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Se si segue il modello di decisione a seguito di trattazione scritta, come nel caso di specie, noi

sappiamo che c’è un momento in cui la causa viene rimessa al collegio, viene rimessa in
decisione. Questo momento è rappresentato dall’udienza di precisazione delle conclusioni,
che segna il passaggio della causa in decisione. Se si segue il modello di decisione a seguito di
trattazione scritta, che cosa fa il giudice, le parte precisano le conclusioni, se leggo un verbale
di udienza di questo tipo leggo proprio: “è presente per l’attore l’avvocato Rusciano che
chiede la condanna del convenuto al pagamento di 100 mila euro; è presente il convenuto
che chiede il rigetto della domanda. Queste sono le conclusioni che le parti sono tenute a
precisare in udienza, poi la causa entra in decisione. Il giudice in questa udienza, fatte
precisare le conclusioni, assegna due termini, previsti dall’art 190 cpc, un primo termine di 60
giorni (ma è l’aspetto meno importante) per il deposito delle comparse conclusionali; un
ulteriore termine di 20 giorni per il deposito delle memorie di replica. Dopo di che deve
pronunciare la sentenza. Il collegio si ritira in camera di consiglio e delibera la sentenza che
poi verrà pubblicata. Quindi, quando noi diciamo emanazione della sentenza, facciamo
riferimento a due momenti diversi, quello di deliberazione della sentenza, che poi viene
affidata alla sentenza, il quale la rende pubblica. Nel caso di specie emergeva dalla stessa
sentenza che il collegio aveva deliberato la decisione prima della scadenza del termine per il
deposito delle memorie di replica, poi era stata pubblicata in un momento successivo. La
questione che si pone alla corte è di valutare se nell’ipotesi in esame il ferimento del
principio del contraddittorio, del diritto di difesa, comporta ex se la nullità della sentenza
oppure se è necessario che la parte alleghi e provi che cosa con la memoria di replica avrebbe
potuto dire in modo tale da far cambiare decisione al giudice del merito. E innanzitutto la
Corte Cass prende atto di un contrasto giurisprudenziale, tale per cui viene ad essere rimessa
la questione al massimo organo della nomofiliachia (sezioni unite). Questo contrasto
giurisprudenziale vede opporsi due orientamenti: un primo orientamento maggioritario
secondo il quale la violazione, determinata dall’aver il giudice deciso la controversia prima
della scadenza dei termini di cui all’art 190, comporta la nullità della sentenza, perché risulta
impedito alle parti e ai difensori pienamente svolgere e attuare il diritto di difesa, quindi non
è necessario allegare anche un pregiudizio ulteriore che la parte subisce nel caso di specie, il
pregiudizio è relativo e generale, ricorre sempre perché si è avuta la violazione di un principio
cardine del processo, il principio del contraddittorio, il diritto di difesa; secondo un altro
indirizzo, ai fini della nullità della sentenza derivata dal mancato rispetto dei termini previsti
dall’art 190, è necessario non solo dedurre che il giudice ha pronunciato la sentenza prima
che la scadenza di questi termini previsti per il deposito delle comparse conclusionali e delle
memorie di replica, ma è necessario allegare e provare uno specifico pregiudizio
conseguente, è necessario individuare e allegare la concreta lesione delle possibilità di
ottenere un provvedimento diverso. Cosa avrebbe dovuto fare il ricorrente secondo questo
indirizzo: non basta dire che il giudice ha pronunciato la sentenza prima della scadenza dei
termini di cui all’art 190, ma il giudice ha errato, e quindi vi è una violazione importante del
principio del contraddittorio, e nel caso di specie questa violazione ha comportato che io non
potessi replicare a quella circostanza dedotta dall’avversario, tale per cui il giudice avrebbe
deciso diversamente. Quindi tutto si basa sulla necessità o meno della deduzione di un
pregiudizio ulteriore, concreto, rispetto al pregiudizio astratto che viene ad essere insito
laddove vi è una pronuncia della sentenza che precede la scadenza dei termini. La Corte,
dopo aver individuato la questione e questi due orientamenti da parte della giurisprudenza,
fa una precisazione, proprio perché la questione, così come era stata rimessa alle sezioni
unite, non sottolineava correttamente il fatto che la sentenza non fosse stata emanata (cioè
pubblicata) prima della scadenza di questi termini, ma fosse stata emanata, nel senso di
deliberata, prima della scadenza dei termini, la pubblicazione invece, il deposito nella
cancelleria da parte del giudice e l’onere del cancelliere di rendere pubblica la sentenza
erano comunque successivi rispetto alla scadenza dei termini previsti dall’art 190. Secondo la
Corte ugualmente però si pone la questione di capire se necessaria l’allegazione e prova
dell’ulteriore pregiudizio o se è sufficiente l’allegazione del pregiudizio astratto, giacchè vi è
una nullità ex se che va a vulnerare i principi cardine del processo. Precisa ancora la Corte che
in questi casi non possiamo richiamare un istituto processuale denominato “correzione di
errore materiale”, non siamo cioè in presenza, a giudizio della Corte, di un errore materiale.
