Sei sulla pagina 1di 148

1

CAPITOLO 1: Origine e sviluppo dell'integrazione europea


29 Settembre 2014

Volendo ripercorrere brevemente le tappe che hanno portato alla nascita del UE, occorre di sicuro ricordare che ,è
all'indomani della seconda guerra mondiale che l'idea di realizzare un'unione sempre più stretta tra popoli europei inizia a
concretizzarsi al fine soprattutto di evitare il riprodursi di tutte quelle situazioni economiche e politiche che avevano
portato a quel disastro mondiale. È in tale ottica che v a appunto letta la dichiarazione di Robert Schuman (ministro
degli esteri francese) del maggio 1950 con la quale proponeva di mettere insieme la produzione Franco-Tedesca del
carbone ed acciaio sotto una comune alta autorità nell'ambito di una organizzazione alla quale poi avrebbero potuto
aderire anche altri paesi. Lo scopo di tale proposta lo si capisce meglio se si ricorda che lo sfruttamento dei ricchi
giacimenti di carbone ed acciaio di alcune regioni poste al confine tra la Francia e la Germania era da sempre motivo di
conflitto, scontro per cui cosi facendo si voleva cercare di porre fine alla da sempre esistita rivalità tra questi stati. La
proposta fu accolta positivamente e vi aderirono anche altri 4 paesi: Italia,Olanda,Belgio,Lussemburgo ;che appunto
insieme a Francia e Germania giunsero alla firma del Trattato di Parigi nell'aprile 1951 istitutivo della CECA
(comunità europea del carbone e dell'acciaio). Il trattato è entrato in vigore l'anno dopo nel 1952 per un periodo limitato a
soli 50 anni per cui è definitivamente scaduto nel 2002 e mai più rinnovato nel frattempo le competenze della CECA sono
state assorbite dalla COMUNITÀ EUROPEA. Tale organizzazione faceva si che ciascuno stato membro rinunciasse se
pur in un settore limitato quale quello carbosiderurgico alla propria sovranità, mente conservava inalterate le proprie
prerogative negli altri settori.

Sotto il profilo istituzionale la Ceca era composta da :

· ALTA AUTORITÀ composta da individui designati dai governi degli stati membri, ad esse era affidata non solo
il potere esecutivo ma anche normativo nei confronti degli stati membri, imprese ed associazioni di imprese di
produzione e distribuzione di prodotti carbosiderurgici.

· CONSIGLIO DEI MINISTRI composto da rappresentati dei governi nazionali cui spettavano compiti
consultivi ma non decisionali, lo stesso di fatti esprimeva pareri vincolanti sulle proposte avanzate dall’alta
autorità;

· CORTE DI GIUSTIZIA con potere giurisdizionale con il compiti specifico di interpretare e vigilare sulla
corretta applicazione delle norma di diritto comunitario contenute nel trattato istitutivo della ceca;

· ASSEMBLEA PARLAMENTARE composta da parlamentari scelti tra quelli in carica nei parlamenti
nazionali,si scelse dunque il meccanismo del doppio mandato ,ossia alcuni parlamentari nazionali svolgevano
anche il compito di far parte dell’assemblea della CECA,essa comunque era dotata di poteri consultivi e di
controllo .

L'esperienza positiva della CECA spinse i paesi europei a voler creare qualcosa di simile anche a livello Militare, creando
appunto una Comunità europea di difesa che prevedeva in buona sostanza la creazione di un esercito europeo realizzato
attraverso le singole armate nazionali sottoposte poi al comando di un commissariato. Il trattato che istitutiva la cd
CED (1952) giunse anche alla firma ma non entrò mai in vigore a causa della mancata ratifica da parte del parlamento
francese. Nonostante tale fallimento il processo di integrazione non subì alcun arresto, si prosegui nuovamente con
l'integrazione economica e difatti nel maggio 1956, i ministri degli esteri dei 6 paesi già membri della CECA si riunirono
nuovamente e giunsero alla firma dei trattati di Roma istitutivi della CEE (comunità economica europea) e
dell'Euratom o CEEA (comunità europea per l'energia atomica), in vigore dal 1 gennaio 1958. Mentre il trattato CECA
prevedeva l'instaurazione di una area di libero scambio limitatamente al settore del carbone e dell'acciaio che implicava
appunto l'abolizione dei dazi doganali interni e la soppressione di ogni limitazione all'importazione e all'esportazione di
tali prodotti tra gli stati membri, i trattati CEE ed Euratom gettavano le basi per la creazione di una unione doganale, la
quale implicava anche l'adozione di una tariffa doganale comune nei confronti degli stati. In pratica da questo momento in
poi tutti gli sforzi dei paesi membri erano volti alla realizzazione del mercato unico ossia uno spazio senza frontiere nel
quale fossero assicurate le 4 libertà fondamentali ossia : libera circolazione di persone,merci, capitali e servizi.

Riassumendo: CECA (1951) → CEE e CEEA (1956)

2
30 settembre 2014

9 Maggio 1950 dichiarazione di Schumann (festa d'Europa)

Due filoni diversi che si muovono in maniera parallela:

1) Ampliamento del numero degli stati membri.


Le tre comunità europee nate negli anni 50: comunità europea dell'acciaio, Euratom e CEE sono creati da trattati
internazionali aperti (all'adesione di nuovi paesi).
Dove finisce l'Europa? Condizione difficile da chiarire. La partecipazione all'UE si è ampliata. Il trattato di adesione è
quello che si conclude tra i paesi membri di un'organizzazione internazionale e un nuovo paese che intende a farne parte.
• Ampliamento geografico: (anni '70) paesi del nord Europa come il Regno Unito, (anni'80) Grecia, Portogallo,
Spagna. La prima grande attività esterna per questi paesi è stata partecipare all'unione.
• Condizioni per l'ingresso nella comunità: condizioni economiche del paese, lo stato di salute della democrazia
interna, la tutela dei diritti umani.
La svolta epocale si è avuta con l'ingresso dei paesi dell'est Europa, nel 2004 di ben 10 paesi.
Ultimo, in termini cronologici, ad aderire è stata la Croazia nel 2008.

2) Contenuti del trattato istitutivo.


Progressivo mutamento delle regole di base dovuto dal fatto che gli stati membri hanno ritenuto di progredire nel
processo di integrazione affidando all'Ue una serie di nuovi compiti, nuove competenze, abbandonate dal nucleo della
sovranità nazionale e gli stati decidono di privarsi di una parte del loro potere sovrano affidandone alle comunità in
quanto in determinate materie posso essere molto meglio gestite da un soggetto comune piuttosto che dai singoli stati.
Questa secondo percorso, cioè l'intervento modificativi sui trattati istitutivi. Con lo scopo di ampliare le competenze, e
dell'altro di migliorare le regole di base del sistema, intervenendo sulle competenze e sui poteri delle singole figure
istituzionali.
Siamo partiti da uno schema istituzionale preciso:
-IL CONSIGLIO DEI MINISTRI, organo rappresentativo degli interessi degli stati, in quanto formato da rappresentanti
degli stati.
-COMMISSIONE EUROPEA, rappresentativo degli interessi generali della comunità. Un'istituzione autonoma dagli
stati.
-Un GIUDICE, chiamato a vigilare sul comportamento sia delle istituzioni che degli stati
-ASSEMBLEA PARLAMENTARE, che nasce come organo consultivo. Compito: esprimere pareri su determinate
iniziative legislative, senza efficacia vincolante nei confronti del Consiglio.
Lo schema classico della procedura legislativa nei primi anni della comunità era: la commissione europea si occupa di
predisporre progetti, in questo schema il soggetto che veniva escluso era l'assemblea parlamentare, che poteva solo
esprimere pareri indirizzati al consiglio dei ministri.
Questo schema iniziale lasciava insoddisfatto sotto ad un punto di vista: si contestava che gli atti non avessero una solida
base democratica.

Evoluzioni:
-la prima di queste riguarda la revisione dei trattati avviene negli anni '80, quando viene unificata la gestione agricola
degli stati membri (gestione agricola comune). Fu il cd periodo della politica della “sedia vuota”: la Francia si rifiutava
di partecipare al Consiglio dei Ministri il che comportava un blocco di qualsiasi decisione visto che il potere decisionale
del consiglio era obbligato a deliberare ad unanimità. Superata questa crisi, la Francia , effettuò un progetto di
completamento del mercato interno con un centinaio di direttive finalizzate allo smantellamento degli ostacoli dei fattori
impeditivi del mercato interno.

3
-Conferenza intergovernativa: modifica dei trattati istitutivi degli stati.
È caratterizzata da una serie di incontri con lo scopo di redigere un nuovo testo del trattato firmato (cristallizzazione del
testo, lo stato si impegna a non modificarlo più)(dal presidente della repubblica), che di per sé non vincola lo stato;
ratifica del trattato (parlamento) che vincola lo stato; ordine di esecuzione che vincola l'ordinamento interno dando
esecuzione al trattato.
I governi decidono quale nuovo testo proporre.

-Con il Progetto Spinelli (chiamato progetto di trattato d Unione europea.), che nasce dall'iniziativa del parlamento nel
1984, emerge il nome “Unione Europea”. Se si legge oggi questo progetto si trova in anticipo tutto quello che è successo
nei decenni successivi. Spinelli era un federalista. Questi erano e sono un movimento che ha come ambizione quello di
proporre l'unione politica: viene per la prima volta enunciato l'istituto della cittadinanza europea, vengono sanciti diritti
fondamentali, si abbandonava la regola dell'unanimità nel consiglio dei ministri, che si sostituisce con la maggioranza
qualificata, e tante altre proposte considerate in quel periodo “illusorie” ma che poi hanno trovato piena utilizzazione nei
successivi trattati. Questo progetto rimane accantonato.

-Il primo dei trattati di modifica è il cd Atto unico europeo firmato nel 1986, entrato in vigore il 1 luglio del 1987.
Questo nome si spiega in quanto il testo di questo trattato è il frutto di due iniziative parallele: una che è finalizzata a
modificare il testo del trattato istitutivo; l'altro versante è affidare alle comunità una competenza in materia di politica
estera.
Prima di allora però era successo qualcosa di molto significativo: necessità di dare uno slancio anche dal punto di vista
istituzionale alle comunità europee ancora legate ad un ottica di collaborazione tra stati. L'assemblea parlamentare cambiò
nome in PARLAMENTO EUROPEO dal 1979; cambiamento delle regole della composizione del parlamento: da questo
momento in poi si eleggono i soggetti a suffragio universale.
La natura di questo organismo è fatta da persona scelte con regole tipiche del parlamento nazionale.
Si arriva ad un'iniziativa interessante: adozione del testo di un nuovo trattato. Il parlamento europeo addirittura assume un
ruolo potenzialmente alternativo a quello degli stati: si preoccupa di formulare proposte per migliorare il sistema.
Gli stati decidono di adottare questo nuovo trattato: l'atto unico europeo, che si caratterizza per il fatto di ridurre il deficit
democratico e lo fa attraverso modificando la procedura legislativa classica. Tra le novità introdotte dall'atto unico
abbiamo:
a) l'inserimento del Consiglio europeo nel quadro istituzionale.
b) Nuova procedura legislativa ( procedura di cooperazione) dove il parlamento europeo veniva dotato di potere di
emendamento e il consiglio doveva motivare la sua decisione e doveva tener conto del potere del parlamento; in questa
nuova procedura viene meno in alcune materie il principio dell'unanimità, e si consente di assumere da parte del consiglio
dei ministri, decisione a maggioranza qualificata. In questo modo gli stati rinunciano a far valere la sovranità nazionale
sulle decisioni.
c) Novità dell'atto unico europeo dal punto di vista sostanziale: nuove politiche in tema di ambiente, tutela dei
consumatori, tutela del progresso scientifico ecc.
Si comincia a trascendere da un dato meramente economico, anche se in realtà questo dato c'è sempre.
d) Il secondo versante della comunità è collegato ad un esigenza di gestire con una sola voce i rapporti esterni, si adottano
delle regola di collaborazione spontanea che portano alla creazione di una cooperazione politica europea. Viene
formalizzato questa cooperazione in maniera da funzionare da primo esperimento di politica estera. Ancora oggi questo
versante non è particolarmente sofisticato.
e) L'atto unico europeo crea una nuova giurisdizione che accompagna la Corte di Giustizia: il TRIBUNALE.
Ma rimangono inevase alcune richieste di ulteriore avanzamento del processo di integrazione.
Emerge la necessità di una politica strutturale del sistema.

Riassumendo: Conferenza intergovernativa → Progetto Spinelli (inattuato) → Atto Unico Europeo

4
TRATTATO DI MAASTRICHT o Trattato sull'Unione Europea (TUE) 1992

A partire della denominazione della nuova organizzazione, si prendeva spunto dal progetto di Spinelli. Nella nuova
conferenza intergovernativa convocata in Olanda (a Maastricht), si decide di riprendere in considerazione la nascita
dell'UNIONE EUROPEA. Si crea una nuovo sistema formato da tre diversi pilastri, in una struttura unica, composti da tre
diversi grandi temi :

1) Unità: rimangono in piedi le tre comunità ( CECA, CEE e EUROTOM) che insieme creano questo primo pilastro;
Il trattato di Maastricht dal punto di vista del superamento del principio democratico inserisce un nuovo procedimento per
gli atti normativi, cd. Procedimento di codecisione, cioè la decisione in merito dell'atto normativo viene condivisa dal
numero dei protagonisti del potere decisionale, che sono il CONSIGLIO DEI MINISTRI e il PARLAMENTO. E lo si fa
adottando nel procedimento un potere decisionale al Parlamento non solo di emendamento ma anche di apporre un veto
finale a quanto svolto dal consiglio dei ministri.

Viene presa in considerazione ora la cittadinanza europea non tanto nei suoi contenuti, quanto per il valore ideale e
simbolico che essa contiene: consente una maggiore flessibilità in termini di diritto di voto, o in tema di circolazione, ecc.
Inoltre, con il trattato si tende ad coinvolgere e far avvicinare i cittadini in un ottica di integrazione; l'Unione prende le
decisioni il più vicino possibile ai cittadini.

Sorge poi una nuova politica monetaria che prende il nome di unione economica monetaria: utilizzare una sola moneta,
l'Euro. Si sviluppa in tre fasi, l'ultima delle quali, prevista per il 1gennaio 1999, è quella che porta al paese membro a
sostituire la propria moneta con l'Euro e riguarda i 18 paesi della cd. Eurozona. Alcuni paese non hanno adottato tale
moneta per propria volontà, ad esempio il Regno Unito o la Svezia; altri paesi non rispondono ai parametri previsti
affinché questo meccanismo, della moneta unica, possa avverarsi.

2) Politica estera di sicurezza comune. Si instaura una cooperazione sistematica tra gli stati membri, ponendo in essere
azioni comuni nei settori di comune interesse. Il Consiglio può definire una posizione comune ogni volta che lo ritenga
necessario: gli stati membri si impegnano a condurre le loro politiche nazionali in conformità a tale posizione comune. Il
consiglio decide quando una questione debba formare oggetto di una azione comune, normalmente delibera all'unanimità.
Si distingue dal primo pilastro perché le regole del funzionamento dell'unione europea sono molto meno invasive della
sovranità nazionale del primo pilastro.

3) Giustizia e affari interni: è calcato la sua matrice di un regime intergovernativo, cioè di un meccanismo affidato
totalmente alla volontà dei governi (come il secondo pilastro). Si vuole creare uno spazio di giustizia comune. Tra le
questioni di interesse comune abbiamo: la politica d'asilo, la politica d'immigrazione, la lotta contro la tossicodipendenza,
ecc. Gli stati accettano di adeguare le proprie legislazioni per tutelare interessi generali, ma ogni parlamento decide la
politica criminale dello stato, garantendo il controllo diretto di tutto ciò che avviene.
Ogni atto adottato nel terzo pilastro, così come nel secondo, richiedeva una unanimità dei consensi. La decisione quadro
sull'arresto europeo è un atto votato ad unanimità dagli stati, insieme al Consiglio.
Il problema di questo terzo pilastro era il limitato coinvolgimento del Parlamento. I trattati successivi hanno modificato
questo dato preoccupante, infatti oggi, ogni atto dell'unione in materia di cooperazione giudiziaria richiede la condivisione
del testo da parte sia del Consiglio che dal Parlamento europeo.

1 ottobre 2014

Trattati successivi al trattato di Maastricht:

con il Maastricht nasce l'Unione Europea come organizzazione internazionale composta, comprendente le 3 comunità

5
europee, la politica estera comune e il settore della giustizia degli affari interni.

Ciò che contraddistingue questi 3 pilastri è la diversa intensità dell'integrazione tra i paesi membri: il primo pilastro sono
regole consolidate che comportano un maggiore grado di gestione della sovranità nazionale alla comunità. Secondo e
terzo pilastro si muovano in un'ottica tipicamente intergovernativa (di cooperazione tra stati) ma in modo che ognuno
degli stati continui ad avere un controllo diritto sul' attività dell'unione.

I tre pilastri vengono uniti da una base di regole comuni che riguardano il funzionamento delle istituzioni, le procedure da
garantire alla adesione dei nuovi stati a questa nuova organizzazione internazionale, ma si tratta di un sistema che nella
sua complessità non poteva avere vita lunga. Era un sistema che era concepito, come si trovava in tutti i trattati, come una
tappa successiva nel cammino dell'integrazione ma in modo da preparare anche nelle materie che erano ancora legate ad
una loro dimensione governativa un futuro di maggiore integrazione,e quindi l'estensione delle regole tipicamente
comunitarie, anche negli altri settori.

Il terzo pilastro invece era quando sorge il trattato di Maastricht caratterizzato dalla novità di attirare nell'UE la disciplina
di materie legate alla cooperazione giudiziaria nel settore civile e penale. Questo primo esperimento di integrazione si
realizza attraverso delle forme diverse da quelle che era le consuetudini del primo pilastro e ciò riguardavano innanzitutto
le procedura di adozione degli atti, caratterizzate nel primo pilastro da una condivisione del potere legislativo tra il
Consiglio e il Parlamento europeo. È caratterizzato anche dall'affidamento alla Commissione, in maniera esclusiva, del
potere di iniziativa legislativa. Altra caratteristica era il funzionamento di un sistema giurisdizionale particolarmente
avanzato che consentiva ad un giudice dell'unione della Corte di giustizia di controllare il rispetto dei trattati.
Tutto ciò non si ritrova nel terzo pilastro: qui troviamo un procedimento legislativo che segue regole diverse, ad
esempio, esclude il Parlamento dalla fase decisionale, questi adotta semplicemente pareri non vincolanti. La Commissione
si vede affiancata come organismo di proposta (che redige le nuove proposte normative) dagli stati membri. La corte di
giustizia viene sostanzialmente esclusa da compiti di controllo sul comportamento degli stati. Quindi è successo che lo
stato membro si possa trovare in una situazione di inadempimento rispetto agli organi di proposta del terzo pilastro, senza
dare attuazione nell'ordinamento interno di un atto interno, non era possibile una reazione da parte del sistema simile a
quella che invece avveniva attraverso il procedimento di inflazione. Questo non era inserito nel terzo pilastro, il ché stava
a significare che gli stati ritenevano di non dover sottoporre, in quella materia così legate alla sua valenza statale, a nessun
organismo di controllo dell'unione. Queste peculiarità avevano senso in una prima fase di estensione delle competenze
dell'unione su settori che ormai avevano pochissimo a che fare con il dato economico da cui siamo partiti. Probabilmente
è servita questa “politica dei piccoli passi” per convincere gli stati stessi della bontà della decisione di affidare una parte
della loro sovranità all'UE anche dove si tratta di disciplinare , ad esempio, le regole sulla definizione di un reato, o di
regole sullo svolgimento del processo penale. Una delle decisioni quadre più famose, quella sul mandato dell'arresto
europeo, nei rapporti fra stati europei per ciò che concerne l'arresto e la consegna dell'accusato di reato nel paese estero.
Una disciplina rivoluzionaria che sostituisce nei rapporti tra gli stati membri dell'unione europea il meccanismo
dell'estradizione e che si distingue da questo meccanismo per la circostanza di applicare il meccanismo di collaborazione,
evitando che ogni notizia riguardante la persona condannata dovesse essere trasmessa al ministero della giustizia, quindi
al governo, perché questo governo potesse dare un parere positivo sulla questione; quindi si bai passa la fase
intergovernativa. Rendendo la procedura di consegna gestita completamente dagli organi giurisdizionali europei. Tutto ciò
avveniva quando le decisioni quadre venivano adottate (fino al trattato di Lisbona) dal consiglio dei ministri ad unanimità.
Così, invece, c è la garanzia di dire no; ogni singolo stato può non approvare queste nuove fonti normative.
Con la Conferenza intergovernativa del 1996 si decise di formulare una proposta di modifica del trattato di Maastricht.
Le modifiche si ponevano come obiettivo sia quello di una profonda revisione del procedimento decisionale, rendendolo
più democratico e trasparente; sia quello di un miglioramento delle funzioni delle istituzioni comunitarie. Si ebbero
numerose difficoltà per raggiungere un accordo sulle principali questioni.

TRATTATO DI AMSTERDAM 1997

La revisione dei trattati istitutivi, dopo Maastricht, si svolge ad Amsterdam. Il trattato di Amsterdam viene firmato nel
1997 e viene considerato uno dei trattati di minore successo. Novità del trattato:

a) Si inserisce nel testo del trattato dell'Unione europea (art 6) che richiede all'unione e a tutte le istituzioni di
garantire il rispetto dei principi fondanti del sistema: principio di legalità, diritti fondamentali della persona
umana, ecc. Qui si arriva ad una fase in cui gli stati membri si rendono conto che i diritti umani sono cosa diversa
dal mero dato economico, che viene totalmente abbandonato. E viene inserita una clausola generale (già
implicitamente presente prima del trattato di Amsterdam, anche se non scritta) di carattere che impone alle
istituzioni europee il rispetto dei diritti fondamentali. Colmando la lacuna del testo del trattato. In modo da
consentire ad un soggetto, che si ritiene leso di un suo diritto fondamentale , da un qualsiasi comportamento

6
dell'unione, di poter accedere ad un sistema di tutela. L'unico giudice competente è la CORTE DI GIUSTIZIA.

b) Si inserisce poi l'art 7: che adotta una nuova procedura anche questa particolarmente avanzata in principio,
anche se poco applicata nella prassi. Una nuova procedura che consente il controllo del rispetto dei principi
generali da parte dell'unione, quando questi principi vengono violati dagli stati. Gli stati accettano di sottoporre i
loro comportamenti, rispetto questi principi fondanti dell'unione, al giudizio dell'organismo europeo
internazionale. L'esigenza di inserire questo tipo di controllo emerge, nella prima metà degli anni '90, dalla
situazione creatosi in Austria, dove le elezioni politiche avevano votato un partito apertamente xenofobo. E
l'avvento al potere di questa formazione xenofoba aveva allarmato l'Europa pur trattandosi di situazioni che
avevano riflesso all'interno dei confini statali e no nei rapporti internazionali. Si era arrivati però ad un momento
maturo per poter giudicare il comportamento degli stati anche nelle situazioni interne, mettendo in discussione
principi consolidati come quelli della giurisdizione domestica. La corte di giustizia è chiamata soltanto ad
intervenire, su richiesta dello Stato accusato, per valutare il rispetto delle procedure, ma nella sostanza la
valutazione del tutto politica sulla presenza o meno di una situazione di rischio, in un ordinamento interno, dei
principi fondanti dell'unione è affidata esclusivamente al consiglio dei ministri, ad unanimità (sul libro dice a
maggioranza qualificata) escludendo dal voto lo stato accusato. Si crea quindi una difficoltà di applicazione
concreta di un meccanismo del genere perché gli stati difficilmente si fanno la guerra fra di loro, difficilmente
evidenziano i difetti altrui per evitare che questi possano fare lo stesso successivamente. Questo meccanismo
viene introdotto per rispondere alle richieste dell'opinione pubblica, legate al caso austriaco, ma tende ad non
essere applicato. Qualora tale meccanismo venga accolto può portare alla sospensione dello stato accusato di
alcuni diritti previsti dai trattati, ad esempio al diritto di voto in sede di consiglio dei ministri..

c) Inserimento di un meccanismo di cd cooperazione rafforzata: il cammino dell'unione è un cammino difficile


e non tutti gli stati hanno la capacità di tenere il passo nello stesso modo. Soprattutto quando nel '98 si è aperta la
strada a stati che sotto il profilo economico erano in situazioni non particolarmente brillanti. Quindi cooperazione
rafforzata sta a significare la possibilità dei trattati di differenziare il cammino dell'integrazione e di consentire ad
alcuni paesi membri di adottare una serie di atti o forme di collaborazioni più intense rispetto a quelle degli altri
stati membri.

d) Infine si decide di mantenere il sistema dei tre pilastri ma di farlo spostando una parte della disciplina del terzo
pilastro all'interno del primo, comunitarizzare alcune discipline. La cooperazione rafforzata può essere instaurata
tanto nel primo, tanto nel terzo pilastro, non trova applicazione nel secondo pilastro dove invece si applica il
principio dell'astensione costruttiva. Il titolo della cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni è
stato modificato in cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Si è avuto anche in questo terzo
pilastro la richiesta di comunitarizzare le disposizioni. Ma nel terzo pilastro, tutti i settori della giustizia e degli
affari interni(civile e penale) che si riteneva di non essere ancora maturi per essere comunitarizzati.

e) Altre novità riguardano la mancanza di trasparenza del processo decisionale comunitario. Con il trattato di
Amsterdam si afferma il principio della trasparenze che sancisce il diritto dei cittadini di accedere ai documenti
del parlamento, del consiglio e della commissione.

f) L'unica novità sul piano istituzionale è quella di aver fissato a settecento il numero massimo dei membri del
parlamento europeo.

TRATTATI DI NIZZA 2003

Il trattato di Nizza, che entra in vigore nel 2003, anch'esso lascia molte perplessità, molte delusioni perché rispetto alle
prospettive di modifica che erano state messe in campo i risultati raggiunti sono stati particolarmente deludenti.

Una delle novità che si cercava di introdurre nel meccanismo istituzionale dell'unione europea, che non ha visto la luce, è
stata l'adozione di una lista (non una clausola come avviene invece nel trattato di Amsterdam) dei diritti fondamentali
garantiti.

Il consiglio europeo nomina un organismo che viene chiamato Convenzione; non sono più gli stati che scrivono i trattati,
ma la scrittura della carta è affidata ad organismi scelti dalle istituzioni. Questa convenzione si occupa della relazione di

7
una carta dei diritti fondamentali dell'unione europea.

Tra i nuovi risultati raggiunti vi è quello di una risistemazione delle norme del sistema giurisdizionale dell'unione
europea.

Infine si mantiene sempre per il funzionamento dei tre pilastri incrementando il grado di integrazione nel terzo pilastro
per quel che concerne la cooperazione penale. Ad esempio inaugurando un nuovo organismo molto importante nel settore
penale, l'Eurojust, che mette in connessione gli organi investigativi dei vari stati membri dell'unione europea (oggi
abbiamo la procura europea).

Novità:
- estensione del voto a maggioranza qualificata e della procedura di codecisione a una pluralità di casi
-politica commerciale comune
-disposizioni sociali :il consiglio può istituire un Comitato per la protezione sociale, con funzione consultiva
- piccole novità riguardanti la politica estera e di sicurezza comune (Secondo pilastro)
- cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale: fu istituito l Europol (cooperazione di polizia per le attività
investigative e operative) e Eurojust (composto da magistrati, PM e funzionari della polizia).

Pochissimo tempo dopo il trattato di Nizza, si cerca di fare un grosso passo avanti. Nasce l'iniziativa di riscrivere l'intero
blocco dei trattati istitutivi. Si è pensato di sostituire un sistema complesso con un unico trattato. Si è voluto dar conto alla
valenza costituzionale, cioè che incide in maniera profonda sui valori fondanti. Questo è stato denominato “trattato che
adotta una costituzione per l'Europa”, atecnicamente chiamato Trattato costituzionale o Costituzione europea firmato a
Roma nel 2004. La redazione di questo trattato viene affidata nuovamente ad una Convenzione composta da
rappresentanti di governi, del parlamento europeo, della commissione, da rappresentanti degli stati membri. Questa
convenzione svolge un lavoro complesso, adotto un testo con più di 400 articoli divisa in quattro parti.

Il trattato introdusse alcuni principi fondamentali:

-maggiore rilevanza alla volontà dei cittadini;


-rafforza il principio di democraticità attraverso il principio della democrazia rappresentativa ,del parlamento, e del
principio di democrazia partecipativa, che implica un dialogo tra le istituzioni;
-i cittadini europei in numero di almeno un milione possono invitare la commissione a presentare una proposta di atto
normativo;
-risalto alle autonomie regionali e locali, oltre che dei parlamenti dei singoli stati membri.

Il trattato costituzionale riscriveva le regole, le riordinava e faceva passi in avanti che però doveva fare i conti con un
fenomeno che iniziava ad emergere dal basso: diffusa insoddisfazione nei confronti dell'unione europea nel suo
complesso, soprattutto per quello che riguarda le elementi di richiamo simbolico dell'unità (inno, bandiera, ecc) e di
scarso contenuto sostanziale. Si aprì un acceso dibattito sulla natura del trattato: doveva ritenersi un accordo
internazionale o costituzione? La stessa Corte di giustizia aveva già definito le norme dei trattati istitutivi quali norme
costituzionali. Certamente l'uso del termine Costituzione contiene un alto valore simbolico.

Con il trattato costituzionale si abolì il sistema dei tre pilastri: il secondo e il terzo però restavano sempre in un ottica
intergovernativa.
In alcuni paesi membri si decide di adottare questo trattato , che sarebbe dovuto entrare in vigore nel 1 novembre 2006,
tramite referendum. L'esito del referendum è stato negativo in Francia e Olanda.

TRATTATO DI LISBONA

Trattato di Lisbona (2009) : testo nuovo, sostanzialmente del trattato costituzionale; tutte le modifiche sono nient'altro
che la riformulazione del testo del trattato costituzionale con l'esclusione di tutte quelle disposizioni che riguardano il dato
simbolico/for

male della natura costituzionale dell'unione europea. Innanzitutto si abbandona la denominazione trattato costituzionale e
poi si cancellano quelle disposizioni simboliche di cui abbiamo prima parlato.

8
Si ha anche una semplificazione del sistema, sia dal punto di vista strutturale, abbandonando il meccanismo dei tre
pilastri, restano in vigore solo due trattati (trattato istitutivo dell'UE e il trattato sul funzionamento dell'UE).

Il trattato era previsto che entrasse in vigore nel 1 gennaio 2009; nel 2007 già fu firmato da 27 stati membri. Gli stati
decisero che la ratifica doveva avvenire solo previa autorizzazione del parlamento ( ad eccezione dell'Irlanda che ha un
vincolo costituzionale in tal senso) al fine di evitare la consultazione popolare, che poteva bloccare ancora una volta la
riforma dei trattati. Prova ne è che il referendum sul trattato di Lisbona indetto in Irlanda ebbe esito negativo. Il secondo
referendum indetto nell'ottobre del 2009 ebbe esito positivo.

Riassumendo: Trattato di Maastricht 1992 → Trattato di Amsterdam 1997 → Trattato di


Nizza 2003→ Trattato di Lisbona 2009

7 ottobre 2014

Il prof parte dall'ultima parte della lezione del 1 ottobre. Il Trattato di Lisbona è un trattato che è stato adottato dagli Stati
Membri dopo il fallimento del trattato che adotta una costituzione per l'Europa; trattato, quest'ultimo, non entrato mai in
vigore a causa dei referendum negativi che ci sono stati in due stati membri: la Francia e l'Olanda. Dopo questo fallimento
gli Stati Membri hanno dedotto elementi tali per indirizzare il processo di integrazione europea in altre direzioni.
Si è scelto di voler abbandonare l'idea di adottare un vero e proprio trattato costituzionale e di riprendere la prassi del
sistema di integrazione europea; fino ad allora infatti si era sempre operato con una modifica dei trattati previgenti e
questa è anche la scelta che viene adottata anche all'esito del fallimento del trattato costituzionale.
Quindi si sceglie di andare ad incidere sui trattati preesistenti, eliminando quelli che erano i riferimenti diretti ai principi
costituzionali che poi erano quelli che avevano creato le maggiori resistenze negli stati membri in cui vi era stato il
referendum negativo, quindi si cerca di raggiungere l'obiettivo utilizzando una metodologia differente. Perché comunque
nei trattati che verranno adottati con il trattato di Lisbona, gli stati membri cercando e riescono ad attuare comunque
buona parte di quelle riforme che avevano immaginato con il trattato che adotta una costituzione per l'Europa.
Per evitare l'impasse in cui si erano venuti a trovare con il trattato costituzionale, questa volta gli stati membri prevedono
che non dovesse essere necessario un referendum, una piena ratifica da parte degli stati membri dei nuovi trattati,
ritenendo sufficiente la semplice ratifica parlamentare proprio per evitare che l'esigenza di nuove consultazioni popolari
potessero determinare gli stessi problemi tenendo anche conto che a venire in rilievo, in queste circostanze, non erano
solo tematiche di natura prettamente comunitaria, ma queste venivano strumentalizzate anche per ragioni propriamente
interne di ciascuno stato membro. Quindi gli stati decisero di superare il problema proponendo in questo caso la semplice
ratifica parlamentare salvo che per l'Irlanda per la quale una specifica disposizione costituzionale imponeva comunque il
referendum popolare quindi comunque in Irlanda è stato effettuato, all'esito del trattato di Lisbona, referendum popolare e
in realtà anche in questo caso qualche problema c'è stato perché inizialmente il referendum ebbe esito negativo. Questa
volta però la difficoltà fu superata grazie ad un intervento del consiglio europeo che, riunitosi a Bruxelles nel 2008,
precisò che l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona non avrebbe comunque avuto l'effetto di estendere e modificare il
sistema di tutela dei diritti fondamentali e che comunque la composizione di talune istituzioni come anche la
Commissione, non sarebbe mutata se non a partire dal 2014 in poi, quindi per un'ulteriore legislatura sarebbero rimaste in
essere le regole previgenti che poi erano gli elementi su cui si era creato maggiormente il dissenso dello Stato irlandese.
Quindi con queste precisazioni, sostanzialmente, si riuscì a superare la mancata ratifica del trattato anche da parte
dell'Irlanda e il Trattato di Lisbona, firmato nel 2007 entrò in vigore il 1/01/2009.

Le novità del Trattato di Lisbona sono tante rispetto al sistema previgente. Una prima si coglie già con riferimento al
mutamento della denominazione di uno dei trattati di cui si compone il Trattato di Lisbona.

Prima del trattato di Lisbona noi avevamo il TRATTATI ISTITUTIVO DELLA COMUNITA EUROPEA ed il
TRATTATO SULL'UNIONE EUROPEA (TUE). Questa distinzione era legata anche al fatto che mantenevamo distinte:
la COMUNITA, dotata di personalità e nell'ambito della quale trovava applicazione il principio comunitario (per cui nella
formazione degli atti si seguivano le regole proprie del sistema comunitario), e l' UNIONE EUROPEA che invece non
aveva il riconoscimento di questa personalità giuridica, nell'ambito dell'unione trovava applicazione il cosiddetto
METODO INTERGOVERNATIVO per cui in realtà gli stati membri conservavano una grande influenza nella scelta
delle azioni concretamente messe in atto.
Il trattato di Lisbona muta quindi la denominazione di questi due trattati ed il trattato istitutivo della comunità europea

9
diviene il TRATTATO SUL FUNZIONAMENTO DELL'UNIONE EUROPEA (TFUE) e questo mutamento è
conseguente alla eliminazione della distinzione tra COMUNITA' ed UNIONE. Oggi infatti abbiamo esclusivamente l'
UNIONE EUROPEA dotata di personalità giuridica che è un'organizzazione internazionale, sicuramente sui generis,
caratterizzata dal trasferimento di competenze operata dagli stati membri che esercita quindi la sua attività nell'ambito ed
entro i confini delle competenze attribuite.

Altre importanti novità riguardano la libertà di concorrenza: scompare questo principio nel trattato di Lisbona, in
seguito soprattutto dalle insistenze francesi. Anche se tale principio risulta ancora presente in alcuni articoli del TFUE e
anche se non appare più come una finalità in sé, costituisce pur sempre un mezzo necessario al buon funzionamento del
mercato interno.

Novità anche riguardo alla moneta unica. L'unione monetaria non è più una semplice politica tra le altre, ma rappresenta
il completamento necessario al mercato interno.

Viene eliminata la primacy clause, che affermava il principio della prevalenza del diritto comunitario su quello interno
degli stati. Ma contemporaneamente una clausola in una dichiarazione allegata (n.17) ottiene lo stesso risultato
riconfermando il primato del diritto comunitario. La sostanza non cambia molto: la motivazione tecnica è data dal fatto
che la premacy clause potesse far sorgere problemi nei processi di ratifica.

Il trattato che istituisce una costituzione per l'Europa aveva immaginato di inglobare al suo interno anche la carta dei
diritti fondamentali; questo era stato uno degli elementi che aveva suscitato maggiori perplessità in seno agli stati
membri i quali immaginavano possibili contrasti (nell'ambito di tutela dei diritti fondamentali) tra la Corte di Giustizia e
le Corti Costituzionali nazionali. Il trattato di Lisbona, pur senza inglobando al proprio interno la carta dei diritti
fondamentali, raggiunge di fatto lo stesso obiettivo perché è espressamente previsto che la carta dei diritti fondamentali ha
lo stesso valore giuridico dei trattati. Quindi la Carta dei diritti fondamentali, con l'entrata in vigore del trattato di
Lisbona, rientra tra le fonti di diritto primario ed in quanto tale, purché si operi nell'ambito dell' UNIONE EUROPEA,
potrà essere direttamente invocata anche dinanzi ai giudici nazionali. Non sono rivendicabili gli atti normativi di Polonia
e Regno Unito alla luce dei diritto fondamentali dell'Unione.

Per quanto riguarda la politica dell'Unione si ha ampliato il numero delle materie o ha esteso le seguenti discipline:
politica spaziale europea, energia, protezione civile, cooperazione amministrativa, turismo, aiuti umanitari, sport,
politica sociale, servizi di interesse economico generale e politica commerciale.

A completare poi il trattato sul funzionamento del' u.e. ed il trattato sull'unione europea vi sono una serie di protocolli e
dichiarazioni allegati al trattato di Lisbona, e sono protocolli e dichiarazioni che comunque hanno un valore di diritto
primario e servono a comprendere bene l'applicazione di taluni principi e talune regole codificate all'interno dei trattati.
Ad esempio un protocollo molto importante è il protocollo sull'applicazione del principio di sussidiarietà, protocollo con
il quale viene attribuito con il trattato di Lisbona un potere maggiore ai parlamenti nazionali nell'ottica di garantire una
più ampia partecipazione anche nella fase di formazione degli atti dell' U.E. questo perché in applicazione di questo
protocollo quando la commissione presenta una proposta legislativa, presenta questa proposta oltre che ai legislatori
dell'Unione (in specie PARLAMENTO EUROPEO e CONSIGLIO) anche ai parlamenti nazionali i quali disporranno di
un termine di 8 settimane per poter analizzare la proposta legislativa e nel caso in cui dovessero riscontrare una potenziale
violazione del principio di sussidiarietà, potranno (in realtà tale potere è attribuito a ciascuna camera dei parlamenti
nazionali) sottoporre alla commissione un parere motivato ed è previsto che la commissione sia tenuta a valutare questi
pareri motivati che, laddove provengano da un certo numero di Stati membri, hanno addirittura l'effetto di imporre alla
commissione di motivare espressamente le ragioni per le quali ritiene di mantenere ferma la proposta legislativa, ovvero
se dovesse aderire ai pareri dai parlamenti e modificare la proposta legislativa. Quest'obbligo poi si trasferisce anche ai
legislatori dell' U.E. (parlamento e consiglio europeo) che nello svolgimento della formazione dell'atto dovranno tener
conto delle ragioni che ritengono non sussistere una violazione del principio di sussidiarietà.

Ritornando al Trattato di Lisbona, una importante novità è l'introduzione nel sistema cosiddetto a PILASTRI già
precedentemente vigente nei trattati → trattato sulla comunità e trattato sull'unione europea. Prima di Lisbona si
immaginava l'unione europea come una struttura simile al tempio greco formato da tre pilastri ed un' architrave. I tre

10
pilastri erano rappresentati dal :
- il primo era il pilastro comunitario → (in cui rientravano tutte quelle politiche e competenze espressamente attribuite
alla comunità)
- il secondo pilastro rappresentato dalla POLITICA ESTERA PER LA SICUREZZA COMUNE ( LA P.E.S.C.). Una
particolarità che sussiste ancora oggi nonostante l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona ( e quindi l'uniformazione delle
procedure di formazione degli atti e l'eliminazione della suddivisione in pilastri) sussiste ancora con riferimento alla
PESC (politica economica sulla sicurezza comune) questa politica per la sua intrinseca particolarità e per la sensibilità
degli stati membri risente ancora dell'influenza del carattere intergovernativo delle decisioni adottate; ed infatti non a caso
che nell'ambito dell'attuazione di questa particolare politica un ruolo fondamentale è svolto dal Consiglio europeo che con
il trattato di Lisbona è stato inquadrato nell'ambito delle istituzioni (prima non lo era) e che comunque è formato dai capi
di stato e di governo degli stati membri. Nell'ambito della P.E.S.C, infatti le decisioni adottati dalla commissione europea
sono assunte in virtù di orientamenti vincolanti del CONSIGLIO EUROPEO. Quindi è evidente che la volontà dei singoli
stati membri nell'esercizio di questa singolare politica è ancora molto incisiva e una conferma di ciò si ricava anche dalla
constatazione che il ruolo del parlamento europeo nell'ambito della P.E.S.C, è marginale in quanto viene semplicemente
informato delle decisioni adottate.

- il terzo pilastro era la cooperazione giudiziaria che inizialmente prevedeva sia quella penale che quella civile di polizia
poi si è avuto un spostamento di una serie di competenze del terzo pilastro a favore del pilastro comunitario. Quindi prima
dell'entrata in vigore del trattato di Lisbona il terzo pilastro era costituito esclusivamente dalla cooperazione giudiziaria
della polizia in materia penale.

L'architrave era invece costituito dai principi costituzionali che trovavano applicazione nell'ambito di tutti e tre i pilastri.
Questa organizzazione determinava però anche delle difficoltà pratiche nell'esercizio delle competenze attribuite
all'unione in ragione della maggiore o minore partecipazione degli stati membri alla azione dell'unione, perché nell'ambito
del secondo e del terzo pilastro gli stati conservavano comunque un ampio margine di manovra e di influenza sull'attività
dell'unione. All'interno del settore "cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale" vengono create 5 sezioni in cui
si articola la materia: disposizione generali, controlli alla frontiere, asilo e immigrazione, cooperazione giudiziaria in
materia civile, cooperazione giudiziaria in materia penale, cooperazione di polizia.

L'adozione degli atti rientranti nella cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale, oggi sono adottati comunque
con procedura legislativa ordinaria, saranno adottati atti propriamente legislativi e non più come in passato leggi quadro e
così via con la conseguenza che il sindacato della Corte di giustizia sarà pieno anche per questi atti a differenza di quanto
avveniva per il passato.

Il merito del trattato di Lisbona è quello di eliminare questa distinzione in pilastri quindi conseguentemente si realizza
anche una uniformazione della procedura di formazione degli atti; viene individuata come procedura generale la
procedura legislativa ordinaria che in buona sostanza riprende quella che era la procedura di codecisione in essere nel
sistema previgente e che prevedeva quindi cointeressati nella fase della formazione degli atti CONSIGLIO E
PARLAMENTO EUROPEO. Accanto alla procedura legislativa ordinaria poi il trattato di Lisbona riconosce altre
procedure legislative definite come procedure legislative speciali e la specialità è legata alla considerazione che il ruolo
delle due istituzioni alla quale è affidato in via generale il potere legislativo non è identico per cui avremo eventualmente
nell'ambito delle procedure legislative speciali un atto adottato dal consiglio previa approvazione del parlamento o
viceversa un atto adottato dal parlamento previa approvazione del consiglio (in realtà i casi in cui sia il parlamento ad
esercitare il potere legislativo previa approvazione del consiglio sono veramente pochi e sono soprattutto legati alla
adozione di atti necessari all'organizzazione interna e al proprio funzionamento; molti di più sono invece i casi in cui è il
consiglio a detenere il potere legislativo previa approvazione del Parlamento) resta importante evidenziare come gli stati
membri attraverso il trattato di Lisbona abbiano voluto uniformare le procedure di formazione degli atti nel trattato di
Lisbona.

Inoltre viene eliminata una previsione che era presente nel trattato costituzionale che è quella del riconoscimento esplicito
del primato del diritto dell'unione. Viene eliminata la primacy clause. Il fatto però di eliminare una tale previsione del
trattato di Lisbona non significa che tale clausola di supremazia venga meno perché in una specifica dichiarazione la
numero 17 allegata al trattato è espressamente chiarito che il primato del diritto dell'unione è un principio fondamentale e
che trova applicazione secondo quella che è la giurisprudenza e l'interpretazione della corte di giustizia quindi pur avendo

11
eliminato dal trattato una tale disposizione in sostanza nulla è cambiato perché con la dichiarazione allegata viene
garantito comunque lo stesso risultato. La sostanza non cambia molto: la motivazione tecnica è data dal fatto che la
primacy clause potesse far sorgere problemi nei processi di ratifica. Però il trattato vediamo che viene svuotato da
elementi che avrebbero determinato una piena adesione del trattato alla carta costituzionale nel trattato di Lisbona
vengono però mantenuti quei riferimenti ai principi democratici sui quali era stato fondato il trattato costituzionale e
infatti se leggiamo l'articolo 9 del trattato sull'unione europea vediamo che vi è un espresso riferimento al fatto che
l'unione sia fondata sui principi democratici cui garantisce la prima applicazione e in concreto una tale affermazione di
principio trova applicazione nell'articolo 11 del trattato sull'unione europea articolo che riconosce ad un milione di
cittadini di differenti stati dell'Ue. L'iniziativa legislativa dei cittadini che trova disciplina in una norma di diritto derivato
però in concreto la possibilità di richiedere alla commissione di presentare una proposta legislativa alla commissione
europea.
Però è importante sapere che all'interno del trattato vi è un espresso riconoscimento della valorizzazione di quei principi
democratici e della partecipazione che in precedenza non trovavano pieno spazio nel sistema comunitario. Non a caso
veniva imputata al sistema della comunità il cosiddetto DEFICIT DEMOCRATICO che si sostanziava proprio in una
scarsa partecipazione riconosciuta ai cittadini.

Altro merito del trattato di Lisbona è quello di aver chiarito e ben disciplinato determinate procedure per agevolare il
processo di integrazione europea che a 28 stati diventa molto più complesso rispetto a quando l'allora comunità risultava
composta di soli 6 stati membri pertanto per consentire ad un tale sistema formato da 28 stati di poter progredire nel
sistema di integrazione, il trattato di Lisbona ha meglio regolamentato le cosiddette procedure di cooperazione
rafforzata. La cooperazione rafforzata è un procedimento che consente a un determinato numero di stati di pervenire
all'adozione di regolamentazione (quindi di atto di diritto derivato) che troveranno applicazione non nell'ambito dell'intera
unione bensì esclusivamente con riferimento ai soli stati che vi hanno preso parte. Concretamente per dar vita ad una
cooperazione rafforzata è necessario innanzitutto che:
a) l'azione intrapresa sia finalizzata a rafforzare o migliorare il processo di integrazione europea;
b) deve essere comunque effettuata nel rispetto del trattato;
c) non deve eccedere le competenze attribuite dagli stati membri all'unione e deve avere la partecipazione di un numero
di stati almeno pari a 9 questo perché si vuole comunque raggiungere un livello di cooperazione che pur non essendo
totale almeno deve riguardare un numero consistente di stati membri e in ogni caso gli stati che non partecipano alla
cooperazione rafforzata (in virtù del principio della leale cooperazione) non possono adottare comportamenti che possano
ostacolare la cooperazione rafforzata operata dagli altri stati, che in qualunque momento il cosiddetto diritto di “opt in”
che consente di accettare la cooperazione e comunque a far parte della cooperazione rafforzata accettando quindi anche le
conseguenze di questa cooperazione.
La cooperazione rafforzata si realizza attraverso una richiesta formalizzata alla Commissione; la Commissione una volta
valutata la compatibilità della proposta col trattato sottoporrà al Consiglio la richiesta di una cooperazione rafforzata ed il
Consiglio deliberando a maggioranza qualificata ovvero alla unanimità laddove la specifica materia richieda la
deliberazione del consiglio all'unanimità e comunque in ogni caso previa approvazione del Consiglio europeo, potrà
autorizzare l'avvio di una cooperazione rafforzata.
Dopo l'entrata in vigore del trattato di Lisbona degli esempi di cooperazione rafforzata ci sono stati; uno di questi è
relativo all'adozione di un regolamento per l'individuazione della legge applicabile al divorzio. Iniziativa che è stata
avviata da 12 stati membri (tra cui anche l'Italia) che ha portato alla adozione di uno specifico regolamento in materia. Un
altro esempio è quello relativo alla tutela brevettuale questa cooperazione rafforzata a differenza di quella precedente è
stata criticata dall'Italia che ha addirittura impugnato il regolamento per ragioni linguistiche perché non prevedeva
l'impugnazione del brevetto in lingua italiana e anche la Spagna ha presentato un analogo ricorso tuttavia la posizione in
merito della commissione europea non è stata positiva riguardo la posizione dell'Italia e Spagna e allo stato attuale non
hanno aderito all'atto di cooperazione rafforzata in materia di tutela brevettuale però comunque hanno poi accettato la
costituzione di un organismo giudiziario universale cui affidare i procedimenti in materia di brevetti, quindi notiamo
come alla fine l'attività degli stati membri può effettuarsi con diverse intensità a seconda dell'interesse che deve essere
tutelato e quindi vi è la valutazione se aderire o meno all'operazione rafforzata.

Sicuramente una delle più rilevanti innovazioni del trattato di Lisbona è quello del riconoscimento espresso del ruolo
della cittadinanza europea. Lo status di cittadino dell'Unione si acquisisce automaticamente come conseguenza al
possesso della cittadinanza di uno stato membro. Tale cittadinanza si aggiunge a quella nazionale. Già da Maastricht i
trattati prevedevano l'attribuzione di una cittadinanza europea a tutti gli a tutti i cittadini che avessero una cittadinanza in
uno stato Membro. La cittadinanza europea, volendola definire, è comunque una cittadinanza di secondo livello che si
aggiunge alla cittadinanza nazionale di uno Stato membro già posseduta (Art 20 del TFUE) . Come si evince le
disposizioni del trattato non contengono un'autonoma definizione di cittadinanza si limitano a rinviare ai singoli
ordinamenti nazionali il conferimento della cittadinanza, cio che è certo è che i criteri richiesti e stabiliti da ogni singolo
ordinamento nazionale dovranno sempre essere compatibili con la normativa europea. La corte di giustizia ha di fatti
precisato che la competenza degli stati membri in materia di cittadinanza deve esercitarsi comunque nell'osservanza del

12
diritto dell'unione e che l'attribuzione o la privazione della cittadinanza non può risultare in violazione di tale diritto:
pertanto non sarebbe legittima la revoca della cittadinanza a un individuo quando risulti in violazione di un diritto
fondamentale tutelato nel ordinamento europeo quale principio generale, ad esempio una normativa interna che sancisse
la perdita della cittadinanza per motivi raziali, non sarebbe compatibile col diritto dell'unione e quindi capace di privare
quell'individuo dello status di cittadino dell'unione. Allo stesso modo uno stato membro non puo disconoscere la
cittadinanza attribuita da altro stato membro o porre dei limiti agli effetti di tale attribuzione, es. nal caso Micheletti la
Corte ha respinto la richiesta della Spagna di negare ad un cittadino italiano provvisto anche di cittadinanza argentina
l'esercizio del diritto di stabilimento in Spagna perché per la legge spagnola in caso di doppia cittadinanza prevale quella
dello stato in cui si abbia residenza abituale(nel caso in specie argentina). Non spetta appunto agli stati, nè alle loro
legislazioni nazionali, limitare gli effetti dell'attribuzione della cittadinanza di un altro stato membro, in quanto si
finirebbe per creare variazioni tra stati ed ordinamento comunitario.

Allo status di cittadino viene collegata l'attribuzione automatica di una serie di diritti, diritti che sono invocabili però solo
quando l'individuo si trovi in una situazione di rilevanza per l'unione e non puramente interna poiché la cittadinanza
dell'unione non ha lo scopo di ampliare la sfera di applicazione ratione materia del trattato anche a situazioni nazionali
che non abbiano alcun collegamento con il diritto comunitario. I diritti connessi allo stutus di cittadino europeo sono
enunciati all'art 20 TFUE, elencazione questa non esaustiva sia perché può essere ampliata (il consiglio puo adottare
all'unanimita secondo procedura legislativa speciale e previa approvazione del parlamento, disposizioni intese a
completare i diritti elencati) e sia perché comunque a tali diritti vanno aggiunti altri diritti tipici dei cittadini degli stati
membri (parita di trattamento, non discriminazione ecc).

Elenco dei diritti:

· Diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri (Art 21 TFUE):
L'esercizio di tale diritto trova un limite nella circostanza che si verta in situazioni che non ricadano nell'esclusiva
competenza di uno stato membro. Tuttavia la corte ha spesso interpretato tale limite in maniera flessibile
riconducendo la fattispecie nell'ambito del diritto europeo anche se riguardava materie di competenza statale. La
rilevanza del diritto di circolazione travalica il suo ambito di applicazione, esso attribuisce al cittadini una serie di
diritti non più limitati a singole materie, riducendo di molto le competenze statali. In sostanza il giudice
dell'unione sarà chiamato ad accertare se nel disciplinare una situazione puramente interna, uno stato membro non
venga a ledere il diritto del cittadino europeo all'esercizio di una libertà fondamentale, quale appunto al libera
circolazione nel territorio dell'unione, di cui è titolare in modo diretto ed immediato.
Nel caso Tas-hagen il governo olandese aveva negato l'indennizzo per danni di guerra ai suoi cittadini perche al
momento della richiesta non erano piu residenti nei paesi bassi ma in altro stato; la corte ha ritenuto non
giustificabile tale restrizione alla luce del diritto dellunione perché essa deriva dall aver esercitato una libertà
fondamentale quale quella di circolare liberante e trasferirsi altrove (cioè il fatto di essersi trasferiti esercitando
cosi liberta di circolazione non deve essere visto come un difetto e pregiudizo causando la non possibiltà di
beneficiare dell'indenizzo) anche la materie delle imposte dirette è di ambito nazionale ma tale competenza dovra
essere esercitata dagli stati in confomita al diritto dell'unione per cui un cittadino europeo non può essere privato
della possiblità di dedurre dal suo reddito imponibile; l'assegno alimentare versato all'ex moglie che, avendo
esercitato liberta di circolazione, risiede in altro stato.
· Diritto di elettorato alle elezioni amministrative e del parlamento europeo
Consiste nel diritto di votare e di essere eletto nello stato membro in cui si risiede, diverso da quello della
cittadinanza nazionale, in occasione sia di elezioni comunale che quelle del parlamento europeo
· Diritto di petizone: ogni cittadino ha diritto di presentare una petizione al parlamento europeo su qualsiasi materia
che rientri nel campo di attivita dell'unione
· Diritto di ricorrere al mediatore europeo. Ogni cittadino ha diritto di rivolgere al mediatore una denuncia in cui si
lamenti di essere vittima di un caso di cattiva amministrazione nell'azione dell'unione
· Diritto di accesso ai documenti delle istituzioni, organi ed organismi dell'unione: ciò al fine di consentire una
maggiore trasparenza dell'attivita istituzionale
· Diritto alla tutela diplomatica e consolare nei paesi terzi da parte delle autorità competenti degli stati membri
diversi da quello di appartenenza se quest'ultimo non vi è rappresentato. Tale diritto concerne la medesima
assistenza che le autorità diplomatiche e consolari forniscono ai propri cittadini in uno stato estero

Il trattato di Lisbona però ha il merito di valorizzare (riprendendo anche quella che era stata la posizione della corte di
giustizia in materia) l'importanza ed il ruolo del riconoscimento di questa cittadinanza a tutti i cittadini di uno stato
membro dell' U.E. ; la dimostrazione di come la cittadinanza non sia solo un riconoscimento simbolico ma possa avere
degli effetti pratici rilevanti emerge laddove si prendano in considerazione degli esempi quindi vediamo alcuni casi decisi
dalla Corte di giustizia che possono essere definiti emblematici a tal proposito:
1. CASO ANTECEDENTE AL TRATTATO DI LISBONA (studente universitario). Che riguardava un cittadino francese che
aveva deciso di proseguire i suoi studi universitari in Belgio (esercitando quindi una delle libertà riconosciute dal trattato) e si

13
era spostato dal suo stato d'origine in cui deteneva la cittadinanza in un altro stato membro (il Belgio). In questo stato aveva
avviato la propria attività di studio per effettuare dei lavori tuttavia in occasione dell'inizio del quarto anno del suo percorso
universitario, essendo il pagamento della retta maggiore rispetto a quello degli anni precedenti e non riuscendo a tutte le spese
necessarie, lo studente si rivolse alle autorità amministrative belghe chiedendo l'applicazione ed il riconoscimento del
cosiddetto sostentamento minimo in vigore in Belgio per chi non ha risorse sufficienti per provvedere al proprio mantenimento.
L'autorità amministrativa belga in un primo momento accorda questo beneficio, tuttavia successivamente in seguito al rifiuto
dello Stato di rimborsare l'importo del contributo erogato a favore del cittadino francese, adotta un provvedimento con il quale
revoca il riconoscimento dell'ammissione al sostentamento minimo. Il cittadino francese quindi impugna il provvedimento
innanzi al giudice nazionale e nell'ambito di questo procedimento il giudice nazionale effettua il rinvio pregiudiziale alla Corte
di giustizia chiedendo di chiarire se il diritto comunitario ed il principio di non discriminazione delle norme di cittadinanza
dell' U.E. potessero avere l'effetto di imporre alle autorità amministrative, nazionale e belghe, l'obbligo di riconoscere il
sussidio anche nel caso specifico.
La questione pregiudiziale traeva origine anche dalla considerazione che, nella specie, questo sussidio era riconosciuto dalla
legislazione nazionale a tutti i cittadini che avessero cittadinanza belga che risiedessero stabilmente nello stato e poi era stato
esteso anche a quei soggetti non in possesso della cittadinanza belga ma che avessero esercitato verso lo stato belga del diritto
di circolazione per ragioni di lavoro e quindi di soggetti che lavorassero in Belgio stabilmente pur non avendo la cittadinanza
belga. Nel caso di specie il cittadino francese non poteva essere qualificato tecnicamente come lavoratore perché era uno
studente, non aveva cittadinanza belga quindi si trovava escluso dal godimento di questo beneficio; il ragionamento che però
fa la corte di giustizia in questo caso, per la prima volta vi è l'affermazione che la cittadinanza dell' U.E. costituisce lo status
fondamentale di cittadino di uno stato membro, quindi mette in stretto collegamento il legame che consegue dal riconoscimento
della cittadinanza europea come elemento per poter beneficiare di una serie di diritti specificamente riconosciuti dal diritto
dell' U.E. nel caso specifico era il diritto di non discriminazione. La corte quindi valorizza la considerazione che laddove uno
studente avesse avuto la cittadinanza belga avrebbe beneficiato del contributo. A parità di condizione, dice la corte, non è
possibile che per il solo fatto che il soggetto in questione che non ha cittadinanza belga non è possibile trattarlo in maniera
differente; quindi il risultato cui perviene la corte è che avendo nella specie il cittadino francese la cittadinanza europea non
potesse essere discriminato rispetto a soggetti che nella stessa condizione di studente avessero invece la cittadinanza belga.

2. CASO. Un caso ancora più emblematico si ha invece nella Sentenza Zu e Chen (da leggere cen): il caso riguarda due
cittadini cinesi; il marito lavoratore subordinato di una società cinese che ha rapporti commerciali con il regno unito e che si
sposta frequentemente per motivi di lavoro nel Regno Unito. Nel corso di uno di questi viaggi, è accompagnato dalla moglie la
quale partorisce in Irlanda una bambina, secondo le leggi irlandesi le persone nate in Irlanda e che non possono conseguire
cittadinanza in un altro stato hanno di diritto la cittadinanza irlandese. Quindi nel caso di specie la bambina dei cittadini
cinesi acquista la cittadinanza irlandese è evidente che vi era la precisa volontà dei genitori di far nascere la bambina in
Irlanda al fine di avere dei benefici per la circolazione nel regno Unito. Si è posto però un problema in questo caso perché le
autorità amministrative avevano rifiutato di riconoscere alla madre della bambina il permesso di soggiorno. Nell'ambito di un
rinvio pregiudiziale effettuato dalla corte di giustizia la corte è chiamata a pronunciarsi nuovamente sul valore attribuito alla
cittadinanza europea e se nel caso specifico potesse essere invocata la cittadinanza europea della bambina, figlia dei cittadini
dello stato terzo.
La Corte in questa sentenza chiarisce che innanzitutto il diritto dell'unione europea non ha alcuna incidenza sulla normativa
degli stati membri relativa all'attribuzione della cittadinanza per cui gli stati membri sono liberi di determinare le regole
ritenute opportune per attribuire la propria cittadinanza però nel momento in cui sono rispettate queste regole e quindi un
soggetto ha il riconoscimento della cittadinanza di uno stato membro da qua deriva automaticamente il riconoscimento della
cittadinanza europea. Fatta questa precisazione, la corte poi analizza un aspetto che è quello della particolare condizione del
cittadino. Il detentore della cittadinanza europea nel caso zu e chen era una bambina in quanto tale dipendente
economicamente e moralmente dai genitori. Escludere nel caso di specie il riconoscimento del diritto di soggiorno al genitore
avrebbe paradossalmente avuto l'effetto di privare il cittadino dell' U.E. del diritto di muoversi e soggiornare in uno stato
membro quindi in questa pronuncia la corte riconosce anche al soggetto cittadino di uno stato terzo e quindi privo della
cittadinanza europea il diritto di soggiornare e muoversi all'interno della unione europea per garantire alla figlia minore
(cittadina europea) l'esercizio dei diritto connessi dal trattato.
Nel caso Zu e chen in realtà la connessione con il diritto dell'Unione era evidente perché, per quanto la bambina fosse nata in
Irlanda l'intento della famiglia era quello poi di spostarsi dall'Irlanda al Regno Unito e quindi vi era l'intensione di esercitare
liberamente una libertà riconosciuta dal trattato ovvero la libertà di circolazione; in quanto tale la questione è stata attratta
nell'ambito del diritto dell'unione europea. Ci si è posti però, successivamente, la questione se lo stesso ragionamento potesse
essere applicato anche nell'ambito di una situazione puramente interna, quindi nel caso in cui una analoga situazione si fosse
verificata nell'ambito dei confini di un unico Stato membro. Il caso è stato esaminato dalla corte di giustizia nella celebre
sentenza Zambrano.

14
3. CASO: CASO ZAMBRANO. In questo, il soggetto interessato era una coppia di cittadini colombiani che avevano ottenuto il
riconoscimento del diritto di asilo in Belgio, il signor Zambrano in Belgio esercitava la sua attività lavorativa quindi percepiva
un reddito sufficiente a mantenere se stesso e la propria famiglia, ma quando perse il proprio lavoro e chiese alle autorità
belghe il riconoscimento di un sussidio della disoccupazione in applicazione delle regole nazionali, lo stato rifiutò il
riconoscimento del sussidio e statuì il diniego del riconoscimento del diritto di soggiorno. In Belgio la coppia ebbe due
bambini riconoscimento secondo le regole nazionali della cittadinanza belga e si poneva a questo punto una situazione
analoga al caso già precedentemente analizzato nel caso ZU E CHEN reso però più complesso dal fatto che nella specie non vi
era l'esercizio concreto di alcun diritto riconosciuta dal trattato. Quindi la questione che è stata posta alla corte di giustizia in
questo caso era se , in applicazione delle norme in materia di cittadinanza dell'unione europea, lo stato membro potesse essere
tenuto a riconoscere il diritto di soggiorno ai genitori di uno stato terzo, di un cittadino europeo ( i figli), anche senza un
esercizio della libertà riconosciuta dal trattato. In questa sentenza la Corte, richiamando i proprio precedenti, e chiarendo
come la cittadinanza dell'unione svolga un ruolo fondamentale, funge alle medesime conclusioni evidenziando come il mancato
riconoscimento del diritto di soggiorno al genitore cittadino di uno stato terzo, avrebbe come effetto quello di privare il
cittadino europeo dell'esercizio di un proprio diritto ed addirittura nel caso di specie potrebbe avere l'effetto i indurre il
cittadino all'abbandono del paese dell'unione stessa seguendo quindi i propri genitori. Non bisogna però cadere nell'errore di
pensare che i diritti collegati al diritto dell'unione siano diritti assoluti e che possano essere invocati da qualunque cittadino di
un stato terzo membro di famiglia o soggetto che provvede al mantenimento e alla cura del cittadino di uno stato membro e la
dimostrazione si è avuta in una sentenza più recente (segue).

4.CASO. Una coppia, lui cittadino giapponese e lei cittadina tedesca, contraggono matrimonio negli stati uniti. Da questa
unione nasce una figlia cui, in applicazione delle regole nazionali, viene attribuita non una doppia bensì una tripla
cittadinanza: giapponese, americana e tedesca. La coppia decide di far ritorno in Germania dove per un periodo conducono la
propria vita, entrambi i genitori svolgono attività lavorativa fino a quando la madre e la figlia decidono di spostarsi in Austria,
mentre il padre continua a svolgere la sua attività lavorativa in Germania. Il padre cittadino giapponese, che fino a quel
momento aveva beneficiato di permessi di soggiorno per motivi lavorativi concessi dall'autorità tedesca in applicazione delle
regole nazionali, chiede il riconoscimento dello status di familiare di un cittadino dell'unione europea (nella specie la moglie e
la figlia) e in quanto tale il diritto di soggiorno e di circolazione ai sensi del diritto dell'Unione. Alla Corte viene evidenziato
che, anche dopo lo spostamento della moglie e della figlia in Austria, il padre ha continuato a mantenere un rapporto sia con
la moglie che con la figlia, ad effettuare viaggi e contestualmente a mantenere la propria occupazione in Germania.
Analizzando però la particolarità del caso specifico la Corte giunge alla conclusione che in applicazione degli stessi principi
già applicati nei precedenti casi sopra descritti, non è possibile pervenire alle medesime conclusioni. In applicazione del
principio di non discriminazione, si impone di non trattare in maniera differente situazioni analoghe così come di non trattare
in maniera analoga situazioni differenti. Nel caso di specie, il cittadino dell'Unione (quindi la moglie e la figlia) avevano
esercitato una delle libertà riconosciute dal trattato, si erano spostate dalla Germania in Austria; quindi il mancato
riconoscimento del diritto di soggiorno al padre (giapponese) non aveva avuto una incidenza negativa per quanto riguarda
l'esercizio di questa libertà (da parte della figlia e della madre) quindi la Corte giunge alla conclusione di affermare che i
diritti connessi alla cittadinanza europea non possono essere automaticamente ed in maniera assoluta trasferiti e riconosciuti
ai cittadini di stati terzi perché sono comunque diritti che, a questi cittadini di stati terzi, pervengono in maniera derivata da un
cittadino dell'Unione. Quindi il titolare dei diritti è sempre il cittadino dell'Unione.
Al di là del riconoscimento dei diritti di circolazione e del divieto di discriminazione che sicuramente sono i diritti che
maggiormente sono direttamente collegati alla attribuzione della cittadinanza europea ed i casi che abbiamo descritto lo
chiariscono; l'attribuzione della cittadinanza dell'Unione comporta anche il riconoscimento di altri diritti. Tra questi il diritto
di elettorato attivo e passivo al Parlamento europeo, riconosciuto a tutti i cittadini dell'Unione; il riconoscimento
dell'elettorato attivo e passivo alle amministrative degli Stati membri , quindi un qualunque cittadino dell'Unione può
partecipare alle elezioni amministrative dello stato in cui sceglie di stabilirsi pur non avendo la cittadinanza di quello stato ma
semplicemente in quanto cittadino europeo. Ferma restando la possibilità per gli stati membri di applicare delle deroghe, ad
esempio è riconosciuta agli stati membri la possibilità di limitare l'elettorato passivo per taluni organi esecutivi ad esempio
l'Italia ha esercitato questa deroga per limitare ai propri cittadini l'eleggibilità alla carica di Sindaco ma a prescindere da ciò
in tutti gli altri casi i cittadini dell'unione potranno beneficiare del diritto di elettorato non solo attivo ma anche passivo.
Ancora connessi alla attribuzione della cittadinanza europea, vi è il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo e il
diritto di beneficiare della protezione diplomatica e consolare all'estero anche presso una autorità diplomatica e consolare di
un altro Stato membro. Ciò si realizza nel caso in cui il proprio stato membro non abbia una rappresentanza in uno stato terzo
ma sia presente una rappresentanza di un altro stato membro o eventualmente direttamente dell'Unione, in questo caso il
cittadino in virtù del riconoscimento del proprio diritto di cittadinanza europea potrà richiedere assistenza diplomatica e
consolare anche presso l'autorità diplomatica e consolare di un altro stato membro.

15
CAPITOLO 2: Le istituzioni dell'Unione Europea
6 ottobre 2014

Competenze dell'Unione Europea

Il trattato di Lisbona è il trattato attualmente in vigore e ha modificato la denominazione dei trattati istitutivi; prima
avevamo due trattati istitutivi: trattato CEE e trattato dell'unione europea.

Il trattato istitutivo della CEE (nel 1957 a Roma) è stato modificato più volte: la prima volta dall'atto unico europeo che
rivoluziona il modo di votare: prima si votava ad unanimità, con l'atto unico europeo, invece, si vota a maggioranza
qualificata in alcune materie e permette (ex art 100A) di adottare misure per il riavvicinamento delle legislazioni
nazionali con la maggioranza qualificata. Raggiungere il consenso per approvare un atto divine più semplice. C'è però un
effetto collaterale: quando si vota ad unanimità si è tutti d'accordo si è legittimati a fare un ciò che si vuole; c'è una
direttiva degli anni '70 sulla circolazione degli uccelli migratori. In questi anni c'erano ancora le frontiere, il mercato
interno era ancora lontano. Si votava ad unanimità quindi rientrava nelle competenze dell'unione. Il problema delle
competenze inizia paradossalmente a rendersi palpabile con il progredire della storia della comunità. Con l'introduzione
del voto a maggioranza qualificata si riduce la legittimità dell'azione dell'unione, ma ne aumenta la quantità. Dall'atto
unico europeo in poi, grazie all'impulso della commissione, con una serie di iniziative legislative per realizzare questo
mercato interno vi è un espansione degli ambiti materiali dell'unione.
Il trattato di Maastricht introduce due principi fondamentali: 1) principio di sussidiarietà e 2) principio di attribuzione
delle competenze. Si inizia quindi a mettere un freno al principio delle competenze. Una delle principali modifiche del
trattato di Lisbona è quella di ridefinire l'assetto delle competenze sempre per controllare l'espansione dell'unione e
limitarla in materie specifiche. Questo fenomeno dell'espansione delle competenze è noto come deriva delle competenze.
Corollario del principio di competenza e attribuzione è il principio della residualità: tutte le competenze non
espressamente attribuite all'unione sono attribuite agli stati nazionali. È difficile da definire dove finisce il campo di una
determinata materia.

Il trattato di Lisbona nel modificare i trattati istitutivi, che vengono denominati come TFUE e TUE, parla di una sola
competenza che è espressamente ed esclusivamente rimessa agli stati, quella della sicurezza nazionale.

Per quanto riguarda le competenze dobbiamo distinguere due piani diversi quella della loro esistenza e quella del loro
esercizio. Innanzitutto dobbiamo accertare l'esistenza della competenza dell'unione in una determinata materia; poi
dobbiamo verificare come l'unione può agire in quella materia.

Le competenze possono essere ricondotte a diverse categorie (catalogo delle competenze):

a) esclusive: (art 3 TFUE) solo l'Unione può adottare atti giuridicamente vincolanti. Deroga a tale principio si ha quando
gli stati possono intervenire se autorizzati dall'unione o per dare attuazione al diritto dell'Unione (potere autonomo di
attuazione). L'unione si fonda su un principio di federalismo esecutivo, cioè legifera, ma non ha una sua pubblica
amministrazione. Inoltre la Corte di giustizia ha autorizzato varie volte gli Stati a legiferare in casi di urgenza previa
autorizzazione della Commissione.

Gli ambiti di competenza esclusiva sono (elenco esaustivo):


- unione doganale: applicazione della tariffa doganale comune e abolizione del dazio doganale interno;
- politica commerciale comune
- conservazione delle risorse biologiche marine
- politica monetaria (moneta EURO)
- concorrenza per il funzionamento del mercato comune (diritto antitrust); si ha però la cd applicazione decentrata.
Competenze esclusive sul piano esterno: vi sono alcuni ambiti in cui solo l'unione può concludere accordi con stati terzi
e con altre organizzazioni internazionali. Questi ambiti sono quattro:
1) solo l'unione può concludere accordi internazionali se tali accordi riguardano una delle materie indicate dall'art 3
TFUE. Ci sono poi tre casi abbastanza complessi se l'accordo sia necessario per consentirle di esercitare le sue
competenze a livello interno. Ipotesi molto rari, come ad esempio il parere n.1/76 sul fiume Reno: quando si conclude un
accordo sulla navigabilità di un fiume bisogna essere un po' tutti d'accordo. In questo caso la Corte di Giustizia affermò
che perché l'unione potesse disciplinare la navigabilità dei fiumi occorreva che l'unione ,e solo l'unione, fosse competente

16
a stipulare accordi relativi alla medesima materia, con stati terzi. La Corte di giustizia ha riconosciuto che l'esclusività
esterna, in pochissime ipotesi, è una precondizione affinché l'unione possa esercitare la propria competenza sul piano
interno.
2) l'unione è esclusivamente competente a concludere accordi internazionali se ciò è previsto in un atto legislativo
dell'unione, relativo alla sfera interna.
3) Nella sentenza Open Skies, ad esempio, la Corte ha affermato che quando la comunità include, nei suoi atti legislativi,
clausole relative al trattamento da riservare ai cittadini di uno stato terzo o conferisce espressamente alle proprie
istituzioni la competenza a negoziare coi paesi terzi, essa acquista una competenza esclusiva in misura corrispondente ai
suddetti atti.
4) quella più frequente che ha dato luogo a maggiori controversie. L'unione può concludere accordi internazionali se tali
accordi possono incidere su norme comune o modificarne la portata.
Questa è la cd competenza esterna esclusiva derivata. Si teme che gli stati possono eludere o pregiudicare l'efficacia
degli atti interni, negoziando accordi incompatibili con esse, con stati terzi. L'azione interna ha determinato l'esclusività
sul piano esterno.

b) concorrenti: sia lo Stato che l'Unione possono legiferare.


Gli stati possono legiferare se l'unione non ha già legiferato. Questo è il cd principio della field action[?] (occupazione di
campo).
Gli stati possono nuovamente legiferare se l'unione cessa di esercitare la propria competenza.
Meccanismo della concorrenzialità: (protocollo 25) il campo di applicazione di questo esercizio di competenza copre
unicamente gli elementi disciplinanti dall'atto dell'Unione in questione e non compre pertanto l'intero settore. La realtà è
un po' diversa: il principio della field action è spesso stato applicato in maniera aggressiva. L'esempio, è quella della
libera circolazione degli avvocati (direttiva n.98/5): con il titolo di avvocato italiano si può esercitare in tutti gli stati
membri, con dei piccoli accorgimenti. In Lussemburgo ad un avvocato italiano gli è stato negata la possibilità di esercitare
perché bisognava superare un test di lingua (lussemburghese, francese, inglese), la Corte ha stabilito che in questi tipi di
requisiti fossero legittimi.

Talvolta l'efficacia preclusiva di un atto, ossia la sua capacità di inibire l'intervento statale, è più ampia negli
aspetti disciplinati da tale atto. Le competenze concorrenti, secondo alcuni, diventano esclusive per esercizio. Nel
senso che una volta che l'unione ha legiferato gli stati non possono più intervenire e queste competenze diventano di fatto
esclusive.
Cessazione della competenza dell'unione (dichiarazione 18 sulle competenze): ciò si verifica quando su proposta della
Commissione decidono di abrogare un atto legislativo in particolare per assicurare meglio il rispetto costante dei principi
di sussidiarietà e della proporzionalità.
Catalogo delle competenze concorrenti: se non è esclusiva dell'unione la competenza è degli stati nazionali, se è esclusiva
dell'unione ma non è specificata è una competenza concorrente;
Competenza concorrenti nei principali seguenti settori (Art 4 TFUE) (elenco esemplificativo):
-mercato interno
-politica sociale
-coesione economica, sociale e territoriale
-agricoltura e pesca
-ambiente
-protezione dei consumatori
-trasporti
-reti transeuropee
-energie
-spazio di libertà sicurezza e giustizia (es. mandato darresto europeo)
-sanità pubblica

c) sostegno, coordinamento e completamento (Art 6 TFUE): l'unione si impegna a sostenere, coordinare o completare
l'azione degli stati membri. Questo è quello che l'Unione fa, ma è importante anche ciò che l'unione non può fare.
L'unione in questa materie non si sostituisce alla competenza degli Stati e in particolare l'unione non può adottare misure

17
di armonizzazione, di avvicinamento della legislazioni.

Le materie sono:

-tutela e miglioramento della salute umana


-industria
-cultura
-turismo
-istruzione, formazione professionale, gioventù e sport
-protezione civile
-cooperazione amministrativa.

Altre categorie di competenze:

A) parallele (art 4 par. 3- 4 TFUE): unione e stati possono agire in parallelo senza mai toccarsi e possono legiferare
entrambi. L'unione può agire, ma l'esercizio di questa competenza non può impedire gli stati di legiferare. Queste
competenze sono collocate all'interno delle competenze concorrenti senza occupazione di campo da parte dell'unione.
Nelle competenze parallele l'unione può disciplinare la materia a condizione che vi sia sempre fatta salva la facoltà degli
stati di intervenire ulteriormente.

Materie: settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio, cooperazione allo sviluppo e dell'aiuto umanitario.

B) di coordinamento (art 5 TFUE): l'unione si limita a dettare indirizzi di massima ed orientamenti. La dottrina non è
unanime circa la qualificazione di tali competenze. Secondo alcuni, tali competenze sono a metà strada tra le competenze
concorrenti e le competenze di sostegno, coordinamento e completamento. Tale interpretazione sembra trovare supporto
nella collocazione dell'art 5 a metà tra art 4 e art 6. Pertanto l'azione dell'unione in tali materie è un po' più intensa di
quella che l'unione può esercitare nell'ambito delle competenze di sostegno ma meno intensa di quella delle competenze
concorrenti. Tale interpretazione trova ulteriore sostegno nel fatto che per queste materie non vi è un divieto espresso di
armonizzazione.

Secondo altra dottrina invece queste competenze non sono a metà strada, ma si collocano nella scale delle intensità al di
sotto delle competenze di sostegno. Infatti in queste materie l'unione potrebbe esercitare solamente poteri non di
disciplina ma di mero indirizzo politico lasciando agli stati membri il compito di definire la disciplina completa.

Queste materie sono tre: politiche economiche, politiche occupazionali e politiche sociali.

C) sussidiarie (art 352 TFUE): l'unione può adottare le azioni necessarie per realizzare un obiettivo fissato dai trattati per
i quali questi ultimi non hanno previsto particolari poteri di azione. In passato gli obiettivi in questione dovevano essere
collegati al funzionamento del mercato comune, ora gli obiettivi sono quelli dell'art 3 paragrafi 3e 5 del TUE. Per il fatto
che non sono previsti particolari poteri di azione è residuale.

L'art 352 non può essere utilizzata come base giuridica quando vi è un'altra base giuridica nel trattato che prevede la
maggioranza insieme al Consiglio per l'adozione dell'atto invece della richiesta perché l'art 352 richiede il voto ad
unanimità insieme al Consiglio.

La procedura è: il consiglio deliberando ad unanimità, su proposta della commissione, previa approvazione del
parlamento, adotta le disposizione appropriate. La commissione richiama l attenzione dei parlamenti nazionali sulle
proposte fondate sul art 352.

I limiti dell'art 352 : le misure non possono comportare un'armonizzazione nei casi in cui i trattati le escludono. Non può,
inoltre, essere utilizzato per realizzare obiettivi di politica estera della sicurezza comune, che è un campo molto
particolare lasciato alla cooperazione intergovernativa. E non può utilizzare l'art 352 per ampliare la sfera delle
competenze dell'unione al di là dell'ambito generale risultante dal complesso dell'esposizione dei trattati (cioè utilizzare
con moderazione tale articolo). Ulteriore precisazione contenuta nella dichiarazione 42, in cui si afferma che l'art 352 non
può condurre sostanzialmente ad una modifica dei trattati che sfugga alla procedura di revisione; ad esempio, se l'unione

18
volesse usare l'art 352 per trasformare una competenza concorrente in una competenza esclusiva.

D) Competenze implicite: sono competenze non espressamente previste dai trattati, che però la Corte di giustizia ha
ritenuto in capo all'unione in quanto indispensabile per un esercizio efficace e appropriato delle competenze ad essa già
attribuite.

È simile a quello dell’art 352, ma per altri diversi, in quanto le competenze implicite sono quelle dove non c'è alcuna
traccia nel trattato ma che la Corte di giustizia in via del tutto giurisprudenziale ha ritenuto sussistente. Esempi: materie di
gestione e regolamentazione, per valutare l’attuazione dei propri atti; e in materie di competenze esterne implicite.

Esercizio delle competenze è disciplinato da altri due principi: 1) principio di sussidiarietà e 2)proporzionalità.

1) in base a tale principio l'unione interviene solamente se gli obiettivi da esse perseguiti non possono essere conseguiti in
misura sufficiente dagli stati membri e tali obiettivi possono essere raggiunti meglio dall'unione Si tratta di capire dove è
che l'azione è più efficace se a livello di Unione o a livello di Stati.

L'Unione interviene solo se la propria azione è più efficace di quella degli stati e l'azione degli stati non sarebbe
sufficiente. Questo principio si applica solamente alle competenze non esclusive.

La ratio è duplice: in parte questo principio può essere utilizzato come fondamento dell'azione dell'unione, come
giustificazione dell'unione. Per esempio l'art 130R par. 4 dell'atto unico europeo in materia ambientale, l'intervento
dell'unione era giustificato in quanto più efficace di quella degli stati. L'altra ratio è quella prevalente: limitare
l'espansione delle competenze dell'unione. È evidente dall'attuale art 5 par.3 del TUE, afferma che l'unione soltanto se ed
in quanto la propria azione è più efficace di quella degli stati.

C'è stata un evoluzione di tale principio ed è stato introdotto nel trattato di Maastricht nel 1992. Altro momento
fondamentale si è avuto con il trattato di Amsterdam, perché al trattato di Amsterdam era legato il protocollo n.30
[differenza tra protocollo e dichiarazione : ogni volta che vi è un trattato di modifica abbiamo in realtà dei protocollo e
delle dichiarazioni. I protocolli sono vincolanti e hanno lo stesso rango dei trattati, rango primario; le dichiarazioni
non sono vincolanti però sono tendenzialmente importanti perché di solito istituiscono una linea interpretativa per la
disposizione dei trattati] dedicato esclusivamente a tale principio insieme al principio di proporzionalità. In tale protocollo
si afferma che il principio di sussidiarietà è giustiziabile, cioè può essere invocato in giudizio.

Esiste un criterio molto interessante sull'intensità della legislazione, abbandonato dal trattato, che può essere molto utile
nel concreto per il contenuto del principio di sussidiarietà. E si afferma che l'intensità della legislazione dell'unione non
deve essere superiore di quanto è necessario alla realizzazione degli obiettivi da essa perseguiti.
[Differenza tra regolamenti e direttive: i primi sono direttamente applicabili e vincolanti da ogni parti, le direttive fissano
degli obiettivi lasciando agli stati la scelta dei mezzi] Il protocollo allegato al trattato di Amsterdam dice che sia un
regolamento che una direttiva sono idonei allo stesso scopo l'Unione deve preferire la direttiva cosi da lasciare più spazio
agli stati membri. Tra le direttive dettagliate e le direttive quadro (più generiche che fissano principi generali) , secondo il
principio di sussidiarietà bisogna preferire quelle quadro.

Questo protocollo è stato abrogato e sostituito dal protocollo n.2 allegato al trattato di Lisbona.

È previsto un controllo ex ante del principio di sussidiarietà affidato ai parlamenti nazionali e poi è previsto un controllo
ex post affidato alla corte di giustizia. Tale disciplina vale anche per il principio di proporzionalità.

Tanto per cominciare la sussidiarietà è un vincolo procedurale, cioè ai sensi dell'art 2 del protocollo 2 la commissione
prima di formulare proposte degli atti normativi effettua ampie consultazioni. È importante l'art5 come vincolo
procedurale, dove si afferma che i progetti e le proposte degli atti normativi devono essere specificamente motivati
relativamente ai principi di sussidiarietà e proporzionalità. Il protocollo afferma che un apposita scheda deve indicare
l'impatto finanziario, l'impatto sulla regolamentazione e fornire se è possibile gli indicatori quantitativi o qualitativi, deve
spiegare cioè per quale motivo l'azione dell'unione sarebbe efficace e quella degli stati sarebbe inefficace.

Il controllo ex ante, cioè prima che la proposta normativa sia approvata ed entri in vigore. Questo controllo è affidato ai
parlamenti nazionali, per rimediare al cd deficit democratico dell'unione, cioè per consentire una maggiore legittimazione
democratica nel processo decisionale. L'art 4 prevede che ai parlamenti nazionali vanno inviati i progetti di atti legislativi,

19
le risoluzioni legislative del parlamento europeo e le posizioni del consiglio. Gli atti preparatori più importanti del
procedimento legislativo dell'unione devono essere sottoposti ai parlamenti nazionali, perché ogni parlamento entro 8
settimane può presentare un parere motivato relativo al rispetto o al mancato rispetto dei principi di sussidiarietà
e proporzionalità. È anche previsto un meccanismo di voti nel senso che ciascun parlamento, tendenzialmente
bicamerale, ha due volti e può presentare entro 8 settimane questi pareri motivati. Il raggiungimento di un determinato
numero di voti contrari comporta l'attivazione di due diverse procedure: quella del cartellino giallo e del cartellino
arancione. Cartellino giallo vuol dire che i pareri negativi, i pareri motivati in cui i parlamenti affermano che la proposta è
contraria ai principi di proporzionalità e sussidiarietà, raggiungono 1/3 dei voti, se si tratta della materia di sicurezza e
giustizia invece la soglia è di ¼ dei voti. Il progetto sotto questa soglia deve essere riesaminato.

Il cartellino arancione ha ancora delle conseguenze più significative, si verifica nel momento in cui i pareri negativi
costituiscono la maggioranza semplice dei voti disponibili. Quindi vuol dire che almeno la metà delle camere dei
parlamenti nazionali in Europa sono contrari al progetto. La commissione ha l'obbligo di riesaminare il progetto e se
ritiene di mantenerlo deve adottare un parere motivato che spiega al legislatore dell'unione perché al contrario dei pareri
contrari dei parlamenti, la commissione crede che questo progetto rispetta i principi di sussidiarietà e proporzionalità. A
questo punto come dire la palla passa al legislatore dell'Unione, vale a dire Consiglio e Parlamento, i quali esaminano il
parere della commissione e d'altra parte i pareri motivati negativi dei parlamenti nazionali. Se il 55% dei membri del
consiglio, quindi la rappresentanza dei governi degli stati, o la maggioranza dei voti espressi nel parlamento europeo
(parlamentari eletti direttamente da noi) ritengono il progetto incompatibile con i principi di sussidiarietà o
proporzionalità, il progetto decade. Quindi non si tratta di una valutazione politica, non si tratta di capire se il progetto è
giusto o è sbagliato, si tratta di capire se il progetto rispetta o meno il principio di sussidiarietà e proporzionalità. Se la
maggioranza semplice del parlamento ritiene che questi principi siano stati violati, o il 55% dei membri del consiglio o la
maggioranza dei voti espressi dal parlamento europeo sono del medesimo avviso, la proposta decade, si ferma lì.

Il controllo ex post, cioè se l'atto non rispetta i principi di sussidiarietà e di proporzionalità, può essere impugnato dinanzi
alla corte di giustizia. Chi è legittimato ad impugnare l'atto? Gli stati, le istituzioni dell'unione, il comitato delle regioni,
gli stati membri a nome dei parlamenti. La corte di giustizia ha sempre svolto un sindacato estremamente timido circa il
rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, per il motivo che si tratta di una questione non giuridica ma politica.
E in questo senso è interessante la risposta del consiglio all'interrogazione di un'onorevole , un parlamentare europeo, in
cui si afferma che la sussidiarietà implica valutazioni politiche che sono sottratte al sindacato della corte. Abbiamo vari
casi in cui è stato chiesto alla corte di pronunciarsi sulla compatibilità del principio della sussidiarietà, in cui la corte si è
rifiutata di farlo. Con la sentenza “Germania contro Parlamento e Consiglio” del 1997, la Corte ha affermato che non è
necessario che un atto faccia espresso riferimento al principio di sussidiarietà ma basta che spiega per quali motivi
l'intervento dell'unione è preferibile. La sentenza “regno unito contro consiglio” la corte ha affermato che non spetta a lei
di valutare la validità degli atti normativi, ma solo la loro legittimità. Fino ad ora nessun atto è stato annullato per
violazione del principio di sussidiarietà, il dato sta a indicare che la corte è poco incline ha sindacare il rispetto dei
principi in questione.

2) principio di proporzionalità: tale principio è stato introdotto dalla giurisprudenza in tempi abbastanza risalenti. Viene
formalmente inserito nel trattato di Maastricht. Il principio afferma che il contenuto e la forma dell'azione dell'unione si
limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi previsti dai trattati. Il contenuto quindi attiene
all'intensità dell'intervento. La forma riguarda, invece, il tipo di atto utilizzato.

Tale principio riguarda tutte le competenze dell'unione, comprese quelle esclusive.

Il principio di proporzionalità vincola anche gli stati membri quando danno attuazione al diritto dell'unione

I principi di sussidiarietà e proporzionalità sono in rapporto “AN quantum”, quindi il principio di sussidiarietà ci dice “Se
l'unione deve intervenire”, il principio di proporzionalità invece ci dice “premesso che l'unione deve intervenire, come
deve intervenire”, e cioè in maniera poco invasiva. Questi piani si sovrappongono spesso nella prassi, in alcune pronunce
un atto che viola il principio di sussidiarietà si presume, è ipso iure, sproporzionato. Ad esempio nella sentenza “Regno
Unito contro consiglio” in cui si legge che una misura può considerarsi proporzionata solo se non trasgredisce il principio
di sussidiarietà.

Quello che è molto diverso dal principio di sussidiarietà è il sindacato della Corte, la quale non è stata “timida” come nel
caso del principio di sussidiarietà, ma ha varie volte sindacato il rispetto del principio di proporzionalità in alcuni casi

20
arrivando all'annullamento del atto. In passato la corte applicava un doppio standard: quando doveva valutare l'azione
statale era molto severa per l'applicazione del principio di proporzionalità; invece per gli atti dell'unione, la corte
applicava il criterio della non manifesta sproporzione. Varie volte la corte ha affermato che al legislatore dell'unione
spettano ampie discrezionalità per poter scegliere mezzi adeguati per perseguire un obiettivo contenuto nei trattati e che la
corte avrebbe dovuto intervenire solamente qualora ci fosse stata una manifesta sproporzionalità dei mezzi utilizzati.
Nella sentenza 83/2014 la corte di giustizia ha dichiarato, in base alla direttiva 2006/24, perché ingeriva nel diritto alla
riservatezza in nome di obiettivi di interesse generale la lotta al crimine e la pubblica sicurezza, ma lo faceva in maniera
sproporzionata.

3)Principio di prossimità enunciato dall'art 10 paragrafo 3TFUE in cui si afferma che le decisioni sono prese nella
maniera più possibilmente vicino ai cittadini. Questo principio si applica in tutti gli ambiti delle competenze, anche in
quella della competenza esclusiva. Per alcuni versi si sovrappone al principio di sussidiarietà, però il punto focale è
diverso. Nell'ambito del principio di sussidiarietà quello che conta è l'efficacia, invece nel principio di prossimità
prescinde da questo criterio e si basa solamente sulla prossimità del cittadino, quindi è sempre preferibile l'azione a livello
statale, o meglio ancora, a livello locale.

Questi 3 principi sono spesso concepiti dalla Corte come un tutt'uno e questo avviene ad esempio in materia di adozioni di
misure statali. Quando la corte si trova a valutare la compatibilità delle misure statali con il diritto dell'unione, spesso
risulta influenzata da questi principi e quindi tende a riconoscere un certo margine di discrezionalità agli stati.

ISTITUZIONI

Passiamo ora ad illustrare il funzionamento di qualche istituzione:


Prima di analizzare in concreto il funzionamento di ciascuna istituzione, bisogna tener presente che nell'ambito
dell'Unione sono presenti interessi differenti. Vi sono interessi attribuibili agli Stati membri; interessi attribuibili ai
cittadini; interessi propri dell'Unione; In fine un interesse generale al rispetto della legalità. Questo ventagli di interessi
trova riscontro ed esplicazione nel sistema istituzionale dell' Unione.
Le diverse istituzioni, infatti, tutelano questi differenti interessi; ad esempio avremo il Consiglio dell'Unione europea
formato dai rappresentanti a livello ministeriale degli Stati membri che è evidentemente una manifestazione degli interessi
degli stati. Il Parlamento Europeo invece formato da rappresentanti dei cittadini dell'unione è evidentemente l'istituzione
che più di tutte garantisce e tutela gli interessi dei cittadini, gli interessi dei popoli dell'unione; la Commissione cui invece
è attribuito, per espressa previsione del Trattato, il compito di curare e sovraintendere agli interessi dell'Unione e la Corte
di giustizia cui invece è attribuito il controllo di legalità sull'attività di tutte le istituzioni.
A ciò si aggiunge che, nel sistema elaborato dai trattati, l'attività delle istituzioni si svolge in maniera tale da garantire il
cosiddetto equilibrio istituzionale. Non troveremo quindi una istituzione cui è attribuito un potere assoluto in una
determinata materia; la dimostrazione è l'analisi della procedura legislativa. Nell'ambito della procedura legislativa c'è un
diritto quasi esclusivo della Commissione per quanto riguarda la presentazione della proposta legislativa e parimenti un
potere condiviso tra Consiglio e Parlamento europeo nella adozione dell'atto legislativo; atto che poi potrà essere
impugnato per l'annullamento da una qualunque istituzione o addirittura, alle condizioni espressamente previste dal
trattato, anche dai singoli dinanzi alla Corte di Giustizia quindi notate come tutto il sistema dell'Unione è strutturato in
maniera tale da garantire un equilibrio nell'ambito dell'attività delle istituzioni; equilibrio che però è teso a garantire un
bilanciamento dei diversi interessi in gioco.

PARLAMENTO EUROPEO

Con specifico riferimento al Parlamento europeo c'è da dire che il Parlamento attualmente è sullo stesso piano delle altre
istituzioni anche nella fase di formazione degli atti ormai condivide pienamente con il Consiglio il potere legislativo. Non
è sempre stato così; agli inizi il Parlamento europeo aveva soprattutto funzioni consultive e si contestava all'allora
Comunità un deficit democratico legato al fatto che anche i membri del parlamento, che comunque non partecipavano in
pieno all'esercizio delle funzioni dell'attività dell'Unione, non erano direttamente eletti dai cittadini, bensì individuati
nell'ambito dei rappresentanti dei parlamenti nazionali (quindi erano i parlamentari nazionali che al loro interno
individuavano ed eleggevano i rappresentanti presso il Parlamento europeo). Questo è stato il sistema in vigore fino al
1979 quando è stata decisa l'adozione, nell'ambito del sistema dell'allora Comunità, del suffragio universale diretto.
Quindi dal '79 in poi, i rappresentanti del Parlamento europeo sono stati eletti direttamente dai cittadini degli Stati
membri. Gli Stati membri comunque conservano autonomia nell'ambito dell'individuazione delle regole per scegliere i
propri rappresentanti al Parlamento Europeo con l'unico limite che deve trattarsi comunque di un voto diretto (quindi i

21
cittadini sceglieranno direttamente i propri rappresentanti) e le votazioni dovranno essere effettuate in maniera
contemporanea (quindi laddove si procederà alla elezione del nuovo Parlamento europeo in tutti gli stati dell'unione
europea le votazioni avverranno in uno stesso periodo che va necessariamente tra il giovedì e la domenica successiva di
una stessa settimana) questo per garantire, contemperando le esigenze degli stati membri, una uniforme individuazione
dei membri del Parlamento.
Attualmente i membri del Parlamento sono 750 + 1(il Presidente) emblematico è il riferimento al numero 750 + il
Presidente; in effetti questo è il frutto di un caso politico che ha riguardato l'Italia perché i trattati prevedono che: ciascuno
stato membro deve avere un numero di seggi rappresentanti in Parlamento Europeo proporzionale alla popolazione; il
numero dei seggi non può essere, in ciascuno stato membro, inferiore a 6; e non può essere superiore a 96. Ci si era
trovati nella condizione per cui, in applicazione di questo calcolo proporzionale, l'Italia avrebbe avuto al Parlamento
europeo un seggio in meno agli altri Stati fondatoti quali la Francia ed il Regno Unito. Si era quindi creato un caso
politico, per superare il quale è stato previsto che il numero complessivo dei membri al Parlamento Europeo fosse fissato
definitivamente in 750 + 1 vale a dire il Presidente ed il seggio ulteriore, individuato in questo modo fosse attribuito
all'Italia che quindi, attualmente, ha lo stesso numero di rappresentanti in Parlamento europeo in Francia e Regno Unito.
Il Presidente del Parlamento Europeo è eletto dai rappresentanti del parlamento, dura in carica 2 anni e mezzo, ed ha la
funzione di rappresentare l'istituzione e unitamente ai presidenti delle altre istituzioni rappresentare anche all'esterno
l'Unione Europea. Al proprio interno il Parlamento si divide in gruppi politici, ciascun gruppo politico formato da
rappresentanti di diversi Stati Membri, eleggerà un proprio presidente che, unitamente al presidente del tribunale,
partecipa alla conferenza dei presidenti che sostanzialmente ha funzioni organizzative del lavoro dell'istituzione perché
deve calendalizzare i lavori del Parlamento, lavori che vengono effettuati in Commissioni parlamentari. Nell'ambito del
Parlamento ci sono diverse Commissioni organizzate con riferimento a specifiche materie, quindi ad esempio avremo la
Commissione petizione, la Commissione agricoltura etc.; queste commissioni che sono commissioni permanenti avranno
una durata fissata, nei regolamenti delle istituzioni, in due anni e mezzo. Accanto a queste, comunque, è riconosciuta la
possibilità di istituire, ove ve ne fosse la necessità, delle commissioni speciali e temporanee la cui durata non può
eccedere i 12mesi. Il Parlamento ha ufficialmente sede a Strasburgo, tuttavia nella sede di Strasburgo si riunisce
raramente e soltanto una volta al mese. In genere tutte le attività del Parlamento vengono svolte in Commissione e le
Commissioni hanno sede a Bruxelles. Viene quindi imputato al Parlamento uno spreco di risorse perché vi è una sede a
Strasburgo che comunque ha dei costi di manutenzione, di personale, di trasferimento di materiale necessario nel caso in
cui dalle Commissioni debba poi procedersi alla seduta generale a Strasburgo; quindi comporta costi notevoli che hanno
incidenza considerevole sul bilancio dell'Unione. Tuttavia i tentativi fino ad ora effettuati di modificare il trattato e quindi
di portare eventualmente la sede del Parlamento a Bruxelles, dove tra l'altro hanno sede tutte le altre istituzioni (tra tutte la
Commissione) tali tentativi hanno sempre avuto ed incontrato il parere negativo della Francia perché originariamente
l'idea era di non accorpare tutte le istituzioni in un unico Stato membro ed è questo il motivo per il quale abbiamo la Corte
di Giustizia che ha sede in Lussemburgo, la Commissione a Bruxelles, il Parlamento a Strasburgo, in Italia c'è un'agenzia
antisofisticazione per quanto riguarda i cibi e via dicendo. Comunque c'è l'idea di non accorpare le istituzioni nell'ambito
di un unico stato membro. Questo ha determinato, ed essendo necessaria al trasferimento della sede, una revisione del
trattato, per effettuare tale revisione ci deve essere l'approvazione di tutti gli Stati membri, il diniego della Francia ha
determinato la situazione attuale per la quale il Parlamento ha sede a Strasburgo (sede che utilizza raramente e lavorando
per il resto del tempo a Bruxelles). I membri del parlamento europeo, ove si trovano nel territorio del proprio stato di
origine, beneficeranno dello stesso status riconosciuto ai deputati nazionali (questo per quanto riguarda immunità e
privilegi eventualmente ad essi accordati) e comunque, per quanto riguarda la loro specifica attività di rappresentanti del
Parlamento europeo, è previsto il riconoscimento di speciali immunità quali l'impossibilità di essere perseguiti per
affermazioni o attività connesse allo svolgimento delle proprie funzioni di rappresentante parlamentare. Una delle
funzioni cardini del Parlamento è quella di partecipare alla adozione degli atti legislativi; addirittura sono atti
legislativi, secondo il trattato, quelli adottati secondo la procedura legislativa e la procedura legislativa è quella che
prevede la partecipazione del Parlamento. Quindi anche dal punto di vista pratico per capire se un atto dell'unione sia un
atto legislativo è sufficiente verificare se alla adozione di quello stesso atto abbia partecipato il Parlamento. Non è questa
però l'unica funzione del Parlamento europeo. Il Parlamento Europeo infatti svolge anche una funzione di controllo sulle
altre istituzioni. Funzione che con riferimento alla Commissione, si esplica attraverso la possibilità di richiedere di
formulare delle interrogazioni alla Commissione; un po' come accade nel sistema nazionale per cui il Parlamento può
formulare delle interrogazioni al Governo. Volendo effettuare un parallelo tra il sistema nazionale e quello dell'Unione
possiamo paragonare il potere riconosciuto nel sistema nazionale al Parlamento che può sfiduciare il Governo approvando
una mozione di sfiducia, con il potere riconosciuto dal sistema dell'Unione al Parlamento europeo che può sfiduciare la
Commissione approvando una mozione di censura, una particolare mozione che se fosse approvata dalla maggioranza dei

22
2/3 dei voti espressi in Parlamento, comporterebbe la dimissione dell'intera Commissione. Questo in virtù dello
svolgimento collegiale dell'attività della Commissione. In realtà sin dalla istituzione della Comunità i casi in cui è stata
proposta la mozione di censura sono esigui (circa 7 o 8) ma i casi in cui si è addirittura pervenuti ad una votazione della
mozione sono ancora meno; questo perché nei casi in cui si è presentato un problema, una situazione di attrito tra la
Commissione ed il Parlamento, alla fine questa è stata rimossa con la contestazione del commissario contestato e quindi
con il conseguente ritiro della mozione di censura. Resta fermo comunque il riconoscimento del diritto al Parlamento
europeo di proporre ed eventualmente votare questa mozione di censura. Il Parlamento europeo svolge funzioni di
controllo anche con riferimento ad altre Istituzioni, ad esempio è previsto che il Consiglio europeo dopo ogni riunione
provveda puntualmente ad informare con una specifica relazione il Parlamento Europeo; questo nell'ottica di garantire la
massima trasparenza nell'ambito dell'attività dell'Unione. Altro importante compito del Parlamento Europeo è quello di
eleggere il Mediatore Europeo. Il Mediatore Europeo è un soggetto che viene individuato nell'ambito dei cittadini di uno
degli Stati membri in possesso delle qualifiche di indipendenza, imparzialità e di idoneità a svolgere e ricoprire
nell'ambito proprio stato membro, le più alte cariche giurisdizionali. Il compito del Mediatore Europeo, che è un po'
assimilabile al ruolo del difensore civico, è quello di sovraintendere sui casi di cattiva amministrazione; per cui qualunque
cittadino dell'Unione che dovesse ritenere di essere stato vittima di un caso di cattiva amministrazione da parte
dell'Unione (a prescindere dalla possibilità eventualmente riconosciutagli di agire direttamente nei confronti dell'Unione
per ottenere il risarcimento danni, per chiedere l'annullamento di un atto ritenuto pregiudizievole e così via) può
sottoporre una denuncia al Mediatore Europeo il quale provvederà ad istruire la pratica ed eventualmente a richiedere
informazioni all'istituzione interessata, la quale (nel rispetto del principio di leale cooperazione vigente anche nell'ambito
dell'attività Inter-istituzionale), è tenuta a fornire al Mediatore le informazioni richieste. All'esito della procedura il
mediatore cercherà di trovare una soluzione di mediazione tra l'istituzione (ritenuta colpevole del caso di cattiva
amministrazione) ed il soggetto interessato. Ove ciò non riesca effettuerà una puntuale relazione al Parlamento europeo
che potrà trarre le successive conclusioni. Nel caso in cui, ad esempio, l'autore della cattiva amministrazione dovesse
essere la Commissione, il Parlamento potrebbe a limite proporre una mozione di censura. Infine il Parlamento Europeo
può oggi impugnare, senza la necessità di dimostrare un proprio particolare interesse ad agire, uno qualsiasi degli
atti delle altre istituzioni. Questo riconoscimento è importante perché in precedenza, prima del trattato di Nizza, il
Parlamento europeo poteva impugnare gli atti delle istituzioni soltanto per tutelare una delle proprie prerogative; quindi
intanto poteva proporre l'atto di impugnazione in quanto l'atto impugnato violava una qualsiasi delle sue prerogative.
Quindi veniva annoverato nell'ambito di quelli che vengono definiti come ricorrenti semiprivilegiati (cioè soggetti ai
quali viene riconosciuta la legittimazione ad agire in giudizio in annullamento ma condizionatamente alla dimostrazione
di un proprio interesse ad agire). Con il trattato di Nizza questa limitazione è venuta meno; il Trattato di Lisbona
conferma la soluzione cui si era già pervenuti, sostanzialmente riconoscendo al Parlamento Europeo una legittimazione
generale ad impugnare atti. Non deve più provare alcun interesse ad agire può impugnare semplicemente l'atto ove
ritenuto necessario quindi rientra ora tra quelli che sono comunemente definiti ricorrenti privilegiati al pari delle altre
istituzioni quindi Consiglio, Commissione etc.

