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DIRITTO PROCESSUALE CIVILE 14 CFU LIBRO 2° – IL PROCESSO DI


COGNIZIONE
CAPITOLO 1° - LA PRIMA FASE DEL PROCESSO DI COGNIZIONE : L’INTRODUZIONE

L’ATTO INTRODUTTIVO

Il processo di cognizione è diviso in fasi:


FASE 1 : INTRODUZIONE;
FASE 2 : INSTRUZIONE IN SENSO AMPIO, che può essere a sua volta suddivisa in 3 fasi:
A)TRATTAZIONE;
B)ISTRUZIONE IN SENSO STRETTO;
C)RISERVA IN DECISIONE;
FASE 3 : DECISIONE.

Il processo di cognizione è disciplinato dal libro 2° del nostro codice di procedura civile (artt.163
ss.).

In questo capitolo studieremo la prima fase del processo di cognizione, cioè la fase introduttiva.

Iniziamo innanzitutto col dire che la fase introduttiva inizia con la proposizione della domanda
giudiziale da parte del soggetto.
La DOMANDA GIUDIZIALE, in generale, può avere la forma della citazione o del ricorso; nel
procedimento di cognizione ordinario la domanda ha la forma della citazione.
CITAZIONE: atto contenente l’esposizione della pretesa dell’attore e la chiamata del convenuto
perché compaia dinanzi al giudice per l’udienza che lo stesso attore ha di sua iniziativa fissata; la
citazione va prima notificata alla controparte e poi depositata nella cancelleria dell’ufficio
giudiziario;
RICORSO : il ricorso, invece, è sempre un atto col quale l’attore espone la sua pretesa, ma non
contiene la fissazione dell’udienza e la chiamata del terzo; sarà quindi il giudice, una volta ricevuta
la domanda, a fissare l’udienza nella quale si regolarizza il contraddittorio e a dare le disposizioni
affinché il ricorso, con il suo successivo provvedimento di fissazione dell’udienza di comparizione,
sia portato a conoscenza dell’altra parte. Il ricorso, infatti, a differenza della citazione, va prima
depositato e poi notificato.

L’art.163 contiene i requisiti di contenuto-forma della citazione. Questi sono:


1)indicazione del giudice (ufficio giudiziario) davanti al quale la domanda è proposta;
2)indicazione delle parti (nome, cognome, residenza e codice fiscale dell’attore e del convenuto);
3)determinazione dell’oggetto della domanda (petitum);
4)esposizione dei fatti e degli elementi di diritto (causa petendi), con le relative conclusioni;
5)indicazione dei mezzi di prova e dei documenti dei quali l’attore vuole valersi;
6)nome, cognome e codice fiscale del procuratore, e indicazione della procura;
7)indicazione del giorno dell’udienza di comparizione e invito al convenuto a costituirsi nel termine

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di 20 giorni prima dell’udienza, con l’avvertimento che la costituzione oltre i suddetti termini
implica le decadenze di cui agli articoli 38 e 167;
8)sottoscrizione del procuratore.

Della citazione completa di questi elementi essenziali vengono stampate 2 copie : l’ORIGINALE e la
COPIA. Quest’ultima deve essere portata a conoscenza della controparte mediante notificazione
affidata all’ufficiale giudiziario, che avrà il compito di constatare che la copia predisposta
dall’attore è conforme all’originale. E’ dalla notificazione che derivano gli effetti sostanziali e
processuali della domanda di cui abbiamo parlato nel libro 1°.

In riguardo al n.7 di cui all’art.163 dobbiamo specificare che la legge, all’art.163bis, se non prevede
un termine massimo per la fissazione dell’udienza, prevede invece un termine minimo tra il giorno
della notificazione al convenuto e il giorno dell’udienza di comparizione : debbono infatti
intercorrere almeno 90 giorni liberi. Ricordiamo che quando un termine è libero, nel suo calcolo
non si tiene conto né del giorno iniziale, né di quello finale, e quindi, in questo caso, nel calcolo dei
90 giorni non si dovrà tener conto del giorno della notificazione e del giorno dell’udienza.
Il convenuto, una volta ricevuta la citazione, può costituirsi in giudizio nel termine di 20 giorni
prima dell’udienza di comparizione.

Sempre in riguardo al n.7 dell’art.163 dobbiamo aggiungere che questa parte della citazione è
volta prevalentemente alla chiamata in giudizio della controparte (c.d. vocatio in ius) e costituisce
l’elemento che la citazione ha in più rispetto al ricorso. Tutti i restanti elementi di cui all’art.163
concorrono tutti ad esplicitare la pretesa (c.d. editio actionis) dell’attore e sono comuni sia alla
citazione che al ricorso. Il ricorso, invece, non contiene l’indicazione dell’udienza di comparizione e
l’invito rivolto al convenuto a costituirsi (con il relativo avvertimento in caso di mancata
costituzione nei termini) perché, come abbiamo già detto, è il giudice a regolarizzare il
contraddittorio e a dare le disposizioni affinché il ricorso, con il suo successivo provvedimento di
fissazione dell’udienza di comparizione, sia portato a conoscenza dell’altra parte.

I VIZI DELL’ATTO INTRODUTTIVO

I vizi dell’atto introduttivo sono disciplinati dall’art.164 e rendono la citazione nulla.


I vizi che comportano la nullità della citazione possono essere divisi in 2 categorie : vizi relativi alla
vocatio in ius e vizi relativi alla editio actionis.

-VIZI RELATIVI ALLA VOCATIO IN IUS (comma 1°, art.164). I vizi relativi alla vocatio in ius sono quei
vizi attinenti agli elementi della vocatio in ius, cioè a quegli elementi funzionali all’utile ingresso in
giudizio del convenuto. Tali vizi sono riconducibili alla omissione o alla assoluta incertezza degli
elementi di cui ai numeri 1), 2) e 7) dell’art.163.

I vizi relativi alla vocatio in ius possono essere sanati in 2 modi :


-costituzione in giudizio del convenuto (comma 3°, art.164) : poiché il vizio riguarda quegli
elementi che sono funzionali all’ingresso in giudizio del convenuto, se quest’ultimo si costituisce
l’atto ha raggiunto il suo scopo e si ritiene valido ed efficace sin dall’inizio.

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-rinnovazione della citazione (comma 2°, art.164) : se il convenuto, non costituendosi in giudizio,
resta contumace, il giudice può disporre la rinnovazione dell’atto entro un termine perentorio. La
rinnovazione dell’atto sana i vizi e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono
sin dal momento della prima notificazione. Se l’attore non rinnova nel termine la citazione si ha
una vicenda estintiva del processo.

Sia la costituzione in giudizio sia la rinnovazione hanno effetti sanatori ex tunc; in tal modo è come
se la nullità non fosse mai esistita.

VIZI RELATIVI ALLA EDITIO ACTIONIS (comma 4°, art.164). I vizi relativi alla editio actionis sono
quei vizi più gravi che attengono agli elementi della editio actionis, cioè a quegli elementi che
costituiscono esplicitazione della pretesa dell’attore. Tali vizi sono riconducibili omissione o alla
assoluta incertezza degli elementi di cui ai numeri 3) e 4) dell’art.163.

Anche i vizi relativi alla editio actionis possono essere sanati in 2 modi, che dipendono dalla
costituzione in giudizio o meno da parte del convenuto:
-integrazione della domanda (comma 5°, art.164), che si ha nel caso in cui il convenuto si è
costituito in giudizio e che rappresenta un ordine che il giudice fa all’attore di integrare la
domanda degli elementi nulli, entro un termine perentorio;
-rinnovazione della citazione (comma 5°, art.164), che si ha invece nel caso in cui il convenuto non
si è costituito in giudizio; in tal caso il giudice fissa un termine perentorio entro il quale l’attore può
rinnovare la sua citazione.

La sanatoria dei vizi della editio actionis ha efficacia ex nunc, in quanto la sanatoria prende data
dal giorno della rinnovazione o dell’integrazione, non salvando così gli effetti processuali e
sostanziali della domanda.
Più che di sanatoria ex nunc, è più corretto dire che non c’è sanatoria e che il meccanismo ideato
dal legislatore non tende al recupero dell’originaria citazione, che comunque viene sostituita dal
nuovo atto, ma al più limitato scopo di tenere in vita il processo incardinato sulla base dell’atto
nullo. Probabilmente la salvezza riguarda soltanto gli aspetti tipicamente procedimentali, quali
l’iscrizione a ruolo e la nomina del giudice istruttore; non altro.

Gli elementi della citazione, come abbiamo detto, sono 8; l’art.164 prevede la nullità (e la relativa
sanatoria) soltanto per 5 di questi, cioè soltanto per i numeri 1, 2, 3, 4, e 7; e per gli altri?
Per quanto riguarda il n.8 ) dell’art.163 relativo alla sottoscrizione del procuratore, dobbiamo dire
che la mancata sottoscrizione del procuratore costituisce un vizio talmente grave da provocare
un’incompletezza strutturale all’atto che lo rende non nullo, ma inesistente. Tale “inesistenza” si
traduce in una insanabile nullità, come se alla citazione mancasse la forma scritta.
Per quanto riguarda i nn. 5) e 6) di cui all’art.163, possiamo affermare che la mancanza degli stessi
non provoca nullità all’atto, ma sono previsti a pena di irregolarità perché:
-gli elementi di cui al n.5 possono essere indicati anche in un momento successivo del giudizio;
-gli elementi di cui al n.6 sono evincibili anche altrove.
Concludiamo col dire che questi 2 ultimi elementi possono essere considerati anche come “non
necessari”.

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LA COSTITUZIONE DELL’ATTORE

Come abbiamo detto più volte, gli effetti sostanziali e processuali della domanda decorrono, in
caso di citazione, dal giorno della notificazione; ma qual è, precisamente, il momento rilevante da
cui decorrono tali effetti?
Prima del 2002 il momento rilevante era la notificazione che l’ufficiale giudiziario faceva al
convenuto. Era il giorno della notificazione il giorno utile ai fini delle decadenze e degli effetti della
domanda. L’attore, perciò, una volta consegnato l’atto all’ufficiale giudiziario, doveva preoccuparsi
di sapere quale era il giorno in cui l’ufficiale giudiziario avesse a sua volta notificato al convenuto.
Eventuali ritardi facenti capo all’ufficiale giudiziario non potevano che andare ai danni dell’attore.
Per ovviare a tale spiacevole situazione in cui poteva trovarsi l’attore, la Corte Costituzionale, con
sentenza n.477 del 26/11/02, ha precisato che il momento dal quale pende il giudizio e decorrono
gli effetti sostanziali e processuali della domanda è il giorno della consegna della citazione
all’ufficiale giudiziario da parte dell’attore.

L’attore, una volta consegnata la citazione all’ufficiale giudiziario, deve costituirsi in giudizio
depositando l’originale della citazione stessa alla cancelleria dell’ufficio giudiziario adito. Col
deposito l’attore ha l’onere di richiedere alla cancelleria stessa l’iscrizione a ruolo. L’iscrizione a
ruolo è una sorta di istanza con cui si individuano gli elementi essenziali della controversia che
deve essere fatta entro 10 giorni dalla data della notificazione della citazione al convenuto. La data
della consegna all’ufficiale giudiziario di cui abbiamo parlato pocanzi rileva solo ai fini delle
decadenze. Con l’iscrizione a ruolo la causa è iscritta nel ruolo generale degli affari contenziosi
civili e il cancelliere addetto le assegna un numero secondo un ordine progressivo.
Con l’iscrizione a ruolo, poi, il cancelliere addetto forma il fascicolo d’ufficio che comprende : la
citazione, la nota di iscrizione a ruolo, e i documenti ulteriori che l’attore ha presentato insieme
alla citazione. Tale fascicolo viene poi trasmesso al capo dell’ufficio (Presidente del Tribunale), il
quale : se l’ufficio è diviso in sezioni, lo assegna ad una sezione; altrimenti, designa il giudice per la
trattazione.
Se nel giorno fissato per la comparizione il giudice designato non ha udienza, la comparizione delle
parti è d’ufficio rimandata all’udienza successiva.

E’ quindi attraverso l’iscrizione a ruolo che l’attore si costituisce in giudizio. Se, però, l’attore non si
costituisce tempestivamente, la legge offre al convenuto la possibilità di sostituirsi all’attore nel
compimento di tale atto di impulso. In questo caso l’iscrizione a ruolo sarà operata dal convenuto,
e l‘attore potrà costituirsi anche successivamente.

LA COSTITUZIONE DEL CONVENUTO

Come sappiamo, il convenuto che ha ricevuto la citazione ha 2 possibilità :


-costituirsi in giudizio;
-non costituirsi in giudizio, rimanendo così contumace.

Lasciando da parte il caso della contumacia, su cui ci soffermeremo successivamente, il convenuto


che vuole costituirsi in giudizio deve farlo almeno 20 giorni prima dell’udienza mediante il deposito

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in cancelleria di un atto difensivo chiamato <<comparsa di risposta>>.


Art.167 – Comparsa di risposta : <<Nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le
sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, indicare le
proprie generalità e il codice fiscale, i mezzi di prova di cui intende valersi e i documenti che offre in
comunicazione, formulare le conclusioni.
A pena di decadenza deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali
e di merito che non siano rilevabili d'ufficio. Se è omesso o risulta assolutamente incerto l'oggetto o
il titolo della domanda riconvenzionale, il giudice, rilevata la nullità, fissa al convenuto un termine
perentorio per integrarla. Restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti acquisiti
anteriormente alla integrazione.
Se intende chiamare un terzo in causa, deve farne dichiarazione nella stessa comparsa e
provvedere ai sensi dell'articolo 269>>.

Il convenuto, quindi, si costituisce depositando la comparsa di risposta e il proprio fascicolo. Anche


per tale comparsa sono previsti, dal comma 1°, requisiti di forma, la cui omissione può
determinare la nullità dell’atto o la sua totale irrilevanza, nel qual caso la costituzione si ha per non
avvenuta e il convenuto finisce con l’essere nella posizione di contumace involontario. Il
convenuto, nel proprio fascicolo, propone tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti
dall’attore a fondamento della domanda.
Il comma 2° riguarda la possibilità per il convenuto di proporre domande riconvenzionali o
eccezioni in senso stretto.
Il comma 3° riguarda, invece, la possibilità per il convenuto di chiamare in causa un terzo.
Queste 3 attività possono essere svolte mediante comparsa di risposta depositata dal convenuto
almeno 20 giorni prima dell’udienza. Se il convenuto non rispetta tale termine subisce queste 3
preclusioni, che per chiarezza espositiva elenchiamo nuovamente :
-proposizione di domande riconvenzionali (cui è ragionevole parificare la domanda di
accertamento incidentale);
-proposizione di eccezioni in senso stretto;
-chiamata di un terzo.

Il convenuto che non ha intenzione di compiere queste 3 attività difensive può costituirsi anche
non rispettando il termine dei 20 giorni; può persino costituirsi direttamente il giorno dell’udienza,
ma in tali casi, essendogli precluse queste 3 attività, egli può soltanto proporre :
-contestazioni, cioè contestando che i fatti addotti dall’attore siano in tutto o in parte veri, e
negando che siano comunque idonei a produrre le conseguenze da questo volute; con la
contestazione, quindi, il convenuto si difende, senza allegare però fatti nuovi;
-eccezioni in senso ampio.

LA MANCATA COSTITUZIONE DELLE PARTI

Come sappiamo, l’attore si costituisce in giudizio con l’iscrizione a ruolo della causa.
Se l’attore non iscrive a ruolo la causa, tale iscrizione può anche essere fatta dal convenuto; in tal
caso, anche se ha iscritto egli la causa a ruolo, resta pur sempre il convenuto di quella causa (non
diventa cioè attore).

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Il convenuto, invece, si costituisce in giudizio con il deposito della comparsa di risposta.


Se l’attore non iscrive a ruolo la causa e il convenuto non deposita la comparsa di risposta (art.171
co. 1°), il processo entra in uno stato di quiescenza : inizia cioè una fase che porta all’estinzione
dello stesso, il cui rimedio è la riassunzione di cui all’art.307, 1°co. .
Diverso è il caso della costituzione tardiva:
-se una delle parti si costituisce nel termine a lei assegnato, l’altra può costituirsi anche
successivamente fino alla prima udienza (se lo fa il convenuto restano ovviamente ferme le
decadenze di cui all’art.167) (art.171 co. 2°), e se non si costituisce nemmeno in tale udienza il
giudice ne dichiara la contumacia;
-se una delle parti si costituisce tardivamente e l’altra non si costituisce, il giudice istruttore dovrà
ordinare la cancellazione della causa dal ruolo.

Con queste ipotesi non va confusa quella in cui, pur risultando le parti costituite, le stesse non
siano presenti alla prima udienza. In tal caso il giudice deve fissare una nuova udienza di cui deve
essere data comunicazione alle parti costituite.

CAPITOLO 2° - LA FASE DELLA TRATTAZIONE


L’UDIENZA DI TRATTAZIONE

La trattazione è quella fase dedicata all’impostazione e all’avvio della causa. La fase della
trattazione inizia con la prima udienza di comparizione delle parti, disciplinata dall’art.183.

Nell’udienza di comparizione e trattazione il giudice deve in via preliminare verificare che non ci
sono situazioni che possano impedire o pregiudicare lo svolgimento del processo fino alla
decisione sul merito. E’ per questo che il 1° comma dell’art.183 stabilisce che il giudice, prima di
iniziare il giudizio, deve pronunciare, quando occorre, i provvedimenti previsti da tali articoli:
-art.102, 2° co. (integrazione del contraddittorio nel caso di litisconsorzio necessario);
-art.164, 2°, 3° e 5° co. (rinnovazione o integrazione della domanda in caso di citazione nulla);
-art.167, 2° e 3° co. (fissazione del termine perentorio per permettere al convenuto di integrare la
domanda riconvenzionale il cui oggetto o titolo è risultato incerto nella comparsa di risposta);
-art.182 (provvedimenti in caso di difetto di rappresentanza);
-art.291 (rinnovazione della citazione la cui notificazione è nulla, nel caso in cui il convenuto non si
è costituito).

Va ricordato che in caso di rinnovazione della citazione ai sensi dell’art.291 la stessa ha effetti ex
tunc, in quanto impedisce decadenze e preclusioni. Va anche ricordato che, ai sensi dell’art.164, 3°
co., se il convenuto si costituisce in giudizio nonostante i vizi della citazione relativi alla vocatio in
ius, i vizi stessi sono sanati ex tunc.

Il 2° comma dell’art.183 stabilisce che quando il giudice pronunzia uno di questi provvedimenti
deve fissare una nuova udienza di trattazione.

Il 5° comma dello stesso art.183 stabilisce : <<Nella stessa udienza l'attore può proporre le
domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni

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proposte dal convenuto. Può altresì chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi
degli articoli 106 e 269, terzo comma, se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Le parti
possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate>>.
Ciò significa che - come il convenuto, nella sua comparsa di risposta, può proporre domande
riconvenzionali, eccezioni in senso stretto o chiamare un terzo nella causa - nell’udienza di
trattazione l’attore può proporre domande riconvenzionali, eccezioni in senso stretto o chiamare
un terzo nella causa; tali attività gli sono però possibili solo se siano conseguenza delle difese del
convenuto, e solo se fatte in prima udienza.

Il giudice, quindi, nella stessa udienza o in quella fissata in prosieguo (per aver emesso
provvedimenti di cui al 1° comma) chiede alle parti (è da intendersi, ai difensori) i chiarimenti
necessari e indica le questioni rilevabili di ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione
(comma 4°).
In questo momento le parti possono chiedere al giudice termini (perentori) per deduzioni difensive
scritte. Infatti, il 6° comma stabilisce : <<Se richiesto, il giudice concede alle parti i seguenti termini
perentori:
1) un termine di ulteriori trenta giorni per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o
modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte;
2) un termine di ulteriori trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate
dall'altra parte, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni
medesime e per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali;
3) un termine di ulteriori venti giorni per le sole indicazioni di prova contraria>>.

Fino ad ora abbiamo visto le varie preclusioni da parte del convenuto e da parte dell’attore. Non
abbiamo incontrato, però, una decadenza per la produzione delle prove. Tale decadenza inizia a
maturare proprio con la richiesta che le parti possono fare al giudice in base al comma 6°. I termini
previsti dal 6° comma rappresentano, infatti, i termini entro i quali le parti possono produrre le
loro prove.
Il termine di cui al n.1) del 6° comma fa riferimento a memorie difensive che hanno scarso utilizzo
nella pratica. Si ritiene che non sono consentite nuove domande ed eccezioni, quali si hanno se si
cambiano i soggetti o l’oggetto o la causa petendi.
Il termine di cui al n.2) del 6° comma fa riferimento alle prove dirette (sia costituende che
precostituite, di cui vedremo il significato nel prossimo capitolo), cioè quelle prove con cui la parte
dimostra i fatti posti a sostegno delle proprie domande o eccezioni.
Il termine di cui al n.3) del 6° comma fa riferimento alle prove contrarie, cioè quelle prove volte a
smentire i fatti addotti dalla controparte.
Se non viene fatta tale richiesta, già all’udienza di trattazione matura la preclusione per le parti di
produrre le prove. Però, basta che una delle parti faccia tale richiesta, il giudice deve concedere
alle parti i 3 termini, che vanno a sommarsi tra loro. Il 6° comma è formulato nel senso che i
termini non solo sono perentori, ma anche fissi, così che non possono essere allungati o
abbreviati, neppure sull’accordo delle parti. Scaduti gli 80 giorni (30+30+20) entro i quali le parti
hanno nel frattempo fatto le loro richieste istruttorie, entro i successivi 30 giorni il giudice dovrà
provvedere sulle richieste istruttorie delle parti attraverso la fissazione dell’udienza per

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l’assunzione dei mezzi di prove (art.184, 7° comma).


Con l’udienza di assunzione dei mezzi di prova di cui all’art.184 il giudice ammette nel processo i
mezzi prodotti dalle parti e inizia la fase successiva del processo, cioè la fase dell’ISTRUZIONE IN
SENSO STRETTO (che studieremo nel prossimo capitolo).

I PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE ISTRUTTORE

Come abbiamo visto, il giudice può dare l’avvio alla fase della raccolta delle prove ed ammetterle
con l’udienza di assunzione dei mezzi di prova di cui all’art.184. Lo stesso giudice, però, può anche
scegliere di invitare le parti a precisare subito le conclusioni e rimettere la causa per la decisione.
Tale soluzione è prevista dall’art.183, co.7., con la disposizione <<salva l’applicazione
dell’art.187>>.

Art.183 co.7° : <<Salva l'applicazione dell'articolo 187, il giudice provvede sulle richieste istruttorie
fissando l'udienza di cui all'articolo 184 per l'assunzione dei mezzi di prova ritenuti ammissibili e
rilevanti. Se provvede mediante ordinanza emanata fuori udienza, questa deve essere pronunciata
entro trenta giorni>>.

Art.187 – Provvedimenti del giudice istruttore : <<Il giudice istruttore, se ritiene che la causa sia
matura per la decisione di merito senza bisogno di assunzione di mezzi di prova, rimette le parti
davanti al collegio.
Può rimettere le parti al collegio affinché sia decisa separatamente una questione di merito avente
carattere preliminare, solo quando la decisione di essa può definire il giudizio.
Il giudice provvede analogamente se sorgono questioni attinenti alla giurisdizione o alla
competenza o ad altre pregiudiziali, ma può anche disporre che siano decise unitamente al
merito>>.

Il giudice potrà perciò scegliere di invitare le parti a precisare subito le conclusioni quante volte
ritenga inutile la raccolta delle prove. L’art.187 ci dice quali sono le ipotesi in cui questo avviene:
a)quando non c’è bisogno di assumere prove (ad es., perché i fatti di causa sono incontroversi o
perché la questione è di puro diritto o ancora perché la controversia è basata su prove
documentali);
b)quando sia stata sollevata una questione preliminare di merito idonea a definire il giudizio;
c)quando sia sorta una questione attinente alla giurisdizione o alla competenza o ad altre
pregiudiziali, la cui decisione possa rendere impossibile la definizione del merito.

LE ORDINANZE DECISORIE

Il cuore del processo di cognizione ordinario è dato dall’attività di raccolta delle prove o di
istruttoria in senso stretto. Della relativa fase, che inizia con udienza ex art.184, ci occuperemo nel
prossimo capitolo insieme con l’analisi dei singoli mezzi di prova. Adesso riteniamo opportuno
analizzare alcuni poteri che la legge riconosce al giudice istruttore, che sono diretti non allo
“svolgimento del procedimento”, ma alla sua totale o parziale definizione.
Tali poteri sono stati introdotti dopo il ’90 e si concretano in 3 tipi di ordinanze decisorie che, pur
presentando le qualità proprie dell’ordinanza istruttoria (quali la modificabilità, la revocabilità e

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l’impossibilità di pregiudicare il merito della causa), possiedono un carattere decisorio-finale,


anticipando il contenuto del provvedimento conclusivo del giudizio.

Ordinanza per il pagamento di somme non contestate.


Art.186 bis – Ordinanza per il pagamento di somme non contestate : <<Su istanza di
parte il giudice istruttore può disporre, fino al momento della precisazione delle conclusioni, il
pagamento delle somme non contestate dalle parti costituite. Se l'istanza è proposta fuori
dall'udienza il giudice dispone la comparizione delle parti ed assegna il termine per la notificazione.
L'ordinanza costituisce titolo esecutivo e conserva la sua efficacia in caso di estinzione del processo.
L'ordinanza è soggetta alla disciplina delle ordinanze revocabili di cui agli articoli 177, primo e
secondo comma, e 178, primo comma>>.
Dalla disciplina introdotta con l’art.186 bis risulta che:
a)oggetto dell’ordinanza può essere soltanto la condanna al pagamento di somme;
b)presupposti ne sono l’istanza della parte e la non contestazione proveniente dalle parti
costituite (la contumacia, perciò non equivale a non contestazione), che può concretarsi sia in
comportamenti espliciti che impliciti (è da ritenersi non contestazione anche quando la parte,
costituendosi, abbia serbato silenzio);
c)l’ordinanza può essere emanata fino al momento della precisazione delle conclusioni e, quindi,
non può essere emessa dal giudice della decisione;
d)tale ordinanza costituisce titolo esecutivo (dei titoli esecutivi tratteremo nel libro 3°);
e)in quanto ordinanza, è pur sempre revocabile, però conserva la sua efficacia (di titolo esecutivo)
nel caso di estinzione del processo.
Ciò significa che se il processo continua a seguito di tale ordinanza, il giudice istruttore potrà
sempre revocare o modificare tale ordinanza. In sede di decisione, poi, tale ordinanza dovrà essere
modificata o confermata.
Se invece il processo si estingue a seguito dell’emanazione dell’ordinanza, l’ordinanza conserva la
sola efficacia esecutiva, ma non l’efficacia di giudicato; ciò perché in tanto è possibile attribuire ad
un provvedimento un valore simile al giudicato in quanto vi sia un’espressa scelta del legislatore.

Ordinanza di ingiunzione.
Art.186 ter – Istanza di ingiunzione : <<Fino al momento della precisazione delle conclusioni,
quando ricorrano i presupposti di cui all'articolo 633, primo comma, numero 1), e secondo comma,
e di cui all'articolo634, la parte può chiedere al giudice istruttore, in ogni stato del processo, di
pronunciare con ordinanza ingiunzione di pagamento o di consegna. Se l'istanza è proposta fuori
dall'udienza il giudice dispone la comparizione delle parti ed assegna il termine per la notificazione.
L'ordinanza deve contenere i provvedimenti previsti dall'articolo 641, ultimo comma, ed è
dichiarata provvisoriamente esecutiva ove ricorrano i presupposti di cui all'articolo 642, nonché,
ove la controparte non sia rimasta contumace, quelli di cui all'articolo 648, primo comma. La
provvisoria esecutorietà non può essere mai disposta ove la controparte abbia disconosciuto la
scrittura privata prodotta contro di lei [214 c.p.c.] o abbia proposto querela di falso contro l'atto
pubblico [221 c.p.c.].
L'ordinanza è soggetta alla disciplina delle ordinanze revocabili di cui agli articoli 177 e 178, primo
comma.

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Se il processo si estingue l'ordinanza che non ne sia già munita acquista efficacia esecutiva ai sensi
dell'articolo 653, primo comma.
Se la parte contro cui è pronunciata l'ingiunzione è contumace [290 c.p.c. ss.], l'ordinanza deve
essere notificata ai sensi e per gli effetti dell'articolo 644. In tal caso l'ordinanza deve altresì
contenere l'espresso avvertimento che, ove la parte non si costituisca entro il termine di venti
giorni dalla notifica, diverrà esecutiva ai sensi dell'articolo 647.
L'ordinanza dichiarata esecutiva costituisce titolo per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale>>.

Dalla disciplina introdotta con l’art.186 bis risulta che :


a)oggetto dell’ordinanza può essere il pagamento di somme relative a crediti liquidi ed esigibili o la
consegna di quantità di determinate di cose fungibili o di cose mobili determinate, ogni volta che il
credito dipenda da una controprestazione e questa sia stata adempiuta;
b)presupposti ne sono l’istanza della parte e l’esistenza di prova documentale ai sensi dell’art.634;
c)l’ordinanza può essere emanata in ogni stato del processo, ma non oltre la precisazione delle
conclusioni;
d)l’efficacia esecutiva può essere conferita al provvedimento ove ricorrano i presupposti di cui
all’art.642 (provvisoria esecuzione se il credito è fondato su cambiale, assegno bancario, assegno
circolare, o su atto ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato), con la precisazione
che <<la provvisoria esecutorietà non può essere disposta ove la controparte abbia disconosciuto
la scrittura privata prodotta contro di lei o abbia proposto querela di falso contro l’atto pubblico;
e)il regime è quello dell’ordinanza revocabile, ma, se il processo si estingue, l’ordinanza che non
ne sia già munita, acquista efficacia esecutiva;
f)nel caso di ordinanza emessa contro la parte contumace, questa ha l’onere di costituirsi nei 20
giorni dalla notifica se vuole evitare che l’ordinanza diventi esecutiva;
g)l’ordinanza esecutiva costituisce titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.

L’ordinanza di ingiunzione ha lo schema del decreto ingiuntivo (che studieremo nel libro 4°),
trasportato però nel processo ordinario; infatti, come il decreto ingiuntivo, si basa sull’esistenza
della prova scritta. L’ordinanza di ingiunzione, però, nella pratica viene chiesta raramente perché
alla parte che vanta un credito basato su prova scritta conviene chiedere al giudice direttamente il
decreto ingiuntivo, piuttosto che avviare il procedimento ordinario.

Ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione (o ordinanza post-istruttoria).


Art.186 quater – Ordinanza successiva alla chiusura dell’istruzione : << Esaurita l'istruzione,
il giudice istruttore, su istanza della parte che ha proposto domanda di condanna al pagamento di
somme ovvero alla consegna o al rilascio di beni, può disporre con ordinanza il pagamento ovvero
la consegna o il rilascio, nei limiti per cui ritiene già raggiunta la prova. Con l'ordinanza il giudice
provvede sulle spese processuali.
L'ordinanza è titolo esecutivo. Essa è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio.
Se, dopo la pronuncia dell'ordinanza, il processo si estingue, l'ordinanza acquista l'efficacia della
sentenza impugnabile sull'oggetto dell'istanza.
L'ordinanza acquista l'efficacia della sentenza impugnabile sull'oggetto dell'istanza se la parte
intimata non manifesta entro trenta giorni dalla sua pronuncia in udienza o dalla comunicazione,

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con ricorso notificato all'altra parte e depositato in cancelleria, la volontà che sia pronunciata la
sentenza>>.

L’ordinanza:
a)può essere emessa dal giudice che istruisce la causa:
-su istanza di parte;
-in un momento che va tra la chiusura dell’istruzione e la precisazione delle conclusioni;
-nei limiti in cui il giudice ritiene già raggiunta la prova;
b)ha per oggetto la condanna al pagamento di somme ovvero la consegna o il rilascio di beni, e
comporta anche la statuizione sulle spese giudiziali;
c)è immediatamente titolo esecutivo (ma non titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale);
d)è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio;
e)acquista l’efficacia di sentenza impugnabile sul suo oggetto (non di sentenza passata in
giudicato)se il processo si estingue, o se la parte intimata non manifesta entro 30 giorni dalla
pronuncia la volontà che sia pronunciata sentenza;
f)può essere emessa anche contro il contumace.
Tale ordinanza viene chiesta per non aspettare la precisazione delle conclusioni a istruzione
esaurita; questa infatti può essere intesa come un’anticipazione di sentenza perché è subito titolo
esecutivo e perché, una volta emanata, il giudice può anche non emanare sentenza
successivamente. L’ordinanza post-istruttoria può infatti acquistare sul suo oggetto efficacia di
sentenza; ciò dipende dal comportamento della controparte : questi può infatti impedire che
l’ordinanza acquisti efficacia di sentenza attraverso la manifestazione della volontà che sia
pronunciata sentenza. Se ciò non viene fatto entro 30 giorni, l’ordinanza diventa sentenza dopo 30
giorni dalla sua emanazione. Ciò vuol dire che, dopo l’estinzione o la mancata richiesta della
sentenza, si forma il provvedimento dal quale decorrono i termini per l’impugnazione.