Si tratta di un istituto disciplinato dall’art 278 che non è un mezzo di impugnazione, laddove
vi sia un errore materiale, un errore di calcolo ad esempio, è ammesso questo rimedio,
ovvero bisogna rivolgersi allo stesso giudice che pronuncia la sentenza, quindi non è un
mezzo di impugnazione, non mi rivolgo ad un giudice altro ma allo stesso giudice, perché ha
commesso un errore, che emerge dalla stessa lettura del provvedimento finale. La corte
esclude, nel caso di specie, la possibilità e l’ammissibilità di ricorrere a questo rimedio, a
giudizio delle sezioni unite non si tratta di errore materiale ex art 278, essendo fisiologico che
il momento deliberativo della sentenza sempre precede il momento di pubblicazione, non si
tratta quindi di un errore materiale, ma si tratta di un vizio che comporta nullità della
sentenza. Qual è la soluzione della Corte? Finalmente ci accorgiamo che la Corte ritiene che è
sufficiente per la nullità dedurre il vizio, non è necessario che la parte alleghi anche un
ulteriore pregiudizio. Ai fini dell’apprezzamento della nullità per lesione del contraddittorio e
del diritto di difesa, la parte non deve allegare niente altro, né è tenuta a provare questo
ulteriore pregiudizio concreto che ha subito. Quali sono i motivi che la Corte pone a
fondamento di questa ragionevole soluzione, che mira a porre al centro del sistema
processuale valori come il diritto di difesa, come il principio del contraddittorio, e non solo
ragionevole durata del processo? Innanzitutto la corte pone degli argomenti testuali, che
derivano dal sistema. Prende in considerazione una norma, cioè l’art 354, dettata con
riferimento al giudizio di appello. Questa disposizione prevede ipotesi eccezionali in cui, il
giudice di appello, riscontrata una ipotesi predeterminata dal legislatore in cui ravviene una
nullità della sentenza, non si pronuncia poi nel merito, non sostituisce il provvedimento che
va ad emanare rispetto al provvedimento viziato, nullo, ma rimette la causa al giudice di
primo grado. Il legislatore, in via eccezionale, agli artt 353-354 prevede che il giudice di
appello debba pronunciare non una sentenza sostitutiva ma un provvedimento di rimessione
della causa la giudice di primo grado. Tra queste ipotesi l’art 354 contempla il caso della
nullità della notificazione dell’atto di citazione, laddove abbiamo una nullità nell’atto di
citazione di primo grado, di cui il giudice adito in prima battuta non si è accorto, ma se ne
rende conto il giudice di appello, abbiamo una sorta di contumacia involontaria, la parte non
si costituisce perché non ha avuto conoscenza del processo a causa di un errore dovuto ad
una nullità della notificazione dell’atto introduttivo, il giudice di appello che si accorge della
sussistenza del vizio deve rimettere la causa al giudice di primo grado, si torna indietro. In
questa ipotesi, ci dice la corte di cassazione, il legislatore non richiede alla parte di allegare
che cosa avrebbe potuto dire una volta costituitasi in giudizio, tale per cui il giudice di primo
grado avrebbe dovuto emettere una decisione di segno contrario, ma qui vi è il ferimento di
un principio processuale importante, il principio del contraddittorio, il diritto di difesa, e
questo da solo è sufficiente affinchè si abbia la rimessione della causa al primo giudice, il
legislatore impone che si ricominci da capo proprio perché si è vulnerato uno dei principi
cardine del sistema. Un’altra motivazione poggia su una norma, l’art 829, che si occupa del
lodo arbitrale. Nell’ambito del processo arbitrale è ben specificato che la mancata osservanza
del principio del contraddittorio è causa di per sé di nullità del lodo, nonostante qualunque
preventiva rinuncia. Se leggiamo l’art 829 ci accorgiamo che il legislatore prevede ipotesi di
nullità del lodo, il lodo è la decisione finale pronunciata dagli arbitri, e ci dice che è possibile
impugnare il lodo per nullità, nonostante qualsiasi preventiva rinuncia, in alcuni casi
predeterminati: il n 9 prevede, se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il
principio del contraddittorio. Il principio del contraddittorio è un principio essenziale del
sistema processuale, e la sua violazione comporta di per sé nullità del provvedimento finale.
