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Riassunto di "Elementi di

diritto dell'unione Europea.


Parte istituzionale." di Draetta
Diritto Dell'unione Europea
Università degli Studi di Milano
75 pag.

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ELEMENTI DI DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA
CAPITOLO I: LE ORIGINI E LO SVILUPPO DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA
1. Le spinte europeistiche del secondo dopoguerra e la nascita della CECA.
L’odierna UE e i trattati su cui essa si fonda rappresentano il punto d’arrivo di un graduale processo di
integrazione, che prende le mosse dal secondo dopoguerra. Quel periodo, influenzato dal pensiero di
uomini come Mazzini, Rousseau e Kant, era caratterizzato da fermenti unitari, alimentati essenzialmente
dalla percezione che due bisogni, sarebbero stati meglio soddisfatti da un’Europa federata piuttosto che da
singoli Stati europei. Tali bisogni erano quelli di: ricostruire le economie prostrate dalla guerra e di
proteggersi contro l’emergente imperialismo sovietico.
 Sotto il primo profilo, va ricordato che gli Stati Uniti avevano approvato nel 1947 il Piano Marshall,
e lo avevano condizionato ad una gestione congiunta da parte degli altri Stati Europei. Tale
gestione fu concretizzata attraverso l’istituzione della Organizzazione europea per la cooperazione
economica (OECE), a cui presero parte 16 Stati europei, ed il cui compito principale era di
amministrare gli aiuti del Piano Marshall, favorendone un’efficace distribuzione anche attraverso
la progressiva liberalizzazione degli scambi commerciali tra gli Stati membri. Tale organizzazione
diventò poi l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE).
 Sotto il secondo profilo, l’espansionismo sovietico mostrava in quegli anni tutta la sua pericolosità.
La “cortina di ferro” divideva l’Europa orientale (sotto il controllo sovietico) dall’Europa
occidentale (sotto il controllo degli USA). Come risposta all’imperialismo comunista, fu istituita la
NATO (Organizzazione del Patto dell’Atlantico del Nord), mentre dal 1947 un patto comune di
difesa (essenzialmente però in funziona antitedesca) legava Francia e Regno Unito. Tale patto, fu
poi esteso nel 1948 a Belgio, Olanda e Lussemburgo. Esso doveva poi divenire l’Unione
dell’Europa occidentale con l’adesione nel 1954 di Germania e Italia e successivamente altri Stati.
Aldilà del campo economico e militare, nel 1949 veniva istituito il Consiglio d’Europa,
un’organizzazione internazionale aperta a tutti gli Stati europei che si sentivano accumunati dagli
ideali di democrazia e libertà.
In risposta alle iniziative occidentali, il fronte orientale istituì il Consiglio di mutua assistenza economica ed
il Patto di Varsavia (come risposta alla NATO), ma furono entrambe disciolte a seguito della caduta del
muro di Berlino e del crollo dell’impero sovietico.
Il limite di tutte queste forme di organizzazione internazionale era quello di essere improntate al metodo
intergovernativo. Ciò significa che i componenti degli Stati membri decidevano sulla base dell’unanimità e
non potevano emettere atti vincolanti per gli Stati, né tantomeno per gli individui. Per fortuna, l’Europa
poteva contare in quel periodo sui “padri fondatori”: personalità di spicco e lungimiranti statisti come
Schuman, Adenauer, De Gasperi, Spaak, ai quali apparve ben presto chiaro che occorreva porre mano alla
creazione di una federazione europea, come garanzia pe scongiurare altre guerre fra Stati europei e per
assicurare uno sviluppo economico e sociale. A questo scopo era necessario creare delle strutture in grado
di operare con un metodo diverso dalla cooperazione intergovernativa classica, metodo cui si dette
successivamente il nome di metodo comunitario. Esso si caratterizza per l’adozione di decisioni
prevalentemente a maggioranza e per la possibilità di emettere atti vincolanti non solo per gli Stati, ma
anche direttamente per gli individui (a differenza del metodo intergovernativo classico). Il primo passo
verso il raggiungimento di tale obiettivo fu il rimuovere una delle cause del secolare conflitto fra Francia e
Germania: il controllo delle risorse carbosiderurgiche della Ruhr e dalle Saar. Il Piano Schuman del 1950,
a questo proposito sottopone il controllo della produzione carbosiderurgica ad un’Alta Autorità. La
dichiarazione di Schuman chiariva che le decisioni dell’Alta autorità sarebbero state vincolanti per tutti gli
Stati membri (oltre che per Francia e Germania) e inoltre, si precisava che la proposta era intesa a gettare le
basi dell’unificazione economica. La repubblica federale tedesca e l’Italia aderirono subito all’iniziativa.
Il Regno Unito, invece, rifiutò, scegliendo di mantenere il regime che lo legava ai Paesi del
Commonwealth e contro strutture internazionali che potessero compromettere la sua sovranità. I Sei
firmarono quindi a Parigi il Trattato della CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio). Il trattato
presentava dei caratteri di assoluta novità ed ebbe una durata di 50 anni.

2. Dalla CECA ai Trattati di Roma: la nascita della CEE e della CEEA.


Sull’onda del successo della CECA, venne negoziato e firmato anche il Trattato istitutivo della Comunità
europea di difesa (CED), che si proponeva in sostanza la creazione di un esercito europeo. Tuttavia, il
processo di ratifica del trattato subì un brusco arresto, in quanto l’Assemblea nazionale francese decise di
non prendere parte alla discussione del Trattato.

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A seguito del fallimento della CED, riprese vigore l’idea del funzionalismo economico, secondo cui era
necessario procedere ad un’integrazione graduale delle economie per poter porre le basi di un’unione
politica. Il rapporto Spaak elaborava a questo proposito uno studio volto all’introduzione di un mercato
comune generale nel cui ambito dovessero poter circolare liberamente merci, persone, servizi e capitali. I
governi dei Sei approvarono il rapporto Spaak, così Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e
Olanda firmarono in forma solenne a Roma sia il Trattato istitutivo della Comunità economica europea
(CEE), che il trattato istitutivo della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA). Si fa comunemente
riferimento a questi trattati come Trattati di Roma. Anche in quest’occasione il Regno Unito rifiutò di
partecipare ai negoziati. La vocazione atlantica del Regno Unito infatti, lo facevano propendere per
soluzioni meno impegnative, inducendolo a preferire una zona di libero scambio ad un’unione doganale.
In coerenza con queste premesse, il Regno Unito pochi anni dopo promuoveva la creazione di una zona di
libero scambio, con la relativa istituzione della European Free Trade Association (EFTA). L’EFTA prevede
la graduale soppressione tra gli stati membri delle barriere doganali, ma non era espressamente concepita
in funzione anti-CEE; ma incarnava tuttavia la diversa concezione propugnata dal Regno Unito del livello
di integrazione economica. Attualmente gli Stati membri dell’EFTA sono solo Norvegia, Islanda,
Lichtenstein e Svizzera.
Quanto ai Trattati di Roma, la prima Comunità ha visto il suo nome modificarsi in Comunità Europea (CE) e
successivamente in Unione Europea (UE). Tali mutamenti del nome sono anche la conseguenza
dell’allargamento delle competenze dell’organizzazione a campi diversi da quello strettamente economico.

3. Le norme relative alla revisione dei Trattati


I trattati di Roma hanno subito molteplici modifiche. È pertanto opportuno descrivere quali sono
attualmente le norme relative alle procedure di revisione dei Trattati. Al riguardo, l’articolo 48 TUE
(Trattato sull’Unione Europea) prevede una procedura di revisione ordinaria e due procedure di revisione
semplificate.
 La procedura di revisione ordinaria inizia con un progetto di modifica dei Trattati che può essere
presentato dal governo di qualsiasi Stato membro, il quale lo trasmette al Consiglio europeo e lo
notifica ai Parlamenti nazionali degli Stati membri. Il Consiglio europeo, al ricevimento del
progetto di modifica, decide a maggioranza semplice sull’opportunità di procedere all’esame delle
modifiche proposte. Tale decisione deve essere adottata previa consultazione del Parlamento
europeo e della Commissione (nonché della Banca Centrale Europea in caso di modifiche
istituzionali che riguardino il settore monetario).
In caso di decisione favorevole del Consiglio europeo, il Presidente di quest’ultimo convoca una
Convenzione composta da rappresentanti dei capi di Stato o di governo degli Stati membri. Il
coinvolgimento della Convenzione permette che, almeno nella fase preparatoria, alla modifica dei
Trattati contribuiscano forme di rappresentanza democratica dei cittadini. Va precisato però che
il Consiglio europeo non è obbligato a convocare una Convenzione qualora non fosse necessario.
La Convenzione adotta una raccomandazione rivolta ad una Conferenza dei rappresentati dei
governi degli Stati membri (CIG, acronimo di conferenza intergovernativa), incaricata di stabilire
“di comune accordo”, e dunque all’unanimità, le modifiche da apportare eventualmente ai Trattati.
Le modifiche ai Trattati entrano in vigore dopo essere state ratificate da tutti gli Stati membri. La
procedura di revisione ordinaria sembra poter riguardare qualsiasi norma degli stessi, in particolare
possono essere tese “ad accrescere o ridurre le competenze”.
 L’articolo 48 TUE prevede anche due procedure di revisione semplificate, caratterizzate dal fatto
che non contemplano né la convocazione di una Convenzione, né di una CIG, e che il Consiglio
Europeo (in cui sono presenti i capi di Stato degli Stati membri) vi svolge un ruolo preminente.
La prima di tali procedure può solo riguardare le norme relative alle politiche e alle azioni interne
dell’Unione. Le modifiche che possono essere sottoposte a questa procedura sono adottate (su
proposta di qualsiasi Stato membro) dal Consiglio europeo che delibera all’unanimità. La
decisione del Consiglio entra però in vigore “previa approvazione degli Stati membri
conformemente alle rispettive norme costituzionali”.
La seconda procedura di revisione semplificata prevede due casi distinti. Il primo caso riguarda la
possibilità di sostituire il requisito dell’unanimità con quello della maggioranza qualificata per
quanto riguarda le decisioni che il Consiglio può prendere solo relativamente all’azione esterna
dell’UE e, in particolare, alla politica estera e di sicurezza comune.
Il secondo caso riguarda la possibilità, laddove il TFUE prevede che il Consiglio adotti atti

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legislativi secondo una procedura legislativa speciale, di sostituire tale procedura con la
procedura legislativa ordinaria.
In entrambi i casi, la relativa modifica del TFUE può essere adottata dal Consiglio europeo di sua
iniziativa con decisione presa all’unanimità, ma è necessaria la previa approvazione del
Parlamento europeo. Il testo infatti non può essere modificato se anche uno solo dei Parlamenti
nazionali notifichi entro 6 mesi la propria opposizione. Il silenzio dei Parlamenti entro il termine dei
sei mesi consente invece l’adozione della modifica.
In definitiva, le semplificazioni introdotte da entrambe le procedure di semplificazione consistono nel fatto
che la Convenzione non viene convocata e che la decisione del Consiglio europeo sostituisce la firma del
trattato di modifica dei membri del CIG. Sul piano pratico rimane il requisito dell’unanimità.
Oltre alle procedure di revisione menzionate, i Trattati prevedono alcune particolari procedure di modifica
relative a specifiche clausole, ma la dottrina generalmente lo esclude.

4. Le revisioni dei Trattati e il dibattito che le ha accompagnate: l’esigenza della cooperazione politica
e l’Atto unico europeo.
Le revisioni di tipo generale hanno avuto luogo in cinque occasioni. Le prime quattro revisioni sono quelle
intervenute con l’Atto unico europeo: con il Trattato di Maastricht (1993), il Trattato di Amsterdam (1999),
il Trattato di Nizza (2003) e il Trattato che adotta una costituzione per l’Europa (2004) che però, non è mai
entrato in vigore. Infine, la quinta e ultima revisione è avvenuta con il Trattato di Lisbona (2007).
Dopo solo pochi anni dalla firma dei Trattati di Roma il funzionalismo economico che si era scelto come
metodo per procedere all’integrazione europea, cominciava a mostrare i propri limiti. Risultava infatti
difficile perseguire efficacemente gli obiettivi di integrazione economica senza avere il potere di
coordinare le politiche economiche degli Stati membri, dovuto alla stretta interdipendenza dei vari settori
dell’economia. Diventava necessario anche un coordinamento nel campo della politica estera e di difesa.
Si fece quindi strada la necessità di una cooperazione a livello politico tra gli Stati membri. A questa
esigenza si contrapponeva la riluttanza degli Stati membri ad accettare la perdita di sovranità che
avrebbe comportato. Subentrava un lungo periodo di ricerche di formule, al fine di rispettare gli interessi
degli Stati membri (al mantenimento del loro potere sovrano) e al tempo stesso accogliendo quel minimo di
istanze che l’opinione pubblica potesse interpretare come progresso verso l’integrazione politica. Gli sforzi
si conclusero con la proposta di convocare una conferenza intergovernativa (Rapporto Dooge) che aveva
l’incarico di istituire entro il 1992 un mercato interno e la cooperazione in materia di politica estera e
difesa tra gli Stati membri. Tale proposta su presentata al Consiglio europeo che si tenne a Milano. I lavori
si conclusero con la firma del trattato denominato Atto unico europeo (AUE), che va ricordato soprattutto
per aver posto come obiettivo primario l’instaurazione progressiva di un mercato interno, attribuiva alla
CEE nuove competenze e affiancava alle Comunità europee una cooperazione in materia di politica estera.

5. Il dibattito sul deficit democratico, sull’unione economica e monetaria e sulle modifiche istituzionali
richieste dall’allargamento.
Il dibattito sui temi fondamentali dell’integrazione europea proseguì mettendo a fuoco essenzialmente due
problemi:
- Il difetto di legittimità democratica nel processo decisionale (deficit o gap democratico)
- La improrogabilità di una effettiva unione economica e monetaria, da realizzarsi attraverso la
creazione di una moneta europea unica.
Sotto il primo profilo, quello del deficit democratico si allude al fatto che atti di natura sostanzialmente
legislativa e quindi da applicarsi direttamente ai cittadini, erano emanati da un organo, il Consiglio, da un
lato non eletto dai cittadini stessi e dall’altro, sottratto a un effettivo controllo politico parlamentare.
Quanto al secondo profilo, va ricordato che la costruzione comunitaria si fondava sull’instaurazione del
mercato comune, mentre gli Stati membri restavano liberi di gestire le loro politiche economiche e
monetarie come meglio credevano. Una tale costruzione risultava però squilibrata anzitutto sul piano
economico, in quanto le due dinamiche risultano conciliabili solo in determinati periodi e gli Stati
economicamente più deboli si vedranno costretti ad introdurre misure di tipo protezionistico, ovviamente
incompatibili con l’idea stessa di mercato comune.
I due temi sull’integrazione politica e l’unione economica confluirono nei lavori paralleli che si conclusero
con il Trattato sull’ Unione Europea (TUE) firmato a Maastricht (1992). Esso provvedeva a istituire
l’Unione Europea (UE), strutturata secondo quelli che si chiamarono i tre pilastri: il termine racchiudeva
infatti il complesso:

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1. Delle relazioni delle Comunità esistenti
2. Della politica estera e di sicurezza comune
3. Della giustizia e affari interni.
Il secondo e terzo pilastro erano ancora espressione del metodo intergovernativo, anziché di quello
comunitario del primo pilastro. La forma a tre pilastri è stata poi abolito dal Trattato di Lisbona.
Nell’intento di affrontare il deficit democratico, il Trattato di Maastricht rafforzava i poteri del Parlamento
europeo (prevedendo una codecisione tra il Parlamento europeo e il Consiglio) ed introduceva la nozione di
cittadinanza europea. Inoltre, estendeva le competenze della Comunità economica europea (CEE) ad altri
ambiti come ad esempio la sanità pubblica, istruzione, cultura... trasformandola così in Comunità Europea
(CE). Il Trattato di Maastricht va ricordato però per aver introdotto in tre tappe la moneta unica, in seguito
chiamata euro. Accanto al persistente problema del deficit democratico, vi era l’esigenza di rivedere il
processo decisionale, rendendolo più efficace, trasparente e democratico, in previsione dell’allargamento
dell’Unione a una serie di nuovi Stati. Il Trattato di Amsterdam del 1997 introduce il nuovo Titolo
sull’occupazione, a controbilanciare l’approccio ritenuto eccessivamente mercantile dimostrato con
l’introduzione della moneta unica, nonché la “comunitarizzazione” in merito a visti, asilo e immigrazione. Il
Trattato di Amsterdam ha anche operato una semplificazione dei Trattati. I temi irrisolti dal Trattato di
Amsterdam si ripresentarono nel Trattato di Nizza, ma nemmeno quest’ultimo ha risolto il problema del
deficit democratico.

6. La Convenzione sul futuro dell’Europa, la “Costituzione europea” e il Trattato di Lisbona.


Il Consiglio europeo, nel dibattito sul futuro dell’Unione, ha provveduto ad istituire una Convenzione sul
futuro dell’Europa, dandole il compito di definire le principali linee per un progetto di revisione dei
Trattati. La successiva CIG ha raggiunto un accordo su un testo di Trattato che adotta una Costituzione per
l’Europa, a cui si fa generalmente riferimento come “Costituzione europea”. Tale Costituzione fu ratificata
da solo 18 Stati membri su 27 e quindi non è mai entrata in vigore. Decisivi sono stati i risultati negativi
del referendum in Francia e di quello tenutosi in Olanda. La Costituzione europea unificava in una sorta di
“testo unico” le norme relative ai 3 pilastri dell’UE fino ad allora esistenti. Per capire le ragioni di tale
fallimento occorre distinguere tra elementi formali ed elementi sostanziali del nuovo Trattato.
Sul piano formale va innanzitutto segnalato il termine “Costituzione”: il termine non implicava in alcun
modo un’evoluzione dell’UE verso uno Stato federale, in quanto la natura dell’Ue come forma di
collaborazione internazionale tra Stati sarebbe rimasta invariata. Ma la carica emotiva insita nel
riferimento ad una Costituzione ha finito con il generare delle aspettative e timori ingiustificati. Inoltre,
l’esito negativo del referendum francese e di quello olandese non va interpretato come consapevole rifiuto
del trattato. La procedura propria del referendum infatti è idonea ad esprimere un consenso o dissenso su un
quesito semplice; il testo in questione era invece articolato e complesso. Insomma, in nodi del deficit
democratico sono venuto a galla in occasione del referendum.
Sul piano sostanziale invece il Trattato era di natura del tutto simile ai precedenti trattati di revisione, senza
alcuna modifica rivoluzionaria. Preso atto dei risultati del referendum, il Consiglio europeo ha decretato
l’abbandono del progetto costituzionale. Al suo posto venne approvato il “Trattato che modifica il
Trattato sull’Unione europea che istituisce la comunità europea”, firmato a Lisbona nel 2007. In questo
caso, il principale ostacolo è stato il referendum negativo ottenuto in Irlanda. Tuttavia, il Consiglio ha
concordato una serie di misure volte a rassicurare il popolo irlandese, offrendo le necessarie garanzie
giuridiche al popolo. A seguito di queste misure, si è ottenuto un esito positivo al secondo referendum
irlandese. Altre difficoltà si sono verificate in Germania e Repubblica Ceca. Il trattato è però entrato in
vigore nel 2009. Il Trattato di Lisbona elimina ogni riferimento ad una Costituzione, ne riformula in un
testo unico i Trattati precedenti. Per il trattato CE, la modifica riguarda anche il nome, che viene cambiato in
TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Scompare il termine “Comunità europea” e
“comunitario”. L’impressione che ne risulta è quella di una diffidenza generalizzata nei confronti del
processo di integrazione europea.

7. Le norme relative all’ammissione di nuovi Stati e l’evoluzione della membership dell’UE.


L’articolo 49, paragrafo 1, TUE dispone che ogni Stato “europeo” può domandare di diventare membro
dell’Unione a condizione che rispetti i valori di cui all’articolo 2 TUE e si impegni a promuoverli. Tali
valori sono quelli del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e del
rispetto dei diritti umani.

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La domanda di ammissione è trasmessa dallo Stato richiedente al Consiglio, che, al riguardo si pronuncia
all’unanimità. Quindi ciascuno degli Stati membri deve essere d’accordo a che un nuovo Stato venga
ammesso. Il TUE specifica che bisogna tener conto dei criteri di ammissibilità, con riferimento ai criteri
politici, economici e giuridici.
a) Il criterio politico riguarda il raggiungimento, da parte dello Stato candidato di una stabilità
istituzionale che garantisca la democrazia, i diritti umani, il rispetto e la protezione delle minoranze.
b) Il criterio economico riguarda l’esistenza di un’economia di mercato funzionante, nonché la
capacità di rispondere alle forze di mercato all’interno dell’UE.
c) Il criterio giuridico riguarda la capacità di assumersi gli obblighi derivanti dall’appartenenza
all’UE.
La verifica del rispetto di tali criteri viene effettuata, per prassi, durante la fase di preadesione (fase
interna). L’ingresso del nuovo Stato però può aver luogo solo dopo che sia stato concluso un accordo tra il
nuovo Stato e gli Stati già membri (fase esterna).
Il Parlamento europeo prevede che il progetto di accordo debba essere sottoposto alla sua approvazione
prima della firma. La procedura è considerata, dal punto di vista tecnico, una procedura d’ammissione, in
quanto prevede che gli Stati già membri si pronuncino in merito ad una richiesta da parte di uno Stato
terzo.
Fin dall’inizio il successo delle Comunità europee ha attratto nuove candidature. Lo stesso Regno Unito
presentò richiesta di ammissione nel 1961. Tale richiesta incontrò l’opposizione della Francia di De
Gaulle, il quale, da una parte, vedeva nel Regno Unito un potenziale ostacolo alle mire francesi ad una
leadership europea, dall’altra non si fidava dell’europeismo di quello Stato che vedeva come il cavallo di
Troia attraverso il quale gli Stati Uniti avrebbero esteso la loro egemonia all’Europa. Per dieci anni il veto
gollista tenne il Regno Unito fuori dalle Comunità europee. Nel 1967 il Regno Unito ripresentò la propria
candidatura, seguita da quella danese, irlandese e norvegese. Un referendum norvegese bloccò però il
processo di ratifica, per cui furono ammesse nel 1973 solo Regno Unito, Irlanda e Danimarca. Il decimo
Stato ad entrare a far parte delle Comunità europee è stata la Grecia. Successivamente, con l’ingresso di
Spagna e Portogallo, le Comunità raggiunsero il numero di dodici membri. Non è stato, invece, necessario
procedere all’ammissione per la Repubblica democratica tedesca, in quanto nel 1990 si è riunificata con la
Repubblica federale tedesca. I capi di Stati e di governo delle comunità hanno infatti riconosciuto
l’ampliamento del territorio comunitario. Nel 1995 entrarono a fare parte dell’UE anche Austria,
Finlandia e Svezia, mentre i cittadini norvegese, ancora una volta si sono pronunciati per il “no”.
Il maggiore allargamento ha riguardato dieci Stati: Cipro, Estonia, Lituania, Lettonia, Malta, Polonia,
Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Ungheria. L’UE è poi passata 27 Stati con l’ammissione di
Bulgaria e Romania e infine a 28 con la Croazia.
Nello specifico, si prevede un periodo transitorio concesso ai nuovi Stati per adattarsi alla normativa
preesistente. Attualmente, è riconosciuto lo status di Paesi candidati ad Albania, ex Repubblica jugoslava di
Macedonia, Montenegro, Serbia e Turchia. In parallelo con le difficoltà sperimentate con il processo di
integrazione, ci si è cominciati a porre il problema della effettiva capacità di assorbimento da parte
dell’UE.

8. La disciplina del recesso dall’UE e la c.d. Brexit.


All’articolo che disciplina l’ammissione nell’UE di nuovi Stati membri, il TUE ne fa seguire subito un altro
che prevede l’ipotesi del recesso dall’UE di uno Stato già membro, e che rappresenta una delle più
importanti novità introdotte dal Trattato di Lisbona. L’articolo 50 TUE riconosce espressamente il diritto
di recesso di qualsiasi membro dell’UE, in qualsiasi momento, senza necessità di addurre particolari
motivazioni e senza bisogno di assenso degli altri Stati membri. Le uniche formalità consistono nel requisito
di una notifica al Consiglio europeo, cui fa seguito un negoziato tra l’UE e lo Stato, volto a raggiungere un
accordo sulle modalità di recesso. Spetta al Consiglio europeo formulare gli orientamenti per tale
negoziato, ovviamente senza che lo Stato recedente possa ovviamente partecipare. L’articolo 50 TUE
considera anche l’ipotesi che l’UE e lo Stato recedente non riescano a concludere l’accordo di recesso.
Esso infatti dispone che i Trattati cessino di applicarsi a tale Stato “due anni dopo la notifica” (termine
prorogabile con decisione unanime del Consiglio europeo). La procedura prevista dall’articolo 50 è stata
adottata per la prima volta dal Regno Unito, che a seguito del referendum del 23 giugno 2016, che ha visto
prevalere i sostenitori della cosiddetta Brexit, ha notificato la propria intenzione di recedere dall’UE nel
2017. A seguito di tale notifica, il Consiglio europeo ha adottato gli orientamenti relativi ai negoziati

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dell’accordo di recesso. È stato poi il Consiglio a designare la Commissione come negoziatore
dell’accordo da parte dell’UE.
In una prima fase, i negoziati si sono concentrati sulle principali questioni da disciplinare, e dunque, in
particolare, sulla necessità di salvaguardare i diritti dei cittadini di ciascuna delle due parti soggiornanti
nel territorio dell’altra al momento del recesso, la liquidazione degli impegni finanziari, la questione del
confine tra Irlanda e Irlanda del Nord. La seconda fase del negoziato era volta a stabilire le regole da
applicare nel periodo successivo al recesso. Tra le diverse questioni non chiarite ha suscitato un ampio
dibattito quella relativa alla possibilità di uno Stato membro di revocare la propria notifica di recesso.
Alcuni ritengono che il silenzio della norma al riguardo vada inteso come esclusione della possibilità di
revoca, secondo altri, invece, non sarebbe ragionevole imporre il completamento della procedura di
recesso.

9. Le vicende successive al Trattato di Lisbona e le prospettive future dell’integrazione europea.


La Brexit rappresenta solo uno dei fronti di crisi che hanno contrassegnato l’ultimo decennio di vita
dell’UE. Gli anni successivi al Trattato di Lisbona sono stati caratterizzati dalla crisi finanziaria ed
economica originatasi negli Stati Uniti già nel 2007-2008, mettendo in luce il carattere incompleto
dell’unione economica e monetaria. Più di recente si è verificata anche a crisi migratoria, determinata da
crescenti di migratori richiedenti asilo e di migranti economici provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa.
Per far fronte alla crisi finanziaria, il Consiglio europeo ha adottato all’unanimità la decisione di
aggiungere all’articolo 156 TFUE un nuovo paragrafo, che afferma che “gli Stati membri la cui moneta è
l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la
stabilità della zona euro...”. Il meccanismo in questione è stato creato dagli Stati membri della zona euro
mediante il Trattato che istituisce il meccanismo europeo di stabilità (MES). Il MES è un’istituzione
finanziaria internazionale con sede a Lussemburgo, il cui obiettivo è quello di “mobilizzare risorse
finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità”. Inoltre, 25 degli allora 27 Stati membri hanno firmato il
Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’unione economica e monetaria (noto
anche come Fiscal Compact). Questo trattato obbliga le parti contraenti a introdurre nel proprio
ordinamento il principio del pareggio di bilancio.
Per altro verso, le decisioni di ricollocazione di un certo numero di richiedenti asilo, a beneficio di Italia e
Grecia, hanno ricevuto limitata applicazione, manifestando così la difficoltà di dare effettiva attuazione a
quel principio di solidarietà tra gli Stati membri in materia di asilo e immigrazione. A fronte di queste
vicende, bisogna ammettere che l’UE si trova oggi di fronte a un bivio: una prima opzione è il
mantenimento dello status quo, ovvero di una politica perseguita facendo bene attenzione a che nessuna
mossa implichi sostanziali rinunce di sovranità da parte degli Stati membri. In questo caso, l’UE procederà
con fatica e, molto probabilmente, si rafforzerà la propensione ad agire attraverso il metodo
intergovernativo anziché quello comunitario, in sintonia con la riaffermazione degli interessi nazionali
percepiti come prioritari rispetto all’interesse comune, e l’UE tenderà a riassestarsi come una grande area
di libero scambio. Se questa sarà l’alternativa scelta, l’UE non potrà far fronte efficacemente alle sfide sul
versante economico e migratorio.
Il salto qualitativo consisterebbe infatti nel passaggio al metodo federale, da intendersi come passaggio a un
ente centrale di alcune competenze, a seguito di tale processo, rimarrebbero Stati federati privi di quella
soggettività internazionale. Occorre però riconoscere che una federazione europea può avere qualche
speranza di realizzazione solo in un ambito ristretto di Stati, un “nocciolo duro” che si restringe ai sei
Stati che hanno iniziato il processo di integrazione europea.