8 ottobre 2014

Ieri abbiamo parlato del Parlamento europeo organismo rappresentativo degli interessi dei popoli, organismo che riflette
l'ambizione dell UE di presentarsi con una struttura il più possibile democratica cioè una struttura in cui le decisioni sono
assunte i più possibile nel contesto di una istituzione frutto della volontà popolare e sappiamo come il ruolo del
parlamento europeo è accresciuto nel corso degli anni grazie alle successive revisioni che i trattati istitutivi hanno
conosciuto nei decenni successivi alla nascita della comunità europea.

In realtà il potere decisionale è ancora oggi saldamente in mano anche al Consiglio. Si badi che esistono due consigli
che emergono dal trattato per cui non si deve fare confusione, art 13 TFUE elenca le istituzioni dell'Unione e in tale
elenco troviamo sia il Consiglio che il Consiglio Europeo organizzazioni che presentano tratti comuni ma anche molte
differenze.

CONSIGLIO EUROPEO

Partiamo dal Consiglio Europeo, nonostante sia l'istituzione più giovane dal punto di vista del riconoscimento formale nei
trattati, si tratta del frutto della volontà degli stati di gestire le questioni più delicate dell'integrazione europea inizialmente
al di fuori del contesto istituzionale. Ad oggi il consiglio europeo non è altro che la formalizzazione di tale prassi che
emerge negli anno '60 instauratasi su volontà di alcuni paesi membri, primis Francia, sulla base dell'idea che alcune

23
questioni delicate che riguardano la vita stessa della comunità europea è bene che vengano affrontate al di fuori del
contesto istituzionale fuori dal formalismo e vincoli imposti dai trattati per le istituzioni. Quando c'era da affrontare
negoziati particolarmente delicati come quello relativo ad es. all'adesione del Regno Unito si è preferito gestire questa
difficile negoziazione nel contesto di questi vertici convocati ad hoc e composti da rappresentanti degli stati membri a
livello più alti ( capi di stati e capi di governo).Vi era già un consiglio, istituzione rappresentativa degli interessi degli stati
ma appunto in quanto istituzione era legata al trattati, alle regole formali riguardo anche ad es. l'impugnazione delle
decisioni e gli stati appunto non volevano questo, volevano un contesto più informale ecco che si è formalizzata questa
prassi nel senso che innanzitutto si è deciso che questi vertici dovessero tenersi in maniera costante (fino a poca fa 2 volte
l'anno), inoltre, la conseguenza dello svolgimento di tali riunioni informali dove venivano prese le decisioni più
importanti erano che inevitabilmente le altre istituzioni erano messe da parte, per cui si inizia a pensare che tale prassi
debba esser formalizzata nel testo dei trattati e ciò è avvenuto inizialmente con trattato di Maastricht dove per la prima
volta compare il nome stesso Consiglio Europeo, con il compito di fungere da impulso allo sviluppo dell' UE attraverso in
particolare l'adozione di un documento, le cd conclusioni, adottato appunto alla fine e in cui si indicavano degli obiettivi
da raggiungere sostanzialmente dando mandato alle istituzioni vere e proprie per cui consiglio,commissione di dare
esecuzione a tali richieste. ES: è stato nel contesto del consiglio europeo che si decise negli anni '80 di dare impulso ad un
settore del tutto nuovo come quello della cooperazione giudiziaria prima ancora che questa materia venisse formalmente
attribuita alle competenze dell'unione è stato il Consiglio Europeo a decidere che fosse arrivato il momento di spingere il
processo di integrazione europea anche in questi settori che necessitano di una maggiore collaborazione tra stati per la
creazione di quella che oggi chiamiamo spazio di libertà e giustizia. Sono decisioni di fondo, non si adottano atti
legislativi nel consiglio europeo si prendono decisioni che poi le istituzioni cercano di tradurre in atti formali sulla base
della linea tracciata dal consigli europeo. Con il trattato di Lisbona il consiglio europeo viene inserito per a prima vota
nella compagine istituzionale cioè nell'elenco di cui art 13 TUE inoltre si riscontrano delle disposizioni espressamente
dedicate all'attività di tale consiglio europeo .Oggi art 15 TUE troviamo le regole di base che riguardano le attività del
consiglio europeo con la precisazione in primis che il consiglio europeo ha lo scopo di fornire all'unione gli impulsi
necessari per il suo sviluppo e definire gli orientamenti e le priorità politiche generali. Il comma 2 dell'art 15 si di
precisare ciò che la prassi da sempre aveva confermato e cioè che il Consiglio europeo non esercita funzioni legislative
per cui non adotta provvedimenti di tipo normativo (sono parlamento e consiglio i depositari di tale funzione) a scanso di
equivoci tale art lo precisa con chiarezza.

Riguardo la composizione il paragrafo 2 dell'articolo riconosce ciò che si è sempre visto nella prassi e cioè che il
consiglio europeo è composto da capi di stato e governo dei paesi membri una riunione al vertice di capi di stato e
governo in cui si sentono liberi di decidere fuori dai formalismi tipici delle istituzioni; c'è una novità dalla quale si nota
ancora di più quella istituzionalizzazione del consiglio europeo quella per cui il consiglio europeo vede tra i suoi
componenti non soltanto i capi di stato e governo dei paesi membri ma anche un presidente più il presidente della
commissione.

Il fatto che sia presente il Presidente della Commissione sta a significare che c'è una partecipazione alle riunioni anche
della istituzioni che ha il ruolo di rappresentare gli interessi dell'unione in quanto tale quindi di inserire in un contesto
interamente intergovernativo un gergo di sovranazionalità dovuta alla presenza del presidente Commissione. Altra novità
è la formalizzazione dell'esistenza di una presidenza del consiglio europeo stesso scelto tra soggetti estranei alla politica
nazionale l'art 15 lo dice chiaramente che il Presidente non deve svolgere mandato nazionale. Quindi si tratta di un
soggetto totalmente estraneo ai governi degli stati membri che ha il compito esclusivo di presiedere il consiglio stesso per
un periodo di 2 anni e mezzo rinnovabili. Il consiglio europeo si riunisce 2 volte a semestre nonché tutte le volte in cui
uno stato ritiene necessaria una riunione per cui è divenuta una istituzione standard, da una riunione informale degli stati
che si riuniscono per qualche giorno perché magari c'era una crisi da superare o una decisione delicata da prendere oggi
Consiglio Europeo è una vera e propria istituzione.

Il presidente del Consiglio guida i lavori, determina l'ordine del giorno cerca di assicurare coesione tra i lavori insomma
guida il Consiglio europeo in modo da indirizzare le decisioni nell'interesse dell'Ue ,in più assicura la rappresentanza
esterna dell'unione per le materie relative alla politica estera e sicurezza comune.

Come ci dice il trattato il Consiglio Europeo si pronuncia per consenso salvo che nei casi in cui il trattato prevede
diversamente; la regola dunque è quella del consenso ma tale regola conosce delle eccezioni ad es. l'elezione del
presidente avviene a maggioranza qualificata cosi come a maggioranza qualificata si adotta la delibera della nomina del
presidente della commissione per cui la regola del consenso non trova applicazione in alcune ipotesi, quella più ovvia è

24
appunto nei casi in cui il consiglio delibera all'unanimità es. materia di politica estera e sicurezza comune il consiglio
europeo si pronuncia all'unanimità con la precisazione che l'astensione di un membro non comporta il venir meno della
decisione cioè non blocca l'adozione della delibera. Ci sono poi casi in cui si pronuncia a maggioranza: semplice, come
per l'adozione del regolamento; qualificata, per una serie di eventi particolarmente importanti nell'ambito istituzionale
come la nomina del proprio presidente, la scelta del presidente commissione, designazione dell'alto rappresentante (in tal
caso pero è nomina condivisa con il parlamento europeo).

Anche il TFUE ha un paio di articoli dedicati al consiglio europeo, articoli 235-236 dettano delle regole di maggior
dettaglio da cui si desumono una serie di regole come quella per cui l'astensione non comporta il blocco della delibera ove
richiesta unanimità, oppure la regola per cui nelle votazione del consiglio europeo il presidente dello stesso e il presidente
della commissione non partecipano al voto; per cui quando si tratta di prendere decisione per consenso allora questi
saranno presenti mentre se si arriva ad una votazione vera e propria allora non partecipano e questo perché gli stati
vogliano essere lasciati liberi di decidere e fare in modo che la decisione sia frutto della volontà degli stati.

Il consiglio europeo non svolge funzione legislativa ma questo non vuol dire che non adotta decisioni già la scelta del
presidente della commissione è una decisione, la nomina del proprio presidente è una decisione. Art 236 il consiglio
europeo adotta a maggioranza qualificata: una decisione che stabilisce elenco delle formazioni del consiglio (come
vedremo il consiglio si riunisce in formazioni a seconda della materia da trattare per cui avremo consiglio affari
generali,consiglio affari esteri, consiglio eco fin ecc.);
una decisione sulla presidenza delle formazioni del consiglio (la presidenza del consiglio che ha appunto durata
semestrale viene scelta sulla base di un elenco predisposto dal consiglio europeo).

Le decisioni del consiglio europeo sono sottoponibili ad un controllo giudiziario? Fino a poco fa ciò non era possibile
per cui tali decisioni non erano impugnabili dinanzi Corte di giustizia in quanto assunte al di fuori del contesto
istituzionale (fino al trattato di Lisbona il consiglio europeo non rientrava tra le istituzioni le cui delibere potessero essere
sottoposte a controllo giurisdizionale), ora non è più cosi l'art 263 TUE ricomprende anche il Consiglio europeo tra queste
istituzioni, per cui la Corte di giustizia esercita controllo di legittimità anche sugli atti del consiglio europeo ove tali atti
siano destinati a produrre effetti nei confronti dei terzi (per cui se tali atti non hanno riflesso nei confronti di terzi sono
non impugnabili, e dunque sono esclusi dal controllo gli atti esclusivamente politici come es. la delibera con cui è
designato presidente è un atto tipicamente politico, in tal caso non produce effetti giuridici nei confronti di terzi per cui
atto non impugnabile. Diverso è il caso in cui il consiglio adotta decisione su un dipendente del consiglio stesso in tal
caso quella decisione ha effetti nel confronti di tale terzo(funzionario)per cui impugnabile)

CONSIGLIO DELL'UNIONE EUROPEA (o Consiglio dei Ministri)

Moto più stabile è la posizione del Consiglio vera e propria istituzione diversa dal consiglio europeo, esiste da sempre
come istituzione, sin dal epoca della CECA le sue funzioni in sostanza non sono cambiate di molto nel corso degli anni.
L'art 16 Tue dice: il Consiglio esercita congiuntamente al Parlamento la funzione legislativi e di bilancio esercita
funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite nei trattati.
Quindi:
1) esercita funzione legislativa con il Parlamento; esistono casi sporadici in cui esercita tale funzione da solo ma la regola
generale è appunto l'esercizio condiviso della funzione legislativa

2) stesso dicasi per la procedura di bilancio anche qui c'è condivisone, entrambe le istituzioni predispongono il bilancio
ma la parola definitiva sulla sua adozione è attribuita al parlamento.

3) esercita funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite nei trattati. Ciò vuol dire
che il consiglio svolge la sua attività di esplicazione delle competenze secondo le regole previste dai trattati cioè si
preoccupa di dare un contenuto concreto alle regole generali che il trattato contiene rispetto alle politiche dell'unione
esercitando appunto le funzioni che i trattati gli attribuiscono.

Il consiglio è composto da un rappresentante di ciascuno stato membro a livello ministeriale si badi non ministro per stato
membro questa formulazione ambigua è stata voluta appositamente al fine di rispettare le diverse prassi nazionali. In
passato infatti il consiglio era composto da un ministro per stato ma ci sono stati in cui le competenze sono ripartite tra

25
livello centrale e territoriale e quindi al fine di rispettare le prassi nazionali alle riunioni non andrà un rappresentante del
governo centrale ma un rappresentante dei governi territoriali .

La presidenza del consiglio è affidata a rotazione ai vari stati per una durata di 6 mesi.

Il consiglio si riunisce in diverse formazioni come ricorderemo spetta al Consiglio europeo redigere elenco di formazioni
ma esistono come dice il trattato delle formazioni che devono essere comunque garantite: a)Consiglio affari generali, cui
è affidata la coerenza dei lavori delle varie formazioni del consiglio, quindi una specie di riunione che assume un ruolo di
coordinamento di tutte le altre. Nel consiglio affari generali si determinano le decisioni che poi vincoleranno in qualche
modo le altre formazioni del consiglio.

b)Consiglio affari esteri: scopo di elaborare azione esterna dell'UE ed ha la peculiarità di essere presieduto non dallo
stato che ha la presidenza semestrale ma dall'alto rappresentante, soggetto indipendente scelto a maggioranza qualificata
che assume anche le vesti del vice presidente della commissione europea. Tutte Le decisioni assunte in tale formazione
richiedono l'unanimità del consenso per cui ogni Stato controlla l'attività del consiglio disponendo di un potere di veto.

Le sedute del consiglio sono libere solo quando esercita funzione legislativa mentre rimangono segrete tutte le altre.

13 Ottobre 2014

Continuiamo il nostro discorso relativo al sistema istituzionale dell'Unione, e lo facciamo completando il discorso relativo
alle funzioni per il Consiglio per poi occuparci della Commissione.
Spesso si fa confusione tra Consiglio Europeo e Consiglio dell'Unione Europea. Sembrano simili anche a livello
terminologico, ma in realtà non è così.
Il Consiglio Europeo è un organo che si riunisce ogni anno, per esaminare le principali problematiche del processo di
integrazione europea. A questa riunione partecipano i capi di stato o governo degli stati membri, assieme ai ministri degli
esteri. A capo di tale consiglio vi è il presidente della Commissione europea. Il Consiglio dell'Unione europea, fa
parte del ramo "legislativo" dell'UE. E' diverso dal Consiglio europeo, che è un diverso organo dell'Unione europea, ma
non delle Comunità. Ha sede a Bruxelles. Il Consiglio esercita, congiuntamente al Parlamento Europeo, la funzione
legislativa e la funzione di bilancio; coordina le politiche economiche generali degli stati membri; definisce e implementa
la politica estera e di sicurezza comune della UE; conclude, a nome dell'Unione, accordi internazionali tra la UE e uno o
più Stati o organizzazioni internazionali; coordina le azioni degli Stati membri e adotta misure nel settore della
cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.
Volendo poi sottolineare un ulteriore differenza tra questi due organi citati e il consiglio d'Europa dobbiamo dire che
quest'ultimo non fa parte dell' Unione Europea, e pertanto non va confuso con organi di questa ultima quali il Consiglio
dell'UE o il Consiglio Europeo. Il Consiglio d'Europa un'organizzazione internazionale il cui scopo è promuovere la
democrazia, i diritti dell'uomo, l'identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa. Fu
fondato nel '49 con il Trattato di Londra e conta oggi 47 stati membri. La sede istituzionale è a Strasburgo. Lo strumento
principale d'azione consiste nel predisporre e favorire la stipulazione di accordi o convenzioni internazionali tra gli Stati
membri e, spesso, anche fra Stati terzi. Le iniziative del Consiglio d'Europa non sono vincolanti e vanno ratificate dagli
Stati membri. I principali organi del Consiglio d'Europa sono: il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, il
Segretario generale del Consiglio dell'Unione europea, l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa e il Congresso
dei poteri locali e regionali.
Queste sono differenze che sembrano banali, però in un discorso un po' più consapevole confondere le varie accezioni ha
estrema rilevanza. Così come un' altra facile confusione anche questa molto diffusa, riguarda le Presidenze dell'UE,
confondendo a volte diverse figure che hanno un ruolo completamente differente. La confusione è facile in ragione del
fatto che non esiste una presidenza dell'UE, ma vi sono presidenze singole, dei singoli organismi: Presidenze del
Consiglio Europeo, Presidenza del Consiglio e Presidenza della Commissione. Ognuno dei quali svolge un lavoro
diverso.
Completiamo il discorso relativo al Consiglio. Esso si riunisce in diverse formazioni, che riflettono l'argomento che il
Consiglio si trova ad affrontare in riferimento a quella determinata riunione. La Prassi ha voluto che, senza che ciò fosse
indicato espressamente dai trattati, che si creassero diverse formazioni. Oggi tutto ciò è codificato, e il trattato che
istituisce il Consiglio Europeo ha il compito di istituire a maggioranza qualificata le formazioni per il Consiglio.
Attualmente le formazioni del Consiglio sono quelle previste da una decisione del 2011: in base alla quale il Consiglio si
riunisce in 10 diverse formazioni.
E vedremo come queste decisioni del Consiglio abbiano oggi un riflesso anche sulla distribuzione dei portafogli
all'interno della Commissione Europea.
La formazione più importante è quella denominata “affari generali”, ed è la formazione del Consiglio che ha come
specifico compito quello di preparare le riunioni del Consiglio, quindi le riunione dei capi di stato o governo, e il luogo in
cui il Consiglio determina quali siano gli argomenti maggiormente rilevanti.
Le altre sono più intuitive dal punto di vista della loro attività, si passa dal “consiglio affari esteri”, caratterizzato dal fatto

26
che la sua vertenza è affidata all'Alto rappresentante degli affari esteri e dalla politica di sicurezza. L'alto
rappresentante è una figura ibrida, è un soggetto nominato di comune accordo dal Consiglio Europeo e dal presidente
della Commissione, che svolge da un lato le funzioni di mandatario del Consiglio e dell'altro contemporaneamente,
funzioni tipiche di un membro della Commissione.
E una figura che mette un po in discussione lo stigma della Commissione come organismo indipendente rispetto agli stati.
Perché s'inserisce nell'elaborazione della Commissione la presenza di un soggetto che non è nominato secondo la
procedura generale, ma dal Consiglio Europeo e dal presidente della Commissione. Un soggetto che risponde più agli stati
che al presidente della commissione.
Le altre formazioni del consiglio sono dedicate agli:
- Affari economici (consiglio dell'economia e della finanza);
- Affari relativi allo spazio sicurezza e giustizia (consiglio di giustizia e affari interni);
- Il consiglio che si occupa di occupazione, politica sociale, salute consumatori;
- Il consiglio mercato interno e concorrenza;
- Il consiglio trasporti e comunicazione energia;
- Agricoltura e pesca;
- Ambiente;
- Istruzione, gioventù, cultura e sport;
E importante sapere che il Consiglio è un Istituzione a formazione instabile, i membri del consiglio non sono sempre gli
stessi, stiamo parlando di un organo rappresentativo degli Stati, per cui sono loro a decidere i membri che devono farne
parte, che poi cambiano e sono sempre diversi. Sono gli Stati a decidere quale soggetto partecipa effettivamente alle
riunioni del Consiglio.
Deve trattarsi comunque di un soggetto capace di impegnare lo stato a livello ministeriale. Ciò significa che nella maggior
parte di casi a rappresentare lo stato sarà il ministro competente in quella determinata materia. Sarà un soggetto che
rappresenterà gli stati in quanto quella materia di cui si discute è di sua competenza. Tutto ciò è oggi formalizzato.
Un altro argomento delicato che impegna da decenni i negoziati tra stati è quello relativo alle maggioranze necessarie in
sede di consiglio. Ora è evidente che questo problema si pone soprattutto laddove il consiglio è depositario della funzione
legislativa. E' un argomento delicato perché si ratta di decidere su materie per i quali gli stati membri hanno deciso di
privarsi di una propria discrezionalità. E rappresentano quel momento in cui lo Stato decide come e a quali condizioni
privarsi della propria sovranità. Il Consiglio decide con varie modalità. Ci sono dei casi in cui il consiglio adotta casi
all'unanimità e questo difende la volontà degli stati membri di avere una presa diretta sull'attività del Consiglio nel senso
di chiedere qualsiasi situazione il consenso. Sono casi rari che si presentano soprattutto nelle materie poco comuni, poco
affidate a un metodo che prevede un funzionamento tale delle istituzioni da non richiedere un'unanimità di consenso da
parte degli stati. Questo avviene soprattutto nel settore della politica estera e sicurezza comune. Settore per il quale fin
dalle origini è consolidata la regola secondo cui le decisioni del consiglio si adottano quasi esclusivamente tutte
all'unanimità. Ma non è l'unico caso, quando abbiamo parlato delle competenze dell'unione si è parlato anche di una
clausola, di un meccanismo inserito da sempre nei trattati che consente all'unione di espandere le proprie competenze ed
esercitare dei poteri indispensabili per il raggiungimento dell'obiettivo previsto. Il trattato cioè prevede quello che è il fine
ultimo previsto dall'unione, ma non affida alle istituzioni dell'unione i poteri necessari per raggiungere tali fini.
In casi del genere c'è una regola dei trattati (art. 352 TFUE) che consente al consiglio, all'unanimità, di adottare le misure
necessarie per estendere le competenze dell'unione al di là di quelle espressamente previste dai trattati. Un esempio
dell'importanza che ha avuto questa clausola, detta “clausola delle competenze sussidiarie”, nello sviluppo delle comunità
europee e oggi dell'unione. Un riferimento va alle regole di base che hanno dato l'opportunità ad alcuni studenti di
partecipare a dei corsi validi per un determinato corso di laurea, in un'altra università. Stiamo parlando del programma
Erasmus, questo programma è nato da una decisione del Consiglio adottata in base alla clausola delle competenze
sussidiarie. Decisione unanime che presupponeva l'assenza per quella materia, cioè lo scambio di spogli, di poter
espressamente attribuirgli alle istituzioni dei trattati. Quindi per andare oltre questa carenza di poteri concreti, il consiglio
ha dovuto adottare un regolamento all'unanimità. Questa è stata una specie di clausola residuale che ha consentito di
prendere decisioni anche laddove i trattati non prevedevano espressamente il conferimento di poteri. In altri casi il
consiglio delibera a maggioranza semplice. Il trattato prevede vari casi di adozione di delibera a maggioranza semplice.
Il caso più comune è quello dell'adozione del regolamento del consiglio, spesso però il trattato prevede che le decisioni
siano assunte a maggioranza qualificata cioè, si è voluto dar conto del dato oggettivo per cui alcuni Stati hanno una
popolazione sul territorio e inevitabilmente una forza economica diversa rispetto agli altri e quindi è utile che il sistema
sia accettato, dal numero più alto possibile di Stati e in qualche modo rifletta l'impatto che queste decisioni hanno sulla
popolazione europea. L'idea è quella per cui se si adotta una nuova direttiva in tema di inquinamento ambientale, questa
incide su interessi, diritti, doveri di un numero maggiore di persone (essendo lo Stato in cui si adotta la direttiva, dotato di
una popolazione più numerosa), per il Consiglio il voto di questo Paese avrà più peso di un altro che è caratterizzato da
una popolazione minore, attraverso il sistema di ponderazione del voto. Il problema è capire quanto diverso sia, e quanto
il voto che ha più peso sia considerato maggiormente determinante rispetto all'altro voto. La decisione in merito ad una
fissazione di questi ruoli è stata sempre una decisione che ha portato discussioni molto accese in sede di negoziato. Tanto
è vero che si è deciso che questa ponderazione del voto debba essere in qualche modo riportata all'interno del testo
principale dei Trattati. Ovviamente stiamo parlando di decisioni che si adottano a livello più alto della gerarchia delle
fonti. Quello che si è fatto nel corso di questi decenni, è stato riassumere decisioni sulla diversa ponderazione dei voti,

27
aggiornando quest'attribuzione numerica in base alle politiche.
Attualmente è in vigore la ponderazione frutto del negoziato del trattato di Nizza. Essa prevede un sistema che attribuisce
agli stati più grandi un sistema di voti diverso rispetto agli stati più piccoli. Qual è questo meccanismo? Lo ritroviamo nel
protocollo n.36 allegato nei trattati, il sistema attualmente in vigore che prevede un numero di punti attribuiti al voto degli
stati più grandi molto diverso da quello attribuito agli stati più piccoli. Si passa dalla considerazione della Germania,
Francia e Regno Unito con una quota di 20 punti fino a scalare e arrivare al numero più piccolo. Cosa vuol dire però
ponderare? Vuol dire che il raggiungimento di un polo positivo in sede di consiglio, richiede una somma di voti superiore
a 1/3, sommando il numero dei vari Stati, si deve tener conto di una determinata soglia, che se viene superata allora la
delibera si ritiene approvata. E la ponderazione, nella determinazione di questa soglia, è fatta in modo da evitare che i
paesi grandi da soli possano sottomettere quelli piccoli, quindi creando una sorta di bilanciamento per far si che una
delibera posso essere approvata se almeno alcuni dei paesi grandi e almeno alcuni dei pesi piccoli votano a favore. La
soglia è oggi fissata a 260 voti, che esprimano almeno la maggioranza dei paesi membri. Vi è la ponderazione di una
doppia soglia, una numerazione dei paesi grandi, una numerica dei paesi piccoli, si sommano gli Stati a favore, se si
superano i 260 la delibera è approvata a condizione però che il voto sia espresso almeno dalla maggioranza dei paesi
membri.
Questo qualora la proposta normativa provenga dalla Commissione Europea che è il caso più diffuso, quasi esclusivo
oramai, quello per cui le delibere assunte dal Consiglio sono conseguenti ad una proposta normativa rappresentata dalla
Commissione Europea, ci sono proprio i casi in cui la Commissione Europea non detiene il potere d'iniziativa legislativa
o lo detiene in sede ad altri soggetti. Quando la proposta normativa presentata al Consiglio non dalla Commissione, ma da
una Stato membro, allora rimane si il numero 260 nella numerazione, ma cambia il numero dei Pesi che è almeno di 2/3.
In questo secondo caso la soglia è più alta. Questo sistema è più aggiornato rispetto a quello di ponderazione dei voti che
si applica fin dagli anni '50, dal momento in cui i trattati sono stati firmati e sono entrati in vigore nel '56, vi sono stati
aggiornamenti alle politiche, e oggi questa è la regola.
Con il trattato di Lisbona si è deciso di sostituire questo sistema della ponderazione dei voti con un sistema qualificato nel
testo dei trattati che si basa esclusivamente su due parametri: il numero dei paesi membri e quello relativo alla
popolazione degli stati membri. Si considera un criterio apparentemente più democratico, quello del calcolo della
percentuale della popolazione che indirettamente esprime positivamente su questa nuova delibera normativa, in quanto il
proprio stato ha votato a favore. Qui non si da più una valutazione a priori del peso del paese membro, con l'attribuzione
del numero si ritiene che il voto positivo debba provenire da uno degli stati membri che rappresenta almeno il 65% della
popolazione dell'unione europea. La delibera cosi è approvata. In questo modo riflette maggiormente l'impatto effettivo di
una determinata disciplina sugli abitanti dell'unione europea. Questo sistema però non è ancora in vigore, per il semplice
motivo che questa politica è stata una degli argomenti di maggior dibattito nel negoziato che l'unione europea ha dovuto
svolgere con l'Irlanda. Una delle richiese che lo stato danese ha fatto all'Unione Europea, è stata quella di sospendere
l'entrata in vigore del nuovo sistema. E così è stato.
Si è adottato una modifica al protocollo n.36, quello che contiene le misure transitorie, protocollo già collegato al trattato
di Lisbona, modificato successivamente, per cui innanzitutto le nuove disposizioni previste dal trattato di Lisbona non
entrano in vigore fino al 31 ottobre 2014. Oggi siamo ancora pienamente nel vecchio regime, di ponderazione dei voti. A
partire dal 1 novembre 2014 al 31 marzo 2017 in realtà dovrebbe scattare il nuovo meccanismo. Quindi tra pochi giorni
dovremmo avere il nuovo meccanismo di ponderazione dei voti in sede di Consiglio, con la clausola però per cui dal 1
novembre 2014 al 31 marzo 2017 quando una deliberazione deve essere approvata a maggioranza qualificata un membro
del consiglio può chiedere che la deliberazione sia adottata in base alla maggioranza qualificata sulla base del vecchio
sistema. Viene tuttavia previsto un ulteriore periodo transitorio, fino al 31 marzo 2017, durante il quale ciascuno Stato
potrà richiedere, per la singola delibera, che venga impiegato il metodo della ponderazione dei voti. È probabile che
soprattutto gli stati che credano di essere pregiudicati nel godimento dei loro interessi faranno uso di questa deroga.
Stiamo parlando di un sistema abbastanza articolato, e complicati sono i rapporti tra stati. Ogni governo alla fine rende
poco alla sua popolazione di quello che è avvenuto in sede di regolamentazione, ci sono popolazioni attente e altre meno
all'esisto dei negoziati. In Irlanda evidentemente c'è stato un interessamento particolare sul mantenimento della sovranità
nazionale, che si riflette sia nell'esclusione di determinate materie, sia dal mantenimento di un sistema che dà un po' più di
controllo al rappresentante in sede di consiglio per l'adozione di delibere. Laddove è prevista la maggioranza qualificata,
questo significa che lo stato membro che vota contro una delibera è poi tenuto comunque a rispettarla modificando il
regolamento nella maniera richiesta dalla normativa che non voleva approvare.
Es.: il caso della repubblica federale tedesca, che era totalmente contraria, per ragioni costituzionali, all'adozione di una
nuova direttiva in tema di pubblicità del tabacco. Tale nuova direttiva prevedeva un assoluto divieto di pubblicità per
qualsiasi tipo di mezzo utilizzato: stampa, radio, periodici, era completamente vietato, a prescindere dal fatto che si
trattasse di pubblicità che avesse un impatto transfrontaliero, quindi che avesse influenza anche negli altri Stati membri,
oppure un impatto meramente nazionale. Per noi questa direttiva non comportava danni, perché noi abbiamo già fin dal
'62 una legge che vieta una situazione del genere e che vale per qualsiasi forma di comunicazione.
In Germania è diverso, perché la promozione del tabacco è detenuta, garantita, tutelata da un principio costituzionale. La
Germania era contraria a un divieto assoluto ma il consiglio approvò la maggioranza qualificata di Stati a favore e adottò
comunque questa direttiva. Cosa avrebbe dovuto fare la Germania?
Modificare la propria legislazione in ragione dei cambiamenti che erano stati apportati dal Consiglio, in seguito
all'approvazione della direttiva, avrebbe dovuto dare il consenso a qualcosa che riteneva impossibile dal punto di vista

28
costituzionale. Com era giusto proseguire? Ha fatto l'unica cosa che rimaneva da fare in questa situazione, ovvero
impugnare la delibera presso la Corte di Giustizia, invocando alcuni vizi della direttiva. La corte di giustizia si è espressa
sostenendo che per le modalità di discussione della questione non vi fosse competenze del l'unione Europea ad
armonizzare la situazione, ma si era limitata alla disciplina che poteva avere un impatto sulla circolazione di beni e
servizi. Quindi senz'altro alle riviste che hanno una circolazione oltre i confini nazionali, ma se tutto ciò che rimaneva
all'interno dei confini nazionali l'unione non poteva imporre un divieto assoluto di pubblicità. Gli Stati innanzitutto non
impugnano secondo i dati delle statistiche, per una serie di motivi. Si tende sempre a pervenire in sede di consiglio
all'unanimità, ma in via di principio qualsiasi Stato può impugnare un atto.

COMMISSIONE EUROPEA

Ruolo della Commissione Europea nel contesto costituzionale dell'Unione. Anche in questo caso per le regole base del
funzionamento della Commissione, dobbiamo fare riferimento al Trattato sull'Unione Europea, quelle di maggior
dettaglio nel TFUE. Si è voluto che le regole relative alle diverse fasi del procedimento complesso della Commissione
siano tutte contenute all'interno del Trattato sull'unione Europea (che contiene le deroghe fondanti del sistema) e che
quindi è più difficile sottoporre la successiva modifica. La Commissione è l'istituzione che rappresenta l'interesse generale
e che ha il compito di promuovere questo interesse generale. La Commissione partecipa senz'altro all'elaborazione dei
dati dell'unione Europea, con diverse modalità e diverse forme, ad essa viene attribuito addirittura un potere normativo
proprio in alcuni casi molto limitati a seguito dello svolgimento delle politiche dell'unione Europea. Cioè quelle materie
che i Trattati affidano all'unione in maniera totalizzante. Inoltre essa svolge anche un ruolo di promozione dello sviluppo
dell'integrazione.
La Commissione è tenuta in un motore d'integrazione europea proprio per il fatto che si vede attribuito un sostanziale
monopolio dell'iniziativa dimostrativa. Abbiamo visto come questo monopolio possa essere eroso dalla partecipazione di
altri. Ma nella maggior parte dei casi è la Commissione che decide se e quando un'iniziativa legislativa deve essere
approvata. Ed è caratteristico del sistema dell'unione che questo potere non venga attribuito all'organismo rappresentativo
dei popoli Europei, perché questo crea una serie di critiche.
La Commissione poi svolge un altro ruolo molto importante e cioè quello di controllo sul rispetto dei trattati
(guardiana dei trattati). Caratteristica molto originale, quella di affidare ad un organo slegato dagli stati un ruolo di
controllo e vigilanza sul concordamento degli stati e sul rispetto degli obblighi. Questo compito di vigilanza si traduce in
una serie di procedure che hanno diverse modalità di svolgimento a seconda della materia coinvolta. Questo potere di
controllo (106 TFUE) può tradursi anche in produzione di atti normativi.
Il compito di eleggere i membri della commissione viene dato anche agli Stati dal trattato, pur agendo i maniera
indipendente dagli Stati. Fondamentale il controllo, nel caso della commissione si esercita attraverso una procedura di
nomina particolarmente complicata.
Il sistema della commissione prevede dei passi successivi: l'indicazione del presidente della commissione. Sin dall'inizio
si è cercato di far si che il numero di membri fosse quanto meno equivalente a quello dei Paesi dell'unione. Quando i
paesi erano pochi, i più grandi potevano indicare due membri, quando poi il numero dei paesi è aumentato si è propose
per un solo membro a Paese. Ognuno scelto dai singoli paesi. La disciplina attuale, dopo il Trattato di Lisbona, appare più
semplice e lineare. Infatti essa opera in proposito una netta differenziazione; da un lato, i poteri delegati dal legislatore
alla Commissione per adottare atti non legislativi di portata generale, conferendo al Consiglio e al Parlamento il
controllo sull'esercizio delle competenze attribuite avvalendosi del diritto di revoca o del diritto di obiezione; dall'altro le
competenze attribuite alla Commissione per adottare gli atti necessari per assicurare l'esecuzione uniforme degli atti
normativi, i quali devono in tal caso conferire alla Commissione le competenze di esecuzione. La competenza di
esecuzione risulta dunque condivisa tra Stati membri e Commissione, in quanto ai primi spetta la competenza ad adottare
tutte le misure di diritto interno necessarie per l'attuazione di tali atti, alla seconda vengono conferite competenze di
esecuzione allorché siano necessarie condizioni uniformi per la loro applicazione. Viene mantenuta la struttura dei
Comitati (composti da rappresentanti degli Stati membri e presieduti dalla Commissione), riorganizzati e razionalizzati
per affinità, i cui lavori sono periodicamente comunicati al Parlamento e al Consiglio e devono essere accessibili al
pubblico: ad essi viene affidato appunto il controllo degli Stati membri per l'adozione degli atti di esecuzione da parte
della Commissione. Sono inoltre previste solo due procedure: quella consultiva, diviene la regola generale, la
Commissione cioè decide le misure da adottare tenendo nella massima considerazione il parere formulato dal comitato; la
procedura d'esame, invece, si deve applicare solo all'adozione di misure di portata generale al fine di attuare gli atti di
base e a misure con un impatto potenziale considerevole riguardanti la politica agricola comune, l'ambiente, la sicurezza
delle persone, la protezione della salute, la politica commerciale comune. Essa prevede un controllo da parte degli Stati
membri tale da impedire l'adozione di misure non conformi al parere del comitato. Questi formula il proprio parere a
maggioranza qualificata.
Se il progetto di misure è conforme al parere, o non viene formulato il parere, la Commissione adotta le misure in
questione; se invece non sono conformi al parere del comitato non può adottarle. Parlamento e Consiglio sono,
tempestivamente e regolarmente, informati dei lavori dei comitati e dispongono di un diritto di controllo che gli permette
di indicare alla Commissione che un progetto di atto esecutivo eccede le competenze di esecuzione previste nell'atto base.
In questo caso la Commissione riesamina il progetto e comunica a Parlamento e Consiglio come intende procedere. È,

29
inoltre, previsto l'accesso del pubblico alle informazioni sui lavori dei comitati.
Alla Commissione spetta la gestione amministrativa dei programmi e strumenti finanziari europei e degli
stanziamenti destinati agli interventi pubblici dell'Unione.
In secondo luogo, la Commissione può promuovere la procedura per infrazione, per ogni violazione degli obblighi dei
Trattati, davanti alla Corte di giustizia, di propria iniziativa o su richiesta di un altro Stato membro, solo dopo
l'espletamento di una procedura pre-contenziosa che prevede l'emissione di un parere motivato al riguardo, dopo aver
posto lo Stato in condizioni di presentare le proprie osservazioni. Una deroga a tale procedura è prevista quando uno Stato
non si conformi alla decisione della Commissione che constati l'incompatibilità di un aiuto di Stato: in questo caso, la
Commissione può adire direttamente la Corte di giustizia. Stessa cosa quando si ritenga che uno Stato faccia abuso delle
clausole di salvaguardia. Nei confronti delle altre istituzioni, la Commissione può richiamarle al rispetto dei Trattati sia
azionando il ricorso in annullamento di atti dell'Unione o il ricorso in carenza, sia utilizzando la competenza consultiva
della Corte in materia di conclusione di accordi internazionali. Nell'ambito della politica della concorrenza, la
Commissione ha il potere di emanare sanzioni pecuniarie nei confronti delle imprese o dei privati che abbiano violato
gli obblighi imposti dalle norme dell'Unione. Gli atti della Commissione in tal senso costituiscono titolo esecutivo e
possono dar luogo a esecuzione forzata. Le decisioni della Corte possono essere impugnate davanti alla Corte di giustizia.
Relativamente alle relazioni internazionali, il Trattato di Lisbona affida alla Commissione la rappresentanza esterna
dell'Unione. Essa inoltre negozia gli accordi tra Unione e Stati terzi o organizzazioni internazionali.

14 ottobre 2014

La Commissione Europea, che maggiormente rappresenta la vocazione sovranazionale dell'Unione Europea, è


un'istituzione che fin dall'origine è stata chiamata a perseguire gli interessi dell'unione in quanto tale, come distinti dagli
interessi degli Stati, per cui la Commissione è l'organismo che garantisce che l'unione svolga le sue funzioni e persegua i
suoi obiettivi in maniera del tutto indipendente rispetto alla volontà comune degli Stati (nei limiti delle proprie
prerogative). Questa vocazione sovranazionale della commissione deve fare i conti con la volontà degli Stati che tentano
di arginare il più possibile questo genere di sovranazionalità, il ché si traduce in una procedura di nomina dei membri
della commissione particolarmente articolata che vede come protagonisti , ancora oggi, gli Stati. La nomina dei
commissari avveniva originariamente su comune accordo degli Stati Membri, il ché poteva essere considerato un
paradosso in quanto è sancito che i Commissari esercitino la loro attività in maniera del tutto indipendente rispetto agli
Stati, che siano tenuti a non svolgere attività ulteriori rispetto a quella di membro della commissione, che siano chiamati a
rendere conto dinnanzi al Parlamento Europeo, tramite la mozione di censura, del corretto svolgimento delle loro funzioni
nell'interesse generale dell'unione; ciò non esclude che gli Stati Membri abbiamo sempre rivestito un ruolo determinante
nella scelta dei commissari. Però, se inizialmente era una prerogativa riservata a loro, progressivamente questo
meccanismo di nomina si è evoluto, per essere maggiormente conforme alla natura stessa della Commissione quale
organismo rappresentativo degli interessi generali dell'Unione, coinvolgendo il Parlamento Europeo nel procedimento di
nomina. Ci sono state varie fari di questo coinvolgimento: si parte dal Trattato di Maastricht, poi con il Trattato di
Amsterdam si crea una sorta di doppia legittimazione della commissione con un voto finale attribuito al Parlamento
Europeo sui commissari prescelti dai governi, fino a raggiungere l'attuale sistema inaugurato con il Trattato di Nizza e
perfezionato con il Trattato di Lisbona che vede una procedura a stadi successivi che parte con: la scelta da parte del
Consiglio Europeo del Presidente della Commissione (del candidato presidente della commissione). Il Consiglio
Europeo opera questa scelta a maggioranza qualificata (dato interessante in quanto non è richiesto che tutti gli Stati siano
d'accordo nella scelta del candidato). Inoltre, la novità inserita in questa procedura dal Trattato di Lisbona ex art 17 par. 7
per cui questa scelta viene effettuata tenuto conto delle elezioni del Parlamento Europeo, per cui si crea un meccanismo di
collegamento diretto tra i risultati delle elezioni europee e la scelta del candidato presidente, il ché significa che la scelta
dei commissari avviene dopo le elezioni (svoltesi in primavera ed in queste settimane ci troviamo nel pieno dello
svolgimento della procedura di nomina della commissione). Il Trattato di Lisbona ha tentato di inserire un elemento di
collegamento diretto tra i risultati delle elezioni politiche e la scelta del presidente della commissione attraverso questa
formula un po' ambigua “tener conto dei risultati delle elezione” che ha fatto molto discutere e che ha determinato,
durante il primo utilizzo di questa nuova procedura, l'indicazione della persona di Jean-Claude Juncker appartenente al
Partito Popolare Europeo che ha avuto il maggior numero di seggi al Parlamento Europeo. La scelta è ricaduta su una
persona riferibile, dal punto di vista dell'appartenenza politica, al partito che ha avuto al Parlamento Europeo maggior
numero di voti, quindi di seggi. In realtà il sistema è monco perché questo collegamento che inserisce un elemento di
politicizzazione nella scelta del presidente della commissione si ferma lì, perché il collegamento con i risultati delle
elezioni europee vale secondo il trattato per la scelta del solo presidente della commissione, scelta che comunque deve
essere sottoposta anche al voto del Parlamento Europeo a cui appartiene formalmente la nomina del presidente, quindi:
l'indicazione della persona è fatta dal Consiglio Europeo a maggioranza qualificata tenuto conto dei risultato delle

30
elezioni europee mentre la nomina vera è propria del Presidente della Commissione è un atto del Parlamento Europeo,
una conferma in sede parlamentare di una scelta da parte dei Governi che comunque ha già tenuto conto dei risultati delle
elezioni europee quindi anche della composizione del parlamento per cui se la scelta è effettuata in maniera
corrispondente a quanto sancito nel Trattato il passaggio successivo dovrebbe essere più semplice. Il Trattato prevede
anche l'ipotesi in cui il Parlamento Europeo non sia d'accordo con questa indicazione, se il Parlamento Europeo non
elegge a maggioranza assoluta il presidente come suggerito dal Consiglio Europeo è necessario proporre un nuovo
candidato, quindi il Parlamento non potendo scegliere la persona, essendo effettuata da Consiglio, ha comunque un potere
di veto (può respingere la proposta del Consiglio) -ciò che è avvenuto nella prassi è che la scelta stessa sia preceduta da
una consultazione informale con le principali formazioni politiche del Parlamento Europeo, il ché tende ad evitare la
“sorpresa” della bocciatura del candidato-.
La seconda fase è la scelta degli altri commissari. Nonostante il Trattato di Lisbona volesse modificare la composizione
della Commissione abbandonando il criterio “uno Stato-un Commissario”, abbandonando la logica della appartenenza
formale di ogni singolo commissario ad uno Stato, logica in contraddizione con l'idea stessa della Commissione come
organismo indipendente rispetto agli stati, quindi il Trattato di Lisbona (per cui gli Stati stessi) ha voluto abbandonare
inizialmente questa logica di composizione della Commissione per passare ad un nuovo sistema che vede il numero dei
commissari ridotto ai 2/3 degli Stati con la conseguente applicazione di un sistema di rotazione che fa in modo tale da
permettere a tutti gli Stati di avere un commissario da indicare. Questo sistema però nonostante fosse previsto entrasse in
vigore con l'odierna nuova nomina della commissione è sospeso dalla volontà del consiglio di venire in contro,
nuovamente, alle richieste dell'Irlanda. L'Irlanda ha fatto alcune richieste come condizione per lo svolgimento di un
secondo referendum sul Trattato di Lisbona, dopo l'esito negativo del primo, tra le quali vi è l'abbandono del nuovo
sistema di composizione della Commissione, con il mantenimento della regole: uno Stato-un commissario. Quindi il
Consiglio Europeo ha modificato la composizione della Commissione come prevista dal Trattato di Lisbona per tornare al
sistema precedente, di fatto il nuovo sistema non è mai stato applicato. Oggi, nella fase della scelta dei nuovi commissari,
si è ancora sulla base del criterio della formazione della commissione legata al numero degli Stati (28 Stati, 28
Commissari).
La fase della scelta dei candidati Commissari, questa è effettuata -sancisce il Trattato- dal Consiglio d'accordo con il
Presiedente eletto, le personalità prescelte sono selezionate in base alle proposte presentate dagli Stati Membri; l'unica
novità rispetto al sistema storicamente applicato è quella per cui l'atto che contiene l elenco dei candidati è imputato al
Consiglio e non ai governi degli Stati Membri quindi è un atto comunitario vero e proprio ma la sostanza non cambia
trattandosi infatti di un elenco che corrisponde al numero degli Stati inevitabilmente ogni Stato indica un candidato
commissario, a questo proposito il Trattato non prevede che vi sia un collegamento con il risultato delle elezioni politiche
ciò condizione quel sistema di collegamento diretto sopra citato tra le maggioranze in parlamento e l'orientamento politico
della commissione, nel sistema comunitario non c'è ancora (forse non ci sarà mai) una connessione tra le maggioranze
politiche ed il “governo dell'unione” cioè la composizione della Commissione. Questo collegamento c'è, perché il trattato
l'ha introdotto, solo per la nomina del Presidente ma tutti gli altri membri della commissione sono scelti dagli Stati in
accordo con il Presidente eletto. “In accordo col Presidente eletto” può voler dire anche che il Presidente eletto cerca di
svolgere un ruolo più attivo in questa fase tentando di orientare la scelta degli Stati, nella realtà ciò che sta avvenendo è
che ogni Stato sceglie una persona e il Presidente non dibatte quanto indicato dagli Stati.
La lista è adottata dal Consiglio e sottoposta poi ad una fase non espressamente prevista dai Trattati ma disciplinata da
regolamento interno del Parlamento. Fase in cui i singoli commissari designati dagli Stati membri con l'accordo del
Presidente della Commissione si presentano dinnanzi alle Commissioni Parlamentari competenti per la materia
potenzialmente attribuita ad singoli commissari. Quindi questa lista presentata dal Consiglio prevede l'attribuzione ai
singoli Commissari di un portafoglio (una serie di competenze). La lista di cui si discute in queste settimane comporta
delle novità rispetto alle esperienze precedenti:
- nuova composizione della Commissione così come proposta dal Presidente e dal Consiglio prevede un primo Vice
Presidente (designato nella persona del Commissario Olandese) che svolge le funzioni di coordinamento al di sotto del
Presidente e dell'attività dei vari Commissari, ha nel suo portafoglio una serie di competenze che vanno da una migliore
regolamentazione (tentativo di disciplinare meglio l'intervento normativo dell'unione) al rispetto dei diritti fondamentali.
- oltre al primo Vice Presidente la formazione della commissione prevede altri 7 compreso anche il Rappresentante della
politica estera a cui sono attribuiti una serie di portafogli con un nuovo sistema di collegialità il quale prevede che
determinate materie più importanti nell'agenda di questa nuova Commissione siano affidate a gruppi di Commissari.
La commissione ha voluto individuare dei settori di priorità nella sua attività futura, affidando queste priorità ad un
gruppo di Commissari, guidati, ognuno, da un Vice Presidente. Tra queste priorità vi sono gli affari finanziari, gli affari
economici, il funzionamento del mercato interno a tutela delle piccole e medie imprese, la forte tutela dei consumatori, la

31
politica della migrazione ecc . Per cui si è tentato di dare un Agenda alla nuova Commissione scegliendo obiettivi
prioritari da perseguire nel corso del mandato della Commissione (mandato di 5 anni, come di 5 anni è il mandato del
Parlamento Europeo).
La lista presentata da Juncker sta incontrando delle difficoltà nelle audizioni che si svolgono dinnanzi al Parlamento
Europeo, alle Commissioni Parlamentari, in quanto questo vaglia in maniera molto attenta le competenze dei candidati
commissari ed è accaduto già tempo addietro che alcuni dei nomi proposti dagli Stati Membri siamo stati bocciati dalla
Commissione Parlamentare. Il Trattato non prevede questa fase, prevede invece un voto finale del Parlamento Europeo
sull'intera commissione, ma non una pronuncia sui singoli commissari con l'effetto addirittura della bocciatura, potere che
il Parlamento si è auto attribuito e che in qualche modo è logicamente collegato con il voto finale, evitando quindi che la
bocciatura in sede di voto finale di un solo Commissario comprometta l'elezione di tutta la commissione. Anni fa il
Commissario presentato dall'Italia questo fu il primo precedente, per le politiche relative ai diritti fondamentali ed alla
tutela delle minoranze fu bocciato (Rocco Buttiglione) in ragione di idee non particolarmente progressiste in tema di
diritti civili, la conseguenza fu che l'Italia cambiò Commissario non essendo obbligata a farlo ma col rischio di produrre la
bocciatura dell'intera commissione in sede di voto finale. Quindi il ritiro del commissario bocciato in questa sede è di
interesse precipuo della Commissione e del suo Presidente che rischia di non essere poi approvato al Parlamento Europeo
(Buttiglione fu ritirato subito con la conseguente designazione di un altro commissario nella persona di Frattini). La
vicenda fece scalpore in quanto ciò non era mai accaduto perché la designazione che era sempre stata riferita alla volontà
degli Stati abbia dovuto confrontarsi con un controllo democratico, ricordando che la formazione delle Commissioni
Parlamentare è costituita temendo presente quella dell'assemblea Parlamentare.
La Commissione designata da Juncker incontra delle difficoltà
Con riferimento al candidato Commissario proposto dall'Ungheria, - in Ungheria vige una formazione politica che ha
compiuto una serie di atti i quali sono stati ritenuti poco vicini dall'idea di Europa come culla dei diritti fondamentali
alcuni dei quali sono stati sottoposti al vaglio della Corte di Giustizia, tra cui la decisione del Governo Ungherese di
pensionare i maniera brutale tutti i magistrati che avevano superato i 65 anni di età, sulla base dell'idea per cui quella
fascia di età era legata ad un vecchio regime per cui necessitavano di un ricambio con persone più fedeli al nuovo
governo. La commissione aprì il procedimento di infrazione contro l'Ungheria per violazione della direttiva comunitaria
78/2000 che vieta le discriminazioni sulla base di vari parametri tra cui l'età nello svolgimento del rapporto di lavoro ed
anche nella sua conduzione. La Corte di Giustizia confermò quanto asserito dalla commissione, sostenendo che quella
legge era assunta in violazione del diritto comunitario in quanto contraria al divieto di discriminazioni in base all'età.
Altri problemi recenti in Ungheria sono legati alla tutela della libertà di informazione in base all'adozione di una serie di
leggi che hanno limitato il diritto alla libertà di espressione tra cui la nomina di un autorità che si occupa della vigilanza
sul comportamento dei media strettamente legata alla compagine governativa, poi una serie di misure che vietavano ai
siti internet di stabilirsi in Ungheria se non sulla base di una serie di condizioni imposte dalla legge, tutto ciò è stato
ritenuto non confacente con gli standard attuali della tutela della libertà di informazione. - l'Ungheria nomina come Vice
Presidente uno degli ex ministri del governo, a questo Commissario viene designato il portafoglio di commissario per
l'educazione la cultura e la cittadinanza, il Parlamento ha reagito negativamente bocciando la sua candidatura ma ha
suggerito al Governo Ungherese ed al Presidente di nominare un altro portafoglio che non sia troppo legato ai settori più
critici che hanno visto nello lo Stato Ungherese una serie di controlli e procedure.
Peggiore è il caso della commissaria Slovena alla quale venne affidato il portafoglio di Vice Presidente della
Commissione competente per l'energia, i resoconti delle audizioni parlamentari dimostrano la totale incompetenza sul
settore di cui avrebbe dovuto occuparsi. Era incapace di rispondere alle domande da ciò la sua bocciatura, la Slovenia
sta cercando un altro candidato.
Problemi anche per il candidato Inglese a cui è stato affidato il portafoglio degli affari finanziari, considerata la
vicinanza stretta di questa persona con gli interessi delle banche Inglesi (gli inglesi si tengono da una serie di vincoli e di
obblighi di comportamento che invece accomunano 18 paesi membri dell'unione Europea partecipanti all'Euro-zona). Al
candidato Inglese infatti è stato affidato un portafoglio competente proprio per quel settore.
La candidata Italiana: c'è stata una certa insistenza da parte dell'Italia nel voler indicarle in portafoglio di Alto
Rappresentante per la politica estera e di sicurezza, ma come l'esperienza della precedente rappresentate non ha lasciato
un incidenza particolare nella gestione di crisi internazionali soprattutto per il fatto che i trattati non prevedano un
attribuzione di competenze all'unione nella gestione della politica estera, questo infatti è un settore che gli stati vogliono
governare in maniera più diretta. Però vi è stata un a forte insistenza per questa nomina, vi sono state anche delle
resistenza ma alla fine ciò è avvenuto, con la conseguenza che l'Italia ha un Commissario Vice Presidente della
Commissione che si occupa di relazioni esterne per cui è sia mandatario del consiglio per gli affari esteri sia Vice
Presidente della Commissione designato in modo diverso rispetto a tutti gli altri.

32
La designazione è fatta dal Consiglio Europeo su approvazione del parlamento, segue una procedura diversa da quella
sopracitata che anticipa la nomina degli altri commissari anche se il voto finale che avverrà tra qualche settimana
coinvolgerà anche il Commissario Italiano in quanto Vice Presidente della Commissione.
Il Voto finale è affiato al Parlamento, l'approvazione finale del Parlamento è seguita come ultimo atto dalla nomina del
Consiglio Europeo a maggioranza qualificata. Ci sono ancora due passaggi da svolgere: il voto di approvazione finale del
Parlamento Europeo sull'intera Commissione e la nomina ufficiale della Commissione da parte del Consiglio Europeo a
maggioranza qualificata, quest'ultimo passaggio è totalmente scontato, la fase delicata è quella che si sta vivendo in
questo momento, cioè del vaglio dei singoli Commissari da parte del Parlamento Europeo in merito alle loro competenza
nell'esercizio delle funzioni che sono chiamati a svolgere.

Il legame tra Commissione e Parlamento Europeo non si limita a questa fase iniziale di nomina perché il collegamento
successivo è garantito dalla possibilità offerta al Parlamento Europeo fin dai primi trattati istitutivi di adottare una
mozione di sfiducia nei confronti della Commissione.
La mozione di sfiducia nei confronti della Commissione è disciplinata all'art. 234 TFUE che non è una novità, bensì
cerca di replicare (pur nelle diverse modalità con cui questo avviene nel contesto Europeo) il rapporto di fiducia esistente
tra Parlamenti Nazionali e Governativi. La mozione di sfiducia se approvata dal Parlamento Europeo a maggioranza dei
2/3 dei voti espressi, per cui con una maggioranza particolarmente gravosa, comporta le dimissioni in blocco dell'intera
Commissione, cioè il Parlamento Europeo ha sempre potuto votare esclusivamente sulla Commissione e non sui singoli
Commissari, con la conseguenza che comportamenti non propriamente ortodossi imputati ad un singolo Commissario
avrebbero potuto essere oggetto di intervento del Parlamento Europeo solo a condizione di coinvolgere l'intero collegio e
quindi questo è il motivo per cui la mozione di sfiducia non è mai stata approvata. (Vi è stato un solo caso della
Commissione guidata da un Lussemburghese, che fu costretta alle dimissioni per evitare l'adozione di una mozione di
sfiducia per la quale era sicuro che il Parlamento avrebbe trovato le maggioranze necessarie, la Commissione ha preferito
dimettersi a poca distanza temporale dalla riunione del Parlamento Europeo durante la quale sicuramente sarebbe stata
presentata e votata una mozione di sfiducia con esito positivo. In quel caso era accaduto che un paio di Commissari
fossero accusati di frodi (Es. una dei commissari fu accusata di aver assunto il proprio dentista)).
E' stato attribuito, sin dal Trattato di Nizza al Presidente della Commissione il potere di chiedere le dimissioni del
singolo Commissario, per cui si è cercato di ovviare alla impossibilità di adottare la mozione di sfiducia nei confronti di
un singolo Commissario affidando al Presidente della Commissione il sopra citato potere, previsto nel trattato che un
membro del Consiglio rassegni le dimissioni su richiesta del Presidente.

Competenze della Commissione:


La Commissione ha il compito di fungere da motore per l'integrazione, ciò si traduce in concreto nell'affidamento alla
stessa del potere di iniziativa legislativa. In realtà i Trattati che oggi codificano questa formale attribuzione di iniziativa
legislativa prevedono una serie di eccezioni a questa regola le quali non sono però particolarmente significative in quanto
si riferiscono ad alcuni settori particolari ad esempio il potere affidato alla BCE di proporre nuovi atti nei settori di sua
competenza, il potere affidato alla Corte di Giustizia di proporre il testo del proprio regolamento di procedura, il potere
affidato agli Stati Membri di presentare proposte normative nel settore della cooperazione giudiziaria; ma al di fuori di
questi rari casi la regola generale, che ha sempre caratterizzato la procedura legislativa dell'Unione Europea, è quella
dell'affidamento alla Commissione Europea del potere di iniziativa legislativa. I Trattati prevedono però, che questo
potere di iniziativa possa essere sollecitato sia dal Consiglio che dal Parlamento Europeo.
L'art 241 attribuisce al Consiglio, deliberando a maggioranza semplice, la facoltà di chiedere alla Commissione di
procedere a tutti gli studi che ritiene appropriati e sottoporre le proposte del caso. Il potere di sollecitazione non vincola la
Commissione se non quello di comunicare eventuali comunicazioni riguardanti le motivazioni del suo rifiuto. Anche il
Paramento Europeo ha questo potere ex art 225 TFUE, affida al Parlamento, che delibera a maggioranza dei membri che
lo compongono, quindi una maggioranza significativa, il potere di chiedere alla Commissione di presentare adeguate
proposte sulle questioni per le quali reputa necessaria l'elaborazione di un atto dell'Unione ai fini dell'attuazione nei
Trattati, quindi il Parlamento può adottare una risoluzione nella quale richiede alla Commissione di presentare una
proposta normativa, se la Commissione non presenta la proposta essa ne comunica le motivazioni al Parlamento Europeo.
Nella prassi non ci sono mezzi con i quali il Parlamento può dibattere alla risposta negativa della Commissione, non
avendo mai reagito, ad oggi, ad una risposta negativa da parte della commissione se non attraverso la reiterazione della
richiesta, il ché vuole significare che il Parlamento stesso non intenda ricorrere a mezzi di tutela giurisdizionale
impugnando la risposte della Commissione. Poco giustificabile escludere il Parlamento alla luce del principio
democratico. I tentativi del Parlamento Europeo di essere associato alla fase di preparazione degli atti normativi sono stati

33
sempre respinti nei negoziati di revisione dei Trattati.
Per cui la fase di iniziativa legislativa è riservata alla Commissione che la svolge in maniera trasparente, la presentazione
vera e propria di una proposta direttiva è preceduta da una serie di documenti, consultazioni che portano la Commissione
ad avere il quadro completo delle necessità di disciplina di un a nuova materia, da qualche decennio è invasa la prassi
della pubblicazione dei documenti di lavoro: LIBRI BIANCHI, con cui la Commissione presenta pubblicamente la
propria volontà di adottare una nuova disciplina di un a determinata materia o di modificare la disciplina previgente,
sottoponendo la sua volontà ad un ampia consultazione della parti interessate che si svolge per iscritto e poi un'altra a
Bruxelles dove i rappresentanti coinvolti di riuniscono. Fasi che non vincolano la Commissione nella redazione della
proposta però la condizionano affinché l'accoglienza della nuova disciplina sia condivisa. La Commissione negozia il
testo della proposta con gli Stati attraverso consultazioni che si svolgono in sede di consiglio COREPER che è il comitato
dei rappresentanti permanenti in cui gli Stati sono rappresentati che gestiscono queste fasi delicate di negoziazione.
Commissione ha anche dei poteri nella fase di gestione delle politiche tipicamente di esecuzione. I poteri di
esecuzione sono affidati alla Commissione dal Consiglio e dal Parlamento e si svolgono con una serie di procedure
particolarmente complesse chiamate procedure dei Comitati che prevedono un coinvolgimento nella formazione di
questi comitati di rappresentanti degli Stati membri quindi le fasi esecutive, l'attuazione delle normative dell'Unione, è
compito che la Commissione svolge di comune accordo con gli Stati Membri attraverso la disciplina dei Comitati,
codificata in una serie di regolamenti che attribuiscono ai Comitati determinati compiti e ne prevedono anche il
funzionamento.

15 ottobre 2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA

Ha svolto da sempre un ruolo determinante nel cammino dell'integrazione attraverso il diritto e lo ha fatto approfittando
delle competenze attribuitele dai trattati ma soprattutto interpretandole ed esercitandole in modo da svolgere il ruolo di
motore dell'integrazione attraverso una serie di pronunce tutt'altro che scontate e che oggi fanno parte del bagaglio più
importante nel sistema dei rapporti tra diritto interno e diritto dell'unione. Per fare degli esempi, basta pensare al principio
del efficacia diretta delle norme dei trattati, al principio di supremazia del diritto del unione su quello interno, al principio
della responsabilità patrimoniale dello stato membro in caso di violazione del diritto. Ecco sono tutti principi che noi oggi
diamo per acquisiti e che si applicano quotidianamente nelle aule di giustizia, ma che non sono compresi nei trattati, non
c'è scritto da nessuna parte ad es. che il diritto europeo prevale su quello interno, e quando questo tentativo di inserimento
è stato fatto, con la costituzione europea (trattato mai entrato in vigore), gli stati subito dopo hanno provveduto ad
escludere tale inserimento nel trattato di Lisbona, quindi non c'è alcuna indicazione formale di tale principio ma ciò
nonostante è dato acquisito nel patrimonio giuridico di tutti i paesi membri che il principio della prevalenza è principio
indiscutibile. Si tratta di un principio che porta addirittura il giudice nazionale a disapplicare la legge del proprio
parlamento ogni qualvolta essa non sia conforme ad una norma comunitaria provvista di efficacia diretta. Ripeto
formalmente tale principio non esiste, gli stati membri non hanno mai voluto inserirlo nei trattati, è stata la corte di
giustizia a ricavarlo dai principi generali dei trattati. La corte è giunta persino a sostenere che qualora uno stato membro
svolgendo attività di qualunque tipo (legislativa, esecutiva,giudiziaria) non compatibile con l'ordinamento europeo
cagioni danno ai privati, tale stato è tenuto al risarcimento dei danni. Si tratta di un principio del tutto rivoluzionario
soprattutto in un ordinamento come il nostro che non consce la responsabilità del legislatore per danni provocati ai privati
nell'esercizio di attività legislativa. Se il legislatore adotta una legge incostituzionale ad esempio questo non è di per se
motivo per cui il privato possa fare causa allo Stato. Tale principio è acquisito nell'ordinamento europeo per cui se il
legislatore nazionale adotta una legge incompatibile con il diritto dell'unione non solo tale legge va disapplicata ma
addirittura lo stato membro sarà tenuto a risarcire il danno al privato eventualmente danneggiato. Esempio pensiamo ad
una legge adottata dal parlamento che prevede una disciplina relativa alla protezione ambientale meno severa rispetto a
quella imposta dalla normativa comunitaria, l'applicazione di tale lex nazionale provocherà sicuramente dei danni ai
soggetti che invece dovevano essere tutelatili secondo quanto previsto a livello comunitario, per tanto tali soggetti non
solo potranno chiedere la disapplicazione della norma nazionale facendo si che non produca effetti, ma anche il
risarcimento del danno subito. Anche tale principio non risulta formalmente scritto nei trattati, è di elaborazione
giurisprudenziale elaborato dalla corte appunto interpretando nella maniera più evolutiva possibile una disposizione del
trattato ovvero quella che chiede agli stati di essere il più collaborativi possibile con l'unione nonché di garantire tutela
effettiva ai diritti riconosciuti dal diritto europeo. In pratica combinando insieme questi 2 principi generali, quello di leale
collaborazione e quello della tutela efficace dei diritti riconosciuti dall'UE, la corte ha ricavato questa nuova forma di

34
tutela che porta addirittura lo stato membro a rispondere patrimonialmente dei danni provocati in caso di violazione del
diritto dell'unione. Facciamo un esempio rifacendosi ad un caso che fece molto clamore, si trattava della mancata
attuazione di una direttiva che prevedeva a favore dei medici specializzandi una relativa somma di denaro (a titolo di
borsa di studio) per il periodo di specializzazione. il nostro ordinamento ha ignorato tale direttiva per ben 10 anni e
dunque nel frattempo le scuole di specializzazione continuavano a reclutare specializzanti che appunto svolgevano il
proprio lavoro gratis. come si comprende la mancata attuazione di quella direttiva ha creato un danno agli specializzandi
non remunerati. Lo stato condannato ha dovuto risarcire il danno provocato riconoscendo in sostanza a tali soggetti una
somma equivalente a quella della borsa di studio retroattivamente per ben 10 anni (cifra elevatissima).

Si badi che di base imputazione è sempre in capo allo Stato anche se chi commette materialmente la violazione è altro
soggetto, ne risponde comunque lo stato, l'azione si svolge sempre nei confronti dello stato e sarà poi questi a rivalersi su
chi ha materialmente commesso la violazione (Ente territoriale, amministrazione, legislatore e quant'altro), per cui se la
violazione è ad esempio imputabile ad un ente regionale la causa si svolge comunque nei confronti dello Stato che è
l'unico soggetto imputabile e sarà poi lo Stato a rivalersi sulla Regione. Come vi ho detto prima questo principio non è
codificato nei trattati ma è stato elaborato dalla giurisprudenza già negli anni '90 nel caso di una vicenda molto
importante, caso Francovich(caso italiano), veniva invocato in giudizio una direttiva il cui termine di recepimento era
ornai scaduto e che imponeva agli Stati di creare a tutela dei lavoratori un fondo di garanzia che intervenisse ogni
qualvolta il datore di lavoro rimanga insolvente per cui non paghi le ultime mensilità. Per parecchio tempo lo stato
italiano ha ignorato tale direttiva, nel frattempo il giudice italiano investito della controversia si rivolse alla corte di
giustizia e chiese: 1) innanzitutto se la direttiva potesse essere invocata direttamente in giudizio (la risposata fu negativa
non era dotata di efficacia diretta poiché prevedeva la creazione di un fondo che di per se non esiste per cui richiedeva
un'ulteriore attività di attuazione che spetta agli stati e se gli stati non hanno recepito la direttiva essa e prova di effetti); 2)
il giudice italiano chiedeva alla Corte se lo stato dovesse o meno rispondere patrimonialmente del danno arrecato a tali
lavoratori per aver non recepito la direttiva per cui per essere a stato inadempiente. E' appunto il tale caso che la corte ha
elaborato per la prima volta il Cd. principio di responsabilità patrimoniale dello stato ovvero quello per cui se uno
stato membro no rispetta gli obblighi imposti dai trattati,o comunque dal diritto dell'unione(in tal caso l'obbligo di creare
il fondo) ne risponde patrimonialmente. Lo stato risponde dunque per ciò che il parlamento non ha fatto, non ha recepito
appunto la direttiva, non ha dato attuazione alla stessa .

Art 19 dispone che la Corte assicura il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati per cui
l'interpretazione è attribuita alla Corte di giustizia, il giudice di Napoli ad esempio che ha bisogno di sapere come
vada interpretato un articolo del codice dei consumatori che a sua volta recepisce un articolo di una direttiva europea non
può non riferirsi alla corte stessa, dovrà analizzare la giurisprudenza della corte, analizzare i precedenti giurisprudenziali
in modo da capire che interpretazione da la corte a quella norma ecc. Da quanto appena detto riusciamo a capire al meglio
anche la seconda disposizione contenuta sempre nell'art19 che aggiunge “gli Stati stabiliscono i rimedi giurisdizionali
necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'unione” (novità introdotta
da Lisbona) tale codificazione non è altro che la codificazione di un principio che già la corte di giustizia aveva affermato
ovvero quello per cui i giudici nazionali sono giudici comunitari, sono giudici a cui è affidato ogni qualvolta le norme
comunitarie producano effetti nell'ordinamento interno il compito di tutelare le posizioni giuridiche soggettive attribuite
dal diritto dell'unione e devono farlo secondo i rimedi che l'articolo stesso richiama ciò in maniera da avere una tutela
efficace di tali diritti. Ecco perché art 19 si riferisce anche agli stati che sono obbligati a creare un apparato
giurisdizionale, che garantisca effettiva tutela dei diritti attribuiti dall'unione.

STRUTTURA: la Corte oggi si presenta in un sistema articolato, frutto delle varie modifiche avvenute nel corso degli
anni dei trattati essa come istituzione nel complesso è denominata Corte di Giustizia dell'Unione Europea ed è composta
da tre diverso organismi giurisdizionali ognuno con proprie competenze e propri meccanismi di nomina dei giudici e
meccanismi di funzionamento ovvero: 1)Corte di giustizia; 2)Tribunale 3)tribunali specializzati.

1)Corte di giustizia: è il giudice che ha sempre operato nel sistema della comunità (ora UE) come organismo volto ad
assicurare la tutela dei diritti, ed è composta da un giudice per stato membro ed è assistita da avvocato generale.
Composta come detto da un giudice per stato membro ed è sempre stato cosi ed è cosi tutt'ora con la differenza rispetto al
passato che è stato creato un particolare sistema di controllo, un vaglio per le nomine, ovvero un comitato al fine di
evitare che le scelte ricadano su soggetti privi dei requisiti richiesti dai trattati (persone indipendenti, soggetti che
svolgano le più alte cariche funzioni giurisdizionali, giureconsulti di notoria competenza art 253 TFUE). Esempio per
quanto riguarda l'Italia, il giudice italiano della corte di giustizia è un docente universitario Antonio Pizzano, mentre la

35
Francia ha da sempre prescelto magistrati piuttosto che docenti universitari. Insomma per il timore che la scelta non
venisse fatta appunto nel rispetto di tali requisiti è stato creato un comitato costitutivo che è composto da 7 personalità
scelte tra ex membri della corte di giustizia e tribunale, membri dei massimi organi giurisdizionali nazionali e giuristi di
notoria competenza. Tale comitato ha il compito di fornire un parere circa l'adeguatezza o meno della persona designata
dallo stato per ricoprire il ruolo di giudice o avvocato generale. Esso ha iniziato ad operare dal 2009 per cui dopo Lisbona
ma nonostante i pochi anni di vita ha sin da subito preso molto seriamente il suo incarico per cui compie selezioni molto
accurate. Come detto prima esprime un parere per cui atto non vincolante, lo Stato dunque nonostante parere negativo può
comunque decidere di nominare quel soggetto ma nella prassi i pareri del comitato vengono ascoltata, per cui se ha esito
negativo lo stato provvede a fare altro nome come è successo sia per l'Italia dove il giudice designato a ricoprire il ruolo
di giudice del Tribunale è stato poi sostituito e per malta.

La carica di giudice della corte è rinnovabile e ovviamente questo sistema di filtro del comitato è un sistema che facilita di
molto le riconferme dato che di solito, ciò che è stato ritenuto idoneo la prima volta viene riconfermato. Federico
Mancini, professore italiano è stato riconfermato per ben 3 volte. I membri possono essere rimossi, ma in tal caso il
trattato richiede decisione unanime della corte e può accadere anche che un giudice decida di dimettersi anticipatamente
in tal caso la prassi prevede che egli continui a rimanere in ruolo fino alla designazione del successore.

2)Tribunale fino al 2009 per cui fino al trattato di Lisbona era denominato tribunale di primo grado. Nasce intorno agli
anni '80 in virtù di due diverse ragioni:1) si voleva sgravare la corte di giustizia da una serie di controversie piuttosto
complesse data la delicatezze della materia come ad es. in materia di concorrenza oppure cause relativa all'applicazione
del codice doganale; controversie insomma che richiedevano analisi molto analitica dei fatti;2) si voleva ottenere per tali
controversie un meccanismo che garantisse il doppio grado di giurisdizione.

Il tribunale è composti da almeno un giudice per stato membro; non c'è dunque necessaria corrispondenza tra numero dei
giudici e degli stati, inoltre è data la possibilità al consiglio di ampliare il numero dei giudici, nella prassi il sistema
utilizzato è lo stesso di quello previsto per la corte di giustizia ovvero un giudice per stato, però prevedendo che il
tribunale avesse un carico di lavoro eccessivo è stata prevista la possibilità di aumentare il numero dei giudici;
attualmente la proposta è di raddoppiare quindi 28 più 28 ma si capisce che i costi sono eccessivi.

3)Avvocato generale corte di giustizia è composta da ben 8 avvocati generali; si tratta di membri della corte che non
decidono cause ma che svolgono una serie di funzioni ausiliare per i giudici la principale è la sotto-posizione alla corte di
una opinione la cd. Conclusione con cui è suggerita la soluzione da dare alla singola causa. Fino al trattato di Nizza ciò
era previsto per tutte le cause, ora non più, per cui l'avvocato generale viene coinvolto solo nelle ipotesi in cui la corte
ritiene necessario il suo intervento data magari la delicatezza della questione. La novità della stessa e quindi l'assenza di
precedenti giurisprudenziali ecc. Tali conclusione non sono vincolanti per cui la corte può anche decidere diversamente
ma è pur vero che nella maggior parte dei casi la corte segue le conclusioni dell'avvocato generale. Da 8 il numero è
accresciuto a 11, oggi in realtà ne abbaino 9, perché 2 non son ancora stati designati. Ora, essendo gli stati 28 ed essendo
gli avvocati solo 9 si capisce che sono gli stati grandi (Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna ecc) ad avere un avvocato
fisso mentre gli stati piccoli si devono accontentare di un sistema a rotazione; in virtù di una dichiarazione allegata al
trattato di Lisbona è stato disposto che in caso di aumento del numero degli avvocati generali uno di questi avrebbe
dovuto essere polacco per cui ora anche la poloni ha un posto fisso.

20 ottobre 2014

Oggi riprendiamo il discorso della Corte di Giustizia ed andiamo a completare gli approfondimenti relativi alle altre
componenti della Corte di Giustizia Europea. Ricordate che a partire dal trattato di Lisbona la Corte di Giustizia
dell'Unione Europea è oggi composta da tre diverse giurisdizioni: La Corte di Giustizia vera e propria; il Tribunale; i
Tribunali specializzati.
Abbiamo già indicato per sommi capi le norme relative alla loro composizione ed al loro funzionamento, ci rimane però
da analizzare è la distribuzione della giurisdizione tra i tre componenti: “chi fa cosa”.
Per capire come funziona oggi questo meccanismo di distribuzione di competenza giurisdizionale, è bene dare uno
sguardo al passato, cioè capire come sorge l'esigenza di organismi giurisdizionali anteriori rispetto alla originaria Corte di
Giustizia.
La Corte di Giustizia quando nasce ha un carico di competenze molto variegato che oggi troviamo in qualche modo
ricostruito (ovviamente riferito all'intera istituzione) dall'articolo 19 del Trattato sull'Unione Europea (T.U.E.) dove si
attribuiscono sostanzialmente due principali compiti della Corte di Giustizia Europea. Il primo compito è quello di
giudicare su cause vere e proprie, cioè sui ricorsi presentati da soggetti di vario titolo (soggetti pubblici, soggetti privati,

36
Stati membri, istituzioni) qualora questi ricorsi abbiano ad oggetto la legalità del comportamento delle istituzioni (ad
es. il ricorso per l'annullamento degli atti invalidi)
La seconda categoria di azioni di competenza della Corte di Giustizia è il meccanismo di collaborazione tra giudice
nazionale e giudice dell'Unione che si chiama : competenza pregiudiziale.
In fine l'articolo 19 contiene una clausola di chiusura riferendosi a tutti gli altri casi previsti dal Trattato; quindi la Corte di
Giustizia è competente ad intervenire anche in altri casi previsti dai Trattati.
Quindi due le sono le competenze riconosciute alla Corte di Giustizia fin dalla sua origine: il giudizio sulla legalità dei
comportamenti delle istituzioni; la competenza pregiudiziale.

Inizialmente l'unica istituzione giudiziaria esistente, sulla base dei Trattati di Roma, era la Corte di Giustizia che si
trovava ad affrontare tutte queste cause con l'inevitabile incremento di queste cause col passare degli anni dovuto sia alla
diffusione di controversie che riguardano le due tipologie di azioni di cui abbiamo parlato e poi dovuto anche al fatto che,
nel frattempo, l'Unione Europea cresceva anche in termini geografici ed anche questo ovviamente portava un numero di
cause sempre più elevato dinanzi la Corte di giustizia che non riusciva a tamponare con il semplice aumento del numero
dei giudici.
Si è deciso allora di seguire un'altra strada, quella di creare un nuovo organo giurisdizionale, (inizialmente strettamente
collegato alla Corte di Giustizia) con lo scopo di affidare a questo nuovo organo giurisdizionale la competenza di decidere
su controversie relative al comportamento delle istituzioni ogni qualvolta questo comportamento venisse messo in
discussione con un ricorso giurisdizionale da persone fisiche o giuridiche. Quindi passano nella competenza di quello che
allora veniva definito Tribunale di primo grado, una serie di azioni che si caratterizzano per il fatto di essere promosse da
persone fisiche o giuridiche (quindi non da Stati membri e non da istituzioni) finalizzate ad accertare la legalità del
comportamento delle istituzioni, nelle materie in cui si rendeva necessario, o comunque si rendeva più opportuno, un
doppio grado di giudizio. Queste materie erano quelle in cui il giudice comunitario si trova di fronte a valutazioni non di
mero diritto, quindi di cause che possono essere giudicate sulla base del fascicolo, ma che richiedono anche accertamenti
di fatto, che richiedono valutazioni di merito complesse, come nelle cause di concorrenza e di diritto doganale
comunitario.
Quindi si è da un lato cercato di sgravare la Corte di Giustizia di una parte sia numericamente che sostanzialmente
gravosa del suo contenzioso; contestualmente però riconoscendo ai privati la possibilità di ottenere un doppio grado di
giudizio; perché ovviamente le decisioni assunte dal Tribunale di primo grado potevano poi essere sottoposte ad
impugnazione (soltanto per motivi di diritto quindi una specie di cassazione più che di appello) dinanzi alla Corte di
Giustizia.
Quindi nasce questo nuovo organismo presso la Corte di Giustizia comunque collegato in maniera genetica alla Corte con
competenze limitate a quelle già dette si aggiungeva il contenzioso del lavoro ovvero il contenzioso dei funzionari
dell'Unione Europea; intendendo per funzionari categorie molto ampie non soltanto i dipendenti delle istituzioni
dell'Unione ma anche chi vorrebbe diventarlo ad esempio contenziosi che hanno ad oggetto concorsi comunitari e quindi
un contenzioso che ha come protagonista qualcuno che magari non è riuscito a diventare funzionario dell'Unione Europea
si svolge dinanzi al Tribunale di primo grado allora ed oggi come vedremo Tribunale della funzione pubblica, comunque
di competenza della Corte di Giustizia.
Quindi nasce cosi l'esigenza di un doppio grado di giudizio, si crea un Tribunale di primo grado che comincia ad operare
nel '91 e che oggi come sapete è una delle tre componenti. Ha perso la qualifica di tribunale di primo grado infatti oggi si
chiama solo Tribunale per in qualche modo riconoscere la novità che nel frattempo è intervenuta di affidare al Tribunale
anche una giurisdizione di secondo grado cioè quella riferita alle impugnazioni concernenti le decisioni assunte dai
Tribunali specializzati (e qui arriva la terza componente dell'insieme Corte di Giustizia). Quando nasce il Tribunale di
primo grado si devolvono alla sua giurisdizione tutte quelle cause e soltanto i cd. ricorsi diretti cioè quelle cause in cui si
contesta la legalità delle attività delle istituzioni dell'Unione, tenendo da parte invece quella seconda, grande, categoria di
cui vi ho parlato cioè la competenza pregiudiziale.
La competenza pregiudiziale rimane riservata alla Corte di Giustizia per un motivo abbastanza intuitivo cioè trattandosi
di un meccanismo di collaborazione tra giudice nazionale e giudice comunitario, questo meccanismo innanzitutto per
poter essere efficace richiede un unico grado di giudizio altrimenti potrebbe comportare dei tempi così lunghi da non
poter essere più funzionale ad una giustizia rapida dinanzi al giudice nazionale perché è lì che poi si decide la
controversia; e poi perché la Corte di Giustizia è sempre tenuta a mantenere il suo monopolio nell'intervenire per dare una
corretta interpretazione del diritto dell'Unione Europea; quindi condividere questo ruolo anche con il Tribunale sarebbe
stato per la Corte di Giustizia la perdita della sua prerogativa principale cioè quella di essere il punto di riferimento per le
soluzioni da dare in tema di corretta interpretazione del diritto dell'Unione Europea. Quindi inizialmente la competenza
pregiudiziale viene messa da parte.
Il Tribunale di primo grado comincia nei primi anni '90 ad esercitare le sue funzioni, le sue decisioni sono sottoposte ad
un secondo grado di giudizio dinanzi alla corte quando vi sono motivi di diritto; con il Trattato di Nizza nel 2003 le cose
cambiano ulteriormente. Innanzitutto si cerca di estendere la giurisdizione del tribunale al di là dei confini originali
(confini che erano limitati al diritto della concorrenza e al diritto doganale) per attribuire al Tribunale (che perde appunto
la qualifica di Tribunale di primo grado) una competenza più generalizzata come giudice comune del contenzioso
comunitario per tutte le controversie a meno che queste controversie non siano riservate alla Corte di Giustizia. Quindi si
cambia prospettiva: il Tribunale non è più il giudice con giurisdizione limitata che riprende in parte le attribuzioni della

37
Corte di Giustizia per sgravare quest'ultima di una serie di cause, ma diventa il giudice dell'Unione per tutte le materie,
ancora con esclusione della competenza pregiudiziale ma per tutti i ricorsi cd. diretti (cioè il contenzioso in cui il giudice
decide chi ha ragione e chi torto in una determinata controversia) a meno che queste azioni non siano riservate alla Corte
di Giustizia. Quindi è la giurisdizione della Corte di Giustizia di primo grado che diventa eccezionale.
Questo è in sostanza il sistema che conosciamo oggi con l'ulteriore novità, introdotta sempre dal Trattato di Nizza nel
2003, quella per cui al Tribunale vengono affiancati quelli che oggi chiamiamo Tribunali Specializzati (inizialmente
chiamate Camere giurisdizionali) competenti a conoscere materie specifiche indicate dal regolamento istitutivo del
Tribunale specializzato. Quindi l'idea è che era sorto il Tribunale di primo grado quello per cui ci sono dei contenziosi
che richiedono un doppio grado di giudizio; che richiedono una valutazione di merito, si ripete nella creazione, col trattato
di Nizza, di queste nuove Camere Giurisdizionali.
In realtà di queste Camere Giurisdizionali che oggi chiamiamo Tribunali specializzati, se ne è finora creato soltanto uno
con un regolamento del consiglio che ha portato alla costituzione del Tribunale per la Funzione Pubblica che svolge le
sue funzioni da oramai 10 anni e che segue regole speciali sia per quanto concerne la procedura ma anche per la sua
composizione perché il Tribunale della Funzione Pubblica, che si occupa evidentemente del contenzioso dei funzionari,
non segue i principi soliti per cui ogni Stato indica un giudice; la composizione del Tribunale della Funzione Pubblica è
molto più snella è composta da solo 7 giudici che vengono scelti in base alle competenze personali tra giureconsulti di
notoria esperienza oppure tra persone che possono svolgere nello Stato di provenienza, funzioni giurisdizionali. Quindi
basta essere un potenziale o effettivo giudice nazionale negli stati membri, visto che gli stati sono 28 bisognava trovare un
sistema per selezionare questi giudici senza ricorrere al meccanismo di attribuire un giudice per ogni Stato Membro. Il
meccanismo è stato quello di creare un Comitato che suggerisce al Consiglio (a cui spetta la nomina) una lista di persone
stilata in base ad un bando pubblico. Si pubblica in in sede ufficiale la notizia per cui nell'anno 2015 saranno disponibili
una parte dei posti da giudice del Tribunale della funzione Pubblica e chiunque può fare domanda e poi spetterà a questo
comitato composto da personalità indipendenti che un po' somiglia per la composizione al comitato dell'art.155. Nel caso
del 155 il Comitato non fa altro che dare un parere su azioni già provenienti dagli Stati e da un parere seppur non
vincolante comunque determinante. Qui il meccanismo è diverso perché si pubblica un bando, chiunque presenta la
propria candidatura, il Comitato sceglie, propone una lista e la sottopone al Consiglio che a maggioranza sceglie
all'interno di questa lista quindi evidentemente questo comitato ha funzioni diverse, perché redige una lista e la prassi fino
ad ora ha chiarito che quella lista in sostanza è la scelta perché il Consiglio fino ad ora non ha fatto altro che accogliere
le proposte provenienti dal Comitato; quindi il Consiglio non ha ritenuto opportuno mettere in discussione valutazioni
tecniche offerte da un comitato composto da persone ultra-competenti secondo le regole di composizione; e quindi ha
accolto le proposte del Comitato.
Questa è una cosa originale perché non esistono altre composizioni giurisdizionali che vengono formate sulla base di un
bando pubblico. Non ce ne sono perché gli Stati sono molto attenti a tenere per mano questa fase di composizione di un
organismo giurisdizionale.

Come si ripartono, oggi, le competenze giurisdizionali tra questi tre organismi?

La regola è quella che troviamo codificata all'art. 256 del T.F.U.E. Il Tribunale è competente a conoscere in primo grado
dei ricorsi relativi alle impugnazioni degli atti dell'UE, ricorso di carenza, il ricorso della responsabilità delle istituzioni
dell'Unione e di quelli che lo Statuto riserva alla Corte di Giustizia quindi c'è un rinvio che viene fatto allo Statuto della
Corte di Giustizia; in aggiunta il tribunale competente a conoscere dei ricorsi proposta contro la decisione dei Tribunali
Specializzati, quindi funge da giudice di appello rispetto alle decisioni dei Tribunali specializzati.
E' indispensabile a questo punto dare un'occhiata al testo dello Statuto, perché è lo Statuto che poi ci da la risposta
definitiva su chi fa cosa nei rapporti tra giudice-Corte di Giustizia e giudice-tribunali.
L'articolo 51 dello Statuto introduce delle eccezioni alla regola generale, la regola generale è quella per cui è il Tribunale
il giudice competente per tutte le azioni dirette (intendendo per azioni dirette quelle in cui il giudice dell'Unione europea
decide una controversia). Devono tutte essere in primo grado proposte dinanzi al Tribunale salvo evidentemente una
seconda giurisdizione della Corte di Giustizia per motivi di diritto tranne nei casi eccezionali elencati all'articolo 51.
L'articolo 51 ci dice che ci sono alcuni ricorsi presentati dagli Stati Membri che sono di competenza esclusiva della Corte
di Giustizia quindi non godono della presenza di un secondo grado di giudizio si va direttamente alla corte i giustizia in
unico ed ultimo grado. Questo ogni qualvolta uno Stato membro contesta in giudizio un atto o una astensione del
Parlamento, del Consiglio o del Parlamento e del Consiglio insieme. Questo fa pensare che il contenzioso costituzionale
vero e proprio, quello in cui la Corte di Giustizia dell'Unione europea nel suo complesso decide i ricorsi promossi dallo
Stato contro le Istituzioni dell'UE. In gran parte vengono riservati alla Corte di Giustizia come organismo apicale del
sistema giurisdizionale dell'Unione Europea. Quindi si tratta nell'ottica dello Statuto di azioni così delicate perché portano
con se un contenzioso costituzionale, tali da non consentire un doppio grado di giudizio e da affidare immediatamente la
sua soluzione a quella che è considerato l'organo di vertice, la Corte di Giustizia che in unico grado risolve queste
controversie; per fare un esempio scontato pensiamo ai casi in cui uno Stato Membro impugna un atto legislativo
dell'Unione Europea; qui si tratta evidentemente di un contenzioso molto peculiare, tipicamente costituzionale con cui si
contesta la competenza dell'Unione Europea ad adottare quell'atto legislativo perché si ritiene che la materia oggetto di
quell'atto esuli dalla competenza dell'Unione. Questo tipo di controversia lo statuto vuole che siano riservate alla Corte
di Giustizia quindi si va direttamente di fronte alla Corte, non si passa dal Tribunale il quale è visto come una sorta di

38
giudice dei privati più che del contenzioso pubblico, e la decisione assunta dalla Corte di Giustizia chiude definitivamente
il contenzioso. E' un po' quello che avviene nel nostro ordinamento per le competenze nei ricorsi principali dinanzi alla
corte costituzionale cioè un giudice che si occupa dei conflitti tipicamente costituzionali, nei casi delle competenze
dell'Unione è la Corte di Giustizia.
Questa eccezione ha a sua volta delle eccezioni; quindi la regola quella per cui c'è un tribunale competente per tutti i
ricorsi diretti, l'eccezione è quella per cui una parte di questi ricorsi diretti se hanno come protagonista uno Stato che
impugna un atto delle Istituzioni vanno alla Corte di Giustizia. Ma non tutti(eccezione all'eccezione): tranne i casi in cui
ad essere impugnato è una decisione della Commissione quando questa si pronuncia in materia di aiuti di Stato o di
misure legate alla difesa commerciale dell'Unione Europea
Esempio: pensate al caso in cui la Commissione europea nello svolgimento delle sue competenze in materia di vigilanza sugli
aiuti di stato, cioè sulle misure assunte da uno Stato che favoriscono determinate imprese, ritiene che la misura adottata
dall'Italia nei confronti di Alitalia è un aiuto illegittimo perché incompatibile con il mercato comunitario, considerato dalla
Commissione incompatibile con i Trattati perché crea delle distorsioni della concorrenza non giustificati.
La decisione assunta dalla commissione è rivolta allo Stato, e quindi in via di principio, ovviamente, lo Stato è legittimato a
contestare in giudizio dinanzi al giudice dell'Unione ogni qual volta si contesta la legittimità di un atto delle Istituzioni
dell'Unione l'unico giudice competente è il Giudice comunitario poiché il giudice nazionale di questo non si può occupare.
Questa stessa decisione degli aiuti di stato pur avendo come destinatario lo Stato Membro, lo Stato viene fatto oggetto della
decisione della Commissione in cui si qualifica quella misura come aiuto di stato innanzitutto e in più si chiede, se la misura
ha già avuto esecuzione, di recuperare queste somme (se Alitalia già ha ottenuto queste somme, lo Stato è tenuto a riprendersi
queste somme) e quindi ripristinare lo status quo ante, cioè la situazione del mercato precedente alla adozione di queste
misure.
Una misura del genere dicevamo, ha evidentemente come destinatario uno Stato Membro ma indirettamente ha un altro
destinatario che è Alitalia (riferendoci al nostro esempio). Alitalia in questo caso è un contro-interessato cioè ha interesse a
che la misura possa essere contestata in giudizio perché incide sui propri diritti, il diritto di mantenere queste somme perché la
valutazione della Commissione, a suo modo di vedere, è sbagliata. A questo serve il ricorso giurisdizionale, ossia a verificare
se il comportamento della Commissione sia corretto o meno; e questa verifica di correttezza può essere svolta sia dallo Stato
Italiano, sia dal privato destinatario della misura di vantaggio.
Fino all'entrata in vigore del Trattato delle modifiche dello statuto previste a Nizza, queste due cause andavano a giudici
diversi: la causa promossa da Alitalia, in quanto persona giuridica, aveva come giudice competente il Tribunale di primo
grado; quella promossa dallo Stato italiano andava alla Corte di Giustizia perché era un contenzioso tra Stato membro ed
istituzioni. Quindi la stessa causa aveva giudici diversi, cosa succede in questi casi? Lo Statuto prevede che sia uno dei due
giudici a riconoscere la competenza dell'altro perché ovviamente la stessa controversia non si può svolgere su due giurisdizioni
diverse, è necessario che ce ne sia soltanto una; normalmente succedeva che il Tribunale riconosceva la competenza della
Corte di Giustizia, con quale conseguenza?
La causa si svolgeva davanti alla Corte di Giustizia; il giudizio dinanzi al Tribunale veniva sospeso in attesa della decisione
della Corte di Giustizia; il privato ricorrente non aveva nessun modo di partecipare al giudizio perché nella causa promossa
dallo Stato, il privato non poteva intervenire. Si creavano queste distorsioni poco accettabili dal privato che potrà di certo
vedere parte delle proprie ragioni rappresentate dallo Stato ma non è la stessa cosa di rappresentarle personalmente.
E quindi si è voluta inserire una eccezione all'eccezione.
La regola è quella per cui i giudizi di primo grado vanno tutte al Tribunale.
L'eccezione (della regola) è quella per cui se i giudizi sono proposti da uno Stato Membro il giudice competente non è il
tribunale ma immediatamente la Corte di Giustizia.
Eccezione dell'eccezione: a meno che non si tratti di giudizi in materia di aiuti di stato per i quali ritorna la competenza del
Tribunale.
E' un po' come il gioco dell'oca, ma comunque la regola principale è che lì dove ci sono interessi sia privati che pubblici in
discussione, come nel caso più evidente degli aiuti di Stato, il giudice competente è il Tribunale e per quel tipo di controversie
anche lo Stato membro ha come primo suo interlocutore (giudice di fronte al quale richiedere il ricorso) il Tribunale e non la
Corte di Giustizia.
Una soluzione del genere è evidentemente più pratica perché consente a tutti i soggetti coinvolti di partecipare in giudizio,
consente di avere più gradi in giudizio, e in effetti il sistema sta funzionando molto meglio rispetto a quello di prima. Quindi
quello che va ricordato è che nella distribuzione della competenza giurisdizionale la regola di base è quella per cui è il
Tribunale il giudice di primo grado per tutte le cause che riguardano le istituzione dell'Unione Europea, tranne nel caso in cui
a promuovere il giudizio sia uno Stato Membro e allora la competenza è attribuita alla Corte di Giustizia in primo grado con
l'eccezione dovuta al fatto che alcune di queste cause in ragione della loro peculiarità, rimangono sostanzialmente alla
competenza del Tribunale (come eccezione dell'eccezione) nonostante siano promosse da uno Stato Membro. Quindi l'idea è
quella per cui gli Stati Membri propongono contenziosi di alto livello quindi è bene che vadano immediatamente alla Corte di
Giustizia; se invece questi contenziosi pur essendo di livello costituzionale poi incorporano dei diritti dei privati è bene che ci
sia un doppio grado di giudizio e che i privati e lo Stato adiscano in prima battuta il Tribunale.

C'è un'ulteriore eccezione, alla regola per cui tutti i ricorsi diretti sono di competenza in primo grado del Tribunale, è
quella che riguarda altri contenziosi particolarmente delicati di natura costituzionale e cono i cd. contenziosi
interistituzionali, quindi di nuovo riemerge l'idea di fondo per cui la creazione del Tribunale è soprattutto dovuta alla
necessità di affidare un doppio grado di giudizio per i ricorsi dei privati.
Nell'art. 51 dello Statuto vediamo eccezioni riferite al contenzioso tra istituzioni anche in questo caso si tratta di

39
contenziosi in linea di principio particolarmente delicati: es. il Parlamento europeo contesta una decisione del Consiglio
adottata secondo una particolare procedura legislativa che non prevede la condivisione del potere legislativo con il
Parlamento, in quanto il Parlamento ritiene che per quel determinato atto la base giuridica, quindi il fondamento della
competenza dell'Unione, imponeva il coinvolgimento del Parlamento in una procedura legislativa. Quindi è un
contenzioso tipicamente costituzionale in cui una istituzione contesta il comportamento di un'altra istituzione perché ha di
fatto violato le prerogative della prima. Anche per questo contenzioso l'art.51 mantiene un' eccezione attribuendo
espressamente alla Corte di Giustizia la competenza giurisdizionale per la soluzione della causa; quindi anche qui si è
ritenuto fosse opportuno rivolgersi direttamente al giudice più elevato e di evitare che contenziosi del genere subiscano i
tempi e le inevitabili contestazioni dovute alla presenza di due gradi di giudizio; sono contenziosi così delicati che non ci
si può permettere di avere una prima decisione che magari può essere smentita da una seconda decisione e quindi è
meglio che ci sia un unico giudice che se ne occupi la cui decisione non possa più essere messa in discussione come
accade con la nostra Corte Costituzionale per risolvere i conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato.

Il Tribunale oltre ad essere giudice di primo grado, funge anche da giudice di secondo grado rispetto alle decisioni assunte
dai Tribunali Specializzati ad es: Un funzionario si rivolge alla Tribunale della Funzione Pubblica contestando una
decisione assunta dalla propria istituzione, perché ha comminato una sanzione piuttosto che un licenziamento nei
confronti di questo lavoratore allora il suo giudice è il Tribunale della Funzione Pubblica che svolge prima una funzione
amministrativa se l'esito di questa procedura amministrativa non è favorevole il privato è legittimato ad adire il giudice.
Le decisioni del Tribunale della Funzione Pubblica sono sottoposte ad un secondo grado di giudizio dinanzi al Tribunale e
quindi il Tribunale perde la sua qualifica di Tribunale di primo grado poiché non è più di primo grado ma è un Tribunale
che si occupa di valutare per motivi di diritto ma anche nel merito di alcuni casi, la decisione assunta da un giudice di
grado inferiore.
Rispetto a questi contenziosi (che come sappiamo sono oggi riferiti al solo Tribunale della Funzione Pubblica in quanto è
l'unico Tribunale Specializzato anche se si potrebbe far riferimento ad altri si parla ad.es, da anni di un Tribunale in
materia di Proprietà intellettuale) per questo tipo di azioni (azioni basate sul diritto dell'Unione Europea) ci si è chiesti che
ruolo riservare alla più alta giurisdizione nella piramide della Corte di giustizia dell'Unione Europea cioè la Corte di
Giustizia.