Ancora, oltre a queste considerazioni che poggiano su determinare disposizioni normative
dettate dal legislatore che ci fanno intendere quanto sia essenziale e centrare il principio del
contraddittorio, la corte di cassazione richiama proprio l’art 111 cost, e a proposito dell’art
111 fa riferimento al fatto che se rileggiamo il comma 2 dell’art 111 cost ci accorgiamo che il
giusto processo non si sostanzia unicamente nella ragionevole durata, ma il giusto processo
poggia anche su altri valori costituzionali, che devono essere comunque attuati e garantiti,
non solo nella fase introduttiva del giudizio, ma per tutta la durata del processo, anche nel
momento in cui la causa si trova nella fase decisoria. Questi valori sono proprio
rappresentanti dal principio del contraddittorio, dal diritto di difesa. Quindi, il ferimento di
questi principi, essendo principi cardine del sistema, porta ad un processo ingiusto, non
siamo più nell’ambito del giusto processo civile, e quindi dobbiamo ritenere che vi sia sempre
e comunque nullità della sentenza, a prescindere dal concreto pregiudizio. Fin qui tutto molto
lineare, però la Corte di cassazione aggiunge qualcosa, in realtà la Corte ci dice che questo
tipo di ragionamento lo dobbiamo adottare senz’altro con riferimento all’impugnazione in
cassazione, tanto è vero che in cassazione esiste una disposizione, l’art 360 bis n 2 cpc,
questo filtro al giudizio di cassazione, che prevede che il ricorso è inammissibile quando è
manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto
processo. Cioè, c’è una norma improduttiva, l’art 360 bis è la seconda disposizione che
disciplina il giudizio di cassazione, che mira ad introdurre un filtro, un filtro di ammissibilità, le
porte del palazzaccio si aprono a determinate condizioni, una condizione è prevista dal n 1,
l’altra è prevista dal n 2. In particolare, il ricorso è inammissibile, quindi non potrà essere
proprio valutato dalla Corte, quando non vi è il ferimento di un principio regolatore del giusto
processo, questo a contrario ci fa dire che laddove ci sia un vulnus ad un principio regolatore
del giusto processo possiamo sempre aprire le porte del giudizio di cassazione, è sufficiente
questo perché si abbia la valutazione dell’impugnazione. Diversa è la soluzione che possiamo
adottare con riferimento al giudizio di appello, perché, secondo questa pronuncia della Corte
di cassazione, il giudizio di appello presenta delle caratteristiche differenti rispetto al giudizio
di cassazione, anzitutto non vi è una norma con l’art 360 bis n 2 in cui rileva ex se il vulnus ad
un principio regolatore del giusto processo, ma è un secondo giudizio di merito, seppure
volto a verificare la giustizia della sentenza di primo grado, comunque presenta delle
caratteristiche diverse, ma, aggiunge la prof, esiste una norma che sembrerebbe imporre per
il giudizio di gravame una diversa soluzione: se io ho una nullità della sentenza di primo
grado, il giudice di primo grado ha pronunciato, ha deliberato, o anche emanato, nel senso di
pubblicato, la sentenza prima della scadenza dei termini ex art 190, questa pronuncia può
essere oggetto di gravame, può essere oggetto di appello, il giudice di appello dovrà
effettuare una verifica, non basta che sia stato ferito il principio del contraddittorio, occorre
che l’appellante, dolendosi di questo errore compiuto dal giudice di primo grado alleghi e
provi il pregiudizio concreto, che cosa avrebbe potuto dire per far cambiare idea al giudice di
primo grado con il deposito della comparsa conclusionale e della memoria di replica. Perché?
