la condanna di uno Stato per la
violazione di una delle garanzie poste dalla Convenzione Europea, voi sapete, che
espone lo Stato ad una serie di conseguenze; ma il sistema della Convenzione Europea
dei Diritti dell’Uomo prevede espressamente che , per evitare di andare incontro alle
sanzioni previste nel sistema pattizio, lo Stato può prevedere una serie di rimedi interni
e soltanto se la parte ha percorso tutti i rimedi interni allo Stato che ha violato una
delle garanzie, ha diritto di rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Allora,
l’Italia, per evitare di essere convenuta continuamente di fronte alla Corte Europea, ha
introdotto la cosiddetta legge Pinto (legge numero 89 del 2001) che ha introdotto il
procedimento per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti
dall’irragionevole durata del processo. Il testo della legge Pinto è stato più volte
modificato del legislatore. Questa legge si applica a tutti i quanti processi, quindi non
interessa soltanto il processo civile ma interessa anche il processo penale,
amministrativo, tributario, e i processi fallimentari. Che cosa prevede questa legge?
Questa legge prevede nell’art 2 comma 2 bis i termini di durata del processo affinché
la durata possa essere ritenuta ragionevole. Questa durata viene fissata in: -3 anni con
riferimento al processo di primo grado;- 2 anni per i procedimenti di secondo grado; -1
anno per il giudizio di legittimità;- 3 anni per i procedimenti di esecuzione forzata; -6
anni per le procedure concorsuali.

Il termine ragionevole, in base alla legge Pinto, deve ritenersi soddisfatto, se il


giudizio viene definito in modo irrevocabile nel termine. Un termine quindi
complessivo che non può essere superiore a 6 anni ( questo lo prevede l’art 2 comma 2
ter ). Il processo, in base a questa legge, prende avvio, ai fini del computo del termine,
con il deposito del ricorso introduttivo del processo oppure, se il processo prende avvio
con l’atto di citazione, dalla data della notifica dell’atto di citazione. Non è una scelta
casuale perché la notifica dell’atto di citazione e il deposito del ricorso segnano, in base
all’art 39, la cosiddetta litispendenza cioè è da quel momento che la lite si ritiene
pendente. Se il processo ha una durata superiore rispetto a quella indicata allora il
cittadino, in base all’art 3 comma 1 della legge Pinto, può presentare una domanda per
ottenere l’equa riparazione al presidente della Corte d’Appello nel cui distretto ha sede
il giudice di fronte a cui si è svolto il processo, la cui durata ha oltrepassato i limiti
indicati dalla stessa legge. Si tratta di una competenza di tipo inderogabile che rientra
nella previsione dell’art 28. Il presidente della Corte d’Appello o un altro magistrato
designato dal presidente della Corte d’Appello provvede alla domanda. Il procedimento
è un procedimento particolare che ha una struttura bifasica, e, in base alla legge,
l’amministrazione che è convenuta deve sollevare l’eccezione di incompetenza
immediatamente. Per completare l’analisi della disciplina, vi dico anche che la legge
stabilisce che anche il procedimento per ottenere l’equa riparazione deve rispettare
un limite massimo di durata, altrimenti il cittadino ha il diritto di chiedere l’equa
riparazione per violazione dei limiti della ragionevole durata, laddove oltrepassati ,
nell’ambito del processo instaurato per ottenere l’equa riparazione. Poi, la legge
stabilisce anche i limiti che possono essere ottenuti e le somme che possono essere
liquidate, e quindi è stato il legislatore che più volte è intervento a modificare questa
disciplina, ha dettato una normativa piuttosto dettagliata. Ricordatevi sempre che la
ragionevole durata del processo ha un significato che va al di là di quello stabilito
nella legge Pinto. Vi ho già detto più volte che la ragionevole durata è un criterio che
guida sia l’attività ricostruttiva dell’interprete sia l’attività interpretativa della Corte di
Cassazione che in questi ultimi anni ha emanato più volte una serie di provvedimenti,
che proprio in nome della ragionevole durata, non hanno esitato a enunciare principi di
diritto in violazione delle norme espressamente previste nel cpc.

Ricordatevi che la ragionevole durata si presta ad essere intesa in una duplice


accezione: non c’è soltanto la durata in senso endoprocessuale, quindi come durata
del processo a cognizione piena che è stato aperto, che è in corso di svolgimento, ma la
ragionevole durata ha un significato e una portata anche extraprocessuale, viene intesa
come economia processuale. Abbiamo più volte richiamato ad esempio la ragionevole
durata parlando dei limiti oggettivi del giudicato e della tendenza evidente nella
giurisprudenza italiana a offrire letture sempre più ampie dei limiti oggettivi del
giudicato, proprio per soddisfare l’esigenza della ragionevole durata, intesa come
esigenza di evitare che con riferimento a una stessa vicenda sostanziale vengano aperti
più processi. È un’espressione molto ampia, molto elastica, che viene usata
(probabilmente anche abusata) dalla giurisprudenza e dalla dottrina.

Proseguendo nell’analisi dell’art 111 , nel settimo comma, che si occupa soprattutto del
processo penale, c’è però un riferimento che interessa anche il processo civile, ed è il
principio cosiddetto della garanzia del giudicato.
Infatti, questa parte della disposizione, prevede che, “contro le sentenze e contro i
provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o
speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge”.