CAPITOLO II: CARATTERISTICHE GENERALI DELL’UNIONE EUROPEA E LE SUE COMPETENZE


10. La natura giuridica dell’UE.
Come abbiamo già accennato, l’UE si fonda oggi sul TUE e sul TFUE, secondo l’espresso disposto
dall’articolo 1, paragrafo 3, TUE. Questa norma sancisce anche che l’UE “sostituisce e succede alla
Comunità europea”. Il significato della norma è chiaro: si supera la coesistenza tra Unione europea e
Comunità europea, quindi è ormai nell’ambito della sola UE che si racchiude e definisce tutta la
cooperazione tra gli Stati membri nei vari campi prima oggetto dei tre pilastri.
Nella fase attuale dell’integrazione europea la natura giuridica dell’UE è quella di una organizzazione
internazionale, seppure dotata di caratteristiche del tutto peculiari. Ad essa gli Stati membri hanno
attribuito competenze “per conseguire i loro obbiettivi comuni”, cioè per gli obiettivi degli Stati stessi che
questi ultimi hanno ritenuto preferibile perseguire attraverso un’organizzazione internazionale da essi

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creata, piuttosto che individualmente e separatamente. L’Unione Europea, quindi, non ha altri obiettivi che
non siano quelli comuni agli Stati membri. L’Unione Europea è fondata su atti conclusi in forma di
accordi internazionali e ha, pertanto, natura internazionalistica. Al riguardo, l’articolo 4 TUE si
preoccupa di ribadire che l’Unione rispetta l’identità nazionale degli Stati membri insita nella loro struttura
fondamentale, politica e costituzionale, escludendo quindi qualsiasi evoluzione in senso federale.
Nonostante questi dati testuali, vi è stato chi è applicato a ricercare un tertium genus tra ente
internazionalistico ed ente costituzionale in cui collocare l’UE. Per definire tale tertium genus si è fatto a
volte riferimento al termine “ente sovranazionale”. Le incertezze riguardo l’esperienza comunitaria erano
dovute alle marcate novità che rappresentavano le Comunità europee, la quale concezione puramente
internazionale appariva troppo riduttiva. Con la successiva giurisprudenza, la Corte di giustizia ha anche
espresso una concezione “costituzionale” dei Trattati, in particolare qualificando il Trattato CEE come “la
carta costituzionale di una comunità di diritto”.
È certamente vero che l’ambito delle competenze che gli Stati membri hanno delegato all’UE è
quantitativamente molto più esteso e articolato rispetto a qualsiasi altra organizzazione internazionale. I due
caratteri dell’efficacia diretta e del primato sul diritto interno degli Stati membri costituiscono inoltre
delle innegabili peculiarità dell’ordinamento giuridico dell’Unione Europea. Ma è pur sempre la volontà
degli Stati membri che ha consentito tutto ciò. Essi infatti rimangono i “padroni dei Trattati”, dato
confermato dalla procedura ordinaria di revisione dei Trattati, la quale può applicarsi a qualsiasi norma
degli stessi e potrebbe dunque comportare anche una riduzione delle competenze dell’Unione Europea, così
come dal diritto di recesso.
Inoltre, l’UE (al pari delle altre organizzazioni internazionali) è retta dal principio di attribuzione, nel senso
che non può determinare essa stessa l’ambito delle sue competenze, ma dispone unicamente di quelle che gli
Stati membri le hanno conferito attraverso i Trattati.

11. I valori fondanti dell’UE e le sanzioni per la loro violazione; gli obiettivi dell’UE.
L’ Unione Europea è l’organizzazione internazionale che realizza il più elevato livello di integrazione tra i
suoi membri rispetto a qualsiasi altra organizzazione. Tale livello di integrazione è reso possibile dalla
comunanza tra gli Stati membri di alcuni valori fondanti, elencati nell’articolo 2 TUE. Secondo tale
norma, l’UE “si fonda sui valori del rispetto della dignità mana, della libertà, della democrazia,
dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone
appartenenti a minoranze”. Questi divengono valori dell’UE in quanto comuni agli Stati membri. Questi
valori costituiscono il retaggio culturale della civiltà europea e costituiscono per questo la stessa identità
europea. È logico dunque, che per essere ammesso all’UE ogni Stato richiedente debba rispettare tali
valori e impegnarsi a promuoverli, per tutta la durata del vincolo associativo che lega ciascun membro.
Al riguardo, sono previste (all’articolo 7 TUE) delle sanzioni per lo Stato membro che si renda colpevole di
una grave e persistente violazione dei valori. Nello specifico, l’articolo 7 TUE contempla una procedura
d’allarme e una procedura ordinaria.
La procedura d’allarme avviene nel caso in cui il Consiglio, deliberando con la inusuale maggioranza dei
4/5 dei suoi membri, “può constatare che esista un evidente rischio di violazione grave da parte di uno stato
membro” dei valori di cui all’articolo 2 TUE. La delibera del Consiglio può avere luogo solo su proposta di
1/3 degli Stati membri (o del Parlamento europeo o della Commissione). Essa deve anche essere munita
della previa approvazione del Parlamento europeo. Prima di procedere a tale constatazione, il Consiglio
deve ascoltare lo Stato in questione, ed ha l’obbligo di verificare regolarmente se i motivi che hanno
condotto alla constatazione permangono validi. La procedura dall’allarme può essere propedeutica a quella
ordinaria.
In questo caso il Consiglio europeo (a differenza della procedura d’allarme) può constatare, con delibera da
adottarsi all’unanimità, l’esistenza di una “violazione grave e persistente” da parte di uno Stato membro.
Tutta una serie di cautele procedurali accompagna tale misura, la quale deve essere preceduta:
1) Dalla proposta da parte di 1/3 degli Stati membri o dalla Commissione, come per la procedura
d’allarme, ad esclusione del Parlamento;
2) Dall’invito allo Stato in questione a presentare le sue osservazioni;
3) Dall’approvazione del Parlamento europeo con la stessa maggioranza prevista dalla procedura
d’allarme.
In entrambi i casi, ovviamente, lo Stato in questione non partecipa al voto e non può quindi impedire il
raggiungimento dell’unanimità.

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Una volta effettata la constatazione, la parola ritorna al Consiglio, il quale può decidere di sospendere
“alcuni dei diritti”, tra cui, in particolare, il diritto di voto del suo rappresentante in Consiglio. A differenza
di altre organizzazioni internazionali, la sospensione dei diritti non è propedeutica all’espulsione dello
Stato membro, in quanto il TUE non prevede l’ipotesi di espulsione. La sospensione tuttavia non esonera lo
Stato dell’osservanza dei propri obblighi. Considerata l’estrema difficoltà di dare applicazione alle due
procedure in esame, negli anni più recenti sia la Commissione che il Consiglio hanno predisposto hanno
predisposto dei nuovi meccanismi: in particolare, il Consiglio ha previsto che, con cadenza annuale, si
tenga un dialogo tra tutti gli Stati membri sullo Stato di diritto. La Commissione, invece, ha introdotto una
nuova procedura di carattere preventivo, alla quale essa intende ricorrere qualora ravvisi in uno Stato
membro una minaccia sistemica allo stato di diritto. In sostanza, tale procedura prevede che, in una prima
fase, la Commissione trasmetta allo Stato membro in questione “un parere sullo Stato di diritto” (al fine di
instaurare un contraddittorio con tale membro). Se la questione non si risolve in maniera soddisfacente,
nella seconda fase la Commissione trasmette allo Stato membro una raccomandazione, nella quale
suggerisce la misura da adottare al fine di rimuovere la minaccia sistemica. Infine, nella fase di follow-up,
la Commissione verifica il seguito dato dallo Stato membro e valuta se attivare una delle due procedure
previste dall’articolo 7 TUE. Questa procedura ha già trovato applicazione nei riguardi della Polonia (2017).
Sempre in tema di valori fondanti, si ricorda che l’UE si propone di promuoverli non solo nei confronti
degli Stati membri, ma anche al resto del mondo.
All’enunciazione dei valori fondanti, l’UE fa seguire quella degli obiettivi (da intendersi come obiettivi
comuni agli Stati membri). Al primo posto troviamo l’obiettivo di promuovere la pace, i valori dell’UE e il
benessere dei suoi popoli. Segue poi una serie di obiettivi più specifici, che corrispondono ai principali
campi d’azione dell’UE:
- Offrire ai cittadini dell’UE uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne
- Instaurare un mercato interno e, più in generale, adoperarsi per uno sviluppo sostenibile
dell’Europa
- Istituire un’unione economica e monetaria la cui moneta è l’euro
- Intrattenere una rete di relazioni esterne attraverso le quali l’UE possa promuovere i suoi valori e
interessi.
Occorre però specificare che l’azione dell’UE nel perseguire i suoi obiettivi, non si sviluppa secondo metodi
omogenei: per quanto riguarda il campo della politica estera e di sicurezza comune, vi sono norme e
procedure specifiche improntate essenzialmente al metodo intergovernativo, che presuppone il requisito
dell’unanimità per tutte le principali decisioni del Consiglio. Nelle altre aree, invece, è generalmente
adottato il cosiddetto metodo comunitario.

12. La delimitazione delle competenze dell’UE secondo il principio di attribuzione; la clausola di


flessibilità e i poteri impliciti.
L’UE persegue i suoi obbiettivi “in ragione delle competenze che le sono attribuite nei trattati", in altri
termini, gli Stati membri non hanno attribuito all’UE delle competenze di natura generale, ma solo quelle
specificamente indicate nei Trattati. Per maggiore chiarezza, l’articolo 4 TUE specifica che qualsiasi
competenza non attribuita all’UE nei Trattati “appartiene agli Stati membri”.
In coerenza con questo approccio, che vede le competenze dell’UE limitate dalle previsioni dei Trattati,
l’articolo 5 TUE stabilisce nel principio di attribuzione il fondamento di tale delimitazione. Le competenze
dell’UE vengono così classificate dal TFUE in competenze esclusive, concorrenti e di sostegno,
coordinamento o completamento dell’azione degli Stati membri. Infine, lo stesso articolo individua il
fondamento dell’esercizio nei principi di sussidiarietà e proporzionalità.
In base al principio di attribuzione quindi, l’UE agisce nei limiti delle competenze che le spettano a titolo
“derivato”, ovvero per volontà degli Stati membri (a conferma della natura internazionalistiche dell’UE) e
non a titolo “originario”, come avviene per gli Stati sovrani. L’articolo 13 TUE applica lo stesso principio
alle istituzioni dell’UE, sancendo che “ciascuna istituzione agisce nei limiti delle attribuzioni che le sono
conferite dai trattati, secondo le procedure, condizioni e finalità da essi previste”. Questo principio di
attribuzione comporta che ogni atto dell’UE debba avere il proprio fondamento in una disposizione dei
Trattati, e che pertanto costituisce la base giuridica dell’atto in questione. Un atto privo di tale fondamento
sarebbe illegittimo.
A garantire una certa flessibilità al sistema delle competenze dell’UE concorrono tuttavia, da un lato, una
specifica norma dei Trattati alla quale si fa comunemente riferimento appunto, come clausola di flessibilità
e, dall’altro, la giurisprudenza della Corte di Giustizia relativa ai cosiddetti poteri impliciti. La clausola

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di flessibilità afferma che “se un’azione dell’Unione appare necessaria per realizzare uno degli obiettivi di
cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio,
deliberando all’unanimità su proposta della Commissione, adotta le disposizioni appropriate”.
Questa norma però non può essere utilizzata per tutti gli obiettivi dell’UE. In particolare, il TFUE prevede
espressamente che non possa essere impiegata come base per il conseguimento di obiettivi riguardanti la
politica estera e di sicurezza comune. Questo perché la cooperazione intergovernativa che caratterizza
tale ambito non si presta ad ampliamenti che non risultino espliciti.
Gli obiettivi per il cui raggiungimento può essere utilizzata la clausola di flessibilità sono quelli indicati
nell’articolo 3 TUE, ovvero: spazio di libertà, sicurezza e giustizia, mercato interno e sviluppo
sostenibile, relazioni esterne. La clausola di flessibilità ha cominciato ad essere invocata in maniera non
occasionale, nel contesto dell’allora CEE, nel 1972 e da quel momento ha avuto un’utilizzazione crescente.
Il ricorso alla clausola di flessibilità prevede sempre, però, la necessità di una decisione unanime in seno al
Consiglio e, quindi, del consenso di tutti gli Stati membri. Tuttavia, man mano che l’allargamento delle
competenze veniva sanzionato nelle varie modifiche dei Trattati, non era più necessario ricorrere alla
clausola di flessibilità. Per limitare il ricorso alla clausola di flessibilità, la Corte di Giustizia ha delineato una
versione comunitaria della nota teoria dei poteri impliciti, elaborata per la prima volta dalla Corte suprema
degli Stati Uniti. Secondo il principio alla base di questa teoria, quando viene attribuita una competenza alle
istituzioni dell’UE, essa comporta anche l’attribuzione dei poteri indispensabili per assicurare un esercizio
efficace di tale competenza. Tali poteri quindi, rifiutano per loro stessa natura di farsi esplicitare in una
norma.
Il sostanziale ampliamento delle competenze dell’UE introdotto nelle varie revisioni dei Trattati rende oggi
meno frequente il ricorso alla clausola di flessibilità.

13. Le competenze dell’UE: esclusive, concorrenti e di sostegno, coordinamento o completamento


dell’azione degli Stati membri.
Le competenze dell’UE possono essere di tre tipi:
 Esclusive rispetto a quelle degli Stati membri: nei settori nei quali l’UE ha competenza esclusiva, solo
l’UE può adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri possono farlo solo se autorizzati
dall’UE o per dare attuazione ad atti dell’UE. Non è possibile per gli Stati membri riappropriarsi delle
competenze in questi settori. A tali competenze esclusive si aggiunge quella di concludere accordi
internazionali. I settori nei quali l’UE ha competenza esclusiva sono cinque:
o Unione doganale
o Definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno
o Politica monetaria degli Stati membri
o Conservazione delle risorse biologiche del mare
o Politica commerciale comune
 Concorrenti: nei settori nei quali l’UE ha competenza concorrente con quella degli Stati membri, sia
l’UE che gli Stati membri possono adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri, però, non
possono più esercitare le loro competenze a partire dal momento in cui l’UE abbia esercitato le proprie
attraverso la posizione di norme comuni. In dottrina si parla, a questo proposito, di un effetto di pre-
emption. Ai sensi di questo Protocollo, quando l’UE agisce in un settore di competenza concorrente “il
campo di applicazione di questo esercizio di competenza copre unicamente gli elementi disciplinati
dall’atto dell’Unione in questione e non copre pertanto l’intero settore”. Il TFUE precisa anche che gli
Stati membri possono riappropriarsi delle loro competenze qualora l’UE abbia cessato di esercitare le
proprie. Ad ogni modo, quando gli Stati concorrenti esercitano competenze concorrenti, essi sono
sempre tenuti a rispettare l’obbligo di leale cooperazione loro incombente ai sensi dell’articolo 4 TUE,
il quale implica rispetto e assistenza reciproca tra gli Stati membri e l’UE nell’adempimento dei
rispettivi compiti. Ricadono nelle competenze concorrenti tutte quelle competenze attribuite all’UE che
non sono esclusive o che non riguardino il completamento dell’azione degli Stati membri. In particolare,
l’UE ha competenza concorrente principalmente nei seguenti settori:
o Mercato interno
o Politica sociale
o Coesione economica, sociale e territoriale
o Agricoltura
o Ambiente

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o Protezione dei consumatori
o Trasporti
 Di sostegno, coordinamento o completamento dell’azione degli Stati membri. L’identificazione di
queste categorie rappresenta una delle principali innovazioni introdotte dal Trattato di Lisbona. Nei
settori nei quali l’UE esercita solo una competenza di sostegno, coordinamento o completamento
dell’azione degli Stati membri, essa non si sostituisce alla competenza degli Stati e non può procedere
a disposizioni legislative e regolamentare degli Stati membri. Quest’attività deve riguardare la “finalità
europea” dei settori che comprende e non, quindi, la loro dimensione solo nazionale. I settori
individuati per tale azione sono:
- Tutela e miglioramento della salute umana
- Industria
- Cultura
- Turismo
- Istruzione
- Formazione professionale
Vi sono, infine, alcune materie che si sottraggono alla suddetta classificazione, come in primo luogo le
politiche economiche e occupazionali che restano di competenza degli Stati membri.
In secondo luogo, presenta caratteristiche peculiari improntate al metodo intergovernativo, la politica estera
e di sicurezza comune.

14. L’esercizio delle competenze dell’UE: i principi di sussidiarietà e di proporzionalità.


Mentre il principio di attribuzione costituisce il fondamento della delimitazione delle competenze
dell’UE, l’esercizio di queste ultime è sottoposto a due altri principi regolatori, il principio di
sussidiarietà e il principio di proporzionalità.
Il principio di sussidiarietà ha radici nella scienza economica, politica e sociale e può avere una duplice
valenza: orizzontale, per quanto riguarda i rapporti tra autorità pubblica e sfera privata, e verticale, per
quanto riguarda i rapporti tra i diversi livelli del potere pubblico. È in quest’ultima eccezione che tale
principio viene in rilievo nell’ambito dell’UE, dove esso serve essenzialmente a stabilire quando l’azione
dell’UE si giustifica in alternativa ad un’azione da parte degli Stati membri. Il principio di sussidiarietà,
pertanto, si applica solo all’azione dell’UE nei settori che non sono di sua competenza esclusiva. Nei
suddetti settori, tale principio opera nel senso che “l’Unione interviene soltanto se e i quanto gli obiettivi
dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri...”.
Di conseguenza, l’intervento dell’UE può aver luogo solo se:
 Vi sia la presunzione dell’insufficienza dell’azione degli Stati membri a conseguire uno specifico
obiettivo
 L’intervento dell’UE sia necessario per un migliore conseguimento dello stesso.
In altre parole, nel caso di competenze concorrenti, la regola generale è che l’intervento compete agli Stati
membri, mentre quello dell’UE è l’eccezione.
Secondo il principio di proporzionalità, originariamente ricostruito dalla giurisprudenza della Corte di
Giustizia, è oggi formulato come segue: “il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a
quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati”. Più nello specifico, “il principio di
proporzionalità esige che gli atti delle istituzioni dell’Unione siano idonei a realizzare i legittimi obiettivi e
non eccedano i limiti di quanto è necessario”.
Tale principio è quindi volto ad assicurare che vi sia corrispondenza tra i mezzi adoperati e il fine da
raggiungere. Una delle possibili applicazioni del principio comporta che le istituzioni dell’UE, qualora la
base giuridica lasci loro la scelta circa il tipo di atto da utilizzare, dovrebbero preferire gli atti che
comportano minori sacrifici per la sovranità degli Stati membri.
Venendo al Protocollo, esso stabilisce le modalità di applicazione dei principi di sussidiarietà e di
proporzionalità, contemplando soprattutto un articolato intervento dei Parlamenti nazionali ai fini di
controllo preventivo del rispetto del principio di sussidiarietà. Anzitutto, il Protocollo dispone che ogni
progetto di atto legislativo dell’UE debba essere trasmesso ai Parlamenti nazionali. Tale progetto deve
essere dettagliatamente motivato sotto il profilo del rispetto dei principi di sussidiarietà. Il semplice difetto
di motivazione riguardo i principi, può senz’altro condurre all’impugnazione dell’atto dell’UE dinanzi alla
Corte di Giustizia per violazione delle forme sostanziali. La prassi, infatti, mostra che le motivazioni circa
il principio di sussidiarietà e di proporzionalità sono spesso succinte. Entro 8 settimane dalla suddetta
trasmissione del progetto, ciascun Parlamento nazionale può inviare ai Presidenti del Parlamento europeo,

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del Consiglio e della Commissione un “parere motivato” nel quale espone le ragioni per cui ritiene che il
progetto in questione non sia conforme al principio di sussidiarietà. L’impatto di tali pareri motivati è
destinato a crescere a seconda del loro numero.
Nel caso in cui i pareri motivati rappresentino almeno 1/3 dell’insieme dei voti attribuiti ai Parlamenti
nazionali, l’autore è tenuto a riesaminarlo, potendo decidere di mantenere, modificare o ritirare il progetto,
ma dovendo comunque motivare la propria decisione (procedura cosiddetta del “cartellino giallo”). Se
però, i pareri motivati rappresentano almeno la maggioranza semplice dei voti attribuiti ai Parlamenti
nazionali, e l’atto deve essere adottato secondo la procedura legislativa ordinaria, qualora la Commissione
decida di mantenere la proposta deve spiegare le ragioni per le quali la ritiene conforme al principio di
sussidiarietà in un parere motivato, che viene sottoposto al Parlamento europeo e al Consiglio, affinché tali
istituzioni esaminino la compatibilità della proposta con il principio di sussidiarietà. Questo esame ha per
effetto che, se il Consiglio o il Parlamento, a maggioranza dei voti espressi, ritengono che la proposta non
sia compatibile con il principio di sussidiarietà, questa non forma oggetto di ulteriore esame (procedura
cosiddetta del “cartellino arancione”). Il raggiungimento delle soglie richieste per tali procedure è tutt’altro
che agevole e solo in tre casi si è arrivati alla proceduta del cartellino giallo (mai per quella del cartellino
arancione).
In secondo luogo, il Protocollo dispone che anche il Comitato delle Regioni può fare ricorso alla Corte di
Giustizia per violazione del diritto di sussidiarietà, anche se unicamente con riguardo ad atti legislativi per
la cui adozione sia richiesta la sua consultazione. Resta da osservare che, nella definizione e nell’attuazione
delle sue politiche e azioni, l’UE deve tenere conto di alcune esigenze, tra cui l’eliminazione delle
ineguaglianze, la promozione di un elevato livello di occupazione e di istruzione, la lotta alle
discriminazioni.

15. Le norme di diritto sostanziale dell’UE che realizzano i suoi obiettivi: spazio di libertà, sicurezza e
giustizia; mercato interno e sviluppo sostenibile dell’Europa; unione economica e monetari; relazioni
esterne (rinvio).
In relazione a ciascuno di tali obiettivi i Trattati prevedono una serie di norme materiali. Quanto
all’obiettivo relativo allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, materia in cui l’UE e gli Stati membri
esercitano una competenza concorrente, esso trova ora la sua realizzazione esclusivamente nelle norme di
cui al Titolo V della Parte Terza del TFUE. Queste norme hanno ad oggetto:
a) Le politiche relative i controlli delle frontiere, all’asilo e all’immigrazione
b) La cooperazione giudiziaria in materia civile
c) La cooperazione giudiziaria in materia penale
d) La cooperazione di polizia
Inoltre, viene notevolmente ampliato il controllo giurisdizionale che può effettuare in materia la Corte di
Giustizia. Tuttavia, alcune decisioni importanti in materia richiedono ancora l’unanimità da parte del
Consiglio. La disciplina prevede anche un significativo coinvolgimento dei Parlamenti nazionali, a livello
di semplice informazione, di controllo e, persino, di veto.
Quanto all’obiettivo del mercato interno, esso comporta uno spazio senza frontiere interne, nel quale è
assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Vale la pena richiamare
il processo che ha portato il mercato comune, originariamente previsto dal Trattato di Roma, ad evolversi nel
1992 in mercato interno, a seguito delle modifiche introdotte dall’Atto unico europeo. Per comprendere
cosa aggiunge il mercato interno al mercato comune, occorre ricordare che le quattro libertà di
circolazione previste dal Trattato di Roma per la realizzazione dell’allora mercato comune erano state
fondamentalmente intese come obbligo per ciascuno Stato membro di ammettere alla libera circolazione al
proprio interno merci, persone, servizi e capitali provenienti da altri Stati membri alle stesse condizioni
valevoli per merci e persone dello Stato in questione. L’integrazione così realizzata avveniva secondo le
regole del Paese di destinazione, nel senso che a persone, merci che volessero uscire dal proprio Paese di
origine, veniva garantita parità di trattamento con persone, merci del Paese di destinazione, in linea con il
divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità. Questa soluzione apparve presto inadeguata, in quanto
di possono celare delle situazioni profondamente discriminatorie. Per ovviare a questi inconvenienti la
Corte di Giustizia ha cominciato a introdurre, sin dalla fine degli anni ’70, il principio secondo cui i
prodotti legalmente fabbricati e venduti in uno Stato membro devono poter liberamente circolare negli
altri Stati membri, così come le persone legittimamente abilitate all’esercizio di una professione in uno
Stato membro devono poterla esercitare anche negli altri Stati membri. Le uniche restrizioni che lo Stato
può imporre devono essere giustificate da motivi attinenti alla salute pubblica, alla correttezza del

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commercio, alla tutela dei consumatori, e simili. In altre parole, con queste sentenze la Corte di Giustizia ha
sostituito al principio del Paese di destinazione il principio del Paese di origine, secondo cui non è possibile
per lo Stato di destinazione imporre condizioni più onerose di quelle richieste dallo Stato di origine, con
la sola eccezione delle misure che possono essere giustificate da esigenze imperative di interesse generale.
La conseguenza dell’applicazione di tale principio potrebbe, però essere quella del verificarsi di
discriminazioni alla rovescia. Infatti, i cittadini di uno Stato in cui sono in vigore determinate restrizioni
non potrebbero esercitare professioni nel proprio Stato, mentre, in virtù del principio del mutuo
riconoscimento, potrebbero invece farlo i cittadini degli altri Stati membri che tali restrizioni eventualmente
non prevedano.
La realizzazione del mercato interno è inserita nel quadro del più generale obiettivo dello sviluppo
sostenibile dell’Europa, al quale contribuiscono diverse altre politiche dell’UE, in particolare la politica
sociale e la politica ambientale.
Quanto all’obiettivo dell’unione economica e monetaria, esso trova la sua realizzazione nelle norme di cui
al Titolo VIII della Parte Terza del TFUE. Ricordiamo che le politiche economiche restano di competenza
degli Stati membri, che assumono semplicemente l’obbligo di coordinarle nell’ambito del Consiglio.
L’UE, invece, ha una competenza esclusiva relativamente alla politica monetaria degli Stati membri la cui
moneta è l’euro. Questa asimmetria nel trattamento riservato, nell’ambito dell’UE, alla politica economica
e a quella monetaria rappresenta però un elemento di criticità, che spiega le difficoltà che l’unione
economica e monetaria ha incontrato. Come insegna la scienza economica infatti, la politica monetaria è
strettamente collegata alla politica economica, intesa come politica di bilancio, comprensiva di una politica
fiscale (entrate) e di spesa pubblica (uscite). La stabilità della moneta è influenzata dalla politica
economica, dato che quanto più sana è la politica economica, tanto più forte è la moneta. Nell’ambito
dell’UE si è realizzata una moneta unica, mentre non si è realizzata una politica economica comune, dato
che questa realizzazione avrebbe inciso troppo pesantemente sulla sovranità degli Stati. In assenza di una
politica economica comune, si è semplicemente prevista una procedura per evitare disavanzi eccessivi
attraverso le relative norme del TFUE. Ciò comporta una duplice conseguenza: allorché la politica
economica è gestita allo stesso livello di quella monetaria, la politica economica si adatta di volta in volta
alle situazioni contingenti, nel senso che, ad esempio, agisce sulle imposte, riducendole (favorendo la spesa
pubblica), o agisce in senso contrario per raffreddare l’economia e contrastare spinte inflazionistiche.
Quando invece, i criteri di politica economica sono fissati in un trattato, tale flessibilità si perde. La
seconda conseguenza è che la moneta unica riposa, in definitiva, sulla volontà degli Stati membri di
rispettare i propri impegni internazionalmente assunti in materia di politica economica. La conclusione è
che la moneta unica, senza una politica economica altrettanto unica, non pare essere una realizzazione con i
caratteri dell’irreversibilità.