Da quale norma si potrebbe partire? Dall’art 342, il quale impone degli oneri di contenuto
forma dell’atto di appello, e ci dice che l’appello si propone con citazione, contenente
determinate indicazioni, ma la cosa più importante è che vi è un onere di motivazione
specifica dell’atto di appello. Il legislatore all’art 342 individua quali sono gli oneri
dell’appellante nella deduzione del motivo di appello, e ci dice che la motivazione
dell’appello, e ci dice che la motivazione dell’appello deve contenere, a pena di
inammissibilità, l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle
modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo
grado. Ma ancora l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e
aggiunge “della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”. Quindi sembra che, tramite
questa disposizione (art 342 cpc), il legislatore pone a carico dell’appellante, che è
soccombente rispetto ad una sentenza pronunciata prima della scadenza dei termini per il
deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, un onere ulteriore, non
basta dedurre la nullità della sentenza per ferimento del contraddittorio, del diritto di difesa,
è necessario specificare qualche altra cosa, proprio perché l’art 342 impone, a pena di
inammissibilità dell’appello, l’onere di motivare l’impugnazione in modo specifico,
prevedendo che è onere dell’appellante indicare le circostanze da cui deriva la violazione di
legge ma anche la loro rilevanza, la causalità del vizio rispetto alla pronuncia, la loro rilevanza
ai fini della decisione impugnata. Da questa disposizione forse potremmo aderire a questa
disposizione che ci fornisce la Corte di cassazione a sezioni unite di dire in generale non è
richiesta l’allegazione e prova di un ulteriore pregiudizio concreto laddove vi sia un ferimento
di un principio fondamentale del giusto processo civile, però bisogna distinguere il giudizio di
cassazione, in cui ex sé rileva la violazione, dal giudizio di appello, dove è necessaria
l’allegazione e prova del pregiudizio concreto. Questa differenziazione che effettuano le
sezioni unite in realtà, se leggiamo la sentenza allegata, non è pienamente giustificata, forse
una giustificazione la possiamo dare noi proprio facendo leva sul disposto dell’art 342 dettato
dal legislatore in tema di contenuto forma dell’atto di appello.
*ragazzo pone una domanda nella chat di teams* 🡪 in caso di trattazione orale la
pubblicazione della sentenza coincide con la deliberazione? Allora, si, perché se leggiamo
l’articolo 281 sexies che detta un modello alternativo rispetto alla decisione a seguito di
trattazione scritta, che cosa troviamo? Cosa succede in questo modello decisorio? Le parti,
vanno in udienza per precisare le conclusioni, il giudice ordina loro la discussione orale della
causa. In questo caso le parti potrebbero essere non pronte per discutere oralmente; quindi,
possono legittimamente chiedere al giudice il differimento dell’udienza, e il giudice deve
concedere il rinvio in questa ipotesi. In ogni caso, dopo la discussione orale delle parti, il
giudice pronuncia oralmente la sentenza, da’ lettura non solo del dispositivo ma anche delle
ragioni di fatto e di diritto, seppure in forma coincisa, che vengono poste a fondamento della
decisione, e come tutto ciò che avviene in udienza, ove vige il principio di oralità, si redige il
verbale di udienza, cioè resta traccia, non rimane tutto nell’etere, rimane traccia nell’ambito
del verbale di udienza, e l’art 281 è norma quanto mai precisa, perché ci dice che con la
sottoscrizione del verbale di udienza da parte del giudice si ha la pubblicazione della
sentenza, quindi in questa ipotesi di decisione a seguito di trattazione orale è lo stesso
legislatore che in realtà prevede la coincidenza dei due momenti di deliberazione e
pubblicazione della stessa. 