Vedete che il riferimento ai provvedimenti sulla libertà personale riguarda il processo


penale, ma il termine “sentenza”, usato invece nell’apertura della disposizione, è
pacificamente applicato anche alla sentenza civile. Quindi la norma stabilisce che
contro la sentenza è sempre ammesso ricorso per Cassazione per violazione di legge.

Cosa si deve intendere per “sentenza”? E in che cosa consiste la garanzia del ricorso
per Cassazione? Il termine sentenza è stato interpretato fin dagli anni ’50 dalla Corte di
Cassazione in senso sostanziale; cioè “sentenza” non è il provvedimento redatto in
forma di sentenza che quindi ha gli elementi formali della sentenza e che reca
l’intestazione “sentenza”, ma è qualsiasi provvedimento che ha il contenuto di
sentenza, perché la Corte di Cassazione fin dagli anni ’50 ha sempre affermato che il
giudice o il legislatore non possono privare il cittadino della garanzia del ricorso per
Cassazione semplicemente attribuendo ad un provvedimento una forma diversa dalla
sentenza. Da qui la domanda: ma qual è il contenuto di sentenza? Cosa si deve
intendere per provvedimento avente il contenuto di sentenza?

Per la corte di cassazione sono 2 le caratteristiche dei provvedimenti aventi il contenuto


di sentenza. Sono:

1) Provvedimenti decisori—>significa che incidono su posizioni di diritto.

2) Provvedimenti definitivi—> significa che si tratta di provvedimenti che sono


suscettibili di acquistare l’autorità della cosa giudicata.

Questo principio la Corte di Cassazione lo ha elaborato con riferimento ad una


particolare problematica (che andremo ad analizzare nel secondo semestre) ed è quello
di una serie di previsioni di legge, in base alle quali, determinate controversie relative a
posizioni di diritto, debbono essere trattate, debbono essere dedotte in giudizio, nelle
forme del procedimento in camera di consiglio (procedura disciplinata nel quarto libro,
in particolare nelle disposizioni di cui agli art 737 e seguenti). I procedimenti in camera
di consiglio sono stati introdotti, in verità, con riferimento alle fattispecie di cosiddetta
giurisdizione volontaria. Si tratta di una serie di ipotesi che si collocano ai margini della
tutela contenziosa, e in particolare, nel loro nucleo più importante, si tratta di quelle
ipotesi in cui il legislatore nella sua discrezionalità ha affidato al giudice un’attività che
non è strettamente giurisdizionale, è un’attività di cura di interessi particolari
(provvedimenti ad esempio relativi alla nomina dei rappresentanti degli incapaci, le
autorizzazioni… ). Si tratta quindi di un’ attività che viene svolta per tutelare gli
interessi di determinati soggetti, anche se si tratta di provvedimenti che possono poi
incidere su posizioni di diritto di soggetti terzi rispetto a quello tutelato. (ce ne
occuperemo nel secondo semestre). Il fatto è che poi il legislatore, spesso, quando è
intervenuto a disciplinare nel corso degli anni determinate materie, stante l’esigenza di
assicurare alle parti interessate la possibilità di ottenere in tempi rapidi un
provvedimento del giudice, ha visto bene di richiamare il procedimento in camera di
consiglio, nonostante si trattasse di ipotesi in cui la tutela richiesta era una tutela
contenziosa, e quindi non la tutela di gestione di interessi. La ratio a fondamento di
questa scelta era evidente: erano materie che ponevano l’esigenza di far ottenere al
cittadino una tutela in tempi più rapidi rispetto a quelli richiesti dal processo a
cognizione piena. Certamente, è stata una scelta molto infelice perché (come andremo
a vedere) i procedimenti in camera di consiglio sono procedimenti del tutto
deformalizzati, in cui è il giudice a dettare le regole di svolgimento del processo, e la
mancanza della predeterminazione a livello legale delle forme e dei termini di
svolgimento del processo incide anche sulla garanzia di controllabilità, perché questo è
un procedimento che non può essere controllato da parte delle parti interessate. Quindi
la Corte di Cassazione che cosa ha fatto? In quegli anni ha affermato (la problematica è
ampia e quindi ci torneremo nel secondo semestre) che queste previsioni dovevano
essere interpretate alla luce dell’art 111 e quindi ha affermato che questi procedimenti
in camera di consiglio, in cui il giudice andava a trattare situazioni di diritto, si
chiudevano con provvedimenti che, sebbene resi in forma diversa dalla sentenza (perché
i procedimenti in camera di consiglio si chiudono con ordinanza e talvolta con decreto)
dovevano essere ritenuti dei provvedimenti di tipo decisorio e definitivo, quindi
provvedimenti aventi il contenuto di sentenza, e in quanto tali venivano ritenuti
suscettibili di ricorso per Cassazione. Questa è l’origine di questa lettura dell’art 111,
che poi però la Corte di Cassazione ha applicato anche in altri settori, in altre parti.
Questa concezione sostanzialistica della nozione di sentenza è stata poi trasposta anche
in altri settori, con riferimento ad altri tipi di problematiche, e quindi le conseguenze
sono state conseguenze piuttosto problematiche. ( e ci torneremo nel corso delle
prossime lezioni). Quindi secondo la Corte di Cassazione, la garanzia del ricorso per
Cassazione contro le sentenze deve essere letto in senso sostanziale. Sentenza non è
il provvedimento avente la forma della sentenza ma è il provvedimento che ha il
contenuto della sentenza perché incide su posizioni di diritto ed è suscettibile di
acquistare l’autorità della cosa giudicata. Infatti la garanzia del ricorso per Cassazione
viene letta proprio come garanzia del giudicato. Il cittadino ha sempre diritto di
ottenere un provvedimento che acquista l’autorità di cosa giudicata perché il ricorso
per cassazione è uno strumento di impugnazione che poi porta ad una sentenza che
acquisterà l’autorità di cosa giudicata. Direi che sull’art 111 possiamo chiudere.