16. L’UE e gli Stati membri: la leale cooperazione reciproca.


L’azione dell’UE, nell’esercizio delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri, non può
prescindere da una reciproca collaborazione con questi ultimi. Inoltre, essa deve coinvolgere nella maggior
misura possibile i cittadini degli Stati membri, in quanto diretti destinatari di molte norme
dell’ordinamento dell’UE. Il principio di leale cooperazione tra l’UE e gli Stati membri è formulato come
segue: “In virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono
reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati. [...] Gli stati membri facilitano
all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in
pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione”. Dopo aver ripetuto che le competenze non attribuite
all’UE dai Trattati appartengono agli Stati membri, l’articolo 4 TUE sancisce, a carico dell’UE, l’obbligo
di rispettare l’uguaglianza degli Stati membri dinanzi ai loro Trattati, la loro identità nazionale, politica e
costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali, nonché le funzioni essenziali dello
Stato.
Quanto agli obblighi degli Stati membri, a prima vista parrebbe che la norma, costituisca una semplice
specificazione, nell’ambito dell’UE, dell’obbligo generale incombente agli Stati di adempiere secondo
buona fede ai trattati internazionali. Tuttavia, nella giurisprudenza della Corte di giustizia, la norma ha
finito con l’assumere la funzione di garantire l’effettività, la coerenza e la completezza dell’intero
ordinamento dell’UE. Essa è divenuta, di fatto, il fondamento di un obbligo degli Stati membri, definito
come obbligo di buona fede comunitaria. In ottemperanza con tale obbligo, gli Stati membri devono porre
tutte le loro strutture e meccanismi a servizio dell’interesse generale perseguito dall’UE. Le applicazioni
concrete del principio di leale cooperazione sono state molteplici e tutte molto significative. La Corte di

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Giustizia ha anche dedotto dal principio di leale cooperazione l’obbligo per gli Stati membri di integrare
con proprio disposizioni sanzionatorie le eventuali lacune al riguardo delle norme dell’UE. Tali sanzioni
possono essere anche natura penale, quando ciò sia giustificato dai valori e dagli interessi da proteggere. La
Corte di Giustizia ha, inoltre, precisato che un obbligo di leale cooperazione esiste anche tra gli Stati
membri e, l’articolo 13 TUE, prevede ora espressamente un obbligo di leale cooperazione anche tra le
istituzioni dell’UE.

17. L’UE e i cittadini: la nozione di cittadinanza dell’UE e i diritti che da essa discendono.
Una delle principali novità introdotte dal Trattato di Maastricht è stata la cittadinanza dell’Unione. Ai sensi
dell’articolo 9 TUE e dell’articolo 20 TFUE, è cittadino dell’UE chiunque abbia la cittadinanza di uno
Stato membro. È da intendersi quindi che la cittadinanza dell’UE si acquista o si perde a seguito
dell’acquisto o della perdita della cittadinanza nazionale ai sensi di tale legislazione. Con la sentenza
Micheletti (luglio 1992), la Corte di Giustizia affermava che la determinazione dei modi di acquisto e di
perdita della cittadinanza nazionale “deve essere esercitata nel rispetto del diritto comunitario”.
L’articolo 9 TUE e l’articolo 20 TFUE precisano anche che la cittadinanza dell’UE “si aggiunge alla
cittadinanza nazionale e non la sostituisce”. Si tratta, quindi, di un concetto di cittadinanza sui generis:
esso non va confuso con la cittadinanza nazionale, la quale implica la soggezione ad uno Stato. L’UE
adotta, in verità, una sua nozione convenzionale di cittadinanza, che non mutua alcuna delle caratteristiche
tipiche di tale status quali previste negli ordinamenti interni, ma che trova la sua definizione solo nei
Trattati. Di fatto, le norme si riferiscono solo ai diritti e non contemplano alcun dovere connesso alla
cittadinanza dell’UE, a conferma della natura sui generis dell’istituto. In buona sostanza, il cittadino
dell’UE gode del diritto:
 Di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Per quanto riguarda la
libertà di circolazione e di soggiorno, essa è riconosciuta ai cittadini dell’UE in quanto tali, e
dunque anche se non sono lavoratori, i quali ultimi godono di un regime particolare di libera
circolazione sulla base delle norme relative al mercato interno. La libertà di circolazione e di
soggiorno dei cittadini dell’UE non è senza limiti, in quanto lo stesso articolo 21 TFUE fa salve “le
limitazioni e le condizioni previste dai trattati”. Al riguardo, va menzionata la direttiva del
Parlamento europeo che disciplina in dettaglio il diritto dei cittadini dell’UE di circolare e
soggiornare nel territorio degli Stati membri. Tale direttiva prevede, tra l’altro, che per un soggiorno
superiore a tre mesi nel territorio di uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza,
il cittadino UE che non sia economicamente attivo deve dimostrare di disporre di sufficienti
risorse economiche, così da non rappresentare un onere a carico dell’assistenza sociale dello
Stato ospitante. Inoltre, la direttiva prevede la possibilità per uno Stato membro di adottare
provvedimenti restrittivi della libertà stessa per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza o
sanità pubblica, pur nel rispetto del principio di proporzionalità.
 Elettorato attivo e passivo nello Stato membro di residenza per le elezioni al Parlamento europeo e
per quelle comunali. Circa l’elettorato attivo e passivo nello Stato membro di residenza per le
elezioni comunali, il suo effettivo riconoscimento ha in qualche caso richiesto modifiche
costituzionali. Il Consiglio ha emanato la direttiva che prevede la facoltà per i cittadini dell’UE di
scegliere se votare nel proprio Stato nazionale o in quello di residenza, nonché la possibilità per
gli Stati membri di negare l’eleggibilità di non cittadini alla carica di capo di un ente locale di base
e di introdurre misure derogatorie qualora la percentuale di cittadini dell’UE residenti, ma non
nazionali, superi il 20%.
 Di protezione diplomatica e consolare da parte di uno qualunque degli Stati membri nei
confronti di un Paese terzo nel quale egli si trovi. La protezione diplomatica e consolare nei Paesi
Terzi corrisponde a una prassi già radicata nelle relazioni internazionali. Ai fini dell’attuazione di
tale protezione, l’articolo 23 TFUE prevede anzitutto l’avvio di negoziati tra gli Stati membri e gli
Stati terzi, negoziati che hanno in effetti condotto alla previsione di disposizioni apposite
all’interno di molti accordi consolari. La protezione in esame comprende, in particolare, i casi di
decesso, incidente o malattia grave, arresto, atti di violenza, rimpatrio in casi di emergenza.
 Di petizione al Parlamento europeo, di ricorso al Mediatore europeo.
L’elenco di tali diritti non è inteso come tassativo e, del resto, nuovi diritti possono essere aggiunti con
delibera unanime del Consiglio.

18. I principi democratici: democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa.

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Il Trattato di Lisbona ha visto l’introduzione di alcune norme che vanno a costituire il Titolo II del TUE,
significativamente “Disposizioni relative ai principi democratici”. Tali norme si comprendono alla luce di
quel problema del deficit democratico che ha determinato una serie di interventi volti in particolare a
rafforzare i poteri del Parlamento europeo, unica istituzione dell’UE democraticamente eletta dai
cittadini. Le disposizioni del Titolo II articolano le “credenziali democratiche” attorno a tre profili
essenziali: il principio della democrazia rappresentativa, il principio della democrazia partecipativa e il
contributo che anche i Parlamenti nazionali possono offrire alla legittimità democratica dell’UE.
Iniziando dal principio della democrazia rappresentativa, dobbiamo osservare che esso assume un rilievo
preminente, in quanto, è proprio sulla democrazia rappresentativa che il funzionamento dell’UE “si fonda”.
L’articolo prosegue individuando tre dati che sostanziano questo principio:
 I cittadini europei sono direttamente rappresentati, a livello dell’UE, nel Parlamento europeo
 I rappresentanti degli Stati membri sono democraticamente responsabili dianzi ai loro Parlamenti
nazionali
 I partiti politici a livello europeo contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad
esprimere la volontà dei cittadini dell’UE.
Secondo un’analisi più approfondita, il riferimento alla rappresentatività in Parlamento appare quello più
importante. In questa prospettiva, va apprezzato il progressivo rafforzamento dei poteri del Parlamento
europeo nei processi decisionali dell’UE.
In riferimento poi, al fatto che ciascun membro del Consiglio europeo o del Consiglio risponde
politicamente dinanzi al rispettivo Parlamento nazionale, è un’ovvia considerazione che non vale, tuttavia,
a conferire una legittimità democratica a tali istituzioni a livello dell’UE. Esse, infatti, restano espressione
degli esecutivi dei rispettivi Stati e i loro membri sono responsabili politicamente in relazione al
perseguimento degli interessi nazionali, non di quelli generali dell’UE.
Infine, quanto al ruolo dei partiti politici a livello europeo, dobbiamo osservare che questo è ancora per
molti versi embrionale. I partiti s’aggregano là dove esiste un potere politico da conquistare o da mantenere.
Il ruolo dei partiti politici nel Parlamento europeo, privo di un esclusivo potere legislativo, non è
assimilabile a quello dei partiti politici nazionali. Un’importante novità al riguardo è stata però introdotta dal
Trattato di Lisbona, laddove questo ha disposto che il Consiglio europeo, quando propone al Parlamento
europeo un candidato per la carica di Presidente della Commissione, deve tenere conto delle elezioni del
Parlamento Europeo. Ciò ha indotto i principali partiti politici europei a indicare ciascuno un proprio
candidato alla presidenza della Commissione, riuscendo poi a ottenere che il Consiglio europeo proponesse
al Parlamento europeo proprio il candidato indicato. Questo cosiddetto sistema degli Spitzenkandidaten,
ossia dei capilista, aggiunge innegabilmente un elemento di democraticità nell’impianto istituzionale
dell’UE, valorizzando le elezioni del Parlamento europeo. D’altra parte, la dottrina ha evidenziato anche
alcune implicazioni problematiche, poiché un troppo stretto legame della Commissione con una
maggioranza di riferimento sembra contraddire la logica di rappresentanza dell’interesse generale
dell’UE. In definitiva, dunque, permangono dei limiti a una completa affermazione della democrazia
rappresentativa nel quadro dell’UE. Solo una svolta in senso federale potrebbe determinare il superamento
di tali limiti.
Consapevoli di ciò, i redattori del Trattato di Lisbona hanno cercato di valorizzare anche ulteriori apporti
alla democraticità dell’UE, e in particolare quelli che possono derivare dalla messa in atto di strumenti di
democrazia partecipativa. A questo proposito, l’articolo 10 TUE sancisce il diritto di ogni cittadino di
partecipare alla vita democratica dell’UE. Secondo l’articolo 11 TUE invece, le istituzioni dell’UE si
impegnano, da un lato, a dare ai cittadini e alle loro associazioni rappresentative la possibilità di far
conoscere e di scambiare pubblicamente le loro opinioni, e dall’altro a mantenere “un dialogo aperto,
trasparente e regolare” con tali associazioni e con la società civile in generale.
In secondo luogo, la norma obbliga la Commissione a procedere ad ampie consultazioni delle parti
interessate. Una novità è invece la cosiddetta iniziativa dei cittadini europei, prevista dall’articolo 11 TUE.
Quest’ultimo consente ad almeno un milione di cittadini dell’UE, che abbiano la cittadinanza di “un
numero significativo” di Stati membri, di invitare la Commissione a presentare, nell’esercizio del proprio
potere d’iniziativa, una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono
necessario un atto giuridico dell’UE. Il regolamento che disciplina le procedure necessarie per la
presentazione di un’iniziativa dei cittadini, fissa a 1/4 del totale (attualmente pari a 7) il numero minimo
degli Stati membri da cui devono partire i firmatari di un’iniziativa dei cittadini; è altresì disposto che i
firmatari devono avere l’età minima richiesta nei rispettivi Stati membri per acquisire il diritto di voto per
le elezioni al Parlamento europeo. Prima di iniziare a raccogliere le firme a favore di un’iniziativa, i

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promotori ne devono chiedere la registrazione alla Commissione, che vi procede dopo aver verificato che
siano rispettate alcune condizioni di ammissibilità. Qualora sia raggiunto il numero minimo di firme, la
Commissione è tenuta a esaminare nel merito l’iniziativa e ad esporre le proprie conclusioni giuridiche e
politiche. La Commissione non è dunque obbligata a presentare la proposta oggetto dell’iniziativa dei
cittadini. Fino ad oggi, solo quattro iniziative dei cittadini, su un totale di circa cinquanta, hanno superato il
milione di firmatari (Right2Water, One of Us, Stop Vivisection, Stop Glyphosate), e in nessuno di questi
casi la Commissione ha presentato le proposte sollecitate dai cittadini.

19. L’evoluzione del ruolo dei Parlamenti nazionali.


Le disposizioni relative ai principi democratici si completano con l’articolo 12 TUEM, che riassume le
prerogative riconosciute ai Parlamenti nazionali da una serie di norme, rinvenibili nello stesso TUE, nel
TFUE e nel Protocollo n.1 (sul ruolo dei Parlamenti nazionali nell’UE).
Anzitutto l’articolo 12 TUE prevede in via generale che i Parlamenti nazionali vengano informati dalle
istituzioni dell’UE. Tale obbligo, specificato nel Protocollo n.1, prevede la trasmissione ai Parlamenti
nazionali:
- Di tutti i documenti di consultazione che la Commissione produce
- Di tutti i progetti di atti legislativi inoltrati al Parlamento europeo
La ratio di queste previsioni è, anzitutto, quella di incoraggiare una partecipazione “indiretta” dei
Parlamenti nazionali alle attività dell’UE attraverso l’esercizio di poteri di indirizzo e di controllo nei
confronti dei rispettivi governi. Tuttavia, il Trattato di Lisbona ha previsto anche delle ipotesi di diretto
coinvolgimento dei Parlamenti nazionali a livello dell’UE, la cui principale manifestazione è
rappresentata dal loro intervento nelle procedure legislative dell’UE, con lo specifico fine di vigilare sul
rispetto del principio di sussidiarietà. Ulteriori prerogative riconosciute ai Parlamenti nazionali dal
Trattato di Lisbona attengono allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Nell’ambito di tali formule sono
comprese varie forma di intervento, ma anche in questo settore, i Parlamenti vigilano sull’applicazione del
diritto di sussidiarietà.
L’articolo 12 TUE aggiunge alle prerogative dei Parlamenti nazionali la partecipazione alle procedure di
revisione dei Trattati. Si tratta, in particolare, di una delle due procedure di revisione semplificate previste
da tale norma, e in particolare di quella che riguarda la possibilità di sostituir il requisito dell’unanimità
con quello della maggioranza qualificata per alcune decisioni del Consiglio o di sostituire una procedura
legislativa speciale con la procedura legislativa ordinaria. Infine, l’articolo 12 TUE dispone che i
Parlamenti nazionali partecipino, insieme al Parlamento europeo, a una cooperazione interparlamentare.
Anche se le norme appena esaminate danno ai Parlamenti nazionali solo alcuni diritti di informazione e di
controllo, presentano aspetti positivi sotto il profilo della democratizzazione del funzionamento dell’UE.
Tuttavia, secondo una lettura meno positiva, è il potenziamento del Parlamento europeo, non dei
Parlamenti nazionali, la modalità di democratizzazione dell’UE più coerente con le caratteristiche del
sistema.

20. L’integrazione differenziata e le cooperazioni rafforzate.


A partire dal Trattato di Amsterdam, si è cominciata a prevedere nei Trattati la possibilità di cooperazioni
rafforzate tra alcuni soltanto degli Stati membri, per consentire a questi ultimi di realizzare forme di
integrazione più avanzata. Prima di esaminare nei dettagli l’attuale disciplina di questo istituto, occorre
però inquadrarlo in una più ampia tendenza a realizzare forme di cosiddetta integrazione differenziata tra
gli Stati membri dell’UE. Nel diritto positivo, una prima forma di integrazione differenziata era stata
realizzata già con i cosiddetti Accordi di Schengen, ossia l’Accordo sulla soppressione graduale dei
controlli alle frontiere comuni. Alla relativa Convenzione di applicazione avevano aderito inizialmente solo
Francia, Germania e i tre Paesi del Benelux. Questi accordi tuttavia, si collocavano al di fuori del quadro
giuridico e istituzionale dell’UE. Tale cooperazione rafforzata coinvolge oggi tutti gli Stati membri, ad
esclusione del Regno Unito e Irlanda, nonché taluni Stati terzi. Anche più di recente si sono formate forme
di integrazione differenziata attraverso la conclusione di accordi internazionali, vale a dire il cosiddetto
Fiscal Compact e il Trattato MES.
A partire dal Trattato di Maastricht poi, ha cominciato a manifestarsi una seconda forma di interazione
differenziata, rappresentata dalle cosiddette clausole di opting out, le quali esentano taluni Stati membri dal
rispetto di specifiche parti del diritto dell’UE. Citiamo al riguardo, tra i Protocolli attualmente in vigore, il
Protocollo n.21, in virtù del quale la disciplina dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia non si applica,
entro certi limiti, al Regno Unito e all’Irlanda, o il Protocollo n. 30, che pone dei limiti all’applicazione

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della Carta dei diritti fondamentali dell’UE al Regno Unito e alla Polonia. Questa forma di integrazione
differenziata ha quindi una valenza negativa, nel senso che determina una retroguardia di Stati membri,
sottratti all’obbligo di rispettare quelle parti della disciplina comune che non sono disposti ad accettare per
ragioni di carattere politico o giuridico. L’istituto della cooperazione rafforzata risponde, invece,
all’obbiettivo di favorire la formazione di avanguardie di Stati membri, che approfondiscano la loro
integrazione in alcuni specifici ambiti. Quanto al numero dei partecipanti, l’articolo 20 TUE prevede che
una cooperazione rafforzata possa instaurarsi tra almeno 9 Stati membri, ma comunque, la Commissione e
gli Stati membri si debbono adoperare perché vi partecipi il maggior numero possibile di Stati. Pertanto, la
cooperazione rafforzata deve essere aperta in qualsiasi momento a tutti gli Stati membri. Quanto al loro
oggetto, le cooperazioni rafforzate possono riguardare solo settori in cui l’UE abbia una competenza non
esclusiva, e devono in ogni caso essere volte a “rafforzare il suo processo di integrazione”. Inoltre, è
previsto che le cooperazioni rafforzate debbano rispettare i Trattati e il diritto dell’UE e, in particolare,
non debbano recare pregiudizio al mercato interno, né alla coesione economica, sociale e territoriale. Esse
devono anche rispettare diritti e obblighi degli Stati membri che non vi partecipano, mentre questi ultimi,
in base al principio della leale cooperazione, non possono ostacolarne l’attuazione da parte degli Stati
partecipanti.
Quanto alla procedura, la richiesta di istituire una cooperazione rafforzata va presentata dagli Stati membri
interessati alla Commissione, la quale può presentare al Consiglio una proposta al riguardo. Nel caso di
presentazione della proposta al Consiglio, questo decide in merito a maggioranza qualificata, previa
approvazione del Parlamento europeo. È importante osservare che, ai sensi dell’articolo 20 TUE, la
decisione del Consiglio che autorizza una cooperazione rafforzata può essere adottata solo “in ultima
istanza” (cioè qualora esso stabilisca che gli obiettivi ricercati da detta cooperazione non possano essere
conseguiti dall’Unione nel suo insieme).
Gli atti adottati nell’ambito di una cooperazione rafforzata sono obbligatori solo per gli Stati partecipanti
e, se del caso, si applicano direttamente solo all’interno di questi ultimi. Le varie condizioni sostanziali e
procedurali per l’instaurazione di una cooperazione rafforzata, se da un lato rispondono all’esigenza di
garantire la complessiva coerenza del quadro giuridico dell’UE, dall’altro non favoriscono il ricorso
all’istituto in esame.
È solo dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che si sono registrate le prime applicazioni
dell’istituto. Queste hanno interessato il settore della cooperazione giudiziaria civile e il settore
dell’istituzione di una tutela brevettuale unitaria. Più di recente, altre cooperazioni rafforzate sono state
realizzate in due ambiti di grande rilievo, ossia l’ambito della cooperazione giudiziaria in materia penale e
quello della difesa.
Quanto al primo di questi settori (materiale penale), dopo un lungo e travagliato negoziato, è stata istituita a
titolo di cooperazione rafforzata tra 20 Stati membri e la Procura europea, che, una volta operativa, sarà
competente a individuare, perseguire e rinviare a giudizio gli autori di reati che ledono gli interessi
finanziari dell’UE.
Quanto al settore della difesa, l’articolo 42 TUE prevede una cooperazione strutturata permanente tra
alcuni soltanto degli Stati membri, provvisti di più elevate capacità militari e disposti ad assumersi
maggiori impegni per le missioni militari dell’UE.
Da ultimo, sottolineiamo che non costituisce, in senso stretto, un caso di cooperazione rafforzata, ma
piuttosto di un’ulteriore forma di integrazione differenziata sui generis, l’unione monetaria, che ha
portato all’adozione dell’euro da parte di alcuni soltanto degli Stati membri. Tra i rimanenti Stati membri,
Regno Unito e Danimarca beneficiano di un vero e proprio opting out.

CAPITOLO III: IL QUADRO ISTITUZIONALE DELL’UNIONE EUROPEA


21. Le istituzioni dell’UE e i principi che ne regolano i rapporti.
L’UE dispone di un quadro istituzionale attraverso il quale esercita le proprie competenze. Tale quadro
istituzionale mira a promuovere i valori fondanti dell’UE e a perseguirne gli obiettivi, servire i suoi
interessi, quelli dei suoi cittadini e quelli degli Stati membri, nonché garantire la coerenza, efficacia e
continuità delle sue politiche ed azioni.
Gli organi dell’UE sono molteplici, ma l’articolo 13 TUE eleva al rango di istituzioni:
 Il Parlamento europeo
 Il Consiglio europeo
 Il Consiglio
 La Commissione

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 La Corte di Giustizia dell’Unione europea
 La Banca centrale europea (BCE)
 La Corte dei Conti
A tali organi si applicano le norme dei Trattati che si riferiscono alle istituzioni, ma può si applichino anche
ad altri organi dell’UE che non siano qualificati come istituzioni. Non esistono, tra l’altro, criteri specifici
che distinguano le istituzioni dagli organi.
Le relazioni tra le istituzioni dell’UE sono improntate al rispetto di due principi che la Corte di Giustizia ha
messo a punto: il principio dell’equilibrio istituzionale e il principio della leale cooperazione.
Il primo comporta che ogni istituzione eserciti le sue competenze nel rispetto di quelle delle altre
istituzioni e implica che, come espressamente previsto dall’articolo 13 TUE, ciascuna istituzione agisca nei
limiti delle attribuzioni che le sono conferite dai Trattati.
Il secondo principio, che la Corte di Giustizia ha inizialmente dedotto dall’analogo principio relativo ai
rapporti tra gli Stati membri e l’UE, implica a sua volta il dovere reciproco di agevolare e non ostacolare
l’esercizio delle competenze di ciascuna istituzione.
È per facilitare il rispetto di questi principi che si è sviluppata la prassi degli accordi inter-istituzionali.
L’UE, alla stregua di ogni altra organizzazione internazionale, non è invece strutturata secondo il principio
della separazione dei poteri. Va ricordato, al riguardo, che il principio di separazione dei poteri si è
affermato nel moderno Stato di diritto in risposta all’esigenza di decentrare poteri prima nelle mani del
monarca assoluto. Nelle organizzazioni internazionali invece, vi è l’opposta esigenza di crear al centro una
struttura sufficientemente forte da poter rappresentare gli interessi degli Stati membri uti universi, aldilà
dei loro interessi uti singuli. Pertanto, le organizzazioni internazionali non si strutturano secondo il principio
della separazione dei poteri, ma in modo da avere organi capaci di rappresentare il momento unitario
degli Stati membri.
Come vedremo, gli interessi degli Stati membri trovano espressione nel Consiglio europeo e nel Consiglio,
mentre la Commissione assicura la rappresentanza degli interessi degli Stati membri uti universi; in
aggiunta, vi sono il Parlamento europeo, rappresentante dei cittadini dell’UE, e il Comitato delle Regioni
e il Comitato economico e sociale, sedi di rappresentanza, rispettivamente, delle collettività regionali e locali
della società civile organizzata. Il risultato è che, più organi rappresentativi di interessi diversi esercitano
congiuntamente i propri poteri nell’ambito della stessa funzione.