Qualche piccola e ulteriore nozione: la scorsa settimana abbiamo fatto riferimento ai


provvedimenti del giudice, in particolare abbiamo detto che tendenzialmente il legislatore
individua la forma della sentenza per quel provvedimento del giudice volto a decidere la
controversia, volto a consumare la funzione giurisdizionale del giudice, abbiamo distinto
sentenze definitive e sentenze non definitive; assegna invece all’ordinanza una diversa
funzione in cui  è comunque necessario che il giudice effettui delle valutazioni, ma questa
ordinanza ha un regime totalmente diverso dalla sentenza, nel senso che, mentre la sentenza
per contestare diciamo quanto il giudice provvede con la sentenza occorre l’impugnazione,
per invece contestare il provvedimento del giudice reso con la forma dell’ordinanza, è
possibile, salvo due eccezioni, fare istanza di revoca o di modifica allo stesso giudice che l’ha
pronunciata, il decreto sempre tendenzialmente ha una funzione diversa, la funzione cioè di
far sì che il processo in qualche modo vada avanti, facemmo l’esempio del decreto di
fissazione di udienza nell’ambito del rito del lavoro, quindi non ha un contenuto decisorio e
non ha neanche un contenuto ordinatorio, dicemmo che questa, in linea di massima, è una
tripartizione voluta dal legislatore che subisce spesse volte eccezioni, abbiamo cioè ipotesi in
cui il legislatore impone al giudice di provvedere con ordinanza nonostante il contenuto del
provvedimento medesimo sia comunque decisorio, ad esempio, con riferimento alle
ordinanze cosiddette decisorie, pronunciate nell’ambito del giudizio di cognizione laddove il
rito sia ordinario previste dagli art. 186 bis, ter e quater, facemmo il caso dell’ordinanza per il
pagamento di somme non contestate disciplinata dall’art. 186 bis, nell’ambito del rito del
lavoro ugualmente riscontriamo delle ordinanze che hanno contenuto decisorio e sono
disciplinate dall’art. 423 che riguarda l’ordinanza per il pagamento di somme non contestate
e l’ordinanza provvisionale, ordinanza provvisionale che ha lo stesso contenuto della
sentenza provvisionale di cui ci siamo occupati parlando delle diverse specie di condanna;
infatti l’art 278, nel far riferimento alla condanna generica, al secondo comma prevede anche
una specie di condanna, cioè l’ipotesi in cui il giudice accetti l’esistenza dell’an e condanni nei
limiti della prova già raggiunta, condanni quindi a parte del quantum nei limiti in cui ritiene
già raggiunta la prova. Vedemmo anche le situazioni patologiche, cioè l’ipotesi in cui il giudice
non ha rispettato la forma imposta dal legislatore e le diverse interpretazioni, le diverse
teorie, vista la differenza relativa al regime di impugnazione occorre capire se di fronte a un
provvedimento reso con ordinanza laddove il giudice prescriva sentenza qual è il rimedio
concesso alla parte soccombente, se debba impugnare, e quindi considerare la sostanza del
provvedimento, oppure se debba proporre istanza di revoca o di modifica considerando la
forma, e abbiamo analizzato, seppur sommariamente, la posizione della giurisprudenza in
contrasto con la posizione della dottrina. Ma durante questo ciclo di lezioni, più volte
abbiamo fatto riferimento ai termini 🡪  che cosa sono questi termini di cui parliamo
continuamente? Il termine potrebbe essere definito come quel periodo di tempo al cui
decorso il legislatore processuale attribuisce determinate conseguenze e nell’ambito del
processo civile, visto che siamo in presenza di un fenomeno dinamico, di una macchina in
movimento, il termine assume un’importanza notevole soprattutto se riferito al compimento
dei singoli atti, cioè il termine, in diritto processuale civile, lo potremmo definire come quel
periodo di tempo che la legge stabilisce per il valido compimento di un atto processuale, e
infatti il legislatore continuamente nell’ambito di tutto il codice di procedura civile, nel fissare
le regole del gioco essenzialmente prevede la fissazione di termini, predetermina cioè quei
periodi di tempo entro i quali l’atto deve essere compiuto. Noi siamo abituati proprio a
questa nozione, cioè periodo di tempo entro il quale l’atto deve essere compiuto, ma vi sono