Per esaurire la trattazione dei principi fondamentali del processo andiamo ad analizzare
gli art 113 e 114 del cpc, ovvero il principio della pronuncia secondo diritto e il
principio della pronuncia secondo equità.

Noi già sappiamo che, come regola generale, il processo civile si chiude con un
provvedimento in cui il giudice farà applicazione di una norma generale e astratta. Ci
torneremo anche fra breve introducendo il tema successivo.
L’attività cognitiva svolta dal giudice, è un’attività che passa attraverso una duplice
questione: la questione di fatto e la questione di diritto (questio iuris). La questio iuris
ha ad oggetto le norme generali ed astratte dell’ordinamento.

Ed infatti l’art 113 nel primo comma afferma che “Nel pronunciare sulla causa, il
giudice deve seguire le norme del diritto, salvo che la legge gli attribuisca il potere di
decidere secondo equità.”

Che cosa si intende per “diritto”? Qui il richiamo è a tutte le fonti del diritto.
Ricordatevi che il potere del giudice con riferimento alla questio iuris si fa discendere
direttamente dalla previsione dell’art 101 secondo comma, secondo cui il giudice è
soggetto soltanto alla legge , e come abbiamo già detto parlando dell’art 101 secondo
comma, anche in questo caso il diritto lo dovete intendere come richiamo a tutte
quante le fonti del diritto, a partire dalle norme sovranazionali (norme europee,
norme delle convenzioni a cui l’Italia ha aderito, i trattati internazionali) e poi tutta la
normativa interna ( a partire dalla Costituzione e leggi costituzionali, per poi passare
alla legge ordinaria, per poi passare ai decreti legislativi, decreti legge, ma anche le
norme emesse dagli enti locali quindi per esempio le leggi regionali, le norme locali..).
Ricordatevi che il giudice italiano può trovarsi anche ad applicare il diritto straniero, lo
abbiamo ripetuto anche ieri parlando dei limiti della giurisdizione italiana; una
controversia che presenta profili di collegamento anche con ordinamenti diversi da
quello italiano, può, in presenza delle condizioni previste dalla legge, rientrare nella
giurisdizione italiana, quindi può essere incardinata di fronte a un giudice italiano, ma,
proprio in virtù dei criteri di collegamento previste vuoi nell’ambito del regolamento
12-15, vuoi nell’ambito delle Convenzioni a cui l’Italia ha aderito, vuoi con riferimento a
quanto previsto dalla legge 218 del 1995, è possibile che il giudice italiano si trovi a
dover applicare il diritto straniero. È altresì possibile che il giudice italiano si trovi ad
applicare il diritto antico. Quindi le possibilità sono molto ampie. Questa è
sicuramente la regola generale. A fronte della regola generale ci sono una serie di
casi eccezionali in cui invece il giudice decide secondo equità. Le ipotesi sono
descritte nelle norme successive, cioè negli articoli 113 e 114.

L’art 114 prevede che “il giudice (qualsiasi giudice) sia in primo grado che in appello,
decide il merito della causa secondo equità quando essa riguarda diritti disponibili delle
parti e queste gliene fanno concorde richiesta.” In materia di diritti disponibili, le parti,
concordemente, possono chiedere, a qualsiasi giudice, di pronunciarsi secondo equità.