22. Composizione e funzionamento delle istituzioni dell’UE: il Parlamento europeo.


Il Parlamento europeo è composto, come recita l’articolo 14 TUE, dai “rappresentanti dei cittadini
dell’Unione”. Tale rappresentanza dei cittadini risponde ai principi democratici cui l’UE ispira il suo
rapporto con i cittadini stessi e comporta, in particolare, che il Parlamento europeo eserciti, congiuntamente
al Consiglio, la funzione legislativa e la funzione di bilancio, oltre a svolgere funzioni di controllo
politico.
I membri del Parlamento europeo sono eletti a suffragio universale diretto, per un mandato di 5 anni. Per
quanto riguarda le modalità di elezione, l’articolo 223 TFUE prevede che lo stesso Parlamento europeo
elabori un progetto volto a stabilire una procedura uniforme in tutti gli Stati membri o principi comuni a
tutti gli Stati membri, e che il Consiglio stabilisca le disposizioni necessarie, con delibera da adottarsi
all’unanimità e previa approvazione del Parlamento europeo. Questa delibera del Consiglio è subordinata
alla “previa approvazione degli Stati membri” e costituisce in sostanza un accordo internazionale.
Nonostante i molti progetti elaborati dal Parlamento europeo, non è stato finora possibile accordarsi su una
procedura elettorale uniforme. Sono stati stabiliti, invece, dei principi comuni, contenuti nell’atto relativo
all’elezione dei membri del Parlamento europeo a suffragio universale diretto, originariamente adottato in
vista delle prime elezioni che ebbero luogo nel 1979, e in seguito modificato. Tale atto prevede, tra l’altro,
che le elezioni debbano svolgersi con il metodo proporzionale, e che abbiano luogo in un giorno fissato tra
il giovedì e la domenica di una settimana fissata per tutti gli Stati membri. A parte tali principi comuni, la
procedura elettorale resta disciplinata da ciascuno Stato membro dalle rispettive disposizioni nazionali. In
particolare, la Corte di Giustizia ha ritenuto da un lato, che gli Stati membri possano concedere il diritto di
voto a determinate persone che, pur non avendo la cittadinanza dell’UE, possiedono stretti legami con
essi; dall’altro, che gli Stati membri possano anche, per converso, privare taluni loro cittadini del diritto di
voto, purché nel rispetto del principio della parità di trattamento con gli altri cittadini.
Il numero dei componenti del Parlamento europeo è venuto crescendo a seguito dei successivi allargamenti
dell’’UE, passando dai 142 originari ai 751 membri previsti dall’articolo 14 TUE. Tale norma parla in verità
di 750 membri “più il Presidente”, con una formula bizzarra frutto di un compromesso raggiunto nelle

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ultime fasi del negoziato del Trattato di Lisbona per rispondere alla richiesta avanzata dall’Italia di disporre
di 73 seggi, al pari del Regno Unito, invece che di 72 seggi. Circa il numero di parlamentari da eleggersi in
ogni Stato membro, l’articolo 14 TUE stabilisce che “la rappresentanza dei cittadini è garantita in modo
digressivamente proporzionale”, con ciò intendendo che il criterio demografico non verrà rigorosamente
rispettato, ma che i parlamentari espressi dai Paesi più popolati saranno, in rapporto alla loro popolazione,
in numero inferiore rispetto a quelli dei Paesi meno popolati (anche se questi ultimi non dovranno
comunque avere più seggi di quelli di un Paese più popolato). Nel rispetto di tali criteri, la composizione
effettiva del Parlamento europeo è decisa dal Consiglio europeo all’unanimità, su iniziativa del
Parlamento europeo e previa approvazione dello stesso.
Per quanto riguarda la ripartizione dei seggi per la legislatura 2019-2024, si tiene conto dell’ormai prossimo
recesso del Regno Unito dall’UE, che prevede una riduzione del numero dei membri a 705, con una solo
parziale riassegnazione agli altri Stati membri dei 73 seggi spettando al Regno Unito nella corrente
legislatura.
Lo statuto e le condizioni generali per l’esercizio delle funzioni dei parlamentari europei sono stabiliti di
sua iniziativa dal Parlamento europeo, che delibera con regolamento previo parere della Commissione e
previa approvazione del Consiglio.
I parlamentari sono liberi e indipendenti; non possono ricevere istruzioni né mandati imperativi. Il già
menzionato atto relativo all’elezione dei membri del Parlamento europeo a suffragio universale diretto
stabilisce alcune incompatibilità con la carica di parlamentare europeo. In particolare, non può essere
deputato europeo chi è anche membro di altre istituzioni dell’UE o di un governo nazionale
(quest’ultima incompatibilità deriva, ovviamente, dalla caratteristica tipica del Parlamento europeo, che è
quella di rappresentare i cittadini e non gli Stati). Questa incompatibilità è volta a scongiurare il pericolo di
assenteismi dovuti alla necessità di adempiere alle incombenze derivanti dalla carica di parlamentare
nazionale. Le immunità e i privilegi dei membri del Parlamento europeo prevedono che i parlamentari
europei non possono essere ricercati, detenuti o perseguiti a motivo delle opinioni o dei voti espressi
nell’esercizio delle loro funzioni. Essi, inoltre, per la durata delle sessioni del Parlamento, godono, sul
territorio nazionale, delle immunità riconosciute ai parlamentari del loro Paese e, sul territorio di ogni
altro Stato membro, dell’esenzione di ogni provvedimento di detenzione o procedimento giudiziario.
Quest’immunità, in ogni caso, può essere tolta dal Parlamento europeo stesso.
L’organizzazione e il funzionamento del Parlamento europeo sono disciplinati dal suo regolamento
interno, che è espressione del potere di auto-regolamentazione di cui gode la maggior parte delle
organizzazioni internazionali. In regolamento interno non potrebbe, in teoria, contenere disposizioni ultra
vires, ovvero eccedenti i poteri attribuiti al Parlamento europeo dai Trattati; tuttavia, attraverso tale
regolamento il Parlamento europeo ha talvolta tentato di dotarsi di poteri non previsti dai Trattati.
Il Parlamento europeo si organizza al proprio interno, non secondo la nazionalità dei propri componenti, ma
secondo gruppi politici che condividono idee politiche affini. L’articolo 32 del regolamento interno
stabilisce che, per costituire un gruppo politico, occorre un numero minimo di 25 parlamentari eletti in
almeno un quarto degli Stati membri; in applicazione di questa regola, nella legislatura 2014-2019 sono
stati costituiti 8 gruppi politici.
Quanto all’organizzazione dei loro lavori, i parlamentari europei si suddividono in commissioni
permanenti, cui è attribuita una competenza per materia (per lo più corrispondente alla ripartizione di
competenze che esiste tra le varie Direzioni generali della Commissione). Il Parlamento europeo elegge al
proprio interno un Presidente e alcuni Vicepresidenti, che rimangono in carica due anni e mezzo e che
tutti insieme costituiscono l’Ufficio di presidenza. Quest’ultimo nomina un Segretario generale, che è a
capo del Segretariato generale del Parlamento. Il Presidente del Parlamento ha visto con il tempo
accrescere il suo peso politico, in corrispondenza con l’aumento dei poteri del Parlamento stesso.
L’articolo 229 TFUE prescrive che il Parlamento europeo tenga una sessione annuale, la quale ha inizio, di
diritto, il secondo martedì del mese di marzo. In pratica, nell’ambito di tale sessione annuale, il Parlamento
tiene una tornata plenaria al mese, così che esso può considerarsi sostanzialmente in sessione per tutto
l’anno.
La sede del Parlamento europeo ha costituito terreno di scontro tra gli Stati membri co-interessati ad
ospitarne le sedute. Il Protocollo n.6 sulle sedi delle istituzioni, allegato ai Trattati, fissa ora la sede del
Parlamento europeo a Strasburgo, ove si tengono le dodici tornate plenarie mensili. Le tornate plenarie
aggiuntive si tengono a Bruxelles. Le commissioni si riuniscono a Bruxelles. Il Segretariato generale del
Parlamento europeo e i suoi servizi sono a Lussemburgo. Questa dispersione dei luoghi non contribuisce
certo a massimizzare l’efficienza dei lavori dell’istituzione e a ridurne i costi.

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Nei casi in cui i Trattati non dispongano diversamente, il Parlamento europeo delibera a maggioranza dei
suffragi espressi. Il numero legale (o quorum) è raggiunto quando sia presente in aula 1/3 dei membri del
Parlamento. Per le delibere più importanti invece è richiesta la maggioranza assoluta dei membri del
Parlamento europeo: così, per esempio, per molte delibere in materia di bilancio, per l’elezione del
Presidente della Commissione, per l’approvazione del proprio regolamento interno, in materia di procedura
semplificata di revisione dei Trattati, per l’ammissione di nuovi Stati membri. Per le delibere cruciali, come
la constatazione dell’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei
valori di cui all’articolo 2 TUE, è prevista la maggioranza dei membri e dei 2/3 dei voti espressi, mentre la
maggioranza dei membri e dei 3/5 dei voti espressi è prevista perché il Parlamento europeo possa
confermare emendamenti al bilancio respinti dal Consiglio.

23. Il Consiglio europeo.


Il Consiglio europeo ha il compito di dare all’UE “gli impulsi necessari al suo sviluppo” e di definire “gli
orientamenti e le priorità politiche generali”, come stabilisce l’articolo 15 TUE. Il suo ruolo è, quindi,
essenzialmente di indirizzo politico, tanto che, in coerenza con ciò, la norma precisa che il Consiglio
europeo non esercita funzioni legislative. Tale ruolo trova espressione nelle conclusioni che lo stesso
Consiglio europeo adotta al termine di ciascuna riunione. Il Consiglio europeo rappresenta la definitiva
istituzionalizzazione di una pratica di riunioni periodiche tra i capi di Stato o di governo, iniziata con i
cosiddetti Vertici, al fine di fornire nuovi indirizzi politici all’attività dell’UE. Il primo di tali Vertici fu
quello di Parigi del 1961. I Vertici cambiarono la propria denominazione in Consiglio europeo,
denominazione poi confermata in occasione del suo primo riconoscimento formale ad opera dell’AUE. Da
quel momento, il Consiglio europeo ha svolto un ruolo crescente di propulsione per l’attività dell’UE,
vedendosi anche attribuire specifici poteri decisionali accanto alla più generale funzione di indirizzo
politico. Questa evoluzione è culminata con il Trattato di Lisbona, che, gli ha riconosciuto lo status di
istituzione dell’UE.
Il Consiglio europeo è composto dai Capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal suo Presidente e
dal Presidente della Commissione. Il Presidente del Parlamento europeo può essere eventualmente
invitato alle riunioni per essere ascoltato. Il Presidente del Consiglio europeo è eletto da quest’ultimo a
maggioranza qualificata per un mandato di due anni e mezzo, rinnovabile una sola volta. Egli non può
esercitare un mandato nazionale. Il Consiglio europeo può porre fine al mandato del suo Presidente per
impedimento o colpa grave. Il Parlamento europeo non è in alcun modo coinvolto nell’elezione del
Presidente del Consiglio europeo.
Il Presidente del Consiglio europeo non è gerarchicamente superiore rispetto agli altri membri, ma è
piuttosto chiamato a svolgere delle funzioni, che sono essenzialmente di carattere procedurale o
strumentale. Egli, infatti:
- Convoca, presiede ed anima le riunioni del Consiglio
- Assicura la preparazione e la continuità dei suoi lavori
- Si adopera per facilitare il raggiungimento del consenso al suo interno
- Presenta al Parlamento europeo una relazione dopo ciascuna delle sue riunioni
Inoltre, egli assicura la rappresentanza esterna dell’UE nell’ambito della politica estera e di sicurezza
comune. Nel complesso, dunque, il Presidente del Consiglio europeo è concepito come una figura chiamata
ad agevolare i lavori dell’istituzione e a mediare tra i Capi di Stato o di governo. Il Consiglio europeo si
riunisce due volte a semestre, su convocazione del Presidente, ma vi possono essere riunioni
straordinarie se la situazione lo richiede. Il regolamento interno del Consiglio europeo dispone che le
riunioni abbiano luogo a Bruxelles, salvo circostanze eccezionali. Le delibere del Consiglio europeo sono
adottate secondo il metodo del consenso, in virtù del quale una delibera si considera approvata, senza
procedere a una formale votazione, se nessuno dei membri solleva obiezioni. In effetti, i Trattati prevedono
molti casi in cui il Consiglio europeo procede, invece, a votazione è importante sottolineare che, nei casi di
votazione, né il Presidente del Consiglio europeo, né il Presidente della Commissione partecipano al
voto. Questa mancata partecipazione ha una sua logica nel caso di votazioni a maggioranza qualificata,
dato che la relativa procedura si riferisce a percentuali di Stati membri e di popolazione di tali Stati. La
ratio dell’esclusione dal voto di questi ultimi sfugge invece, per i casi di votazioni all’unanimità o a
maggioranza semplice. In ogni modo, è lecito affermare che, quando procede a votazione, il Consiglio
europeo è a pieno titolo un organo collegiale di Stati, nel senso che l’individuo che esercita il diritto di voto
non lo fa a titolo individuale, ma in rappresentanza dello Stato di appartenenza. Quanto all’unanimità,
essa è richiesta per delibere di particolare importanza, come, per esempio, per la constatazione di una

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grave e persistente violazione, da parte di uno Stato membro, dei valori di cui all’articolo 2 TUE, per la
decisione sulla composizione del Parlamento europeo, nell’ambito dell’azione esterna dell’UE.
Vi sono poi casi in cui è previsto che il Consiglio europeo decida a maggioranza qualificata, ad esempio,
come abbiamo appena visto, per l’elezione del suo Presidente, per le decisioni sulle formazioni del
Consiglio e sulla loro presidenza. Per il Consiglio europeo valgono le stesse regole per il calcolo della
maggioranza qualificata previste per il Consiglio, ma dato lo scarso numero di decisioni a maggioranza
qualificata che il Consiglio europeo può adottare, l’importanza della procedura di voto a maggioranza
qualificata è molto maggiore per il Consiglio.
In altri casi, infine, il Consiglio europeo delibera a maggioranza semplice, come per la decisione relativa
all’esame delle proposte di modifica dei Trattati o le decisioni su questioni procedurali, inclusa
l’adozione del proprio regolamento interno. Quando il Consiglio europeo procede a votazione, ogni membro
può ricevere delega da uno solo degli altri membri. Inoltre, l’astensione di membri presenti o
rappresentati non osta al raggiungimento dell’unanimità, ove richiesta, mentre è da ritenersi che l’assenza di
uno degli stessi sia, invece, di ostacolo a tale raggiungimento. La natura del Consiglio europeo sfugge a
una definizione unitaria, in quanto i suoi compiti non sono omogenei. Indubbiamente, esso svolge anzitutto
la funzione di indirizzo politico che gli è assegnata dall’articolo 15 TUE. A volte però, il Consiglio europeo
è chiamato a integrare o attuare disposizioni dei Trattati, come quando decide sulle formazioni del
Consiglio o sulla composizione del Parlamento europeo, o ancora, come quando nomina il proprio
Presidente e l’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza. Talvolta, poi, esso potrebbe
apparire come una riunione di organi degli Stati membri, al pari di una conferenza intergovernativa.
Altre volte, infine, il Consiglio europeo agisce come un organo di seconda istanza rispetto al Consiglio, o
in qualche modo sovraordinato rispetto allo stesso.

24. Il Consiglio.
Il Consiglio ha il compito primario di esercitare, congiuntamente al Parlamento europeo, la funzione
legislativa e la funzione di bilancio. In via molto generale, il loro esercizio congiunto implica che occorra
l’accordo di due istituzioni, una (il Consiglio) che rappresenta gli Stati membri nei loro interessi
particolari, l’altra (il Parlamento europeo) che rappresenta i cittadini europei, perché tali funzioni possano
essere esplicate nell’ambito dell’UE. La conseguenza è che il mancato accordo tra le due istituzioni
paralizza l’azione dell’UE, in quanto nessuna delle due può indirizzare tale azione esclusivamente secondo
il suo volere. Altro compito attribuito al Consiglio, è quello di esercitare competenze di esecuzione, ed è
inoltre titolare di un potere generale di emanare raccomandazioni.
Il Consiglio è composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale, quindi i
suoi membri sono di un livello inferiore rispetto a quelli del Consiglio europeo, ma devono pur sempre
essere in grado di impegnare i rispettivi Stati attraverso l’esercizio del diritto di voto. La rappresentanza a
livello ministeriale implica la partecipazione alle riunioni di Ministri, Sottosegretari, o di qualsiasi altra
persona avente rango ministeriale. In realtà, la norma è stata interpretata abbastanza elasticamente, così
che da alcune riunioni del Consiglio, quando i Ministri o i Sottosegretari sono impossibilitati, partecipano
funzionari governativi di rango inferiore.
Il Consiglio è un organo collegiale di Stati, nel senso che abbiamo indicato per il Consiglio europeo e,
assieme a quest’ultimo, costituisce la massima espressione del momento intergovernativo nell’equilibrio
istituzionale dell’UE. In Consiglio si riunisce in varie formazioni in corrispondenza dei settori di attività
dell’UE. Come già accennato, spetta al Consiglio europeo stabilire l’elenco di tali formazioni. Tale elenco
deve comunque comprendere una formazione “Affari generali”, la quale elabora l’azione esterna dell’UE
secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo e assicura la coerenza dell’azione dell’UE nel
settore. Attualmente, le formazioni del Consiglio sono quelle definite dal Consiglio “Affari generali”, con la
decisione del 1° Dicembre 2009. Esse includono le formazioni “Affari economici e finanziari”, “Giustizia e
affari interni”, “Agricoltura e pesca” ecc.… per un totale di dieci formazioni che coprono, nel complesso,
tutti i settori di attività dell’UE.
La presidenza del Consiglio è esercitata dai suoi membri secondo un sistema di rotazione paritaria, con la
sola eccezione della presidenza della formazione “Affari esteri”, che spetta di diritto all’Alto
rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Anche in questo caso è demandato
al Consiglio europeo il compito di stabilire il suddetto sistema di rotazione prioritaria. La decisione del 1°
Dicembre 2009 prevede che la presidenza del Consiglio e delle sue formazioni venga esercitata da gruppi
predeterminati di tre Stati membri per un periodo di diciotto mesi, nell’arco del quale ciascuno di tali
Stati esercita a turno la presidenza per sei mesi e gli altri due lo assistono in tale compito sulla base di un

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programma stabilito in comune dai tre Stati per l’intero periodo. I gruppi di tre Stati membri vengono
determinati sulla base di un sistema di rotazione paritaria degli Stati membri, tenendo conto della loro
diversità e degli equilibri geografici dell’Unione. In sostanza, attraverso queste regole si mantiene il
sistema di rotazione semestrale tradizionalmente adottato per la presidenza del Consiglio, ma si consente una
pianificazione dell’attività della presidenza. Il Consiglio, nelle sue varie formazioni, si riunisce su
convocazione del suo Presidente. Esso non è quindi un organo permanente, come lo sono gli altri organi
ad esempio la Commissione. Per ovviare agli inconvenienti creati dalla crescente frequenza delle riunioni,
si è sviluppata la prassi della procedura scritta, secondo cui il testo di una determinata risoluzione viene
inviato ai vari Stati membri, che manifestano per iscritto il loro dissenso o assenso.
Altro sviluppo introdotto dalla prassi è quello dei Consigli informali, i quali hanno luogo quando gli Stati
membri desiderano discutere una materia relativamente alla quale non intendono adottare nessuno
specifico provvedimento, ma semplicemente scambiarsi i rispettivi punti di vista. Carattere informale ha
anche l’Eurogruppo, che riunisce i Ministri economico-finanziari degli Stati membri la cui moneta è
l’euro. Il Consiglio è assistito da un Segretario generale, che svolge le stesse funzioni di assistenza anche
nei confronti del Consiglio europeo, e dal Comitato dei rappresentanti permanenti dei governi degli Stai
membri, o COREPER.
Il COREPER è composto dai rappresentanti diplomatici che ciascuno Stato membro accredita presso l’UE.
Esso è responsabile della preparazione dei lavori del Consiglio e dell’esecuzione dei compiti che questo gli
assegna. A differenza del Consiglio, il COREPER è un organo permanente e, quindi, in grado di svolgere
senza soluzione di continuità il suo ruolo. In pratica, il COREPER filtra le proposte della Commissione,
con la conseguenza che tali proposte vengono poi sottoposte al Consiglio per la sola ratifica formale
(cosiddetti “punti A” dell’ordine del giorno), oppure inoltrando al Consiglio per la discussione quelle più
problematiche (cosiddetti “punti B”) e, infine, bloccando le proposte che gli Stati membri non sono
nemmeno preparati a discutere.
Si aggiunga che i lavori del COREPER sono a loro volta preparati da numerosi gruppi di lavoro
specializzati per materia. L’articolo 16 TUE stabilisce che, quando i Trattati non dispongano
diversamente, il Consiglio delibera a maggioranza qualificata. Il sistema di voto a maggioranza qualificata
comporta la necessità di una doppia maggioranza: il consenso di almeno il 55% dei membri del Consiglio
con un minimo di 15 Stati, i quali rappresentino Stati membri che totalizzino almeno il 65% della
popolazione dell’UE. Si tiene, così, conto sia degli Stati individualmente considerati, che della importanza
relativa degli stessi sulla base della loro popolazione. Secondo queste regole, la “minoranza di blocco”, cioè
il numero di Stati in grado di bloccare, con il loro dissenso, il raggiungimento della suddetta maggioranza,
sarebbe pari a 13 Stati, o, in alternativa, a un numero di Stati che abbiano una popolazione superiore al
35% del totale. L’articolo 16 TUE precisa però, che la minoranza di blocco relativa alla popolazione deve
comprendere almeno 4 Stati per evitare che 3 Stati di grande popolazione siano in grado da soli di bloccare
una decisione.
Regole lievemente diverse valgono per il caso in cui il Consiglio non deliberi su proposta della
Commissione o dell’Alto rappresentante dell’Unione, ma di sua iniziativa o su proposta proveniente da
altri soggetti. In tali casi, in cui manca la garanzia di una proposta proveniente da un organo preposto alla
tutela dell’interesse dell’UE, la maggioranza richiesta per il numero degli Stati membri passa dal 55% al
72%, mentre la maggioranza richiesta per la popolazione resta al 65%. Queste regole sulla maggioranza
qualificata, previste dal Trattato di Lisbona, non sono tuttavia entrate in vigore contestualmente a
quest’ultimo, ma solo dal 1° novembre 2014, data la resistenza di Stati come la Spagna e la Polonia. Fino al
31 ottobre 2014 quindi, ha continuato ad applicarsi, per il calcolo della maggioranza qualificata, il sistema di
ponderazione dei voti stabilito dal Trattato di Nizza. Questa ponderazione teneva conto grosso modo del
criterio demografico, ma con importanti correttivi dettati da motivi politici, economici e di opportunità.
Tale ponderazione dei voti è ora definitivamente abolita e sostituita dal differente peso attribuito agli
Stati. L’introduzione del nuovo sistema di calcolo della maggioranza qualificata è stata accompagnata da
ulteriori cautele. La relativa decisione prevede norme particolari tutte volte a rendere più difficile
l’adozione di decisioni a maggioranza qualificata e a favorire gli Stati dissenzienti. La decisione prevede
che, se un numero di membri del Consiglio che rappresenta o almeno il 55% della popolazione necessaria
per costituire una minoranza di blocco o almeno il 55% degli Stati membri necessari per costituire una
minoranza di blocco, manifesta l’intenzione di opporsi all’adozione di un atto a maggioranza qualificata, il
Consiglio prosegue la discussione per un periodo di tempo ragionevole, con l’obiettivo di pervenire a una
situazione soddisfacente per gli Stati dissenzienti, anche se minoritari. Due osservazioni conclusive si
impongono al riguardo: l’importanza vitale che gli Stati membri attribuiscono alla materia, dimostrato da

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tutti i loro sforzi per ritardare o rendere più difficile l’applicazione di nuove regole; e in secondo luogo, pur
se la decisione in questione è il simbolo dell’attaccamento degli Stati membri alla tutela dei loro
interessi particolari, nel suo preambolo essa viene giustificata dall’esigenza di “rafforzare la legittimità
democratica delle deliberazioni prese a maggioranza qualificata”.
Venendo ora ai casi in cui il Consiglio decide all’unanimità, bisogna sottolineare come, con il progressivo
aumento degli Stati membri, questa regola abbia via via reso più difficile il cammino dell’integrazione
europea. Ci si attendeva che il Trattato di Lisbona riducesse drasticamente i casi di decisioni all’unanimità.
Tale riduzione si è in parte verificata, ma non nella maniera auspicata, in quanto, sono ancora circa 70 le
disposizioni che ancora prevedono che il Consiglio deliberi all’unanimità nelle più svariate materie. Questa
situazione conferma l’attaccamento da sempre dimostrato dagli Stati membri alla regola dell’unanimità.
Ricordiamo infatti, che, quasi a compensare l’ancora diffusa previsione del criterio dell’unanimità, la sua
sostituzione con il voto a maggioranza qualificata nell’ambito del TFUE può avvenire secondo una
procedura di revisione semplificata. Accanto a tale clausola “orizzontale”, inoltre, vi sono casi di
“passerelle settoriali”, intese ad agevolare il passaggio dall’unanimità alla maggioranza qualificata in
specifiche materie. Per dare attuazione a tali clausole occorre sempre, però, l’unanimità degli Stati
membri. Il Consiglio può anche, in alcuni casi, deliberare a maggioranza semplice dei membri che lo
compongono. La maggioranza semplice è utilizzata solo per provvedimenti inter-organici o adempimenti
procedurali del Consiglio.
Come per il Consiglio europeo, anche il Consiglio, in caso di votazione, ciascun membro può ricevere
delega da uno solo degli altri membri. Inoltre, le astensioni di uno o più dei membri presenti o
rappresentati non ostacolano l’adozione di decisioni unanimi. Una particolare forma di astensione nel
settore della politica estera e di sicurezza comune è l’“astensione costruttiva”, in quanto intende
rappresentare per gli Stati dissenzienti un’alternativa al voto contrario, la quale comporta che la decisione
del Consiglio non si applichi agli Stati membri che abbiano dichiarato la propria astensione con
un’apposita dichiarazione formale. L’assenza di uno o più Stati membri non consente, invece, l’adozione di
una delibera all’unanimità. Il Consiglio ha sede a Bruxelles. Il Consiglio si riunisce in seduta pubblica
quando delibera e vota su un progetto di un atto legislativo.
Il Consiglio è un’istituzione dell’UE e, come tale, i suoi atti sono imputabili all’UE stessa e non ai singoli
Stati membri. Tuttavia, al pari del Consiglio europeo, anche il Consiglio potrebbe sembrare una riunione di
organi degli Stati membri, al pari di una conferenza intergovernativa. Sono però da considerare come
accordi internazionali in forma semplificata, imputabili agli Stati membri e non all’UE, quelle delibere che
vengono prese “di comune accordo dai governi degli Stati membri”. In tali casi, anche se si riuniscono in
Consiglio, i partecipanti agiscono non più come componenti di un’istituzione dell’UE, ma come riunione dei
rappresentanti degli Stati membri. I casi in cui essi decidono all’unanimità testimoniano la persistente
prevalenza della dimensione intergovernativa nell’equilibrio istituzionale dell’UE.

25. La Commissione e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
La Commissione è considerata la “guardiana” dei Trattati. I suoi compiti essenziali sono di promozione
dell’interesse generale dell’UE e di vigilanza sull’applicazione del diritto dell’’UE. In questo contesto
essa esercita i poteri di iniziativa, decisionali e di controllo. Essa, inoltre, è titolare di un potere generale di
emanare raccomandazioni e gode altresì di un potere generale di “raccogliere tutte le informazioni e
procedere a tutte le necessarie verifiche” nei limiti e alle condizioni fissati dal Consiglio. La Commissione è
composta da un cittadino di ciascuno Stato membro, compresi il suo Presidente e l’Alto rappresentante
dell’Unione per gli affari esteri, che, come vedremo, è uno dei suoi Vicepresidenti. In verità, dal 1°
novembre 2014 la Commissione avrebbe dovuto avere un numero di membri pari ai 2/3 del numero degli
Stati membri, a meno che il Consiglio europeo non avesse deciso di modificare tale numero: questo di fatto
è avvenuto con la decisione di comprendere un numero di membri pari a quello degli Stati membri. I
membri della Commissione sono scelti “in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo”.
Essendo, quindi, i Commissari nominati a titolo individuale, la Commissione, a differenza del Consiglio, è
un organo collegiale di individui. L’articolo 17 TUE infatti, specifica i contenuti del requisito della piena
indipendenza dei Commissari e i loro obblighi. Tali norme prevedono che i membri della Commissione
non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo, istituzione, organo ed organismo, e che,
correlativamente, gli Stati membri si impegnano a rispettare l’indipendenza dei Commissari e a non
cercare di influenzarli nell’esecuzione dei loro compiti. La sola eccezione è costituita dall’Alto
rappresentante il quale agisce, non solo come membro e Vicepresidente della Commissione, ma anche
come “mandatario” del Consiglio, in rappresentanza degli interessi degli Stati membri. I Commissari:

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 Si astengono da ogni atto incompatibile con il carattere delle loro funzioni
 Non possono, per la durata delle loro funzioni, esercitare nessun’altra attività professionale
 Anche dopo la cessazione delle loro funzioni hanno l’obbligo di rispettare i doveri di onestà e
delicatezza nell’accettare determinate funzioni
In caso di violazione da parte dei Commissari dei suddetti obblighi, la Corte di Giustizia, su istanza del
Consiglio o della Commissione, può pronunciare le dimissioni d’ufficio del Commissario in questione.
La procedura di nomina dei membri della Commissione si svolge in più fasi.
1) In primo luogo, il Consiglio europeo, a maggioranza qualificata, propone al Parlamento europeo un
candidato alla carica di Presidente della Commissione. La proposta va formulata tenendo conto
delle elezioni al Parlamento europeo. È infatti il Parlamento europeo che deve eleggere, a
maggioranza dei membri che lo compongono, il Presidente della Commissione proposto dal
Consiglio europeo.
2) Una volta eletto il Presidente, è il Consiglio che, d’accordo con quest’ultimo, adotta l’elenco degli
altri candidati che propone di nominare come Commissari.
3) Infine, il presidente, l’Alto rappresentante e gli altri Commissari così designati sono soggetti,
collettivamente e non individualmente, a un voto di approvazione da parte del Parlamento
europeo.
4) Dopo tale approvazione, l’intera Commissione è nominata dal Consiglio europeo, che delibera a
maggioranza qualificata.
5) Inoltre, il Parlamento europeo ha instaurato la prassi di procedere, prima del voto di approvazione,
ad audizioni pubbliche dei candidati Commissari.
Il Presidente della Commissione gode di una vasta gamma di poteri, che si sono accresciuti nel tempo
attraverso la prassi e le varie revisioni dei Trattati, tra cui:
 Definire gli orientamenti generali della Commissione e dei suoi compiti
 Decidere sull’organizzazione interna della Commissione
 Nominare i Vicepresidenti
Il potere più importante del Presidente della Commissione è, però, quello di obbligare un Commissario a
rassegnare le dimissioni, anche in questo caso a sola eccezione dell’Alto rappresentante, al cui mandato,
solo il Consiglio europeo può porre fine. I Commissari durano in carica 5 anni. Oltre che per decorrenza
del termine, essi vengono a scadere anche per decesso, dimissioni d’ufficio o dimissioni volontarie, nei
quali è il Consiglio a sostituirli con un membro della stessa nazionalità per la restante parte del loro
mandato. Il Consiglio può anche decidere di non coprire il posto vacante.
La Commissione al proprio interno è assistita da un Segretario generale ed è organizzata in Direzioni
generali competenti per materia, a capo di ciascuna delle quali è preposto un Commissario. Nonostante
tale ripartizione di competenze tra i Commissari, vige il principio della responsabilità collegiale degli
stessi.
La sede della Commissione è a Bruxelles, con alcuni servizi distaccati a Lussemburgo. Gli Uffici di
rappresentanza esistono in molte città, comprese Roma e Milano. Le decisioni della Commissione sono
prese a maggioranza dei suoi membri.
L’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza è nominato dal Consiglio
europeo a maggioranza qualificata con l’accordo del Presidente della Commissione. Il Consiglio europeo
ha anche il potere di porre fine al suo mandato. Il Parlamento europeo non è coinvolto nella nomina
dell’Alto rappresentante, ma i suoi poteri riguardano anche questa figura. Le funzioni conferite all’Alto
rappresentante dal Trattato di Lisbona ne delineano una posizione a cavallo tra Consiglio e Commissione,
figurativamente riassunta nel cosiddetto “double hat” di cui egli sarebbe munito. Infatti, l’Alto
rappresentante guida la politica estera e di sicurezza comune dell’UE; presiede il Consiglio “Affari esteri”;
ma è anche membro della Commissione, della quale è di diritto uno dei Vicepresidenti. Nell’esercizio di
queste funzioni, l’Alto rappresentante si avvale del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE).
L’attribuzione all’Alto rappresentante delle diverse funzioni si giustifica con l’obiettivo di garantire la
coerenza dell’azione esterna dell’UE. Questo cumulo di funzioni, tuttavia, espone nello stesso tempo l’Alto
rappresentante a una duplice lealtà nei confronti del Consiglio e della Commissione, ovvero di interessi
non sempre conciliabili. Ne discende il rischio di attriti tra l’Alto rappresentante e gli altri membri della
Commissione, in particolare il suo Presidente. Un altro possibile attrito è quello con il Presidente del
Consiglio europeo, dato che sia a quest’ultimo che all’Alto rappresentante sono affidati compiti di
rappresentanza esterna dell’UE. Tuttavia, le disposizioni lasciano intendere che il Presidente del Consiglio
europeo dovrebbe, in linea di principi, rappresentare l’UE in occasione di vertici tra capi di Stato o di

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governo, mentre l’Alto rappresentante dovrebbe avere come propri interlocutori i Ministri degli affari
esteri.