anche ipotesi diverse in cui il legislatore individua un periodo di tempo che va a definire il
termine dilatorio, cioè ad esempio art. 163 bis, individua cioè un termine minimo che deve
esserci tra il compimento di un atto e quello successivo. Leggiamo l’art 163 bis dal codice di
procedura civile che prevede che: Tra il giorno della notificazione della citazione e quello
dell'udienza di comparizione debbono intercorrere termini liberi non minori di novanta giorni
se il luogo della notificazione si trova in Italia e di centocinquanta giorni se si trova all'estero,
cioè prevede un arco temporale minimo tra il momento di notificazione dell’atto introduttivo
e il momento in cui l’attore fissa la data dell’udienza di comparizione quindi in alcuni casi, ed
è questa la nozione di termine dilatorio, il legislatore tende a ritardare il cammino del
processo, prevedendo termini dilatori, cioè prevedendo un periodo di tempo necessario
perché siano attuati determinati diritti, per esempio dall’art 163 bis emerge quello che è lo
scopo che vuole raggiungere il legislatore, lo scopo è quello di consentire al convenuto che si
vede notificare l’atto introduttivo del giudizio di avere un periodo di tempo minimo per poter
compiutamente svolgere la propria difesa. Distinguiamo quindi i termini acceleratori e
termini dilatori. Termine acceleratorio è quel termine, quel periodo di tempo, che il
legislatore impone, predetermina, affinché un atto possa essere compiuto entro un
determinato periodo, entro un determinato termine; termine invece dilatorio tende a
ritardare il cammino del processo, e quindi è quel periodo di tempo che necessariamente
deve intercorrere tra il compimento di un atto e quello successivo al fine di garantire
l’attuazione di determinati valori processuali. Ma vi è una norma nell’ambito della disciplina
dei termini, nel senso che in via tendenziale il legislatore prevede che tutti i termini
processuali subiscono una sospensione di diritto, questa sospensione dal 2015 va dal 1 al 31
agosto, e rappresenta la regola, a questa regola il regio decreto del 1942 pone delle
eccezioni, ad esempio con riferimento ai procedimenti cautelari, non possiamo consentire
che ci sia la sospensione dei termini nel periodo del mese di agosto, ma lo stesso vale per i
procedimenti di opposizione all’esecuzione, per le controversie in materia di lavoro, cioè
dobbiamo sapere che quando il legislatore fissa dei termini, e nel computo di questi termini,
in via tendenziale, non dobbiamo tener conto del periodo di agosto, dal 1 al 31agosto, tranne
in alcune eccezioni in cui vi è un’esigenza che giustifica l’applicazione di una deroga nel senso
cioè che per determinate controversie, come in materia di tutela cautelare, anche nel
periodo festivo, occorre comunque tener conto della decorrenza di questi termini. Ma
ancora, quindi la prima distinzione è tra termini acceleratori e dilatori a seconda dello scopo
che il legislatore vuole realizzare imponendo comunque la fissazione di alcuni termini.
Nell’ambito dei termini acceleratori però dobbiamo effettuare un’ulteriore precisazione, cioè
talvolta il legislatore pone il termine, qualifica il termine come perentorio, talaltre invece il
termine può essere qualificato come ordinatorio. Che differenza c’è? Nel primo caso, in
ipotesi di termine perentorio, la decorrenza del termine da’ luogo automaticamente a una
decadenza, la decadenza dal potere di compiere l’atto 🡪 l’atto non è stato compiuto nel
termine previsto dal legislatore e quindi, decorso inutilmente questo termine, la parte perde
il potere, incorre cioè in una decadenza processuale, per esempio l’art. 167 a proposito della
comparsa di costituzione e risposta prevede espressamente che a pena di decadenza, il
convenuto che intenda sollevare eccezioni in senso stretto, processuale o di merito, o
intenda proporre domanda riconvenzionale, deve costituirsi almeno 20 giorni prima
dell’udienza, se lascia decorrere questo termine senza depositare la comparsa di costituzione
e risposta contenente la domanda riconvenzionale, perde il potere, incorre in una decadenza
processuale.

