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I PROCESSI SPECIALI
L’arbitrato è una delle ipotesi di risoluzione alternativa delle controversie di lavoro. Vi sono due tipi di arbitrato:
arbitrato rituale: previsto da art 806 II comma c.p.c. Sono necessarie due condizioni:
la via arbitrale sia consentita da legge o contratti collettivi di lavoro
volontà delle parti concordi di devolvere all’arbitrato la decisione della controversia
Il lodo è sempre impugnabile per violazione delle regole di diritto e per violazione dei contratti ed accordi
collettivi
arbitrato irrituale: vi sono due tipi di questo arbitrato:
art. 5 L 533/1973: deve essere autorizzato dalla legge o dai contratti collettivi, ed occorre il consenso
delle parti per la validità del lodo. Quest’ultimo, avendo efficacia di contratto tra le parti, non può
acquistare efficacia di titolo esecutivo, e come qualunque contratto può essere impugnato negli ordinari
termini di prescrizione, dinanzi al tribunale competente
artt. 412 ter-quater c.p.c.: deve esservi autorizzazione dei contratti collettivi e consenso delle parti. Inoltre
i contratti collettivi devono disporre tutta una serie di regole disciplinanti il processo arbitrale, di modo
che le parti, quando decidano di utilizzare l’arbitrato, sappiano preventivamente a cosa vanno incontro. Il
lodo in questo caso può acquisire efficacia di titolo esecutivo, ed è impugnabile dinanzi al tribunale nella
cui circoscrizione è stata la sede dell’arbitrato, nel termine di 30 gg dalla sua notificazione a controparte.
Il tribunale decide con sentenza di unico grado.
In entrambi i casi non sussiste una disciplina dei vizi del lodo, e quindi risulta possibile un arbitrato irrituale
equitativo: le parti possono prevedere che l’arbitro decida secondo equità, con lodo quindi non sindacabile in
punto di violazione delle regole utilizzate per la decisione.
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Per quanto riguarda la giurisdizione per il processo del lavoro non esiste alcuna disciplina specifica. Applichiamo
quindi i criteri ordinari della giurisdizione del giudice italiano e in particolare l’immunità dei soggetti sovrani di
diritto internazionale, che si applica ai rapporti di lavoro in cui è datore di lavoro un soggetto internazionale: in
ordine ad essi non è possibile ottenere una tutela giurisdizionale dinanzi al giudice italiano.
L’art. 413 I comma c.p.c. consente di individuare l’ufficio giudiziario in concreto competente per ciascuna
controversia:
è competente il tribunale per tutte le controversie ex art. 409 c.p.c., indipendentemente dal loro valore
sono competenti le sezioni specializzate agrarie, articolazioni interne al tribunale, per le controversie in
materia agraria (art. 409 n. 2 c.p.c.)
L’art. 413 II comma c.p.c. prevede tre criteri di competenza territoriale:
luogo ove si è perfezionato il contratto di lavoro
luogo ove si trova la sede effettiva dell’azienda, ovvero dove si concentrato i poteri di direzione ed
amministrazione
luogo ove si trova una dipendenza dell’azienda alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli
prestava la sua opera al momento della fine del rapporto (applicabile solo al lavoro dipendente)
Questi tre fori sono alternativi: l’attore può sceglierne uno qualsiasi.
La L. 128/1992 ha istituito una regola di competenza territoriale per i rapporti di parasubordinazione ex art. 409
n. 3 c.p.c.: ad essi non si può applicare il foro della dipendenza.
Per quanto riguarda le controversie di pubblico impiego, l’art. 413 V comma c.p.c., stabilisce che è competente
il giudice nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale il dipendente è addetto, o era addetto al momento di
cessazione del rapporto; inoltre, nelle controversie in cui è parte un’amministrazione dello Stato non si applica il
foro erariale, ma resta competente il tribunale individuato dall’art. 413 V comma, e non quello che ha sede nel
luogo ove si trova l’ufficio dell’avvocatura dello Stato.
Se non è possibile applicare i fori territoriali, in via sussidiaria si applicano gli artt. 18-19 c.p.c. che individuano
il foro generale delle persone fisiche e giuridiche.
L’ultimo comma dell’art. 413 c.p.c. prevede la nullità delle clausole derogative della competenza territoriale.
I termini per la rilevazione dell’incompetenza sono per il convenuto la sua memoria, e per il giudice la prima
udienza di trattazione.
Il giudice, ricevuta la domanda dell’attore, deve accertare che il diritto di cui si chieda tutela, sia ricompreso
nell’elenco delle controversie dell’art. 409 c.p.c., e che quindi sia esatto proporre il rito del lavoro:
nel caso in cui la scelta del rito si riveli corretta, il giudice procede all’istruzione del merito
se dall’istruttoria emerge che il rapporto fatto valere dall’attore sussiste tra le parti ma non ha le
caratteristiche che fondano il rito prescelto, il giudice, rigetta nel merito la domanda, e si avrà quindi
mutamento del rito
se il giudice accerta che nessun rapporto intercorre tra le parti, la sentenza di rigetto impedisce la
riproposizione della domanda dinanzi all’altro giudice
Quando sorgono problemi di rito occorre sempre stabilire se, in applicazione delle regole di competenza proprie
di ciascun rito, il giudice competente è lo stesso oppure è diverso. Vediamo le varie ipotesi:
la causa è stata proposta col rito ordinario dinanzi al tribunale, che ritiene che la causa riguarda uno dei
rapporti dell’art. 409 c.p.c., e non si pongono problemi di competenza => si applica l’art. 426 c.p.c.: il
giudice con ordinanza, rimette la causa al presidente, il quale la assegna ad un giudice appartenente alla
sezione lavoro dello stesso tribunale. Il giudice designato fissa l’udienza ed il termine entro cui le parti
devono provvedere ad eventuali integrazioni degli atti introduttivi, mediante deposito di memorie e
documenti in cancelleria
il tribunale competente territorialmente per il rito ordinario, non lo è per il rito del lavoro => l’art 38 c.p.c.
stabilisce che l’incompetenza per materia, valore e territorio è rilevabile dal convenuto nella comparsa di
risposta, e dal giudice entro la prima udienza di trattazione. Il giudice territorialmente incompetente come
giudice del lavoro, con ordinanza rimette la causa al tribunale competente territorialmente
nel passaggio dal rito del lavoro al rito ordinario, il tribunale è ugualmente competente anche col rito
ordinario => si ha passaggio della causa, tramite il presidente, dalla sezione lavoro alla sezione ordinaria.
L’art. 427 stabilisce che la prova assunta senza tener conto dei limiti di ammissibilità (n.b. nel rito del lavoro
non valgono i limiti all’ammissibilità delle prove previsti dal codice civile) del codice civile, non è
utilizzabile; invece una prova assunta su iniziativa del giudice allorchè la causa era trattata con il rito del
lavoro, resta utilizzabile anche nel rito ordinario, ancorchè assunta d’ufficio
incompetenza territoriale dovuta al mutamento di rito da speciale a ordinario => nel rito ordinario la
competenza è derogabile e rilevabile solo dal convenuto nella sua comparsa di costituzione. Se in tale
comparsa il convenuto ha eccepito l’incompetenza territoriale del giudice adito, avutosi il mutamento del rito
il giudice deve valutare tale eccezione e decidere se accoglierla dichiarandosi incompetente e rimettendo la
causa al tribunale territorialmente competente, oppure rigettarla; se il convenuto non ha inserito l’eccezione
di incompetenza nella memoria di costituzione nel rito del lavoro, l’eccezione è preclusa. Se si tratta invece
di incompetenza territoriale inderogabile, e il mutamento di rito avviene non oltre la prima udienza di
trattazione, l’incompetenza territoriale è rilevabile d’ufficio dal giudice
si ha incompetenza verticale => Due ipotesi:
se la causa è stata proposta con rito ordinario dinanzi ad un giudice di pace, e si tratta di causa di lavoro,
scatta la competenza per materia del tribunale come giudice del lavoro. Il gdp può dichiararsi
incompetente, solo se l’incompetenza è stata eccepita dal convenuto nella comparsa di risposta, o rilevata
da giudice entro la prima udienza. Il gdp rilevata la sua incompetenza, e rilevato che la controversia
rientra nell’elenco della’art. 409 c.p.c., emette un’ordinanza, impugnabile in appello, in cui dichiara che la
causa appartiene al rito del lavoro ed è di competenza del tribunale. Se l’ordinanza non viene appellata, e
la causa è riassunta dinanzi al tribunale giudice del lavoro, il rito non potrà essere mutato
se invece la causa è stata introdotta con il rito del lavoro dinanzi ad un tribunale, ma secondo il rito
ordinario è di competenza di un giudice di pace, al mutamento di rito consegue un’incompetenza per
valore o materia del tribunale. Il tribunale rimette la causa con ordinanza al gdp.
L’errore di rito non determina di per sé nullità degli atti, tranne che non abbia inciso sulla competenza, sulle
prove o sui poteri delle parti.
Ciascuna parte è obbligata a seguire il rito scelto dall’attore con l’atto introduttivo finchè non vi sia un
provvedimento del giudice che determina il mutamento del rito.
Una particolare forma di partecipazione al processo è prevista per le organizzazioni sindacali che abbiano
sottoscritto contratti o accordi collettivi in materia di pubblico impiego: ove, nel singolo processo, si renda
necessario risolvere una questione relativa all’efficacia, alla validità o all’interpretazione di clausole di un tale
accordo, l’intervento in causa delle organizzazioni sindacali può avvenire anche oltre il termine dell’art. 419
c.p.c.; in seguito all’intervento, esse possono impugnare le sentenze che decidono delle questioni relative alla
validità, efficacia, o interpretazione della clausola collettiva. Le organizzazioni sindacali anche se non
intervenute possono depositare memorie nel giudizio di merito e in quello di Cassazione.
L’art. 420 c.p.c. prefigura un’unica udienza, al termine della quale si dovrebbe avere la decisione della causa:
l’udienza di discussione. Essa comprende:
fase preliminare in cui si mettono a punto le difese contenute negli atti introduttivi, si completa l’allegazione
dei fatti storici rilevanti e la richiesta dei mezzi istruttori utili per provare tali fatti storici
raccolta delle prove (eventuale)
decisione
L’udienza deve essere improntata all’oralità e concentrazione.
Sono previsti:
tentativo di conciliazione: ha lo scopo di evitare lo svolgimento dell’attività giurisdizionale; se la
conciliazione riesce, il giudice è esonerato dalla decisione della causa. Incompetenza del giudice, carenza di
interesse ad agire, litispendenza non incidono sulla conciliazione
interrogatorio libero: ha lo scopo di consentire il miglior esercizio del potere giurisdizionale. L’incapacità
delle parti lo impedisce. L’interrogatorio libero è superfluo se esiste un vizio che impedisce la decisione di
merito. E’ lo strumento per concentrare nella fase iniziale del processo l’acquisizione di tutti gli elementi che
sono necessari per la completezza della trattazione. Sono possibili modifiche alla domanda, alle allegazioni,
alle richieste istruttorie, che sono conseguenti allo svolgimento dialettico del processo.
Se le parti concordano sull’esistenza di un fatto allegato, ciò comporta inutilità dell’istruzione probatoria su tale
fatto non controverso.
La parte nell’interrogatorio libero può farsi sostituire da un procuratore: se la parte non si presenta né nomina il
procuratore, il giudice valuta tale comportamento ai fini della decisione, essendo quest’argomento di prova.
Le novità ammesse sono:
novità di oggetto o fatti dell’attività di controparte: di fronte alla domanda riconvenzionale, si può rispondere
con memoria difensiva o replica alle nuove allegazione con apertura a tutte le deduzioni difensive che siano
conseguenza della novità introdotta in giudizio
è possibile la modificazione della domanda attraverso nuove allegazioni, eccezioni e conclusioni, se ciò è
giustificato dallo sviluppo dialettico del processo
Il giudice, per autorizzare l’ammissione della novità, deve valutare se la novità dipenda davvero dallo sviluppo
dialettico, oppure da un semplice ripensamento.
Se, in assenza di gravi motivi, le parti propongono tardivamente domande nuove, effettuano nuove allegazioni,
nuove eccezioni, nuove conclusioni, la tardività è rilevabile d’ufficio.
L’attività di allegazione dei fatti e di richiesta delle prove non può essere effettuata durante tutto il corso del
processo, ma deve essere concentrata negli atti introduttivi.
I fatti, che emergono dagli atti di causa, in particolare dall’istruttoria, sono utilizzabili per la decisione, anche se
non allegati in giudizio ad opera delle parti: i fatti provati agli atti di causa, sono utilizzabili dal giudice in virtù
del principio di acquisizione. Vi è un limite a tale principio: esso non opera rispetto ai fatti costitutivi,
identificatori di una situazione sostanziale diversa da quella dedotta in giudizio e rispetto alle eccezioni in senso
stretto che devono essere fatte valere dalle parti.
consulenza tecnica, che può essere richiesta in qualsiasi momento dalle parti o disposta d’ufficio dal giudice
richiesta di informazioni delle associazioni sindacali
giuramento decisorio, che è utilizzabile solo dopo l’espletamento dell’attività istruttoria e sulla base degli
esiti di questa
La tardività della richiesta istruttoria è rilevabile d’ufficio.
I poteri istruttori del giudice del lavoro sono più ampi del giudice nel rito ordinario:
può disporre i mezzi di prova solo sui fatti allegati dalle parti
può venire a sapere dell’esistenza della fonte di prova solo dagli atti legittimamente acquisiti in causa
si superano i limiti processuali all’ammissione della prova del c.c. => cade:
il divieto di prova testimoniale
il divieto di patti aggiunti o contrari
la prova della simulazione: anche le parti oltre ai terzi possono utilizzare la prova testimoniale
divieto di utilizzazione delle presunzioni semplici per cui la prova testimoniale è esclusa
Il procedimento di ammissione ed assunzione delle prove è identico a quello nel rito ordinario: il giudice le
assume con ordinanza revocabile e modificabile. Si può avere un’assunzione graduata dei mezzi di prova: le parti
devono richiedere cumulativamente tutte le prove relative a tutti i fatti allegati, ma il giudice può operare una
graduazione nell’assunzione delle prove, senza assumerle tutte insieme.
Per quanto riguarda le peculiarità dei singoli mezzi di prova:
prova documentale: non si orma nel processo, ma è acquisita mediante produzione, e le parti possono quindi
produrre documenti finchè la causa non passa in decisione
prova testimoniale: il giudice può interrogare liberamente anche quei soggetti che non possono testimoniare
(es. coloro che hanno un interesse tale da legittimare la loro partecipazione al processo, ma che non possono
essere assunti come testimoni in senso stretto)
ispezione: è disponibile d’ufficio
richiesta di informazioni ed osservazione alle associazioni sindacali: la parte deve indicare al giudice
l’associazione sindacale a cui richiedere informazioni, se non la indica, l’attività del giudice rimane bloccata.
Le informazioni riguardano elementi di fatto, mentre le osservazioni consistono in valutazioni. Ex art. 425
c.p.c. sono rese tramite un rappresentante dell’associazione sindacale. L’associazione ha obbligo di
rispondere se interpellata dal giudice, ma non se l’istanza è proposta dalla parte. Le informazioni e le
osservazioni hanno valore di argomenti di prova. Il giudice non può ritenere esistente un fatto
esclusivamente sulla base di esse, ma devono essere utilizzate in concorso necessario con altri strumenti
probatori per poter fondare la decisione
richiesta di contratti collettivi: ex art. 425 IV comma c.p.c., alle associazioni sindacali, il giudice può
chiedere il testo dei contratti e accordi collettivi, di cui una delle parti abbia invocato l’applicazione. In
questo caso la parte è esonerata dall’onere della prova
Per le ordinanze interinali (art. 423 c.p.c.) è prevista una disciplina che va integrata con l’art. 186 bis c.p.c. L’art.
423 c.p.c. prevede due ipotesi di ordinanza per il pagamento delle somme:
ordinanza per il pagamento di somme non contestate: è emanata a favore dell’attore, del convenuto e di
qualsiasi altro soggetto che sia parte del processo e che abbia proposto una domanda, indipendentemente
dalla sua posizione, ed in relazione a qualsiasi diritto previsto dall’art. 409 c.p.c. Oggetto dell’ordinanza è il
pagamento di una somma. Non è possibile l’emanazione della ordinanza se la parte è rimasta contumace.
Poiché il provvedimento non si fonda su una manifestazione di volontà negoziale, esso deve essere assorbito
nella pronuncia definitiva: è quindi un provvedimento provvisorio => o la sentenza definitiva conferma
l’attribuzione patrimoniale data con ordinanza, che rimane quindi assorbita, oppure la sentenza definitiva
nega l’attribuzione patrimoniale e allora la stessa sentenza può disporre se richiesta, la restituzione di quanto
pagato in virtù dell’ordinanza. L’ordinanza sopravvive all’estinzione del processo.
ordinanza per il pagamento di somme provate: può essere emessa solo a favore del lavoratore, e trova il suo
fondamento non nel comportamento processuale formalizzato delle parti, ma nel fatto che è stata raggiunta
la prova del diritto. E’ simile alla sentenza di condanna generica con riserva di quantificazione della
prestazione dovuta e relativa provvisionale, ma con una differenza: la sentenza di condanna generica è
fondata su un accertamento pieno, l’ordinanza in questione su un accertamento sommario suscettibile di
essere ripreso in considerazione al momento della decisione dallo stesso giudice che ha emesso l’ordinanza.