Il contenzioso si svolge di fronte il Tribunale della Funzione Pubblica, la decisione di questo tribunale si può impugnare
dinanzi al Tribunale e la Corte di Giustizia che fa? La Corte di Giustizia è l'organismo di regola, ed in quanto tale
qualcosa bisognava pure farle fare pure in relazione ai contenziosi che si svolgono già dinanzi ad un organo
giurisdizionale. A questo scopo si è inventata una procedura molto originale che trae ispirazione da procedure che noi
conosciamo nel nostro ordinamento e anche in altri ordinamenti, la procedura di riesame che troviamo codificata nei
suoi tratti principali all'articolo 256 comma 2 del T.F.U.E.
Cosa vuol dire procedura di riesame? Vuol dire nella elaborazione del trattato di Nizza, affidare alla Corte di Giustizia il
riesame delle sentenze del Tribunale in secondo grado , allo scopo di evitare che queste sentenze, una volta passate in
giudicato, provochino quello che il Trattato qualifica come un pericolo per l'unita e la coerenza del diritto dell'Unione
Europea. Quindi si tratta di decisioni così eterodosse, sbagliate, nell'opinione di questo meccanismo, per cui addirittura
sono in grado di compromettere l'unita è la coerenza del dritto dell' U.E.
In casi del genere si è pensato fosse utile dare alla Corte di Giustizia la possibilità di intervenire ma non secondo un
meccanismo di impugnazione tradizionale, per cui il soggetto che si ritiene soccombente dopo i due gradi di giudizio si
rivolge ad un terzo giudice. Funziona diversamente, funziona in modo da dare una parvenza di controllo d'ufficio
piuttosto che su istanza di parte nel senso che l'intervento della Corte di Giustizia per il riesame delle sentenze del
Tribunale, viene richiesto esclusivamente dal primo avvocato generale della Corte di Giustizia. Quindi è un controllo che
nasce dall'interno piuttosto che dall'iniziativa esterna delle parti che non possono richiedere il riesame, l'unico soggetto
che lo può fare è il primo avvocato generale della Corte di Giustizia ricordiamo che gli avvocati generali sono 9 eleggono
per un anno il primo avvocato generale il cui principale compito fino a Nizza è stato semplicemente quello di distribuire
cause, dopo il Trattato di Nizza si vede attribuito un compito molto più delicato cioè quello di valutare di fatto tutte le
sentenze del Tribunale e di verificare che tutte le sentenze del tribunale siano così eccentriche da metter a repentaglio
l'unità e la coerenza del diritto dell'Unione Europea perché ad esempio sono state assunte in violazione del principio del
contraddittorio o del principio di legalità fondanti il sistema giurisdizionale dell' U.E.
È il primo avvocato generale che può chiedere alla Corte di Giustizia il riesame, la Corte si pronuncia in un termine molto
breve, termine di un mese se ritiene di accettare o meno una richiesta di riesame che si svolge nei mesi successivi. Quindi
è un procedimento particolarmente veloce che ha trovato applicazione in questi anni un numero ridotto di volte anzi se il
primo avvocato generale è stato molto parsimonioso nella richiesta di riesame, la Corte di Giustizia è stata molto più
rigida che l'ha accettata solo in 4-5 occasioni; però quando l'ha accettata di solito ha accolto le richieste del primo
avvocato generale di qualificare quella sentenza del Tribunale capace di pregiudicare l'unità e la coerenza del diritto
dell'Unione Europea. Ma con quali conseguenze? Bisogna mettersi anche nei panni delle parti che non si possono
accontentare di una pronuncia della Corte che quella sentenza del Tribunale una volta riesaminata dice che è sbagliata;
che ne facciamo di tutto il contenuto sostanziale della pronuncia? E allora ci si è inventato un meccanismo codificato nel
testo dello Statuto per cui la Corte di Giustizia può fare due cose una volta verificata una violazione del genere. La Corte
di giustizia può: o decidere la causa (se lo stato degli atti lo consente) oppure può rinviare al Tribunale affinché assuma

40
una decisione definitiva e di fatto diventa una sorta di Cassazione, unica differenza reale è che la iniziativa non è affidata
alle parte ma affidata ad un soggetto interno della Corte. Quindi l'iniziativa è interna alla Corte ma le conseguenze di
questa iniziativa si riflettono all'esterno incidendo su quello che è un giudicato fragile. Di fatto la sentenza del Tribunale
passa in giudicato se non si svolge il procedimento di riesame e se invece si svolge il procedimento di riesame e la Corte
di Giustizia coglie la richiesta di riesame di fatto la sentenza viene poi sostituita da un'altra quindi il giudicato si è formato
in realtà.

Comitato Economico e Sociale ed Comitato delle Regioni

Alcune istituzione che troviamo nell'elenco del trattato sull'Unione Europea, all'art.13 che non hanno funzioni né di tipo
normativo né di tipo giurisdizionale ma funzioni meramente consultive, ci riferiamo in particolare al Comitato Economico
e Sociale ed al Comitato delle Regioni. Si tratta di due istituzioni che hanno il compito di coadiuvare le istituzioni
politiche nello svolgimento delle loro funzioni soprattutto di tipo legislativo. Avete sentito parlare di recente della
proposta del Senato del nostro ordinamento di abolire uno degli organismi costituzionali (il Consiglio nazionale
dell'economia e lavoro (C.N.E.L.)), nel sistema dell'Unione Europea abbiamo invece una istituzione simile al CNEL: il
Comitato Economico e Sociale (art. 300 al paragrafo 2 del T.F.U.E), che è composto da rappresentanti delle
organizzazioni di datori di lavoro, di lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi sella società civile in particolare
nei settori socio-economico, civico, professionale e culturale. Il ragionamento che sta alla base anche del CNEL è quello
di avere un organo consultivo che si preoccupi su richiesta delle istituzioni ma anche di propria iniziativa, di formulare dei
pareri e di esprimere delle opinioni in merito ad una proposta normativa in itinere, quindi di dare la voce a delle categorie
per così dire alle istituzioni politiche, al fine di meglio svolgere valutazioni politiche vere e proprie relative all'adozione di
una nuova normativa dell'Unione Europea.

Lo stesso vale per il Comitato delle Regioni che invece è composto da rappresentanti delle collettività regionali o locali
che sono titolari di un mandato elettorale nell'ambito della collettività regionale o locale o politicamente responsabili
dinanzi ad una assemblea eletta art.243.
L'idea è diversa quella di rappresentare in un organismo di tipo consultivo gli interessi degli enti territoriali e questo
avviene secondo medesimi meccanismi del Comitato economico sociale, cioè attraverso la richiesta che il trattato spesso
codifica di partecipare al procedimento legislativo prima della adozione di un atto legislativo, in cui sono trattate molte
materie soprattutto quelle che incidono su diverse categorie, richiede il parere del Comitato economico e sociale o del
Comitato delle regioni ed in casi rari addirittura di entrambi. Nel caso del comitato delle regioni quello che si è voluto
fare è quello di coinvolgere il più possibile gli enti territoriali nell'elaborazione degli atti dell'Unione Europea , in realtà
questo obiettivo si persegue con diversi meccanismi e quello più istituzionale è la partecipazione del comitato delle
regioni nella procedura legislativa (laddove questa è richiesta dal trattato). Ma ci sono anche altri meccanismi ad esempio,
quando parlammo del principio di sussidiarietà, ricordiamoci il meccanismo della valutazione ex-ante nel rispetto del
principio di sussidiarietà con il coinvolgimento sia dei Parlamenti nazionali sia di quei Parlamenti che in alcuni
ordinamenti (come nell'ordinamento tedesco) sono composti dai rappresentanti degli enti territoriali. Quindi l'intervento
del Comitato delle regioni è più istituzionale e orizzontale nel senso che esprime la voce di tutte queste componenti
(ammesso che poi si riesca a trarne una voce unica). Questi altri meccanismi invece danno un ruolo specifico a singole
componenti, a singoli organismi territoriali degli Stati Membri che possono esprimersi in maniera autonoma.
Il comitato delle regioni a differenza del comitato economico e sociale può, in base al nuovo testo dell'articolo 263
T.F.U.E, presentare dei ricorsi alla Corte di Giustizia Europea quando ritiene che degli atti o delle omissioni realizzate
dalle altre istituzioni siano capaci di incidere negativamente sulle sue prerogative. Quindi il comitato delle regioni a
differenza del Comitato economico e sociale, può addirittura accedere alla giustizia comunitaria invocando la violazione
dei trattati se un atto delle istituzioni o una loro omissione, coinvolge negativamente le proprie prerogative. Ad es. se una
consultazione obbligatoria prevista dal Trattato non si è svolta e le prerogative del Comitato delle regioni sono
pregiudicate, questo fa scattare la legittimazione ad impugnare gli atti.
Relativamente alla composizione di questi due organismi, il Trattato prevede delle regole che fanno si che questi
organismi siano particolarmente numerosi nella loro composizione ad es. il comitato economico e sociale è composto da
non più di 350 membri. Essi sono nominati dal Consiglio per 5 anni sulla base di elenchi presentati dagli Stati Membri.
Quindi gli stati membri presentano degli elenchi (normalmente un doppio elenco: membri ordinari e membri supplenti) ed
il Consiglio normalmente non fa altro che accettare ciò che è proposto dagli Stati Membri che presuppone che le scelte
adoperate dagli Stati Membri siano rispettose delle indicazioni di carattere generale indicate dai Trattati, per cui deve
trattarsi di persone che rappresentano le categorie prima dette. Non è detto che gli Stati Membri siano ineccepibili nel loro
comportamento perché essendo la scelta poi affidata ai Governi, è inevitabile che ci sia lo zampino della politica nella
indicazione delle persone da suggerire al Consiglio in qualità di Membro del Comitato.
Ci fu qualche anno fa una causa proposta da un sindacato rappresentativo dei lavoratori in Italia che contestava la nomina
effettuata dal Consiglio per la categoria di rappresentante dei pensionati. Perché il rappresentante dei pensionati non era stato
scelto sulla base delle qualità effettive, attività svolte da questa persona ma si trattava di un avvocato che era notoriamente
molto vicino al Presidente del Consiglio in Camera e quindi di per sé non aveva mai fatto nulla come rappresentante della
categoria dei pensionati ma era stato nominato come rappresentate dei pensionati per l' Italia. Questa causa non ebbe buon
fine perché ci sono regole molto stringenti per l'impugnazione degli atti comunitari se l'impugnazione è proposta da persone

41
fisiche o giuridiche bisognerebbe dimostrare una serie di requisiti che spesso sono impossibili da dimostrare per l'accesso ad
agire. La Corte di giustizia non si è mai occupata del merito della causa di questa questione in quanto l'ha ritenuta
ineccepibile perché presentata da un soggetto, il sindacato, non dotato di legittimazione ad agire.
Quindi non c'è di fatto una verifica sul comportamento degli Stati membri né da parte del Consiglio né da parte della
Corte di Giustizia perché non ritiene ricevibili i ricorsi presentati contro queste.
Il Comitato delle Regioni anch'esso ha un numero di componenti non superiore a 350 che vengono distribuiti (questo vale
anche per il Comitato economico e sociale) in base ad una griglia cioè un base ad un sistema che vede i grandi Stati di
avere un numero di rappresentanti superiore rispetto ai piccoli Stati (si adotta quindi lo stesso meccanismo del sistema
della maggioranza qualificata che abbiamo già visto riguardo al Consiglio).
Poi bisogna valutare in base ai vari articoli dei Trattati per quali materie ai due organismi viene richiesto di intervenire.
Le norme del Trattato che attribuiscono competenze legislative all'Unione precisano quando queste competenze devono
essere esercitate coinvolgendo questi due organismi.
Ad es l'articolo 114 del T.F.U.E. attribuisce al Consiglio ed al Parlamento la competenza ad adottare normative di
ravvicinamento delle legislazioni nazionali ogni qualvolta ciò sia necessario per il funzionamento del mercato interno
(una clausola di carattere generale che ha consentito all'Unione di occuparsi di materie disparate tra cui la disciplina delle
Telecomunicazioni piuttosto che la disciplina della Tutela dei Consumatori etc,), ogni qualvolta la differenza tra
legislazioni nazionali è capace di incidere negativamente sul funzionamento del mercato interno cioè crea delle distorsioni
al normale scambio di beni e servizi. In questo caso l'Unione è competente ad adottare normative sulla base della
procedura legislativa ordinaria che vede come protagonisti il Consiglio ed il Parlamento ed in questo caso il Trattato
prevede la previa consultazione del Comitato Economico e sociale. Considerando l'impatto che questa normativa può
avere nei singoli Paesi Membri su settori che coinvolgono le categorie rappresentate dal Comitato il Trattato impone come
condizione di corretto svolgimento della procedura la consultazione del Comitato Economico e Sociale. Nella prassi il
Comitato Economico e Sociale è molto attento a dare un contributo il più possibile utile alle altre istituzioni e spesso i
suggerimenti provenienti dal Comitato Economico e Sociale hanno trovato riscontro anche se imparziale nel testo
definitivo di questo atto legislativo.
Il Comitato Economico e Sociale a differenza del Comitato delle Regioni, non impugnare gli atti se le sue prerogative
non vengono salvaguardate questa è una differenza non facilmente giustificabile se non per la necessita che vi è la volontà
dei redattori dei trattati di coinvolgere gli enti territoriali nel procedimento legislativo

42
CAPITOLO 3: I procedimenti interistituzionali
21 ottobre 2014 (assistente)

PROCEDURE:

1) PROCEDURA DI FORMAZIONE DEGLI ATTI DELL'UNIONE

tali procedure hanno subito profonde modifiche dal '57 fino ad oggi. Alla base di queste modifiche troviamo spesso il
ruolo del parlamento europeo e le maggioranze richieste per l'approvazione degli atti in seno al consiglio dei ministri
rappresentano la cifra del grado di integrazione dell'UE. (Le organizzazioni internazionali si dividono in due tipi : di
cooperazione intergovernativa e di integrazione. L'unione ha sempre più assunto la fisionomia dell'integrazione. Nelle
organizzazioni di cooperazione la regola per adottare atti, e fondamentalmente per qualsiasi attività, è quella
dell'unanimità del consensus. Nell'UE il senso è quello di creare una integrazione, quindi qualcosa di sovranazionale che
si pone al di sopra degli stati per questo motivo si può prescindere dal consenso del singolo stato. Si ha cioè il
superamento dell'unanimità a vantaggio della maggioranza qualificata). Il trattato di Lisbona conferma le vicende
evolutive verificate tra cui la sostituzione dell'unanimità con la maggioranza qualificata e quella di rendere sempre più
imprescindibile il ruolo del parlamento europeo come legislatore, quindi come attore nel processo di formazione degli
atti.

PROCEDURE PRIMA DELL'ENTRATA IN VIGORE DEL TRATTATO DI LISBONA

a) procedura consultiva: procedura classica per l'adozione degli atti. Era prevista fin dall'inizio dai trattati istitutivi della
CEE. Il suo funzionamento era estremamente semplice: prevedeva una proposta della commissione, un parere
obbligatorio ma non vincolante del parlamento ( il consiglio non è tenuto a conformarsi al contenuto del parere, ma deve
necessariamente richiederlo) e l'approvazione dell'atto da parte del consiglio. Procedura consultiva perché il parlamento
era consultato. Se il consiglio vota senza attendere il parere del parlamento, l'atto è illegittimo per violazione delle forme
sostanziali. Il parlamento quindi può paralizzare il procedimento non fornendo il parere. La corte di giustizia ha
affermato che se il parlamento ritarda oltre un termine ragionevole per dare tale parere, il consiglio può farne a
meno [Sentenza PARLAMENTO CONTRO CONSIGLIO C65/1993]. Il parere deve essere dato nuovamente, cioè due
volte, nei seguenti casi: 1) se la commissione modifica la propria proposta in modo sostanziale; 2) se il consiglio apporta
modifiche sostanziali. L'obbligo di fornire nuovo parere non vale se le modifiche apportate dal consiglio corrispondono
proprio alle indicazioni fornite dal parlamento nel proprio parere.

b) procedura di cooperazione: introdotta dall'atto unico europeo e rappresenta il primo tentativo di rafforzare il potere
del parlamento europeo nel procedimento legislativo. Tale procedura è stata usata spesso nella materia dell'unione
economica e monetaria.
Il punto di partenza in questa procedura è sempre la proposta della commissione, a questo punto si pronuncia il
parlamento europeo che fornisce il proprio parere. Se il parlamento non propone modifiche e approva la proposta, il
consiglio può successivamente approvare la proposta e l'atto si considera adottato. Se però il parlamento propone
modifiche, le cose si complicano. Il parlamento propone modifiche con il proprio parere, la commissione esamina queste
modifiche, il consiglio adotta un atto che si chiama "posizione comune". Si procede alla seconda lettura del parlamento,
nel senso che l'atto, esaminato dal parlamento e approvato dal consiglio, torna al parlamento. Se il parlamento in seconda
lettura approva l'atto o semplicemente non si pronuncia, il consiglio può adottarlo a maggioranza qualificata. E' richiesta
l'unanimità se il consiglio intende discostarsi dall'originaria proposta della commissione. Può accadere che il parlamento
rigetti l'atto a maggioranza assoluta. Il consiglio a questo punto può adottare una posizione comune ma solamente ad
unanimità. Il parlamento quindi assume sempre più importanza. Può accadere però che il parlamento in seconda lettura
proponga ulteriori emendamenti. La palla passa al consiglio, nella seconda lettura, e abbiamo tre esiti possibili: 1) il
consiglio adotta la proposta modificata dal parlamento e lo fa a maggioranza qualificata; 2) il consiglio può adottare la
posizione comune originaria senza tener conto degli emendamenti del parlamento, ma può farlo ad unanimità; 3) il
consiglio può apporre ulteriori modifiche a sua volta modificata dal parlamento e ancora una volta può adottare l'atto ma
solamente ad unanimità.

c) procedura di codecisione: è tra tutte la più complessa, ma visto che è molto simile alla procedura legislativa ordinaria
non la esamineremo nello specifico, ma lo faremo direttamente con la procedura legislativa ordinaria in vigore.

43
E' stata introdotta con il trattato di Maastricht. In questa procedura il parlamento e consiglio sono posti su una posizione
di parità, sono colegislatori. infatti, gli atti sono adottati da parlamento e consiglio. Gli atti adottati con tale procedura
avranno la seguente intestazione: direttiva del parlamento e del consiglio, prima invece sarebbe stato direttiva del
consiglio. Si tratta di una risposta al problema del deficit democratico. Anche qui il procedimento è fatto in modo da
incentivare l'accordo tra consiglio e parlamento.

d) procedura del parere conforme: esiste fin dall'atto unico. Procedura simile alla prima, ma il parere del parlamento
non è solo obbligatorio, ma anche vincolante. Per approvare l'atto occorre che questo sia conforme al parere del
parlamento. E' stato esteso dal trattato di Maastricht a vari settori: adesione di nuovi stati, accordi internazionali ecc.
La procedura è la seguente: proposta della commissione, parere del parlamento (obbligatorio e vincolante) e approvazione
dell'atto da parte del consiglio. Si attribuisce al parlamento un vero e proprio diritto di veto che permette al parlamento di
paralizzare l'adozione dell'atto. Per quanto importante, il ruolo del parlamento non è considerato un colegislatore, perché
può non approvare l'atto, ma non può apporre emendamenti sul contenuto dell'atto.

PROCEDURE CON IL TRATTATO DI LISBONA

Procedimenti vigenti: procedure legislative e procedure non legislative. La prima riguarda gli atti con natura legislativa,
la seconda atti regolamentari (è importante questa denominazione ai fini del ricorso con annullamento art 263 comma 4
ultima frase).

Come si distinguono le due procedure? Nella procedura legislativa avremo sempre l'approvazione da parte del consiglio e
del parlamento. Il ruolo del consiglio può essere o meno uguale al ruolo del parlamento. Nel primo caso si ha una
procedura legislativa ordinaria; se il ruolo è disuguale abbiamo una procedura legislativa speciale. Se invece l'atto dovesse
essere adottato senza la partecipazione del parlamento o del consiglio, l'atto è regolamentare.

Le procedure legislative speciali in particolare consistono nell'adozione di un regolamento, direttiva o decisione dal
parlamento con la partecipazione del consiglio o dal consiglio con la partecipazione del parlamento. Non sono quindi
poste su un piano di parità, ma un'istituzione adotta l'atto, l'altra partecipa di solito attraverso un parere. Queste procedure
sono due : la procedura consultiva e la previa approvazione del parlamento europeo.

Cosa accade in caso di conflitto tra atto legislativo e atto regolamentare successivo ? Il parlamento può impugnare l'atto
non legislativo successivo attraverso il ricorso di annullamento.

Tra gli atti non legislativi dobbiamo distinguere gli atti di esecuzione e gli atti delegati. Gli atti di esecuzione sono adottati
in virtù di un potere di attuazione conferito da un atto giuridicamente vincolante alla commissione o eccezionalmente al
consiglio. Questi atti sono gerarchicamente subordinati all'atto base in cui è previsto appunto il potere per la commissione
di adottare gli atti di esecuzione. Gli atti di esecuzione servono a tradurre in concreto le statuizioni contenute nell'atto
legislativo. Rappresenta una deroga rispetto al principio del federalismo esecutivo, in base al quale l'unione si limita a
legiferare, mentre gli stati danno attuazione alle disposizioni dell'unione. Tali atti però rappresentano solo un'anomalia e
di norma l'esecuzione degli atti spetta agli stati membri. Spetta invece alla commissione quando ci sono condizioni
uniformi.

Gli atti delegati sono adottati dalla commissione sulla base di una delega legislativa contenuta nell'atto legislativo. Gli atti
di esecuzione e quelli delegati possono anche essere denominati come atti di terzo grado, perché gli atti di secondo grado
(cioè quelli legislativi) sono adottati in virtù di una base giuridica contenuta nel trattato (che è un diritto primario).

A cosa servono gli atti delegati? A consentire alla commissione di codificare aspetti non essenziali dell'atto base.

POTERE DI INIZIATIVA DELLA COMMISSIONE

La commissione ha quasi il monopolio sul potere di iniziativa legislativa.

ART 17 COMMA 2 TUE Un atto legislativo dell'Unione può essere adottato solo su proposta della Commissione, salvo
che i trattati non dispongano diversamente. Tale iniziativa può essere sollecitata però dal parlamento, dal consiglio, da

44
1milione di cittadini dell'unione o addirittura, in materia di politica economica e monetaria, dai singoli stati membri. La
commissione rappresenta gli interessi dell'unione (e non degli stati, come il consiglio). La commissione spinge per
l'integrazione, mentre il consiglio va in direzione opposta. Quindi il monopolio della commissione serve proprio ad
evitare che gli stati arrestano la procedura.

Il ruolo del parlamento è successivo e si è auto-conferito, perché inizialmente non poteva adottare pareri, ma poteva solo
il proprio parere sulla proposta della commissione, ma i trattati istitutivi non prevedevano che il parlamento potesse
insistere e chiedere alla commissione di presentare proposta. Il parlamento però ha iniziato a formulare raccomandazioni ,
prima molto generiche, poi man mano sempre più incisive. In tempi recenti il parlamento è arrivato al punto di
predisporre una bozza di proposta.

Ci sono delle eccezioni al monopolio dell'iniziativa legislativa della commissione. In alcuni casi il potere di iniziativa
legislativa è condivisa tra la commissione e altri soggetti : ad esempio in materia di libertà-spazio-sicurezza e giustizia, in
questo caso il potere è diviso con 1/4 di stati membri; può essere condiviso con il parlamento europeo, con la banca
centrale europea, con la banca degli investimenti e con la corte di giustizia.

Il consiglio può modificare la proposta della commissione soltanto ad unanimità. Cioè bisogna penalizzare il consiglio
quando non raggiunge l'accordo con il parlamento. Però perché non punire il consiglio quando non si mette d'accordo con
la commissione? Perché la commissione rappresenta gli interessi generali dell'unione.

PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA:

si compone di tre letture, più un comitato di conciliazione.

Lo schema è: proposta della commissione, posizione del parlamento europeo in prima lettura e poi si pronuncia il
consiglio in seconda lettura. Se il consiglio approva senza emendamento l'atto è adottato. Se il consiglio non approva,
adotta in prima lettura la posizione comune e la trasmetta al Parlamento europeo in seconda lettura. Abbiamo tre ipotesi:
1)ipotesi in cui il parlamento approva la posizione del consiglio in prima lettura o approva in maniera tacita non
pronunciandosi entro 3 mesi, l'atto è adottato secondo la posizione comune del consiglio; 2) il parlamento rigetta a
maggioranza assoluta la posizione comune del consiglio in prima lettura. L'atto non è adottato. Il parlamento ha potere di
veto e può bloccare il procedimento legislativo; 3) il parlamento propone emendamenti a maggioranza assoluta e li
comunica alla commissione, che redige parere, e al consiglio, che deve pronunciarsi in seconda lettura. Il consiglio in
questo caso decide a maggioranza qualificata. Decide però ad unanimità sugli emendamenti sui quali la commissione è
andata a fornire un parere negativo. Se il consiglio approva tutti gli emendamenti l'atto è adottato. Quando il consiglio
non approva tutti gli emendamenti, il presidente del consiglio e il presidente del parlamento convocano il comitato di
conciliazione. La funzione del comitato è quella di cercare di raggiungere un progetto comune che si rifà, se è possibile,
alle posizione in seconda lettura del consiglio e del parlamento, ma può discostarsene se è utile a raggiungere un accordo.
Nella fase di conciliazione cosa può accadere? Tanto per cominciare potrebbe andare male, quando il comitato non riesce
ad approvare un progetto comune nei tempi previsti (6 settimane, prorogabili di due settimane su iniziativa del consiglio e
del parlamento). In questi casi l'atto non è adottato. E' invece possibile che la conciliazione abbia esito positivo, quando il
comitato approvi il progetto comune a maggioranza qualificata dei rappresentanti del consiglio e del parlamento.
Si procede a questo punto alla terza lettura, perché l'atto deve essere approvato dal parlamento e dal consiglio e non dal
comitato. In terza lettura abbiamo due ipotesi : 1) parlamento e consiglio non approvano il progetto comune entro 6
settimane; l'atto è definitivamente abbandonato; 2)oppure in terza lettura il parlamento, a maggioranza dei voti espressi, e
il consiglio, a maggioranza qualificata, approvino il progetto comune; l'atto è finalmente adottato.

Ci sono disposizioni particolari quando tale procedura necessita di correttivi. Tali disposizioni trovano applicazione
quando l'iniziativa non è esercitata dalla commissione ma da un altro dei soggetti che eccezionalmente ha questo potere.
Quando questo avviene, parlamento e consiglio, trasmettono alla commissione il progetto di atto insieme alle posizioni
comuni in prima e seconda lettura e possono richiedere alla commissione un parere o se non viene chiesto può darlo
spontaneamente d'ufficio. Inoltre, la commissione può, ma non è tenuto a farlo, partecipare al comitato di conciliazione.

45
PROCEDURE LEGISLATIVE SPECIALI:

La regola è che il consiglio adotta l'atto mentre il parlamento adotta un semplice parere, cioè partecipa. Avviene però
l'opposto solo in determinate ipotesi precise: ad esempio per approvare lo statuto delle condizioni generale per l'esercizio
delle funzioni dei membri del parlamento; qui lo statuto è adottato dal parlamento con parere del consiglio.

Nell'ambito delle procedure legislative speciali spesso il consiglio delibera ad unanimità.

Le due procedure speciali sono :

-a)NUOVA PROCEDURA CONSULTIVA: si differenzia dalla vecchia procedura consultiva per il fatto che il parere del
parlamento non solo deve essere richiesto, ma deve essere effettivamente emesso in modo da essere preso in
considerazione dall'istituzione che adotta l'atto. Se tale parere ritarda oltre un termine ragionevole, l'istituzione procedente
può farne a meno. Quando si applica questa nuova procedura consultiva? Il testo elenca i casi: per l'adozione delle misure
relative la lotta contro le discriminazioni, per le modalità di voto nelle elezioni comunali al parlamento europeo, ecc.

In materia di politica sociale la procedura legislativa speciale è preceduta da un accordo quadro concluso tra le parte
sociale.

-b)PREVIA APPROVAZIONE: l'istituzione che partecipa, partecipa dando un parere che è tanto vincolante quanto
obbligatorio. Casi in cui è prevista tale procedura: lotta alle discriminazioni, tutela dei cittadini dell'unione, adozione del
quadro finanziario pluriennale, ecc. Tutte questioni che hanno un certo peso politico.

Le procedure legislative speciali possono essere sostituite dalle procedure legislative ordinarie, si tratta delle cd
passerelle. Finché la procedura sia qualificata è necessaria una decisione unanime del consiglio europeo che non riceve
obiezioni da alcun parlamento nazionale.

2) PROCEDURA PER LA CONCLUSIONE DI ACCORDI INTERNAZIONALI

In tale procedura l'iniziativa spetta alla commissione. Questo potere però è condiviso con l'Alto Rappresentante in materia
di politica estera e sicurezza comune.

La commissione rivolge al consiglio una raccomandazione in cui chiede l'autorizzazione ad aprire il negoziato, per
iniziare le trattative. Il consiglio a maggioranza qualificata autorizza l'apertura dei negoziati. Punti importanti: chi sono i
negoziatori? si tratta nella maggior parte dei casi di membri della commissione;spesso si tende a fornire direttive imposte
dal consiglio ai negoziatori. Tali direttive sono modificabili. Il consiglio talvolta nomina un comitato speciale, composto
dai rappresentanti degli stati membri, che deve essere consultato durante il negoziato. Questo perché i negoziati possono
richiedere tempo, quindi è necessario una supervisione da parte del consiglio sull'operato dei negoziatori.

Finalmente si arriva alla firma e alla conclusione dell'accordo, che sono due momenti diversi e hanno due valori
giuridicamente diversi. Questo è apprezzato soprattutto nella procedura solenne, dove firma e conclusione sono
nettamente separate. Firma: il negoziatore concordato con l'altra parte di un progetto di accordo, lo sottopone al consiglio
e il consiglio ne autorizza la firma e eventualmente l'applicazione provvisoria. L'accordo è stato firmato ma non ancora
ratificato (ratifica= conclusione). Con la conclusione l'unione è effettivamente vincolata. Come si verifica tutto ciò? il
negoziatore propone al consiglio una decisione relativa alla conclusione dell'accordo a nome dell'unione. Occorre pertanto
un atto interno, che tendenzialmente è una decisione, relativa alla conclusione dell'accordo a nome dell'unione. Interviene
a questo punto il parlamento europeo il quale fornisce un parere obbligatorio ma non vincolante, se il parere non è fornito
entro un termine ragionevole, il consiglio può deliberare senza tale parere (procedura consultiva classica). In alcuni casi
previsti tassativamente dal trattato è richiesta la previa approvazione, cioè un parere che è obbligatorio e vincolante. Si
tratta di 5 casi: accordi di associazione; accordo per l'adesione della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali; per gli accordi che creano un quadro istituzionale specifico organizzando
procedure di cooperazione; per gli accordi internazionali che hanno ripercussione finanziarie considerevoli per l'unione;
per accordi che riguardano settori ai quali si applica la procedura legislativa ordinaria oppure la procedura legislativa
speciale qualora sia necessaria l'approvazione del parlamento europeo.

46
Dopo il parere del parlamento, il consiglio adotta la decisione relativa alla conclusione dell'accordo. L'unione è
impegnata, assume obblighi pattizi.

C'è però anche la procedura semplificata: il consiglio può abilitare il negoziatore a concludere l'accordo attraverso la
semplice firma.

Il consiglio, inoltre, può approvare in nome dell'unione, modifiche dell'accordo se questo prevede l'adozione con
procedura semplificata.

Nel corso dell'intera procedura il consiglio di norma delibera a maggioranza qualificata. In casi tassativi delibera ad
unanimità.

C'è un parallelismo con i procedimenti interni: è richiesta l'approvazione ad unanimità da parte del consiglio sulla
decisione dell'accordo quando quest'ultimo riguarda un settore per il quale sul piano interno è richiesta l'unanimità. E'
richiesta l'unanimità, inoltre, per gli accordi di associazione e di cooperazione per gli stati candidati all'adesione. Per
l'accordo per l'adesione della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali la
decisione della conclusione entra in vigore previa approvazione degli stati membri conformemente alle rispettive norme
costituzionali.

Il ruolo del parlamento nella conclusione degli accordi: il parlamento deve essere pienamente e immediatamente di tutte
le fasi della procedura (diritto ad essere informato).

Interviene con parere obbligatorio ma non vincolante o con la previa approvazione. Se il parere del parlamento è
negativo, il presidente del parlamento può chiedere la consiglio di non concludere l'accordo. Inoltre, in base al
regolamento interno del parlamento, quest'ultimo può chiedere al consiglio di non autorizzare l'apertura dei negoziati
prima che si sia pronunciato sulla proposta del mandato a negoziare, come dire prima che si aprono i negoziati
permettiamo al parlamento di cosa stiamo parlando e cosa andremo a negoziare; inoltre, il parlamento può verificare la
correttezza della base giuridica scelta dalla commissione per l'accordo in questione; può rivolgere raccomandazioni e
chiedere che siano prese in considerazioni prima della conclusione dell'accordo; e soprattutto, può chiedere alla corte di
giustizia di pronunciarsi sulla compatibilità dell'accordo con i trattati istitutivi, perché gli accordi devono essere conformi
alla costituzione dell'unione europea (trattati istitutivi). Questo parere alla corte può essere richiesto tanto dal parlamento
quanto dal consiglio o dalla commissione o dai singoli stati membri. Il parere della corte di giustizia non è obbligatorio,
può essere richiesto, ma è vincolante. Se il parere è negativo l'accordo non può entrare in vigore se non si modifichi
l'accordo in questione oppure non si modifichino i trattati istitutivi. Se invece il consiglio conclude l'accordo prima che si
sia pronunciata la corte di giustizia, la decisione è invalida.

POLITICA COMMERCIALE COMUNE

Competenza esclusiva dell'unione. I negoziati autorizzati dal consiglio sono condotti dalla commissione in
consultazione con un comitato speciale designato dal consiglio. Non è richiesta la consultazione del parlamento, ma solo
l'informazione dello stesso. Il consiglio delibera, inoltre, a maggioranza qualificata tranne che nei seguenti casi, in cui è
richiesta l'unanimità: accordi in settori di scambi di servizi, negli aspetti commerciali della proprietà intellettuale,
investimenti diretti.

Come si denunciano gli accordi internazionali? Vige il principio del contrarius actus, quindi tendenzialmente non è
previsto nulla nei trattati, ma il consiglio può denunciarli previo parare conforme del parlamento se tale parere è richiesto
per la conclusione degli accordi in questione.

Vi sono poi alcuni accordi cd misti perché rientrano nelle competenze sia degli stati che in quelle dell'unione. Tali accordi
sono negoziati e conclusi dal consiglio, in nome dell'unione , e dagli stati membri, a nome proprio. L'accordo viene
firmato dagli stati e dal consiglio, poi gli stati lo ratificano, una volta che tutti gli stati hanno proceduto alla ratifica
l'unione può concludere l'accordo a nome proprio.

Gli effetti degli accordi internazionali fanno sì che questi accordi vincolano le istituzioni dell'unione e vincolano anche gli
stati membri dell'unione. Entrano in vigore nell'ordinamento degli stati membri senza necessità di misure di ricevimento,
a meno che queste non siano espressamente previste dal trattato internazionale in questione. Possono essere oggetto di
interpretazione da parte della corte di giustizia perché gli accordi sono atti delle istituzioni. Inoltre, in determinati casi, gli

47
accordi possono anche produrre effetti diretti senza necessità di intermediazione, in modo da incidere sulla sfera giuridica
dei singoli e i singoli possono invocarli anche dinanzi ai giudici nazionali.

il testo degli accordi internazionali conclusi dall'unione è allegato alla decisione della conclusione degli stessi che, come
tutte quante le altre decisione, è pubblicata sulla gazzetta ufficiale dell'unione europea.

3) PROCEDURA DI BILANCIO

L'unione trae le proprie risorse dalle sanzioni.

Prima del '71 la comunità si basava sul contributo volontario degli stati membri.

Con la decisione del 21 aprile del 1970 è stato sancito il principio secondo quale il bilancio dell'unione è finanziato
integralmente da risorse proprie dell'unione, non sono una gentile concessione degli stati.

Quali sono queste risorse? I dazi doganali, i prelievi agricoli sugli scambi con i paesi terzi in ambito delle
organizzazioni comuni di mercato, le imposte sui compensi dei funzionari dell'unione, le sanzioni contro gli stati e
le sanzioni contro le imprese, parte dell'IVA.

Sono previsti dei contributi obbligatorio, non volontari, calcolati sulla base del PIL di ogni stato (cd. quarta risorsa).

Chi decide le entrate? le decisioni relative alle risorse proprie dell'unione, sono adottate con decisione unanime del
consiglio previa consultazione del parlamento europeo. Tale decisione però entra in vigore solamente in seguito
all'approvazione degli stati secondo le rispettive procedure costituzionali.

Come fa l'unione a spendere tutti questi soldi? Andiamo al bilancio:


l'esercizio finanziario dell'unione va dal 1 gennaio al 31 dicembre.
La formazione del bilancio è regolato da alcuni atti. Tanto per cominciare gli artt da 310 a 324 TFUE, inoltre, i
regolamenti 1605/2002, nonché alcuni accordi interistituzionali fra parlamento e consiglio, tra i quali spicca l'accordo del
17 maggio 2006.

Il bilancio annuale, cioè la decisione di quanto e come si deve spendere, deve rispettare il quadro finanziario pluriennale,
stabilito per almeno 5 anni ed è determinato con regolamento del consiglio adottato ad unanimità, previa approvazione del
parlamento a maggioranza dei suoi membri.

Come è approvato il bilancio? anche qui il trattato di Lisbona ha introdotto delle modifiche significative: prima di
Lisbona vi era una distinzione fondamentale tra spese obbligatorie e spese non obbligatorie. C'era sempre un progetto di
bilancio presentato dalla Commissione, approvato dal consiglio, il quale decideva e aveva l'ultima parola sulle spese
obbligatorie; il parlamento invece aveva l'ultima parola sulle spese non obbligatorie.

Dopo il trattato di Lisbona la procedura è stata resa simile alla procedura legislativa ordinaria. Entro il 1 settembre la
commissione sottopone il progetto di bilancio, per l'anno successivo, al parlamento e al consiglio. Il consiglio adotta la
sua decisione entro il 1 ottobre e la comunica al parlamento. Il parlamento dispone di 42 giorni e si aprono una serie di
possibilità: il parlamento può approvare il bilancio (o approvarlo tacitamente) oppure può apportare emendamenti a
maggioranza dei propri componenti. Il parlamento in questo caso nuovamente è ritrasmesso al consiglio il quale può
approvarlo entro 10 giorni, in questo caso si considera approvato; può non approvarlo entro 10 giorni, e in questo caso
occorre convocare il comitato di conciliazione, il quale procederà come nella procedura legislativa ordinaria: se non
raggiunge un accordo sul progetto comune, il procedimento ricomincia dal principio, e quindi la commissione deve
presentare un nuovo progetto di bilancio; se il comitato entro 21 giorni, con la partecipazione della commissione, elabora
un progetto comune a maggioranza qualificata dei membri del consiglio e a maggioranza dei rappresentanti del
parlamento, il progetto comune è trasmesso al parlamento e al consiglio che hanno solamente 14 giorni per approvarlo. Si
apre a questo punto la terza lettura. Il progetto comune si considera adottato se parlamento e consiglio approvano o
approvano tacitamente. Il parlamento approva e il consiglio non si pronuncia, o viceversa. E qui è anche possibile che il
progetto comune venga modificato e adottato se il parlamento approva, il consiglio lo respinge, ma il parlamento decide a
maggioranza dei propri componenti (3/5 dei voti espressi) di confermare i propri emendamenti. Il parlamento ai fini del
bilancio conta più del consiglio. Il progetto si considera respinto se entrambe le istituzioni lo respingono oppure se il

48
parlamento lo respinge e il consiglio non si pronuncia, o viceversa.

Esito dell'approvazione: se il bilancio è adottato, al presidente del parlamento europeo spetta formalmente l'incarico di
constatare tale adozione. Se il bilancio non è adottato, c'è il regime dei dodicesimi provvisori: ogni mese l'unione non
può spendere più di 1/12 dei crediti aperti del bilancio dell'esercizio dell'anno precedente.

Tutte le spese devono essere autorizzato con un apposito atto di diritto derivato ed essere iscritte nel bilancio.

A chi spetta l'esecuzione del bilancio? ovviamente alla Commissione. Gli stati membri collaborano alla esecuzione del
bilancio e adottano misure dissuasive contro le frodi che ledono gli interessi finanziari dell'unione attraverso la procedura
legislativa ordinaria. Il parlamento su raccomandazione del consiglio deve dare atto della regolare esecuzione del
bilancio. Si tratta di della cd. decisione di discarico. Questa è una decisione di fondamentale importanza politica perché è
uno dei principali strumenti che il parlamento ha per esercitare un'influenza politica sull'operato della commissione.
Mentre non è mai stata approvata la mozione di censura del parlamento contro la commissione, in ben 2 occasioni il
parlamento ha rifiutato di concedere il discarico. Secondo il parlamento la commissione avrebbe dovuto trarne le dovute
conseguenze politiche. Il discarico è un atto dovuto da parte del parlamento, il parlamento può ritardarlo, ma in nessun
caso può negare il discarico.

49
CAPITOLO 4: Il sistema normativo
22 ottobre 2014

Il sistema normativo . Le fonti del diritto dell'Unione Europea.

Vi è un principio gerarchico, che vige anche per l'ordinamento dell'Unione, che vede alcune fonti situate all'apice del
sistema. All'apice del sistema delle fonti del diritto dell'Unione Europea si trovano le fonti cosiddette primarie composte
innanzitutto dai Trattati Istitutivi. Sui Trattati Istitutivi incidono infatti le varie tappe dell'integrazione che sono segnate
dalle modifiche apportate dagli Stati ai Trattati Istitutivi, sino a giungere al sistema attuale che vede due Trattati di
identico valore giuridico (non si tratta perciò di fonti tra loro subordinate) : il Trattato sull'Unione Europea (regole di
base, principi) ed il Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (regole di dettaglio), si tratta di due testi che
denunciano l'origine internazionale di questo ordinamento, dovuta alla volontà degli Stati di mettere in comune
determinate competenze, di creare strutture istituzionali e di fare ciò attraverso la redazione ed approvazione di Trattati.
Trattati che seguono un iter di formazione classico, che comunque non si discosta dalle procedure tradizionali di
stipulazione di accordi internazionali relativi alla creazione di un organizzazione internazionale. Ogni trattato richiede lo
svolgimento di un iter che parte dalla convocazione di una Conferenza Intergovernativa, un luogo in cui i Governi dei
Paesi Membri riuniscono i loro rappresentanti per discutere di un testo internazionale, prosegue con la firma di questo
trattato una volta raggiunto il consenso, prosegue con la ratifica di questi trattati da parte di ogni Stato Membro in base
alle proprie regole costituzionali, si conclude con il raggiungimento del numero di ratifiche indispensabili affinché il
trattato possa entrare in vigore: procedimento solenne di accordi internazionali. Si tratta di Accordi Internazionali che
creano un Organizzazione Internazionale particolarmente invasiva delle competenze Nazionali, rispetto al funzionamento
della quale gli Stati Membri sono particolarmente attenti a conservare in controllo delle regole di base del loro
funzionamento per cui non meraviglia che gli Stati siano particolarmente attenti a ciò che avviene ne momento della
redazione di nuovi trattai nella famiglia dell'ordinamento dell'Unione.
I Trattati Istitutivi dell'Unione Europea sono oggi due, entrambi sono al vertice del sistema delle fonti e sono trattati di
contenuto vario in cui da un lato si definiscono le regole di funzionamento di questa organizzazione e quindi si creano
delle istituzioni, a queste si attribuiscono delle competenze, si prevede un meccanismo di revisione dei trattati, infatti per
le varie istituzioni l'indicazione di massima delle regole di funzionamento e delle competenze di ognuna di queste
istituzioni si rinvengono nel TUE che però opera un rinvio al TFUE per ciò che concerne la disciplina di dettaglio del
funzionamento di ognuna di esse. Questo schema classico trova deviazione per una sola materia che è la Politica Estera e
Sicurezza Comune (PESC) che invece è tutta compresa nel TUE che perde rispetto a questa materia il ruolo di Trattato di
base diventando invece un Trattato contenente disposizioni di dettaglio. I Trattati Istitutivi dell'Unione Europea non sono
solo dei trattati che creano l'organizzazione internazionale in quanto si preoccupano anche di fungere da trattati-legge.
Il Trattato-Legge nella categorizzazione classica del diritto internazionale pattizio è quello che detta regole sostanziali non
limitandosi a creare un sistema, un'organizzazione internazionale ma prevedendo delle regole imposte sia alle istituzione
create dal trattato stesso, sia agli Stati che ne fanno parte; detta regole di comportamento imposte anche agli Stati Membri.
Questa è una caratteristica evidente dei trattati comunitari soprattutto del TFUE nella parte in cui (terza parte) contiene
delle disposizioni prescrittive che impongono comportamenti alle istituzioni, agli Stati Membri ed in molti casi
direttamente ai singoli, qui la deviazione rispetto al modello classico di trattato istitutivo di un'organizzazione
internazionale è particolarmente evidente, infatti i Trattati Istitutivi dell'Unione Europea contengono prescrizioni
normative importa anche ai privati (Es. Regole sul funzionamento del mercato interno e regole sulla politica di
concorrenza dove si trovano sia disposizioni rivolte agli Stati membri come gli aiuti di Stato sia disposizioni rivolte
direttamente ai privati, alle imprese, alle persone giuridiche, alle persone fisiche nella misura in cui queste siano da
qualificarsi come imprese) i quali si vedono imporre dai Trattati dei divieti (Es. Divieto di concludere accordi capaci di
restringere o distorcere la concorrenza) basati su disposizioni degli stessi Trattati, per cui da questo punto di vista i Trattati
dell'Unione Europea sono trattati-legge cioè trattati che impongono comportamenti. Ciò comporta un'ulteriore
caratteristica propria dei Trattati dell'Unione, quella di poter assumere negli ordinamenti Nazionali efficacia diretta,
attribuire direttamente obblighi e diritti anche ai privati senza la necessaria interposizione di un atto nazionale.

Il diritto primario dell'Unione Europea è composto dai Trattati fondativi, da altre fonti quali i Protocolli Allegati ai
Trattati, questi hanno lo stesso valore giuridico dei Trattati a cui sono allegati, caratteristica che non è propria solo dei
trattati dell'Unione ma vige anche per i Trattati internazionali. Uno di questi protocolli è quello che comprende lo Statuto
della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, un altro è quello che comprende le regole relative al funzionamento del
Principio di Sussidiarietà. L'art 51 TUE chiarisce, senza possibilità di dubbio, che i Protocolli Allegati ai trattati ne
costituiscono parte integrante, condividono con i testi dei Trattati Istitutivi la natura di fonte primaria nel sistema
dell'Unione.

A ciò si aggiungono altre fonti tra cui la più interessante è Carta Europea dei Diritti Fondamentali, questa non è
all'interno dei Trattati, soluzione che invero era stata avanzata dal cosiddetto trattato costituzionale che non è mai entrato
in vigore. Nel sistema del Trattato di Lisbona la Carta dei Diritti Fondamentali resta un testo esterno ai trattati a cui però

50
una disposizione del TUE l'art 6 opera un rinvio qualificandola come fonte primaria con lo stesso valore giuridico dei
trattati, la carta è recepita attraverso questo rinvio nel diritto primario dell'Unione Europea senza però inglobarla
formalmente nel testo dei trattati.
La Corte di Giustizia nella sua opera di interprete autentica dell'ordinamento dell'Unione ha qualificato i Trattati Istitutivi
come norme costituzionale dell'Ordinamento dell'Unione, ciò non significa molto dal punto di vista delle conseguenza in
quanto la qualificazione di norme costituzionali serve alla Corte per sottolineare l'importanza fondamentale che queste
norme posseggono nell'ordinamento dell'Unione ed anche nell'ordinamento Nazionale per sottolineare inoltre l'impatto
che queste disposizioni hanno sulla vita costituzionale degli Stati Membri in quanto creano nuove fonti, attribuiscono a
queste un valore che supera quello delle norme interne ecc. L'averle qualificate come norme costituzionali ha portato la
Corte di Giustizia a sostenere che le disposizioni dei Tr. Istitutivi non possono essere modificate dagli Stati con trattati
successivi.
Nel diritto internazionale pattizio la regola generale è quella per cui un trattato successivamente concluso tra le stesse
parti parzialmente o totalmente supera, prevale sul trattato precedente.
Nel diritto dell'Unione Europea non funziona così, le motivazioni sono state sottolineate dalla Corte di Giustizia ed inoltre
gli Stati hanno accettato che non sia così. Gli Stati infatti hanno accettato un sistema nel quale se per caso due Stati
Membri dovessero concludere tra di loro un nuovo trattato che deroga ai trattati comunitari, questi compiono un illecito
che può essere sottoposto alle procedure tipizzate nei testi dei Trattati dell'Unione comportanti una reazione sistemica nei
confronti di questo comportamento, vale a dire il procedimento di inflazione. Gli Stati si sono sottomessi ad un sistema
di fatto irrevocabile se non attraverso i sistemi di recesso dai Tr. Istitutivi.
In alcune sentenze la Corte di Giustizia ha qualificato alcune prescrizioni dei Tr. Istitutivi come norme inderogabili
anche attraverso il meccanismo di revisione previsto dai trattati stessi, infatti i trattati prevedono dei meccanismi di
revisione, ma secondo la Corte di Giustizia questi non possono incidere su alcune disposizioni talmente importanti per il
funzionamento del sistema da non poter essere oggetto di modifica. Tra queste disposizioni vi sono quelle che riguardano le
competenza della Corte di Giustizia, la Corte ha sottolineato che le regole che la riguardano non posso subire modifiche (per
cui i poteri di controllo del rispetto del diritto dell'Unione, di garanzia dell'uniformità dell'interpretazione delle norme
dell'Unione non sono derogabili) quid est la Corte ha sottolineato, quando si è imbattuta in alcuni accordi internazionali
conclusi dall'Unione con paesi terzi, che, se i trattati mettono in discussione le competenze della corte di giustizia, questi non
possono essere conclusi.
I meccanismi di revisione sono codificati (che anche da questo punto di vista denuncia la sua natura di accordo
contenente i principi di base) nell'art 48 TUE, si enunciano una serie di procedure di revisione ciò già è una novità -sino al
Tr. di Lisbona infatti la procedura di revisione era solo una, quella per cui qualora gli Stati Membri ritenessero di dover
procedere ad una modifica dei Tr. Istitutivi, questi convocavano una conferenza intergovernativa luogo di discussione in
cui gli Stati venivano rappresentati dai loro plenipotenziari, persone che avevano il mandato di negoziare- per addivenire
ad un testo condiviso sottoposto successivamente alla firma, alla ratifica, ai procedimento costituzionali. Questo è il
meccanismo classico che ha portato ad esempio alla revisione dell'Atto Unico Europeo nel 1986, poi alla revisione di
Amsterdam nel 1998, questo meccanismo denuncia la genesi internazionale di questo sistema, denuncia il fatto che siamo
in presenza di un organismo internazionale la cui vita, le cui regole sono decise dagli Stati di comune accordo, in una sede
comune che è la conferenza intergovernativa. Ciò offriva a tutti gli Stati la garanzia di non dover accertare modifiche dei
testi di base senza il proprio consenso, infatti per definizione i risultati della conferenza intergovernativa richiedevano la
firma, l'apposizione di una manifestazione di consenso sul testo da parte dei governi di tutti gli Stati. Ad un certo punto si
è cercato di modificare questo schema, soprattutto la caratteristica per cui le modifiche ai trattati istitutivi dell'UE fossero
un problema dei Governi degli Stati Membri:(va ricordato che la firma su un Trattato internazionale cristallizza
definitivamente il testo dell'accordo da sottoporre alla ratifica, l'atto della ratifica coinvolge il Parlamento) si è cercato di
far si che siano coinvolti altri soggetti -oltre ai singoli stati membri- nel momento della scrittura dei trattati, per evitare
che decisioni determinanti vengano assunte senza una valutazione ex ante e non solo ex post da parte di altri soggetti
rispetto ai governi. Ciò è comprensibile in quanto si è tentato di offrire alla costruzione Europea, date le sue caratteristiche
di incidenza sugli Stati Membri, una più solida base fondativa dal punto di vista della legittimazione democratica, anche
nel delicato momento della stesura dei Tr. Istitutivi. Ciò si è attuato prendendo ad esempio quanto avvenuto a cavallo tra i
due millenni, quando si è deciso di procedere alla redazione della Carta dei Diritti Fondamentali, quando infatti si è deciso
di dare un testo scritto all'ordinamento dell'UE, capace di rendere visibili i diritti dell'uomo che l'ordinamento garantisce,
si è deciso di affidare la scrittura di questo testo ad un organismo ad hoc chiamato Convenzione, questa richiama la
Convenzione che ai tempi della Rivoluzione Francese ha prodotto la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e del
Cittadino.
La convenzione produttiva della Carta dei Diritti Fondamentali, per decisione del Consiglio Europeo, era composta dai

51
capi di Stato dei Governi degli Stati Membri, dai rappresentanti della Commissione -inserendosi cosi il germe della
sovranazionalità- ed i rappresentanti dei Parlamenti Nazionali e del Parlamento Europeo. Lo schema in questo caso
cambia non soltanto per il coinvolgimento del Parlamento Europeo come rappresentante dei popoli Europei nel loro
complesso ma anche perché si coinvolgono i singoli Parlamenti Nazionali che esprimevano, ognuno di questi, alcuni
componenti della Convenzione. La scritture del testo della Carta dei Diritti Fondamentali era affidata ad un organismo che
non seguiva più lo schema classico dei rappresentanti dei governi bensì aggiungeva a questi altri soggetti.
Questo meccanismo è stato particolarmente apprezzato anche a livello nazionale, dato che i Parlamenti Nazionali
riuscivano ad avere un ruolo si è perciò deciso con il Tr. di Lisbona di codificare questo meccanismo, già utilizzato per la
redazione del Tr. Costituzionale ma al di fuori di un'esplicita codificazione avvenuta infatti in seguito. Oggi è sancito
dall'art 48.
L'art 48 TUE distingue vari procedimenti di revisione:
il procedimento di revisione solenne (o ordinaria) è quello più lungo, complesso ed articolato ma più solido dal punto
di vista della legittimazione democratica, prevede che qualora uno Stato Membro, il Parlamento Europeo o la
Commissione ritengano che sia il momento di apportare delle modifiche alle regole di base, questi trasmettono dei
progetti di revisione dei trattati al Consiglio Europeo, per cui l'iniziativa parte dal basso ed il destinatario è il Consiglio
Europeo(rappresentante degli Stati a livello di capi di Stato e di Governo); nella prima parte dell'art 48 vi è un'ulteriore
importante novità, non casuale, quella per cui i progetti di revisione possono riguardare sia la crescita delle competenze
dell'UE che la loro riduzione, però non è mai avvenuto che con un trattato di modifica dei trattati precedenti si sia
addirittura fatto un passo indietro rinunciando alla competenza su di un determinata materia attribuita all'UE. Il Consiglio
Europeo destinatario di questa richiesta di revisione si consulta con il Parlamento Europeo e con la Commissione e può
decidere a maggioranza semplice di convocare una Convenzione (nuovo organismo composto dai rappresentanti dei
Parlamenti Nazionali, del Parlamento Europeo, dei Capi di Stato di Governo degli Stati Membri della Commissione) che
ha il compito di discutere sulle proposte ed eventualmente di raggiungere una soluzione condivisa per cui un testo
condiviso, se ciò avviene, se c'è una condivisione, il meccanismo di revisione non termina qui, perché a differenza di
quanto avvenuto con la Carta di Nizza il momento della scrittura non si conclude nella Convenzione, bensì è solo uno dei
passaggi. Il passaggio successivo è la convocazione della Conferenza Intergovernativa, quindi l'adozione di un testo di
revisione vero e proprio, la sua sottoposizione alla firma dei rappresentanti dei Governi degli Stati Membri avviene nella
sede più tradizionale che è appunto quella della Conferenza Intergovernativa, dove sono rappresentati esclusivamente i
Governi degli Stati Membri. Questa ulteriore complicanza si spiega alla luce del fatto che i Trattati Internazionali sono
modificati normalmente attraverso un testo firmato dai rappresentanti dei Governo per cui è inevitabile che vi sia questo
passaggio, il dato che questo passaggio sia preceduto dai lavori della Convenzione rende più complicato ai Governo
smentire delle conclusioni già raggiunte nella sede precedente perché è una sede simbolicamente rappresentativa anche
del Parlamento, dei popoli degli Stati Membri. Formalmente è indispensabile per la revisione ordinaria che si segua
questo schema con delle variazioni sul tema.
La prima variazione è l'ipotesi in cui il Consiglio Europeo ritenga che le modifiche proposte dalla Commissione, dal
Parlamento o da uno Stato Membro non siano di tale importanza da giustificare la convocazione di una Convenzione quid
est si passa direttamente alla convocazione della Conferenza Intergovernativa, come passaggio obbligato, riducendo così i
tempi per l'adozione del trattato di revisione. In questo caso a maggioranza semplice il Consiglio, comunque con la previa
approvazione del Parlamento Europeo, decide di non convocare la Convenzione. L'iter si conclude, in questo meccanismo
di revisione ordinaria, con la firma di un testo da parte dei rappresentanti degli Stati Membri in sede di Conferenza
Intergovernativa e con la sottoposizione di questo testo, che prenderà il nome del luogo in cui la conferenza si è svolta,
alle procedure costituzionali di ratifica previste da ogni Stato Membro, in questa fase si sono spesso create delle difficoltà,
soprattutto laddove l'ordinamento costituzionale dei Paesi Membri preveda un passaggio referendario, ( Infatti nel 2004
gli ostacoli relativi all'entrata in vigore del Tr. Costituzionale sono dovuti all'esito negativo dei referendum in Francia ed
Olanda. I ritardi all'entrata il vigore del Tr di Lisbona sono dovuti all'esito negativo del referendum del popolo Irlandese).
Vi sono alcuni ordinamenti che prevedono che ogni trattato comunitario per l'entrata in vigore in quello Stato richieda
l'esito positivo di un referendum, posto che nella procedura di revisione ordinaria l'entrata in vigore del trattato di
revisione richiede la volontà unanime di tutti i Paesi Membri, bastava l'esito negativo di un referendum per impedire al
nuovo trattato di entrare in vigore. Vi sono invece ordinamenti, come quello Italiano, dove questo passaggio referendario
non è previsto ma addirittura vietato (nella Costituzione Italiana il referendum non è consentito laddove si tratti di leggi di
ratifica dei trattati internazionali, per cui ciò vige sia per l'entrata in vigore del trattato internazionale sia per l'abrogazione
della legge di ratifica).
La procedura di revisione ordinaria per come è stata disciplinata dal Tr di Lisbona non ha ancora avuto una sua
applicazione considerato che da allora non vi sono state iniziative formalizzate di ulteriore revisione dei trattati.

52
Le altre procedure di revisione ex art 48 TUE sono una novità assoluta in quanto hanno come obiettivo quello di
semplificare ad alcune condizioni e per alcune materie la revisione dei trattati, infatti sono qualificate dal trattato stesso
come:
Procedure di revisione semplificata. La semplificazione sta nel fatto che la procedura di revisione è di fatto affidata alle
istituzioni dell'UE, in tutta la fase di predisposizione del testo di modifica. L'art 48 par. 6 il Governo di qualsiasi Stato
Membro, il Parlamento Europeo, la Commissione possono sottoporre al Consiglio Europeo progetti intesi a modificate in
tutto o in parte le disposizioni della parte III del TFUE relative alle politiche e azioni interne dell'UE per cui una prima
indicazione riguarda le materie che possono essere oggetto di revisione semplificata, che sono esclusivamente le materie
della parte III del TFUE cioè le disposizioni relative alle politiche dell'UE, ciò esclude tutte le prescrizioni dei trattati
riguardanti la struttura istituzionale, il sistema di formazione degli atti normativo, quid est per tutto questo non si può
ricorrere alla procedura di revisione semplificata riservata alle modifiche della parte terza del TFUE. Il Consiglio, a
questo punto, ricevuta la richiesta da parte della Commissione, del Parlamento o di uno Stato Membro, può adottare una
decisione che modifica in tutto o in parte le disposizioni della parte terza del TFUE, per cui tutto resta nel contesto
istituzionale, non si convoca né una Convenzione né una Conferenza Intergovernativa, piuttosto è il Consiglio, in
quanto istituzione dell'UE (istituzione di vertice rappresentante i Capi di Stato di Governo) ad assumere una decisione
all'unanimità previa consultazione del Parlamento Europeo, della Commissione e, se queste modifiche riguardano il
settore monetario, la BCE. Si garantisce il principio del consenso unanime degli Stati, infatti il Consiglio si esprime
all'unanimità perciò è necessario che tutti gli Stati siano d'accordo, cosi come si garantisce che poi questa decisione
assunta dal Consiglio, per poter entrare in vigore, debba essere sottoposta all'approvazione degli Stati Membri
conformemente alle disposizioni costituzionali. Anche in questa fase finale si riproduce la richiesta di un intervento di
ratifica da parte degli Stati, tutto è più semplificato, velocizzato per la mancanza della necessaria presenza di una
Convenzione e della Conferenza Intergovernativa. Vi sono delle cautele infatti l'art 48 par 6 nella parte finale precisa che
la decisione assunta dal Consiglio non può avere ad oggetto l'estensione delle competenze attribuite ai trattati , quindi si
può intervenire solo nel perimetro delle competenze attribuite, non si può aumentare le competenze dell'UE attraverso la
procedura semplificata si può solo incedere su competenze già trasferite all'UE. Questo meccanismo è stato applicato nel
2011 quando si è deciso di intervenire sul testo dell'art 136 TFUE , disposizione relativa alla disciplina della cd. EUROZONA,
cioè regole applicabili per gli Stati che hanno sostituito la loro moneta nazionale con l'Euro, ed è stato modificato l'art 136
aggiungendo il comma 3 che consente la creazione di un meccanismo, cosiddetto meccanismo di stabilità monetaria che
permette agli Stati Membri che si trovino in difficoltà di ottenere degli aiuti da parte dell'UE avvenuto per alcuni Stati come il
Portogallo e la Grecia - meccanismo che non era inizialmente inserito nel Tr Istitutivo, ma è stato oggetto di una revisione
semplificata che ha consentito la creazione di questo fondo che interviene laddove la crisi monetaria comporti delle situazioni
di squilibrio tali da richiedere un intervento esterno.
Ci sono altre ipotesi di revisione semplificata ex art 48, nei successivi commi:
comma VII, sono procedure semplificate che non riguardano la sostanza quanto le forme, nel senso che ci sono due
diverse ipotesi:
· La prima ipotesi riguarda la materia della PESC, dove la regola di base per l'adozione delle delibere in sede di
consiglio è quella dell'unanimità, la PESC si caratterizza per il fatto che il Consiglio ha dei poteri molto superiori
rispetto alle altre politiche dell'UE, poteri che però può esercitare con delibere all'unanimità. E' possibile che il
Consiglio all'unanimità decida di rinunciare alla stessa, cioè decida che per una determinata decisione sia
sufficiente la maggioranza qualificata quindi è una revisione semplificata nel senso che cambia le regole di
adozione degli atti specificatamente dedicata alla PESC che richiede una pronuncia del Consiglio Europeo.
· Lo stesso avviene, ex art 48 comma VII, quando si consente al Consiglio di adottare atti legislativi secondo
una procedura legislativa ordinaria laddove il Trattato prevedeva una procedura legislativa speciale. La
procedura legislativa ordinaria è quella che comporta la partecipazione in veste paritaria del Consiglio e del
Parlamento Europeo, la procedura legislativa speciale è una procedura che attribuisce al Consiglio il potere
decisionale ed al Parlamento un mero potere di consultazione, quindi la procedura legislativa ordinaria è quella
che meglio rappresenta il principio democratico, perché offre al Parlamento la possibilità di incidere sul testo di
un atto normativo su un piano di parità rispetto al Consiglio, differentemente dalla procedura speciale che invece
attribuisce, in sostanza, il potere deliberativo esclusivamente al Consiglio. Vi sono delle materia in cui il Trattato
prevede che si adottino atti secondo la procedura legislativa speciale, può accadere però che il Consiglio decida
che per uno specifico atto sia necessario un maggiore coinvolgimento del Parlamento quindi decide di utilizzare,
non la procedura legislativa speciale come imposto dal trattato bensì la procedura legislativa ordinaria, anche
questa è una revisione dei trattati, non richiede lunghi procedimenti e molto specifica perché riferita all'adozione
di un singolo atto. In entrambi i casi queste decisioni sono assunte all'unanimità dei consensi in sede di Consiglio.

53
Vi è un ulteriore peculiarità cioè quella di prevedere come condicio sine qua non, per queste due revisioni
semplificate sopra citate, la circostanza che nessun Parlamento Nazionale si opponga, perché un Parlamento
Nazionale si oppone alla decisione del Consiglio di prevedere una tra queste revisioni semplificate, la decisione
dello stesso non potrà entrare in vigore. L'espressione del consenso del Parlamento Nazionale deve avvenire entro
6 mesi dalla data della trasmissione della decisione del Consiglio ai Parlamenti Nazionali. In qualche modo la
decisione del consiglio è sottoposta ad una sorta di clausola sospensiva perché può entrare in vigore
esclusivamente in assenza di contestazioni da parte di un Parlamento Nazionale.
Altre procedure di revisione : Art 25 TFUE riguardante la cittadinanza Europea, ci so trova in quel contesto in cui il
trattato prevede l'attribuzione di alcune prerogative, di alcuni diritti ai cittadini europei espressamente indicati nel Trattato
(partecipare alle elezioni nel luogo di residenza piuttosto che di cittadinanza se si tratta di elezioni al Parlamento Europeo
o Comunali, il diritto di circolare liberamente nel territorio degli Stati Membri ecc ) che sarebbero un numero chiuso se
non ci fosse la clausola all'art 25 in base alla quale il Consiglio può decidere di estendere i diritti ai cittadini europei, per
fare ciò il Consiglio delibera all'unanimità secondo la procedura legislativa speciale, con l'approvazione del Parlamento
Europeo in maniera da completare i diritti elencati negli articoli precedenti. E' una previsione che al momento non è mai
stata utilizzata ma che il Consiglio in ogni momento può scegliere di utilizzare per estendere i diritti ai cittadini europei.
Anche in questo caso l'art 25 prevede che queste disposizioni entrino in vigore previa approvazione degli Stati Membri in
base alle loro regole costituzionali. Necessaria approvazione degli Stati Membri a livello costituzionale della decisione
del Consiglio.
Infine una revisione, pur atipica, di fatto avviene quando si fa ricorso alla cosiddetta clausola di flessibilità ex art 352
TFUE: consente alle istituzioni dell'UE di adottare una misura che si ritiene necessaria ma che non può fondarsi su poteri
attribuiti espressamente alle istituzioni dai trattati pur rientrando tra le competenze dell'UE. Ci si trova in una situazione
di confine nella quale si ritiene utile adottare una nuova misura, un atto del Consiglio, in un materia di competenza
dell'UE, ma per la quale i trattati istitutivi non prevedono espressamente l'attribuzione di poteri in capo alle istituzioni.
Nel tempo la clausola di flessibilità è stata modificata, in particolare nelle condizioni per la sua applicazione e per la
procedura. Oggi è previsto che la misura di cui si parla possa essere adottata con delibera unanime del Consiglio su
proposta della Commissione previa approvazione del Parlamento Europeo novità introdotta dal Tr di Lisbona, prima si
limitava ad offrire un parere- ha quindi un potere di veto, sostanzialmente, sulla adozione di atti ex art 352. E' necessario
che le misure fondate su quest'articolo non comportino l'armonizzazione con le disposizioni nazionali, non abbiano un
contenuto normativo tale da sostituirsi alle regole nazionali in un determinato settore, né può servire per conseguire
obiettivi legati alla PESC. Vi sono dei paletti che sono stati inseriti nel Tr. di Lisbona per evitare che l'adozione di queste
misure sconfini in settori nei quali gli Stati non vogliono che le istituzioni vadano oltre quanto espressamente previsto dai
Trattati. Nella modifica di Lisbona si è voluto dare un ruolo ai Parlamenti Nazionali, nel senso che la Commissione è
tenuta a trasmettere questi progetti di misure ai Parlamenti Nazionali per consentire a questi ultimi di esercitare i poteri
attribuiti dal protocollo sul principio di sussidiarietà, cioè di utilizzare quel sistema di allarme preventivo che consente di
esprimere un parere su una nuova proposta legislativa. L'art 352 richiede alla Commissione di richiamare l'attenzione dei
Parlamenti Nazionali sulle proposte dal punto di vista del rispetto del principio di sussidiarietà. Una serie di cautele con
cui si cerca di aggravare il procedimento per il ricorso a questa clausola che pur sempre comporta l'espansione dei poteri
delle istituzioni al di là di quanto previsto dai trattati per cui in deroga al principio di attribuzione. Dalla giurisprudenza
della Corte di Giustizia si evince che il ricorso a questa clausola debba essere l'estrema ratio.

27 ottobre 2014

Ragazzi oggi continuiamo il nostro discorso relativo alle fonti primarie del diritto dell'Unione Europea e lo facciamo
riprendendo l'argomento relativo ai Trattati Istitutivi come fonti primarie; ne abbiamo parlato per indicare anche quali
sono le procedure di revisione dei Trattati, qual è il valore che hanno nella gerarchia delle fonti dell'Unione ed oggi
cerchiamo di capire quali sono gli effetti giuridici dei Trattati in base ad una serie di principi che una volta di più non
trovate codificati nei Trattati stessi, ma che emergono dalla prassi soprattutto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Per capire quali sono gli effetti che i Trattati istitutivi producono nell'ordinamento dell'Unione e nell'ordinamento degli
Stati membri è utile far riferimento ad una vecchia causa. La causa in questione è una causa olandese, nel senso di un
rinvio pregiudiziale operato da un giudice olandese, in particolare il giudice doganale, quello che oggi noi chiameremo
una Commissione Tributaria nell'ordinamento interno, a cui veniva posto un quesito tanto semplice quanto decisivo. La
questione era la seguente: a quell'epoca,stiamo parlando dei primi anni '60, il Trattato istitutivo della CEE conteneva, una
serie di regole immediatamente prescrittive che aveva come destinatari gli Stati. Una di queste regole imponeva agli Stati
membri, a partire dall'entrata in vigore dei Trattati Istitutivi nei vari ordinamenti nazionali, di non adottare delle nuove

54
normative capaci di imporre dazi doganali all'importazione delle merci da altri Paesi membri. Siamo quindi in una fase in
cui non si era realizzato lo smantellamento totale delle frontiere al passaggio delle merci nei confini intracomunitari,che è
la situazione ovviamente odierna, eravamo in una fase transitoria in cui in vista del progressivo smantellamento di queste
frontiere, quindi dei dazi doganali all'attraversamento delle frontiere da parte delle merci, si imponeva quantomeno agli
Stati membri di non adottare dei nuovi dazi doganali che colpivano le merci in ragione del passaggio alla frontiera,
clausola che nel commercio internazionale viene spesso utilizzata nei rapporti tra Stati parti di Trattati internazionali e che
viene definita come clausola di stand still. Cosa fa l'Olanda? il Parlamento olandese adotta una legge che va esattamente
in direzione contraria, adotta una legge che impone un nuovo dazio doganale all'importazione delle merci anche di
provenienza di altri Paesi membri, con la conseguenza che una serie di operatori, tra cui gli spedizionieri che si
preoccupano di aiutare le imprese nella gestione delle pratiche di sdoganamento delle merci si vedevano costretti a pagare
quest'ulteriore dazio, tra questi Vangheg e Lots contestano questa misura dinnanzi al giudice olandese. Contestano in
particolare il provvedimento adottato dalle Autorità doganali olandesi con cui si impone il pagamento della merce. Quindi
la causa si presenta come una causa apparentemente semplice, si impugna un provvedimento dell'amministrazione,
provvedimento dell'amministrazione che però evidentemente trova il suo fondamento in una legge, ma questa legge nella
prospettazione dei corretti della causa nazionale è in qualche modo illegittimamente adottata dal Parlamento in quanto
assunta in violazione di un obbligo comunitario. Una legge quindi che per il diritto interno era pienamente valida nel
senso di rispettare la procedura formale che l'ordinamento nazionale richiede,il dubbio era: è questa legge
conforme al diritto dell'Unione Europea? la risposta a questo quesito era ovvia, la risposta era no! La legge non era
conforme. Il problema sta nelle conseguenze, il problema sta negli strumenti attribuiti ai soggetti lesi dalla legge per
evitare che venga applicata nei loro confronti, nel nostro caso per consentire al nostro importatore di non pagare un dazio
in quanto assunto in violazione di una regola comunitaria. Il giudice olandese capisce che si trova di fronte ad una
questione di importanza estrema, cioè quello di sapere se il privato destinatario di un obbligo sulla base di una legge
interna ha a disposizione degli strumenti giuridici, quindi delle reazioni nei confronti di questa legge perché assunte in
violazione del diritto comunitario. Quali sono questi strumenti? Può il privato chiedere al giudice di disapplicare una
legge una legge del Parlamento,che questa legge è contraria al diritto comunitario,il giudice olandese sospende il
procedimento e formula dei quesiti alla Corte di Giustizia attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale,ritiene che la
soluzione di quella causa dipenda da un chiarimento da parte della Corte di Giustizia sulla portata effettiva delle norme
del Trattato e sulla possibilità di queste norme di attribuire dei diritti invocabili in giudizio in capo ai privati che si
sentono lesi dalla violazione del diritto comunitario. In casi del genere ciò che viene in rilievo è il principio della
sovranità nazionale tanto è vero che gli Stati membri intervengono nel giudizio dinnanzi alla Corte perché hanno allora
come oggi la possibilità di farlo in tutte le cause, sostenendo che la prospettazione del giudice olandese quella per cui in
presenza di una violazione del diritto comunitario i diritti attribuiti dal Trattato devono essere tutelati non è corretta, non è
corretta perché siamo in un contesto tipicamente internazionale, si c'è un Trattato, ma i Trattati così come i contratti sono
fatti per essere violati, ed in caso di violazione di un Trattato ammesso che ci sia questa violazione sostengono gli Stati, ci
sono dei procedimenti che il Trattato prevede per punire lo Stato inadempiente questo procedimento si chiama
procedimento di infrazione. Il procedimento di infrazione vede lo Stato rispondere della sua infrazione dinnanzi alla Corte
di Giustizia, se così vuole la Commissione che è l'unica titolata ad accusare lo Stato colpevole dell'inadempimento.
Quindi la risposta degli Stati è stata che c'è già un procedimento codificato nei testi dei Trattati che riguarda precisamente
le conseguenze di un inadempimento, conseguenza di questo inadempimento è soltanto la possibilità per la Commissione
di citare lo Stato dinnanzi alla Corte di Giustizia dopo un lungo procedimento amministrativo e farsi sentir dire dalla
Corte di Giustizia che quello Stato ha mancato i suoi obblighi imposti dai Trattati. Eravamo in una fase in cui non era
stato ancora inserito nel testo dei Trattati la possibilità per la Corte di Giustizia nel procedimento di infrazione di adottare
sanzioni pecuniarie nei confronti dello Stato cosa che invece oggi può avvenire, prima non c'era neanche questo, quindi in
sostanza quello che gli Stati suggerivano è una sorta di indulgenza, una sorta di irresponsabilità, perché sostenevano che
l'unica conseguenza del loro inadempimento fosse una sentenza della Corte di Giustizia che accerta l'inadempimento.
Questa causa arriva dinnanzi ai giudici della Corte di Giustizia, allora i giudici della Corte di Giustizia erano soltanto 7 e
in quel momento la combinazione ha voluto che il settimo posto di giudice che veniva assegnato a rotazione fra i 6 Paesi
membri fosse assegnato all'Italia, quindi l'Italia per quella causa, per quel periodo, aveva 2 giudici alla Corte di Giustizia.
La Corte di Giustizia capisce che si tratta di un passaggio epocale, la decisione assunta in quella causa avrebbe cambiato
non soltanto le sorti della fattispecie concreta, perché poi il giudice nazionale è tenuto a rispettare la pronuncia della Corte
di Giustizia in sede pregiudiziale, ma avrebbe cambiato le sorti in generale dell'applicazione del diritto europeo negli Stati
membri, avrebbe qualificato quei Trattati come capaci di incidere sulle posizioni giuridiche soggettive individuali oppure
no. In sostanza a volte si chiede a cosa servono questi Trattati?

55
Secondo una posizione che aveva una sua rispondenza all'interno della Corte particolarmente condivisa servono soltanto a
creare degli obblighi reciproci fra gli Stati, in modo che se uno Stato non li rispetta pagherà le sue conseguenze sul piano
internazionale, c'è un procedimento codificato nel Trattato che prevede di una Corte ma oltre quello non andiamo. L'altra
posizione che è quella che poi è prevalsa è invece quella per cui i Trattati istitutivi delle Comunità Europee non servono
soltanto a creare obblighi e diritti reciproci fra Stati, non hanno soltanto questa ambizione, ma hanno una natura diversa,
servono a creare un meccanismo di collaborazione che allora sostanzialmente si traduceva nel funzionamento di un
mercato unico, meccanismo di collaborazione che può operare in maniera efficace, l'efficacia sarà sempre uno dei
principali criteri interpretativi della Corte di Giustizia, soltanto se gli obblighi imposti dai Trattati sugli Stati possano
reciprocamente attribuire diritti ai singoli, i singoli sono i veri guardiani del rispetto degli obblighi e quindi i garanti del
funzionamento del sistema, un sistema che può funzionare solo se tutti gli Stati nello stesso momento rispettino le
medesime regole in maniera tale da garantire il funzionamento del mercato unico. Quindi in sostanza dice la Corte di
Giustizia siamo di fronte ad un Trattato di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, ad un Trattato che vede
come protagonisti oltre agli Stati, anche le persone fisiche e giuridiche le quali qualora il Trattato espressamente lo
prevede, ma anche laddove non lo prevede espressamente sono titolari di diritti invocabili in giudizio. Una posizione
totalmente avanzata, rivoluzionaria in quegli anni rispetto alla stessa interpretazione dei Trattati internazionali, dovuta al
fatto che si è voluto qualificare il Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea come un Trattato che ha come
principale obiettivo quello di garantire un mercato interno, quindi un sistema di libera circolazione di prodotti, capitali,
servizi, anche di persone, che non può essere condizionato negativamente dagli inadempimenti degli Stati, i quali hanno
accettato reciprocamente di vincolarsi a quegli obblighi e qualora non li rispettino devono essere chiamati in giudizio
nelle loro articolazioni amministrative, posto che le stesse norme sono capaci di attribuire effetti diretti in capo ai singoli,
cioè attribuire posizioni giuridiche soggettive invocabili in giudizio. Ripeto sia dove il Trattato espressamente lo prevede,
sia dove il Trattato si limita ad imporre obblighi agli Stati come nel nostro caso, la disposizione di cui si occupava la
Corte di Giustizia si limitava a dire: "gli Stati non possono introdurre nuove tasse" non aggiungeva che questo tipo di
disposizione attribuiva diritti ai singoli non c'è bisogno che questo sia espressamente indicato nel testo dei Trattati perché
non è altro che il contrattare dell'obbligo imposto agli Stati, l'obbligo imposto agli Stati non riguarda soltanto il rapporto
tra quello e gli altri Stati,riguarda il rapporto tra quello Stato ed i cittadini che siano cittadini dello stesso Stato o siano
cittadini di un altro Stato. Traducendo questi principi nella fattispecie specifica significa che i Signori Vangheg e Lotts che
ritengono di aver subito un pregiudizio nel senso di dover pagare una tassa in più in base ad una legge assolutamente
conforme agli ordini dell'ordinamento interno ma assunta in violazione del diritto comunitario possono chiedere al
giudice di assumere un provvedimento giurisdizionale capace di annullare le conseguenze negative nei loro confronti di
quella legge. Quindi in sostanza dice la Corte di Giustizia le norme del Trattato laddove impongano un obbligo di non fare
in capo agli Stati producono effetti indiretti, cioè attribuiscono ai privati dei diritti invocabili in giudizio ogni qual volta
siano scritte in modo da provocare questo risultato. I tre parametri che la Corte di Giustizia utilizza per qualificare le
norme del Trattato come capaci di produrre effetti indiretti sono quelli della chiarezza, della precisione e dell'assenza di
condizione (Le norme dei Trattati possono produrre effetti diretti all’interno dei vari stati membri quando queste siano
sufficientemente chiare, precise e incondizionate, ossia non sono soggette all’emanazione di una norma di diritto interno
per essere recepite). Parametri evidentemente presenti nel caso di un obbligo di non fare, è chiaro che il Trattato vieta di
fare qualcosa, se lo Stato lo fa ha assume un provvedimento in violazione di una norma. La Corte di Giustizia arriva alla
conclusione nella sentenza del 5 febbraio '63 Vangheg-Lotts per cui le norme dei Trattati producono effetti diretti e
quindi possono essere invocate dai singoli dinnanzi ad un giudice o dinnanzi all'Amministrazione per chiedere il
rispetto dei loro diritti e quindi inevitabilmente di ignorare o meglio disapplicare la legge dello Stato che contiene
quella violazione. Non è banale che ad un giudice si richieda di ignorare una legge del suo Stato,una legge adottata dal
suo Parlamento secondo le procedure costituzionalmente previste. L'inevitabile conseguenza di questo approccio che ha
messo in crisi molte ricostruzioni anche dottrinali che vedevano con sfavore il fatto che al giudice venga attribuito il
potere di disapplicare una legge dello Stato, dice la nostra Costituzione che i giudici sono sottoposti soltanto alla
legge,tutto sta a capire cosa intendiamo per legge. Se intendiamo la legge come il prodotto dei meccanismi nazionali di
formazione del provvedimento del percorso di legge è chiaro che un risultato del genere non lo possiamo accettare in base
ai principi costituzionali. Invece se intendiamo per legge il frutto di tutti meccanismi di produzione normativa che lo Stato
ha accettato che esistano,compresi quelli che vedono protagoniste le istituzioni dell'Unione nelle materie di competenza
dell'Unione, allora per legge si intende anche quel prodotto. Non bisogna mai dimenticare che queste norme del Trattato
in origine ma anche gli atti adottati dalle Istituzioni non sono una sorpresa, le norme del Trattato per gli Stati sono
esattamente quello che gli Stati hanno scritto. Quindi se gli Stati scrivono che "a partire da oggi nessun provvedimento
può essere adottato da ogni Stato membro che produca un nuovo dazio doganale"questa è la volontà degli Stati, sono gli
Stati che si impegnano a rispettare quegli obblighi che reciprocamente hanno assunto e se questa violazione avviene in

56
maniera che si crei un sistema efficace che non comporti un buco nel funzionamento del meccanismo di collaborazione
dovuto all'inadempimento statale che poi si sottopone forse ad un procedimento di infrazione tra qualche anno la Corte di
Giustizia valuterà se la violazione ci sia stata o meno, l'unico modo per garantire a questo sistema di funzionare in
maniera efficace è quello di garantire i diritti dei singoli. Se il lavoratore viene licenziato in violazione di una direttiva
comunitaria perché ad esempio lo Stato italiano non adotta dei provvedimenti normativi necessari per dare attuazione a
quelle direttive con le norme del Trattato non possiamo aspettare che il lavoratore abbia dalla Commissione l'apertura del
procedimento di infrazione che dopo 3 anni porta forse alla sentenza della Corte di Giustizia, dobbiamo attribuire al
lavoratore, ma anche all'impresa,ma anche a chiunque abbia dei diritti sulla base di una norma comunitaria di poter avere
una tutela immediata soprattutto nei confronti dello Stato inadempiente, perché lo Stato in qualche modo attribuisce dei
diritti scrivendo i Trattati o approvando delle fonti derivate e poi li nega con un provvedimento normativo che va in
direzione opposta. Se si trattasse di 2 leggi interne questo sarebbe assolutamente un comportamento legittimo, un
Parlamento può cambiare idea dopo un anno, dopo un giorno, dopo 40 anni può scrivere una nuova legge che smentisca
quella precedente, su questo non c'è nessuna difficoltà perché c'è un mandato popolare che attribuisce questo potere. Se
questo comportamento va contro gli obblighi comunitari allora il discorso è inevitabilmente diverso, qui si tratta di un
meccanismo che gli Stati o fanno funzionare in maniera corretta oppure non esiste più, se l'Italia non approva una
legge conforme alle direttive comunitarie che impone determinati metodi nel trattamento dei rifiuti allora questo
comporta tra i vari danni anche una distorsione al mercato, perché addirittura sarà conveniente per le imprese di tutta
Europa venirsi a stabilire in Italia, perché trovano la legislazione più generosa dal punto di vista dello smaltimento dei
rifiuti. Nell'ottica comunitaria del mercato interno questa è una distorsione perché le scelte imprenditoriali non si
realizzano sulla base della concorrenza del mercato, ma si realizza sulla base delle deviazioni prodotte dall'ordinamento
che preferisce seguire determinati percorsi piuttosto che altri. Questo è il mantra del diritto comunitario cioè avere un
sistema secondo il quale o lo Stato si comporta bene secondo quelle regole condivise oppure fa saltare il sistema, da qui
una certa testardaggine sia della Corte di Giustizia che della Commissione che sono i garanti del sistema dal punto di vista
del rispetto delle regole nell'insistere sull'applicazione non soltanto fedele ma anche tempestiva del diritto dell'Unione
Europea, perché ogni ritardo, a maggior ragione ogni inadempimento, crea delle disfunzioni che il sistema non può
tollerare altrimenti non funziona bene. Quella sentenza quindi che è ancora oggi il caposaldo del sistema è stata da
questo punto di vista un passo in avanti straordinario nell'attribuire al diritto prodotto da questa nuova organizzazione
internazionale un grado di efficacia e quindi, dal punto di vista dei diritti dei singoli una particolare attenzione,
all'effettività della tutela dei diritti totalmente innovativa, tanto è vero che è la stessa Corte a dire nella sentenza del
febbraio del '63 che questi trattati introducono un sistema di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, sono
innovativi pur rimanendo inevitabilmente ancorati all'ordinamento internazionale posto che si tratta di regole create e
volute con dei Trattati internazionali, la Corte in qualche modo qui mette anche gli Stati dinnanzi alla loro
responsabilità. Nella giurisprudenza successiva la Corte di Giustizia ha precisato che questo avviene sia quando i
Trattati impongono un obbligo di non fare ma anche quando i Trattati impongono un obbligo di fare,allora in
questo caso evidentemente l'invocazione della norma del Trattato serve a reagire contro il comportamento omissivo degli
Stati, pensate alla disposizione che impone l'abolizione di ogni ostacolo alla libera circolazione dei lavoratori, se invece
uno stato del genere permane nell'ordinamento di uno Stato membro, in questo modo pregiudicando il diritto il soggetto
destinatario di questo diritto, può invocarla(la disposizione che impone l'abolizione di ogni ostacolo alla libera
circolazione dei lavoratori) in giudizio per chiedere al giudice di disapplicare la legge che crea l'ostacolo. Qui il percorso
è diverso non c'è un nuovo intervento dello Stato che smentisce una regola del Trattato che impone un obbligo di non fare,
qui c'è invece una norma del Trattato che impone di fare ad esempio di eliminare delle restrizioni, comportamento dello
Stato che invece le mantiene, quindi vi è il diritto del singolo di invocare dinnanzi al giudice quella norma del Trattato per
chiedere la disapplicazione della legge interna incompatibile. E' ovvio che in quest'ottica i privati non possono aspettarsi
soltanto vantaggi, nell'ottica dell'efficacia diretta i privati possono aspettarsi anzi devono aspettarsi anche degli obblighi e
quindi il principio dell'efficacia diretta delle norme del Trattato vale anche nella direzione inversa, pensate ad esempio
alla disciplina sulla concorrenza che impone alle imprese determinati obblighi, obblighi che il Trattato prevede che sono
imposti non agli Stati ma ai singoli. Qui si pone il cosiddetto effetto diretto verticale inverso, cioè lo Stato attraverso le
sue strutture impone ai singoli il rispetto di determinate regole, anche qui c'è efficacia diretta delle norme del Trattato
perchè l'autorità garante della concorrenza applica gli articoli del Trattato sul diritto della concorrenza nei confronti delle
imprese inadempienti. Quindi l'effetto diretto può essere sia verticale ascendente che discendente, ascendente vuol dire
che è il privato che invoca una norma del Trattato nei confronti dello Stato, discendente è l'opposto anch'esso però
emergente dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia con una delle conseguenze dell'applicazione interna del Trattato.
Un problema più delicato si pone rispetto agli effetti diretti orizzontali delle norme dei Trattati, qui stiamo parlando dei
rapporti con lo Stato in una direzione o nell'altra comunque stiamo parlando dell'efficacia delle norme dei Trattati nei

57
confronti dei singoli come destinatari di diritti o di obblighi, il problema si pone nei confronti degli effetti orizzontali cioè
all'applicazione diretta delle norme del Trattato nei rapporta tra privati, qui il Trattato non ci dà indicazioni non ci dice
quali sono le disposizioni che producono effetti diretti orizzontali. Ci sono stati dei casi abbastanza significativi in cui si è
posto ad esempio il caso di un dipendente di una federazione sportiva, l'Associazione dei ciclisti belgi aveva licenziato un
suo dipendente e si riteneva che questa discriminazione fosse legata alla nazionalità del dipendente che non era belga,
quindi il soggetto in questione si lamenta davanti al giudice dicendo che nel suo caso c'è una violazione del Trattato
Istitutivo della Comunità Europea posta in essere da un'Associazione privata, questo comportamento è assunto in
violazione di una norma del Trattato che vieta discriminazione sulla base della nazionalità nello svolgimento del rapporto
di lavoro. Si è detto che le norme del Trattato producono effetti orizzontali, producono effetti anche nei rapporti tra privati
il che è ancora più avanzato in un contesto di origine internazionale, si parla spesso degli effetti orizzontali della
Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo ma non si è mai arrivati veramente a sostenere questa conclusione. Nel caso
del diritto comunitario a partire dai trattati invece è oramai consolidata l'idea per cui la disposizione dei Trattati se chiara,
precisa e incondizionata produca effetti diretti anche nei rapporti interprivatistici. Un altro caso piuttosto recente ha
riguardato non un dipendente ma qualcuno che voleva diventarlo, il Caso Angonese: Angonese era un cittadino italiano
che residente a Bolzano voleva essere assunto dalla Cassa di Risparmio locale, la Cassa di Risparmio è una banca privata.
Nella provincia di Bolzano le assunzioni avvengono sulla base di uno stretto requisito di bilinguismo per cui bisogna
provare la dimostrazione della conoscenza del tedesco in quanto lingua forse più parlata dell'italiano nella provincia di
Bolzano. Il Signor Angonese conosceva benissimo il tedesco infatti aveva studiato e lavorato in Austria ma non possedeva
il patentino che l'amministrazione provinciale di Bolzano rilascia a dimostrazione della conoscenza del tedesco, il bando
della Cassa di Risparmio prevedeva tra i requisiti di ammissione al concorso il possesso di quel patentino per dimostrare
la conoscenza della lingua tedesca. Il Signor Angonese conosceva il tedesco ma non possedeva il patentino,viene quindi
escluso da quel concorso per mancanza di uno dei requisiti, il Signor Angonese va quindi da giudice sostenendo di essere
penalizzato per aver esercitato la sua libertà di circolazione, lui è italiano, è andato in Austria a lavorare e studiare e
questo non gli basta anzi non viene considerato ai fini dell'accesso ad un concorso di lavoro, perché le regole di accesso a
quel posto di lavoro vogliono si la conoscenza del tedesco e lui conosceva il tedesco, ma vogliono che la dimostrazione
della conoscenza del tedesco avvenga soltanto attraverso il patentino. Quindi lui che invece di avere il patentino è andato
a lavorare in Austria facendo qualcosa in più rispetto a quanto è richiesto vene addirittura penalizzato, ed in sostanza
viene penalizzata la sua scelta di recarsi in un altro paese membro, quindi di godere della libertà di circolazione dei
lavoratori e degli studenti in quanto il frutto della sua scelta diventa per lui un pregiudizio. Il giudice di Bolzano si rivolge
alla Corte di Giustizia, leggendo le norme del Trattato si capisce che si tratta di norme di cui sono destinatari gli Stati,
sono gli Stati membri che devono assicurare la libertà di circolazione, non si parla dei rapporti tra privati. La Corte di
Giustizia risponde scegliendo la soluzione più avanzata dal punto di vista dell'integrazione e quindi sostenendo che
escludere il Signor Angonese dalla partecipazione a questo concorso comporterebbe un pregiudizio in capo ad un soggetto
che ha scelto di esercitare uno dei diritti garantiti dal Trattato cioè la libertà di circolazione dei lavoratori. Quindi non
ammettono al concorso a parità di condizioni rispetto a chi invece dimostra la conoscenza del tedesco con altri sistemi,
questo comporta una violazione del Trattato, perché scoraggia i singoli dall'esercizio di una delle libertà fondamentali
previste dal Trattato. Questo comporta che alla fine la clausola della conoscenza della lingua tedesca attraverso il
patentino venga disapplicata nei rapporti orizzontali, anche i rapporti tra privati sono condizionati in maniera immediata
dal rispetto degli obblighi comunitari. I principi dell'efficacia diretta delle norme del Trattato sono valide sia nei rapporti
con gli Stati, sia nei rapporti tra privati, alla condizione che vengano soddisfatte quei requisiti che riguardano la
formulazione stessa della norma, ovvio che finché una norma possa essere invocata in giudizio deve essere capace di
attribuire dei diritti e quindi la Corte a volte ha escluso che alcune disposizioni dei Trattati fossero capaci di produrre
effetti diretti in quanto non chiare, precise ed incondizionate, nel senso di attribuire agli Stati un margine di discrezionalità
per la loro applicazione. Questo avviene ogni qual volta le disposizioni del Trattato prevedano un intervento successivo o
da parte delle Istituzioni dell'Unione Europea, o da parte degli Stati, ad esempio il caso degli aiuti di Stato. Il caso degli
aiuti di Stato il Trattato prevede un intervento della Commissione Europea per qualificare una misura come aiuto di stato,
il divieto degli aiuti di Stato non è di per sé direttamente efficace in quanto necessita dell'intervento della Commissione a
cui il Trattato riserva la competenza per qualificare o meno un intervento statale come un aiuto vietato, le norme che
vietano gli aiuti di stato a determinate condizioni non sono direttamente efficaci. Il problema successivo è quello di capire
quali sono le conseguenze dell'inadempimento, la prima conseguenza è quello che abbiamo detto cioè se uno Stato
membro non rispetta gli obblighi comunitari la prima reazione è quella che viene dal basso cioè del soggetto destinatario
di un diritto che essendo il vero protagonista nel sistema secondo la visione della Corte di Giustizia ha il diritto di
invocare la norma dinnanzi al giudice. Ci sono anche altre conseguenze che fanno in modo che il sistema sia il più
possibile vincolante nei confronti degli Stati ed efficace nei confronti dei singoli, il procedimento di infrazione è uno di

58
questi, ha una sua efficacia deterrente minore rispetto all'efficacia diretta, soprattutto nel sistema attuale in cui la Corte di
Giustizia ha il potere di adottare delle sanzioni pecuniarie nei confronti degli Stati, sanzioni che lo Stato paga all'Unione è
una sorta di multa senza che sia previsto alcun risarcimento al privato. Quindi è un meccanismo che si svolge nei rapporti
tra Commissione da un lato e Stato membro dall'altro, non pare quindi che questo sia un sistema da qualificare come
sistema di tutela se non in via indiretta. Un altro meccanismo però molto più efficace e anch'esso totalmente assente nel
testo dei Trattati è quello che da' la possibilità al giudice nazionale di tutelare i diritti dei singoli giudicando sulla
responsabilità patrimoniale dello Stato membro per la violazione del diritto dell'Unione Europea. Per capire questo
meccanismo è bene partire da un dato quello del silenzio totale del Trattato su questo meccanismo, i Trattati non
prevedono che se uno Stato adotta un comportamento non rispettoso dei suoi obblighi comunitari ne debba pagare
le conseguenze in termini patrimoniali, cioè debba risarcire il danno subito dai singoli in conseguenza
dell'inadempimento. Il Trattato non ne parla ed è logico che non ne parli perché i Trattati che scrivono gli Stati, gli Stati
non ci hanno mai pensato ad auto-flagellarsi in questo modo, inserendo nei Trattati un meccanismo del genere, quindi si
tratta di un meccanismo che deriva dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Giurisprudenza della Corte di
Giustizia che trova un appiglio per altro nemmeno tanto convinto nella stessa giurisprudenza, in una disposizione dei
trattati molto generica per come è scritta ma fonte di conseguenze molto incisive ossia il principio di leale
collaborazione. L'art 4 paragrafo 3 del Tue richiede agli Stati di collaborare in maniera leale con l'Unione Europea per il
raggiungimento degli obiettivi previsti dai Trattati; principio di fedeltà per così dire che non è né originale e né
sorprendente perché è chiaro che gli Stati si vincolano al Trattato internazionale si sottopongono ad un controllo di fedeltà
e rispetto degli obblighi che hanno volontariamente assunto. Il principio di leale collaborazione però assume un
significato molto incisivo perché significa che gli Stati in qualche modo collaborano con l'Unione per il raggiungimento
degli obblighi previsti dal Trattato. La Corte di Giustizia ha letto questo principio introducendovi qualcosa di totalmente
nuovo e l'ha fatto a partire da una causa, ovviamente vi è una pronuncia della Corte e dietro questa pronuncia vi è un
contenzioso e questo contenzioso si svolgeva in Italia nella metà degli anni '80 del secolo scorso tra una serie di lavoratori
di imprese venete e lo Stato. Era successo che una direttiva comunitaria dell '80 a tutela dei lavoratori prevedeva e tutt'ora
prevede anche se è stata più volte modificata la creazione di un fondo di garanzia che intervenga ogni qual volta la
remunerazione del lavoratore non è stata corrisposta in ragione dello stato di insolvenza dell'impresa per cui i lavoratori
svolgono l'attività. Quindi se un'impresa non è in grado di far fronte ai propri obblighi soprattutto nei confronti dei
lavoratori interviene un fondo di garanzia, questa è l'idea della direttiva che si sostituisce all'impresa in stato fallimentare
e riconosce le ultime mensilità del rapporto di lavoro ai dipendenti. L'Italia rispetto a questa direttiva? Ignora questa
direttiva con la conseguenza che per una serie di anni si svolgono procedimenti fallimentari in cui i lavoratori perdono il
posto di lavoro, non vengono remunerati per le ultime mensilità del rapporto di lavoro perché l'impresa per cui lavorano
non hanno liquidità. A questo punto dovrebbe intervenire il fondo di garanzia ma non avendo l'ordinamento italiano
recepito quella direttiva, il fondo di garanzia semplicemente non esisteva, altri Paesi membri invece avevano il fondo di
garanzia e quindi l'intervento della direttiva era semmai ispirato dalla legislazione di questi Paesi; l'Italia invece non
disponeva di questo fondo di garanzia, quindi l'Italia avrebbe dovuto crearlo ex novo; non l'ha fatto quindi questi
lavoratori si rivolgono al giudice del lavoro chiedendo di avere comunque versate queste retribuzioni da parte dello Stato
o in ragione dell'efficacia diretta della direttiva o in secondo ordine, e qui è stata l'intuizione, in ragione dell'obbligo per lo
Stato di risarcire i danni prodotti dal proprio inadempimento in capo ai soggetti destinatari di diritti sulla base delle norme
comunitarie non recepite. La Corte di Giustizia si trova di fronte a questi quesiti pregiudiziali delicati, per cui si trattava di
inventarsi dal nulla un principio totalmente rivoluzionario, quello per cui lo Stato paga i danni ai privati perché non ha
rispettato un obbligo internazionale. La Corte di Giustizia risponde dicendo innanzitutto che la direttiva di cui si
discute non produce effetti diretti perché non è chiara, precisa ed incondizionata questo era da aspettarselo, perché se non
c'è l'effetto diretto vuol dire che tu invochi la direttiva nei confronti del soggetto tenuto al pagamento, se il fondo di
garanzia non c'è, la direttiva non è chiara, non è precisa perché avrebbe dovuto lo Stato creare questo fondo di garanzia?!
La Corte di Giustizia però risponde positivamente al secondo quesito dicendo che in particolare laddove una norma
comunitaria non è provvista di effetti diretti e quindi non è possibile per un privato invocarla in giudizio per ottenere dei
vantaggi, lo Stato membro inadempiente è tenuto a risarcire il danno provocato al privato in presenza di alcuni requisiti,
primo dei quali è che la norma violata sia predestinata ad attribuire diritti ai singoli, cioè che lo scopo della norma violata
sia quello di offrire dei vantaggi al singolo che ricorre e nel nostro caso era così, perché la direttiva sul fondo di garanzia
aveva come effetto quello di attribuire diritti ai singoli, ossia il diritto di poter godere del fondo di garanzia ,se il fondo
non viene creato quel diritto viene pregiudicato. La seconda condizione che non è quella che emerge da questa prima
sentenza che si chiama Frankovich ma meglio dalle successive è quella per cui la violazione deve essere sufficientemente
caratterizzata, cioè deve essere una violazione grave, non qualsiasi violazione del diritto europeo posto in essere da uno
Stato produce una responsabilità patrimoniale. La gravità della violazione si valuta in base ad una serie di parametri

59
relativi al margine di discrezionalità lasciato allo Stato relativi anche alla volontà di violare quindi all'elemento
soggettivo, perché può capitare che una norma comunitaria non sia scritta in maniera chiara e quindi la sua
violazione è più una colpa lieve da parte dello Stato che come tale non produce conseguenze dal punto di vista
risarcitorio. Terza condizione che vale per ogni meccanismo risarcitorio è quello per cui deve esserci un nesso di
casualità tra violazione ed il danno provocato. Dalla sentenza Frankovich emerge che l'inadempimento capace di creare
la responsabilità patrimoniale di uno Stato può essere il frutto dell'attività o meno in questo caso dell'inattività del
legislatore, qui il problema è stato semplice da risolvere perché in quali ordinamenti lo Stato risponde per patto del
legislatore, nel nostro ordinamento non abbiamo questo principio, il legislatore italiano è vincolato al rispetto della
Costituzione. Se il Parlamento adotta una legge incostituzionale risponde patrimonialmente dei danni provocati dalla
legge incostituzionale? No! Noi non abbiamo questo principio(l'Italia), gli altri Stati ce l'hanno noi no, per cui nel nostro
ordinamento l'introduzione del principio invece opposto che riguarda la violazione del diritto comunitario è stata tutt'altro
che banale, in particolare laddove l'inadempimento è riferito al comportamento del legislatore. Quindi il legislatore è
vincolato dal diritto dell'Unione Europea non soltanto nella sostanza cioè deve adottare delle leggi compatibili ma anche
rispetto alle conseguenze, se non adotta leggi compatibili ne paga le conseguenze. Nella prassi dalla sentenza Frankovich
in poi che è una sentenza del '92 però nel frattempo c'è stata un'evoluzione giurisprudenziale particolarmente ricca sia
nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, ma anche nella giurisprudenza del Tribunale italiano per cui questo principio
ormai abbastanza acquisito pur con tutte le difficoltà teoriche, come principio generale che riguarda non soltanto il
comportamento del legislatore che è un classico laddove il legislatore adotta una legge contraria ad una norma del
Trattato, ad un atto derivato, oppure non adotti quello che il diritto comunitario gli impone di fare perché se ad esempio il
Trattato richiede un intervento. Il principio vale anche negli altri casi, cioè nel caso in cui il potere dello Stato
responsabile dell'inadempimento non è il potere legislativo ma il potere esecutivo come il caso dell'amministrazione.
Pensate ad una gara d'appalto in cui il Comune di Napoli esclude un'impresa in violazione di regole comunitarie, la
disciplina degli appalti in sostanza è tutta di origine comunitaria, in quel caso l'imputazione dell'inadempimento e quindi
della responsabilità è in linea di principio in capo all'amministrazione ma anche in questo caso a risponderne è lo Stato nel
suo complesso, vige un principio di unitarietà dal punto di vista della responsabilità, è sempre lo Stato, così come nel
procedimento di infrazione è sempre lo Stato che risponde anche se l'inadempimento è prodotto da un Comune piuttosto
che da una Regione o da una singola amministrazione. Anche nel caso della responsabilità patrimoniale è lo Stato che
risponde ponendosi poi eventualmente il problema della rivalsa nei confronti dell'ente effettivamente responsabile
dell'inadempimento. Questo può riguardare anche il comportamento dell'autorità giudiziaria, qui le cose diventano più
delicate perché qui si tratta di incidere sull'indipendenza del potere giudiziario, sulla libertà che comunque deve essere
assicurata al giudice anche di sbagliare perché se avesse troppo timore di sbagliare probabilmente non assumerebbe
determinate decisioni. Nella giurisprudenza della Corte di Giustizia questo limite di fatto è stato enunciato, nel senso che
se un giudice nazionale non rispetta gli obblighi comunitari, come ad esempio l'obbligo di operare il rinvio pregiudiziale
laddove questo è obbligatorio come nel caso del giudice di ultima istanza che così facendo adotta un provvedimento
giurisdizionale incompatibile con il diritto dell'Unione Europea lo Stato deve risponderne. Da qui le polemiche sulla
responsabilità civile dei magistrati in superamento di una vecchia legge che noi abbiamo ossia la legge del '88 che
prevede una forma di responsabilità non particolarmente incisiva quanto meno secondo questi progetti di riforma che si
stanno presentando.