Diversamente nell’ipotesi di termini ordinatori 🡪 la decorrenza del termine da’ luogo a


conseguenze diverse rispetto alla decadenza dal potere di compiere l’atto, ad esempio
abbiamo fatto riferimento all’art. 281 quinquies in tema di decisione e di decisione a seguito
di trattazione scritta. Qui vediamo sia termini perentori sia termini ordinatori, perché che
cosa prevede la norma? Testualmente dispone che il giudice, fatte precisare le conclusioni a
norma dell’art 189, dispone lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di
replica a norma dell'articolo 190, e se leggiamo l’art. 190 ci dice che la comparsa
conclusionale deve essere depositata nel termine di 60 giorni decorrenti dall’udienza di
precisazione delle conclusioni e le memorie di replica nel termine di 20 giorni, questi sono
termini perentori. Se non deposito la (12:42 della seconda registrazione) denominato
comparsa conclusionale, memoria di replica nel termine predeterminato dal legislatore
incorro in una decadenza, non potrò più esercitare il potere in un momento successivo.
Dopodiché la norma ci dice… che cosa succede? Succede che il giudice pronuncia la sentenza,
l’ultima parte della disposizione ci dice che la sentenza è depositata entro 30 giorni dalla
scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica, non ci dice, a pena di
decadenza, non individua una sanzione processuale, del resto, un’eventuale pubblicazione,
deposito della sentenza del giudice oltre il termine di 30 giorni, non potrebbe comportare un
pregiudizio per le parti nell’ambito del processo. Questo termine di 30 giorni previsto per il
deposito della sentenza è un termine ordinatorio, cioè che succede se come normalmente
avviene il giudice non deposita la sentenza nel termine previsto dall’art 281 quinquies?
Succede semplicemente che eventualmente ci saranno delle responsabilità a carico del
giudice in termini di sanzioni disciplinari, ma al provvedimento non succede nulla, la sentenza
non sarà nulla, non potrà essere questo un motivo di impugnazione, siamo in presenza di un
termine meramente ordinatorio, non è che perde il potere di pronunciare il provvedimento
finale. Quindi dobbiamo sempre tener conto di questa distinzione tra termini perentori,
generalmente riferiti alle parti, e termini ordinatori riferiti al giudice. La differenza la si coglie
sul piano delle sanzioni, del mancato rispetto del periodo temporale predeterminato dal
legislatore. Nel caso di termine perentorio si verifica come conseguenza una decadenza dal
potere di compiere l’atto, nel caso di termini ordinatori, le sanzioni non vanno ad incidere
all’interno del processo, ma eventualmente sono di altra natura e genere, e comunque sono
esterne rispetto al processo. Questo ci porta a dire che in realtà esiste nell’ambito
processuale un concetto di decadenza, di decadenza processuale, però quante volte abbiamo
fatto riferimento ad un concetto simile, abbiamo utilizzato un’altra espressione, abbiamo
parlato di preclusione. C’è differenza secondo voi tra decadenza e preclusione? (varie
risposte di sottofondo). Secondo alcuni indicano lo stesso fenomeno, cioè la perdita del
potere processuale, secondo altri invece decadenza è qualcosa di più specifico, è un concetto
più minimo rispetto al concetto generale di preclusione, perché in dottrina si è ritenuto che
preclusione è l’effetto che la legge ricollega a una pluralità di cause non soltanto al decorso
del termine, alla decadenza vera e propria, la preclusione quindi in quest’ottica sembrerebbe
indicare un concetto più ampio rispetto alla decadenza, invece d’altro canto secondo alcuni si
è ritenuto che si tratti di due nozioni, due espressioni, comunque surrogabili tra di loro. Ma
andiamo più a fondo, vediamo un po’ se quell’impostazione che mira a tenere distinte le due
nozioni, cioè mira a ritenere la preclusione un concetto più ampio rispetto a quello di
decadenza, possa effettivamente avere qualche riscontro, bisogna capire quali sono i modi
processuali per perdere un potere. 