Differenze tra i 3 tipi di ordinanze:


1)L’ordinanza per il pagamento di somme non contestate non può essere emanata contro il
contumace, ma solo contro le parti costituite;
l’ordinanza di ingiunzione può essere invece resa anche contro il contumace (ma va notificata, e se
la controparte non si costituisce entro 20 giorni l’ordinanza di ingiunzione diventa esecutiva);
l’ordinanza post-istruttoria può essere emanata contro il contumace;
2)L’ordinanza per il pagamento di somme non contestate è immediatamente (e sempre)
esecutiva;
l’ordinanza di ingiunzione è esecutiva solo se :
-ricorrono le condizioni di cui all’art.642(provvisoria esecuzione se il credito è fondato su cambiale,
assegno bancario, assegno circolare, o su atto ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale
autorizzato);
-o quando sussiste pericolo di grave pregiudizio nel ritardo;
-ricorrono le condizione di cui all’art.648 (queste condizioni devono ricorrere solo se la parte non è
rimasta contumace);
L’ordinanza post-istruttoria è immediatamente titolo esecutivo;
3)In caso di estinzione del processo, l’ordinanza per il pagamento di somme non contestate

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conserva la sua efficacia di titolo esecutivo, ma non acquista efficacia di giudicato (essendo,
perciò, sovvertibile in un nuovo processo);
l’ordinanza di ingiunzione acquista efficacia di giudicato se si estingue il processo (come il decreto
ingiuntivo);
l’ordinanza post-istruttoria acquista l’efficacia di sentenza impugnabile sul suo oggetto (non di
sentenza passata in giudicato) se il processo si estingue;
4)l’ordinanza di ingiunzione, in base all’art.186 ter, può essere emessa <<in ogni stato del
processo>>; tale previsione è assente nell’art.186 bis sulle ordinanze per il pagamento di somme
non contestate, e quindi se ne deduce che queste ultime non possono essere emesse negli stati di
quiescenza del processo (quali la sospensione e l’interruzione);
Il momento per l’emanazione dell’ordinanza post-istruttoria è invece bel delineato dal legislatore :
deve essere conclusa la fase istruttoria.

CAPITOLO 3° - LA FASE DELL’ISTRUZIONE IN SENSO STRETTO


LE PROVE IN GENERALE

La prova è costituita da qualsiasi strumento che consente di rievocare un avvenimento trascorso e


che consente alle parti di dimostrare la veridicità dei fatti da loro narrati. Attraverso la prova il
giudice può stabilire che un fatto rilevante per il processo si è realmente verificato.
Come abbiamo visto, alla fine dell’udienza di trattazione le parti possono ancora usare mezzi di
prova per dare veridicità ai fatti affermati fino a quel momento, alimentando così la loro attività
asseverativa.

I mezzi di prova sono tipici e regolati sia dal codice civile che dal codice di procedura civile : il
codice civile ne disciplina i loro presupposti; il codice di procedura civile ne disciplina la loro
modalità di applicazione all’interno del processo.

I mezzi di prova sono suscettibili di due distinzioni.


In base al modo in cui si forma la prova abbiamo :
-PROVE PRECOSTITUITE, che sono quelle prove che preesistono al processo, cioè che si formano
fuori dal processo;
-PROVE COSTITUENDE, che sono quelle prove che si formano all’interno del processo.
Le prove precostituite possono essere allegate incondizionatamente e non sono soggette a vaglio
di ammissione da parte del giudice. Ciò significa che possono essere subito acquisite al processo.
Le prove costituende sono invece soggette a vaglio di ammissione da parte del giudice; il giudice
avrà cioè il compito di valutare delle stesse prima la loro ammissibilità (non contrarietà ad alcun
divieto di legge) e poi la loro rilevanza (potenziale utilità ai fini della decisione).
Da tale distinzione possiamo ricavare che le prove costituende, proprio perché devono essere
analizzate circa la loro ammissibilità e rilevanza per essere acquisite al processo, sono prove che
fanno perdere più tempo al giudice rispetto a quelle precostituite, che non sono soggette a vaglio
di ammissione e possono essere subito acquisite al processo. Il giudice, infatti, può acquisire e
ammettere una prova costituenda solo se questa sia ammissibile e rilevante allo stesso tempo.

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In base alla loro efficacia abbiamo :


-PROVE LEGALI, cioè prove il cui risultato vincola il giudice in quanto lo stesso le recepisce sulla
base di canoni di valutazione prefissati dal legislatore; tali prove, perciò, non sono soggette a
valutazione da parte del giudice perché tale valutazione è stata già fatta a monte dal legislatore
(es. : confessione);
-PROVE LIBERE, cioè prove il cui risultato, a differenza di quelle legali, è liberamente apprezzabile
dal giudice; le prove libere si chiamano il tal modo proprio perché sono sottoposte ad un libero
apprezzamento da parte del giudice (es. : prova testimoniale).
Infatti, in base all’art.116, 1° co, <<il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente
apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti>>.
Ciò significa che è la legge che stabilisce quando una prove è libera o legale, e quando non è
legale, il giudice è libero di porla o meno a base della sua decisione in base al suo prudente
apprezzamento.

LA PROVA DOCUMENTALE : IL DOCUMENTO PUBBLICO

Il documento, in generale, è ogni oggetto idoneo a fornire la rappresentazione di un fatto.


Nella nozione di documento possono essere ricompresi anche i mezzi informatici, anche se quelli
cartacei sono più diffusi nella prassi.
Il documento è uno dei mezzi di prova più diffusi e rappresenta sia una prova precostituita che
legale.

La nozione del documento pubblico è contenuta nell’art.2699 cod. civ. .


Art.2699 cod. civ. – Atto pubblico : <<l’atto pubblico è il documento redatto, con le richieste
formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel
luogo dove l’atto è formato>>.
La pubblica fede rappresenta uno strumento che consente di dare certezza alle rappresentazioni
contenute in documenti formati da soggetti a ciò preposti.

Art.2700 cod. civ. – Efficacia dell’atto pubblico : << L'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di
falso [c.p.c. 221], della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché
delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua
presenza o da lui compiuti>>.
Se si analizza la formula del legislatore, è chiaro che la pubblica fede assiste in primo luogo la
provenienza del documento e in secondo luogo il resoconto di quanto il pubblico ufficiale ha fatto,
ha visto e ha sentito. Tutto ciò riguarda la percezione materiale del pubblico ufficiale, che la
dottrina fa rientrare sotto il nome di estrinseco della vicenda; quindi, solo ciò che ricade sotto tale
percezione – quindi, l’estrinseco - è coperto dall’efficacia di fede pubblica, e non è smentibile dalle
parti con altre prove. Non vi rientra, invece, il c.d. intrinseco, relativo al contenuto del documento.
E’ per questo che si dice che il documento pubblico fa piena prova (è, cioè, prova legale) solo
dell’estrinseco.

Come tutti i documenti, anche il documento pubblico può essere falso.


La falsità del documento pubblico può essere materiale o ideologica.

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La falsità materiale si presenta in 2 forme : la contraffazione e l’alterazione.


Si ha contraffazione quando il documento appare redatto dal pubblico ufficiale, ma in realtà, di
fatto, non è stato da questi redatto.
Si ha alterazione quando il documento proviene dal pubblico ufficiale, ma è stato in seguito
modificato, alterato.
Si ha invece falsità ideologica quando l’atto proviene dal pubblico ufficiale, ma questi se ne è
inventato, in tutto o in parte, il contenuto.
Proprio perché l’atto pubblico costituisce prova legale non è soggetto ad apprezzamento da parte
del giudice, e questi dovrà acquisirlo al processo così com’è. Ciò significa che l’atto pubblico, pur se
falso, viene acquisito automaticamente al processo; sarà poi la parte contro il quale è prodotto
che dovrà contestare tale falsità mediante un subprocedimento chiamato QUERELA DI FALSO.
In tale subprocedimento la parte che contesta la veridicità del documento pubblico dovrà dare la
prova della falsità del documento stesso; se non riesce a dare tale prova, la forza del documento
pubblico resta invariata.
La querela di falso è quindi un’azione, che può essere proposta in ogni stato e grado del processo.
La querela di falso può essere proposta in via principale e in via incidentale.
La querela di falso in via incidentale è la querela di falso proposta nel corso del processo. Tale
giudizio inizia con dichiarazione personale della parte o di un suo procuratore speciale da inserire
nel processo verbale di udienza.
La querela di falso in via principale è la querela di falso proposta al di fuori del processo. Tale
giudizio inizia con proposizione dell’atto di citazione che deve essere sottoscritto personalmente
dalla parte o da un suo rappresentante speciale. Competente è sempre il tribunale.

La querela di falso, in via incidentale o in via principale che sia, è assistita da alcune CAUTELE, data
comunque la gravità di tale tipo di giudizio proposto per smentire una prova legale :
1)Art.221 : << La querela di falso può proporsi tanto in via principale [162 c.p.c.] quanto in corso di
causa in qualunque stato e grado di giudizio, finché la verità del documento non sia stata accertata
con sentenza passata in giudicato.
La querela deve contenere, a pena di nullità, l'indicazione degli elementi e delle prove della falsità,
e deve essere proposta personalmente dalla parte oppure a mezzo di procuratore speciale,
con atto di citazione o con dichiarazione da unirsi al verbale d'udienza.
È obbligatorio l'intervento nel processo del pubblico ministero>>;
quindi, essendo obbligatorio l’intervento del pubblico ministero, il giudizio per querela di falso non
sarà deciso dal giudice monocratico – come avviene ormai per la maggior parte delle cause - , ma
in composizione collegiale, perché, in base all’art.50 bis, <<il tribunale giudica in composizione
collegiale nelle cause nelle quali è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero>>.
2)Art.9, co.2° : <<Il tribunale è altresì esclusivamente competente per le cause in materia di
imposte e tasse, per quelle relative allo stato e alla capacità delle persone e ai diritti onorifici, per
la querela di falso, per l'esecuzione forzata e, in generale, per ogni causa di valore
indeterminabile>>.
Ciò significa che competente per le querele di falso è sempre il tribunale. Quindi, se viene
proposta querela di falso (in via incidentale) durante un giudizio dinanzi al giudice di pace, la

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querela di falso sarà ugualmente di competenza del tribunale, e il giudizio dinanzi al giudice di
pace resterà sospeso fino alla decisione del tribunale. Il processo dinanzi al giudice di pace sarà poi
riassunto, e quest’ultimo deciderà poi nel merito.

La querela di falso in via incidentale è composta da diversi passaggi (fasi) che avvengono dinanzi
al giudice della causa di merito, disciplinati dall’art.222 :
Il primo è il preannuncio, cioè un atto col quale la parte contro cui è proposta la prova
preannuncia al giudice di merito la volontà di fare querela di falso;
Il secondo è l’interpello. Il giudice, cioè, dopo il preannuncio, interpella la parte che ha prodotto il
documento per sapere se, nonostante la proposizione della querela, voglia avvalersi del
documento : se la risposta è negativa, il documento non è utilizzabile e la querela diventa inutile;
se la risposta è positiva, abbiamo il terzo passaggio (rilevanza dell’atto), cioè quello in cui il giudice
valuta la rilevanza dell’atto, cioè valuta se l’atto è potenzialmente utile per decidere la causa. Se
ritiene che il documento potenzialmente falso non è rilevante per la decisione della causa, con
ordinanza non ne ammette la querela; se ritiene invece il documento rilevante, si ha il quarto
passaggio (autorizzazione), cioè quello in cui il giudice di merito autorizza la presentazione della
querela. Una volta che la parte ha avuto l’autorizzazione, può presentare la querela di falso
(quinto passaggio : presentazione).

LA PROVA DOCUMENTALE : LA SCRITTURA PRIVATA

Da quel che si è detto emerge che il documento pubblico proviene da un terzo, ed è per questo
che si parla, in questo caso, si scrittura eterografa.
La scrittura privata, invece, si presenta come documento autografo caratterizzato da un elemento
essenziale : la sottoscrizione. La sottoscrizione è un elemento con la quale si stabilisce un nesso tra
la persona del sottoscrittore e la paternità delle dichiarazioni ricavabili dai segni grafici che
precedono la sottoscrizione stessa. Senza sottoscrizione non si ha scrittura privata.

Art.2702 cod. civ. – Efficacia della scrittura privata : << La scrittura privata fa piena prova, fino a
querela di falso[c.p.c. 221], della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta, se colui
contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente
considerata come riconosciuta>>.

E’ da precisare che tale norma – insieme alle altre del codice riferite alla scrittura privata- pur se si
riferisce ai mezzi e modi tradizionali della scrittura, non è di ostacolo alla possibilità di ritenere
ammesso e regolato dal nostro sistema il c.d. documento informatico.

Da quel che si legge nell’art.2702, la scrittura privata non è di per sé prova legale, ma può esserlo.
Insomma, la scrittura privata, per essere considerata come prova legale, necessita di una vicenda
aggiuntiva che dia certezza che la sottoscrizione è autografa.

Le tecniche per rendere la scrittura privata piena prova sono :


1) AUTENTICAZIONE (RICONOSCIMENTO PREVENTIVO), prevista dall’art.2703 cod. civ. : <<Si ha per
riconosciuta la sottoscrizione autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato.

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L'autenticazione consiste nell'attestazione da parte del pubblico ufficiale che la sottoscrizione è


stata apposta in sua presenza. Il pubblico ufficiale deve previamente accertare l'identità della
persona che sottoscrive.
In questo caso si ha autenticazione della firma ad opera di un notaio o di un pubblico ufficiale.
L’autenticazione della firma, però, non trasforma la scrittura privata in atto pubblico, ma gli dà
quella pubblica fede tale da renderla piena prova. Con l’autenticazione della firma, perciò, si avrà
un documento complesso che risulta dalla combinazione di un documento privato e di un
documento pubblico, con il quale il pubblico ufficiale attesta che la sottoscrizione è stata apposta
in sua presenza dalla persona del sottoscrittore da lui previamente identificata;
2)RICONOSCIMENTO ESPRESSO, che si ha quando è lo stesso sottoscrittore che riconosce la
sottoscrizione come sua, cioè come da lui apposta;
3)RICONOSCIMENTO TACITO (art.215), che rappresenta la tecnica più diffusa e che si ha quando la
parte contro cui la scrittura è prodotta non la disconosce. Se non si ha disconoscimento della
scrittura privata, quest’ultima si intende riconosciuta tacitamente.
Il disconoscimento, perciò, è un onere che grava sulla parte contro cui la scrittura è proposta, onde
evitare il riconoscimento tacito. Tale onere deve essere adempiuto nella prima udienza (prima
risposta) o nella risposta successiva alla produzione del documento (se il documento è prodotto
dopo).
L’art.215 specifica che si ha riconoscimento tacito anche quando la parte contro cui la scrittura è
prodotta è contumace. Forse questo rappresenta l’unico riflesso negativo della contumacia; ma il
legislatore ha avuto anche cura di precisare che se il contumace si costituisce in un momento
successivo, può disconoscere le scritture private contro di lui prodotte nella sua prima udienza,
cioè nel momento in cui si costituisce, non subendo così la preclusione – prevista dall’art.215, n.2)
- che ha la parte non contumace.

Una volta messa in atto una di queste 3 tecniche, la scrittura privata fa piena prova come un
documento pubblico, ma con una differenza : mentre il documento pubblico fa prova di tutto ciò
che il pubblico ufficiale attesta essere stato da lui compiuto o essere avvenuto in sua presenza
(cioè, soltanto per l’estrinseco), la scrittura privata, invece, ai sensi dell’art.2702 cod. civ., fa prova
soltanto della provenienza della dichiarazione da colui che vi appare come sottoscrittore.
Insomma, il legislatore, una volta che la scrittura privata sia stata riconosciuta attraverso una delle
3 tecniche di cui sopra, pone una sorta di presunzione legale che il sottoscrittore ha emesso
realmente la dichiarazione sottoscritta. Nulla di più.
Con riguardo al documento pubblico avevamo già parlato di prova dell’estrinseco; a maggior
ragione se ne parla qui, dove l’oggetto della prova è ancora più ristretto, essendo limitato alla
provenienza della dichiarazione. Tutto il resto non è coperto dalla certezza fino a querela di falso,
così che la prova contraria sarà ammissibile normalmente.

Fino ad ora abbiamo visto che i vari tipi di riconoscimento della scrittura privata permettono alla
scrittura stessa di fare piena prova; ma ora ci chiediamo : cosa succede se una parte produce la
scrittura privata e l’altra (al posto di effettuare il riconoscimento) la disconosce?
La risposta è che la parte che ha prodotto la scrittura - che sia poi disconosciuta, o non sia poi
riconosciuta o autenticata – se si vuole avvalere di tale scrittura deve provocare un apposito

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giudizio di accertamento chiamato ISTANZA DI VERIFICAZIONE. L’istanza di verificazione è quindi


un apposito giudizio che ha lo scopo di accertare l’autenticità della scrittura privata. L’istanza di
verificazione è proposta dalla parte che ha prodotto la scrittura : la parte chiede che venga
accertato che la sottoscrizione è di colui che l’ha disconosciuta (o che non la riconosciuta). Infatti,
l’istanza di verificazione può essere anche concepita come una quarta tecnica che attribuisce alla
scrittura privata efficacia di prova piena.
Anche l’istanza di verificazione, come la querela di falso, può essere intesa - in quanto ulteriore
giudizio - come un subprocedimento, sebbene meno autonomo rispetto a quello per la querela di
falso.
Ma ci sono delle differenze tra l’istanza di verificazione e la querela di falso:
1)la querela di falso la propone la parte contro cui il documento è prodotto, perché l’atto pubblico
è assistito da una presunzione di veridicità; l’istanza di verificazione la propone invece la parte che
produce il documento, perché per la scrittura privata non ci sono presunzioni di veridicità;
2)la querela di falso mira ad elidere l’efficacia di prova piena ad un atto pubblico che è già, per
legge prova piena; l’istanza di verificazione, invece, mira ad attribuire efficacia di prova piena alla
scrittura privata (che di per sé non ha);
3)il giudizio sulla querela di falso spetta alla competenza per materia del tribunale; il giudizio di
verificazione, invece, spetta alla competenza del giudice della causa di merito;
4) il giudizio sulla querela di falso prevede l’obbligatorietà dell’intervento del Pubblico Ministero e,
di conseguenza, la decisione è presa in composizione collegiale (collegio di 3 giudici); il giudizio di
verificazione, poiché non prevede l’obbligatorietà dell’intervento del Pubblico Ministero, è decisa
nella composizione prevista per il giudizio di merito.

LA PROVA DOCUMENTALE : LE COPIE FOTOGRAFICHE DI SCRITTURE

Art.2719 cod. civ. – Copie fotografiche di scritture : <<Le copie fotografiche di scritture hanno la
stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformità con l'originale è attestata da pubblico
ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta>>.

Le copie fotografiche rappresentano quelle che oggi comunemente chiamiamo “fotocopie”. Ai


sensi dell’art.2719 queste hanno la stessa efficacia delle scritture originali fin quando il pubblico
ufficiale competente attesta la conformità tra la copia e l’originale, o la stessa copia non sia
disconosciuta. Nel momento in cui vengono disconosciute, le stesse perdono tale efficacia.
Se si ha disconoscimento, questo è soggetto alle stesse regole che abbiamo visto per le scritture
private.

LA PROVA DOCUMENTALE : LE RIPRODUZIONI MECCANICHE

Art.2712 – Riproduzioni meccaniche : <<Le riproduzioni fotografiche o cinematografiche, le


registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose
formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non
ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime>>.

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Foto e video hanno quindi efficacia di piena prova, salvo disconoscimento da parte di colui contro
il quale sono state prodotte.

LA PROVA TESTIMONIALE

La testimonianza è una dichiarazione di scienza intorno ai fatti di causa resa da un terzo


disinteressato.
Il testimone, proprio perché disinteressato, è un terzo che, per rendere la sua testimonianza,
dev’essere indifferente alle parti e alle sorti del giudizio; egli si limita a narrare in udienza e in
modo imparziale i fatti di causa.
Il nostro ordinamento, infatti, ritiene inattendibile come testimone il soggetto che sia
direttamente o indirettamente interessato all’esito della controversia, e ritiene, di conseguenza,
incompatibili le posizioni di parte e di teste.

La prova testimoniale è una prova costituenda ed una prova libera, e rappresenta il mezzo di prova
più diffuso.

La prova testimoniale è vista con diffidenza dal nostro legislatore. Questa diffidenza trova non
poche conferme nei risultati delle indagini svolte sulla testimonianza dagli studiosi di logica e
anche di psicologia. Si è infatti posto in evidenza che un primo scarto tra realtà e successiva
rappresentazione del testimone è dato dal fatto che non tutti abbiamo la stessa capacità di
percezione e la stessa prontezza di riflessi; inoltre, tra la percezione e la rappresentazione si
inserisce la mediazione della memoria, che non per tutti funziona allo stesso modo e non sempre è
fedele. Non ha torto allora il legislatore a diffidare della prova testimoniale e a porre dei limiti alla
stessa, soggettivi e oggettivi.

L’unico limite soggettivo l’abbiamo già accennato prima ed è contenuto nell’art.246.


Art.246 – Incapacità a testimoniare : <<Non possono essere assunte come testimoni le persone
aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio>>.

Tra i limiti oggettivi invece abbiamo:


1)Art.2721 cod. civ. – Ammissibilità (della prova testimoniale) : limiti di valore : << La prova per
testimoni dei contratti non è ammessa quando il valore dell'oggetto eccede euro 2,58.
Tuttavia l'autorità giudiziaria può consentire la prova oltre il limite anzidetto, tenuto conto della
qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza>>.
Il legislatore del 1940 ha stabilito l’inammissibilità della prova testimoniale in caso di contratti il cui
valore sia superiore ad euro 2,58 (prima : 5000 lire). Tale limite nel 1940 poteva anche essere
ritenuto ragionevole; oggi, invece, è un limite improponibile data l’inesistenza nella prassi di
contratti con valore inferiore a tale limite. Ciò nonostante, tale cifra non è stata rivalutata. E’
probabile che il legislatore non ne abbia avuto la necessità, perché l’art.2721, co.2°, contiene una
salvezza secondo cui il giudice << può consentire la prova oltre il limite anzidetto, tenuto conto
della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza>>.
La mancata rivalutazione è una circostanza standardizzata che legittima l’ammissione della prova
anche oltre il limite di euro 2,58 senza neppure più bisogno di motivare la scelta. Infatti, nella

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prassi, la prova testimoniale in tema di formazione di contratti finisce con l’essere ammessa quasi
sempre, togliendo quasi del tutto all’art.2721 tutto il contenuto precettivo.
2)Art.2722 – Patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento : <<La prova per testimoni non
è ammessa se ha per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si
alleghi che la stipulazione è stata anteriore o contemporanea>>.
3)Art.2723 – Patti posteriori alla formazione del documento : <<Qualora si alleghi che, dopo la
formazione di un documento, è stato stipulato un patto aggiunto o contrario al contenuto di esso,
l'autorità giudiziaria può consentire la prova per testimoni soltanto se, avuto riguardo alla qualità
delle parti, alla natura del contratto e a ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state
fatte aggiunte o modificazioni verbali>>.
Mentre l’art.2722 disciplina il caso dei patti (aggiunti o contrari al contenuto del documento)
stipulati anteriormente o contemporaneamente alla formazione del documento, l’art.2723
disciplina il caso in cui tali patti (sempre aggiunti o contrari al contenuto del documento) siano
stati stipulati posteriormente alla formazione del documento. Nel primo caso la prova testimoniale
non è in nessun caso ammessa; nel secondo caso dev’essere consentita dal giudice.

Tali limiti (divieti) oggettivi non sono però assoluti. I limiti oggettivi vengono infatti meno in alcuni
casi eccezionali, che rappresentano eccezioni del divieto della prova testimoniale. Tali eccezioni si
hanno:
1)Art.2724, n.1) : quando vi è un principio di prova per iscritto, che verrà rispettato da qualsiasi
documento – e non necessariamente una scrittura privata ai sensi dell’art.2702 cod. civ. – da cui si
desuma ragionevolmente la traccia dell’esistenza del fatto allegato (es. : lettera);
2)Art.2724, n.2) : quando il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi
una prova scritta. L’impossibilità materiale è un concetto che difficilmente può verificarsi perché,
per esserci tale impossibilità, bisognerebbe pensare ad una tragedia collettiva di tali dimensioni da
rendere impossibile la redazione di documenti; più facile è pensare ad un’impossibilità morale, che
si ha tutte le volte in cui chi dovrebbe rilasciare il documento, e non lo rilascia, è in un rapporto di
supremazia, anche solo morale o psicologica, tale da porre l’altra parte in una condizione di
soggezione che gli impedisca di insistere per il rilascio del documento;
3)Art.2724, n.3) : quando il contraente ha perduto senza sua colpa il documento che gli forniva la
prova. In questo caso la prova testimoniale sarà ammessa quando la parte dimostri che ha usato la
diligenza media nella conservazione del documento e dia una prova sufficiente del contenuto del
documento stesso.
In tutti e 3 i casi previsti dall’art.2724 la prova per testimoni è ammessa in ogni caso.
4)Art.2725 : <<Quando, secondo la legge o la volontà delle parti, un contratto deve essere provato
per iscritto, la prova per testimoni è ammessa soltanto nel caso indicato dal n. 3 dell'articolo
precedente.
La stessa regola si applica nei casi in cui la forma scritta è richiesta sotto pena di nullità>>.
L’art.2725 contiene anch’esso un’eccezione al divieto della prova testimoniale : spesso la legge
richiede che contratti ad probationem e ad substantiam (caso previsto dal comma 2°) devono
essere provati per iscritto, essendo così esclusa la prova testimoniale; eccezione a tale divieto, per
tali tipi di contratti, è il n.3) di cui all’art.2724, a cui l’art.2725 fa esplicito riferimento. Ne risulta

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che quando la legge impone che contratti ad substantiam o ad probationem devono essere provati
per iscritto, la prova testimoniale è normalmente esclusa, tranne <<quando il contraente ha senza
sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova>>.

Ora che sappiamo quando la prova testimoniale è ammessa, andiamo a vedere l’assunzione della
prova testimoniale.
Art.244 – Modo di deduzione (della prova testimoniale) : <<La prova per testimoni deve essere
dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli
separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata>>.
Le parti devono quindi fare una richiesta specifica delle persone da interrogare e dei fatti. Tale
richiesta è chiamata “capitolazione”, ed è formulata in articoli separati. Una volta fatta tale
richiesta, il giudice ammette la prova testimoniale con ordinanza.
Una volta ammessa la prova testimoniale, spetta alla parte interessata chiedere all’ufficiale
giudiziario di intimare il testimone a comparire nel luogo, nel giorno e nell’ora fissati dal giudice.
Secondo l’art.251 i testimoni sono esaminati separatamente (necessaria precauzione per garantire
la spontaneità della deposizione e per impedire che i testi possano influenzarsi a vicenda). Lo
stesso articolo 251 prevedeva l’obbligo del giuramento, mentre il codice di procedura penale
richiede una mera dichiarazione di impegno a dire la verità (la formula del c.p.p. è stata voluta in
considerazione del fatto che non si può costringere a giurare chi, per proprie convinzioni religiose,
non vuole farlo) : la Corte Costituzionale ha ricondotto la disciplina del c.p.c. a quella del c.p.p. .
Il giudice procede, quindi, all’identificazione del testimone e lo interroga dapprima sui rapporti di
parentela, affinità, affiliazione o dipendenza con alcuna delle parti, oppure di interesse nella causa,
con lo scopo di stabilirne l’attendibilità del teste e valutare se lo stesso debba essere escluso.
Il giudice procede poi, finalmente, all’interrogatorio. In base all’art.253 << Il giudice
istruttore interroga il testimone sui fatti intorno ai quali è chiamato a deporre. Può altresì
rivolgergli, d'ufficio o su istanza di parte, tutte le domande che ritiene utili a chiarire i fatti
medesimi>>. Quindi il giudice, di regola, dovrebbe rivolgere le domande secondo l’articolazione
ammessa, ma può comunque rivolgere tutte le domande utili a chiarire i fatti su cui il testimone è
chiamato a deporre; ciò perché il giudice è l’unico responsabile dell’audizione, non essendo
consentito alle parti e al p.m. di interrogare direttamente il testimone. Le parti possono, infatti,
solo chiedere al giudice di rivolgere domande ai testi.
In base all’art.256, se il teste rifiuta di rispondere o appare non veritiero o reticente, il giudice
redige apposito verbale che trasmette al p.m. .

LA CONFESSIONE

La confessione è la dichiarazione di scienza della parte relativa a fatti rilevanti per il processo che
siano a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra parte.
Nel delineare la confessione, il legislatore è partito dal presupposto che una persona, che sia
venuta a lite giudiziaria con un’altra, non dichiara circostanze di fatto a lei sfavorevoli se queste
circostanze non sono vere. Di conseguenza, ritiene che sulla verità di tali dichiarazioni si possa
riporre fiducia e costruisce una regola di valutazione delle stesse in base alla quale il giudice è
tenuto a darle per vere, non potendo sottoporle a valutazione critica.

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E’ per questo che la confessione è una prova legale, ma in alcuni casi disciplinati dalla legge è
liberamente apprezzata dal giudice, degradando così a prova libera.
La confessione è resa da una delle parti del giudizio; il testimone, invece, non è una parte
processuale, ma un terzo indifferente al giudizio.

Art.2730 cod. civ. – Nozione (della confessione) : <<La confessione è la dichiarazione che una
parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte.
La confessione è giudiziale o stragiudiziale>>.

Art.2731 cod. civ. - Capacità richiesta per la confessione : <<La confessione non è efficace se non
proviene da persona capace di disporre del diritto, a cui i fatti confessati si riferiscono.
Qualora sia resa da un rappresentante, è efficace solo se fatta entro i limiti e nei modi in cui questi
vincola il rappresentato>>.

Art.2733 cod. civ. – Confessione giudiziale : <<È giudiziale la confessione resa in giudizio.
Essa forma piena prova contro colui che l'ha fatta, purché non verta su fatti relativi a diritti non
disponibili.
In caso di litisconsorzio necessario, la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti è
liberamente apprezzata dal giudice>>.

Da tali articoli (2731 e 2733) si evince che la confessione si basa sulla disponibilità del diritto. Tale
disponibilità può essere intesa in senso soggettivo, nel caso previsto dall’art.2731, e in senso
oggettivo, nel caso previsto dall’art.2733.
La disponibilità in senso soggettivo richiesta dall’art.2731 è l’esigenza che il confitente possa
disporre del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono.
La disponibilità in senso oggettivo richiesta dall’art.2733, co.2°, è l’esigenza che la confessione
verta su diritti disponibili.
La differenza tra i 2 tipi sta nel fatto che in mancanza di disponibilità soggettiva la confessione non
è ammessa; la mancanza, invece, della disponibilità oggettiva – cioè il caso della confessione su
diritti indisponibili - degrada la confessione da prova legale a prova libera.

Altro caso a sé stante è quello dell’art.2733, co.3°, relativo al litisconsorzio necessario. Infatti, <<in
caso di litisconsorzio necessario, la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti è
liberamente apprezzata dal giudice>>. L’art.2733, quindi, ha ritenuto equiparare tale situazione
non a quella della indisponibilità soggettiva, ma a quella della indisponibilità oggettiva,
prevedendo che quando la confessione è resa da alcuni soltanto dei litisconsorti, la confessione
resa degrada a prova libera, cioè <<liberamente apprezzata dal giudice>>. Se l’avesse equiparata
all’indisponibilità soggettiva, la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti sarebbe stata
inammissibile.

In base all’art.2730, co.2°, la confessione può essere giudiziale o stragiudiziale.


Art.228 – Confessione giudiziale : <<La confessione giudiziale è spontanea [229] o provocata
mediante interrogatorio formale [230]>>.
La confessione giudiziale è la confessione resa nel processo.