Invece, in base all’art 113 secondo comma, “il giudice di pace decide secondo equità le
cause il cui valore non eccede 2500 euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici
relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art 1342.” Anche in questo
caso il valore riportato nella disposizione entrerà in vigore solo il 31 ottobre 2021, quindi
è una di quelle disposizioni inserite dal decreto legislativo 116 del 2017 di riordino
della magistratura onoraria, invece in base alla norma che attualmente è in vigore il
limite entro il quale il giudice di pace pronuncia secondo equità è di 1100 euro.
Che cos’è l’equità? L’equità evidentemente si contrappone al diritto; però è
importante ricordarsi sempre che l’equità non deve essere confusa con la
discrezionalità. Quindi non è una decisione discrezionale del giudice nè tantomeno una
decisione basata sul buon senso del giudice. Infatti, il giudizio equitativo deve essere
formulato nel rispetto delle norme e dei principi sovranazionali e costituzionali.
Naturalmente il giudizio secondo equità non passa attraverso l’applicazione delle norme
generali ed astratte. La ratio che sta a fondamento del giudizio di equità è che la norma
generale ed astratta è una norma che è sempre formulata in considerazione dell’ id
quod plerumque accidit, quindi dei casi generali. Quella stessa norma generale ed
astratta proprio per questo motivo potrebbe essere fonte di ingiustizia a fronte di casi
marginali, cioè di casi che vanno a collocarsi un po’ al margine rispetto ai casi generali.
E’ per questo che attraverso il giudizio equitativo il giudice diciamo che si distanzia
dalla norma generale ed astratta, ma non formula un giudizio personale, di
coscienza, ma formula un giudizio che si basa su valori oggettivi, cioè valori che
appartengono alla comunità sociale di riferimento. Quindi non è mai un giudizio di
arbitrio, ma è un giudizio basato su criteri oggettivi. In base alle disposizione attuative
del cpc, art 118 e 119, il giudice che formula il suo giudizio secondo equità deve
esporre le ragioni di equità sulle quali è fondata la decisone, e in base al successivo art
119 ultimo comma, quando la sentenza è pronunciata secondo equità ne deve dare atto
nel dispositivo. La circostanza che una sentenza sia pronunciata secondo equità ha delle
conseguenze anche sull’impugnazione. Infatti se prendete l’art 339, che è la prima
disposizione che si occupa del giudizio di appello, trovate scritto che la sentenza che è
pronunciata secondo equità dal giudice in base all’art 114 (quindi su accordo delle parti)
è inappellabile, ma potrà essere impugnata direttamente in Cassazione. Quindi si parla
di un ricorso per saltum. A questa previsione invece si contrappone la previsione
contenuta nell’ultimo comma dell’art 334 a tenore del quale se invece la sentenza
pronunciata secondo equità proviene dal giudice di pace (quindi c’è un richiamo
espresso all’art 113 secondo comma) la sentenza è appellabile, ma è appellabile
esclusivamente per violazione delle norme del procedimento, per violazione delle norme
costituzionali o comunitarie o per violazione dei principi regolatori della materia.
Espressione non molto chiara ma in questa seconda ipotesi ci basta ricordare che la
sentenza è suscettibile di appello. D’accordo? Quindi la pronuncia secondo equità ha
rilevanza sul regime di impugnazione (lo vedremo meglio nel secondo semestre quando
analizzeremo il regime delle impugnazioni).

Esaurita l’analisi dei principi fondamentali del processo iniziamo a introdurre il


prossimo tema: le prove. E nella lezione di oggi e di domani analizziamo in particolare
proprio i principi che regolano questo particolare settore del diritto processuale civile,
principi che possiamo sicuramente annoverare tra i principi fondamentali del processo.
LE PROVE

Intanto si impone un chiarimento di tipo terminologico. Le prove civili intanto le


troviamo disciplinate in parte nel cc e in parte nel cpc. Infatti se voi aprite il quarto
libro del cc gli artt compresi fra il 2697 che ci introduce il principio fondamentale che
regge tutta quanta la materia probatoria, in tema di principio dell’onere della prova,
scorrete e vedete che il codice fino all’art 2739 sono tutte disposizioni in tema di prove.
(prove civili). Mentre nel cpc troviamo da una parte gli artt da 115 fino a 118 che
introducono una serie di regole relative alle prove e poi alcune norme del secondo libro
del cpc, cioè gli artt da 191 a 266 che sono proprio dedicati alle prove (sia disciplina dei
singoli mezzi di prova sia disciplina di acquisizione dei mezzi di prova).

Perché questa distribuzione? Ancora una volta la giustificazione è storica, perché il cc è


stato redatto anticipatamente al cpc; in quella sede il legislatore volle anticipare una
serie di norme in materia processuale e poi quando successivamente è stato redatto il
cpc, talvolta le norme sono state ripetute talvolta no ma non si è pensato di riordinare
tutta la materia. Questa è una scelta non felice perchè indubbiamente obbliga gli
operatori a muoversi sui due testi ingenerando incertezze e confusione.

La prima incertezza che crea questa distribuzione delle norme di riferimento è


quella relativa alla natura di queste norme; cioè si discute se le norme in tema di
prove sono norme processuali o sostanziali, il che non è assolutamente indifferente.Ieri,
quando abbiamo trattato i limiti della giurisdizione italiana, abbiamo detto che il
processo in Italia è sempre regolato dalla legge nazionale, quindi il processo civile,
qualsiasi sia l’oggetto e qualsiasi sia il diritto applicato dal giudice italiano, è regolato
dalla legge italiana; mentre invece abbiamo ricordato ancora oggi che talvolta il giudice
italiano applica il diritto straniero, perchè ci sono controversie che hanno dei
collegamenti molto forti con ordinamenti diversi da quello interno, e quindi sono
regolati da norme straniere. Quindi è molto importante stabilire se le norme in tema
di prove sono norme processuali o norme sostanziali, perché:- se sono norme
processuali è chiaro che il giudice italiano qualsiasi sia l’oggetto del processo civile le
dovrà applicare; -se invece le dovessimo ritenere delle norme sostanziali si apre il
problema del se queste norme sono suscettibili di essere applicate in quei casi in cui di
fronte al giudice italiano vengono portate controversie che sono regolate dalla legge
sostanziale straniera. E un altro profilo è sicuramente quello della successione del
diritto nel tempo, cioè a seconda della natura che si vuole attribuire alle prove, si
risponde in maniera diversa alla questione relativa al se il giudice deve applicare la
legge che era in vigore nel momento in cui il rapporto è sorto oppure la legge che è in
vigore nel momento in cui si svolge il processo. La risposta che generalmente si offre a
questa domanda è che le norme in tema di prove sono norme processuali . Le
incertezze si sono manifestate solo con riferimento a norme in tema di prove che
riguardano specifici rapporti giuridici , per esempio disposizioni come quelle che
ritroviamo negli artt. 241 e 269 cc, in tema di prova della filiazione legittima o naturale
oppure negli artt. 1888 e 1967 cc, in tema di forma scritta ad probationem nelle
polizze e nelle transazioni. Con riferimento a queste ultime fattispecie è probabile
che queste norme debbano essere ritenute delle norme sostanziali e, quindi se ne
debbano trarre le naturali conseguenze in punto di legge applicabile e di successione
della legge nel tempo. Fatta questa premessa dobbiamo ricordare anche che il termine
“prova” è utilizzato dal nostro ordinamento per indicare fenomeni diversi perché il
termine “prova” può indicare sia gli strumenti di conoscenza dei fatti, cioè le fonti
materiali di prova, che sono sostanzialmente 3:

1) ispezione, che consente al giudice di avere una conoscenza diretta dei fatti che
devono essere provati;

2) documento, per documento intendo qualsiasi dichiarazione che viene riportata su un


supporto che può essere cartaceo o informatico;

3) testimonianza, ovvero la dichiarazione di scienza di un soggetto terzo.

Queste sono le fonti materiali di prova. E se queste fonti materiali di prova sono
documenti o dichiarazioni di scienza si parla anche di fatti rappresentativi o di fonti di
rappresentazione, perché in queste ipotesi il giudice non ha una percezione diretta del
fatto, non tocca il fatto, ma il fatto arriva attraverso una rappresentazione che può
essere la rappresentazione contenuta nel documento o la dichiarazione di scienza del
terzo.

Il termine “prova” è anche utilizzato nel senso di mezzi di prova, cioè per intendere
il procedimento per il cui tramite le fonti materiali di prova vengono acquisite al
processo. Per esempio, abbiamo già detto che per acquisire la dichiarazione di scienza
del terzo, nell’ambito del processo a cognizione piena, occorre passare attraverso la
testimonianza e abbiamo già detto che la testimonianza nel nostro ordinamento è
soggetta ad una disciplina molto rigida, perché la testimonianza si deve formare in
udienza di fronte al giudice.

Il termine “prova” però indica anche l’attività logica che il giudice deve svolgere per
arrivare ad accertare l’esistenza o non esistenza dei fatti che sono poi l’oggetto
delle prove. E’ un’attività logico-deduttiva che vedremo passa generalmente attraverso
un’attività di percezione e un’attività di deduzione.

Infine il termine prova indica anche il risultato a cui il giudice perviene cioè la
statuizione in ordine all’esistenza o non esistenza dei fatti.

Ora, tornando alla nozione di mezzo di prova, (tanto per complicare un po’ il quadro),
dobbiamo ricordare che sono numerose le classificazioni che troviamo proposte sia nei
manuali che nell’ambito della giurisprudenza.
Innanzitutto si distinguono prove dirette e prove indirette. Questa distinzione passa
attraverso le diverse modalità di conoscenza del fatto da parte del giudice. E’ emerso
anche nel discorso precedente: la prova diretta è l’ispezione, perché attraverso
l’ispezione il giudice ha una percezione immediata , appunto diretta del fatto. Mentre
invece le prove indirette sono le prove rappresentative: appunto i documenti,(perché
ricordatevi, non sono solo i documenti cartacei ma anche i documenti informatici a
prescindere dal supporto utilizzato) o la dichiarazione di scienza del terzo , perché in
questa ipotesi il giudice non percepisce direttamente il fatto, ma percepisce la fonte di
rappresentazione, che sarà il documento stesso o la dichiarazione del terzo.

Secondo una diversa accezione, questa volta però dottrinaria, la distinzione tra
prove dirette e prove indirette, si incentra sull’oggetto della prova. Le prove come
vedremo possono avere ad oggetto sia i fatti principali, che sono i fatti giuridicamente
rilevanti, sia i cosiddetti fatti secondari detti anche indizi (forse espressione che vi è
nota, nozioni su cui tornerò con calma successivamente). Ciò che il giudice deve
accertare sono i fatti giuridicamente rilevanti quindi i fatti costitutivi, modificativi,
estintivi e impeditivi, perché la conoscenza di questi fatti, cioè la statuizione circa
l’esistenza di tutti questi fatti, consente al giudice poi di pervenire all’accertamento
dell’esistenza o non esistenza del diritto fatto valere in giudizio. Ci sono però delle
ipotesi in cui il fatto principale, quindi il fatto giuridicamente rilevante, non può essere
provato direttamente. Pensate ad esempio all’elemento soggettivo, alla colpa, in un
ipotesi di azione di responsabilità extracontrattuale; allora, non potendosi provare il
fatto principale direttamente, si provano dei fatti ulteriori: ed ecco i fatti secondari.
Sono fatti diversi rispetto al fatto principale che deve essere provato, ma sono fatti la
cui conoscenza può consentire al giudice ,attraverso un’attività logico deduttiva, di
fondare la valutazione di esistenza o non esistenza del fatto principale da provare. Vi
faccio un esempio: parliamo dell’elemento soggettivo, della colpa. Come si fa a provare
la colpa del conducente che ha causato l’incidente stradale? Non si prova la colpa
direttamente. La colpa si prova attraverso la prova di fatti secondari, che sono fatti
ulteriori. Quali possono essere? Ad esempio lo stato di ebbrezza del conducente, lo stato
di alterazione del conducente, la circostanza che sul manto stradale sia stato ritrovato il
segno di una frenata che è indicativa del fatto che il veicolo procedeva a una velocità
sostenuta oppure la dichiarazione di qualcuno che ha visto quella macchina sfrecciare a
300km/h 50 mt prima del luogo dove si è verificato il sinistro. Vedete, sono tutti fatti
diversi rispetto al fatto da provare , che è l’elemento soggettivo (la colpa), ma sono
fatti la cui conoscenza può consentire al giudice di stabilire l’esistenza o meno del fatto
da provare, che è il fatto ignoto da provare. Allora, secondo una parte della dottrina si
parla di prova diretta con riferimento alle prove che hanno ad oggetto il fatto
principale, e si parla invece di prova indiretta, laddove il mezzo di prova ha ad
oggetto un fatto diverso cioè un fatto secondario.