26. La Corte di Giustizia dell’Unione europea.


La Corte di Giustizia dell’Unione europea è concepita come istituzione unitaria, ma suddivisa in una
pluralità di organi giurisdizionali: Corte di Giustizia, Tribunale e tribunali specializzati. Gli originali
Trattati istitutivi della Comunità europea prevedevano la sola Corte di giustizia. Il Tribunale fu invece
previsto dall’Atto unico europeo. Infine, è stato il Trattato di Nizza a contemplare la possibilità di istituire
tribunali specializzati, anche se, non esistono attualmente tribunali di questo tipo.
Il compito della Corte di Giustizia dell’UE nel suo complesso è quello di assicurare “il rispetto del diritto
nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati”, nell’ambito delle competenze rispettivamente
attribuite a ciascuno degli organi giurisdizionali. Tali competenze sono in sostanza esplicate attraverso due
tipi di pronunce, ossia quelle in via contenziosa (su ricorsi presentati da Stati membri), oppure quelle in
via pregiudiziale (su richiesta dei giudici nazionali, relativamente all’interpretazione del diritto dell’UE).
L’organizzazione e il funzionamento della Corte di Giustizia dell’UE sono disciplinati, oltre che dai
Trattati, dallo Statuto della stessa. Questo ha il rango di fonte primaria dell’ordinamento dell’UE, anche se
l’articolo 281 TFUE ne agevola la modifica, prevedendo che questa possa avvenire, di regola, secondo la
procedura legislativa ordinaria, su richiesta della Corte di Giustizia e previa consultazione della
Commissione, o viceversa. Il quadro nominativo è poi interato dai regolamenti di procedura della Corte
di Giustizia e del Tribunale, che vengono stabiliti da ciascuno dei due organi.
La Corte di Giustizia è composta da “un giudice per Stato membro” ed è assistita da avvocati generali, il
cui numero, che era pari ad 8 al momento dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, è stato aumentato a
11. La Corte si riunisce in seduta plenaria solo in casi di eccezionale importanza, mentre, normalmente, le
varie cause vengono affidate a sezioni composte da 3 o 5 giudici, o alla grande sezione, composta da 15
giudici.
L’avvocato generale non è un pubblico ministero, egli è membro della Corte, il cui ufficio è quello di
presentare pubblicamente, con assoluta imparzialità e in piena indipendenza, conclusioni motivate sulle
cause che richiedono il suo intervento. Il suo non è quindi un intervento obbligatorio, e la Corte non è
vincolata all’accoglimento delle conclusioni dell’avvocato generale.
Il Tribunale, ai sensi dell’articolo 19 TUE, deve essere composto da “almeno un giudice per Stato membro”,
ma il regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2015 ha disposto un graduale
aumento del numero dei giudici, che lo porterà ad essere composto, a decorrere dal 1° settembre 2019, da
due giudici per Stato membro. Il Tribunale non comprende, invece, avvocati generali. Il Tribunale si
riunisce normalmente in sezioni da 3 o 5 giudici, anche se, in determinati casi disciplinati dal regolamento di
procedura, è disposto che esso si riunisca in grande sezione, composta da 15 giudici, o in seduta plenaria, o
nella persona di un giudice unico.
Il Tribunale funge in alcuni casi da organo giurisdizionale di primo grado rispetto alla Corte di Giustizia,
in quanto, esso è competente a conoscere in prima istanza dei ricorsi per annullamento di atti delle
istituzioni, dei ricorsi in materia di responsabilità extracontrattuale dell’UE, ecc... Restano esclusi dalla
competenza del Tribunale, in particolare, i ricorsi relativi agli adempimenti degli Stati membri e le
controversie tra gli Stati membri. Le sentenze del Tribunale possono essere impugnate dinanzi alla Corte
di Giustizia solo per motivi di diritto, e più precisamente per motivi relativi all’incompetenza del
Tribunale, mentre non può essere chiesto alla Corte di riesaminare la valutazione dei fatti operata dal
Tribunale.
Il Tribunale è invece concepito come organo giurisdizionale di secondo grado relativamente ai ricorsi
presentati contro le decisioni dei tribunali specializzati. Tuttavia, come già accennato, attualmente non
esistono tribunali specializzati. Nell’eventualità che tali Tribunali specializzati vengano istituiti, le
decisioni di questi ultimi potranno essere oggetto di impugnazione davanti al Tribunale per i soli motivi di
diritto o, qualora il regolamento istitutivo lo preveda, anche per motivi di fatto. Infine, l’articolo 256 TFUE
prevede anche che il Tribunale eserciti la competenza pregiudiziale, sia pure solamente in determinate
materie da specificarsi nello Statuto.
I giudici e gli avvocati generali della Corte di Giustizia e i giudici del Tribunale sono “nominati di comune
accordo dai governi degli Stati membri”. A differenza della Commissione, essi non devono
necessariamente essere cittadini degli Stati membri. Per gli avvocati generali dello Corte di Giustizia,
invece, è prevista un’alternanza di individui designati dai vari Stati membri, restando fermo, però, che, per

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prassi, i 5 Stati maggiori (Germania, Francia, Italia, Regno Unito e Spagna) dispongono in permanenza di
un avvocato generale così che il sistema di rotazione riguarda attualmente gli 11 Stati previsti.
I giudici e gli avvocati generali della Corte di Giustizia vanno scelti tra “personalità che offrono tutte le
garanzie di indipendenza e che riuniscano le condizioni richieste per l’esercizio delle più alte funzioni
giurisdizionali”. Vi è inoltre un comitato che ha il compito di fornire un parere agli Stati membri, circa
l’adeguatezza dei candidati come giudici della Corte di Giustizia e del tribunale. Questo comitato è
composto da 7 personalità scelte tra ex membri della Corte di Giustizia e del tribunale.
I giudici e gli avvocati della Corte di Giustizia e del Tribunale durano in carica 6 anni, ma non decadono
tutti nello stesso momento; ogni 3 anni, infatti, si procede a un loro rinnovo parziale. I loro mandati sono
rinnovabili. Sia i giudici della Corte di giustizia che quelli del Tribunale eleggono al loro interno un
Presidente e un Vicepresidente. Ciascuno dei due organi nomina inoltre il proprio cancelliere. Il Titolo I
dello Statuto specifica che i giudici e gli avvocati generali devono giurare di esercitare le loro funzioni “in
piena imparzialità e secondo coscienza”, godono dell’immunità dalla giurisdizione, non possono esercitare
alcuna funzione politica e possono essere rimossi dalle loro funzioni solo qualora a giudizio unanime non
siano più in possesso dei requisiti richiesti.
I ricorsi alla Corte di Giustizia dell’UE non hanno in genere effetti sospensivi. Le sue sentenze
costituiscono, nei vari Stati membri, titolo esecutivo, al pari delle decisioni del Consiglio, della
Commissione e della Banca Centrale europea. La formula esecutiva è apposta nei singoli Stati dall’autorità
competente.

27. La Banca centrale europea e la Corte dei Conti.


Le ultime due istituzioni menzionate nell’articolo 13 TUE sono la Banca Centrale europea e la Corte dei
Conti. La BCE e le banche centrali nazionali di tutti gli Stati membri costituiscono il Sistema europeo
delle banche centrali (SEBC). La disciplina della BCE e del SEBC si rinviene, oltre che nei Trattati, anche
nello Statuto del SEBC e della BCE. Nonostante ciò, alcune sue norme possono essere modificate, anziché
secondo la procedura ordinaria di revisione dei Trattati, su raccomandazione della BCE e previa
consultazione della Commissione oppure su proposta della Commissione e previa consultazione della
BCE.
Al SEBC o, più precisamente, all’Eurosistema, è affidata la gestione della politica monetaria. L’obiettivo
principale di tale politica è la stabilità dei prezzi, che la stessa BCE ha quantificato in un livello di
inflazione inferiore, ma prossimo, al 2% nel medio termine. Fatto salvo tale obiettivo, la SEBC sostiene le
politiche economiche generali dell’UE al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’UE
definiti all’articolo 3 TUE.
L’articolo 282 TFUE attribuisce alla BCE una personalità giuridica distinta rispetto a quella dell’UE e
dispone che la BCE è indipendente, nell’esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze, da
istituzioni, organi e organismi dell’UE, nonché dai governi degli Stati membri.
L’articolo 340 TFUE in tema di responsabilità extracontrattuale dell’UE dispone una responsabilità della
BCE separata da quella dell’UE, per i danni cagionati da “essa stessa”. Sul punto, merita di essere ricordato
che di fronte alla pretesa della BCE di sottrarsi ai poteri di indagine conferiti all’organismo antifrode
comunitario, pretesa motivata dal particolare status di cui gode la BCE, la Corte di Giustizia ha sancito che
tale status non vale a distaccare la BCE dall’UE, sottraendola a qualsiasi norma di diritto dell’UE.
Per quanto attiene al suo funzionamento interno, la BCE si compone di tre organi. Il Comitato esecutivo
comprende il Presidente, il Vicepresidente e altri 4 membri. Tutti questi membri sono nominati dal
Consiglio europeo, tra persone di riconosciuta esperienza nel settore monetario e che abbiano la cittadinanza
di uno Stato membro. Il loro mandato ha una durata di 8 anni e non è rinnovabile. Il Comitato esecutivo è
responsabile della gestione degli affari correnti della BCE.
Il Consiglio direttivo comprende i membri del comitato esecutivo nonché i governatori delle banche
centrali nazionali degli Stati membri la cui moneta è l’euro. Esso formula la politica monetaria dell’UE.
Il Consiglio generale comprende invece il Presidente e il Vicepresidente della BCE e i governatori delle
banche centrali nazionali di tutti gli Stati membri, inclusi quelli che non hanno ancora adottato la moneta
unica. Tra i suoi compiti rientrano quello di favorire il coordinamento tra l’Eurosistema e le banche
centrali degli Stati che non hanno adottato l’euro, nonché la raccolta di informazioni statistiche. L’articolo
130 TFUE afferma solennemente il principio dell’indipendenza della BCE e delle banche centrali
nazionali. Tale principio si esplicita sotto diversi profili:
 Indipendenza istituzionale nel senso che la BCE e le banche centrali nazionali non possono
ricevere ordini né istruzioni dalle altre istituzioni dell’UE

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 Indipendenza personale perché gli individui che compongono i loro organi non possono subire
influenze
 Indipendenza funzionale in quanto la BCE dispone di tutti i poteri necessari per l’esercizio delle
sue funzioni
 Indipendenza finanziaria perché la BCE dispone di proprie risorse finanziarie e ha un proprio
bilancio, separato da quello dell’UE
La forte indipendenza di cui gode la BCE ha lo scopo di mettere al riparo la politica monetaria da indebite
pressioni dei governi, potenzialmente desiderosi di misure efficaci sulla crescita a breve termine. Tale
indipendenza comporta però che la BCE sia anche sottratta a un effettivo controllo politico da parte del
Parlamento europeo. a ciò si cerca di ovviare con un rafforzamento dei meccanismi volti a garantire la
trasparenza della sua azione. A tale riguardo, la BCE pubblica tutte le informazioni rilevanti sulla
politica monetaria. Sul piano giuridico, invece, rimane ferma la giurisdizione della Corte di Giustizia
sugli atti della BCE. La sede della BCE è a Francoforte.
La Corte dei Conti assicura il controllo dei conti dell’UE. In particolare, essa controlla la legittimità e la
regolarità delle entrate e delle spese dell’UE e ne accerta la sana gestione finanziaria. Il suo controllo è,
quindi, esterno, in quanto effettuato sulle entrate e sull’uscita di altri organi, organismi e istituzioni
dell’UE. La Corte dei Conti esercita anche in alcuni casi una funzione consultiva, e può essa stessa
ricorrere alla Corte di Giustizia per salvaguardare le proprie prerogative.
La Corte dei Conti è composta da un cittadino di ciascuno Stato membro ed è esercita le sue funzioni in
piena indipendenza, nell’interesse generale dell’UE. Ad essi, sono sostanzialmente richieste le stesse
garanzie di indipendenza, incompatibilità ed immunità dei giudici della Corte di Giustizia. La Corte dei
Conti è quindi un organo collegiale di individui. L’elenco dei membri è adottato dal Consiglio a
maggioranza qualificata e previa consultazione del Parlamento europeo. La sede della Corte dei Conti è a
Lussemburgo.

28. Gli altri organi e organismi: Comitato economico e sociale, Comitato delle regioni, altri comitati e
agenzie europee.
A parte le istituzioni sopra menzionate, esiste nell’UE una grande varietà di altri organi e organismi, alcuni
già previsti nei Trattati originari, altri aggiunti successivamente. Vengono innanzitutto in rilievo due organi
i quali, attraverso le loro funzioni consultive, assistono il Parlamento europeo, il Consiglio e la
Commissione. Si tratta del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni.
Il Comitato economico e sociale è composto da rappresentanti delle organizzazioni di datori di lavoro, di
lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile. Il Comitato economico e sociale è,
quindi, la sede di rappresentanza della società civile ed organizzata, a ulteriore conferma del fatto che
l’UE non si limita a realizzare una cooperazione tra Stati, ma coinvolge in maniera immediata i loro
cittadini.
Il Comitato delle regioni è composto da rappresentanti delle collettività regionali e locali, i quali devono
essere titolari di un mandato elettorale nell’ambito di una di tali collettività o comunque responsabili
politicamente verso un’assemblea eletta. L’introduzione di questo comitato testimonia l’accresciuta presa di
coscienza della realtà regionale da parte dell’UE. Tuttavia, non vi è alcun rapporto tra il numero dei
membri attribuiti ai vari Stati e le ripartizioni interne di questi ultimi.
Sono molti però i tratti comuni tra Comitato economico e sociale e Comitato delle regioni. Anzitutto,
entrambi sono organi collegiali di individui, in quanto i loro membri non sono vincolati da alcun mandato
imperativo ed esercitano le loro funzioni consultive in piena indipendenza. Il numero dei loro componenti,
che non può essere superiore a 350, e la sua ripartizione tra gli Stati membri sono fissati con decisione che
il Consiglio deve adottare all’unanimità su proposta della Commissione. In entrambi i casi, all’Italia sono
attribuiti 24 membri. L’elenco dei componenti dei due comitati è adottato dal Consiglio, previa
consultazione della Commissione. Per il solo Comitato delle regioni viene anche nominato un numero di
supplenti uguale a quello dei suoi componenti.
I pareri emessi dai due Comitati nell’ambito della loro funzione consultiva, e indirizzati al Parlamento
europeo, al Consiglio e alla Commissione, possono essere, come tutti i pareri, obbligatori (quando i Trattati
prevedono che un determinato atto non possa essere adottato senza averli preventivamente ottenuti),
facoltativi (hanno la facoltà, ma non l’obbligo di richiederli) e infine, possono essere formulati di propria
iniziativa da entrambi i Comitati.
Inoltre, il Comitato delle regioni può proporre ricorso alla Corte di Giustizia per violazione del principio di
sussidiarietà relativamente ad atti legislativi per la cui adozione sia richiesta la sua consultazione.

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Infine, va ricordata la tendenza, sviluppatasi soprattutto a partire dagli anni Novanta, a creare agenzie
europee, ossia organismi dotati di personalità giuridica e di una certa autonomia organizzativa e
finanziaria, anche se non di indipendenza. Tali organismi sono presenti pressoché in tutti gli ambiti
d’azione dell’UE (Autorità europea per la sicurezza alimentare, Ufficio dell’Unione europea per la proprietà
intellettuale, Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati...).

29. La Banca europea per gli investimenti.


La Banca europea per gli investimenti è disciplinata dagli articoli 308 e 309 TFUE, nonché dal suo
Statuto. Lo statuto della BEI può, però, essere modificato dal Consiglio, su richiesta della stessa BEI o su
proposta della Commissione. La BEI è dotata di autonoma personalità giuridica, distinta rispetto a quella
dell’UE. Inoltre, la BEI possiede una propria struttura abbastanza articolata, essendo, infatti, amministrata
e gestita da un Consiglio di governatori, un Consiglio di amministrazione e un Comitato direttivo.
Queste caratteristiche, che la BEI ha in comune con la BCE, ripropongono l’interrogativo che ci siamo posti
per la BCE, ovvero se BEI faccia parte a pieno titolo della struttura dell’UE o se costituisca, invece,
un’organizzazione separata rispetto ad essa. Tuttavia, la Corte ha deciso in maniera analoga a quanto
stabilito per la BCE, ovvero di non sottrarla completamente a qualsiasi norma del diritto dell’UE.
A sottolineare l’autonomia della BEI contribuiscono altri fattori: essa ha i suoi “membri” (che sono gli
stessi Stati membri dell’UE), un proprio sistema di finanziamento e un proprio bilancio. Essa ha, infatti,
un proprio capitale, il cui importo è stato progressivamente aumentato con i progressivi allargamenti
dell’UE. Va però detto che, sul piano giuridico, l’attività della BEI è inserita nel sistema di controllo
giurisdizionali dell’UE.
Guardando, invece all’attività della BEI, essa si inserisce completamente nell’ambito delle finalità
perseguite dall’UE ed è svolta nell’esclusivo interesse di quest’ultima. La funzione della BEI è, infatti,
quella di “contribuire, facendo appello al mercato dei capitali ad alle proprie risorse, allo sviluppo
equilibrato del mercato interno nell’interesse dell’Unione”. A tal fine essa concede prestiti per finanziare
progetti tesi a valorizzare le regioni dell’UE meno sviluppate, nonché progetti contemplanti
l’ammodernamento di imprese o progetti di interesse comune agli Stati. I beneficiari dei prestiti possono
essere sia gli stessi Stati membri, che imprese private. Oltre che concedere direttamente dei prestiti, la BEI
può limitarsi a garantire dei prestiti concessi da altri enti finanziatori. È importante, comunque, ricordare
che, nell’esplicare la sua attività, la BEI non persegue fini di lucro. Ciò significa che il tasso di interesse
praticato dalla BEI verrà calcolato, in modo che la BEI possa far fronte alle proprie obbligazioni, coprire le
proprie spese e costituire un fondo di riserva, ma non realizzare un profitto da distribuire a i suoi membri.

CAPITOLO IV: LE FUNZIONI ATTRIBUITE ALLE ISTITUZIONI POLITICHE


30. La funzione legislativa.
Anche se, come già detto, l’UE non è strutturata secondo il principio della separazione dei poteri, sono
tuttavia identificabili nelle sue attività le tradizionali funzioni proprie degli ordinamenti statali, le quali,
però, vengono in genere esercitate attraverso procedure che prevedono l’intervento congiunto di più
organi.
Negli ordinamenti statali la funzione legislativa è generalmente concepita come quella che presiede
all’emanazione di norme di portata generale e astratta, che pongono la disciplina di base di una
determinata materia. Il Trattato di Lisbona, introducendo per la prima volta nel diritto dell’UE la nozione di
atto legislativo, non la definisce invece sulla base del contenuto e della portata dell’atto, ma sulla base della
procedura seguita per la sua emanazione. L’articolo 289 TFUE dispone, infatti, con definizione che alcuni
hanno chiamato “circolare”, che gli atti adottati mediante procedura legislativa sono atti legislativi. È,
insomma, la base giuridica dell’atto che ne determina la natura legislativa o non legislativa. Va, poi,
ricordato che il Consiglio europeo non esercita funzioni legislative, e pertanto i suoi atti, sono qualificati
come non legislativi. L’adozione di atti legislativi è inoltre espressamente esclusa nell’ambito della PESC.
Tutto ciò significa che sarebbe vano applicare alla nozione di atto legislativo nell’UE i criteri generalmente
adottati negli ordinamenti interni, in quanto il diritto dell’UE ha scelto di utilizzare una nozione sui generis
di atto legislativo, facendone discendere delle conseguenze. Tra queste, va ricordato che il Consiglio,
quando delibera e vota su un progetto di atto legislativo, deve riunirsi in seduta pubblica.
Ai sensi dell’articoli 14 e 16 TUE, la funzione legislativa è esercitata congiuntamente dal Parlamento
europeo e dal Consiglio. Tale esercizio può avvenire secondo una procedura legislativa ordinaria, nella
quale Parlamento europeo e Consiglio sono posti sullo stesso piano, e operano dunque come autori co-
legislatori, o secondo tutta una serie di procedure legislative speciali. Sia nella procedura legislativa

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ordinaria che in quelle speciali, il potere di iniziativa spetta di regola alla Commissione; inoltre, è di
frequente prevista la consultazione obbligatoria del Comitato economico e sociale, del Comitato delle
regioni o di entrambi questi organi.
Su un piano generale, va anche osservato che, nonostante siano previste diverse “passerelle” volte ad
agevolare il passaggio dalle procedure legislative speciali a quella ordinaria, le condizioni stabilite per
l’attuazione delle relative clausole rendono comunque difficile il ricorso ad esse. Ricordiamo che il
passaggio da una procedura legislativa speciale alla procedura ordinaria, può avvenire secondo una
proceduta di revisione semplificata. Accanto a tale clausola “orizzontale”, inoltre, vi sono casi di
“passerelle settoriali”, intese ad agevolare il passaggio alla procedura ordinaria in determinate materie. Per
dare attuazione a tali clausole, occorre sempre, però, l’accordo unanime degli Stati membri; inoltre, nel
caso della revisione semplificata e in quello della “passerella”, è sufficiente l’opposizione di un solo
Parlamento nazionale per impedire tali sviluppi.
Si noti anche che, laddove non sia disposto il ricorso a procedure legislative, le singole basi giuridiche
possono comunque richiedere la proposta della Commissione e la consultazione obbligatoria o la previa
consultazione del Parlamento europeo, ma possono altresì escludere tali istituzioni. Va inoltre rilevato che,
l’articolo 296 TFUE dispone che, in presenza di un progetto di atto legislativo la cui approvazione è
pendente, il Parlamento e il Consiglio si devono astenere dall’emanare atti non previsti dalla procedura
legislativa applicabile al settore interessato, in modo da non pregiudicare il processo di approvazione di
tale progetto.

30.1. Le procedure per l’adozione degli atti legislativi: il potere di iniziativa.


Come già accennato, nell’ambito delle procedure legislative il potere d’iniziativa spetta alla Commissione.
L’articolo 17 TUE dispone infatti come segue “Un atto legislativo dell’Unione può essere adottato solo su
proposta della Commissione, salvo che i trattati non dispongano diversamente...”. La proposta della
Commissione costituisce un atto formale, che ha natura inter-organica, in quanto non è rivolto verso
l’esterno, ma è diretto ad altre istituzioni dell’’UE.
L’impostazione originaria dei trattati prevedeva che la Commissione godesse del potere di iniziativa
praticamente in via esclusiva e incondizionata. Questo potere, attribuito a un organo che rappresenta
l’interesse generale dell’UE e non gli Stati uti singoli, costituiva un elemento innovativo e caratteristico
dell’elevato grado di integrazione tra gli Stati membri. L’effettiva portata del potere di iniziativa delle
Commissione si è venuta, però, progressivamente diluendo. Questa costruzione era stata infatti oggetto di
manovre da parte degli Stati membri, volte ad imbrigliare il potere di iniziativa della Commissione. Questo
risultato fu essenzialmente raggiunto con l’istituzione del COREPER.
Il dialogo tra la Commissione e il Consiglio è stato a partire da quel momento sostituito da un dialogo tra la
Commissione e il COREPER, che, in quanto organo permanente, finisce con il condizionare
notevolmente il potere di iniziativa della Commissione. Un altro condizionamento al potere di iniziativa è
stato poi introdotto a seguito del graduale affermarsi del Consiglio europeo come sede di definizione degli
orientamenti e delle priorità politiche dell’UE.
Va inoltre aggiunto che la presentazione di una proposta da parte della Commissione su una determinata
materia può anche essere la conseguenza di una specifica richiesta del Consiglio, del Parlamento europeo o
di almeno un milione di cittadini. A tali richieste, tuttavia, non corrisponde, sul piano giuridico, un obbligo
della Commissione di presentare una proposta.
Inoltre, anche se la necessità di una proposta della Commissione costituisce, ai sensi dell’articolo 17 TUE,
la regola nell’ambito delle procedure legislative, l’articolo 289 TFUE espressamente prevede che nei casi
specifici previsti dai Trattati, gli atti legislativi possono essere adottati su iniziativa di un gruppo di Stati
membri o dal Parlamento europeo, su raccomandazione della BCE o su richiesta della Corte di Giustizia
o della BEI. Tali casi circoscritti, non escludono comunque, l’esercizio di potere di iniziativa da parte della
Commissione.
Tornando all’ipotesi in cui è necessaria la proposta della Commissione, va sottolineato che il Consiglio può,
ovviamente, adottare un atto conforme alla proposta stessa secondo le procedure previste di volta in volta
dai Trattati, ma può emendarla solo deliberando all’unanimità. È importante precisare che, nel caso
dell’emendamento di una proposta della Commissione, l’unanimità richiesta per la delibera del Consiglio
non funziona, come di solito avviene, quale fattore di protezione degli interessi particolari degli Stati
membri, ma tutela, invece, il perseguimento dell’interesse generale dell’UE.
Inoltre, fintantoché il Consiglio non ha deliberato, la Commissione può in qualsiasi momento modificare
la propria proposta. Di recente, Corte di Giustizia ha riconosciuto alla Commissione anche il potere di

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ritirare la propria proposta, sebbene tale potere non sia espressamente previsto dai Trattati. La Corte ha
peraltro circoscritto questo potere, affermando che la Commissione deve adeguatamente motivare il ritiro
e che questo deve essere suffragato da “elementi convincenti”. Prima di effettuare il ritiro, essa deve però
prendere in considerazione, nello spirito di leale cooperazione che deve contrassegnare le relazioni tra le
istituzioni, le preoccupazioni del Parlamento e del Consiglio all’origine della loro volontà di emendare la
proposta. Va inoltre ricordato che ogni proposta di atto legislativo dell’UE, da chiunque provenga, deve
essere trasmessa ai Parlamenti nazionali e deve essere adeguatamente motivata sotto il profilo dei principi
di sussidiarietà e di proporzionalità, ivi compreso il suo impatto finanziario.