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Questa può essere contenuta in qualsiasi atto processuale firmato dalla parte personalmente, e in
tal caso prende il nome di confessione spontanea(art.229); la confessione, però, può anche essere
la conseguenza delle risposte rese dalla parte in sede di interrogatorio formale, nel qual caso
assume il nome di confessione provocata.
La confessione provocata presuppone la distinzione tra interrogatorio libero e interrogatorio
formale : mentre le risposte all’interrogatorio libero possono essere utilizzate come argomenti di
prova, le altre possono dar vita alla prova legale. Il legislatore, con l’interrogatorio libero vuole
servirsi della collaborazione delle parti per delimitare il tema della lite e per individuare i fatti
realmente controversi; dell’interrogatorio formale si riserva invece l’uso al fine di verificare la
verità dei fatti controversi.
Insomma, l’interrogatorio formale è il mezzo, mentre la confessione è il fine.
In base all’art.230, <<l’interrogatorio deve essere dedotto per articoli separati e specifici>>, in
maniera che non solo (e non tanto) il giudice possa valutarne ammissibilità e rilevanza, ma che
soprattutto la parte interrogata, avutane preventiva conoscenza, possa con piena coscienza e
ponderazione preparare le risposte, consapevole del valore che potranno assumere. Ed è, perciò,
che le domande non possono riguardare fatti diversi, salva la possibilità per il giudice di chiedere
chiarimenti e delle parti (compresa quella interrogata) di concordare sull’utilità della diversa
domanda (art.230, 2° e 3° co.).

E’ evidente che, così come è costruito, difficilmente la parte interrogata risponderà ammettendo i
fatti a sé contrari; di norma li negherà o darà risposte complesse nelle quali, a fatti (a sé)
sfavorevoli, aggiungerà fatti a sé favorevoli (del tipo : è vero o è parzialmente vero che …, però …).
Questa ipotesi, che potrebbe riguardare anche la confessione giudiziale spontanea o stragiudiziale,
e che è detta confessione complessa, è stata presa in considerazione dall’art.2734.
Art.2734 – Dichiarazioni aggiunte alla confessione : << Quando alla dichiarazione indicata
dall'articolo 2730 si accompagna quella di altri fatti o circostanze tendenti a infirmare l'efficacia
del fatto confessato ovvero a modificarne o a estinguerne gli effetti, le dichiarazioni fanno piena
prova nella loro integrità se l'altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze
aggiunte. In caso di contestazione, è rimesso al giudice di apprezzare, secondo le circostanze,
l'efficacia probatoria delle dichiarazioni>>.
Con la c.d. confessione complessa, quindi, la parte che confessa dichiara sì fatti a sé sfavorevoli,
ma aggiungendo anche fatti che tendono ad elidere o modificare la portata confessoria della sua
dichiarazione.
In base allo stesso art.2734, il destinatario della confessione complessa può assumere 2
comportamenti:
-se contesta la confessione complessa, quest’ultima degraderà a prova libera;
-se non contesta la confessione complessa, quest’ultima varrà come prova legale.

La confessione stragiudiziale è invece disciplinata dall’art.2735 cod. civ. .


Art.2735 – Confessione stragiudiziale : <<La confessione stragiudiziale fatta alla parte o a chi la
rappresenta ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale.
Se è fatta a un terzo o se è contenuta in un testamento, è liberamente apprezzata dal giudice.
La confessione stragiudiziale non può provarsi per testimoni, se verte su un oggetto per il quale

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la prova testimoniale non è ammessa dalla legge>>.


La confessione stragiudiziale è una dichiarazione, di regola spontanea, resa fuori dal processo, nel
quale si controverte dei diritti correlati ai fatti confessati, personalmente alla parte o a chi la
rappresenta. Se resa alla parte (o a chi la rappresenta), questa costituisce prova legale; se è resa a
un terzo o è contenuta in un testamento, questa costituisce prova libera.

In conclusione, può essere non inutile sottolineare che il caso in cui la confessione ha valore di
prova legale nell’esperienza si verifica con una frequenza non maggiore del caso inverso : le
dichiarazioni relative a diritti indisponibili, quelle del litisconsorte, quelle derivanti da dichiarazioni
complesse che l’altra parte abbia contestate, quelle rese a un terzo che non sia la parte o il
rappresentate sono tutte dichiarazioni che il giudice può valutare liberamente.

IL GIURAMENTO

Il giuramento è una dichiarazione di verità di fatti decisivi per il giudizio che sono favorevoli a chi
giura e sfavorevoli all’altra parte. Il giuramento è una prova (nella prassi rara ed estrema) legale e
costituenda.
Col giuramento, a differenza di ciò che avviene con la confessione, il sapere della parte viene
utilizzato a suo vantaggio.
Tale utilizzazione è ritenuta possibile dal legislatore facendo assegnamento su due deterrenti che
dovrebbero scoraggiare le dichiarazioni mendaci : il senso dell’onore (non valendo o non valendo
per tutti il richiamo alla divinità e alle relative sanzioni d’ordine religioso) e la minaccia di pesanti
sanzioni penali.
Il giuramento è necessariamente una dichiarazione provocata. Lo strumento con cui si provoca la
dichiarazione giurata è il deferimento del giuramento, con cui la parte chiede di far decidere la lite
sulla base della dichiarazione giurata.
Il giuramento, come previsto dall’art.2736 cod. civ., è essenzialmente di 2 tipi : decisorio e
suppletorio.

Art.2736 cod. civ. – Specie (del giuramento) : <<Il giuramento è di due specie:
1) è decisorio quello che una parte deferisce all'altra per farne dipendere la decisione totale o
parziale della causa [c.p.c. 233];
2) è suppletorio quello che è deferito d'ufficio dal giudice a una delle parti al fine di decidere la
causa quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del tutto
sfornite di prova [c.p.c. 240], ovvero quello che è deferito al fine di stabilire il valore della cosa
domandata, se non si può accertarlo altrimenti [c.p.c. 241]>>.

Il giuramento decisorio è, quindi, quello che una parte deferisce all’altra per farne dipendere la
decisione totale o parziale della controversia. La parte che non presta il giuramento fa vincere la
lite alla controparte.
Il giuramento decisorio è disciplinato dagli articoli 233 e 234.

Art.233 – Deferimento del giuramento decisorio : << Il giuramento decisorio [2736 c.c.] può
essere deferito in qualunque stato della causa davanti al giudice istruttore, con dichiarazione fatta

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all'udienza dalla parte o dal procuratore munito di mandato speciale o con atto sottoscritto dalla
parte.
Esso deve essere formulato in articoli separati, in modo chiaro e specifico>>.

Art.234 – Riferimento (del giuramento decisorio) : << Finché non abbia dichiarato di essere pronta
a giurare, la parte, alla quale il giuramento decisorio è stato deferito, può riferirlo all'avversario nei
limiti fissati dal codice civile>>.

Quindi, di fronte al deferimento, l’altra parte ha scelte obbligate :


a)dichiara di volerlo prestare e lo presta, vincendo la lite;
b)riferisce all’altra parte il giuramento (cioè, deferisce a sua volta il giuramento alla controparte),
ribaltando su di lui la responsabilità della dichiarazione; il riferimento deve avere necessariamente
ad oggetto il medesimo giuramento precedentemente deferito;
c)dichiara di non voler prestare il giuramento o rifiuta di prestarlo, e soccombe.
Da tutto ciò si evince che la dichiarazione giurata si pone, piuttosto che come mezzo per
l’accertamento dei fatti, come strumento convenzionale di decisione della lite.

Art.238 – Prestazione : << Il giuramento decisorio è prestato personalmente dalla parte ed è


ricevuto dal giudice istruttore. Questi ammonisce il giurante sull'importanza morale dell'atto e sulle
conseguenze penali delle dichiarazioni false, e quindi lo invita a giurare.
Il giurante, in piedi, pronuncia a chiara voce le parole: «consapevole della responsabilità che col
giuramento assumo, giuro …», e continua ripetendo le parole della formula su cui giura>>.

Art.239, co.1° - Mancata prestazione : << La parte alla quale il giuramento decisorio è deferito, se
non si presenta senza giustificato motivo all'udienza all'uopo fissata, o, comparendo, rifiuta di
prestarlo o non lo riferisce all'avversario [234 c.p.c.], soccombe rispetto alla domanda o al punto di
fatto relativamente al quale il giuramento è stato ammesso; e del pari soccombe la parte
avversaria, se rifiuta di prestare il giuramento che le è riferito>>.

Gli articoli sulla cui base il giuramento è deferito devono riguardare fatti decisivi, ossia tali che
dalla loro fissazione possa dipendere la decisione totale o parziale della causa. Non sarà, pertanto,
necessaria una formulazione da cui dipenda la decisione di tutta la controversia, ma sarà
sufficiente che ne sia decisa una parte. A tal fine, si deve collegare la dichiarazione giurata a tutto
ciò che può formare oggetto di decisione ai sensi dell’art.279 e, pertanto, anche la decisione su
questioni pregiudiziali o preliminari potrà essere risolta sulla base del giuramento.
Il giudice deve però valutare se i fatti su cui la parte deve giurare riguardino un oggetto
ammissibile.
L’art.2739 c.c., relativo all’oggetto del giuramento, esclude che possa deferirsi giuramento :
a)su fatti relativi a diritti indisponibili;
b)sulla esistenza di un contratto per il quale la legge preveda la forma scritta ad substantiam;
c)per negare fatti che il pubblico ufficiale nel documento pubblico attesti essere avvenuti in sua
presenza;
d)su fatti illeciti.

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Per quanto riguarda la capacità delle parti per poter prestare giuramento, l’art.2737 ci riporta
all’art.2731, equiparando la capacità per il giuramento a quella per la confessione.

Art.2738 – Efficacia (del giuramento) : << Se è stato prestato il giuramento deferito o riferito,
l'altra parte non è ammessa a provare il contrario, né può chiedere la revocazione della sentenza
qualora il giuramento sia stato dichiarato falso [c.p.c. 395].
Può tuttavia domandare il risarcimento dei danni nel caso di condanna penale per falso
giuramento. Se la condanna penale non può essere pronunziata perché il reato è estinto, il giudice
civile può conoscere del reato al solo fine del risarcimento.
In caso di litisconsorzio necessario [c.p.c. 102], il giuramento prestato da alcuni soltanto dei
litisconsorti è liberamente apprezzato dal giudice>>.

Quindi, in base all’art.2738 c.c., contro la dichiarazione giurata non è ammessa la prova contraria,
e non ha alcuna rilevanza perfino la dichiarazione giudiziale della falsità del giuramento.
Il giudice dovrà comunque decidere il processo sulla base della dichiarazione giurata e la parte
danneggiata potrà successivamente chiedere il risarcimento dei danni.

Il comma 3° dell’art.2738 disciplina il caso del litisconsorzio necessario, dove il giuramento sia
stato prestato solo da alcuni dei litisconsorti. In questo caso, come nel caso della confessione
(art.2733,co.3°), il giuramento non è irrilevante, ma liberamente valutabile dal giudice,
degradando così da prova legale a prova libera.

Per quanto riguarda i tempi del deferimento del giuramento decisorio, tale richiesta può essere
fatta in qualunque stato della causa dinanzi al giudice istruttore. Ciò consente di dire che non può
essere presentata quando, precisate le conclusioni, la causa è stata rimessa al giudice della
decisione (ciò accade quando la decisione è rimessa al collegio); né può essere rivolta in
cassazione, dove non esiste giudice istruttore, ma soprattutto non si fa luogo ad attività istruttoria,
come meglio vedremo.

L’altro tipo di giuramento disciplinato dall’art.2736 c.c. è il giuramento suppletorio, che viene
usato per poter decidere la causa in presenza di un quadro probatorio incerto.
Il giuramento suppletorio può essere inteso come una forma di deferimento d’ufficio del
giuramento perché questo tipo di giuramento è deferito dall’organo investito della decisione della
causa.
L’art.2736 c.c. individua 2 ipotesi in cui tale tipo di giuramento è possibile:
a)quando la domanda o le eccezioni non sono pienamente provate, ma non sono del tutto sfornite
di prova;
b)quando si deve stabilire il valore della cosa domandata, se non lo si può accertare diversamente.

Quest’ultima ipotesi, che il codice civile fa rientrare nel giuramento suppletorio insieme all’ipotesi
a), è disciplinata anche dall’art.241 c.p.c., al quale quest’ultimo dà il nome di giuramento
d’estimazione (c.d. giuramento estimatorio).

Art.241 – Ammissibilità e contenuto del giuramento d’estimazione : << Il giuramento sul valore
della cosa domandata può essere deferito dal collegio a una delle parti, soltanto se non è possibile

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accertare altrimenti il valore della cosa stessa. In questo caso il collegio deve anche determinare la
somma fino a concorrenza della quale il giuramento avrà efficacia>>.

Dobbiamo precisare che l’impossibilità di accertare il valore della cosa deve essere oggettiva e
indipendente dal comportamento processuale della parte, per cui non è ammissibile il giuramento
in caso di decadenza della prova.

Col giuramento suppletorio ed estimatorio, insomma, il giudice che ha un quadro probatorio


incerto, piuttosto che rigettare la domanda, apre la strada ad un estremo tentativo probatorio,
quale è per l’appunto il giuramento deferito d’ufficio. Tale strumento, perciò, può essere inteso
come una sorta di correttivo alla regola di giudizio fondata sull’onere della prova.

LA CONSULENZA TECNICA D’UFFICIO (C.T.U.)

Il consulente tecnico è un soggetto con determinate competenze tecniche che, su incarico del
giudice, acquisisce informazioni particolari in funzione del processo.
La nomina del consulente tecnico, che rientra nel potere discrezionale del giudice, è effettuata da
quest’ultimo allo scopo di valutare elementi particolarmente specifici e specialistici, per la
comprensione dei quali il giudice non è in possesso delle opportune conoscenze tecniche.
Il consulente tecnico è perciò considerato un coadiutore del giudice, una specie di suo occhio
aggiuntivo che gli consente di notare fatti e circostanze che egli, con i suoi occhi, non sarebbe in
grado di percepire. Nell’art.61, infatti, leggiamo che <<quando è necessario, il giudice può farsi
assistere, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di
particolare competenza tecnica>>.
Di qui la deduzione che la consulenza tecnica, più che un mezzo di prova, è uno strumento
istruttorio utilizzabile dal giudice anche d’ufficio.
Oltre che dal giudice, la consulenza tecnica può essere chiesta anche dalle parti.
Una volta richiesta la consulenza, il giudice provvede alla nomina del consulente mediante
ordinanza. Il consulente, una volta accettato l’incarico, entro l’udienza successiva fissata dal
giudice dovrà provvedere a svolgere la sua attività, che sarà contenuta in un’apposita relazione.
Va da sé che la relazione del consulente è una sorta di “traduzione” dalla realtà che il giudice deve
comunque controllare. Il giudice potrà condividerla, ed in tal caso gli sarà sufficiente farne propri i
risultati; potrà, però, anche non accettarla, nel qual caso dovrà sufficientemente e adeguatamente
motivare il suo dissenso.

CONCLUSIONI SULLA FASE DELL’ISTRUTTORIA IN SENSO STRETTO

Salvo il caso in cui il giudice applichi l'art.187 - attraverso il quale il giudice rimette le parti a
precisare le conclusioni, saltando così la fase istruttoria - o una delle ordinanze decisorie previste
dagli articoli 186 bis, 186 ter e 186 quater, il processo di cognizione si caratterizza per la lunga fase
di raccolta delle prove (fase dell'istruzione in senso stretto), che vengono inserite nel processo
mediante udienza di assunzione dei mezzi di prova ex art.184.
L’istruttoria in senso stretto è quindi racchiusa nell’udienza (o nelle udienze) ex art.184.

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Art.184 – Udienza di assunzione dei mezzi di prova : <<Nell'udienza fissata con l'ordinanza prevista
dal settimo comma dell'articolo 183, il giudice istruttore procede all'assunzione dei mezzi di
prova ammessi>>.

Quindi, nel corso dell’udienza ex art.184 il giudice dovrebbe limitarsi ad assumere i mezzi di prova
in precedenza ammessi. L’assunzione dei mezzi istruttori ammessi, però, non deve
necessariamente esaurirsi in un’unica udienza, in quanto il giudice può, su richiesta di parte o
d’ufficio, differire l’espletamento del mezzo di prova ad altra successiva udienza. Questo avviene
nella maggior parte dei processi, perché il giudice si serve di più udienze ex art.184 per assumere i
mezzi di prova. La fase dell’istruttoria in senso stretto è perciò una fase di cui non possiamo
conoscere i tempi perché il giudice può servirsi di più udienze in base alle esigenze che nascono
dal processo.

Terminata l’udienza (o le udienze) di cui all’art.184, inizia la fase della riserva in decisione.

CAPITOLO 4° - LA FASE DELLA RISERVA IN DECISIONE


Art.188 – Attività istruttoria del giudice : <<Il giudice istruttore provvede all'assunzione dei mezzi
di prova e, esaurita l'istruzione, rimette le parti al collegio per la decisione a norma dell'articolo
seguente>>.

E’ da questo momento che inizia la fase della riserva in decisione, cioè dal momento in cui il
giudice istruttore – che ha terminato il suo compito in fase istruttoria – rimette le parti al collegio
per la decisione.

Dobbiamo però specificare che l’art.188 è formulato sul vecchio impianto del nostro codice di
procedura civile, dove le decisioni erano prese dal tribunale sempre in composizione collegiale.
Le recenti riforme, però, permettono che la decisione, in alcuni casi previsti dalla legge, possa
essere presa in composizione monocratica, cioè dallo stesso giudice istruttore, senza così
rimessione al collegio.
L’art.50 bis stabilisce le cause nelle quali il tribunale giudica in composizione collegiale, mentre
l’art.50 ter stabilisce che il tribunale giudica in composizione monocratica in tutti i casi non previsti
dall’art.50 bis. Dato che le decisioni che devono essere prese in composizione collegiale sono
limitate a pochi casi, siamo certi nell’affermare che le decisioni in composizione monocratica
costituiscono ormai la regola, mentre quelle in composizione collegiale l’eccezione.

Art.50 bis – Cause nelle quali il tribunale giudica in composizione collegiale : << Il tribunale giudica
in composizione collegiale:
1) nelle cause nelle quali è obbligatorio l'intervento del pubblico ministero, salvo che sia altrimenti
disposto;
2) nelle cause di opposizione, impugnazione, revocazione e in quelle conseguenti a dichiarazioni
tardive di crediti di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, [al decreto legge 30 gennaio 1979,
n. 26, convertito con modificazioni dalla legge 3 aprile 1979, n. 95,] e alle altre leggi speciali
disciplinanti la liquidazione coatta amministrativa;
3) nelle cause devolute alle sezioni specializzate;

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4) nelle cause di omologazione del concordato fallimentare e del concordato preventivo;


5) nelle cause di impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea e del consiglio di
amministrazione, nonché nelle cause di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi
amministrativi e di controllo, i direttori generali e i liquidatori delle società, delle mutue
assicuratrici e società cooperative, delle associazioni in partecipazione e dei consorzi;
6) nelle cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione per lesione di legittima;
7) nelle cause di cui alla legge 13 aprile 1988, n. 117 (responsabilità civile dei magistrati);
7-bis) nelle cause di cui all'articolo 140-bis del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6
settembre 2005, n. 206 (4).
Il tribunale giudica altresì in composizione collegiale nei procedimenti in camera di
consiglio disciplinati dagli articoli 737 e seguenti, salvo che sia altrimenti disposto>>.

In tali casi il collegio è composto da 3 giudici, di cui uno è il giudice istruttore.

La fase della “riserva in decisione” va correlata soltanto alle cause decise in composizione
monocratica. Abbiamo deciso di chiamare così tale fase che precede la sentenza perché la maggior
parte delle decisioni vengono prese in composizione monocratica, mentre quelle prese in
composizione collegiale sono riservate soltanto a cause più delicate. Per queste ultime, allora, non
si parla di “fase della riserva in decisione”, ma semplicemente di “rimessione al collegio”.

La fase della riserva in decisione si articola in diverse attività.

1)La prima attività dopo la rimessione al collegio (se si tratta di cause decise in composizione
collegiale) è la precisazione delle conclusioni ex art.189.

Art.189 – Rimessione al collegio : << Il giudice istruttore, quando rimette la causa al collegio, a
norma dei primi tre commi dell'articolo 187 o dell'articolo 188, invita le parti a precisare davanti a
lui le conclusioni che intendono sottoporre al collegio stesso, nei limiti di quelle formulate negli
atti introduttivi o a norma dell'articolo 183. Le conclusioni di merito debbono essere interamente
formulate anche nei casi previsti dall'articolo 187, secondo e terzo comma.
La rimessione investe il collegio di tutta la causa, anche quando avviene a norma dell'articolo 187,
secondo e terzo comma.

La precisazione delle conclusioni ad opera delle parti rappresenta una facoltà e non un obbligo.
Con la precisazione delle conclusioni le parti fanno le ultime richieste al giudice, sempre nei limiti
di quanto esposto nell’atto introduttivo (citazione) o nella fase della trattazione.

La fase di cui stiamo parlando si chiama “riserva” in decisione perché il giudice non decide il
giudizio subito dopo la precisazione delle conclusioni, ma, per l’appunto, si “riserva” la decisione
ad un momento successivo.

2)Infatti, dal giorno della riserva in decisione, decorrono 60 giorni per le parti per depositare
comparse conclusionali e memorie, a norma dell’art.190. Tale deposito rappresenta la seconda
attività della fase della riserva in decisione.
La comparsa conclusionale è l’atto nel quale il difensore, sulla base delle risultanze dell’istruzione

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probatoria, riassume e coordina tutte le difese della parte assistita, così come definitivamente
formulate in sede di precisazione delle conclusioni ex art.189. Le comparse conclusionali sono atti
riconducibili alla sola tecnica del difensore ed hanno la funzione esclusiva di illustrare le posizioni
precedentemente assunte, nonché le domande e le eccezioni tempestivamente proposte : di
conseguenza non sono idonee a contenere nuove domande.
Scaduti tali 60 giorni, decorrono altri 20 giorni per il deposito delle memorie di replica, con le quali
la parte risponde alle comparse della controparte.
Il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie è disciplinato dall’art.190.
Art.190 – Comparse conclusionali e memorie : <<Le comparse conclusionali debbono essere
depositate entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla rimessione della causa al collegio e
le memorie di replica entro i venti giorni successivi.
Per il deposito delle comparse conclusionali il giudice istruttore, quando rimette la causa al
collegio, può fissare un termine più breve, comunque non inferiore a venti giorni>>.

Trascorsi questi 80 giorni (60+20), il giudice ha 30 giorni per depositare la sentenza.

CAPITOLO 5° - LA FASE DELLA DECISIONE


INTRODUZIONE

La fase della decisione rappresenta l’ultima fase del processo di cognizione. Di tutte le fasi viste
finora abbiamo potuto notare che l’unica fase non indispensabile è la fase dell’istruzione in senso
stretto.
Abbiamo visto che Il giudice può, già in fase istruttoria, emettere una delle ordinanze decisorie
previste dagli articoli 186 bis, 186 ter e 186 quater, arrivando così direttamente dalla fase
istruttoria alla decisione.
Ma è inoltre possibile saltare completamente la fase dell’istruzione in senso stretto quando:
-le parti non abbiano fatto richiesta di prove costituende;
-le prove costituende richieste dalle parti sono state ritenute dal giudice irrilevanti o inammissibili;
-le prove sono tutte documentali;
-bisogna risolvere una questione di puro diritto.
In questi casi il giudice può saltare la fase dell’istruzione in senso stretto e passare direttamente
alla precisazione delle conclusioni, passando cioè dall’art.183 all’art.189.

Ma abbiamo visto anche che il giudice può saltare la fase dell’istruttoria in senso stretto anche
attraverso i provvedimenti di cui all’art.187. In questo caso la fase istruttoria viene saltata e le
parti vengono rimesse dal giudice direttamente al collegio, quindi direttamente alla fase
decisionale. Abbiamo già detto che ciò è possibile quando :
a)quando non c’è bisogno di assumere prove (ad es., perché i fatti di causa sono incontroversi o
perché la questione è di puro diritto o ancora perché la controversia è basata su prove
documentali) (art.187, co.1°);
b)quando sia stata sollevata una questione preliminare di merito idonea a definire il giudizio
(art.187, co.2°);
c)quando sia sorta una questione pregiudiziale, cioè una questione attinente alla giurisdizione o

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alla competenza o ad altre pregiudiziali, la cui decisione possa rendere impossibile la definizione
del merito (art.187, co.3°).

Le questioni preliminari di merito di cui all’art.187, co.2° e le questioni pregiudiziali di cui


all’art.187, co.3° sono richiamate dall’art.279 n.2). Tale richiamo ci permette di introdurre il
discorso sulle sentenze definitive e non definitive.

LE SENTENZE DEFINITIVE E NON DEFINITIVE

Art.279 – Forma dei provvedimenti del collegio : <<Il collegio pronuncia ordinanza quando
provvede soltanto su questioni relative all'istruzione della causa, senza definire il giudizio, nonché
quando decide soltanto questioni di competenza. In tal caso, se non definisce il giudizio, impartisce
con la stessa ordinanza i provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa.
Il collegio pronuncia sentenza:
1) quando definisce il giudizio, decidendo questioni di giurisdizione;
2) quando definisce il giudizio, decidendo questioni pregiudiziali attinenti al processo o questioni
preliminari di merito (art.187);
3) quando definisce il giudizio, decidendo totalmente il merito;
4) quando, decidendo alcune delle questioni di cui ai numeri 1, 2 e 3, non definisce il giudizio e
impartisce distinti provvedimenti per l'ulteriore istruzione della causa>>.

In questo caso, trattandosi dei provvedimenti decisori, il riferimento al collegio deve intendersi
all’organo giudicante e comprende, quindi, anche le decisioni prese dal tribunale in composizione
monocratica, in quanto applicabili.
L’art.279 ci dice quand’è che il giudice pronuncia ordinanza, e quand’è che pronuncia sentenza.
Le ordinanze, come sappiamo, sono i provvedimenti che vengono adottati dal giudice durante la
fase istruttoria; cioè, quei provvedimenti che non definiscono il giudizio.
Le sentenze sono invece pronunciate in tutti i casi previsti dai numeri 1) a 5) dell’art.279.
I numeri 1), 2) e 3) non creano problemi perché si tratta di sentenze che definiscono il giudizio. Si
tratta, in questi casi, di sentenze definitive, in quanto, con la loro pronuncia, il giudice chiude
definitivamente il processo dinanzi a sé, “spogliandosi” così del processo.
Ciò su cui dobbiamo soffermarci è il n.4) dell’art.279, perché prevede il caso in cui il giudice abbia
sì deciso sulle questioni di cui ai nn. 1), 2) e 3), ma non definendo il giudizio e impartendo
provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa. E’ in questo caso che si hanno le sentenze non
definitive. In questo caso, infatti, la decisione è comunque presa con sentenza, ma la “non
definitività” della stessa è data dal fatto che il giudice <<impartisce distinti provvedimenti per
l’ulteriore istruzione della causa>>, e proprio perché impartisce tali ulteriori provvedimenti per
l’istruzione, non chiude il giudizio dinanzi a sé (a differenza di quelle definitive, dove il giudice
chiude definitivamente il processo dinanzi a sé).
Ciò significa che il giudizio continua dinanzi allo stesso giudice, ritornando così alla fase
dell’istruzione in senso stretto.
Proprio perché, in questo caso, il giudizio prosegue dinanzi allo stesso giudice, la sentenza non
definitiva è sempre accompagnata da un provvedimento ulteriore e aggiuntivo, emanato con

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ordinanza, finalizzato a rimettere la causa (o la residua parte della causa) in istruttoria. Questa
ordinanza ha quindi lo scopo di dare istruzioni per il prosieguo del processo.

In particolare, si ha sentenza non definitiva quando il giudice decide in modo non ostativo (alla
prosecuzione del giudizio) sulle questioni di cui ai nn. 1) e 2), o quando, in relazione al n. 3), decida
sì il merito, ma solo parzialmente.
Riassumendo, possiamo ora affermare che le sentenze non definitive sono sentenze che si
pronunciano quando il giudice decide in modo non ostativo su:
1)Questioni di giurisdizione;
2)Questioni pregiudiziali;
3)Questioni preliminari di merito;

o quando ci sia
4)decisione solo parziale nel merito.

Se invece il giudice avesse deciso “in senso ostativo”(alla prosecuzione del giudizio), si sarebbe
avuta una sentenza definitiva,e il giudizio sarebbe proseguito dinanzi ad altro giudice.

La sentenza non definitiva è una sentenza come tutte le altre dal punto di vista della
soccombenza; ciò significa che la sentenza non definitiva può essere impugnata.

Da questo discorso si evince che in fase istruttoria, normalmente, si procede con ordinanza perché
non c’è definizione del giudizio; nella stessa istruttoria, però, Il giudice può pronunciare sentenza
nei casi previsti dall’art.279. A prescindere che la sentenza sia poi definitiva o non definitiva, in
questi casi viene comunque saltata la lunga fase dell’istruzione in senso stretto. Perciò, le sentenze
di cui all’art.279 rappresentano un ulteriore caso in cui si passa direttamente alla fase della riserva
in decisione, saltando l’istruzione in senso stretto, e non seguendo così lo schema del normale
svolgimento del processo.

I MODELLI DELLA FASE DECISORIA

I modelli della fase decisoria sono diversi secondo che il processo penda davanti al tribunale e sia
affidato alla decisione del giudice singolo ovvero alla decisione del collegio; ovvero dinanzi al
giudice di pace.

A)Processo dinanzi al tribunale con decisione affidata al giudice singolo. In questo caso la regola
è che la causa sia decisa dal giudice designato a norma dell’art.168 bis o dall’art.484, 2° co.
In questo caso i modelli decisori sono 2:
1)decisione a seguito di trattazione scritta o mista (art.281 quinquies): tale modello si riconduce
alle regole che abbiamo esposto finora e si concreta nel fatto che il giudice, dopo la precisazione
delle conclusioni a norma dell’art.189, dispone, a norma dell’art.190, lo scambio delle comparse
conclusionali, da depositare entro il termine perentorio di 60 giorni dall’udienza di precisazione
delle conclusioni, e delle memorie di replica (da depositare nei 20 giorni successivi); quindi
deposita la sentenza nei 30 giorni successivi;
Il secondo comma prevede invece una variante a tale modello e si caratterizza per il fatto che,

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dopo lo scambio delle comparse conclusionali nel termine di 60 giorni, il termine ulteriore per
depositare le memorie è sostituito da una discussione orale che una qualsiasi parte può chiedere
al giudice (si ritiene che tale richiesta possa essere fatta fino all’udienza di precisazione delle
conclusioni). Tale udienza di discussione deve essere fissata dal giudice non oltre 30 giorni dalla
scadenza del termine per il deposito delle comparse. E’ per questa variante che la decisione
avviene a seguito di “trattazione mista”: perché abbiamo sia il deposito delle comparse
conclusionali, sia la discussione orale delle memorie (di replica);
2)decisione a seguito di trattazione orale (art281 sexies): con tale tipo di decisione il giudice salta i
termini per i depositi delle comparse conclusionali e delle memorie e ordina la discussione orale
stesso nell’udienza in cui vengono precisate le conclusioni o in un’udienza successiva. Al termine
della discussione il giudice pronuncia sentenza e la deposita in cancelleria. Tale norma è finalizzata
alla rapida conclusione del processo.

B)Processo dinanzi al tribunale con decisione affidata al collegio (artt.190 e 275). In questo caso
restano ferme le regole sullo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di cui
all’art.190, ma con una particolarità : la facoltatività della discussione orale. Ciascuna delle parti,
infatti, nell’udienza in cui precisano le conclusioni, <<può chiedere che la causa sia discussa
oralmente dinanzi al collegio. In tal caso, fermo restando il rispetto dei termini indicati
nell'articolo 190 per il deposito delle difese scritte, la richiesta deve essere riproposta al presidente
del tribunale alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica.
Il presidente provvede sulla richiesta fissando con decreto la data dell'udienza di discussione, da
tenersi entro sessanta giorni. Nell'udienza il giudice istruttore fa la relazione orale della causa.
Dopo la relazione, il presidente ammette le parti alla discussione; la sentenza è depositata in
cancelleria entro i sessanta giorni successivi>>(art.275).
La discussione orale, che è facoltativa, presuppone quindi una richiesta, anche di una sola parte, al
momento della precisazione delle conclusioni, e che tale richiesta sia reiterata al presidente del
tribunale alla scadenza dei termini di cui all’art.190. L’udienza di discussione segna l’ultimo
momento del processo prima della decisione, non essendo più consentita alle parti, all’esito,
alcuna attività processuale. Ripetiamo che tale disposizione è applicabile nei soli casi previsti
dall’art.50 bis, in cui il tribunale decide in composizione collegiale.