28 ottobre 2014 (dott.ssa Rolando)

Oggi parleremo dell'azione esterna dell'Unione Europea, argomento che troveremo nel libro in 2 parti:
1) nella parte relativa alla procedura di conclusione degli accordi internazionali ( quindi come vengono fatti gli accordi tra
unione europea e gli stati terzi, stiamo parlando quindi dell'unione europea che agisce come soggetto di diritto
internazionale nei rapporti, includendo quindi al suo interno gli stati membri, in quanto unione di stati e cioè unione
europea); 2) Troveremo questo argomento nel testo anche nella parte relativa alla gerarchia delle fonti. In questa lezione si
parlerà di entrambi , nell'ordine : la competenza dell'Ue a stipulare questi accordi, vedremo poi qual è la procedura per
farlo, quali sono le istituzioni coinvolte nella formazione dell'accordo, gli effetti e poi la gerarchia e quindi la differenza
che c'è tra gli accordi dell'unione europea e gli accordi che invece vengono fatti tra gli stati membri singolarmente ed
eventualmente tra stati membri e stati terzi.

ACCORDI DELL'UNIONE EUROPEA

Se vogliamo considerare i trattati istitutivi, noi oggi abbiamo delle disposizioni che prima non c'erano, cioè gli articoli 21
e 22 del TUE. In particolare, siamo nel titolo V del Trattato sull'unione europea che parla appunto delle "disposizioni

60
generali sull'azione esterna dell'unione" e "disposizioni specifiche sulla politica estera e di sicurezza comune". Noi in
effetti troveremo sempre questa bipartizione tra:

· Trattati stipulati nell'ambito generale delle materie (alcuni di questi, in alcuni settori specifici, hanno procedure
particolari. Ne accenneremo senza entrare nello specifico)

· E poi i trattati che vengono stipulati nell'unione europea nell'ambito della Politica Estera e di Sicurezza Comune
( cioè l'ex secondo pilastro. Avete visto più volte con il prof la particolarità di questo secondo pilastro: cioè il
fatto che sia ancora retto da una procedura intergovernativa. Infatti vedrete che in questo caso ci saranno delle
disposizioni particolari)

Ora, come vi dicevo, l'art 21 del Trattato sull'Unione Europea è molto importante perché contiene dei PRINCIPI e degli
OBIETTIVI che prima trovavamo solamente nelle varie parti dei 2 trattati istitutivi. E, soprattutto, l'art 21 nel paragrafo 3
dice "nell'elaborazione e attuazione dell'azione esterna nei vari settori compresi nel presente titolo ( cioè politica estera e
sicurezza comune); nella parte V del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea ( quindi TFUE) nonché nelle altre
politiche e nei loro aspetti esterni , l'Unione rispetta i principi e persegue gli obiettivi di cui ai paragrafi 1 e 2" ( sono 8
punti in cui sono indicati principi e obiettivi ) .

Quindi noi ora abbiamo un articolo generale, accompagnato anche dall'art 22 che ci conferisce dei binari dell'azione
esterna dell'Unione europea. In effetti, questo articolo vi ha subito dato una ripartizione, cioè vi ha detto: l'azione esterna
nell'ambito della Pesc e seguendo il titolo V del Tfue, quindi vi ha già detto qual è la competenza dell'Unione Europea a
stipulare e questo non è scontato anzi, è molto importante, perché non è sempre stato così. In effetti, il Trattato della
Comunità Europea stabiliva una competenza a stipulare accordi nelle materie previste, quindi si rifaceva interamente al
principio di attribuzione. Ma se noi non avevamo un articolo che precisamente diceva "la comunità europea può
stipulare in questa determinata maniera" se ne poteva evincere che non ci fosse una competenza della comunità europea a
stipulare un accordo internazionale. In questo ha supplito come sempre la Corte di Giustizia, che in un parere molto
importante, il parere AETS ha stabilito il principio del parallelismo delle funzioni: se l'unione europea ha una
competenza, secondo il diritto interno, a normativizzare un determinato settore allora sarà la stessa competenza a stipulare
accordi sul piano internazionale.
[Ripetiamo : siamo nell'ambito dell'azione esterna dell'unione europea. L'unione europea stipula accordi con gli altri Stati
terzi e ,in effetti , stiamo vedendo quando ha competenza a farlo, cioè quando può stipulare questi accordi. Il Trattato CEE non
prevedeva una competenza chiara, si rifaceva in generale al principio di attribuzione, interviene la Corte di Giustizia che, con
questo principio del parallelismo delle funzioni, stabilisce una equiparazione: se l'Unione europea può normativizzare una
competenza sul piano interno, evidentemente ha quella stessa competenza a stipulare un accordo internazionale].

In realtà il parere AETS va anche oltre. Voi sapete che a quel tempo non c'era una esplicita ripartizione delle competenze
e quindi, in effetti ,il parere AETS dice che c'era un parallelismo tra le competenze interne nel momento in cui siano state
adottate delle norme di diritto derivato dall'Unione europea, rispetto alla residua competenza degli Stati. Mi spiego
meglio: se io unione europea ho normativizzato quel settore, evidentemente tu stato membro in quella stessa materia non
potrai più fare un accordo con uno Stato terzo, perché se lo farai, immancabilmente andrai a compromettere l'efficacia di
quella norma di diritto derivato che l'unione europea ha adottato. Allora questo è il doppio aspetto della medaglia che
dobbiamo sempre vedere: l'unione europea ha una competenza a stipulare un accordo con altri stati membri perché
se la stessa competenza fosse esercitata dagli Stati singolarmente potrebbe compromettere l'efficacia di quegli atti
adottati. E si va anche oltre in realtà, perché si parla di "atti adottati", anche in base alla teoria dei poteri impliciti,
perché si parla di una competenza comunque esercitata. Per questo si va anche oltre alla lettera del trattato, pur
interpretandola in coerenza con tutti i suoi principi e obiettivi, perché abbiamo parlato appunto di un problema di efficacia
dell'azione dell'unione europea .

Interviene successivamente una seconda sentenza: la sentenza Kramer. Nella sentenza Kramer, la Corte parla di un
parallelismo delle funzioni non solo con riferimento a una competenza già esercitata, ma anche con riferimento a dei
poteri comunque attribuiti sul piano interno all'unione europea, il cui esercizio avvenga in occasione dell'accordo. Cioè
l'unione europea non ha ancora adottato delle direttive, non ha ancora normativizzato quel settore. (Cosa vuol dire? voi
sapete che anche nell'ambito delle competenze esclusive dell'unione europea, finché non c'è stato l'esercizio dell'unione
europea, in teoria gli Stati potrebbero continuare a utilizzare le loro norme nel settore).

Qui, quindi, stiamo parlando del momento in cui una competenza non è stata ancora esercitata dell'unione europea ma, si
dice, se questa stessa competenza deve essere esercitata nel momento in cui si stipula l'accordo, vale lo stesso principio.

61
Però , nella formula in cui ve l'ho letto e che troverete sul libro, vi rendete conto che è una formulazione che può essere
anche letta in maniera molto più estensiva, perché stiamo togliendo la competenza agli stati membri riguardo un settore in
cui la competenza non è stata ancora esercitata. E allora, in effetti, c'è stata una sentenza più recente in cui la corte di
giustizia ha ridimensionato questo principio.

Si tratta del caso Commissione contro Danimarca. Facciamo un esercizio di logica: In base a quello che ci siamo detti,
quale potrebbe essere una delle procedure con le quali questi principi vengono esplicitati? noi abbiamo parlato di
competenza dell'unione europea a stipulare degli accordi e non più competenza degli stati membri a stipulare accordi.
Allora, secondo voi, come può essere portata una questione innanzi alla corte di giustizia ? (un ragazzo risponde
,sbagliando: "conflitto di attribuzione", l'assistente dice che questa procedura è tipica della corte costituzionale nostra,
mentre quando viene lesa una competenza dell'unione europea normalmente si parla di "azione di annullamento".
Un altro risponde, giustamente: procedura di infrazione. Cioè, se uno Stato, fa un accordo con uno stato terzo e lo fa in un
settore in cui non poteva più farlo, sta violando il diritto dell'unione europea. Proprio da questo deriva il caso
Commissione contro Danimarca, perché la Danimarca aveva fatto degli accordi con gli Stati Uniti sul cosiddetto "open
sky", cioè sul Traffico aereo e la Commissione intenta una procedura di infrazione innanzi alla Corte di Giustizia perché
dice che la Danimarca, nel momento in cui ha stipulato questo accordo, ha violato il diritto dell'unione europea. Ve lo
leggo: "la commissione addebita al regno di Danimarca una violazione della competenza esterna della comunità,
derivante dall'assunzione degli impegni controversi". Essa sostiene a riguardo che tale competenza (cioè quella
competenza esterna che sarebbe stata violata) deriva, da un lato, dalla necessità di concludere a livello comunitario un
accordo contenente siffatti obblighi ( in coerenza con quello che abbiamo detto riguardo alla sent. AETS). Vi rendete
conto che in questo caso la Commissione sta parlando prima che sia stato concluso un atto, cioè dice "tu Danimarca non
lo potevi fare perché questi stessi obblighi li dovevo adottare io unione europea" ma evidentemente non è ancora stato
fatto! E allora, è su questo profilo che la corte di giustizia, seguendo quelle che erano state le conclusioni dell'Avv.
Generale Tizzano, nella sua giurisprudenza ha precisato che l'ipotesi contemplata nel parere AETS è quella in cui la
competenza interna può essere esercitata utilmente soltanto contemporaneamente con la competenza esterna. Cioè, noi
abbiamo un esercizio contemporaneo nel momento in cui stipuliamo un accordo, della competenza interna e della
competenza esterna. Cioè, perché quell'esercizio della competenza interna è necessario perchè sennò l'accordo non
potrebbe essere utilmente preso. Ma questo non è il caso di specie! Perché nel caso di specie, la Danimarca ha concluso
un accordo, ma su qualcosa che non era normativizzato dall'unione europea e, in particolare, si parlava di un vettore
aereo che partiva dagli stati uniti e che poi poteva transitare verso altri stati. E, di conseguenza, la Corte dice che la
Danimarca non aveva violato il diritto dell'unione europea nella parte in cui aveva stabilito e mantenuto quel genere di
accordi. Aveva però violato il diritto dell'unione europea nel momento in cui con quello stesso accordo aveva disciplinato
le tariffe aeree, le modalità di prenotazione online del sistema telematico di prenotazione e aveva riconosciuto agli Stati
Uniti il diritto di revocare e rifiutare i diritti di traffico aereo. Perché? perché quei settori fanno parte degli obiettivi
dell'unione europea (libera circolazione di servizi), perché quei settori fanno parte del diritto dell'unione europea nel
momento in cui riguardo alla procedura telematica di prenotazione c'era già stato un regolamento dell'unione europea.
Allora, l'altro lato della medaglia qual è? Se c'è stato un esercizio di una competenza, lo stato membro non può più
fare un accordo internazionale perché lo deve fare l'unione europea e perché quell'accordo internazionale
lederebbe il diritto dell'unione europea e quindi, è passibile di procedura di infrazione perché ha violato i suoi
obblighi . Però, nel caso in cui una competenza non sia stata ancora esercitata e non abbia un incidenza sugli
obiettivi del diritto dell'unione europea , lo stato membro può adottare degli accordi. L'unione europea può adottare
degli accordi con gli altri stati membri nel caso in cui abbia già esercitato una competenza a livello interno, perché in quel
caso è il soggetto che meglio può disciplinare quella materia. Può farlo, se non lo ha ancora fatto , cioè se non ha ancora
adottato atti di diritto interno, ma lo fa nel momento della stipula dell'accordo, se in quel momento gli aspetti esterni e
interni sono intimamente connessi per raggiungere gli obiettivi dell'accordo, altrimenti abbiamo un ridimensionamento di
questo parallelismo delle competenze. Quindi lo stato può esercitare una competenza se non viene esercitata
dall'unione ma sempre facendo attenzione a non andare contro anche i principi dell'unione europea. In questo caso
la Danimarca aveva violato il principio generale dell'unione della libera circolazione di merci e una serie di
obiettivi specifici dell'Ue, ad esempio la gestione delle prenotazioni online.

Quindi, lo stato non può emanare atti nelle materie che ha devoluto all'unione europea, certo se noi parliamo di un settore
come la libra circolazione di merci o servizi è evidente che gli stati hanno margini di manovra pressoché nulli, perché
stiamo parlando di un settore talmente tanto importante e centrale nella costituzione dell'unione che evidentemente
qualsiasi cosa che possa stabilire lo stato, immancabilmente comprometterà l'efficacia dell'accordo. Voi dovete pensare
cosa succede sul piano pratico: se io stato faccio un accordo con un altro stato e quella disposizione entra in conflitto con

62
il diritto dell'unione europea, come si regola? Lo avete studiato in diritto internazionale: la successione dei trattati; da un
lato c'è il trattato che vincola lo stato all'unione europea e dall'altro c'è un trattato che vincola uno stato ad un altro stato
membro; io devo rispettare tutti quegli obblighi che mi sono impegnato a rispettare con la firma e la ratifica del trattato
sull'adesione all'unione europea. In uno dei settori più importanti quali "circolazione di servizi , capitali e merci ecc" lo
spazio sarà pressoché minimo ma, se è una competenza che non è stata esercitata e che disciplino con l'altro stato membro
in modo che non posso ledere il diritto dell'unione europea (perché non ledo nessun obiettivo di una competenza),
probabilmente c'è un margine di manovra di uno stato . Quindi questo è l'altro lato della bilancia.

PROCEDURA PER STIPULARE ACCORDI

Detto questo , ci divertiamo con la procedura che viene utilizzata negli accordi , non prima però di aver letto un articolo
fondamentale in cui troverete sintetizzato tutto quello che vi ho detto: art 216 TFUE. Il Discorso che abbiamo appena
fatto è stato necessario per comprendere bene la formulazione di questo articolo "l'unione può concludere un accordo con
uno o più stati membri o organizzazioni internazionali" :

· Qualora i trattati lo prevedano

· Qualora la conclusione dell accordo sia necessaria per realizzare nell'ambito degli equilibri dell'unione , uno degli
obiettivi fissati nei trattati

· Sia prevista da un atto giuridico dell'unione ( es. una norma di diritto derivato )

· Possa incidere su norme comuni o alterarne la portata. ( qui abbiamo il riferimento all'esercizio di una competenza
comunque fatta dall'unione europea che depaupera il potere degli stati membri di poter esercitare un accordo
personalmente .)

Vedrete poi che anche nel testo, il prof strozzi e Mastroianni parlano di una competenza che mano mano diventa esclusiva
dell'unione europea nell'ambito della stipula degli accordi internazionali .

Dopo l'art 216 c'è il 217 che però parla di un particolare settore di accordi, perché vedrete che ci sono particolari
discipline per gli accordi di associazione (art 217) oppure per gli accordi di politica commerciale comune o cooperazione
di stati terzi per aiuto umanitario.

Ma la procedura standard è stabilita dall'art 218 TFUE. Vediamo i vari step. Innanzitutto:

· coinvolgimento delle istituzioni: secondo voi, quali sono le istituzioni principalmente coinvolte nella stipula di un
accordo internazionale ? Consiglio ( perché in ragione della sua composizione con esso emerge la volontà degli stati
di vincolarsi) , Commissione ( perché è l'esecutivo, però in realtà il ruolo della commissione è particolarmente
rilevante nell'ambito degli accordi conclusi nella disciplina del titolo V TFUE . Vedrete che se parliamo di accordi
conclusi nell'ambito pesc, il ruolo fondamentale sarà ricoperto dall'alto rappresentante del consiglio. Se parliamo di
accordi conclusi nell'ambito pesc il ruolo preponderante sarà occupato dalla commissione e consiglio). Chi manca ?
evidentemente il Parlamento( ne parleremo dopo perché vedremo anche il ruolo che ha assunto in questo particolare
settore).

Come si comincia? si comincia con la commissione o l'alto rappresentante che propongono al consiglio l'autorizzazione
ad aprire i negoziati . In realtà non stiamo parlando di una proposta ma di una raccomandazione ( nel testo è precisato
questo punto). Perché una raccomandazione e non una proposta? [voi sapete che negli atti di diritto derivato c'è una vera e
propria proposta della commissione europea, no? invece qui abbiamo una raccomandazione che in qualche modo è
qualcosa di minus ( per quanto raggiunga lo stesso obiettivo )]. La soluzione è nell'art 293 "quando, in virtù dei trattati
delibera su proposta della commissione, il consiglio può emanare la proposta solo deliberando all'unanimità" ( noi invece
vedremo che la gran parte delle decisioni del consiglio verranno adottate a maggioranza qualificata; sarà adottata
all'unanimità solamente quando siamo nell'ambito di un settore che prevede l'unanimità come sistema di adozione della
competenza interna, altrimenti a maggioranza qualificata. E se invece noi avessimo una proposta, per emendarla noi
dovremmo avere per forza l'unanimità e soprattutto dobbiamo pensare che le proposte sono atti particolarmente lunghi, c'è
già proprio uno schema dell'atto normativo sul quale lavoreranno, a seconda della procedura, consiglio e parlamento .
Invece in questo caso noi non dobbiamo già stipulare un accordo perché non sappiamo come questo accordo verrà
stipulato, quindi nella raccomandazione abbiamo una linea di massima dell'oggetto dell'accordo, di che senso avrà , di

63
cosa si vorrà normativizzare con questo accordo internazionale ma non abbiamo una vera e propria proposta dell'accordo
perché dobbiamo ancora iniziare i negoziati . E i negoziati ci saranno poi nel momento in cui questo testo verrà redatto.

· A questo punto il consiglio emana una decisione a maggioranza qualificata ( a meno che non si richieda l'unanimità) e
con essa inizia il secondo step . Con questa decisione stabilisce tre cose fondamentali :

· Autorizza ad aprire i negoziati

· Designa il negoziatore ( che potrà essere la commissione , l'alto rappresentante , una squadra di negoziatori o un altro
soggetto )

· Il consiglio può anche Designare un comitato con il quale il negoziatore deve confrontarsi ( quindi ci sono delle
direttive da seguire , un indirizzo politico. Tali direttive potranno essere seguita ma anche cambiate e/o adattate nel
corso dei negoziati)

· Abbiamo un testo di accordo e il negoziatore lo sottopone al consiglio.

· Il consiglio , emana una decisione con cui autorizza alla firma . La firma ed eventualmente un applicazione
provvisoria del contenuto del trattato . (Voi vi ricordate che la firma non è già ratifica a meno che non siate in un
accordo in forma semplificata ma noi ora stiamo parlando della procedura standard , procedura dell'accordo in forma
solenne )

· A questo punto il negoziatore propone di adottare una decisione di conclusione. Il consiglio adotterà una decisione di
conclusione, poi ci sarà la notifica e lo scambio delle notifiche e con questo stesso atto, che potrà essere direttiva o
altro atto , le modalità di esecuzione dell'accordo. Queste modalità di esecuzione a volte vengono adottate con lo
stesso atto di conclusione dell'accordo ; altre volte la conclusione dell'accordo c'è ; c'è un vincolo dell'unione
europea ; l'accordo internazionale entra in vigore ma poi nel tempo si adotteranno delle direttiva che veramente
andranno a disciplinari i vari settori che sono stati coperti dall'accordo . Quindi abbiamo scambio e deposito delle
ratifiche e quindi abbiamo l'accordo .

Invece se abbiamo un accordo in forma semplificata, con la stessa decisione con cui si aprivano i negoziati, avremo il
conferimento del potere al negoziatore che già con la firma comporterà il vincolo dell'unione europea all'accordo. Chi
stiamo dimenticando? il Parlamento. Il Parlamento in realtà interviene realmente solo prima della decisione di
conclusione, cioè quella decisione finale con la quale abbiamo il vincolo dell'unione europea e può intervenire in 3 modi :

· Abbiamo un potere di approvazione

· Mera consultazione

· E in linea di massima abbiamo sempre soltanto un diritto di informazione

( Vi spiego:) se riprendiamo un attimo l'art 218 vedrete al par.6 il consiglio su proposta del negoziatore adotta una
decisione sull'accordo, quindi siamo nell'ultima fase, ( la penultima prima dello scambio delle ratifiche evidentemente )
tranne quando l'accordo riguarda la pesc ( perché abbiamo detto che lì c'è una procedura a parte ), il consiglio adotta la
decisione di conclusione dell'accordo o previa approvazione del parlamento europeo nei settori elencati o previa
consultazione del parlamento europeo negli altri casi ( consultazione: che vuol dire ? che il parlamento esprime un parere
non vincolante , che dovrebbe essere tenuto in conto , nel termine conferito dal consiglio ma se in tale termine non
sopraggiunge il parere del parlamento, il consiglio va avanti . In effetti abbiamo un potere in cui il concreto effetto si
vedrà solo con la prassi ).

Il paragrafo 7 di questo articolo vi disciplina gli accordi in forma semplificata, cioè una deroga ai paragrafi 5 (decisione di
autorizzazione alla firma),6 ( coinvolgimento del parlamento europeo) ,e 9 ( lo vedremo).

Una cosa molto importante soprattutto alla luce di una recentissima sentenza è il paragrafo 10 : "il parlamento europeo è
immediatamente e pienamente informato di tutte le fasi della procedura"; questa è una delle classiche disposizioni che
hanno un valore solamente vedendo la prassi. Se io non informo il parlamento europeo o lo informo in ritardo , che
succede? L'accordo è minato, cioè può essere intaccato da questa consultazione? io pensavo di no ma, evidentemente,
ultimamente c'è stato un cambiamento in merito, un cambiamento che vi fa capire quanto stia cambiando l'unione europea

64
in senso democratico, cioè quanto si voglia tenere conto del peso del parlamento europeo per rispondere ad esigenze
anche di deficit di democrazia di cui tanto sentiamo parlare. Allora c'è questa sentenza che non c'è sul testo perché è di
Giugno 2014 in cui abbiamo da un lato il Parlamento europeo che va contro il Consiglio: cioè il Parlamento europeo
impugna con l'azione di annullamento, la decisione con la quale il consiglio aveva concluso un accordo internazionale, si
tratta di un accordo internazionale firmato con la repubblica di Mauritius ed è un accordo internazionale emanato
nell'ambito della pesc, cioè un settore in cui il parlamento europeo avrebbe solamente quel potere di informazione. Questo
accordo trattava delle condizioni di trasferimento delle persone sospettate di pirateria e relativi beni sequestrati da parte
della forza navale diretta dell'unione europea alla repubblica di Mauritius. Quindi evidentemente stiamo parlando di un
settore di politica estera e sicurezza comune. Bene, cosa succede? Che si fanno i negoziati e a seguito dei negoziati il
consiglio, sulla base degli articoli 37 TUE e 218( cioè le basi giuridiche dell'adozione di atti in questo settore), ha
adottato questa decisione (impugnata), con la quale autorizza la firma dell'accordo e questa decisione viene pubblicata in
gazzetta ufficiale, l'accordo viene firmato nel giugno 2011 e viene applicato provvisoriamente. Il consiglio però informa il
parlamento europeo nell'ottobre 2011 (quindi con ritardo). Quindi il parlamento europeo fa causa al consiglio con azione
di annullamento perché la decisione violava l'art 218: a sostenere il parlamento europeo c'è la commissione europea ; a
sostenere il consiglio invece c'era la rep. Ceca , la rep. Francese e italiana , regno di Svezia , regno unito e di gran
Bretagna e Irlanda del nord. La corte dice: l'art 218 prevede 3 tipi di procedura di conclusione di un accordo
internazionale ( cioè abbiamo quelli in cui il parlamento europeo approva la conclusione di un accordo; quelli in cui è
semplicemente consultata e quelli in cui è esclusa come quelli della pesc, fatto però sempre salvo quel suo diritto ad
essere immediatamente e pienamente informato). La corte riconosce che l'ambito era prettamente quello della pesc per cui
l'unico potere spettante al parlamento europeo era quello di essere informato, ma effettivamente il parlamento non era
stato informato e né si può dire, come aveva fatto il consiglio, che la decisione era stata pubblicata in gazzetta ufficiale e
quindi il parlamento avrebbe potuto saperlo, perché in ogni caso il parlamento non ne era stato informato. Ne consegue
che il consiglio ha violato l'art 218 par 10 , considerato un requisito di forma sostanziale ai sensi dell'art 263, la cui
mancanza comporta la nullità dell'atto viziato : è nulla la decisione di conclusione dell'accordo, questa regola è
l'espressione dei principi democratici sui quali l'unione si fonda. In particolare, la corte ha precisato che la
partecipazione del parlamento europeo è il riflesso di un principio democratico fondamentale, in base al quale i popoli
partecipano all'esercizio del potere per il tramite di un'assemblea rappresentativa.
Questo è quello che volevo farvi presente: la violazione di un mero potere di informazione ha un peso importante ,
soprattutto per il nuovo indirizzo in senso democratico che si vuole dare all'unione europea. Se pensiamo agli effetti di
questa decisione , questi sono veramente gravi : abbiamo una decisione dell'unione europea con la quale si è impegnata
con uno stato che è nulla. Ne deriva dunque che la decisione dell'UE che si vincola con le Mauritius è nulla, quindi
quell'accordo non c'è, non vincola l'unione europea e questo potrebbe comportare sia conseguenze a livello di
responsabilità ma, a parte questo, sicuramente non è una bella cosa che ci si vincola con un accordo che poi è nullo
( brutta figura quanto meno). In effetti però il parlamento europeo con la sua richiesta non aveva chiesto un annullamento
sia della decisione sia del vincolo ma , aveva chiesto qualcosa di diverso e cioè di annullare la decisione ma facendo salvi
gli effetti della decisione (quindi in modo che l'impegno preso con la repubblica di Mauritius rimanesse intatto e non ci
fosse un cambiamento internazionale in tal senso). Tuttavia, doveva essere presa una nuova decisione facendo rendere
conto al consiglio che la mancata informazione al parlamento europeo rendeva qualsiasi decisione nulla: dunque, doveva
essere considerato pro futuro . Sul piano pratico questo annullamento della decisione non produce effetti ( cioè sul piano
internazionale, perché gli effetti della decisione rimangono in vigore) ma abbiamo avuto l'espressione di principi
democratici molto forti nella sentenza . [l'intenzione del parlamento era proprio quella di ottenere un'enunciazione di
principio che riconoscesse l'importanza della consultazione ] .

Ultima precisazione prima di andare a parlare della gerarchia delle fonti: abbiamo parlato delle varie istituzioni ma non
abbiamo parlato del controllo della corte di giustizia, o meglio , abbiamo visto un potere della corte di giustizia adita
seguendo una delle procedure stabilite dal trattato ma, in realtà, nel caso degli accordi internazionali c'è anche una
procedura ulteriore che è stabilita al paragrafo 11 dell'art 218 secondo il quale uno stato membro, il parlamento europeo ,
il consiglio o la commissione possono domandare il parere della corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo
previsto con i trattati: in caso di parere negativo della corte, l'accordo previsto non può entrare in vigore, salvo modifiche
dell'accordo o revisione del trattato.
[Quello che viene emesso dalla corte di giustizia in questo caso è un parere ( infatti prima vi parlavo di un parere AETS)].
Quindi si può richiedere un parere della corte di giustizia già prima della conclusione dell'accordo, in modo da evitare che
si stipuli un accordo e poi si scopra che in realtà quell'accordo viola le competenze dell'unione europea e non sia stato
legittimamente adottato e ci si sia vincolati illegittimamente. In effetti proprio il parere era stato uno dei modi con cui il

65
parlamento europeo aveva fatto sentire la sua voce. Un'altra procedura con la quale il parlamento europeo può far sentire
la sua voce è stabilita dal regolamento del parlamento europeo all'art 90, con cui il parlamento europeo può chiedere al
Consiglio di non autorizzare l'apertura dei negoziati. Quello che sarà in concreto il peso del parlamento europeo lo
vedremo nel tempo. In questo caso noi non abbiamo la violazione dell'art 218 come prima ma abbiamo in generale la
richiesta di far andare i negoziati e l'adesione dell'unione europea in un certo senso. Se quello che fa valere il parlamento
europeo è un motivo connesso a una competenza dell'unione europea, chiaramente il punto di forza del parlamento
europeo sarà poi chiedere il parere della corte di giustizia, perché se aveva ragione la corte di giustizia con il suo parere
vincolante non permetterà più l'adesione all'accordo. Se invece ci sono ragioni di carattere politico a quel punto vedremo
il peso del parlamento europeo. Io sinceramente mi sarei aspettate che soprattutto nei casi in cui abbiamo un'approvazione
del parlamento europeo ai negoziati, in via formale partecipasse un membro del parlamento europeo (ad oggi invece il
Parlamento viene consultato solo successivamente).

EFFETTI DEGLI ACCORDI INTERNAZIONALE

Li vediamo al par 2 dell'art 216 , in cui si dice che gli accordi conclusi dall'unione vincolano le istituzioni dell'unione e
gli stati membri . Quindi gli accordi internazionali nel momento in cui vengono conclusi , automaticamente fanno parte
dell'ordinamento giuridico dell'unione europea, automaticamente hanno degli effetti a meno che le disposizioni di questi
accordi siano non self-executing , che come avete visto devono essere disposizioni chiare e precise e non devono avere
bisogno di procedure successive che in concreto ne assicurino il funzionamento.

In terzo luogo abbiamo che ,visto che entrano a far parte del diritto dell'unione europea , vi è un controllo della corte di
giustizia. E poi queste disposizioni dei trattati, come disposizioni del diritto dell'unione europea possono avere effetti
diretti, quindi possono essere impugnate dai singoli cittadini, un particolare caso lo vedremo negli accordi misti. Cosa
sono gli accordi misti? se abbiamo una competenza concorrente tra Unione europea e stati membri, in questo caso
abbiamo una procedura particolare. Perché? Perché l'unione europea, non avendo una competenza esclusiva nel settore,
ha bisogno anche che ci siano gli Stati. Si chiama accordo misto perché i negoziati , così come la firma avvengono da
parte del Consiglio questa volta (perché il consiglio? perché il consiglio è l'espressione dei capi di stato e di governo e
quindi è l'espressione degli stati ) e da parte degli stati membri. Cioè l'unione europea e gli stati che si vincolano agli
accordi internazionali: non abbiamo più solo l'unione che di per sé può adottare delle decisioni che valgano per gli stati
membri, ma abbiamo Unione e Stati : accordo Misto . L'accordo quindi dovrà essere ratificato dall'unione e dagli Stati.

Quando un accordo entra a far parte del diritto dell'unione europea , ha una posizione subordinata ai trattati istitutivi
(TFUE e TUE) ma sovraordinata rispetto agli atti di diritto derivato. Quindi se dovessimo pensare alla gerarchia vediamo:
1. Trattati
2. Accordi
3. Atti Di Diritto Derivato

Cosa vuol dire ? vuol dire che l'accordo deve rispettare tutto quanto espresso dai trattati (competenza ,raggiungimento
degli obiettivi, obblighi , principi , procedure , ecc ) perché ogni violazione incide sulla validità dell'accordo. Ma a sua
volta l'accordo, dato che in base all'articolo 216 par 2 vincola le istituzioni e gli Stati, è parametro di legittimità per gli atti
di diritto derivato. Cioè , se viene adottata una direttiva che viola un accordo di diritto internazionale stipulato dall'unione
europea , quella direttiva potrà essere annullata dalla corte di giustizia. Se un'istituzione dell'unione europea ha dei
comportamenti o stabilisce degli obblighi che ledono un accordo internazionale, quell'istituzione starà violando l'accordo
e il diritto dell'unione europea che tramite l'arte 216 stabilisce che quell'accordo è vincolante e che è parte
dell'ordinamento dell'unione europea. In questo senso è parametro di legittimità .

Ora andiamo sul punto pratico : vi ho dato due elementi e vi ho detto : da un lato, c'è un accordo che deve conformarsi al
trattato; dall'altro c'è il parere della corte di Giustizia. Cioè al di là delle procedure che abbiamo visto prima, la corte di
giustizia può essere adita prima della conclusione di un accordo chiedendo un parere sulla compatibilità con il trattato. Vi
dico subito che uno dei casi in cui la corte di giustizia adita ha espresso un parere negativo per quanto riguarda le
competenze, è proprio il caso della convenzione europea dei diritti dell'uomo . Cioè, venne richiesto il parere della corte
di giustizia sulla possibilità dell'unione di aderire alla convenzione europea dei diritti dell'uomo e con parere un la corte di
giustizia disse che non c'era una competenza dell'unione europea a tutelare i diritti fondamentali e di conseguenza l'unione
europea in quel momento non poteva aderire la convenzione europea dei diritti dell'uomo. Cosa doveva cambiare? Lo
dice l'articolo: se c'è una incompatibilità, o cambia il trattato o cambi l'accordo. In quel caso è cambiato il trattato:
quell'art 6 del TUE che esplicitamente ora ha conferito la competenza dell'unione europea ad aderire alla CEDU. Se

66
invece usciamo dalla competenza e proviamo a parlare di un altro problema che potrebbe riscontrarsi tra un accordo
internazionale e il funzionamento dell'unione europea, dobbiamo interrogarci su questo: che tipo di accordo potrebbe
andare contro l'unione europea ? che cos'è che potrebbe minare il funzionamento dell'unione europea? Vi provo a dire
innanzitutto che spesso gli accordi internazionali normalmente prevedono anche dei sistemi per definire degli eventuali
conflitti che sorgono in seno alla convenzione ,cioè , qualcuno dei membri di una convenzione o accordo internazionale
viola una disposizione dell'accordo oppure ci sono dei dubbi interpretativi , ci deve essere ( non una corte ) ma dei
COMITATI o qualcosa che redima le questioni relative a quell'accordo : ed ecco qui qual è il problema.

Cioè , se io , nel caso di un accordo internazionale creo una seconda Corte , ecco là il problema dell'unione europea: che
rapporto avrà questa seconda corte con la corte di giustizia ? In effetti, se vogliamo dircela tutta, uno dei problemi
dell'adesione alla convenzione europea dei diritti dell'uomo era proprio questo, cioè capire ora quali saranno i rapporti tra
corte di giustizia e corte europea dei diritti dell'uomo. Si vuole evitare che la corte dei diritti dell'uomo si pronunci prima
che sia stata adita la corte di giustizia ( questo non c'è sul testo ).

Questo problema si era posto anche con riferimento ad un altro trattato internazionale che si stava stipulando che è il
trattato AELE, cioè :( stiamo parlando del 1991) si voleva creare una zona di libero scambio tra stati dell'Ue. Dovete
immaginare che siamo nel '91 e l'unione europea non aveva 28 stati, ne aveva molti di meno ( 15 o 17) e si voleva creare
anche con gli altri paesi che non facevano parte dell'unione europea una zona di libero scambio. [La differenza tra zona di
libero scambio e unione doganale: libero scambio, vogliamo avere una zona in cui c'è la libera circolazione delle merci;
con l'unione doganale ci sono tra gli stati delle norme comuni sui dazi].

L'unione europea è un'unione doganale , quello che si voleva creare con questo trattato era una zona di libero scambio
anche con altri stati, che oggi fanno parte dell'unione europea quindi non si pone più il problema .

L'AELE voleva formare una corte formata da 8 giudici di cui 5 della corte di giustizia e si stabiliva con questa corte che la
corte AELE avrebbe stabilito l'interpretazione delle disposizioni dell'accordo AELE che si sarebbe rifatta alla
giurisprudenza della corte di giustizia . Qual è il problema ? se Per un problema non c'era una pronuncia della corte di
giustizia , ma si andava a stabilire per la prima volta un principio in un settore così importante come la zona di libero
scambio che ha a che fare con la libera circolazione di merci , servizi , ecc , allora che succedeva ? La corte di giustizia
doveva adeguarsi a quello che la corte dell'AELE aveva stabilito? La corte di giustizia avrebbe perso la competenza a
interpretare le disposizioni relative a una delle 4 libertà fondamentali : evidentemente questa cosa era incompatibile . E
allora , fu chiesto un parere alla corte di giustizia la quale espresse un parere negativo perché diceva che i 5 giudici che
sedevano tanto nella corte di giustizia quanto nella corte AELE saranno in una posizione di incompatibilità ma soprattutto
perché se la libera circolazione delle merci nell'ambito dell'AELE è uno degli obiettivi , nel caso dell'unione europea è
uno degli strumenti per raggiungere degli obiettivi che vanno oltre. Quindi in questi settori non ci possiamo vincolare con
altri stati ma dobbiamo avere una competenza esclusiva , abbiamo bisogno di interpretarli in maniera più ampia e , di
conseguenza la corte disse che il trattato AELE non poteva essere concluso . In questo caso si è cambiato il trattato con
l'AELE e venne istituito un comitato esclusivamente per quei paese che non facevano parte dell'unione europea , questo
per farvi capire quanto sia importante questo parere preventivo della corte di giustizia , perché impedisce di vincolarsi al
trattato ma permette di capire subito quali possono essere i problemi di quel trattato e di regolarsi in fase di negoziato
modificando il contenuto di questo accordo internazionale. Questo mi serviva x farvi capire come si struttura questa
gerarchia (1. Trattati istitutivi 2. Accordi internazionali 3. Diritto derivato).

EFFETTI DIRETTI DEGLI ACCORDI INTERNAZIONALI

Tali accordi se contengono disposizioni dotate dei requisiti necessari, possono attribuire alle persone fisiche e giuridiche
dei diritti e degli obblighi invocabili innanzi al giudice nazionale. Ma soprattutto la corte di giustizia ha spesso stabilito
che questi effetti diretti non vi siano in relazione agli accordi internazionali più importanti e cioè il GATT, l'OMC e il
TRIPS . Se normalmente ci sono i requisiti ma quell'accordo stabilisce una chiara clausola di reciprocità ( soprattutto
nell'ambito dell'OMC in cui c'è una reciproca convenienza) allora la mancanza di reciprocità ad opera delle controparti
esclude l'efficacia diretta dell'accordo internazionale. Cioè, se le due parti dell'accordo internazionale hanno fatto sì che ci
fosse questa clausola di reciprocità [cioè garantire alle proprie parti gli stessi diritti che vengono garantiti dall'altra parte
dell'accordo ], se dall'altra parte dell'accordo non esiste il riconoscimento dell'effetto diretto , in virtù di questa clausola di
reciprocità non verranno riconosciuti all'interno dell'unione europea ( gli effetti diretti ) .

67
ACCORDI CONCLUSI TRA STATI MEMBRI

Fino ad ora abbiamo parlato degli accordi conclusi dall'unione europea, abbiamo parlato degli accordi misti; ora parliamo
degli accordi tra stati. Nel caso dell'unione europea ci sono spesso delle decisioni che vengono assunte che per quanto
collegate all'unione europea , non sono altro che accordi tra stati ( per esempio la nomina di giudice della corte di giustizia
). Tale nomina viene fatta in seno ad un consiglio ma non è altro che un accordo internazionale , se non è un accordo
internazionale dell'Ue, non va letto ai sensi dei paragrafi dell'art 216, cioè quell'accordo non entra a far parte del diritto
dell'unione europea e , di conseguenza , non c'è una competenza della corte di giustizia in merito . Anche perché è raro
che un accordo stabilito da una procedura dell'unione possa violare il diritto dell'unione stessa; piuttosto il problema si
pone quando l'accordo avviene tra uno stato membro e uno stato terzo. In questo caso , ha molta importanza se si tratta di
un accordo che è stato stipulato prima o dopo la creazione dell'unione europea perché tutte le disposizioni di cui abbiamo
parlato valgono soltanto se l'accordo si astato stipulato dopo, se è stato stipulato prima, lo stato non aveva ancora devoluto
la sua sovranità all'Ue, per cui non aveva nessun vincolo, quindi quell'accordo non violerà l'Ue e non sarà invalido. In
questo caso vale l'art 351 Tfue e cioè , vengono fatti salvi i diritti e gli obblighi adottati sulla base del trattato
precedentemente vigente , tuttavia lo stato si deve impegnare affinché l'applicazione e l'interpretazione di quell'accordo
sia orientata al rispetto dei vincoli che si sono ottenuti con l'adesione all'unione europea. In più bisogna fare in modo di
riaprire in modo di riaprire i negoziati e fare un nuovo accordo che sia compatibile ( questo non è un obbligo ma una
possibilità che si dovrebbe portare avanti in virtù del principio di leale collaborazione ) .

Ma soprattutto , le istituzioni dell'unione europea sono tenute a non intralciare il rispetto degli accordi internazionali già
in vigore per il detto stato membro e cioè devono fare un passo indietro e non possono fare in modo che quello stato violi
un accordo con gli stati terzi.

E quindi , solo in questo caso abbiamo questo particolare rapporto tra accordo internazionale con stati terzi e accordo di
adesione all'unione europea , perché viene fatto salvo il principio della successione dei trattati in base alla convenzione di
Vienna e quindi i principi del diritto internazionale che vigono in materia. Chiaramente , se sono accordi conclusi dopo
non valgono queste regole e vale la violazione e tutto quello che ci siamo detti . Lo stato non può adottare quell'accordo
ma lo potrà fare nelle materie in cui l'Ue non ha ancora esercitato la sua competenza .

29 ottobre 2014

PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO

Non sorprende che anche l’ordinamento dell’Ue come l’ordinamento internazionale ed alcuni ordinamenti nazionali
conosca delle fonti non scritte che fanno parte del sistema normativo nel suo complesso e che hanno la funzione di
colmare le lacune che si presentano in un ordinamento derivato come quello dell’Ue. Il testo dei trattati non fa riferimento
esplicito alla presenza di questa categoria di fonti: infatti trattandosi di fonti non scritte la loro rilevazione spetta alla
Corte di Giustizia. In realtà nei trattati qualche piccola indicazione la rinveniamo, come nel campo della responsabilità
extracontrattuale dell’Ue: l’art. 340 TFUE 2° comma chiarisce che in materia responsabilità extracontrattuale l’Unione
deve risarcire i danni cagionati dalle sue istituzioni e dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni conformemente ai
principi comuni ai diritti degli Stati membri. La disciplina di tale azione non trova una sua codificazione nei trattati per
quanto concerne le sue condizioni ma vi è un rinvio ai principi generali comuni degli Stati membri. Il secondo riferimento
lo troviamo all’art. 6 TUE: esso è la codificazione della giurisprudenza della Corte in materia di tutela dei diritti
dell’uomo. Esso prevede che la tutela dei diritti fondamentali s’impone all’Ue e che questo avviene attraverso
l’applicazione della CEDU. All’ultimo comma però si mantiene la regola che i trattati già contenevano prima della
codificazione della CEDU, cioè quella per cui i diritti fondamentali come garantiti dalle tradizioni costituzionali comuni e
dalle Convenzioni internazionali che vincolano l’Ue (ed in particolare la CEDU) fanno parte dell’Ue in quanto principi
generali.

Che posizioni hanno questi principi nel sistema delle fonti?


Il trattato non dice se sono fonti primarie o meno. Ecco perché si deve far riferimento alla giurisprudenza della Corte di
Giustizia che ha fornito diverse soluzioni. Innanzitutto ritiene che i principi generali non scritti vincolano le istituzioni
dell’Ue nell’esercizio dell’attività amministrativa e normativa e quindi si pongono in una posizione superiore rispetto agli
atti delle istituzioni. I principi generali del diritto fungono da parametro di legittimità degli atti di diritto derivato.
Quindi i principi vincolano anche gli Stati. Questo fenomeno si riscontra in particolare nell’ambito della tutela dei
diritti fondamentali dell’uomo. Es. Decisione quadro sul mandato di arresto europeo. Quando lo stato membro dà
attuazione alla direttiva, l’atto di recepimento che lo Stato adotta deve essere conforme a delle regole di base
dell’ordinamento di provenienza della direttiva. Quindi lo Stato non è soltanto vincolato al raggiungimento degli obiettivi
che la direttiva indica ma in più è tenuto a dar contro alla propria attività normativa di recepimento della direttiva in

68
maniera conforme ai principi generali dell’ordinamento dell’Ue.
Quali sono i rapporti tra i trattati istitutivi ed i principi generali? Non c’è un chiarimento nel trattato!!
Il problema sta nel capire se anche le norme dei trattati devono fare i conti con l’esistenza dei principi generali. Una
ricostruzione abbastanza diffusa ritiene che i principi sono subordinati ai trattati, cioè in quanto tali non possono derogare
alle norme del trattato. Ma si rinvengono nella giurisprudenza della Corte alcune decisioni in cui anche le disposizioni del
trattato vengono “interpretate” ed applicate in maniera conforme ai principi generali. Es.:
· Sentenza con cui la corte di Giustizia ha ammesso il Parlamento Europeo al ricorso per annullamento degli atti
dalle altre istituzioni nel momento in cui i trattati istitutivi non lo prevedevano tra i soggetti legittimati ad adire la
Corte di Giustizia attraverso il ricorso in annullamento anche il parlamento europeo. La Corte ha riconosciuto tale
possibilità al Parlamento sulla base del principio del corretto equilibrio istituzionale. Tale soluzione è stata poi
recepita nel testo dei trattati: infatti adesso il parlamento europeo è espressamente menzionato fra i soggetti dotati
di legittimazione attiva per l’impugnazione degli atti delle altre istituzioni dell’Ue.
· Tutela dei diritti fondamentali, quando la Corte ha detto che essi sono così importanti nell’ordinamento dell’Ue
ritenne che essi non possono essere violati o affievoliti attraverso l’applicazione di norme dei Trattati. Anche qui
la Corte ha attribuito a tali principi un valore superiore rispetto ai Trattati.

La Corte di Giustizia nel ricostruire i principi generali adotta diverse tecniche. La soluzione più ortodossa è quella di far
riferimento alla distinzione tra:

1) principi generali ricavati dagli ordinamenti nazionali(o dall’ordinamento internazionale)


2) principi propri dell’UE

1)Principi generali ricavati dagli ordinamenti nazionali


Essi sono:
· Principio del contraddittorio;
· Diritto alla riservatezza;
· Certezza del diritto;
· Principio di legalità;
· Principio del legittimo affidamento.

2)Principi propri dell’UE

Essi hanno come obiettivo non solo quello di colmare le lacune dell’Ue ma anche quello di individuare dei criteri di base
relativi alle applicazioni delle norme europee nei rapporti tra istituzioni europee e Stati membri. Es.:
· Principio di leale collaborazione: è espressione di un vincolo al rispetto degli obblighi dell’Ue. La violazione di
ciò ha portato la Corte di Giustizia a ritenere che la violazione di questo principio porta ad una responsabilità
patrimoniale dello Stato.
· Principio di equilibrio istituzionale, principio per cui nei rapporti tra le istituzioni deve essere garantito un
equilibrio tale da evitare che una delle istituzioni abbia un ruolo più intenso diverso rispetto agli altri.
· Effetto utile per cui le regole del diritto dell’Ue devono essere accompagnate il più possibile da un altissimo grado
di efficacia negli ordinamenti nazionali. Bisogna garantire l’effettività delle regole dell’applicazione
nell’ordinamento nazionale.

Alcuni principi elaborati dalla Corte sono stati codificati nel testo dei Trattati. Uno di questo è il principio di
proporzionalità. Esso ha origine nell’ordinamento tedesco. La Corte di Giustizia lo utilizza per richiedere alle istituzioni
dell’Ue ed agli Stati membri un applicazione proporzionata di una serie di regole in particolare quelle disposizioni che
consentono di adottare misure sanzionatorie.
Se è vero che anche gli Stati membri sono tenuti a rispettare dei principi generali bisogna chiarire che ciò avviene soltanto
nei casi in cui gli Stati membri intervengano nel campo di applicazione del diritto dell’Ue. Non è facile capire dove
finisce il campo di applicazione del diritto dell’Ue. Ciò ha portato la Corte di Giustizia a sostenere spesso che determinate
questioni( sottoposte al suo esame attraverso il rinvio pregiudiziale) non meritassero una risposta in quanto i principi
invocati si tendeva ad applicarli in un contesto meramente nazionale (cd. situazioni meramente interne).
Quindi l’idea è quella per cui se è vero che i principi generali dell’Ue impongono comportamenti anche agli Stati, ciò
avviene laddove gli Stati operino nel campo di applicazione del diritto dell’Ue. Laddove la materia è disciplinata dal
diritto dell’Ue( e quindi gli Stati membri intervengono perché richiesta dall’Ue), allora in linea di principio la garanzia di
tutela è quella offerta dalle regole provenienti dall’Ue a meno che la disciplina di base non consenta agli Stati membri di
adottare una protezione più intensa (garanzie UE + garanzie stati). Es. caso sulla decisione quadro del mandato d’arresto
europeo. Esso ha l’obiettivo di facilitare la consegna di una persona sottoposta a procedimento penale o già condannato in un
altro Stato membro ad un altro Stato( Stato A chiede la consegna del soggetto Stato B in quanto qui stabilito). Questo
provvedimento deve essere accompagnato da una serie di garanzie ma la Francia si chiese se potesse aggiungere ulteriori

69
tutele rispetto a quelli previsti dalla decisione quadro. La Corte ha risposto di si. Quindi possono verificarsi dei casi di cumulo
ma resta il fatto che i principi generali dell’ordinamento dell’Ue intervengono solo nei casi in cui gli Stati applichino il diritto
dell’Ue.

Una delle lacune che l’ordinamento dell’Ue presentava originariamente si ha un ambito di tutela del diritto dell’uomo.
Excursus storico: Inizialmente i trattati istitutivi non prevedevano alcuna garanzia in materia di tutela dei diritti
dell’uomo. Le motivazioni sono:
· Le comunità economiche si occupavano solo di ambito economico;
· Gli stati membri erano vincolati anche alla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (che ha l’obiettivo di
garantire un’efficace tutela dei diritti fondamentali).

Ben presto però si è evidenziata la necessità di una tutela specifica di tali diritti fondamentali nell’ordinamento dell’Ue in
quanto anche le attività svolte dalle istituzioni comunitarie potevano indicare in maniera negativa sulla tutela dei diritti
fondamentali. Uno dei casi che si è presentato alla Corte riguardava il caso di una coltivatrice tedesca che in ragione
dell’applicazione delle norme comunitarie da un momento all’altro ha dovuto smettere di produrre dei prodotti violando
così il suo diritto di iniziativa economica ed il suo diritto di proprietà. La coltivatrice impugna la direttiva dinanzi alla
Corte di Giustizia però mancava una norma del Trattato che imponesse alle istituzioni il rispetto dei suoi diritti
fondamentali che legittimava il suo diritto alle impugnazioni. Quindi mancava il fondamento normativo per giustificare
l’impugnazione del provvedimento ritenuto contrario ai diritti dell’uomo.
In assenza di tale parametro era difficile contestare in giudizio una regola comunitaria in quanto la Corte di Giustizia non
aveva una fonte di riferimento tant’è vero che la Corte ha ritenuto che fosse incompetente a pronunciarsi rispetto ad un
ricorso presentato da un privato nei confronti di una decisione della Commissione in cui si lamentava la violazione di un
diritto fondamentale così come tutelato da una costituzione nazionale. Questa presa di posizione, corretta dal punto di
vista tecnico, lasciava pure una grossa lacuna. Ciò ha motivato alcune Corti costituzionali nazionali e cercare un sistema
alternativo e lo hanno trovato nella teoria dei contro-limiti, per cui se è vero che l’ordinamento nazionale e le
competenze degli Stati membri sono limitati dalla presenza dell’ordinamento comunitario non si può consentire
all’ordinamento comunitario di mettere in discussione i principi supremi dell’ordinamento costituzionale nazionale ed i
diritti fondamentali dell’uomo così come tutelati dalla Costituzioni interne. Barriere che vengono poste rispetto ad un
sistema che però riconosce le limitazioni di sovranità (sent. Frontini). La Corte di Giustizia ha creato un sistema
alternativo facendo ricorso ai principi generali, cioè ritenne che l’ordinamento comunitario non può accettare una lacuna
in materia di diritti fondamentali ed il meccanismo di tutela di ciò consente alla Corte di ricostruire essa stessa dei principi
generali del diritto prendendoli da due fonti esterne all’ordinamento dell’Ue:
· Tradizioni comuni delle varie costituzioni degli stati membri. Es. Sentenza che riguarda la disciplina italiana
del falso di bilancio. Il principio della retroattività delle norme penali favorevoli è un principio ricavato
dall’ordinamento italiano ed assunto così a rango di principi generali.
· Testo internazionale esterno all’UE che si occupa dei diritti dell’uomo. Es. CEDU che offe il vantaggio non
solo di un testo scritto ma anche di un corpo giurisprudenziale, cioè la giurisprudenza della Corte dei diritti
dell’uomo, capace di dare un’interpretazione uniforme del testo.

Qual è lo svantaggio del sistema? Difficoltà di conoscenza di quei diritti fondamentali che un soggetto ha nei confronti
dell’Ue, perché? Mancava un catalogo di tali diritti! Si è posta pertanto l’esigenza di seguire il meccanismo di affidare
ad una convenzione il compito di redigere una carta dei diritti fondamentali dell'UE: si è così elaborata la Carta di
Nizza proclamata nel 2000 ma divenuta obbligatoria solo con il trattato di Lisbona. Esso non ha inglobato tale Carta ma vi
fa rinvio. L’art. 6 TUE infatti non ripete il testo della Carta ma vi fa rinvio attribuendole il rango di fonte primaria
all’interno dell’ordinamento comunitario. L’art. 6 ha precisato inoltre che le disposizioni della Carta non ampliano le
competenze dell’Ue( Es. art. 2 Carta, che vieta la pena di morte, ha poco a che fare con gli obiettivi dell’Unione Europea)
e pertanto interviene nei confini delle competenze dell’Ue.
E’ poi precisato che i diritti elencati nella Carta sono interpretati tenendo conto di:
· Disposizione finale della carta( dedicata proprio all’interpretazione della stessa);
· Testo di spiegazione della Carta, redatto dal Presidente della Convenzione.

La Carta Europea dei diritti è stata proclamata, come dicevamo, a Nizza nel 2000 ed oggi è il testo di riferimento per la
tutela dei diritti fondamentali dell’Ue. Bisogna capire che rapporto c’è tra l’art. 6 TUE e la Carta, cioè ci si chiede: che
senso ha l’art. 6 TUE (che come sappiamo consente la creazione di nuovi principi) se esiste la Carta?
L’art. 6 è una specie di clausola di chiusura, che consente alla Corte di intervenire aggiornando i principi codificati in
materia dei diritti fondamentali.
La Carta consente una serie di disposizioni raggruppate in vari titoli. Essa da un lato sancisce diritti nuovi(come ad
esempio la protezione di dati di carattere personale) dall’altro ripropone diritti già trattati(e quindi riformula i diritti già
elencati nei trattati istitutivi).
Il Titolo VII riguarda le regole generali di applicazione della carta.

70
Chi sono i destinatari della Carta?
· Istituzioni dell’Ue + organi ed organismi che partecipano alla vita istituzionale dell’Ue.
· Stati membri esclusivamente nell’ambito dell’attuazione del diritto dell’Ue.

Esaminiamo ora le regole su qual è il rapporto tra carta e liste di diritti fondamentali.
Se vi è coincidenza nella formulazione dei diritti, la Carta deve essere interpretata in maniera conforme alla
CEDU( cioè traendo ispirazione dalla giurisprudenza della Corte della CEDU). Quindi c’è un vincolo d’interpretazione
della Carta rispetto alla CEDU.
Al paragrafo 4 dell’art. 52 della Carta si precisa che qualora la carta contenga dei diritti che risultano dalle tradizioni
costituzionali comuni le disposizioni della Carta possono essere interpretate solo in maniera da essere conformi a quelle
tradizioni. Inoltre tale art. ci dice che le disposizioni della Carta non possono essere interpretate in maniera da limitare
i diritti e le libertà fondamentali riconosciuti nel rispettivo ambito di applicazione delle costituzioni nazionali. Che
significa?
Significa che questa disposizione è una sorta di garanzia del rispetto dei confini, cioè le Costituzioni nazionali
continuano a trovare applicazione laddove la Carta non interviene e la presenza della stessa non deve servire da
giustificazione per limitare i diritti fondamentali riconosciuti dalle Costituzioni nazionali nel modo in cui siano
eventualmente limitati dalla Carta. Deve essere cioè limitato quel fenomeno di speen over( cioè quel fenomeno di
estensione del campo di applicazione di questi diritti anche laddove le costituzioni mantengano una propria riserva in
ambito). Inoltre viene precisato che la Carta, a differenza della CEDU, contiene l’enunciazione del diritto ma non le
eventuali deroghe a questo, perché? Perché si è deciso di fare riferimento per rinvio ai limiti previsti dalle fonti di
ispirazioni. Quindi si conoscono i diritti ma non si conoscono le deroghe degli stessi.

3 novembre 2014

DIRITTO DERIVATO

E' di per sé una peculiarità del diritto dell'unione, nel senso che altre organizzazioni internazionali che si basano sul
trattato istitutivo producono atti, che prendono nome di atti di dritto derivato, cioè dal trattato originario, posto cioè dai
redattori dei trattati, cioè degli stati membri, degli stati contraenti. All'interno dell'unione europea la produzione
normativa, il diritto derivato, è un fenomeno senza precedenti. La produzione normativa è immensa, dal punto di vista
quantitativo, al punto che in tempi recenti si è resa necessaria la codificazione di questi atti. Dal punto di vista qualitativo,
il diritto dell'unione è dotato spesso dell'effetto diretto, di applicarsi cioè agli stati membri senza misure di
intermediazione.

E' in corso un procedimento di gerarchia delle fonti all'interno dell'ordinamento dell'unione.

-Panoramica generale:

la divisione generale si deve fare tra atti vincolanti e atti non vincolanti. Gli atti vincolanti producono obblighi giuridici
tutelabili innanzi all'istituzione giudiziaria, tendenzialmente la corte di giustizia, ma spesso e volentieri anche davanti al
giudice nazionale. Gli atti non vincolanti invece non producono effetti giuridici obbligatori, ma producono altri effetti,
valutabili caso per caso, e questi effetti possono essere non secondari.

Sono vincolanti i regolamenti, le direttive e le decisioni. Sono non vincolanti i pareri e le raccomandazioni.

Principio sostanzialistico: la sostanza prevale sulla forma. Non conta cioè come l'atto viene denominato, ma conta il
contenuto. Quindi un atto denominato vincolante può essere trattato come un atto non vincolante, e viceversa.

Più recente è la distinzione tra atti legislativi e atti non legislativi (DOMANDA D'ESAME).
Come distinguere gli atti legislativi da quelli non legislativi? Qui il principio sostanzialistico non c'entra. Ma occorre fare
riferimento ad un dato formale che non è il nome iuris, ma è la procedura di adozione dell'atto: l'atto è legislativo se è
adottato con procedimento legislativo ordinario o speciale. Gli atti non legislativi: atti che non sono adottati dal
parlamento e dal consiglio. Il sinonimo di atti non legislativi è atti regolamentari. E questa definizione rileva ai fini del
ricorso di annullamento, che prevede condizioni diverse per legittimazione attiva al procedimento, la legittimazione dei
privati ad impugnare questi atti, a secondo che si tratti di atti a portata generale o a portata individuale, da un lato, e atti
legislativi o non legislativi, è facile intuire che impugnare un atto regolamentare è più facile rispetto ad impugnare un atto
legislativo. Abbiamo quindi la distinzione tra atto di secondo e di terzo grado. In linea di principio il diritto derivato è
composto da atti di secondo grado. Di secondo, perché gli atti di primo grado sono in senso stretto i trattati. Una parte

71
della dottrina ha operato una precisazione: ha affermato che i trattati non sono atti dell'unione bensì atti degli stati (che
adottano i trattati). Il diritto secondario trae legittimazione dal diritto primario, cioè si fonda, è adottato su una base
giuridica contenuta nel diritto primario. Gli atti del diritto secondario sono adottati perché vi è una disposizione del diritto
primario che legittima la loro adozione. Il ché è importante perché l'unione si fonda sul principio delle competenze
attribuite, principio del conferimento, principio di attribuzione, l'unione non è che può adottare atti così, ha bisogno di una
disposizione che giustifichi il proprio intervento. Per questo si parla di diritto di secondo grado. Ebbene ci sono anche gli
atti di terzo grado, che sono quelli la cui fonte è un atto di secondo grado. Qui abbiamo atti di terzo grado delegati e di
esecuzione.

-Infine abbiamo alcune categorie residuali: gli atti. Che si distinguono in atti tipici, atti atipici e atti non previsti. Gli atti
tipici sono direttive, regolamenti, decisioni, pareri e raccomandazioni.

Gli atti atipici sono atti che in realtà, che forse dovrebbero essere definiti come atti con effetti atipici, perché hanno lo
stesso nome iuris degli atti tipici ma hanno effetti o caratteristiche diverse.

Gli atti non previsti sono atti che hanno anche diversa denominazione, le più importanti sono le comunicazione, non sono
previste nell'elenco di atti tipici eppure sono frequentissime e importantissime. Sono state utilizzate dalla commissione
per far progredire il diritto dell'unione da anni: abbiamo i libri bianchi, i libri verdi, sono tutti atti non previsti ma molto
importanti soprattutto dal punto di vista politico. (conclusa la panoramica della categoria degli atti dell'unione).

Aspetti comuni al diritto derivato (questione trasversali)

Gerarchia: nel trattato di Lisbona si afferma che non vi è una gerarchia formale tra gli atti, a differenza del trattato
costituzionale. Sembra però che gli atti che modificano il diritto primario, è un esempio l'art 25 par. 2 in materia di
cittadinanza, siano sovraordinati rispetto ad altri atti, si dice sono sostanzialmente sovraordinati.
Inoltre è evidente che gli atti di terzo grado, quindi gli atti esecutivi e delegati, sono sottoposti ai limiti fissati nell'atto
base, che è un atto di secondo grado, quindi sembra esserci una chiara subordinazione. Ad ogni modo la questione della
gerarchia è ancora in definizione. E' stato in passato ritenuto che gli atti legislativi, dove si prevede una maggiore
partecipazione del parlamento, dovevano essere sovraordinati agli atti non legislativi.

Scelta del tipo di atto: nel caso della decisione, tendenzialmente potremmo dire perché è un po' più semplice, perché
dovrebbe avere portata individuale (e non portata generale) e quindi la scelta è facile, perché dipende dallo scopo per cui
adottiamo l'atto. Se il trattato espressamente afferma che conferisce all'unione il potere di adottare un tipo di atto, ebbene
si può adottare solamente quello, se c'è una base giuridica che prevede l'adozione di direttive, ad esempio l'art 115 del
TFUE in materia di ravvicinamento delle legislazioni nazionali, conferisce al parlamento e al consiglio il potere di
attribuire direttive per il riavvicinamento di tali legislazioni. Se si parla di direttive, evidentemente non si possono
adottare regolamenti. Il trattato spesso però non indica il tipo di misura da utilizzare, oppure genericamente si parla di
"misure adeguate". In questo caso come si fa? Le istituzioni possono scegliere, rispettando il principio di sussidiarietà
e proporzionalità.

In particolare, in allegato al trattato di Amsterdam vi era anche un protocollo che spiegava in maniera più chiara come
dovevano essere esercitati questi principi nella scelta dell'atto. Si diceva tra i regolamenti e le direttive bisogna preferire la
direttiva perché lascia agli stati più margine di manovra, sembra più conforme al principio di sussidiarietà che come
abbiamo detto potrebbe avere come corollario il principio di prossimità sull'idea che l'attività legislativa avvenga per
quanto possibile vicino al cittadino. Si diceva in questo protocollo che le direttive quadro devono essere preferite alle
direttive dettagliate. Questo protocollo è stato abrogato, ma sembra che le disposizioni contenute possono costituire un
ausilio interpretativo dei principi di proporzionalità e sussidiarietà.

Obbligo di Motivazione degli atti dell'unione

Il legislatore interno non deve motivare, ebbene nel diritto dell'unione questo non è accettabile, probabilmente perché
l'unione trae origine dai trattati istitutivi e può agire nei limiti previsti da quei trattati. Eppure è un principio sacrosanto
che non ammette deroghe, ogni volta che l'unione agisce deve spiegare il perché. C'è un preambolo prima degli atti in cui
si dà conto o ragione delle motivazioni per cui l'atto è stato adottato. Tale motivazione è obbligatorio ai sensi dell'art 296
TFUE. Lo scopo della motivazione è evidenziare l'iter logico seguito dalle istituzioni per l'adozione dell'atto. I vari punti

72
del preambolo si chiamano "considerando". C'è poi la parte successiva detta "parte operativa". Il preambolo non può
essere utilizzato per derogare la parte dispositiva dell'atto e inoltre per quanto è un'utile ausilio interpretativo della parte
operativa dell'atto, non può essere usato per interpretazioni contra legem della parte operativa. Quindi in caso di conflitto
tra la parte operativa e preambolo, prevale la parte operativa. Tendenzialmente però, avviene l'opposto: il preambolo viene
utilizzato per chiarire la parte operativa. Talvolta nella parte operativa si limita ad elencare una serie di requisiti di un
prodotto. Gli stati possono aggiungere nuove condizioni? Spesso non si capisce dalla parte operativa. Ebbene in questi
casi la lettura del preambolo è d'ausilio, perché si spiega magari che la finalità della direttiva è creare un'armonizzazione
esaustiva dei requisiti del prodotto e quindi gli stati non possono aggiungere altri requisiti. Quanto al contenuto della
motivazione è evidente che lo stesso cambio a seconda della natura e dell'obiettivo dell'atto. Per gli atti a portata generale,
occorre semplicemente indicare la situazione complessiva che ha condotto alla adozione dell'atto e gli obiettivi perseguiti.
In particolare, secondo la Corte di giustizia, sarebbe eccessivo pretendere dal legislatore una motivazione specifica per le
diverse scelte tecniche operate all'interno dell'atto. Tendenzialmente però è motivata in modo specifico. La motivazione
può essere sommaria, ma deve essere tendenzialmente completa. Può essere sommaria, ma in due casi può essere dedotta
dall'insieme delle norme applicabili alla materia. Sono principi giurisprudenziali che la corte ha enucleato in sede di
ricorso di annullamento, perché spesso i privati hanno contestato gli atti per carenza di motivazione e la corte li ha, per
quanto possibili, fatti salvi, soprattutto nei casi in cui la motivazione, sebbene non fosse illustrata dettagliatamente,
potesse essere dedotta indirettamente al complesso delle altre regole applicabili al settore. Quindi la corte ha effettuato un
sindacato sul rispetto dell'obbligo di motivazione, ma questo in alcuni casi è stato abbastanza elastico a vantaggio degli
atti dell'unione. È evidente però che nei casi in cui la motivazione è effettivamente carente o manchi del tutto , questo
comporta l'invalidità dell'atto, che può essere accertata attraverso il ricorso di annullamento, l'eccezione di invalidità o il
rinvio pregiudiziale di validità.

-Base giuridica:[definizione]è l'indicazione della disposizione o delle disposizioni che attribuiscono alle istituzioni
adottanti il potere di adottare l'atto in questione. L' obbligo di indicare la base giuridica ha importanza costituzionale,
secondo la Corte. Ha un'importanza fondamentale. Inoltre la base giuridica risponde ad esigenze di certezza del diritto in
quanto consente il sindacato degli atti, tanto per cominciare, rispetto alle competenze dell'unione, sulla base giuridica, e
poi sul procedimento normativo. Pertanto se abbiamo un atto che poteva essere adottato su due basi giuridiche,
l'indicazione di una ci dà un argomento in più per poterlo contestare e dire “no, quest'atto doveva essere adottato su
un'altra base giuridica”, è un motivo di ricorso. Anche il procedimento normativo: se una base giuridica prevede una
maggiore partecipazione del parlamento e un'altra una minore partecipazione del parlamento, questo può essere
un'ulteriore argomento per attaccare l'atto. Se la base giuridica è omessa o errata, comporta l'invalidità dell'atto. La corte
ha cercato di fare salvo la validità degli atti dell'unione e ha affermato che in taluni casi la base può ricavarsi da dati
contenuti all'interno dell'atto, quindi può non essere espressamente indicata, ma si tratta di casi rarissimi.
Tendenzialmente, all'interno degli atti dell'unione, uno dei primi riti del preambolo è “visto il Tfue” e in particolare gli
articoli, questa è l'indicazione della base giuridica. Come si sceglie la base giuridica? Ne abbiamo tantissime all'interno
del trattato. Come si fa a scegliere? La questione è stata molto controversa. Pensate alla direttiva che riguardava la
pubblicità del tabacco. Sulle sigarette c'è scritto “il fumo uccide”. Questi messaggi sono stati introdotti da una direttiva sulla
pubblicità del tabacco, direttiva che è stata ritenuta invalida proprio per un problema di base giuridica. Quindi una direttiva
che ravvicini le legislazioni degli stati membri in ordine della pubblicità del tabacco quale materia riguarda ? La materia
salute o il mercato interno (libera circolazione di merci)? La questione è controversa. Ci sono due basi giuridiche diverse,
prevedevano due tipi di maggioranze diverse, procedimenti diversi. La corte ha chiarito alcuni criteri nella scelta della base
giuridica. È una distinzione artificiale quella tra salute e mercato interno perché è evidente che le regole per la tutela della
salute adottate dai singoli stati membri possono avere un impatto sul funzionamento del mercato interno. Se in un paese queste
pubblicità non sono previste, e in altri paesi sono obbligatori, è chiaro che lo stesso pacchetto non può circolare liberamente
ma dovrà conformarsi a 28 legislazioni diverse, in assenza di armonizzazione. Pertanto tracciare un confine tra salute e
mercato interno è una questione del tutto arbitraria, lasciata alla dottrina e alla giurisprudenza. Come si fa a capire, a
scegliere questa base giuridica? La corte ha detto che il criterio di riferimento è quello del centro di gravità dell'atto.
Bisogna capire quel è la finalità o l'oggetto prevalente dell'atto e scegliere la base giuridica corrispondente. In ambito di
tale giurisprudenza la corte ha fornito anche delle indicazioni su alcune basi giuridiche utilizzate più di frequente. Già l'art
100A tradotto dall'atto unico europeo, che per la prima volta consentiva l'avvicinamento delle legislazioni a maggioranza
qualificata e non ad unanimità. La corte ha chiarito che si può fare ricorso all'art 114 solo se la misura ha per oggetto il
funzionamento del mercato interno. Vi è poi l'art 352, le competenze sussidiarie. Questa base giuridica è residuale. Si può
fare ricorso a questa solo se nessun'altra base giuridica possa servire allo scopo. La corte ha inoltre consentito, ma in casi
eccezionali, l'impiego di una doppia base giuridica, cioè prevedere che un atto possa fondarsi su due disposizioni del
trattato. Solo se l'atto persegue più obiettivi inscindibili e di uguale importanza.

73
I SINGOLI ATTI

ATTI VINCOLANTI

1)Regolamenti

sono atti a portata generale, obbligatori in tutti i loro elementi, direttamente applicabili all'interno degli stati membri.

Sono atti a portata generale, nel senso che si rivolgono ad un'insieme di soggetti indeterminati non individuabili a priori.
La corte di giustizia ha affermato che la circostanza che i destinatari siano determinabili, non esclude la portata generale
dell'atto se si tratta di una categoria aperta (es. regolamento sul congelamento dei capitali di alcuni terroristi). La
generalità del provvedimento viene meno se i destinatari sono identificabili sulla base di qualità personali che li
distinguono dalla generalità dei consociati in luogo di criteri astratti e oggettivi. È importante questa distinzione ai fini del
ricorso di annullamento, perché tendenzialmente impugnare un atto a portata generale è più difficile che impugnare un
atto a portata individuale.

Sono obbligatori in tutti i loro elementi: obbligatori per le istituzioni dell'unione, per gli stati membri, per gli individui.
Non è consentita l'applicazione parziale, incompleta o selettiva dei regolamenti. L'ha detto chiaramente la corte nella sent.
Granaria. Ed è per questo motivo che i regolamenti sono utilizzati per dettare una disciplina uniforme, soprattutto nei
settori di competenza esclusiva dell'unione (es. la tariffa doganale comune). Quindi, l'unione non ha bisogno di delegare
gli stati membri per le misure di attuazioni, come fa con le direttive. Detta essa stessa in maniera esauriente la disciplina. I
regolamenti servono per dettare discipline uniformi, come ad esempio in materia di diritto internazionale privato, l'idea è
cercare l'uniformità, ebbene qui tutto quello che è stato realizzato è stato fatto con regolamenti.

I regolamenti sono direttamente applicabili. ( su questa nozione torneremo domani)


Non necessitano per la loro applicazione, negli stati membri, di misure di attuazione o recepimento per produrre effetti. È
vietata la trasposizione o la riformulazione dei regolamenti. Se si riformulasse verrebbe mascherata la natura comunitaria
e la competenza della corte di giustizia. È però possibile che il regolamento stesso prevede delle misure di esecuzione.
Possono essere misure di esecuzione dell'unione, quindi regolamenti esecutivi, o misure di esecuzione nazionali. Ebbene
in questi casi gli stati non solo possono, ma devono adottare delle misure di esecuzione. È possibile che il regolamento,
per quanto possa, non detta una disciplina completa e auto-applicativa, ma deve essere completata dall'azione statale.
Inoltre la corte di giustizia ha eccezionalmente ammesso la possibilità di ripubblicare i regolamenti solamente al fine di
informazione e purché non ne risulti alterata la natura comunitaria o pregiudicata l'uniforme attuazione. Sembra possibile
un intervento residuale degli stati per colmare le eventuali lacune del regolamenti o per superare alcune difficoltà
interpretative.

Pubblicazione e entrata in vigore dei regolamenti: sono pubblicati nella gazzetta ufficiale, sezione L

(dedicata alla legislazione, mentre la serie C è dedicata alle comunicazioni). Quando entrano in vigore? È specificata negli
ultimi articoli dei regolamenti. In mancanza, avviene dopo 20 giorni dalla loro pubblicazione. Casi eccezionali: la corte di
giustizia ha ammesso che in caso di urgenza il regolamento entra in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione. In
casi ancora più particolari ha ammesso che il regolamento possa avere efficacia retroattiva, nei rispetto del legittimo
affidamento dei destinatari.

2.a)Direttive

rappresenta la forma prevalente del principio di collaborazione tra stati e unione per il raggiungimento di finalità comuni
(federalismo cooperativo).

Le direttive sono atti a portati generali, che vincolano gli stati in quanto al risultato, lasciando, però gli stessi, liberi nella
scelta della forma e dei mezzi.

Atti a portata generale: occorre chiarire da subito che i destinatari delle direttive sono unicamente gli stati. E però
possibile che le misure adottate dagli stati si rivolgano a soggetti individuali. Nella maggior parte dei casi le direttive
hanno efficacia come i regolamenti (generale). Le direttive comportando recepimento a livello nazionale, comporterà
delle discipline di ricevimento differenziate; uniformi fino ad un certo punto, ma necessariamente differenziate. Si

74
preferisce usare i regolamenti quando vi sono esigenze di uniformità, rispetto ad usare le direttive, invece quando si hanno
esigenze di flessibilità.

Vincolano gli stati per il risultato: la direttiva è stata concepita dai redattori del trattato, come uno strumento di
legislazione indiretta o in due fasi. Nel senso che l'unione detta una prima disciplina e gli stati provvedono ad adeguarla
alle rispettive esigenze. In quanto strumento di legislazione indiretta, difetta di quella caratteristica tipica dei regolamenti
che è la diretta applicabilità, cioè la capacità di entrare in vigore e produrre gli effetti negli stati senza misure di
recepimento. Le direttive per definizione richiedono misure di recepimento. Ed è per questo motivo che sono utilizzate
spesso per il ravvicinamento delle legislazioni nazionali. Quindi se l'unione non vuole dettare una disciplina uniforme, ma
vuole semplicemente limitarsi ad operare una armonizzazione delle legislazioni nazionali, senza renderle identiche, la
direttiva è lo strumento perfetto, perché fissa quali sono questi caratteri che devono essere simili, fissa dei requisiti
minimi, e lascia a ciascuno stato il compito di adeguare la propria legislazione a questi desiderata.

Gli stati sono liberi di scegliere la forma ed i mezzi: sono liberi di scegliere i mezzi, ma devono essere i mezzi più idonei
possibili al conseguimento dell'obiettivo perseguito dalla direttiva. Gli stati sono liberi ma fino ad un certo punto, la
discrezionalità non è assoluta. Ad esempio la modifica di norme nazionali, nell'ambito del ravvicinamento delle
legislazioni, deve avvenire con norme del medesimo rango.

Nella pendenza del termine di recepimento della direttiva, gli stati devono astenersi dall'adottare misure che possono
compromettere gli obiettivi della direttiva (il cd. Obbligo di Stend Still). Non solo gli stati da quando la direttiva entra
in vigore hanno un termine, di solito 2 anni, per adottare le misure necessarie ad darvi esecuzione, ma tanto per
cominciare, fin da subito devono astenersi nell'adottare misure che possono pregiudicare gli scopi della direttiva. Questo
l'ha chiarito la nostra corte costituzionale, che in alcuni casi è più realista della stessa unione, che ha ritenuto
inammissibile il referendum abrogativo di una normativa nazionale conforme alla direttiva, cioè, per quale motivo questa
normativa deve essere abrogata se comunque questa disciplina deve essere reintrodotta per dare esecuzione alla direttiva?!
E la corte costituzionale ha esteso tale principio ad ogni intervento normativo che possa estrinsecarsi in contenuti
configgenti con gli obiettivi contenuti nelle direttive. Per tanto la corte costituzionale, pure autrice della teoria dei contro-
limiti, quindi atti di obbedienza rispetto alla giurisdizione della corte di giustizia, per altri versi è stata molto collaborativa
ed ha pertanto rafforzato l'efficacia dell'unione affermando che fosse inammissibile il referendum abrogativo di una
disciplina conforme alla direttiva, avrebbe creato una lacuna da colmare. Estendendo tale principio a tutti quanti gli atti
normativi che potessero estrinsecarsi in contenuti incompatibili con una direttiva.

Possibile non dare attuazione alle direttive? Si tratta di un caso di scuola. Nel senso che, sarebbe possibile farlo se
solamente vi fosse una assoluta conformità del diritto nazionale al contenuto della direttiva, o vi fossero dei principi
generali ma sufficientemente chiari e precisi da garantire la piena osservanza della direttiva. Inoltre questa facoltà di non
recepire la direttiva, diviene un'ipotesi ancor più difficile se la direttiva mira ad attribuire diritti a privati, perché devono
essere ben visibili con delle misure di recepimento. Inoltre, gli stati non possono addurre come giustificazione della
mancata attuazione della direttiva, la particolare situazione costituzionale-normativa-amministrativa, ovvero l'autonomia
dei propri enti territoriali e questo è un principio importantissimo che deriva dal diritto internazionale: gli stati non
possono invocare il proprio diritto interno per giustificare il mancato recepimento delle direttive.

Le misure di attuazione delle direttive devono essere notificate. Tendenzialmente alla commissione. Gli stati pertanto una
volta adottato un atto che recepisce la direttiva, devono comunicare questa alla commissione. L'omessa notifica comporta
la violazione del obbligo della leale collaborazione. Comporta però delle conseguenze molto rilevanti a partire dal
trattato di Lisbona. Abbiamo accennato alla procedura di infrazione. Questa procedura avviata dalla commissione per
sanzionare gli stati che non rispettano il diritto dell'unione, si compone in 2 fasi: 1) fase precontenziosa (lettera di messa
in mora, pareri motivato emessi dalla commissione, in contraddittorio con lo stato); 2) fase contenziosa (avviata con
ricorso alla corte e può risolversi con una sentenza). La regola generale è perché uno stato possa essere condannato, è
necessario ad una doppia condanna: vi è una prima sentenza di mero accertamento dell'infrazione; poi la procedura di
infrazione riprende da capo, vi sarà un'altra fare precontenziosa e infine una seconda sentenza che contiene la sanzione. Il
trattato di Lisbona per aumentare la capacità per favorire il rispetto del diritto dell'unione, ha previsto all'art 260 par.3 che
la procedura di infrazione può concludersi con una sanzione fin dalla prima sentenza, qualora uno stato abbia omesso di
notificare alla commissione le misure adottate per dare attuazione alle direttive.

Nel caso delle direttive è importante distinguere tra 1) entrata in vigore e 2) il recepimento degli atti (Degli stati membri).
Tali termini devono essere tenuti distinti (lo vedremo domani). Tra il termine dell'entrata in vigore e quello di

75
recepimento, la direttiva non è inesistente, ma rileva. Rileva come parametro interpretativo e rileva in quanto fonte di
obbligo negativo (es. Stend Still).

2.b) Direttive dettagliate

Elaborata tale disciplina dalla dottrina degli anni '70. Si tratta di direttive dal contenuto normativo estremamente preciso,
che lasciano ben poca discrezionalità in sede di recepimento.

Avviene sempre più spesso, che le direttive limitassero in maniera sostanziale l'azione degli stati in fase de recepimento.
Ed è per questo che alcuni stati hanno contestato la validità di tali direttive, quantomeno nei casi in cui il legislatore
dell'unione non potesse adottare anche regolamenti (quindi quando gli articoli del trattato prevedevano la possibilità di
adottare solo la direttiva). La corte non ha avallato questi ragionamenti, ma diamo per presupposto come la corte ha come
proprio principio ispiratore il favor integrationis, quindi nel dubbio la corte è a favore dell'integrazione dell'unione e non
degli interessi dei singoli stati. Quindi la corte ha ritenuto espressamente legittime le direttive dettagliate, qualora tale
livello di dettaglio fosse giustificato per raggiungere il particolare fine perseguito dalla direttiva. Però ha comunque
distinto la direttive dai regolamenti, rifiutandosi di riconoscere l'efficacia orizzontale delle direttive. Cioè ammettere che
le disposizioni delle direttive non trasposte potessero essere usate nei rapporti tra privati, riservando tale capacità
solamente ai regolamenti.

3) Decisioni

in linea del tutto teorica sono atti di agevole individuazione, corrispondono al nostro provvedimento amministrativo. Sono
atti a portata individuale: si rivolgono ad uno o più destinatari individuati nominalmente o quantomeno individuabili. La
realtà è un'altra: le decisioni sono un po' come la pasta e patate! Sono uno strumento estremamente versatile, utilizzato
con funzioni estremamente diverse. Possono rivolgersi non ad uno o più soggetti, ma ad uno o più stati. In questo caso si
avvicinano molto alle direttive. Possono rivolgersi a molteplici destinatari, e in questo caso si avvicinano molto ai
regolamenti. Sembrano quasi atti a portata generale, non c è una ripartizione netta. Le decisioni possono non nominare
alcun destinatario (senza destinatario), anche in questo caso si avvicinano ai regolamenti. La dottrina ha più volte chiarito
che non è evidente di quale decisione si trattati.

Entrata in vigore delle decisioni, anche esse , al pari dei regolamenti, obbligatori in tutti i loro elementi. Le decisioni se
designano i destinatari producono effetto a partire dalla notifica agli stessi. La mancata notifica non invalida, ma rende
semplicemente inopponibile le decisioni ai destinatari. Se una decisione invece non designa i destinatari, è pubblicata
nella gazzetta ufficiale dell'Ue ed entra in vigore nel termine indicato, o in mancanza nei 20 giorni dopo la pubblicazione.
Capita spesso che la commissione escluda dalla pubblicazione della decisione alcuni dati coperti dal segreto
d'ufficio(soprattutto nell'ambito del diritto della concorrenza). Le decisioni sono pubblicate in una formula emendata, o
censurata.

ATTI NON LEGISLATIVI (regolamentari)

si tratta di atti di terzo grado. E gli atti tipici possono assumere questi due fisionomie.

a) Atti delegati

possono esserlo solo gli atti a portata generale, quindi solo direttive o regolamenti. Sono adottati dalla commissione sulla
base di una delega contenuta nell'atto legislativo al fine di integrare o modificare elementi non essenziali in tale atto.
Nella delega sono indicati: gli obiettivi, il contenuto, la portata, la durata, le condizioni.

b) Atti di esecuzione o attuazione

hanno come finalità quella di fornire incrementazioni, tradurre in contenuto concreto il contenuto astratto delle norme
previste nell'atto base, qualora siano necessarie condizioni uniformi di esecuzioni. L'attuazione degli atti dell'unione
tendenzialmente spetta agli stati membri. Quando però non è necessario solamente dettare una disciplina uniforme, ma
avere anche una attuazione uniforme, si prevede la possibilità di adottare atti di attuazione (direttive, regolamenti o
decisioni). La loro natura di esecuzione o delegato viene indicata nel titolo del provvedimento.

76
ATTI NON VINCOLANTI

Pareri e raccomandazioni

sono pubblicati nella gazzetta ufficiale nella serie C (Delle comunicazioni).

La differenza tra pareri e raccomandazioni è che il parere è rivolto ad un destinatario ed esprime il punto di vista
dell'istituzione su una determinata questione. Mentre le raccomandazioni, oltre ad esprimere un punto di vista, invitano il
destinatario a tenere o a non tenere un determinato comportamento, senza però porre un obbligo di un risultato
giuridicamente vincolante. Secondo la dottrina sono come delle direttive non vincolanti. Il problema della base giuridica
sussiste in via del tutto minore rispetto ai regolamenti, direttive e decisioni. Nel senso che il TFUE attribuisce al consiglio
un potere generale di adottare raccomandazioni ogni volta che lo ritenga opportuno. La corte di giustizia nella sentenza
Grimaldi ha chiarito che tutte le istituzioni dell'unione possono adottare raccomandazioni quando non dispongono del
potere di adottare atti obbligatori oppure quando ritengono che non sia necessario adottare norme vincolanti.

Inoltre producono effetti indiretti: tanto per cominciare comportano il cd. Effetto di liceità, nel senso che se uno stato si
conforma al contenuto di una raccomandazione, il proprio comportamento non potrà essere considerato illecito dalla
medesima istituzione.

Altri effetti indiretti: il parere motivato ad esempio emesso nella procedura di infrazione, di per sé non produce effetti
giuridici e non è impugnabile. Eppure se disatteso può portare al ricorso alla corte di giustizia.

In quanto improduttivi di effetti giuridici, pareri e raccomandazioni, non possono essere impugnati attraverso il ricorso di
annullamento. Si applica però anche qui il principio sostanzialistico.

Corollario del carattere non vincolante di tali atti è che non si può agire in carenza contro le istituzioni che abbiano
omesso di adottare pareri e raccomandazioni; altro corollario: impossibilità di aprire una procedura di infrazione contro lo
stato che non si conforme al parere o alla raccomandazione.

Può essere richiesta l'interpretazione, alla corte, delle raccomandazioni e dei pareri. Questo ci fa ancora una volta capire
che qualche effetto giuridico lo producono. Che senso avrebbe chiedere il parere se questo fosse del tutto irrilevante?!
Nella sentenza Grimaldi ancora una volta, la corte ha affermato che gli stati membri e le istituzioni, devono tenere conto
dei pareri e delle raccomandazioni nelle interpretazioni del diritto dell'unione.

ATTI ATIPICI

atti dagli effetti atipici. Per il motivo che il loro nome corrisponde a quello degli atti tipici, ma non i loro effetti. Si tratta
di categorie estremamente eterogenee.

-Regolamenti interni sono atti che disciplinano il funzionamento interno delle singole istituzioni. Possono produrre
alcuni effetti esterni indiretti.

-Parere endoprocedimentale del parlamento, che hanno degli effetti propri.

-Istruzioni per i negoziatori che prendono il nome di direttive

-Decisioni che sono accordi in forma semplificate tra gli stati membri

ATTI NON PREVISTI (realmente atipici)

sono atti che non sono contemplati dai trattati, ma sono di fatto adottate dalla istituzioni e di norma ritenuti leciti dalla
corte di giustizia. Anche qui sempre nel rispetto del principio sostanzialistico. Esempi sono le comunicazione della
commissione in materia del diritto di concorrenza. Altri sono le conclusioni e le risoluzioni. L'atto più importante del
consiglio europeo sono le conclusioni della presidenza, in cui si riassumono le linee politiche dell'azione prevista per gli
anni successivi. Le risoluzioni sono spesso del parlamento europeo. Abbiamo inoltre programmi di azione,
dichiarazioni, deliberazioni. Si deve applicare anche qui il principio sostanzialistico. Infine troviamo le dichiarazioni
comuni e gli accordi interistituzionali (che possono avere un valore vincolante).

77
4 Novembre 2014
L'EFFETTO DIRETTO DELLE NORME DELL'UNIONE

L'effetto diretto delle norme dell'unione costituisce una caratteristica peculiare che contraddistingue l'Unione Europea da
tante altre organizzazioni internazionali. Che cos'è l'effetto diretto? È la capacità della norma giuridica dell'unione di
creare diritti ed obblighi in capo ai singoli tutelabili dinanzi ai giudici ed alle amministrazioni nazionali senza
necessità di misure interne di recepimento o di adattamento. Naturalmente è la capacità di alcune norme dell'unione di
creare diritti ed obblighi in capo ai singoli, quindi posizioni giuridiche soggettive, e queste sono tutelabili tanto dinanzi ai
giudici nazionali quanto alle amministrazioni nazionali e ciò senza necessità di misure interne di adattamento al diritto
dell'unione. Una cosa importante è che l'effetto diretto è una caratteristica della norma e non dell'atto; è una
caratteristica della singola norma dell'unione sia essa contenuta in un Trattato, sia essa contenuta in un principio generale,
oppure in un protocollo, o come accade spesso in un atto di diritto derivato (es, norma contenuta in un regolamento base,
norma contenuta in un regolamento esecutivo, in una direttiva). Quindi affermare che gli atti dell'Unione hanno o meno
effetto diretto ci si chiede: le direttive hanno o meno effetto diretto? In realtà la domanda è mal posta, quello che in realtà
dobbiamo chiederci è se la norma contenuta nelle direttiva può avere effetto diretto in una particolare fattispecie.
Perché è importante l'effetto diretto? Tanto per cominciare per quello che accade in caso di conflitto. In caso di conflitto
tra una norma nazionale ed una norma dell'unione (dotata di effetto diretto) vi è l'obbligo di disapplicazione . Il giudice
nazionale e la comunità nazionale devono immediatamente disapplicare la norma nazionale (che resta in vigore però non
si applica al caso di specie) ed applicare in sua vece la norma dell'Unione. Obbligo questo che vale tanto per il giudice
nazionale quanto per le amministrazioni. Invece se il contrasto si realizza tra una norma nazionale ed una norma
dell'Unione però priva di efficacia diretta, ebbene l'efficacia dell'Unione è minore e quindi questo obbligo di
disapplicazione non c'è, e spetta all'ordinamento nazionale stabilire come portarsi in conformità con il diritto dell'Unione,
questo non vuol dire che in caso di conflitto tra norma dell'Unione priva di efficacia diretta e norma nazionale il conflitto
può rimanere e permanere nel tempo. Lo Stato in base all'obbligo di leale collaborazione, imposto del Trattato, ha l'onere,
l'obbligo di adeguare il proprio ordinamento in modo da assicurarne la conformità al diritto dell'Unione, comprese le
norme prive di efficacia diretta, però non c'è disapplicazione. Pertanto spetta a ciascuno stato provvedere nei modi più
opportuni. In Italia si provvede con la legge europea, legge di delegazione europea quindi in via legislativa (perché è il
Parlamento che ogni anno magari si accorge che alcune norme non sono conformi con le norme dell'Unione e le modifica)
e poi avviene in via giudiziale (se ne occupa in particolare la nostra Corte Costituzionale che può dichiarare
incostituzionali le norme, nonché atti dotati di fora di legge, in contrasto con una norma dell'unione priva di efficacia
diretta per violazione dell'articolo 117 comma 1 e comma11 della Costituzione). Quindi l'effetto diretto è molto
importante in caso di conflitto tra norme dell'Unione e norme nazionali.

Come nasce l'effetto diretto? - Genesi e finalità dell'effetto diretto-


Per comprendere la nascita di questo particolare istituto occorre inquadrare storicamente la situazione (poniamoci
dall'inizio della Comunità europea fino agli anni '80). Si è registrato quello che viene definito in dottrina un deficit di
sovranazionalità decisionale. Cosa vuol dire? Che la comunità economica europea non era molto sovranazionale era
abbastanza internazionale ed era molto classica perché si decideva all'unanimità, il Consiglio votava all'unanimità.
Fino all'atto Unico Europeo votare a maggioranza qualificata , praticamente è stato impossibile.
Il voto all'unanimità comportava che ogni qualvolta ci si riuniva in Consiglio vi fosse la piena consapevolezza che o si
otteneva l'accordo di tutti oppure l'atto non sarebbe stato approvato. Pertanto ciascuno Stato poteva essere particolarmente
esigente riguardo al contenuto dell'atto, se l'atto non si conformava in pieno a quanto desiderato l'atto non sarebbe mai
stato approvato. Votare sotto la minaccia del veto (diritto di veto era riconosciuto a ciascuno Stato), il Patto si rallentava o
impediva il consenso ovvero il raggiungimento dell'unanimità in seno al Consiglio e quindi l'approvazione degli atti. Il
riflesso di questo è stato chiaramente una scarsa produzione normativa quindi le direttive ed i regolamenti adottati fino
alla metà degli anni '80 non sono tantissimi.
Un altro importante fattore è la circostanza che la procedura di infrazione che può concludersi con l'irrogazione di
sanzioni allo Stato di una somma forfetaria o la mora (in alcuni casi entrambi in altri casi o l'una o l'altra). Queste sanzioni
non erano originariamente previste, sono state introdotte dal trattato di Maastricht all'inizio degli anni '90 e quindi,
fondamentalmente, gli Stati potevano violare il diritto dell'Unione, potevano non recepire le direttive, e da tale infrazione
sarebbe derivata soltanto una sentenza della Corte di Giustizia di condanna ma tale sentenza avrebbe semplicemente
accertato l'inadempimento non avrebbe irrogato alcuna sanzione: questo comportava una generalizzata inosservanza del
diritto dell'Unione ed in particolare una inosservanza dell'obbligo di recepire le direttive comunitarie.
Fino agli anni ottanta quindi il quadro era abbastanza desolante; ebbene la Corte di Giustizia, animata dalla volontà di
realizzare gli obiettivi del Trattato, ha cercato di compensare a questo deficit di sovranazionalità decisionale
incrementando la sovranazionalità normativa dell'Unione cioè rendendo gli atti più efficaci. Ed ha pertanto elaborato
quelli che sono considerati i tre capisaldi della sovranazionalità normativa dell'Unione:

Il principio del primato del diritto dell'unione


In caso di conflitto tra la norma nazionale e la norma dell'Unione, prevale la norma dell'Unione. Facile nel dirsi ma
poco semplice nell'applicazione concreta in quanto le Corti costituzionali di alcuni Stati ancora non riconoscono del tutto
il primato dell'Unione.

78
Il principio della preemption (prelazione)
non ci soffermeremo in quanto ne abbiamo già parlato nelle relazioni esterne dell'Unione Europea, ricordiamo la sentenza
ITS cioè quando l'Unione legifera nella sfera interna, in un settore, la competenza esterna della stessa sfera diventa
esclusiva. Il principio della preemption è un po' questo, cioè vuol dire che l'intervento dell'Unione inibisce l'intervento
dello Stato. L'esercizio della competenza concorrente da parte dell'Unione impedisce l'esercizio della medesima
competenza da parte degli Stati. Questo è un processo unidirezionale nel senso che più l'Unione espande l'esercizio delle
proprie competenze e la propria sfera di intervento, più si riduce quella degli Stati. Questo principio si applica a tutte le
competenze tranne quelle esclusive in cui di fatto gli Stati non possono operare.

Il principio dell'effetto diretto


La Corte ha trovato una soluzione in via interpretativa al problema del deficit di sovranazionalità decisionale. Era difficile
adottare direttive, era difficile farle rispettare ma la Corte ha fatto si che quelle poche direttive che venivano approvate e
non rispettate, avessero l'efficacia incrementata in via interpretativa. E lo ha fatto con la famosissima sentenza Van gend &
loos. La Van gend & loos era un importatore olandese, importava prodotti dalla Germania Federale. Questa società aveva
contestato dinanzi alle autorità doganali olandesi, l'applicazione di un dazio dell'8% su una particolare sostanza importata
dalla Germania ebbene uno dei capisaldi dell'Unione Europea del Mercato interno dell'Unione europea è il divieto dei dazi
doganali. Quindi questo dazio sembrava in palese contrasto con il divieto dei dazi doganali previsto dall'articolo 12 del
Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea. C'è però un problema secondario: premesso che c'era un obbligo a
carico dell'Olanda di non applicare il dazio ma quest'obbligo corrispondeva ad un diritto dei singoli di invocare questa
disposizione per ottenere per evitare l'applicazione della normativa nazionale incompatibile? Quindi la Van gend & loos
poteva invocare il divieto dei dazi di cui all'articolo 12 per sottrarsi al pagamento di questa imposta? La questione è arrivata
alla Corte di Giustizia attraverso un rinvio pregiudiziale e la prima accezione del Governo Olandese è che la Corte non avesse
competenza a materia. Si dice l'efficacia degli accordi internazionali e del trattato istitutivo della comunità Economica
Europea in Olanda è una questione di diritto costituzionale olandese e la Corte di Giustizia non può pronunciarsi al riguardo.
La Corte di Giustizia ovviamente adottò un diverso punto di vista e sostenne che in effetti era competente ad interpretare tale
articolo ed a delinearne le conseguenze per il caso di specie.
La corte di Giustizia adotta un approccio teleologico, parte cioè dalla finalità del Trattato che è quello della realizzazione del
Mercato comune, uno spazio in cui sia assicurata la libera circolazione di merci persone e capitali. Secondo la corte se questa
è la finalità del Trattato (creare cioè un mercato interno) ne consegue che gli obblighi del Trattato non si applicano solamente
agli Stati, cioè il Trattato va oltre ad un accordo che prevede degli obblighi reciproci tra gli Stati, non ci sono solo gli Stati
come giocatori e questo è confermato secondo la Corte da alcune circostanze vediamole:
Tanto per cominciare il preambolo del Trattato di Roma il quale fa riferimento non solo ai governi ma anche ai popoli
dell'Unione. Inoltre la Corte fa leva sull'attribuzione alle istituzioni dell'Unione dei poteri sovrani da esercitarsi anche nei
confronti dei cittadini e di questo ancora una vota le norme di concorrenza ne sono un buon esempio fin dal '57 abbiamo un
divieto di intese anti-concorrenziali e divieto di abuso di una posizione dominante che si applicano alle imprese, quindi
effettivamente questo trattato va oltre i rapporti inter-statali.
Terzo elemento: inoltre la corte afferma che in effetti la Comunità economica europea è un'istituzione democratica perché i
cittadini partecipavano alla sua attività attraverso il Parlamento Europeo (all'epoca non eletto direttamente) ed attraverso il
comitato economico e sociale.
Ultimo e più importante argomento: l'esistenza del rinvio pregiudiziale. Secondo la Corte il fatto che i giudici nazionali,
nell'ambito delle controversie tra privati, possono rivolgersi alla Corte di Giustizia per ottenere chiarimenti
sull'interpretazione del diritto dell'Unione, in un certo qual modo vuol dire che il diritto dell'Unione deve potersi applicare ai
singoli altrimenti i singoli che interessi avrebbero a sollecitare la remissione alla corte di giustizia di un quesito pregiudiziale.
Quindi esiste un diritto perché garantito dal punto di vista procedurale.