Ancora, si distingue tra prova diretta e prova contraria. (introduco questa terminologia
per semplificare la comprensione di quanto andrò dicendo successivamente ). Allora, la
prova diretta è la prova che ciascuna parte offre dei fatti a sè favorevoli, perché noi
vedremo che in base al principio dell’onere della prova, art 2697 cc, ciascuna parte ha
l’onere di provare i fatti a sè favorevoli. La prova contraria è invece la prova di non
esistenza dei fatti favorevoli alla controparte. É già emerso quando abbiamo analizzato
la disciplina di svolgimento del processo a cognizione piena ,che non ci sono solo le
richieste di prova diretta, quindi le prove che ciascuna parte chiede al giudice di
assumere per convincerlo dell’esistenza dei fatti a se favorevoli, ma abbiamo visto che
ci sono anche i termini per articolare le richieste di prova contraria, cioè richieste di
prove volte a convincere il giudice della non esistenza dei fatti dell’avversario.

Ancora, si distingue tra le prove precostituite e le prove costituende. La prova


precostituita è la prova documentale, una prova che di solito si forma nell’immediatezza
del fatto, quindi è una prova che esiste prima che il processo si apra e tendenzialmente
sono le prove documentali. La prova costituenda, invece , si forma nel corso del
processo e l’esempio tipico è la testimonianza. Ed è proprio l’acquisizione delle prove
costituende che occupa la fase istruttoria del processo. L’abbiamo già detto le prove
precostituite non rendono necessario lo svolgimento dell’attività istruttoria perchè la
parte chiede al giudice di acquisire un certo documento e glielo deposita, mentre invece
la prova costituenda, la prova che si forma nel processo, rende necessario lo
svolgimento dell’attività istruttoria, (della fase istruttoria), quindi il giudice dovrà
valutare prima l’ammissibilità e la rilevanza della prova costituenda richiesta dalla
parte, dopodiché se questo controllo ha un esito positivo, si procederà all’acquisizione
della prova (o delle prove) nel corso dell’attività istruttoria sotto la direzione dello
stesso giudice.

Infine, con riferimento al profilo di efficacia delle prove si distinguono le prove soggette
al libero apprezzamento del giudice, questa è la regola generale, e le prove invece
cosiddette legali. Le prove soggette al libero apprezzamento del giudice, dette anche
prove libere, rappresentano la regola generale, perchè è il giudice che in base all’art
116 del cpc deve valutare, secondo il suo libero apprezzamento, le prove che sono state
acquisite al processo. Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente
apprezzamento. Che cosa vuol dire? Vuol dire che il giudice deve svolgere un’attività
logico-deduttiva per desumere da ciò che risulta dalle prove , per fondare su ciò che
risulta dalle prove, l’esistenza o non esistenza dei fatti che devono essere provati, che
sono i fatti giuridicamente rilevanti. Se le prove hanno avuto ad oggetto fatti
giuridicamente rilevanti, il giudice, sulla base delle risultanze probatorie, effettua un
giudizio di tipo sillogistico per passare da ciò che ha percepito (che è la fonte di
rappresentazione ) alla dichiarazione di esistenza o non esistenza del fatto che deve
essere provato. Quindi, detto in parole povere, per utilizzare un linguaggio a-tecnico, il
giudice, se ha acquisito una serie di testimonianze, andrà a rileggere tutti i verbali che
sono stati redatti quindi andrà a rileggersi tutte le dichiarazioni e le risposte che i
testimoni hanno offerto e poi sulla base di un attività logico deduttiva dichiarerà
l’esistenza o non esistenza dei fatti che devono essere provati. Questa è la regola
generale. Invece ci sono delle eccezioni che sono le prove legali. Si tratta cioè di prove
che vincolano il giudice. Le prove legali sono solo e soltanto quelle stabilite dalla
legge. Per esempio la confessione, il giuramento sono mezzi di prova legali, cioè il
giudice è vincolato a ciò che emerge dalla prova. Per esempio la confessione è una
dichiarazione resa dalla parte in forma solenne di fatti a sè sfavorevoli e favorevoli alla
controparte. Il giudice, se la parte rilascia confessione nelle forme che andremo a
vedere, è vincolato a ritenere esistenti quei fatti. Il giuramento invece è una
dichiarazione solenne che la parte rende di fatti a sè favorevoli e sfavorevoli alla
controparte. Il giudice anche in questo caso è vincolato a ritenere esistenti i fatti che
sono stati oggetto di giuramento.