C)Processo dinanzi al giudice di pace (art.321). La fase decisoria è disciplinata dal nuovo art.321.
Art.321 – Decisione : <<Il giudice di pace, quando ritiene matura la causa per la decisione, invita le
parti a precisare le conclusioni e a discutere la causa.
La sentenza è depositata in cancelleria entro 15 giorni dalla discussione>>.
Tale norma fa parte di quelle che strutturano il processo innanzi al giudice di pace come un
processo ispirato al principio di oralità, concentrazione e semplificazione delle forme. Infatti,
l’udienza finale è concentrata e semplificata perché sono accorpate la precisazione delle
conclusioni, la discussione (orale) e lo scambio delle relative comparse (che di regola avviene in
udienza, a meno che il giudice non conceda esplicito termine per il deposito).

CAPITOLO 6° - LO SVOLGIMENTO ANOMALO DEL PROCESSO

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LA CONTUMACIA

Abbiamo già detto nel libro 1° che la contumacia è lo stato della parte che non si costituisce in
giudizio. Ovviamente la contumacia non può pregiudicare il corso del processo, che prosegue
ugualmente. Se così non fosse, infatti, alla parte che volesse ostacolare un processo a lei non
gradito sarebbe sufficiente non costituirsi.

Il concetto di contumacia va tenuto distinto da quello di “assenza”. Il contumace è la parte non


costituita in giudizio; la parte assente, invece, è costituita in giudizio, ma non si presenta in
udienza.

Come abbiamo già detto, il convenuto si costituisce in giudizio mediante il deposito in cancelleria
della comparsa di risposta, mentre l’attore si costituisce in giudizio mediante iscrizione a ruolo
della causa. Ciò significa che la contumacia può riguardare sia il convenuto, sia l’attore.
Se l’attore non iscrive a ruolo la causa e il convenuto non deposita la comparsa di risposta (art.171
co. 1°), il processo entra in uno stato di quiescenza : inizia cioè una fase che porta all’estinzione
dello stesso, il cui rimedio è la riassunzione di cui all’art.307, 1°co. .

Diverso è il caso della costituzione tardiva:

-se una delle parti si costituisce nel termine a lei assegnato, l’altra può costituirsi anche
successivamente fino alla prima udienza (se lo fa il convenuto restano ovviamente ferme le
decadenze di cui all’art.167) (art.171 co. 2°), e se non si costituisce nemmeno in tale udienza il
giudice ne dichiara la contumacia;

-se una delle parti si costituisce tardivamente e l’altra non si costituisce, il giudice istruttore dovrà
ordinare la cancellazione della causa dal ruolo.

Analizziamo ora singolarmente la contumacia dell’attore e la contumacia del convenuto.

Art.290 – Contumacia dell’attore : <<Nel dichiarare la contumacia dell'attore a norma


dell'articolo 171 ultimo comma, il giudice istruttore, se il convenuto ne fa richiesta, ordina che sia
proseguito il giudizio e dà le disposizioni previste nell'articolo 187, altrimenti dispone che la causa
sia cancellata dal ruolo e il processo si estingue>>.
In questo caso, quindi, l’attore non ha iscritto la causa a ruolo, e a tale incombenza a provveduto il
convenuto. Se in prima udienza l’attore non si è ancora costituito, il processo può continuare, ma
tutto dipende dal comportamento del convenuto : se chiede la continuazione del processo, questo
continua; se non la chiede, il processo si estingue.

Art.291 – Contumacia del convenuto : << Se il convenuto non si costituisce e il giudice istruttore
rileva un vizio che importi nullità nella notificazione della citazione, fissa all'attore un termine
perentorio per rinnovarla. La rinnovazione impedisce ogni decadenza.
Se il convenuto non si costituisce neppure all'udienza fissata a norma del comma precedente, il
giudice provvede a norma dell'articolo 171, ultimo comma.

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Se l'ordine di rinnovazione della citazione di cui al primo comma non è eseguito, il giudice ordina
la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue a norma dell'articolo 307, comma
terzo>>.
Con la contumacia del convenuto il processo normalmente prosegue, però, il giudice deve prima
valutare se la contumacia è dovuta ad un vizio della vocatio in ius. Infatti, se c’è vizio della
notificazione della citazione, il giudice ordina all’attore la rinnovazione della stessa, la cui sanatoria
ha effetti ex tunc. Se l’attore non provvede a tale rinnovazione il giudice ordina la cancellazione
della causa dal ruolo e il processo si estingue. Se l’attore provvede alla rinnovazione e il convenuto
rimane ugualmente contumace, il processo prosegue.

Fermo che alla parte contumace, attore o convenuto che sia, nulla va notificato, ci sono però
alcuni atti e provvedimenti che vanno comunque notificati al contumace. Tali atti e provvedimenti
possono essere pregiudizievoli e devono lo stesso essere notificati per dare la possibilità al
contumace di potersi costituire in un momento successivo. Tali atti sono previsti dall’art.292 e
sono:
1)l’ordinanza che ammette l’interrogatorio formale (perché se la parte che non si presenta a
rendere l’interrogatorio formale, il giudice può ritenere come ammessi i fatti dedotti
nell’interrogatorio);
2)l’ordinanza che ammette il giuramento (perché la parte che non giura perde la lite);
3)le comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali.

Questi sono gli unici atti che vanno notificati al contumace. Tutti gli altri si considerano comunicati
con il deposito in cancelleria (art.292, co. 2°).

La Corte Costituzionale, mediante sentenza del 6 giugno 1989, n.317,ha però ammesso un altro
tipo di atto che va comunque notificato alla parte contumace:
4)verbale in cui si dà atto della produzione di scrittura private mai indicate in atti notificati in
precedenza.
Tale atto è stato aggiunto all’elenco di quelli che devono comunque essere notificati perché, in
base all’art.215 n.1), <<la scrittura privata prodotta in giudizio si ha per riconosciuta se la parte
contro la quale è prodotta è contumace, salva la disposizione dell’art.293 terzo comma>>.
In base all’art.293, 3°co., il contumace può disconoscere la scrittura privata nella sua prima
udienza in cui si costituisce in giudizio (mentre, come sappiamo, la parte non contumace deve
disconoscere nella prima udienza del processo).
La Corte Costituzionale è perciò intervenuta aggiungendo anche questo atto perché il contumace
che non si costituisce in giudizio per tutto il processo non può mai sapere se la parte processuale
abbia prodotto una scrittura privata contro di lui. Se, invece, viene notificato al contumace il
verbale in cui si dà atto della produzione della scrittura privata, questi può intervenire
costituendosi in giudizio e disconoscendo nella sua prima udienza la scrittura privata prodotta.

La parte, attore o convenuto che sia, ha tempo comunque per costituirsi fino all’udienza di
precisazione delle conclusioni. Più tardi si costituisce, più saranno le sue preclusioni, salvo che non
chieda la rimessione in termini (art.294).
Art.294 – Rimessione in termini : <<Il contumace che si costituisce può chiedere al giudice

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istruttore di essere ammesso a compiere attività che gli sarebbero precluse, se dimostra che la
nullità della citazione o della sua notificazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo o
che la costituzione è stata impedita da causa a lui non imputabile.
Il giudice, se ritiene verosimili i fatti allegati, ammette, quando occorre, la prova dell'impedimento,
e quindi provvede sulla rimessione in termini delle parti.
I provvedimenti previsti nel comma precedente sono pronunciati con ordinanza>>.
Solo attraverso la dimostrazione della sua contumacia incolpevole e involontaria il contumace può
essere rimesso in termini e compiere attività che gli sarebbero ormai precluse.

L’INTERRUZIONE DEL PROCESSO

L’interruzione del processo è un istituto posto a presidio del diritto alla difesa e del
contraddittorio. Il legislatore, in altri termini, individua qui alcuni casi in cui eventi che attengono
alle parti o ai difensori impediscono agli stessi di partecipare normalmente al processo e di
esercitarvi in modo completo il diritto di difesa. L’interruzione è perciò un istituto posto a presidio
del diritto di difesa perché permette, in alcuni casi interruttivi del processo, di arrivare comunque
alla decisione del merito, permettendo alle parti di difendersi ugualmente.

Gli eventi interruttivi sono individuati tassativamente dal legislatore e possono essere distinti in 2
categorie.
1)Eventi che colpiscono la parte o il suo rappresentante legale. Tra questi eventi abbiamo:
a)morte;
b)perdita della capacità processuale (es. : interdizione);
c)cessazione della rappresentanza legale (es. : rappresentanza legale dei genitori sui figli, che si
estingue col compimento del 18° anno d’età).

Questi eventi possono avverarsi prima della costituzione in giudizio o dopo la costituzione in
giudizio.
Se si verificano prima della costituzione in giudizio, si ha interruzione automatica del processo.
Se invece si verificano dopo la costituzione in giudizio, bisogna distinguere il caso della parte
costituita in giudizio personalmente (cioè, senza difensore), dal caso della parte costituita a mezzo
difensore.
-Se la parte è costituita personalmente, si ha interruzione automatica del processo. Tale situazione
è possibile solo :
-quando si tratti di cause dinanzi al giudice di pace con valore inferiore ad euro 1100;
-in caso di avvocato che si difende da solo.
-Se la parte è costituita a mezzo difensore, il processo sarà interrotto solo se l’evento interruttivo è
dichiarato dal difensore. Tale dichiarazione può essere fatta fino all’udienza di precisazione delle
conclusioni. Se il difensore non fa tale dichiarazione, il processo non si interrompe e prosegue.

2)Eventi che colpiscono il difensore. Tra questi eventi abbiamo:


a)morte;
b)radiazione dall’albo;
c)sospensione dall’albo;

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Tali eventi sono previsti dall’art.301. La norma non contempla la revoca del mandato o la rinuncia
allo stesso; la ratio è da ravvisare nell’esigenza di evitare che l’interruzione possa diventare
comodo espediente di dilazione. Il procuratore, nonostante la revoca o la rinuncia, è comunque
obbligato a continuare a difendere la parte fino alla sua sostituzione.
Al verificarsi di tali eventi si avrà interruzione automatica del processo.

Fino ad ora abbiamo parlato di interruzione del processo, che può essere automatica al verificarsi
dell’evento interruttivo, o può scaturire dalla dichiarazione dell’evento interruttivo da parte del
difensore. Ma cosa succede quando il processo viene interrotto?
Il processo entra in uno stato di quiescenza e può riprendere il suo corso attraverso 2 vie : la
prosecuzione ad iniziativa della parte colpita dall’evento interruttivo; la riassunzione ad opera
della parte contrapposta.
Sia l’una che l’altra sono atti d’impulso processuale, perché non servono ad instaurare un nuovo
processo, ma a consentire la ripresa dell’originario processo a partire dal punto in cui era stato
interrotto (con salvezza, pertanto, degli effetti sostanziali e processuali fino a quel momento
verificatisi).
La prosecuzione (art.302). Attivamente legittimata alla prosecuzione è la parte colpita dall’evento
interruttivo; se era una persona fisica, i successori (in caso di morte), il tutore (in caso di
interdizione), il curatore (nei casi di inabilitazione, scomparsa o fallimento), il maggiorenne (che
prima era minore), l’ex interdetto, l’ex inabilitato, l’ex assente; se era una persona giuridica è
invece legittimato alla prosecuzione l’ente che è succeduto, ovvero la persona fisica che ha
assunto l’ufficio di commissario straordinario, di curatore, ecc.
Le modalità della prosecuzione sono diverse secondo che sia già stata fissata la successiva udienza
di trattazione della causa, o questa udienza manchi : nel primo caso, basta che la parte depositi
(anche in cancelleria e prima dell’udienza) la comparsa di costituzione (con annessa procura) ed il
fascicolo; nel secondo caso, sarà necessario depositare nella cancelleria un ricorso col quale si
chiede al giudice la fissazione di un’udienza. Il giudice provvede alla fissazione dell’udienza con
decreto, che sarà notificato, insieme al ricorso, alle altre parti a cura dell’istante.
La riassunzione (art.303). La riassunzione, come abbiamo detto, è un tipico atto di impulso
processuale, che serve non solo a consentire la ripresa del processo, ma anche ad impedire che il
processo si estingua.
Si ha riassunzione quando la parte che ha subito l’evento interruttivo (o meglio, i suoi eredi) non si
attivi per la prosecuzione del processo, occupandosene così la controparte attraverso un atto di
riassunzione.
La forma dell’atto di riassunzione è quella della citazione, se è già stata fissata l’udienza o
comunque vi sia un’udienza già fissata, e quella del ricorso, se l’udienza non è stata fissata (qui è,
infatti, necessario che il giudice fissi la nuova udienza con decreto, che sarà notificato alla
controparte unitamente al ricorso). La giurisprudenza, peraltro, non dà molto peso alla distinzione
e considera i due atti fungibili, purché abbiano i requisiti necessari per il raggiungimento dello
scopo, che è quello della riattivazione del processo.

La riassunzione e la prosecuzione hanno un termine di decadenza : l’atto deve essere fatto entro 3
mesi dall’evento interruttivo. La Corte Costituzionale, a tal proposito, ha precisato che i 3 mesi

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decorrono dalla conoscenza legale che la parte ha dell’evento interruttivo. La parte ha conoscenza
legale dell’evento interruttivo quando quest’ultimo risulti da atti processuali (es. : un verbale
d’udienza).
Se viene chiesta prosecuzione o riassunzione, il processo viene ripreso nello stato in cui si trovava
al momento dell’evento interruttivo e prosegue come se non si fosse mai interrotto.
Se invece non viene chiesta riassunzione o prosecuzione, il processo, a norma dell’art.305, si
estingue

LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO

L’istituto della sospensione non va ascritto tanto ad uno svolgimento anomalo del processo,
quanto all’esigenza di accantonare la decisione sul merito, vuoi per esigenze di economia
processuale, vuoi per evitare il rischio di giudicati contraddittori. La premessa su cui riposa
l’istituto, a ben vedere, è l’influenza che su un processo può esercitare la soluzione di un altro
processo.

Art.295 – Sospensione necessaria : <<Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in
cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la
decisione della causa>>.

Si ha, quindi, sospensione quando ci sono 2 giudizi pendenti, dove l’uno dipende dall’altro.
Abbiamo, perciò, 2 cause, che sono dette “pregiudiziali” e “pregiudicate” : la causa che verrà
sospesa è quella pregiudicata, mentre quella che prosegue è la pregiudiziale.
Si avranno, pertanto, 2 processi autonomi e paralleli, dei quali uno va sospeso in attesa del
giudicato sulla sentenza della causa pregiudiziale.
La sospensione è detta <<necessaria>> perché il giudice è obbligato a sospendere la causa
pregiudicata, per evitare giudicati contrastanti in qualunque fase del procedimento.
La sospensione produce l’interruzione dei termini (salvando così gli effetti sostanziali e processuali
dell’atto introduttivo) e la paralisi temporanea delle attività processuali; nel processo sospeso,
infatti, non possono essere compiuti atti e se, nonostante il divieto fossero compiuti, gli atti
sarebbero nulli.

Nella pratica, il provvedimento attraverso il quale il giudice sospende il processo assume la forma
dell’ordinanza. Con tale ordinanza il giudice può fissare l’udienza in cui il processo deve
proseguire. Se nel provvedimento non è invece stata fissata l’udienza per far proseguire il
processo, l’onere di dare impulso al procedimento (sospeso) ricade sulla parte interessata. Ciò
deve avvenire nel termine perentorio di 3 mesi <<dalla cessazione della causa di sospensione>>
(art.297), pena l’estinzione del processo. La parte interessata deve, pertanto, presentare un
ricorso al giudice, il quale, con decreto, fissa la nuova udienza. Ricorso e decreto devono essere
notificati alle altre parti nel termine fissato dal giudice. In mancanza di tempestiva notificazione, il
processo si estingue.

L’ESTINZIONE DEL PROCESSO

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Si ha estinzione del processo quando quest’ultimo si chiude senza pervenire a una decisione
definitiva sulla controversia. L’estinzione è regolata dagli artt.306 ss. e rappresenta un’eccezione
in senso ampio.
Le cause che portano all’estinzione del processo sono : la rinuncia agli atti e l’inattività delle parti.

1)Estinzione per rinuncia agli atti (art.306). La rinunzia agli atti del giudizio consiste nell’espressa
dichiarazione, della parte o del suo procuratore speciale (o anche del difensore, se tale facoltà è
specificamente prevista nel mandato ad litem), di voler porre fine al giudizio senza giungere ad
una pronunzia di merito.
Con la rinuncia agli atti la parte conserva la facoltà di riproporre nuovamente la medesima
domanda.
Diversa è, invece, la rinuncia all’azione, consistente nella dichiarazione di rinunziare alla situazione
azionata in giudizio e che, incidendo sul diritto sostanziale, preclude la possibilità di riproporre la
domanda.
La rinuncia agli atti deve essere accettata dalla controparte perché, come chiarisce l’art.306, 1° co.,
quest’ultima potrebbe aver interesse alla prosecuzione del processo.
L’accettazione non è necessaria quando il convenuto sia contumace, e quando, pur costituito,
abbia sollevato soltanto eccezioni di rito. Da questi 2 dati, infatti, si evince che la controparte non
ha <<interesse alla prosecuzione del processo>> perché, se avesse sollevato, invece, eccezioni di
merito, avrebbe avuto interesse alla prosecuzione.
Le dichiarazioni di rinuncia e di accettazione sono fatte dalle parti o da loro procuratori speciali,
verbalmente all’udienza o con atti sottoscritti e notificati alle altre parti (art.306, 2°co.).
Il giudice, se la rinuncia e l’accettazione sono regolari, dichiara l’estinzione del processo (art.306,
3°co.). Il provvedimento ha la forma dell’ordinanza, e senza tale provvedimento il processo
continua a pendere.

2)Estinzione per inattività delle parti (art.307). L’idea che è a base dell’istituto è quella di una
sanzione : se le parti non pongono in essere gli atti necessari perché il processo abbia il suo corso
normale, se ne deve dichiarare l’estinzione.

Si distinguono, al riguardo, 2 ipotesi di inattività : inattività semplice e inattività qualificata.


-INATTIVITA’ SEMPLICE(1°comma) : le ipotesi di inattività semplice producono l’effetto estintivo
solo in seguito alla mancata o intempestiva riassunzione dopo un periodo di quiescenza; con
l’inattività semplice si ha prima la cancellazione dal ruolo, poi l’estinzione se il processo non viene
riassunto. E’ per questo che si dice che l’estinzione per inattività semplice consegue a 2 omissioni :
la prima che ha provocato la cancellazione della causa dal ruolo, e la seconda che consiste nella
mancata riassunzione. Esempi di inattività semplice sono:
-art.171, dove nessuna delle parti si costituisce in giudizio nei termini stabiliti; in questo caso, la
causa non è iscritta a ruolo, ma il processo resta quiescente per 3 mesi che decorrono dall’ultimo
giorno utile per la costituzione del convenuto;
-art.270, dove il giudice ordina la chiamata del terzo a norma dell’art.107 e la parte non provvede
alla citazione del terzo.
-INATTIVITA’ QUALIFICATA : le ipotesi di inattività qualificata (in quanto più “gravi”) producono

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immediatamente l’estinzione; quindi, l’estinzione per inattività qualificata consegue soltanto ad


una omissione, cioè quella che provoca direttamente l’estinzione del processo senza passare per
lo stato di quiescenza. Esempi di inattività qualificata sono :
-mancata comparizione delle parti ex art.181, 2° co. (l’attore costituito non compare né alla prima
né alla successiva udienza e il convenuto non chiede che si proceda in sua assenza);
-art.290, dove l’attore resta contumace e il convenuto non chiede che si proceda in contumacia;
-art.291, dove l’attore non provvede alla rinnovazione della citazione;
-art.102, dove il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio in caso di litisconsorzio
necessario.

Gli effetti dell’estinzione (art.310). L’estinzione non estingue l’azione. Ciò vuol dire che la parte
conserva il diritto ad ottenere dal giudice il provvedimento che aveva chiesto nel procedimento
estinto, a meno che il suo diritto non si sia prescritto.
Se il processo si estingue, infatti, l’effetto interruttivo della prescrizione resta fermo, ma viene
meno l’effetto sospensivo, e la data della prescrizione si calcola a ritroso dalla data della domanda;
ciò significa che se il processo si estingue in un momento successivo al periodo di prescrizione,
poiché viene meno l’effetto sospensivo,e la prescrizione si calcola a ritroso, il diritto si è prescritto
e la parte non può più chiedere al giudice il provvedimento chiesto nel procedimento estinto.
L’azione, quindi, si estingue se nel frattempo il diritto si è prescritto.

Altro effetto dell’estinzione è che del processo viene tutto meno, tranne le sentenze di merito
(solo quelle non definitive, perché con sentenza definitiva il processo si chiude e non ha luogo
l’estinzione) e le pronunce emanate dalla cassazione che regolano la competenza e la
giurisdizione.

CAPITOLO 7° - LE IMPUGNAZIONI IN GENERALE


LE IMPUGNAZIONI ORDINARIE E STRAORDINARIE

Come abbiamo visto, il processo termina con una sentenza pronunziata dal giudice col quale si
statuisce chi ha vinto e chi ha perso la lite. La parte soccombente, però, può impugnare tale
sentenza attraverso i mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento.
I mezzi di impugnazione sono, perciò, strumenti posti a disposizione della parte soccombente
interessata alla rimozione del provvedimento ad essa pregiudizievole. L’impugnazione consente il
riesame, in senso lato, della sentenza, mettendo a disposizione delle parti che vi abbiano interesse
la possibilità di censurare la decisione in essa contenuta e di ottenere un nuovo accertamento
sullo stesso diritto o rapporto giuridico sostanziale fatto valere davanti al giudice di primo grado,
ovvero un controllo sui vizi di giudizio o di procedura, che possono inficiare quell’accertamento.

Il titolo III del libro 2° del nostro codice di procedura civile è dedicato alle impugnazioni.
I mezzi di impugnazione sono elencati dall’art.323. Tale elencazione ha carattere tassativo.

Art.323 – Mezzi di impugnazione : <<I mezzi per impugnare le sentenze, oltre al regolamento di
competenza [42 c.p.c. ss.] nei casi previsti dalla legge, sono: l'appello [339 ss.], il ricorso per
cassazione [360 ss.], la revocazione [395 ss.] e l'opposizione di terzo [404 ss.]>>.

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Art.324 – Cosa giudicata formale : <<Si intende passata in giudicato la sentenza che non è più
soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a
revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell'articolo 395>>.

Mentre l’art.323 ci elenca tutti i mezzi di impugnazione, l’art.324 – attraverso il concetto di


sentenza passata in giudicato – ci permette di fare una distinzione tra i mezzi di impugnazione,
cioè la distinzione tra impugnazioni ordinarie e impugnazioni straordinarie.

Le impugnazioni ordinarie sono le impugnazioni previste dall’art.324 che sono proponibili solo
contro sentenze non ancora passate in giudicato, e la loro eventuale mancata proposizione nei
termini determina il formarsi della cosa giudicata. Le sentenze, infatti, passano in giudicato proprio
quando non vengono impugnate nei termini stabiliti dalla legge. E’ per questo che si dice che le
impugnazioni ordinarie condizionano il passaggio in giudicato della sentenza, perché, fin quando
proponibili, la sentenza non passa ancora in giudicato.
Sul giudicato ci soffermeremo in seguito, ma per ora accenniamo che una sentenza che passa in
giudicato è una sentenza irretrattabile, cioè incontestabile successivamente in giudizio ad opera
delle parti e del giudice. Gli effetti della sentenza passata in giudicato divengono, perciò,
immutabili.

Le impugnazioni ordinarie sono :


-REGOLAMENTO DI COMPETENZA;
-APPELLO;
-RICORSO PER CASSAZIONE;
-REVOCAZIONE PER I MOTIVI DI CUI AI NUMERI 4 E 5 DELL’ART.395.

Le impugnazioni ordinarie hanno dei termini entro i quali è possibile proporle. Tali termini possono
essere brevi o lunghi.
I termini brevi sono previsti dall’art.325 e sono : 30 giorni per l’appello; 60 giorni per il ricorso per
cassazione; i termini per la revocazione e per l’opposizione di terzo hanno una disciplina a parte
che vedremo in seguito. Il termine breve decorre dalla notifica della sentenza; ciò significa che per
decorrere necessita di un impulso di parte. Può accadere però che non ci sia tale impulso, e che la
sentenza non venga perciò notificata. In tal caso, per evitare che resti sempre aperto il termine per
impugnazione, l’art.327 prevede che <<l'appello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i
motivi indicati nei numeri 4 e 5 dell'art. 395 non possono proporsi dopo decorsi sei mesi dalla
pubblicazione della sentenza>>. I 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza rappresentano il
termine lungo per proporre impugnazione ordinaria. Trascorso anche tale termine senza aver
impugnato la sentenza mediante i rimedi ordinari, la sentenza passa in giudicato e può essere
impugnata soltanto con le impugnazioni straordinarie, ove possibile.
Per le impugnazioni ordinarie si parla di termini a decorrenza fissa perché il termine decorre da
una data certa nel tempo.

Dal momento che tutti i mezzi di impugnazione sono elencati dall’art.323, e il successivo articolo
ne elenca gli ordinari, le impugnazioni straordinarie si deducono per esclusione e sono:
-REVOCAZIONE PER I MOTIVI DI CUI AI NUMERI 1, 2, 3, 6 DELL’ART.395;

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-OPPOSIZIONE DI TERZO.
A differenza delle impugnazioni ordinarie, quelle straordinarie non condizionano il passaggio in
giudicato della sentenza. Queste, infatti, possono essere sempre proposte, anche se la sentenza è
passata in giudicato, data la loro “straordinarietà”. In alcuni casi (art.326) sono soggette a dei
termini, ma questi saranno esaminati in apposita sede. Per ora accenniamo che in tema di
impugnazioni straordinarie si parla di termini a decorrenza mobile perché i termini non decorrono
da un determinato giorno (come nel caso delle impugnazioni ordinarie), ma dall’evento
straordinario che permette l’impugnazione straordinaria.

ALTRE DISTINZIONI DELLE IMPUGNAZIONI

Abbiamo detto che i mezzi di impugnazione possono distinguersi in ordinari e straordinari; tale
distinzione rileva ai fini della alla idoneità del mezzo di impugnazione a determinare la cosa
giudicata formale.

Con riguardo alla ragione dell’impugnazione si suole distinguere tra impugnazioni a critica
vincolata e impugnazioni a critica libera.
Le impugnazioni a critica vincolata sono quelle impugnazioni che possono essere proposte solo
per i motivi indicati dalla legge, essendo costruite intorno a vizi specifici della sentenza, che
devono formare oggetto di critica egualmente specifica (es. : con il regolamento di competenza si
denuncia l’errore del giudice a quo in tema di competenza; con il ricorso per cassazione si
denuncia un vizio della sentenza che rientri in uno dei tipi elencati dall’art.360, ecc.).
In particolare, con le impugnazioni a critica vincolata si fanno valere esclusivamente i vizi del
provvedimento impugnato, cioè la violazione di norme processuali (errores in procedendo) o
sostanziali (errores in iudicando).
Con le impugnazioni a critica libera, invece, è possibile lamentare anche la semplice ingiustizia del
provvedimento, ove questo sia immune da vizi.
Quindi, le impugnazioni a critica libera, oltre che per violazioni di norme processuali o sostanziali,
possono essere proposte anche per ingiustizia, intesa come inidonea valutazione del fatto da parte
del giudice.
La dottrina individua un solo tipo di impugnazione a critica libera, ossia l’appello.

Con riguardo alla struttura del giudizio di impugnazione, le impugnazioni possono essere rimedi
rescissori e rimedi rescindenti.
I rimedi rescindenti sono quei rimedi che hanno per unico scopo quello di annullare il
provvedimento impugnato.
Con i rimedi rescissori, invece, il giudice investito dell’impugnazione deve non solo annullare il
provvedimento viziato, ma anche sostituirlo con un provvedimento corretto.
Infatti, va rilevato che la fase tendente all’annullamento del provvedimento impugnato
(cd. giudizio rescindente) si svolge anteriormente ed in maniera autonoma rispetto a quella della
emissione di un nuovo provvedimento destinato a sostituirsi al primo (cd. giudizio rescissorio).
L’appello è un rimedio prevalentemente rescissorio, tranne in alcuni casi che esamineremo in
apposita sede.

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Classico rimedio rescindente è invece il ricorso per cassazione, mirato a far cassare la sentenza
impugnata.

LE CONDIZIONI PER L’IMPUGNAZIONE

Le condizioni per proporre impugnazione sono : interesse a impugnare; legittimazione a


impugnare; compatibilità del rimedio.

Interesse a impugnare. L’interesse che il soggetto deve avere per impugnare deriva dalla
soccombenza pratica. Si ha soccombenza pratica quando la parte ha avuto un pregiudizio
materiale da una sentenza che ha respinto in tutto o in parte la sua domanda, o ha accolto in tutto
o in parte la domanda della sua controparte in virtù di una sua difesa o di una sua eccezione.
La soccombenza nasce, quindi, dal collegamento tra il capo della sentenza e la posizione giuridica
della parte, che ne riceve pregiudizio.
In questo caso la parte necessita dell’intervento di un altro giudice per far accogliere la sua
domanda o le sue difese.
La soccombenza pratica è, perciò, quella soccombenza che incide sui beni della vita. La
soccombenza che non incide sui beni della vita è soltanto una soccombenza teorica, che secondo
la giurisprudenza non implica interesse a impugnare.

Legittimazione a impugnare. La legittimazione a impugnare è data dal necessario rapporto fra i


destinatari degli effetti del provvedimento richiesto e coloro che chiedono o contro i quali è
chiesto il provvedimento stesso. Avrà, perciò legittimazione ad impugnare chi ha rivestito la
qualità di parte nel grado precedente, cioè nel grado in cui è stata emanata la sentenza che si
vuole impugnare.

Compatibilità del rimedio. La compatibilità del rimedio è la congruenza tra la specie di


provvedimento impugnato e il tipo di impugnazione prescelto.
Es. : se si vuole impugnare una sentenza di primo grado, bisognerà farlo mediante appello; se la si
impugna mediante ricorso per cassazione, tale rimedio non è compatibile e l’impugnazione non è
possibile.

La mancanza di queste condizioni comporta l’inammissibilità dell’impugnazione.

LE IPOTESI DI COMPLESSITA’ SOGGETTIVA

Finora abbiamo esaminato la disciplina generale delle impugnazioni sul presupposto di avere a che
fare con entità soggettivamente ed oggettivamente semplici (una decisione unica che dà
pienamente ragione a una delle due parti, e torto all’altra). Nella realtà, però, mai o quasi mai le
cose sono così semplici : le parti possono essere più d’una e assumere posizioni fra loro
differenziate; anche le decisioni possono essere molteplici e, comunque, tali da soddisfare solo
parzialmente le aspettative dei singoli soggetti processuali. Si hanno, cioè, quasi sempre situazioni
di complessità soggettiva e/o oggettiva, che si riflettono sulla disciplina delle impugnazioni.
Il legislatore ha provveduto, al riguardo, dettando gli articoli da 331 a 335, che sono guidati da un
solo obiettivo : fare in modo che, una essendo la sentenza impugnabile, uno sia anche il

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procedimento di impugnazione (si parla, perciò, di principio di unitarietà del processo di


impugnazione).

Nell’analizzare la disciplina, seguiremo l’ordine del codice, che tratta per prime le ipotesi di
complessità soggettiva.
Il nostro codice risolve il problema della complessità soggettiva attraverso l’individuazione della
causa che si è avuta in primo grado. Dal punto di vista della complessità soggettiva, le cause di
primo grado possono perciò essere distinte in : cause inscindibili (art.331); cause dipendenti
(art.331); e cause scindibili (art.332). In base al tipo di appartenenza, si applica la relativa
disciplina.
Iniziamo prima con l’individuarle, poi ci soffermeremo sulla relativa disciplina.
Si hanno cause inscindibili quando le cause in primo grado versano in ipotesi di litisconsorzio
necessario o litisconsorzio facoltativo con cumulo necessario. Sull’inscindibilità delle cause non c’è
da sbagliarsi perché le cause risultano inscindibili solo in queste 2 ipotesi.
Per quanto riguarda, invece, le cause dipendenti e delle cause scindibili, per la loro individuazione
è necessaria una valutazione da parte del giudice dell’impugnazione.