Comunque facendo leva su questi 4 argomenti la Corte di Giustizia arriva a questa importantissima statuizione: La Comunità
Economica Europea è un ordinamento giuridico di nuovo genere, nel campo del diritto internazionale, a favore del quale
gli Stati hanno rinunciato (anche se in settori limitati) ai loro poteri sovrani ed è un ordinamento che riconosce come
soggetti non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini.
Se soggetti del diritto dell'Unione sono tanto gli Stati quanto i loro membri è evidente che l'ordinamento dell'Unione attribuisce
ai singoli obblighi (le norme di concorrenza) e diritti non solamente espressamente ma anche come contropartita degli
obblighi imposti da altri singoli agli Stati o alle Istituzioni della Comunità. È la classica teoria del rapporto giuridico secondo
cui se vi è un obbligo per qualcuno vi sarà un corrispondente diritto per qualcun' altro. Se tra questo qualcuno abbiamo
Istituzioni, Stati e singoli ebbene i singoli potranno essere in qualche circostanza titolari di diritti. Da questo punto di vista
ineccepibile come soluzione.
Pertanto per risolvere il caso di specie la Corte di Giustizia afferma che il divieto dei dazi di cui all'art.112 pone a carico degli
Stati un chiaro obbligo di non fare – Non dovete imporre dazi doganali – . Questa disposizione è suscettibile pertanto di
incidere sui rapporti giuridici intercorrenti tra gli Stati ed i loro amministrati; un obbligo negativo a carico dello Stato a cui
corrisponde un diritto a carico del singolo (quello di non vedersi applicato il dazio doganale).
La Corte non risolve la controversia interamente ma si limita a chiarire la portata dell'articolo 112 cioè a chiarire che
l'articolo 112 può essere invocato dai singoli difronte al giudice nazionale.
Lascia poi al giudice nazionale la questione di determinare se l'applicazione del dazio dell'8% fosse o meno contrastante al
divieto. Perché il divieto poteva trattarsi di una mera riqualificazione del dazio esistente e magari il dazio applicato era
antecedente alla previsione del trattato.

79
Abbiamo detto che l'effetto diretto è una caratteristica propria di alcune norme dell'Unione e non di tutte le norme. Quali
sono queste norme dell'Unione dotate di efficacia diretta?
La Giurisprudenza al riguardo non ha fornito indicazioni univoche. A semplificare la questione ci ha pensato la Dottrina
che ha individuato tre requisiti che le norme dell'unione devono presentare per avere effetto diretto.
Le norme dell'unione possono avere effetto diretto se sono: chiare, precise ed incondizionate.
Chiare e precise: vuol dire che il loro significato deve apparire in modo palese e non prestarsi a più interpretazioni
possibili. Quindi il tenore della norma deve essere chiaro, deve essere poi preciso cioè individuare puntualmente il proprio
ambito di applicazione e la propria portata.
Cosa più importante è che la norma sia incondizionata, cioè che non subordini essa stessa la propria applicazione
all'adozione di un atto esecutivo o attuativo dell' unione o nazionale.

La corte non ha applicato in maniera uniforme questi tre principi e molto spesso ha riconosciuto generosamente effetto
diretto a molte norme contenute nei Trattati istitutivi. Soprattutto per quanto riguarda le norme del trattato CEE, in effetti
molte di quelle norme sembravano avere effetto condizionato. Però soprattutto per quanto riguarda il diritto derivato la
Corte si è attenuta alla compresenza dei tre requisiti.

Veniamo alla questione forse più spinosa, cioè l'effetto diretto delle norme contenute nelle direttive.
Una norma contenuta in una direttiva, può produrre effetti diretti se presenta non 3 ma 5 requisiti; i primi tre sono i
medesimi (quindi la norma della direttiva deve essere chiara precisa ed incondizionata) ma sono altresì necessari altri 2
requisiti cumulativi:
4. Deve essere decorso il termine di recepimento della direttiva (se non fosse così la direttiva non si distinguerebbe
molto dai regolamenti)
5. La norma in questione deve essere invocata nell'ambito di un rapporto verticale ascendente (deve essere cioè
invocata dal singolo contro lo Stato mentre non è vero il contrario e quindi lo Stato non può invocare la direttiva contro il
sindaco né il sindaco può invocare la direttiva non recepita contro un altro singolo perché destinatari della direttiva sono
solo gli Stati).

Facciamo un passo indietro e vediamo come nasce l'effetto diretto delle disposizioni contenute nelle direttive: occorre fare
riferimento alla sentenza Van-duyn. Riguardava il rifiuto opposto dall'autorità di immigrazione del Regno Unito
all'ingresso nel Regno Unito di una cittadina olandese che avrebbe dovuto svolgere le mansioni di segretaria presso la
chiesa di Scientology (che all'epoca non era ben vista dal Regno Unito) e quindi il Regno Unito aveva affermato che per
ragioni di ordine pubblico l'ingresso della signora Van Duyn nel Regno Unito avrebbe potuto minare le fondamenta
dell'ordine pubblico del Regno Unito pertanto non poteva farvi ingresso. Questo era in palese violazione della direttiva
64/221 sul trasferimento e soggiorno degli stranieri il cui articolo 3 disponeva chiaramente che i provvedimenti di ordine
pubblico o di pubblica sicurezza a carico degli stranieri devono essere adottati esclusivamente in relazione al
comportamento personale dell'individuo nei confronti del quale sono applicati; non sono quindi ammesse
generalizzazioni non solamente perché uno è Valdese o perché professa questa religione non può entrare, se è una
minaccia dell'ordine pubblico andrà accertato caso per caso.
Nel caso della segretaria era palese che ci fosse una violazione della norma contenuta nella direttiva; direttiva che però
ancora doveva essere recepita nell'ordinamento inglese. Ci si domanda quindi: questa disposizione era direttamente
efficace? Poteva essere invocata dalla signora Van Duyn contro le autorità del Regno Unito per ottenere la disapplicazione
del divieto di ingresso? Ineccepibile è la posizione e la difesa del Regno Unito. Se l'articolo 189 (288 attuale) attribuisce
alle direttive, ai regolamenti ed alle decisioni una diversa efficacia è giusto presumere che il consiglio emanando una
direttiva invece di un regolamento abbia inteso adottare un provvedimento con effetti diversi da quelli di un regolamento,
vale a dire un atto non direttamente efficace. In altre parole, se il Consiglio avesse voluto adottare un atto direttamente
efficace, avrebbe adottato un regolamento; invece ha adottato una direttiva che ha efficacia diversa e quindi ne deduciamo
che non può essere direttamente efficace, applicabile al caso di specie.
La corte però la vede diversamente (in quanto crede nel favor integrationis) e svolge questa argomentazione: se è vero che
i regolamenti sono direttamente applicabili da ciò non si può desumere che altre categorie di atti contemplati da tale
articolo non possano mai produrre effetti analoghi (nel senso non c'è scritto da nessuna parte che solo i regolamenti
possono avere effetto diretto). Inoltre sarebbe in contrasto con la forza obbligatoria attribuita dall'art.189 alle direttive
l'escludere in generale la eventualità che l'obbligo da essa imposto sia fatto valere dagli eventuali interessati.
Quindi credere nell'effetto utile, nell'articolo 189 non si dice che la direttiva è direttamente efficace, ma di dice che
vincola gli Stati circa il risultato da perseguire e quindi sarebbe una menomazione della sua efficacia vincolante
escludere in via generalizzata che i singoli possano invocare le disposizioni delle direttive contro gli Stati.
In particolare nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano mediante una direttiva obbligato gli stati membri ad adottare
un determinato comportamento, la portata dell'atto sarebbe ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la
efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderla in considerazione come norma di diritto comunitario. Visto che
la direttiva è vincolante al fine di aumentarne l'efficacia, occorre che i singoli possano invocare le disposizioni ivi
contenute dinanzi ai giudici nazionali.
L'articolo 177 (rinvio pregiudiziale) autorizza il giudice nazionale di domandare alla corte di Giustizia di pronunciarsi
sulla validità e sull'interpretazione di tutti gli atti compiuti dalle Istituzioni senza distinzione, il che evidentemente implica

80
che i singoli possano far valere tali atti dinanzi ai giudici. Quindi se nell'ambito di un giudizio principale i singoli possono
sollecitare i giudici e richiedere l'interpretazione di una norma contenuta in una direttiva, evidentemente perché tutto ciò
abbia senso, deve essere possibile applicare tale disposizione nel procedimento principale altrimenti il singolo per quale
motivo dovrebbe procurarsi un disturbo di richiedere il rinvio pregiudiziale?
La Corte conclude: è quindi opportuno esaminare caso per caso se la natura, lo spirito e la lettera della disposizione
contenuta nella direttiva, consentano di riconoscere la efficacia immediata nei rapporti tra gli Stati membri ed i
singoli. Nel caso di specie la Corte afferma che l'obbligo derivante dalla direttiva, era assoluto ed incondizionato e non
richiedeva alcun provvedimento di attuazione da parte delle istituzioni comunitarie degli stati membri, quindi la norma in
questione era chiara precisa ed incondizionata perché vietava gli Stati di operare sulla base di considerazioni generali
quindi senza effettuare valutazioni caso per caso.
Inoltre la Corte afferma che poiché la direttiva riguarda una deroga ad un diritto attribuito ai singoli, cioè riguarda la
possibilità degli Stati di espellere i singoli per motivi di ordine pubblico, quindi ridurre l'applicazione nei confronti dei
singoli di un diritto fondamentale ad essi attribuiti dal Trattato (che è il diritto alla libera circolazione). La Corte ne
deduce pertanto che il rispetto delle garanzie giurisdizionali degli interessati, impone che gli interessati possano invocare
tale obbligo anche se lo stesso è contenuto in un atto normativo non avente ipso iure efficacia diretta nel suo insieme. La
Corte afferma sostanzialmente, visto che tale direttiva precisa una deroga ad un diritto fondamentale ebbene
evidentemente i diritti derivanti da questa direttiva devono poter essere invocati anche dai singoli e ciò anche se i diritti in
questione sono contenuti in un atto che nel suo insieme non ha ipso iure efficacia diretta. La Corte pertanto con questa
sentenza riconosce che le norme contenute nella direttiva possono avere efficacia diretta, possono essere invocati
direttamente dai singoli, contro gli Stati membri.
Si trattava di un caso abbastanza semplice perché la direttiva non imponeva un obbligo di non fare, la Corte però ha
presto riconosciuto efficacia diretta anche in altra circostanza quale per esempio le direttive che si limitano a specificare
obblighi di fare già contenuti in disposizione dei Trattati (questa la sentenza SACE).

Riassumendo: fu stabilito che l'effetto vincolante di una direttiva sarebbe vanificato e il suo effetto utile sarebbe
compromesso, se non si riconoscesse la possibilità per il soggetto interessato di adire il giudice nazionale contro lo stato
che non ha dato attuazione ad una direttiva nel termine.

Quale è la ratio del riconoscimento dell'effetto diretto delle disposizioni contenute nelle direttive? La Corte ha individuato
4 fondamentali funzioni dell'effetto diretto:

Sanzione: Tanto per cominciare si intende sanzionare gli Stati per il mancato adempimento dell'obbligo di recepimento
della direttiva e non dimentichiamo che l'efficacia diretta della direttiva è stata inaugurata dalla Corte in un periodo in cui
il procedimento di infrazione non poteva concludersi con l'applicazione di sanzioni, quindi è una sanzione creata dalla
Corte di Giustizia.

Funzione di controllo: A chi spetta monitorare sulla effettiva attuazione delle direttive negli stati membri? In teoria è la
Commissione che se ravvisa un mancato recepimento dovrà iniziare la procedura di infrazione. Le risorse della
Commissione tra l'altro sono limitate e quindi attribuendo ai singoli dei diritti sulla base delle direttive si rende l'intera
comunità dei cittadini dell'Unione, dei controllori perché qualcuno prima poi potrebbe avere interesse ad invocare la
direttiva e pertanto portare la questione alla attenzione della Corte di Giustizia attraverso il rinvio pregiudiziale.
Si trasforma quindi il popolo di amministrati in controllori dei propri governi.

Finalità di incremento dell'efficacia: Il legislatore dell'Unione voleva realizzare un determinato obiettivo e lo ha fatto
attraverso la direttiva; ciò richiedeva però la cooperazione degli Stati che avrebbero dovuto recepire le direttive. Ebbene
riconoscendo il legislatore l'efficacia diretta alla direttiva in effetti si realizzava l'obiettivo perseguito dal legislatore
dell'Unione. Era un modo per fare a meno dell'adempimento degli Stati.
Beninteso l'efficacia diretta non esclude l'obbligo di recepimento, gli Stati hanno comunque l'obbligo di conformarsi alle
direttive e anche se alle stesse viene riconosciuto effetto diretto dalla Corte di Giustizia, il mancato recepimento delle
stesse può in ogni caso determinare la responsabilità dello Stato e quindi l'eventuale irrogazione della sanzione come esito
della procedura di infrazione nonché l'eventuale obbligo risarcitorio a vantaggio del singolo che sia leso dal mancato
recepimento della direttiva.

Estotel (categoria tipica del diritto anglosassone): Si afferma nella sentenza Baker che il carattere vincolante
dell'obbligo imposto dall'attuale articolo 288 sarebbe reso del tutto inoperante qualora fosse consentito agli Stati membri
di pianificare gli effetti che talune disposizioni della direttiva sono atte a produrre in forza del loro contenuto.
Es: immaginiamo una direttiva che attribuisca determinate ferie pagate ai dipendenti pubblici. Gli Stati in tempo di crisi
non hanno alcuna voglia di aumentare le ferie dei dipendenti pubblici e quindi non recepiscono la direttiva. Così facendo
potrebbero giovarsi del proprio inadempimento. Ebbene secondo il Common law questo non è possibile perché nessuno
può giovarsi del proprio inadempimento pertanto i riconosce l'efficacia diretta della direttiva e ciò proprio al fine di
evitare allo Stato di giovarsi del proprio inadempimento per non darvi attuazione.

81
Abbiamo detto che la direttiva produce solamente effetti verticali ascendenti quindi abbiamo detto che la direttiva può
essere invocata dal singolo nei confronti dei privati.
Cosa si intende per “Stato” ai fini dell'efficacia diretta delle direttive? Certamente gli organi centrali e negli Stati federali
anche agli Stati Membri e quindi negli Stati Unitari anche le Regioni, anche i Comuni. Inoltre si considerano Stato anche
le autorità indipendenti, incaricate di mantenere l'ordine pubblico.
Ma la Corte è andata oltre ed è arrivata a riconoscere come Stato qualsiasi organismo, anche privato, che sia incaricato
con atto della pubblica autorità di prestare sotto il controllo di quest'ultima, un servizio di interesse pubblico e che
dispone a tal fine di poteri esorbitanti rispetto alle regole applicabili ai rapporti tra privati.
Quindi tendenzialmente anche gli incaricati di pubblico servizio sono considerati Stati ed anche nei loro confronti può
essere invocata la norma contenuta in una direttiva non recepita.
Nell'ambito di questi rapporti verticali ascendenti le norme contenute nelle direttive possono produrre tanto un effetto di
sostituzione tanto un effetto di esclusione. L'effetto di sostituzione è in effetti la disapplicazione nel senso più completo e
vuol dire non applicazione della norma nazionale incompatibile ed applicazione in sua vece della norma contenuta nella
direttiva. Si sostituisce la norma nazionale incompatibile con la norma contenuta nella direttiva; questo però presuppone
che la norma contenuta nella direttiva sia completa ed abbia un contenuto chiaro, preciso ed incondizionato.
Se ciò non dovesse accadere la direttiva produrrebbe solo un effetto di esclusione (nel rapporto verticale ascendente).
Cioè potrà la mera disapplicazione della norma nazionale incompatibile ma non la sostituzione della stessa con la norma
contenuta nella direttiva.
Si è affermato infatti che il Giudice nazionale chiamato a pronunciarsi sull'operato dell'amministrazione conforme alla
normativa nazionale ma non a quella della direttiva possa annullare un atto amministrativo qualora questo risulti con il
tenore e la lettera della direttiva. Quindi abbiamo la norma contenuto della direttiva, una norma che non è chiara, precisa
ed incondizionata e quindi non può essere applicata all'amministrato in luogo dell'atto incompatibile, che costituisce però
parametro di legittimità di tale atto pertanto il giudice nazionale può annullare l'atto amministrativo incompatibile
con la norma contenuta in una direttiva anche se questa norma non è chiara precisa ed incondizionata.
Pertanto nei rapporti verticali ascendenti, le norme contenute nelle direttive possono produrre entrambi gli effetti: effetto
di sostituzione ed effetto di esclusione; il primo effetto però solo se sono chiare precise ed incondizionate.
Le norme contenute nelle direttive non possono però produrre effetti verticali inversi, in particolare non è possibile che la
direttiva possa essere utilizzata dall’autorità pubblica per imporre al singolo un determinato comportamento non essendo
ammissibile nell’obbligo che lo stato possa avvalersi di una norma nei cui confronti lo stato stesso risulti essere
inadempiente non avendola recepita nel termine previsto.
Ulteriore corollario dell’assenza di efficacia verticale invertita, è che una direttiva non recepita non può avere come
effetto di determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione di questa disposizione. La
questione si è posta nella sentenza Berlusconi, che riguardava il falso bilancio, che lo Stato italiano aveva depenalizzato,
il che sembrava essere in violazione di alcune direttive societarie che invece prescrivevano agli stati la versione di
sanzioni di adeguata, proporzionata e dissuasiva nei confronti del falso bilancio. Pertanto poteva la procura invocare nei
confronti del signor Berlusconi la sola direttiva, non correttamente recepita? Secondo la corte la risposta doveva essere
no! Lo stato non può invocare contro il singolo una direttiva non recepita per determinarne o aggravarne la responsabilità
penale (principio fondamentale della tutela dei singoli). Cosi come la direttiva non può produrre effetti verticali
invertiti, non può produrre effetti orizzontali. E’ stato così chiarito fin dalla sentenza Marshall: la signora Marshall era
stata costretta ad andare in pensione all’età di 60 anni, laddove i sui colleghi di sesso maschile poteva restare a lavoro fino
a 65 anni, quindi età pensionabili diverse. Ciò era in contrasto con una direttiva sulla parità di trattamento del 1976 che
prevedeva appunto il pari trattamento tra uomini e donne. Poteva la signora Marshall invocare le disposizioni della
direttiva contro il proprio datore di lavoro? Il rapporto di lavoro è di tipo orizzontale, perché il datore di lavoro era
privato, non era lo Stato. La corte a tale quesito risponde negativamente. Una direttiva non recepita non può essere
invocata dinnanzi al giudice nazionale da soggetti privati contro altri soggetti privati. La corte pervenne a questa
conclusione su due diverse considerazioni. 1) la prima attiene ai destinatari delle direttive; 2) la seconda riguarda la
differenza tra direttiva e regolamenti.
Per quanto riguarda la prima, la corte afferma che la direttiva vincola solamente lo stato a cui è diretta e non può quindi
imporre obblighi a carico dei singoli in assenza di misure di attuazione, perché ai singoli non può imputarsi la violazione
dell’obbligo di conformarsi alle direttive, e inoltre perché i singoli non sono tenuti ad essere a conoscenza della norma
contenuta nella direttiva, quindi ai singoli non si può imporre il contenuto di una direttiva non recepita perché il
recepimento della direttiva non compete ai singoli. Inoltre, si afferma, (quest’argomentazione non sembra più essere tanto
valida) che i singoli potrebbero non essere a conoscenza del contenuto della direttiva, perché in effetti il singolo si aspetta
che la direttiva venga recepita e trasformata in diritto nazionale non è tenuto a conoscerne il contenuto.
Per quanto riguarda il salvaguardare la differenza tra direttive e regolamenti, afferma la Corte che una diversa soluzione,
cioè riconoscere l’efficacia diretta orizzontale a norme contenute nelle direttive, significherebbe riconoscere in capo
all’unione il potere di emanare norme che facciano sorgere con effetto immediato obblighi a carico dei singoli, mentre
tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di attuare dei regolamenti.

Ritorniamo al discorso sulla scelta dell’atto. Quando il trattato parla di misure il legislatore può scegliere tra direttive e
regolamenti. Ma se i trattati attribuiscono all’Unione solo il potere di adottare direttive gli effetti delle direttive non
possono essere in tutto uguali a quelle dei regolamenti altrimenti verrebbe meno la distinzione.

82
Le istruzioni contenute nelle direttive possono essere invocate dal singolo nei confronti dello stato, ma non nei
rapporti verticali invertiti. Stato nei confronti del singolo o tra privati.
Tale stato di cose, può dare atto a situazioni discriminatorie.
Es.: il caso dei rapporti triangolari, nel caso in cui ci siano due privati e un’amministrazione, e solo uno di questi privati si
sia conformato alla direttiva e l’altro ad una norma nazionale incompatibile. La corte non si è espressa al riguardo in
modo univoco, da una lato ha detto che un singolo non può far valere una direttiva nei confronti della stato membro,
qualora questa determini un obbligo per un altro singolo (efficacia orizzontale dissimulata). La corte ha poi detto che
semplici ripercussioni negative anche se certe su diritti dei terzi, non giustificano il fatto che si rifiuti al singolo di far
valere le disposizioni della direttiva nei confronti dello Stato membro interessato.

Quali sono le soluzione offerte dalla giurisprudenza per ovviare alle distorsioni che possono crearsi al seguito del mero
riconoscimento alle disposizioni riconosciute nelle direttive di efficacia verticale ascendente?

1) Interpretazione conforme:
Cosa significa interpretazione conforme? Che il giudice deve interpretare tutto il diritto nazionale, per quanto possibile
alla luce dello scopo e della finalità delle direttive.
Ha un contenuto negativo (simile a quello che in precedenza abbiamo definito effetto di esclusione, cioè l’obbligo a
carico del giudice nazionale di scartare l’interpretazione e l’applicazione della norma interna non compatibile alla
direttiva non recepita o non correttamente recepita. Non si tratta di applicazione, ma di mera interpretazione) e un
contenuto positivo (si tratta dell’obbligo del giudice nazionale di interpretare il proprio diritto interno, alla luce dello
scopo della direttiva e vedere se in via interpretativa, può comunque realizzare l’obiettivo perseguito dalla direttiva).
Nella sentenza Marleasing la Corte ha chiarito che l’obbligo di interpretazione conforme vale tanto per le interpretazioni
anteriori, quanto per quelle posteriori all’emanazione della direttiva. E che la direttiva è invocabile ai fini interpretativi
tanto nelle controversie verticali che in quelle orizzontali. Pertanto l’interpretazione conforme alle norme contenute nelle
direttive non incontra i limiti dell’efficacia diretta. Venendo agli aspetti temporali dell’interpretazione conforme, vediamo
che l’obbligo sorge alla scadenza del termine previsto per trasposizione della direttiva. La corte peraltro ha chiarito che
fin dall’entrata in vigore della direttiva il giudice e gli stati in generale hanno l’obbligo di astenersi per quanto possibile
dall’applicare, o introdurre misure, o i giudici dall’interpretare il diritto interno, in modo di compromettere la
realizzazione del risultato perseguito dalla direttiva. Il fatto che il giudice debba interpretare tutto il diritto nazionale, per
quanto possibile alla luce dello scopo e della finalità delle direttive, comporta anche che debba scartare tutto ciò che ad
esso si pone in contrasto. Tale obbligo decorre dalla scadenza del termine di recepimento, però già dall’entrata in vigore
della direttiva, vi è l’obbligo di stend still cioè scartare le interpretazione del diritto nazionale che contrastino con gli
obiettivi della direttiva.

L’interpretazione conforme inoltre non risolve tutti i problemi, ad esempio non può essere conta legem, se la direttiva dice
A e il diritto nazionale dice NON A per il legislatore nazionale sarà difficile interpretare la norma nazionale nel senso
voluto dal legislatore dell’Unione. La corte ha riproposto per l'interpretazione conforme alcuni dei limiti già precisati a
riguardo all’effetto diretto. Vi sono delle incertezze, ma ciò che è sicuro è che l’interpretazione conforme di una norma
nazionale alla luce della direttiva non può avere cm effetto quella di aggravare o determinare la responsabilità penale del
singolo. Può derivare a carico del singolo un obbligo? Magari un obbligo di natura civilistica?
In un primo momento la Corte ha risposto in senso negativo (sentenza Arcaro). Alla fine sembra che la corte abbia
adottato l’interpretazione opposta. Cioè dall’interpretazione conforme possono discendere obblighi civilistici a carico dei
singoli.
La corte ha poi affermato che se c’è una disciplina generale nazionale conforme alla direttiva e una disciplina speciale
difforme alla direttiva il giudice nazionale deve interpretare il diritto interno in modo da applicare anche nelle
controversie orizzontali fra privati la disciplina generale compatibile con la direttiva invece di quella speciale non
conforme a direttiva. La corte incoraggia molto il giudice nazionale all’aspetto creativo della sua funzione interpretativa.
Inoltre in alcuni casi la corte ha riconosciuto alle norme contenute nelle direttive, una limitata efficacia diretta, l’effetto di
esclusione anche nei rapporti orizzontali.
Abbiamo detto nell’ambito dell’effetto diretto possiamo distinguere tra effetto esclusione ed effetto sostituzione. L’effetto
sostituzione attiene alla disapplicazione della norma nazionale incompatibile con la norma dell’Unione e l’applicazione
della norma dell’Unione. Per quanto riguarda le norme contenute nelle direttive, l’effetto di sostituzione non è stato
ancora riconosciuto dalla Corte. Nei rapporti orizzontali le norme contenute nelle direttive non possono applicarsi in
luogo delle norme nazionali incompatibili. In determinate circostanze però questo è stato ritenuto possibile dalla corte,
cioè che le norme direttive possono produrre effetti di esclusione, cioè condurre alla mera disapplicazione delle norme
nazionali incompatibili dando luogo ad una lacuna che spetta all’interprete colmare. Le sentenze di riferimento sono tre:

a) cia security internetional: la corte ha riconosciuto la possibilità per un individuo di invocare innanzi ai giudici
nazionali la disposizione della direttiva nei confronti di un altro privato al fine di ottenere la disapplicazione di una
normativa interna non comunicata alla commissione in violazione di una direttiva comunitaria. Vi era una direttiva sulle
regole tecniche. Questa direttiva imponeva agli Stati di notificare alla commissione le regole tecniche da essa introdotte
prima della loro entrata in vigore. Disattendere a quest’obbligo significava non dare corretta attuazione alla direttiva. La

83
corte ha riconosciuto che queste regole tecniche dovevano essere disapplicate in quanto contrastanti con la direttiva, e
questo anche tra i rapporti orizzontali, e questo significa che anche nei rapporti tra privati il mancato recepimento della
direttiva può condurre al riconoscimento di una certa efficacia diretta limitata alla disapplicazione delle regole tecniche
incompatibili con la direttiva.
La corte ha chiarito il senso nella sentenza:
b) Unilever: che sorge dalla controversia tra Central food e Unilever, relativamente alla conformità dei prodotti di
quest’ultima alle regole tecniche italiane non notificate alla commissione. La difesa della Unilever afferma che non
essendo state queste regole tecniche comunicate alla commissione non era necessario che si conformasse ad esse. La corte
ha accolto tale interpretazione acconsentendo alla unilever di giovarsi di una direttiva non trasposta nell’ambito di un
rapporto orizzontale, di un giudizio contro la central food. La corte si è poi espressa dicendo che il giudizio della sentenza
cia security internetional trova applicazione anche quando i giudici nazionali sono chiamati a risolvere le competenze tra
privati. All’obiezione che le direttive non potessero produrre effetti diretti orizzontali la corte ha replicato che non si
trattava di effetti diretti orizzontali veri e propri, perché vi era soltanto un aspetto di esclusione non di sostituzione, nel
senso che la direttiva sulle regole tecniche rendeva inapplicabili le regole tecniche ma in nessun modo definiva la
sostanza della noma giuridica applicabile alla risoluzione del procedimento principale.
La corte sostanzialmente nega che si tratti di efficacia diretta orizzontale ma di fatto riconosce una limitata
efficacia diretta orizzontale alla direttiva limitata all’effetto di esclusione.
c) Lemmens: cittadino tedesco che è stato fermato dalla polizia stradale, guidava in stato di ebrezza, ha avuto il ritiro della
patente. L’avvocato ha provato a contestare il provvedimento amministrativo di deroga della patente affermando che le
regole tecniche in base alla quale il dispositivo per la misurazione del tasso alcolico era stato omologato non erano state
notificate alla commissione e quindi in opponibili al privato, la prova dello stato di ebbrezza del signor Lemmens viene
meno. La corte non ha accolto tale affermazione, affermando che in effetti il riconoscimento dell’effetto di esclusione
deve essere in qualche misura ricollegato alle finalità della direttiva. Ora la direttiva sulle regole tecniche aveva come
finalità quella della libera circolazione delle merci evitando che questa fosse ostacolata dall’introduzione di nuove regole
tecniche.
Volendo sintetizzare possiamo dire che gli individui possono beneficiare dell’effetto di esclusione solamente quando
la disapplicazione delle regole tecniche è funzionale agli scopi perseguiti dalla direttiva.

2) Interazione tra direttive e principi generali del diritto dell’unione.


Le direttive alcune volte si limitano a descrivere principi generali dell’unione, non inventano nulla di nuovo. Es.: sentenza
Mangold: il signor Mangold sosteneva di essere stato discriminato (lecita dal punto di vista del diritto tedesco, e si basava
su norme nazionali anteriori alla direttiva il cui termine di trasposizione non era ancora decorso) sul posto di lavoro dal
datore.
La corte fece leva sul fatto che gli stati devono astenersi dall’adozione di misure che possono pregiudicare gli obiettivi
che la direttiva deve conseguire, quindi l’applicazione della normativa precedente incompatibile poteva pregiudicare il
divieto di discriminazione sulla base dell’età.
Inoltre il principio di discriminazione, è un principio che c’è sempre stato, pertanto il singolo poteva giovarsi di questa
direttiva, perché ad applicarsi era proprio il principio generale di non discriminazione sulla base dell’età. La direttiva
aveva però comunque avuto l’obiettivo di applicare tale principio al caso di specie.
Abbiamo:
- una discriminazione fondata sulla base dell’età
- una direttiva non recepita il cui termine non era ancora scaduto
La corte riconosce applicabile alla fattispecie non la direttiva ma il principio generale di non discriminazione e la direttiva
serve come collegamento tra tale fattispecie che sembra essere puramente interna e il diritto dell’Unione.

3) Risarcimento dei danni.


Sentenza Francovich. Direttiva non recepita da parte dello stato italiano che prevedeva un fondo di garanzia in caso di
licenziamenti collettivi. Il signor Francovich vittima di questo tipo di licenziamento, voleva ottenere sulla base della
direttiva il riconoscimento di questa indennità. La corte non riconobbe tale diritto perché la norma contenuta in questa
direttiva non era incondizionata ma condizionata all’istituzione da parte dello stato italiano di un fondo di garanzia, quindi
l’individuazione di un soggetto passivo titolare dell’obbligo di indennizzo nei confronti di questi soggetti. La corte però
ha riconosciuto dal principio di leale collaborazione, e dall’efficacia vincolante delle direttive discendesse a carico dello
stato un obbligo di risarcire i singoli per i danni derivanti dalla violazione del diritto dell’unione. Principio che trova
applicazione in presenza di tre presupposti: non basta qualsiasi violazione ma questa deve essere grave e manifesta, poi la
norma violata deve essere preordinata a conferire diritti ai singoli, terzo riguarda il nesso tra la violazione grave e
manifesta della norma della direttiva e il danno subito dal privato, il nesso deve essere di causalità.
Deve essere, tale risarcimento, chiesto dinanzi ad un giudice nazionale.

84
CAPITOLO 5: La funzione giudiziaria
10 novembre 2014

La fase della tutela giurisdizionale vede protagonista la Corte di giustizia dell'UE, istituzione unica articolata in tre
diversi organismi: la Corte di giustizia (organo di vertice del sistema), il Tribunale e i Tribunali specializzati (oggi l'unico
tribunale specializzato operante è quello della funzione pubblica). Tale sistema è frutto di un'evoluzione storica che, verso
la fine degli anni '80, vede la nascita del Tribunale come giudice di primo grado e, con la riforma del Trattato di Nizza nel
2003, l'istituzione dei Tribunali specializzati (allora Camere giurisdizionali), che ha permesso poi la creazione del
Tribunale della funzione pubblica. I rapporti tra queste tre corti sono di tipo piramidale, fondati però sulla base di criteri di
competenze regolati dai trattati e dallo statuto.

Quello a cui si sta assistendo in questo periodo è un tentativo di rivisitazione di questo sistema, in quanto il Tribunale, che è
l'istituzione a competenza generale di primo grado (eccezion fatta per quelle materie espressamente devolute al Tribunale della
funzione pubblica), è in evidente ritardo nella definizione delle controversie, perché gravato da numerose e complesse cause (si
pensi a quelle in tema di concorrenza). Tali ritardi portano con sé la principale conseguenza di indurre le parti in causa a
reagire attraverso l'azione di risarcimento danni nei confronti della Corte, con la quale si invoca il provvedimento di condanna
in forza della violazione della regola che impone al giudice dell'Unione una rapida definizione delle cause; regola, questa, che
proviene dai principi generali del diritto, dall'art. 6 CEDU, e oggi, anche dalla Carta europea dei diritti fondamentali che
codifica, all'art. 47, il principio del processo equo (il processo è equo soprattutto se viene definito in tempi ragionevoli).
Per ovviare a questo annoso problema, da qualche anno sono state avanzate proposte di modifica dello Statuto della Corte per
ciò che concerne la composizione del Tribunale o, in alternativa, la creazione di nuovi Tribunali specializzati. La riforma
avvenuta a Nizza del 2003, rende possibile questa modifica anche senza ricorrere al complesso meccanismo di revisione dei
trattati (che prevede la creazione di una CIG, di una convenzione ), ma solo attraverso una decisione del Consiglio. All'art.
254 TFUE, infatti, è previsto che il numero dei giudici del Tribunale è fissato dallo Statuto della Corte, quindi non è codificato
nei trattati, e può per questo essere modificato con decisione del Consiglio, avendo riguardo della sola regola (stabilita dal
TUE) per la quale il Tribunale deve essere composto da almeno un giudice per stato membro (e non da un giudice per stato
membro come per la Corte di giustizia). La proposta di aumentare i giudici del Tribunale comporta, o il raddoppiamento del
numero attuale, o l'aumento di un numero più ridotto. In virtù di quest'ultima possibilità la Corte propose di aumentare il
Tribunale di 9 unità, ma l'iniziativa non andò a buon fine perché, gli Stati, che dovevano votare all'unanimità la decisione, non
trovarono un accordo in tal senso. La Corte, a sua volta, non accolse positivamente la richiesta del Tribunale di istituire nuovi
Tribunali specializzati, tra cui innanzitutto un tribunale volto a dirimere il contenzioso sulla proprietà intellettuale, contenzioso
che lo vede occuparsi dei ricorsi presentati dai privati contro le decisioni assunte dall'Ufficio per l'armonizzazione del mercato
interno (ha sede ad Alicante e si occupa di marchi e brevetti) e che conta almeno 300 cause l'anno; quindi la creazione di un
Tribunale specializzato in questo settore avrebbe sgravato notevolmente il carico del Tribunale, che sarebbe intervenuto in
questa materia solo in sede d'impugnazione (come avviene oggi per il Tribunale della funzione pubblica).
La Corte ritenne, però, che la frammentazione tra vari organi giurisdizionali del compito di decidere delle controversie con
oggetto il diritto dell'Unione Europea, potrebbe essere un rischio per l'unità e la coerenza del diritto dell'Unione, comunque
assicurati, in ultima istanza, dalla stessa Corte di giustizia in sede di riesame (su iniziativa del primo avvocato generale
avverso le sentenze del Tribunale). Per adesso non si è trovata alcuna soluzione soprattutto per motivi di budget, visto che
l'incremento del numero dei giudici porterebbe inevitabilmente a delle spese. La situazione è arrivata però ad essere
insostenibile: le cause sono decise in tempi eccessivamente lunghi (5/6 anni per un grado). Questo è evidente soprattutto dal
proliferare dalle azione di risarcimento danni contro l'UE; è quindi evidente che, anche in termini di risparmio, è più rischioso
mantenere questo sistema. La Corte ha deciso dunque di intervenire restando ferma sulla propria posizione: è di poche
settimane fa la sua proposta al Consiglio (non avallata dal Tribunale che chiede ancora nuovi Trib. specializzati) di
incrementare i giudici del Tribunale (da 28 a 56), con l'assorbimento immediato del Tribunale della funzione pubblica e delle
controversie ad esso devolute (i 7 giudici che lo compongono diventerebbero nuovi giudici del Tribunale). Si attende la
decisione del Consiglio.

L'applicazione del diritti dell'UE non è solo un compito esclusivo delle corti dell'UE, ma è un compito condiviso con
qualsiasi organo giurisdizionale degli Stati membri, e questo perché, quando si è creato il sistema giurisdizionale
dell'Unione, si è partiti dalla premessa per la quale il diritto comunitario (oggi dell'Unione) è composto da regole
immediatamente applicabili nel territorio degli Stati membri (principi dell'efficacia diretta e della diretta applicabilità di
alcuni atti dell'Unione). Quindi è ovvia la conseguenza per la quale, alla responsabilità dei giudici dell'UE - per
l'applicazione del diritto dell'Unione - si affianca quella dei giudici nazionali (che sono tutti - come li definisce la Corte -

85
giudici comuni del diritto comunitario), cui è affidato il compito di tutelare i diritti attribuiti dall'ordinamento dell'Unione.
Per stabilire quali siano le rispettive conseguenze si deve guardare alle regole fissate nei trattati e, quindi, al principio di
attribuzione che informa l'intero sistema: le corti comunitarie si occupano esclusivamente dei ricorsi giurisdizionali
attribuiti loro dai trattati; tutte le altre controversie, che pure riguardino l'applicazione dei diritti dell'UE, sono di
competenza dei giudici nazionali, o anche dei tribunali arbitrali, se l'ordinamento nazionale prevede il loro intervento.
Considerato questo principio, si comprende il motivo per il quale l'art. 19 TUE, dedicato alle istituzioni dell'UE, non si
limita ad indicare come organi giurisdizionali dell'UE le corti comunitarie, a cui affida il compito di assicurare il rispetto
del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati (1 ー comma), ma dispone, nel 2 ー comma, che gli Stati
membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori
disciplinati dal diritto dell'Unione. Gli Stati membri, non solo devono applicare il diritto dell'Unione, ma devono anche
informare il loro sistema giurisdizionale affinché la tutela da esso garantita sia effettiva; questo principio, riprodotto dal
Trattato per essere esteso agli Stati membri, si ricava in realtà dalla CEDU, agli artt. 6 e 13, nei quali si riconosce quale
principio fondamentale il diritto alla tutela effettiva dei diritti attribuiti della stessa Convenzione: non basta una generica
affermazione di principio per la quale la violazione di un diritto trova garanzia dinanzi ai giudici nazionali, necessario è
invece che questa tutela sia capace di dare un ristoro effettivo alle eventuali violazioni che gli Stati membri pongono in
essere rispetto a quei diritti fondamentali. Questa necessità pone in capo alla Corte di giustizia dell'UE, ma anche ai
giudici nazionali, il difficile compito di valutare il grado di effettività della tutela giurisdizionale. La traduzione, in termini
concreti, del principio di effettività è rappresentata dalla sentenza Francovich: veniva stabilito il principio per il quale, il
mancato recepimento di una direttiva comunitaria entro la data ultima stabilita nel provvedimento, poteva determinare, a certe
condizioni, una condanna dello Stato e un obbligo di risarcimento del cittadino che fosse risultato leso dall'inadempiente
comportamento. Nel caso di specie la direttiva imponeva all'Italia di creare un fondo di garanzia a tutela di quei lavoratori lesi
dallo stato di insolvenza del proprio datore (per la mancata remunerazione); e, in conseguenza del mancato recepimento della
direttiva, la Corte ha affermato che, qualora lo stato non consenta al lavoratore di avere accesso a questa tutela (al fondo di
garanzia), il principio di effettività impone la creazione di un ulteriore strumento di tutela che permetta al privato di reagire
nei confronti dell'inadempimento del suo stato, in questo caso, attraverso il risarcimento del danno. La Corte ha verificato,
cioè, lo stato di effettività della tutela giurisdizionale offerta dall'Italia ai privati, ha constatato la sua insufficienza, ed ha
aggiunto uno strumento in più per garantire la corretta interpretazione ed applicazione del diritto comunitario. Un altro caso
che ha fatto scalpore, in tal senso, è : (Inghilterra, fine anni 90): alcuni pescherecci spagnoli venivano esclusi dal registro delle
imbarcazioni legittimate a pescare nei mari inglesi in ragione della loro sede di stabilimento; si creava quindi una
discriminazione, in base alla nazionalità, incompatibile con il diritto dell'Unione; sicché questi soggetti chiesero l'iscrizione a
registro immediata come misura di cautelare, ma si trovarono di fronte ad una regola propria della Common law per la quale,
è impossibile, per un giudice, imporre al potere pubblico l'adozione di una misura cautelare. Regola, questa, in contrasto con il
principio di tutela effettiva in quanto si obbligava questi soggetti - indipendentemente dal fatto che avessero torto o ragione –
ad attendere i tempi di definizione della controversia, che avrebbero potuto pregiudicare la tutela effettiva dei loro diritti
(interesse di essere inseriti immediatamente nei registri e partecipare alla successiva campagna di pesca). La Corte ha
affermato, in quest'occasione che, la tutela effettiva dei diritti dell'Unione richiede che il giudice nazionale, non intenti un
ricorso (come avvenuto in questo caso), ma disapplichi la regola che vieta l'imposizione di misure cautelari al potere pubblico.
L'obbligo di tutela effettiva, quindi, vediamo avere diverse conseguenze a seconda della conformazione dell'ordinamento
nazionale (in Italia bisognava aggiungere una regola, in Inghilterra disapplicarne un'altra).
In sostanza, l'art. 19 crea un sistema coordinato che vede protagonisti, oltre ai giudici della Corte di giustizia
dell'UE, anche quelli nazionali, che condividono il ruolo di giudici del diritto dell'Unione, ciascuno in base alle
competenze attribuite loro dai trattati. Il meccanismo di collaborazione trova poi il suo culmine nel rinvio
pregiudiziale, che consente al giudice nazionale di avere un conforto, a livello comunitario, sulle soluzioni da prendere
ogni qualvolta è chiamato a dare tutela ai soggetti in base alle regole del diritto dell'UE; tale strumento non avrebbe senso
se non vi fosse una attribuzione (implicita) ai giudici nazionali del compito di tutelare il diritti previsti dall'ordinamento
comunitario.

Da questo quadro emerge che, è vero che i trattati creano delle fonti, ma quando si tratta di vera applicazione del diritto
comunitario, i reali protagonisti sono i giudici degli Stati membri, coloro i quali per primi devono garantire il rispetto e
l'applicazione dei principi dell'Unione. Per sostenere quest'affermazione prendiamo in considerazione due esempi.
1 ー Esempio (inventato): nel caso dovessimo ritenerci discriminati da un concorso indetto in Francia, in cui si chieda tra i
requisiti di possedere un titolo di laurea conseguito in quella nazione, dovremmo rivolgerci, per chiedere tutela, al giudice
francese che, in quel caso, non potrebbe invocare in alcun modo le norme del suo ordinamento a difesa della violazione del
divieto di discriminazione, questo perché chiamato a garantire l'applicazione del diritto comunitario e dei suoi principi
all'interno del suo stato membro dell'UE.

86
2 ー Esempio: nel nostro ordinamento è stata recepita una direttiva (sui contratti conclusi fuori dai locali commerciali) a tutela
del consumatore che attribuisce a questi il cd. diritto al ripensamento, la facoltà cioè di mettere in discussione la
manifestazione di volontà perfettamente esercitata e recedere così dal contratto. Era altresì in vigore una disposizione che
prevedeva l'obbligo per il venditore di informare la controparte del suo diritto di recesso, ma nulla diceva la direttiva sul caso
in cui questa informazione non dovesse essere fornita. Un caso che verteva proprio su questa eventualità si ebbe in Germania,
dove la normativa nazionale prevedeva un termine entro cui esercitare il diritto di recesso, sia nel caso l'informazione venisse
data (60 giorni dalla conclusione del contratto), sia nel caso opposto (dal momento in cui le prestazioni venivano completate, e
comunque, non più tardi di 1 anno dal momento della conclusione del contratto). La questione arrivò alla Corte di giustizia
alla quale si chiedeva se, nel caso in cui il consumatore non venisse informato del suo diritto di recesso, la controparte potesse
eccepire la tardività prevista dalla normativa nazionale; questa rispose negativamente: se il venditore non ha adempiuto il suo
obbligo d'informazione non può mai eccepire la tardività dell'azione; la disposizione in questione non è conforme alla direttiva
sulla tutela del consumatore e deve quindi essere disapplicata dal giudice nazionale.
In Italia la normativa, modificata solo qualche settimana fa (quindi ancora vigente per i contratti stipulati prima della nuova
legge), era ancora più severa, e prevedeva, quale termine per esercitare il diritto di recesso quello di 20 giorni se l'info veniva
fornita, e di 60 giorni nel caso contrario.
Osservando i due esempi riportati, è chiaro come, nell'ultimo caso, l'effettività della tutela è più difficile da conseguire; e
questo perché, mentre nel primo caso la violazione del principio di non discriminazione è facilmente individuabile, essendo il
sistema dell'Unione notoriamente ispirato ad esso; nel secondo caso la direttiva è recepita all'interno di una legge e quindi la
sua natura comunitaria non è immediatamente verificabile, di conseguenza sarà meno probabile che un privato pretenda tutela
per la violazione di un diritto attribuito dall'ordinamento comunitario. La questione risulta ancora più complessa se si pensa
che, nel caso di specie, la direttiva non conteneva nessun riferimento circa i termini per l'esercizio del diritto di recesso, ed è
stato perciò necessario adire alla Corte per ottenere chiarimenti in merito. Occorre, dunque, una adeguata preparazione dei
soggetti che operano nel settore giurisdizionale per garantire ai privati una tutela effettiva.

Passando ad esaminare l'attività della Corte, troviamo un'indicazione delle competenze ad essa attribuite, nell'ultima parte
dell'art. 19 TUE, in cui si legge che, la Corte di giustizia dell'UE si pronuncia conformemente ai trattati: a) sui
ricorsi presentati da uno Stato membro, da un'istituzione o da una persona fisica o giuridica; b) in via
pregiudiziale, su richiesta delle giurisdizioni nazionali, sull'interpretazione del diritto dell'Unione o sulla validità
degli atti adottati dalle istituzioni; c) negli altri casi previsti dai trattati.
Qui si schematizza la distinzione tra giurisdizione contenziosa e giurisdizione non contenziosa. Alla prima
appartengono tutte le fattispecie attribuite alla competenza della Corte di giustizia dell'UE nelle quali essa è chiamata a
decidere chi ha ragione e chi ha torto; i potenziali attori sono gli Stati membri, le istituzioni (contro gli Stati, altre
istituzioni, o contro i privati) e i privati (solo nei casi in cui la parte convenuta è un'istituzione dell'UE, negli altri casi è
competente il giudice nazionale). Alla seconda invece appartiene, tra le più importanti fattispecie, quella del rinvio
pregiudiziale, attivato su iniziativa di un giudice nazionale che interroga la Corte sulla interpretazione del diritto
comunitario o sulla validità degli atti delle istituzioni (meccanismo che si ispira al controllo di costituzionalità dei sistemi
interni). Un'altra distinzione sull'attività della Corte può essere operato in base alle categorie nazionali: essa opera come
vero e proprio giudice amministrativo ogni qualvolta giudica sulle impugnazioni degli atti delle istituzioni da parte dei
privati (giurisdizione tipicamente amministrativa perché si pronuncia sul solo atto); in altri casi opera come giudice
costituzionale, questo quando si occupa del cd. contenzioso interistituzionale (come avviene nel caso in cui la Corte
Costituzionale giudica dei ricorsi che vedono protagonisti i poteri dello stato o diverse configurazioni dell'apparato
statale: es. stato-regioni), si faccia il caso in cui il Parlamento dell'Ue si lamenti della decisione assunta dal Consiglio, in
quanto la base giuridica (l'articolo del trattato su cui si fonda l'intervento legislativo) scelta da quest'ultimo comporta una
procedura di adozione di quell'atto che non attribuisce al Parlamento i poteri che questo ritiene di dover esercitare.
Questo tipo di controversia è di competenza esclusiva della Corte di giustizia: laddove il trattato attribuisce espressamente
la competenza alla Corte, questa è sempre esclusiva, mai in concorrenza con i giudici nazionali o internazionali;
addirittura c'è una regola nei trattati che vieta alle parti (Stati compresi) di rivolgersi, per la definizione delle controversie,
ad organi diversi dalla Corte di giustizia, se per quella controversia la competenza è attribuita dai trattati alla Corte stessa.
Se lo stato italiano ha, nei confronti dello stato francese, un contenzioso sull'applicazione del diritto comunitario, non può
assumere comportamenti di ritorsione (non rispettando, ad esempio, a sua volta una parte del trattato verso la Francia), ma
dovrà accedere al meccanismo di risoluzione delle controversie codificato nei trattati, coinvolgendo cioè la Corte di
giustizia. La Corte di giustizia dell'UE svolge oggi anche la funzione di giudice del lavoro, per ciò che concerne il
Tribunale per la funzione pubblica, in cui si giudica sui rapporti di lavoro, esistenti o in via di formazione, tra i privati ed
il sistema dell'Unione. Il Trib. per la funzione pubblica se ne occupa in primo grado, il Tribunale in sede d'appello, la
Corte di giustizia se ne occupa attraverso il meccanismo del riesame.

87
11 novembre 2014

RIPARTIZIONE DI COMPETENZA GIURISDIZIONALE TRA CORTE DI GIUSTIZIA E TRIBUNALE E


PROCEDURA DI INFRAZIONE

La procedura di infrazione è una delle azioni di competenza della Corte di Giustizia dell'UE riservata alla corte di
giustizia. È facile fare confusione tra corte di giustizia e corte di giustizia dell'UE, bisogna ricordare che la corte di
giustizia è una delle componenti della corte di giustizia dell'UE.
Come si ripartiscono le competenze tra corte di giustizia e tribunale?
Si ripartiscono in base ad una regola che contiene delle eccezioni che a loro volta contengono delle eccezioni, quindi è un
sistema abbastanza complicato. La regola di base all'art 256 TFUE indica le azioni di competenza del tribunale, ma
leggere l'articolo non basta perché questo a sua volta opera un rinvio allo statuto della corte di giustizia dell'UE e quindi,
bisogna confrontare i risultati della lettura dell'articolo del trattato con il testo dello statuto. Il motivo per cui non c'è tutto
nello statuto è abbastanza semplice; è per dare la possibilità di modificare le regole di dettaglio che sono dello statuto
senza procedere ad una revisione dei trattati. Ricordiamo che la revisione del trattato richiede un procedimento
complesso, la revisione dello statuto si può ottenere con una decisione del consiglio all'unanimità.
L'art 256 TFUE dice che il tribunale è competente a conoscere il primo grado dei ricorsi di cui ad una serie di articoli:
art 263, art 265, art 268, art 270, art 272.
L'art 263 attribuisce alla corte di giustizia la competenza a conoscere sui ricorsi contro gli atti delle istituzioni;l'art 265
attribuisce alla corte la competenza a conoscere dei ricorsi contro la carenza d'agire delle istituzioni (non si impugna l'atto
ma si impugna la mancata adozione dell'atto); l'art 268 riguarda la responsabilità extracontrattuale cioè l'azione di danno
nei confronti dell'UE; art 270 riguarda il contenzioso del personale ma in deroga a questa indicazione è il tribunale della
funzione pubblica che se ne occupa in primo grado; art 272 riguarda la competenza a conoscere di controversie in base ad
una clausola compromissoria, quindi una funzione di tipo arbitrale affidata alla corte di giustizia se così vogliono le parti
di un contratto. Ad esempio quando le istituzioni concludono un contratto di fornitura di materiali. Spesso in questo tipo
di contratti si inserisce una clausola compromissoria che prevede la competenza a conoscere le controversie, in base a
quel contratto,affidata alla corte di giustizia. Quindi per questo tipo di azioni il tribunale è competente a conoscere in
primo grado con la possibilità che le sue decisioni siano sottoposte ad un secondo grado di giudizio che è più un giudizio
di cassazione che di appello. Ma questa indicazione non è esaustiva perché l'art 275 ci dice che queste attribuzioni di
competenza nelle azioni dirette trovano delle eccezioni e queste eccezioni sono riferite soprattutto ai ricorsi affidati ai
tribunali specializzati oppure alle azioni che lo statuto riserva alla corte di giustizia;quindi per capire come funziona il
sistema bisogna dare soprattutto uno sguardo all'art 51 dello statuto sul funzionamento della corte che ci indica quali sono
le eccezioni alle regole che abbiamo appena detto.
Quindi la regola è quella per cui tutti i ricorsi in primo grado che riguardano l'elenco di azioni quali
annullamento,carenza, di responsabilità e il caso della compromissione sono affidate al tribunale con le eccezioni indicate
nell'art51 cioè quei ricorsi che pur rientrando in queste categorie vengono riservate alla corte di giustizia come unico
giudice competente. Quindi la regola generale:tribunale competente in primo grado,corte di giustizia in secondo
grado; eccezione corte di giustizia in unico grado.
Si parla innanzitutto all'art 51 di competenza riservata alla corte di giustizia per i ricorsi proposti,ai sensi dell'art 263 e
265,da uno stato membro. Quindi se il ricorrente è uno stato membro,la sua natura determina la competenza esclusiva
della corte di giustizia. Es.: se la Germania impugna una direttiva adottata dal Parlamento o dal Consiglio,l'unico giudice
competente per questo tipo di contenzioso è la Corte di Giustizia perché si è ritenuto che questo tipo di contenziosi, che
hanno un valore quasi internazionale,meritano di essere trattati dall'organo giudiziario di vertice e non possono sopportare
il doppio grado di giudizio che renderebbe incerta la soluzione. Ricordiamo che il tribunale nasce come organo giudiziario
dei fatti a tutela dei privati,mentre per questo contenzioso di diritto pubblico in senso ampio non si è ritenuto necessario il
doppio grado di giudizio.
Quindi la prima eccezione alla regola è quella per cui la corte di giustizia in unico grado si occupa dei ricorsi presentati
dagli stati nei confronti delle istituzioni che hanno ad oggetto l'annullamento di un atto o la constatazione di una carenza
ad adottarne uno nuovo.
Ma esistono anche delle eccezioni all'eccezione cioè dei casi in cui nonostante si rientri in questa sub categoria (cioè
ricorsi presentati dallo stato)la competenza viene mantenuta in capo al tribunale. Queste eccezioni sono espressamente
indicate all'art 51. Si parla di casi limitati e ben determinati nei quali il tribunale rimane competente ad occuparsi di
ricorsi contro un atto o un'astensione dal pronunciarsi del parlamento europeo, o del consiglio di stato quando si tratta di
decisioni in materia di aiuti di stato o di atti che riguardano la politica di difesa commerciale ;in questi casi permane la
competenza del tribunale. Casi del genere sono abbastanza rari,è più facile che si avveri una situazione in cui gli stati
membri impugnano le decisioni del Parlamento o del Consiglio dinanzi alla Corte di giustizia.
Se invece si tratta di atti o di astensioni della commissione si pone un serio problema perché vi ho fatto già l'esempio della
decisione assunta dalla commissione in materia di aiuti di stato. Secondo l'eccezione che vi ho appena detto, trattandosi di
un ricorso di uno stato contro un'istituzione, la regola dovrebbe essere quella del mantenimento della riserva di
competenza alla corte, però ci sono delle situazioni in cui questa eccezione crea una situazione facilmente giustificabile.
Es.: caso degli aiuti di stati. Pensate al caso di una decisione della commissione che accerta la violazione della regola
sugli aiuti di stato perché uno stato membro ha adottato un provvedimento che favorisce determinate imprese e crea una

88
distorsione della concorrenza. Ad esempio in questi giorni si è parlato della disciplina fiscale in Lussemburgo che è
accusata di essere favorevole nei confronti di determinate imprese e quindi si discute se questo intervento di favore sia un
aiuto di stato che distorce la concorrenza, seleziona determinate imprese e quindi dovrebbe essere vietato. Pensate oppure
agli aiuti di stato nei confronti di Alitalia.
Questa decisione, adottata dalla commissione, se è una decisione negativa che qualifica un aiuto come aiuto di stato ha
come destinatario lo stato membro, è lo stato che risponde della misura in quanto è imputabile allo stato. Però una misura
del genere chiaramente favorisce determinate imprese. Nel caso di Alitalia, se si qualifica la misura adottata dallo stato
italiano nei confronti di Alitalia come un aiuto di stato, ovviamente la decisione della commissione sarà indirizzata allo
stato ma avrà come ulteriore soggetto coinvolto il soggetto che ha ricevuto la misura di aiuto. E quindi una decisione del
genere, trattandosi di un atto obbligatorio, può essere impugnata davanti al giudice dell'UE.
Fino alla modifica dello statuto, la disciplina era nel senso di distinguere il giudice competente in base al ricorrente:se
ricorrente era lo stato, giudice competente era la Corte di giustizia; se ricorrente era il privato, il giudice competente era il
tribunale e le regole dello statuto facevano in modo che una delle due corti dovesse sospendere il giudizio e riconoscere la
competenza dell'altra corte. Normalmente avveniva che il tribunale sospendeva la causa riconoscendo la competenza della
corte con la conseguenza che dinanzi alla corte di giustizia ,il privato era costretto a non partecipare al giudizio. Ma
questo non andava bene. Spesso le ragioni dell'impresa venivano rappresentate dallo stato per cui si è deciso di cambiare
questa regola e prevedere che laddove si impugna una decisione della commissione, il giudice competente è sempre il
Tribunale anche se l'impugnazione è proposta da uno stato membro. La materia degli aiuti di stato determina la
competenza in primo grado del tribunale.
Questo succede ad esempio anche nel caso dei fondi strutturali. Qualche giorno fa sui giornali potevate leggere la
decisione, assunta dalla Corte di Giustizia, di confermare la decisione del tribunale che ha ridotto i fondi a destinazione
della regione Campania per la mancata utilizzazione dei fondi per far fronte alla crisi dei rifiuti.
Questo è il sistema di ripartizione di competenza tra corte di giustizia e tribunale ma in realtà c'è qualcosa in più che però
al momento non ha trovato applicazione e cioè l'affidamento al tribunale di competenza pregiudiziale. La competenza
pregiudiziale viene qualificata come la procedura che mette addirittura un palo tra giudice nazionale e corte di giustizia
per due motivi: per ottenere un'interpretazione corretta del diritto dell'UE e per ottenere un giudizio sulla validità delle
istituzioni dell'UE. È una competenza che è stata sempre riservata alla corte di giustizia perché la corte, in sostanza, ha
funzione nomofilattica. Si è ritenuto che il tribunale non potesse mettere in discussione questa competenza perché
altrimenti si metterebbe a repentaglio lo scopo principale di questa procedura che è appunto quella di fornire
un’uniformità del diritto dell’unione e per evitare le lungaggini proprie del doppio grado di giudizio.
Ma ciò nonostante, con il trattato di Nizza si è pensato che potenzialmente si potesse devolvere al tribunale anche questa
competenza inserendo nel testo dei trattati una clausola abilitante cioè una disposizione che consente, modificando lo
statuto, di devolvere al tribunale la competenza pregiudiziale per materie definite. Si pensava alle materie tipiche di
competenza del tribunale come ad esempio il diritto di concorrenza. Il contenzioso in materia di concorrenza si può
svolgere dinanzi al tribunale attraverso un ricorso presentato da un'impresa nei confronti di una decisione della
commissione che accerta un violazione delle regole di concorrenza e commina una sanzione pecuniaria. Il contenzioso in
materia di concorrenza può arrivare dinanzi alla corte anche attraverso il rinvio pregiudiziale qualora è un giudice
nazionale ad accertare la violazione delle regole di concorrenza. Le regole di concorrenza possono essere oggetto di
ricorso sia attraverso un intervento delle autorità, sia attraverso un'azione svolta da un privato contro un altro privato.
Questa modifica, cioè quella di inserire una clausola che affidasse al tribunale la competenza in materia pregiudiziale,
non c'è mai stata. Nel caso in cui questa modifica prendesse vita, la Corte di giustizia manterrebbe sempre il suo ruolo
principale perché il trattato prevede che le sentenze adottate dal tribunale in base ad una competenza pregiudiziale (che al
momento non ha ) possono giungere alla corte di giustizia ma non attraverso il secondo grado di giudizio ma attraverso il
meccanismo di riesame che è già operante per ciò che riguarda le materie dinanzi ai tribunali specializzati e che consente
all'avvocato generale di sottoporre alla corte di giustizia una sentenza del tribunale qualora la ritenga capace di mettere in
discussione l'unità e la coerenza del diritto dell'UE. Quindi anche qualora ci fosse questa devoluzione di competenza al
tribunale,la corte di giustizia manterrebbe la possibilità di intervenire per modificare la sentenza su iniziativa si un suo
membro ovvero il primo avvocato generale.

PROCEDURA DI INFRAZIONE
Rientra nella famiglia dei procedimenti contenziosi. I procedimenti contenziosi sono quelli in cui la corte di giustizia
dell'Ue svolge le funzioni di giudice a tutti gli effetti. In base al principio di attribuzione è il trattato che ci dice quali
sono le competenze contenziose e una di queste riguarda il procedimento d'infrazione disciplinato agli articoli 258, 259,
260 del trattato.
Il procedimento di infrazione è il sistema che fin dagli anni '50 i redattori dei trattati hanno voluto introdurre allo scopo di
creare un meccanismo, interno all'unione, di controllo del comportamento degli stati stessi, quindi sono gli stati stessi che
decidono di sottoporsi ad un controllo. Per come è stato inizialmente concepito, era un procedimento che affidava alla
commissione il ruolo di guardiana degli stati, affidava alla corte il ruolo di decidere con sentenza se ci fosse stata una
violazione ma poi il sistema veniva disarmato dal fatto che la corte non potesse fare altro che assumere una sentenza di
tipo dichiarativo cioè accertare la violazione senza poter fare altro.
Lo scopo di questo procedimento, più che quello di sanzionare gli stati, è quello di contribuire al ripristino della legalità
comunitaria cioè fare in modo che gli stati siano messi alla berlina.

89
Il procedimento nella prima fase è affidato all'organismo che detiene il ruolo di vigilanza sul rispetto del diritto dell'UE
cioè la Commissione quindi è affidato ad un organismo indipendente rispetto agli stati.
Per alcuni settori gli stati membri non hanno accettato il procedimento di infrazione soprattutto da quando questo
procedimento è diventato particolarmente invasivo e quindi è stata esclusa l'applicazione del procedimento per alcune
materie quali soprattutto quelle del secondo pilastro cioè Politica estera e sicurezza comune, cioè per il settore che è stato
sempre piuttosto peculiare sia per quanto riguarda la formazione degli atti, sia per le competenze della corte di giustizia in
quanto denota la volontà degli stati di non perdere il controllo di ciò che avviene nella politica estera. Questa caratteristica
del secondo pilastro si denota anche nell'impossibilità della commissione di dar corso al procedimento d'infrazione.
Questo vale anche per le procedure, previste dal TFUE, rispetto al controllo del rispetto da parte degli stati membri degli
obblighi in tema di disavanzo eccessivo(cioè controllo dei conti pubblici dello stato); anche in questo caso i
comportamenti degli stati potranno essere controllati, ma il controllo è affidato agli stati stessi. La procedura di infrazione
ha principalmente lo scopo di convincere lo Stato a ripristinare la verità comunitaria prima di assumere provvedimenti,
pensate a una procedura di scambio, di prese di posizione tra la Commissione e lo Stato coinvolto, con l'obiettivo di
convincere lo Stato della sua situazione di inadempimento e quindi di far in modo di risolverla prima ancora di
coinvolgere la Corte di giustizia. È una procedura con cui la Commissione svolge dei negoziati con lo Stato che anche
per questo motivo non sono particolarmente spediti, per lasciare del tempo allo Stato di recuperare il suo
inadempimento prima di coinvolgere l'organismo giurisdizionale e questo spiega le diverse fasi in cui questo
procedimento si svolge (di cui parleremo tra un attimo).
La prima questione che va affrontata è la qualificazione della violazione, cioè quale tipo di comportamento di uno Stato
può dar luogo ad inadempimento che può essere sottoposto al procedimento di infrazione; e qui la risposta è abbastanza
semplice perché si tratta di qualsiasi violazione a qualsiasi obbligo imposto dall'UE in qualsiasi fonte esso si
rinvenga: anzitutto nei trattati, nel diritto primario dell'Ue, negli accordi internazionali conclusi dall'Unione con Paesi
terzi, negli atti di diritto derivato, in particolare, che è l'ipotesi più frequente, la violazione di una direttiva. Sapete, la
direttiva è l'atto che per definizione richiede un intervento di attuazione e quindi mette alla prova lo Stato membro sui
suoi comportamenti anche dal punto di vista legislativo: se l'intervento non avviene, o avviene in maniera non conforme
alla direttiva questo dà luogo, normalmente, ad un procedimento di infrazione.
Il problema, però, è anche capire quale organismi dello stato siano capaci di condurre all'inadempimento. Anche qui la
risposta che emerge dalla giurisprudenza della Corte di giustizia è una risposta totalizzante cioè “qualsiasi soggetto
riconducibile allo Stato”. Quindi non soltanto il potere centrale, come nel caso che vi ho appena fatto: cioè
l'inadempimento del parlamento nazionale dell'obbligo di dare attuazione ad una direttiva comunitaria (questo è un
classico), ma anche i poteri territoriali e locali, come le regioni, i comuni, le province, qualsiasi soggetto che abbia il
potere di dare applicazione ad una norma comunitaria e quindi abbia il potere di violarla.
La regola è quella per cui, a prescindere dal soggetto concretamente colpevole dell'inadempimento, è lo Stato che ne
risponde, quindi se la regione Campania non dà una corretta applicazione ad un obbligo comunitario, il procedimento di
infrazione in ipotesi si svolgerà esclusivamente nei confronti dello stato italiano e questo anche laddove l'organizzazione
interna dello Stato affidi agli enti territoriali dei poteri anche di tipo normativo, attribuisca delle competenze anche di tipo
esclusivo, come nel caso delle Land tedesche, come nel caso delle nostre regioni in alcuni settori. Non è una
giustificazione dello stato invocare l'impossibilità, secondo l'ordinamento nazionale, di intervenire nelle materie riservate
alla competenza di un altro soggetto pubblico. Non può lo stato tedesco dire “la Sassonia ad aver violato quella direttiva
sugli appalti, non noi! Perché hanno adottato quella normativa di loro competenza che noi non possiamo sostituire, perché
il nostro ordine costituzionale prevede una ripartizione di competenze tale da affidare a quell'ente territoriale l'unica
possibilità di intervento.” Se così fosse allora sarebbe impossibile sostanzialmente gestire la vigilanza sul comportamento
degli stati. La regola è quella per cui l'unico soggetto imputabile è lo Stato, spetta allo stato organizzare il proprio
ordinamento in maniera tale da garantire il risultato dovuto dall'ordine dell'unione a prescindere dall'organismo interno
materialmente competente e vedremo che nel nostro ordinamento c'è una legge, la legge 234/2012 che si occupa tra le
altre cose, anche di questo, cioè si occupa dei meccanismi di controllo e anche di sostituzione che lo stato può
mettere in campo per evitare l'inadempimento di altri soggetti o per rivalersi sul soggetto pubblico effettivamente
responsabile dell'inadempimento. Quindi questo è un compito che spetta agli Stati, ma di fronte alla Commissione
e alla Corte di giustizia l'unico soggetto che risponde è lo Stato. Addirittura anche un comportamento dei privati può
dar luogo ad un procedimento di infrazione ogni qualvolta questo comportamento non venga arginato ed eventualmente
sanzionato dallo Stato.
In definitiva è sempre lo stato che commette una scorrettezza: non interviene laddove i comportamenti dei privati creano
una violazione al diritto dell'UE. Questo problema si è posto anni fa in Francia, quando uno sciopero provocato da
agricoltori aveva portato il blocco dell'importazione delle fragole dagli altri Paesi membri. Vi erano dei blocchi stradali
posti al confine organizzati da privati, associazioni di coltivatori francesi, con lo scopo di bloccare le importazioni del
prodotto proveniente dai paesi membri, una forma di protesta contro la fallimentare gestione della politica comune che
comportava una facilitazione all'importazione di questi prodotti, piuttosto che la coltivazione nel territorio francese. (Una
cosa che succede spesso, diciamo).

90
E quindi in quel caso, le autorità francesi furono accusate non di aver provocato il blocco, non di aver provocato la
violazione del diritto comunitario che evidentemente è imputabile ai privati violazione al principio della libertà di
circolazione delle merci, ma evidentemente di non essere intervenuti per evitare che ciò avvenisse o successivamente per
smantellare questi blocchi. Lì si pone anche un problema di rapporto tra le libertà economiche fondamentali del trattato e
il diritto di sciopero, in rapporto di esse lo stato francese è responsabile per omissione, cioè non aver provveduto ad
eliminare questo ostacolo alla circolazione delle merci.
Ma la violazione del diritto dell'Unione Europea può essere provocata da vari poteri dello stato: potere legislativo che
nell'esempio che abbiamo fatto c'è stata una mancata attuazione di una direttiva, dal potere amministrativo nel caso di un
provvedimento del governo, piuttosto che di enti territoriali che vanno nella direzione opposta rispetto il diritto
comunitario, ma anche e qui la questione diventa un po' più delicata, da organi giurisdizionali.
Quando è che gli organi giurisdizionali creano una violazione del diritto comunitario? Quando pongono in essere delle
decisioni giudiziarie palesemente contrarie al diritto dell'Unione senza aver coinvolto la corte di giustizia in sede di
interviolazione del diritto dell'unione. Quindi l'ipotesi è quella in cui si arriva alla decisione definitiva da parte degli
organi giurisdizionali dello stato; questa decisione è palesemente in contrasto con il diritto dell'Unione, magari anche con
precedenti sentenze della corte di giustizia e a queste decisioni si è giunti senza procedere a rinvio pregiudiziale come
invece richiesto dall'art 167 par 3 per gli organi giurisdizionali di ultima istanza di uno stato membro. Quindi in casi del
genere l'inadempimento del diritto dell'unione europea può essere fatto valere, come è avvenuto, attraverso il
procedimento di infrazione. Come di solito avviene lo stato cerca di addurre delle giustificazioni al proprio
inadempimento. Su questo la corte di giustizia è stata molto severa nel senso di non accettare alcuna giustificazione
fondata sulle peculiarità dell'ordinamento nazionale (come nel caso che vi ho fatto distribuzioni interne di poteri, tra
vari livelli di governo dello Stato membro, oppure dovuti a eventi eccezionali come ad esempio crisi di governo,
scioglimento del parlamento; cioè lo stato cerca di giustificarsi dicendo “ è vero che quella direttiva non è stata recepita
nei termini, ma ciò è dovuto al fatto che per un anno il parlamento è stato impossibilitato a farlo perché c'è stata crisi di
governo, perché si sono sciolte le camere, e così via”). La corte di giustizia non ha mai accettato queste giustificazioni
tenendo saldo il principio per cui l'inadempimento è un evento di tipo oggettivo che prescinde dall'elemento soggettivo
cioè che prescinde dalla colpa, dalle circostanze di fatto, tranne nei casi, ma veramente straordinari, di impossibilità
assoluta di procedere al rispetto del diritto comunitario. Ci fu poi il caso dell'Italia che si presentò dinanzi alla corte di
giustizia sostenendo che il rispetto (stiamo parlando della gestione dei rifiuti in Campania) delle regole comunitarie che
prevedono uno smaltimento di rifiuti ordinato era impossibile per la presenza della criminalità organizzata. Nel dire una cosa
del genere non ci facciamo proprio una bella figura! È come dire “ noi non controlliamo il territorio in sostanza”. La Corte di
giustizia sostiene che non è certo una giustificazione da addurre: se lo Stato non è in grado di controllare il territorio, allora i
problemi sono molto più seri del rispetto di una direttiva comunitaria e quindi non ha mai accettato questo tipo di
giustificazioni.
Così come non era accettabile la giustificazione che qualche volta uno stato adduce, di aver violato il diritto comunitario
in risposta ad un altro stato che aveva fatto lo stesso. Cioè in sostanza dire che l'inadempimento di un altro Paese
giustifica una ritorsione da parte dello Stato accusato.
Voi sapete che nel diritto internazionale il principio di reciprocità ha un suo ruolo: consente delle forme di autotutela che
possono arrivare anche alle sospensioni di alcuni obblighi che i trattati internazionali pretendono nei confronti degli altri
Paesi. Questo non è possibile nel diritto dell'Unione Europea per il semplice motivo, dice la Corte di giustizia, che esiste
un meccanismo di soluzione delle controversie che affida alla Commissione della Corte di giustizia il ruolo di controllore
del comportamento dello stato. Quindi se uno stato membro sostiene che un altro Paese non stia esercitando gli obblighi
dei trattati, in questo modo creando un pregiudizio nei loro interessi, ha a disposizione il ricorso alla corte di giustizia;
non può adottare misure unilaterali anche in situazioni d'urgenza, perché la corte può occuparsi anche di provvedimenti
d'urgenza. Lo stato chiede alla corte di assumere un provvedimento d'urgenza nei confronti di un altro stato, quindi
l'esistenza di un procedimento codificato nei trattati esclude ogni possibilità di autotutela.

PROCEDURA
Come si svolge la procedura? In realtà sono 2 procedure che trovate codificate rispettivamente agli art 258 e 259.
L'art. 258 codifica la procedura, direi, di base quella che viene normalmente utilizzata e che vede come organismo
protagonista la Commissione che ha come ruolo quello di guardiano dei trattati.
La seconda procedura è molto più raramente utilizzata, è sempre un procedimento di infrazione che vede sempre come
organo giudicante la corte di giustizia, ma che attribuisce l'iniziativa non alla commissione, ma ad uno stato membro nei
confronti di un altro stato. Quindi l'iniziativa può essere assunta o dalla corte o da un altro stato nei confronti di un altro
stato.
Partiamo dal caso più frequente in cui è la Commissione a dar corso al procedimento di infrazione. Il trattato non ci dice
granché come al solito è molto scarno, ma qui è particolarmente scarno, dovendo poi le indicazioni contenute nel trattato

91
essere integrate soprattutto con la giurisprudenza della corte di giustizia, ma anche con alcuni documenti che pur non
avendo valore applicatorio condizionano il comportamento della commissione.
Il trattato ci dice semplicemente che la commissione quando reputi che uno stato membro abbia mancato ad uno degli
obblighi a lui incombenti in virtù dei trattati emette un parere ultimato a riguardo, dopo aver posto lo stato in condizioni
di presentare le sue osservazioni. Qualora lo stato in causa non si compone di tale parere nel termine fissato dalla
Commissione, questa può adire la corte di giustizia dell'Unione Europea. Punto tutto qui.
In questo art si codifica la cosiddetta fase pre-contenziosa o procedura amministrativa che è il primo passo del
procedimento di infrazione. Questa procedura amministrativa ha lo scopo di risolvere i problemi dell'inadempimento
prima che si coinvolga la corte di giustizia, cioè di creare una situazione di dialogo con lo stato membro coinvolto che
porta questo stato in maniera spontanea, forse tardiva (altrimenti il procedimento non sarebbe partito), ad allinearsi agli
oneri imposti dal diritto comunitario.
Questa procedura può avere inizio su iniziativa d'ufficio della commissione: succede a volte che la commissione proprio a
scelta diretta venga a conoscenza dell'inadempimento di uno stato. Leggendo un giornale la commissione si rende conto
“qui c'è un problema” . Può succedere ed è successo.
Molto spesso però l'iniziativa della commissione è preceduta da un esposto di privati oppure da un'interrogazione
parlamentare, nel Parlamento europeo.
L'esposto di privati non è nei trattati, però è ovvio che l'inadempimento di un obbligo previsto dal diritto dell'Unione ha
delle conseguenze e queste conseguenze, in linea di principio, coinvolgono dei soggetti privati. Anni fa, ad esempio ci fu
una denuncia, ma più che una denuncia fu un esposto, perché la denuncia significa poi determinate conseguenze che nel caso
di esposto non ci sono, comunque un esposto presentato da una federazione di editori italiana, nei confronti dello stato italiano
per mancata attuazione di una direttiva comunitaria che prevedeva una serie di regole che imponeva alle emittenti televisive il
rispetto di alcune regole in tema di interruzione di programmi televisivi e in tema di affollamenti pubblicitari. La direttiva, ad
esempio, vietava alle emittenti televisive di inserire pubblicità durante il corso di eventi sportivi in momenti diversi
dall'intervallo dell'evento. Questa direttiva è stata modificata quindi oggi non è più così, ma per almeno 20 anni questa è stata
la disciplina comunitaria.In Italia questa disciplina è stata in parte ignorata, in parte un po' manomessa: per esempio nel caso
dell'interruzione degli eventi sportivi si è evitato per molti anni l'attuazione di questa direttiva, si è completamente ignorato, la
legge italiana di ricevimento di questa direttiva non comprendeva questa parte.
A seguito di questo esposto si è pensato di recepirla, ma con una piccola modifica che poi era frutto della prassi. La prassi era
quella per cui nelle trasmissioni di eventi particolarmente apprezzati, come le partite di calcio, nelle partite di calcio, la
pubblicità veniva inserita nelle pause di gioco e l'interpretazione della direttiva che ne davano gli organismi era quella per cui
l'intervallo di una partita di calcio non è banalmente l'intervallo di una partita di calcio, ma era la pausa di gioco, mentre per
tutti gli altri paesi l'intervallo della partita di calcio è l'intervallo della partita di calcio! E noi siamo andati avanti per 15 anni
così! Mentre la regola diceva che le pubblicità vanno inserite soltanto negli intervalli delle partite di calcio, noi facciamo
diversamente e ciò portava ad una distorsione sul mercato della pubblicità, perché evidentemente trattandosi dei “mini spot”
che hanno una durata molto breve, e quindi sono per definizione inevitabili, cioè chi ti cambia canale per 5 secondi? Nessuno!
E questo per l'inserzionista è il paradiso. Egli ha un solo nemico che si chiama telecomando perché dà il potere all'utente di
non vedere la pubblicità! Se invece la pubblicità è fatta di spazi brevissimi, è inserita soprattutto in momenti quando
l'attenzione dell'utente è elevatissima questo significa che queste fonti valgono moltissimo: per l'inserzionista pubblicitario
perché ha molti contatti, per l'emittente televisiva che si fa pagare molto e quindi un unico problema è che qualcuno potrebbe
risentirne. Quel “qualcuno” sono gli editori della carta stampata. Questo perché quando l'impresa decide di investire sulla
pubblicità ha a disposizione un budget e questo budget uno lo destina ai mezzi pubblicitari che hanno maggiore ritorno dal
punto di vista di immagine, dal punto di vista di contatti. Quindi se ho a disposizione 5 secondi della partita di calcio e in
alternativa una spazio sulla pagina sulla rivista daily time io cosa scelgo? Scelgo i 5 secondi perché mi costeranno anche di
più, ma hanno un numero di contatti incredibilmente più alti. Quindi la federazione editori presenta questo esposto alla
Commissione europea e la commissione europea apre la procedura di infrazione e nel momento in cui finalmente lo stato
italiano aveva modificato le regole cosa succede? Cambia la direttiva, quindi a quel punto deve abrogare la disposizione, ma
noi in definitiva non l'abbiamo mai vista rispettare questa regola.
Questo per dirvi che la procedura d'infrazione quando parte, in genere, c'è un interesse pieno che può essere un interesse
economico, interesse delle associazioni dei consumatori o comunque l'idea di uno stato in cui esistono delle regole
generali che avendo degli obiettivi, come nel caso della direttiva sui rifiuti, ci sono dei danni gravissimi però sono dei
danni di tipo ambientale-generale che sono ancora più gravi perché non è facile individuare il soggetto leso, i soggetti lesi
siamo tutti, magari chi abita in determinate zone di più, però è un interesse diffuso, collettivo. In questi casi, la
commissione non aspetta denunce, non aspetta che ci sia qualcuno che sollecita, ritiene che ci sia una legalità europea da
rispettare e quindi il procedimento di infrazione parte.
Per facilitare i soggetti interessati, la commissione comunica sul suo sito, dell'esposto che però non è obbligatorio, non ci
sono formalità da rispettare, così come non ha formalità da rispettare la commissione. Qui il discorso diventa più tecnico
perché la commissione ritiene di non essere obbligata a dar corso al procedimento di infrazione, cioè in presenza di un
esposto da parte di un soggetto privato, la commissione può decidere di aprire la procedura o di archiviarla e fino a
pochissimo tempo fa non doveva nemmeno giustificare il proprio comportamento. Questo è stato molto contestato, è un

92
po' il frutto della mancata chiarezza della disposizione, dove anzi il comportamento della commissione viene sempre
qualificato come un potere della commissione, la commissione “può”, può interpretare questo “può” come la possibilità di
fare qualcosa, ma anche di non farla. La commissione ha sempre scelto discrezionalmente se dar corso alla procedura di
infrazione e anche i tentativi da parte di soggetti interessati, magari dei denuncianti, di ricorrere al giudice per fare
accertare l'inadempimento della commissione, la carenza del dar corso al procedimento di infrazione, ha sempre trovato
l'opposizione della corte di giustizia che ha ritenuto che la commissione gode di un'ampia discrezionalità e quindi può
anche decidere di non aprire il procedimento di infrazione, anche laddove le evidenze suggerirebbero il contrario.
E questo vale per tutti i passaggi della procedura d'infrazione. Senz'altro vale per la prima, il primo passo, l'apertura del
procedimento. L'apertura del procedimento avviene con un atto che il trattato non menziona, un atto formale che il trattato
non qualifica, ma fa capire che esiste, laddove dice che la commissione mette lo stato in condizione di presentare
osservazioni. E un atto che viene qualificato nella prassi, cioè la stessa commissione qualifica come “lettera di messa in
mora” o di intimazione e qui l'atto formale con cui la commissione, valutato l'esposto o valutati d'ufficio i dati a sua
disposizione, aperto un canale di dialogo con lo stato membro, attraverso una corrispondenza informale, anche dei
rendiconti di cui non c'è traccia pubblica, da cui appunto il principio di base da cui la procedura non ha il compito di
sanzionare, ma di risolvere, svolta questa prima procedura, ma senza esito, la commissione adotta la lettera di messa in
mora. Negli ultimi anni, questo primo atto viene preceduto dall'utilizzo di un meccanismo che la commissione definisce
come un meccanismo EU- Pilot, che è una specie di piattaforma informatica in cui si gestiscono i rapporti tra stati membri
e commissione in maniera spedita e informale: la commissione carica sulla piattaforma informatica una denuncia, la
sottopone all'attenzione dello stato, lo stato risponde, ma di tutto questo non vi è traccia finché la commissione non decide
di aprire il procedimento di infrazione, si sa soltanto che quella procedura si sta utilizzando per una determinata materia,
ma non si sanno i contenuti, se questa procedura EU- Pilot, che ha dei tempi scadenzati, non arriva a una sua conclusione
in senso positivo, cioè nel senso che lo stato o convince la commissione che non c'è nessuna infrazione, o si adegua alle
richieste della commissione, allora la commissione può (e ripeto non deve) adottare la lettera di messa in mora, che è un
dato formale ben motivato in cui si indicano quali sono le accuse che la commissione rivolge allo stato, chiedendo allo
stato di rispondere in un termine normalmente molto breve (perché breve? Perché questo atto è preceduto da una serie di
contatti, quindi lo stato non è preso di sorpresa da questo atto) e normalmente sono 2 mesi.
L'atto di messa in mora è un atto particolarmente importante nel contesto della procedura perché in qualche modo
cristallizza le accuse. Nel senso che, se nel corso della procedura dovessero emergere ulteriori potenziali inadempimenti,
che però la commissione non ha inserito nella prima lettera di messa in mora, la commissione non potrà utilizzare questi
altri inadempimenti dinanzi la corte di giustizia, sarà tenuta a riaprire la procedura con una lettera di messa in mora
addizionale. Quindi questo a tutela del diritto di difesa dello Stato che deve sapere di cosa è accusato e deve avere la
possibilità di rispondere in base a delle accuse precise.
La lettera di messa in mora, dicevo, non è accessibile, non è un atto pubblico, così come non è un atto pubblico il
successivo atto formale che chiude la fase amministrativa o pre-contenziosa, che invece è espressamente indicato dall'art
258, il cosiddetto “parere motivato”. È un atto atipico perché ha il nomen iuris di parere, quindi è un atto evidentemente
non obbligatorio, ma che produce conseguenze importanti, cioè la conseguenza di chiudere definitivamente il
procedimento amministrativo. È l'atto con cui la Commissione risponde alle eventuali repliche dello stato membro, (lo
stato può anche non rispondere) conferma ( se è il caso di farlo) le accuse di messa in mora e chiede allo Stato di
procedere immediatamente alla modifica o comunque a quel comportamento che le norme violate non comprendono.
Quindi qui c'è un'indicazione ben precisa di cosa lo Stato deve fare. Lo Stato può adeguarsi al parere ultimato, o non
adeguarsi, se non si adegua, la Commissione può adire la Corte di giustizia passando quindi alla seconda fase, fase
contenziosa (di cui parleremo domani).
12 novembre 2014

Procedimento di infrazione - Ricorso per annullamento degli atti dell’UE

Il contesto della procedura contenziosa, delle competenze contenziose della Corte di Giustizia della particolare
attribuzione di competenza alla Corte che concerne la valutazione del comportamento degli Stati.
Il procedimento di infrazione non è necessariamente un procedimento giurisdizionale bensì è un procedimento che ha
l’obiettivo di risolvere problemi di applicazione corretta del diritto dell’UE negli ordinamenti nazionali con l’obiettivo di
addivenire ad una soluzione prima di coinvolgere la Corte di Giustizia; per questo non è necessariamente un
procedimento giurisdizionale, il problema che si trova alla base di questo procedimento si cerca di risolverlo nella prima
fase cioè nella fare amministrativa o pre-contenziosa ed è così per la buona parte delle procedure di infrazione, nei casi in
cui lo Stato riconosca il proprio inadempimento ed intervenga in maniera tardiva per risolverlo e ciò accontenta la
Commissione escludendo il successivo intervento della Corte di Giustizia. Le diverse fasi della procedura pre-contenziosa
che parte formalmente da una lettera di messa in mora, di intimazione ma che è solitamente preceduta da una fase
informale di contatti tra gli uffici della Commissione e le Autorità Amministrative Nazionali che è una procedura
utilizzata per rendere più spedite e strutturate queste fasi informali. Non c’è molta trasparenza nella fase pre-contenziosa
si ha infatti notizia dell’apertura del procedimento di infrazione perché la Commissione adotta solitamente dei comunicati

93
stampa, perché le Autorità Nazionali a volte lo fanno presente ma nessuno ha un accesso formale agli atti della procedura
amministrativa pre-contenziosa, né alla lettera di messa in mora, né al parere motivato che è la seconda fase. Il parere
motivato è un atto atipico avendo le sembianze di un parere ma è di fatto un atto amministrativo che chiude una fase che è
obbligatoriamente adottato dalla Commissione qualora ritenga che le giustificazioni addotte dallo stato in risposta alla
messa in mora non siano convincenti. La fase contenziosa quindi si apre con il ricorso alla Corte di Giustizia, anche a
questo punto però la Commissione non è formalmente obbligata ad adire la Corte di Giustizia, infatti ex art 158 “qualora
lo Stato in causa non si conformi al parere motivato nel termine fissato dalla Commissione questa può adire la
Corte di Giustizia dell’UE”, ciò significa, secondo l’interpretazione fornita data dalla Corte di Giustizia in controversie
che vedevano la Commissione convenuta da un privato che voleva si presentasse ricorso alla Corte di Giustizia, la stessa
ha sostenuto che la locuzione “può adire” abbia un preciso significato, nel senso di affidare alla Commissione una piena
discrezionalità nel decidere se farlo o meno; un’altra possibile interpretazione della locuzione potrebbe essere: ha il potere
di farlo una volta che sia esaurito il procedimento amministrativo (prima non può farlo mentre dopo può farlo) ma ciò non
è determinante per decidere se la Commissione si obbligata o meno a farlo; in ogni caso la Corte di Giustizia ha scelto la
prima interpretazione il che vuole significare che nessuno può costringere la Commissione ad adire a Corte di Giustizia
nonostante lo svolgimento dell’intera fase amministrativa a nonostante l’evidente mantenimento di una situazione di
inadempimento da parte dello Stato. Perciò qualora non volesse farlo non c’è alcun mezzo per costringerlo e la sua
decisione di non farlo non può essere sottoposta ad alcuna forma di controllo giurisdizionale. La discrezionalità piena
affidata alla Commissione ha creato una serie di controversie dinnanzi alla Corte di Giustizia, dinnanzi al Tribunale
(trattandosi appunto di comportamenti delle istituzioni) e nonostante la Corte di Giustizia abbia mantenuto il suo punto
nel senso di sostenere che non vi sia un obbligo, molti di questi “ricorrenti delusi”, denuncianti nell’adempimento
dinnanzi alla Commissione, hanno utilizzato un altro meccanismo meno incisivo ma politicamente forte, che è quello di
rivolgersi al mediatore europeo (è una sorta di difensore civico, istituito presso il Parlamento, che ha il compito di
vigilare sulla buona amministrazione comunitaria ossia vigilare che le istituzioni dell’UE svolgano le loro funzioni nei
confronti dei cittadini nella maniera più corretta possibile) indaga sui casi di cattiva amministrazione che non sconfinano
in vere e proprie violazioni delle regole, ad esempio: ritardi nel prendere posizioni sulle richieste di un privato o il mancato
coinvolgimento di un privato in una questione che presenta interessi per il privato stesso, ossia sono tutti quei casi in cui si
sottopone l’amministrazione ad un giudizio sul corretto svolgimento delle proprie funzioni che non sconfinino in una vere e
propria violazione di legge, questo è il compito che dovrebbero svolgere i difensori civici del nostro ordinamento anche se non
si comprende spesso quale sia l’attività che svolgono, questa è una tradizione che proviene dal Nord Europa ossia quella del
difensore dei cittadini nei confronti dell’amministrazione. Al mediatore Europeo (messo dinnanzi ad una serie di lamentele
da parte di imprese o privati cittadini nei confronti della Commissione laddove questa non aveva dato seguito ad una
denuncia, per cui non aveva formalmente aperto il procedimento di infrazione, non potendo rivolgersi ai giudici in quanto
la Corte di Giustizia sottolinea che non vi sono possibilità di ricorso nei confronti del silenzio della Commissione) è
chiesto di intervenire, questo lo fa attraverso una serie di pronunce che mettono “alla berlina” la Commissione sul fatto di
non aver dato la giusta importanza a delle denunce lasciando che trascorresse troppo tempo prima che fossero prese in
considerazione oppure archiviandole senza alcuna motivazione, oppure ancora iniziando la procedura senza poi procedere
alla fasi successive alla lettera di messa in mora; per cui il Mediatore ha adottato dei rapporti rivolti alla
Commissione in cui si sostiene che quelle determinate procedure amministrative sono scorrette dal punto di vista
della tutela del cittadino che si rivolge all’amministrazione. I poteri del Mediatore si esauriscono qui, in quanto non ha
nessuna ulteriore possibilità di intervento né può rivolgersi ad un giudice né sanzionare, perciò il Mediatore prende
posizione, ma queste “prese di posizione”, provenienti comunque da un organismo di punta nella struttura istituzionale
dell’UE, non sono rimaste inascoltate e quindi la Commissione ha pensato fosse il caso di dare un segnale di condivisione
con le esigenze di trasparenza e di vicinanza al cittadino anche nello svolgimento del procedimento di infrazione, ha fatto
ciò adottando in un proprio documento una comunicazione con la quale si impegna a rispettare una serie di regole
comportamentali nei confronti di chi presenta una denuncia alla Commissione al fine di richiedere l’apertura di un
procedimento, questo documento è interessante perché dimostra la volontà della Commissione di auto vincolarsi, non è un
documento obbligatorio, nel senso che se quelle regole procedurali non fossero rispettate la Commissione non dovrebbe
risponderne, però è evidente che la Commissione ha deciso di rispettare alcuni obblighi di comportamento difficilmente
se ne discosterà. Infatti è accaduto che la Commissione ha sempre cercato di attenersi a quelle regole che essa stessa ha
redatto, di fatto seguendo le indicazioni del mediatore, la Commissione si impegna soprattutto a formalizzare la procedura
nel senso di attribuire ad ogni denuncia un numero di serie per rintracciare nel corso dell’intera procedura quella specifica
denuncia, inoltre si obbliga a rispondere alla denuncia entro il termine di un anno informando il denunciante della
decisione assunta e dando la possibilità al denunciante, nel caso in cui ritenga di archiviare la denuncia, di presentare le
proprie osservazioni. Quindi se la Commissione decide di aprire un procedimento di infrazione, la notizia viene data al
denunciante, se invece decide di archiviare la denuncia deve fornire una motivazione e deve comunicarlo al denunciante
per consentire a quest’ultimo di replicare alle motivazioni addotte dalla Commissione, un diritto di replica che però “si
ferma lì” nel senso che se la Commissione difficilmente cambierà idea perché il denunciate risponde in maniera diversa,
però formalmente la Commissione a quel punto può confermare la propria precedente posizione e quindi procedere con
l’archiviazione della denuncia con la consapevolezza da parte del denunciante che quella decisione di archiviazione resta
un provvedimento non è impugnabile in alcuna sede giurisdizionale; però si è riusciti a dare a questa procedura una
parvenza di procedimentalizzazione. Questo è stato forse uno dei principali successi dell’attività del Mediatore. Se le
risposte che lo Stato fornisce non risultano convincenti in questo caso si svolgerà la fase giurisdizionale. Prima di arrivare

94
a ciò bisogna ricordare che l’iniziativa del procedimento di infrazione non è riservata alla Commissione anche se nella
maggioranza dei casi il procedimento di infrazione è frutto dell’iniziativa della Commissione che esplica in questo
contesto il suo ruolo principale di guardiana del rispetto dei Trattati da parte degli stati membri. Fin dal primo testo dei
trattati istitutivi la stessa facoltà di dare inizio al procedimento di infrazione è stata attribuita anche agli Stati Membri,
questa diversa procedura si trova ex art 259 TFUE che in sostanza attribuisce ad ogni Stato Membro il potere di
“prendersela” con un altro Stato nel senso di poter adire la Corte di Giustizia quando ritenga che un altro Stato non abbia
rispettato gli obblighi importi dai Trattati, anche il questo caso però il Trattato prevede una doppia fase della procedura.
Infatti il ricorso alla Corte deve necessariamente essere preceduto da una fase amministrativa. Questa fase amministrativa
che si svolge in maniera diversa rispetto a quella tipizzata dall’art 158, perché in questo caso è lo Stato Membro a
prendere l’iniziativa e non la Commissione, ciò nonostante si è voluto che la Commissione, nel contesto del ruolo
attribuitole di guardiana dei trattati, fosse comunque coinvolta, si è voluto così evitare che un contenzioso delicato, che
vede uno Stato contro l’altro, rimanesse confinato alla dialettica tra Stati, motivo per cui è stata inserita la Commissione
nella procedura richiedendo allo Stato Membro che intende adire la Corte di far precedere questo ricorso alla richiesta di
un parere da parte della Commissione, quindi deve necessariamente uno stato membro che teme che un altro paese abbia
violato gli obblighi previsti dal Trattato e per questi motivi vuole adire con ricorso alla Corte di Giustizia deve richiedere
il parere della Commissione ex art 259 “uno Stato Membro prima di proporre contro un altro stato membro un ricorso alla
corte di giustizia fondato sulla pretesa violazione degli obblighi che su quest’ultimo incombono in virtù dei trattati deve
rivolgersi alla Commissione”. “Deve” sta a significare che la procedura non è correttamente svolta se la Commissione
non è coinvolta e quindi il ricorso alla Corte di Giustizia sarà irricevibile in mancanza di questo presupposto, ciò serve a
dare alla Commissione la possibilità di trovare con gli Stati una soluzione della causa che eviti il ricorso alla Corte di
Giustizia e di conseguenza eviti che questi problemi tra Stati giungano all’attenzione della Corte. Il terzo paragrafo
dell’art 259 attribuisce alla Commissione il compito di emettere un parere motivato dopo che gli Stati interessati siano
posti in condizione di presentare in contraddittorio le loro osservazioni scritte o orali, per cui la Commissione funge da
arbitro, sente le posizioni delle parti ed alla fine di questo contraddittorio, non emette alcuna decisione, bensì esprime la
propria posizione in un parere, che in quanto tale si caratterizza dal fatto che non è vincolante, sperando che il
contenzioso si esaurisca prima del coinvolgimento della Corte di Giustizia. Ovviamente se la Commissione, nel termine
di tre mesi, non esprime la propria posizione in un parere lo Stato Membro diventa libero di adire la Corte quid est il
parere della Commissione se non espresso nei tre mesi libera lo stato se invece espresso formula un parere sulla vicenda
che gli Stati possono o meno accettare e nel caso in cui lo accettino la questione si chiude, diversamente lo Stato che ha
interesse si rivolge alla Corte di Giustizia, sarà poi quest’ultima a decidere chi ha ragione o meno, si svolge così un
contenzioso tipicamente internazionale (stato contro stato). Questa procedura è estremamente rara (perché gli Stati non
“si fanno volentieri la guerra tra di loro” bensì quando hanno un problema con un altro Stato fanno in modo che sia la
Commissione a prendere l’iniziativa evitando di esporsi in prima linea, evitando di conseguenza che uno Stato o l’altro
non “restituisca il favore”) . Però casi ci sono stati:
1. Il primo caso in cui questa procedura è arrivata a compimento ossia al ricorso dinnanzi alla Corte risale agli anni '70 e
riguarda la cosiddetta crisi della “mucca pazza”. In quanto l’importazione della carne bovina dal Regno Unito fu bloccata in
Francia perché si riteneva che questa fosse infetta dal suddetto morbo, allora la Francia ha bloccato l’importazione della
merce, ed il Regno Unito ha chiesto l’intervento della Corte di Giustizia
2. Svoltosi tra Belgio e Spagna sulla pretesa violazione da parte del Belgio delle regole in tema di imbottigliamento del vino
Rioja (famoso vino spagnolo) infatti è imposto in base alle regole disciplinate per l’imbottigliamento di questo vino che
quest’ultimo (l’imbottigliamento) avvenga nel territorio in cui il vino è prodotto, alcuni importatori belgi avevano imbottigliato
questo vino in Belgio quindi la Spagna ha adito la Corte la quale le ha dato ragione.
3. Un altro caso recente riguarda Inghilterra e Spagna sul voto dei cittadini di Gibilterra
4. Altro recentissimo riguarda un incidente diplomatico tra Ungheria e Slovacchia era accaduto che in un giorno particolare in
cui si celebra la vittoria di un’antica guerra tra questi due paesi, il presidente Ungherese voleva far visita alla comunità
ungherese in territorio slovacco e questa visita si riteneva fosse capace di danneggiare l’ordine pubblico, ci sono dei confini
che vedono la presenza di minoranze di altri paesi membri, quindi il territorio slovacco vieta l’ingresso al presidente
dell’Ungheria. L’Ungheria richiede il parere della Commissione ex art 259, scontenta del risultato decide di citare la
Slovacchia dinnanzi alla Corte per violazione delle regole in materia di libertà di circolazione delle persone dato che il
presidenze della repubblica ungherese è un cittadino dell’UE ed in quanto tale ha diritto di circolare liberamente nei paesi
dell’UE, a meno che non vi siamo situazioni di conclamate esigenze di tutela dell’ interesse pubblico, mentre la posizione
sostenuta dal governo slovacco è che il presidente dell’Ungheria non sia un cittadino come gli altri, bensì è un Capo di Stato
ed il trattamento di questi anche nei rapporti tra Stati Membri non è disciplinato dal diritto dell’UE trattandosi di competenze
che questa non detiene infatti continua ad essere disciplinato da Tr internazionali e sulla base del diritto internazionale il
comportamento della Slovacchia è corretto. La Corte di Giustizia ha “dato ragione” alla Slovacchia sostenendo che non fosse
di sua competenza quel contenzioso ossia essendo i rapporti diplomatici estranei al campo di applicazione delle direttive e dei
trattati in materia di circolazione delle persone quel tipo di controversia non fosse di diritto dell’UE.
Sono questi casi eccezionali, non si giunge con facilità ad un contenzioso vero e proprio dinnanzi alla Corte di Giustizia
nei rapporti tra Stati, ma questa è comunque una possibilità offerta dai trattati ed è bene che sia così onde evitare che
questo tipo di contenzioso trasmigri in altre sedi dinnanzi ad altre corti internazionali, in quanto la regola generale è
quella per cui nel contesto delle competenze attribuite dai trattati alla Corte di Giustizia gli Stati Membri sono obbligati a
non coinvolgere altri giudici internazionali, la Corte ha quindi un competenza esclusiva per tutte le azioni affidate al suo
intervento. Se si tratta di contenzioso tra Stati che riguarda il diritto dell’UE è bene che questo contenzioso resti nei

95
confini del sistema giurisdizionale comunitario.
Va sottolineato che esistono regole speciali, ci sono materia nelle quali il procedimento di infrazione non opera come le
materie della Pesc nonché nel settore della cooperazione giudiziaria civile e penale (ciò varrà solo per poco tempo ancora,
in quanto dal 1 dicembre per tutti gli inadempimenti relativi all’ex terzo pilastro si potrà dare corso anche al procedimento
di infrazione è così uniformato il trattamento delle violazioni alla regola generale di cui all’art 158 ).
Esistono altre deviazioni dalla procedura generale, sono deviazioni che concernono settori specifici e che comportano un
più spedito svolgimento del procedimento di infrazione, casi in cui il procedimento si svolge con delle regole più
efficienti in ragione delle caratteristiche tipiche di questi settori:
1. il primo è il settore degli Aiuti di Stato, in questo settore la Commissione ha un ruolo determinante perché questa è il
soggetto a cui è affidato il compito di valutare se una misura adottata dagli Stati Membri sia conforme o meno alle regole
dei Trattati, cioè se sia un aiuto di stato vietato dai trattati o meno. Perciò quello che gli Stati Membri devono fare quando
adottano una misura che ritengano possa essere considerata come aiuto di stato è di notificarlo alla Commissione e questa
decide se si tratti o meno di un aiuto e se possa essere giustificato o meno in base alle regole dei trattati. Se la
Commissione ritiene che quella misura non possa essere adottata in quanto è un aiuto di stato incompatibile con i trattati
perché provoca distorsioni al mercato comune, allora lo Stato è tenuto a rispettare la decisione (atto obbligatorio nei
confronti dello stato) Art 118 par. II :”Qualora lo Stato in causa non si conformi a quella decisione entro il termine
stabilito, la Commissione o qualsiasi altro stato interessato può adire direttamente la corte di giustizia dell’UE in deroga
agli art 158 e 159“. L’ipotesi è quello di uno stato membro al quale è detto dalla Commissione che quella misura è un
aiuto che non può essere approvato e lo stato membro non si adegui a questa decisione nel termine che la Commissione ha
imposto, allora in quel caso essendosi di fatto già svolto un procedimento amministrativo anche se diverso da quello ex
258, un altro stato o la Commissione possono adire direttamente la Corte di Giustizia senza passare dalla fase della messa
in mora né del parere motivato. Ciò è dovuto al fatto che in materia di Aiuti di Stato essendo le misure statali distorsive
del mercato, particolarmente pericolose per il funzionamento delle regole di concorrenza è necessario svolgere un
procedimento più spedito.
2. Ci sono anche altre disposizioni dei trattati (art 106 ) nell’ambito del contesto generale del diritto della concorrenza e
degli obblighi che il trattato impone agli stati membri nei confronti del trattamento delle imprese pubbliche :”gli stati
membri non emanano né mantengono nei confronti delle imprese pubbliche e nelle imprese cui riconoscono diritti
speciali esclusivi alcune misure contrarie alle norme dei trattati ” quindi il principio generale di quest’articolo è la parità
di trattamento in quanto le imprese pubbliche e private non hanno alcuna differenza per le regole sulla concorrenza , stati
membri fanno in modo che le imprese pubbliche rispettino quanto stabilito. Terzo comma art 106 “le Commissioni
vigilano sull’applicazione del presente articolo rivolgendo ove occorre agli stati membri opportune direttive o decisioni”
qui si svolge un diverso procedimento che non coinvolge la Corte di Giustizia se non nella fase successiva, per cui la
violazione dell’art 106, ad esempio, in un trattamento privilegiato di un impresa pubblica da parte di uno stato viene
giudicato direttamente dalla Commissione che non deve chiedere alla Corte di Giustizia se vi è stata una violazione bensì
lo decide essa stessa adottando opportune direttive o decisioni (ciò è avvenuto negli anni 80 quando la Commissione con
alcune sue decisioni ha di fatto smantellato i monopoli sulle reti di telecomunicazioni nei paesi membri, imponendo agli
stati di aprire alla concorrenza questi settori che erano caratterizzati sino a quel momento dalla presenza di un unico
gestore pubblico).
3. Altra disposizione è l’art 114 che interviene in un diverso contesto ossia il contesto del ravvicinamento delle
legislazioni in quanto è l’ articolo che attribuisce al legislatore dell’UE (quindi al Consiglio ed al Parlamento) il potere di
adottare misure per ravvicinare le legislazioni nazionali che hanno ad oggetto il funzionamento dell’instaurazione del
mercato interno ossia ravvicinare legislazioni nazionali la cui esistenza pregiudica il funzionamento del mercato interno.
L’idea è quella di sostituire le regole nazionali che riguardano ad esempio la produzione di un prodotto con delle regole
armonizzate in modo tale che la produzione di quel determinato prodotto segua le stesse regole prescindendo dallo stato
in cui questa avviene, regola di carattere generale che attribuisce al Consiglio ed al Parlamento di intervenire di fatto in
qualsiasi distorsione delle regole. In ragione del fatto che questa attribuzione di competenze sia così ampia, che non è
legata a singole materie bensì è legata ad un obiettivo funzionale alla realizzazione del mercato interno, si consente agli
stati membri prima o dopo l’adozione delle misure di armonizzazione di adottare o di tenere in vigore regole interne
giustificate dalla necessità di tutelare esigenze importanti la protezione dell’ambiente o la protezione dell’ambiente di
lavoro, la tutela dei consumatori ecc, quindi gli stati membri hanno la possibilità di derogare alle misure di
armonizzazione sia tenendo in vigore vecchie regole che non sono superate da quelle comunitarie sia introducendone
delle nuove post armonizzazione e giustificandole in base a queste esigenze interne. Di fatto è consentita una deroga al
principio di uniformità del diritto comunitario degli stati membri ma con la possibilità della Commissione di reagire ad un
uso che il Trattato chiama abusivo di queste clausole, se uno stato abusa di questa possibilità e presenta delle
giustificazioni non condivisibili dalla Commissione allora la questa potrà direttamente adire la Corte di Giustizia nei
confronti dello Stato e quindi svolge un procedimento di infrazione che non richiede tutti i passaggi di cui si è parlato
,non richiede nessuna fare pre-contenziosa ossia si va direttamente alla corte di giustizia, si ritiene che le esigenze proprie
della disciplina giustifichino una deroga rispetto alle regole generali.