Infine, abbiamo la distinzione tra mezzi di prova in senso tecnico e argomenti di prova
(che abbiamo richiamato precedentemente parlando delle prove acquisite nel corso del
processo che poi è stato dichiarato estinto). La distinzione emerge proprio dall’art 116,
norma che si occupa della valutazione delle prove. Il secondo comma parla appunto di
argomenti di prova, “il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte” ecc…
Gli argomenti di prova sono evidentemente qualcosa di diverso dalle prove in senso
tecnico. Secondo l’opinione della dottrina tradizionale e di una parte della
giurisprudenza, l’argomento di prova, da solo, non è idoneo a fondare la
dichiarazione di esistenza del fatto che deve essere provato. Quindi l’argomento di
prova può essere utilizzato solo per supportare le risultanze di mezzi di prova in senso
tecnico; quindi si parla di una probatio inferior, sarebbe qualcosa di inferiore rispetto a
una prova in senso tecnico. Secondo invece un altro orientamento l’argomento di
prova non è un mezzo di prova che ha un’efficacia inferiore rispetto alla prova in
senso tecnico , ma vedremo si tratta cioè di una serie di strumenti conoscitivi che non
possono fondare il giudizio di superfluità di cui all’art 209 del cpc. Il giudizio di
superfluità è un giudizio per il cui tramite il giudice può mettere fine all’assunzione
delle prove perché ritiene ormai il fatto provato. Esempio: supponiamo che per provare
un certo fatto la parte chieda l’assunzione di 20 testimonianze, il giudice dopo averne
acquisite 10 si è ormai convinto che quel fatto esiste e quindi può dichiarare la
superfluità delle prove , e dunque cessare l’acquisizione delle prove richieste dalle
parti. Secondo questa diversa concezione, l’argomento di prova, non può fondare il
giudizio di superfluità però anche su questo torneremo poi.

Fatte tutte queste precisazioni che vi ho anticipato per rendere più comprensibile la
spiegazione delle prove , nella lezione di oggi richiamiamo alcune nozioni che ci sono già
note, ma è importante sempre disegnare il quadro di riferimento per comprendere bene
un argomento nuovo. Anche nel corso della lezione di oggi vi ho ricordato che il giudice
civile, per pronunciarsi sull’esistenza o non esistenza del diritto fatto valere in giudizio,
deve svolgere una duplice attività, deve risolvere 2 diverse questioni: la quaestio iuris e
la quaestio facti. L’attore propone la sua domanda giudiziale, quindi introdurrà una serie
di fatti posti a fondamento della sua richiesta di tutela; il convenuto svolgerà le proprie
difese. La prima attività che il giudice deve effettuare è un’attività di individuazione
della norma generale e astratta che regola il caso concreto. Il giudice lo farà subito,
ma è anche libero di cambiare idea nel corso del processo. Come vi ricordate abbiamo
detto anzi che spesso e volentieri è solo dopo aver acquisito le prove, è solo dopo aver
esaurito l’attività istruttoria, che il giudice potrà risolvere definitivamente la quaestio
iuris.
Quali sono i limiti che incombono sul giudice nel momento in cui risolve la quaestio
iuris? Vi ricordate che vige il principio iura novit curia: il giudice civile individua
liberamente la norma da applicare al caso concreto utilizzando il proprio sapere tecnico
e la propria preparazione professionale. Il giudice è totalmente libero perché come
regola generale l’individuazione e l’interpretazione della norma da applicare al caso
concreto non incidono sull’identità della situazione dedotta in giudizio, non svolgono
una funzione individuatrice. Sotto questo profilo abbiamo ricordato che il principio
iura novit curia è una propagazione dell’art 101 comma 2 della costituzione secondo
cui il giudice è soggetto soltanto alla legge. Il giudice ha solo 2 limiti:

1. innanzitutto in ipotesi di concorso di diritti, laddove cioè l’ indicazione della


norma generale ed astratta ha una funzione individuatrice, evidentemente non si
può discostare da quanto indicato dall’attore, perché altrimenti si avrebbe una
violazione del principio della domanda.

2. il secondo limite è il limite del principio del contradditorio. Siccome


l’applicazione di una norma piuttosto che un'altra ha delle conseguenze per la
parte (sostanzialmente per l’attore) allora il principio del contraddittorio obbliga
il giudice a consentire ad entrambe le parti la possibilità di esprimere le proprie
ragioni e la possibilità sempre di esercitare i poteri che sono consequenziali al
cambiamento della norma da applicare al caso concreto.