Tale valutazione è fatta in base a 3 fattori :


-contenuto della sentenza;
-qual è la parte che impugna;
-motivo per cui la parte impugna.

Una volta individuato il tipo di causa che la parte impugna, il giudice applicherà la relativa
disciplina contenuta negli articoli 331 e 332.
L’art.331 contiene la disciplina applicabile alle cause inscindibili e dipendenti.
L’art.332 contiene la disciplina applicabile alle cause scindibili.
La disciplina è diversa perché quando la causa è inscindibile o dipendente, il giudice deve
verificare che l’impugnazione sia proposta nei confronti di tutti coloro che furono parti nel
precedente grado. Se trova che qualcuno sia stato omesso, deve ordinare alle parti costituite di
integrare il contraddittorio e, quindi, di notificargli l’impugnazione fissando un termine perentorio
nel quale la notificazione deve essere fatta. Se tale integrazione non avviene o non avviene
tempestivamente, l’impugnazione viene dichiarata inammissibile. Quindi, l’atto di impugnazione,
si per sé imperfetto, non è direttamente ritenuto inammissibile, potendo ancora essere integrato.
Se l’integrazione avviene, lo stesso produce i suoi effetti ab origine (non diversamente da quel che
avviene per la domanda giudiziale non notificata a tutti i contraddittori necessari).

Quando, invece, la causa è scindibile, il giudice deve verificare se ci sono soggetti che hanno
partecipato al primo grado ai quali l’impugnazione non è stata notificata. Deve inoltre verificare se
essi abbiano ancora il potere di impugnare. Infatti, essendo le cause scindibili, se essi avessero
perduto tale potere, la sentenza nei loro confronti sarebbe passata in giudicato e, quindi, non ci
sarebbe ragione per invitarli a partecipare al processo in corso. Se trova che essi sono ancora in
condizione di impugnare, deve fare in modo che sappiano del processo in corso affinché, qualora
ritengano di proporre l’impugnazione, la facciano convergere nel processo medesimo, così
evitando non volute frammentazioni contro una stessa sentenza.

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Il giudice, pertanto, ordina alle parti presenti (non di integrare il contraddittorio, ma) di notificare
l’impugnazione anche a quei soggetti perché siano messi a conoscenza della sua esistenza.
La mancata notificazione, peraltro, che è preordinata – si ripete – solo a far conoscere l’esistenza
dell’impugnazione, non determina l’inammissibilità dell’impugnazione originaria, ma una sorta di
temporanea improcedibilità. Il processo, infatti, resta sospeso fin quando non siano decorsi i
termini oltre i quali non sono più possibili impugnazioni.
Ci teniamo ancora a precisare che in caso di cause scindibili viene soltanto ordinata la
notificazione, e se il destinatario non propone impugnazione il processo prosegue. Nel caso,
invece, delle cause inscindibili, non c’è semplice notificazione per mettere a conoscenza il
destinatario dell’impugnazione, ma un’integrazione del contraddittorio, che se non viene
effettuata rende inammissibile l’impugnazione.
Con l’integrazione del contraddittorio ordinata dal giudice, il destinatario diventa parte
processuale; con la notifica in caso di cause scindibili, invece, il destinatario diventa parte
processuale soltanto se propone anch’egli impugnazione.
Le discipline previste dagli artt. 331 e 332 sono spinte da esigenze di unitarietà e di celerità, oltre
che dall’intento di evitare giudicati contraddittori.

LE IPOTESI DI COMPLESSITA’ OGGETTIVA

E’ il momento di analizzare le ipotesi di complessità oggettiva. Queste si hanno sia nel processo
con due sole parti, sia nel processo con pluralità di parti quante volte la decisione abbia dato luogo
ad una soccombenza ripartita. Tale soccombenza ripartita dà luogo a più impugnazioni nello stesso
processo. Il nostro codice vuole evitare che diverse impugnazioni diano luogo ad autonomi
procedimenti, sia per evitare giudicati contraddittori, sia per ragioni di economia processuale. Gli
strumenti tecnici escogitati a tal fine dal legislatore trovano disciplina negli artt. 333 a 335.

Quando vengono proposte più impugnazioni nello stesso processo, quella proposta per prima
prende il nome di impugnazione principale, mentre quella proposta successivamente prende il
nome di impugnazione incidentale. L’impugnazione incidentale si caratterizza unicamente per un
elemento temporale, ossia per essere proposta successivamente ad altra impugnazione, che
prende il nome di principale per il solo fatto di essere stata proposta prima. Il riferimento
temporale è dato con rifermento alla data della notificazione o del deposito in caso di ricorso. Non
ha, invece, nulla a che vedere con l’importanza o l’estensione dei motivi sollevati, in quanto
potrebbe ben avvenire che l’impugnazione proposta per prima riguardi aspetti marginali della
controversia e quella proposta successivamente ne tocchi, per così dire, il cuore. L’impugnazione
successiva è disciplinata dall’art.333 ed è incidentale in quanto cade nell’ambito di un
procedimento già iniziato o, come dice lo stesso art.333, deve essere proposta <<nello stesso
processo>>. Poiché le impugnazioni principali e incidentali si distinguono tra loro solo per un
riferimento temporale, ne consegue che possono essere proposte nei termini brevi o lunghi
previsti per il tipo di impugnazione.
Discorso a parte va fatto per le impugnazioni incidentali tardive previste dall’art.334.

Art.334 – Impugnazioni incidentali tardive : <<Le parti, contro le quali è stata


proposta impugnazione e quelle chiamate ad integrare il contraddittorio a norma dell'articolo 331,

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possono proporre impugnazione incidentale anche quando per esse è decorso il termine o hanno
fatto acquiescenza alla sentenza [329].
In tal caso, se l'impugnazione principale è dichiarata inammissibile, la impugnazione incidentale
perde ogni efficacia>>.
La norma persegue l’obiettivo pratico di rendere possibile alla parte parzialmente soccombente di
accettare la sentenza solo se la stessa venga accettata anche dalla controparte, senza dover subire
gli effetti del decorso del termine o dell’acquiescenza (che vedremo nel prossimo paragrafo).
Facciamo il caso che una sentenza abbia accolto solo parzialmente la domanda dell’attore e
quest’ultimo, pur non essendo stato pienamente soddisfatto, potrebbe essere intenzionato a
chiudere il processo a condizione che l’avversario faccia altrettanto. Egli, in questa prospettiva,
non impugna o addirittura presta acquiescenza. La controparte, allora, contando sul fatto che per
male che vada il secondo giudice non potrebbe che confermare la prima sentenza, sarebbe
invogliata a impugnare, notificando però l’atto l’ultimo giorno utile perché l’avversario impugni e,
perciò, quando egli di fatto non sia più in grado di farlo. Una evenienza del genere il legislatore l’ha
voluta evitare non solo perché iniqua, ma anche perché avrebbe favorito le impugnazioni da parte
dei litiganti più cavillosi e animati da minor spirito di pacificazione. E’ per questo che il legislatore
ha previsto che l’impugnazione incidentale possa essere fatta anche tardivamente, cioè oltre il
termine previsto. Ovviamente, pur se tardiva, tale impugnazione deve essere proposta comunque
entro il termine utile previsto per la costituzione del convenuto, cioè 20 giorni prima dell’udienza.
L’art.334 prevede, nella sostanza, una sorta di rimessione in termini della parte che ha perduto il
diritto a impugnare o vi ha rinunciato (acquiescenza). Lo scopo della previsione dell’impugnazione
incidentale tardiva è quello di riequilibrare le posizioni delle parti a seguito della proposizione
dell’impugnazione principale. E’ per questo motivo che l’impugnazione incidentale tardiva, come
previsto dal 2° comma dell’art.334, diviene inefficace ove l’impugnazione principale sia stata
dichiarata inammissibile. Ne consegue una dipendenza dell’impugnazione incidentale tardiva da
quella principale. Soltanto l’impugnazione incidentale tardiva, però, è dipendente da quella
principale; l’inammissibilità della principale, infatti, rende inefficace soltanto l’impugnazione
incidentale tardiva, e non quella (incidentale) tempestiva ex art.333. Ciò significa che quella
tempestiva resta efficace anche in caso di inammissibilità di quella principale.

Il legislatore non ha potuto, però, trascurare l’ipotesi che le più impugnazioni vengano a
incrociarsi, quando l’una parte ignora che l’altra ha impugnato e, quindi, non sa che esiste
impugnazione principale. E’ questo il caso in cui le parti promuovono impugnazione
separatamente, a prescindere dall’impugnazioni proposte dalle altre parti. In previsione di questa
evenienza il legislatore ha formulato l’art.335.
Art.335 – Riunione delle impugnazioni separate : <<Tutte le impugnazioni proposte separatamente
contro la stessa sentenza debbono essere riunite, anche d’ufficio, in un solo processo>>.
La norma, che obbliga la trattazione di tali impugnazioni nello stesso processo, ha lo scopo di
garantire l’unità del giudizio di impugnazione in funzione della fondamentale esigenza di economia
degli strumenti processuali. Per le impugnazioni che investono la stessa sentenza, infatti, la
riunione è obbligatoria, ma per procedere alla stessa occorre che tutte le impugnazioni siano state

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portate a conoscenza del giudice mediante l’iscrizione a ruolo (non essendo sufficiente la sola
notificazione) e che le impugnazioni da riunire siano validamente proposte.

FENOMENI IMPEDITIVI DEL POTERE DI IMPUGNAZIONE

Fenomeni impeditivi del potere di impugnazione sono :


A)il decorso dei termini previsti dalla legge;
B)l’acquiescenza ex art.329;

Art.329 – Acquiescenza totale o parziale : <<Salvi i casi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell'articolo 395,
l'acquiescenza risultante da accettazione espressa o da atti incompatibili con la volontà di avvalersi
delle impugnazioni ammesse dalla legge ne esclude la proponibilità.
L'impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate>>.

L’acquiescenza, che determina la decadenza dall’impugnazione, è in sostanza un atto di


accettazione, espressa o tacita, della sentenza. Tale volontà può essere manifestata soltanto dopo
la pubblicazione della sentenza, così che si ritiene nulla e priva di effetti una rinuncia preventiva
all’impugnazione.
L’acquiescenza espressa si concreta in un atto di volontà, unilaterale e non recettizio, proveniente
dalla parte personalmente o da un suo procuratore speciale, per la cui manifestazione non è
prevista alcuna forma particolare.
L’acquiescenza tacita è invece data da comportamenti incompatibili con la volontà di impugnare.

Ciò che abbiamo detto finora è relativo all’acquiescenza totale, disciplinata dal 1° comma ex
art.239. Il 2° comma, invece, disciplina l’acquiescenza parziale, che può essere considerata come
una sottospecie dell’acquiescenza tacita. Qui il legislatore stabilisce che il soccombente, nel
momento in cui impugna soltanto alcuni capi della sentenza, finisce con l’accettarne la parte
residua. Tale parte residua, però, è ritenuta accettata tacitamente soltanto se composta da capi
autonomi; la rinunzia, quindi, si ha solo se i capi della sentenza siano del tutto autonomi. Se i capi
risultano dipendenti da quelli impugnati, si applica l’art.336, 1° co., relativo all’effetto espansivo
interno, che esamineremo nel prossimo paragrafo.
Resta soltanto da sottolineare che, secondo la giurisprudenza,mentre l’acquiescenza totale
(espressa o tacita) deve essere eccepita dalla parte, l’acquiescenza parziale è rilevabile d’ufficio.

L’EFFETTO ESPANSIVO INTERNO ED ESTERNO

Art.336 – Effetti della riforma o della cassazione : <<La riforma o la cassazione parziale ha effetti
anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata.
La riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla
sentenza riformata o cassata>>.

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La norma di cui al primo comma prevede il c.d. effetto espansivo interno, in forza del quale, in
caso di riforma o cassazione parziale di una sentenza, risultano caducati anche quei capi non
espressamente impugnati, ma dipendenti da quelli riformati o cassati. Per <<capi dipendenti> si
intendono quelli che si pongono in nesso consequenziale con quelli impugnati o trovano in questi
il loro presupposto (es. : domanda di pagamento degli interessi). Se invece i capi non
espressamente impugnati risultano (non dipendenti, ma) autonomi rispetto a quelli impugnati,
non si ha effetto espansivo interno, ma acquiescenza ex art.329, 2° co., in quanto accettati
tacitamente da chi impugna, e non rientranti nella decisione del giudice dell’impugnazione.

Il comma 2°, invece, disciplina l’effetto espansivo esterno, consistente nel fatto che la riforma o la
cassazione della sentenza estendono i rispettivi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti da
tale sentenza.
L’effetto espansivo esterno ha rilevanza in particolar modo nel settore degli effetti esecutivi.
Infatti, la riforma della sentenza produce immediatamente effetto su tutto ciò che è stato oggetto
di esecuzione sulla base del titolo provvisoriamente esecutivo. In particolare, cessa l’efficacia
esecutiva della sentenza, così che non possono essere iniziate nuove esecuzioni e quelle pendenti
vengono meno per il venir meno del titolo esecutivo. Inoltre, le prestazioni già ottenute in virtù di
atti esecutivi fondati sulla sentenza riformata devono essere restituite.

L’INAMMISSIBILITA’ DELL’IMPUGNAZIONE

Il giudice, una volta ricevuto l’atto di impugnazione, la prima cosa che anzitutto fa è verificare
l’ammissibilità dell’impugnazione stessa.
Ci sono, infatti, dei casi di inammissibilità comuni a tutti i tipi di impugnazioni. Questi sono :
1)mancata presenza di una delle condizioni per impugnare;
2)proposizione fuori termine dell’impugnazione;
3)Acquiescenza alla sentenza prestata dalla parte;
4)mancata integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art.331.

Se presenti uno di questi casi, il giudice dovrà dichiarare l’inammissibilità dell’impugnazione


proposta, e il procedimento di impugnazione si estinguerà.

Art.338 – Effetti dell’estinzione del procedimento di impugnazione : <<L'estinzione del


procedimento di appello o di revocazione nei casi previsti nei numeri 4 e 5
dell'articolo 395 fa passare in giudicato la sentenza impugnata, salvo che ne siano stati modificati
gli effetti con provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto>>.

L’art.338 sancisce il principio di consumazione del potere di impugnare, in base al quale


l’estinzione del processo di impugnazione (ordinaria) determina il passaggio in giudicato della
sentenza impugnata. Il principio parla di “consumazione” perché il potere di impugnare non è
possibile esercitarlo una volta che sia stato già esercitato.
Quindi, se l’art.329 regola una situazione preclusiva del potere di impugnare non ancora
esercitato, l’art.338 finisce col regolare una situazione preclusiva del potere di impugnare già
esercitato.

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La previsione del’art.338 è stata fatta affinché l’estinzione del procedimento di impugnazione, pur
se pronunciata tardivamente, non pregiudichi il passaggio in giudicato della sentenza impugnata.
La disposizione, infine, contiene una salvezza : il passaggio in giudicato della sentenza non si
verifica se <<ne siano stati modificati gli effetti con provvedimenti pronunciati nel procedimento
estinto>>. La norma, però, in questa prospettiva, diventa difficilmente applicabile perché, come
sappiamo, i provvedimenti istruttori non possono mai pregiudicare il merito. Riteniamo, allora, che
l’unica ipotesi in cui tale norma può essere applicata può aversi quando il giudice, prima
dell’estinzione del procedimento di impugnazione, emani una sentenza non definitiva non
compatibile con la permanenza in vita della sentenza impugnata.

CAPITOLO 8° - L’APPELLO
L’APPELLO IN GENERALE

Sino ad ora abbiamo visto le impugnazioni in generale, la cui disciplina è contenuta nel capo I,
titolo III del libro 2° del nostro codice. Ora analizzeremo, invece, un singolo mezzo di
impugnazione, l’appello, la cui disciplina è contenuta nel titolo delle impugnazioni, all’interno del
capo II.

Art.339 – Appellabilità delle sentenze : <<Possono essere impugnate


con appello le sentenze pronunciate in primo grado, purché l'appello non sia escluso dalla legge o
dall'accordo delle parti a norma dell'articolo 360, secondo comma.
È inappellabile la sentenza che il giudice ha pronunciato secondo equità a norma dell'articolo 114.
Le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell'articolo 113, secondo
comma, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per
violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia>>.

La norma è mirata ad individuare quali sentenze possono essere appellate. In linea generale,
l’appello è il mezzo per impugnare le sentenze di primo grado. Lo stesso art.339, però, include
delle eccezioni:
-1° comma : sentenze il cui appello è escluso esplicitamente dalla legge;
-1° comma : sentenze il cui appello è escluso tramite accordo delle parti;
-2° comma : sentenze pronunciate secondo equità a richiesta di parte(art.114), ricorribili solo in
cassazione.
Discorso a parte va fatto per le sentenze dei giudici di pace pronunciate secondo equità : prima del
2006 erano tutte inappellabili; dal 2006 in poi, invece, per deflazionare il ricorso per cassazione
contro tali sentenze, queste possono essere appellate soltanto per :
-violazione di norme sul procedimento;
-violazione di norme comunitarie;
-violazione dei principi regolatori della materia.
Ricordiamo che, ai sensi dell’art.113, il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore
non eccede i 1200 euro.

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L’appello è il più ampio e diffuso mezzo di impugnazione ordinario e si caratterizza per il suo
effetto devolutivo, in quanto attribuisce al giudice la cognizione dello stesso rapporto sostanziale
conosciuto in primo grado, ma limitatamente alle domande ed eccezioni espressamente
riproposte in appello.

Art.341 – Giudice d’appello : <<L'appello contro le sentenze del giudice di pace e del tribunale si
propone rispettivamente al tribunale ed alla corte di appello nella cui circoscrizione ha sede il
giudice che ha pronunciato la sentenza>>.
Il principio cardine della norma in esame è che l’appello si propone al giudice immediatamente
superiore a quello che ha pronunciato il provvedimento impugnato nella stessa circoscrizione di
quest’ultimo. Di conseguenza :
-una sentenza del giudice di pace si appella in tribunale, e la decisione sarà presa in composizione
monocratica;
-una sentenza del tribunale si appella in corte d’appello, e la decisione sarà presa in composizione
collegiale.

L’appello è un mezzo di impugnazione ordinario.


L’appello è un rimedio di merito, e non di legalità (come lo è il ricorso per Cassazione) perché il
giudice d’appello scende nel merito della sentenza impugnata.
L’appello è un’impugnazione a critica libera. Ne consegue che può essere proposto per questi
motivi:
-violazione di norme processuali;
-violazione di norme sostanziali;
-ingiustizia, intesa come inidonea valutazione del fatto da parte del giudice.

IL PROCEDIMENTO D’APPELLO

Art.342 – Forma dell’appello : <<L'appello si propone con citazione contenente le indicazioni


prescritte nell'articolo163. L'appello deve essere motivato. La motivazione dell'appello deve
contenere, a pena di inammissibilità:
1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che
vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;
2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini
della decisione impugnata.
Tra il giorno della citazione e quello della prima udienza di trattazione devono intercorrere termini
liberi non minori di quelli previsti dall'articolo 163bis>>.

L’appello va quindi proposto con citazione. Tale citazione deve contenere gli stessi elementi della
citazione che introduce il giudizio di primo grado prevista dall’art.163, con l’unica differenza che i
nn.3 e 4 dell’art.163 sono stati sovrapposti dai nn.1 e 2 dell’art.342. L’indicazione delle parti del
provvedimento che si vuole appellare e l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione di
legge sono infatti elementi tipici di un’impugnazione, che vanno così a sostituirsi al petitum e
all’esposizione e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda.

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Anche i termini previsti dal 3° comma sono gli stessi della citazione in primo grado : cioè almeno
90 giorni (termini liberi) tra la citazione e la prima udienza.

Art.359 – Rinvio alle norme relative al procedimento davanti al tribunale : <<Nei procedimenti
d’appello davanti alla corte o al tribunale si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per
il procedimento di primo grado davanti al tribunale [163 ss.], se non sono incompatibili con le
disposizioni del presente capo>>.

La disposizione costituisce una tipica norma di chiusura, prevedendo la generale applicabilità delle
norme che regolano il processo dinanzi al tribunale anche ai giudizi d’appello, in quanto
compatibili. Tra queste disposizioni rientra anche, a nostro avviso, l’art.164 (nullità della citazione).
Pertanto, se l’atto di appello ha un vizio che riguarda la vocatio in ius, saranno possibili le sanatorie
previste nei commi 2° e 3° dell’art.164. Ciò comporta, in particolare, che la sanatoria avrà effetto
retroattivo e, quindi, consentirà all’appello, pur se viziato, di produrre i suoi effetti (e, in
particolare, quello di impedire che la sentenza passi in giudicato). Qualora il vizio dovesse
riguardare l’editio actionis, si avrebbe una nullità a cui si può porre rimedio con l’integrazione
dell’atto, senza però che questa abbia effetto retroattivo (ex art.164, ult. co.).

Art.347 – Forme e termini della costituzione in appello : <<La costituzione in appello avviene
secondo le forme e i termini per i procedimenti davanti al tribunale.
L'appellante deve inserire nel proprio fascicolo copia della sentenza appellata.
Il cancelliere provvede a norma dell'articolo 168 e richiede la trasmissione del fascicolo d'ufficio al
cancelliere del giudice di primo grado>>.

L’appellante, quindi, si deve costituire in giudizio non diversamente da ciò che avviene per i
procedimenti di primo grado davanti al tribunale.

La costituzione dell’appellato, invece, è disciplinata indirettamente dall’art.343, che ha per oggetto


l’appello incidentale.

Art.343 – Modo e termine dell’appello incidentale : <<L'appello incidentale [333] si propone, a


pena di decadenza, nella comparsa di risposta, all'atto della costituzione in cancelleria ai sensi
dell'articolo 166.
Se l'interesse a proporre l'appello incidentale sorge dalla impugnazione proposta da altra parte che
non sia l'appellante principale, tale appello si propone nella prima udienza successiva alla
proposizione dell'impugnazione stessa>>.

Apprendiamo, così, che l’appellato deve redigere una comparsa di risposta da depositare in
cancelleria ai sensi dell’art.166. In tale comparsa, da depositare 20 giorni (o 10 in caso di
abbreviazione) prima dell’udienza di prima comparizione insieme con il proprio fascicolo
contenente la copia dell’atto di appello notificata, la procura e gli eventuali documenti offerti in
comunicazione, l’appellato deve proporre le sue difese, prendere posizione sui fatti posti a
fondamento dell’appello, proporre le eccezioni non impedite dal divieto dell’art.345 (che a breve
esamineremo), indicare i mezzi di prova; deve, inoltre, a pena di decadenza, proporre l’eventuale
appello incidentale.

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Art.348 – Improcedibilità dell’appello : <<L'appello è dichiarato improcedibile, anche d'ufficio, se


l'appellante non si costituisce in termini.
Se l'appellante non compare alla prima udienza, benché si sia anteriormente costituito, il collegio,
con ordinanza non impugnabile, rinvia la causa ad una prossima udienza, della quale
il cancelliere dà comunicazione all'appellante. Se anche alla nuova udienza l'appellante non
compare, l'appello è dichiarato improcedibile anche d'ufficio>>.

L’improcedibilità è un vizio funzionale e può essere intesa come mancanza degli atti di impulso
successivi all’impugnazione.
L’improcedibilità dell’appello costituisce vizio insanabile dell’impugnazione e determina
l’impossibilità di procedere ad ogni ulteriore accertamento nel merito, con passaggio in giudicato
della sentenza impugnata.
Le ipotesi di improcedibilità, dopo la modifica al testo ad opera della legge 353/1990, sono,
pertanto, limitate alla mancata corretta instaurazione del rapporto processuale mediante
costituzione dell’appellante.
Dalla lettura dell’art.348 si evince che il meccanismo della costituzione in appello presenta, quindi,
qualche differenza con quello del primo grado, che merita d’essere segnalata. Ai sensi dell’art.171,
in primo grado, se l’attore non si costituisce e si costituisce tempestivamente il convenuto, il primo
può costituirsi anche successivamente; se nessuna delle parti si costituisce tempestivamente, il
processo entra in uno stato di quiescenza da cui può essere tratto tramite riassunzione. Nulla di
ciò si verifica in appello : se l’appellante non si costituisce tempestivamente, l’appello è dichiarato
improcedibile anche d’ufficio.
In particolare, l’appello è dichiarato improcedibile in 2 casi, entrambi dipendenti dall’appellante :
-quando non si costituisce nei termini utili;
-quando, pur se già costituito, non compare alla prima udienza o a quella successiva (che
rappresenta il rinvio della prima udienza).

Art.348 bis – Inammissibilità dell’appello : <<Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con
sentenza l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello, l'impugnazione è dichiarata
inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta.
Il primo comma non si applica quando:
a) l'appello è proposto relativamente a una delle cause di cui all'articolo 70, primo comma;
b) l'appello è proposto a norma dell'articolo 702-quater>>.

L’art.348 bis regola il caso in cui l’appello possa essere dichiarato inammissibile dal giudice per
manifesta infondatezza. In tal caso il giudice provvede con ordinanza motivata.
Tale legge è stata inserita di recente nel nostro codice per velocizzare le decisioni dei giudici
d’appello.
Mentre l’improcedibilità, come abbiamo detto, è intesa come mancanza degli atti di impulso
successivi all’impugnazione, l’inammissibilità è intesa come valutazione preliminare attinente
all’impugnabilità del provvedimento di primo grado in appello; però, pur se diversi, hanno
comunque lo stesso effetto : il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.

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Art.345 – Domande ed eccezioni nuove : <<Nel giudizio d'appello non possono proporsi domande
nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d'ufficio. Possono tuttavia
domandarsi gli interessi[1282 ss. c.c.], i frutti [820 c.c.] e gli accessori maturati dopo la sentenza
impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa.
Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d'ufficio.
Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che
la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad
essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio>>.

Attraverso l’art.345 il legislatore pone dei limiti alle parti impedendole di far valere nuove ragioni
che potrebbero condurre ad una diversa disciplina del rapporto sostanziale, non tanto sulla base di
un errore commesso dal primo giudice, quanto sulla base delle circostanze introdotte soltanto e
per la prima volta nel processo d’appello. Insomma, l’appello è voluto dal legislatore come un
“giudizio chiuso”, cioè un giudizio di mera revisione di quello di primo grado, dove è vietato
introdurre un nuovo thema decidendum. Tale divieto è detto divieto dello ius novorum in appello.
Il primo comma dell’art.345 dispone, infatti, che le nuove domande, se proposte, devono essere
dichiarate inammissibili d’ufficio. Lo stesso comma poi specifica che le uniche domande
“nuove”che possono essere proposte sono quelle domande che si presentano come
consequenziali a quelle fatte in primo grado. Queste sono : interessi, frutti, accessori e
risarcimento danni.
Il secondo comma pone il divieto di nuove eccezioni. In particolare, possono essere proposte
soltanto le eccezioni in senso ampio, e non quelle in senso stretto (in quanto non rilevabili
d’ufficio).
Il terzo comma è, invece, riferito alle nuove prove. Sono ammesse in appello soltanto le prove che
la parte non aveva potuto produrre prima senza sua colpa.
Unica eccezione alla produzione di mezzi probatori è il giuramento decisorio, che in appello può
sempre essere deferito. Del giuramento suppletorio l’articolo non parla dal momento che lo stesso
è disposto d’ufficio.

Art.346 – Decadenza dalle domande e dalle eccezioni non riproposte : <<Le domande e le eccezioni
non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si
intendono rinunciate>>.

La norma stabilisce una presunzione assoluta di rinuncia alle domande ed eccezioni (non accolte in
primo grado) non espressamente riproposte. In primo grado, infatti, il giudice può non accogliere
delle domande o delle eccezioni proposte dalle parti. Se queste ultime vogliono farle valere in
appello, devono riproporle espressamente, altrimenti il giudice d’appello non le riesamina perché
le intende rinunciate dalle parti.

Art.350 – Trattazione : <<Davanti alla corte di appello la trattazione dell'appello è collegiale ma il


presidente del collegio può delegare per l'assunzione dei mezzi istruttori uno dei suoi componenti;
davanti al tribunale l'appello è trattato e deciso dal giudice monocratico.
Nella prima udienza di trattazione il giudice verifica la regolare costituzione del giudizio e, quando
occorre, ordina l'integrazione di esso o la notificazione prevista dall'articolo 332, oppure dispone

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che si rinnovi la notificazione dell'atto di appello.


Nella stessa udienza il giudice dichiara la contumacia dell'appellato, provvede alla riunione degli
appelli proposti contro la stessa sentenza e procede al tentativo di conciliazione ordinando, quando
occorre, la comparizione personale delle parti>>.

L’appello è a trattazione integralmente collegiale solo in Corte d’appello, mentre in tribunale è


attribuito alla cognizione ed alla decisione del giudice monocratico, a meno che non si tratti di
materia prevista dall’art.50 bis.
Ai sensi del comma 2°, nella prima udienza di trattazione il giudice o il collegio deve compiere delle
valutazioni preliminari tra cui la regolare costituzione del giudizio attraverso l’eventuale
integrazione del contraddittorio ex art.331 (se si tratta di cause inscindibili), notificazione
dell’impugnazione ai sensi dell’art.332 (se si tratta di cause scindibili), o rinnovazione della
notificazione qualora la ritenga irregolare.
Ai sensi del comma 3°, sempre nella stessa udienza, il giudice provvede anche a dichiarare la
contumacia dell’appellato e a riunire gli appelli proposti contro la stessa sentenza.
Oltre alle operazioni espressamente sancite dalla norma, nella prima udienza si verificano
l’ammissibilità e la procedibilità dell’appello.

Art.283, 1° co. – Provvedimenti sull’esecuzione provvisoria in appello : << Il giudice d'appello su


istanza di parte, proposta con l'impugnazione principale o con quella incidentale, quando
sussistono gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti,
sospende in tutto o in parte l'efficacia esecutiva o l'esecuzione della sentenza impugnata, con o
senza cauzione>>.

Quindi, tra le attività preliminari assume particolare rilievo anche quella volta a provvedere
sull’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza o della sua iniziata esecuzione.
Secondo l’art.351, 1° co., il giudice deve provvedere con ordinanza non impugnabile alla prima
udienza.
Sappiamo, però, che tra la notificazione dell’appello e la prima udienza intercorre un intervallo
temporale non breve, così che di frequente si pone il problema di provvedere con urgenza. Infatti,
la parte può chiedere che il giudice pronunci in camera di consiglio prima dell’udienza di
comparizione. Il Presidente del collegio (o il tribunale in composizione monocratica), al quale è
indirizzato il relativo ricorso, fissa con decreto la data e, se ricorrono giusti motivi di urgenza, può
disporre l’immediata sospensione dell’efficacia esecutiva o della esecuzione della sentenza. In tal
caso, il collegio (o il tribunale) deve confermare, modificare o revocare il decreto con ordinanza
non impugnabile (art.351, co. 3°).
E’ da tenere presente che tali provvedimenti sono giustificati dal fatto che, in base all’art.282, <<la
sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti>>.

Dopo le valutazioni preliminari a sensi degli artt. 350 e 351, e fatta salva la pronuncia immediata di
inammissibilità per manifesta infondatezza (ex art.348 bis), il processo prosegue secondo 2
possibili modelli :
a)non vi è bisogno di istruzione e, in tal caso, il giudice invita le parti a precisare le conclusioni;
dispone lo scambio delle comparse conclusionali (nei 60 giorni) e delle memorie di replica (nei 20

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giorni successivi), così che la sentenza sia depositata nei 60 giorni ancora successivi;
b)vi è bisogno di istruzione (nei limiti in cui ciò è consentito). In questo caso il giudice pronuncia
ordinanza con cui ammette la prova, salva la possibilità di emanare sentenza non definitiva ai sensi
dell’art.279, n.4), e separata ordinanza. Ammessa e raccolta la prova, si farà luogo alla decisione
secondo il procedimento già visto;
c)il giudice decide la causa ai sensi dell’art.281 sexies (decisione a seguito di trattazione orale).