Per esempio, oltre al decorso del termine, perdo il potere processuale anche in un’altra
ipotesi sicuramente, cioè se presto acquiescenza… che cos’è questa acquiescenza? La norma,
la quale occorre (18:26 seconda registrazione) (…) si fa riferimento all’acquiescenza totale o
parziale, cioè esistono delle ipotesi in cui, pronunciata la sentenza, la parte soccombente
presti acquiescenza, perda cioè il potere di impugnare perché o dichiari espressamente
oppure non lo dichiari ma pone in essere dei comportamenti incompatibili con la volontà di
impugnare, tale per cui si ha perdita del potere di impugnazione. La norma prevede infatti
che l’acquiescenza può risultare da accettazione espressa (acquiescenza espressa) oppure dal
compimento di atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse
dalla legge 🡪 In questo caso è esclusa la possibilità di proporre impugnazione. Ancora,
l’ultimo comma, prevede una forma particolare di acquiescenza, la cosiddetta acquiescenza
tacita qualificata, cioè laddove la parte sia soccombente rispetto a più capi di sentenza e
impugni soltanto alcuni di essi, è come se accettasse il risultato cui è pervenuto il giudice con
il provvedimento rispetto ai fatti non oggetto di impugnazione. In questo caso l’impugnazione
parziale conduce all’acquiescenza, alla perdita del potere in conseguenza dell’accettazione
rispetto alle parti del provvedimento che non sono state oggetto di impugnare. Un altro
modo forse di perdere il potere che non deriva dal decorso del tempo possiamo ricollegarlo
all’ipotesi in cui il potere è stato esercitato tempestivamente ma è stato esercitato in
maniera irrituale, cioè è stato esercitato in maniera difforme rispetto al modello previsto dal
legislatore. Ad esempio immaginiamo di fare un ricorso per cassazione, nella deposizione del
ricorso non siamo particolarmente diligenti, non abbiamo studiato bene il diritto processuale
civile e non individuiamo quelli che sono gli elementi di contenuto forma richiesti dall’art 366
del codice di rito a pena l’inammissibilità dell’impugnazione, io ometto uno degli elementi
previsti dal legislatore nell’ambito dell’art 366, oppure il ricorso per cassazione è un ricorso
sui generis perché in genere, noi cosa abbiamo detto, qual è la differenza tra il ricorso e l’atto
di citazione? (risposta di qualcuno in aula), con l’atto di citazione il primo contatto si crea tra
attore e convenuto, nel ricorso il primo contatto si crea con il giudice, tra il ricorrente e il
giudice. Il ricorso per cassazione è un ricorso sui generis perché, per ragioni storiche, si è
mantenuta la qualificazione dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità come il ricorso, ma
è un ricorso che va prima notificato all’avversario e poi viene depositato nella cancelleria
della corte e l’art 369 del cpc prevede proprio la necessità che vi sia il deposito del (min 23:03
seconda reg), nella cancelleria della corte a pena di improcedibilità nel termine di 20 giorni
dalla notificazione alle parti contro le quali è proposto. Poniamo il caso il ricorso è proposto
in modo irrituale o perché manca di un elemento di contenuto forma o perché non rispetta il
disposto dell’art 369 o tante altre disposizioni che impongono determinate forme che
devono assumere gli atti di parte, in questo caso la conseguenza viene ad essere la perdita
del potere, la consumazione del potere di impugnare viene a determinarsi con la
dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione, quindi in generale posso dire che la
perdita del potere processuale non è solo ed unicamente correlata alla decorrenza del
termine, concetto che si esprime tramite la nozione di decadenza, ma esistono ipotesi in cui
la perdita del potere processuale viene correlata o all’acquiescenza o all’esercizio irrituale di
un potere, in questa ipotesi posso ben configurare un concetto più ampio id preclusione che
va ad inglobare quello di decadenza nell’ipotesi in cui la perdita del potere è correlata
all’inutile decorso del termine ma che comunque va ad esprimere anche altri concetti in cui la
perdita del potere è correlata a situazioni diverse rispetto alla decorrenza del termine,
all’inutile decorso del termine predeterminato dal legislatore. Questa decadenza, cioè la
perdita del potere per inutile decorso del termine determina che la parte non potrà più
compiere dell’atto, e su questo siamo d’accordo, tranne l’operare di un istituto particolare,
l’istituto della rimessione in termini, ma ne parleremo domani.

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