30.2. La procedura legislativa ordinaria.


La procedura legislativa ordinaria consiste “nell’adozione congiunta di un regolamento, di una direttiva o
di una decisione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio su proposta della Commissione”. Essa
corrisponde in larga misura a quella che, prima del Trattato di Lisbona, era chiamata procedura di
codecisione. La procedura legislativa ordinaria costituisce la modalità più diffusa di adozione degli atti
legislativi, essendo prevista da più di 80 basi giuridiche. Il suo campo di applicazione si estende, per effetto
del Trattato di Lisbona, a settori come lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, le politiche agricole e della
pesca....
L’articolo 294 TFUE stabilisce i dettagli di questa procedura, che si caratterizza per i seguenti elementi
fondamentali:
1. I provvedimenti sottoposti a tale procedura possono essere adottati solo con il consenso di
entrambe le istituzioni, Consiglio e Parlamento europeo, a ciascuna delle quali compete, quindi, un
diritto di veto, mentre nessuna delle due è in grado da sola di determinare l’adozione di un atto
secondo il suo volere
2. In caso di dissenso tra Parlamento europeo e Consiglio, si convoca un Comitato di conciliazione
paritetico, con il compito di raggiungere un accordo
3. Se vi è l’accordo del Parlamento europeo, nelle ultime fasi della procedura il Consiglio può
adottare anche a maggioranza qualificata un atto che contenga emendamenti alla proposta della
Commissione
4. La Commissione svolge il ruolo di mediatore tra Consiglio e Parlamento europeo, nel quadro di
una cooperazione tra le tre istituzioni che è l’indispensabile presupposto di questa procedura
(“Legiferare meglio”: accordo inter-istituzionale sulle procedure di codecisione).
Venendo ai dettagli, la procedura legislativa ordinaria inizia con la presentazione di una proposta, da parte
della Commissione, congiuntamente al Consiglio e al Parlamento europeo. Su tale proposta il Parlamento
europeo inoltra al Consiglio la sua posizione. Se il Consiglio approva tale posizione, l’atto è adottato e la
procedura si conclude. Se, invece, il Consiglio non è d’accordo sulla posizione del Parlamento, esso
formalizza la propria posizione e la trasmette al Parlamento europeo. Questa fase è chiamata “prima
lettura”.
Se il Parlamento europeo, entro tre mesi dalla trasmissione di tale posizione del Consiglio, la approva o
non si pronuncia, l’atto si considera adottato e la procedura si conclude. Se, invece, respinge, a
maggioranza dei membri che lo compongono, la posizione del Consiglio, l’atto si considera non adottato e
la procedura ugualmente si conclude, anche se con un insuccesso. Il Parlamento europeo può, infine,
proporre emendamenti alla posizione del Consiglio, sui quali la Commissione deve formulare un parere. A
sua volta il Consiglio, entro ulteriori 3 mesi dalla comunicazione di tali emendamenti, può:
- Approvare tutti gli emendamenti, così che l’atto è adottato e la procedura si conclude
- Non approvare tuti gli emendamenti, con la conseguente convocazione di un Comitato di
conciliazione
Per la delibera del Consiglio è richiesta di regola la maggioranza qualificata, ma è necessaria l’unanimità
per l’approvazione di emendamenti sui quali la Commissione ha dato parere negativo. Questa fase è
chiamata “seconda lettura”.
Alla seconda lettura segue, la fase della “conciliazione”. Il comitato di conciliazione, composto dai membri
del Consiglio e da un numero uguale di membri del Parlamento europeo, ha il compito di raggiungere un
accordo su un progetto comune, che deve essere approvato, rispettivamente, a maggioranza qualificata
dei membri del Consiglio e a maggioranza dei rappresentanti del Parlamento europeo. La Commissione
partecipa ai lavori del comitato, prendendo ogni iniziativa necessaria per favorire un riavvicinamento tra le
posizioni del Parlamento europeo e del Consiglio.

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 Se entro 6 settimane dalla convocazione il Comitato di conciliazione non raggiunge un accordo,
l’atto si considera non adottato e la procedura si conclude con un insuccesso.
 Se, invece, il Comitato di conciliazione raggiunge un accordo su un progetto comune, si apre la fase
della “terza lettura”. Parlamento europeo e Consiglio hanno entrambi un termine di 6 settimane per
adottare l’atto, deliberando, rispettivamente, a maggioranza dei voti espressi e a maggioranza
qualificata. Se lo fanno, l’atto è adottato e la procedura si conclude con successo; in caso contrario,
l’atto si considera non adottato e la procedura si conclude con un insuccesso.
Nonostante i miglioramenti apportati con le varie revisioni dei Trattati, la procedura legislativa ordinaria
resta articolata e laboriosa. Nella prassi, si cerca di ovviare a queste difficoltà attraverso i cosiddetti
“triloghi”, ovvero contatti informali tra rappresentanti del Consiglio, del Parlamento europeo e della
Commissione, mediante i quali si mira in particolare a trovare un accordo prima ancora che il Parlamento e
il Consiglio procedano alla prima lettura, così che l’atto possa poi essere adottato già in questa prima fase.
Tale prassi, se da un lato agevola un esito positivo della procedura legislativa, dall’altro ha però l’effetto di
ridurre la trasparenza del processo legislativo. È dunque importante, in questa prospettiva, la recente
sentenza in cui il Tribunale dell’UE ha affermato il diritto di accesso del pubblico ai documenti dei triloghi.

30.3. Le procedure legislative speciali.


La procedura legislativa speciale non è una specifica procedura definita dai Trattati dato che, tutte le volte
che i Trattati prevedono procedure legislative diverse da quella ordinaria, sono da considerarsi speciali. Il
loro tratto comune è quello di consistere nella “adozione di un regolamento, di una direttiva o di una
decisione da parte del Parlamento europeo con la partecipazione del Consiglio...” o viceversa.
L’apparente simmetria della disposizione non deve trarre in inganno. In effetti, sono solo tre i casi in cui è il
Parlamento a decidere, con la partecipazione del Consiglio. Tutti e tre questi casi sono marginali e, in ogni
modo, il Consiglio deve approvare preventivamente l‘atto del Parlamento europeo. Si tratta dell’adozione
dello statuto dei membri del Parlamento europeo, della definizione delle modalità per l’esercizio del diritto di
inchiesta del Parlamento europeo e dell’adozione dello statuto del Mediatore europeo. Per converso,
l’adozione di un atto legislativo da parte del Consiglio con la partecipazione del Parlamento europeo
ricorre molto più di frequente. Nella maggior parte di questi casi, il Consiglio decide all’unanimità; solo in
quattro casi, piuttosto marginali, decide invece a maggioranza qualificata.
Quanto al coinvolgimento del Parlamento europeo in queste decisioni del Consiglio, esso può consistere
nella semplice consultazione dello stesso o nella necessità della sua approvazione dell’atto. Va ricordato,
in via generale, che la partecipazione del Parlamento europeo al processo decisionale dell’UE attraverso la
sua consultazione da parte del Consiglio costituiva la regola nei Trattati originari. I poteri del Parlamento
europeo relativamente a tale processo si son venuti, poi, man mano accrescendo, ma il suo ruolo è rimasto
semplicemente consultivo ancora in diversi casi.
La consultazione del Parlamento europeo, quando richiesta dai Trattati nell’ambito delle procedure
legislative speciali o in altri casi, dà luogo all’emissione da parte di questa istituzione di un atto formale, il
parere, che è obbligatorio, nel senso che la sua mancanza renderebbe l’atto del Consiglio illegittimo per
violazione delle forme sostanziali. La conseguenza è che, se pure il parere del Parlamento europeo non è
vincolante per il Consiglio, sul piano pratico il Parlamento, in presenza di una situazione politica che renda
improbabile l’accoglimento da parte del Consiglio del suo parere, potrebbe, semplicemente non
formulandolo essere tentato di almeno ritardare la decisione del Consiglio. Il limite a tale eventuale tattica
del Parlamento europeo è duplice: da una parte, esso si deve conformare al dovere di tale cooperazione;
dall’altra parte, vi è la possibilità per il Consiglio di adire la Corte di Giustizia con un ricorso in carenza
contro il Parlamento.
Qualora, invece, la proposta della Commissione su cui il Parlamento ha già fornito il suo parere venisse
sostanzialmente modificata, dalla stessa Commissione o dal Consiglio, il Parlamento dovrà essere
nuovamente consultato sulla proposta così modificata.
Molto più incisivo è l’intervento del Parlamento europeo quando, per l’adozione di un atto legislativo da
parte del Consiglio, è prevista la sua previa approvazione, la quale, quindi, gli dà in sostanza un diritto di
veto. La differenza rispetto alla procedura legislativa ordinaria è che, nel caso dell’approvazione, il
Parlamento europeo si pronuncia su un testo alla determinazione del cui contenuto esso non ha
contribuito. La necessità della previa approvazione del Parlamento europeo nel quadro di una procedura
legislativa speciale è prevista, per esempio, in tema di misure per combattere le discriminazioni, di
estensione dei diritti legati alla cittadinanza dell’UE, di procedura elettorale uniforme per le elezioni del
Parlamento, di utilizzo della clausola di flessibilità.

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Al di fuori delle procedure legislative, la previa approvazione del Parlamento è altresì richiesta, per la
conclusione di diversi accordi internazionali tra l’UE e Stati terzi. Il significativo rafforzamento dei
poteri del Parlamento europeo rispetto al ruolo meramente consultivo che a tale istituzione era riconosciuto
negli originari Trattati, è frutto di una grande evoluzione, culminata poi con il Trattato di Lisbona. Si
osservi, che tale procedura prevede sempre il necessario accordo tra il Parlamento europeo e il Consiglio,
e dunque non consente all’istituzione che rappresenta i cittadini dell’UE di indirizzare l’azione di questa
unicamente secondo il proprio volere. D’altronde, nell’attuale fase dell’integrazione europea, caratterizzata
dalla persistente sovranità degli Stati membri, occorre riconoscere che il potere decisionale non può
prescindere dalla volontà dell’istituzione che rappresenta di Stati membri. Un diverso equilibrio dei poteri,
caratterizzato da un peso decisivo del Parlamento europeo, a di scapito del Consiglio, sarebbe incompatibile
con la natura dell’UE.
Se a ciò si aggiunge quanto diremo sui limiti del controllo politico che può essere esercitato dal Parlamento
europeo, si comprende perché il problema del deficit democratico non si possa ancora considerare risolto.

31. La funzione normativa delegata.


Oltre all’emanazione di atti legislativi, nell’UE è prevista anche quella di atti normativi delegati e di atti di
esecuzione, che comporta in entrambi i casi l’attribuzione di poteri decisionali alla Commissione. La
distinzione tra atti delegati e atti di esecuzione è stata introdotta solo dal Trattato di Lisbona, mentre in
precedenza entrambe le tipologie di atti erano sostanzialmente riconducibili all’esercizio della competenza
di esecuzione.
La ratio sottostante alla previsione di atti delegati è quella di evitare un eccesso di dettagli nella produzione
normativa soggetta alle complesse procedure legislative, limitando agli elementi essenziali il contenuto degli
atti adottati secondo tali procedure. L’articolo 290 TFUE prevede pertanto che un atto legislativo può
delegare alla Commissione il potere di emanare atti, definiti non legislativi di portata generale, che
integrano o modificano elementi non essenziali dello stesso atto legislativo. Tali atti così delegati alla
Commissione sono quindi dei veri e propri atti normativi di competenza della Commissione, pur se definiti
“non legislativi”. Essi hanno, però, un rango inferiore rispetto agli atti legislativi.
Infatti, l’atto legislativo che contiene la delega alla Commissione deve esplicitamente delimitare “gli
obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere”. Inoltre, tale atto legislativo di delega
deve fissare le condizioni cui è soggetta la delega stessa. Tali condizioni possono essere di due tipi.
1) In primo luogo, l’atto legislativo può attribuire al Parlamento europeo e al Consiglio il potere di
revocare (anche disgiuntamente) la delega.
2) In secondo luogo, l’atto legislativo può disporre che l’atto delegato possa entrare in vigore solo se,
entro un termine fissato, né il Parlamento europeo né il Consiglio hanno sollevato obiezioni.
È, quindi, dato al Parlamento europeo e al Consiglio un potere di controllo sugli atti delegati. Gli atti così
emanati dalla Commissione devono contenere la denominazione “delegato” o “delegata”. Si tratterà, quindi,
di regolamenti delegati, direttive delegate o decisioni delegate. Non vi possono però essere decisioni
delegate a portata individuale. Qualche difficoltà può sorgere nel definire quali sono gli elementi
essenziali di un atto legislativo, su cui non può vertere un atto delegato della Commissione, e quali non lo
sono. Sul punto, la Corte di giustizia ha recentemente affermato che “un elemento ha carattere essenziale, in
particolare, se la sua adozione richiede scelte politiche rientranti nelle responsabilità proprie del legislatore
dell’Unione, ... o se permette ingerenze talmente incisive nei diritti fondamentali delle persone coinvolte da
rendere necessario l’intervento del legislatore dell’Unione.” Per agevolare l’esercizio della funzione
normativa delegata, Parlamento europeo, Consiglio e Commissione hanno concluso una “convenzione
d’intesa sugli atti delegati”, che comprende una serie di formule standard utilizzabili negli atti legislativi di
base.

32. La funzione esecutiva.


Gli atti delegati alla Commissione si distinguono concettualmente dagli atti di esecuzione, cioè dagli atti
meramente esecutivi degli atti giuridicamente vincolanti dell’UE. Essendo questi ultimi atti destinati a
operare all’interno di ciascuno Stato membro, sono le autorità nazionali ad essere preposte all’esecuzione
degli stessi. Il modello seguito fin dall’inizio nell’ambito dell’UE è stato, infatti, un modello decentralizzato
di esercizio del potere esecutivo in capo agli Stati membri. In coerenza con ciò, l’articolo 291 TFUE
stabilisce che gli Stati membri adottano tutte le misure di diritto interno necessarie per l’attuazione degli
atti giuridicamente vincolanti dell’UE.

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Peraltro, qualora siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione, gli atti giuridicamente vincolanti
dell’UE possono attribuire la relativa competenza di esecuzione alla Commissione. A tali atti della
Commissione deve essere aggiunta la denominazione “di esecuzione”: vi sono, pertanto, regolamenti di
esecuzione, direttive di esecuzione, decisioni di esecuzione. La competenza di esecuzione può essere
attribuita anche al Consiglio, ma solo “in casi specifici debitamente motivati”.
Mentre l’esercizio da parte della Commissione della funzione normativa delegata è soggetto, come detto, al
controllo da parte del Parlamento europeo e del Consiglio, l’esercizio delle sue competenze di esecuzione
è sottoposto a un controllo da parte degli Stati membri, secondo modalità stabilite dal Consiglio e dal
Parlamento europeo. Fin dai primi decenni della vita delle Comunità europee si è affermato, al riguardo, il
sistema della cosiddetta comitologia, consistente nell’affiancare alla Commissione dei comitati composti
da rappresentati degli Stati membri, ai quali la Commissione è tenuta a chiedere un parere sui progetti
degli atti di esecuzione che essa intende emanare. A seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il
sistema della comitologia è stato profondamento riformato, attraverso il regolamento del Parlamento
europeo e del Consiglio del 16 febbraio 2011. Ai sensi di questo regolamento, l’atto di base può prevedere
l’applicazione di una procedura consultiva o di una procedura d’esame.
o Nella prima ipotesi, la Commissione deve sottoporre il progetto di atto di esecuzione al comitato,
ma non è obbligata a seguirne il parere.
o Nella seconda ipotesi, la Commissione può invece adottare l’atto di esecuzione solo se il parere del
comitato è positivo; non può farlo se il parere del comitato è negativo, mentre se il comitato non
raggiunge la maggioranza qualificata necessaria per deliberare in un senso o nell’altro, la
Commissione può adottare l’atto di esecuzione solo se questo non riguarda alcune materie
particolarmente sensibili.
o Nei casi in cui non può adottare l’atto di esecuzione, la Commissione può sottoporre una versione
modificata del proprio progetto al comitato, oppure presentare il progetto originario a un comitato
di appello.
A fronte delle diverse procedure previste per l’adozione, rispettivamente, degli atti delegati e degli atti di
esecuzione, non sono mancati i contrasti circa la scelta dell’una o dell’altra procedura ai fini della
successiva adozione di atti di portata generale da parte della Commissione.

33. La funzione di controllo politico.


La funzione di controllo nell’ambito dell’UE si esplica con riferimento alle istituzioni che partecipano
all’esercizio del potere legislativo e di quello esecutivo, nonché nei confronti degli Stati membri. Tale
controllo è di duplice tipo.
 Da una parte vi è un controllo di natura politica relativamente all’operato di tali istituzioni
 Dall’altra vi è un controllo di natura giuridica, che riguarda sia gli Stati membri, che le
istituzioni dell’UE. Nei confronti dei primi, tale controllo è relativo all’adempimento degli
obblighi ad essi incombenti in virtù dei Trattati. Nei confronti delle seconde, tale controllo si traduce
in un giudizio di legittimità sui loro atti, nonché sull’eventuale inadempimento del loro obbligo.
Tratteremo ora del controllo di natura politica. È il Parlamento europeo a detenere i poteri di controllo di
natura politica, a somiglianza degli analoghi poteri di cui godono i Parlamenti nazionali negli Stati. La
somiglianza, però, si ferma ad aspetti per lo più formali, in quanto il Parlamento europeo dispone di
significativi poteri di controllo nei confronti della sola Commissione e non, invece, nei confronti delle
istituzioni responsabili dell’azione dell’UE, cioè il Consiglio europeo e il Consiglio. Occorre
realisticamente ammettere che un controllo politico da parte del Parlamento europeo sul Consiglio europeo o
sul Consiglio sarebbe incompatibile con la natura dell’UE.
Il controllo politico del Parlamento europeo si estrinseca essenzialmente nei confronti della Commissione,
e ha la sua più importante manifestazione nel potere di approvare una mozione di censura sull’operato di
quest’ultima. In qualsiasi momento almeno 1/10 dei parlamentari europei può presentare al Presidente del
Parlamento una mozione di censura sull’operato della Commissione, perché questa venga messa ai voti ed
eventualmente approvata. A seguito dell’approvazione di una mozione di censura i membri della
Commissione sono costretti collettivamente a dare le dimissioni, incluso l’Alto rappresentante che, però,
cessa solo dalle funzioni che esercita in seno alla Commissione, non anche da quelle che svolge
nell’ambito del Consiglio. Ne risulta che, anche nell’ipotesi in cui la sfiducia del Parlamento si riferisca
all’operato di un singolo Commissario, in virtù della responsabilità collegiale della Commissione tutti i
suoi membri devono abbandonare le loro funzioni.

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Date le gravi conseguenze che vi sono ricollegate, la procedura per l’approvazione di tale mozione è
circondata da particolari garanzie: anzitutto, essa non può essere votata prima di tre giorni dalla sua
presentazione; in secondo luogo, la votazione deve avvenire a scrutinio pubblico; infine, è richiesta la
maggioranza dei 2/3 dei voti espressi, che costituiscano in ogni caso la maggioranza dei membri che
compongono il Parlamento europeo. Non sorprende quindi, he nessuna mozione di censura è mai stata
approvata dal Parlamento europeo.
Merita di essere sottolineato, peraltro, che almeno in una occasione l’impiego di questo strumento ha, di
fatto, condotto alle dimissioni collettive della Commissione. Ci si riferisce, nello specifico alla mozione di
censura presentata nel gennaio 1999 nei confronti della Commissione presieduta da Jacques Santer, motivata
da episodi di nepotismo e carenza di controlli amministrativi da parte dei singoli Commissari. Anche se la
mozione di censura non è stata approvata, il rapporto successivamente presentato ha provocato le
dimissioni spontanee di tutta la Commissione. Il Parlamento sembra avere così dato una nuova direzione ai
suoi poteri di controllo sulla Commissione, interpretandoli non più come controllo sull’opportunità politica
dell’operato della stessa, ma come controllo circa la correttezza del comportamento dei Commissari. Il
Parlamento gode anche di altri poteri che possono qualificarsi come di controllo. Anzitutto, la
Commissione deve sottoporre all’esame del Parlamento europeo la relazione generale annuale, documento
che descrive l’attività dell’UE nell’anno precedente. In virtù dell’accordo quadro sulle relazioni tra il
Parlamento europeo e la Commissione, e dell’accordo inter-istituzionale “Legiferare meglio”, la
Commissione avvia un dialogo con lo stesso Parlamento europeo anche relativamente al programma per
l’anno successivo, così che il Parlamento è posto in condizione di far conoscere la propria opinione non
soltanto riguardo ad eventi già verificatisi. Quanto al Consiglio europeo, il suo Presidente ha l’obbligo di
presentare al Parlamento europeo una relazione dopo ciascuna delle sue riunioni, mentre il Presidente del
Parlamento europeo può (ma non deve) essere invitato per essere ascoltato dal Consiglio europeo stesso.
Di rilievo nella pratica sono anche le interrogazioni, che il Parlamento europeo, o i suoi membri, possono
rivolgere alla Commissione, al Consiglio europeo o al Consiglio.
L’articolo 129 TFU del regolamento interno del Parlamento europeo disciplina anche la prassi, mutuata
dall’esperienza britannica, del question time, che è, appunto, un periodo di tempo appositamente dedicato
alle interrogazioni durante ciascuna tornata plenaria.
Si inseriscono, infine, in questo contesto i poteri del Parlamento europeo di:
 Accogliere petizioni da parte di ogni cittadino dell’UE, nonché di ogni persona fisica che risieda o
abbia la sede sociale in uno Stato membro, su questioni che rientrano nel campo di attività dell’UE
 Nominare un Mediatore, figura di difensore civico, abilitato a ricevere denunce di cittadini
dell’UE, riguardanti casi di cattiva amministrazione da parte delle istituzioni o organi dell’UE.
 Costituire, su richiesta di 1/4 dei membri del Parlamento, commissioni temporanee di inchiesta per
esaminare denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto
dell’UE.
Con riferimento al Mediatore, il Parlamento europeo ne ha stabilito lo statuto e le condizioni generali per
l’esercizio delle funzioni. Il Mediatore è eletto dal Parlamento europeo tra i cittadini dell’UE che offrano
garanzie di indipendenza o siano in possesso di esperienza e competenza notorie. È interessante rilevare
che il Mediatore può effettuare accertamenti di eventuali casi di cattiva amministrazione anche di propria
iniziativa e che gli organi sia dell’UE che degli Stati membri sono tenuti a fornirgli le informazioni
necessarie.

34. La funzione di bilancio.


Come ogni bilancio contabile, anche il bilancio dell’UE è costituito da entrate e da uscite. Le entrate
derivano dal sistema di finanziamento dell’UE; le uscite sono costituite dalle spese per il funzionamento
dell’UE e per l’esplicazione delle sue attività. Per esplicita previsione dell’articolo 310 TFUE, entrate e
spese devono risultare in pareggio. Esamineremo di seguito le principali “disposizioni finanziarie”
contenuto nel Titolo II della Parte Sesta del TFUE.

34.1 Il sistema di finanziamento dell’UE.


Cominciando dal versante delle entrate, occorre premettere qualche considerazione generale sul
finanziamento delle organizzazioni internazionali. È, infatti, di tutta evidenza, che il grado di
indipendenza delle organizzazioni internazionali dai singoli Stati membri deriva in misura significativa
dalla loro capacità di autofinanziarsi. In verità, quanto più un’organizzazione internazionale dipende da
contributi diretti degli Stati membri per il proprio funzionamento, tanto più essa sarà esposta a rischi di

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condizionamento da parte di quegli Stati membri che possano essere tentati di sospendere o ridurre
unilateralmente i propri contributi. La storia, anche recente, dell’ONU e di alcuni dei suoi istituti
specializzati conferma quanto sopra.
È per questo motivo che era stata salutata come estremamente innovativa la soluzione introdotta
dall’articolo 49 del Trattato istitutivo della CECA, la quale si finanziava attraverso vere e proprie imposte
a carico delle imprese carbosiderurgiche. Il grado di indipendenza dagli Stati membri, raggiunto in
questo modo dalla CECA, è rimasto ineguagliato. Gli Stati membri, dal loro canto, abdicavano per la prima
volta all’esclusività del potere impositivo sul proprio territorio.
Nel sistema dell’UE, non poteva certo ripetersi l‘esperienza della CECA. La redazione originaria del Trattato
CEE prevedeva, pertanto, contributi finanziari a carico degli Stati membri. Fin dagli anni Settanta,
tuttavia, i contributi diretti da parte degli Stati membri sono stati sostituiti da cosiddette “risorse proprie”.
Attualmente, l’articolo 311 TFUE recita come segue: “Il bilancio, fatte salve le altre entrate, è finanziato
integralmente tramite risorse proprie”.
Il Trattato non specifica quali siano le risorse proprie, ma detta la procedura per l’adozione di una
decisione al riguardo. Ai sensi dell’articolo 311 TFUE, questa procedura si articola in due fasi: nella prima,
la decisione è adottata dal Consiglio secondo una procedura legislativa speciale, con voto unanime e
previa consultazione del Parlamento europeo; nella seconda, tale decisione deve essere approvata da tutti
gli Stati membri. Si tratta, pertanto, di una decisione che ha sostanzialmente la natura di un accordo
internazionale tra gli Stati membri, ed è in questo senso assimilabile ai Trattati sui quali l’UE si fonda. Tale
decisione individua tre categorie di risorse proprie:
a) Le risorse proprie tradizionali: riunisce quelle che originariamente erano due distinte categorie,
ossia i cosiddetti prelievi agricoli (insieme eterogeneo di entrate, derivanti dagli scambi con Paesi
terzi nella politica comune) e i dazi doganali derivanti dall’applicazione della tariffa doganale
comune. Queste risorse sono riscosse dagli Stati membri secondo modalità definite nei rispettivi
ordinamenti. Gli Stati membri trattengono, a copertura delle spese di esazione, una percentuale
degli importi riscossi, attualmente fissa al 2%.
b) La risorsa IVA: deriva dall’applicazione di un’aliquota uniforme, attualmente pari allo 0,30%,
agli imponibili IVA armonizzati degli Stati membri. Per ciascuno Stato membro, l’imponibile da
prendere in considerazione non può però superare il 50% dell’RNL, al fine di evitare che gli Stati
membri meno prosperi, debbano versare un importo sproporzionato rispetto alla loro effettiva
capacità contributiva.
c) La risorsa calcolata sulla base del reddito nazionale lordo (RNL) degli Stati membri: mentre le
risorse proprie fin qui menzionate erano previste già nella prima decisione in materia, la risorsa
RNL è stata introdotta nel 1988. Essa deriva dall’applicazione di un’aliquota uniforme all’RNL di
ciascuno Stato membro; questa aliquota viene fissata ogni anno nel corso della procedura di
adozione del bilancio, tenendo conto del totale di tutte le altre entrate, in maniera tale che il bilancio
risulti in pareggio. Questa risorsa è di fatto divenuta la più importante, rappresentando ormai circa i
3/4 del totale delle entrate dell’UE.
La decisione disciplina altri due aspetti fondamentali del sistema. In primo luogo, essa stabilisce il tetto
massimo annuale delle risorse proprie, che viene fissato all’1,23% della somma degli RNL degli Stati
membri. In secondo luogo, la decisione prevede una serie di correzioni a favore, anzitutto, del Regno
Unito, il cui “sconto” risale già alla metà degli anni Ottanta, ma anche di altri Stati membri che, in epoca
più recente, hanno a loro volta fatto valere la loro posizione di “contribuenti netti”, al fine di ottenere una
riduzione dell’aliquota di prelievo della risorsa IVA o riduzioni lorde del proprio contributo annuo
basato sull’RNL.
Le diverse categorie di risorse proprie sono accomunate dal vincolo di destinazione, in virtù del quale esse
spettano di diritto all’UE. Tuttavia, solo le risorse proprie tradizionali possono essere considerate
espressione di un’autonoma capacità impositiva dell’UE; sia la risorsa IVA che la risorsa RNL, invece,
sono in sostanza dei contributi obbligatori degli Stati membri, rispetto ai quali l’imponibile armonizzato
all’IVA e l’RNL fungono da parametri di riferimento per il calcolo dell’ammontare dovuto da ciascuno
Stato membro. Quanto alle “altre entrate” menzionate, esse hanno un peso assolutamente marginale e si
concretano, essenzialmente, nelle trattenute sugli stipendi dei funzionari dell’UE e nelle ammende e
somme forfettarie.
In definitiva, dunque, possiamo affermare che il descritto sistema di finanziamento, se da un lato ha garantito
all’UE la regolare disponibilità di risorse finanziarie, dall’altro non le ha assicurato una reale autonomia
finanziaria degli Stati membri.