Chiudiamo la procedura di infrazione con l'intervento della Corte di Giustizia nella procedura tipica, a questo scopo la
disposizione di riferimento è l'ultima che il Trattato dedica al procedimento di infrazione ed è l'articolo 260 il quale ci dice
cosa fa la Corte. La Corte nel procedimento di infrazione decide se la Commissione ha ragione ad accusare lo Stato di

96
inadempimento dei suoi obblighi comunitari, convenuto è lo Stato accusato di violazione e quindi dinnanzi alla Corte di
Giustizia si svolge un vero e proprio procedimento giurisdizionale, in cui le parti nella fase scritta successivamente in
udienza discutono la causa e la Corte si pronuncia con una sentenza di tipo dichiarativo. La sentenza della Corte è di tipo
dichiarativo ossia si limita ad accertare l'inadempimento, non è una sentenza ancora di condanna dello Stato come
conseguenza dell'inadempimento ma si limita ad accertare l'esistenza dell'inadempimento. A fronte di questo accertamento
ci dice l'art 260 primo comma che lo Stato membro è tenuto a prendere i procedimenti che l'esecuzione della sentenza
della Corte comporta, è chiaro che in base a questa pronuncia di inadempimento lo Stato membro dovrà fare qualcosa,
non è la Corte che dice cosa deve fare, è lo Stato che adotta i provvedimenti che ritiene necessari a seguito
dell'accertamento dell'inadempimento. Ci sono dei casi abbastanza scontati nel caso in cui l'inadempimento riguardi la
violazione dell'obbligo di dare attuazione ad una direttiva nel termine stabilito, ovviamente lo Stato dovrà intervenire con
un provvedimento di tipo legislativo per recepire finalmente quella direttiva; in altri casi non è così scontato quindi si
lascia allo Stato membro la scelta degli strumenti dell'attività da svolgere per dare esecuzione alla sentenza della Corte di
Giustizia. Cosa succede se lo Stato non da' esecuzione alla sentenza della Corte di Giustizia? Qui c'è stata un'evoluzione
particolarmente interessante del testo dei Trattati. Inizialmente nei Trattati istitutivi degli anni '50 era prevista questa
eventualità, cioè che uno Stato non si adeguasse ad una sentenza della Corte di Giustizia e quindi mantenesse una
situazione di inadempimento. In una situazione del genere era previsto che fosse la Commissione a dover prendere
nuovamente l'iniziativa rivolgendosi alla Corte, svolgendo precariamente tutte le fasi della procedura pre-contenziosa,
quindi la messa in mora ed il nuovo ricorso alla Corte di Giustizia, ricorso che questa volta ha ad oggetto il mancato
adeguamento alla sentenza della Corte di Giustizia. Quindi è evidente che il sistema così come era congeniato tra gli Stati
membri non comportava una rapida ed efficace reazione nei confronti dello Stato che manteneva l'inadempimento, sia
perché i tempi erano particolarmente lunghi, sia perché alla fine di questa seconda procedura la Corte di Giustizia non
poteva fare altro che adottare una nuova sentenza per l'inadempimento in cui accertava che lo Stato in questione aveva
violato anche l'obbligo di dare esecuzione alla prima sentenza, ma tutto si fermava lì, quindi di fatto non era un grande
spauracchio per lo Stato membro quello di essere sottoposto ad un procedimento di infrazione. Certo non era della
posizione dello Stato quella di trovarsi accusato di essere in stato di permanente violazione del diritto dell'Unione, ma da
questo punto di vista non rischiava nient'altro. Col Trattato di Maastricht le cose cambiano, in quanto con questo Trattato
gli Stati accettano un giudizio di incompletezza del sistema ed accettano di riconoscere la necessità di modificarlo,
attribuendo alla Corte di Giustizia in questa seconda pronuncia non soltanto il ruolo di organo giurisdizionale che accerta
secondo l'inadempimento, ma l'attribuzione alla Corte anche del potere di adottare delle vere e proprie sanzioni, delle
sanzioni pecuniarie che possono concretizzarsi in una penalità di mora o in una somma forfettaria alla luce del Trattato.
Una somma forfettaria vuol dire che si impone allo Stato il pagamento di una cifra che copre tutto l'inadempimento a
forfait (forfè) si impone il pagamento di una cifra; la penalità di mora invece ha senso qualora si accerti che lo Stato sta
tutt'ora nella parte del torto e quindi è rivolta al futuro mentre il pagamento di una somma forfettaria riguarda il
comportamento pregresso dello Stato che paga la sanzione per aver mantenuto una violazione del diritto comunitario
finché la Corte non si è pronunciata, la penalità di mora serve invece a scoraggiare l'inadempimento futuro nel senso che
si impone allo Stato il pagamento di una somma per ogni giorno di successivo inadempimento oppure utilizzando altri
parametri come la stagione penatoria o la stagione balneare per tutti i tipi di inadempimento che riguardano ad esempio la
violazione delle norme sulla caccia o sulla purezza delle acque balneari,in linea di principio però è il giorno il punto di
riferimento della Commissione della Corte di Giustizia come fondamento del parametro della penalità di mora. Qui le
cose cambiano, gli Stati cominciano a rischiare grosso, se leggete la sentenza della Corte di Giustizia relativa ai vari
inadempimenti e quindi relativi all'integrazione art. 260, trovate anche espressioni di un certo valore che tendono a
scoraggiare le infrazioni, poi è ovvio che lo Stato deve in qualche modo valutare il rischio, deve essere messo in
condizioni di prefigurare quali possano essere le sanzioni applicabili. La prevedibilità della sanzione è un criterio di
carattere generale che non vale soltanto nella violazione del diritto comune, e quindi a questo scopo considerato che il
Trattato non ne parla, la Commissione ha ritenuto di adottare dei documenti, delle comunicazioni in cui precisa quali sono
i parametri che utilizza per il calcolo delle sanzioni. Parametri che fanno riferimento ad una serie di elementi quali la
capacità economica dello Stato, la gravità dell'inadempimento, la durata dell'inadempimento,sulla base di questi parametri
si adottano dei coefficienti che moltiplicano la somma base e che sono diversi a seconda dello Stato membro dell'Unione.
La Corte di Giustizia sostiene però che questi calcoli non sono per lei vincolanti, la Commissione può chiedere alla Corte
di condannare lo Stato al pagamento di una sanzione basata su questi parametri, ma la Corte può discostarsene perché non
è tenuta ad adeguarsi a quello che la Commissione propone, può anche decidere diversamente sia nel senso di aumentare
o ridurre la sanzione, il che mette in discussione il principio della prevedibilità o comunque questa è la posizione della
Corte che vuole avere un minimo di spazio libero a disposizione per decidere anche diversamente da quanto la
Commissione propone. A partire dal momento in cui si è introdotto questo nuovo meccanismo gli Stati sono ovviamente
un po' più attenti, vero è che questo meccanismo interviene a distanza di un po' di anni perché l'imposizione della
sanzione pecuniaria presuppone una prima sentenza di accertamento dell'inadempimento e quindi presuppone una serie di
passaggi procedurali precedenti, presuppone ovviamente la costanza dell'inadempimento ma anche la costituzione di un
nuovo procedimento di infrazione quindi normalmente è necessario che trascorrino almeno 6-7 anni affinché si arrivi a
una decisione del genere che è ritenuto utile per far si che lo Stato riesca a rientrare nell'inadempimento anche laddove
questo richieda un tempo più lungo. Vero è che questa seconda procedura è particolarmente lunga per cui si è pensato con
il Trattato di Lisbona di intervenire sulla durata di questo secondo procedimento di infrazione e lo si è fatto eliminando
un passaggio della fase amministrativa, in questo secondo procedimento ex art 260 la Commissione può adire la Corte

97
di Giustizia dopo aver posto lo Stato in grado di replicare alla lettera della messa in mora, quindi salta il passaggio del
parere motivato, dalla lettera della messa in mora ricevute le risposte dove è stato accusato si passa direttamente al ricorso
della Corte di Giustizia, e quindi c'è un risparmio di tempi non particolarmente rilevante ma comunque si salta una parte
della procedura. Quello che va inoltre precisato rispetto alla procedura ex art260 è che la richiesta del pagamento di una
sanzione pecuniaria può essere effettuata soltanto dalla Commissione anche qualora nella prima sentenza non è stata la
Commissione ma lo Stato membro a chiedere il provvedimento della Corte di Giustizia. Non è mai successo finora però il
Trattato prevede che la richiesta del pagamento di una sanzione pecuniaria sia competenza della Commissione anche
laddove a monte l'inadempimento è stato accertato dallo Stato su richiesta non della Commissione ma su richiesta dello
Stato membro. Sempre con il Trattato di Lisbona si è fatta un'ulteriore modifica al procedimento di infrazione sveltendolo
cioè rendendolo più spedito in presenza di una specifica violazione, in presenza della violazione imputata allo Stato
membro di non aver dato attuazione nei termini prescritti ad una direttiva comunitaria, in particolare di non aver
comunicato alla Commissione le misure interne adottate per dare attuazione ad una direttiva. In presenza di questo tipo di
violazione il Trattato di Lisbona ha introdotto una procedura molto più veloce che consente alla Commissione di chiedere
alla Corte di Giustizia il pagamento di una sanzione pecuniaria già nella prima procedura, quindi in questi casi non è
necessario che la Corte si pronunci due volte, la Corte può prevedere una sanzione pecuniaria immediatamente nel suo
primo intervento se così è richiesto dalla Commissione art 260 paragrafo 3. Un'altra peculiarità di questa procedura è che
in questo caso la discrezionalità che la Corte ritiene di poter esercitare nella procedura di base art260, cioè nel senso di
decidere in maniera diversa rispetto alla proposta della Commissione viene meno, dice l'art 260 terzo comma che se la
Corte accerta l'inadempimento può comminare allo Stato membro in questione il pagamento di una somma forfettaria o di
una penalità entro i limiti dell'importo indicato dalla Commissione. Qui quindi la Corte non potrà discostarsi dalla
richiesta della Commissione se non riducendola entro i limiti dell'importo crede che la sanzione può essere più bassa ma
non più alta, queste procedure che si sono svolte davanti alla Corte di Giustizia non sono tantissime perché il tempo
richiesto è quello indicato, perché si da' appunto in tutto questo tempo la possibilità allo Stato di evitare la sanzione. E'
successo più volte che lo Stato membro si sia adeguato all'obbligo poco prima di dover subire una sanzione pecuniaria.
Qui bisogna tener presente che la decisione della Corte di Giustizia può essere assunta anche se lo Stato nel frattempo si è
adeguato, se questo adeguamento interviene dopo il parere motivato, questo vale per la prima procedura art 258 dove c'è il
parere motivato, la regola è quella per cui se uno Stato interviene e si adegua all'obbligo violato prima del parere
motivato allora la causa non ha ragione di esistere quindi la Corte riterrà irricevibile il ricorso della Commissione; se
invece l'adeguamento interviene dopo il parere motivato la Corte ritiene di dover intervenire perché la sua pronuncia
potrebbe essere comunque utile, perché comunque utile se l'adempimento nel frattempo si è realizzato? per tre motivi:
-Innanzitutto per dare un precedente rispetto ad altri eventuali inadempimenti futuri
-In secondo luogo per non peggiorare lo Stato che aspetta così tanto per mettersi in regola
-In terzo luogo perché quella sentenza e qui le cose diventano interessanti anche dal punto della tutela giurisdizionale
nazionale perché la sentenza potrebbe essere inutile ai fini di un giudizio nazionale basato sul principio Francovich cioè
giudizio nazionale in cui un privato che si ritiene di aver subito un pregiudizio dalla violazione del diritto comunitario
chiede al giudice nazionale di pronunciarsi sulla responsabilità patrimoniale dello Stato membro. Ed è chiaro che un
giudizio del genere è facilitante per così dire da una pronuncia della Corte di Giustizia che nel frattempo ha accertato
l'inadempimento.

7 novembre 2014

RICORSO DI ANNULLAMENTO

Continuiamo il nostro discorso relativo alla corte di giustizia e alle sue competenze nei cosiddetti ricordi diretti, oppure
definita anche come giurisdizione contenziosa, vale a dire che ricorre in molti casi in cui la corte di giustizia è chiamata
dai trattati a svolgere il ruolo tipicamente giurisdizionale, cioè quello di decidere le controversie.
Abbiamo già esaminato la prima di queste competenze giurisdizionali, vale a dire la procedura di infrazione, che
comporta sia delle fasi amministrative sia eventuali fasi giurisdizionali. Quello di cui ci occupiamo oggi è invece un tipico
ricorso giurisdizionale che equipara in sostanza la corte di giustizia a ciò che fanno di solito i giudici interni nel controllo
del comportamento del potere pubblico. Così come i giudizi nazionali si occupano della valutazione di ricorsi contro gli
atti amministrativi ( ed allora nel nostro ordinamento interviene la competenza del TAR e del Consiglio di Stato
eventualmente) così la corte di giustizia nelle sue varie composizioni si occupa di valutare il rispetto del principio di
legalità da parte delle istituzioni dell'Unione Europea. È in sostanza il principio della sottoposizione delle istituzioni al
rispetto della legalità, che si rinviene anche nell'ordinamento dell'Unione. È un ordinamento anzi che secondo la corte di
giustizia è saldamente fondato sul rispetto del diritto. La corte di giustizia da sempre chiama l'Unione Europea una
comunità di diritto dove i soggetti che intervengono nell'esercizio delle funzioni attribuite dai trattati, quindi in sostanza le
istituzioni, sono tenute al rispetto delle regole di diritto primario (in prima battuta i trattati, ma anche le fonti che si

98
posizionano in una posizione di supremazia rispetto agli atti delle istituzioni).
Ma questo affidamento di un potere alla corte di giustizia di valutare il comportamento delle istituzioni si realizza
anche nei rapporti tra le istituzioni stesse. Forse è stato questo il primo intento dei redattori dei trattati, quello di
consentire alle istituzioni di vigilare sul comportamento delle altre e quindi di avere la possibilità di accedere a un
giudice, appunto la corte di giustizia, qualora ritengano che un'altra istituzione non si comporti nella maniera richiesta dai
trattati. E in più si consente agli stati di svolgere la medesima funzione che è quella di valutare il comportamento delle
istituzioni ogniqualvolta ritengano che queste non abbiano rispettato le regole dei trattati.
Quindi una serie di principi generali, che però si accomunano per il fatto di assicurare il ricorso a un giudice per qualsiasi
attività svolta nel contesto dell'applicazione del diritto dell'Unione Europea. E vedremo come la corte di giustizia, anche
laddove ha trovato le lacune in questo sistema generale di tutela dei diritti, ha cercato di colmarle aggiungendo ad
esempio come soggetti legittimati a chiedere l'intervento della corte anche coloro che non era espressamente indicati nei
testi dei trattati.
Dove si rinviene e di quale tipo di ricorso stiamo parlando? Stiamo parlando del ricorso di annullamento, in primo
luogo, che è la contestazione forse più evidente e palpabile della richiesta che i trattati fanno all'Unione Europea nel suo
complesso di garantire il rispetto del diritto. A differenza di molte organizzazioni internazionali che non conoscono
sistemi del genere, l'Unione Europea, considerate le funzioni che svolge e la capacità di incidere col suo comportamento
sui diritti di vari soggetti, è tenuta al rispetto della legalità e contiene nel suo apparato istituzionale degli organi
giurisdizionali il cui compito è quello in via esclusiva di valutare il rispetto del diritto da parte delle istituzioni. Quindi di
nuovo va ricordato che quando si parla del controllo dell'attività delle istituzioni dell'Unione Europea, l'unico giudice
competente è la corte di giustizia dell'UE. Ovviamente questa competenza giurisdizionale può essere distribuita tra i vari
componenti della Corte di giustizia dell'UE sulla base dei criteri già esaminati.
Da questa valutazione sono esclusi i giudizi nazionali, così come sono esclusi qualsiasi altro giudice internazionale. È
solo la corte di giustizia dell'UE che si vede attribuita una competenza accentrata di valutare il comportamento delle
istituzioni. E questo principio vale sia per il ricorso diretto (accesso immediato alla corte di giustizia da parte di un
ricorrente), sia attraverso un meccanismo indiretto (rinvio pregiudiziale, perché anche questo può avere come obiettivo la
legittimità del comportamento delle istituzioni anche se in un contesto diverso, cioè in un contesto in cui questa
valutazione viene richiesta non dal ricorrente che impugna un atto, ma da un giudice che nutre dei dubbi sulla validità di
un atto delle istituzioni. In entrambi i casi però la decisione della legittimità o meno di un atto viene affidata
esclusivamente alla corte di giustizia). Questo è il primo principio che bisogna ricordare: solo la corte di giustizia dell'UE
è competente.
Anche in questo caso il trattato contiene una disciplina abbastanza stringata. Non è molto dettagliata, contiene le regole di
fondo, regole però che necessitano inevitabilmente di essere armonizzate e completate dalla giurisprudenza della corte di
giustizia.
L'art 263 TFUE affida alla corte di giustizia dell'UE, nella sua complessità, il compito di esercitare un controllo di
legittimità sugli atti dell'UE. Controllo che viene riferito dall'art 263 a una serie di atti. Nella versione attualmente
vigente, cioè quella determinata dall'intervento del trattato di Lisbona, questo controllo viene affidato innanzitutto nei
confronti degli atti legislativi, cioè gli atti così chiamati perché adottati all'esito di una procedura legislativa. Col Trattato
di Lisbona abbiamo finalmente questa distinzione tra atti legislativi, in quanto frutto di un procedimento legislativo
ordinario o speciale, e di atti non legislativi che sarebbero tutti gli altri in sostanza, cioè quelli che non seguono il
procedimento codificato come procedura legislativa ordinaria e speciale. Quindi gli atti legislativi sono in sostanza gli atti
di carattere normativo, quelli più direttamente assimilabili alle nostre fonti di diritto primario legislativo, quindi le nostre
leggi adottate dal Parlamento che nel caso dell'Unione Europea sono regolamenti, direttive, decisioni, che sono frutto
della volontà congiunta del Parlamento Europeo e del Consiglio, oppure del Consiglio su parere del Parlamento Europeo
(in questo caso abbiamo procedura legislativa speciale).
Quindi innanzitutto si fa riferimento agli atti legislativi. In più il controllo di legittimità può essere esercitato dalla corte
sugli atti del Consiglio, della Commissione e della BCE (riferimento alle istituzioni, dunque, così definite dal TFUE) che
non siano raccomandazioni o pareri, nonché sugli atti del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo destinati a
produrre effetti giuridici nei confronti di terzi. Infine esercita un controllo di legittimità sugli atti degli organi e organismi
dell'Unione destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi (frase nuova inserita dal Trattato di Lisbona).
Qual è l'oggetto del controllo della corte? Gli atti legislativi innanzitutto, e qui vedremo come l'accesso alla giustizia nei
confronti di atti legislativi non è assicurato a qualsiasi potenziale ricorrente, ma è un mezzo di ricorso riservato ad alcune
categorie di ricorrenti, vale a dire ai ricorrenti che la giurisprudenza della corte di giustizia definisce “privilegiati”, vale a
dire ricorrenti che non hanno bisogno di giustificare il ricorso sulla base della tutela di propri diritti. Possono svolgere
questa funzione di controllo prescindendo dalla dimostrazione di un interesse. Si ritiene che tra questi ricorrenti

99
privilegiati rientrano innanzitutto gli stati membri. Privilegiati nel senso che possono impugnare un atto legislativo, in
realtà qualsiasi tipo di atto, senza dover dimostrare un interesse legittimo. Perché questo? Perché si presume che gli stati
membri svolgano la funzione di controllo del rispetto del diritto di carattere generale, obiettivo, che prescinde dalla
dimostrazione della lesione di un diritto. Sappiamo che in qualsiasi ordinamento che abbia una disciplina di carattere
processuale l'accesso alla giustizia viene in sostanza condizionato dalla presenza di un interesse, interesse ad agire.
Nel caso di questo tipo di ricorrenti, stati membri innanzitutto, la loro impugnazione di un atto legislativo adottato
dall'Unione Europea non richiede la dimostrazione di un interesse. Quindi ad esempio l'Italia può impugnare un atto
adottato dalle istituzioni e può farlo senza dover dimostrare che quell'atto incide sugli interessi nazionali. Lo fa a tutela
della legalità, questo è il criterio generale. Ovviamente poi nella prassi le cose vanno diversamente. Quando uno stato
impugna un atto normalmente lo fa perché ritiene di subire pregiudizi da quell'atto ma non deve dimostrarlo. Quando può
succedere che uno stato arrivi al punto di contestare in giudizio un atto delle istituzioni? Possono essere vari. Pensate a
quello più ovvio, cioè quello in cui uno stato membro, messo in minoranza dal Consiglio al momento della votazione di
un atto legislativo, ritiene che i suoi dubbi nei confronti di quell'atto siano non soltanto di carattere politico sui contenuti,
ma siano dubbi legati al rispetto del diritto, al rispetto dei vincoli che il trattato impone, ad esempio in merito alle
competenze dell'Unione Europea. Cioè contestare che quel determinato atto rientri nel novero delle competenze
dell'Unione Europea, e questo è un contenzioso abbastanza comune che porta lo stato membro ad adire la corte di
giustizia per far constatare la violazione del trattato nella parte in cui attribuisce, secondo il principio dell'attribuzione
delle competenze, determinati scopi all'Unione Europea sostenendo che quel singolo atto fuoriesce dai termini e dal
perimetro delle competenze dell'Unione. Ma il principio prima esposto, cioè quello per cui lo stato non deve dimostrare
l'interesse, non ha più la possibilità di evitare l'adozione di quell'atto perché la maggioranza è stata comunque raggiunta a
prescindere dal suo voto negativo, però a quel punto, considerato che le sue obiezioni sull'atto riguardano il rispetto del
diritto, utilizza l'ultimo baluardo che il trattato consente di utilizzare, vale a dire il ricorso alla corte. E per questo tipo di
ricorsi, ricordiamo, la corte di giustizia è l'unico giudice competente.
Ma può succedere (e in realtà è successo, nonostante questo possa sembrare abbastanza strano) che uno stato impugni un
atto al quale aveva dato il suo consenso al momento dell'adozione. Può sembrare abbastanza schizofrenico che uno stato
si dichiari d'accordo sull'adozione di un atto e poi, appena viene adottato nel termine breve di due mesi lo impugnano. Lo
stato se impugna un atto e si fa da garante, propone una valutazione obiettiva sul rispetto della legalità. Quello che lo stato
chiede è un giudizio obiettivo sul rispetto del diritto, in particolare sul rispetto dei trattati.
Il trattato prevede poi che l'impugnazione, il ricorso alla corte di giustizia dell'Unione Europea nel contesto di questa
procedura riguardi anche gli atti delle singole istituzioni. Quindi non soltanto gli atti legislativi (che per definizione
vedono il coinvolgimento del consiglio e del parlamento, seppure con diverse modulazioni) ma riguarda anche
l'impugnazione di atti di una singola istituzione e qui siamo dinanzi ad un contenzioso che si avvicina al nostro
contenzioso amministrativo perché si va a contestare l'illegalità di un singolo atto imputabile ad una istituzione. In
particolare, dice il trattato, gli atti del Consiglio, della Commissione e della BCE, che rientrano nella lista delle istituzioni
del TUE, con la precisazione però (e questo è importante perché anche su questo c'è stato molto contenzioso) che non si
tratti di raccomandazioni o pareri. Questi sono atti elencati dall'art 288 con la caratteristica di non essere atti vincolanti,
quindi ha senso dire che l'impugnazione di un atto non può essere avanzato nei confronti di atti – raccomandazioni o
pareri – che non hanno effetti giuridici. Sembra una precisazione inutile. È evidente che, non producendo effetti giuridici
obbligatori, non hanno la capacità di incidere sui diritti di alcuno e quindi non ha senso impugnarli.
In realtà le cose sono un po' più complicate di come il trattato le presenta sulla base di un principio generale che pure la
corte di giustizia applica in maniera costante, cioè quello per cui la decisione in merito alla impugnabilità di un atto non
viene risolta in base alla semplice denominazione dell'atto, ma richiede una valutazione sul contenuto effettivo di
quell'atto perché può succedere che dietro le mentite spoglie di un atto innocuo, come nel caso di una raccomandazione o
parere, si nasconda un atto che ha anch'esso una portata giuridica, che incide sui diritti di qualcuno. Quindi non è da
escludere che l'impugnazione di un atto possa riguardare anche una raccomandazione o parere se, al di là del nomen juris
utilizzato dalle istituzioni che l'ha adottato, in realtà si è prodotto un atto che produce effetti nella sfera giuridica di
qualcuno che, ritenendolo pregiudizievole, ha l'interesse di contestarlo in giudizio.
Sempre in questa carrellata sugli atti impugnabili la penultima indicazione che il trattato ci da riguarda gli atti adottati dal
Parlamento Europeo e dal Consiglio Europeo. Quest'ultimo riferimento al Consiglio è un'aggiunta del Trattato di Lisbona.
Ma a sua volta anche il riferimento al Parlamento Europeo è una modifica che consegue una volta di più a una sentenza
della corte di giustizia. Inizialmente gli atti del parlamento europeo non venivano indicati nei trattati come atti
impugnabili, e questo è anche abbastanza comprensibile se si considera che inizialmente il parlamento europeo non aveva
un ruolo istituzionale tale da poter produrre atti impugnabili. Le cose sono cambiate e oggi trovate espressamente
l'indicazione del Parlamento Europeo ma con una precisazione che non c'è per le altre istituzioni, quella per cui gli atti

100
del Parlamento sono impugnabili dinanzi la corte di giustizia dell'UE se producono effetti nei confronti dei terzi. Perché
questa precisazione? Perché il Parlamento, essendo un'assemblea legislativa, produce soprattutto atti di natura politica –
raccomandazioni, risoluzioni, voti – ed è ovvio che questo tipo di attività non può essere sottoposta ad una verifica
giurisdizionale. A maggior ragione si ritiene che il Parlamento Europeo, nello svolgimento delle sue tipiche funzioni
politiche, non produce mai – o quasi mai – degli atti che hanno effetti giuridici. Se però l'attività del Parlamento
Europeo comporta la produzione di atti con effetti giuridici nei confronti dei terzi, allora l'impugnazione è
consentita. Si pensi ad esempio alla decisione del Parlamento Europeo di distribuire, sulla base dei propri parametri, i
rimborsi elettorali a tutti i politici. È evidente che questa decisione, che si basa su una serie di parametri già fissati dal
parlamento stesso, è capace di produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi e può esserci un gruppo politico che non
ritiene che la distribuzione sia stata equa, che i parametri che il Parlamento aveva in precedenza adottato non siano stati
rispettati. Ed è giusto che in casi del genere, avendo appunto l'atto del Parlamento Europeo effetti nei confronti dei terzi,
sia consentito al soggetto che si ritiene pregiudicato di accedere alla giustizia per ottenere uno scrutinio sulla validità e
legittimità dell'atto.
In questo contesto troviamo oggi, ad esempio primo comma 163, anche un riferimento al Consiglio Europeo. Il consiglio
ricordiamo è un'istituzione dell'Unione Europea ormai a tutti gli effetti che svolge un ruolo particolare. Cioè il ruolo di
mettere insieme i capi di stato e di governo e presidente della Commissione con l'obiettivo soprattutto di assumere le
decisioni di rilievo più elevato nel complesso istituzionale europeo che riguardano o determinate nomine (esempio, la
Commissione) oppure di intervenire ogniqualvolta si crei una situazione di stallo nell'adozione di determinati atti che il
Consiglio riferisce all'attenzione del Consiglio Europeo. Pensate al caso delle modifiche dei trattati, laddove l'art 42 TUE
prevede che in caso di difficoltà nel raggiungimento di una determinata quota percentuale di stati membri, sia il consiglio
europeo a doversene occupare. Nello svolgimento di questo ruolo sembra abbastanza evidente che il Consiglio Europeo
non abbia la capacità di produrre degli atti giuridici che intervengono sui diritti dei terzi, e quindi in linea di principio è
difficile pensare a un atto del Consiglio Europeo sottoposto a un giudizio da parte della corte, a meno che questi atti
producono effetti giuridici nei confronti dei terzi. Pensate a un atto adottato nei confronti di una dipendente del Consiglio
Europeo. E allora evidentemente questo soggetto terzo rispetto alle istituzioni, perché semplice funzionario, deve avere la
possibilità di contestare in giudizio se ritiene che quell'atto è comunque pregiudizievole nei suoi confronti. E da qui
appunto la precisazione per cui anche gli atti del Consiglio Europeo possono essere sottoposti al giudizio di validità
attraverso il ricorso di annullamento se però sono capaci di produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi.
Infine – e qui nuovamente abbiamo una novità prodotta dal Trattato di Lisbona – la corte di giustizia dell'Unione Europea
esercita un controllo di legittimità sugli atti degli organi o organismi dell'unione destinati a produrre effetti giuridici nei
confronti di terzi. Ora qui evidentemente si amplia in maniera abbastanza evidente il novero dei soggetti il cui
comportamento può essere sottoposto a giudizio della corte di giustizia. Organi e organismi dell'Unione, quali sono?
Tantissimi. Si parte dal Mediatore per arrivare all'agenzia per la sicurezza alimentare che sta a Parma, all'Olaf - organismo
che si occupa della lotta contro le frodi comunitarie -. Una serie di organismi creati dall'Unione Europea, che non sono
delle vere e proprie istituzioni (queste sono elencate dal TUE) e che però svolgono la loro attività nel contesto
istituzionale in base alle regole sul funzionamento, solitamente annotate in un regolamento del Consiglio. Anche per
questo tipo di organismi, e quindi per gli atti prodotti da questi organismi, il trattato prevede la competenza esclusiva della
corte di giustizia dell'UE, in base alle regole generali di distribuzione del carico giurisdizionale tra i vari componenti della
corte, evitando che i comportamenti di questi organi e organismi dell'Unione possano essere sottoposti ad altri organi
giurisdizionali, ad esempio il controllo esercitato dai giudici nazionali, pur trattandosi di organismi che normalmente
hanno sede in uno stato membro e che però svolgono attività che non è sottoposta al controllo dei giudici di quello stato,
ma a quella dei giudici dell'Unione ogniqualvolta questi soggetti pongono in essere degli atti destinati a produrre effetti
giuridici nei confronti di terzi. Quindi qui ritroviamo la medesima formula che abbiamo già visto per il Parlamento
Europeo e il Consiglio Europeo. Questa formula è finora stata applicata senza grandi difficoltà. Si sta discutendo però
dell'applicabilità di questa disposizione rispetto a una novità particolarmente interessante che sta emergendo in queste
settimane nel contesto istituzionale dell'Unione Europea, vale a dire l'istituzione di una procura europea. Istituzione che è
preconizzata dall'art 86 del TFUE che dà al consiglio il compito di adottare con un regolamento, sentito il Parlamento
Europeo, lo statuto di questo nuovo organismo. Quindi è un organismo dell'UE, sta per essere approvato – al momento siamo
alla proposta della Commissione – e che avrà il compito di occuparsi di individuare, perseguire e reprimere i reati commessi
nei confronti degli interessi finanziari dell'UE, cioè in sostanza contro le frodi comunitarie, l'utilizzo non corretto dei fondi
comunitari. Sono reati che al momento sono di competenza degli stati membri. Il codice penale dice che oltre i reati a tutela
della finanza pubblica, ci sono anche quelli riguardanti le frodi comunitarie che permettono ovviamente lo svolgimento di
un'eventuale procedura di controllo del comportamento dei privati affidati agli organi giurisdizionali nazionali (Finanza a
monte, Procura e quindi ai giudici nazionali). Però il trattato prevede per questo tipo di attività si possa addirittura arrivare
alla costituzione di una procura europea, un'unica procura competente a investigare e quindi eventualmente chiedere la

101
condanna nei confronti dei reati commessi dai privati a tutela della finanza pubblica comunitaria. Quindi l'esercizio dell'azione
penale dovrebbe essere svolto dalla procura europea piuttosto che dai singoli organi nazionali. Dice l'art 86 par. 2 , la procura
europea è competente per individuare, perseguire, rinviare a giudizio gli autori dei reati che ledono gli interessi finanziari
dell'Unione. Essa esercita l'azione penale per tali reati dinanzi agli organi giurisdizionali competenti degli stati membri.
Quindi, una volta istruita questa eventuale notizia di reato, la procura europea sarà chiamata a chiedere l'intervento di un
giudice nazionale. Perché questo esempio? Perché scatta il problema della attribuzione della competenza giurisdizionale per
esaminare la legittimità degli atti adottati dalla procura europea. L'art 86 par. 3 prevede che i regolamenti che istituiscono la
procura europea ne stabiliscono lo statuto, le condizioni di esercizio delle sue funzioni, le regole procedurali applicabili alle
sue attività, all'ammissibilità delle prove e le regole applicabili al controllo giurisdizionale degli atti procedurali che adotta
nell'esercizio delle sue funzioni. Quindi questi regolamenti si devono occupare della c. giurisdizionale degli atti della procura
europea e nella sua proposta la Commissione ritiene, sulla base di una lettura congiunta dell'art 263 e 86, che questa
competenza debba essere affidata ai giudici nazionali. Quindi la valutazione sulla legittimità di un atto della procura europea,
ad esempio procede a sequestro dei beni di un soggetto accusato di aver posto in essere una truffa ai danni della finanza
dell'Unione dovrebbe essere svolta dai giudici nazionali e non dalla corte di giustizia, come invece dovrebbe risultare dalla
applicazione del solo art 263 (che ci dice che la corte di giustizia è unica competente per valutare la legittimità degli atti
adottati dalle istituzioni ma anche dagli organi e organismi dell'Unione Europea). La procura è ovviamente un organismo
dell'Unione Europea. Però ci dice anche l'art 86, che è totalmente in deviazione rispetto alla regola generale, che le regole
relative al controllo giurisdizionale degli atti della procura sono decise dal regolamento che crea la procura, con l'idea
evidentemente che queste regole possano essere diverse da quelle generali perché altrimenti non ci sarebbe bisogno di regole
ulteriori, ci sono già regole giurisdizionali e stanno nel regolamento del tribunale, nel regolamento della corte. Non ci sarebbe
bisogno di crearne delle nuove. Qualsiasi organismo dell'Unione Europea (pensate a Euro control, organismo che sta a
Lussemburgo e si occupa di gestire il traffico aereo dell'UE. Gli atti da questa adottati sono atti di un organismo dell'Unione
Europea sottoponibili in giudizio dinanzi alla corte di giustizia dell'UE, e quindi ai suoi componenti, in base alle regole che già
esistono. Non c'è bisogno di crearne altre).
Se invece l'art 86 fa riferimento allo statuto della procura europea, quindi al regolamento che la adotta, per la fissazione delle
regole giurisdizionali probabilmente questo vuol dire che le regole possono essere diverse da quelle generali. E per la corte ha
senso che siano i giudici nazionali ad occuparsene perché l'azione penale si esercita dinanzi al giudice nazionale.
Evidentemente ancora non c'è un giudice dell'Unione Europea che si occupa del contenzioso penale. L'azione penale, pur
svolta dalla procura Europea, quindi pur svolta in maniera centralizzata, poi si esercita dinanzi al giudice nazionale e allora
non avrebbe avuto senso sottoporre gli atti della procura europea – abbiamo detto ad esempio il sequestro - all'attenzione del
giudice comunitario, se questi atti producono effetti in un ordinamento nazionale. Però questa proposta della Commissione è
stata molto contestata. Alcuni sostengono che sarebbe una illegittima deviazione della regola contenuta nell'art 263 e quindi al
momento per questi e altri motivi la procedura di approvazione del regolamento è sottoposta a una fase di stallo.

Come dicevo una indicazione in merito agli atti impugnabili dinanzi alla corte di Giustizia dell'UE si riviene al 1 comma
art 163, per esclusione da ciò che emerge dal testo dell'art evidentemente non possono essere sottoposte ad impugnazione
altre categorie di atti:
1) Quelli imputabili agli stati membri, anche qualora gli atti agiscano nel contesto generale dell'applicazione del diritto
dell'UE come ad esempio nelle procedure di amministrazione condivisa( cioè procedura amministrativa che vede la
partecipazione sia dell'UE che degli organismi legislativi interni);
2) Non possono essere sottoposti ad impugnazione le fonti del diritto primario questo sia perché il diritto primario ha delle
sue regole di formazione e di revisione e poi anche perché mancherebbe il parametro di riferimento superiore rispetto al
quale valutare la legittimità.
3) Non sono impugnabili gli atti interni di una procedura ossia gli atti prodromici all'adozione del provvedimento finale,
eventuale vizio dell'atto interno può essere fatto valere con l'impugnazione dell'atto finale (cioè del provvedimento).
4) Possono senz'altro essere impugnati in virtù del principio di prevalenza della sostanza sulla forma anche documenti che
non sono qualificabili come atti in senso proprio e che sono apparentemente innocui come una lettera ,un comunicato
stampa, ogni qualvolta queste prese di posizione siano capaci di incidere sui diritti di qualcuno. Questo può succedere nel
diritto della concorrenza ad esempio anche delle prese di posizione contenute in un comunicato stampa possono avere
l'effetto di bloccare una determinata progettazione oppure di qualificare come intesa vietata un determinato accordo.
Quindi soprattutto nel contesto della concorrenza la qualificazione formale dell'atto non è determinante per decidere in
merito alla sua possibilità di impugnazione.
5) Occorre poi ricordare una esclusione di carattere generale che riguarda ad es gli atti adottati nel contesto della PESC,
qui è esclusa la competenza della corte salva una piccola eccezione che si trova all'art 275 TFUE per cui da un lato la
corte di giustizia dell'UE non è competente appunto per qualsiasi provvedimento adottato in quel contesto tuttavia l'art al
2 comma dispone che la corte è competente a controllare il rispetto dell'art 40 ,articolo che definisce i confini tra la

102
politica estera ed il resto delle competenze dell'unione, ciò al fine di evitare che l'unione adotti un atto qualificato come
atto di politica estera e sicurezza comune mentre è in realtà u atto che appartiene ad altre politiche ,e quindi la valutazione
della correttezza di tale comportamento non può che essere attribuita alla corte di giustizia ,quindi anche se si tratta di un
atto che formalmente si presenta come un atto di politica estera ma in realtà è un atto che appartiene ad un'altra politica,
sarà la corte a decidere sulla sua legittimità. Inoltre, la corte può pronunciarsi nel contesto della PESC sui ricorsi proposti
in base all'art 163 riguardanti il controllo della legittimità delle decisioni che prevedono una misura restrittiva nei
confronti di persone fisiche o giuridiche adottate dal consiglio. La corte ha dunque ritenuto che la dove il consiglio con i
suoi regolamenti impone sanzioni ai soggetti ad esempio accusati di far parte di associazioni terroristiche ,questi atti che
pure formalmente dovrebbero essere esenti dal controllo giurisdizionale non possono non essere portati all'attenzione
della corte, in ragione del rispetto del principio di libertà. Un atto che impone determinati comportamenti ad es vieta la
possibilità di esercitare attività di impresa di una società perché iscritta in una lista antiterrorismo è comunque capace di
incidere sui diritti fondamentali di questo soggetto e non può non essere sottoposto ad u controllo di legittimità. Ecco
dunque che il trattato all'art 275 precisa che almeno questo tipo di scrutinio può essere esercitato dalla corte di giustizia.
L'art successivo 276 riguarda l'eccezione alla regola della giurisdizione alla corte di giustizia , qui stiamo parlando del
cotesto che prima definivamo 3 pilastro cioè della cooperazione giudiziaria e di polizia nello spazio di libertà sicurezza e
giustizia per il quale allo scadere del periodo transitorio(1 dicembre 2014) si innesta la competenza della corte di giustizia
per l'esercizio di tutte le azioni possibili compresa quella di annullamento. Quindi a partire dal 1 dicembre 2014 la corte di
giustizia diviene competente ad occuparsi di tali azioni di annullamento proposte anche nei confronti degli atti adottati nel
contesto dello spazio relativo alla sicurezza e giustizia e anche di atti che continuano a portare la vecchia denominazione,
faccio il solito esempio della decisione quadro sul mandato di arresto europeo, questa decisione quadro fu adottata nel
2002 se non ricordo male, come atto del 3 pilastro che seguiva determinate procedure di adozione e che non poteva essere
sottoposta a sindacato della corte di giustizia. Il trattato di Lisbona nel 2009 prevedeva 2 cose la prima è che tali decisioni
quadro venissero trasformate in direttive e 2 se ciò no fosse avvenuto ed infatti non è avvenuto rispetto alla decisione sul
mandato di arresto europeo, automaticamente allo scadere del periodo transitorio di 5anni si innesta la competenza della
corte di giustizia nel senso di attribuire ad essa la competenza a decidere sui ricorsi di annullamento presentati nei
confronti delle decisioni quadro. Quindi se nel frattempo la decisione quadro è trasformata in direttiva allora il problema è
risolto da solo dato che le direttive possono essere impugnate ,se invece rimangono decisioni quadro alla scadenza del
periodo transitorio la corte di giustizia assume la competenza a decidere sui ricorsi presentati .Per quanto riguarda lo
spazio di libertà sicurezza e giustizia la regola generale è quella per cui gli atti adottati possono essere tranquillamente
impugnati ma c'è un'eccezione come ci dice art 275 la corte non è competente ad esempio ad esaminare la validità e la
proporzionatila di operazioni condotte dalla polizia o altri servizi incaricati all'applicazione della legge. Gli stati in pratica
hanno voluto evitare che la corte potesse prendere posizione in merito a questioni abbastanza delicate, quindi la corte
senz'altro si occupa di ogni contenzioso relativo allo spazio di libertà sicurezza e giustizia ma con la non possibilità di
occuparsi delle misure adottate per il mantenimento della sicurezza, ordine pubblico ecc.

SOGGETTI LEGITTIMATI A PRESENTARE RICORSO

1)Ricorrenti privilegiati: sono Stati membri, Parlamento Europeo; consiglio, commissione cosi definiti perché non devono
dimostrare alcun interesse ad impugnare l'atto ossia agiscono a tutela della legalità. Come si vede nella lista c'è anche il
parlamento figura questa per il passato assolutamente esclusa, nel trattati originari l'assemblea non disponeva di alcun
potere di impugnazione e questo anche perché i suoi atti erano sprovvisti di efficacia vincolante. Sulla base di un
principio di equilibrio istituzionale la corte di giustizia ha ribaltato tale convinzione, in pratica nel momento stesso in cui
il Parlamento Europeo acquisiva sempre più potere e per tanto i suoi atti iniziarono ad essere concepiti come atti
impugnabili allo stesso tempo inizia ad essere riconosciuta una impugnazione attiva al parlamento. ossia siccome i suo
atti sono impugnabili per una questione di equilibrio istituzionale deve essere data al Paramento Europeo la
legittimazione attiva ossia la possibilità di impugnare gli atti delle altre istituzioni. Il trattato di Maastricht accogli tale
novità ma inserisce il Parlamento Europeo tra i ricorrenti semi-privilegiati e solo con Nizza che viene infatti compreso tra
i ricorrenti privilegiati;
2) ricorrenti semi-privilegiati: BCE, corte dei conti e comitato delle regioni(prima anche il Parlamento Europeo) cosi
definiti perché possono impugnare qualsiasi atto ma devono dimostrare che lo stesso incida negativamente sulle proprie
prerogative
3) rimane una ulteriore categoria di enti pubblici quale quella degli enti territoriale che in quanto tali non possono
impugnare un atto dell'UE. È solo lo Stato che dispone della legittimazione attiva ad impugnare. Gli enti territoriali
comunque non hanno alcuna preclusione possono anch'esse impugnare ma alle stesse condizioni prevista dal 4 comma art

103
163 per ogni persona fisica e giuridica.
Cosa dice la norma? Qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre ricorso contro gli atti adottati nei sui confronti ,o
che la riguardano direttamente e individualmente e contro gli atti regolamentari che la riguardano direttamente e che non
comportano alcuna misura di esecuzione.

Quindi quand'è che un privato può impugnare un atto?


1)La prima situazione è quella più semplice ovvero quando è il destinatario dell'atto es.: l'impresa destinataria di una
sanzione da parte della commissione per violazione regole concorrenza può impugnare tale sanzione.

2) La seconda situazione, quella più complessa, dice che si tratta di atti che non sono adottati nei suoi confronti avendo
quindi un altro destinatario ma che il trattato consente di impugnare quando si dimostri che quell'atto riguardi
direttamente e individualmente il soggetto ricorrente cioè il ricorrente deve dimostrare di essere direttamente e d
individualmente riguardato dall'atto che sta impugnando. Direttamente riguardati vuol dire che l'atto incide
negativamente sui diritti di un soggetto senza bisogno di ulteriore intervento ne da parte delle istituzione ne da parte dello
stato. L'atto contiene cioè una portata giuridica negativa nei suoi confronti che si traduce immediatamente in una lesione
dei suoi diritti pur essendo un atto che ripeto non è a lui rivolto, es. classico: decisione della commissione in materia di
aiuti di stato, il destinatario della stessa è sempre e solo lo stato ma è ovvio che tale decisione incide anche sulle imprese
che ad es si vedono negare una sovvenzione e che devono restituire quanto già avuto magari solo perché la commissione
ha qualificato quella misura come aiuto di stato e quindi impossibile. Lo stato è il destinatario della decisione ma anche la
impresa può impugnarla ove riesca a dimostrare di essere direttamente e individualmente riguardato. Individualmente
un soggetto è individualmente riguardato se capace di dimostrare che la misura impugnata lo selezioni, ossia lo distingua
da qualsiasi altro soggetto. Cioè che incida sui suoi diritti distinguendolo dalla generalità ossia da altri soggetti pur
potenzialmente pregiudicati. Questa interpretazione della corte risale ad una vecchia sentenza Plaumann ed è ancora
quella che oggi si utilizza. Il caso riguardava la vendita del tonno rosso in pratica un regolamento della commissione
consentiva la pesca di tale animale in un certo periodo dell'anno, al fine di salvaguardare la fattispecie la commissione
adotto un nuovo regolamento con il quale riduceva il tempo di pesca. I pescherecci impugnarono l'atto ma la corte non ha
accolto il ricorso perché sostenne che i ricorrenti difettavano del requisito della individualità ossia nessuno era in grado di
dimostrare di essere individualmente riguardato essendo la misura di carattere generale. Ci sono stati tentativi anche da
parte del tribunale di cambiare tale impostazione ma la corte ha sempre continuato a seguire tale interpretazione
ribadendo che tali requisiti sono previsti e richiesti dal trattato per cui per cambiare le cose si dovrebbe in pratica
cambiare il trattato stesso.

18 Novembre 2014

AZIONE DI ANNULLAMENTO (continuo ) e RICORSO IN CARENZA

Soggetti legittimati: (Privati e Parlamenti nazionali)

PRIVATI

Oggi completiamo il discorso relativo al ricorso per annullamento degli atti dell'UE, che abbiamo iniziato ieri e che
dobbiamo concludere facendo riferimento alle novità che il Trattato di Lisbona ha portato rispetto al ricorso dei privati,
aggiungendo al quarto comma dell'art 263 TFUE una nuova precisazione, intesa ad ampliare le possibilità per i singoli di
accedere alla Corte di giustizia dell’UE rispetto alla contestata situazione precedente, che si caratterizzava per il fatto di
condizionare l’accesso dei privati al rispetto di alcune condizioni particolarmente restrittive e che comportavano molto
spesso la irricevibilità del ricorso ogni qualvolta questo fosse presentato nei confronti di atti di cui il ricorrente non era
destinatario. L'art 263.4 TFUE consente il ricorso delle persone fisiche o giuridiche contro gli atti dell'UE, ma a
condizione che questi soggetti siano direttamente e individualmente riguardati dall'atto impugnato di cui non sono
destinatari. In sostanza questo discorso riguarda gli atti a portata generale.
È abbastanza condiviso, anche negli ordinamenti nazionali, il principio per cui gli atti che hanno una portata legislativa
non sono impugnabili da un privato, nel nostro ordinamento ad esempio non è possibile per un privato impugnare una
legge dello Stato, ma è possibile che sia contestata la legittimità del comportamento del legislatore attraverso il ricorso
alla corte costituzionale (a disposizione solo dei giudici).
Non ci sorprende quindi che anche nell'ordinamento dell'UE si sia posto il problema di evitare che le scelte legislative
possano essere messe in discussione dai privati, da chiunque, una specie di actio popularis, attraverso la formula che sin
dalle origini è stata inserita nel testo di questo articolo: bisogna dimostrare di essere direttamente e individualmente
riguardati. L'applicazione di questa formula da parte della Corte di giustizia è stata particolarmente severa, soprattutto per
quanto concerne il requisito della individualità, che peraltro c'è nel Trattato, quindi la Corte ha difeso la propria

104
interpretazione restrittiva sostenendo che questa è la volontà del Trattato, degli Stati che l’hanno scritto e non può la Corte
modificarlo. Vero è che la Corte in altri contesti ha modificato le regole dei Trattati per come apparivano scritte, ma in
quel caso (art 263.4 TFUE), anche forse per ridurre il proprio carico di lavoro, ha ritenuto che non fosse possibile
estendere l’interpretazione dei requisiti dell’art 263.4 TFUE oltre la lettera stretta del testo del Trattato.
Questo però ha comportato delle difficoltà.
La posizione della Corte era quella per cui, anche non consentendo l'accesso diretto del privato contro un atto a portata
generale, è comunque possibile una tutela attraverso due meccanismi alternativi:
· Eccezione di invalidità : possibilità offerta ai privati, che impugnano un regolamento o una norma di applicazione di
una norma generale dinanzi alla Corte di Giustizia, di sollevare dinanzi alla Corte l’eccezione di invalidità dell’atto
che sta a monte.
Esempio: se io non posso impugnare un regolamento a portata generale, ma questo regolamento poi trova esecuzione
attraverso un altro atto dell'UE di cui io sono destinatario, io posso senz'altro impugnare quell'atto di esecuzione e in
quel processo dinanzi alla Corte di Giustizia sollevare la cd eccezione di invalidità, cioè chiedere alla Corte di
pronunciarsi sulla invalidità, non soltanto dell’atto che sto impugnando, ma soprattutto dell’atto che sta a monte,
dell’atto in esecuzione del quale l’istituzione comunitaria ha adottato la decisione che mi riguarda. Quindi arrivo
indirettamente a contestare la validità dell’atto regolamentare.
· Rinvio pregiudiziale: quando l'atto a portata generale dell'UE trova applicazione nell'ordinamento nazionale,
pensiamo a un atto che riguarda la materia doganale che poi viene fatto oggetto di misure di applicazione
nell'ordinamento nazionale, se io non posso impugnare il regolamento dell'UE (che sospende dazi doganali o ne
aggiunge altri nei rapporti coi paesi terzi), perché non sono direttamente e individualmente riguardato, potrò
impugnare dinanzi al giudice nazionale l’atto che mi da esecuzione, cioè il provvedimento dell’autorità doganale che
applica il regolamento.
Secondo quest'impostazione della Corte di giustizia, una volta impugnato quell'atto, potrò chiedere al giudice
nazionale, dinanzi al quale ho portato le mie lamentele, di sollevare una questione pregiudiziale di validità, arrivando
comunque a chiedere alla Corte di giustizia di giudicare sulla validità del regolamento.

Quindi avrò dei meccanismi indiretti, che certamente non sono della stessa efficacia di un’impugnazione diretta, sia in
termini di tempi sia in termini di possibilità di far valere le proprie ragioni, perché nel caso del rinvio pregiudiziale di
validità è il giudice che decide quali sono i vizi da sottoporre all’attenzione della Corte di giustizia, non è il privato che lo
decide. Sono dei palliativi che però non hanno sopito la protesta nei confronti di questo eccesso di rigore della Corte nel
sbarrare la strada ai ricorrenti privati, a maggior ragione laddove l’atto a portata generale che si ritiene lesivo è un atto che
non prevede alcuna misura di esecuzione, è ad es. un atto che si limita a vietare qualcosa, per es.: atto che vieta l'esercizio
della pesca a trascorrere di un determinato periodo; è un atto che non prevede alcuna misura di esecuzione, si limita a
vietare, quindi non comporta degli atti a valle che potrebbero, secondo l’impostazione del rinvio pregiudiziale /eccezione
di invalidità, essere impugnati o dinanzi al giudice nazionale o dinanzi al giudice comunitario.
È un atto che esaurisce la sua portata precettiva con la sua entrata in vigore; se quindi i soggetti, che si ritengono lesi da
quell’atto, non possono impugnarlo, allora non rimane nessun’altra possibilità di far valere dinanzi a un giudice
l’eventuale illegittimità di questo atto.

È proprio per risolvere questo problema che gli Stati intervengono col Trattato di Lisbona per ampliare le possibilità di
ricorso, aggiungendo quell'ultima formula presente nel 263.4 TFUE:

Qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre, alle condizioni previste al primo e secondo comma, un ricorso
· contro gli atti adottati nei suoi confronti o
· che la riguardano direttamente e individualmente*, e
· contro gli atti regolamentari che la riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura
d'esecuzione.

Dove sta la differenza rispetto alla situazione precedente che è ancora li (ancora contenuta nell'articolo)*?

1° Problema (che la Corte ha risolto)

Innanzitutto vi è da dire che si limita questa nuova possibilità ai cd. atti regolamentari.
Il problema è che il Trattato non definisce gli atti regolamentari. Si ritiene che questa lacuna derivi da un mancato
coordinamento del testo del Trattato di Lisbona rispetto al precedente testo del Trattato costituzionale, che conteneva la
stessa disciplina, ma utilizzando dei termini diversi.
Il Trattato prima di Lisbona distingueva in maniera netta gli atti legislativi e gli atti regolamentari.
Il Trattato di Lisbona questo non lo fa, anzi si limita soltanto a definire cosa sono gli atti legislativi; l'atto legislativo
secondo il Trattato di Lisbona è quello prodotto attraverso una procedura legislativa.
Qual è la procedura legislativa? Quella che vede protagonisti, come codecisori, il Consiglio e il Parlamento secondo varie
modalità, normalmente insieme, altre volte il Consiglio sentito il Parlamento e viceversa, ma insomma è la procedura con

105
cui si esercita in maniera piena la potestà legislativa/normativa delle istituzioni dell’Unione.
Quindi il prodotto di questa procedura è un atto legislativo.
Questo ha portato la Corte di giustizia l'anno scorso a decidere che atto regolamentare per sottrazione non è altro che
l’atto che non è legislativo, quindi tutti gli atti non prodotti attraverso la procedura legislativa. Ce ne sono tanti, si parla in
definitiva degli atti che hanno portata generale, ma che non sono il frutto dell’esercizio di un potere legislativo. Ad es. gli
atti della Commissione e del Consiglio in materia antidumping, in materia doganale, in materia di politica di pesca.
Il regolamento (di cui il prof parlava ieri) che sospende l'esercizio della pesca è un regolamento della Commissione che
ha portata generale, perché non ha dei destinatari diretti, ma che non viene adottato in base ad una procedura legislativa,
perché è un regolamento della Commissione, per definizione non è legislativo essendo della Commissione.
Anche alcuni regolamenti del Consiglio, se non vengono adottati attraverso la procedura legislativa speciale, non sono atti
legislativi e quindi sono atti regolamentari.
Quindi quella definizione va intesa come riferita a tutti gli atti a portata generale (non hanno destinatari precisi) che non
sono adottati attraverso procedura legislativa.

2° Problema* (che la Corte ha risolto): qualificazione degli atti regolamentari che :


· riguardano direttamente il ricorrente si conserva quindi il vecchio requisito per cui in causa devo dimostrare che
quell'atto incide sulla mia posizione giuridica senza bisogno di un filtro successivo (di un atto dell'UE o dello Stato
membro), quindi è un atto che in quanto tale direttamente incide sulla mia posizione giuridica.

· non comportano alcuna misura d'esecuzione (è una condizione del tutto nuova)
Scompare il requisito della individualità, non è più richiesto che ci sia una incidenza individuale, quindi non devo
dimostrare di essere l’unico soggetto riguardato dall’atto: questo è un vantaggio.
Devo però dimostrare ai sensi dell’art 263.4 TFUE che l’atto in questione non comporta misure d’esecuzione; deve
trattarsi di un atto a portata generale, che incide direttamente sui miei diritti, ma che non prevede a valle una misura
che mi da esecuzione, cioè che non prevede che vi sia, affinché questo atto possa produrre effetti giuridici,
un’ulteriore intervento da parte dell’Unione o da parte degli Stati membri che consenta a questo atto di produrre effetti
giuridici.
Qui il problema* non è stato ancora risolto, o meglio è stato risolto dal Tribunale, ma si aspetta che la Corte si
pronunci definitivamente (dovrebbe pronunciarsi su tale questione interpretativa nei prossimi mesi).
La posizione che ha assunto il Tribunale è nuovamente molto severa nel senso di ritenere che, affinché si possa
impugnare un atto in base a quest’ultima formula, è necessario che questo atto non preveda nessuna misura di
applicazione, cioè sia un atto immediatamente e pienamente lesivo in quanto tale; se invece la sua applicazione nei
confronti del ricorrente comunque prevede un qualsiasi intervento, che sia anche soltanto un intervento scontato di
applicazione, allora il soggetto interessato deve impugnare quell’atto, deve aspettare che l’atto venga fatto oggetto di
una misura di applicazione e indirizzare il suo ricorso nei confronti di quell’atto.

ESEMPIO ANTIDUMPING (causa che è in questo momento all’attenzione della Corte di giustizia)
La materia dell'antidumping è una materia molto complessa: misure che l’UE con l’aiuto degli Stati membri adotta nella
politica commerciale nei confronti dei Paesi terzi, cioè le misure di tutela degli interessi commerciali delle imprese dell’UE nei
confronti dei Paesi terzi e che servono a garantire, in qualche modo, una concorrenza leale nei confronti di comportamenti di
Paesi terzi o di imprese di Paesi terzi che esportano nel territorio dell’Unione prodotti a prezzo molto basso, in questo modo
operando, appunto, il dumping, cioè in maniera concorrenzialmente scorretta nei confronti di chi produce lo stesso prodotto
nel territorio degli Stati membri. Vari regolamenti cercano di “parificare” la situazione imponendo a questi prodotti il
pagamento di un dazio; il dazio serve in sostanza a equilibrare i prezzi, evitando che i produttori nazionali subiscano una
concorrenza al ribasso che non potrebbero sostenere, perché magari i produttori situati in altri Paesi - soprattutto nella prassi
recente i Paesi dell’Estremo Oriente sono particolarmente aggressivi da questo punto di vista – hanno delle facilitazioni nel
territorio nazionale grazie alle minori spese di produzione che incontrano nel Paese di origine, perché magari minore è il
costo del lavoro, perché minore è il costo della materia prima, per una serie di motivi.
Quindi i regolamenti antidumping non fanno altro che cercare di aiutare i Paesi europei nella concorrenza con i Paesi terzi.
Il problema dei regolamenti antidumping è che vengono adottati dall’Unione, generalmente dalla Commissione o dal
Consiglio, solitamente dal Consiglio su proposta della Commissione, e sono regolamenti che non vengono adottati con
procedura legislativa, quindi sono atti (secondo questa definizione) regolamentari.
Un regolamento, di recente, è stato approvato con l’obiettivo di sospendere l’esenzione di un dazio.
Un primo regolamento aveva accordato la sospensione di un dazio doganale, cioè per le importazioni di determinati prodotti
(ad es. dagli USA), considerato che in Europa non vi era un’alternativa, per un certo periodo di tempo si è sospesa
l’applicazione del dazio: il dazio ha senso se c’è una concorrenza potenziale tra un produttore europeo e un produttore di un
Paese terzo; se questa concorrenza non c’è, perché per quel prodotto non vi è alternativa nel territorio europeo, allora non ha
senso fissare un dazio per l’importazione del prodotto da altri Paesi non europei, perché questo pregiudicherebbe i Paesi, che
importano nei Paesi europei, che pagano il dazio senza che ci sia una giustificazione obiettiva.
Un bel giorno la Commissione propone al Consiglio di sospendere l'esenzione di questo dazio, perché ritiene che per quei
prodotti vi sia invece in questo momento una alternativa in territorio europeo, cioè c’è un soggetto che li produce, quindi non
ha più senso sospendere il dazio per i prodotti che provengono da Paesi terzi, perché l’importatore, che ha bisogno di quel
prodotto, può rivolgersi al produttore europeo. Quindi la Commissione propone al Consiglio di annullare questo vantaggio e di

106
ripristinare il pagamento del dazio.
Ora l'impresa importatrice, stabilita nel territorio italiano, si vede privata di un vantaggio, perché dovrà pagare un dazio che
fino a quel momento non pagava e quindi può ritenere di aver subito un pregiudizio dall’attuazione (o adozione) di questo
regolamento, pur essendo un regolamento a portata generale (cosi lo intende il Tribunale), perché non riguarda soltanto quel
soggetto, ma riguarda chiunque si trovi nelle condizioni di importare quel determinato prodotto. Quindi è un atto a portata
generale, che può essere impugnato se il privato lo ritiene lesivo, a condizione…
· fino a ieri: che fosse direttamente e individualmente riguardato (il che praticamente è impossibile, non è
individualmente riguardato nessuno, tale situazione è eccezionale);
· dal Trattato di Lisbona: dimostrando di essere direttamente riguardato, ma anche che quell'atto non richieda alcuna
misura d'esecuzione (ultima parte del 263.4 TFUE).

PROBLEMA COMPLESSO = quale sarebbe una misura d'esecuzione?


Il Tribunale nel respingere il ricorso (dichiarato irricevibile) ha ritenuto che esista una misura d'esecuzione in questo caso: la
misura d'esecuzione è il provvedimento dell’autorità doganale che consente l’importazione del prodotto e che, quindi, applica
il dazio.
È questa una misura d’esecuzione o è soltanto un atto d’applicazione del regolamento?
Se è misura d’esecuzione allora (come sostiene il Tribunale) bisognerà impugnare l’atto dell’autorità doganale e poi chiedere
al giudice nazionale di rivolgere dei quesiti pregiudiziali alla Corte di giustizia con riferimento alla validità dell’atto che sta a
monte, del regolamento.
Se è soltanto una misura d’applicazione (misura che serve soltanto a dare un'applicazione concreta al regolamento) allora
non ha senso che si segua tutta questa strada così impervia, bisogna dare la possibilità al soggetto interessato di impugnare
direttamente il regolamento.
Secondo il Tribunale la soluzione è la prima: ciò evidentemente sgrava il Tribunale da una serie di ricorsi, che vengono
affidati alla competenza del giudice nazionale. Il giudice nazionale in questo caso avrebbe il solo ruolo di accertare l’esistenza
di un regolamento a monte e di chiedere alla Corte di giustizia (visto che non può farlo lui) di giudicare sulla validità del
regolamento a monte. = percorso complicato!
La soluzione del Tribunale è stata contestata; al momento è in corso dinanzi alla Corte di giustizia il giudizio di appello.

È una materia apparentemente complicata, poi alla fine meno di quanto sembri, ma che è utile conoscere perché questi
regolamenti trovano applicazione dinanzi ai giudici e alle amministrazioni nazionali, quindi occupandosi di diritto doganale,
ci si occupa di diritto comunitario; occupandosi di diritto antidumping, si applica il diritto comunitario (con tutto quello che
consegue anche dal punto di vista dell’impugnazione degli atti): lo fanno le amministrazioni della dogana, lo fanno i giudici,
lo fanno le commissioni tributarie.

PRIVATI (art 263.4 TFUE):


· persone fisiche e giuridiche
· enti territoriali: se il Comune di Napoli vuole impugnare un atto, segue queste regole; pur essendo un ente
pubblico, ma non essendo uno Stato o un'istituzione comunitaria non è un ricorrente privilegiato, non è un
ricorrente semiprivilegiato, è equiparato alle persone fisiche e giuridiche ai fini della legittimazione ad agire.
Quindi queste regole (art 263.4 TFUE) non riguardano soltanto le imprese o i privati (ipotesi più frequente), ma
riguardano anche qualsiasi ente pubblico, qualsiasi ente territoriale (per es. la Regione Campania segue queste strade,
quando impugna gli atti).

PARLAMENTI NAZIONALI

Vi sono altri soggetti che il 263 non richiama, ma che sono in qualche modo i protagonisti di un paio di protocolli allegati
ai Trattati, cioè soggetti che partecipano alla vita istituzionale dell’UE, pur non essendo istituzioni dell’UE: i Parlamenti
nazionali.
Principio di sussidiarietà: a partire dal Trattato di Lisbona si è cercato di attribuire un ruolo attivo ai Parlamenti nazionali
per ciò che concerne il controllo del rispetto di questo principio.
Il protocollo allegato ai Trattati, dedicato al principio di sussidiarietà, attribuisce ai Parlamenti nazionali una serie di
competenze che riguardano:
· la fase ex ante di adozione degli atti da parte dell'UE: i Parlamenti nazionali hanno la possibilità di contestare che
una determinata proposta, all’attenzione del legislatore dell’UE, sia conforme al principio della sussidiarietà, cioè
comporti una violazione della regola di base che riguarda la distribuzione delle competenze concorrenti tra Stati
membri e UE.
Quindi si da ai Parlamenti nazionali, in quanto tali, un compito di vigilanza del tutto originale rispetto alla situazione
precedente: possono partecipare al procedimento di adozione degli atti, esprimendo dei pareri che, se negativi (e se
raggiungono la percentuale fissata dal protocollo), costringono la Commissione a rivedere la proposta presentata.

107
· la fase ex post: (se l'atto è stato già adottato, magari nonostante dei pareri negativi, in seguito ai quali la
Commissione ha riproposto l’atto, ignorando l’opposizione dei Parlamenti nazionali) il Parlamento nazionale ha il
potere di contestare in giudizio l’atto in questione per violazione del principio di sussidiarietà, richiedendo
(l’interpretazione più corretta è “costringendo” in sostanza) che il proprio Stato (il Governo) impugni l’atto.
Quindi l'impugnazione viene formalmente presentata dallo Stato, rappresentato anche nel contenzioso comunitario
dal Governo. Questo protocollo attribuisce al Parlamento nazionale il potere di costringere l'impugnazione, ammesso
che il Governo non fosse d'accordo, a nome dello Stato nei confronti di quell'atto; quindi n on è il Parlamento che
formalmente impugna l’atto, perché altrimenti avremmo avuto forse un richiamo diretto ex art 263 TFUE,
comunque è lo Stato, ma su richiesta del Parlamento nazionale. È un sistema abbastanza contorto, c’è bisogno che
questa cosa venga formalizzata a livello europeo, sarebbe meglio mantenere questa dialettica all’interno degli
ordinamenti nazionali, per evitare che poi emergano eventuali conflitti addirittura tra la posizione del Governo da un
lato e la posizione del Parlamento dall’altro; ciò può succedere soprattutto negli ordinamenti, x es. la Francia, dove
non c’è necessariamente coincidenza di maggioranze politiche tra Parlamento e Governo.

Comunque questa è stata la scelta del Trattato di Lisbona per dare maggiore visibilità ai Parlamenti nazionali, la prassi
però è abbastanza significativa: ci sono stati molti episodi di interventi di Parlamenti nazionali nella fase ex ante, anche
alcuni episodi di blocco dell’iniziativa legislativa della Commissione in ragione della posizione negativa dei Parlamenti
nazionali; non c’è stato finora alcun episodio di impugnazione diretta degli atti su richiesta dei Parlamenti nazionali ( il
nostro ordinamento prevede addirittura una procedura da eseguire x questo tipo di situazioni, che però, ad oggi, non ha
mai trovato applicazione).
Non è passato molto tempo dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ma è significativo che finora la Corte non si è
mai dovuta occupare di ricorsi su iniziativa dei Parlamenti nazionali.

VIZI DEGLI ATTI (AZIONE DI ANNULLAMENTO): art 263.2 TFUE

Per quanto riguarda i vizi degli atti che possono esser fatti valere da tutti i ricorrenti attraverso l'azione di annullamento,
abbiamo un chiarimento sin dal testo originario dei Trattati, nel secondo comma dell'art 263 TFUE, dove si rinviene un
elenco dei vizi, che è la riproposizione della classificazione tradizionale dei vizi degli atti, quale emerge dalla
giurisprudenza amministrativa francese, che noi abbiamo in qualche modo recepito nella nostra disciplina del processo
amministrativo.
A tal fine, la Corte è competente a pronunciarsi sui ricorsi per incompetenza, violazione delle forme sostanziali,
violazione dei trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione, ovvero per sviamento di potere,
proposti da uno Stato membro, dal Parlamento europeo, dal Consiglio o dalla Commissione.
Questi sono i vizi, cerchiamo di capire cosa si intende per ognuno di questi vizi:

a) INCOMPETENZA
L'incompetenza può essere riferita, innanzitutto, all’UE nel suo complesso, cioè l’atto è adottato in una materia che
esula dalle competenze dell’UE e che rimane nelle competenze degli Stati membri (tipico contenzioso di carattere
internazionale). Saranno gli Stati, in ipotesi messi in minoranza dinanzi al Consiglio, a contestare dinanzi alla Corte di
giustizia l’adozione di un atto in una materia per cui si ritiene che l’UE non sia competente.
L'incompetenza può riguardare anche una singola istituzione: è il caso in cui l’atto adottato dall’UE è il frutto del
potere decisionale di un soggetto incompetente. Può succedere che, avendo i Trattati distribuito i poteri tra varie
istituzioni, una di queste si muova in un contesto che non le appartiene e quindi adotti un atto, laddove invece
competente sarebbe un’altra istituzione.
L'incompetenza può riguardare anche altri aspetti, può essere ratione loci: se si adotta un atto prevedendone
l'applicazione in un territorio per il quale invece l'atto non può avere applicazione; questo è il caso di atti adottati in
contesti particolari, ad esempio nel contesto dei territori d’oltremare: alcuni Paesi membri dell’UE hanno una serie di
possedimenti fuori dal territorio europeo (Francia, Regno Unito, Portogallo, Spagna), ci sono alcuni regolamenti che
possono essere applicati in questi territori, altri no, se la decisione (circa la competenza) è fatta in materia errata,
allora l’incompetenza può essere l’argomento per cui si contesta in giudizio il regolamento.

b) VIOLAZIONE DELLE FORME SOSTANZIALI


(questo viene direttamente dalla giurisprudenza amministrativa francese)
Violazione delle forme sostanziali significa in primo luogo adozione di un atto in violazione delle regole che
prevedono specifici requisiti nel procedimento di adozione.
La forma sostanziale di un atto è innanzitutto la procedura utilizzata per la sua approvazione: se il Trattato prevede
una determinata procedura e se ne sceglie un’altra, il vizio dell’atto può essere sottoposto all’attenzione del giudice
comunitario. È il classico contenzioso interistituzionale, quando ad es. il Parlamento rimprovera al Consiglio la
conclusione di un accordo internazionale senza averlo consultato oppure senza che venga espresso dal Parlamento il
parere conforme (in alcune procedure di conclusione di accordi internazionali al Parlamento viene dato addirittura il

108
potere di veto, cioè di dover esprimere un parere conforme, se il parere non è conforme, l’accordo non può essere
concluso). Se il Consiglio non chiede l’intervento del Parlamento, perché ritiene magari che quell’accordo
internazionale riguardi una materia diversa da quella che il Parlamento ha in mente, allora si crea un conflitto
interistituzionale, che si risolve attraverso il ricorso in annullamento basato sulla violazione delle forme sostanziali.

Forma sostanziale di un atto è, però, anche la motivazione: tutti gli atti devono essere motivati dice il Trattato. Senza
motivazione non è possibile conoscere gli argomenti che hanno indotto le istituzioni a raggiungere quelle determinate
soluzioni codificate nell’atto e quindi non è consentito, in ipotesi, alla Corte di giustizia di esprimere una valutazione
su queste scelte avendo a disposizione la motivazione espressa dall’autore dell’atto. Quindi la motivazione serve sia a
fini generali di trasparenza, sia più specificamente per consentire uno scrutinio “informato” da parte della Corte di
giustizia. Se la motivazione non viene espressa o viene espressa in maniera insufficiente, si ha una violazione delle
forme sostanziali, che può essere sottoposta all’attenzione della Corte di giustizia.

Forma sostanziale, infine, è anche la base giuridica dell'atto: ogni atto delle istituzioni deve trovare fondamento su un
articolo dei Trattati, cioè deve essere espressione di una competenza che il Trattato attribuisce alle istituzioni e che
viene codificata attraverso una attribuzione di potere all’interno dei Trattati. La scelta della base giuridica non è
sempre semplice, non è scontata soprattutto in materie che stanno al confine tra diverse basi giuridiche, x es. il
contenzioso in materia di ambiente. Senz’altro l’Ue può adottare misure legislative per la protezione dell’ambiente,
ma può farlo sul fondamento di diverse basi giuridiche: la base giuridica relativa in generale al funzionamento del
mercato interno o la base giuridica che è specificamente dedicata alla tutela dell’ambiente; la scelta dell’una o
dell’altra non è banale, altrimenti il problema non ci sarebbe; da questa scelta derivano una serie di conseguenze in
tema di procedura per la conclusione dell’atto e in tema di coinvolgimento delle istituzioni.
La scelta di una base giuridica può comportare, ad esempio, l’attribuzione al Parlamento europeo di poteri maggiori
rispetto a un’altra base giuridica oppure può comportare il coinvolgimento di altri soggetti, come il Comitato
economico e sociale o il Comitato delle Regioni, che invece non sono coinvolti sulla base di un’altra base giuridica.
Può quindi avvenire, ed avviene abbastanza spesso, che la scelta effettuata dal legislatore non venga condivisa da altre
istituzioni e che quindi l’atto prodotto, avvalendosi di questa scelta, venga impugnato dinanzi alla Corte in quanto
fondato su un articolo del Trattato sbagliato.

c) VIOLAZIONE DEI TRATTATI


È quello che noi chiameremmo violazione di legge, cioè la violazione delle regole che stanno al di sopra degli atti
giuridici, quindi innanzitutto i Trattati, in quanto norme primarie dell’ordinamento dell’Unione.
Certo, anche tutti gli altri vizi che abbiamo sinora citato sono basati sulla violazione dei Trattati, ad es. la scelta di
un'errata base giuridica è in qualche modo una violazione dei Trattati, la mancata motivazione dell’atto è una
violazione dei Trattati, perché i Trattati richiedono che gli atti siano motivati.
Quindi qui si tratta di una categoria, per cosi dire, residuale, che attribuisce ai Trattati il ruolo di parametro di
legittimità degli atti delle istituzioni; le istituzioni per adottare qualsiasi atto devono rispettare i Trattati, così come
l’amministrazione italiana nell’adottare un regolamento deve rispettare la legge. Questo non è altro che il precipitato
dell’esistenza di diversi livelli nella piramide normativa dell’UE.

d) VIOLAZIONE DI QUALSIASI REGOLA DI DIRITTO RELATIVA ALLA APPLICAZIONE DEI TRATTATI


Quali sono le regole relative all'applicazione dei trattati?
· Sono i protocolli,
· sono i Trattati di modifica che a loro volta contengono delle regole che fanno parte dell'ordinamento primario
dell'UE,
· ma sono soprattutto le fonti non scritte dell'UE (i principi generali del diritto) che sono anch'esse fonti superiori
agli atti delle istituzioni, sostanzialmente equiparate ai Trattati. Questo ruolo specifico dei principi generali
emerge anche in questo contesto, contesto nel quale i principi generali, come regole relative all'applicazione dei
Trattati, fungono da parametro di legittimità degli atti delle istituzioni. Qualsiasi atto delle istituzioni deve
rispettare non soltanto le norme scritte nei Trattati (che fanno parte del diritto primario dell’UE), ma anche le
fonti non scritte, i principi generali del diritto.

e) SVIAMENTO DI POTERE
Noi chiamiamo questo vizio carenza di potere: è il caso in cui un’istituzione adotta un atto pur nel rispetto delle regole
relative alla sua competenza, ma per un fine diverso, eccedendo (“eccesso di potere” è un altro modo con cui ci
riferiamo a questo vizio) alle vere finalità del potere attribuito. Quindi qui si tratta di una valutazione un po’ più
sofisticata, cioè quella per cui l’esercizio del potere è avvenuto nel rispetto formale delle regole, ma nella sostanza è
avvenuto per finalità diverse rispetto a quelle per le quali il potere è stato attribuito. Non è un vizio dell’atto che viene
spesso portato all’attenzione del giudice comunitario, ma comunque, di nuovo nel solco della tradizione
dell’ordinamento amministrativo francese, si è codificato anche questo.

109
EFFETTI DEL RICORSO
Il ricorso in quanto tale non sospende l'applicazione dell'atto impugnato, a meno che non sia lo stesso giudice
comunitario a deciderlo su richiesta del ricorrente in ragione dell'urgenza nell'adottare provvedimenti provvisori prima
della definizione della causa; quindi spetta al ricorrente indicare quali siano le motivazioni che giustificano la richiesta di
sospensione immediata dell'atto in ragione degli effetti pregiudizievoli irrimediabili che questo produce.

EFFETTI DELLA SENTENZA


L'art 264 TFUE chiarisce che:
Se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia dell'Unione europea dichiara nullo e non avvenuto l'atto impugnato.
Questo sta a significare che la sentenza con cui la Corte accoglie il ricorso ha effetti erga omnes e ex tunc, quindi
elimina dall'ordinamento dell'UE l'atto sottoposto ad impugnazione.
Il Trattato consente alla Corte di adottare una decisione in merito alle conseguenze dell'applicazione dell'atto che
devono oramai considerarsi definitivi, in sostanza consente alla Corte di prevedere che l'annullamento produca
effetti non ex tunc, ma ex nunc (art 264.2 TFUE).
Tuttavia la Corte, ove lo reputi necessario, precisa gli effetti dell'atto annullato che devono essere considerati definitivi.
Può succedere, anche se questo è abbastanza raro, che la Corte di giustizia dell’UE indichi quali effetti l’atto, pur viziato e
pur annullato, possa continuare a produrre, ad esempio, in attesa della sua sostituzione con un altro atto.
Questo è avvenuto di recente a proposito di una questione abbastanza delicata: annullamento da parte del giudice dell’UE
di alcuni regolamenti adottati nel contesto della lotta al terrorismo, quindi della PESC. Questi regolamenti sono stati
dichiarati nulli dalla Corte per aver inserito nella lista dei soggetti accusati di essere fiancheggiatori del terrorismo delle
persone fisiche/giuridiche senza consentire a questi soggetti di poter partecipare al procedimento ed, eventualmente,
dimostrare la loro estraneità. Contestualmente all’annullamento di questi regolamenti, la Corte ha ritenuto di mantenerne
gli effetti in vigore fino alla sostituzione con un nuovo regolamento, che in ipotesi avrebbe potuto anche mantenere
quell’iscrizione però all’esito di una procedura più approfondita e quindi all’esito di un contraddittorio col soggetto
coinvolto. Quindi per evitare che gli effetti dell’atto scompaiano definitivamente, la Corte ha deciso in quel caso di
mantenerne in vigore gli effetti fino alla sua sostituzione con un nuovo regolamento.
Se l'atto non viene impugnato, ovviamente al trascorrere del termine previsto dal Trattato (due mesi), l'atto diventa
definitivo.
Come si calcolano questi due mesi?
Dipende dal tipo di atto. Se l'atto è a portata individuale, quindi viene notificato al soggetto destinatario, ovviamente il
termine comincia a decorrere dal momento della notifica, se invece l’atto è a portata generale oppure è un atto indirizzato
a un terzo soggetto, le cose si complicano.
L'atto a portata generale se è pubblicato in Gazzetta Ufficiale, il termine decorre dalla data di pubblicazione; se non è
pubblicato in Gazzetta Ufficiale, il termine comincia a decorrere dal momento in cui il soggetto ne ha effettivamente
avuto conoscenza e questo vale anche per gli atti indirizzati a terze persone.
L'atto, se non è impugnato, assume un carattere di definitività, il che comporta delle conseguenze. Non può più essere
rimesso in discussione, se non attraverso i “sistemi alternativi”, cioè l’eccezione di invalidità e il rinvio pregiudiziale; ma
anche questi rimedi alternativi hanno delle limitazioni*, soprattutto il secondo.
Il rinvio pregiudiziale di validità serve a consentire alla Corte di giustizia di esaminare, come unico soggetto competente,
la validità di un atto delle istituzioni, se quell’atto sia stato legittimamente adottato sulla base degli stessi vizi deducibili
nel ricorso di annullamento, ma questa volta non su iniziativa del soggetto interessato, ma su iniziativa del giudice. È
l’equivalente di quello che noi conosciamo come strumento di controllo della legittimità costituzionale delle leggi, quindi
si affida al giudice il compito di chiedere all’unico giudice competente (cioè la Corte di giustizia) di valutare se l’atto sia
valido. Quindi è un’ulteriore possibilità offerta, questa volta non al ricorrente in via diretta, ma a un giudice, di garantire il
rispetto del diritto nello svolgimento dell’attività delle istituzioni.
*Però (qui interviene l’effetto della mancata impugnazione) se l’atto non viene impugnato da un soggetto che avrebbe
evidentemente la possibilità di farlo, perché x es. è destinatario dell’atto stesso, quello stesso soggetto non potrà, dice la
Corte di giustizia, contestarne ulteriormente la validità dinanzi al giudice nazionale ai fini del rinvio pregiudiziale. Non si
può consentire a un soggetto, che è stato inattivo dal punto di vista dell’impugnazione diretta dell’atto, di rimediare alla
sua inattività attraverso l’utilizzo di quest’altro strumento, del rinvio pregiudiziale.
Quindi il rinvio pregiudiziale, che viene effettuato da un giudice nazionale e che ha ad oggetto la validità di un atto (che
un privato avrebbe potuto contestare direttamente e non lo ha fatto) nel contesto di una procedura dinanzi a un giudice
nazionale che riguarda esattamente quella persona, sarà dichiarato irricevibile.
Questa conclusione è particolarmente controversa, in sostanza si dice: se un’impresa non impugna una decisione della
Commissione, che impone a questo soggetto il pagamento di una sanzione, questo stesso soggetto non potrà poi invocare
i vizi di quell’atto in una procedura nazionale per chiedere al giudice nazionale di rivolgersi alla Corte di giustizia per
pronunciarsi sulla validità dello stesso atto.
Quindi non si può aggirare il termine di 60 gg per l’impugnazione di un atto attraverso questo meccanismo indiretto che
porta allo stesso risultato, cioè a una valutazione della Corte di giustizia della legittimità dell’operato delle istituzioni.
Finché si tratta di atti a portata individuale, il discorso appare anche abbastanza condivisibile, perché bisogna che a un
certo punto ci sia una parola definitiva sull’applicabilità o meno dell’atto individuale, che invece potrebbe essere messo in
discussione all’infinito attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale, che non prevede nessun termine.

110
Il problema diventa più serio se si tratta di atti che non hanno un destinatario diretto, ad es. atti a portata generale, per i
quali è tutt’altro che chiaro se il privato è in condizioni di contestare direttamente la loro validità; eppure anche in queste
situazioni, tutt’altro che scontate, la Corte di giustizia ha mantenuto la stessa posizione con l’unica precisazione che il
privato dovrebbe svolgere una valutazione sulla evidente impossibilità di impugnare l’atto direttamente → nel senso che
se si tratta di un regolamento a portata generale e il soggetto, interessato a farlo dichiarare invalido, non l’ha impugnato,
pur essendo manifestamente legittimato a farlo, allora non si potrà successivamente contestarne la validità in un giudizio,
che riguarda quello stesso soggetto, attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale.
Quindi qui si tratta di compiere una valutazione sulla manifesta possibilità di impugnare, cosa che per gli atti a portata
generale è tutt’altro che semplice (requisiti specificati nelle pagine precedenti).
Questa conclusione è messa ulteriormente in discussione nei casi in cui il rinvio pregiudiziale di validità non sia svolto dal
giudice su richiesta del privato interessato, ma d’ufficio: in quel caso salta l’intera costruzione, perché non è + il privato
inadempiente rispetto all’obbligo di impugnare nei 60 gg, cercando di aggirare l’ostacolo attraverso il ricorso al giudice
nazionale e poi il rinvio pregiudiziale, in questo caso è il giudice nazionale che ha dei legittimi dubbi sull’applicabilità di
un atto, che ritiene invalido, e che, a prescindere da chi sia il ricorrente, ritiene che questi dubbi debbano essere sottoposti
all’attenzione della Corte di giustizia.
Quindi è una ricostruzione che lascia dei margini di opinabilità e che però la Corte di giustizia mantiene nella sua
giurisprudenza fino ad oggi.

RICORSO IN CARENZA (Art 265 TFUE)

È un altro meccanismo di controllo del comportamento delle istituzioni, che la Corte intende come l’espressione di un
medesimo principio, cioè quello per cui le istituzioni rispondono del loro comportamento non rispettoso degli obblighi
imposti dal Trattato sia quando svolgano attività, adottano un atto/provvedimento lesivo in ipotesi dei diritti di qualcuno,
ma anche quando non svolgano attività, nonostante un loro determinato intervento fosse richiesto dai Trattati.
Non stiamo parlando più di un comportamento attivo, ma di una inattività delle istituzioni, che anch’essa deve essere,
secondo le regole del Trattato, sottoposta al giudizio della Corte di giustizia.
L'art 265 TFUE è una regola che troviamo fin dalle origini, che consente a una serie di soggetti, innanzitutto alle
istituzioni (Parlamento, Consiglio europeo, Consiglio, Commissione e Banca centrale), nonché agli Stati membri di
chiedere conto alle istituzioni del perché non hanno dato applicazione ad un obbligo imposto dal Trattato, del perché non
abbiano adottato un atto, quindi si contesta la loro omissione rispetto a un vincolo imposto dal Trattato.
Il Tratto di Lisbona ha aggiunto a questo elenco anche gli organi/organismi dell'UE, anch'essi rispondono della loro
inattività laddove il Trattato richiede che debbano pronunciarsi.
Chi sono invece i soggetti legittimati a ricorrere?
Qui l'art 265 TFUE si riferisce agli Stati membri, che possono chiedere alle istituzioni di dar conto della propria inattività,
si riferisce alle altre istituzioni rispetto a quella accusata di carenza, ma si riferisce anche alle persone fisiche/giuridiche
(ultimo comma dell’art 265 TFUE):
Ogni persona fisica o giuridica può adire la Corte alle condizioni stabilite dai commi precedenti per contestare ad una
istituzione, organo o organismo dell'Unione di avere omesso di emanare nei suoi confronti un atto che non sia una
raccomandazione o un parere.
Qui il ricorrente, può senz’altro essere una persona fisica/giuridica, però a condizione che dimostri che l’atto, che non è
stato adottato, aveva quel soggetto come potenziale destinatario; quindi bisogna dimostrare che si tratti di un atto non a
portata generale, ma di un atto a portata individuale di cui il ricorrente del ricorso in carenza sarebbe stato destinatario.
Se io ho diritto ad avere un pronunciamento da parte della Commissione in merito a una richiesta che ho fatto, per
esempio di partecipare a un concorso, e la Commissione non risponde → questa inattività può essere contestata in
giudizio attraverso il ricorso in carenza.
Nello stesso art 265 è previsto che questo ricorso debba seguire una serie di passi procedurali, che ne condizionano la
ricevibilità, in particolare è necessario che l’istituzione accusata di carenza debba essere messa in condizione di agire
attraverso una lettera di messa in mora.
Il ricorso giurisdizionale deve essere preceduto da una richiesta all'istituzione coinvolta di terminare questa sua inattività
attraverso l’adozione di un atto. Questa è una condizione di ricevibilità dell’eventuale ricorso giurisdizionale; se non si
segue questa procedura, il ricorso successivamente presentato sarà irricevibile.
Se alla scadenza di due mesi dalla richiesta effettuata dal soggetto interessato, l'istituzione, organo o organismo, non
hanno preso posizione, il ricorso può essere proposto entro il nuovo termine di due mesi.
Quindi c'è una scansione delle fasi, che prevede che l'istituzione abbia due mesi di tempo per rispondere alla richiesta di
intervento, se questi due mesi trascorrono invano, nei successivi due mesi, e non oltre, il soggetto interessato può
presentare ricorso in carenza dinanzi al giudice dell’UE, scelto in base alle solite regole di distribuzione delle competenze,
normalmente sarà il Tribunale se si tratta di un ricorso del privato.
Che succede se invece l'istituzione accusata di inattività risponde alla lettera di messa in mora, sostenendo che non vi è
nessun obbligo di agire, cioè contestando la premessa stessa della protesta, cioè quella per cui esiste un obbligo di agire?

111
In questo caso la carenza viene meno, non c'è più un silenzio, perché l’istituzione ha risposto, seppur in maniera diversa
rispetto a quella che il soggetto interessato si aspettava. Il mezzo di ricorso non è più quello previsto dell’art 265 TFUE,
non è più il ricorso in carenza, ma sarà il ricorso di annullamento, si impugnerà l’atto contestando all’istituzione di aver
violato il Trattato.
Se la premessa del silenzio è di non aver adottato un comportamento che il Trattato impone, se l’istituzione risponde: no,
il Trattato non mi impone di fare nulla, perché leggiamo il testo del Trattato in maniera diversa, allora questa risposta
potrà essere ovviamente oggetto di contestazione in giudizio, ma attraverso il ricorso di annullamento, non più il ricorso
in carenza.

EFFETTI DELLE SENTENZE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA


Nel caso del ricorso di annullamento, l'effetto della sentenza di accoglimento è quello della eliminazione dell’atto dal
panorama giuridico dell’UE con effetto ex tunc, a meno che la Corte stessa non decida diversamente.
Nel caso del ricorso in carenza non può essere un effetto meramente dichiarativo, cioè si accerta l’inadempimento
dell’obbligo di agire con la conseguenza (art 266 TFUE) che l'istituzione sarà tenuta a prendere i provvedimenti che
l’esecuzione della sentenza comporta; formula molto generica, che però sta a significare che se la Corte accerta
l’illegittimo silenzio, unica conseguenza non potrà essere che quella di adottare un atto, quindi sarà questo il
provvedimento che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta.

Tutto ciò non pregiudica un’altra possibilità che il Trattato offre ai privati (lezione successiva del 19 novembre), cioè
quella di chiedere all’istituzione di risarcire i danni provocati dalla usa omissione, ma anche evidentemente dall’adozione
di un atto illegittimo.
Quindi la pronuncia della Corte nel senso di dichiarare illegittimo un atto o di dichiarare illegittima un'omissione di
adottare un atto, potrà avere anche conseguenze diverse da quelle ora dette, cioè potrà comportare anche la richiesta di
risarcire il danno provocato dall’atto o dal silenzio.
In realtà questo rimedio è distinto da quelli di cui abbiamo parlato, che non è condizionato dall’esperimento degli altri: io
posso chiedere i danni all’UE per un atto adottato dalle sue istituzioni, anche se non ne chiedo l’annullamento, cosi come
avviene nel nostro ordinamento per quanto riguarda la giustizia amministrativa, l’annullamento di un atto non è mai la
condizione indispensabile affinché il soggetto interessato possa invocare un danno da risarcire a carico
dell’amministrazione coinvolta.
Quindi per gli artt 263 265 trova applicazione questa regola generale per cui l'istituzione, l'organo, organismo dell'UE è
tenuto a dare esecuzione alla sentenza ed eventualmente sostituire l’atto impugnato, nel caso dell’art 263, con un nuovo
atto che sia esente dai vizi che la Corte di giustizia ha accertato, nel caso invece del ricorso in carenza, dovrà porre fine
alla sua illegittima inattività, come accertata dalla Corte, adottando un atto, ma non necessariamente un atto che risponde
alle aspettative del soggetto ricorrente quanto ai contenuti dell’atto stesso.

19 novembre 2014

RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE DELL’UE

Chiudiamo l’argomento relativo alla giurisdizione contenziosa della corte di giustizia e dobbiamo occuparci di un altro
ricorso che troviamo in due diverse disposizioni del trattato l’azione di responsabilità extracontrattuale dell’UE a cui fa
riferimento l’art 268 TFUE “la corte di giustizia dell’UE è competente a conoscere delle controversie relative al
risarcimento dei danni di cui art 340 2 e 2 e 3 comma. Quindi per capire di che si tratta occorre leggere entrambi gli
articoli. Art 340 1 comma si occupa della responsabilità contrattuale mentre al 2 e 3 comma della responsabilità
extracontrattuale e lo fa sulla base di un principio anche abbastanza scontato ovvero quello per cui l’UE deve risarcire i
danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. Quindi il principio è quello per
cui anche l'attività delle istituzioni e dei suoi agenti può provocare un danno risarcibile ed il giudice competente a
conoscere delle controversie relative alle pretese risarcitorie è esclusivamente la corte di giustizia dell’Ue
(intendendo con tale locuzione l’intero sistema giurisdizionale dell’UE, per cui deve essere poi declinata in base ai soliti
criteri che si fondano sulla natura del ricorrente, il ricorrente è normalmente un privato per cui il giudice competente sarà
il tribunale in 1 grado e poi eventualmente la corte di giustizia in 2 grado).

La tutela giurisdizionale che l’UE riconosce ai soggetti sottoposti all’esercizio delle attività delle istituzioni non può non
comprendere anche un mezzo di ricorso inteso a far dichiarare la violazione da parte dell’UE di una delle regole relative
al comportamento delle istituzioni e se tale violazione ha cagionato un danno in capo ad un soggetto che si ritiene leso è
necessario che ci sia un giudice competente ad occuparsene. Nel contesto dell’UE, fondato in maniera profonda sull’idea
di comunità di diritto non basta avere avere a disposizione un mezzo di ricorso finalizzato a contestare la legittimità

112
dell’attività, richiedendo l’annullamento o l’accertamento della carenza, la tutela effettiva dei diritti deve necessariamente
comportare anche il risarcimento del danno. Pensate alle politiche dell’UE alla politica agricola, a quella dei trasposti
molto spesso queste politiche si traducono in atti tipicamente amministrativi, nell’adozione di questi atti si rischia non
solo la violazione dei trattati ma anche di produrre un danno in capo agli amministrati e quindi cosi come avviene per gli
ordinamenti nazionali anche per l’unione europea è giusto che questi danni vengano risarciti.

Questo è un mezzo di ricorso che si esercita nei confronti dell’unione europea, è l’Ue che deve risarcire i danni provocati
dalle istituzioni e dagli agenti, in deroga a tale principio lo stesso art 340 detta una regola eccezionale per la BCE ovvero
essa è direttamente indicata come il soggetto tenuto al risarcimento dei danni provocati dalla sua attività e dall'attività dei
suoi agenti (cioè qui non ne risponde l’UE ma la banca centrale europea)

Come si vede nella norma si parla solo di istituzioni ed agenti mente non sono menzionati anche gli organi e gli
organismi molto probabilmente si tratta di un lacuna del trattato dato che già da tempo la giurisprudenza è solita
riconoscere tale responsabilità anche per l’attività svolta da tali organismi (mediatore europeo, Banca centrale
investimenti ecc) ciò pero pur che si tratti comunque di figure istituzionali. Sono cioè esclusi da tale responsabilità altri
soggetti che comunque operano nel contesto dell’unione ma che non figurano nel contesto istituzionale come ad es i
partiti politici del parlamento europeo.