Anche questa ordinanza sopravvive all’estinzione del processo.
Essendo i provvedimenti dell’art. 423 provvisori, essi non sono suscettibili né di appello né di ricorso in
Cassazione.
la discussione non è necessariamente orale: ex art. 429 II comma c.p.c., la discussione può essere preparata
da scritti difensivi
differenza principale è la possibilità di decidere la controversia mediante lettura del dispositivo, e solo
successivamente depositare la sentenza. L’omessa lettura del dispositivo in udienza produce nullità della
sentenza. Il dispositivo deve essere autosufficiente per individuare la portata precettiva della sentenza; la
lettura del dispositivo esaurisce il potere giurisdizionale del giudice, in quanto la motivazione è solo una
giustificazione; la motivazione rimane cmq elemento essenziale della sentenza ex art. 111 cost => da queste
tre considerazioni ne consegue:
il dispositivo, una volta letto, non può essere revocato e l’unica attività che il giudice può compiere è il
deposito della motivazione
il contenuto del dispositivo non può essere integrato, corretto, modificato dalla motivazione: in caso di
contrasto prevale il dispositivo
se il giudice legge il dispositivo senza depositare la motivazione, la sentenza è inesistente
L’art 432 c.p.c. consente una valutazione equitativa delle prestazioni: il presupposto è che il diritto sia certo, ma
non quantificabile. La misura e la quantità della prestazione devono essere dimostrate negli atti di causa.
L’art. 429 ultimo comma c.p.c. prevede la rivalutazione del credito spettante al lavoratore: il lavoratore ha diritto,
anche senza che lo chieda e senza che provi di aver subito un danno, alla differenza tra il saggio degli interessi
legali e la rivalutazione. La rivalutazione è calcolata d’ufficio dal giudice, ed è calcolata sulla base degli indici
ISTAT.
La disciplina dell’esecutività della sentenza è contenuta nell’art. 431 c.p.c. (in caso di sentenza di condanna a
favore del lavoratore): i primi 4 commi si applicano a tutti i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c., ma limitatamente
alle condanne che hanno ad oggetto crediti. Finchè il giudice non ha depositato la sentenza, titolo esecutivo in
senso documentale è il solo dispositivo.
Le differenze del regime di esecutività tra il rito ordinario e il rito del lavoro sono le seguenti:
mentre il datore di lavoro deve attendere il deposito della sentenza per avere il titolo esecutivo, quando si
tratta di crediti del lavoratore, è sufficiente il solo dispositivo per poter iniziare l’esecuzione forzata
la sospensione dell’esecutività, da parte del giudice d’appello, è prevista in presenza di un gravissimo danno
l’esecuzione provvisoria rimane autorizzata fino a 258,23 €, mentre nei casi ordinari la sospensione può
essere totale
A questi 4 commi ne sono stati aggiunti altri due, che disciplinano il caso di sentenza di condanna a favore del
datore di lavoro, e che sono la trasposizione dei nuovi artt. 282-283 c.p.c. Si applicano anche alle sentenze che
pronunciano condanna a favore del lavoratore per diritti diversi da crediti, nonché a tutte le sentenze di condanna
emesse secondo il rito del lavoro, ma in relazione a controversie non di lavoro.
enunciano i motivi di impugnazione. L’atto deve essere depositato entro 30 gg dalla notificazione della sentenza
o 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza, pena l’inammissibilità. Dopo il deposito dei motivi, vi è la
fissazione di una nuova udienza e la notificazione alla controparte dell’atto di integrazione e del decreto di
fissazione dell’udienza.
Vediamo ora l’appello in generale.
I termini sono gli stessi del rito ordinario, tenendo però presente che essendo l’atto d’appello un ricorso i termini
decorrono dal deposito in cancelleria. Dopo il deposito il presidente della Corte d’appello fissa con decreto
l’udienza di discussione, e nomina un giudice relatore, che si limita ad esporre la causa all’udienza di
discussione, dicendo come si è svolto il processo di primo grado, qual è il contenuto dell’atto d’appello e della
memoria difensiva, se vi sono state impugnazioni incidentali ecc.. Fissata l’udienza, l’appellante deve notificare
all’appellato il ricorso con il decreto di fissazione dell’udienza. In caso di nullità del ricorso si applica l’art. 164
c.p.c., nei suoi due profili alla vocatio in ius e alla editio actionis; in caso di notificazione tardiva o viziata si
applicano i primi tre commi dell’art. 164 c.p.c., in quanto essi riguardano la vocatio in ius, e sono sanabili dalla
rinnovazione della notifica o dalla costituzione spontanea dell’appellato, con efficacia retroattiva; in caso di
omessa o inesistente notifica, si ha improcedibilità del ricorso.
Per quanto riguarda l’appellato: deve costituirsi almeno 10 gg prima dell’udienza (art. 436 I comma c.p.c.) con
deposito in cancelleria di una memoria difensiva nella quale deve essere contenuta la dettagliata esposizione di
tutte le sue difese. Nella memoria difensiva si distingue:
un contenuto minimo: replica ai motivi di impugnazione
un contenuto eventuale: riproposizione delle domande ed eccezioni; novità di allegazioni e prove
ammissibili in appello; appello incidentale
Se l’appellato si costituisce tardivamente, s ha la decadenza del contenuto eventuale della memoria difensiva.
Per quanto riguarda l’appello incidentale, è diversa la modalità di proposizione rispetto al rito ordinario: nel rito
ordinario l’appello incidentale si inserisce nella comparsa di risposta, nel rito del lavoro è inserito nel contenuto
eventuale della memoria difensiva, ed è necessaria la notifica della memoria stessa all’appellante principale e
alle altre parti, sempre entro 10 gg, pena la nullità sanabile con rinnovazione.
Le novità ammissibili in appello sono:
nuove domande: in linea di massima non sono ammesse ma abbiamo l’eccezione dell’art. 345 I comma
c.p.c. per cui “possono domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata,
nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza”. Un’altra eccezione riguarda le domande
restitutorie: la parte soccombente in primo grado, che a causa della sentenza esecutiva, abbia compiuto una
prestazione a favore della parte vittoriosa, può domandare in appello la restituzione di ciò che ha dato
nuove eccezioni: non sono ammesse ex art. 437 c.p.c. Se applichiamo una lettura restrittiva del divieto,
sarebbe possibile solo far rilevare in appello l’effetto modificativo, estintivo ed impeditivo di fatti già
allegati in primo grado e non presi in considerazione dal giudice; se applichiamo una lettura estensiva, il
divieto si riferisce solo alle eccezioni in senso stretto, rilevabili esclusivamente dalla parte: quindi per le altre
eccezioni è possibile, per la prima volta in appello, l’allegazione del fatto che le fonda
nuovi mezzi di prova: sono preclusi, cioè per essere proposti in appello devono essere nuovi =>
bisogna escludere l’ipotesi in cui sia chiesta in sede di appello l’ammissione di un mezzo di prova già
espletato in relazione agli stessi fatti che già sono stato oggetto di quel mezzo di prova
bisogna escludere quelli già richiesti in primo grado e che il giudice non ha ammesso
non sono prove nuove quelle che siano già state assunte in primo grado e delle quali il giudice d’appello
ritenga necessaria la rinnovazione
non sono prove nuove le prove invalidamente assunte
non sono prove nuove quelle relative ai fatti nuovi che siano legittimamente allegati per la prima volta in
sede d’appello
Quando è consentita l’allegazione di un fatto nuovo, deve essere anche consentita l’assunzione dei mezzi
istruttori per provare tali fatti.
In definitiva la disciplina delle nuove prove in appello, ex art. 437 c.p.c., si applica alle nuove e diverse
istanze relative a fatti già allegati nel processo di primo grado, ma solo se tali prove siano indispensabili
Alla valutazione di indispensabilità si sottrae il giuramento decisorio: il giudice può deferire d’ufficio sia il
giuramento estimatorio che il giuramento suppletorio (deferibile dal giudice quando, a istruttoria completata,
vi sono fatti non totalmente provati ma neppure totalmente sforniti di prova).
I nuovi documenti, invece, possono essere prodotti in appello sono se indispensabili, o se formati nel corso
del processo.
Vediamo il mutamento di rito in appello.
Gli atti introduttivi del processo di appello devono essere quelli che sono previsti dal rito con il quale è stata
emessa la sentenza che si vuole appellare. La proposizione con atto sbagliato non comporta di per sé
inammissibilità dell’appello: l’atto processuale, nullo per forma, si converte nell’atto giusto, se di questo ha il
contenuto, tenendo conto dei termini di impugnazione: se la parte ha notificato nei termini la citazione che va
convertita in ricorso, ma la ha depositata fuori dei termini, si ha appello tardivo; se la parte ha depositato nei
termini il ricorso da convertire in citazione, ma lo ha notificato fuori dai termini, si ha appello tardivo.
Il mutamento di rito in appello sia ha quando il giudice d’appello ritiene che il rito seguito in primo grado è
sbagliato. La rilevazione del giudice d’appello è impedita quando il giudice di primo grado si sia pronunciato
sulla questione di rito con la sentenza che ha deciso il processo e nessuna delle parti ha riproposto al giudice
d’appello la questione sulla correttezza del rito. Per individuare le conseguenze del mutamento di rito dobbiamo
distinguere:
se il mutamento avviene senza problemi di competenza => non vi è nullità automatica o generalizzata degli
atti compiuti col rito sbagliato; il mutamento comporta la necessità di valutare l’utilizzabilità degli atti
compiuti col rito sbagliato, ma non si ha la necessità di ripetere col rito giusto gli atti compiuti col rito
sbagliato. Quindi la causa pendente dinanzi ad una sezione ordinaria della corte d’appello, qualora si ritenga
che il rito corretto sia quello del lavoro, passa alla sezione del lavoro: si fissa poi un termine perentorio entro
cui si devono integrare gli atti introduttivi, e poi s ha prosecuzione col rito del lavoro (quindi con
interrogatorio libero e conciliazione). Nel passaggio da rito del lavoro e rito ordinario si ha il fenomeno
inverso.
se il mutamento comporta incompetenza del giudice => se l’incompetenza è rilevata tempestivamente,
l’eccezione è rigettata e riproposta con atto di appello abbiamo le seguenti ipotesi:
il processo di primo grado si è svolto innanzi al giudice del lavoro: la corte d’appello, mutato il rito,
dichiara competente il gdp e gli rimette la causa
il processo di primo grado si è svolto innanzi al tribunale come giudice ordinario e la corte d’appello
ritiene che si tratti di causa di lavoro: la corte muta il rito, e rimette la causa al tribunale competente
territorialmente
il processo di primo grado si è svolto innanzi al gdp, ed il tribunale come giudice d’appello ritiene che la
causa sia di lavoro; muta il rito e nel caso di incompetenza territoriale tempestivamente eccepita e
riproposta, il tribunale rimette la causa al tribunale competente. Se non vi sono problemi di competenza
territoriale, il tribunale, su richiesta delle parti, pronuncia ne merito come giudice di primo grado di rito
ordinario
La trattazione del processo d’appello è uguale a quella ordinaria: si ha trattazione collegiale.
La decisione è uguale a quella di primo grado: discussione orale e lettura in udienza del dispositivo e della
motivazione, oppure del solo dispositivo con successivo deposito della motivazione.
La sentenza d’appello è esecutiva ex lege. L’esecutività può essere sospesa a due condizioni:
è proposto ricorso per Cassazione
dall’esecuzione deriva danno grave ed irreparabile
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L’art. 447 bis c.p.c. assoggetta ad un rito speciale le cause relative a rapporti di locazione di comodato di
immobili urbani e le cause relative ad affitto di aziende.
Per tali controversie è competente il giudice del luogo dove è posto l’immobile o azienda: si tratta di
competenza territoriale inderogabile, la cui violazione è rilevabile d’ufficio, fino alla prima udienza di
trattazione.
Il rito delle locazioni è molto simile al rito del lavoro: l’art. 477 bis c.p.c. richiama quasi tutte le norme
processuali di quel rito con l’inciso “in quanto applicabili”. Ma vi sono anche delle differenze:
poteri istruttori del giudice: nel rito del lavoro egli può disporre d’ufficio in qualunque momento
l’ammissione di qualsiasi mezzo di prova, anche al di fuori dei limiti del c.c.; nel rito di locazione “il giudice
può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova”, solo nei limiti previsti
dal cod. civ. Inoltre nel rito di locazione può richiedere informazioni sia scritte che orali alle associazioni di
categoria (per rito del lavoro sono associazioni sindacali), indicate dalle parti. Infine l’ispezione può essere
disposta d’ufficio come nel rito ordinario (nel rito del lavoro può essere disposta l’ispezione del luogo di
lavoro solo su istanza di parte)
è richiamato l’art. 423 c.p.c. per quanto riguarda i provvedimenti provvisionali (ovviamente non il secondo e
il quarto comma che riguardano i provvedimenti provvisionali a favore del lavoratore)
è richiamato l’art. 429 c.p.c., primo e secondo comma (non il terzo che prevede l’istituto dell’automatica
rivalutazione delle somme dovute al lavoratore): la pronuncia della sentenza ha luogo con lettura del
dispositivo in udienza e della motivazione, oppure lettura del dispositivo e successivo deposito della
motivazione
vengono ripetuti nell’art. 477 bis c.p.c. i primi tre commi dell’art. 431 c.p.c. Quindi:
la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva ex lege
si può procedere all’esecuzione con la sola copia del dispositivo
l’esecutività è sospesa ove ricorrano un gravissimo danno per il soccombente
Non si applica il quarto comma dell’art. 431 c.p.c., che prevede il limite di 258, 23 € alla sospensione: quindi
l’esecutività può essere sospesa per intero
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I Procedimenti Sommari
Hanno la funzione di formare un provvedimento sostitutivo di quello emesso al termine di un normale processo
di cognizione, cioè di una sentenza. Sono quindi procedimenti alternativi.
La parte avversa a quella che chiede il provvedimento sommario ha diritto a far aprire, in consecuzione o in
alternativa al provvedimento speciale, un processo a cognizione piena, ordinario o speciale.
Anche questi procedimenti impartiscono tutela dichiarativa, in quanto l’atto-titolo esecutivo produce un
giudicato identico a quello di una sentenza di uguale contenuto.
Sono procedimenti sommari:
A) procedimento sommario di cognizione
B) procedimento per ingiunzione
C) procedimento per convalida di licenza o sfratto
A) PROCEDIMENTO SOMMARIO DI COGNIZIONE E’ introdotto dalla riforma del 2009, con i nuovi
articoli 702 bis e quater c.p.c..
L’ambito di applicazione coincide con le cause attribuite alla decisione monocratica del tribunale. Possono
essere proposte:
domande di mero accertamento
domande di condanna
domande costitutive
Non possono essere trattate con rito sommario:
cause di competenza del tribunale in grado di appello
controversie di competenza del giudice di pace
controversie assoggettate a rito speciale (lavoro, locazioni, sanzioni amministrative..)
La fase introduttiva coincide con quella del processo a cognizione piena: il ricorso deve contenere gli stessi
elementi della citazione. Il ricorso con il decreto di fissazione dell’udienza deve essere notificato al
convenuto almeno 30 gg prima della data fissata dell’udienza, ed il convenuto deve costituirsi almeno 10 gg
prima della data stessa.
Ex art. 702 bis IV comma c.p.c. è possibile anche la chiamata di un terzo in causa.
La fase introduttiva coincide con quella del processo a cognizione piena: in prima udienza si può avere un
mutamento del rito da sommario a cognizione piena senza regressione agli atti introduttivi.
I presupposti generali sono identici al processo a cognizione piena, con in più l’appartenenza della
controversia alla decisione monocratica del tribunale.
Gli effetti dell’ordinanza prevista dall’art. 702 ter V comma c.p.c. (Se non provvede ai sensi dei commi
precedenti, alla prima udienza il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al
contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione
all’oggetto del provvedimento richiesto e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle
domande) sono gli stessi di una sentenza di uguale contenuto. Le ipotesi nelle quali il procedimento non può
portare all’emanazione di tale ordinanza sono:
incompetenza del tribunale adito: esso pronuncia ordinanza dichiarativa di incompetenza. Se il giudice
ritiene di essere carente di giurisdizione, o che la controversia sia devoluta ad arbitri, o che vi sia un
difetto di legittimazione ecc.., lo dichiarerà con ordinanza se sarà seguita la via del rito sommario, o con
sentenza e si avrà trasformazione del rito
inammissibilità: sia ha se la domanda appartiene alla competenza del tribunale adito, ma deve essere
decisa collegialmente
per decidere la controversia è necessaria un’istruzione non sommaria: il giudice fissa l’udienza con
ordinanza non impugnabile, non modificabile né revocabile
Il processo sommario può essere convertito in processo a cognizione piena ma non viceversa.