L’APPELLO COME IMPUGNAZIONE RESCISSORIA E IL RINVIO AL PRIMO GIUDICE

Come abbiamo già detto prima, l’appello è un mezzo d’impugnazione ordinario e a critica libera.
L’appello è anche un’impugnazione rescissoria il quanto il giudice dell’appello, rilevato il vizio, lo
sostituisce con una nuova sentenza mediante decisione nel merito.
C’è però da aggiungere che le cose non vanno sempre così; in alcuni casi, infatti, il giudice
dell’appello non emana nuova sentenza con decisione nel merito, ma rinvia il giudizio al primo
grado. Il rinvio al primo grado è possibile soltanto in alcuni casi tipici, tassativi ed eccezionali e, ove
effettuato, fa dell’appello non più un rimedio rescissorio, ma un rimedio rescindente. Quando
viene fatto il rinvio al primo grado, infatti, dopo la rilevazione del vizio della sentenza non c’è
decisione nel merito.

I casi in cui c’è rinvio al primo grado sono :


1)Art.353 – Rimessione al primo giudice per ragioni di giurisdizione : << Il giudice d'appello,
se riforma la sentenza di primo grado dichiarando che il giudice ordinario ha sulla causa
la giurisdizione negata dal primo giudice, pronuncia sentenza con la quale rimanda le parti davanti
al primo giudice.
Le parti debbono riassumere il processo nel termine perentorio di tre mesi dalla notificazione della
sentenza.
Se contro la sentenza d'appello è proposto ricorso per cassazione [360 ss.], il termine è
interrotto>>.
2)quando il giudice d’appello dichiari nulla la notificazione della citazione introduttiva [160,164];
3)quando il giudice d’appello riconosca che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il
contraddittorio [102];
4)quando il giudice d’appello dichiari la nullità della sentenza di primo grado per mancata
sottoscrizione del giudice (art.162,co° 2);
5)quando è stato dichiarato estinto un giudizio dove non ricorreva una causa di estinzione.

Il caso di cui al n.1) è previsto dal’art.353; i casi dal n.2) al n.5) sono previsti dall’art.354. E’ lo
stesso art.354 a precisare che, oltre questi casi, <<il giudice d’appello non può rimettere la causa al
primo giudice>>.

LE DECISIONI DEL GIUDICE D’APPELLO

Le decisioni del giudice di appello possono avere diverso contenuto :


a)negative per ragioni processuali;
b)di rigetto nel merito;

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c)di accoglimento per ragioni processuali e rimessione al primo giudice;


d)di accoglimento per ragioni di merito.

A)Le pronunce negative per ragioni processuali. Tali pronunce sono di 4 tipi :
1)ordinanze immediate nel caso di manifesta infondatezza dell’appello (e dell’eventuale appello
incidentale) ex art.348 bis (inammissibilità);
2)sentenze di inammissibilità in senso proprio, che si hanno per :
-decorso dei termini;
-acquiescenza;
-carenza di interesse;
-inappellabilità del provvedimento;
-mancata integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art.331 (cause inscindibili);
3)sentenze di improcedibilità, per i 2 casi previsti dall’art.348 :
-non costituzione in termini dell’appellante;
-non comparizione in prima udienza dell’appellante;
4)sentenze di estinzione (per rinuncia o per inattività delle parti).
Queste pronunce sono emesse dal giudice a conclusione del procedimento ex artt. 189 e 190
(richiamati dall’art.352) e hanno necessariamente la forma di sentenza.
Le sentenze di inammissibilità o di improcedibilità comportano che l’appello non può essere
riproposto, anche se non è decorso il termine fissato dalla legge (art.358); quelle di estinzione
comportano che la sentenza passa in giudicato (art.338). In pratica, l’effetto è il medesimo.

B)Pronunce di rigetto nel merito. Le sentenze di rigetto nel merito possono essere confermative
della decisione del primo giudice, essendo infondati i motivi dell’appello, o sostitutive della
sentenza appellata, quando il giudice dell’impugnazione, pur ritenendo fondate le censure, abbia
confermato le statuizioni in base alla soluzione di diverse questioni di fatto o di diritto.

C)Sentenze di accoglimento per ragioni processuali. Le sentenze di accoglimento per ragioni


processuali hanno rilievo autonomo solamente se determinano la rimessione al primo giudice. I
casi di rimessione al primo giudice, come sappiamo, sono tassativi ed eccezionali; l’eccezionalità è
data dal fatto che la regola è nel senso che il giudice di appello con la sua decisione assorba la
decisione del primo giudice.

D)Sentenze di accoglimento di merito, che hanno sempre carattere sostitutivo.

CAPITOLO 9° - IL RICORSO PER CASSAZIONE


La Corte di Cassazione è quel giudice che occupa la posizione più alta all’interno della gerarchia
degli organi giurisdizionali; è inoltre un giudice non territoriale perché si trova soltanto a Roma, e
non ha quindi distribuzione territoriale.
La Corte di Cassazione nasce a seguito della Rivoluzione francese col compito di controllare la
corretta applicazione della legge da parte dei giudici, grazie anche alla grande quantità di fonti
legislative presenti all’epoca.

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La Corte di Cassazione era inizialmente un organo esterno, non facente cioè parte degli organi
giurisdizionali; solo successivamente si è “giurisdizionalizzato”.

La prima norma da prendere in considerazione è l’art. 65 del testo unico sull'ordinamento


giudiziario (regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12), che definisce il compito della Cassazione in
questo modo:
<<La corte suprema di cassazione assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della
legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i
conflitti di competenza e di attribuzioni ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge>>

Da ciò ne scaturisce che la Corte di Cassazione ha il compito di assicurare la certezza del diritto, da
un punto di vista sia processuale che sostanziale.

Le FUNZIONI primarie della Corte di Cassazione sono 2:


-Funzione interna : dato che nel nostro ordinamento sono presenti diverse giurisdizioni, possono
crearsi problemi di “riparto” della giurisdizione stessa; la Cassazione è incaricata di risolvere tale
problema, ed è per questo che si pone come “giudice delle giurisdizioni”;
-Funzione esterna : La Corte di Cassazione è giudice di legittimità,e non giudice di merito come il
Tribunale o la Corte d’Appello; ciò significa che la Cassazione è giudice di controllo della
rispondenza delle decisioni dei giudici alla legge e ai criteri legali.
Le CARATTERISTICHE di tale tipo di impugnazione sono:
-Il ricorso per Cassazione è un’impugnazione ordinaria; ciò significa che è proponibile solo se la
sentenza non è passata in giudicato,e si distingue dalle impugnazioni straordinarie,che sono
proponibili anche quando la sentenza è passata in giudicato;
-Il ricorso per Cassazione è un’impugnazione a critica vincolata; ciò significa che può essere
proposta solo per i motivi indicati dalla legge;
-Il ricorso per Cassazione è un rimedio di legalità (a differenza dell’appello che è un rimedio di
merito) perché la Corte,come abbiamo già detto, controlla l’esatta osservanza delle leggi;
-Il ricorso per Cassazione è un rimedio rescindente,in quanto mira unicamente a cassare la
sentenza impugnata,a differenza dei rimedi rescissori (es. : appello) che,oltre ad annullare il
provvedimento impugnato, lo sostituiscono con uno corretto.

IL RICORSO STRAORDINARIO E IL RICORSO ORDINARIO


Il ricorso per Cassazione può essere ordinario e straordinario.
IL RICORSO STRAORDINARIO. Tale tipo di ricorso è previsto dall’art. 111 Cost., co.7, il quale recita:
<<Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi
giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge.
Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra.>>.
Per quanto riguarda i motivi per i quali si può proporre tale impugnazione,l’articolo 111 è chiaro

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poiché specifica che il ricorso straordinario è proponibile soltanto per <<violazione di legge>>.
Per quanto riguarda invece le sentenze che si possono impugnare con tale tipo di ricorso, l’art. 111
menziona non solo le sentenze, ma anche i provvedimenti. Come sappiamo, per “sentenza” deve
intendersi non solo il provvedimento che abbia formalmente tale nome, ma anche il
provvedimento che, pur diversamente nominato, abbia comunque contenuto decisorio; ciò
significa,ed anche la Cassazione è di questo avviso, che la sentenza impugnabile ex art.111 Cost. è
una sentenza che potremmo definire come “sentenza sostanziale” perché sono ricompresi in tale
categoria anche quei provvedimenti che sono sentenze solo da un punto di vista sostanziale. E’ per
questo che la Cassazione divide le sentenze impugnabili ex art.111 in 2 tipi :
-provvedimenti a contenuto decisorio;
-provvedimenti non altrimenti impugnabili (es. : art.618 c.p.c.).
IL RICORSO ORDINARIO. Il ricorso ordinario è previsto dall’art.360, co.1°, il quale recita:
<<Le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado possono essere impugnate con
ricorso per cassazione:
1) per motivi attinenti alla giurisdizione;
2) per violazione delle norme sulla competenza, quando non e' prescritto il regolamento di
competenza;
3) per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali
di lavoro;
4) per nullità della sentenza o del procedimento;
5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le
parti.>>

Per quanto riguarda i motivi per i quali si può proporre ricorso ordinario, questi sono elencati nel
1° comma della suddetta norma.

Per quanto riguarda le sentenze che si possono impugnare con ricorso ordinario, la norma fa
specifico riferimento alle sentenze d’appello (cioè di 2° grado) e quelle pronunciate in unico grado.

Possono però essere impugnate anche sentenze di primo grado; il 2° comma infatti recita :
<<Può inoltre essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza appellabile del tribunale,
se le parti sono d'accordo per omettere l'appello; ma in tale caso l'impugnazione può proporsi
soltanto a norma del primo comma, n. 3.>>
Altro caso in cui possono essere impugnate sentenze di primo grado con ricorso ordinario è
previsto dal 3° comma del recente art. 348 ter, il quale recita :
<<Quando è pronunciata l'inammissibilità (dell’appello), contro il provvedimento di primo grado
può essere proposto, a norma dell'articolo 360, ricorso per cassazione […] >>. Ciò significa che
quando l’appello sia stato dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza, la sentenza che
verrà impugnata in cassazione sarà quella di primo grado, e non l’ordinanza di inammissibilità
emessa dal giudice d’appello.

Da segnalare è anche l’ultimo comma dell’art.360 che stabilisce : <<Le disposizioni di cui al primo
comma e terzo comma si applicano alle sentenze ed ai provvedimenti diversi dalla sentenza contro
i quali e' ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge>>. Tale disposizione è stata
inserita per fare chiarezza in ordine al problema del ricorso per cassazione nei confronti di
sentenze dichiarate per legge non impugnabili (es. : art.618 c.p.c.) e di provvedimenti a contenuto
decisorio, rispetto ai quali si è ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art.111

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Cost.; ma la funzione principale di tale disposizione è quella di ampliare la garanzia dell’art.111


Cost.,finendo così con equipararla,nella sostanza,a quella prevista dall’art.360 c.p.c. per il ricorso
ordinario.

I MOTIVI DEL RICORSO (ORDINARIO)

Ai sensi dell’art.360 il ricorso è ammesso:

1)Per motivi attinenti alla giurisdizione. Le ipotesi sono quelle previste dall’art.37;

2)Per violazione delle norme sulla competenza,quando non è prescritto il regolamento di


competenza. La precisazione <<quando non è prescritto il regolamento di competenza>> è
necessaria perché, nei casi in cui i giudici di merito abbiano emanato un’ordinanza con cui abbiano
statuito soltanto sulla competenza, la parte soccombente può far valere il vizio soltanto per mezzo
del regolamento (necessario) di competenza, che, come sappiamo,è soggetto a una ben diversa
disciplina.

3)Per violazione o falsa applicazione di norme di diritto (errores in iudicando). Poiché trattasi si
errores in iudicando, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che deve trattarsi di
norme di diritto sostanziale (giacché delle norme processuali si dispone negli altri numeri, tranne il
5), e che per diritto debba intendersi non solo la legge dello stato,ma qualsiasi altra fonte
normativa secondaria (es. : regolamenti amministrativi). In linea logica, si ha violazione di norma di
diritto quando il giudice abbia correttamente individuato la disposizione applicabile,ma abbia
errato nell’interpretarla; si ha invece falsa applicazione quando il giudice non abbia correttamente
individuato la normativa applicabile;

4)Nullità della sentenza o del procedimento. Trattasi di errores in procedendo e quindi della
violazione di norme processuali. Si deve comunque trattare di vizi previsti a pena di nullità e per i
quali non si sia verificata, nel corso del processo, alcuna sanatoria. Possiamo ricondurre in questo
ambito l’ipotesi in cui il giudice abbia escluso alcune prove,ritenendole erroneamente irrilevanti o
inammissibili.

5)Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le
parti. Tale motivo non è proponibile in 2 casi :

a)nel caso suesposto dell’art.348 bis,e cioè il caso in cui il giudice d’appello dichiari con ordinanza
l’inammissibilità dell’appello stesso; in tal caso si impugnerà in cassazione non tale ordinanza, ma
la sentenza di primo grado ai sensi dell’art.360, però con esclusione del motivo di cui al n.5
(PRINCIPIO DELLA DOPPIA CONFORME, in base al quale, se l’appellante, in appello, si limita alla
mera riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal
primo giudice, oppure di questioni superflue o palesemente inconsistenti, il giudice può dichiarare
con ordinanza l’appello inammissibile);

b) quando la sentenza di appello (nel merito) sia conforme a quella di primo grado. In tal caso non
è permesso il ricorso per cassazione per il motivo di cui al n.5 dell’art.360;

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6)Per la qualità dei motivi, disciplinati dall’art.360 bis : <<Il ricorso è inammissibile:
1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla
giurisprudenza della Corte e l'esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare
l'orientamento della stessa;
2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del
giusto processo.>>.
Da questo articolo è desumibile che non basta denunciare nel ricorso vizi riconducibili a uno dei 5
motivi indicati dall’art.360; è necessario,infatti, che tali motivi abbiano anche una sorta di
“marchio di qualità”,che si ottiene quando il ricorso stesso non presenti i requisiti di cui all’art.360
bis.
I numeri 1) e 2) fatto rispettivamente riferimento a norme sostanziali e a norme processuali.
La verifica delle “qualità” del ricorso è effettuata attraverso un esame preliminare di ammissibilità
svolto da un’apposita sezione delle Corte composta, di regola, da magistrati appartenenti a tutte
le sezioni. Tale sezione, infatti, decide preliminarmente l’ammissibilità o meno del ricorso in
camera di consiglio con ordinanza non impugnabile.
La previsione di tale esame preliminare è stata introdotta dalla riforma del 2009 con lo scopo di
deflazionare il carico di lavoro della Corte. Tale esame, proprio perché preliminare, è stato definito
“filtro in Cassazione”.

IL PROCEDIMENTO

Il procedimento in Cassazione è molto semplice. L’atto introduttivo prende il nome di “ricorso”, e


va prima notificato all’altra o alle altre parti, e poi depositato nella cancelleria della Corte. E’
sufficiente la sola notificazione alla controparte per impedire il passaggio in giudicato della
sentenza impugnata. Il deposito, infatti, è necessario non all’instaurazione,ma alla prosecuzione
del rapporto processuale. I termini sono : 6 mesi dalla pubblicazione, o 60 giorni dalla
notificazione.

La parte che propone il ricorso è detta “ricorrente”; l’altra parte (intimata) è detta “resistente”.

Il ricorso, a differenza della citazione, non contiene una specifica vocatio in ius : spetta infatti alla
Corte fissare le ulteriori tappe del procedimento. A differenza del primo grado, infatti, è la Corte a
fissare l’udienza, e non la parte.

Gli elementi necessari del ricorso sono stabiliti dall’art.366, il quale recita :

<<Il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità:


1) l'indicazione delle parti;
2) l'indicazione della sentenza o decisione impugnata;
3) l'esposizione sommaria dei fatti della causa;
4) i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l'indicazione delle norme di diritto su cui si
fondano, secondo quanto previsto dall'articolo 366 bis;
5) l'indicazione della procura, se conferita con atto separato e, nel caso di ammissione al gratuito

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patrocinio, del relativo decreto;


6) la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui
quali il ricorso si fonda.>>.

Una volta completato con tali elementi, il ricorso, come specifica l’art.365,deve essere <<diretto
alla Corte e sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto nell’apposito
albo,munito di procura speciale.>>

Una volta sottoscritto, come specifica l’art.369 co.1, <<il ricorso deve essere depositato nella
cancelleria della corte, a pena di improcedibilità , nel termine di giorni venti dall'ultima
notificazione alle parti contro le quali è proposto>>.

La parte intimata,cioè il resistente,ha diverse possibilità:

a)Se si limita a una mera difesa, chiedendo il rigetto del ricorso, notifica il suo controricorso , che
formalmente è modellato sul ricorso (artt. 365 e 366). La disciplina del controricorso è prevista
dall’art.370,il quale recita :
<<La parte contro la quale il ricorso è diretto, se intende contraddire, deve farlo
mediante controricorso da notificarsi al ricorrente nel domicilio eletto entro venti giorni dalla
scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso. In mancanza di tale notificazione, essa
non può presentare memorie, ma soltanto partecipare alla discussione orale.
Al controricorso si applicano le norme degli articoli 365 e 366, in quanto è possibile.
Il controricorso è depositato nella cancelleria della Corte entro venti giorni dalla notificazione,
insieme con gli atti e i documenti e con la procura speciale, se conferita con atto separato>>.

b)Nel caso di soccombenza ripartita, il resistente può proporre ricorso incidentale; con il ricorso
incidentale il resistente non si limita a difendersi e a replicare ai motivi contenuti nel ricorso (come
avviene con il controricorso), ma impugna specificamente parti della sentenza che lo pregiudicano,
chiedendone la cassazione. Tale ricorso va inserito nell’atto contenente il controricorso, ma può
anche essere legittimamente presentato con atto a sé stante, purché sia notificato nel termine
previsto. Il ricorso incidentale è disciplinato dall’art.371,il quale recita :
<<La parte di cui all'articolo precedente deve proporre con l'atto contenente il
controricorso l'eventuale ricorso incidentale contro la stessa sentenza.
La parte alla quale è stato notificato il ricorso per integrazione a norma degli articoli
331 e 332 deve proporre l'eventuale ricorso incidentale nel termine di quaranta giorni dalla
notificazione, con atto notificato al ricorrente principale e alle altre parti nello stesso modo del
ricorso principale.
Al ricorso incidentale si applicano le disposizioni degli articoli 365, 366 e 369.
Per resistere al ricorso incidentale può essere notificato un controricorso a norma dell'articolo
precedente.
Se il ricorrente principale deposita la copia della sentenza o della decisione impugnata, non è
necessario che la depositi anche il ricorrente per incidente>>.

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Come sappiamo, la soccombenza può essere anche teorica. Si ha soccombenza teorica, in genere,
quando la parte, pur essendo risultata completamente vittoriosa sulle domande (nel merito),
abbia visto rigettate o dichiarate assorbite le eccezioni proposte o le questioni rilevabili d’ufficio.
La Suprema Corte, però, ha tenuto ben distinti i 2 casi, cioè quello del rigetto delle questioni e
quello dell’assorbimento (cioè quando le questioni siano assorbite dall’accoglimento di altre tesi) :
la Suprema Corte ha, infatti, specificato che, nel solo caso di rigetto, la parte totalmente vittoriosa
nel merito può proporre un ricorso incidentale condizionato, con cui vengono fatte valere
questioni preliminari di merito o pregiudiziali di rito in cui sia rimasto soccombente. Tale tipo di
ricorso incidentale è detto “condizionato” perché naturalmente condizionato all'accoglimento del
ricorso principale. Nel caso, invece, in cui le questioni siano risultate assorbite dall’accoglimento di
altre tesi, secondo la Cassazione, non c’è soccombenza neppure teorica, e non risulta così possibile
il ricorso incidentale condizionato.

L’art.371 specifica, inoltre, che il ricorrente, destinatario del ricorso incidentale (da parte del
resistente), può resistere a sua volta con controricorso.

In conclusione, con il controricorso il resistente si limita a chiedere il rigetto della domanda del
ricorrente; con ricorso incidentale chiede invece la cassazione della sentenza.

Dopo tali adempimenti, il Presidente della Cassazione assegna il ricorso all’organo giudicante. In
base alla composizione dell’organo giudicante abbiamo sezioni semplici e sezioni unite.

Il ricorso va assegnato alle Sezioni Unite soltanto nei casi previsti dall’art.374; questi casi sono :

a)motivi attinenti alla giurisdizione (n.1 dell’art.360), ma solo su questioni di giurisdizione nuove,
cioè quelle sulle quali le sezioni unite non si sono già pronunciate. Il Presidente, infatti, come
specifica il comma 1 dell’art.374, può assegnare il ricorso alle sezioni semplici se sulla questione di
giurisdizione proposta si sono già pronunciate le sezioni unite;

b)caso di contrasto tra le sezioni semplici, cioè il caso in cui il ricorso presenti una questione di
diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici (art.374 co.2). In tal caso si rende
necessaria la pronuncia a sezioni unite per ricomporre l’unità dell’interpretazione;

c)questioni di particolare importanza (art.374 co.2) (per affermare principi di massima in materie
particolarmente delicate).

In tutti gli altri casi non compresi in questi suesposti la Corte pronuncia a sezioni semplici (5
giudici).

Prima della riforma del 2009 il primo presidente poteva assegnare il ricorso ad una sezione
semplice o alle sezioni unite. Dopo la riforma del 2009, invece, se il primo presidente non ritiene di
dover rimettere la questione alle sezioni unite, non può assegnarla direttamente ad una sezione
semplice, ma deve invece inviarla alla sezione appositamente composta (c.d. “filtro in Cassazione”
previsto dall’art.360 bis) che è tenuta a pronunziarsi sulla eventuale inammissibilità del ricorso.
Solo all’esito di tale giudizio preliminare il ricorso è assegnato dal primo presidente ad una delle
sezioni semplici per la trattazione.

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Una volta che il primo presidente abbia assegnato il ricorso alle sezioni, fissa l’udienza. Per i ricorsi
assegnati alle sezioni unite, il primo presidente nomina un relatore; per quelle assegnate alle
sezioni semplici,il relatore è nominato dal presidente della sezione (art.377).

In base all’art.378 <<Le parti possono presentare le loro memorie in cancelleria non oltre cinque
giorni prima dell’udienza>>. C’è da precisare, però, che le memorie che le parti possono
presentare in cancelleria sono destinate esclusivamente ad illustrare e chiarire i motivi
dell’impugnazione, o a confutare le tesi avversarie; pertanto, con le stesse non è possibile dedurre
nuove censure, né specificare, integrare o ampliare il contenuto dei motivi originariamente
preposti.

LA DISCUSSIONE (art.279). Il relatore è uno dei giudici che ha il compito di narrare le vicende del
giudizio. Di tale narrazione viene poi fatta una relazione. Dopo la relazione si invitano gli avvocati
delle parti a parlare per svolgere le loro difese. Le difese che gli avvocati sono chiamati a svolgere
dopo la relazione vanno circoscritte nei limiti del motivo del ricorso dedotti,non potendo essere
proposti motivi di censura nuovi. Dopo tali difese si dà la parola al P.M. . Il P.M. è un magistrato,
ma non un giudice di quel giudizio; questi, infatti, non partecipa alla decisione finale, ma gli viene
data la parola solo per esprimere un parere (oralmente) su come bisogna deliberare e con
conclusioni motivate. Tale parere è obbligatorio, ma non vincolante. La presenza del P.M. (e del
suo parere) è data dalla vecchia idea che lo stesso, nel processo civile, impersonifica il Governo, e
quindi lo Stato.

LE DECISIONI DELLA SUPREMA CORTE

Le decisioni della Suprema Corte possono avere diversi contenuti :

a)quelle sulla giurisdizione e sulla competenza stabiliscono in modo definitivo e vincolante quale
giudice deve decidere la controversia. La Corte, quando pronuncia su questioni di giurisdizione o
competenza, cassa con rinvio; individua,cioè, il giudice fornito di giurisdizione o competente,
ordinando la rimessione della causa allo stesso. La Corte, però, cassa senza rinvio nei casi di
carenza assoluta di giurisdizione(che vedremo nel paragrafo successivo).

b)vi sono poi le pronunce negative,che hanno come effetto il passaggio in giudicato della sentenza
impugnata. Le pronunce negative possono essere di 2 tipi :
-di tipo processuale,cioè le pronunce di inammissibilità (ex artt. 365 e 366) o di improcedibilità (ex
artt. 369 e 371);
-di tipo sostanziale,cioè le pronunce di rigetto del ricorso.

c)vi sono,infine,le decisioni di accoglimento,cioè quelle decisioni con le quali la sentenza


impugnata viene cassata, cioè annullata, eliminata, perché la corte ritiene fondati i vizi denunciati
nel ricorso. Tali tipi di decisioni danno luogo a 2 ipotesi,cioè la cassazione senza rinvio e la
cassazione con rinvio,che vedremo nel prossimo paragrafo.

LA CASSAZIONE SENZA RINVIO E LA CASSAZIONE CON RINVIO

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LA CASSAZIONE SENZA RINVIO. La Corte, quando cassa senza rinvio, non rimette il giudizio al
giudice di merito, come nel caso del rinvio, ma annulla la sentenza impugnata, accogliendo così il
ricorso del ricorrente (giudizio rescindente). I casi in cui la Corte cassa senza rinvio sono previsti
dalla legge e sono :

1)difetto assoluto di giurisdizione(art.382 co.3), cioè quando non vi è nessun giudice nazionale
fornito di giurisdizione sul giudizio in esame, e non è quindi possibile accedere alla tutela
giurisdizionale. Vi è difetto assoluto di giurisdizione in 2 casi :
a)mero interesse di fatto (quindi non tutelato dalla legge);
b)causa spettante a giudice straniero.
In tali casi non c’è rinvio perché non c’è giudice che può decidere – già all’origine – tale causa.

2)improponibilità della causa (es. : mancanza dei presupposti processuali o delle condizioni,
litispendenza) o improseguibilità del giudizio (es. : mancata integrazione del contraddittorio senza
che il processo sia stato dichiarato estinto).
Tali casi sono previsti dall’art.382 co.3.
C’è da aggiungere che sia nel caso di cui al n. 1), sia nei casi previsti dal n.2), nulla passa in
giudicato, ma con una particolarità : se la Corte cassa per improseguibilità del giudizio per un vizio
verificato in primo grado nulla passa in giudicato, ma se il vizio di improseguibilità si è verificato in
appello, la cassazione della Corte riguarda soltanto la sentenza d’appello, e passa così in giudicato
la sentenza di primo grado. Tali conseguenze non si verificano nel caso della improponibilità
perché il giudizio risulta viziato già dall’inizio, perché la domanda non poteva essere proposta.

3)caso in cui la Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata, decidendo però la causa nel
merito perché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto (art.384 co.2). Questo è l’unico
caso in cui il ricorso per Cassazione, da rimedio rescindente, diventa rimedio rescissorio; è questo,
infatti, l’unico caso in cui la Corte decide nel merito (giudizio rescissorio). Tale ipotesi costituisce
una espressa eccezione alla regola generale che individua la Cassazione come giudice di sola
legittimità.

LA CASSAZIONE CON RINVIO. Nel caso di cassazione con rinvio la Corte rimette la causa ad altro
giudice di pari grado rispetto a quello che ha pronunciato la sentenza cassata.

Il rinvio è previsto dall’art.383 co.1°, il quale recita : <<La Corte, quando accoglie il ricorso per
motivi diversi da quelli richiamati nell'articolo precedente (decisione delle questioni di
giurisdizione e di competenza), rinvia la causa ad altro giudice di grado pari a quello che ha
pronunciato la sentenza cassata>>.

L’impianto dell’istituto del rinvio, però, non è realizzato con assoluta precisione sistematica; si
suole infatti classificare il rinvio in 2 tipi : rinvio proprio e rinvio improprio.

IL RINVIO PROPRIO. Il rinvio proprio si ha nei casi dei nn. 3) e 5) di cui all’art.360. Il rinvio è proprio,
in questi casi, perché la Corte cassa una sentenza che è corretta dal punto di vista procedurale, ma

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non corretta da un punto di vista sostanziale (errores in iudicando). La Corte, quindi, si trova a
cassare una sentenza il cui processo si è svolto regolarmente,ma la cui decisione è sbagliata.

IL RINVIO IMPROPRIO. Il rinvio improprio si ha nei casi dei nn. 1) , 2) e 4) di cui all’art.360. In questi
casi il rinvio è detto “improprio” perché viene posto in essere unicamente per un vizio
procedurale. A differenza del rinvio proprio, quindi, la Corte cassa unicamente per un vizio del
procedimento (errores in procedendo), e non per errores in iudicando. Il giudizio viene perciò
riportato in secondo grado e, poiché il rinvio viene fatto soltanto per un vizio di procedura, nulla
esclude che la decisione presa in questo grado sia uguale a quella della sentenza cassata.

Sia in caso di rinvio proprio che in caso di rinvio proprio la causa viene rinviata ad altro giudice di
pari grado a quello che ha pronunciato la sentenza cassata, ma con una differenza : col rinvio
proprio il nuovo giudice (inteso come persona fisica) deve essere diverso (anche se di pari grado)
da quello che ha pronunciato il provvedimento cassato per garantire l’imparzialità del giudizio di
rinvio. L’art.383 è infatti rispettato ove il rinvio avvenga ad ufficio giudiziario territorialmente
diverso, ma di pari grado al giudice che pronunziò il provvedimento cassato; La Corte, tuttavia,
interpreta la disposizione nel senso che è possibile il rinvio anche ad altra sezione dello stesso
ufficio giudiziario. Col rinvio improprio, invece, proprio perché l’errore che ha portato alla
cassazione è soltanto procedurale, il giudice (inteso ancora come persona fisica) cui il rinvio è
diretto è lo stesso di quello che ha pronunciato il provvedimento cassato.

La norma comune ad entrambi i tipi di rinvio è l’art.392,il quale recita : << La riassunzione della
causa davanti al giudice di rinvio, può essere fatta da ciascuna delle parti non oltre sei mesi
dalla pubblicazione della sentenza della Corte di cassazione.
La riassunzione si fa con citazione, la quale è notificata personalmente a norma degli articoli 137 e
seguenti>>.

Ciò che invece cambia, tra i 2 tipi di rinvio è la disciplina applicabile a seguito del rinvio.

A seguito del rinvio proprio, infatti, sono applicabili tali articoli :

-Art.393 - Estinzione del processo.<< Se la riassunzione non avviene entro il termine di cui
all'articolo precedente, o si avvera successivamente ad essa una causa di estinzione del giudizio di
rinvio, l'intero processo si estingue; ma la sentenza della Corte di cassazione conserva il suo effetto
vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda>> .
La norma, prevedendo che la sentenza della Corte conserva efficacia vincolante anche a seguito
dell’estinzione del giudizio di rinvio, mira al contempo a tutelare esigenze di economia processuale
ed a mantenere il carattere vincolante del principio di diritto individuato dal giudice di legittimità.
Di conseguenza, se si estingue il giudizio di rinvio (proprio) nulla passa in giudicato.

-Art.394, co.3° - Procedimento in sede di rinvio. << Nel giudizio di rinvio può deferirsi il giuramento
decisorio, ma le parti non possono prendere conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel
quale fu pronunciata la sentenza cassata, salvo che la necessità delle nuove conclusioni sorga dalla
sentenza di cassazione>>.
La disposizione è intesa nel senso che sono vietate tutte le attività difensive nuove e, quindi, non

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solo le nuove domande o le nuove eccezioni, ma anche le nuove allegazioni di fatti e le nuove
richieste istruttorie,con la sola eccezione del giuramento decisorio.

Per il rinvio improprio, invece, non valgono tali regole,ma quelle del grado in cui la causa è
rimessa.

IL RINVIO AL GIUDICE DI PRIMO GRADO

Come il giudice d’appello, i cui casi sono previsti dall’art.345, anche la Corte può rinviare il giudizio
al giudice di primo grado. Il caso è disciplinato dall’art.383 co.3°, il quale recita : << La Corte, se
riscontra una nullità del giudizio di primo grado per la quale il giudice d'appello avrebbe dovuto
rimettere le parti al primo giudice, rinvia la causa a quest'ultimo>>.
Solo in questo caso il giudice del rinvio è quello di primo grado; in tutti gli altri casi il giudice del
rinvio è sempre il giudice di secondo grado.

IL PRINCIPIO DI DIRITTO NELL’INTERESSE DELLA LEGGE E LA FUNZIONE NOMIFILATTICA

Art.363 – Principio di diritto nell’interesse della legge : << Quando le parti non hanno
proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è
ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il Procuratore generale presso la Corte di
cassazione può chiedere che la Corte enunci nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il
giudice di merito avrebbe dovuto attenersi.
La richiesta del procuratore generale, contenente una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni
di diritto poste a fondamento dell'istanza, è rivolta al primo presidente, il quale può disporre che la
Corte si pronunci a sezioni unite se ritiene che la questione è di particolare importanza.
Il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d'ufficio, quando il ricorso proposto
dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare
importanza.
La pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito>>.