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34.2 Il quadro finanziario pluriennale e le procedure di approvazione, esecuzione e controllo del
bilancio dell’UE.
A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, le decisioni sulle risorse proprie sono state adottate nel
quadro di più ampi negoziati aventi ad oggetto anche le cosiddette prospettive finanziarie. Il Trattato di
Lisbona ha infine preso atto di questa prassi, dedicando l’articolo 312 TFUE al quadro finanziario
pluriennale. Ai sensi di questa disposizione, il quadro finanziario pluriennale persegue l’obiettivo di
assicurare l’ordinato andamento delle spese dell’UE entro i limiti delle sue risorse proprie. A questo fine,
esso fissa il tetto degli stanziamenti annuali per grandi categorie di spesa, corrispondenti ai grandi settori
di attività dell’UE. La norma prevede, inoltre, che il quadro finanziario pluriennale abbia una durata almeno
quinquennale e ne impone il rispetto da parte dei vai bilanci annuali.
Sotto il profilo procedurale, l’articolo 312 TFUE dispone che il quadro finanziario pluriennale sia stabilito
mediante un regolamento adottato secondo una procedura legislativa speciale, nel cui ambito il
Consiglio delibera all’unanimità previa approvazione del Parlamento europeo. La norma contempla peraltro
anche che una “passerella”, ai sensi della quali il Consiglio europeo è abilitato a prendere, all’unanimità,
una decisione che consenta al Consiglio di deliberare a maggioranza qualificata quando adotta il suddetto
regolamento.
La prima applicazione dell’articolo 312 TFUE si è avuta con il regolamento del Consiglio del 2 dicembre
2013, che ha stabilito il quadro finanziario pluriennale per il periodo 2014-20120. I cosiddetti stanziamenti
di impegno previsti da tale quadro ammontano complessivamente a quasi 960 miliardi di euro, pari all’1%
della somma degli RNL degli Stati membri. La maggior parte di questi stanziamenti è destinata alle due
politiche tradizionalmente di maggior peso nel bilancio dell’UE, cioè la politica di coesione economica,
sociale e territoriale e la politica agricola comune. Stanziamenti di minore entità sono destinati a
finanziare le attività dell’UE sui temi della sicurezza interna e della cittadinanza, le politiche nelle quali si
articola l’azione esterna dell’UE e, ovviamente, il funzionamento amministrativo della stessa UE.
Contestualmente all’adozione del citato regolamento, Parlamento europeo, Consiglio e Commissione hanno
anche concluso un accordo inter-istituzionale sulla disciplina di bilancio e sulla sana gestione finanziaria.
Passiamo ora a esaminare la procedura di approvazione del bilancio annuale dell’UE, che viene stabilito
congiuntamente dal Parlamento europeo e da Consiglio secondo una particolare procedura legislativa
descritta nell’articolo 314 TFUE. Tale procedura comporta, innanzitutto, che entro il 1° luglio di ciascun
anno ogni istituzione dell’UE prepari una previsione delle proprie spese per l’esercizio finanziario
successivo, che corrisponde all’anno solare e, pertanto, ha inizio il 1° gennaio e si chiude il 31 dicembre. La
Commissione, quindi, prepara e sottopone al Parlamento europeo e al Consiglio, entro il 1° settembre, un
progetto preliminare di bilancio comprendente una previsione delle entrate e una previsione delle spese.
Se non è d’accordo su tali previsioni, la Commissione non può modificarle, ma può formulare previsioni
divergenti. Il Consiglio adotta la sua posizione sul progetto di bilancio a maggioranza qualificata e la
comunica al Parlamento europeo entro il 1° ottobre. Se, entro un termine di 42 giorni da tale comunicazione,
il Parlamento approva la posizione del Consiglio o non delibera al riguardo (silenzio-assenso), il bilancio
si considera definitivamente adottato. Se, invece, entro il termine suddetto, il Parlamento adotta, a
maggioranza dei membri che lo compongono, degli emendamenti, il progetto di bilancio così emendato è
trasmesso al Consiglio e alla Commissione (fase di “prima lettura”). A questo punto si apre tra Parlamento
europeo e Consiglio la fase della “conciliazione”, con modalità simili a quelle previste per la procedura
legislativa ordinaria. Se il comitato paritetico di conciliazione non raggiunge, entro 21 giorni dalla
convocazione, un accordo su un progetto comune di bilancio, la Commissione dovrà sottoporre un nuovo
progetto di bilancio. Se, invece, il comitato di conciliazione raggiunge un accordo su tale progetto
comune, si apre la fase di “seconda lettura”, nel corso della quale Parlamento europeo e Consiglio hanno
ulteriori 14 giorni per approvare il progetto comune, rispettivamente a maggioranza dei voti espressi e a
maggioranza qualificata. In quest’ultima fase, il bilancio si considera effettivamente adottato se entrambe
le istituzioni approvano il progetto comune o non riescono a deliberare, oppure se una delle due approva
mentre l’altra non riesce a deliberare. Se, invece, il Parlamento europeo o entrambe le istituzioni
respingono il progetto comune, la Commissione dovrà presentare un nuovo progetto di bilancio. Quindi, in
materia di approvazione del bilancio annuale, Consiglio e Parlamento europeo sono su un piede di assoluta
parità. Anzi, in una specifica situazione il Parlamento viene a trovarsi addirittura in una situazione di
preminenza, in quanto può decidere, deliberando a maggioranza dei suoi membri e dei 3/5 dei voti
espressi, di confermare tutti gli emendamenti da esso adottati in prima lettura o parte di questi, e il bilancio
si considera definitivamente adottato su questa base. La procedura, qualora abbia avuto esito positivo, si

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chiude con la formale constatazione, da parte del Presidente del Parlamento europeo, che il bilancio è
definitivamente adottato. Come precisato dalla Corte di Giustizia, questo atto conferisce forza obbligatoria
al bilancio.
Ricapitolando sulla reale portata dei poteri del Parlamento europeo in materia di bilancio, occorre ricordare
che, in uno Stato democratico, compete al Parlamento, in rappresentanza del popolo, legiferare in materie
di entrate e approvare il bilancio dello Stato, in base al principio “no taxation without representation.”
La soluzione di compromesso adottata prevede:
 Un ruolo semplicemente consultivo del Parlamento europeo in materia di determinazione delle
entrate dell’UE, il cui ammontare condiziona necessariamente l’intero bilancio e che vengono
stabilite, in sostanza, tramite accordi intergovernativi
 La necessità della previa approvazione da parte del Parlamento europeo del quadro finanziario
pluriennale, rispetto alla quale va, però, osservato che la possibilità per il Parlamento europeo di
influire in modo significativo sui contenuti di tale quadro è fortemente limitata
 La necessità di un accordo tra Parlamento europeo e Consiglio perché il bilancio annuale venga
adottato. Nel complesso, dunque, neanche in questa materia si può dire che il problema del deficit
democratico si stato completamente risolto.
Ricordiamo, infine, che, senza un bilancio approvato, si applica il regime cosiddetti “dei dodicesimi”,
previsto dall’articolo 315 TFUE, in base al quale l’UE in ciascun mese non può spendere, per ciascun
capitolo di spesa, più di 1/12 di quanto era disponibile nel bilancio dell’esercizio precedente.
Venendo all’esecuzione del bilancio e al relativo sistema di controlli, va anzitutto detto che il compito di
dare esecuzione al bilancio spetta alla Commissione, in cooperazione con gli Stati membri e in conformità
al principio della buona gestione finanziaria. Le modalità attraverso le quali ciò avviene sono specificate
nel cosiddetto regolamento finanziario. Questo, in particolare, prevede che la Commissione possa eseguire
il bilancio non solo mediante i suoi servizi, ma anche delegando i compiti di esecuzione agli Stati membri
o ad altri soggetti. Tra queste possibili modalità di esecuzione del bilancio, la cosiddetta gestione
concorrente con gli Stati membri è quella di gran lunga prevalente nella prassi.
L’esecuzione del bilancio si svolge sotto il controllo della Corte dei Conti, del Parlamento europeo e del
Consiglio. La Commissione sottopone ogni anno al Parlamento europeo e al Consiglio i conti dell’esercizio
trascorso. È il Parlamento europeo che, su raccomandazione del Consiglio, dà atto alla Commissione
dell’esecuzione del bilancio. Prima di compiere quest’atto, che è chiamato “decisione di scarico” e che, in
pratica, equivale al riconoscimento che la Commissione si è attenuta al principio della buona gestione
finanziaria, il Parlamento europeo esamina, tra l’altro, la relazione annua della Corte dei Conti.
La decisione di scarico è un atto di indubbia valenza politica. La Corte dei Conti “assicura il controllo dei
conti”. A tal fine, essa controlla la legittimità e la regolarità delle entrate e delle spese e presenta al
Consiglio e al Parlamento europeo una dichiarazione in cui attesta l’affidabilità dei conti. Si tratta di un
controllo essenzialmente di legittimità, in cui la Corte deve anche accettare la sana gestione finanziaria. Il
controllo è, in genere, successivo agli avvenuti versamenti delle entrate e pagamenti delle spese, ma può
essere effettuato anche “prima della chiusura dei conti...”.
La Corte dei Conti non si limita a controllare i documenti contabili che le vengono sottoposti, ma può
effettuare controlli direttamente presso le altre istituzioni dell’UE, nonché all’interno degli Stati membri.
La Corte, infine, presente alle altre istituzioni una relazione annuale sui conti dopo la chiusura di ciascun
esercizio.
Va infine richiamato l’articolo 325 TFUE, introdotto per combattere le frodi e le altre attività illegali, quali
la corruzione, che ledono gli interessi finanziari dell’UE. Tale norma impegna l’UE e gli Stati membri a
combattere tali attività illegali mediante misure tali da permettere una protezione efficace degli interessi
finanziari dell’UE. Gli Stati membri, in particolare, sono tenuti ad adottare le stesse misure che adottano per
le frodi che ledono i loro interessi finanziari. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la
procedura legislativa ordinaria e previa consultazione della Corte dei Conti, possono adottare tutte le
misure necessarie in materia: a tal fine è stata recentemente adottata la direttiva relativa alla lotta contro la
frode. Per meglio combattere le frodi è stato inoltre istituito presso la Commissione l’OLAF. In futuro, un
importante contributo alla lotta contro i reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE potrà derivare anche
dalla Procura europea, alla cui istituzione si è da poco provveduto mediante cooperazione rafforzata.

CAPITOLO V: L’ORDINAMENTO GIURIDICO DELL’UNIONE EUROPEA E LE SUE FONTI


35. L’ordinamento giuridico dell’UE: introduzione.

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L’ordinamento giuridico dell’UE ha natura autonoma sia rispetto al diritto internazionale che al diritto
interno degli Stati membri, ed è dotato in fonti, norme, istituzioni, procedure, soggetti, sanzioni e
meccanismi propri. Tale ordinamento difetta del carattere dell’originarietà e ha invece carattere
derivato, in quanto l’esistenza dell’UE e l’estensione dei suoi poteri derivano dalla volontà che gli Stati
membri hanno espresso in una serie di Trattati internazionali stipulati tra di loro. Stante il suo carattere
derivato, il diritto dell’UE per essere applicato all’interno del territorio degli Stati membri necessita della
cooperazione delle autorità statali, non disponendo l’UE di una propria sfera di sovranità, ma solo delle
competenze attribuite dagli Stati membri. L’ordinamento dell’UE si affianca quindi agli ordinamenti
interni, e gli eventuali conflitti sono risolti sulla base del primato del primo sui secondi. La diretta
applicabilità ai singoli e l’efficacia diretta per gli stessi di alcune norme dell’ordinamento dell’UE sono, in
particolar, assicurate dagli Stati membri nel quadro del loro obbligo di leale cooperazione di cui all’articolo
4 TUE.
Per quanto riguardo invece i rapporti dell’ordinamento dell’UE con l’ordinamento internazionale, vedremo
che l’UE è dotata di soggettività in quest’ultimo ordinamento, ed è quindi tenuta al rispetto delle norme di
diritto internazionale generale al pari degli altri soggetti internazionali. Ciò significa che le istituzioni
dell’UE devono conformarsi a tali norme nell’emanazione dei loro atti.
Se l’eventuale violazione di una norma di diritto internazionale avesse luogo nelle relazioni esterne
dell’UE, tale violazione costituirebbe un illecito internazionale attribuibile all’UE, con la conseguenza che
soggetti terzi eventualmente lesi potrebbero, eventualmente, adottare nei confronti dell’UE contromisure
alle condizioni previste dal diritto internazionale stesso. Inoltre, se la violazione di norme di diritto
internazionale avesse luogo attraverso l’emanazione di atti dell’UE contrari a tale norma, essa
comporterebbe l’illegittimità di tali atti nello stesso ordinamento dell’UE.
Gli Stati membri, invece, nelle materie oggetto dei Trattati incontrano limiti alla possibilità di ricorrere a
contromisure di diritto internazionale generale, quali quelle sopra menzionate, nei reciproci rapporti. Essi
non possono “farsi giustizia da sé”, ma sono obbligati a sottoporre le loro controversi relative
all’interpretazione e applicazione dei Trattati esclusivamente ai mezzi di composizione previsti dai Trattati
stessi. Gli stati membri, quindi, nei loro rapporti, devono ricorrere alle garanzie proprie dell’ordinamento
dell’UE. Tra tali garanzie viene soprattutto in rilievo, ovviamente, il controllo che la Corte di Giustizia
esercita in merito all’inadempimento degli Stati membri. In tema di garanzie dell’ordinamento dell’UE
vengono in considerazione le garanzie previste negli ordinamenti degli Stati membri. Infatti, non avendo
l’UE poteri coercitivi, il diritto dell’UE ha bisogno delle garanzie che solo gli Stati membri stessi
possiedono e che devono offrire all’’UE, per l’efficace attuazione delle norme dell’UE al loro interno, sulla
base dell’obbligo di leale cooperazione.
Le funzioni di governo del territorio spettano tuttora agli Stati membri e, quando questi danno attuazione
a norme dell’UE in adempimento ad obblighi derivanti dai Trattati, pongono in essere comportamenti
esclusivamente imputabili agli Stati stessi, sia sul piano interno, che su quello del diritto dell’UE, che,
infine, su quello del diritto internazionale. L’eventuale inottemperanza o l’inesatta esecuzione da parte
degli organi di uno Stato membro di prescrizioni del diritto dell’UE potrà esporre lo Stato nel suo complesso
ad azioni in varie sedi: ad un ricorso per infrazione innanzi alla Corte di Giustizia, o ad azioni innanzi ai
giudici nazionali.

36. Le fonti dell’ordinamento dell’UE e i rapporti tra di loro.


Come ogni ordinamento giuridico, anche quello dell’UE è provvisto di un suo sistema di fonti. I Trattati non
tracciano un chiaro ordine gerarchico tra di esse. Si possono individuare diversi elementi per distinguere un
diverso rango tra le fonti di diritto dell’UE. Innanzitutto, occorre tenere conto del fatto che esse sono
essenzialmente di due tipi. Da un lato, tra le fonti primarie rientrano principalmente i Trattati e la Carta dei
diritti fondamentali. Le fonti secondarie sono invece costituite dagli atti emanati dalle istituzioni dell’UE in
conformità alle norme dei Trattati. Tra queste fonti si pongono in una posizione intermedia gli accordi
internazionali conclusi dall’UE.
Per quanto riguarda innanzitutto i due Trattati (TUE e TFUE) ad essi è attribuito “lo stesso valore
giuridico” e quindi non è stabilita una prevalenza delle norme di un Trattato rispetto all’altro. Il criterio di
fondo pare avesse dovuto includere nel TUE le norme relative ai principi e alla struttura dell’UE, nonché
ai suoi rapporti con gli Stati membri, mentre nel TFUE solo le norme che riguardano il funzionamento e
l’operatività dell’UE stessa. La mancanza di un preciso disegno circa la ripartizione delle norme da
inserire rispettivamente nei due testi si accompagna anche al fenomeno della ripetizione di alcune norme in
entrambi i Trattati.

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Una certa gerarchia tra le fonti dell’ordinamento dell’UE esiste, invece, sulla base di considerazioni
d’ordine logico. Ad esempio, nei rapporti tra norme contenute nei Trattati, una norma contenente
l’enunciazione di un principio generale, di diritto dovrebbe avere un rango superiore rispetto alle altre
norme specifiche. Inoltre, l’atto di un’istituzione dell’UE, in quanto diritto derivato, non può essere
contrario alle fonti primarie del diritto dell’UE, e quindi né ai Trattati, né alla Carta dei diritti fondamentali.
Le norme del diritto primario dell’UE fungono quindi, in questa prospettiva, da parametro di legittimità
delle norme di diritto derivato.
Nei rapporti tra le fonti di diritto derivato, gli atti delegati alla Commissione sono subordinati rispetto agli
atti legislativi di base, che dispongono la delega, dovendosi mantenere nei limiti degli obiettivi, del
contenuto, della portata e della durata della delega stessa. Del resto, l’atto delegato per sua natura è
destinato ad integrare o modificare gli elementi non essenziali di un atto legislativo, e quindi non può
porsi in contrasto con quest’ultimo. Analogamente, anche gli atti di esecuzione hanno come presupposto un
atto di base, cui appunto danno esecuzione e al quale devono essere considerati subordinati. Infine, gli
accordi internazionali conclusi dall’UE hanno rango inferiore rispetto ai Trattati, ma superiore rispetto
agli atti di diritto derivato.
Nonostante queste precisazioni, non è stata mai definita una vera e propria gerarchia tra le fonti di
diritto derivato, e in particolare tra regolamenti, direttive e decisioni, oppure tra atti emanati secondo la
procedura legislativa ordinaria rispetto a quelli emanati secondo le procedure legislative speciali.

37. Le fonti primarie.


Le fonti di diritto primario dell’ordinamento dell’UE sono:
37.1. I Trattati e i principi generali di diritto in essi contenuti.
I Trattati costituiscono una fonte primaria dell’ordinamento dell’UE, in quanto si rifanno direttamente
alla volontà degli Stati che hanno dato vita all’UE stessa, volontà che costituisce il fondamento del potere
dell’UE di emanare atti di diritto derivato. Le norme dei Trattati, quindi, non possono essere modificate da
nessuna delle altre fonti del diritto dell’UE. Ovviamente, tra i Trattati vanno inclusi anche tutti quelli
modificativi del TUE e del TFUE.
Nel termine “Trattati” sono ricompresi anche i Protocolli e gli Allegati ai Trattati stessi, che “ne
costituiscono parte integrante”. Invece, le Dichiarazioni allegate ai Trattati, che non sono sottoposte a
ratifica da parte degli Stati membri, hanno valore soltanto interpretativo delle disposizioni del Trattato cui
si riferiscono.
Assimilate ai Trattati sono quelle modifiche o integrazioni apportate ad essi con provvedimenti che, sul
piano sostanziale, costituiscono veri e propri accordi internazionali tra gli Stati membri integrativi dei
Trattati:
 Gli atti adottati in sede di Consiglio europeo o Consiglio la cui entrata in vigore richiede la ratifica
o l’approvazione da ciascuno degli Stati membri
 Le delibere adottate “di comune accordo dai Governi degli Stati membri”, le quali spesso sono prese
nel corso di riunioni del Consiglio
I Trattati contengono, oltre a norme specifiche, l’enunciazione di alcuni principi generali di diritto dell’UE
che devono informare tutte le singole disposizioni dei Trattati o singoli gruppi delle stesse. Questi principi
vengono, quindi, ad assumere in un certo qual modo un rango superiore rispetto alle altre disposizioni dei
Trattati. Ai principi generali si devono ovviamente conformare sia l’UE nella produzione di norme di diritto
derivato, che gli Stati membri nel dare attuazione al diritto dell’UE. Tra questi principi, occorre
menzionare, in primo luogo, quelli di cui all’articolo 6 TUE, che stabilisce che i diritti fondamentali garantiti
dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo costituiscono principi generali facenti parte del diritto
dell’UE. È opportuno precisare, che attualmente è la Carta dei diritti fondamentali dell’UE il principale
testo di riferimento per l’individuazione dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’UE, mentre i
principi generali hanno assunto un’importanza secondaria. Tra gli altri principi generali enunciati dai
Trattati ricordiamo il principio di uguaglianza dei cittadini dell’Unione e il principio di non
discriminazione.
Il principio di uguaglianza, secondo cui “i cittadini beneficiano di uguale attenzione da parte delle
istituzioni, organi e organismi” dell’UE, è strettamente collegato alle norme sulla cittadinanza dell’UE e
impone, eventualmente, anche di tenere conto, con un trattamento differenziato, di situazioni diverse.
Il principio di non discriminazione vieta, in primo luogo, ogni discriminazione basata sulla nazionalità,
secondo un concetto che fin dalla nascita della CEE ha ispirato la creazione del mercato comune e la
realizzazione delle connesse libertà di circolazione con riferimento alla libera circolazione dei lavoratori e

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al diritto di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi. Sono altresì vietate le discriminazioni fondate
sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica e sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua...
L’articolo 19 TFUE abilita il Consiglio ad adottare all’unanimità, secondo una procedura legislativa
speciale e previa approvazione del Parlamento europeo, tutti i provvedimenti opportuni a combattere le
suddette discriminazioni, in assenza dei quali, però, non sembra che la norma non sia suscettibile di avere
efficacia diretta per i singoli. Anche gli Stati membri devono contribuire a combattere tali
discriminazioni e, al riguardo, il Parlamento europeo e il Consiglio deliberando questa volta secondo la
procedura legislativa ordinaria, possono adottare i principi di base delle misure di incentivazione da parte
dell’UE volte ad appoggiare l’azione degli Stati membri in questo senso.
Il principio di non discriminazione di cui all’articolo 19 TFUE ha portata generale e, quindi, si applica
anche in assenza di specifiche norme dei Trattati. Tuttavia, altre norme dei Trattati specificano il divieto di
discriminazione con riferimento alla parità tra i sessi, sia in generale, sia in particolare nel campo del
lavoro subordinato. Al riguardo, l’articolo 157 TFUE obbliga innanzitutto gli Stati membri ad assicurare
l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra i lavoratori dei due sessi e, in secondo luogo,
abilita il Parlamento europeo e il Consiglio ad adottare le misure che assicurino l’applicazione del
“principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione
e impiego...”.
In deroga al principio della parità di trattamento, l’articolo 157 TFUE legittima le cosiddette affirmative
actions da parte degli Stati membri, volte all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici tesi a
facilitare l’accesso ad un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato.
Ad altri principi generali enunciati dai Trattai sono ricollegate specifiche conseguenze. Ci riferiamo ai
principi di attribuzione, di sussidiarietà, prossimità e proporzionalità, di leale cooperazione, ai principi
democratici, di buona gestione finanziaria, di un’economia di mercati aperta e in libera concorrenza.
Quest’ultimo principio implica il rispetto di alcuni “principi direttivi”, quali prezzi stabili, finanze
pubbliche e condizioni monetarie sane.

37.2. La protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’UE.


Il rango di fonti primarie dell’ordinamento dell’UE spetta a pieno titolo alle norme volte alla tutela dei
diritti umani fondamentali. I progressi realizzati a questo riguardo si possono apprezzare tenendo conto
innanzitutto del fatto che all’inizio dell’esperienza comunitaria i Trattai istitutivi delle Comunità europee
non menzionavano i diritti dell’uomo. Ciò si spiega da un lato considerando la scarsità sino a quel
momento di atti internazionali vincolanti dedicati a tali diritti. D’altro lato, la CEE nasceva essenzialmente
come un accordo di integrazione commerciale.
Il progredire del processo di integrazione ha però negli anni reso sempre più impellente la necessità di dare
rilevanza ai diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario. L’ambito di attività della CEE si era
progressivamente ampliato al di là della sfera commerciale, con un impatto sempre maggiore in materie
inerenti alla vita delle persone. Si concretizzava l’attitudine delle norme comunitarie ad incidere nella
sfera giuridica degli individui. In risposta a queste esigenze, l’importanza dei diritti fondamentali
nell’ordinamento dell’UE ha trovato riscontri sempre maggiori sia nella giurisprudenza della Corte di
Giustizia, sia infine in modifiche dei Trattati che hanno sancito l’introduzione di diverse previsioni relativi
ai diritti fondamentali. Ricordiamo che oggi i diritti dell’uomo sono ricompresi tra i valori fondanti
dell’UE, la cui violazione è prevista come possibile oggetto di specifiche sanzioni, e il cui rispetto è
necessario per poter essere ammessi come nuovi membri nell’UE. Si può ben dire, in questa prospettiva,
che la protezione dei diritti fondamentali è oggi uno dei più importanti elementi identitari dell’UE.

37.2.1. L’affermazione giurisprudenziale dei principi generali di diritto dell’UE relativi alla protezione
dei diritti umani.
Si deve alla Corte di Giustizia l’avvio dell’evoluzione sopra ricordata, con una serie di pronunce in cui essa
ha affermato che i diritti fondamentali costituiscono principi generali facenti parte dell’ordinamento
comunitario. La ricostruzione dei diritti da proteggere è stata operata dalla Corte, a partire dagli anni ‘70,
richiamando le convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo, e in particolare la CEDU, oltre
alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri. Riferimenti ai diritti fondamentali erano stati poi
inseriti anche in dichiarazioni e risoluzioni delle altre istituzioni dell’UE.
Alle affermazioni della Corte di Giustizia ha fatto poi seguito il riconoscimento dei diritti fondamentali
come principi generali con il TUE nel 1992, con una formula di chiara derivazione giurisprudenziale: “i
diritti fondamentali... fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. La qualifica dei diritti

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fondamentali garantiti dalla CEDU come principi generali dell’ordinamento dell’UE implica l’obbligo di
conformarsi ai principi suddetti nell’emanazione, attuazione, esecuzione e interpretazione delle norme di
diritto dell’UE. In caso di violazione di tale obbligo, i singoli, hanno pertanto a loro disposizione i rimedi
offerti dall’ordinamento dell’UE, e segnatamente il ricorso di legittimità alla Corte di Giustizia.
Prima di passare ad esaminare la Carta dei diritti fondamentali, è opportuno ricordare altre forme con cui
l’UE tende ad evitare casi di contrasto tra disposizione di diritto dell’UE e i diritti fondamentali. Da un lato
entra in considerazione lo sforzo della Commissione europea di garantire il rispetto dei diritti
fondamentali nelle varie politiche e negli atti dell’UE. D’altro lato va menzionata l’Agenzia per i diritti
fondamentali dell’Unione europea; ad essa sono attribuiti principalmente due compiti: anzitutto quello di
raccogliere informazioni e dati in ordine alle conseguenze pratiche dei provvedimenti dell’UE; in secondo
luogo, di offrire una funzione consultiva, da esplicarsi attraverso la formulazione di conclusioni e pareri su
specifici aspetti.