In presenza di più cause, sia pur connesse, ma delle quali alcune non possono per ragioni diritto (perché a
decisione collegiale) o per ragioni di fatto (perché necessitano di un’istruzione non sommaria) essere decise
con il rito sommario, si ha separazione delle cause, e non cumulo. Vi è un’eccezione: in caso di cumulo non
separabile, la necessità di istruzione sommaria di una delle cause, comporta per tutte il mutamento da rito
sommario a cognizione piena.
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Alla decisione sommaria è dedicato l’art. 702 ter V comma c.p.c., per cui “il giudice, sentite le parti, omessa
ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di
istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto e provvede con ordinanza
all’accoglimento o al rigetto delle domande”. L’ordinanza di accoglimento o di rigetto, p suscettibile di
produrre gli effetti dell’art. 2909 c.c. (“l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a
ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”) se non appellata: essa è provvisoriamente esecutiva, e
costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, e per la trascrizione. L’ordinanza sommaria è
suscettibile d’appello, entro 30 gg dalla notificazione e comunicazione, se fatta prima della notificazione. In
mancanza della comunicazione si applica il termine lungo di sei mesi.
Ex art. 702 quater c.p.c., in appello “sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il
collegio li ritiene rilevanti ai fini della decisione, ovvero la parte dimostra di non aver potuto proporli nel
corso del procedimento sommario per causa ad essa non imputabile”
B) PROCEDIMENTO PER INGIUNZIONE Le condizioni di ammissibilità del decreto ingiuntivo sono:
oggetto del diritto => Ex art. 633 c.p.c. il decreto ingiuntivo può essere ottenuto in relazione ad un
credito:
per somme liquide di denaro
per quantità di cose fungibili determinate
per la consegna di cosa mobile determinata
Restano esclusi tutti i diritti diversi da quelli previsti dall’art. 633 c.p.c.: non possono quindi essere
tutelati con decreto ingiuntivo i diritti al rilascio di un immobile ed i diritti aventi ad oggetto un obbligo di
fare. Per questi non resta che la tutela con processo ordinario
prova scritta => I procedimenti sommari a cognizione sommaria si chiamano anche “monitori” e si
dividono in due categorie:
monitorio spurio: l’istante deve provare i fatti costitutivi del diritto che egli fa valere in via monitoria.
Il procedimento monitorio spurio è generalizzato e si caratterizza per il fatto che del diritto fatto
valere si deve dare prova scritta. Per prova scritta si intende la prova dei fatti costitutivi del diritto, e
deve essere presentata dall’istante. Ex art. 634 c.p.c. sono prove scritte idonee al decreto ingiuntivo
anche prove che non valgono nel processo ordinario di cognizione, e quindi:
scritture private
scritture contabili a favore dell’imprenditore anche nei rapporti con un non imprenditore
L’art. 635 c.p.c. ritiene prova sufficiente per ottenere un decreto ingiuntivo, anche i libri ed i registri
della PA la cui regolare tenuta sia attestata da notaio o altro pubblico ufficiale; inoltre per i crediti
degli enti di previdenza ed assistenza, costituiscono prova anche gli accertamenti eseguiti
dall’ispettorato del lavoro e dai funzionari di tali enti.
monitorio puro: la cognizione sommaria si limita alle affermazioni dell’attore, e l’istante non deve
provare l’esistenza dei fatti che egli allega. Le ipotesi sono le seguenti:
art. 633 n. 2: crediti riguardanti onorari o rimborsi spese, fatti da soggetti che abbiano prestato la
loro attività nel corso di un processo
art. 633 n. 3: crediti di tutti i soggetti che esercitano una libera professione per la quale esiste una
tariffa legalmente approvata
Il decreto ingiuntivo si può ottenere anche sulla base di un titolo di credito (cambiale o assegno).
Se il diritto, che si vuole tutelare col decreto ingiuntivo, dipende da una controprestazione o condizione, si
può ottenere decreto ingiuntivo, purchè l’istante fornisca elementi idonei a far presumere l’adempimento
della controprestazione o l’avveramento della condizione.
Vediamo il procedimento.
La competenza spetta al giudice competente in via ordinaria (gdp o tribunale in composizione monocratica):
se più sono gli uffici competenti in via ordinaria, si può chiedere il decreto ingiuntivo a ciascuno di essi.
La domanda ha forma di ricorso, ex art. 638 c.p.c., e deve contenere:
individuazione del credito
individuazione delle parti
individuazione del legale della parte istante
individuazione dei documenti che vengono depositati
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Essa è presentata nella cancelleria del giudice; il cancelliere forma il fascicolo e porta tutto al giudice
designato dal capo dell’ufficio.
Il giudice deve accertare la sussistenza dei presupposti processuali generali e speciali relativi al diritto che si
fa valere.
Nel procedimento per decreto ingiuntivo non si applicano i limiti alla rilevazione d’ufficio delle questioni di
rito e di merito, propri del processo a cognizione piena: pertanto il giudice può rigettare il ricorso anche
rilevando un’incompetenza territoriale semplice, oppure la prescrizione del diritto.
Se il giudice rileva una carenza sanabile, ex art. 640 c.p.c. invita il ricorrente ad integrare la domanda
insufficientemente giustificata: se la parte non ottempera, oppure se manca un presupposto non integrabile,
egli rigetta l’istanza con decreto motivato.
Nel procedimento per decreto ingiuntivo non si distingue tra rigetto in rito e in merito: si ha solo
accoglimento o rigetto. Il rigetto, su qualunque motivo sia fondato, non impedisce la riproposizione della
domanda anche in via ordinaria.
Il giudice se riscontra sussistenti tutti i presupposti processuali generali, emette il decreto ingiuntivo ex art.
641 c.p.c. ordinando alla controparte di adempiere entro 40 gg. Dal giorno in cui è emesso il decreto,
l’istante ha 60 gg di tempo per notificarlo all’ingiunto, pena l’inefficacia (stessa cosa per notificazione
viziata da inesistenza); la controparte dal momento in cui riceve la notificazione, ha 40 gg di tempo per fare
opposizione, e cioè per chiedere il processo a cognizione piena.
Il giudice col decreto liquida anche le spese, i diritti e gli onorari sostenuti dall’istante.
La notificazione all’ingiunto del decreto ingiuntivo, ad opera dell’istante, determina la litispendenza, cioè si
producono gli effetti sostanziali (interruzione e sospensione prescrizione) e processuali (non possono essere
proposti altri processi di cognizione, con oggetto la stessa situazione sostanziale) della domanda giudiziale.
In caso di omessa o inesistenza della notificazione si ha inefficacia del decreto: la domanda può essere
riproposta.
Se la notificazione è fatta validamente ma dopo i 60 gg, l’ingiunto deve instaurare la fase a cognizione piena.
Per quanto riguarda la provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo, ex art. 642 I comma c.p.c., su istanza
del ricorrente, se la prova da lui utilizzata ha certe caratteristiche, il giudice munisce di efficacia provvisoria
il decreto ingiuntivo, che diventa quindi esecutivo fin dal momento dell’emanazione. Da tale momento
diventa titolo efficace per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, e valido titolo esecutivo per l’esecuzione
forzata. Ex art. 642 II comma c.p.c. l’esecuzione provvisoria può essere concessa se vi è pericolo di grave
pregiudizio nel ritardo, oppure se il ricorrente produce un documento, sottoscritto dal debitore, che provi
l’esistenza del diritto fatto valere.
Il giudice deve dare immediata efficacia al decreto ingiuntivo quando la prova scritta, usata dall’istante, è
una cambiale, un assegno bancario, un assegno circolare, un certificato di liquidazione di borsa, un atto di
notaio o pubblico ufficiale.
Se decorrono dalla notificazione i termini previsti dall’art.641 II comma c.p.c. (40 gg se ingiunto risiede in
Italia, 50 gg se risiede in UE, 60 se risiede in altri Stati) senza che sia richiesto dall’ingiunto il processo a
cognizione piena, il decreto ingiunto non ancora esecutivo, acquista efficacia esecutiva => esecutività per
mancata opposizione.
Il decreto ingiuntivo passato in giudicato ha la stessa efficacia di una sentenza di uguale contenuto.
Nel caso in cui l’ingiunto si oppone al decreto ingiuntivo, con l’atto di opposizione, ex art. 645 c.p.c.,
trasforma il procedimento sommario in processo a cognizione piena, che quindi si apre su richiesta ed
iniziativa dell’ingiunto stesso.
L’opposizione deve essere proposta allo stesso giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo. Oggetto del
processo è la stessa situazione sostanziale che è stata oggetto del decreto ingiuntivo. Ex art. 645 II comma
c.p.c., in seguito all’opposizione, il processo si svolge secondo le norme del processo a cognizione piena
davanti al giudice adito.
Nell’opposizione al decreto ingiuntivo, la citazione o il ricorso ha il contenuto della comparsa di risposta o
della memoria difensiva di un processo a cognizione piena.
Con l’atto di opposizione l’ingiunto può proporre domande riconvenzionali, a meno che queste non siano
consequenziali a quelle proposte dall’opponente.
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Ex art. 647 II comma c.p.c., se l’opponente, dopo aver proposto opposizione, non si costituisce
tempestivamente, il decreto ingiuntivo è dichiarato esecutivo e l’opposizione non può essere riproposta,
neppure se è ancora aperto il termine per proporla.
L’art. 650 c.p.c. regola l’opposizione tardiva: essa è possibile quando l’intimato prova di non avere avuto
tempestiva conoscenza del decreto per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore.
L’opposto può chiedere, in fase di opposizione, attribuzione dell’efficacia esecutiva a un decreto ingiuntivo
a cui non era stata attribuita; l’opponente può chiedere la sospensione dell’esecutività concessa.
Ex art. 648 I comma c.p.c., il giudice istruttore, se l’opposizione non è fondata su prova scritta o di pronta
soluzione, può concedere, con ordinanza impugnabile, l’esecuzione provvisoria del decreto.
L’opposizione deve essere fondata esclusivamente su fatti impeditivi, modificativi ed estintivi che
l’opponente con la citazione introduce per la prima volta in causa, oppure sulla contestazione dei fatti
costitutivi che però sono sorretti da una prova documentalmente idonea.
L’art 648 c.p.c. non può essere applicato ove, sulla base delle contestazioni dell’opponente, i fatti costitutivi
non risultino né provati, né ammessi. Ex art. 648 II comma c.p.c., il giudice deve in ogni caso concedere la
provvisoria esecuzione, se la parte che l’ha richiesta offre cauzione per l’ammontare delle eventuali
restituzioni, spese e danni.
Ex art. 649 c.p.c., quando ricorrono gravi motivi, il giudice istruttore può sospendere l’esecuzione
provvisoria del decreto ingiuntivo.
Il processo di opposizione può:
estinguersi => mancano gli atti di impulso processuale che è onere dell’opponente compiere. Il decreto
ingiuntivo passa quindi in giudicato
chiudersi con sentenza => Possibili contenuti:
rigetto in rito: il processo di opposizione non è stato instaurato nei modi e nei termini previsti
dall’ordinamento
accoglimento in rito: se il giudice dell’opposizione riscontra la carenza di un presupposto processuale
generale, emette una pronuncia di rito, con cui si limita a dire che, non sussistendo le condizioni per
decidere nel merito, il processo si chiude in rito, ed il decreto ingiuntivo è revocato
pronuncia nel merito, con rigetto/accoglimento dell’opposizione: il rigetto nel merito dell’opposizione
equivale ad una sentenza di merito di accoglimento della domanda (=> il decreto acquista efficacia
esecutiva); l’accoglimento comporta l’accertamento dell’inesistenza del diritto
Il decreto ingiuntivo definitivo può impugnarsi per revocazione nei casi indicati dai numeri 1-2-5-6 dell’art.
395 c.p.c., e con opposizione di terzo nei casi previsti dall’art. 404 II comma (dolo o collusione)
C) CONVALIDA DI LICENZA O SFRATTO le situazioni sostanziali per cui può essere chiesta tale tutela
sono, ex art. 657 c.p.c., i “diritti alla restituzione”. Sappiamo che l’obbligo di restituzione si ha in due
ipotesi:
vicende patologiche del rapporto contrattuale per cui, consegnato il bene, questo è destinato a permanere
presso colui a cui è stato consegnato
vicende fisiologiche, perché il tipo di rapporto contrattuale è tale che è destinato a venire meno il titolo
per trattenere il bene, ed il bene deve essere restituito perché il rapporto si è esaurito
La convalida di sfratto riguarda i diritti alla restituzione del secondo tipo. Essa è utilizzabile però solo per i
rapporti restitutori indicati dall’art. 657 c.p.c. (locazione, affitto, contratti associativi, agrari).
Gli artt. 657-658 c.p.c. prevedono tre ipotesi in cui è possibile chiedere la tutela di tali diritti:
a) licenza per finita locazione: il rapporto di locazione è ancora in corso, e il locatore prima della scadenza,
vuole ottenere un provvedimento giurisdizionale che lo fornisca di un titolo esecutivo per il rilascio del
bene, una volta che giunga la scadenza
b) sfratto per finita locazione: la convalida viene chiesta dopo la scadenza. Occorre che non si sia avuta la
tacita rinnovazione del contratto
c) sfratto per morosità: il conduttore non ha corrisposto il canone alla scadenza pattuita. L’inadempimento,
su domanda della parte, può portare alla risoluzione per inadempimento del contratto ed al
consequenziale provvedimento di condanna alla restituzione del bene. Insieme alla convalida di sfratto, si
può chiedere anche un decreto ingiuntivo per il pagamento dei canoni.
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L’art. 660 c.p.c. stabilisce che l’atto introduttivo di questo processo speciale di cognizione è costituito da un
atto complesso, in parte di natura sostanziale, in parte di natura processuale:
di natura sostanziale è l’intimazione di licenza o sfratto, con la quale il locatore manifesta la volontà di
non rinnovare il rapporto di locazione (licenza per finita locazione), di non proseguire nel rapporto di
locazione (sfratto per finita locazione), di ottenere la risoluzione del contratto (sfratto per morosità)
di natura processuale è la citazione per la convalida che deve essere necessariamente unita all’atto di
natura sostanziale
I due atti sono autonomi.
Competente per materia è il tribunale; la competenza per territorio è inderogabile, ed è quella del luogo dove
si trova il bene.
L’atto così formato viene notificato alla controparte.
Questo procedimento speciale è un procedimento monitorio puro: l’intimante non ha nessun onere di provare
quanto afferma. Il procedimento si risolve quindi nella formalizzazione dei comportamenti delle parti:
se l’intimato non propone opposizione, viene emesso il provvedimento speciale monitorio
se vi è opposizione dell’intimato, non si ha l’emanazione del provvedimento e si apre immediatamente il
processo a cognizione piena
Per quanto riguarda la notificazione, sono previste forme particolarmente garantiste:
art. 660 I comma c.p.c.: esclude la notificazione al domicilio eletto
art. 660 III comma c.p.c.: se la notificazione non è fatta a mani proprie personalmente all’intimato,
l’ufficiale giudiziario deve inviare all’intimato una raccomandata con cui lo si avverte dell’avvenuta
notificazione
art. 663 c.p.c.: il giudice può ordinare la rinnovazione della notificazione, anche se non riscontra alcuna
nullità nella stessa.
Se l’intimante non compare all’udienza, gli effetti dell’intimazione cessano ex art 662 c.p.c.
Se l’intimato compare e non si oppone, oppure non compare => pronuncia del provvedimento di convalida.
In caso di mancata comparizione però bisogna verificare che questa inerzia dipenda dalla scelta dell’intimato
e non ad un impedimento, quindi il giudice deve accertarsi:
che la notificazione sia stata effettuata in modo conforme agli artt. 137 e ss c.p.c.: in caso contrario si
deve rinnovare la notificazione
che sia stata effettuata nel rispetto delle particolari cautele dell’art. 660 c.p.c.
che nonostante la regolarità della notificazione, non risulti o appaia probabile che l’intimato non abbia
avuto conoscenza della citazione, oppure che l’intimato, pur avendo avuto conoscenza della citazione,
non si sia potuto opporre per caso fortuito o forza maggiore: in caso contrario bisogna rinnovare la
citazione
Quindi:
se l’intimato compare, il giudice non deve controllare in alcun modo la notificazione
se l’intimato non si oppone, il giudice convalida
se l’intimato si oppone si passa dal processo sommario a quello ordinario
se l’intimato non compare e il giudice rileva che non ci sono motivi per escludere che la sua assenza
equivalga a deliberata non opposizione, l’intimazione è convalidata.