Il giudice, come ricorderemo anche nella lezione di domani, quando risolve la


quaestio iuris, può trovarsi di fronte ad una situazione che non è direttamente
disciplinata dalla legge. Naturalmente il giudice non può rifiutarsi di emanare
sentenza dicendo: “questo caso non è regolato, peccato, non c’è soluzione’’. Ecco,
c’è il divieto di non liquet. Quindi la lacuna dell’ordinamento deve essere risolta dal
giudice passando attraverso i meccanismi dell’analogia legis e analogia iuris , di cui
all’art 12 della preleggi. Si tratta di 2 meccanismi estremamente elastici perché in
assenza di una norma che disciplina il caso concreto, il giudice dovrà prima andare
alla ricerca di norme che regolano casi simili (ecco l’analogia legis) e in mancanza di
norme che regolano casi simili dovrà risolvere la controversia applicando i principi
generali dell’ordinamento (ecco l’analogia iuris). Quindi questo è un meccanismo di
chiusura estremamente elastico. Vedremo nel secondo semestre che l’attività
relativa alla quaestio iuris è suscettibile di pieno controllo in Cassazione, perché in
base all’art 360 numero 3 uno dei motivi di ricorso per Cassazione è proprio la
violazione o la falsa applicazione delle norme di diritto , e lo stesso art 111 comma 7
della Costituzione prevede il ricorso per Cassazione contro i provvedimenti, contro le
sentenze, ed qui il ricorso per Cassazione è un ricorso sempre per violazione delle
norme di diritto. (è proprio attraverso i ricorsi basati sul numero 3 dell’art 360 che
la Corte esercita la funzione nomofilattica , cioè quella di assicurare l’esatta ed
uniforme interpretazione del diritto, quindi quella funzione di garanzia oggettiva che
distingue la Corte di Cassazione da tutti gli altri giudici).
Invece passando alla quaestio facti, l’attività che il giudice va a svolgere e i limiti a
cui è soggetta la sua attività di conoscenza dei fatti, sono molto diversi. In fin dei
conti il giudice sia quando risolve la quaestio iuris che quando risolve la quaestio
facti svolge sempre un’ attività logico deduttiva, solo che queste 2 attività sono
soggette a regole completamente diverse. Intanto, la quaestio facti, ha ad oggetto
solo i fatti che sono entrati legittimamente nel processo, attraverso quei meccanismi
che abbiamo analizzato ieri, e sicuramente non può introdurli il giudice nel processo
perché qui il giudice è soggetto ad un limite fortissimo che è il divieto di
utilizzazione della propria scienza privata. Vedremo nelle prossime lezioni che poi il
giudice è vincolato alle eventuali ammissioni delle parti; cioè quando le parti
concordemente indicano al giudice dei fatti come fatti esistenti, il giudice li deve
ritenere esistenti. Quindi l’attività di conoscenza dei fatti riguarda solo i fatti che
sono stati legittimamente introdotti nel processo e che sono controversi tra le parti e
in quanto tali sono bisognosi di prova. Naturalmente il giudice dovrà acquisire le
prove, che in base all’art 115 del cpc, come regola generale, sono le prove che sono
state richieste dalle parti. Ma già sappiamo che comunque il giudice civile è dotato di
una serie di poteri istruttori d’ufficio, quindi che può esercitare autonomamente.
Nell’esercizio di questi poteri il giudice è soggetto non solo al divieto di utilizzazione
della scienza privata,( per cui non può andare alla ricerca di fonti materiali di prova
al di fuori della realtà processuale), ma ancora una volta, è soggetto al principio del
contraddittorio, quindi ancora una volta nel momento in cui il giudice esercita un
potere di ufficio deve consentire alle parti di esercitare i poteri che sono
immediatamente consequenziali.

Quali sono le prove che il giudice può acquisire? Le prove richieste dalle parti o
disposte d’ufficio nel rispetto del principio del contraddittorio .

Come vengono acquisite le prove? Nel rispetto di quanto previsto dalla legge, quindi
è la legge a stabilire il modo di acquisizione delle singole prove. Prove che poi come
abbiamo appena ricordato dovranno essere valutate, come regola generale, in base
al prudente apprezzamento. Naturalmente il giudice è tenuto poi ad offrire una
motivazione nella sentenza in ordine ai motivi per cui si è convinto che i singoli fatti
risultino esistenti o non esistenti. L’unica eccezione è quella delle prove legali.
Infine, se il giudice non è pienamente convinto in ordine all’esistenza di un fatto,
perchè avrà acquisito prove dirette e prove contrarie, ma non ha maturato un
convincimento, vedremo che in base all’art 2697 cc, il giudice dovrà ritenere quel
fatto non esistente. Quindi o è pienamente convinto in ordine all’esistenza del
fatto oppure se non ha maturato un convincimento pieno il giudice deve applicare
una regola molto rigida, una regola formale, cioè deve ritenere quel fatto non
esistente. Questo principio è una norma di chiusura molto diversa rispetto a quella
dettata con riferimento alla quaestio iuris perché i meccanismi di analogia legis e
analogia iuris di cui all’art 12 delle preleggi sono molto elastici, mentre questa è una
regola formale e secca, estremamente rigida.
Infine, per quanto riguarda il controllo dell’attività di conoscenza della quaestio
facti, con riferimento a questo profilo, invece, il controllo che potrà svolgere la
Corte di Cassazione è estremamente limitato. Il legislatore ha rivisto la lettera
dell’art 360 numero 5. In base all’attuale testo dell’art 360 numero 5, il ricorso per
Cassazione, con riferimento al profilo di fatto, “può essere proposto soltanto in
ipotesi di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti”, quindi solo laddove un fatto è stato oggetto di discussioni
tra le parti, ma poi il giudice non ha dato conto del suo convincimento circa
l’esistenza o meno di questo fatto nell’ambito della motivazione (quindi è un
controllo estremamente limitato). Quindi si tratta di 2 attività (quella relativa alla
quaestio iuris e quella relativa alla quaestio facti) che sono sempre attività logico
deduttive, ma che sono soggette a limiti e a meccanismi estremamente diversi.

Potrebbero piacerti anche