La norma va ricondotta alla funzione di nomofilachia (o funzione nomofilattica) assegnata alla


Corte di Cassazione; infatti, pur essendo le pronunce della Corte vincolanti solo nei confronti delle
parti processuali, ad esse tende ad uniformarsi la giurisprudenza di merito, attesa l’autorevolezza
da cui promanano. Le decisioni della Corte, infatti, costituiscono precedenti autorevoli ma non
vincolanti.
Il principio di diritto, pertanto, costituisce una particolare e specifica interpretazione di una o più
norme giuridiche prospettata ed enunciata dalla Suprema Corte.
La Corte può così enunciare tali principi senza impulso di parte, cioè senza che il soccombente in
secondo grado abbia impugnato la sentenza d’appello in Cassazione; il legislatore ha dato tale
potere alla Corte per creare un’interpretazione uniforme in giurisprudenza di una o più norme
giuridiche legate a casi analoghi.
Come specifica l’ultimo comma, <<La pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del
giudice di merito>>, ma l’enunciazione del principio di diritto servirà comunque per eventuali casi

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analoghi futuri, così da influenzare la giurisprudenza quando andrà ad interpretare le stesse norme
sulle quali la Corte ha pronunciato.

CAPITOLO 10° - L’IMPUGNAZIONE DELLE SENTENZE NON DEFINITIVE


La sentenza non definitiva è una sentenza come tutte le altre dal punto di vista della
soccombenza; ciò significa che la sentenza non definitiva può essere impugnata. Dobbiamo però
distinguere il caso in cui la sentenza non definitiva è stata pronunciata in primo grado e la si
impugna in appello, dal caso in cui la sentenza non definitiva sia d’appello e venga impugnata in
Cassazione.

IMPUGNAZIONE IN APPELLO DI UNA SENTENZA NON DEFINITIVA. La particolarità di tale


impugnazione sta nel fatto che il processo di primo grado in cui è stata pronunciata la sentenza
non definitiva va avanti parallelamente al processo d’appello in cui quest’ultima si impugna. Si
avranno, quindi, 2 processi paralleli : quello di primo grado, che andrà avanti nel merito, e quello
d’appello con cui è stata impugnata la sentenza non definitiva.
Se l’appello sarà accolto, il processo di primo grado verrà meno per l’effetto espansivo esterno di
cui all’art. 336 co.2°. L’appello, infatti, estende i suoi effetti al giudizio di primo grado. Stessa
conseguenza si avrà nel caso in cui la sentenza non definitiva è stata pronunciata in appello e la
parte la impugni in Cassazione. Attraverso l’effetto espansivo esterno, quindi, si verifica il raccordo
tra il processo di primo grado e quello di secondo grado, o il raccordo tra il processo d’appello e il
processo in Cassazione.
Il giudice del grado in cui è stata emanata la sentenza non definitiva, su richiesta delle parti, può
anche sospendere il giudizio fino a quando non sia pronunciata la decisione, nell’altro grado,
sull’impugnazione della sentenza non definitiva. La sospensione è facoltativa.

Ritornando al caso in cui la sentenza non definitiva è stata emanata in primo grado, dobbiamo
aggiungere che la parte, al posto di impugnare subito (in appello) tale sentenza, può anche
scegliere di aspettare la fine del giudizio di primo grado per fare impugnazione; questa situazione
è possibile grazie ad un rimedio che l’ordinamento dà alla parte : la riserva di impugnazione.
La riserva di impugnazione è una dichiarazione con cui la parte soccombente in una sentenza non
definitiva esprime la volontà di impugnarla, successivamente ed unitariamente alla pronunzia che
definisce il giudizio. Con la riserva di impugnazione, quindi, la parte dichiara di impugnare, alla fine
del processo, sia la sentenza non definitiva che quella definitiva pronunciata alla fine del primo
grado. La riserva va fatta semplicemente mediante atto notificato alla controparte, o con
dichiarazione nel verbale di udienza.
La riserva di impugnazione va fatta nel termine breve (30 giorni dalla notificazione) o lungo (6 mesi
dalla pubblicazione) per impugnare, e mai oltre la prima udienza dinanzi al giudice istruttore
successiva alla sentenza non definitiva.
Se l’udienza dinanzi al giudice istruttore cade dopo il termine breve o lungo, la riserva di
impugnazione va fatta nel termine breve o lungo, e se la parte non propone né la riserva e né
l’appello immediato, la sentenza non definitiva passa in giudicato; se tale udienza cade prima del
termine breve o lungo, la riserva di impugnazione va fatta al più tardi nell’udienza stessa, fermo

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restando che se la parte all’udienza non fa riserva di impugnazione è comunque ancora in tempo
per proporre appello immediato. Tale disciplina è contenuta nell’art.340 (Riserva facoltativa di
appello contro sentenze non definitive), il quale recita : << Contro le sentenze previste
dall'articolo 278 e dal n. 4 del secondo comma dell'articolo279, l'appello può essere differito,
qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per appellare
e, in ogni caso, non oltre la prima udienza dinanzi al giudice istruttore successiva alla
comunicazione della sentenza stessa.
Quando sia stata fatta la riserva di cui al precedente comma, l'appello deve essere proposto
unitamente a quello contro la sentenza che definisce il giudizio o con quello che venga proposto,
dalla stessa o da altra parte, contro altra sentenza successiva che non definisca il giudizio.
La riserva non può più farsi, e se già fatta rimane priva di effetto, quando contro la stessa sentenza
da alcuna delle altre parti sia proposto immediatamente appello>>.

IMPUGNAZIONE IN CASSAZIONE DI UNA SENTENZA NON DEFINITIVA. L’impugnazione in


Cassazione di una sentenza non definitiva di appello ha conseguenze diverse.

Iniziamo innanzitutto col precisare che le sentenze non definitive sono previste dal n. 4)
dell’art.279, il quale richiama i numeri precedenti dello stesso articolo; dobbiamo però fare una
distinzione tra i nn. 1) , 2) e 3) in riguardo al loro oggetto :
-nei nn. 1) e 2) la pronuncia viene fatta su questioni, e non sul merito, neppure parzialmente;
-nel n.3) la pronuncia viene fatta su una parte del merito, e quindi su domande.

In base a tale distinzione, avremo conseguenze diverse se si impugna, in Cassazione, una sentenza
non definitiva pronunciata su questioni (art.279 nn. 1 e 2 ) o su domande (art.279 n. 3) :
-su DOMANDE si applica lo stesso regime previsto prima (art.340), cioè quello relativo
all’impugnazione in appello di sentenze non definitive pronunciate in primo grado; ciò è possibile
in base alla statuizione dell’art.361 co.1 : <<Contro le sentenze previste dall'articolo 278 e contro
quelle che decidono una o alcune delle domande senza definire l'intero giudizio, il ricorso per
cassazione può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di
decadenza, entro il termine per la proposizione del ricorso, e in ogni caso non oltre la prima
udienza successiva alla comunicazione della sentenza stessa>>.
-su QUESTIONI, invece, in base all’art.360 co.3 questa non è immediatamente impugnabile e
quindi non è possibile proporre ricorso per cassazione immediato. Ciò significa che, su questioni, la
parte soccombente di una sentenza non definitiva può sì impugnare quest’ultima, ma potrà farlo
soltanto alla fine del giudizio d’appello, impugnando insieme sia la sentenza non definitiva, sia
quella finale che definisce il giudizio. In questo caso, quindi, l’ordinamento dà alla parte la
possibilità di impugnare la sentenza non definitiva, però senza che questi faccia riserva di
impugnazione; è come se la scelta di fare riserva di impugnazione l’avesse fatta a monte il
legislatore, escludendo così, per la parte, la necessità di farla. L’art.360, co.3°, infatti, recita :
<<Non sono immediatamente impugnabili con ricorso per cassazione le sentenze che decidono di
questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio. Il ricorso per cassazione avverso
tali sentenze può essere proposto, senza necessità di riserva, allorché sia impugnata la sentenza
che definisce, anche parzialmente, il giudizio>>.

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CAPITOLO 11° - LA REVOCAZIONE


Prima di iniziare è utile ricordare che con un’impugnazione ordinaria si impugna una sentenza il cui
vizio emerge già nella lettura della stessa, ed è per questo motivo che sono previsti dalla legge dei
termini per impugnare; la decorrenza è quindi fissa nel tempo. Con un’impugnazione straordinaria,
invece, si impugna una sentenza il cui vizio può emergere anche in un momento successivo; è per
questo che il termine per impugnare, in questo caso, decorre da una data mobile.

La revocazione è un tipo di impugnazione che mira ad ottenere una nuova valutazione della
controversia da parte dello stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, in presenza
di circostanze non valutate o non correttamente valutate al momento della decisione.
La revocazione è un’impugnazione a critica vincolata perché è ammissibile solo per i motivi
tassativamente indicati dall’art.395.
La revocazione è un’impugnazione rescissoria perché il giudice, nell’accoglierla, non solo rimuove
la sentenza impugnata, ma la sostituisce con un’altra valida. La revocazione può essere sia
impugnazione ordinaria che impugnazione straordinaria,a seconda del motivo o per il caso per il
quale si propone. I casi di revocazione sono previsti dall’art.395,il quale recita :
<<Le sentenze pronunciate in grado d'appello o in un unico grado, possono essere impugnate
per revocazione:
1) se sono l'effetto del dolo di una delle parti in danno dell'altra;
2) se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza
oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della
sentenza;
3) se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto
produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario;
4) se la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è
questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è
incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è
positivamente stabilita, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso se il fatto non costituì un punto
controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare;
5) se la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata,
purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione;
6) se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato>>.

E’ l’art. 324 che, indicando i mezzi di impugnazione ordinari, ci dice per quali dei casi suesposti la
revocazione è impugnazione ordinaria; per tutti gli altri la revocazione è impugnazione
straordinaria.
Art.324. Cosa giudicata formale. <<Si intende passata in giudicato la sentenza che non è più
soggetta né a regolamento di competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a
revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell’articolo 395>>.

Ciò significa che per i numeri 4 e 5 (errore di fatto e sentenza contraria ad un’altra precedente
avente tra le parti autorità di cosa giudicata), trattandosi di impugnazione ordinaria, i termini per

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proporre revocazione sono : 30 giorni dalla notificazione; 6 mesi dalla pubblicazione.


Per gli altri casi, invece, poiché si tratta di impugnazione straordinaria (e il vizio della sentenza può
emergere anche dopo anni dalla sentenza), i termini decorrono da una data mobile; tale data
mobile è rappresentata dal giorno della scoperta del fatto revocatorio (art.326). La revocazione va
proposta entro 30 giorni dalla scoperta del fatto revocatorio, a pena di inammissibilità.

Per quanto riguarda la domanda di revocazione, in base all’art.398 : << La revocazione si propone
con citazione davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata.
La citazione deve indicare, a pena di inammissibilità, il motivo della revocazione e le prove relative
alla dimostrazione dei fatti di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6 dell'articolo 395, del giorno della scoperta o
dell'accertamento del dolo o della falsità o del recupero dei documenti>>.
Per <<stesso giudice>> ovviamente non s’intende lo stesso giudice come persona fisica, ma lo
stesso ufficio giudiziario.

Poiché la revocazione si propone con citazione, il relativo atto introduttivo va prima notificato e
poi depositato. L’art.399 stabilisce che la revocazione deve essere depositata, a pena di
improcedibilità, entro venti giorni dalla notificazione insieme con la copia autentica della sentenza
impugnata.

Vi è però incompatibilità tra revocazione e appello, nel senso che non si può fare ricorso alla
revocazione quando la parte ha a sua disposizione l’appello. C’è perciò un rapporto di
subordinazione (e non di concorrenza) tra i due tipi di impugnazione, e il legislatore esprime la
prevalenza dell’appello stabilendo, infatti, che qualora uno dei fatti che potrebbero giustificare la
domanda di revocazione viene in luce in pendenza del termine per appellare, <<il termine stesso è
prorogato dal giorno dell’avvenimento in modo da raggiungere i trenta giorni da esso>> (art.396
co.2). La conseguenza di tale disposizione è una conversione dei motivi di revocazione in motivi
d’appello. In nessun caso, quindi, la sentenza ancora appellabile è suscettibile di revocazione
straordinaria.

Per quanto riguarda il procedimento, le norme da applicare al giudizio di revocazione sono quelle
del grado di giudizio in cui è stata pronunziata la sentenza impugnata (art.400).

Art.403. Impugnazione della sentenza di revocazione. << Non può essere impugnata
per revocazione la sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione.
Contro di essa sono ammessi i mezzi d'impugnazione ai quali era originariamente soggetta la
sentenza impugnata per revocazione>>.
Ciò significa che l’ordinamento ha esplicitamente stabilito che contro la sentenza pronunziata
all’esito del giudizio di revocazione possono essere esperiti tutti i mezzi di impugnazione
proponibili contro la prima sentenza impugnata, con esclusione della revocazione.

Come abbiamo detto, la revocazione è un rimedio rescissorio, in quanto sono, di norma, cumulate
le fasi rescindente e rescissoria, nel senso che il giudice accerta l’esistenza del vizio revocatorio
sulla cui base annulla la sentenza impugnata, e contestualmente sostituisce alla decisione
annullata altra statuizione.

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C’è un caso (l’unico), però, in cui queste fasi si dividono : è il caso previsto dall’art.402 co.2° : <<Il
giudice, se per la decisione del merito della causa ritiene di dover disporre nuovi mezzi istruttori,
pronuncia, con sentenza, la revocazione della sentenza impugnata e rimette con ordinanza le parti
davanti all'istruttore>>.
Quindi, nel caso in cui siano necessarie ulteriori acquisizioni probatorie, il giudice, dopo aver
concluso la fase rescindente, rimette le parti davanti all’istruttore, dove avrà inizio un nuovo ed
autonomo giudizio rescissorio che non costituisce continuazione di quello precedente.
Di norma, invece, i due giudizi fanno capo allo stesso giudice, ed è proprio per questo che le fasi
della revocazione (rescindente e rescissoria) sono in genere cumulate.

CAPITOLO 12° - LA COSA GIUDICATA


Quando la sentenza non è più soggetta ad impugnazioni ordinarie si dice “passata in cosa
giudicata formale”; per “formale” intendiamo una sentenza non più impugnabile sul piano
processuale. La “cosa giudicata formale” è comunque un concetto relativo perché le sentenze
passate in giudicato, se pur non soggette più ad impugnazioni ordinarie, sono soggette, in pochi
casi previsti straordinariamente dalla legge, ad impugnazioni straordinarie.
Possiamo dire che il giudicato presuppone una certezza stabile proprio perché non più esperibili i
mezzi di impugnazione ordinari. Questa stabilità finisce con l’essere una qualità degli effetti della
sentenza e impedisce che su una determinata questione sia possibile l’intervento ulteriore sia del
giudice che ha deciso, sia di alcun altro giudice.
La “cosa giudicata formale” è prevista dall’art.324 c.p.c., il quale recita :
<<Si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta né a regolamento di
competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né a revocazione per i motivi di cui ai
numeri 4 e 5 dell'articolo 395>>.

Se sul piano processuale la “cosa giudicata formale” dà stabilità alla sentenza in quanto non più
soggetta ad impugnazioni ordinarie, sul piano sostanziale produce la “cosa giudicata sostanziale”
che, per l’appunto, regola definitivamente gli assetti e gli interessi sostanziali tra le parti. A seguito
della “cosa giudicata sostanziale” gli effetti della sentenza divengono infatti immutabili. La “cosa
giudicata sostanziale” è quindi il prodotto, la conseguenza, della “cosa giudicata formale” in base
all’art. 2909 cod.civ., il quale recita :
<<L'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato [c.p.c. 324] fa stato a ogni effetto
tra le parti, i loro eredi o aventi causa>>.
Quindi, quando la sentenza è meramente processuale rimane solo “cosa giudicata formale”;
quando la sentenza è nel merito, insieme alla “cosa giudicata formale”, si produce anche la “cosa
giudicata sostanziale”

I LIMITI OGGETTIVI DEL GIUDICATO

a)L’autorità del giudicato copre non solo il dedotto, ma anche il deducibile in relazione al
medesimo oggetto; cioè, non soltanto le ragioni fatte valere in giudizio (il c.d. giudicato esplicito),
ma anche tutte quelle altre le quali, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono, tuttavia,
precedenti logici, essenziali e necessari della pronuncia (c.d. giudicato implicito). La cosa giudicata,

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insomma, copre ogni questione che avrebbe potuto avere rilievo per la definizione della
controversia al momento in cui questa è stata decisa.

b)L’autorità del giudicato opera entro i limiti degli elementi costitutivi dell’azione (soggetti,
oggetto e causa petendi) e l’ambito della sua estensione si determina non soltanto relativamente
all’oggetto della controversia ed alle ragioni fatte valere dalle parti (giudicato esplicito), ma anche
relativamente agli accertamenti che sono inscindibilmente collegati alla decisione di cui
costituiscono il presupposto, sicché la cosa giudicata si forma non soltanto sulle statuizioni
espresse nel dispositivo della sentenza, ma anche sulle affermazioni che si presentino come il
fondamento logico-giuridico della decisione adottata.

I LIMITI SOGGETTIVI DEL GIUDICATO

In base al già visto art.2909 cod. civ. la sentenza passata in giudicato, o meglio, “la cosa giudicata
sostanziale”, ha effetto soltanto tra le parti, gli eredi e gli aventi causa. Da tale statuizione ne
scaturisce che la sentenza, benché perfettamente valida, e passata in giudicato, non può
estendere i suoi effetti nei confronti dei terzi. La sentenza, infatti, non giova e non nuoce al terzo,
che ne rimane estraneo; ne consegue che il terzo può mettere sempre in discussione l’assetto
d’interessi determinato dalla sentenza (cosa giudicata sostanziale),e tale principio discende dal
principio del contraddittorio (art. 101) in base al quale il giudice non può statuire sopra alcuna
domanda se la parte contro la quale è proposta non è stata messa in condizione di difendersi. Il
terzo, quindi, non essendo stato parte del giudizio, può mettere in discussione la sentenza e le sue
statuizioni.

CAPITOLO 13° - L’OPPOSIZIONE DI TERZO


Se la sentenza fa effetto soltanto tra le parti,i loro eredi e gli aventi causa, com’è possibile che un
terzo possa fare opposizione ad una sentenza? La risposta va data in base all’osservazione che una
sentenza, benché passata in giudicato, o comunque esecutiva, può comunque, anche se in rari
casi, pregiudicare i diritti di un terzo in base a situazioni intimamente comprenetate tra loro;
insomma, situazioni che possono coinvolgere sia le parti, sia i terzi.

L’opposizione di terzo, quindi, è un’impugnazione straordinaria, ed è straordinaria per diversi


motivi :
a)straordinaria perché è proponibile anche quando la sentenza è passata in giudicato, perché non
è detto che il terzo venga pregiudicato subito dalla sentenza;
b)straordinaria perché è l’unica impugnazione senza termine;
c)straordinaria perché è l’unica impugnazione in cui si deroga alla regola della legittimazione, che è
una delle condizioni per proporre impugnazione e consiste nell’aver rivestito la qualità di parte nel
grado precedente.

L’opposizione di terzo è prevista dall’art.404, il quale recita :


<<Un terzo può fare opposizione contro la sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva
pronunciata tra altre persone quando pregiudica i suoi diritti.

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Gli aventi causa e i creditori di una delle parti possono fare opposizione alla sentenza, quando è
l'effetto di dolo o collusione a loro danno>>.

Il comma 1° , di cui abbiamo già parlato, disciplina l’opposizione di terzo ordinaria; il comma 2°
l’opposizione di terzo revocatoria.

L’opposizione di terzo revocatoria è una forma di tutela dei terzi come l’azione revocatoria
prevista dall’art.2901 cod. civ.; con l’azione revocatoria, però, sono tutelati i creditori del debitore,
mentre con l’opposizione di terzo revocatoria sono tutelati sia i creditori che gli aventi causa della
parte processuale (debitore). Inoltre, mentre con l’azione revocatoria c’è un atto di disposizione
del patrimonio del debitore che pregiudica il terzo, con l’opposizione di terzo revocatoria si mira
ad eliminare il pregiudizio prodotto da una sentenza nella sfera giuridica di un terzo (creditore o
avente causa), affetta da dolo o collusione (processo fraudolento) tra le parti processuali messa in
atto a tal scopo.
I soggetti legittimati all’opposizione di terzo revocatoria, quindi, sono solo i creditori e gli aventi
causa.
Mentre per l’opposizione di terzo ordinaria non è previsto un termine, per proporre l’opposizione
di terzo revocatoria il termine è di 30 giorni dalla scoperta della collusione o del fatto doloso tra le
parti.

Art.405.Domanda di opposizione : <<L'opposizione è proposta davanti allo stesso giudice che ha


pronunciato la sentenza, secondo le forme prescritte per il procedimento davanti a lui.
La citazione deve contenere, oltre agli elementi di cui all'articolo 163, anche l'indicazione della
sentenza impugnata e, nel caso del secondo comma dell'articolo precedente, l'indicazione del
giorno in cui il terzo è venuto a conoscenza del dolo o della collusione, e della relativa prova>>.
Il giudice competente è,quindi, lo stesso giudice che ha emanato la sentenza che si impugna, ed il
rito da seguire è lo stesso adottato per il processo concluso con la sentenza che si impugna.

CAPITOLO 14° - I PROCESSI ORDINARI A RITO DIFFERENZIATO : IL PROCESSO DEL


LAVORO
IL PROCESSO DEL LAVORO IN GENERALE

Il nostro codice di procedura civile è diviso in 4 libri; il quarto di questi libri è dedicato ai
procedimenti speciali. Il processo del lavoro, si tenga ben presente, non è un procedimento
speciale, ma un rito speciale. Il processo del lavoro è, infatti, un processo a cognizione piena, ma
con forme diverse e sommarie.
Il processo di cognizione, perciò, è di 2 tipi :

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-il processo di cognizione ordinario, che è il processo che abbiamo studiato finora;
-il processo del lavoro, che ora andremo ad esaminare.

Il rito speciale del lavoro è stato introdotto con la legge 533/1973 e si caratterizza per la sua
concentrazione e speditezza. Tali caratteristiche caratterizzano il processo del lavoro perché è
stato introdotto per tutelare i lavoratori che, per la loro posizione, necessitano di una tutela
maggiore.

Art.409 – Controversie individuali di lavoro : <<Si osservano le disposizioni del presente capo nelle
controversie relative a:
1) rapporti di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all'esercizio di una impresa;
2) rapporti di mezzadria, di colonia parziaria, di compartecipazione agraria, di affitto a coltivatore
diretto, nonché rapporti derivanti da altri contratti agrari, salva la competenza delle sezioni
specializzate agrarie;
3) rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si
concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale,
anche se non a carattere subordinato;
4) rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente
attività economica;
5) rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici ed altri rapporti di lavoro pubblico, sempreché
non siano devoluti dalla legge ad altro giudice>>.

La norma individua le controversie alle quali si applica la disciplina speciale del c.d. rito del lavoro.
Ne consegue che il rito ordinario può essere considerato come rito residuale, in quanto si applica
nei casi in cui sarà applicabile il rito del lavoro.
Il n.1) fa riferimento ai rapporti subordinati, nei quali vi possono rientrare sia quelli inerenti
l’esercizio di un’impresa, sia quelli domiciliari; è sufficiente, perciò, un vincolo di subordinazione
per rientrare nelle controversie di cui al n.1).
Il n.2) elenca alcuni rapporti agrari, ma la norma prosegue nel dire che possono far parte di questa
categorie qualsiasi rapporto derivante da contratto agrario. Il rito del lavoro resta applicabile
nonostante la presenza delle sezioni specializzate agrarie. La linea di confine tra la competenza del
giudice del lavoro e quella delle sezioni specializzate agrarie non è facile da fissare.
Il n.3) fa riferimento ai rapporti di rappresentanza commerciale e ai rapporti di collaborazione,
anche se non a carattere subordinato. Si suole far rientrare in questa categoria anche i rapporti
derivanti da parasubordinazione, cioè quei rapporti che si caratterizzano non tanto per la loro
subordinazione giuridica, quanto per la loro subordinazione economica. I requisiti per far parte di
questi rapporti sono le prestazioni d’opera continuative e coordinate, e il carattere
prevalentemente personale delle stesse.
I nn. 4) e 5) fanno invece riferimento ai rapporti di lavoro degli enti pubblici sia economici che non
economici. Si sono avute nel corso degli anni diverse riforme in tema di pubblico impiego, il cui filo
conduttore è nel senso di attribuire al giudice ordinario la competenza esclusiva in materia di
pubblico impiego. Restano, però, nella competenza del giudice amministrativo quelle controversie

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relative a rapporti di lavoro di categorie non privatizzate (es. : magistrati, avvocati, personale
militare e delle forze di polizia dello Stato, ecc.).

Il giudice del lavoro è anche competente sulle controversie in materia previdenziale. L’art.422
individua tali controversie come quelle che riguardano : le assicurazioni sociali, gli infortuni sul
lavoro, le malattie professionali e gli assegni familiari, e ogni altra forma di previdenza e di
assistenza obbligatoria.

Art.413 – Giudice competente : <<Le controversie previste dall'articolo 409 sono in primo grado di
competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro.
Competente per territorio è il giudice nella cui circoscrizione è sorto il rapporto ovvero si trova
l'azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la
sua opera al momento della fine del rapporto.
Tale competenza permane dopo il trasferimento dell'azienda o la cessazione di essa o della sua
dipendenza, purché la domanda sia proposta entro sei mesi dal trasferimento o dalla cessazione.
Competente per territorio per le controversie previste dal numero 3) dell'articolo 409 è il giudice
nella cui circoscrizione si trova il domicilio dell'agente, del rappresentante di commercio ovvero del
titolare degli altri rapporti di collaborazione di cui al predetto numero 3) dell'articolo 409.
Competente per territorio per le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni è il giudice nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio al quale il dipendente
è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto.
Nelle controversie nelle quali è parte una Amministrazione dello Stato non si applicano le
disposizioni dell'articolo 6 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611.
Qualora non trovino applicazione le disposizioni dei commi precedenti, si applicano quelle
dell'articolo 18.
Sono nulle le clausole derogative della competenza per territorio>>.

La competenza per materia in relazione alle controversie ex art.409 spetta al tribunale (mai al
giudice di pace) in funzione di giudice del lavoro. Il tribunale in funzione di giudice del lavoro non
costituisce un giudice speciale, ma è composto da giudici ordinari che applicano le regole del rito
del lavoro. Presso ciascun tribunale è istituita una speciale sezione del lavoro alla quale sono
assegnati stabilmente giudici destinati alla trattazione delle controversie di cui all’art.409.
La competenza del giudice del lavoro è territorialmente ripartita attraverso fori speciali
elettivamente concorrenti :
a)per le cause di cui ai nn. 1) e 2) dell’art.409 sono previsti 3 fori concorrenti:
-tribunale del luogo in cui è sorto il rapporto;
-tribunale del luogo in cui si trova l’azienda;
-tribunale del luogo in cui sono eseguite le prestazioni di lavoro;
b)per le cause di cui al n.3) dell’art.409 il foro è dato dal tribunale del domicilio dell’agente,
rappresentante o collaboratore;
c)per le cause di cui ai nn. 4) e 5) dell’art.409 la competenza è del giudice del luogo in cui ha sede
l’ufficio al quale il dipendente è addetto.
d)Il 7° comma prevede, infine, come foro sussidiario quello generale per le persone fisiche

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(residenza del convenuto).


Da tenere presente è anche l’ultimo comma dell’art.413, che sancisce la competenza territoriale
inderogabile del giudice del lavoro.

IL PROCEDIMENTO : LA FASE INTRODUTTIVA

Art.414 – Forma della domanda : <<La domanda si propone con ricorso, il quale deve contenere:
1) l'indicazione del giudice;
2) il nome, il cognome, nonché la residenza o il domicilio eletto del ricorrente nel comune in cui ha
sede il giudice adito, il nome, il cognome e la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto; se
ricorrente o convenuto è una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, il
ricorso deve indicare la denominazione o ditta nonché la sede del ricorrente o del convenuto;
3) la determinazione dell'oggetto della domanda;
4) l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative
conclusioni;
5) l'indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in particolare dei
documenti che si offrono in comunicazione>>.

La scelta della forma del ricorso come atto introduttivo è operata dal legislatore per consentire
all’attore di instaurare un rapporto diretto con il giudice, il quale, sin dall’inizio, può controllare il
procedimento e distribuire le cause in modo da assicurarne l’effettiva trattazione e discussione.
Gli elementi che compongono tale citazione sono sostanzialmente gli stessi di quelli che formano
la citazione, tranne la vocatio in ius, che nell’art.163 è contenuta nei nn. 6) e 7), mentre
nell’art.414 è assente.
L’art.414 non prevede sanzioni nel caso in cui non siano rispettati i requisiti di contenuto-forma in
esso previsti. Dal momento che problemi relativi alla vocatio in ius sono da escludere, il problema
in concreto si pone per i vizi dell’editio actionis, relativa alla enunciazione della pretesa.
La giurisprudenza è dell’avviso che nel caso in cui il vizio riguardi i nn. 1) e 2) dell’art.414 possa
esserci sanatoria ex art.164 (con effetti ex nunc), mentre sembra collegare ai vizi di cui ai nn. 3) e
4) una nullità insanabile.

Art.415 – Deposito del ricorso e decreto di fissazione dell’udienza : <<Il ricorso è depositato nella
cancelleria del giudice competente insieme con i documenti in esso indicati.
Il giudice, entro cinque giorni dal deposito del ricorso, fissa, con decreto, l'udienza di discussione,
alla quale le parti sono tenute a comparire personalmente.
Tra il giorno del deposito del ricorso e l'udienza di discussione non devono decorrere più di sessanta
giorni.
Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza, deve essere notificato al convenuto, a
cura dell'attore, entro dieci giorni dalla data di pronuncia del decreto, salvo quanto disposto
dall'articolo 417.
Tra la data di notificazione al convenuto e quella dell'udienza di discussione deve intercorrere
un termine non minore di trenta giorni [ … ]>>.

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Il ricorso con gli elementi di cui sopra, in quanto tale, va prima depositato e poi notificato. Gli
effetti processuali si producono dal momento del deposito; quelli sostanziali dalla notificazione.
Nel rito del lavoro, infatti, il deposito in cancelleria del ricorso, oltre ad integrare la costituzione
dell’attore, determina altresì la litispendenza, essendo il primo momento in cui, rivolgendosi al
giudice, si instaura un rapporto tra due dei tre soggetti tra i quali si svolge il processo. Di
conseguenza, nel rito del lavoro, non può mai verificarsi la contumacia dell’attore.
Dobbiamo però far presente che il termine di cui al 3° comma nella realtà pratica non viene quasi
mai rispettato a causa dell’enorme carico di lavoro gravante sugli uffici giudiziari; tra il giorno del
deposito del ricorso e l’udienza di discussione intercorre quasi sempre un periodo ben maggiore di
60 giorni.

Art.416 – Costituzione del convenuto : << Il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima
della udienza, dichiarando la residenza o eleggendo domicilio nel comune in cui ha sede il giudice
adito.
La costituzione del convenuto si effettua mediante deposito in cancelleria di una memoria
difensiva, nella quale devono essere proposte, a pena di decadenza, le eventuali domande in via
riconvenzionale e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio.
Nella stessa memoria il convenuto deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad
una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda,
proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto ed indicare specificamente, a pena di decadenza, i
mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente
depositare>>.

Nel rispetto del principio della concentrazione, l’art.416 dispone che il convenuto deve costituirsi
almeno 10 giorni prima dell’udienza mediante deposito in cancelleria di una memoria difensiva,
che può contenere :
-domande riconvenzionali;
-eccezioni in senso stretto;
-articolazione dei mezzi di prova.
Questi azioni rappresentano, allo stesso tempo, anche le preclusioni del convenuto in caso di
costituzione tardiva.