Se vi è un’intimazione di sfratto per morosità. Perché il giudice convalidi è necessario un ulteriore elemento
previsto dall’ultimo comma dell’art. 663 c.p.c.: il locatore deve attestare, all’udienza, che la morosità
persiste; se il locatore attesta il falso, l’ordinanza di convalida è impugnabile per revocazione ex art. 395 n.1
(dolo di una parte ai danni dell’altra). Se l’intimato adempie dopo aver ricevuto la citazione per la convalida
di sfratto per morosità l’intimante può scegliere:
o rinuncia alla tutela richiesta e il procedimento si chiude senza alcun provvedimento del giudice
richiede la conversione del processo speciale in ordinario
E’ prevista un’eccezione ex art. 55 della L 392/1978: per le locazioni ad uso abitativo, c’è la possibilità di
sanare in udienza la morosità relativa al canone, per non più di tre volte nel corso di un quadriennio, pagando
i canoni, gli interessi, e le spese legali del processo di convalida. Il pagamento in udienza ha efficacia
impeditiva della risoluzione. Se poi il conduttore prova condizioni di difficoltà nell’adempiere, il giudice
può assegnare un termine per adempiere, non superiore a 3 mesi, con termini più ampie se le difficoltà
economiche dipendono da disoccupazione, malattie ecc.. Se vi è tale dilazione, il giudice fissa un’udienza
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immediatamente dopo la scadenza del termine: se in tale udienza l’intimato non dimostra che ha pagato, il
giudice pronuncia l’ordinanza di convalida.
Quando il giudice convalida lo sfratto, dispone con ordinanza che, in calce alla citazione, sia apposta la
formula esecutiva (art. 663 c.p.c.).
Nella convalida di licenza, l’accertamento della cessazione del rapporto è effettuato con riferimento al
momento della scadenza del rapporto: quindi il rapporto di locazione continua ad essere in corso fino alla
data della sua naturale scadenza; se dopo la convalida e prima della scadenza intervengono norme nuove che
dispongono diversamente dei rapporti in corso, esse sono applicabili anche al rapporto per cui si è avuta
l’ordinanza di convalida.
Per quanto riguarda l’impugnabilità dell’ordinanza di convalida dello sfratto, essa è impugnabile coi
seguenti mezzi:
opposizione tardiva: ex art 668 c.p.c., se l’intimazione è stata convalidata in assenza dell’intimato, questi
può fare opposizione tardiva, dimostrando l’irregolarità della notificazione, o di non aver avuto
conoscenza dell’intimazione per caso fortuito o per forza maggiore, o di non aver potuto presenziare
all’udienza per caso fortuito o per forza maggiore. Una volta proposta opposizione si apre il processo di
cognizione ordinaria. Gli esiti dell’opposizione tardiva sono gli stessi dell’opposizione a decreto
ingiuntivo: 1) rigetto in rito (es. non sussistono i presupposti dell’opposizione tardiva); 2) accoglimento in
rito (per difetto dei presupposti processuali dell’intimazione, es incompetenza del giudice); 3) rigetto in
merito (l’intimante ha ragione: il rapporto di locazione è veramente cessato); 4) accoglimento in merito
(l’intimante ha torto: il rapporto di locazione continua)
appello: l’ordinanza è impugnabile come se fosse una sentenza. L’intimato può appellare l’ordinanza di
convalida
revocazione: si possono impugnare per revocazione le pronunce di convalida, allorchè siano fondate su un
errore di fatto del giudice (la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è
incontrastabilmente esclusa, o è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita,
sempre che il fatto non costituì un punto controverso su cui la sentenza ebbe a pronunciarsi). Tale
impugnazione deve essere proposta entro 30 gg dalla notificazione del provvedimento o entro 6 mesi
dall’emanazione
opposizione di terzo
Come abbiamo detto, in virtù di opposizione tempestiva o tardiva, si svolge la fase a cognizione piena. La
trasformazione del procedimento monitorio in rito ordinario, non ha luogo in seguito ad una opposizione al
provvedimento del giudice, come per il decreto ingiuntivo, ma in virtù di un atto che è antecedente ed
ostativo al provvedimento del giudice: non vi è quindi consecuzione, ma alternatività.
La manifestazione di volontà dell’intimato non deve avere una forma particolare (nel decreto ingiuntivo ha
contenuto e forma di un atto introduttivo senza editio ationis), e non vi è neppure la necessità che l’intimato
si costituisca in giudizio e si munisca di difensore tecnico: basta che sia presente di persona all’udienza.
Nel processo a cognizione piena non abbiamo inversione della posizione processuale delle parti, come per il
decreto ingiuntivo.
Il giudice in sede di processo a cognizione piena, può emettere provvedimenti interinali: se l’intimato
oppone eccezioni non fondate su prova scritta, il giudice, se non sussistono gravi motivi in contrario,
pronuncia ordinanza non impugnabile di rilascio con riserva delle eccezioni del convenuto (art. 665 c.p.c.).
Tale ordinanza lascia aperta la strada alla prosecuzione del processo sulle eccezioni riservate.
L’art. 30 della L. 329/1978 per le locazioni non abitative, e l’art. 3 IV comma della L. 431/1998 per le
locazioni abitative, prevedono uno speciale procedimento simile alla convalida di sfratto: tale procedimento
si applica quando, alla prima scadenza del rapporto (4 anni per le locazioni abitative, 6 anni per le locazioni
non abitative), il locatore intenda impedire l’ulteriore prosecuzione del rapporto per un ulteriore periodo di 4
e 6 anni. E si tratta di accertare la sussistenza di uno dei motivi che giustificano la mancata prosecuzione del
rapporto. Vediamo le differenze col procedimento di convalida di sfratto:
si presuppone già avvenuta la comunicazione del locatore di non voler rinnovare il rapporto. Una volta
avvenuta la comunicazione, il locatore può convenire in giudizio il conduttore per ottenere il rilascio
dell’immobile
alla prima udienza il provvedimento definitivo è preso, non come nella convalida, in mancanza di una
qualunque opposizione dell’intimato, ma solo se questi compare e non si oppone: se il convenuto si
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oppone o non compare, si dovrà procedere all’ordinario processo di cognizione disciplinato dall’art. 447
bis c.p.c.
per quanto riguarda i provvedimenti interinali, nel provvedimento di convalida il provvedimento
anticipatorio degli effetti può essere dato solo nella fase monitoria prima della conversione del processo
monitorio in processo ordinario, mentre nel rito previsto dall’art. 30 della suddetta legge, prevede che il
giudice, su istanza del ricorrente, alla prima udienza e in ogni stato del processo, valutate le ragioni
addotte dalle parti e le prove raccolte, può disporre il rilascio dell’immobile con ordinanza costituente il
titolo esecutivo.
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I Procedimenti Cautelari
Esiste una tutela cautelare generale, che riguarda tutte le situazioni sostanziali esistenti, e tutti i tipi di pregiudizi
possibili. Essa è:
provvisoria: rimedia agli inconvenienti dovuti alla durata del processo
strumentale: si sorregge sul futuro riconoscimento del diritto tutelato da parte di un provvedimento
dichiarativo => non possono essere dati coi provvedimenti cautelari, effetti che non potrebbero essere
ottenuti con la sentenza di merito
L’ammissibilità di un provvedimento cautelare va negata, allorchè la sentenza di merito non ha efficacia
retroattiva: ciò accade solo in materia di diritti indisponibili (cd sentenze costitutive necessarie).
Nel caso in cui un soggetto si rivolge al giudice per ottenere un provvedimento cautelare sostenendo che, a causa
di una norma ordinaria incostituzionale, è lesa una situazione sostanziale protetta, il giudice del processo
cautelare deve valutare il presumibile esito del giudizio di costituzionalità: se ritiene che la questione di
costituzionalità è fondata, egli dà la cautela e spetterà poi al giudice del merito rimettere la questione alla Corte
Costituzionale, se la riterrà manifestamente infondata. Se la Corte dichiarerà l’incostituzionalità della norma, il
giudice del merito accoglierà la domanda, e ciò ratificherà gli effetti prodotti dal provvedimento cautelare; se la
Corte dichiarerà non fondata la questione, il giudice del merito rigetterà la domanda, il provvedimento cautelare
perderà effetti ex tunc, e chi lo ha ottenuto sarà obbligato alla “rimessione in pristino” e al risarcimento danni.
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- se è già stata pronunciata la sentenza e sono ancora pendenti i termini per impugnare, la tutela cautelare
può essere richiesta solo a colui a favore del quale la pronuncia è stata emessa. La tutela può essere
richiesta dalla parte soccombente quando essa alleghi sopravvenienze in fatto o in diritto, o vizi del
processo, nel quale si è formata la sentenza impugnata: in questi casi la domanda si propone al giudice
che ha emesso la pronuncia rispetto alla quale pendono i termini per impugnare
- se si ha avuta proposizione o trasferimento dell’azione civile nel processo penale, la domanda cautelare
si propone al giudice civile competente per materia o valore, e territorialmente si fa riferimento al luogo
ove si deve eseguire il provvedimento cautelare
Quando la domanda è proposta ad un giudice collegiale (es. corte d’appello) competente è altra sezione dello
stesso collegio.
Ex art. 669 quater quando vi è causa pendente per il merito, la domanda deve essere proposta al giudice della
stessa.
L’art. 669 sexies stabilisce come si svolge il procedimento. Il provvedimento cautelare può essere emesso con
due itinera diversi:
1) il contraddittorio è instaurato prima della pronuncia del giudice: il giudice adito fissa con decreto in calce al
ricorso l’udienza di comparizione ed ordina la notificazione del ricorso alla controparte in un termine
perentorio che lui stesso fissa
2) il provvedimento cautelare è dato prima di instaurare il contraddittorio con l’altra parte: dopo il deposito del
ricorso, il giudice con decreto dà la misura cautelare e al tempo stesso fissa l’udienza; l’istante notifica il
decreto contenente la fissazione dell’udienza alla controparte. In questa udienza il giudice, sentite le parti,
con ordinanza conferma, modifica o revoca i provvedimenti dati con decreto prima dell’instaurazione del
contraddittorio. Con tale iter si ha un provvedimento cautelare provvisorio, l’instaurazione del
contraddittorio ed il provvedimento cautelare definitivo. Si può ricorrere a tale iter quando la convocazione
della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento. Ciò può accadere per due motivi:
- vi possono essere ragioni d’urgenza talmente impellenti da non consentire di attendere neanche quei
pochi giorni necessari alla convocazione della controparte
- l’attuazione del provvedimento cautelare potrebbe essere pregiudicata dalla previa instaurazione del
contraddittorio, che quindi può essere momentaneamente evitata, quando avvertire la controparte
consentirebbe a quest’ultima di sottrarsi all’attuazione del provvedimento stesso
L’art. 669 sexies stabilisce inoltre che il giudice procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione
indispensabili in relazione ai presupposti ed ai fini del provvedimento richiesto => la tutela cautelare non può
essere concessa solo sulla base delle affermazioni dell’istante. Sono utilizzabili, in istruttoria, anche prove
atipiche e/o atipicamente assunte.
All’esito dell’istruttoria, il giudice emette un’ordinanza di rigetto oppure di accoglimento:
rigetto il giudice può rigettare per:
- motivi di rito: l’art. 669 septies considera solo l’incompetenza, ma oltre a questa il giudice deve valutare
anche tutti i presupposti generali (giurisdizione, capacità, legittimazione…)
- motivi di merito: carenza di periculum in mora e fumus boni iuris
L’istanza cautelare rigetta può essere riproposta:
- se il rigetto è pronunciato per ragioni di incompetenza: l’istanza è liberamente riproponibile allo stesso o
altro giudice
- se il rigetto è pronunciato per motivo diverso dall’incompetenza: l’istanza è riproponibile, ma solo se si
verificano mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto.
Ex art. 669 terdecies I comma c.p.c., post riforma 2006, è possibile reclamare sia l’ordinanza di
accoglimento che di rigetto dell’istanza cautelare.
L’art. 669 septies prevede inoltre che, se il provvedimento di rigetto è pronunciato su istanza proposta prima
dell’instaurazione del processo di merito, il giudice provvede sulle spese del procedimento cautelare,
mediante liquidazione piena, parziale o compensazione. La riforma del 2009 ha eliminato la possibilità di
proporre opposizione contro la condanna nelle spese: quindi la pronuncia sulle spese contenuta nel
provvedimento emesso in sede di reclamo, è ricorribile per Cassazione. Le spese sono cmq provvisoriamente
allocate a carico dell’istante, e restano definitivamente a suo carico se non viene proposto il merito; se
invece la domanda di merito è proposta, allora il giudice del merito le riprende in considerazione nella
sentenza che definisce il processo
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accoglimento il contenuto si determina sulla base delle singole forme di tutela cautelare e in conformità
della domanda proposta. Nell’accogliere l’istanza il giudice può imporre all’istante, valutata ogni
circostanza, una cauzione per le eventuali restituzioni e/o risarcimento dei danni. La cauzione ha la funzione
di mantenere gli effetti acquisiti del provvedimento cautelare: il provvedimento ha effetti immediati, ma se
la cauzione non viene versata nel termine stabilito dal giudice, esso li perde.
La parte che ottiene un provvedimento cautelare, deve avviare il processo di merito in un termine perentorio,
non superiore a 60 gg (dalla pronuncia dell’ordinanza se emessa in udienza, o comunicazione se pronunciata
fuori dall’udienza), pena la perdita di efficacia del provvedimento cautelare. L’instaurazione della fase di merito
avviene secondo le modalità di proposizione dell’atto introduttivo proprie del rito di merito cui è assoggettata.
L’art. 669 octies c.p.c. distingue tra due gruppi di provvedimenti cautelari:
- conservativi, per cui è necessaria l’instaurazione del giudizio di merito => strumentalità forte
- anticipatori, per cui l’instaurazione del giudizio di merito è solo eventuale: essi mantengono la loro efficacia
anche senza l’instaurazione del giudizio di merito nel termine prescritto, oppure nonostante tempestivamente
instaurato, estinto o chiuso con pronuncia di rito => strumentalità debole. I provvedimenti anticipatori
vengono definiti dall’art. 669 octies come “provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della
sentenza di merito”: è quindi anticipatorio il provvedimento cautelare che anticipa la tutela esecutiva
ottenibile con la sentenza di condanna che accoglie la domanda in sede dichiarativa.
E’ il giudice al quale è chiesto di dichiarare l’inefficacia del provvedimento cautelare a stabilire se un
provvedimento è conservativo o anticipatorio, non il giudice che lo emette, in quanto non può definire in modo
vincolante il contenuto come anticipatorio o conservativo.
Qualora la domanda di merito sia rigettata in rito, per stabilire se ciò comporta l’inefficacia o meno del
provvedimento cautelare anticipatorio, occorre verificare:
- se il motivo della chiusura in rito è proprio solo del processo di merito (es. difetto di procura alle liti) => gli
effetti del provvedimento cautelare rimangono
- se il motivo della chiusura in rito è comune anche al cautelare (es. carenza di legittimazione ad agire) => gli
effetti del provvedimento si perdono.
Le ipotesi in cui un provvedimento cautelare perde efficacia sono:
1) la causa di merito non è iniziata nel termine perentorio di 60 gg o altro minore stabilito dal giudice, e quando
il processo di merito, una volta instaurato, si estingue
2) non è versata la cauzione ex art. 669 undecies c.p.c.
3) con sentenza non passata in giudicato, è dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso.
E’ possibile chiedere di nuovo il provvedimento cautelare al giudice d’appello se si fa valere una
sopravvenienza in fatto o in diritto oppure una nullità del processo di primo grado
4) sono pronunciate sentenza straniera, anche non passata in giudicato, o decisione arbitrale che dichiarino
inesistente il diritto per cui il provvedimento cautelare era stato concesso
5) la parte che aveva richiesto il provvedimento, non presenta domanda di esecutorietà in Italia della sentenza o
del lodo arbitrale stranieri entro i termini previsti a pena di decadenza dalla legge o convenzioni
internazionali
6) è emessa una sentenza che rigetta in rito la domanda, escluse le sentenze per cui il processo prosegue con
salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda originaria (sentenza di incompetenza, rinvio da
appello a giudice di primo grado, cassazione a giudice di primo grado)
Ai provvedimenti cautelari anticipatori si applicano le cause di inefficacia n. 2-3-4-5.
Competente a dichiarare l’inefficacia del provvedimento cautelare e disporre la rimessione in ripristino è il
giudice che ha emesso il provvedimento, e la perdita di efficacia può essere dichiarata con la stessa sentenza che
accerta l’inesistenza del diritto a tutela del quale era stato concesso ed eseguito il provvedimento cautelare,
oppure che chiude in rito il processo: il giudice emetterà ordinanza qualora non via sia contestazione delle parti
sulla perdita di efficacia, oppure sentenza se vi è contestazione.
Il provvedimento cautelare, una volta emesso può essere soggetto a modifica o revoca, anche se emesso prima
dell’inizio del processo di merito, e anche se confermato in sede di reclamo. I presupposti ex art. 669 decies
c..p.c. sono:
- sopravvenienze in fatto o in diritto
- allegazione di fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare:
l’istante deve fornire la prova di non aver avuto conoscenza del fatto preesistente al tempo in cui si è svolto
il processo
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La riforma del 1990 introduce la possibilità di impugnare il provvedimento cautelare, mediante l’istituto del
reclamo, attraverso cui la parte soccombente può chiedere la modifica o la revoca del provvedimento che
concede la misura cautelare, allegando mutamenti nelle circostanze o nuove ragioni di fatto o di diritto. Il
giudice competente è:
- il tribunale per i provvedimenti emessi dal giudice istruttore del tribunale
- altra sezione della corte d’appello per i provvedimenti della corte d’appello
- corte d’appello per i provvedimenti del tribunale in composizione collegiale
Con il reclamo si possono far valere tutti i motivi possibili di rito o merito. Il riesame del giudice del reclamo ha
lo stesso abito oggettivo dell’esame del giudice che ha concesso o negato la misura cautelare: con esso si
possono far valere circostanze non dedotte dinanzi al primo giudice.