L’altro problema che l’art 340 non risolve ma si limita ad operare un rinvio a fonti esterne è quello relativo ai criteri che
guidano la Corte di giustizia nell’esercizio di tale competenza. Sin dall’inizio si è sempre rinunciato ad indicare tali
criteri(tipo indicare la rilevanza o meno della colpa, elemento oggettivo e soggettivo ) gli stati hanno da sempre preferito
operare un rinvio ai principi generali comuni a tutti i diritti nazionali. La corte di giustizia dunque ha il compito di rilevare
tali principi, attività piuttosto complessa dalla quale comunque sono stati ricavati alcuni principi generale come quello per
cui il danno risarcibile può essere sia di tipo materiale che morale, quello per cui la responsabilità deve presupporre
l’esistenza di un fatto illecito ecc.

Altro problema era quello di capire se l’accertamento della responsabilità extracontrattuale presupponga o meno l’azione
di annullamento o un giudizio in merito all’inattività delle istituzioni, cioè affinché la corte possa giudicare sul
risarcimento del danno è necessario o meno che il comportamento illecito venga accertato come tale? cioè è necessario
che si svolga previamente un giudizio di annullamento o di carenza? La corte di giustizia è stata chiara nel sostenere che
le due azioni sono autonome e separate dunque non sono reciprocamente condizionate. In concreto dunque chi
ritiene di aver subito un danno dall’adozione di un atto illegittimo o dalla carenza da parte di una situazione può
richiedere risarcimento dei danni senza aver dovuto prima chiedere azione di annullamento poi spetterà al giudice
competente valutare come questione pregiudiziale se l'attività della istituzione sia stata o meno conforme ai vincoli
imposti dai trattati. Dunque non è necessario che si ottenga prima l’annullamento per poi chiedere il risarcimento del
resto l’azione di risarcimento è soggetta ad un termine di prescrizione di 5 anni(che decorrono dal giorno in cui è
cagionato il danno) che non viene sospeso se richiesta azione di annullamento quindi per ragioni di convenienza è meglio
esercitare prima azione di risarcimento.

Altro problema che si pone è quello della legittimazione passiva, il trattato dice appunto che è l’UE che risponde dei
danni ma l’unione europea è una entità astratta. Normalmente se il danno è cagionato da un comportamento della
commissione si agisce contro la stessa dato che la commissione ha la rappresentanza esterna ed il problema non si pone.
Praticamente, il soggetto che è legittimato a difendere nel contesto giurisdizionale l’UE è ovviamente la commissione
quindi quanto l’azione è promossa contro un comportamento della stessa commissione il problema non si pone è la stessa
commissione che viene adita in giudizio .Il problema si pone quando ad avere commesso il danno è un ‘altra istituzione.
La prassi ci dice che è sufficiente chiamare in giudizio l’istituzione che ha commesso il fatto non è dunque necessario
aggiungere anche la commissione intesa come soggetto che rappresenta l’UE.

Il problema principale pero riguarda il caso in cui ad aver commesso un danno è un giudice? In virtù del principio della
ragionevole durata del processo l'attività giurisdizionale deve essere esercitata in tempi piuttosto brevi. Si assiste sempre
più spesso alla violazione di tale principio, il tribunale è in estremo ritardo per la soluzione delle controversie dato
l'eccessivo carico di lavoro su materie tra l'altro molto complesse ed inoltre a questo sia aggiunge anche il problema del
numero esiguo di giudici, uno per stato membro è ritenuto troppo basso– cioè 28 giudici – significa non avere a
disposizione abbastanza sezioni giudicanti capaci di affrontare questo carico di lavoro. Tant'è vero che il trattato di Nizza
prevede che il tribunale sia composto da almeno un giudice per stato membro e quindi intuitivamente per il tribunale si è
pensato di poter estendere il numero, a differenza di quello che avviene per la Corte, perché il tribunale ha un carico di

113
lavoro effettivamente più oneroso (negli ultimi tempi si sono aggiunti anche tantissime controversie riguardanti le
sanzioni nei confronti dei soggetti accusati di terrorismo, le sanzioni di recente adottate dall'UE nei confronti dei paesi
terzi – ad esempio nei confronti della Russia - ).
E come si lamenta in questi casi un'impresa? C'è una corsa al giudice che può ingolfare obiettivamente il meccanismo e
quindi alcune imprese hanno pensato di chiedere i danni all'Unione Europea per l'attività svolta dal giudice. La
prima di queste cause risale alla fine degli anni '90 tra un'impresa che si chiama (nome tedesco incomprensibile) non che si
era lamentata per il fatto che la causa che aveva promosso dinanzi al tribunale per impugnare una decisione in materia di
concorrenza che imponeva di pagare una sanzione era stata trattata non celermente dinanzi al tribunale e la sentenza era
arrivata dopo sette anni. E quindi cosa fa? Nell'impugnare la sentenza del tribunale che confermava la sanzione, chiede alla
corte di giustizia il risarcimento dei danni attraverso la riduzione della sanzione. Quindi ha trovato questo escamotage. Non ha
iniziato una nuova causa per il risarcimento dei danni di nuovo dinanzi al tribunale – che poi è lo stesso giudice che ha
provocato il danno, quindi anche abbastanza complicato -, però ha trovato un'altra soluzione e cioè di ridurre la sanzione
come compensazione per la durata irragionevole del processo. Ed è in sostanza quello che la corte ha accettato di fare.
Di recente però le cose sono un po' cambiate. Ci sono state altre cause. E la corte per adesso è arrivata alla soluzione per
cui il risarcimento del danno per attività giurisdizionale richiede un'azione autonoma da svolgersi dinanzi al tribunale –
perché il tribunale è il giudice delle cause dei privati - , certo con la complicazione di chiedere allo stesso giudice che ha
provocato il danno di risarcirlo. Complicazione che si risolve con un sistema anche abbastanza intuitivo, cioè quello di
chiedere al tribunale di giudicare con una composizione diversa. Quindi si svolge la causa di risarcimento e quindi
bisogna vedere innanzitutto qual è il soggetto da chiamare in giudizio. Per ora il soggetto chiamato in giudizio è stato la
corte di giustizia dell'Unione Europea, intesa come organismo complessivo, quindi dinanzi al tribunale. Mentre la corte di
giustizia sta chiedendo di coinvolgere nella causa anche la Commissione perché ha la rappresentanza esterna dell'Unione
nelle controversie e quindi si ritiene debba essere coinvolta. E questa non è una cosa banale perché se è vero che è
l'Unione che risarcisce, dice il Trattato, sarà nel budget della singola istituzione che andranno rinvenute le somme da
versare in caso di condanna al pagamento. Secondo la Corte Europea dei Diritti Dell'Uomo, giudice estraneo al sistema
istituzionale dell'Europa, la causa supera il tempo ragionevole se si svolge in tempi superiori ad uno schema che è quello
di massimo tre anni in primo grado, massimo due anni in secondo grado, massimo uno in Cassazione. Se ci sono tutti i
gradi di giudizio, il tutto dovrebbe svolgersi in sei anni. Noi non siamo esattamente in linea, ma non lo è nemmeno
l'Unione Europea. Cosa ancora più interessante, non lo è nemmeno la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
Dice la Corte Europea dei Diritti Dell'Uomo che è invasa da cause. La colpa non è sua, ma di chi fa causa, ragionamento
incontestabile considerato che è anche lo stesso ragionamento che i giudici nazionali pongono. La corte non crede a
questa cosa e lo stesso principio non lo applica a sé stessa, e non lo fa perché non c'è nessun modo per costringerla a fare
diversamente. Chiusa questa parentesi sulla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, nel caso delle cause di risarcimento del
danno che hanno come protagonista l'organo giurisdizionale sarà il tribunale di primo grado ad occuparsene e in secondo
grado la decisione del tribunale potrà essere sottoposto al giudizio della corte di giustizia.

Quali sono allora i principi generali che guidano l'azione di responsabilità? Nella sua giurisprudenza la Corte di Giustizia
ha operato un ravvicinamento e equiparazione tra le condizioni per il sorgere della responsabilità dell'Unione e le
condizioni per la responsabilità dello Stato.
Condizioni:

· Violazione di una norma da parte di una istituzione o organo o organismo dell'Unione Europea. Quindi a
monte ci deve essere una violazione. La responsabilità per fatto lecito non è ancora entrata nella giurisprudenza
della Corte di Giustizia, anzi in un caso specifico è stato escluso che questo si potesse fare ragionando in termini
di mancanza di un sentire comune da parte degli stati membri in merito alla responsabilità per fatto lecito. Non
tutti gli stati riconoscono questa responsabilità.

Quindi è necessario che a monte ci sia un comportamento illecito. La illiceità non deve essere previamente
accertata dalla corte stessa in un giudizio ad hoc di annullamento o di carenza, ma può essere incidentalmente
frutto della valutazione del giudice della responsabilità, che è comunque la Corte di Giustizia

· Danno, che per la Corte può essere sia di tipo materiale che di tipo morale.

· Nesso di causalità tra il comportamento delle istituzioni e il danno provocato.

Questi sono i tre criteri e non ci sorprendono che siano quelli normali della responsabilità aquiliana.
Dei criteri ulteriori però entrano in gioco quando il comportamento contestato presuppone l'esercizio di una

114
discrezionalità delle istituzioni e in particolare quando il comportamento contestato riguardi delle scelte generali di tipo
economico. In sostanza il problema che si pone è : posto che il Trattato impone il principio della responsabilità
extracontrattuale a tutti gli organi e organismi dell'Unione e a tutte le istituzioni, senza distinguere il tipo di attività –
legislativa, amministrativa - , però si può sottoporre l'azione del legislatore nelle scelte di tipo politico e economico che
svolge a un giudizio di responsabilità extracontrattuale? Si possono sottoporre le scelte di diritto primario dell'Unione
Europea, a maggior ragione, a un giudizio del genere? Ci fu una causa molti anni fa in cui i dipendenti del posto di
dogana si lamentavano del fatto che col trattato di Schengen e con i trattati successivi sono state smantellate le dogane.
Chi è che subisce un danno da questa scelta? Le persone che lavorano proprio al posto di dogana. E alcuni di loro
arrivano al punto di chiedere i danni. È chiaro che però la corte non ha mai dato seguito a questo tipo di richieste. Le
scelte generali di politica economica, come quella di smantellare le frontiere al passaggio delle merci tra un Paese e l'altro,
non possono essere sottoposte allo scrutinio sulla base delle conseguenze prodotte. Quindi prima ancora di valutare se
l'atto fosse illecito, la corte ha detto che quella scelta non si può sottoporre a giudizio.
La regola generale che la corte applica a casi del genere è quella per cui, qualora l'attività contestata comporti delle scelte
di politica economica, può essere chiesto un risarcimento all'Unione solo in presenza di una violazione grave di norme
intese a tutelare i singoli. Quindi l'azione deve essere grave, o – come dice la Corte - sufficientemente caratterizzata, che
ci ricorda la responsabilità dello Stato.
Quindi l'azione deve essere grave e deve riguardare non qualsiasi disposizione del Trattato, ma norme generali intese a
tutelare i singoli. Cosa si intende per questo? Si intende ad esempio i principi di base del sistema dell'Unione, come ad
esempio il principio di non discriminazione, di rispetto dei requisiti, di legittimo affidamento. Nome primarie
dell'ordinamento dell'Unione , il cui scopo – dice la Corte – è quello di tutelare i singoli. Quindi il ricorrente che invoca la
responsabilità dell'Unione Europea per il fatto delle sue istituzioni o suoi agenti e pretende di vedersi risarcito il danno
prodotto da questi soggetti, deve dimostrare - se l'attività riguarda scelte di politica economica – che la violazione sia stata
grave e poi che la norma violata sia intesa a tutelare i singoli.
Quando è che la violazione è grave? È grave, dice la Corte, quando il comportamento delle istituzioni è stato tale da
distorcere in maniera palese i limiti che il Trattato impone all'esercizio dei poteri delle istituzioni. Quindi quando c'è una
violazione così evidente da essere totalmente fuori linea rispetto ai limiti imposti dal Trattato al comportamento delle
istituzioni. Ed è ovvio che più grande è, più stretto è lo spazio di discrezionalità lasciato alle istituzioni e più facile è che
la violazione produca un danno del genere perché se l'istituzione ha un vincolo particolarmente rigido rispetto alla sua
attività la violazione di questo vincolo è normalmente una violazione grave. Se invece la norma che l'istituzione sta
applicando lascia una certa discrezionalità – e quindi affidi all'istituzione le scelte specifiche nell'adozione di un atto – la
pur possibile violazione di una fonte superiore non produce di per sé una responsabilità perché la violazione non è
necessariamente grave.
Ad esempio è una violazione grave – sufficientemente caratterizzata – quella della Commissione che in violazione del principio
di uguaglianza sospende l'attività di pesca da un giorno all'altro, prima che la stagione sia completata. La corte di giustizia ha
valutato il comportamento della Commissione che, ritenendo appunto fossero già esaurite le scorte di una determinata specie
nel mare Mediterraneo, da un giorno all'altro sospende l'attività di pesca imponendo quindi ai soggetti che stavano già
svolgendo quell'attività di fermarsi. Ma lo fa distinguendo sulla base della nazionalità, cioè vietando a tutti i pescherecci
battenti bandiera dei paesi del Mediterraneo di continuare a pescare tranne ai pescherecci spagnoli, ai quali è stata data una
settimana in più. La corte di giustizia arriva a pronunciarsi su questa decisione della Commissione. Di per sé si è opposta
assolutamente, sostenendo che se la Commissione ha ritenuto che esistesse questo rischio, si è sicuramente basata su evidenze
scientifiche – ovviamente non particolarmente approfondite perché si tratta di assumerle da un giorno all'altro - . Il problema è
che nell'assumere questa decisione la Commissione ha distinto in base alla provenienza dei pescherecci coinvolti consentendo
alla Spagna quello che non ha consentito all'Italia, alla Francia, Malta ecc. La corte di giustizia ha detto che questa scelta è
stata operata in violazione del principio di non discriminazione in base alla nazionalità perché non c'era nessuna seria
evidenza nel senso di giustificare la differenza di soluzione. Quindi la corte ha detto che quell'atto era invalido nella parte in
cui distingueva operando un trattamento di favore dei pescherecci spagnoli. Era inevitabile che a fronte di questa decisione
della corte di giustizia vi fosse a valle una seria e anche nutrita dichiarazione di risarcimento danni. Non è necessario, ma è
più facile giustificare il risarcimento se vi è a monte già una decisione della Corte di Giustizia che dichiara l'atto invalido. La
prima fatica è già superata, cioè quella di convincere il giudice comunitario che c'è stata una violazione – violazione non delle
regole generali, ma dello specifico principio di uguaglianza -. E quindi a valle vi sono in corso centinaia di cause promosse da
operatori della pesca che si lamentano del fatto di non aver potuto fare quello che agli spagnoli è stato consentito. Nelle
sentenze che la corte ha adottato qualche giorno fa, la corte ha però escluso che l'azione di danni possa avere esito positivo in
quanto ha ritenuto che la violazione del principio di uguaglianza di per sé non giustifica un'azione del genere - pure se è
sicuramente un principio a tutela dei singoli - ha dichiarato questa violazione non sufficientemente caratterizzata, posto che i
ricorrenti non hanno dimostrato che il vantaggio offerto ai pescherecci spagnoli è stato tale poi da produrre un pregiudizio a

115
loro carico, perché apparentemente le zone di pesca che i pescherecci spagnoli utilizzavano erano diverse da quelle degli altri
e quindi il fatto che abbiano continuato a pescare non ha molto pregiudicato i diritti degli altri.
Dicevamo che il danno risarcibile è normalmente di tipo materiale, ma ci può essere un danno anche morale. La corte ha
ritenuto che sia condiviso nei paesi membri il fatto che il danno risarcibile comporti anche una valutazione del danno morale,
mentre per il danno materiale si usano le categorie tradizionali. Quindi da questo punto di vista non si discosta dalle
proiezioni civilistiche dei paesi membri. Questo per la responsabilità extracontrattuale.

La responsabilità contrattuale invece, dice l'art 340 primo comma, è regolata dalla legge applicabile al contratto in
causa. Qui si tratta di un contesto diverso, cioè quello in cui le istituzioni dell'UE concludono dei contratti con soggetti
terzi (es. contratto di appalto con un fornitore di qualsiasi materiale per le istituzioni). Qualora il contratto non venga
rispettato dalle istituzioni, si tratta di capire sia qual è il giudice competente sia qual è la legge applicabile.
Qual è la legge applicabile? Sono le istituzioni e il terzo che decidono qual è la legge applicabile. Normalmente la legge
applicabile è quella del luogo in cui il contratto si conclude. Spesso la legge lussemburghese (in sostanza il codice civile
francese con qualche piccola modifica).
Giudice competente? Anche questo può essere oggetto di scelta delle parti del contratto e lì si può anche affidare la
risoluzione della controversia alla corte di giustizia, che può anche decidere di farsi una clausola compromissioria che è la
clausola inserita nei contratti in cui si affida la competenza a conoscere della controversia a un organo giurisdizionale o a
un arbitro. Può essere anche la corte di giustizia destinataria della clausola arbitrale, così come possono esserlo sia giudici
di paesi membri sia altri organi.
Sul contenzioso del personale sappiamo che questo si svolge in base a regole specifiche. Il personale dell'UE ha i suoi
funzionari e sono sottoposti innanzitutto allo statuto dei funzionari, che è una specie di regolamento generale sui diritti e
doveri dei funzionari dell'UE e che prevede una serie di diritti e obblighi, appunto, e accompagnati da una serie di
possibilità di sanzioni che vanno dal semplice rimprovero addirittura al licenziamento così come succede in qualsiasi
ordinamento nazionale. Il contenzioso del personale si svolge innanzitutto, secondo lo statuto, attraverso una fase
precontenziosa – il ricorso al giudice deve essere preceduto da un tentativo di conciliazione, che deve essere
obbligatoriamente esperito a pena di irricevibilità del ricorso . Se tale tentativo non ha buon esito, allora ci si rivolge al
giudice competente, il quale è il tribunale della funzione pubblica unito al tribunale specializzato creato ad oggi dal
Consiglio, composto da sette giudici e competente esclusivamente per questo tipo di controversie. È il giudice del lavoro,
per così dire, nell'ordinamento dell'UE - .
Le decisioni assunte dal tribunale della funzione pubblica possono a loro volta essere sottoposte a un giudizio di
legittimità dinanzi al tribunale e in ultima battuta all'attenzione della corte di giustizia se così è richiesto dal primo
avvocato generale della corte di giustizia attraverso la richiesta dello svolgimento del procedimento del riesame e che può
avere come esito quello di mettere in discussione la decisione del tribunale perché considera non compatibile con la linea
dell'UE e a quel punto la corte può anche definire il giudizio. Quello che però fa normalmente è chiedere al tribunale una
nuova decisione.

Chiudendo il discorso relativo alla giurisdizione relativo alla corte di giustizia dell'UE nelle cause che fanno parte della cd
giurisdizione contenziosa, cioè quella giurisdizione in cui la corte decide una controversia e lo fa seguendo le regole
previste dal Trattato, dello statuto, dei regolamenti di ogni istituzione.
Ma la corte di giustizia dell'UE non ha soltanto questo compito. Svolge anche funzioni non contenziose e una serie di casi
codificati dal trattato che si possono raggruppare in due categorie. La prima, quella più conosciuta e spesso esercitata,
quella della competenza pregiudiziale. La seconda è quella dell'esercizio del potere consultivo. In entrambi i casi la corte
di giustizia non decide la controversia, ma svolge un'attività rivolta a qualcun altro. Nel primo caso, cd attività
giurisdizionale, nel secondo caso attività consultiva. Nel primo caso il qualcun altro è il giudice nazionale, che richiede
l'intervento della Corte di Giustizia all'interno di un processo che si svolge dinanzi al giudice nazionale nel quale si pone
un problema di corretta interpretazione delle norme dell'UE o di giudizio di validità di un atto delle istituzioni. Quindi
comunque si partecipa alla funzione giurisdizionale collaborando all'esercizio della stessa nell'ordinamento nazionale da
parte del giudice e non casualmente le decisioni che la corte di giustizia assume in questo contesto sono qualificate come
sentenze. Non è un parere ma sentenza pregiudiziale.
Nel secondo caso invece il ruolo del giudice della corte è apparentemente solo consultivo, perché senz'altro il
provvedimento che la corte assume è qualificato come parere. Però ci sono pareri e pareri – lo abbiamo già imparato
nell'ambito delle competenze del Parlamento Europeo: c'è il parere nel contesto di una procedura di consultazione e pareri
cd conformi ad esempio nel contesto delle competenze sussidiarie dove la decisione che gli altri devono assumere non
può discostarsi dal parere del Parlamento - . La stessa cosa avviene per la corte di giustizia, nel caso previsto dall'art 300

116
che codifica la procedura di conclusione degli accordi internazionali. Nel contesto di questa procedura è data la possibilità
a una serie di soggetti – stati membri, consiglio, commissione e parlamento – di chiedere alla corte di giustizia di
pronunciarsi sulla compatibilità di un accordo internazionale che si sta per concludere e il Trattato. Se questo parere viene
richiesto e se la corte si esprime in senso negativo (nel senso di dire che non vi è compatibilità), quell'accordo non può
essere concluso a meno di modificare i Trattati. Quindi è una decisione che la corte assume che ha le vesti di un parere e
non partecipa all'esercizio di un'attività giurisdizionale – non c'è nessuna causa in corso - , ma assume valore vincolante
vietando al consiglio la conclusione di un accordo internazionale se il suo contenuto è incompatibile con i Trattati. Questo
è anche avvenuto, non molto spesso perché non si chiede spesso alla Corte di esprimere un parere in questo contesto. Però
è avvenuto che la corte abbia detto in alcuni casi che quell'accordo che si sta per concludere, o addirittura la stessa
intenzione di concludere l'accordo, deve essere fermata perché il contenuto dell'accordo non è conforme ai trattati
istitutivi o perché – nel secondo caso – l'Unione non è competente a concludere un accordo del genere. Questo secondo
caso che è un'interpretazione evolutiva dell'art 300 si è verificato ad esempio nella prima richiesta di parere della Corte di
Giustizia in merito alla competenza dell'ancora Comunità a concludere un accordo di adesione rispetto alla Convenzione
Europea dei Diritti Dell'Uomo. E nel parere 2/94 la corte ha detto che nella situazione di quel momento, in cui i Trattati
non prevedevano alcuna competenza in quella materia, la Comunità europea non poteva legarsi a questa convenzione nei
confronti degli altri stati membri. Quindi questo ha fermato un negoziato che stava appena per cominciare, quindi non c'è
mai stata una situazione di incompatibilità vera e propria tra i due testi. Alla Corte era stato sottoposto un quesito ancora
più preliminare e cioè la sussistenza della competenza a concludere un accordo su quella determinata materia.
E se oggi si parla dell'accessione dell'Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo è perché è previsto
dal Trattato. L'art 6 TUE oggi esplicitamente prevede che l'Unione aderisce alla Convenzione europea dei diritti
dell'uomo. Quindi il vizio di competenza che la Corte aveva segnalato nel '94 è stato risolto nell'unico modo in cui il
Trattato richiede di risolverlo, cioè modificando il Trattato istitutivo e quindi affidando all'Unione la competenza a
concludere questo accordo.
La formula non è particolarmente felice perché dire che l'Unione aderisce alla Convenzione non significa che sia
automaticamente così, perché l'adesione a un accordo internazionale chiede anche il consenso delle altre parti. Oggi se
uno stato non è d'accordo, l'Unione non può aderire – dice l'art 6 - , è necessario un Trattato. C'è oggi un testo di accordo
di adesione che è stato sottoposto al parere della corte che è in corso di elaborazione e che sarà espresso nella seconda o
terza settimana di dicembre. La Corte dovrà dire se quel testo sottoposto alla sua attenzione è conforme ai Trattati.

24 Novembre 2014

La competenza pregiudiziale

Le statistiche ci dicono che più della metà della cause che arrivano alla Corte di giustizia sono il frutto dell’esercizio della
competenza pregiudiziale.
Questo meccanismo, che ha avuto grande seguito nella prassi e che ha creato quella forma di collaborazione tra il giudice
nazionale e la Corte di giustizia, è stato, in concreto, il successo del diritto dell’Unione europea.
Se voi pensate ai principali pilastri, le regole che concernono l’applicazione del diritto dell’unione nell’ordinamento
interno (quali il principio della supremazia, il principio dell’efficacia diretta, il principio della patrimonialità dello Stato),
questi non si trovano nel testo del Trattato ma si trovano nella giurisprudenza della Corte di giustizia a seguito del rinvio
pregiudiziale, a seguito, cioè dell’iniziativa del giudice nazionale di ottenere dalla Corte una pronuncia in merito alla
corretta interpretazione del diritto dell’Unione.
Senza il rinvio pregiudiziale questi risultati non si sarebbero raggiunti perché sarebbe mancata questa sponda diretta,
questo contatto tra il giudice nazionale e il giudice dell’unione, un contatto che ha avuto successo perché prescinde dal
diritto statale, dal filtro interno e dal filtro di chi avrebbe avuto interessi diversi rispetto a quelli che poi hanno avuto
conferma nella giurisprudenza della Corte.
Difficilmente gli Stati membri avrebbero accettato un principio come quello della responsabilità patrimoniale: è evidente
che un principio del genere non sarebbe mai stato volontariamente accettato (anche se ciò non è mai stato verificato) ma
comunque ha trovato il suo spazio nel sistema proprio grazie a questo contatto diretto.
La Corte di giustizia ha consolidato la sua posizione come istituzione unica nel sistema, istituzione il cui ruolo è quello di
garantire il rispetto del diritto nell’applicazione del diritto dell’unione. Compito che ha esercitato in maniera molto
progressista, per così dire, molto avanzata.
Intendendolo come una forma di garanzia per la tenuta del sistema e quindi esercitandolo, attraverso il rinvio
pregiudiziale, nella maniera più congeniale per il raggiungimento dei risultati che abbiamo poi visto nella prassi di tenuta

117
e integrazione concreta del diritto dell’unione nell’ordinamento interno.
Il rinvio pregiudiziale è un’invenzione di chi ha scritto i trattati che deriva dall’esperienza europea, dall’esperienza
tedesca e italiana cioè da tutti quei meccanismi che mettono a contatto il giudice che sta per decidere una controversia ed
un altro giudice chiamato a collaborare nell’esercizio della funzione giurisdizionale dal primo per rendere questo
esercizio il più efficace e il più utile possibile.
Ed è un meccanismo che trova ispirazione nei sistemi come quello italiano di controllo sulla validità costituzionale delle
leggi, ma che conosce nel sistema dell’Unione delle caratteristiche molto originali e molto particolari soprattutto perché
per la prima volta viene inteso ad un altro scopo. Non solo allo scopo, già conosciuto, di affidare a un giudice “superiore”
il compito di giudicare sulla validità di un atto (questo lo conosciamo nel nostro ordinamento con riguardo alle leggi
costituzionali), ad ottenere cioè dalla Corte di giustizia un giudizio sulla validità di un atto dell’istituzione.
È inteso anche ad un altro scopo: si parla in questo caso di rinvio pregiudiziale di interpretazione.

Rinvio pregiudiziale di interpretazione: avendo i Trattati istitutivi dell’Unione europea inserito nuove regole nel
bagaglio delle regole applicabili nell’ordinamento interno, ed essendo queste nuove regole direttamente applicabili dai
giudici nazionali, pur essendo prodotte da meccanismi di produzione legislativa esterni rispetto all’ordinamento nazionale
(che seguono, quindi, delle logiche e delle regole diverse), è utile che ci sia a disposizione del giudice nazionale una
possibilità di rivolgersi al giudice dell’unione europea, al giudice dell’ordinamento che ha prodotto quelle regole, per
ottenere da questo giudice una valutazione, che poi diviene obbligatoria, sulla reale portata della regola comunitaria che si
sta applicando.
Il giudice nazionale può nutrire dei dubbi sulla corretta applicazione e interpretazione di una norma europea e questi
dubbi vengono risolti grazie all’intervento di un soggetto che appartiene a quel sistema che ha prodotto la regola. Quel
soggetto è più qualificato a dare un’interpretazione pressoché autentica a quella regola e quindi ciò consente un’applicata
della regola quanto più corretta possibile

Scopo didascalico: aiutare il giudice nazionale a eseguire i suoi compiti di giudice dell’Unione europea ogni qual volta si
trovi a far propria una controversia la cui risoluzione richiede applicazione di una norma europea.

Meccanismo del tutto originale, non c’era nelle altre esperienze internazionali

Il suo successo non ha fatto si che venisse preso in altri contesti ma ha a suo fondamento l’idea di consentire la
collaborazione diretta tra i giudice nazionale che ha la responsabilità di risoluzione delle controversie e il giudice
dell’unione che invece la responsabilità di garantire la corretta applicazione del diritto dell’Unione europea.

Il rinvio pregiudiziale di interpretazione e il rinvio pregiudiziale di validità seguono logiche diverse. Il primo segue una
logica di collaborazione mentre il secondo ne segue una di gerarchia. Ma entrambi questi due meccanismi seguono le
medesime regole da tanti punti di vista quali: dal punto di vista del soggetto abilitato a procedere al rinvio pregiudiziale,
degli effetti delle sentenze del rinvio pregiudiziale, dal punto di vista meramente procedurale. Sono dunque dei
meccanismi seppur appartenenti a logiche diverse tendono ad una interpretazione uniforme e vengono attivati dalla
decisione di un giudice che deve sospendere il processo che si svolge dinanzi a se per interrogare la Corte di giustizia in
merito o alla validità dell’atto o alla corretta interpretazione di una qualsiasi norma del diritto dell’Unione europea. La
decisione in merito al nesso di questa procedura pregiudiziale è affidata esclusivamente alla sensibilità del giudice
nazionale che ritiene, in base alla valutazione svolta con la collaborazione delle altre parti in giudizio, che la corretta
soluzione della loro controversia si raggiunge meglio attraverso il coinvolgimento del giudice di Lussemburgo e quindi
sospende il processo, sottoponendo le parti ad una fase di stasi, in attesa che la Corte di giustizia risponda ai quesiti. Le
risposte non sono meri suggerimenti/pareri ma sono espressi non casualmente in forma di sentenza. Sono delle risposte
che si impongono al giudice nazionale come obbligatorie. Ciò sta a significare che nel contesto dell’ordinamento
dell’unione lo svolgimento di questa procedura ha un ruolo particolare. In altri termini, è indispensabile, per la tenuta
dell’intero sistema, che il giudice nazionale possa effettuare questo rinvio pregiudiziale, cioè possa dare inizio a questo
procedimento, se lo ritiene necessario, senza che questa decisione possa essere in qualche modo condizionata o addirittura
vietata da regole interne.
Quando una regola interna può mettere in discussione l’attivazione di questa procedura? Si pensi all’obbligo del giudice
del rinvio di tenere conto dei principi di diritto enunciati dalla Cassazione.
La cassazione enuncia dei principi di diritto che poi il giudice del rinvio sarà chiamato a rispettare. Secondo la nostra
procedura civile il giudice nazionale è obbligato a tenere conto dei principi elaborati dalla Cassazione.
Se però la pronuncia della cassazione contiene una valutazione sul diritto dell’unione europea che non convince il giudice

118
a cui è stato effettuato il rinvio questo mantiene la possibilità di operare un rinvio pregiudiziale anche se lo svolgimento
del rinvio pregiudiziale può portarlo ad una soluzione diversa rispetto a quella in principio posta dalla Cassazione.
La norma del nostro codice civile che impone al giudice del rinvio di rispettare i principio di diritto elaborato dalla
cassazione non trova applicazione ogni qual volta questo limita e/o vieta la facoltà del giudice nazionale di operare il
rinvio pregiudiziale.
Quindi il corretto svolgimento di questa procedura, considerata l’importanza che ha per la corretta applicazione del
diritto dell’Unione europea negli Stati membri, può addirittura mettere in discussione delle regole generali fondamentali
come quello dell’obbligo per il giudice del rinvio di tenere conto dei principi formulati dal giudice di cassazione in sede
di giudizio.
La regola generale: nessuna regola nazionale processuale può limitare o addirittura escludere la facoltà del giudice
nazionale di operare un rinvio pregiudiziale. Qualsiasi regola del genere deve essere disapplicata dal giudice stesso a
prescindere dalla sua fondamentale importanza per le regole processuali dello Stato.

La competenza della Corte al rinvio pregiudiziale è riassunta in un unico articolo: l’art. 267 TFUE
Lo stesso trattato, quanto meno fino a Lisbona, prevedeva però dei casi in cui il rinvio pregiudiziale poteva non svolgersi
oppure svolgersi ma con regole diverse da quelle di base.

Settori in cui il rinvio non può svolgersi ( casi in cui il giudice nazionale non ha la possibilità di operare un rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia):
Settore della politica estera e sicurezza comune ->settore in cui la volontà degli Stati è tutt’ora quella di escludere la
giurisdizione della Corte di giustizia. Non c’è il rinvio pregiudiziale di validità, non c’è il rinvio pregiudiziale di
interpretazione.
Era prevista un’altra eccezione, fino al trattato di Lisbona, per quanto concerne le regole adottate in tema cooperazione
giudiziaria nel settore penale.
Prima della riforma di Lisbona i trattati prevedevano una eccezione rispetto al meccanismo generale del rinvio
pregiudiziale nel senso che spettava agli Stati decidere se accettare o meno questo meccanismo con riferimento, appunto,
agli atti adottati dal Consiglio nel settore della cooperazione giudiziaria penale.
Originariamente gli Stati potevano accettare la giurisdizione della Corte di giustizia (l’Italia lo ha fatto) e quindi potevano
consentire al giudice nazionale, che per esempio aveva dei dubbi sull’applicazione della decisione quadro sul mandato
d’arresto europeo, di rivolgersi alla Corte di giustizia. Molti Stati non avevano accettato questa competenza. Il trattato di
Lisbona interviene eliminando questa differenziazione, mantenendo le regole precedenti applicabili in un periodo di 5
anni che scade a dicembre e consentendo però ancora ad alcuni paesi (come il Regno Unito) la possibilità di scegliere di
stare fuori.

Questo sistema presupponeva, dunque, l’esplicita accettazione, da parte dello Stato membro, della giurisdizione della
Corte. Adesso superato.

IL RINVIO PREGIUDIZIALE DI INTERPRETAZIONE


L’art. 267 TFUE ci dice solo quali sono le disposizione che possono essere sottoposte all’attenzione della Corte di
giustizia attraverso questo meccanismo.
La Corte di giustizia dell’Unione europea è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione dei trattati,
sull’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi e dagli organismi dell’Unione. È una presa di
posizione molto chiara nel senso che il rinvio pregiudiziale può essere svolto dal giudice nazionale, quando si tratti di
ottenere la corretta interpretazione del diritto dell’Unione, per tutte le disposizioni dell’ordinamento comunitario.
Quindi anzitutto con riferimento ai trattati e poi agli atti delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’unione. (in
questo caso per atto si intende un qualsiasi provvedimento che assume effetti giuridici).
Può succedere che il giudice nazionale trovi difficoltà nel capire la portata normativa di un provvedimento legislativo,
perché per esempio scritto secondo regole diverse rispetto alle leggi nazioni, e quindi può ritenere necessario, ai fini della
corretta risoluzione della controversia, sospendere il giudizio e richiedere alla Corte di giustizia di rispondere alle
domande. Ipotesi più ovvia: c’è una regola che sta per essere applicata, dalla quale dipende la risoluzione della
controversia, il giudice può chiede alla Corte di giustizia qual è la corretta applicazione della regola.
Ipotesi un po’ meno scontate: caso in cui l’interpretazione viene richiesta in relazione ad una regola che di per sé non è
applicabile in quanto tale. Ad esempio con riferimento ad una disposizione contenuta in una direttiva comune. Le
direttive sono atti normativi, obbligatori, che richiedono delle misure di attuazione (certo in alcuni casi hanno efficacia

119
diretta, molto spesso trovano applicazione nell’ordinamento nazionale attraverso misure interne di esecuzione). Noi non
ce ne accorgiamo nemmeno che quella regola che si sta applicando, contenuta in un decreto legislativo del governo o in
una legge del parlamento, non è altro che una disposizione di una direttiva che è stata trasposta. Può sorgere ad un giudice
nazionale un dubbio circa la corretta trasposizione, per esempio nel momento in cui sta applicando il nostro codice del
consumo. Il codice del consumo non è altro che un insieme di direttive comunitarie recepite dall’ordinamento nazionale.
Il giudice può avere dei dubbi rispetto alla corretta trasposizione. Può, cioè, ritenere che quella legge, quel decreto
legislativo pur essendo approvato per dare attuazione alla direttiva non ha effettuato il suo mestiere in maniera corretta
(nel senso che abbiamo modificato qualcosa o magari inserito qualcos’altro) e quindi per capire come risolvere la
controversia può essere utile avere dalla Corte di giustizia una risposta in merito alla corretta interpretazione della
direttiva. Sulla base di quella risposta deciderà se quella legge o quel decreto legislativo sono atti corretti di attuazione.
Qui il meccanismo è indiretto. Ma il risultato è lo stesso. Il giudice dopo aver attenuto risposte dalla Corte applicherà
quella legge o quel decreto legislativo in base alle risposte attenute sulla corretta interpretazione della direttiva. Anche gli
atti che non sono direttamente applicabili possono essere oggetto di rinvio pregiudiziale, la risposta data dalla Corte è
comunque necessaria, agli occhi del giudice nazionale, per la corretta risoluzione della controversia.

Ci sono anche altre fonti del diritto dell’Unione che possono essere oggetto di quesiti interpretativi: gli accordi
internazionali. Accordi che l’Unione conclude con Paesi Terzi. Questi trovano applicazione nell’ordinamento dell’Unione
attraverso la decisione del Consiglio che conclude la procedura di adozione del trattato. Può succedere che il giudice
nazionale di fronte ad una disposizione del trattato internazionale concluso dall’unione europea non chiara decida di
chiedere alla Corte di giustizia una risposta.
Il problema si pone però rispetto agli accordi internazionali ogni qual volta l’accordo sia di tipo misto (misti sono quegli
accordi conclusi sia dagli stati membri sia dall’unione poiché coprono una materia di competenza condivisa: se l’accordo
rientra in una serie di materie dove alcune sono di competenza dell’Unione altre di competenza degli Stati membri la
soluzione che rassicura il Paese terzo sulla capacità dell’accordo di produrre effetti è quella di far concludere l’accordo sia
agli Stati che all’Unione).
In questo caso si pone un problema di giurisdizione della Corte di giustizia che in linea di principio dovrebbe essere
limitata per la parte dell’accordo di competenza dell’Unione.
Es. accordo dell’organizzazione mondiale del commercio che l’Unione europea ha concluso con Stati terzi. Ma che
riguardano sia competenze dell’Unione europea che degli stati nazionali.
Bisogna stare attenti che la materia sottoposta alla Corte di giustizia rientri nella parte dell’accordo di competenza
dell’Unione a meno che non si tratti regole procedurali che valgono per entrambi i versanti. L’esempio è stato quello
dell’accordo Trips dedicato alla tutela della proprietà intellettuale. L’accordo Trips è, in sostanza, quell’accordo che
impone all’Unione europea e ai suoi Stati membri una serie di regole sulla tutela del diritto d’autore, del marchio, del
brevetto condivisi con Paesi terzi e si tratta sia di regole sostanziali, con riferimento alle quali si pone il problema di
capire se sono di competenza dell’Unione o degli Stati membri, sia di regole processuali che vanno in maniera orizzontale
sia per la parte di competenza dell’Unione che la parte di competenza degli Stati membri.
In ragione del fatto che le regole processuali trovano applicazione anche per materie di competenza dell’Unione, la Corte
ha sostenuto che anche con riferimento alle regole processuali vale la sua giurisdizione della Corte di giustizia anche se la
singola fattispecie non riguarda una materia di competenza dell’Unione. Proprio perché le regole processuali possono
trovare applicazione anche nelle materie di competenza dell’unione e non è pensabile che le stesse regole trovino
applicazione differenziata a seconda della materia sostanziale.

L’interpretazione della Corte di giustizia non avviene per le norma interne. Non risponde ai quesiti che eventualmente le
vengono posti dal giudice nazionali dichiarandoli irricevibili.
Eccezione: casi in cui le regole nazionali, che il giudice nazionale è chiamato ad applicare, per decisione dello Stato
membro sono da interpretare ed applicare conformemente ad altre regole del diritto dell’Unione Europea. Es: legge sulla
concorrenza per le fattispecie nazionali. ( per le fattispecie comunitarie la disciplina è contenuta nei trattati). Quando una
fattispecie di rilievo comunitario incide sull’ordinamento interno interviene la competenza della Corte.
Se la fattispecie è di rilevanza meramente interna per esempio un accordo tra imprese i cui effetti sono limitati all’ambito
nazionale, la legge applicabile è la legge nazionale.
La nostra legge però ha una clausola in base alla quale la sua interpretazione e applicazione si svolge conformemente ai
principi di diritto dell’Unione europea in materia di concorrenza.
Quando si tratta di decidere se un determinato soggetto è da qualificare come “impresa”, destinatario delle regole sulla
concorrenza, allora nel caso si tratti di leggi nazionali per la soluzione di questo quesito si rinviene nell’ordinamento

120
dell’unione europea. Perché il nostro legislatore ha deciso che questa deve essere la corretta interpretazione. Quindi per
decidere se una società, che conclude un accordo con un’altra impresa , è in realtà un’impresa a cui si applicano le regole
della concorrenza all’interprete è richiesto di guardare alla prassi dell’Unione europea, cioè a quali requisiti l’ordinamento
dell’unione fa riferimento per qualificare un determinato soggetto come impresa. Ciò comporta che scatta la competenza
della Corte di giustizia. Anche quando si tratta di interpretare una regola nazionale che però fa rinvio, per la sua corretta
applicazione, a regole dell’Unione europea allora la Corte ha giurisdizione nell’interpretare le regole dell’Unione europea
che poi saranno indirettamente prese in considerazione dal giudice nazionale.

RINVIO PREGIUDIZIALE DI VALIDITÀ


Segue delle regole apparentemente inverse. Vi dicevo, la logica è un'altra ed è quella di completare il sistema dei rimedi a
disposizione dei privati, direttamente o indirettamente, rispetto all’esercizio del potere legislativo o comunque del potere
pubblico dell’istituzione.
Possibilità che non è a disposizione del singolo. Non è il privato che innesca questa ulteriore possibilità di controllo. Ci
troviamo nel solco delle tradizioni costituzionali dei Paesi europei: meccanismo ex post di controllo della legittimità
costituzionale affidato all’iniziativa di un giudice che non è condizionato dai tempi e può essere posto in essere a distanza
di molto tempo dall’adozione di quella regola. Il controllo ex post non può essere sottoposto a regole ferree dal punto di
vista dei tempi o dal punto di vista dei soggetti coinvolti poiché unico protagonista di questo meccanismo di controllo è il
giudice. Il giudice, seppur sollecitato da un privato, è lui che decide la controversia, se ci sono le condizioni per investire
la Corte costituzionale di una questione di legittimità. Lo stesso avviene nell’ordinamento dell’Unione europea.
Es.: Il giudice di Napoli che si trova di fronte ad un regolamento comunitario sulla compensazione del passeggero per i ritardi
di un volo aereo. Si tratta di questione interna. Ma ritiene che il regolamento abbia delle lacune nel senso che non tutela
sufficientemente il consumatore oppure che preveda delle limitazioni ragionevoli sull’accesso alla compensazione. Ha a
disposizione un meccanismo simile a quello di controllo di costituzionalità delle leggi. Può sospende il giudizio e chiedere alla
Corte di giustizia, e solo alla Corte di giustizia, di valutare la validità rispetto al Trattato dell’atto dell’ istituzione, in questo
caso il regolamento del parlamento che attribuisce dei diritti al passeggero in caso di ritardo.

Garantire, anche a distanza di tempo, l’esercizio corretto del potere legislativo sulla base di parametri superiori rispetto
all’atto delle istituzioni. Parametri superiori che sono i trattati. Il giudizio di validità si esprime con riferimento ai Trattati.
Anche dal punto di vista delle regole di adozione dell’atto: il giudice potrebbe avere dubbi circa la procedura adottata.
Questione meramente istituzionale ma che può influire anche sui contenuti. Se il Parlamento europeo è poco coinvolto i
contenuti di quel regolamento sono diversi rispetti a quelli che si sarebbero potuti avere in caso di maggior
coinvolgimento. Il giudice può adire la Corte ritenendo che questo procedimento non abbia seguito la procedura corretta
per l’adozione degli atti secondo i trattati.
In questi casi l’unica possibilità per ottenere un giudizio sulla validità è quella di sospendere la causa e di chiedere alla
Corte di giustizia di pronunciarsi.
L’oggetto della pronuncia non può che essere un atto delle istituzioni.
Nel caso del rinvio pregiudiziale di interpretazione la richiesta può riguardare sia un atto delle istituzioni che le norme
primarie, le norme dei trattati, i principi generali del diritto. Per il rinvio pregiudiziale di validità la pronuncia non può
che riguardare un atto delle istituzioni. Non si può sottoporre al giudizio di validità una norma dei trattati o una norma
primaria per due motivi: 1. non vi sarebbe parametro superiore. Sottopongo la norma del Trattato rispetto a cosa? Le
norme dei Trattati per definizione sono al vertice del sistema. 2. già esiste un meccanismo di revisione dei
trattati,codificato, che prevede una procedura particolare e non si può quindi arrivare a far dichiarare invalida una norma
consolidata nei trattati semplicemente in base a questo rinvio.

Al meccanismo del rinvio pregiudiziale di validità è attribuito il ruolo di completare il sistema di controllo sulla validità
degli atti dell’Unione europea. Non è affidato all’iniziativa del privato ma del giudice.
Ma attribuire a questo meccanismo il ruolo di ulteriore garanzia a tutela del singolo è in realtà abbastanza forzato perché è
il giudice che decide se ci sono le condizioni per un rinvio pregiudiziale di validità.
Se è vero che il giudice può seguire le intenzioni del singolo interessato oppure può addirittura riprendere in maniera
totale la richiesta del privato, non è detto che sia sempre così. Il giudice segue le indicazioni delle parti ma può anche
sollevare il rinvio d’ufficio. È più un meccanismo, come il nostro sistema di legittimità costituzionale, che garantisce il
rispetto delle regole primarie. È un meccanismo che amplia il grado di tutela in capo ai singoli.
Quindi anche nel caso del rinvio pregiudiziale di validità sta al giudice nazionale decidere se la disposizione comunitaria,
contenuta in un atto delle istituzioni, che sta per applicare è conforme alle regole primarie. Se ritiene che non lo sia dovrà

121
disapplicarla. Punto su cui la Corte di giustizia è particolarmente severa. Il giudice nazionale non può autonomamente
fare le conclusioni sulla validità, il meccanismo di controllo è un meccanismo centralizzato. Unico giudice competente ad
effettuare questa valutazione è il giudice dell’unione.

Il rinvio pregiudiziale di validità si caratterizza per un’altra questione: il ricorso alla Corte prescindendo dal grado di
giudizio.
Nel caso del rinvio pregiudiziale di interpretazione il trattato prevede che sia una facoltà per i giudici nazionali e solo
quando la questione interpretativa si pone in ultimo grado di giudizio l’istituzione giudiziaria è tenuta a rivolgersi alla
Corte di giustizia (art . 267 comma 3 e 4). In linea di principio se il dubbio interpretativo si pone dinanzi al giudice di
ultima istanza questi è obbligato a rivolgersi alla Corte.
Se invece la questione riguarda la validità di un atto, nonostante il Trattato non prevede una distinzione trai due casi, il
giudizio di validità deve essere richiesto alla Corte a prescindere dal grado di giudizio.
Questa differenza rispetto al rinvio pregiudiziale di interpretazione è enunciata dalla stessa Corte; il giudice nazionale di
qualsiasi grado è sempre tenuto ad operare il rinvio pregiudiziale se ha dubbi sulla validità di un atto in quanto il giudizio
sulla legittimità degli atti delle istituzioni deve essere sempre affidato alla Corte di giustizia.
Il giudizio, avendo efficacia erga omnes, deve avere un’uniformità di applicazione nei vari ordinamenti nazionali.
Non possono, quindi, accettarsi situazioni nelle quali il giudizio di validità di un atto segua delle soluzioni diverse in base
alle decisioni dei vari giudici. Non sono accettabili situazioni per cui uno stesso atto, che ha la vocazione di essere
applicato nello stesso modo e nello stesso momento in tutti i Paesi dell’Unione, sia dichiarato valido in uno Stato ma non
in un altro . Applicazione uniforme e contestuale del diritto dell’unione in tutti gli Stati membri poiché altrimenti il
sistema non potrebbe funzionare.
Pur in assenza di una disposizione si ritiene, dunque, che il giudizio di validità non possa non essere affidato alla Corte di
giustizia.
Il giudizio di validità non può essere affidato ai singoli giudici, deve essere centralizzato. Il giudice nazionale non può
dire che un atto è incompatibile con un principio generale superiore o ad una norma dei trattati ma deve necessariamente
aspettare che questo giudizio provenga dalla Corte e quindi deve sospendere la causa e chiedere alla Corte di
pronunciarsi.
Questo non vale se il giudice nazionale è convinto della validità, se ritiene che non vi siano dubbi ragionevoli non deve
necessariamente avere conferma sulle proprie convinzioni circa la validità.
Solo quando ha dubbi circa l’invalidità, che potrebbero portare addirittura alla disapplicazione dell’atto comunitario,
allora è tenuto a rivolgersi alla Corte di giustizia.

A questo punto cerchiamo di capire la distinzione del ruolo tra il giudice di ultima istanza e gli altri giudici rispetto al
rinvio pregiudiziale di interpretazione.

Se il giudice, nonostante nutra dei dubbi sulla corretta interpretazione del diritto comunitario, adotta decisioni che
possono essere successivamente messe in discussione grazie ad un altro giudice superiore allora questo giudice non è
obbligato al rinvio pregiudiziale.
Può farlo, può non farlo e se non lo fa adotta una sua interpretazione del diritto dell’Unione europea che potrebbe anche
essere corretta ed in caso contrario comunque sottoposta ad un controllo successivo.
Si pensi ad un giudice che deve decidere una causa in merito al recupero degli aiuti di stato e la decisione della
Commissione sul recupero non è chiara. Qualora il giudice nutra dei dubbi sulla portata (circa la portata o i destinatari
dell’obbligo di restituzione degli aiuti di stato) può decidere la questione senza coinvolgere la Corte di giustizia in base
alla sua visione. Ma può anche sospendere il giudizio e rivolgersi alla Corte. Entrambe le soluzioni sono corrette dal
punto di vista formale (ovviamente possono non esserlo dal punto di vista sostanziale. L’interpretazione autarchica del
giudice nazionale può essere sbagliata ma comunque può essere sottoposta ad una successiva valutazione).
Questo però non vale per il giudice di ultima istanza. Cioè il giudice che secondo l’ordinamento nazionale adotta
decisioni che non possono più essere messe in discussione (Consiglio di Stato e Corte Costituzionale nel nostro
ordinamento). Qualora il dubbio interpretativo si ponga dinanzi al giudice le cui decisioni non possono essere sottoposte
ad altro grado di giudizio, il giudice in questione deve operare il rinvio pregiudiziale.
Rimane in capo al giudice di qualsiasi grado una valutazione sulla necessità/utilità del rinvio per la corretta soluzione
della controversia.
Se in ultimo grado di giudizio la soluzione della causa dipende dall’esatta interpretazione di una direttiva va operato il
rinvio pregiudiziale. Solo, ovviamente, in caso di reale dubbio interpretativo.

122
Poi ci sono altre cautele che la stessa Corte di giustizia ha rinvenuto. La regola è quella per cui arrivati in ultimo grado di
giudizio e vi sia un dubbio interpretativo questo deve essere risolto attraverso il rinvio pregiudiziale.
Però questo non vale, secondo quanto stabilito dalla Corte di giustizia, nel caso in cui:

1° caso: Esistenza di precedenti pronunce. Se la Corte si è già pronunciata su quella norma definendone la portata è
evidente che non è indispensabile che lo faccia di nuovo a meno che il giudice di ultima istanza sia convinto che quella
precedente pronuncia della Corte non sia condivisibile.

Allora non si può cristallizzare per sempre, è anche giusto che vi sia la possibilità di rimettere in discussione la pronuncia
della Corte. La Corte di cassazione può, per esempio, chiedere alla Corte di giustizia di ritornare nuovamente sul
giudizio indicando i motivi per i quali la pronuncia data in precedenza non è condivisibile. Può anche non farlo, può
rimettersi alla precedente soluzione e non operare il rinvio pregiudiziale ritenendo che il dubbio interpretativo sia stato di
fatto già stato risolto e qui l’obbligo per il giudice di ultima istanza di operare il rinvio alla Corte non trova applicazione.
Ci sono altre ipotesi un po’ meno evidenti.

2° caso: La precedente pronuncia della Corte di Giustizia non contiene esattamente una risposta a quel quesito ma
quest’ultima risposta può essere ricavata da una serie di precedenti pronunce che riguardano casi simili.
Lo spazio di maggiore discrezionalità è affidato, dunque, al giudice di ultima istanza.
Caso in cui la risposta ai quesiti la si può rinvenire in maniera lineare dalle precedenti pronunce della Corte di giustizia
adottate in casi non identici ma simili non obbliga a procedere al rinvio.

3° caso: La Corte di Cassazione, il Consiglio di Stato, il giudice di ultima istanza di qualsiasi ordinamento nazionale
ritiene che quella disposizione non presenti dei veri dubbi interpretativi. Ci troviamo di fronte a quello che la Corte
chiama: atto chiaro. (La Corte di cassazione, nonostante la richiesta di una parte di un privato di operare il rinvio
pregiudiziale, ritiene che non vi sia un dubbio interpretativo reale, ritiene che quella norma sia chiara).
Da qui il problema della qualificazione della norma come chiara-> La norma in questione può, però, sembrare chiara alla
Cassazione italiana magari può non esserlo per la cassazione francese o per il giudice spagnolo e così via…
La Corte di giustizia ha cercato di fissare dei paletti per circoscrivere la discrezionalità dei giudici nazionali di ultima
istanza nel decidere se l’atto è chiaro. Corte-> La chiarezza della norma deve essere evidente al giudice di ultima istanza
ragionando in termini comunitari. La chiarezza non deve essere individuata in base ai criteri nazionali di interpretazione
delle leggi. Il giudice di ultima istanza deve giustificare la suo mancato rinvio pregiudiziale utilizzando i metodi
comunitari di interpretazione non quelli nazionali. In sostanza, dice la Corte di giustizia, la chiarezza della norma deve
risultare tale anche mettendosi nei panni dei giudici di altri ordinamenti o della stessa Corte di giustizia.

Cosa succede se il giudice di ultima istanza decide una controversia senza rivolgersi alla Corte di giustizia e non chiarisce
perché non lo fa? questa è per definizione una violazione del diritto comunitario che può da luogo ad un procedimento di
infrazione o alla responsabilità patrimoniale dello Stato per il comportamento del giudice che non opera il rinvio
pregiudiziale e decide la causa in maniera difforme rispetto ai precedenti della Corte di giustizia.

Quello che però non si può mettere in discussione come principio generale è l’intangibilità del giudicato.
La pronuncia adottata dal giudice di ultima istanza che non coinvolge la Corte di giustizia nonostante vi sia un evidente
dubbio interpretativo anzi, addirittura, nonostante vi sia stata in precedenza una pronuncia della Corte di giustizia in
senso difforme rispetto alla disposizione della cassazione, non può di per se comportare la disapplicazione del giudicato.
Il giudicato è un principio fondamentale dell’ordinamento nazionale ma anche per l’ordinamento dell’Unione europea. Il
giudicato non può essere messo in discussione a meno che questo non sia consentito nell’ordinamento interno in caso di
violazione delle regole interne ( ci sono, infatti, dei casi in cui il giudicato può essere messo in discussione) allora,
parallelamente per le stesse ipotesi, deve avvenire anche in caso si violazione del diritto dell’Unione europea. La regola
generale è quella della equivalenza delle pene. La tutela che l’ordinamento nazionale mette a disposizione dei soggetti
interessati, sulla base delle regole processuali nazionali, deve essere, in linea di principio, quanto meno estesa anche alle
fattispecie che si fondano sul diritto comunitario. Se nel diritto processuale nazionale vi sono delle ipotesi in cui tale
principio non viene invocato questo deve avvenire nelle stesse ipotesi per la violazione del diritto comunitario.
Altra ipotesi: questa non è legata all’errore interpretativo in quanto tale ma alla violazione delle regole sulla concorrenza.
Esempio: in tema di aiuti di stato.
In materia di aiuti di stato l’unico soggetto competente a qualificare una determinata misura nazionale come un aiuto
illegittimo o meno è la Commissione europea.

123
Quindi quando lo Stato sta per adottare una misura questa richiede preventivamente l’approvazione della Commissione.
È successo in Italia: Un giudice di cassazione ha deciso che un intervento del governo a favore della Tirrenia non fosse
aiuto di stato e ha ritenuto legittima questa misura La commissione aveva però già deciso che si trattava di un aiuto di
stato. La cassazione ignora la Commissione e adotta una decisione definitiva.
Al momento dell’esecuzione della sentenza il giudice italiano ha un dubbio: posso procedere nonostante si tratti di una
violazione del diritto dell’Unione europea? Si rivolge alla Corte di giustizia la quale risponde affermando che: se è vero
che il giudicato è di per se un principio intangibile, qualora esso si sia formato in violazione del diritto dell’unione allora
quel giudicato è viziato in quando prodotto in violazione delle regole sulla concorrenza. Ha dunque consento al giudice
chiamato a dare esecuzione al giudicato di disapplicarlo e quindi di non dare attuazione a quel principio che imponeva il
pagamento di una somma. Caso eccezionale che ha fatto scalpore soprattutto perché si tratta di un principio caro al nostro
ordinamento. Anche in altri ordinamenti la Corte ha dovuto superare principi intangibili.

25 novembre

segue la lezione del 24/11 sul RINVIO PREGIUDIZIALE

Continuiamo la nostra analisi sul rinvio pregiudiziale vedendo quali sono i soggetti abilitati ad operare il rinvio
pregiudiziale, quindi a rivolgere quesiti alla Corte di giustizia per interpretazione o per la validità. Anche su questo il
Trattato è particolarmente laconico in quanto si limita a prevedere, all’art 267 TFUE, che le questioni pregiudiziali sono
sollevate dinanzi un “organo giurisdizionale” di uno degli Stati membri.
Si parla, quindi, di organo giurisdizionale di uno Stato membro come soggetto abilitato ad effettuare il rinvio.
Tale nozione poteva essere interpretata nella maniera più semplice, più letterale, cioè nel senso di fare riferimento, rinvio,
alle nozioni di organo giurisdizionale applicate in ciascuno Stato membro, sarebbe stata questa l’interpretazione più fedele
alla lettera dell’art 267.
Tuttavia non è andato così; la nozione di organo giurisdizionale abilitato al rinvio pregiudiziale è una nozione
comunitaria. La Corte di giustizia dovendo interpretare anche l’art 267 e decidere quali soggetti siano competenti, abilitati
ad operare il rinvio pregiudiziale ha scelto un’altra strada, e cioè quella di creare essa stessa una nozione di organo
giurisdizionale abilitato al rinvio, valida per tutti gli ordinamenti nazionali. La Corte ha, quindi, creato una nozione
originale, autonoma, sulla base di parametri che applica per tutti gli Stati membri. Questo significa, in concreto, che sulla
base di tali parametri può succedere che un organismo che l’ordinamento nazionale qualifica come giudice non lo sia per
l’ordinamento dell’Unione, in particolare per l’applicazione dell’art 267, così come può succedere il contrario, ovvero che
organismi che l’ordinamento nazionale non qualifica come giudici siano ritenuti tali dalla Corte di giustizia ai fini
dell’applicazione dell’art 267 TFUE.
Si tratta, quindi, di una nozione autonoma che si basa su parametri propri del diritto dell’Unione. Tali parametri non sono
indicati dall’art 267 né da nessuna fonte scritta obbligatoria del diritto dell’Unione, ma si rinvengono nella giurisprudenza
della Corte di giustizia, la quale, a partire da sentenze abbastanza risalenti, ha sempre indicato dei criteri, che ribadisce
ogni qual volta si pone il dubbio sulla natura giurisdizionale di un determinato organismo e che riguardano due diverse
categorie:
· La prima categoria è riferita alla natura dell’organo, alle caratteristiche dell’organismo in questione;
· La seconda categoria è riferita al procedimento che si svolge dinanzi tale organismo.
Quindi, alcuni parametri sono di carattere, per così dire, strutturale , concernono l’organismo in quanto tale, altri
parametri concernono, invece, il procedimento che si svolge dinanzi tale organismo.
Per quanto riguarda la prima categoria di parametri (attinenti la natura dell’organo) la Corte ritiene che affinché un
soggetto possa essere qualificato come giurisdizione nazionale ai fini del rinvio pregiudiziale è necessario che:
· Abbia natura legale, cioè che la sua origine nasca da un atto legislativo, che sia creato da una volontà del
legislatore.
Questa origine legale dell’organo è un criterio che ha consentito alla Corte di escludere dal novero dei soggetti abilitati al
rinvio pregiudiziale innanzitutto gli organismi arbitrali laddove la creazione di tali organismi arbitrali sia frutto della
volontà delle parti, ad es. attraverso l’applicazione di una clausola compromissoria per l’intero contratto. Quindi, laddove
l’organismo, che pure decide una controversia, ha natura arbitrale ed è il frutto della volontà delle parti non è considerato
giudice abilitato ad operare il rinvio pregiudiziale.
Questa soluzione non è stata ritenuta da tutti corretta in quanto taglia fuori dal dialogo diretto con la Corte di giustizia gli
organismi arbitrali anche laddove tali organismi si trovino ad applicare il diritto comunitario, come avviene molto spesso
in materia di concorrenza. Difatti, spesso le controversie in materia di concorrenza vengono risolte attraverso il ricorso ad

124
un arbitro o ad un collegio arbitrale i quali, però, non avranno la possibilità di risolvere i dubbi sull’interpretazione o sulla
validità di un atto dell’Unione rivolgendosi alla Corte di giustizia, ma dovranno decidere la controversia risolvendo da
soli tali dubbi con la garanzia, però (su questo la Corte di giustizia è particolarmente severa), che il frutto dell’attività
dell’organismo arbitrale, cioè il lodo arbitrale, debba poi essere sottoposto ad un giudizio di controllo, e che la
competenza ad effettuare tale giudizio di controllo deve essere attribuita ad un giudice che dovrà sempre essere abilitato
ad operare il rinvio pregiudiziale.(Nel nostro ordinamento i lodi arbitrali sono sottoposti ad una forma di controllo
attraverso l’impugnazione del lodo dinanzi al giudice, la corte d’appello solitamente). Secondo questa impostazione, se è
vero che gli arbitri in quanto tali non possono operare il rinvio pregiudiziale, e quindi non possono chiedere alla Corte di
giustizia di interpretare, per es., una disposizione dei regolamenti comunitari in materia di concorrenza, è anche vero che
se quel lodo viene impugnato dovrà essere consentito al giudice dell’impugnazione di poter valutare la corretta
applicazione del diritto comunitario, e di poterlo fare con l’eventuale aiuto della Corte di giustizia, prescindendo dalle
regole processuali nazionali. Quindi, anche laddove la possibilità di controllare il lodo arbitrale da parte di un organo
abilitato ad operare il rinvio pregiudiziale non sia consentita dall’ordinamento nazionale, la Corte di giustizia sostiene che
le regole processuali nazionali debbano essere, in sostanza, rilette dal giudice, addirittura modificate, per consentire un
controllo approfondito del lodo anche attraverso il rinvio pregiudiziale. Dunque, ciò che non si può fare dinanzi al giudice
arbitrale deve poter essere fatto dinanzi al giudice che controlla il lodo arbitrale.
· Altro parametro che attiene alla natura, struttura dell’organismo è il suo carattere permanente , ai fini del rinvio
pregiudiziale è necessario che l’organismo sieda permanentemente per decidere delle controversie e non sia
creato ad hoc per la singola controversia.
· Infine, l’ultimo parametro attinente alla natura dell’organismo è dato dalla sua indipendenza e terzietà rispetto le
parti.
Anche qui si pongono alcuni problemi perché anche la nozione di indipendenza e terzietà è una nozione comunitaria, in
quanto è la Corte di giustizia che decide, se il caso si presenta, se quello specifico organismo si trova in una posizione di
parzialità/imparzialità rispetto alle parti, da cui il requisito della terzietà, e se è indipendente. Il problema
dell’indipendenza si pone, in particolare, per ciò che concerne quegli organismi che stanno a metà strada tra
l’amministrazione e la giurisdizione. Di tali organismi ce ne sono molti, alcuni anche in Italia, ma soprattutto negli
ordinamenti del nord Europa troviamo spesso questi organismi che hanno il compito di dirimere controversie ma che
appartengono strutturalmente all’amministrazione. Si pone, quindi, il problema di stabilire se tali organismi sono degli
organi giurisdizionali ai fini del diritto comunitario e, quindi, ai fini dello svolgimento del meccanismo del rinvio
pregiudiziale. La Corte di giustizia è stata piuttosto generosa nel qualificare organismi del genere tra quelli che sono
abilitati ad operare il rinvio pregiudiziale, anche laddove, come detto, si tratta di organismi che sono strutturalmente
inseriti nella struttura dell’amministrazione, e che secondo l’ordinamento nazionale non sarebbero qualificati come
giudici perché mancano determinati requisiti secondo la legge nazionale, e che però si trovano a dirimere controversie sul
diritto comunitario, adottando una decisione che coinvolge, in maniera evidente, l’applicazione corretta del diritto
dell’Unione, e quindi controversie per le quali, secondo Corte, è più opportuno che vi sia la sponda della Corte di
giustizia, cosa che invece non è consentita all’organo amministrativo puro. Quindi, questa generosità nella qualificazione
di questi organi posti a metà strada, ibridi, come giurisdizioni serve ad aprire la porta ai rinvii pregiudiziali anche laddove
la questione dell’applicazione del diritto comunitario si pone dinanzi l’amministrazione.
Ad es. si è posto il problema per le autorità amministrative indipendenti: in quasi tutti gli ordinamenti degli Stati membri
dell’Unione europea esistono delle autorità che fanno parte della struttura amministrativa ma che godono di una qualifica
e di alcuni requisiti di indipendenza rispetto al potere politico, e quindi rispetto al governo. Nel nostro ordinamento, ad
es., autorità amministrative indipendenti sono l’autorità garante della concorrenza e del mercato, autorità per le garanzie
nelle comunicazioni, la banca d’Italia. È abbastanza frequente che, soprattutto, l’autorità garante della concorrenza e del
mercato e l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni si trovino ad applicare il diritto comunitario (quando parleremo di
concorrenza vedremo che è la loro principale attività). In alcuni casi, soprattutto l’AGCOM, non solo applica il diritto
comunitario ma lo fa dirimendo controversie, pensate alle controversie tra operatori ed utenti o tra operatori, che in base
alle regole del nostro codice sulle comunicazioni elettroniche sono di competenze dell’autorità delle comunicazioni. Si
pone, quindi, il problema di stabilire se anche tali autorità qualora abbiano dubbi sulla corretta interpretazione di una
direttiva, ad es. in materia di comunicazione elettronica (pensate alla direttiva sulla portabilità del numero) possano
rivolgere il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Per l’autorità garante della concorrenza e del mercato il problema
è, forse, meno evidente poiché quest’ultima non dirime mai controversie, svolge più un compito di vigilanza e sanzione,
quindi, semmai, è più da equiparare ad un p.m. che ad un giudice, anche se , in effetti, al termine del procedimento
l’autorità garante della concorrenza e del mercato adotta una mozione (non sono sicura dica proprio mozione). L’accusa
principale che viene mossa a tale autorità è che svolge insieme le funzioni di chi indaga su una violazione e poi decide

125
sulla violazione stessa.
C’è stato un caso greco, di qualche anno fa, in cui l’autorità per la concorrenza greca aveva rivolto dei quesiti
pregiudiziali alla Corte di giustizia in merito all’interpretazione dell’art 102 del Trattato sull’abuso della posizione
dominante. La Corte, tuttavia, rispose che quell’autorità non era un organo giurisdizionale secondo l’art 267 TFUE per
due motivi: primo, per i criteri di nomina dei suoi membri, che danno molto potere al governo, secondo, e questo vale per
tutte le autorità per la concorrenza degli Stati membri, perché le sue decisioni possono essere sottoposte ad una forma di
controllo da parte della Commissione europea. Difatti, se la Commissione europea ritiene che un caso, che pure sarebbe di
competenza di una autorità nazionale, rivesta dei profili di interesse generale per il diritto comunitario sulla concorrenza,
può avocare a sé la decisione di questo contenzioso, di questa causa. Questo, secondo la Corte di giustizia, è un segnale
della mancanza dei requisiti che qualificano l’organo giurisdizionale, in quanto la sua giurisdizione non è obbligatoria ma
può essere revocata, in qualche modo, dall’intervento della Commissione europea. Quest’ultimo criterio, come detto, vale
per tutti gli Stati membri, quindi anche per l’autorità italiana funziona così, il che sta a significare che la nostra autorità
garante della concorrenza e del mercato non è da qualificare come organo giurisdizionale.
Rimane aperta la questione per l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni la quale, ad oggi, non ha mai operato il
rinvio pregiudiziale, quindi il problema della ricevibilità dei quesiti proposti dalla nostra autorità sulle comunicazioni non
si è ancora mai veramente posto dinanzi alla Corte di giustizia.

Rispetto ai parametri sopra esposti è senz’altro da escludere dalla nozione di organo giurisdizionale la pubblica accusa, la
quale non ha il compito di giudicare ma svolge la funzione di parte nel nostro processo penale. Infatti, nei casi, verificatisi
nella prassi, in cui alcune procure italiane hanno tentato di seguire la strada del rinvio pregiudiziale nel corso di alcuni
procedimenti penali, la Corte di giustizia non ha risposto ai quesiti dichiarandosi incompetente a rispondere in ragione del
fatto che il soggetto che li aveva posti non era un organo giurisdizionale abilitato al rinvio pregiudiziale.

Come detto, in base a tali requisiti può accadere che un soggetto che secondo l’ordinamento nazionale è senz’altro
qualificabile come giudice non lo sia ai fini del rinvio pregiudiziale. Questo vale soprattutto per la seconda categoria dei
criteri che non attengono alla struttura dell’organo ma al modo in cui si svolge il procedimento dinanzi tale organismo.
Tali criteri sono:
· L’organismo deve svolgere le sue funzioni nel contraddittorio delle parti, anche se tale contraddittorio può
essere, in ipotesi, solo eventuale e differito (es. il procedimento monitorio per l’adozione di un decreto ingiuntivo
è un procedimento speciale che non prevede un contraddittorio, quando il giudice adotta un decreto ingiuntivo lo
fa a richiesta di parte, il contraddittorio si svolge eventualmente, nell’ipotesi in cui il soggetto contro il quale il
decreto è adottato ritiene di fare opposizione e si crea il procedimento contenzioso. Quindi il contraddittorio è
eventuale e differito ma questo non esclude, secondo la Corte di giustizia, che il giudice del procedimento
monitorio sia abilitato ad operare il rinvio pregiudiziale).
· È necessario che dinanzi all’organismo si svolga una lite, cioè che vi sia un conflitto tra parti che porta
all’adozione di una soluzione che fa stato tra le parti. Quindi, è necessario che vi sia una vera e propria
controversia in corso, destinata ad essere definita attraverso una pronuncia di carattere giurisdizionale.
In base a questo criterio la Corte di giustizia ha deciso, ad es., di non rispondere ai quesiti pregiudiziali posti dalla nostra
Corte dei conti, che è senz’altro un organo giurisdizionale nel nostro ordinamento, quando la Corte dei conti svolge
funzioni di tipo non giurisdizionale ma amministrativo, quindi ad es. quando si tratta di una verifica successiva sul
controllo delle spese dell’amministrazione che è una verifica più di carattere tecnico-contabile che di tipo giurisdizionale.
In questi casi la Corte dei conti non decide una controversia ma svolge una funzione di controllo sulla spesa pubblica, ed
in questo contesto la Corte dei conti, che è senz’altro un organo giurisdizionale secondo il nostro ordinamento, non
svolgendo funzioni giurisdizionali in quel contesto non è abilitata ad operare il rinvio pregiudiziale.
Sempre con riferimento al nostro ordinamento, diverso è il caso, caso un po’ al limite, del Consiglio di Stato quando
partecipa alla procedura che porta alla decisione di un ricorso straordinario dinanzi al Capo dello Stato. Sappiamo che una
delle possibilità di contestare un giudizio di atti amministrativi, oltre al ricorso al TAR, è il ricorso straordinario al Capo
dello Stato, che è una vecchia riviviscenza di un sistema un po’ antiquato, che consente di chiedere al capo dello Stato di
rivedere alcune decisioni dell’amministrazione non giuste, come ulteriore possibilità di rimedio sulla tutela dei diritti,
parallelo a quello tipicamente giurisdizionale, e che in realtà, nella prassi, viene utilizzato quando il soggetto interessato
non è più in grado di impugnare direttamente un atto perché è decorso il termine, quindi una specie di recupero del
ritardo. Questo procedimento si svolge in maniera particolare, formalmente la decisione è del capo dello Stato ma di fatto
viene preceduta da un parere del Consiglio di Stato che contiene la soluzione, il parere del Consiglio di Stato è trasmesso
al Capo dello Stato che di solito firma e quindi prende la decisione. Il problema che si è posto dinanzi la Corte di giustizia

126
è se il Consiglio di Stato in quel procedimento, pur non essendo il soggetto che formalmente definisce la controversia, sia
abilitato ad operare il rinvio pregiudiziale. La soluzione della Corte di giustizia è stata positiva, e quindi nel senso di
valorizzare l’aspetto sostanziale più di quello formale, in quanto l’interveto del Capo dello Stato è soltanto un passo
indispensabile ma assolutamente atecnico, formale, mentre il vero potere decisionale è in capo al Consiglio di Stato anche
se questo formalmente esprime solo un parere, e quindi la Corte di giustizia ha ritenuto il Consiglio di Stato è l’organismo
giurisdizionale di questo procedimento.
Un altro problema che si è posto, di recente in modo molto acceso, è quello relativo alla Corte Costituzionale.
Come può succedere che la Corte Costituzionale si trovi ad avere il problema di sollevare il rinvio pregiudiziale? Il
problema, invece, si pone abbastanza spesso perché la Corte Costituzionale svolge funzioni di tipo giurisdizionale,
secondo due diverse procedure, ovvero la procedura in via principale e quella in via incidentale. La procedura è in via
principale quando la Corte Costituzionale decide delle vere e proprie controversie, come nel caso di conflitti di
attribuzione tra poteri dello Stato o di conflitti tra Stato e Regioni. Si tratta di vere e proprie controversie che sono
affidate alla Corte Costituzionale come unico giudice competente, in unico grado. Può, quindi, succedere che in una
controversia, che riguardi un conflitto tra Stato e Regioni, l’oggetto del contendere sia la corretta applicazione del diritto
comunitario; può succedere che lo Stato si lamenti perché la Regione, nell’adottare una legge in materia di calendario
venatorio (un classico), cioè il periodo di tempo in cui è possibile esercitare le attività venatorie, abbia violato le direttive
comunitarie che si occupano anche di questo. Vi è, quindi, un conflitto tra Stato e Regioni che ha ad oggetto la corretta
applicazione del diritto dell’Ue, perché lo Stato reagisce al fatto che una legge scritta della Regione Liguria non sia
conforme alle direttive. Posto che è lo Stato poi che ne risponde, è lo Stato che viene messo in stato d’accusa, per così
dire, dalla Commissione europea nel procedimento d’infrazione, lo Stato è l’unico soggetto sottoposto al procedimento,
quindi, lo Stato ha interesse a che quella violazione venga rimossa e, pertanto, impugna la legge regionale dinanzi alla
Corte Costituzionale. È evidente che in tale contesto possa presentarsi un problema di corretta interpretazione della
direttiva o addirittura di validità della direttiva rispetto a parametri comunitari superiori rispetto alla direttiva.
Fino al 2008 per questo tipo di procedimenti la Corte Costituzionale si è sempre dichiarata incompetente a sollevare
quesiti pregiudiziali alla Corte di giustizia, poiché ha ritenuto che la sua funzione non fosse quella tipica giurisdizionale,
la Corte Costituzionale diceva: il rinvio pregiudiziale lo fanno i giudici, noi non siamo dei giudici, siamo i garanti del
rispetto della Costituzione, ed in quanto tali non dobbiamo chiedere a nessuno come interpretare le regole che ci troviamo
ad applicare, perché svolgiamo una funzione diversa da quella tipicamente giurisdizionale. Quindi, la risposta della Corte
Costituzionale non si basava sul procedimento né sul tipo di norme da applicare, ma sulla stessa funzione della Corte
Costituzionale, funzione diversa da quella tipicamente giurisdizionale, e quindi da quella che l’art 267 TFUE ha in mente
quando crea questo meccanismo di collaborazione tra giudice nazionale e giudice comunitario.
Questa risposta non era, evidentemente, particolarmente soddisfacente, anche da un punto di vista tecnico, perché non si
vede poi il motivo per il quale siano incompatibili la funzione giurisdizionale e quella di garanzia della Costituzionale, e
sicuramente non era in linea con la prassi seguita in altri ordinamenti dove, timidamente, le Corti Costituzionali, come
quella belga e quella austriaca , cominciavano a svolgere un ruolo molto attivo nel dialogo con la Corte di giustizia,
sollevando quesiti pregiudiziali.
Questa posizione della nostra Corte Costituzionale era soprattutto motivata dalla convinzione, che la Corte aveva, di
dover fungere da garante ultimo della Costituzione, non condizionato, direttamente, da posizioni assunte all’esterno,
mentre, è chiaro che se il giudice Costituzionale opera il rinvio pregiudiziale è poi tenuto, in linea di principio, a rispettare
la sentenza della Corte di giustizia, e dunque decidere la controversia sulla base delle risposte date dalla Corte di giustizia.
Per evitare ciò la Corte Costituzionale ha per decenni evitato il rinvio pregiudiziale.
Nel 2008, però, la Corte Costituzionale ha compiuto una svolta a 180 gradi, ritenendo di potersi qualificare come organo
giurisdizionale ai fini dell’art 267, ogni qual volta le capita di decidere controversie per le quale sia giudice unico. La
questione, che ha portato a tale svolta, era rappresentata da un tipico conflitto tra Stato e Regioni: lo Stato, quindi la
presidenza del Consiglio, impugnò una legge della Regione Sardegna che istituiva la cd. tassa sul lusso, una tassa speciale
per gli investimenti e per la presenza stessa di capitale e di attività commerciali svolte nel territorio della Sardegna da
soggetti non residenti in Sardegna. Quindi, tale tassa si applicava, ad es., alle seconde case dei non residenti, alle
imbarcazioni dei non residenti, escludendo, invece, i soggetti che avevano la residenza nel territorio della Regione
Sardegna. Secondo il Governo questa legge poneva un problema di rispetto del diritto comunitario perché comportava
degli aiuti di Stato in favore dei soggetti residenti in Sardegna, creava delle distorsioni alla concorrenza e provocava delle
violazioni ad alcune delle libertà economiche fondamentali tutelate dal diritto dell’Ue, quali la libertà di stabilimento e la
libertà di circolazione dei capitali, perché questa tassa sul lusso veniva applicata anche a soggetti residenti o aventi sede,
in caso di società, in Paesi diversi dall’Italia, gli unici soggetti non colpiti dalla tassa erano i residenti in Sardegna.
Quindi, sia soggetti residenti in altre Regioni italiane, sia i soggetti con sede legale in un Paese diverso dall’Italia erano

127
tenuti a pagare questa tassa. Questo, secondo il Governo italiano, metteva in discussione il principio di non
discriminazione sulla base della nazionalità e la libertà di circolazione dei servizi e di circolazione dei capitali. La Corte
Costituzionale si trova, quindi, a risolvere una controversia che si decide in base al diritto comunitario, una controversia
tipicamente comunitaria, non ci sono altri parametri, quindi per decidere quella controversia avrebbe dovuto applicare il
Trattato. Nell’approccio precedente la Corte Costituzionale poteva decidere di risolvere la controversia senza coinvolgere
la Corte di giustizia,pur essendo evidenti dei profili di dubbia interpretazione del diritto comunitario, pur essendo evidente
che c’era bisogno di un’interpretazione non banale del diritto comunitario che solitamente viene richiesta alla Corte di
giustizia. Peraltro, la Corte Costituzionale, in questo tipo di controversie non solo è giudice di ultima istanza ma anche di
unica istanza, e quindi, secondo il Trattato, sarebbe obbligato ad operare il rinvio pregiudiziale in caso di dubbia
interpretazione. La Corte Costituzionale ha deciso, quindi, di cambiare idea, quanto meno per questo tipo di controversie
in cui è unico giudice: in tali casi non soltanto può, ma addirittura deve rivolgere quesiti pregiudiziali alla Corte di
giustizia. Dal punto di vista del diritto comunitario, questa è un’interpretazione assolutamente corretta perché una
soluzione diversa, e questo la Corte Costituzionale lo sottolinea, terrebbe fuori dall’attenzione del giudice dell’Unione
tutta una serie di controversie che pure riguardano pacificamente l’applicazione del diritto dell’Ue, e questo,
evidentemente, non è possibile, il Trattato richiede che questo tipo di controversie si decidano con il coinvolgimento della
Corte di giustizia in presenza di un dubbio interpretativo. Quindi, dal punto di vista formale, dal punto di vista del diritto
dell’Ue, sicuramente è una soluzione corretta, ma dal punto di vista del diritto costituzionale interno comporta un
elemento nuovo, tutt’altro che di poco conto, cioè quello di condizionare la giurisdizione della Corte Costituzionale in
base alle soluzioni offerte da un giudice esterno. Quindi, la Corte Costituzionale garante della Costituzione, organo a cui è
affidata dalla Costituzione la tutela del rispetto dei principi costituzionali, si trova ad auto-limitarsi, per così dire, in
ragione delle soluzioni offerte da un giudice diverso, appartenente ad un altro ordinamento. Esattamente il motivo per cui
fino a quel momento la Corte Costituzionale aveva detto di no.

Una volta compiuta tale svolta era inevitabile che si passasse ad una fase ancora più matura, per così dire, che coinvolge,
questa volta, non più le competenze della Corte Costituzionale nella soluzione di giudice principale, di cui abbiamo
parlato fin ora, ma che coinvolge, e qui le cose si fanno più complicate, il giudizio in via incidentale. Il giudizio in via
incidentale è quello a cui è chiamata la Corte Costituzionale, su richiesta di un giudice, e nel quale la Corte
Costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità di una legge, una volta che sia sorto un dubbio di
costituzionalità non manifestamente infondato. Qui le cose diventano un poco più complicate, innanzitutto perché i
soggetti protagonisti di tale vicenda aumentano, non c’è più soltanto una parte- un’altra parte ed un giudice, quindi una
situazione, tutto sommato, tranquillizzante dove c’è un soggetto che deve decidere, le parti che spettano di sapere chi ha
ragione e chi ha torto ed il giudice, dovendo applicare il diritto dell’Ue, rivolge quesiti pregiudiziali alla Corte di giustizia
per sapere come fare, quindi siamo in una schema abbastanza semplice. Nel caso di giudizio in via incidentale avremo
uno schema un po’ più articolato poiché abbiamo una controversia dinanzi al giudice, ad es. dinanzi al Tribunale di
Napoli, parlo di un caso che si decide nei prossimi giorni, in cui si pone il problema della conformità con il diritto
comunitario della legge italiana in materia di contratti di lavoro a termine per il personale della scuola. Qui si pone il
problema della conformità della disciplina speciale che noi conosciamo per il personale della scuola, docente e non
docente, che prevede contratti a termine reiterabili nel corso dell’anno, degli anni, con una direttiva comunitaria che,
invece, limita molto la possibilità per gli Stati membri di ricorrere a questa forma di contratti, a meno che non ci siamo
delle ragioni di particolare importanza che lo giustifichino. Nel caso del personale della scuola la ragione addotta dal
Governo italiano è quella per cui ogni anno si verifica qual è la platea degli studenti e, quindi, ogni anno si decide di
quanti soggetti c’è bisogno, non si può fare una programmazione non sapendo il numero degli studenti iscritti (risposta
che quasi certamente non convincerà la Corte di giustizia). Vi è quindi una controversia tra due parti dinanzi al giudice del
lavoro italiano, il Tribunale di Napoli, che riguarda la corretta applicazione del diritto comunitario. La prima possibilità,
che è quella scelta dal Tribunale di Napoli, è quella di sospendere il giudizio ed operare il rinvio pregiudiziale, chiedendo
alla Corte di giustizia l’interpretazione della direttiva comunitaria di riferimento, e poi verificare se la legge italiana è
conforme o meno a questa direttiva e prendere una decisione sul caso. Però qui c’è un problema che ci riporta a quello che
abbiamo detto sulle direttive comunitarie, le quali sono delle fonti un po’ atipiche, che vincolano lo Stato a recepirle
lasciando, in genere, allo Stato uno spazio di discrezionalità sulla forma e sui mezzi. Molto spesso tale margine di
discrezionalità non c’è, nel caso specifico di quella direttiva, invece, ve n’era un poco. La direttiva comunitaria se non
viene recepita può produrre effetti diretti, a condizione che sia invocata nei rapporti verticali, cioè nei rapporti tra il
privato e lo Stato, e che sia chiara, precisa ed incondizionata (tali requisiti valgono per tutte le norme comunitarie, che
siano direttive o meno, cioè hanno effetti diretti se possono produrre effetti giuridici, se siano così chiare nel loro
contenuto precettivo da poter essere immediatamente applicate da un giudice).

128
Questa direttiva ,che è la 70\99, secondo la Corte di giustizia non produce effetti tra le parti, cioè non è immediatamente
applicabile dal giudice perché è una direttiva che lascia un ampio margine di discrezionalità e che quindi di per sé non
attribuisce immediatamente dei diritti.
In casi del genere il giudice non può disapplicare la legge interna perché la disapplicazione, l’abbiamo già detto, è un
criterio di risoluzione delle antinomie che presuppone la diretta efficacia della norma comunitaria. Si disapplica il diritto
interno però nel frattempo ci deve essere un’altra norma capace di disciplinare quella fattispecie, cioè la norma
comunitaria; posso disapplicare la legge italiana se, a sua volta, ne applico un’altra capace di disciplinare quella
fattispecie, cioè quella comunitaria: applico il trattato , il regolamento, la direttiva ma in questo caso manca la norma
sostitutiva di riferimento che abbia efficacia. Manca la norma sostitutiva a quella disapplicata perché, come ricorderete, si
parla poi di altri criteri alternativi per l’interpretazione conforme, per la responsabilità patrimoniale dello Stato però lui va
a cercare i puntini sulle altre fattispecie e qui le cose si complicano perché il giudice nazionale, se ritiene che la norma
sui contratti a termine non sia conforme alla direttiva, non la può disapplicare perché ne mancherebbe una alternativa,
mancherebbe una norma sostitutiva ma in ogni caso si tratta di una legge incompatibile con il diritto comunitario, cioè
non può essere una legge disapplicata ma sicuramente, cioè probabilmente , non è una legge conforme alla direttiva
perché in termini generici richiede allo Stato di non adottare contratti di lavoro a termine determinato, senza motivazione,
per molti anni consecutivi, anche se è molto generica (la direttiva: cioè non dice cosa può fare o meno lo Stato).

In questo caso la fattispecie non consente la sostituzione da una norma all’altra ma sicuramente vieta questo
comportamento. In questo caso, non potendo il giudice disapplicare la norma ed applicare la direttiva, cosa rimane al
Tribunale di Napoli? Resta il ricorso alla Corte costituzionale perché quella legge è comunque costituzionalmente
scorretta perché viola gli articoli 11 e 117.
Quindi il giudice chiede l’intervento della Corte costituzionale che dovrà rimuovere con i suoi strumenti la legge per
violazione degli articoli 11 e 117 della Costituzione. Per la stessa controversia (inerente al rapporto di lavoro con il
personale della scuola) il Tribunale di Napoli si è rivolto alla Corte di giustizia.
Per la stessa controversia altri giudici hanno pensato di rivolgersi alla Corte costituzionale perché la direttiva è generale e
non è precettiva, in base al ragionamento che abbiamo appena detto, non potendosi disapplicare la legge italiana poiché la
direttiva generale non è precettiva e non può essere applicata e quindi è necessario l’intervento della Corte costituzionale
che, sapendo già dell’esistenza al rinvio alla Corte di giustizia e sapendo che ciò comporta l’interpretazione del diritto
comunitario avrebbe potuto fare due cose: o decidere la questione di legittimità costituzionale, applicando ed
interpretando il diritto comunitario autonomamente in quanto l’ha già fatto e l’avrebbe dovuto continuare a fare oppure,
per la prima volta, si dichiara incompetente, seguendo la strada di quella francese, spagnola e tedesca, rivolgendo la
questione alla Corte di giustizia; e lo ha fatto con un’ordinanza del 2013 a differenza di quello che aveva già fatto, cioè di
rimettere gli atti al giudice a quo, in questo caso al Tribunale di Milano, preferendo ottenere dalla Corte di giustizia un
giudizio sulla conformità al diritto comunitario.
Quindi lo schema avrebbe dovuto essere il seguente, il tribunale di Milano si rivolge alla Corte costituzionale chiedendo
di dichiarare incostituzionale la legge interna sui contratti a termine per i dipendenti della scuola, la Corte costituzionale
avrebbe dovuto dire “no qui non spetta a me interpretare il diritto comunitario né posso io rimettere alla Corte di giustizia,
tu giudice devi rimettere alla Corte di giustizia, una volta ottenuta la sua interpretazione sarà mio compito verificarne la
compatibilità costituzionale” ma decide di aprire un dialogo diretto con la Corte di giustizia, non filtrato attraverso
l’intervento del giudice a quo, chiedendo direttamente alla Corte di giustizia l’interpretazione corretta del diritto
comunitario. Tribunale Di Milano-Corte Costituzionale-Corte Di Giustizia- la Corte di giustizia interpreta la direttiva e in
base a questa direttiva la Corte costituzionale ne interpreta la legittimità.
Se la direttiva non consente al Legislatore un susseguirsi di rapporti a termine determinato, allora la Corte costituzionale
accoglierà il ricorso e dichiarerà incostituzionale la legge.
Penso di avervi confuso abbastanza le idee, ma quello che non è chiaro è chi fa cosa!
Il Tribunale di Napoli si rivolge direttamente alla Corte di giustizia ma è la via più lunga perché dopo l’interpretazione di
quest’ultima ritornano gli atti al tribunale di Napoli, poi non potendo disapplicare la legge perché è generale ,comunque
deve rivolgersi alla Corte costituzionale per chiedere l’illegittimità per violazione degli articoli 11 e 117.

Quindi si tratta di una pregiudiziale più lenta rispetto a quella del Tribunale di Milano dove, pure se ci sono due passaggi,
quello dal Tribunale alla Corte costituzionale e da questa alla Corte di giustizia sono più veloci rispetto al primo e quello
che importa alla Corte costituzionale è di dare la sua opinione, infatti l’ordinanza deve essere motivata, spiegando le
ragioni in fatto e in diritto del coinvolgimento e deve contenere anche una presa di posizione del giudice e la Corte
Costituzionale ha un ruolo protagonista che consenta anche un approccio diverso e le cose cambiano perché la Corte
costituzionale si immette nel circuito di collaborazione in maniera diversa per trovare soluzioni.

129
Nell’altra strada, quella del tribunale di Napoli, la Corte costituzionale non ha un ruolo attivo, dovrà rispettare quello che
la Corte di giustizia ha detto, invece se lo rivolge lei il quesito può impostarlo in maniera diversa, orientando la Corte di
giustizia su una soluzione piuttosto che ad un’altra, ad una situazione più confacente quindi è una scelta diversa che è
lasciata all’iniziativa del giudice,perché la corte Costituzionale, nella scelta fatta dal Tribunale di Napoli è rimasta fuori,
ed è rimasta fuori in materia di diritti fondamentali ,il che non è una soluzione ottima perché si trova a recepire dalla
Corte di giustizia delle decisioni alle quali non ha partecipato e la tutela dei diritti fondamentali è il cuore , comunque al
momento non c’è un sistema che chiarisca chi fa cosa e quando perché al momento entrambe le strade sono aperte: quella
più complessa del Tribunale di Napoli, quella più semplice di quello di Milano quindi non è un sistema particolarmente
corretto e bisognerà trovare ,è compito della corte costituzionale nelle prossime pronunce spiegare chi fa cosa.

Un’altra cosa: la decisione della Corte di giustizia in merito alla ricevibilità dei rinvii pregiudiziali, ricevibilità , cioè la
Corte di giustizia è competente a svolgere la funzione dell’articolo 167 laddove ritenga che ci siano determinati requisiti:
che i quesito sia abbastanza fondato, che sia riguardante l’interpretazione di un atto dell’UE e non norme appartenenti ad
ordinamenti nazioni, a meno che queste non siano novellate su quelle comunitarie o facciano rinvio a queste ultime per la
definizione al loro ambito di applicazione,come quella sulla concorrenza.
In tutti gli altri casi non si può chiedere alla Corte di giustizia un giudizio secco sulla compatibilità della norma interna a
quella comunitaria, il giudizio deve riguardare l’interpretazione della norma comunitaria . Però possono sorgere delle
complessità, la prima riguarda il tipo di controversia nel contesto della quale il giudice nazionale ritiene di adottare
un’ordinanza di rinvio pregiudiziale, ci sono dei casi in cui la Corte di giustizia non ha risposto ai quesiti, ritenendoli
irricevibili, limitando il suo intervento ai casi in cui questo sia necessario alla risoluzione di controverse giurisdizionali,
cioè ci tiene ad essere coinvolta quando questo sia necessario a decidere una causa, se invece ritiene che la causa da cui
nasce l’ordinanza sia una causa fittizia, il cui solo scopo sia quello di arrivare alla Corte di giustizia per ottenere una
pronuncia sulla corretta interpretazione del diritto comunitario,allora non risponde, ritenendo che la controversia sia stata
montata ad arte,per permettere di rinviare al giudice comunitario.
Siamo negli anni 70, la causa è Foglia contro Novell, nella quale si pone il problema della conformità con l’ordinamento
comunitario di una legge francese che imponeva un dazio sulle merci dall’Italia alla Francia e apparentemente era stata
montata ad arte, per conoscere della sua conformità col diritto comunitario. La Corte ha ritenuto di non fornire risposta .

Altri casi di irricevibilità riguardano l’irrilevanza del rinvio pregiudiziale. Il principio è che i quesiti debbano avere una
risposta dal giudice nazionale. A volte i giudici nazionali esagerano nel rivolgere il rinvio pregiudiziale anche per
questioni non necessarie, la cui interpretazione non è necessaria per la risoluzione di quella controversia, perché il rinvio
pregiudiziale è un’ottima occasione per porre ulteriori quesiti e togliersi dei dubbi seppure non hanno rilevanza per quella
controversia.
Con riferimento alla qualità del rinvio pregiudiziale, l’ordinanza ultimamente viene ritenuta insufficiente, la Corte di
giustizia negli ultimi anni è diventata severa, cercando di limitare l’iniziativa dei giudici nazionali e quindi ritenere
insufficiente la qualità richiedendo a pena di irricevibilità che il giudice del rinvio specifichi quale sia il contesto e la sua
utilità per la risoluzione della controversia in modo dettagliato, specialmente in materia di concorrenza ove una risposta
presuppone una descrizione dei fatti particolarmente articolata per consentire alla Corte di dare un contributo utile
all’esercizio della giurisdizione, cioè la collaborazione deve essere contingente alla causa, l’intervento deve essere
necessario, non deve essere una collaborazione generica. C’è stato addirittura un caso in cui l’ordinanza di rimessione
proposta da una replica scritta dal giudice accompagnata da una memoria di parte e poi il giudice deve prendere posizione
sull’esigenza del rinvio pregiudiziale e non limitarsi ad un mero rinvio. La Corte spiega al giudice come fare; il giudice e
sono destinatari anche gli avvocati che pongono i quesiti e nella raccomandazione ritiene essenziali alcuni requisiti per
essere meritevoli, in modo che poi lei si senta più libera nel decidere in maniera negativa sulla ricevibilità dei rinvii
pregiudiziali.
La Corte di giustizia non ritiene di poter aggiungere ulteriori questioni anche se le ritiene necessarie per la controversia né
vizi di validità diversi da quelli sottoposti a meno che non si ricavi implicitamente dalla lettura dell’ordinanza ma non può
d’ufficio.

EFFETTI DELLE SENTENZE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA

Ora vediamo gli effetti delle sentenze della Corte di giustizia. Dobbiamo distinguere tra pregiudiziali di interpretazione e
di validità. Nel caso delle pregiudiziali di interpretazione è evidente che la risposta che Corte dà ai quesiti nazionali
vincola il giudice, il giudice che rimette la questione alla Corte, sarà tenuto a rispettare la risposta della Corte che non si

130
esprime con un parere ma con una sentenza, anche se la Corte a volte lascia un margine al giudice per applicare il
principio a quel caso concreto, però in linea di principio il giudice senz’altro è vincolato: non può decidere la controversia
in maniera divergente rispetto alle risposte che la Corte ha formulato, se così dovesse essere la sentenza sarebbe viziata e
potrebbe essere sottoposta ad impugnazione . Non è chiarito dal trattato né da altri documenti ma la pronuncia
pregiudiziale che la Corte dà ha, per definizione, un effetto omnibus, cioè deve valere sia davanti ai giudici di
quell’ordinamento, sia da parte di quelli di altri ordinamenti, infatti uno dei motivi di irricevibilità del rinvio pregiudiziale
è quello di essersi già espressa sulla stessa questione, quindi l’effetto è erga omnes, a meno che quella sentenza non
convinca il giudice, nel senso che quella risposta per un altro giudice non è convincente e allora può riproporre il rinvio,
magari sulla base di altre argomentazioni, sperando che la Corte cambi idea; questo è avvenuto nel corso degli anni
quando la corte ha ritenuto di modificare precedenti interpretazioni, quindi ha modificato la sua posizione, assumendone
una diversa da quella precedentemente avuta, però il giudice adito non può decidere la controversia difformemente da
come già deciso dalla Corte, senza coinvolgerla.
La pregiudiziale in merito la validità di un atto, anch’essa vincola il giudice a quo, se la Corte considera quell’atto
invalido, questo non può essere utilizzato dal giudice, anche qui la pronuncia è erga omnes, per la necessità di garantire
l’applicazione uniforme del diritto comunitario negli ordinamenti nazionali , ciò implica che i giudici potranno non
applicare quell’atto perché ritenuto invalido.
Potranno, se la Corte si pronuncia sostenendo la validità, sottoporli ad un giudizio di validità per motivi diversi da quelli
su cui si è già pronunciata.
Vediamo adesso gli effetti nel tempo delle sentenze della Corte di Giustizia e qui la prassi va in direzione un po'
diversa da quanto risulta dal trattato perché il trattato non ci dice che la Corte può decidere di limitare nel tempo gli effetti
della sua pronuncia pregiudiziale, cioè è normale che l’effetto, trattandosi dell’interpretazione della norma di un trattato,
decorra dal momento in cui la norma è entrata in vigore, quindi in linea di principio la norma interpretativa ha effetto ex
tunc però la Corte estende la possibilità di limitare gli effetti delle pronunce a partire dal momento in cui la sentenza viene
emessa ,cioè ex nunc invece che ex tunc.
Questa possibilità è offerta dal trattato ma in un altro contesto, quello dei ricorsi di annullamento perché l’art 164 del
trattato sul funzionamento dell’UE, secondo comma, dà la possibilità alla Corte quando dichiara nulla l’atto di limitare gli
effetti di queste pronunce di nullità dal momento in cui vengono adottata, quindi non ex tunc ma ex nunc e può precisare
gli effetti dell’atto che devono essere considerati definiti ; questo non è previsto anche dall’articolo 167 ma in linea logica
la corte ha ritenuto di poter applicare questo principio anche alle sentenze pregiudiziali e quindi quando interpreta una
direttiva,questa interpretazione vale da oggi e non retroattivamente .

In questo caso si tratta di tutelare dei diritti , tutelare delle decisioni rilevanti come il legittimo affidamento dei soggetti su
un’altra interpretazione del diritto comunitario eventualmente suggerita dalle stesse istituzioni comunitari, pensate al caso
di una presa di posizione della Commissione nel contesto del procedimento in materia di cauzioni in cui dice che una
norma è compatibile col diritto comunitario, poi arriva una sentenza della Corte di giustizia in cui si dice diversamente e
quindi ha effetto ex nunc perché i soggetti interessati potevano aver fatto affidamento precedentemente ad una diversa
interpretazione, in quanto questa interpretazione è stata suggerita dalla stessa Commissione, quindi legittimo affidamento
fondato su una presa di posizione dei mezzi di istituzione.
Sono fatti vari,molto spesso gli Stati provano a suggerire alla corte questa posizione per gli effetti di una pronuncia ex
tunc sulle proprie finanze, se , ad esempio,come è probabile che sarà, la Corte dovesse decidere che la nostra legge sui
contratti a termine della scuola non è compatibile, con seguente trasformazione dei contratti a termine determinato ad
indeterminato, questa interpretazione sarà non proprio innocua per la finanza degli Stati e si può suggerire alla corte di
limitare gli effetti nel tempo, al futuro, il che ,però , crea un altro problema , rispetto al giudice a quo, ed è stato oggetto di
un rinvio alla Corte costituzionale, cioè se la Corte di giustizia esclude dagli effetti gli stessi soggetti coinvolti nel rinvio,
nella causa che hanno portato al coinvolgimento della Corte di giustizia, si crea un pregiudizio insopportabile dello stesso
diritto ad ottenere giustizia perché io mi sono rivolto alla Corte, questa mi dà ragione però gli effetti della pronuncia si
limitano al futuro,escludendo anche me,ledendo l’articolo 24 della Costituzione, ma in un primo momento questa
posizione è stata avallata dalla stessa Corte.
La Corte costituzionale ha convinto la Corte di giustizia a cambiare opinione, dicendo che anche se decidesse di limitare
gli effetti nel tempo al futuro,questa non potrebbe coinvolgere i soggetti che hanno provocato il ricorso al giudice per
tutelare in maniera efficace i propri diritti.