Art.418 – Notificazione della domanda riconvenzionale : << Il convenuto che abbia proposta
una domanda in via riconvenzionale a norma del secondo comma dell'articolo 416 deve, con
istanza contenuta nella stessa memoria, a pena di decadenza dalla riconvenzionale medesima,
chiedere al giudice che, a modifica del decreto di cui al secondo comma dell'articolo 415, pronunci,
non oltre cinque giorni, un nuovo decreto per la fissazione dell'udienza.
Tra la proposizione della domanda riconvenzionale e l'udienza di discussione non devono decorrere
più di cinquanta giorni.
Il decreto che fissa l'udienza deve essere notificato all'attore, a cura dell'ufficio, unitamente alla
memoria difensiva entro dieci giorni dalla data in cui è stato pronunciato.
Tra la data di notificazione all'attore del decreto pronunciato a norma del primo comma e quella
dell'udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di venticinque giorni>>.

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In seguito alla domanda riconvenzionale, l’attore è titolare degli stessi poteri, oneri e preclusioni
che l’art.416 prevede per il convenuto, con la differenza che l’udienza di discussione cui fare
riferimento non è quella originaria, bensì quella fissata in seguito all’istanza ex art.418. Infatti,
l’art.418 stabilisce che il convenuto che propone domanda riconvenzionale deve chiedere lo
spostamento dell’udienza, che verrà fissata col rispetto del termine di cui al 2° comma (non più di
50 giorni tra la proposizione della domanda riconvenzionale e l’udienza di discussione).
La fissazione di tale nuova udienza si rende necessaria per far sì che l’attore originario (convenuto
in riconvenzionale) sia posto in condizione di giungere all’udienza di discussione con cognizione
delle allegazioni e richieste avanzate dalla controparte.

Art.419 – Intervento volontario : << Salvo che sia effettuato per l'integrazione necessaria
del contraddittorio, l'intervento del terzo ai sensi dell'articolo 105 non può aver luogo oltre il
termine stabilito per la costituzione del convenuto, con le modalità previste dagli
articoli 414 e 416 in quanto applicabili>>.

Nel processo del lavoro è consentito l’intervento del terzo, ma <<non può aver luogo oltre il
termine stabilito per la costituzione del convenuto>> (e, quindi, almeno 10 giorni prima
dell’udienza) per evitare allungamenti di tale tipo di giudizio, che per legge dovrebbe essere più
celere di quello ordinario.
Si ritiene possibile l’intervento, in qualità di terzo, delle associazioni sindacali, laddove sia
finalizzato alla tutela di un interesse proprio o anche per sostenere le ragioni di una delle parti.
La formulazione dell’art.419 è, però, troppo sintetica perché, a differenza di ciò che prevede
l’art.418 per il caso di proposizione della domanda riconvenzionale, non richiede che si dia vita ad
un analogo subprocedimento tale che garantisca alle parti originarie di esercitare con pienezza il
diritto di difesa. E’ intervenuta, così, la Corte costituzionale che, con pronuncia additiva, ha esteso
al caso dell’intervento le stesse disposizioni previste dall’art.418 per la riconvenzionale.

IL PROCEDIMENTO : L’UDIENZA DI DISCUSSIONE

L’udienza fissata dal giudice in base agli articoli precedenti è l’udienza di discussione (art.420).
L’udienza di discussione mira alla piena realizzazione dei principi di concentrazione e
immediatezza del processo del lavoro perché include in sé anche l’udienza di trattazione.
L’udienza di discussione, infatti, costituisce il fulcro di tutto il procedimento, cioè il momento in cui
si svolge e si definisce la causa, e si basa su un interrogatorio libero che il giudice fa alle parti.
Pur essendo tendenzialmente unica, l’udienza va distinta in 3 fasi.
-FASE PRELIMINARE. E’ la fase iniziale dedicata alla regolarità degli atti e all’espletamento del
tentativo di conciliazione. Nella fase iniziale, infatti, il giudice valuta se il contraddittorio è integro
(art.102) e se v’è la necessità-opportunità di disporre la chiamata di terzi su istanza di parte
(art.106). La chiamata di terzi su istanza di parte deve essere formulata dal convenuto nella
memoria di costituzione ex art.416; l’attore potrebbe formularla anche all’udienza, se la necessità
è conseguenza della posizione difensiva assunta dal convenuto. E’, perciò, probabile che l’esigenza
della chiamata del terzo ex art.106 venga fuori successivamente, cioè dopo che le parti siano state
interrogate liberamente, così come soltanto successivamente il giudice potrà apprezzare se è il
caso di disporre la chiamata del terzo d’ufficio ex art.107. Per questi casi, l’art.420, co. 9°, dispone :

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<<Nel caso di chiamata in causa a norma degli articoli 102, secondo comma, 106 e 107, il giudice
fissa una nuova udienza e dispone che, entro cinque giorni, siano notificati al terzo il
provvedimento nonché il ricorso introduttivo e l'atto di costituzione del convenuto, osservati i
termini di cui ai commi terzo, quinto e sesto dell'articolo 415. Il termine massimo entro il quale
deve tenersi la nuova udienza decorre dalla pronuncia del provvedimento di fissazione>>.
Come abbiamo già accennato, l’udienza di discussione si basa su un interrogatorio libero. Infatti,
quando le parti – una o entrambe – sono presenti, il giudice deve interrogarle liberamente. Il
legislatore ritiene essenziale questo contatto diretto tra giudice e parti e lo ha incentivato
sanzionando la mancata comparizione, che costituisce comportamento valutabile ai fini della
decisione (art.420, co. 1°). La comparizione delle parti serve anche perché il giudice deve tentare
di conciliare la lite : infatti, il 1° comma dell’art.420 prevede che, esaurito l’interrogatorio libero
delle parti, il giudice formuli una proposta transattiva il cui rifiuto senza giustificato motivo
costituisce anch’esso comportamento valutabile ai fini del giudizio.
Esaurita la fase preliminare senza conciliazione, il giudice passa all’esame del merito e il giudizio
prosegue con l’assunzione e ammissione delle prove (ovviamente quando la causa non può essere
decisa immediatamente).
-FASE ISTRUTTORIA. Il giudice valuta la rilevanza (e l’ammissibilità) dei mezzi di prova che le parti
abbiano proposti tempestivamente (negli scritti introduttivi o alla stessa udienza, quando non
abbiano potuto proporli prima) e con ordinanza resa in udienza ne dispone l’immediata
assunzione. Se ciò non sia possibile (ed è quanto accade normalmente), egli fissa una nuova
udienza, non oltre 10 giorni dalla prima, concedendo alle parti, ove ricorrano gravi motivi, un
termine perentorio non superiore a 5 giorni prima dell’udienza di rinvio per il deposito in
cancelleria di note difensive. In questa nuova udienza il giudice ammette i nuovi mezzi di prova
che la controparte ha il diritto di proporre, nel termine perentorio di 5 giorni, in relazione alle
prove proposte ed ammesse per la prima volta in udienza. Il potere istruttorio del giudice del
lavoro è disciplinato dall’art.421.
Art.421 – Poteri istruttori del giudice : <<Il giudice indica alle parti in ogni momento le
irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate assegnando un termine per
provvedervi, salvo gli eventuali diritti quesiti.
Può altresì disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori
dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di
informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti. Si
osserva la disposizione del comma sesto dell'articolo precedente.
Dispone, su istanza di parte, l'accesso sul luogo di lavoro, purché necessario al fine
dell'accertamento dei fatti, e dispone altresì, se ne ravvisa l'utilità, l'esame dei testimoni sul luogo
stesso.
Il giudice, ove lo ritenga necessario, può ordinare la comparizione, per interrogarle liberamente sui
fatti della causa, anche di quelle persone che siano incapaci di testimoniare a norma
dell'articolo 246 o a cui sia vietato a norma dell'articolo 247>>.
L’art.421,che disciplina l’assunzione delle prove, è stato considerato come una delle disposizioni
che si segnala per un alto tasso di novità e di diversità, in quanto, a differenza di ciò che prevede
per il processo ordinario l’art.115, imprima al processo un carattere accentuatamente ufficioso.

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Nel processo del lavoro, infatti, il giudice ha poteri istruttori più ampi rispetto al giudice del rito
ordinario. Ciò è stato permesso per garantire maggiormente la tutela dei lavoratori.
La norma parla di un potere del giudice di <<disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione
di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento
decisorio>>. E’ da mettere subito in chiaro che la disposizione non tocca il principio della domanda
e tutto ciò che le fa da contorno. Quindi, resta nel monopolio delle parti l’introduzione dei fatti
rilevanti, quanto meno dei fatti principali. Ci sembra altrettanto indiscutibile che la norma faccia
riferimento al catalogo delle prove regolate nel codice civile e nel codice di procedura civile, ed al
valore probatorio ad esse assegnato. In altre parole, essa non apre la porta alle prove atipiche e
tanto meno stravolge la gerarchia delle prove quale è fissata nei codici. In questa cornice, la
possibilità di non tener conto dei limiti previsti dal codice civile è assai ridotta. Una lettura del
genere graverebbe di eccessivo garantismo. Sembra, perciò, più aderente al significato delle
parole adoperate dal legislatore ritenere che, quando una circostanza di fatto rilevante e quando
una possibilità probatoria siano emerse nel processo, il giudice possa disporre la prova ufficiosa da
qualunque parte e in qualunque modo l’una e l’altra siano emerse.
Anche gli altri poteri previsti dall’art.421 (es. : accesso sul luogo di lavoro, informazioni presso le
associazioni sindacali, ecc.) non fanno altro che confermare gli ampi poteri istruttori che la legge
dà al giudice del lavoro.
-FASE DECISORIA. La fase decisoria sarà trattata singolarmente nel prossimo paragrafo.

IL PROCEDIMENTO – LA FASE DECISORIA

Esaurita l’istruzione della causa, si passa alla fase della decisione. Gli artt.429 ss. determinano i
modi, le forme e l’efficacia di tale decisione, ma l’art.423 contempla alcuni provvedimenti a
contenuto decisorio che possono essere emanati già in corso di causa e sui quali è necessario
soffermarsi preliminarmente.

Art.423 – Ordinanze per il pagamento di somme : <<Il giudice, su istanza di parte, in ogni stato del
giudizio, dispone con ordinanza il pagamento delle somme non contestate.
Egualmente, in ogni stato del giudizio, il giudice può, su istanza del lavoratore, disporre con
ordinanza il pagamento di una somma a titolo provvisorio quando ritenga il diritto accertato e nei
limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova.
Le ordinanze di cui ai commi precedenti costituiscono titolo esecutivo [474].
L'ordinanza di cui al secondo comma è revocabile con la sentenza che decide la causa>>.

Le ordinanze pronunziate ai sensi dell’articolo in commento hanno funzione di provvedimenti


anticipatori della decisione finale emessi a cognizione sommaria. Le ordinanze sono di 2 tipi : al
primo comma è prevista l’ordinanza che il giudice può emettere per il pagamento di somme non
contestate; al secondo comma è prevista l’ordinanza per il pagamento di una somma a titolo
provvisorio su diritto già accertato. Quest’ultima è revocabile con la sentenza che definisce il
giudizio (poiché <<a titolo provvisorio>>). Entrambe, però, costituiscono titolo esecutivo (art.423,
co. 3°).

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Però, il tipo normale di decisione idoneo a porre termine al processo resta, anche nel rito speciale,
la sentenza.

Art.429 – Pronuncia della sentenza : <<Nell'udienza, il giudice, esaurita la discussione orale e udite
le conclusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura
del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. In caso di
particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore
a sessanta giorni, per il deposito della sentenza.
Se il giudice lo ritiene necessario, su richiesta delle parti, concede alle stesse un termine non
superiore a dieci giorni per il deposito di note difensive, rinviando la causa all'udienza
immediatamente successiva alla scadenza del termine suddetto, per la discussione e la pronuncia
della sentenza.
Il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di
lavoro, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente
subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della
somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto>>.

Lo schema processuale predisposto dal legislatore, dettato dall’esigenza di concentrazione tipica


del processo del lavoro, prevede un rapporto di successione immediata tra attività istruttoria,
discussione e decisione della causa o, se le attività non sono concentrate in unica udienza, almeno
tra discussione e decisione. La lettura del dispositivo e delle motivazioni (prevista dal 1° comma)
nella stessa udienza rappresentano una novità ed una particolarità del rito del lavoro che
conferma il principio della concentrazione.
Il deposito della sentenza da parte del giudice è in genere immediato. Solo in caso di particolare
complessità della controversia il giudice potrà differire il deposito della sentenza dalla lettura del
dispositivo, nel quale andrà fissato il termine (non superiore a 60 giorni) per detto deposito.
Altra particolarità è data dal 3° comma : viene contemplata, sempre per esigenze di tutela del
lavoratore, la svalutazione monetaria, che non è presente nell’art.1224 cod. civ., relativo ai danni
nelle obbligazioni pecuniarie. L’art.1224 fa infatti riferimento soltanto agli interessi legali e
all’eventuale risarcimento per il danno sofferto dal creditore.

Art.431 – Esecutorietà della sentenza : << Le sentenze che pronunciano condanna a favore del
lavoratore per crediti derivanti dai rapporti di cui all'articolo 409 sono provvisoriamente esecutive.
All'esecuzione si può procedere con la sola copia del dispositivo, in pendenza del termine per il
deposito della sentenza.
Il giudice di appello può disporre con ordinanza non impugnabile che l'esecuzione sia sospesa
quando dalla stessa possa derivare all'altra parte gravissimo danno.
La sospensione disposta a norma del comma precedente può essere anche parziale e, in ogni caso,
l'esecuzione provvisoria resta autorizzata fino alla somma di duecentocinquantotto euro e ventitre
centesimi.
Le sentenze che pronunciano condanna a favore del datore di lavoro sono provvisoriamente
esecutive e sono soggette alla disciplina degli articoli 282 e 283.

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Il giudice di appello può disporre con ordinanza non impugnabile che l'esecuzione sia sospesa in
tutto o in parte quando ricorrono gravi motivi>>.

Quando il giudice legge il dispositivo a norma dell’art.429, rinviando a data successiva il deposito
della sentenza, deve disporre che esso sia allegato al fascicolo d’ufficio, affinché ne possano essere
rilasciate copie in forma esecutiva (art.431, 2° co.).
L’art.431, nel tempo in cui è stato formulato, rappresentava un’eccezione perché attribuiva
immediata efficacia esecutiva alle sentenze di condanna pronunciate in favore del lavoratore per
crediti derivanti dai rapporti di cui all’art.409, autorizzando il giudice d’appello, in caso di
impugnazione, a sospendere l’esecuzione soltanto quando all’altra parte poteva derivare
gravissimo danno. In più, è stato previsto che all’esecuzione si possa procedere anche sulla base
del solo dispositivo in pendenza del termine per il deposito della sentenza (quando il deposito non
è rinviato a data successiva a norma del 1° comma dell’art.429, questo deve avvenire entro 15
giorni dalla lettura del dispositivo). La modifica dell’art.282 (in base al quale <<la sentenza di primo
grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti>>), però, ha fatto perdere all’art.431 tutta la sua
eccezionalità; ne consegue che, oggi, l’art.431 ha un valore soltanto storico.
C’è ancora una cosa da aggiungere : l’art.431 parla di esecuzione delle condanne a <<crediti>> :
sicuramente vi sono ricompresi i crediti di danaro; è però probabile che si debbano includere fra
questi anche i crediti a prestazioni di dare o fare.

Art.428 – Incompetenza del giudice : <<Quando una causa relativa ai rapporti di cui
all'articolo 409 sia stata proposta a giudice incompetente, l'incompetenza può essere eccepita dal
convenuto soltanto nella memoria difensiva di cui all'articolo 416 ovvero rilevata d'ufficio dal
giudice non oltre l'udienza di cui all'articolo 420.
Quando l'incompetenza sia stata eccepita o rilevata ai sensi del comma precedente, il giudice
rimette la causa al tribunale in funzione di giudice del lavoro, fissando un termine perentorio non
superiore a trenta giorni per la riassunzione con rito speciale>>.

L’art.413 dichiara <<nulle le clausole derogative della competenza per territorio>> nel rito del
lavoro. Ne consegue che la competenza per territorio è inderogabile. Però, se coordiniamo tale
comma con l’art.428 ne consegue che la competenza per territorio nel rito del lavoro è
inderogabile soltanto prima del processo; nel corso del giudizio, infatti, tale competenza possiamo
definirla come “relativamente derogabile” perché l’art.428 sancisce dei momenti oltre i quali
l’incompetenza non può più essere eccepita : la memoria difensiva di cui all’art.416 se
l’incompetenza è eccepita dal convenuto; l’udienza di cui all’art.420 se l’incompetenza è rilevata
d’ufficio.

Art.426 – Passaggio dal rito ordinario al rito speciale : <<Il giudice, quando rileva che una causa
promossa nelle forme ordinarie riguarda uno dei rapporti previsti dall'articolo 409, fissa
con ordinanza l'udienza di cui all'articolo 420 e il termine perentorio entro il quale le parti
dovranno provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito
di memorie e documenti in cancelleria.
Nell'udienza come sopra fissata provvede a norma degli articoli che precedono>>.

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L’art.426 regola l’ipotesi in cui una controversia di lavoro sia stata erroneamente proposta nelle
forme del rito ordinario. Si tratta, in questo caso, di una questione di solo rito; il giudice dovrà,
quindi, provvedere al mutamento del rito da ordinario a speciale mediante ordinanza. L’ordinanza
di mutamento del rito deve provvedere a fissare l’udienza di discussione e il termine perentorio
per integrare gli atti introduttivi e controdedurre alle avverse integrazioni.
Il mutamento del rito non travolge gli effetti sostanziali e processuali della domanda e lascia
immutate le decadenza maturatesi.

Art.427 – Passaggio dal rito speciale al rito ordinario : <<Il giudice, quando rileva che una causa
promossa nelle forme stabilite dal presente capo riguarda un rapporto diverso da quelli previsti
dall'articolo 409, se la causa stessa rientra nella sua competenza dispone che gli atti siano messi in
regola con le disposizioni tributarie; altrimenti la rimette con ordinanza al giudice competente,
fissando un termine perentorio non superiore a trenta giorni per la riassunzione con il rito
ordinario.
In tal caso le prove acquisite durante lo stato di rito speciale avranno l'efficacia consentita dalle
norme ordinarie>>.

L’art.427 disciplina l’ipotesi inversa a quella prevista dall’art.426 ma, a differenza di questo, è
applicabile anche all’ipotesi in cui la controversia, per ragioni di competenza (non solo di rito),
debba essere trasmessa ad un giudice diverso da quello adito. Anche in questo caso il giudice
provvede con ordinanza, disponendo che gli atti siano messi in regola con le disposizioni tributarie,
se la causa rientra nella sua competenza; se, invece, la causa non rientra nella sua competenza, ma
rientra nella competenza per valore o per materia di altro giudice, la rimette al giudice
competente (sempre con ordinanza), fissando un termine perentorio non superiore a 30 giorni per
la riassunzione con il rito ordinario.

Con la presenza degli articoli 426 e 427 possiamo affermare con certezza che l’art.428 riguarda il
solo caso dell’incompetenza territoriale del tribunale del lavoro originariamente adito.

LA FASE D’IMPUGNAZIONE

Art.433 – Giudice d’appello : <<L'appello contro le sentenze pronunciate nei processi relativi alle
controversie previste nell'articolo 409 deve essere proposto con ricorso davanti alla Corte di
appello territorialmente competente in funzione di giudice del lavoro.
Ove l'esecuzione sia iniziata prima della notificazione della sentenza, l'appello può essere proposto
con riserva dei motivi che dovranno essere presentati nel termine di cui all'articolo 434>>.

Art.434 – Deposito del ricorso in appello : <<Il ricorso deve contenere le indicazioni prescritte
dall'articolo 414. L'appello deve essere motivato. La motivazione dell'appello deve contenere, a
pena di inammissibilità:
1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che
vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;
2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini
della decisione impugnata.

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Il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte di appello entro trenta giorni
dalla notificazione della sentenza, oppure entro quaranta giorni nel caso in cui la notificazione
abbia dovuto effettuarsi all'estero>>.

La devoluzione al tribunale (in funzione di giudice del lavoro) di tutte le controversie di primo
grado in materia di lavoro fa sì che il giudizio di impugnazione vada attribuito all’ufficio giudiziario
immediatamente superiore : la Corte d’appello. Nell’ambito della Corte, l’appello andrà assegnato
alla sezione incaricata di trattare separatamente le controversie di lavoro; trattasi, tuttavia, di
ripartizione meramente interna all’ufficio, la cui inosservanza non incide sulla competenza né sulla
validità del giudizio.
L’appello delle sentenze in materia di lavoro è diverso dall’appello ordinario : quest’ultimo
impedisce il passaggio in giudicato della sentenza attraverso la notificazione, poiché proposto con
citazione; l’appello di cui all’art.433, invece, poiché proposto con ricorso, impedisce il passaggio in
giudicato attraverso il deposito.
Il 2° comma dell’art.433 prevede l’appello con riserva dei motivi, cioè l’appello che, proposto
prima della notificazione della sentenza, è sprovvisto dei suoi motivi, che saranno presentati
successivamente, cioè entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza.
L’appello con riserva dei motivi è possibile perché gli artt . 429 e 431 danno al giudice la possibilità,
in caso di particolare complessità della controversia, di separare temporalmente la lettura del
dispositivo dal deposito della sentenza. Di regola, infatti, il giudice provvede dando lettura del
dispositivo e della motivazione, per cui i motivi della decisione vengono in rilievo unitamente al
dispositivo. Poiché le sentenze in materia di lavoro emesse in primo grado sono subito esecutive
(anche solo con la copia del dispositivo, in pendenza del termine per il deposito della sentenza), ne
consegue che l’appello con riserva dei motivi ha inizialmente il solo scopo di investire il giudice
d’appello della decisione sull’istanza di sospensione dell’esecuzione. Il giudizio d’appello verrà
istaurato propriamente solo con il deposito dei motivi, da effettuarsi nei termini di cui all’art.434.
L’appello con riserva, quindi, introduce una sorta di subprocedimento mirato alla sola decisione
sulla sospensione, oltre che all’impedimento del passaggio in giudicato della sentenza di primo
grado. Ne consegue che l’inammissibilità di questo appello (ad es. perché proposto prima
dell’inizio dell’esecuzione) non comporta l’applicazione dell’art.358 sulla non riproponibilità del
rimedio. La parte potrà sicuramente proporre appello avverso la sentenza, quando sarà
depositata. Di conseguenza, nell’ipotesi in cui l’appello con riserva è ammissibile, dovrà
necessariamente essere completato dai motivi attinenti al merito della controversia (là dove il
precedente atto non avrà avuto altro oggetto che il danno). Da ricordare è che, ai sensi del 3°
comma dell’art.431, il giudice d’appello può disporre (con ordinanza) la sospensione
dell’esecuzione quando dalla stessa possa derivare all’altra parte danno gravissimo.

Art.435 – Decreto del presidente : <<Il presidente della Corte di appello entro cinque giorni dalla
data di deposito del ricorso nomina il giudice relatore e fissa, non oltre sessanta giorni dalla data
medesima, l'udienza di discussione dinanzi al collegio.
L'appellante, nei dieci giorni successivi al deposito del decreto, provvede alla notifica del ricorso e
del decreto all'appellato.

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Tra la data di notificazione all'appellato e quella dell'udienza di discussione deve intercorrere


un termine non minore di venticinque giorni>>.

Il procedimento di fissazione dell’udienza a seguito del deposito del ricorso d’appello e della
successiva notificazione è concettualmente identico a quello di primo grado [v. 415]. Differisce
solo il termine che deve intercorrere tra la notifica del ricorso e l’udienza (25 giorni e non 30).
Come già in primo grado, l’inosservanza dei termini previsti per la fissazione dell’udienza (che nella
prassi avviene, purtroppo, nella quasi totalità dei casi) non incide sulla validità o sulla procedibilità
del gravame.

Art.436 – Costituzione dell’appellato e appello incidentale : <<L'appellato deve costituirsi almeno


dieci giorni prima dell'udienza.
La costituzione dell'appellato si effettua mediante deposito in cancelleria del fascicolo e di
una memoria difensiva, nella quale deve essere contenuta dettagliata esposizione di tutte le sue
difese.
Se propone appello incidentale l'appellato deve esporre nella stessa memoria i motivi specifici su
cui fonda l'impugnazione. L'appello incidentale deve essere proposto, a pena di decadenza, nella
memoria di costituzione, da notificarsi, a cura dell'appellato, alla controparte almeno dieci
giorni prima dell'udienza fissata a norma dell'articolo precedente.
Si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni dell'articolo 416>>.

L’appellato deve, quindi, costituirsi almeno 10 giorni prima dell’udienza depositando in cancelleria
il fascicolo e una memoria difensiva, nella quale deve essere contenuta la dettagliata esposizione
di tutte le sue difese. La mancata o la tardiva costituzione della memoria difensiva importa la
preclusione di tutte le attività che, a pena di decadenza, devono compiersi con l’atto di
costituzione : reintroduzione di domande, anche riconvenzionali, e di eccezioni non esaminate o
ritenute assorbite (per le quali, ex art.346, non è richiesta la proposizione dell’appello incidentale),
deduzione e richiesta di nuove prove, ecc.
In caso di soccombenza ripartita, l’appellato può anche proporre appello incidentale (art.436, 3°
co.). Questo deve essere proposto nella memoria di costituzione, da notificarsi alla controparte
almeno 10 giorni prima dell’udienza. Nel detto termine deve aver luogo, ovviamente, anche il
deposito.

Una volta instaurato il giudizio e fissata l’udienza di discussione, sarà sufficiente applicare le norme
esposte in relazione all’appello nel processo ordinario, essendo le due discipline simili, salvo il
potere di ammettere qui, anche d’ufficio, prove che il collegio ritenga indispensabili ai fini della
decisione della causa.
Art.436 bis – Inammissibilità dell’appello e pronuncia : <<All'udienza di discussione si applicano gli
articoli 348 bis e 348 ter>>.

Una particolarità dell’appello delle sentenze in materia di lavoro è data dall’art.440, anche se tale
norma ha uno scarso valore pratico perché non è stata mai aggiornata.
Art.440 – Appellabilità delle sentenze : <<Sono inappellabili le sentenze che hanno deciso una
controversia di valore non superiore a venticinque euro e ottantadue centesimi>>.

La decisione di tale appello ha sempre la forma della sentenza e può avere contenuto processuale
o di merito.

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Sentenze processuali possono aversi per:


1)INAMMISSIBILITA’, che si ha quando :
-il gravame sia proposto fuori termine;
-vi sia stata acquiescenza;
-nessuna delle parti abbia integrato il contraddittorio tempestivamente;
-la sentenza sia inappellabile;
-non siano stati presentati i motivi nel termine prescritto (ex art.433, 2° co.);
-si sia violato l’art.434, 1° comma;
-il giudice abbia emanato ordinanza di inammissibilità per manifesta infondatezza (ex art.348 bis);
-l’appello con riserva dei motivi sia presentato prima dell’inizio dell’esecuzione (questa
inammissibilità, però, non produce la consumazione del potere di appellare);
2)ESTINZIONE.
Sentenze di merito possono essere di accoglimento o di rigetto anche parziale. Si ritengono
possibili sentenze non definitive. Nei casi previsti dagli artt. 353 e 354 la corte di appello deve
rimettere la causa al primo giudice.
Il dispositivo della sentenza deve essere letto in udienza.
Il deposito della sentenza, completa della sua motivazione, deve aver luogo entro 15 giorni dalla
pronuncia.

CAPITOLO 15° - I PROCESSI ORDINARI A RITO DIFFERENZIATO : IL PROCESSO


DAVANTI AL GIUDICE DI PACE
Il processo davanti al giudice di pace rappresenta un procedimento più semplice di quello che
abbiamo esaminato finora. La ragione sta nel fatto che il giudice di pace statuisce su controversie
più semplici di quelle dinanzi al tribunale. E’ per questo che, per i giudizi dinanzi al giudice di pace,
sono previste alcune norme caratterizzate da minore formalismo e amplificazione della
semplificazione per un raggiungimento più celere della pronunzia di merito. Oltre alle poche
norme presenti nel titolo II del libro II, la normativa applicabile per i processi dinanzi al giudice di
pace è data dalle norme relative al procedimento davanti al tribunale in composizione
monocratica (così come previsto dall’art.311).

Art.318 – Contenuto della domanda : <<La domanda, comunque proposta, deve contenere, oltre
l'indicazione del giudice e delle parti, l'esposizione dei fatti e l'indicazione dell'oggetto.
Tra il giorno della notificazione di cui all'articolo 316 e quello della comparizione devono
intercorrere termini liberi non minori di quelli previsti dall'articolo 163bis, ridotti alla metà.
Se la citazione indica un giorno nel quale il giudice di pace non tiene udienza, la comparizione
è d'ufficio rimandata all'udienza immediatamente successiva>>.

In base all’art.316, il procedimento inizia con citazione che, in base al 1° comma dell’art.318, deve
contenere, oltre l’indicazione del giudice e delle parti, l’esposizione dei fatti e l’indicazione
dell’oggetto. Lo sconto, rispetto all’art.163, riguarda i nn.5 (indicazione delle prove), 6 (indicazione
del procuratore) e 7 per la parte relativa all’invito al convenuto a costituirsi e al consequenziale
avvertimento circa le conseguenze della mancata tempestiva costituzione. Nella citazione non è
obbligatorio l’avvertimento di cui al n.7 dell’art.163 perché il convenuto può costituirsi anche
direttamente in udienza. Dobbiamo infatti tener presente che per la costituzione in giudizio non si

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applicano i termini ordinari differenziati di cui agli artt. 165 e 166, e che, quindi, entrambe le parti
possono costituirsi sino alla prima udienza o anche durante tale udienza. Ne consegue che le
preclusioni iniziano a maturare soltanto dalla prima udienza, che è udienza di trattazione.
Non sono previste decadenze.
Si tratta, perciò, di una domanda semplificata, essendo sufficiente che contenga i requisiti minimi
per azionare la tutela richiesta.
In base al 2° comma dell’art.318, <<tra il giorno della notificazione di cui all'articolo 316 e quello
della comparizione devono intercorrere termini liberi non minori di quelli previsti
dall'articolo 163bis, ridotti alla metà>>. Ne consegue che i termini risultano dimezzati rispetto al
procedimento dinanzi al tribunale.

Art.320 – Trattazione della causa : <<Nella prima udienza il giudice di pace interroga liberamente le
parti e tenta la conciliazione.
Se la conciliazione riesce se ne redige processo verbale a norma dell'articolo 185, ultimo comma.
Se la conciliazione non riesce, il giudice di pace invita le parti a precisare definitivamente i fatti che
ciascuna pone a fondamento delle domande, difese ed eccezioni, a produrre i documenti e a
richiedere i mezzi di prova da assumere.
Quando sia reso necessario dalle attività svolte dalle parti in prima udienza, il giudice di pace fissa
per una sola volta una nuova udienza per ulteriori produzioni e richieste di prova.
I documenti prodotti dalle parti possono essere inseriti nel fascicolo di ufficio [168 c.p.c.] ed ivi
conservati fino alla definizione del giudizio>>.

La prima udienza è, quindi, udienza di trattazione. Nella stessa udienza il giudice interroga le parti
e ne tenta la conciliazione. Se la conciliazione non riesce, il giudice provvede subito ad invitare le
parti a determinare in maniera definitiva il tema della controversia, a produrre documenti e a
richiedere mezzi di prova. In tal caso, il giudice può fissare una sola seconda udienza per ulteriori
deduzioni e richieste di prova, che potranno essere assunte anche in udienza.
Dalla norma si desume, pertanto, la regola che la trattazione della causa può esaurirsi anche in
una sola udienza.

Art.321 – Decisione : <<Il giudice di pace, quando ritiene matura la causa per la decisione, invita le
parti a precisare le conclusioni e a discutere la causa.
La sentenza è depositata in cancelleria entro quindici giorni dalla discussione>>.

Dall’art.321 si desume che - poiché il processo dinanzi al giudice di pace è ispirato al principio di
oralità, concentrazione e semplificazione - l’udienza finale di tale giudizio accorpa la precisazione
delle conclusioni, la discussione e lo scambio delle relative comparse.
Anche il termine per il deposito della sentenza è ridotto a metà.

Ulteriore dimostrazione della semplicità del processo dinanzi al giudice di pace è data dal fatto che
le parti possono stare in giudizio da sole (senza, cioè, difesa dell’avvocato) nelle cause fino ad euro
1100.

Le sentenze del giudice di pace sono appellabili, come sappiamo, davanti al tribunale (art.341) e
tra tali sentenze vanno comprese anche quelle pronunciate secondo equità, per le quali l’appello è

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consentito solo per : violazione delle norme sul procedimento; violazione delle norme
costituzionali o comunitarie; violazione dei principi regolatori della materia (art.393, 3° co.).

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