Il reclamo si propone con ricorso: il presidente del collegio nomina un relatore e convoca le parti; se necessario
possono essere compiuti atti di istruzione sommaria.
E’ prevista un’eccezionale ipotesi di sospensione dell’efficacia del provvedimento cautelare reclamato, da parte
del presidente del collegio: il provvedimento arreca grave danno per motivi sopravvenuti.
La decisione sul reclamo è presa con ordinanza, che conferma modifica o revoca il provvedimento cautelare, con
effetto in ogni caso sostitutivo.
Per quanto riguarda l’attuazione dei provvedimenti cautelari, essa è disciplinata dall’art. 669 duodecies c.p.c.
Abbiamo due fasi: attuazione e concessione.
L’attuazione è fase eventuale, in quanto non c’è quando la controparte, di fronte al provvedimento,
spontaneamente si adegua. Con tale fase si rende necessaria una tutela esecutiva. Due sistemi:
forme dell’esecuzione forzata: il provvedimento cautelare costituisce un normale titolo esecutivo. Se quindi
la controparte rimane inattiva, l’avente diritto può instaurare un ordinario processo esecutivo => in tema di
competenza sarà giudice dell’attuazione cautelare è il giudice competente per l’esecuzione forzata; in tema
di procedimento, il procedimento di attuazione coincide col processo esecutivo; in tema di strumenti di
controllo, le parti hanno gli stessi strumenti di risoluzione delle controversie proprie del processo esecutivo.
Se oggetto del provvedimento cautelare è il pagamento di una somma di denaro, la forma del procedimento
di attuazione è l’espropriazione forzata (pignoramento, vendita del bene, distribuzione del denaro); se
oggetto sono obblighi di consegna, rilascio, fare e non fare, l’attuazione avviene sotto il controllo del giudice
che ha emanato il provvedimento cautelare, il quale ne determina anche le modalità di attuazione.
Quando il giudice cautelare pronuncia un provvedimento che impone alla controparte un obbligo infungibile,
può prevedere misure coercitive nei termini in cui può farlo il giudice di cognizione.
forme dell’esecuzione in via breve: riunisce le fasi di attuazione e concessione, come fasi consecutive di uno
stesso processo cautelare => entrambe sono affidate allo stesso giudice. Per quanto riguarda i rimedi
possibili in tale sede, l’art. 669 duodecies c.p.c. stabilisce che ove sorgano difficoltà e contestazioni dà con
ordinanza i provvedimenti opportuni, sentite le parti, ed ogni altra questione va proposta nel giudizio di
merito. Vediamo la competenza in relazione a questo:
- le controversie aventi ad oggetto la validità degli atti della fase di attuazione cautelare, spettano al giudice
che ha emesso il provvedimento cautelare, competente anche per la sua attuazione
- se sorge controversia sull’inefficacia del provvedimento cautelare, la decisione spetta al giudice che ha
emesso il provvedimento
- se sorge controversia circa l’esistenza del diritto sostanziale cautelato, questa va proposta di fronte al
giudice di merito
- se un terzo pretende di avere sul bene un diritto, che osta all’attuazione del provvedimento cautelare,
distinguiamo:
- il terzo lamenta che la lesione provenga non dal provvedimento cautelare, ma dall’attuazione dello
stesso, che colpisce per errore un bene diverso da quello indicato nel provvedimento: la controversia
non ha nulla a che vedere con la causa di merito, e competente è quindi il giudice che ha emesso il
provvedimento cautelare
- il terzo lamenta che la lesione deriva dal provvedimento, in quanto egli è titolare di un diritto
incompatibile con quello, a tutela del quale è stato emesso il provvedimento cautelare: il terzo deve far
valere la sua pretesa in forma di intervento ad excludendum nel processo di merito
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- il bene viene dato in consegna a chi non lo detiene. Distinguiamo due casi:
- il bene è sottratto alla controparte => si applicano artt. 605 e ss c.p.c.: l’ufficiale giudiziario
apprende il bene e lo consegna nella materiale disponibilità del custode.
- un terzo è detentore materiale del bene:
- per la posizione del terzo, in relazione al bene, non è incompatibile col sequestro => no
problemi
- la posizione del terzo è incompatibile col sequestro => il sequestro non può essere eseguito,
perché deve essere chiesto ed ottenuto direttamente nei confronti del terzo che ha la
materiale disponibilità del bene
Vediamo alcune fattispecie particolari che si possono presentare in tema di sequestro giudiziario.
sequestro d’azienda: oggetto del sequestro è l’azienda, universalità composta da beni che servono
all’impresa. Vi sono due teorie in ordine alle modalità di esecuzione del sequestro:
- il sequestro va eseguito rispetto a ciascun bene: per i mobili nelle modalità di esecuzione per
consegna, per gli immobili nelle modalità di esecuzione per rilascio => si spezzettano i singoli
elementi aziendali e rispetto a ciascun elemento si opera l’immissione nel possesso del custode
- il sequestro si esegue unitariamente per tutti i beni componenti l’azienda => si procede al
sequestro unitario mediante ingiunzione dell’ufficiale giudiziario, che dà in custodia al nuovo
detentore l’universalità dei beni. Soluzione preferibile!
sequestro di azioni o quote di società: oggetto del sequestro sono azioni. Si procede come per la
consegna dei beni mobili, essendo le azioni dei titoli di credito. Se oggetto di sequestro sono quote di
s.r.l. si applica l’art. 2471 c.c. in materia di pignoramento della quota: si notifica l’atto di sequestro
alla società e al debitore, e si iscrive poi l’atto nel registro delle imprese. In entrambi i casi il custode
ha l’esercizio dei diritti connessi alla titolarità delle quote o azioni.
Per quanto riguarda gli atti di disposizione del bene sequestrato, essi non sono intaccati dall’attuazione
del sequestro: l’inopponibilità degli atti di disposizione giuridica che compie il sequestrato deriva solo
dalla litispendenza, e quindi è la domanda giudiziale a far si che la pronuncia vincoli l’avente causa di
colui che compie l’atto di disposizione, in pendenza del processo. I rapporti attore-convenuto-avente
causa sono quindi disciplinati dall’art. 111 c.p.c. e non dal sequestro.
Si ha cessazione del sequestro giudiziario:
- con l’emanazione di un provvedimento esecutivo a favore del sequestrante => il custode consegna il
bene al sequestrante, in adempimento di un obbligo pubblicistico
- con la perdita di efficacia del sequestro => il bene è restituito al sequestrato
b) Sequestro conservativo: è disciplinato sia dal c.p.c. che dal c.c. L’art. 2905 c.c. stabilisce che il creditore
può chiedere il sequestro conservativo dei beni del debitore secondo le regole del c.p.c. al quale rinvia;
l’art. 671 c.p.c., individua il sequestro conservativo come quel provvedimento che il creditore può
chiedere se ha fondato motivo, a garanzia del proprio credito. Funzione: nel caso in cui il creditore non è
in grado di porre in essere un’espropriazione sui beni, perché non munito di titolo esecutivo, ha interesse
a conservare i diritti che appartengono al patrimonio del debitore, in attesa di avere un titolo esecutivo. Il
pericolo è quindi quello del depauperamento del patrimonio del debitore, che crea difficoltà per la
successiva attività di espropriazione forzata.
Tutelabili sono tutti i diritti la cui realizzazione si attua attraverso l’espropriazione, quindi crediti per
somme di denaro. Non è necessario che il credito sia liquido, e nemmeno deve essere certo, ma può
anche essere sottoposto a termine o condizione.
Devono coesistere:
- Fumus boni iuris
- Periculum in mora (ex art. 671 c.p.c. consiste nel “fondato timore di perdere la garanzia del proprio
credito”)
Anche il sequestro conservativo perde efficacia se non è eseguito entro 30 gg dalla concessione del
provvedimento (art. 675 c.p.c.).
Il sequestro conservativo è un provvedimento con cui il giudice autorizza l’istante a procedere a
sequestro nel limite massimo di valore che il giudice stesso stabilisce: non contiene dunque
l’individuazione degli elementi attivi del patrimonio del debitore sui quali il sequestro potrà essere
eseguito. Tale individuazione avviene ad opera del creditore, e sotto la sua responsabilità, nel momento
dell’attuazione del sequestro conservativo: è il creditore a scegliere quali elementi sottoporre a sequestro,
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entro il limite massimo di valore stabilito dal giudice. Si possono sequestrare tutti quei beni che in un
secondo momento si potranno espropriare.
Poiché il sequestro conservativo è un’anticipazione del pignoramento, esso si attua con le stesse forma di
pignoramento di quei beni individuati dal creditore:
- quando il sequestro cade su beni mobili del debitore si debbono individuare tali beni. Dei beni mobili
è difficile individuarne il titolare, e si ricorre quindi ad un indice presuntivo: possono essere
sequestrati tutti i beni mobili che si trovano nella casa del debitore e negli altri luoghi a lui
appartenenti. Tali beni saranno dati poi ad un custode
- quando il sequestro cade sui crediti, si notifica al sequestrato e al suo debitore l’atto di sequestro e si
cita il debitore esecutato a comparire davanti al tribunale all’udienza fissata dal sequestrante. Il terzo
debitore è citato a comparire a tale udienza solo nei casi in cui, nel pignoramento dei crediti, il terzo
deve rendere la dichiarazione in udienza (crediti pignorati nascono da un rapporto di lavoro)
- quando il sequestro cade su beni immobili, il sequestro viene effettuato trascrivendo un atto, nel
quale si individuano i beni sottoposti al vincolo
La revoca del sequestro conservativo è disciplinata dall’art. 684 c.p.c.: “il debitore puo' ottenere dal
giudice istruttore, con ordinanza non impugnabile, la revoca del sequestro conservativo, prestando idonea
cauzione per l'ammontare del credito che ha dato causa al sequestro e per le spese, in ragione del valore
delle cose sequestrate”. La cauzione deve equivalere al valore delle cose sequestrate, ma con il massimo
della somma indicata nel provvedimento di sequestro.
Si ha riduzione del sequestro quando sono sottoposti a sequestro beni il cui valore eccede il limite
massimo autorizzato.
Per quanto riguarda gli effetti del sequestro conservativo, ex art. 2906 c.c. non hanno effetto in
pregiudizio del creditore sequestrante le alienazioni e gli altri atti che hanno per oggetto la cosa
sequestrata in conformità alle regole stabilite per il pignoramento. Si tratta sostanzialmente di un
pignoramento anticipato.
Per quanto riguarda, invece, la cessazione degli effetti, il sequestro conservativo s estingue con la
conversione in pignoramento (art. 686 c.p.c.) che ha luogo quando il creditore sequestrante ottiene una
sentenza di condanna esecutiva. La conversione avviene con deposito in cancelleria del giudice
competente per l’esecuzione della sentenza esecutiva entro 60 gg dalla comunicazione sella stessa. Si ha
conversione solo se il creditore deposita copia della sentenza esecutiva: non si ha quindi automaticità
della conversione del sequestro conservativo in pignoramento. Dal momento della conversione scattano
gli effetti di protezione del pignoramento a favore degli altri creditori.
c) Sequestro speciale, il cd sequestro liberatorio: ex art. 687 c.p.c. “il giudice può ordinare il sequestro
delle somme o delle cose che il debitore ha offerto o messo comunque a disposizione del creditore per la
sua liberazione, quando e' controverso l'obbligo o il modo del pagamento o della consegna, o l'idoneità
della cosa offerta”. L’ipotesi disciplinata è quindi la seguente: il debitore offre in adempimento somme o
cose che il creditore rifiuta ritenendo inidonea la prestazione. L’istituto si ricollega alla mora del
creditore. Se non vi è offerta del debitore non si può avere il sequestro liberatorio. Funzione: serve a
custodire le cose, che il debitore offre e il creditore rifiuta, al fine di conservarle per poter accertare se
l’adempimento era o non era conforme alle previsioni di diritto sostanziale.
2) ISTRUZIONE PREVENTIVA consiste nella raccolta di prove prima del processo e serve quando si
presume che sarà difficile o impossibile raccogliere quelle prove nel corso del futuro processo.
Gli effetti di questo provvedimento cautelare non incidono sulla realtà sostanziale: la controparte non
subisce alcun pregiudizio. Quindi il fumus boni iuris e il periculm in mora sono valutati con minor rigore.
Le prove che possono essere assunte sono:
- prova testimoniale (art. 692 c.p.c.) chi ha motivo di temere che possano mancare o stiano per mancare
uno o più testimoni, le cui disposizioni possono essere necessarie in un futuro processo, può chiedere che
ne sia ordinata l’audizione a futura memoria. Il ricorso deve contenere l’indicazione dei motivi di
urgenza (periculum in mora, che qui è il fondato motivo di temere che stiano per mancare uno o più
testimoni), dei fatti da provare, l’esposizione sommaria delle domande o eccezione alle quali la prova è
preordinata
- ispezione (art. 696 c.p.c.): il periculum in mora è costituito dall’urgenza che il giudice esamini una cosa
o una persona, perché se si aspettano i tempi del processo ordinario, la situazione potrebbe mutare
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- accertamento tecnico (art. 696 c.p.c.): non è il giudice a compiere l’accertamento, ma un consulente
tecnico nominato dal giudice. Oggetto possono essere cose e/o persone: nel caso di persone, è necessario
il loro consenso all’accertamento.
Ai procedimenti di istruzione preventiva si applica solo l’art. 669 septies c.p.c. La Corte costituzionale ha
dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 695 c.p.c. nella parte in cui non prevede la reclamabilità del
provvedimento di rigetto all’istanza di istruzione preventiva. E’ possibile quindi il reclamo contro il rigetto
all’istanza di istruzione preventiva.
L’art. 696 bis c.p.c., introdotte dalla riforma del 2006, disciplina la consulenza tecnica preventiva. Essa non
ha funzioni cautelari, non essendo richiesto alcun periculum in mora, anzi proprio l'art. 696 bis stabilisce che
“L'espletamento di una consulenza tecnica, in via preventiva, può essere richiesto anche al di fuori delle
condizioni di cui al primo comma dell'articolo 696”. Non vi è possibilità di reclamo in casi di rigetto della
richiesta di consulenza tecnica preventiva, non avendo funzioni cautelari.
La consulenza tecnica preventiva può essere chiesta ai fini dell’accertamento e della relativa determinazione
dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito.
Per quanto riguarda le condizioni per l’accoglimento dell’istanza:
- se l’oggetto dell’indagine è nella disponibilità del richiedente, il giudice può senz’altro accogliere
l’istanza
- se l’oggetto dell’indagine è a persona o un bene della controparte o di un terzo, l’istanza deve essere
rigettata
Una volta che il consulente abbia svolto il suo incarico, prima di depositare la relazione deve tentare la
conciliazione della controversia.
Tornando all’istruzione preventiva, per quanto riguarda la modalità di assunzione delle prove, il
procedimento è il seguente: l’istanza si propone con ricorso; il presidente del tribunale o il gdp fissa
l’udienza di comparizione delle parti; il ricorso viene notificato alla controparte; si svolge l’udienza in cui il
giudice valuta, in contraddittorio delle parti, l’ammissibilità dei presupposti per l’istruzione preventiva; la
decisione è presa con ordinanza, con la quale si accoglie o si rigetta l’istanza per la raccolta della prova.
In caso di urgenza tale da non consentire l’instaurazione del contraddittorio antecedentemente alla decisione
del giudice, vi sono due norme:
- art. 693 II comma c.p.c. per prova testimoniale, accertamento tecnico ed ispezione: in caso di eccezionale
urgenza, l’istanza si propone non al giudice competente per il merito, ma al tribunale del luogo in cui la
prova testimoniale deve essere assunta
- art. 697 c.p.c., per accertamento tecnico ed ispezione: in caso di eccezionale urgenza, la prova può essere
assunta senza la previa instaurazione del contraddittorio. Sono 2 le ipotesi:
- necessità di non rendere edotta la controparte della richiesta
- necessità di provvedere in termini talmente brevi da non consentire neppure quella dilazione
necessaria alla convocazione della controparte.
A difesa della controparte, il giudice nomina un procuratore che intervenga nell’assunzione della prova
per le parti non presenti. Una volta ammessa la prova, questa viene assunta nei modi ordinari.
L’assunzione della prova in via preventiva non impedisce la rinnovazione della prova stessa nel processo di
merito ordinario.