131
CAPITOLO 6: Diritto dell'Unione Europea e diritto interno
26 Novembre 2014
RAPPORTI TRA DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA E DIRITTO INTERNO

Cominciamo a trattare un ulteriore argomento che concluderà la parte generale del corso e che è riferito ai rapporti tra
diritto interno e diritto dell’Unione Europea. Argomento che declineremo in due diversi contesti: il primo è quello dei
rapporti tra fonti, il secondo è quello dell’analisi dei meccanismi che il nostro ordinamento utilizza per conseguire il
risultato della corretta applicazione del diritto dell’UE nell’ordinamento interno. Quindi vedremo quali sono i
provvedimenti normativi che hanno questo tipo di obiettivo. Partiamo invece dalla questione del RAPPORTO TRA LE
FONTI di cui ci siamo più volte occupati anche se in un contesto diverso e che necessita di un’analisi della
giurisprudenza della Corte di Giustizia e della nostra Corte Costituzionale che, come vedremo, pur partendo da punti
diversi, convergono nel risultato finale che è quello in sostanza voluto dall’ordinamento dell’Unione: la PRIMAZIA DEL
DIRITTO COMUNITARIO SUL DIRITTO INTERNO e la sua DIRETTA EFFICACIA NEGLI ORDINAMENTI
NAZIONALI. Da dove viene il problema? Il problema deriva dal fatto che il diritto dell’UE, lo abbiamo ormai capito in
vari contesti, è particolarmente ambizioso. Ha la vocazione ad occuparsi di una serie sterminata di materie, di farlo con
discipline anche molto dettagliate, con il risultato di voler sostituire la disciplina nazionale di queste materie in tutto o in
parte con una disciplina comune. Il fenomeno dell’integrazione europea attraverso il diritto, pretende che questa disciplina
comune sia applicata negli ordinamenti nazionali- nel momento in cui essa viene prodotta- contestualmente ed in maniera
uniforme (altrimenti non riuscirebbe a realizzare l’integrazione, che è l’aspirazione principale di tutto questo fenomeno).
Tutto ciò, però, si scontra potenzialmente con il mantenimento di una potestà legislativa anche in capo agli ordinamenti
nazionali. Deve fare i conti con i principi costituzionali che gli ordinamenti degli Stati membri contengono e che vedono
molto spesso affidare ad un giudice costituzionale il compito di difendere questi principi sia nei confronti dell’attività del
legislatore interno sia, potenzialmente, anche nei confronti di fonti prodotte da un soggetto esterno. Per fare un esempio di
attualità, pensate alla sentenza della Corte Costituzionale di poche settimane fa, sull’applicazione in Italia della norma
consuetudinaria (stiamo parlando di diritto internazionale generale) che nella ricostruzione della Corte internazionale di
giustizia tuttora garantirebbe agli Stati un’immunità dalla giurisdizione civile anche per i crimini di guerra. La nostra
Corte Costituzionale ha detto che questa norma consuetudinaria che pure, come sapete, entra a far parte dell’ordinamento
giuridico italiano attraverso un meccanismo costituzionale di adattamento (art.10), non produce effetti in ragione della
prevalenza dei principi costituzionali della tutela dei diritti (art.24) e della tutela dei diritti dell’uomo, quindi della dignità
della persona di cui all’art.2. Quindi il ruolo della Corte Costituzionale è quello di salvaguardare il “nocciolo duro” della
Costituzione sia rispetto al comportamento del legislatore interno, sia rispetto alle fonti di provenienza esterna. E quindi
può succedere, ed è successo molto spesso, che anche nei confronti del diritto comunitario si sia posto questo problema:
cioè fino a che punto spingersi nella garanzia della supremazia di queste fonti rispetto a quelle nazionali. Questi sono
problemi che sono immediatamente venuti all’attenzione della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia dell’UE.
Addirittura la prima volta in cui le due corti si sono occupate della questione, questo è avvenuto nel contesto della
medesima controversia, che sembra molto banale anche dal punto di vista economico (valeva 1000 Lire). La controversia
riguardava la pretesa incompatibilità di una legge italiana dei primi anni ’60 che nazionalizzava la produzione dell’energia
elettrica. Prima di questa legge la produzione era consentita anche ai privati, poi interviene questa legge che nazionalizza
la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica creando l’ENEL. Questo comportava che i soggetti privati che fino a
quel momento si erano viste attribuire questo compito, anche se attraverso delle licenze e delle autorizzazioni, non
potevano più svolgere questa attività. E tra le varie contestazioni riguardanti questa legge, in una controversia davanti al
conciliatore di Milano (conciliatore: predecessore dell’attuale giudice di pace) che riguardava una bolletta da 1000 Lire:
era evidentemente una controversia creata ad arte (apparentemente il conciliatore era amico dell’avvocato, ecc.) per creare
il caso. E qual era il caso? Si riteneva questa legge fosse contraria sia alla Costituzione sia al diritto comunitario in quanto
in violazione di alcuni principi del Trattato (allora) CEE, tra cui la libertà di stabilimento, il principio in materia di
concorrenza e così via. Cosa fa il conciliatore di Milano? Di fronte alle argomentazioni poste dalle parti, della parte
privata in merito alla illegittimità di questa legge , ha pensato di fare due : di rivolgere alla Corte di giustizia dei quesiti
pregiudiziali sull’interpretazione di quei principi di cui abbiamo detto, alla Corte Costituzionale contestualmente una
contestazione che peraltro aveva lo stesso oggetto: cioè di valutare se questa legge, in quanto contraria al diritto
comunitario sia anche contraria alla Costituzione. E quello che è interessante notare è che le due corti arrivano a
conclusioni diametralmente opposte. La nostra Corte Costituzionale risponde al conciliatore di Milano nel modo in cui, a
suo modo di vedere, la Costituzione imponeva di rispondere. In Costituzione non vi era allora nessun riferimento
specifico al rispetto del diritto dell’UE, non era un valore costituzionale; al Trattato istitutivo delle comunità europee era
stata data esecuzione nell’ordinamento italiano con una legge ordinaria. Normalmente si fa così, anche oggi: tutti i trattati
istitutivi e di revisione dei trattati comunitari sono sempre stati da noi eseguiti attraverso una legge ordinaria, attraverso
un ordine di esecuzione contenuto in una legge ordinaria. E in assenza di un parametro costituzionale che attribuisse a
questa legge ordinaria una forza superiore rispetto alle altre leggi ordinarie, la nostra Corte Costituzionale cosa risponde?

132
Risponde che se la legge di cui si discute (quella sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica) è successiva
cronologicamente alla legge di esecuzione del Trattato CEE, in base al criterio della prevalenza delle leggi successive in
caso di produzione normativa di pari grado, la legge successiva prevale. Quindi, anche qualora la legge di
nazionalizzazione dell’energia elettrica fosse incompatibile con i principi dei trattati, essendo le due leggi di pari grado
nel nostro ordinamento, la seconda prevarrà in virtù del criterio cronologico. Una risposta che apparentemente sembra
forzata sulla base del dato costituzionale allora esistente. Esattamente il contrario rispetto a quello che risponde
immediatamente dopo la Corte di giustizia in una sentenza che è ancora oggi il baluardo dell’applicazione del diritto
comunitario negli ordinamenti nazionali.
Sentenza costa contro Enel
Costa era un avvocato, cliente dell’ENEL, amico del conciliatore, che crea questa causa pur di avere una risposta da parte
delle due corti supreme. Cosa risponde la Corte di Giustizia? La Corte di giustizia risponde, invece, in maniera molto
netta in termini di protezione del sistema comunitario, come sistema originale nel contesto dei rapporti internazionali.
Dice la Corte di giustizia: “ il Trattato CEE ha istituito, a differenza dei comuni trattati internazionali, un proprio
ordinamento giuridico integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri all’atto dell’entrata in vigore del trattato e
che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare; infatti, istituendo una comunità senza limiti di durata, dotata di propri
organi, di personalità, di capacità giuridica e di poteri effettivi provenienti da una limitazione di competenze o da un
trasferimento di attribuzioni degli Stati alla Comunità, questi HANNO LIMITATO, sia pure in capi circoscritti, I LORO
POTERI SOVRANI e creato quindi un complesso di diritto vincolante per il loro cittadini e per loro stessi. Tale
integrazione del diritto di ciascuno Stato membro di norme che promanano da fonti comunitarie, hanno per corollario
l’impossibilità per gli Stati di far prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità,
un provvedimento unilaterale ulteriore il quale pertanto non potrà essere opponibile all’ordine comune”. Nel
ragionamento della Corte di giustizia, un PROVVEDIMENTO UNILATERALE ULTERIORE cos’è? È la legge dello
Stato prodotta dal parlamento nazionale, che per la Corte non è opponibile al sistema comune in quanto contraddirebbe la
volontà espressa dagli stati di creare un nuovo ordinamento. Vedete la Corte come insiste sulla coerenza del
comportamento degli stati, sono gli stati che hanno creato questo sistema a condizione di reciprocità, nel senso che ogni
paese membro si impegna nei confronti degli altri a rispettare determinate regole; e se così è, se gli stati hanno così
limitato i loro poteri sovrani, non è possibile che uno Stato cambi successivamente idea. Può farlo uscendo dalla
comunità. Ma se adotta un provvedimento unilaterale ulteriore, una legge successiva incompatibile con gli obblighi posti
dal trattato, questo provvedimento non può produrre effetti. Questo approccio è definito dagli studiosi di diritto
internazionale APPROCCIO MONISTA: vuol dire che l’ordinamento dell’Unione e l’ordinamento nazionale sono
integrati in un unico ordinamento. Monismo vuol dire creazione di un unico, grande ordinamento, che comprende fonti
esterne e fonti nazionali con prevalenza (ed è questa l’aggiunta che fa la Corte) del diritto comunitario, nella misura in cui
gli stati hanno volutamente rinunciato all’esercizio di poteri sovrani. “Se l’efficacia del diritto comunitario- continua la
Corte- variasse da uno stato all’altro in funzione delle leggi interne posteriori, ciò metterebbe in pericolo l’attuazione
degli scopi del trattato e causerebbe una discriminazione vietata dall’art.7 del trattato stesso”.
Si tratta quindi di approcci completamente diversi, sia dal punto di vista del principio di partenza:
Secondo Corte Costituzionale si tratta di fonti dello stesso grado, quello che conta è la modalità con cui l’ordinamento
italiano ha dato esecuzione al trattato: se la legge di esecuzione del trattato è una legge ordinaria, produce gli stessi effetti
di una qualsiasi legge ordinaria e quindi può essere smentita, superata, abrogata da una successiva legge ordinaria. E
questo è l’approccio che la nostra Corte Costituzionale ha sempre adottato nei confronti dei trattati internazionali fino alla
modifica del 2001 che ha completamente sconvolto il sistema attribuendo ai trattati internazionali il ruolo di parametro di
legittimità costituzionale della legge. Quindi ora è diverso, ma fino al 2001 questo principio valeva per tutti i trattati
internazionali e la Corte Costituzionale non vedeva motivo per distinguere i trattati comunitari dagli altri trattati
internazionali. L’idea di fondo qual è? È lo stato che decide secondo i suoi metodi di produzione normativa se mantenere
o meno i suoi obblighi internazionali; se non li mantiene e cioè adotta una legge incompatibile con questi obblighi, ne
risponderà sul piano internazionale magari attraverso i meccanismi propri del sistema del diritto comunitario
(procedimento d’infrazione). Altra cosa invece gli effetti interni di questo comportamento, gli effetti interni non sono
disciplinati dai trattati ma dall’ordinamento costituzionale nazionale: “l’ordinamento costituzionale nazionale- dice la
Corte Costituzionale- non attribuisce a questo trattato un valore diverso rispetto a qualsiasi altro trattato perché è stato
eseguito nel nostro ordinamento con una legge ordinaria”. È evidente che si tratta di un ragionamento, anche dal punto di
vista del diritto internazionale abbastanza condiviso, che non poteva trovare d’accordo la Corte di giustizia. In quel
momento la corte di giustizia si è posta un problema serio, cioè a che serve la mia presenza? Accettare una conclusione
del genere vorrebbe dire accettare che ogni stato può far crollare il sistema di integrazione unilaterale contrario al diritto
dell’unione europea. Al tempo la corte di giustizia era composta da due giudici, ma non potendo questi essere mai pari,
bisognava nominarne un terzo, e per il sistema di rotazione fu scelto un giudice italiano, Alberto Trabucchi, che col suo
voto , insieme a quello di un altro giudice italiano, ha sconvolto il sistema di applicazione del diritto nei paesi membri,
imponendo agli stati, sulla base del principio del primato dell’UE, comportamenti che questi non avrebbero mai accettato
qualora avessero potuto decidere da soli. A questo punto si crea un problema: la corte di giustizia e la corte costituzionale
arrivano a conclusioni diverse, dunque i giudici nazionali sono in difficoltà. Gli anni passano e la corte costituzionale si

133
ingegna per trovare nella costituzione un principio che potesse valere da fondamento per la partecipazione dell’Italia alla
partecipazione europea. Un principio esplicito non c’era, ma noi sappiamo che all’interno della costituzione, fin dal ’48,
vi sono 2 articoli che riguardano i rapporti tra le fonti interne ed esterne: l’art.10, riferibile esclusivamente alle norme
consuetudinarie,, e l’art.11, che in realtà non riguarda il diritto comunitario esplicitamente perché è stato pensato ed
inserito quando le comunità non esistevano, ma che comunque consente limitazioni di sovranità nazionale necessarie per
il funzionamento di un sistema internazionale che a condizione di reciprocità con gli altri stati garantisca la pace e la
sicurezza internazionale. Evidentemente quest’articolo fu disegnato per le nazioni unite, per dare alla legge di esecuzione
della convenzione ONU una forza superiore cosi da giustificare limitazioni di sovranità. Quindi da quest’articolo la
giurisprudenza costituzionale parte per dare un fondamento costituzionale interno alla costituzione europea, e infatti nelle
sentenze successive, la corte costituzionale ha cercato di avvicinare la sua posizione a quella della corte di giustizia,
indicando l’articolo 11, in un primo momento, come fondamento del sistema di integrazione, condivisione di interessi tra
stati, pace e coordinamento. L’interpretazione di tale articolo non era poi cosi forzata. Fu pensato per altri motivi ma
poteva essere utilizzato anche come strumento di integrazione europea, posto alla base della nostra costituzione. Una
volta che si attribuisce all’art.11 il ruolo di articolo che tutela il fenomeno dell’integrazione europea anche nei confronti
del comportamento del legislatore nazionale in quanto costituisce parametro di legittimità della normativa nazionale, la
conclusione inevitabile è: la norma prodotta dal parlamento italiano, successiva al trattato CEE, può essere sottoposta al
controllo da parte della corte costituzionale, la quale potrebbe prima accertare l’incompatibilità della norma con il trattato
e poi dichiararla incostituzionale ai sensi dell’art.11 della costituzione. Il nostro però è un approccio dualista: le norme
esterne hanno bisogno di norme interne per dargli esecuzione. La fonte comunitaria prevale su tutto. Invece, però,
secondo la corte di giustizia l’aver trovato questo parametro di riferimento, non è bastato in quanto essa parte da un altro
approccio: il fatto di aver rinunciato ad alcune competenze devolvendole alla comunità europea, implica che le norme
emanate in quelle materie siano incompatibili rispetto al trattato, e che gli stati siano dunque incompetenti e quindi non
possono opporre per l’interesse comune un provvedimento unilaterale (per la corte di giustizia sarebbe invalidamente
formato, come se non esistesse). Il problema si pone di nuovo dinanzi alla corte di giustizia in una causa anch’essa
particolarmente importante, in quanto si occupa del nostro sistema di controllo di costituzionalità delle leggi. Stiamo
parlando della sentenza simmenthal del ’78 in cui si poneva questo problema: l'Italia aveva adottato una legge che
prevedeva un controllo sanitario al passaggio delle merci bovine tra stati, e si sospettava che questa legge fosse
incompatibile con i regolamenti comunitari precedenti in materia di circolazione dei prodotti, perché imponeva un dazio
che si riteneva non fosse conforme alle esigenze di circolazione delle merci che prevede che il controllo sanitario debba
essere effettuato una volta sola e nel paese di origine della merce. La sentenza ha origine dal tribunale di Susa in
Piemonte, per l’importazione di queste carni dalla Francia e si pone il problema di dover immediatamente disapplicare il
provvedimento nazionale in quanto difforme rispetto al regolamento comunitario di cui abbiamo prima parlato. Dunque
secondo la corte di giustizia in questo caso il giudice di Susa avrebbe dovuto immediatamente disapplicare il
provvedimento e non rimandarlo alla corte costituzionale attendendo poi la sua pronuncia, perché il solo fatto di attendere
riduce il bagaglio di quei diritti che vengono riconosciuti dal trattato CEE e dal regolamento comunitario.
Qui è una questione di principi, anche di tutela dei diritti perché il tempo necessario per la pronuncia della Corte
Costituzionale comunque riduce l'immediatezza della tutela, però è una questione di principi.
Noi tutto sommato il risultato lo raggiungiamo ugualmente, non immediatamente ma attraverso un meccanismo che è
quello che la nostra Costituzione prevede, diamo al diritto comunitario una situazione di superiorità però vogliamo che
questo sia garantito attraverso il nostro sistema di controllo di costituzionalità.
La Corte di Giustizia risponde con la Sent. Simmental del 9 marzo del 78: l'applicabilità diretta di un regolamento va
intesa nel senso che le norme di diritto comunitario devono esplicare la pienezza dei loro effetti in maniera uniforme in
tutti gli stati membri a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata e la loro validità. E hanno effetto nei loro
rapporti col diritto interno e gli stati membri non solo di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro
entrata in vigore e qualsiasi disposizione contrastante la legislazione nazionale preesistente, ma anche in quanto dette
disposizioni e detti atti fanno parte integrante con rango superiore rispetto alle norme interne dell'ordinamento giuridico
vigente del territorio dei singoli stati membri di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella
misura in cui questi fossero incompatibili con le norme comunitarie.
Qualsiasi giudice nazionale adito nell'ambito della sua competenza, ha l'obbligo di applicare integralmente il diritto
comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli disapplicando disposizioni eventualmente contrastanti la
legge interna, sia anteriore sia successiva alla norma comunitaria. Questi sono i principi.
Vediamo come si applicano questi principi con riferimento al nostro sistema di controllo di costituzionalità delle leggi. E'
incompatibile (quindi la legge deve essere immediatamente disapplicata dal giudice nazionale) con le esigenze inerenti la
natura stessa del diritto comunitario qualsiasi disposizione facente parte dell'ordinamento giuridico dello stato membro o
qualsiasi prassi legislativa , amministrativa, giudiziaria la quale porti alla riduzione della concreta efficacia del diritto
comunitario, per il fatto che sia negato al giudice competente ad applicare questo diritto il potere di fare all'atto stesso di
tale applicazione tutto quanto necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente
auspicano(?) la piena efficacia delle norme comunitarie. Qualora in caso di conflitto tra una disposizione di diritto
comunitaria e una legge nazionale posteriore, la soluzione fosse riservata ad un organo diverso dal giudice cui è affidato il
compito di garantire l'applicazione del diritto comunitario, è dotato di un autonomo criterio di valutazione, anche se lo
stato, in tal modo frapposto, ha la piena efficacia di dare diritto soltanto temporaneo.

134
Quindi il giudice nazionale deve disapplicare la norma interna senza dover chiedere o attendere la previa rimozione in via
legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale.
Disapplicazione immediata da parte del giudice chiamato a tutelare un diritto.
Se c'è una legge interna che impone un dazio per un controllo sanitario delle merci che non è compatibile con una regola
comunitaria delle merci, questa regola deve essere immediatamente disapplicata dal giudice, che deve fare tutto quanto in
suo potere per garantire l'immediata tutela del diritti attribuiti dall'ordinamento comunitario.
Qui è una questione di tutela dei diritti da un lato ma di garanzia dell'uniforme applicazione del diritto comunitario
dall'altro. Perché se la corte avesse accettato in ritardo sull'immediata applicazione di una norma comunitaria dovuta al
pronunciamento di una norma costituzionale , allora si sarebbe verificata l'applicazione disomogenea delle sue fonti non
in grado di garantire la uniforme e contestuale applicazione delle regole comuni in tutti gli ordinamenti nazionali.
La Corte di Giustizia dice che qualsiasi procedimento, anche di natura costituzionale, che ritarda questo risultato è un
procedimento incompatibile con l'esigenza di immediata applicabilità del diritto comunitario. Quindi ogni volta che una
norma comunitaria sia direttamente applicabile, questa immediata applicabilità deve essere garantita dal vero protagonista
del sistema, che non è la Corte Costituzionale , ma è il giudice nazionale.
Questo principio va esteso anche all'amministrazione. Il principio della disapplicazione certamente trova applicazione nel
contesto di una causa, ma a monte se questo problema si pone dinanzi a organo amministrativo,( es. comune di Napoli,
agenzia delle dogane..) spetta a quell'organismo in prima battuta disapplicarlo.
Il problema si è posto per la prima volta dinanzi alla Corte di Giustizia, in una causa italiana, una causa che riguardava
l'impugnazione presentata da una ditta che si chiamava "Fratelli Costanzo" , ditta siciliana di costruzioni, nei confronti
del comune di Milano che escludeva la ditta da un appalto che riguardava la costruzione del terzo anello dello stadio di
San Siro, in quanto riteneva che l'offerta fatta dalla ditta "Fratelli Costanzo" fosse troppo bassa, quindi non realistica e
quindi da non prendere in considerazione. La nostra legge allora consentiva la esclusione senza contraddittorio.
Una direttiva comunitaria ,che noi non avevamo ancora recepito in quel momento però, consentiva l'esclusione nei
confronti di offerte anormalmente basse ma lo consentiva soltanto a seguito di un procedimento contraddittorio.
Cioè, l'amministrazione doveva chiamare la ditta e consentire di spiegare i motivi per cui aveva pensato di offrire un
ribasso così elevato dalla base d'asta.
Invece la nostra legge consentiva l'esclusione senza contraddittorio.
Il TAR, chiamato a pronunciarsi su questa causa si pone questo problema: cosa deve fare l'amministrazione? Se
l'amministrazione è convinta che vi sia incompatibilità tra una norma interna e una direttiva comunitaria, può
l'amministrazione risolvere questo problema di incompatibilità immediatamente? Addirittura deve farlo oppure è tenuta al
rispetto della sua legislazione nazionale e poi il problema si risolverà in sede di impugnazione dinanzi ad un giudice? La
Corte di Giustizia risponde dicendo che il principio della diretta applicabilità delle fonti comunitarie in questo caso
comporta che l'organo amministrativo sia tenuto a disapplicare la legge incompatibile.
Questa sentenza mette in crisi il principio costituzionale di legalità. Ci hanno insegnato che l'amministrazione rispetta le
leggi, secondo l'approccio nazionalista legge è quello che è prodotto dall'ordinamento nazionale, fonte di produzione
nazionale, e quindi la risposta sarebbe stata: l'amministrazione rispetta la legge nazionale, perché gli è imposto dalla
costituzione, se poi questa legge non è conforme al diritto comunitario si vedrà dinanzi a un giudice.
Esattamente il contrario di quello che deve avvenire, perché dice la Corte di Giustizia con la Sent. Costanzo che è
l'amministrazione il primo baluardo dell'applicazione diretta, non avrebbe senso dire che una norma comunitaria poggia i
propri effetti sull'ordinamento interno ma poi questo non vincola l'amministrazione quando sta applicando le leggi, non
avrebbe senso.
Il che porta ad una lettura più moderna del principio di legalità il principio di legalità non riguarda soltanto le fonti
nazionali ma anche le fonti extra nazionali. Con un problema però: quello della conoscenza delle fonti, perché per arrivare
a questo risultato bisogna conoscere le fonti del diritto comunitario. Con l'aggravante che se la norma comunitaria non
viene rispettata e ciò produce un danno a carico del soggetto interessato, la conseguenza è quella della responsabilità
patrimoniale dello stato.
La difficoltà proviene dal fatto che se un giudice del Tribunale di Napoli deve applicare una norma comunitaria e non è
sicuro del suo contenuto recettivo, può sollevare rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, questo però non lo può fare
l'amministrazione senno lo stesso problema si pone dinanzi al funzionario del comune di Napoli. Può anche avere dei
dubbi sulla corretta interpretazione del diritto comunitario, in questo caso o lo risolve da solo, o fa riferimento alla prassi
precedente o non ha altre possibilità che adottare il provvedimento in quanto non gli è consentito l'accesso alla Corte di
Giustizia non trattandosi di un organo di giurisdizione nazionale.
Ma l'onere di disapplicare il diritto interno incompatibile grava anche sugli organi amministrativi, di qualsiasi
amministrazione si tratti.

A partire dalla sent. Simmental, il principio della disapplicazione del diritto interno se incompatibile con una fonte
comunitaria dotata di effetti diretti comporta che la soluzione di queste antinomie debba essere imputata immediatamente
al giudice nazionale.
La corte costituzionale viene esclusa da questo meccanismo, più immediato, semplice dal punto di vista del rimedio e dei
tempi, che però esclude la coste costituzionale dalla partecipazione al processo di integrazione europea attraverso il
diritto. E quindi in linea di principio da evitare ogni controllo della direttiva comunitaria. Quindi siamo arrivati alla
conclusione secondo cui in presenza di diversità di contenuti tra una norma interna e una norma comunitaria è il giudice

135
che deve scegliere quella comunitaria, ogni qual volta sia produttiva di direttive.
Se ritiene che la norma comunitaria che sta applicando è difforme a un contenuto costituzionalmente discutibile, bisogna
guardare innanzi tutto all'ordinamento di produzione di questa norma. Se c'è questo dubbio sulla conformità di questo
regolamento con un diritto fondamentale guardiamo innanzi tutto l'ordinamento di provenienza, da dove viene questa
norma? dall'ordinamento comunitario.
Anche nell'ordinamento comunitario c'è un meccanismo di controllo della costituzionalità, la chiamiamo diversamente, la
chiamiamo giudizio di validità. Parametri di validità degli atti normativi dell'unione sono anche i diritti fondamentali,
oggi codificati nella carta europea dei diritti fondamentali.
Quindi: impugnamo un provvedimento di applicazione di questo regolamento andiamo dinanzi a un giudice e il giudice,
che non può disapplicare un regolamento, deve necessariamente chiedere alla corte di giustizia di giudicare sulla sua
validità, e se accoglie la richiesta potrà dire che quel regolamento è invalido per violazione del principio della tutela della
proprietà così come codificata nella carta dei diritti fondamentali. Quindi c'è un meccanismo interno di controllo, bisogna
ragionare in termini di utilizzo dei meccanismi previsti dall'ordinamento di origine di quella fonte.
Ciò significa che i giudici nazionali partecipano ad un sistema completamente diverso rispetto a quello interno. Un
sistema sistema integrato che vede come garante del rispetto dei diritti fondamentali, messi a repentaglio da un
regolamento comunitario, non più la corte costituzionale ma la corte di giustizia. Se la Corte è comunitaria anche il
rimedio sarà comunitario.
Se la corte di giustizia dice che il regolamento è perfetto perché ha potuto legittimamente decidere, però esiste una teoria
che si chiama teoria dei contro-limiti che la nostra Corte Costituzionale applica e che consentirebbe un'ulteriore
possibilità.

Giurisprudenza costituzionale degli anni 70 :


Sent. Frontini 1973
La Corte Cost. codifica un principio, che era già in parte emerso nella giurisprudenza precedente, per cui l'apertura che
l'art. 11 dà alle fonti europee e prevede mesi di controllo della loro validità non è un'apertura incondizionata, la Corte
Cost. non esce di scena.
E' tutelata anche l'ipotesi nei confronti di fonti esterne che trovano applicazione nell'ordinamento italiano attraverso un
meccanismo costituzionale, come l'art. 10 e l'art. 11.
La corte Cost. dunque nella Sent. Frontini dice che va bene il sistema della supremazia, ma se la norma comunitaria che
prevale sulla norma interna contiene delle disposizioni che non sono conformi ai principi supremi dell'ordinamento
costituzionale nazionale o ai diritti fondamentali che la nostra costituzione tutela, allora si riserva di intervenire.
Le limitazioni della sovranità si accettano, ma queste limitazioni devono trovare dei contro-limiti, cioè delle forme di
garanzia di controllo, qualora si arrivi all'ipotesi, che la stessa Corte Cost. dice improbabile ma pur sempre possibile, di
produzione normativa dell'unione incompatibile con i principi supremi dell'ordinamento costituzionale nazionale.
Era impossibile che la corte Cost. non arrivasse a mettere questi paletti.
Quindi in ipotesi del genere dovrebbe succedere che ottenuta la risposta della Corte di Giustizia, nel senso della validità
del regolamento, quindi esauriti senza risultato i rimedi messi a disposizione dall'ordinamento degli stati europei, residua
una possibilità, cioè quella di chiedere nuovamente al giudice investito della controversia, di rivolgersi questa volta alla
Corte Costituzionale.
Chiedeva alla Corte Cost. di valutare se quel regolamento, che seppur è stato dichiarato totalmente valido dalla Corte di
Giustizia, produca nel nostro ordinamento effetti incompatibili con i principi supremi e i diritti fondamentali dell'uomo
tutelati dalla costituzione nazionale.
Questo sistema, se si pensa alle date è stato inventato dalla Corte Costituzionale, ma anche dalla Corte Cost. tedesca e poi
da tante altre, quando negli anni '70 non c'era una esplicita garanzia di tutela dei diritti fondamentali all'interno
dell'ordinamento comunitario. Emergeva in quel momento la giurisprudenza della corte di giustizia che sosteneva che
esistono dei principi non scritti in materia di diritti fondamentali che comunque trovano obbligazione nell'ordinamento
comunitario e che fanno in modo di tutelare gli stati da un esercizio del potere pubblico incompatibile con questi principi
costituzionali.
Quindi era una giurisprudenza che aveva senso soprattutto allora per stimolare un sistema interno comunitario di
controllo. E' un sistema che ancora adesso viene ribadito dalla nostra corte costituzionale e anche da altre, ma che ha
meno possibilità di essere applicato oggi in ragione del fatto che esiste una carta dei diritti fondamentali, che codifica dei
principi sostanzialmente identici a quelli della nostra Costituzione, cui ci possono essere delle interpretazioni divergenti,
ma che si arrivi il punto di dire che il sistema comunitario relativamente ai diritti fondamentali non è sufficiente, perché
noi abbiamo una tutela maggiore, è possibile, ma non è facile che succeda.
In Spagna qualche anno fa la Corte Cost. spagnola aveva elaborato una giurisprudenza in materia di mandato d'arresto
europeo, dove ricorre quel meccanismo che consente ad un giudice di chiedere una ad un altro paese membro la consegna
di un una persona sottoposta a procedimento penale o addirittura già condannata se questa persona è fisicamente presente
nel territorio di una altro paese membro, evitando che questa richiesta , come avveniva col meccanismo dell'estradizione,
fosse condizionata dal filtro della ….. (1.9.55)
Il mandato d'arresto europeo comporta che questa richiesta debba essere eseguita dal giudice del paese richiesto a meno
che non si verificano delle situazioni codificate dalla decisione quadro del mandato d'arresto europeo che consentano un
secondo controllo….. (1.10.15)

136
Quindi c'è un sistema abbastanza preciso che indica quali sono i casi in cui il mandato d'arresto può non trovare
esecuzione.
La Corte Cost. spagnola aveva inaugurato una giurisprudenza che giustificava il rifiuto della consegna di una persona
richiesta attraverso il mandato d'arresto europeo qualora il giudizio di condanna della persona in questione si fosse svolto
nel paese di origine in sua assenza, in contumacia, prescindendo dalle ragioni della contumacia. Cioè anche quando la
contumacia fosse conseguente alla scelta volontaria del soggetto di sottrarsi al processo, cioè se il soggetto non si è
presentato al processo, è contumace ma contumace che non produce effetti rispetto al mandato d'arresto europeo, perché lì
non è consentito il rifiuto in base alla semplice contumacia.
Deve essere una contumacia modificata, cioè il caso in cui il soggetto non abbia avuto notizie del procedimento penale,
allora può andare a contestare davanti al giudice del paese richiesto della sua totale ignoranza del procedimento penale e
quindi della sua impossibilità di difendersi. Se invece il soggetto si è volontariamente assentato dal procedimento penale
secondo la decisione quadro non è previsto che possa essere rifiutata questa consegna.
La Corte Cost. spagnola invece elabora una giurisprudenza più protettiva nel senso di giustificare il rifiuto della consegna
in qualsiasi caso di contumacia, a meno che questa consegna non fosse condizionata dallo svolgimento di un nuovo
processo.
Questo aveva portato inevitabilmente una certa frequenza di viaggi verso la Spagna, c'è stato un fenomeno di
trasferimento di persone che per sottrarsi alla giustizia in Italia sono andati in Spagna sapendo che erano stati contumaci
perché non si erano presentati al processo, erano stati condannati e il tribunale costituzionale spagnolo consentiva il
rifiuto della richiesta di consegna.
La Corte Cost. spagnola posta difronte a dubbi abbastanza diffusi e generalizzati sulla conformità della sua giurisprudenza
rispetto alla decisione quadro, e dagli uomini del diritto dell'UE, chiede alla Corte di Giustizia se è consentito a un paese
membro che ritiene di estendere le tutele, andare oltre a quanto disciplinato dalla decisione quadro ,cioè di aggiungere
ulteriori casi di rifiuto di consegna se questi sono finalizzati ad una maggiore tutela del contumace.
E se qualora la decisione quadro non lo consentisse di giudicare sulla validità della decisione quadro, rispetto ai diritti
fondamentali.
La corte di Giustizia risponde in maniera da salvaguardare il meccanismo della decisione quadro, nel senso di dire che se
gli stati membri hanno creato questo meccanismo, è previsto un obbligo di consegna con alcuni casi eccezionali di rifiuto,
questo sistema creato dagli stati deve essere poi rispettato. Nel senso che non può lo stato aggiungere ulteriori punti di
rifiuto, non può mettere in discussione il funzionamento del sistema perché poi farebbe in modo che si creino dei
"paradisi dei reati" dove ci sono condannati che trovano conveniente spostarsi in un paese membro in ragione del fatto
che è un paese che garantisce una maggiore tutela nei confronti della consegna in un altro paese. Quindi anche se
l'obiettivo è quello di garantire una maggiore tutela dei diritti fondamentali, non può essere giustificata l'intenzione di
questo paese membro, la decisione quadro non lo consente e non vi è alcun problema di invalidità della decisione quadro
rispetto ai diritti fondamentali perché sottrarsi volontariamente ad un processo non può avere nessuna garanzia
costituzionale. Quindi la Corte ha detto che anche l'intenzione dei paesi membri di estendere il grado di potere di diritti
costituzionali se questo comporta la messa in discussione di un sistema armonizzato non può essere accettata.
Altra questione che riguarda la giurisprudenza più recente della Corte Cost. è quella relativa ai residui di potere della
Corte Cost. Abbiamo detto che la Corte Cost. mantiene il potere di controllare il rispetto dei contro-limiti E questo
avviene attraverso un giudizio che la Corte Cost. si riserva di svolgere sulla legge di esecuzione dei trattati.
Cioè se si ritiene che il regolamento comunitario sia incompatibile con il principio di autotutela della proprietà, come
garantita la nostra Costituzione, il sistema è inevitabilmente quello di chiedere alla Corte Cost. Però la Corte Cost. ci dice
la Costituzione, l'art. 136, giudica sulle leggi e sugli atti aventi forza di legge. Quindi sulla produzione normativa
nazionale, non può giudicare sulla legittimità costituzionale di un regolamento perché non è un atto prodotto dagli organi
legislativi nazionali. Quindi l'unica possibilità che ha la corte costituzionale è quella di giudicare sulla legge italiana di
esecuzione dei trattati. Cioè la legge contiene un ordine di esecuzione nella parte in cui vorrebbe dare applicazione
all'ordinamento italiano ad un regolamento incompatibile con la Costituzione, quindi questo è un meccanismo un po'
contorto, ma l'unico tecnicamente possibile affinché si possa giungere ad un risultato di un controllo dei conto-limiti, cioè
un controllo del rispetto dei principi supremi della Costituzione in caso in cui questi siano violati da una norma
comunitaria .

1 dicembre 2014

Oggi cerchiamo di concludere il discorso relativo al rapporto tra le fonti e di aprire un altro capitolo dedicato
all’attuazione del diritto dell'UE nell’ordinamento nazionale.
Stavo cercando di chiudere il discorso relativo al rapporto tra le fonti dell’Unione e le fonti interne con un’ultima
precisazione dedicata alla soluzione delle eventuali antinomie tra il diritto nazionale e il diritto dell’Unione quando queste
ultime, fonti che appartengono al diritto dell’Unione, non sono dotate di efficacia diretta e poi dare una valutazione
rispetto agli effetti dell’entrata in vigore della legge costituzionale n 3 2001 che ha modificato l’art 117 inserendo per la
prima volta in Costituzione un riferimento diretto ai rapporti tra le fonti del diritto interno e dell’Unione Europea. Questi
sono gli ultimi 2 aspetti che ci rimangono da chiarire.

137
Quanto al primo abbiamo detto che l’insegnamento che viene dalla Corte di giustizia è nel senso di affidare al giudice
comune e come abbiamo visto anche all’amministrazione, il compito di vigilare sul pieno rispetto dei diritti attribuiti
dall’ordinamento dell'UE attraverso un giudizio diffuso per così dire in conformità delle leggi interne con le leggi dell'UE
che hanno la possibilità di essere immediatamente applicabili. Nell’ottica della Corte di giustizia quello che conta è che le
fonti del diritto dell'UE, in quanto posizionate in un livello superiore rispetto a quelle interne pur appartenendo ad un
medesimo ordine giuridico, siano immediatamente applicate nel momento in cui entrano in vigore, non potendo questa
immediata applicazione essere condizionata o addirittura esclusa dalla presenza di una fonte interna difforme, di qualsiasi
fonte si tratti. Quindi questo porta la Corte di giustizia, nella sua giurisprudenza più ortodossa (poi vedremo ci sono delle
piccole variazioni), a sostenere che l’accettazione da parte degli stati membri di un ordine giuridico ulteriore rispetto a
quello interno che ha la vocazione ad attribuire dei diritti e quindi ad essere immediatamente applicabili negli ordinamenti
nazionali, comporta il dovere per il giudice nazionale di disapplicare le leggi interne che contengano una disciplina
diversa. Quindi quando il giudice si trova di fronte a queste due possibili soluzioni di un caso, una fondata su una regola
nazionale, un’altra fondata su una qualsiasi fonte del diritto dell'UE direttamente applicabile, il giudice è tenuto a preferire
la seconda disapplicando immediatamente la prima, senza dover attendere ai fini della disapplicazione alcun
procedimento che elimini in maniera definitiva la legge difforme, come ad esempio un’espressa abrogazione da parte di
una legge interna successiva o un giudizio della Corte costituzionale.
Vi ricorderete questa è la soluzione che la Corte ha raggiunto in Simmenthal, proprio in reazione al sistema che era stato
inaugurato per così dire nel nostro ordinamento qualche anno prima con la sentenza Frontini quando la Corte
costituzionale, pur accentando il principio di supremazia, pur accentando che l’art 11 fosse il punto di riferimento per il
controllo di costituzionalità delle leggi interne contrarie al diritto comunitario, ha preteso di essere essa stessa il fulcro del
rispetto del sistema richiedendo al giudice di sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art 11.
La Corte di giustizia non ha accettato questo tipo di soluzione per i motivi che vi ho appena detto, cioè quello di insistere
sulla immediata disapplicazione della regola difforme che non sarebbe garantita da un meccanismo che invece richiede un
intervento della Corte costituzionale.
Questo però vale, dice la Corte di giustizia, quando le fonti comunitarie sono dotate di efficacia diretta; l’efficacia diretta
è la qualità di una qualsiasi fonte europea di poter essere immediatamente produttiva di diritti e di obblighi in capo ai
privati, in capo a tutti i soggetti amministrati dal diritto dell'UE Allora in questo caso se il giudice si trova di fronte a due
regole potenzialmente applicabili: una di origine comunitaria, un’altra di origine nazionale, disapplicherà la seconda
dando immediata applicazione alla prima.
E qui è abbastanza semplice il meccanismo una volta che il giudice abbia prontezza delle presenza di queste diverse fonti
e abbia prontezza del ruolo che gli è affidato dall’Unione, quindi disapplica la legge dello stato, risolve la controversia
applicando l’unica fonte realmente applicabile che è quella del diritto dell'UE
Questo meccanismo, come sapete, è stato poi dalla nostra Corte costituzionale accettato, modificando il precedente
orientamento con la sentenza Granital n 170/84 che però anch’essa insiste nel dire che questo vale ogniqualvolta la regola
comunitaria di riferimento sia produttiva di effetti diretti.
Il che lascia evidentemente scoperta quest’altra possibilità, cioè che il conflitto sussista tra una norma interna
potenzialmente immediatamente applicabile ed una fonte comunitaria non produttiva di effetti diretti, una fonte
vincolante, obbligatoria, ma che non è capace di per sé di attribuire diritti e obblighi in capo agli amministrati e di queste
fonti ne abbiamo incontrate un po’ nel nostro percorso quella, diciamo, più evidente e più complicata è la direttiva. La
direttiva comunitaria se correttamente recepita nulla questio: c’è una legge interna che in sostanza disciplina la fattispecie
conformemente alla direttiva e quindi problemi di conflitto non ne sorgono.
Che succede invece se la direttiva non viene recepita nei termini? Scade il termini attribuito agli stati, oppure viene
recepita in maniera non corretta?
Qui la questione si complica. Sappiamo che le direttive comunitarie sono sì produttive di effetti diretti, ma soltanto in
alcune situazioni cioè nei cosiddetti rapporti verticali. Quindi nell’esempio che vi ho fatto, anche se la direttiva non è stata
correttamente recepita il privato può farvi affidamento, può invocarla in giudizio a preferenza di qualsiasi legge interna
difforme. Vi ho fatto il caso della vicenda “fratelli Costanzo” in cui la ditta esclusa dalla gara per l’aggiudicazione di un
appalto invoca la direttiva, contro il provvedimento dell’amministrazione che l’aveva appunto esclusa da questa gara.
Questo è un classico esempio di effetto verticale perché qui la direttiva viene invocata dal privato contro
l’amministrazione, in effetti contro lo stato in senso ampio (quindi qualsiasi potere pubblico). Quindi in questo caso il
meccanismo Granital funziona in maniera perfetta perché la fonte comunitaria di riferimento è produttiva di effetti diretti
e può essere immediatamente applicata dal giudice che invece metterà da parte una norma che non vuole più essere
applicata, la norma interna, perché quella materia è stata nel frattempo assorbita nelle competenze esercitate dall’Unione.
Poi c’è ancora un caso diverso, nel caso in cui la direttiva non sia produttiva di effetti diretti. La direttiva esiste,
attribuisce diritti, vuole attribuire diritti e doveri ai singoli, perché così è scritta, è scritta in maniera chiara, precisa e
incondizionata, quindi dal punto di vista del contenuto della norma, la direttiva può senz’altro essere applicata. Il
problema deriva dalla natura stessa della fonte che non può disciplinare rapporti diversi da quelli verticali di cui prima ho
parlato.
Ad esempio nel caso dei rapporti verticali inversi, cioè quando è lo Stato che invoca la direttiva contro il privato, quindi
non è un vantaggio la direttiva per il privato, ma semmai uno svantaggio. Oppure nel caso di rapporti orizzontali, cioè
rapporti tra privati. In questi due casi, come sappiamo, la direttiva non produce effetti diretti, però esiste. Impone allo

138
Stato un determinato comportamento che non ha posto in essere. Quindi un conflitto tra fonti c’è, è un conflitto che non
può essere risolto con il meccanismo della disapplicazione, perché il meccanismo della disapplicazione pretende
l’esistenza di una fonte comunitaria direttamente applicabile.
Quindi cosa si fa in questi casi?
La posizione della Corte di giustizia è abbastanza nota oramai dice che casi del genere possono essere risolti attraverso il
meccanismo dell’interpretazione conforme. Se è possibile interpretare la norma interna in una maniera da consentire il
raggiungimento dell’obiettivo che la direttiva voleva perseguire allora il problema è risolto: si applica la norma interna,
ma la si applica conformemente alla direttiva, non è la direttiva che disciplina, è la fonte interna, ma applicata
conformemente alla direttiva.
Ci sono dei casi in cui questo però questo non è possibile, perché tra la fonte interna e la fonte comunitaria vi è una
differenza di contenuti non colmabile attraverso il criterio dell’interpretazione conforme. È impossibile interpretare A alla
luce di B, se A e B hanno un contenuto completamente diverso.
La Corte di giustizia, a questo punto, lascia un’ultima possibilità in capo ai privati destinatari di diritti in base alla
direttiva non recepita che è quella di invocare dinanzi al giudice la responsabilità patrimoniale dello Stato, citare in
giudizio lo Stato sostenendo che quella omissione di intervento, cioè il mancato recepimento della direttiva ha provocato
un danno di cui si chiede il risarcimento attraverso un’azione civile rivolta contro lo Stato. Questo è l’ultimo baluardo di
tutela che la Corte garantisce, ma che evidentemente non risolve il problema di fondo, cioè la contemporanea presenza
nell’ordinamento nazionale di una fonte interna che disciplina una determinata fattispecie in un modo A e una direttiva
che invece vorrebbe disciplinare la fattispecie in un modo B. Siamo comunque al cospetto di una situazione di
incostituzionalità, perché la fonte interna che ha un contenuto difforme è per definizione incostituzionale, perché non
contiene una disciplina di quella determinata materia conforme alla direttiva e quindi la sua stessa presenza
nell’ordinamento nazionale comporta la violazione dell’art 11 della Costituzione.
E allora qual è l’unica soluzione possibile in casi del genere?
Non essendo consentita la disapplicazione della legge interna, l’unica possibilità è di chiedere l’intervento della Corte
costituzionale, cioè rientra in gioco il meccanismo tradizionale che noi applichiamo in caso di violazione delle norme
della Costituzione da parte di una legge o di un atto avente valore di legge, vale a dire il ricorso costituzionale.
Quello che in origine la nostra Corte costituzionale aveva voluto si applicasse per tutti i casi di conflitto. Nella sentenza
Frontini la Corte costituzionale dice se c’è un conflitto tra norma interna e norma comunitaria, a prescindere che sia o
meno dotata di efficacia diretta, la soluzione è passare da me! Sollevare una questione di legittimità costituzionale della
legge interna difforme per violazione dell’art 11.
Ha cambiato idea la Corte costituzionale, seguendo le indicazioni della sentenza Simmenthal della Corte di giustizia, per i
casi in cui il conflitto si realizzi tra una norma interna e una norma comunitaria direttamente efficace perché lì in sostanza
la Corte di giustizia ha imposto un sistema diverso e noi attraverso l’art 11 abbiamo recepito questo sistema diverso,
proprio perché l’art 11 è una norma di apertura, una norma che funge da rinvio non soltanto alle fonti comunitarie in
quanto tali, ma anche ai meccanismi che l’ordinamento comunitario vuole siano applicati in caso di difformità di
contenuto tra una legge interna e una comunitaria. Quindi se la Corte di giustizia ha detto “ i casi del genere si risolvono
con la disapplicazione attraverso l’art 11”, il meccanismo diventa obbligatorio anche per il giudice italiano, ma non copre
questo meccanismo il conflitto di cui stiamo parlando, cioè quello tra una norma interna e una norma comunitaria non
dotata di efficacia diretta. Per questo tipo di conflitto è indispensabile passare dalla Corte costituzionale.
Ed è quello che è avvenuto nella vicenda di cui vi ho parlato che ha visto la Corte costituzionale per la prima volta
chiedere alla corte di giustizia un’interpretazione di una direttiva attraverso il rinvio pregiudiziale. La causa è stata risolta
dalla Corte di giustizia con una sentenza di pochi giorni fa che riguardava la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo
determinato nel settore scolastico. Vi dicevo che c’era questa causa in corso dinanzi la Corte di giustizia, su iniziativa
della Corte costituzionale. Perché la Corte costituzionale si è trovata ad occuparsi in questa causa? Perché essendo una
causa che in definitiva riguardava i rapporti tra una fonte interna e una comunitaria, qui il problema della questione era
abbastanza semplice che noi avevamo da anni un sistema con un rinnovo automatico dei contratti a tempo determinato
annuali per i lavoratori del settore scolastico (docenti e non docenti), mentre una direttiva comunitaria la numero 70/99
consente sì la reiterazione dei contratti a tempo determinato, ma a determinate condizioni molto rigide che
apparentemente non venivano rispettate dalla nostra disciplina che prevedeva un automatismo non condizionato da questi
parametri.
E perché la Corte costituzionale si trova ad occuparsi di questa causa?
Perché il suo intervento è stato richiesto da alcuni giudici in particolare da Tribunali del lavoro, di fronte a questo tipo di
controversie, cioè controversia che vede da un lato una norma interna quella che consente la reiterazione dei rapporti di
lavoro a tempo determinato e una fonte comunitaria, una direttiva, non produttiva di effetti diretti perché non chiara,
precisa e incondizionata. Una direttiva che lascia agli stati membri una discrezionalità per la sua applicazione. Quindi non
è un conflitto risolvibile attraverso la disapplicazione, perché la disapplicazione presuppone una fonte comunitaria
perfetta, nel caso di una direttiva che si è invocata nei rapporti verticali (dipendente della scuola e amministrazione
scolastica), ma che fosse anche chiara, precisa e incondizionata, cioè capace di produrre effetti diretti. Nel caso della
disciplina dei contratti del settore scolastico mancava questo requisito, perché la direttiva in questione è scritta in maniera
generica lasciando agli stati il compito di intervenire per dettare una disciplina più puntuale, quindi non è direttamente
efficace.
E allora per i motivi che vi ho detto, la soluzione di questo conflitto che pure esiste non può che essere il coinvolgimento

139
della Corte costituzionale. Dire alla Corte costituzionale “c’è un problema di antinomie: una fonte interna mi dice A, nel
nostro caso si può senz’altro nel settore scolastico reiterare ad libitum il contratto a tempo di lavoro determinato e una
fonte comunitaria che, pur non essendo precisa, vuole B, cioè vuole che gli Stati limitino in maniera molto stringente i
casi in cui è possibile ricorrere a queste forme di contratti di lavoro”.
Si chiede alla Corte costituzionale se questo conflitto esista e nel caso in cui esista la Corte costituzionale fa quello che
normalmente fa, cioè giudica sulla illegittimità costituzionale della legge e la dichiara illegittima costituzionalmente per
violazione di quale parametro? L’art 11 della Costituzione.
A quel punto cosa è successo?
È successo che la Corte costituzionale, dovendo risolvere questa questione di costituzionalità si è posta un problema: “ Io
non sono sicura che la fonte comunitaria che mi invocate abbia effettivamente questo contenuto, è scritta in maniera da
poter prevedere una disciplina differenziata per alcuni settori del mondo del lavoro in ragione delle loro peculiarità.” Si
potrebbe sostenere che il settore scolastico è diverso dagli altri dal punto di vista dei contratti a tempo determinato e
indeterminato perché la platea scolastica non è mai fissa, cambia in base al numero degli studenti e cambiando il numero
degli studenti anche le esigenze di docenze possono modificarsi, il che richiede che ogni anno si faccia una valutazione
con dei contratti a tempo determinato perché assumere tutti questi docenti ci potrebbe portare alla situazione per cui
avremmo un giorno più docenti di quanto serve, perché la platea scolastica nel frattempo si è ridotta. Questa è una
possibile interpretazione.
L’altra interpretazione è invece quella nel senso di dire che anche qualora ci fossero queste esigenze non
giustificherebbero mai quello che è successo in Italia, cioè che per 15 anni consecutivi non si sono fatti concorsi nel
settore scolastico e si è continuato ad affidare automaticamente, senza alcuna valutazione contratti a tempo determinato a
docenti e a personale non docente che ogni dovevano vedere rinnovato il loro rapporto senza garanzie di prosecuzione di
rapporto di lavoro e la direttiva questo non lo consente, pur essendo una direttiva non completa, sicuramente questo non è
possibile.
Di fronte a queste due possibili interpretazioni, cosa ha fatto la Corte costituzionale?
Ha fatto rinvio pregiudiziale di fronte la Corte di giustizia chiedendo quale fosse l’interpretazione corretta. È stata la
prima volta che la Corte costituzionale è arrivata a questo e l’ha fatto in sostanza sostituendosi al giudice a quo che
avrebbe dovuto essere suo compito in prima battuta non l’ha fatto e allora la Corte ha detto “lo faccio io per evitare
rimandi successivi: rimando gli atti al giudice a quo, il giudice si rivolge a Lussemburgo, poi la causa torna da me,
semplifichiamo le cose lo faccio io il rinvio pregiudiziale”.
Questo rinvio pregiudiziale ha senso perché la Corte costituzionale mantiene alcune riserve di intervento nei rapporti tra
diritto interno e diritto comunitario che in linea di principio non la dovrebbero riguardare per il semplice motivo che se la
fonte comunitaria, come nella maggior parte dei casi, è dotata di effetti diretti spetta al giudice disapplicare la norma
interna difforme, non deve chiedere l’intervento della corte costituzionale. Lo si fa ogniqualvolta invece questo requisito
non è presente e quindi l’esigenza di rimozione delle antinomie deve comunque essere garantita attraverso l’intervento
della Corte costituzionale.
Un altro caso è quello che si è presentato dinanzi la Corte costituzionale qualche anno fa rispetto alla disciplina del
mandato d’arresto europeo. Vi ricordate ne abbiamo parlato più volte, il mandato d’arresto europeo è un meccanismo di
collaborazione tra organismi giurisdizionali dei vari Paesi membri inaugurato da una decisione quadro. La decisione
quadro è in sostanza una direttiva, ha le stesse caratteristiche della direttiva con la precisazione contenuta nel Trattato che
la decisione quadro non produce mai effetti diretti, quindi neanche nei rapporti verticali ci sono effetti diretti. Disciplina
che peraltro è superata a partire da oggi dal punto di vista delle competenze della Corte di giustizia perché il primo
dicembre 2014 scade il termine di 5 anni di rinvio transitorio, alla fine del quale la Corte di giustizia recupera competenze
in questa materia.
La decisione quadro è in sostanza una direttiva nei contenuti e consente allo Stato richiesto del mandato d’arresto di far
scontare la pena nel proprio territorio, piuttosto che consegnare la persona alle autorità giudiziarie dell’altro Paese
membro, se questa persona, pur essendo ricercata per un reato commesso nell’altro Paese, ha ormai nel territorio
nazionale delle radici, cioè domiciliato stabilmente nel Paese richiesto e quindi per consentirgli di mantenere i rapporti
con la famiglia che nel frattempo ha creato in questo Paese, si può decidere di fargli scontare la pena in Italia, piuttosto
che in Germania. In Germania è lontano da così tanto tempo che non ha più nessun rapporto che giustifichi l’esecuzione
della pena in quel territorio. Quindi se c’è un accordo tra le autorità giurisdizionali, l’Italia può acconsentire che la pena
venga scontata nelle strutture carcerarie italiane piuttosto che quelle tedesche.
Nella legge di esecuzione di questa decisione quadro che noi abbiamo recepito questo meccanismo, ma con una serie di
variazioni sul tema ( abbiamo dovuto cambiare qualcosina per dare un segno di originalità! )Tra queste cose vi era anche
una disciplina rispetto a questa situazione, cioè rispetto a scontare o meno la pena nel territorio dello Stato richiesto, in
quanto questa possibilità veniva offerta soltanto al cittadino italiano e non al comunitario residente in Italia a prescindere
dalla cittadinanza. La decisione quadro prevedeva questa possibilità a favore di qualsiasi soggetto richiesto che fosse
stabilmente domiciliato nel territorio del Paese richiesto.
Noi nel recepire questa decisione quadro abbiamo invece cambiato le cose limitando questo vantaggio per così dire
soltanto ai cittadini italiani quindi non ad esempio al francese residente in Italia richiesto in consegna dalla Germania per
un reato commesso in Germania. Si creava evidentemente una discriminazione sulla base della nazionalità perché a parità
di altre condizioni, l’italiano godeva di un vantaggio e una possibilità in più rispetto a qualsiasi cittadino di ogni Paese
membro, nonostante fossero entrambi domiciliati stabilmente in Italia.

140
Di fronte ad una richiesta da parte di un soggetto coinvolto, nel senso di avere il trattamento previsto dalla decisione
quadro piuttosto che quello previsto dalla legge italiana, il giudice ha pensato di rivolgersi alla Corte costituzionale. Non
aveva bisogno di interpretare nulla, perché l’interpretazione di quella disposizione della decisione quadro era già stata
fornita dalla Corte di giustizia in altre decisioni, quindi non c’era bisogno di interpellare la Corte di giustizia, era evidente
che la nostra disciplina fosse incompatibile con la decisione quadro. Però la decisione quadro non è dotata di efficacia
diretta, lo dice il Trattato e quindi il giudice non poteva sostituire alla nostra legge di attuazione il contenuto della
decisione quadro perché questa è vietato dal diritto comunitario; a differenza delle direttive, la decisione quadro non
produce mai effetti diretti anche nei rapporti verticali come nel nostro caso, quindi a questo punto l’unica soluzione
possibile era quella di richiedere un intervento della Corte costituzionale che giudicasse sulla legittimità costituzionale
della legge di attuazione della decisione quadro nella parte in cui non consente al soggetto richiesto in consegna di
scontare la pena nel territorio del Paese in cui è stabilmente domiciliato, cioè in Italia, piuttosto che nel territorio dello
Stato dove il reato è stato commesso e il giudizio si è svolto. Quindi, qui la corte Costituzionale nella sentenza n 227/2010
ha già svolto questo compito di intervenire per eliminare la situazione di incompatibilità laddove la norma comunitaria di
riferimento non sia dotata di efficacia diretta.

La seconda questione che vi citavo all’inizio riguarda gli effetti, su questo sistema che vi ho delineato, dell’entrata in
vigore della legge n 3/2001 che modifica l’art 117 prevedendo per la prima volta un esplicito riferimento all’ordinamento
comunitario nel testo costituzionale. Può sembrare una cosa paradossale, ma noi fino al 2001 non avevamo nessuna
copertura esplicita, abbiamo dovuto far ricorso all’art 11 che era una norma pensata e scritta per altre esigenze, proprio
perché mancava un esplicito richiamo all’integrazione europea come fenomeno di incisiva limitazione della sovranità
nazionale.
In realtà, c’è stato un tentativo più esplicito, già prima della legge del 2001, con un progetto di legge costituzionale che
non è mai stato approvato e che era molto più esplicito, finché si è arrivati all’adozione della legge n 3/2001 che modifica
l’art 117 prevedendo oggi in maniera chiara che la potestà legislativa dello stato e delle regioni si esercita nel rispetto di
una serie di fonti: la Costituzione, ovviamente, gli obblighi internazionali e le fonti comunitarie (l’ordinamento
comunitario).
A questo punto ci si è chiesti ma c’è ancora bisogno di far riferimento all’art 11 se con il nuovo testo dell’art 117 abbiamo
finalmente un richiamo esplicito all’ordinamento comunitario.
In effetti ci sono state alcune ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale dove si sceglieva finalmente l’art 117
come fonte di riferimento che imponesse al legislatore anche statale il rispetto delle fonti comunitarie, ciò che si era
implicitamente ricavato dall’art 11 sembrava ormai fosse palesemente imposto dall’art 117 primo comma.
In realtà la Corte costituzionale ha voluto mantenere l’esplicito riferimento all’art 11, aggiungendo semmai l’art 117 come
parametro di riferimento, perché l’art 11 ha un contenuto più ampio dell’art 117. L’art 117 riguarda esclusivamente la
potestà legislativa dello Stato e individua tra i parametri dell’esercizio di questa potestà legislativa il rispetto del diritto
comunitario, ma il fenomeno dell’integrazione europea non si limita soltanto a questo. L’art 11 è una norma non a caso
inserita nella prima parte della Costituzione, dedicata ai principi fondamentali e che non è soltanto una norma che impone
il rispetto delle fonti comunitarie al legislatore, è una norma che comporta l’apertura dell’ordinamento italiano al sistema
dell’Unione nel senso più ampio possibile, nel senso cioè anche di coinvolgere la Costituzione stessa. L’art 117 non
sarebbe sufficiente per attribuire al fenomeno dell’integrazione europea un contenuto costituzionale perché si limita a dire
che il legislatore quando interviene rispetta le norme comunitarie, ma non attribuisce all’ordinamento dell’Unione,
all’integrazione europea nel suo complesso, un contenuto tale da mettere in discussione anche i parametri costituzionali,
cosa che avviene quotidianamente, cosa che la stessa Corte costituzionale ha accettato quando ha sostenuto che le fonti
comunitarie prevalgono su quelle interne anche di rango costituzionale con l’unica riserva del rispetto dei principi
supremi della Costituzione.
Quindi le fonti comunitarie, se vogliamo ragionare in termini di posizionamento della gerarchia delle fonti, si trovano allo
stesso livello di quelle costituzionali con l’unica garanzia del rispetto e tutela dei principi fondanti la Costituzione
nazionale, quindi non tutta la Costituzione, ma soltanto di questi principi fondanti. Tanto è vero che la Corte
costituzionale, pur avendo ribadito più volte questa sua competenza a controllare che le fonti comunitarie non siano
capaci di mettere in discussione i principi supremi dell’ordinamento costituzionale, di fatto non l’ha mai esercitata, perché
non si è mai trovata di fronte un caso così eclatante di conflitto tra una fonte dell’Unione europea e una norma
costituzionale appartenente ai principi supremi. Quindi la Corte costituzionale ha mantenuto i suoi riferimenti all’art 11
nonostante l’intervento dell’art 117 per significare e giustificare l’impatto che le fonti comunitarie hanno
nell’ordinamento interno, mentre l’art 117 riguarda esclusivamente il comportamento del legislatore, chiedendo al
legislatore di rispettare tra i vari parametri anche le fonti dell’ordinamento dell’Unione Europea.
E la Corte costituzionale, nella giurisprudenza più recente, ci tiene anche ad operare una distinzione molto netta fra il
diritto dell’Unione e qualsiasi altro obbligo internazionale. Anche gli altri obblighi internazionali sono parametri di
legittimità delle leggi. Qualsiasi trattato internazionale, dal 2001 in poi, è un parametro di legittimità delle leggi dello
stato, risultato cui è arrivata la nostra Corte costituzionale con due sentenze importanti, le sentenze gemelle del 2007 n
348, 349 che arrivavano a questo risultato riferendosi a quale fonte particolarmente importante, quale trattato? La
Convenzione europea dei diritti dell’uomo che segue un destino diverso rispetto al diritto dell'UE La legge interna
incompatibile con la CEDU, se non è possibile interpretare in maniera conforme alla Convenzione europea, deve essere
rimossa dalla Corte costituzionale perché in quel caso l’art 117 opera nella maniera tradizionale, classica cioè quella di

141
fungere da parametro di legittimità costituzionale delle leggi e il nostro sistema di controllo di legittimità costituzionale
delle leggi è un controllo accentrato e quindi se il giudice di Napoli si trova di fronte una legge nazionale che ritiene
incompatibile con la Convenzione europea non potrà utilizzare il meccanismo proprio dell’ordinamento dell’Unione, cioè
disapplicare la legge. Dovrà necessariamente chiedere l’intervento della Corte costituzionale così come avviene per
qualsiasi altro caso di conflitto di una norma costituzionale.
C’è stato però un momento in cui le cose non erano così chiare.
Alcuni giudici avevano preso un po’ la mano nella disapplicazione e quindi c’era stato un filone giurisprudenziale che
estendeva il meccanismo della disapplicazione anche ai rapporti con la CEDU mentre noi sappiamo che la CEDU non
appartiene all’ordinamento dell'UE La CEDU appartiene ad un’altra organizzazione internazionale che si chiama
Consiglio d’Europa e che quindi segue delle sorti diverse sia dal punto di vista della produzione normativa che circa
l’impatto sulle fonti nazionali. La confusione in realtà era giustificata dal fatto che c’è una norma nel TUE, l’art 6 che è
particolarmente complicata, quella che riguarda la tutela dei diritti fondamentali.
L’art 6 prevede 2 cose che possono creare confusione. La prima è che è previsto che l'UE aderisca alla Convenzione
europea dei diritti dell’uomo. Il fatto che un Trattato dica “l'UE aderisce alla..” non vuol dire che l’adesione sia già
avvenuta, come sappiamo l’adesione è ancora in corso, il negoziato è particolarmente complicato, ma porta questa
disposizione un evento che non si era ancora realizzato, ci sarà l’adesione dell'UE alla Convenzione europea, allora a quel
punto la Convenzione europea diventerà una fonte di diritto dell'UE come qualsiasi trattato internazionale concluso
dall’Unione, ma questo non è ancora avvenuto.
Poi c’è un’altra disposizione nel par.3 dell’art 6 che anch’esso è particolarmente capace di produrre confusione, perché
mantiene il meccanismo precedente alla Carta, meccanismo per cui i diritti fondamentali fanno parte dell’ordinamento
dell’Unione in quanto principi generali del diritto. Vi ricorderete che prima della scrittura dei diritti fondamentali dell'UE
attraverso la Carta di Nizza, la tutela di questi diritti avveniva comunque nell’ordinamento dell’Unione attraverso
l’utilizzo di una fonte non scritta, i principi generali di diritto.
Nonostante l’intervento della Carta dei diritti fondamentali, nonostante la Carta abbia ottenuto con il trattato di Lisbona la
qualifica di fonte primaria nell’ordinamento dell’Unione rimane nel testo dell’art 6 questo riferimento alla tutela dei diritti
fondamentali attraverso i principi generali del diritto ricavati dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e la
dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Qualcuno ha detto guardate la Convenzione europea è espressamente citata, quindi fa parte del sistema, la sua violazione
da parte dello Stato membro comporta una violazione dell’art 6 e quindi il rimedio della disapplicazione. Anche questa
non era corretta perché l’art 6 si limita a indicare i parametri di ricostruzione dei principi generali del diritto dell'UE che
comunque trovano applicazione soltanto laddove la fattispecie in questione sia coperta dal diritto dell’Unione; quindi se
una fattispecie rientra in campo d’applicazione del diritto dell’unione europea deve essere garantita la tutela dei diritti
fondamentali ricavati anche dalla Convenzione europea, ma come principi generali del diritto dell’Unione. Quindi non
qualsiasi ipotesi di conflitto tra la legge interna e la legge dell'UE porta alla disapplicazione, se ad esempio questa
fattispecie interviene in una materia non disciplinata dal diritto dell'UE , se invece la materia è disciplinata dal diritto
dell'UE si applica la Carta per garantire la tutela dei diritti fondamentali e al di là della Carta, anche per garantire una
forma di aggiornamento di questi diritti, si può far riferimento ai principi generali del diritto ricavati dalle tradizioni
costituzionali comuni, ma anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, tutto ciò però deve avvenire, qui sta il
confine, per le fattispecie coperte dal diritto dell'UE, cioè per le materie in cui l'UE possiede competenza. Tutto il resto
no.
Per farvi un esempio, arrivò qualche anno fa alla Corte di giustizia una questione di interpretazione sollevata da un
giudice amministrativo che riguardava la disciplina della Regione Sicilia sulla legittimazione, sulla candidabilità dei
soggetti non residenti nel territorio regionale. La legge regionale della Sicilia impone che la candidatura al Consiglio
regionale sia riservata ai soggetti residenti nel territorio dell’isola. In un caso che evidentemente riguardava un soggetto
che non lo era, ma che voleva comunque candidarsi, il giudice amministrativo della regione Sicilia ha pensato di rivolgere
un quesito pregiudiziale alla Corte di giustizia chiedendo se questo fosse compatibile con il diritto comunitario, invocando
come parametri la Carta dei diritti fondamentali, il diritto all’elettorato passivo che comunque c’è nella Carta e la
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La risposta che ha dato la Corte di giustizia è nel senso della irricevibilità dei
requisiti in quanto sollevati al di fuori del campo di applicazione dei diritti dell'UE che non si occupa di elezioni regionali.
Quindi un’ipotesi del genere come si risolve? Non attraverso il diritto comunitario, la Corte di giustizia è incompetente e
il sistema della disapplicazione non può operare, ma se si ritiene che questa disposizione abbia un profilo di
incompatibilità con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la soluzione quale sarà? Rivolgersi alla corte
costituzionale invocando l’art 117 come parametro.

Chiudiamo il capitolo che riguarda l’attuazione del diritto dell’UE nell’ordinamento interno e ci occupiamo ora in
particolar modo dell’ordinamento italiano ed i meccanismi che il nostro ordinamento prevede per dare esecuzione agli
obblighi imposti dal diritto dell’unione. Questo è un problema di carattere generale che non riguarda solo il nostro paese
perché in tutti gli ordinamenti nazionali si pone il problema della corretta attuazione del diritto dell’unione così come si
pone il problema di disciplinare la fase ascendente,cioè si pone il problema dell’individuazione dei meccanismi che
consentono un’efficace partecipazione delle istituzioni nazionali alla elaborazione delle fonti di diritto dell’UE.

142
Si parla di fase ascendente e fase discendente proprio per significare due diverse esigenze:quella di partecipare in maniera
efficace ed informata al processo di formazione delle fonti di diritto dell’UE (fase ascendente) e di trovare dei meccanismi
che consentano una rapida attuazione delle regole elaborate dalle istituzioni dell’unione nell’ordinamento interno.
Ovviamente l’attuazione delle regole dell’UE avviene con il coinvolgimento delle istituzioni nazionali;è sempre stato così
per quanto riguarda il consiglio. Il consiglio è un’istituzione composta dai rappresentanti degli stati a livello
interministeriale quindi sono i rappresentanti di ogni singolo stato membro che partecipano alle riunioni del consiglio ed
esprimono una posizione rispetto ad una proposta normativa presentata dalla Commissione. Il problema che si pone è
come si esprime questa posizione,chi la elabora e quali soggetti vengono coinvolti in maniera da far si che questa
posizione, espressa in sede di consiglio, sia il più possibile il frutto di una elaborazione condivisa tra vari soggetti
interessati quindi non solo il governo ma anche altri soggetti quali il Parlamento;le regioni che sulla base del sistema di
ripartizione delle competenze hanno delle competenze che riguardano anche le materie affidate all’UE e quindi
partecipano non solo alla fase dell’attuazione ma anche alla fase dell’elaborazione.
Nel nostro ordinamento queste due esigenze trovano disciplina in un’unica legge che è particolarmente importante da
questo punto di vista :è la legge 234/12 che è il punto di arrivo di una serie di altre esperienze normative che abbiamo
conosciuto fin dagli anni70 con le prime regole relative alle competenze stato-regioni,ma che poi hanno avuto il culmine
in un primo momento nella legge 86/89 (legge la Pergola )che è la prima legge che si pone il problema generale di
disciplinare i meccanismi di partecipazione di questi soggetti alla fase di elaborazione delle fonti comunitarie e la
tempestiva attuazione delle regole comunitarie per evitare i procedimenti di infrazione e oggi abbiamo anche la
responsabilità patrimoniale dello stato.
La legge la Pergola è stata poi modificata e sostituita nel 2005 dalla legge 11 e oggi ulteriormente sostituita dalla legge
234/12 che è il nostro punto di riferimento principale. Già dal titolo della legge capiamo che ha un’ambizione molto
ampia:le norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione ed attuazione delle normative delle politiche
dell’UE.
L’art 1 ci dice che questa legge disciplina il processo di partecipazione dell’Italia alla formazione delle decisioni e alla
predisposizione degli atti dell’Ue e garantisce l’adempimento degli obblighi e l’esercizio dei poteri derivanti
dall’appartenenza dell’Italia all’UE in coerenza con gli art 11 e 117 Cost. sulla base dei principi di
attribuzione,sussidiarietà,proporzionalità ecc ecc. Quindi 2 diversi obiettivi di questa legge. Nel 1titolo ci si occupa della
fase ascendente ,fase ascendente in cui si cerca di coinvolgere il parlamento attraverso una serie di obblighi di
informazione imposti al governo nei confronti del parlamento che gli rendono possibile sapere ciò che sta avvenendo. Ad
esempio quando la Commissione ritiene di dare inizio ad un procedimento legislativo attraverso un libro bianco
(documento che anticipa la volontà della Commissione di procedere con una nuova proposta legislativa e quindi ad
esempio mettono in piedi un meccanismo di consultazione riferito ai contenuti di questo intervento legislativo ),il governo
è tenuto a dare immediatamente informazione al Parlamento e a maggior ragione quando la Commissione presenta una
proposta normativa vera e propria. Questa proposta normativa viene rivolta al legislatore dell’Ue che sono Parlamento
europeo e Consiglio,il Governo ricevuta questa proposta è tenuto innanzitutto a darne notizia al Parlamento. Questa
disciplina che trovate in particolare nell’art4della legge 234,oggi si sovrappone ad un’altra disciplina di origine
comunitaria che è quella che coinvolge i Parlamenti riferita però ad un singolo aspetto e cioè alla partecipazione dei
parlamenti nazionali nella procedura del rispetto del principio di sussidiarietà;ricordate che c’è un protocollo allegato ai
trattati che attribuisce ai parlamenti nazionali un ruolo attivo già nella fase dell’elaborazione degli atti normativi dell’Ue
allo scopo di vigilare sul rispetto del principio della sussidiarietà cioè quel principio che richiede all’unione di giustificare
il suo intervento in quanto più efficace rispetto a quello dei singoli paesi membri. È in sostanza un giudizio di efficacia
che è rimesso alle istituzioni dell’unione nel momento in cui elabora una nuova proposta normativa ma che dopo Lisbona
prevede un diretto coinvolgimento,già nella fase elaborativa dell’atto,dei parlamenti nazionali. Già nel protocollo
sull’applicazione del principio di sussidiarietà è previsto che la commissione invii le proprie proposte normative non più
solo al Consiglio e al Parlamento Europeo ma anche ai parlamenti nazionali. Quindi la disciplina della legge 234 in
sostanza riprende quello che già abbiamo nel protocollo sulla sussidiarietà che però in quel contesto del protocollo è
riferito soltanto al principio di sussidiarietà.
Cosa può fare il parlamento una volta reso edotto da quello che sta avvenendo a livello comunitario?
Può,innanzitutto,chiedere al governo di negoziare,di decidere insieme la posizione da esprimere in sede di
consiglio;quando l’Italia deve decidere cosa fare rispetto ad una proposta normativa della commissione si tratta di
elaborare una posizione da esprimere in Consiglio che può avere come contenuto l’accettazione della proposta,la modifica
o la reiterazione e l’Italia si presenta attraverso il ministro competente ad esprimete la sua posizione. Questa posizione in
base alla legge 234 art4 deve essere condivisa il più possibile,cioè deve essere il frutto di consultazione con le camere. Il
Parlamento può anche chiedere al Governo di esprimere la cosiddetta riserva parlamentare in sede di consiglio cioè
chiedere al consiglio di sospendere il voto su una determinata proposta della commissione fintanto che il Parlamento
nazionale non sia espresso sul contenuto di questa proposta,cioè il governo si presenta al consiglio dicendo che il nostro
parlamento non ha ancora elaborato la sua posizione su questa proposta e quindi esprime una riserva sul contenuto di
questa proposta che verrà sciolta solo quando avrò delle indicazioni dal parlamento. Quindi il governo rallenta l’esame di
questa proposta fintanto che le proprie camere non abbiano espresso una posizione. Questa riserva di esame parlamentare
la troviamo disciplinata all’art10della legge234 .”ciascuna camera ,quando abbia iniziato l’esame di progetto e di atti di
cui all’art 6co1,può chiedere al governo di apporre in sede di consiglio dell’Ue la riserva di esame parlamentare sul
progetto o atto in corso d’esame. In tal caso il governo può procedere in attività di propria competenza per la formazione

143
dei relativi atti dell’UE soltanto a conclusione di tale esame o comunque nel corso del termine di 30giorni
dall’espressione della riserva. Quindi quello che la riserva parlamentare comporta è di vietare al governo di esprimere la
posizione dell’Italia fino alla conclusione dell’esame parlamentare della proposta. Se però il termine previsto di 30giorni
trascorre,il consiglio deciderà a prescindere dalla posizione del governo italiano. In caso di particolare importanza
politica,economica e sociale degli atti di cui all’art6,il Governo può apporre in sede di consiglio dell’UE una riserva di
esame parlamentare sul testo o su una parte di esso;in tal caso il governo invia alle camere il testo sottoposto alla
decisione affinché su di esso si esprimano i competenti organi parlamentari. Ad esempio pensate ad una nuova direttiva
sui rapporti di lavoro;qui si vuole coinvolgere il parlamento. Ricordate che una delle obiezioni che è stata sempre posta è
stata quella del deficit democratico cioè della mancanza nel sistema istituzionale dell’Ue di una presa di posizione da
parte di organismi espressione della volontà del popolo dei paesi membri. Posto che il Parlamento europeo non è
equiparabile ai parlamenti nazionali e posto che gli stati membri intervenivano nella formazione degli atti ma
esclusivamente attraverso la posizione del governo,è sembrato più utile coinvolgere subito il parlamento e non mettere di
fronte ad atti già compiuti dal governo e che nei confronti dei quali non ha più possibilità di incidere. È tutto molto
indiretto perché il Parlamento italiano incide sulla posizione del governo italiano che a sua volta potrebbe essere in
minoranza in consiglio ,quindi non è scontato che ciò che elabora il governo italiano sia riflesso nel contenuto di un
atto ,però si da almeno la possibilità di partecipare. Alcuni parlamenti sono particolarmente sensibili a questa possibilità
offerta già dai trattati istitutivi grazie ad una disciplina completa delle loro possibilità di intervento. Da noi abbiamo la
disciplina che vi ho detto che nella prassi ha il suo successo,nel senso che il Parlamento ritiene di dover incidere sulla
posizione del governo italiano,ha a disposizione dei poteri molto chiari affidati dalla legge 234. questo vale anche
laddove le regole di adozione degli atti da parte dell’UE prevedano la possibilità per un paese membro di obiettare la
propria mancanza di condivisione attraverso un meccanismo che troviamo applicabile soltanto in alcuni contesti,in
particolare nel contesto dello spazio di libertà,sicurezza e giustizia cioè quello del cosiddetto “freno d’emergenza”. È
quella procedura che consente ad uno stato di bloccare l’adozione di una delibera, nonostante la delibera possa essere
adottata a maggioranza qualificata,se ritiene che questa delibera incide in maniera negativa sugli interessi nazionali nel
settore dello spazio di libertà sicurezza e giustizia. Quindi ad esempio anche nel settore della cooperazione civile. Il piano
di emergenza può essere attivato da uno stato,è ovvio che sarà il governo ad esprimere la posizione e quindi a decidere se
attivarla o meno.
Art 12 legge 234 richiede al Governo di tener presente la posizione delle camere e quindi di intervenire attraverso il piano
di emergenza ogni qual volta le camere glielo chiedano. Le camere adottano un atto di indirizzo che ha in sostanza
l’effetto di richiedere al governo di attivare questo meccanismo e quindi sono le camere che esprimono le esigenze
nazionali che giustificano il blocco delle procedure di adozione di un atto legislativo . è poi richiesto di informare il
parlamento anche delle procedure giurisdizionali che coinvolgono l’Italia ,siamo nel contesto del procedimento
d’infrazione. Anche qui l’art 14legge 234 richiede al governo di informare il parlamento sull’esistenza di procedimenti di
infrazione o di pre-infrazione. Le procedure di infrazione sono gestite a livello nazionale dal governo,in particolare nel
nostro ordinamento sono gestite dal dipartimento delle politiche europee funzionante presso la presidenza del consiglio.
Le procedure di infrazione possono avere ad oggetto anche scelte normative effettuate o meno dal nostro paese. In questo
contesto vengono in rilievo anche le esigenze delle regioni;le regioni sono tenute senz’altro a dare esecuzione agli atti
normativi dell’UE attraverso il loro coinvolgimento secondo il meccanismo codificato dalla legge 234 che prevedono
che,laddove la materia di procedura legislativa in itinere da parte delle istituzione dell’UE si concentri su una materia di
competenza concorrente,è giusto che le regioni abbiano la possibilità di partecipare all’elaborazione in due modi:sia
attraverso l’utilizzo della conferenza tra stato e regioni che prevede delle riunioni periodiche finalizzate all’elaborazione
di posizioni comuni,sia attraverso l’inserimento di rappresentanti regionali nella delegazioni italiana presso il consiglio.
Quindi a discutere in sede di consiglio,la posizione che questa istituzione assume nei confronti della proposta
normativa ,dalla parte italiana ci sono anche i rappresentanti delle regioni portavoce di interessi regionali che non
necessariamente coincidono con quelli statali.

2 Dicembre 2014

Giunge a conclusione il discorso relativo alle procedure della L. 234/2012 dedicate questa volta alla fase discendente
(abbiamo già detto che questa legge ha portata ampia, si occupa sia di procedure che portano all’elaborazione della
formazione italiana nel momento della formazione degli atti comunitari, e sia delle procedure che portano il nostro
ordinamento ad adeguarsi agli obblighi previsti dall’ordinamento dell’Unione, cd. fase discendente).
Sempre nella fase discendente le disposizioni della legge 234 sono quelle contenute nel capo VI, “adempimento degli
obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”. Queste disposizioni hanno una storia molto più lunga
in quanto in buona parte, derivano da procedenti legislativi precedenti. Il primo atto legislativo che si occupasse di questa
materia, è la legge La Pergola 86/89, dal nome del ministro delle politiche comunitarie che ha firmato il disegno di legge.
L’obiettivo qual’era?, allora come oggi, quello di codificare delle procedure ristrette il più possibili veloci per l’attuazione
degli obblighi imposti dall’ordinamento dell’Unione, nel rispetto dei principi costituzionali, e nel rispetto del principio
della sovranità del parlamento in sede di formazione degli atti legislativi.

144
Si è cercato allora di conciliare queste due esigenze: quella di smentire le procedure ed imporre il più possibile dei tempi
prestabiliti dall’adozione degli atti normativi di attuazione delle norme comunitarie, e dall’altro però garantire la
partecipazione informata del Parlamento, anche in questa fase, sia pure attraverso dei meccanismi che prendono in
considerazione il fatto che il recepimento di norme comunitarie comporta l’inserimento nel nostro ordinamento di
norme di fatto, già adottate con il buon senso dello stato italiano.
È anche ingiustificato il fatto che nella fase discendente si adottino delle regole più conformi all’obiettivo di una
maggiore velocità, in quanto si tratta comunque di provvedimenti legislativi dell’Unione, come le direttive, che sono già
state oggetto di un procedimento legislativo dinanzi al legislatore dell’Unione. Non si tratta di nuovi provvedimenti,
stiamo palando sempre di un provvedimento di attuazione di norme dell’ordinamento europeo già esistenti.
Questo problema si pone soprattutto per le direttive, e regolamenti, ma in questo secondo caso, solo quando è il
regolamento stesso a richiedere l’intervento da parte degli Stati (molto spesso questo non è previsto), e può succedere per
le decisioni, quando necessitino anch’esse di un intervento attuativo.
Può succedere però che il problema di adeguamento alle regole dell’Unione derivi non da un atto legislativo, ma da una
valutazione generale della conformità del nostro ordinamento alle regole di unione europea. Vale a dire che può risultare,
anche a distanza di molti anni, che in merito all’adozione di una legge, che questa legge interna non sia conforme alle
regole dell’UE. Questa mancanza di conformità viene evidenziata dalle sentenze della Corte di Giustizia, che operano al
fine di evitare la presenza di norme incompatibili, depurando l’ordinamento di appartenenza. A tal fine si è pensato, con la
legge 86/89 di utilizzare un meccanismo ad hoc, nei procedimenti legislativi, che ha avuto il suo successo e la sua
efficacia. Vale a dire il SISTEMA DELLA LEGGE COMUNITARIA ANNUALE, provvedimento legislativo che
annualmente si occupa di consentire all’ordinamento italiano di stare al passo con quello comunitario, e non occupare le
prime posizioni della classifica tra gli Stati in difetto. Vi è un’esigenza di tempestivo adeguamento, che serve anche allo
Stato italiano per evitare procedimenti d’infrazione e azioni di risarcimento, in base al principio della responsabilità
patrimoniale dello Stato, per violazione del diritto dell’Unione. Vi era l’esigenza di un intervento tempestivo, e di dare
immediata attuazione alle direttive che nel frattempo venivano adottate dal legislatore dell’Unione, ma anche di
intervenire laddove fosse necessario, in presenza di situazioni di difformità all’esito di una verifica che le amministrazioni
erano tenute a svolgere annualmente sullo stato di conformità dell’ordinamento nazionale rispetto alle norme dell’Unione.
Il sistema della legge comunitaria annuale era concepito in manieri da affidare alla presenza del consiglio o al ministro
delle politiche comunitarie, il compito di presentare entro una data prefissata dalla legge (28 febbraio di ogni anno), un
disegno di legge, che contenesse i provvedimenti necessari per quell’anno solare al fine di consentire la corretta
attuazione degli obblighi comunitari.
Ovviamente il disegno di legge, in quanto tale, richiedere l’approvazione del Parlamento e per quello si prevedeva un
percorso più agevolato e rapido per consentire alle due Camere di intervenire più velocemente, rispetto ad un testo già
confezionato, finalizzato al recupero rispetto all’adempimento di obblighi comunitari. Questo meccanismo, pur non
esente da critiche, ad esempio in riferimento al fatto che ci si trova di fronte ad un testo di legge già fatto, qualcuno ha
contestato il fatto che per queste scelte cosi delicate si adottassero atti che non fossero caratterizzati da un completo
coinvolgimento del Parlamento.
Però di fatto questo sistema è riuscito a ridurre la cronica inadempienza da parte dell’ordinamento italiano rispetto agli
obblighi comunitari, e ha avuto una costante applicazione successiva. Anche se comunque oggetto di piccoli interventi
che fanno si che oggi, la disciplina compiuta del meccanismo di adeguamento del nostro ordinamento agli occhi dell’UE,
preveda sostanzialmente un meccanismo analogo, per cui sia lo stato, sia nelle materie di loro competenza le regione e le
province autonome, sono chiamate per assicurare tempestivamente il rispetto degli obblighi comunitari in particolare
quelli derivanti da direttive e da altri obblighi.
E questo avviene innanzitutto attraverso l’informazione di tutti i soggetti dell’esistenza di un nuovo obbligo, il che è
abbastanza semplice perché si tratta dell’adozione di un atto normativo. Se si adotta una direttiva, le direttive dell’unione,
in quanto atti vincolanti devono essere pubblicate nella Gazzetta ufficiale europea, quindi l’adozione di una direttiva non
può sorprendere nessuno. Le cose cambiano ad esempio per le decisioni, quando queste non sono pubblicate in gazzetta
ufficiale, le sentenze della corte di giustizia, e quindi la legge 234 richiede innanzitutto alla presidenza del consiglio, che
ha in mano il funzionamento di questi meccanismi, di informare le amministrazioni, e i ministeri competenti, nonché le
regioni e le province, dell’esistenza di questi obblighi. Un primo passaggio è quello della CORRETTA
INFORMAZIONE. All’esito di questa diffusione d’informazioni, ognuna di queste amministrazioni è tenuta a svolgere
una verifica dello stato di conformità dell’ordinamento interno, rispetto agli obblighi dell’Unione europea. Si raccolgono
le informazioni presso il dipartimento delle politiche europee, e questo porta alla negazione di un disegno di legge. Anzi
in realtà con la legge 234, all’esisto di questa verifica i disegni di legge sono diventati due.
Si è deciso di scindere quelle due esigenze (quella di tempestiva attuazione delle direttive e gli altri atti che richiedono un

145
provvedimento di attuazione, e l’esigenza di depurare l’ordinamento). Quindi adesso i disegni di legge diventano due.
Mentre prima queste due esigenze venivano riunite in un unico disegno di legge, adesso invece vengono scisse, e quindi il
Governo presenta alle camere due diversi disegni di legge: uno dedicato all’attuazione, DISEGNO DI LEGGE DI
DELEGAZIONE EUROPEA. Con questo disegno di legge, si prevede che l’attuazione delle direttive comunitarie
avvenga attraverso l’affidamento al governo di una delega legislativa. Il governo presenta un disegno di legge, alle
camere, che contiene una serie di deleghe legislative affidate dal Parlamento nuovamente al governo, e accompagnate da
principi e criteri direttivi che guidano l’attività di delegazione. L’altro, DISEGNO DI LEGGE EUROPEA, contiene
disposizioni finalizzate a dare immediata attuazione agli obblighi comunitari o ad abrogare e a modificare le norme
interne, se incompatibili con gli obblighi dell’Unione europea.
Quindi nel primo caso, il Parlamento, approvando il disegno di legge, affida al governo la delega legislativa per
l’adozione della legge, è un procedimento che non si conclude con l’adozione della legge, perché di fatto la vera
attuazione delle direttive avverrà nel momento in cui il governo darà attuazione alla delega. Nel secondo caso invece, gli
interventi di adempimento degli obblighi comunitari sono immediati, nel senso che la legge europea, se approvata dal
Parlamento, comporta immediatamente provvedimenti di attuazione di obblighi comunitari, oppure interviene per singole
ipotesi di modifica della legislazione preesistente. Questo è reso necessario dalla accertata difformità di questo
provvedimento legislativo con gli obblighi dell’Unione europea.
Tutto ciò viene esplicitato dagli artt. 30 e 31 del 234.
Art. 30: è dedicato ai contenuti della delegazione europea, e della legge europea. Entrambe assicurano tempestivamente e
in maniera costante ogni anno, l’adeguamento dell’ordinamento interno agli obiettivi dell’Unione. La disciplina si divide
a secondo del tipo di intervento. La legge di delegazione europea, ha soprattutto il compito di contenere le disposizioni
che non riescono ad avere la legislativa al governo. Questa è la più recente legge di delegazione europea adottata. Essa
contiene indicazione dei principi e criteri direttivi generali, e poi articoli dedicati in maniera esclusiva a singole direttive.
Ad es.: l’art 8 della legge 154/2014, conferisce delega al Governo, per il recepimento della direttiva n. 11/2013 sulla
risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori. Ovviamente l’effettivo recepimento si avrà solo nel momento
in cui il Governo avrà esercitato la delega.
La legge di delegazione, è soltanto l’attivazione di un meccanismo per dare attuazione alla direttiva, ma il risultato della
corretta attuazione, si realizzerà soltanto nel momento in cui il governo avrà dato attuazione alla delega. La delega deve
essere esercitata al massimo entro due mesi dalla scadenza del termine previsto dalla direttiva per il suo recepimento. Se il
termine è già scaduto, il termine si prolunga a tre mesi in cui il governo può adottarla.
In realtà attraverso la legge di delegazione, l’intervento del governo viene limitato all’adozione di decreti legislativi,
questo solitamente avviene quando la materia oggetto della direttiva è una materia coperta da riserva di legge, (riserva di
legge relativa, non assoluta, perché appunto si consente al Parlamento di delegare al governo ma sempre per atti che
hanno forza di legge).
Laddove invece la materia oggetto della direttiva non è coperta da riserva di legge, allora è possibile che l’attuazione
avvenga, se cosi dispone la legge annuale, attraverso un atto regolamentare, e ogni legge di delegazione contiene un
elenco delle direttive che possono essere recepite in via regolamentare. Qui Il Parlamento si priva volontariamente del
potere d’intervento, affidandolo completamente al governo, con la garanzia che questo possa avvenire se la legge
comunitaria lo prevede, quindi se il Parlamento lo sceglie, e se la materia in questione non sia coperta da riserva di legge.
Altro meccanismo che la legge di delegazione può utilizzare, citato all’art. 30 par.2 della l. 234, cioè il meccanismo della
DELEGIFICAZIONE.
Tale meccanismo, comporta che nelle materie non coperte da riserva di legge, ma già disciplinate con legge, il Parlamento
può decidere di consentire che la disciplina di quella materia avvenga attraverso provvedimento diverso dalla legge, cioè
provvedimento regolamentare. Questo vuol dire che la materia che fino a quel momento era coperta da un provvedimento
legislativo, viene successivamente affidata, perché cosi vuole il Parlamento, alla competenza del governo, attraverso
l’adozione di atti regolamentari.
La legge europea invece, ha un altro obiettivo, cioè quello di intervenire immediatamente con disposizioni modificative o
abrogative di norme già vigenti, che siano però in contrasto con l’obbligo di assicurare il pieno rispetto degli obblighi
comunitari. Quindi eliminazione/abrogazione di una disposizione nazionale, incompatibile con gli obblighi dell’Unione
europea.
Bisogna sempre tenere in mente, che se il conflitto non si realizza tra una fonte interna e una norma comunitaria dotata di
efficacia diretta, questo intervento di depurazione di aggiunge al meccanismo principe di rispetto degli obblighi
comunitari, che è quello dell’immediata disapplicazione della legge difforme da parte del giudice.
La legge europea, sempre secondo l’art. 30 par. 3, reca anche disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali
vigenti oggetto di procedimento d’infrazione avviato alla commissione europea nei confronti della repubblica italiana e di

146
sentenze alla corte di giustizia dell’Unione Europea. La questione qui diventa più delicata, perché non si pala solo di
sentenze della corte di giustizia, questo meccanismo viene esteso anche a casi in cui le disposizioni modificative e
abrogative, riguardino norme preesistenti oggetto di procedimento d’infrazione da parte della commissione. Perché qui le
cose sono più delicate? Perché evidentemente l’avvio di un procedimento d’infrazione da parte della commissione, non è
ancora una decisione. La commissione funge un po’ da pubblico ministero, accusa lo stato, ma non è detto che abbia
ragione. Non è detto che la sentenza debba essere diretta nella direzione in cui viene spinta dalla commissione, spesso è
così ma non sempre, può anche succedere che la corte di giustizia ritenga che lo Stato abbia ragione. Che quella disciplina
che la commissione ritiene incompatibile con il diritto dell’UE, sia di fatto corretta.
E questo è avvenuto ad es. qualche anno fa rispetto alla disciplina italiana delle tariffe professionali fra gli avvocati, in
una causa in cui la commissione europea rimproverava al governo italiano di aver mantenuto in vigore delle vecchie
disposizioni, nel frattempo abrogate, che imponevano agli avvocati delle tariffe massime, che non consentivano di andare
oltre un tetto massimo fissato dal decreto ministeriale. La commissione europea riteneva che quel provvedimento fosse
contrario alle regole dei trattati in materia di libera circolazione e servizi anche ai principini concorrenza, mentre quello
italiano sosteneva che si trattasse di una disciplina che pur essendo limitativa della concorrenza, perché non consente ai
professionisti di giocare sul prezzo, era giustificata dal tentativo di tutela, e dalla certezza. La corte di giustizia dà ragione
all’Italia.
Nell’art. 31, si indicano quali sono i tempi. Non si può imporre nel al governo e ne al Parlamento il rispetto di tempi
prefissati, ovviamente le esigenze che stanno dietro la disciplina di cui stiamo parlando, vorrebbero un comportamento da
parte delle nostre istituzioni più possibile rispettoso di questi termini. Altrimenti bisogna fare i conti con una serie di
complicazioni. Molto spesso, quindi, non essendo facile da rispettare, la tempistica non trova poi corrispondenza nel
comportamento delle istituzioni.
La legge 234, indica anche, rispetto alle leggi di delegazione, quali sono i principi, a cui sono state apportate delle
modifiche. In particolare all’art. 32 comma 1 lett. C, afferma che se una direttiva presenta una disciplina a regime, ma la
possibilità anche per gli stati membri di adottarne una diversa, che preveda però un livello di regolamentazione più
intenso, quindi maggiori oneri a carico dei soggetti destinatari di questa disciplina, nell’attuazione di questa direttiva,
attraverso il decreto legislativo, il governo non potrà andare oltre il livello minimo.
Es.: direttiva dell’UE che disciplina i servizi televisivi, e tra le altre cose prevede una disciplina relativa agli affollamenti
pubblicitari, e impone alle reti televisive un tetto massimo di affollamenti a tutela dell’utente consumatore. In una
determinata ora di orologio, non si potrà andare oltre il 20% della pubblicità. La stessa direttiva prevede che gli stati
membri possano derogare a questo limite di affollamento con delle disposizioni più severe, maggiormente penalizzanti,
sostituendo ad esempio, il 20% con una percentuale inferiore.
Una direttiva che propone una forma di armonizzazione minima, che però gli stati membri possano derogare con dei
provvedimenti legislativi più rigorosi. Ecco questi comportamenti che alcune direttive autorizzano, non potrebbero essere
consentiti nel nostro ordinamento, in base a queste disposizioni, in cui si chiede al Governo l’attuazione di una direttiva
attraverso l’adozione di un testo legislativo, di non andare oltre i livelli di regolamentazione fissati come base. E’ un
modo per evitare che in sede di attuazione di una direttiva comunitaria, s’impongano agli operatori italiani degli oneri
maggiori rispetto a quelli che il legislatore comunitario vuole che siano rispettati, ogni qual volta le direttive comunitarie
consentano questi comportamenti.
Vi sono anche direttive comunitarie che prevedono un’armonizzazione totale, evitando la possibilità agli stati membri di
discostarsi dai parametri indicati, la corretta attuazione della direttiva prevede esattamente l’applicazione delle stesse
previsioni della direttiva. Laddove la direttiva consente agli stati di derogare dall’armonizzazione, allora interviene nel
nostro ordinamento questa disposizione che richiede al governo di non farlo, mantenendo lo standard di armonizzazione
previsto dal diritto comunitario.
La prassi negli ultimi anni, ha fatto presente come in presenza soprattutto di ritardi nell’attuazione delle leggi comunitarie
annuali, che a volte si decide di intervenire con provvedimenti diversi. L’instaurazione di questo meccanismo della legge
comunitaria annuale, non è mai stato esclusivo, così da non ostacolare l’intervento fine solo ed esclusivamente alla
singola direttiva.
Questa situazione si viene a creare soprattutto laddove vi siano misure urgenti da adottare (art. 37) oppure in casi (art. 38)
di particolare importanza politica, economica e sociale, casi in cui il governo può presentare dei disegni di legge ad hoc
dedicati al singolo provvedimento normativo dell’UE. E’ la stessa legge 234 da un lato modifica il meccanismo della
legge annuale, ma lascia aperta la porta anche per interventi ad hoc consapevole del fatto che il meccanismo della legge
annuale se non seguito alla lettere può comportare addirittura dei ritardi.
La legge 234, si occupa anche di un problema particolarmente complesso, quello del coinvolgimento delle Regioni in
sede di attuazione del diritto dell’UE: le regioni delle province autonome. E’ complicato perché si tratta di mettere

147
insieme due esigenze tendenzialmente contrapposte: la prima, è quella di consentire alle regioni, dotate di competenze
legislative proprie nelle materie di competenza concorrente, della possibilità di occuparsi dell’attuazione degli obblighi
comunitari nelle materie di loro competenza, e dall’altro di garantire il rispetto degli obblighi comunitari sulla base del
principio per cui a rispondere nei confronti dell’Unione è sempre lo Stato.
Sono delle esigenze di UNITARIETA’, RISPOSTA all’unione europea nel rispetto degli obblighi da essa imposti, e
dall’altra, esigenze di FRAMMENTAZIONE, cioè di rispetto delle competenze delle regioni che possono essere
bypassate qualora l’attuazione delle direttive comunitarie nelle materie di competenza regionale sia affidata allo Stato, la
regione perderebbe completamente i suoi poteri, nonostante la Costituzione preveda delle loro competenze legislative.
Le regioni delle province autonome, nelle materie di propria competenza, provvedono al recepimento delle direttive
europee, a differenza della disciplina precedente dove questo compito era riservato allo Stato. Bisogna però trovare un
sistema per reagire all’inadempimento regionale, se le regioni vogliono questi poteri, bisogna che vi siano dei meccanismi
che operino in modo da evitare che lo stato si trovi inadempiente davanti all’UE per carenza di intervento.
Che cosa succede se le regioni non rispettano i termini? Intervengono i poteri sostitutivi dello Stato.
I provvedimenti di attuazione degli atti dell’Ue, possono essere adottati dallo Stato nelle materie di competenza legislativa
delle regioni a province autonome, al fine di porre rimedio all’eventuale inerzia dei suddetti enti nel dare attuazione ad
atti dell’Ue. In questi casi i provvedimenti adottati dallo Stato, trovano immediata applicazione al termine della scadenza
fissata.
Es.: facciamo l’esempio di una direttiva del 2011 da recepire entro il 2013, materia di competenza legislativa regionale,
questo meccanismo prevede che lo si stato di prepari a un eventuale adempimento di una o più regioni adottando misure
di attuazione, che possono rimanere inapplicate, se nel frattempo le regioni rispettano i doveri, e adottano i provvedimenti
di attuazione entro il termine previsto dalla direttiva.
Le misure sostitutive dello stato trovano applicazione soltanto se e nel tempo in cui le regioni sono inadempienti. Nel
caso, poi, in cui sia lo stato che le regioni siano inadempienti, non c’è nessuna legge che potrà sopperire a questo tipo di
inadempimento. E per rafforzare e responsabilizzare maggiormente le regioni, ma non solo, tutti gli enti pubblici, rispetto
all’adempimento degli obblighi comunitari, la legge 234 ha introdotto anche un diritto di rivalsa dello stato nei confronti
di questi soggetti. Lo stato può rivalersi nei confronti del soggetto inadempiente, rendendolo responsabile del danno
provocato. Vi è poi una disposizione della legge 234, che merita essere considerata perché potrebbe sembrare una
contraddizione con tutto quello che abbiamo detto: art. 58 l. 234 prevede che la legge stessa sarebbe assistita da una forza
di resistenza particolare, nel senso che secondo l’art. 58, le sue disposizioni non possono essere modificate o abrogate da
leggi successive se non in maniera consapevole, se non con una legge che espressamente la voglia modificare. Si cerca di
evitare che la disciplina di questa legge venga modificata o abrogata da leggi successive in maniera surrettizia o
involontaria.

148

Potrebbero piacerti anche