3) PROVVEDIMENTI DI URGENZA Sono disciplinati dagli artt. 700 e ss c.p.c. Tali provvedimenti sono
atipici e strumentali (utilizzati ove non vi sia tutela cautelare). I presupposti di applicazione dei
provvedimenti d’urgenza sono:
- la tutela d’urgenza deve essere riferita ad una situazione sostanziale protetta, che abbia le caratteristiche
del diritto
- la situazione sostanziale deve avere le caratteristiche del diritto soggettivo o dell0interesse legittimo
- il fondato motivo di temere un pregiudizio imminente ed irreparabile deve essere riferito al tempo
occorrente per far valere il diritto in via ordinaria
- individuazione della situazione sostanziale e del pericolo che essa corre
Per quanto riguarda il fumus boni iuris, qui l’accertamento del giudice sulla verosimile esistenza del diritto
deve essere fatta con maggiore accuratezza; per quanto attiene al periculum in mora, l’art. 700 c.p.c. richiede
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4) DENUNCIA DI NUOVA OPERA E DANNO TEMUTO Sono disciplinate dagli artt. 1171-1172 c.c. e
688-691 c.p.c. La loro funzione è quella di prevenire o arrestare la produzione di un danno: si anticipano
quindi gli effetti della sentenza finale impedendo l’eventuale danno. Vediamo qual è il danno che si cerca di
evitare:
- denuncia di nuova opera: il danno deriva da una nuova opera da altri intrapresa sul proprio o altrui fondo.
Si deve trattare di un facere illecito, in quanto lesivo di una situazione sostanziale che dà diritto al leso
alla rimessione in pristino
- denuncia di danno temuto: vi è ragione di temere che da qualsiasi edificio o altra cosa sovrasti pericolo
di un danno gravo e prossimo alla cosa del denunciante, che può quindi ottenere che si provveda per
ovviare al pericolo. Qui il danno non deriva da un facere, ma da un non facere, cioè dall’inadempimento
agli obblighi di manutenzione e sorveglianza
In entrambi i casi il danno non deve essere definitivo, essendo tutela cautelare. Inoltre l’art. 1771 c.c. in
relazione alla denuncia di nuova opera, stabilisce che non sia trascorso un anno dall’inizio dal momento in
cui l’opera sia arrivata al punto tale da costituire l’illecito.
I diritti che possono essere tutelati sono la proprietà, gli altri diritti reali di godimento ed il possesso.
La tutela deve essere richiesta nei confronti dell’obbligato: la denuncia di nuova opera si propone contro chi
sta compiendo l’opera illecita; nella denuncia di danno temuto si deve stabilire chi è obbligato alla
manutenzione del bene.
Ex art. 1771 c.c., per la denuncia di nuova opera, il giudice può vietare la continuazione dell’opera, oppure
permetterla: in ambo i casi il giudice deve disporre le opportune cautele a favore della parte, che al
momento, viene ad essere pregiudicata, per l’ipotesi in cui invece rimanga vittoriosa nella causa di merito.
Ex art, 688 c.p.c., se il processo di merito non è ancora iniziato, la denuncia si propone al tribunale, se invece
è già iniziato la denuncia si propone al giudice competente ex art. 669 quater c.p.c. => la denuncia di nuova
opera e di danno temuto seguono l’iter del procedimento generale cautelare. Quando il giudice rigetta
l’istanza di tutela cautelare, pronuncia sulle spese ed il procedimento si chiude. Quando il giudice accoglie
l’istanza, liquida le spese e ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito. Ex art. 669 octies VI comma
c.p.c., il provvedimento di accoglimento è sottoposto a strumentalità debole: l’istante non ha quindi alcun
onere di proporre la causa di merito.
Vediamo ora l’attuazione dei provvedimenti cautelari emessi in sede di denuncia, applicando l’art. 669
duodecies c.p.c.. Ex art. 17771 c.c. il giudice può:
- consentire la continuazione dell’opera ed imporre una cauzione: se la cauzione non viene data nei
termini, l’istante può proporre un nuovo ricorso al giudice, chiedendo di vietare la prosecuzione
dell’opera
- impedire la continuazione dell’opera e imporre una cauzione all’istante: se l’istante non paga la cauzione
nei termini, la controparte ha piena libertà di continuare a costruire
Se il provvedimento del giudice impone un facere, e quindi un obbligo alla controparte, l’attuazione ha
luogo ex art. 669 duodecies c.p.c. Se il provvedimento impone un non facere (es impone alla controparte di
non proseguire la costruzione dell’opera), si applica l’art. 691 c.p.c.:
- se la parte alla quale è fatto il divieto di compiere l’atto dannoso o di mutare lo stato di fatto,
contravviene all’ordine, il giudice su ricorso della parte interessata può disporre che le cose siano rimessi
in pristino
- se il soggetto a cui è stato vietato di proseguire l’opera viola il divieto, può essere condannato, su ricorso
della parte interessata, a rimettere in pristino quella parte dell’opera che è stata costruita dopo il
provvedimento del giudice che ne inibiva la prosecuzione: se poi la parte non rispetterà neppure l’ordine
di rimessioni in pristino, si applica l’art. 669 duodecies c.p.c.
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Le Azioni Possessorie
La disciplina della tutela possessoria è contenuta in part nel c.c. (artt. 1168-1179) ed in parte nel c.p.c. (703-705).
Ex art. 1140 c.c. definiamo il possesso come l’esercizio sulla cosa di poteri che corrispondono ad un diritto reale.
Il diritto che scaturisce dal “possesso” è lo ius possessionis, da cui va distinto lo ius possidendi, che è il diritto di
colui che vanta un diritto reale di esplicare in concreto sul bene quei poteri che in astratto compongono il suo
diritto reale.
Le azioni possessorie riguardano lo ius posessionis: le azioni possessorie tutelano chi esercita effettivamente i
poteri sul bene.
Diversa dal possesso è la “detenzione”, che è l’esercizio sul bene di poteri che corrispondono non ad un diritto
reale ma ad un rapporto contrattuale: si parla quindi di ius detentionis (effettivo esercizio sul bene di un potere
correlato ad un rapporto contrattuale) e di ius detinendi (diritto di esercitare quel potere). In tema di azioni
possessorie è rilevante lo ius detentionis.
L’esercizio di ius possessionis e ius detentionis dà luogo alla nascita di situazioni sostanziali protette, che
nascono quando la situazione di fatto (ius possessionis/ius detentionis) venga violata nei termini, nei modi e nelle
forme previste dal c.c.
Le azioni possessorie sono tre:
1) Reintegrazione (art. 1168 c.c.) protegge dalla sottrazione violenta o clandestina della materiale
disponibilità del bene. Non si ha diritto a tale tutela quando la materiale disponibilità è stata persa per atto
volontario (es perché il bene volontariamente consegnato ad altri). La sottrazione deve perdurare nel
momento in cui la domanda viene proposta e l’illecito deve essere compiuto da più di un anno. Se lo spoglio
è clandestino, l’anno decorre da quando si è venuti a conoscenza dello spoglio stesso. Legittimato attivo è
qualunque soggetto esercitante poteri sul bene corrispondenti ad un diritto reale, e quindi chiunque avesse il
possesso del bene al momento dello spoglio. Anche il detentore ha l’azione di reintegrazione, tranne il caso
che detenga per ragioni di servizio ed ospitalità: distinguiamo così il detentore autonomo (che ha l’azione di
reintegrazione) dal detentore non autonomo (che non ha l’azione di reintegrazione). Nel caso in cui la
sottrazione del bene sia effettuata dal possessore in danno del detentore, facciamo un’ulteriore distinzione
nella categoria del detentore autonomo: detentore qualificato (colui che detiene nel proprio interesse: il
rapporto contrattuale che fonda la detenzione dà al detentore il diritto di avere la detenzione del bene);
detentore non qualificato (colui che detiene nell’interesse altrui: il rapporto contrattuale su cui si fonda la
detenzione prevede che questa sia adempimento di un obbligo verso il possessore).
La domanda di reintegrazione non ha scopo risarcitorio, ma serve ad ottenere la restituzione del bene
sottratto. I danni possono essere chiesti al giudice ordinariamente competente; se l’azione è proposta insieme
alla domanda di risarcimento, allora il risarcimento è considerato domanda accessoria rispetto alla domanda
di reintegrazione, e quindi può essere chiesta al tribunale. Il soggetto obbligato alla restituzione è l’autore
morale (il mandante) del fatto illecito, che è sempre obbligato al risarcimento danni. Poiché la domanda di
reintegrazione è volta alla riconsegna del bene, essa può essere proposta nei confronti dell’autore solo se
costui ha ancora presso di sé il bene che ha sottratto, altrimenti l’autore dello spoglio sarà solo responsabile
per danni.
Ci chiediamo dunque se lo spogliato possa richiedere la reintegrazione nei confronti di chi ha la materiale
disponibilità del bene, ma non è autore dell’illecito. Dobbiamo distinguere:
- se l’autore dello spoglio ha perso la disponibilità del bene prima che contro di lui sia proposta a domanda
di reintegrazione, questa si può proporre contro l’avente a causa a titolo particolare se tra l’autore ed il
terzo si è avuta trasmissione del possesso e l’acquirente del possesso era a conoscenza che il suo dante
causa aveva il possesso del bene, perché l’aveva sottratto in modo violento o clandestino
- se l’autore dell’illecito perde la disponibilità del bene nel corso della causa di reintegrazione, si applica
l’art. 111 c.p.c., e non il 1169 c.c., per cui la sentenza che dispone la reintegrazione contro l’autore è
efficace anche nei confronti di chi è succeduto al possesso nel corso del giudizio di reintegrazione, a
prescindere dalla sua conoscenza riguardo allo spoglio.
L’azione di reintegrazione è concessa rispetto a tutti i beni suscettibili di possesso (mobili, universalità di
mobili, energie) e anche all’abusiva occupazione della frequenza di trasmissione di onde elettromagnetiche
(es. canale televisivo).
2) Manutenzione (art. 1170 I-II comma c.c.) presuppone non una sottrazione ma una molestia nel possesso,
che consiste in un impedimento alla piena esplicazione dello stesso. Tale azione tutela il possesso, ma non la
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detenzione, e solo il possesso di immobili o universalità di mobili. La tutela è concessa solo al possessore
legittimo, ovvero colui che possiede il bene da oltre un anno in modo pacifico ed interrotto. Il possesso deve
essere acquistato senza violenza o clandestinità, oppure queste devono essere cessate da oltre un anno. La
domanda non ha finalità restitutorie, ma consiste nell’accertamento dell’illiceità dei comportamenti di
turbativa, e nell’ordine di cessazione degli stessi.
3) Spoglio semplice (art. 1170 III comma c.c.) Consiste in una domanda di reintegrazione con le
caratteristiche dell’art. 1168 c.c., ma con due differenze:
- la sottrazione non è stata violenta o clandestina
- la tutela è concessa alle condizioni della manutenzione (tanto che tale azione viene denominata
“manutenzione recuperatoria”)
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La Giurisdizione Volontaria
Non presuppone l’esistenza di un illecito: il giudice è chiamato ad intervenire non per esercitare il potere
giurisdizionale, ma per perseguire uno scopo che la legge gli affida unicamente in considerazione delle sue
qualità soggettive.
Esempio: l’art. 320 c.c. dispone che i genitori non possono alienare e dare in pegno i beni pervenuti al figlio a
qualsiasi titolo senza l’autorizzazione del giudice tutelare; l’art. 321 c.c. stabilisce che, in tutti i casi in cui i
genitori non possono o non vogliono compiere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, il giudice su richiesta
del minore stesso, può nominare al figlio un curatore speciale, autorizzandolo al compimento di tali atti.
Nell’ambito della giurisdizione volontaria dobbiamo distinguere:
a) talvolta il provvedimento del giudice è integrativo dell’efficacia di un atto di diritto sostanziale (es. il giudice
autorizza la vendita di un minore, che senza autorizzazione non si avrebbe). Per i procedimenti di questo tipo
è prevista una normativa generale negli artt. 737-742 bis c.p.c.
Il procedimento inizia con ricorso al giudice, che può essere proposto dal soggetto che volta per volta è
legittimato a proporre l’istanza. Ex art. 737, laddove non sia prevista una iniziativa d’ufficio del giudice, il
provvedimento deve essere proposto dal soggetto legittimato: in tal caso il giudice non può decidere al di
fuori del limite individuato dall’istante.
Il procedimento si struttura con la nomina di un relatore, se è affidato ad un giudice collegiale; se il PM deve
essere sentito, gli atti gli sono trasmessi; il giudice può assumere informazioni. L’istruttoria avviene con la
tecnica delle sommarie informazioni; si possano usare mezzi di prova atipici, ed assumere mezzi di prova
tipici in forma atipica (es dichiarazioni scritte di terzi).
Il provvedimento del giudice ha forma di decreto motivato, contro cui si può proporre reclamo. Contro i
decreti emessi in sede di reclamo, o dalla corte d’appello in unico grado non è ammessa impugnazione.
I provvedimenti possono essere revocati e modificati in ogni tempo ex art. 742 c.p.c., allegando circostanze
sopravvenute, o già esistenti al momento in cui il provvedimento è stato emesso, ma in quella sede non fatte
valere. Non è possibile la revoca o la modifica quando i terzi abbiano acquistato in buona fede diritti in virtù
di atti compiuti prima della modifica o della revoca.
Si ammette l’annullamento in sede contenziosa di questi decreti: coloro che non hanno preso parte al
procedimento e che siano lesi dal provvedimento possono impugnare, in un ordinario processo, il decreto per
motivi di legittimità.
b) altre volte il provvedimento produce da solo effetti di diritto sostanziale (es. processo di interdizione ed
inabilitazione, separazione, divorzio, adozione)
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Insieme a separazione ed addebito possono essere proposte domande ulteriori, relative ai rapporti
patrimoniali tra coniugi (assegno di mantenimento) ed ai rapporti patrimoniali con figli maggiorenni non
autosufficienti.
Il ricorso deve contenere l’esposizione dei fatti sui quali la domanda è fondata (art. 706 I comma c.p.c.)
Il divorzio è disciplinato dal L 898/1970. Il consenso dei coniugi non è sufficiente per ottenere lo
scioglimento del matrimonio, ma è sempre necessaria l’esistenza di uno dei presupposti previsti dalla legge,
che dovrà essere giudizialmente accertato.
La domanda di separazione si propone con ricorso al tribunale dell’ultima residenza comune dei coniugi. La
competenza è determinata dalla residenza del coniuge convenuto.
Il ricorso deve contenere l’esposizione dei fatti e gli elementi di diritto sui quali la domanda è fondata (art. 4
L 898/1970)
Oggetto del processo in entrambi i casi può essere più complesso, rispetto al caso di unica domanda di
separazione o divorzio: in caso di figli minori, ad es., il provvedimento del presidente prima, e la sentenza del
tribunale poi, debbono avere ad oggetto le regole di condotta dei coniugi nei confronti dei figli minori anche se
nessuno dei coniugi propone alcuna domanda a riguardo.
Successivamente al deposito del ricorso, il presidente del tribunale ha 5 gg di tempo per fissare l’udienza di
comparizione dinanzi a sé (udienza presidenziale), da fissare entro 90 gg dal deposito del ricorso. Il presidente
fissa anche un termine per la notifica del ricorso e del decreto all’altro coniuge, ed un termine a quest’ultimo per
depositare memoria difensiva e documenti. Se all’udienza il ricorrente non si presenta o rinuncia, la domanda
non ha effetto. I coniugi in tale udienza, devono essere assistiti da un difensore.
Il coniuge convenuto può:
- comparire tempestivamente depositando memoria e documenti, ed eventualmente proporre nuove domande
=> deve munirsi di difensore
- non costituirsi tempestivamente: potrà sempre comparire in udienza assistito da un difensore, e depositando
fuori termine la memoria e/o i documenti
Ora:
- laddove l’attività del coniuge convenuto abbia ad oggetto diritti di cui egli è titolare, il presidente non può
considerare quanto il convenuto abbia dedotto o prodotto in modo irrituale, cioè tardivamente o senza
l’assistenza del difensore
- laddove l’attività del coniuge convenuto abbia ad oggetto doveri della controparte nei confronti dei figli, non
vi possono essere decadenze o preclusioni, in quanto qui si persegue l’interesse dei figli
All’udienza il presidente deve sentire i coniugi prima separatamente e poi congiuntamente tentandone la
conciliazione, intesa come ripristino della vita coniugale. Se non riesce a conciliare, neppure sulle condizioni di
separazione e di divorzio dà, anche d’ufficio, i provvedimenti temporanei ed urgenti che reputa opportuni
nell’interesse dei coniugi e dei figli, e poi fissa l’udienza di comparizione delle parti per la trattazione della
causa. Tali provvedimenti hanno efficacia fino alla sentenza.
La L 54/2006 introduce una importante novità sull’affidamento condiviso: ferma rimanendo la revocabilità e
modificabilità dei provvedimenti presidenziali da parte dell’istruttore, è stato introdotto il reclamo contro i
provvedimenti presidenziali, per cui è competente la Corte d’Appello. Il reclamo deve essere proposto entro 10
gg dalla notificazione dell’ordinanza presidenziale, in mancanza della quale il termine diventa di 6 mesi.
L’ordinanza presidenziale è modificale e revocabile dal giudice istruttore della causa di merito, anche
fondandosi su un diversa valutazione delle stesse circostanze già esamine nell’udienza presidenziale (prima della
riforma 2006 revoca e modifica dovevano basarsi su mutamenti delle circostanze). Alle stesse condizioni può
essere modificato e reclamato anche il provvedimento di reclamo emesso in corte d’appello.
Il ricorrente ha l’obbligo di notificare l’ordinanza presidenziale al convenuto non comparso o comparso
personalmente. Al ricorrente viene assegnato un termine per il deposito di una memoria integrativa, che ha
sostanzialmente il contenuto di un atto di citazione; al convenuto viene assegnato un termine per a costituzione
in giudizio.
Con riferimento alla trattazione ed istruzione della causa di separazione o divorzio:
- l’istruttoria della causa di divorzio è quella tipica del processo con oggetto diritti indisponibili; poichè lo
scioglimento del matrimonio può essere concesso solo nei casi previsti dal’art. 3 L 898/1970, oggetto
dell’istruttoria è l’esistenza di una delle ipotesi previste da tale articolo, in presenza delle quali il giudice può
accogliere la domanda
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- poiché l’ordinamento prevede la separazione consensuale, è sufficiente che ambedue i coniugi chiedano la
pronuncia della operazione per accogliere la domanda, ancorchè essi siano in contrasto su alcuni profili
consequenziali della stessa (es. affidamento dei figli)
La funzione del processo di separazione e divorzio ricalca quella generale del processo dichiarativo: stabilire le
regole di condotta di due o più soggetti, con riferimento ad un bene della vita giuridicamente protetto.
Quando si realizza un cumulo fra più oggetti processuali (es. domanda principale di separazione/divorzio + altre
domande di un coniuge verso l’altro + presenza di figli minorenni o maggiorenni con handicap, per cui si
richiede una pronuncia ex officio), può accadere che la causa principale sia già completamente istruita, mentre
per le altre domande è necessario effettuare attività istruttoria: l’art. 709 bis c.p.c. per la separazione e l’art. 4 L
898/1970 prevedono che il giudice pronunci sentenza non definitiva di separazione o divorzio, e rimetta in
istruttoria per ciò che riguarda le domande connesse. Contro la sentenza non definitiva è ammessa impugnazione
entro i termini ordinari, altrimenti passa in giudicato: tale appello è deciso in camera di consiglio.
La separazione consensuale, prevista dall’art. 150 c.c., è disciplinata nei presupposti sostanziali dall’art. 158 c.c.
La separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del giudice. Nella domanda
di separazione consensuale devono essere indicate le condizioni della separazione, sia quelle patrimoniali tra
coniugi che quelle relative ai figli minori. Il procedimento è disciplinato dall’art. 771 c.p.c. I coniugi presentano
congiuntamente al tribunale un ricorso in cui manifestano la volontà di separarsi ed indicano le condizioni della
separazione; il presidente fissa l’udienza di comparizione nella quale i coniugi devono confermare ciò che hanno
chiesto nel ricorso; il tribunale in camera di consiglio omologa la separazione, oppure la rifiuta quando l’accordo
dei coniugi relativamente ai figli minorenni è in contrasto con l’interesse di questi.
Secondo l’art. 155 ter c.c., i coniugi hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni
concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della potestà su di essi e le disposizioni relative
alla misura e modalità del contributo. Qualora sopravvengano giustificati motivi, ex art. 156 VII comma c.p.c., il
giudice su istanza di parte può disporre la revoca o la modifica dei provvedimenti; stessa cosa è prevista per il
divorzio dall’art. 9 L 898/1970. Dal punto di vista processuale, la modifica dei provvedimenti riguardanti i
coniugi e la prole è richiesta secondo le forme del procedimento in camera di consiglio.
L’art. 8 L 898/1970 disciplina alcuni profili: il giudice può disporre che l’obbligato alla corresponsione
dell’assegno presti una garanzia reale o personale, se vi è il pericolo che egli si possa sottrarre agli obblighi
derivanti dall’assegno per il coniuge e dall’assegno per i figli. Se il coniuge obbligato omette, per almeno 30 gg,
di corrispondere l’assegno, il coniuge a cui spetta questo può costituirlo in mora, a mezzo di raccomandata con
avviso di ricevimento, e successivamente può notificare il provvedimento in cui è stabilita la misura dell’assegno
ai terzi tenuti a corrispondere periodicamente somme di denaro al coniuge obbligato, con l’invito a versare
all’avente diritto direttamente le somme dovute all’obbligato, dandone comunicazione al coniuge inadempiente.
Secondo l’art 8, inoltre, ove il terzo cui sia stato notificato il provvedimento non adempia, il coniuge creditore ha
azione diretta esecutiva nei suoi confronti per il pagamento delle somme dovutegli quale assegno di
mantenimento.
La riforma del 2006 ha introdotto, con l’art. 709 ter c.p.c., un meccanismo di risoluzione delle controversie
insorte tra i genitori in ordine all’esercizio delle potestà loro spettanti sui figli, o in ordine alle modalità di
affidamento dei figli stessi. La disposizione riguarda solo la risoluzione di controversie relative ai minori, a cui
sono equiparati i maggiorenni con handicap, e si applica anche al processo di divorzio e ai figli di genitori non
coniugati. La competenza è determinata in riferimento al luogo di residenza del minore; se vi è processo
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pendente, competente è lo stesso giudice. Se non emergono comportamenti illeciti, il provvedimento del giudice
si limita a risolvere la controversia, determinando i comportamenti che dovranno essere tenuti dai genitori; se
emergono comportamenti illeciti di una delle parti, il giudice può modificare i provvedimenti relativi
all’affidamento dei figli e/o prevedere misure risarcitorie e/o sanzionatorie a carico del genitore che ha tenuto il
comportamento illecito.
Contro questi provvedimenti è prevista impugnazione ordinaria.
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prevista sanzione max non superiore a 30 milioni di lire) e tribunale (sanzione max superiore a 30 milioni di
lire, e ogni volta che è prevista sanzione accessoria e non pecuniaria). Il termine per l’opposizione è 30 gg
dalla notificazione dell’ordinanza-ingiunzione. Soggetti legittimati sono coloro cui è stata notificata
l’ordinanza-ingiunzione. L’opposizione si propone con ricorso, a cui è allegata l’ordinanza notificata. Al
giudice può essere chiesto di annullare parzialmente o totalmente l’ordinanza, o di modificare la sanzione
irrogata dall’autorità amministrativa. L’opposizione si può fondare su motivi di regolarità formale (rispetto
delle regole procedimentali che hanno portato alla emanazione dell’ordinanza) o sostanziale (sussistenza
dell’illecito amministrativo) dell’ordinanza-ingiunzione. Se l’opposizione non avviene entro 30 gg con
ricorso depositato davanti al giudice, l’ordinanza-ingiunzione diventa definitiva, e l’ingiunto ha l’obbligo di
pagare la somma. L’opposizione non sospende l’esecuzione del provvedimento, e quindi se l’ingiunto non
provvede spontaneamente al pagamento, la PA procede ad esecuzione forzata. Il giudice però ove ricorrano
gravi motivi, può sospendere l’efficacia del provvedimento (si avrà quindi una funzione cautelare della
sospensione).
L’art. 23 prevede che l’opponente e l’autorità che ha emesso l’ordinanza possono stare in giudizio
personalmente. Inoltre prevede la formalizzazione di una serie di attività che il giudice deve compiere in
relazione a certi eventi processuali:
- se il ricorso è proposto oltre i 30 gg, il giudice lo dichiara inammissibile con ordinanza ricorribile in
Cassazione
- l’opponente deve essere presente alla prima udienza, altrimenti il giudice con ordinanza appellabile,
convalida il provvedimento opposto ponendo a carico dell’opponente anche le spese successive
all’opposizione
L’opponente ha l’onere di individuare nella sua domanda, gli elementi della fattispecie che sottopone
all’attenzione del giudice, e sui quali soltanto può fondarsi la decisione; l’autore dell’atto impugnato ha
l’onere di individuare nell’atto stesso gli elementi della fattispecie che ritiene operanti a proprio favore. Il
giudice può rilevare d’ufficio le ragioni che portano all’inesistenza dell’ordinanza-ingiunzione.
La prova dell’esistenza dei fatti costitutivi dell’obbligo è a carico della PA, non dell’opponente, tanto che ex
art. 23 ultimo comma “il giudice accoglie l’opposizione quando non ci sono prove sufficienti della
responsabilità dell’opponente”. Gli atti di accertamento della PA, che portano all’emanazione
dell’ordinanza-ingiunzione non sono prove legali.
Il giudice può rigettare o accogliere l‘opposizione: con l’accoglimento si ha annullamento totale o parziale
dell’ordinanza, o la sua modificazione anche limitatamente all’entità della sanzione.
Anche per il processo di appello si applicano gli artt. 22-23 della L. 689/1981.
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L’Arbitrato
E’ regolato dagli artt. 806-832 c.p.c. E’ un mezzo alternativo alla risoluzione delle controversie: gli effetti del
dolo sono identici a quelli di un contratto o una sentenza. Nel nostro ordinamento è possibile scegliere la via
dell’arbitrato solo in materia di diritti disponibili (le parti possono scegliere la giurisdizione, l’arbitrato, la
transazione, l’accertamento convenzionale ecc..). Se la normativa è inderogabile, ma il diritto è disponibile niente
ostacola la decisione aribtrale delle controversie (es. in materia di lavoro esistono norme inderogabili, ma gli
accordi tra datore di lavoro e lavoratore aventi ad oggetto diritti derivanti da norme inderogabili, se raggiunti con
certe modalità, sono perfettamente validi, come le dimissioni del dipendente). Inoltre sono irrilevanti eventuali
regole su giurisdizione e competenza del giudice (cfr art. 6 L 205/2000 consente espressamente la risoluzione
arbitrale delle controversie, relative a diritti soggettivi, che siano devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo).
L’arbitrato si distingue in:
- rituale, previsto dagli artt. 806-832 c.p.c.
- irrituale, previsto dall’art. 619 cod.nav., che disciplinando le controversie relative all’avaria del natante,
dispone che “gli interessati possono, mediante stipulazione di chirografi di avaria, far decidere ad arbitri le
cause relative alla formazione del regolamento contributorio” e che “al chirografo ed al regolamento si
applicano le norme del c.p.c. riguardanti l’arbitrato, se gli interessati intendono che al regolamento venga,
dal pretore competente, conferita efficacia di sentenza e di ciò fanno espressa dichiarazione nel chirografo”.
Con la Riforma del 2006 viene inserito nel c.p.c. l’art 808 ter che dispone che le norme in materia di arbitrato
trovano sempre applicazione in presenza di patto compromissorio comunque denominato, salva la diversa ed
espressa volontà delle parti di derogare alla disciplina legale, fermi in ogni caso il rispetto del principio del
contraddittorio, la sindacabilità in via di azione o di eccezione della decisione per vizi del procedimento e la
possibilità di fruire della tutela cautelare.
In ordine a determinati profili l’arbitrato rituale ed irrituale sono identici: l’ambito delle controversie è lo stesso;
inoltre hanno la stessa funzione e quindi identica è anche la struttura del procedimento. Ma vi sono anche delle
differenze:
- con il lodo rituale, depositandolo nella cancelleria del tribunale, si può ottenere un titolo esecutivo; con il
lodo irrituale, per ottenere il titolo esecutivo, bisogna andare in sede giurisdizionale ed ottenere un decreto
ingiuntivo o sentenza
- è diverso il regime dell’atto: il lodo rituale è un atto di diritto sostanziale, il lodo irrituale è un atto
giurisdizionale
- il lodo irrituale non è soggetto all’onere dell’impugnazione
L’art. 808 ter stabilisce che la scelta delle parti verso l’arbitrato irrituale deve emergere con chiarezza: nei casi
dubbi l’arbitrato deve qualificarsi come rituale. Quindi tutte le norme che il codice prevede per l’arbitrato rituale
sono applicabili all’irrituale, con esclusione di quelle norme che fondano la differenza tra le due forme di
arbitrato, cioè l’exequatur e le impugnazioni.
I motivi di invalidità del lodo sono quelli dell’art. 808 ter II comma c.p.c.:
1) se la convenzione dell'arbitrato e' invalida, o gli arbitri hanno pronunciato su conclusioni che esorbitano dai
suoi limiti e la relativa eccezione e' stata sollevata nel procedimento arbitrale;
2) se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi stabiliti dalla convenzione arbitrale;
3) se il lodo e' stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro a norma dell'articolo 812;
4) se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di validita' del lodo;
5) se non e' stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio.
Dunque: quali motivi possono indurre le parti ad optare per un arbitrato irrituale al posto di un rituale? La
risposta è la seguente: la parte soccombente di un lodo rituale invalido deve attivarsi per contestare lo stesso nei
termini di decadenza previsti, ed è tenuta all’adempimento di quanto previsto nel lodo prima di ottenere una
decisione sull’eventuale invalidità del lodo; invece la parte soccombente di un lodo irrituale potrà sempre far
valere i vizi del lodo quando questo, necessariamente in un processo di cognizione, sarà utilizzato contro di lei e
potrà ottenere che tali vizi siano esaminati prima di essere chiamata all’adempimento coattivo.
L’arbitrato rituale non è giurisdizione, al contrario dell’irrituale, ma essendo come una via parallela concordata
dalle parti per raggiungere la tutela che altrimenti avrebbero in sede giurisdizionale, le garanzie del processo
arbitrale devono essere analoghe a quelle offerte dall’attività giurisdizionale. Infatti una delle caratteristiche
essenziali dell’arbitrato è proprio la processualità dello stesso, cioè la possibilità di difesa delle parti nel senso
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che esse debbono, a pena di nullità del lodo, essere poste in grado di proporre domande, effettuare difese,
richiedere mezzi istruttori, esporre le proprie ragioni di fronte all’arbitro, tanto che in mancanza di questo
minimo di dialetticità il lodo è invalido.
Il nostro ordinamento conosce e regola l’arbitrato: se, in presenza di un patto compromissorio, una delle parti
richiede al giudice la tutela di quella situazione sostanziale per la quale è prevista la via arbitrale, il giudice non
può esaminare nel merito tale richiesta e deve rigettare in rito la domanda.
La dottrina e la giurisprudenza distinguono:
- l’eccezione di patto compromissorio rituale: è ostacolo alla pronuncia di merito => la presenza di un patto
compromissorio non rende il giudice incompetente, ma produce un difetto assoluto di giurisdizione. Ex art.
819 ter I comma c.p.c. la relativa eccezione deve essere proposta, a pena di decadenza, nella comparsa di
risposta: la mancata o tempestiva proposizione dell’eccezione non si limita a rendere irrilevante in sede
giurisdizionale la convenzione di arbitrato ed aprire la strada alla decisione di merito, ma produce altresì
effetti sulla convenzione di arbitrato, poiché esclude la competenza dell’arbitro. Se l’eccezione è
tempestivamente proposta, niente impedisce alla parte convenuta in sede giurisdizionale di proporre la stessa
domanda in sede arbitrale, e i due processi vanno avanti parallelamente: il provvedimento che diviene
definitivo per primo forma un giudicato spendibile nell’altra sede. L’art. 819 ter III comma c.p.c. stabilisce,
al contrario di dottrina e giurisprudenza, quando il processo arbitrale non è pendente, è proponibile in sede
giurisdizionale, una domanda avente come oggetto la convenzione di arbitrato e volta ad accertare la
validità, efficacia ed estensione della stessa. Dunque prima che inizi l’arbitrato è possibile chiedere al
giudice di valutare la validità o l’efficacia della convenzione di arbitrato. L’onere della prova spetta a colui
che eccepisce l’ostacolo alla pronuncia di merito: la sentenza che decide sull’eccezione di compromesso è
impugnabile con il regolamento di competenza.
- l’eccezione di patto compromissorio irrituale: vi è un’improcedibilità della giurisdizione in virtù di una
temporanea rinuncia alla tutela giurisdizionale, che costituisce un’eccezione di merito. Quindi la sentenza
che decide dell’eccezione di patto compromissorio irrituale è assoggettata agli ordinari mezzi di
impugnazione, essendo assimilata ad un’eccezione di merito.
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L’art. 813 ter V comma c.p.c. si occupa della quantificazione del danno, ponendo come limite massimo il triplo
del compenso pattuito o previsto dalla tariffa applicabile: tale limite non opera in caso di rinuncia all’incarico
senza giustificato motivo.
L’art. 813 ter VI comma c.p.c. disciplina i rapporti tra l’obbligo risarcitorio dell’arbitro ed il suo diritto al
compenso: quest’ultimo si estingue ipso iure ove sia accertata una responsabilità dell’arbitro, ed è soggetto a
riduzione ove il lodo sia solo parzialmente dichiarato nullo
L’art. 813 ter VII comma c.p.c. disciplina l’ipotesi di concorso degli arbitri nella produzione del danno in
conseguenza alla loro responsabilità e prevede che ciascun arbitro risponde solo del fatto proprio.
Ex art. 813 bis c.p.c., in caso di arbitro inerte, l’arbitro può essere sostituito se le parti sono tutte d’accordo; in
caso di disaccordo delle parti, l’arbitro inerte può essere diffidato, e decorsi 15 gg dalla ricezione della diffida
senza che egli si sia attivato, ciascuna delle parti può fare ricorso al presidente del tribunale, per farlo dichiarare
decaduto, e per far nominare dal presidente un altro arbitro al suo posto.
L’art. 814 c.p.c. prevede che gli arbitri hanno diritto al compenso, consistente nel rimborso delle spese e
nell’onorario per l’opera prestata, a meno che non vi abbiano rinunciato, e che al pagamento sono tenute le parti
solidalmente tra di loro. La liquidazione del compenso è una proposta alle parti che deve essere accettata per
avere efficacia, altrimenti la liquidazione è fatta dal presidente del tribunale. Questo viene adito dall’arbitro con
ricorso: convoca le parti e quantifica il compenso spettante all’arbitro o agli arbitri con ordinanza, che
costituisce titolo esecutivo nei confronti delle parti, reclamabile in corte d’appello. Contro il provvedimento è
ammesso anche il reclamo, che concede o nega l’exequatur (che è il provvedimento di autorizzazione con cui si
dà esecuzione all’atto): esso deve essere proposto con ricorso entro 30 gg dalla comunicazione dell’ordinanza, e
su di esso pronuncia la corte d’appello, sentiti arbitri e parti; proposto il reclamo si può chiedere la sospensione
dell’esecutività dell’ordinanza reclamata.
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3) la parte che non eccepisce nella prima difesa successiva all'accettazione degli arbitri l'incompetenza di questi
per inesistenza, invalidità o inefficacia della convenzione d'arbitrato, non può per questo motivo impugnare
il lodo, salvo il caso di controversia non arbitrabile
4) la parte, che non eccepisce nel corso dell'arbitrato che le conclusioni delle altre parti esorbitano dai limiti
della convenzione arbitrale, non può, per questo motivo, impugnare il lodo
L’incompetenza degli arbitri in ragione dell’inesistenza, invalidità ed inefficacia della convenzione di arbitrato
deve essere eccepita nella prima difesa successiva all’accettazione degli arbitri. Vi è un’eccezione: se si tratta di
controversia non arbitrabile, non è necessario sollevare la relativa questione nel corso del processo arbitrale, in
quanto il lodo è radicalmente inesistente, e quindi non impugnabile.
L’art. 817 c.p.c. è applicabile solo quando chi ha partecipato al processo arbitrale non ha in quella sede
contestato la decidibilità nel merito della domanda proposta, e non anche quando la parte in quella sede è
assente.
L’art. 817 bis c.p.c. dispone che “gli arbitri sono competenti a conoscere dell'eccezione di compensazione, nei
limiti del valore della domanda, anche se il controcredito non e' compreso nell'ambito della convenzione di
arbitrato”: quindi la contestazione del controcredito non riveste alcuna rilevanza per quanto attiene al processo
decisorio degli arbitri.
Vediamo i rapporti tra processo arbitrale e terzi: sappiamo che il compromesso vincola tutti i soggetti che
succedono nel diritto in relazione al quale esso è stato stipulato; la clausola compromissoria vincola tutti i
successori nel rapporto al quale la clausola si riferisce. Vediamo i singoli profili:
- in caso di litisconsorzio necessario, la decisione arbitrale della controversia è possibile solo quando il patto
compromissorio vincola tutti i litisconsorti, altrimenti diventa impercorribile anche per quelli vincolati. La
via arbitrale è impercorribile anche quando pur in presenza di una convenzione arbitrale che vincola tutti i
litisconsorzi, non si riesca a costituire un collegio equidistante dai centri di interessi in conflitto
- quando vi sono terzi titolari di situazioni sostanziali diverse da quella rispetto alla quale si è avuta la
pattuizione compromissoria e per le quali non si è patto compromissorio, per poter realizzare il cumulo
soggettivo processuale in sede arbitrale, occorre che sussista, in relazione ai diritti connessi, l’obbligo di
ricorrere all’arbitrato
- in caso di partecipazione adesiva di terzo, il terzo rimane vincolato all’efficacia della decisione emessa in
relazione all’unico diritto oggetto di quel processo
- in caso di intervento volontario del terzo, egli partecipa a tutti gli effetti nel processo arbitrale
Non si può avere la chiamata in causa di un terzo non obbligato in via arbitrale.
La riforma del 2006, all’art. 816 quinquies III comma c.p.c., ha espressamente dichiarato applicabile
all’arbitrato l’art. 111 c.p.c. (successione a titolo particolare nel diritto controverso): il successore può
impugnare il lodo anche se non ha preso parte al processo arbitrale.
Ex art. 819 ter c.p.c. “la competenza degli arbitri non e' esclusa dalla pendenza della stessa causa davanti al
giudice, ne' dalla connessione tra la controversia ad essi deferita ed una causa pendente davanti al giudice”.
Per quanto riguarda le questioni pregiudiziali, ex art. 819 c.p.c.:
- se la questione pregiudiziale ha ad oggetto materia indisponibile, l’arbitro può conoscere incidenter tantum
(con efficacia limitata al giudizio e senza formazione del giudicato) della pregiudiziale. Se tale pregiudiziale,
per volontà della legge, deve essere decisa con efficacia di giudicato, l’arbitro non ne conosce neppure
incidenter tantum, e sospende il processo
- se la questione pregiudiziale ha ad oggetto materia disponibile, l’arbitro ne conosce incidenter tantum,
tranne che gli sia proposta domanda volta alla decisione della stessa. Se la situazione pregiudiziale è
compresa nell’ambito di efficacia della convenzione di arbitrato, basta la domanda di una delle parti; se non
è compresa, occorre che la domanda sia proposta da tutte le parti, o quantomeno che alla domanda di una
delle parti si aggiunga il consenso di tutte le altre.
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o prorogare il termine per la pronuncia del lodo. Anche se le parti hanno previsto diversamente, al difensore può
essere inviato il lodo da parte degli arbitri e gli può essere notificato ai fini della decorrenza del termine breve;
inoltre a lui può essere notificata l’impugnazione.
Per quanto riguarda la sede dell’arbitrato, ex art. 816 c.p.c. questa è determinata dalle parti e in mancanza è
determinata dagli arbitri: in assenza di determinazione la legge prevede come sede il luogo di stipulazione della
convenzione di arbitrato, e se questa è all’estero, la sede è a Roma.
E’ importante l’instaurazione del contraddittorio, che deve provenire dagli arbitri ex art. 816 bis I comma;
inoltre è invalido il lodo quando nel processo che ne ha portato alla formazione non è stato osservato il principio
del contraddittorio, ex art. 8129 n. 1 c.p.c.
La fase di istruzione probatoria è eventuale, e se necessaria rappresenta un punto debole dell’arbitrato: infatti se
nei confronti delle parti gli arbitri hanno gli stessi poteri che ha il giudice, nei confronti dei terzi l’arbitro non ha
alcun potere, e quindi si trova in difficoltà tutte le volte in cui è necessaria la collaborazione di un terzo per
l’acquisizione della prova. Per questa ragione la Riforma del 2006 introduce un’ipotesi di assistenza giudiziaria
per l’assunzione della prova testimoniale: l’art. 816 ter III comma c.p.c. prevede che, ove il testimone rifiuti di
comparire dinanzi agli arbitri, questi possono richiedere al presidente del tribunale della sede dell’arbitrato che
ne ordini la comparizione davanti a loro. Niente è previsto circa le conseguenze della mancata comparizione, ma
è ritenuto che gli arbitri potranno rivolgersi di nuovo al presidente del tribunale, per chiedere che egli applichi al
testimone le sanzioni previste dall’art. 255 c.p.c. Il processo resta sospeso dal momento in cui gli arbitri
decidono di richiedere l’assistenza giudiziaria, e quindi pronunciano la relativa ordinanza, fino alla data
dell’udienza.
Nel corso del processo arbitrale possono verificarsi alcune vicende anomale:
morte, estinzione, perdita di capacità della parte: ex art. 816 sexies c.p.c., si rimette agli arbitri
l’individuazione delle misure più opportune per evitare che, per il mancato rispetto del principio del
contraddittorio, il lodo possa essere inefficace nei confronti dei suoi naturali destinatari, e quindi
inutilizzabile dalle altre parti. Quindi gli arbitri devono verificare se effettivamente l’evento descritto incida
in concreto sull’attuazione del principio del contraddittorio: se così è, spetta agli arbitri determinare di volta
in volta le misure opportune. Una volta date le opportune disposizioni, è facoltà degli arbitri sospendere il
processo, in attesa che tali disposizioni siano attuate, o venga meno la situazione patologica. Se nessuno
ottempera alle disposizioni, gli arbitri possono rinunciare all’incarico
sospensione del processo: l’art. 819 bis c.p.c. individua tre ipotesti:
- stessi casi in cui il processo giurisdizionale deve sospendersi ex art. 75 c.p.p., ovvero:
- domanda risarcitoria e restitutoria proposta in sede civile dopo pronuncia della sentenza penale di
primo grado
- dopo che l’avente diritto ha revocato la sua costituzione di parte civile in sede penale
- fattispecie previste dall’art. 819 c.p.c., ovvero quando vi è una pregiudiziale non arbitrale che deve
essere decisa con efficacia di giudicato
- quando sorge una questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, e
l’arbitro rimette alla Corte Costituzionale
La sospensione è data con ordinanza.
L’art. 819 bis III comma c.p.c. disciplina la ripresa del processo dopo la sospensione: il riavvio del processo
avviene con la presentazione di un’istanza di prosecuzione, alla quale seguirà la fissazione di una nuova
udienza da parte del collegio. L’istanza deve essere depositata in un termine fissato dagli arbitri al momento
della sospensione, che decorre dal venir meno della causa di sospensione; in mancanza di fissazione, tale
termine è di un anno. Il mancato tempestivo deposito dell’istanza determina l’estinzione del processo
arbitrale; se l’istanza è depositata tardivamente, l’estinzione deve essere eccepita dalla controparte, e non è
rilevabile d’ufficio: proposta l’eccezione decide il collegio con lodo.
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Vediamo l’exequatur.
Dal lodo può scaturire un obbligo, che la parte soccombente deve adempiere.
Se nel lodo, invece, è contenuta una condanna, la parte vittoriosa ha interesse a ricorrere alla tutela esecutiva: il
deposito del lodo nella cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione ha sede l’arbitrato, consente al giudice
di conferire efficacia esecutiva al lodo stesso. Quindi l’exequatur ha la funzione di fornire il lodo di efficacia
esecutiva.
L’exequatur può anche essere finalizzato alla annotazione o trascrizione del lodo.
Inoltre l’exequatur può servire anche all’iscrizione di ipoteca giudiziale ex art. 2818 c.c.
Per concedere l’exequatur, il giudice, ex art. 825 I comma c.p.c., deve accertare la regolarità formale del lodo:
quindi il giudice non può rifiutare l’esecutività per tutti quei motivi che sono causa di impugnazione del lodo ex
art. 829 c.p.c., ma solo per quei motivi di invalidità del lodo che ne determinano l’inesistenza, oppure, nel caso
in cui ritenga il lodo irrituale, e non rituale.
Ex art. 825 c.p.c., è ammessa la possibilità di reclamo contro il decreto che conferisce o nega l’exequatur.
Anche il lodo è sottoponibile a correzione, ex art. 826 c.p.c.: essa può essere richiesta per omissioni, errori
materiali o di calcolo, e per divergenza tra i vari originali del lodo. Inoltre il procedimento di correzione può
essere utilizzato per integrare il lodo mancante del nome degli arbitri o delle parti, indicazione della sede, della
convenzione di arbitrato e delle conclusioni delle parti. La competenza spetta agli arbitri, entro un anno dalla
comunicazione, o successivamente e se gli arbitri on provvedono al tribunale della sede dell’arbitrato. Se si è
avuto deposito del lodo, competente è solo il tribunale che ha concesso l’exequatur. Per quanto riguarda il
procedimento occorre distinguere:
- la correzione è chiesta dagli arbitri: essi debbono sentire le parti, e provvedere entro 60 gg dall’istanza; la
correzione è poi comunicata alle parti con le stesse modalità del lodo
- la correzione è chiesta dal giudice: si applica l’art. 288 c.p.c. (Se tutte le parti concordano nel chiedere la
stessa correzione, il giudice provvede con decreto. Se è chiesta da una delle parti, il giudice, con decreto da
notificarsi insieme col ricorso a norma dell'articolo 170 primo e terzo comma, fissa l'udienza nella quale le
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parti debbono comparire davanti a lui. Sull'istanza il giudice provvede con ordinanza, che deve essere
annotata sull'originale del provvedimento. Se è chiesta la correzione di una sentenza dopo un anno dalla
pubblicazione, il ricorso e il decreto debbono essere notificati alle altre parti personalmente. Le sentenze
possono essere impugnate relativamente alle parti corrette nel termine ordinario decorrente dal giorno in
cui è stata notificata l'ordinanza di correzione).
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Dall’elenco dei motivi di impugnazione per nullità capiamo come siano tutti casi di errore in procedendo: la
conseguenza è l’invalidità del lodo. L’impugnazione non è rinunciabile preventivamene prima che il lodo sia
emesso: solo dopo aver conosciuto il lodo, la parte può efficacemente rinunciare all’impugnazione.
Per quanto riguarda gli errores in iudicando, che portano ad ingiustizia del lodo, non esiste alcun mezzo di
controllo per l’operato del collegio relativo all’accertamento dei fatti storici. Non solo la questio facti e
l’applicazione delle norme elastiche che comportano una valutazione degli arbitri, non è sindacabile in sede di
impugnazione, ma la censurabilità del lodo per errores in iudicando de iure, ex art. 829 III comma c.p.c., diventa
l’eccezione: le parti debbono espressamente prevederla, affinchè abbia ingresso il controllo del giudice sul
merito. Vi sono però alcune ipotesi in cui si può avere impugnazione del lodo per errores in iudicando,
nonostante le parti non l’abbiano prevista: sono le controversie ex art. 409 c.p.c. (violazione di contratti ed
accordi collettivi) e quando vi è stata cognizione incidentale di una questione pregiudiziale non arbitrabile.
L’art. 829 III comma prevede la nullità del lodo interno per contrasto con l’ordine pubblico.
L’impugnazione deve essere proposta entro 90 gg dalla notificazione del lodo; l’impugnazione per nullità non è
più proponibile decorsi 6 mesi dalla data in cui la parte ha ricevuto il lodo.
L’impugnazione del lodo arbitrale è di unico grado, e si applicano le norme sulle impugnazioni in generale.
I motivi di nullità che si fanno valere verso il lodo, devono essere contenuti nell’atto con cui si propone
l’impugnazione per nullità.
Legittimate ad impugnare sono le parti indicate nel lodo e i loro successori nel processo o nel diritto
controverso.
Ex art. 830 IV comma c.p.c., su istanza di parte anche successiva alla proposizione dell’impugnazione, la corte
d’appello può sospendere con ordinanza l’efficacia del lodo, quando ricorrano gravi motivi.
Ex. art. 830 c.p.c., qualora il vizio investa una parte del lodo scindibile dalle altre, queste ultime non sono
toccate dalla dichiarazione di nullità: si avrà quindi nullità parziale del lodo, dichiarata dalla corte d’appello, in
relazione ai solo punti viziati.
Ex art. 830 II comma c.p.c. non vi è decisione di merito nelle seguenti ipotesi:
- convenzione di arbitrato invalido
- arbitri mal nominati
- lodo decide il merito e non poteva farlo
- lodo non decide il merito e doveva farlo, lodo inesistente
In questi casi la decisione di merito è esclusa anche se le parti l’abbiano eventualmente prevista o la richiedano
concordemente alla corte d’appello.
Viceversa, la corte d’appello decide nel merito nelle ipotesi di nullità previste dall’art. 829 c.p.c. e nelle ipotesi
di nullità per errores in iudicando: qui le parti possono escludere la decisione di merito con un accordo, anche
successivo alla convenzione di arbitrato.
A chi devono rivolgersi le parti per ottenere una nuova decisione, che prenda il posto del lodo annullato?
- in tutti i casi in cui la corte non decide nel merito, si applica la convenzione di arbitrato.: quindi se essa è
idonea a portare ad un lodo di merito, le parti dovranno di nuovo rivolgersi all’arbitrato, altrimenti dovranno
rivolgersi al giudice, ordinariamente competente in primo grado
- nel caso in cui non sia possibile la decisione arbitrale, la domanda va proposta in sede giurisdizionale
Il lodo è soggetto a revocazione nei casi di revocazione straordinaria, nonostante qualsiasi rinuncia.
E’ possibile inoltre l’opposizione di terzo, introdotta dopo la riforma del 1994, sia ordinaria che straordinaria.
Revocazione ed opposizione di terzo si propongono dinanzi alla corte d’appello competente per l’impugnazione
per nullità; se proposte congiuntamente, la corte può riunirle in un unico processo.
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