37.2.2. La Carta dei diritti fondamentali dell’UE.


L’UE, oltre a riconoscere le norme della CEDU quali principi generali del proprio ordinamento, ha deciso
di dotarsi di un proprio catalogo di diritti fondamentali. Tale catalogo è contenuto nella Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea “proclamata” a Nizza il 7 dicembre 2000 da Parlamento europeo,
Consiglio e Commissione. Il testo della Carta attualmente in vigore è quello che è stato ri-proclamato a
Strasburgo il 12 dicembre 2007. Tale Carta era stata elaborata da un’apposita commissione mista,
denominata “convenzione” e formata non solo da rappresentanti di Consiglio, Commissione e Parlamento
europeo, ma anche da membri dei Parlamenti nazionali degli Stati membri.
Una delle novità più rilevanti del Trattato di Lisbona ha riguardato proprio la Carta: l’articolo 6 TUE
sancisce infatti che la Carta “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Questa previsione ha una portata che
si può definire “doppia”. In primo luogo, essa accorda efficacia giuridicamente vincolante alla Carta. In
secondo luogo, la norma attribuisce alla Carta un rango parificato a quello del TUE e del TFUE, quindi il
rango di fonte primaria, superiore a quello delle altre fonti dell’UE di diritto secondario.
La Carta contempla un catalogo molto ampio di diritti fondamentali, enunciati in norme che in alcuni casi
corrispondono a disposizioni della CEDU, o enunciano diritti economici, sociali e culturali, o riproducono
disposizioni del TUE. La collocazione sistematica dei diritti in vari gruppi è effettuata in modo originale
rispetto agli strumenti internazionali in materia di diritti umani: le varie disposizioni sono raggruppate in sei
capi: dignità; libertà; uguaglianza; solidarietà; cittadinanza; giustizia. Nel caso di disposizioni della Carta
sostanzialmente riproduttive di disposizioni della CEDU, la loro interpretazione deve conformarsi a
quella elaborata in ordine a queste ultime disposizioni. Ciò significa in concreto che la giurisprudenza della
Corte europea dei diritti dell’uomo, viene presa in considerazione da parte della Corte di Giustizia quando
essa si pronuncia sulle norme della Carta “corrispondenti” a norme della CEDU. I limiti entro i quali
opera la Carta vanno tenuti ben presente. La disposizione più importante con riguardo all’ambito di
applicazione è indubbiamente l’articolo 51, che precisa da un lato che le norme della Carta si applicano
direttamente alle istituzioni, organi e organismi dell’UE, e quindi sottintende che l’UE è tenuta a
rispettare la Carta, tramite i suoi organi, in ogni sua attività. La norma specifica invece che la Carta si
applica agli Stati membri “esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”. Le norme dell’UE sui
diritti fondamentali quindi pongono dei vincoli in capo all’UE in generale, e in capo agli Stati membri solo
nell’ambito suddetto. In altri termini, la Carta non può essere invocata con riferimento a qualunque atto o
provvedimento di diritto interno dei singoli Stati membri.
La Corte di Giustizia ha interpretato in modo estensivo questa disposizione, chiarendo che l’obbligo di
rispettare i diritti garantiti dalla Carta sussiste ogniqualvolta gli Stati membri agiscano “nell’ambito di
applicazione del diritto dell’Unione”. Ciò dà margini di operatività piuttosto ampi alla Carta. Ovviamente
in tali situazioni interne potranno entrare in gioco le norme della CEDU e coloro che si ritengano vittime di
una sua violazione da parte dello Stato potranno rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma in
modo autonomo e del tutto svincolato dal diritto dell’UE. Sempre sul piano dei limiti di applicazione della
Carta, non mancano diversi indici di alcune preoccupazioni degli Stati membri quanto alla sua portata e al
suo impatto. Dallo stesso articolo TUE traspare l’intento di delimitare la portata della Carta, nella parte in
cui sancisce che le sue disposizioni non estendono in alcun modo le competenze dell’UE come definite nei
Trattati.
Sul piano sostanziale, in relazione alla rilevanza dei singoli diritti fondamentali, la disposizione più
importante è la cosiddetta “clausola generale di limitazione”, ai sensi della quale l’UE e gli Stati membri
possono porre della restrizioni ai diritti e alle libertà riconosciuti dalla Carta, purché le restrizioni siano

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previste dalla legge, non comportino una limitazione tale da violare il contenuto essenziale dei diritti e delle
libertà in questione, e rispettino il principio di proporzionalità. La norma stessa specifica che in concreto ai
diritti e alle libertà previsti dalla Carta “possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e
rispondano effettivamente a finalità di interesse generale...”. Alla base di questo articolo sta l’idea che i
diritti riconosciuti dalla Carta “non appaiono come prerogative assolute, ma devono essere presi in
considerazione in rapporto alla loro funzione nella società”.
Sul giudizio di proporzionalità sono imperniate diverse sentenze in cui la Corte di Giustizia si è
pronunciata. In concreto, quest’ultimo giudizio si risolve nella ponderazione tra i vari diritti e interessi in
gioco nelle fattispecie concrete. In altri casi il giudizio della Corte ha portato a verificare che la
compressione dei diritti fondamentali determinata da una normativa dell’UE non fosse proporzionata
rispetto all’interesse perseguito, e ha tratto quindi un giudizio di invalidità dell’atto normativo in
questione. Un esempio molto chiaro è offerto dalla nota sentenza Digital Rights Ireland: i giudici
appuravano in primo luogo che l’obbligo di conservare i dati relativi alle comunicazioni elettroniche
dell’UE corrispondeva all’interesse generale dell’UE alla lotta al terrorismo e alla criminalità
organizzata; verificavano quindi, come secondo passaggio, l’idoneità della misura in questione a
contribuire alla lotta alla criminalità e al terrorismo; consideravano, invece, che la misura controversa non
fosse necessaria e indispensabile al perseguimento di tale obiettivo. Su questa base la Corte dichiarava
l’invalidità totale della Direttiva stessa.

37.2.3. La rilevanza della Carta nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.


La Corte ha impiegato ampiamente nelle sue decisioni lo strumento della Carta, in ragione dei caratteri di
vincolatività e superiorità gerarchica sanciti dall’articolo 6 TUE. Alla luce dell’assetto delle fonti
delineato in base a tale articolo, infatti, quando sono entrate in gioco questioni inerenti ai diritti
fondamentali nella giurisprudenza dell’UE, la Carta ha svolto la funzione di parametro di validità e di
parametro di interpretazione degli atti dell’UE.
Merita di essere sottolineato a questo riguardo che, i giudici dell’UE impiegano la Carta come principale
parametro di riferimento per valutare la validità e stabilire la corretta interpretazione degli atti dell’UE. Si
tratta di un mutamento giurisprudenziale evidente rispetto al periodo in cui la Carta non aveva valore
formalmente vincolante: prima del Trattato di Lisbona, infatti, la Corte impiegava la Carta non come parte
del diritto primario dell’UE, ma come strumento che concorreva alla ricostruzione e all’interpretazione di
principi generali di diritto dell’UE. Nell’attuale giurisprudenza della Corte in materia di diritti
fondamentali, viceversa, i giudizi della Corte tendono ad essere incentrati sulla Carta. Non mancano
comunque talora riferimenti ai principi generali, nonché alla CEDU come fonte di ricognizione dei
medesimi principi generali, o come ausilio per l’interpretazione delle norme ella Carta. La posizione
centrale accordata dalla Corte di Giustizia alla Carta più che ai principi generali può essere considerata il
frutto di un’evoluzione prevedibile o addirittura ovvia, che consegue al valore giuridico attribuito a tale
testo dalla formulazione attuale dell’articolo 6 TUE.
Il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 TUFUE è stato il principale strumento tramite il quale la
Carta ha assunto rilevanza nella giurisprudenza dell’UE.
In ragione dell’attribuzione alla Carta del carattere di diritto primario all’interno dell’ordinamento dell’UE,
la Carta può fungere da parametro diretto di legittimità rispetto alle fonti secondarie. Chiaramente, il
rispetto della Carta non riguarda solo gli atti normativi dell’UE, ma va assicurato da tutte le istituzioni
dell’UE. Dato che, come si è visto, l’obbligo di assicurare adeguate tutele ai diritti contemplati nella Carta
vale anche per gli Stati membri quando diano attuazione a norme di diritto dell’UE, anche i giudici
nazionali hanno l’obbligo di disapplicare, all’occorrenza, eventuali normative degli Stati membri che si
pongano in contrasto con singole disposizioni della Carta. La valutazione della compatibilità di atti
nazionali con la Carta può essere operata dalla Corte sulla base di quesiti pregiudiziali di
interpretazione.
Come parametro interpretativo, la Carta è comunemente utilizzata dalla Corte per determinare il
significato delle disposizioni contenute in atti delle istituzioni che formano oggetto di questioni
pregiudiziali. In concreto, orientare nettamente l’interpretazione degli atti nel senso della tutela dei diritti
enunciati dalla Carta ha portato a soluzioni anche di grande impatto. Ci si limita qui a menzionare a titolo di
esempio le decisioni con cui la Corte:
1) Ha escluso che uno Stato membro, nell’allontanare una persona verso un altro Stato membro, possa
presumere senza accertamenti che in quest’ultimo Stato la persona non rischia di incorrere in
trattamenti inumani

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2) Ha specificato la portata del cosiddetto “diritto all’oblio” nei confronti dei gestori dei motori di
ricerca su internet, interpretando in modo evolutivo la direttiva sulla privacy...
La Corte ha spesso sottolineato l’obbligo di adottare l’interpretazione più conforme alla Carta degli atti
emanati dall’UE, in ragione del suo valore prevalente rispetto alle fonti secondarie.
Nel caso in cui il tenore letterale delle norme di un atto di diritto derivato non consentisse di adottare
un’interpretazione compatibile con la Carta, ci si troverà, probabilmente, in presenza di un vizio di
legittimità, a meno che le restrizioni in esso contenute non siano conformi al principio di proporzionalità.
Il sindacato della Corte sugli atti dell’UE, alla luce della Carta, avrà quindi spesso ad oggetto la
determinazione di quale sia (e se vi sia) l’interpretazione che ne garantisce la compatibilità con la Carta
medesima. È invece dubbio se si possa parlare di un analogo obbligo di interpretazione conforme alla Carta
con riguardo alle norme di diritto primario e segnatamente alle norme dei Trattati.

37.2.4. L’ipotesi dell’adesione dell’UE alla CEDU.


Una questione che attualmente pare di minore attualità rispetto al recente passato è la possibilità che l’UE
aderisca formalmente alla CEDU, come parte contraente. L’articolo 6 TUE abilita l’UE stessa a entrare a
far parte di tale Convenzione, con una formulazione invero non chiarissima: nella versione italiana, l’UE
“aderisce” alla CEDU. In realtà questa disposizione, non può unilateralmente disporre che l’UE diventi
parte di un trattato (la CEDU) stipulato tra un gruppo diverso di Paesi (ossia i 47 Stati che sono ad oggi
contraenti della CEDU, tra i quali vi sono i 28 Stati membri dell’UE). L’adesione dell’UE richiede la
stipulazione di un apposito trattato internazionale tra l’UE e tutte le parti della CEDU, che per parte
dell’UE dovrebbe essere concluso dal Consiglio all’unanimità e poi ratificato dagli Stati membri. Negli
anni, sono state presentate ben due richieste di parere alla Corte di Giustizia in merito all’adesione dell’UE
alla CEDU. In entrambi i casi la Corte ha considerato l’adesione incompatibile con l’ordinamento dell’UE,
nel 1996 e nel 2014. Per questo, dopo l’ultima “bocciatura”, la prospettiva dell’adesione non sembra essere
oggi al centro dell’agenda europea. L’eventuale e futura partecipazione dell’UE alla CEDU, si
aggiungerebbe al riconoscimento delle norme della CEDU come principi generali. L’adesione avrebbe da
un lato un valore simbolico, rafforzando l’immagine dell’UE come soggetto impegnato nel rispetto dei
diritti mani tanto da assoggettarsi ad un sindacato “esterno” all’ordinamento dell’UE. D’altro lato, proprio il
concreto operare di meccanismi di controllo della CEDU accrescerebbe il novero dei rimedi a
disposizione dei singoli nei confronti dell’UE. In concreto, i singoli che ritenessero di essere vittime di una
violazione di un diritto sancito dalla CEDU, derivante da un atto dell’UE, potrebbero presentare un ricorso
direttamente contro l’UE dinanzi alla Corte di Strasburgo. Nel caso di accoglimento del ricorso, la
Corte CEDU non potrebbe dichiarare l’invalidità dell’atto dell’UE, ma potrebbe accodare al ricorrente il
diritto a ricevere un’“equa soddisfazione” da parte dell’UE; la sentenza potrebbe anche indicare all’UE altre
misure individuali per rimediare all’infrazione e misure generali per prevenire il verificarsi in futuro di
violazioni analoghe. Va precisato che il ricorso alla Corte CEDU potrebbe essere presentato solo dopo una
sentenza definitiva della Corte di Giustizia: il meccanismo di controllo previsto dalla CEDU ha infatti
carattere sussidiario, e può essere attivato solo dopo il cosiddetto “esaurimento dei ricorsi interni”.
L’adesione comporterebbe anche la possibilità per l’UE di nominare uno dei giudici della Corte di
Strasburgo, il quale parteciperebbe al collegio giudicante nei casi in cui l’UE fosse convenuta in giudizio.
Con riguardo alle prese di posizione della Corte di Giustizia, con il parere 2/94 del 28marzo 1996, la Corte
aveva ritenuto incompatibile, con l’allora trattato CE, l’adesione della CE alla CEDU, fondamentalmente
sulla base di considerazioni relative alla mancanza di competenza della CE a stipulare un accordo in
materia di diritti dell’uomo. Con il parere 2/2013 del 2014, la Corte ha considerato che il progetto di
accordo che le era stato sottoposto fosse incompatibile con i Trattati, per una serie di argomenti inerenti
all’autonomia dell’ordinamento dell’UE.
Nella situazione attuale, non essendo l’UE una parte contraente della CEDU, l’individuo che si ritenga
vittima di una violazione della CEDU ha la possibilità di ricorrere alla Corte CEDU contro uno Stato
membro, o contro tutti gli Stati membri per lamentare una violazione direttamente discendente da un atto
dell’UE.
Certo, un eventuale contrasto tra il diritto dell’UE e norme della CEDU non dovrebbe, almeno in via di
principio, nemmeno ipotizzarsi, data l’inclusione delle norme della CEDU tra i principi generali
dell’ordinamento dell’UE. Tale contrasto è stato comunque rilevato in un caso inerente al diritto dei
cittadini di Gibilterra a partecipare all’elezione del Parlamento europeo.
La Corte di Strasburgo ha rimarcato che gli Stati membri dell’UE, pur essendo tenuti in generale al
rispetto degli obblighi derivanti dalla partecipazione all’UE, restano comunque responsabili per la

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violazione degli obblighi derivanti dalla CEDU e che quindi possano ricorrere alla Corte CEDU. In
particolare, questa possibilità sussiste, quando gli Stati membri abbiano margini di discrezionalità per cui
essi sono pienamente responsabili delle misure di attuazione adottate nell’esercizio di tale potere.

37.3. Altri principi generali di diritto riconosciuti dalla Corte di giustizia.


I principi generali di cui abbiamo finora parlato costituiscono parte integrante dei Trattati e hanno la loro
stessa efficacia giuridica. La Corte di Giustizia ha poi elaborato tutta una serie di altri principi generali
dell’ordinamento dell’UE, ricavandoli attraverso una comparazione deli ordinamenti giuridici degli Stati
membri, così che essi includono quei “principi generali comuni ai diritti degli Stati membri” cui fa espresso
riferimento, in tema di responsabilità extracontrattuale dell’UE, l’articolo 340 TFUE. Talora la Corte, per
individuare principi generali di diritto, ha applicato criteri deduttivi, analogici o di pura logica giuridica,
senza preoccuparsi eccessivamente di valutare quanto effettivamente “comuni” fossero i principi di volta in
volta individuati. Nella misura in cui, così facendo, la Corte ha colmato delle lacune dei Trattati, spesso
dovute all’originaria impostazione esclusivamente economica dei Trattati stessi, si è parlato in proposito di
diritto non scritto dell’UE. Si badi, però, che la Corte di Giustizia, attraverso l’individuazione di questi
principi, non ha allargato l’ambiente precettivo dei Trattati. I principi suddetti hanno solo un carattere
strumentale, nel senso che la Corte si è valsa di essi, cui ha riconosciuto un rango preminente rispetto alle
fonti derivate, solo come parametri di legittimità degli atti dell’UE, nonché come criteri interpretativi
per tutte le altre fonti del diritto dell’UE. Vale la pena ricordare:
 Il principio della certezza del diritto, in base al quale ogni situazione di fatto va valutata alla luce
delle norme vigenti al momento del verificarsi del fatto stesso, norme che devono essere chiare,
precise e prevedibili
 Il principio della tutela del legittimo affidamento
 Il principio del rispetto dei diritti quesiti
 Il principio dell’effetto utile per cui ogni norma deve essere interpretata in modo da raggiungere il
suo scopo

38. Il rango di fondi intermedie degli accordi internazionali dell’UE.


Fanno parte del diritto dell’UE anche gli accordi internazionali stipulati dall’UE. Tali accordi, ai sensi
dell’articolo 216 TFUE, “vincolano le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri”, e alle norme in essi
contenute la Corte di giustizia ha riconosciuto un rango intermedio tra diritto primario e diritto derivato
dell’UE. La vincolatività di questi accordi per l’UE dipende non solo dall’articolo 216 TFUE, ma anche
dalle norme di diritto internazionale generale cui l’UE è sottoposta e in particolare della consuetudine
internazionale “pacta sunt servanda” in base alla quale i trattati internazionali sono una fonte di vincoli
giuridici per le parti contraenti. Nella gerarchia delle fonti dell’ordinamento dell’UE, essi si pongono in
una situazione di preminenza rispetto al diritto derivato dell’UE, cioè agli atti emanati dalle sue istituzioni.
Di conseguenza, un atto dell’UE contrario ad un accordo internazionale dell’UE può essere annullato
dalla Corte di Giustizia, nonché generare una responsabilità dell’UE per risarcimento del danno provocato
ai singoli, oltre, ovviamente, ad una responsabilità dell’UE stessa sul piano internazionale nei confronti
delle altre parti contraenti dell’accordo violato. Gli atti di diritto derivato dell’UE devono quindi, per quanto
possibile, essere interpretati alla luce degli accordi internazionali dell’UE, proprio per cercare di evitare
che la loro applicazione generi contrasti di questo tipo.
Gli accordi stipulati dall’UE si collocano, invece in posizione subordinata rispetto al diritto primario
dell’UE, in particolare alle norme del TUE e del TFUE, le quali prevalgono sugli impegni internazionali
contrastanti. Anche nei confronti dei principi generali di diritto dell’UE gli accordi internazionali dell’UE
sono stati collocati dalla Corte in una posizione subordinata. La Corte di Giustizia esercita quindi il
controllo di legittimità sugli accordi stessi, o per essere più precisi sui relativi atti dell’UE di conclusione o
di applicazione.
La violazione di norme di diritto interno di una parte contraente non incide sull’efficacia degli accordi
internazionali, e quindi non fa venire meno gli impegni assunti sul piano internazionale nei confronti delle
altre parti contraenti. Del resto, la sentenza pronunciata dai giudici dell’UE non può avere effetto per i
soggetti terzi con i quali l’UE abbia concluso un accordo internazionale che sia giudicato in violazione dei
Trattati. Con le altre parti contraenti l’UE dovrebbe ricercare una soluzione amichevole attraverso una
rinegoziazione. La richiesta di parere preventivo alla Corte di Giustizia sui progetti di accordi
internazionali è senz’altro un sistema adeguato a prevenire tali contrasti. Una volta che l’accordo è stato
concluso, la Corte di Giustizia è competente a pronunziarsi in via pregiudiziale in merito all’interpretazione

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delle norme pattizie. Le norme contenute in tali accordi possono essere idonee a produrre effetti diretti in
capo ai singoli. Sull’incidenza delle norme di diritto internazionale generale in ordine agli Accordi
internazionali conclusi dall’UE si rimanda a quanto detto in precedenza.
Ricordiamo che, ai sensi dell’articolo 275 TFUE, la Corte di Giustizia non ha competenze per quanto
riguarda le disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune e, quindi, nemmeno
relativamente agli accordi internazionali conclusi nell’ambito della stessa politica. Per quanto riguarda gli
accordi nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, vi sono alcuni limiti posti alla competenza
pregiudiziale della Corte, con riferimento a Regno Unito e Danimarca.

39. Le fonti secondarie.


Come ogni ordinamento giuridico, anche il diritto primario dell’UE contiene delle norme proprie sulla
produzione giuridica, che stabiliscono procedure e competenze per l’emanazione di atti normativi. Le
fonti secondarie sono per l’appunto rappresentate da atti emanati dalle sue istituzioni e costituiscono il
cosiddetto diritto derivato dell’UE, comprensivo sia degli atti tipici che di vari esempi di atti atipici.
L’articolo 288 TFUE rappresenta la principale norma a questo riguardo; non a caso essa si apre con un
richiamo implicito al principio di attribuzione. Agli atti indicati in tale articolo ci si riferisce come “atti
tipici”. Le istituzioni dell’UE emanano, inoltre, altri atti, definiti atipici, che in genere si sono affermati nella
prassi dell’UE.
I Trattati indicano quali atti possono essere adottati dalle istituzioni dell’UE in diversi casi, a volte lasciando
discrezionalità nella scelta tra atti diversi. L’articolo 296 TFUE specifica che, quando i Trattati non
prevedono il tipo di atto da adottare, le istituzioni dell’UE lo decidono di volta in volta. In base al
principio di attribuzione, le istituzioni dell’UE possono emanare un atto avente valore normativo “minore” di
quello previsto dai Trattati, ma non uno avente valore normativo “maggiore”.

39.1. I regolamenti.
L’articolo 288 TFUE individue tre caratteristiche generali dei regolamenti: essi hanno portata generale,
sono obbligatori in tutti i loro elementi e sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri.
Il requisito della portata generale implica che i destinatari dei regolamenti debbano essere una o più
categorie di soggetti.
La qualifica di destinatari del regolamento deve dipendere da circostanze obiettive e la norma
regolamentare deve avere il carattere dell’astrattezza, e quindi deve prescindere da singoli casi concreti. Per
fare un esempio, è stato affermato che un provvedimento dell’UE che fissi il prezzo dello zucchero in un
determinato periodo, o che sottoponga a determinate condizioni la concessione di aiuti ai produttori di pere,
rimane un regolamento anche se in quel determinato periodo i produttori di zucchero o di pere siano
singolarmente individuabili. Se, invece, i destinatari di un atto dell’UE, oltre che individuabili, sono tali in
virtù di una loro specifica situazione soggettiva e, quindi, il provvedimento li concerne direttamente e
individualmente, il procedimento stesso è in effetti una decisione aventi una molteplicità di destinatari
individuali. Questo “smascheramento” è rilevante in concreto, in quanto può consentire ad una persona
fisica o giuridica di dimostrare di essere dotata di legittimazione attiva ad impugnare il regolamento stesso
con un ricorso di legittimità.
La seconda caratteristica dei regolamenti è che essi sono obbligatori in tutti i loro elementi. Gli Stati
membri non possono quindi applicare un regolamento in modo incompleto o selettivo, o porre condizioni
alla sua applicazione o introdurre limitazioni alla portata delle sue norme. Con questa precisazione
nell’articolo 288 TFUE si distingue il regolamento dalla direttiva, che invece, obbliga gli Stati membri solo
quanto ai fini da raggiungere, lasciandoli liberi di scegliere i mezzi di esecuzione che ritengono più
adeguati. Sotto questo profilo si coglie l’importanza della terza caratteristica dei regolamenti, quella della
diretta applicabilità in ciascuno degli Stati membri la quale consente ad atti proprio dell’ordinamento
dell’UE di esplicare i loro effetti nell’ambito di ordinamenti diversi, quali sono quelli degli Stati membri.
Questi ultimi hanno consentito ad attribuire ai regolamenti forza obbligatoria e diretta applicabilità in
ordine ai soggetti di diritto interno, attraverso la previsione dell’articolo 288 TFUE, cui hanno dato
esecuzione nel proprio ordinamento attraverso le rispettive procedure interne.
Gli Stati membri hanno cioè introdotto al loro interno un meccanismo di adattamento automatico del loro
ordinamento a quello dell’UE, senza la possibilità di modificarne in alcun modo o precetti, ma anche senza
bisogno di un atto di esecuzione ad hoc per ogni singolo regolamento. È questa la caratteristica in fondo
più importante dei regolamenti, che ha rappresentato un’innovazione di grande rilevanza nella storia delle
forme di cooperazione istituzionali tra Stati. Dal momento della loro entrata in vigore, che avviene con

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identici effetti e in modo simultaneo per tutti gli Stati membri, i regolamenti vincolano tutti i soggetti che si
trovano o che si possono trovare nelle situazioni astrattamente descritte. Il che è ben diverso da qual che
accade con le direttive, rispetto alle quali i soggetti di diritto interno sono tenuti a rispettare i provvedimenti
nazionali di recepimento e attuazione, e quindi ad applicare le norme dettate dall’autorità nazionale.
L’emanazione di un atto interno riproduttivo di un regolamento, anche se fosse una trascrizione fedele
delle norme dell’UE in una legge nazionale, rappresenterebbe una violazione dell’articolo 288 TFUE: da un
lato determinerebbe in sostanza una sostituzione della legge al regolamento; d’altro lato, si sottrarrebbero
tali norme alla possibilità di un rinvio di interpretazione o di validità alla Corte di Giustizia.
Un altro aspetto dell’applicabilità diretta dei regolamenti concerne la loro attitudine a produrre effetti
diretti in capo ai singoli. Essi infatti possono incidere direttamente, dalla loro entrata in vigore, nel
patrimonio giuridico degli individui, ponendo diritti ed obblighi direttamente in capo a loro. Può ben darsi,
tuttavia, che i precetti sanciti da un regolamento in qualche misura richiedano l’emanazione di
provvedimenti integrativi, che ne specifichino alcuni aspetti, sia da parte degli Stati membri che delle
istituzioni dell’UE. All’emanazione di tali provvedimenti, ove necessari, gli Stati membri sono tenuti in base
al loro obbligo di leale cooperazione. Per quanto riguarda i provvedimenti integrativi da parte delle
istituzioni, l’esempio più chiaro è offerto dagli atti delegati o di esecuzione della Commissione. La
necessità di misure di attuazione o integrative non impedisce, in genere, l’immediata vincolatività del
regolamento.
L’applicabilità diretta, inoltre, non esclude la possibilità che un regolamento si applichi soltanto nel
territorio di alcuni Stati membri e, perfino, in determinate zone di un solo Stato membro. Ciò avviene,
per esempio, per regolamenti in materia agricola.
Circa la competenza di emanare regolamenti, richiamiamo quanto detto in merito alla funzione legislativa
ed esecutiva dell’UE. I regolamenti sono atti legislativi se adottati con procedura legislativa ordinaria o
speciale. Se invece sono adottati dalla Commissione nell’ambito della sua funzione normativa delegata, essi
prendono la denominazione di “regolamenti delegati”, o quella di “regolamenti di esecuzione”.

39.2. Le direttive.
La direttiva, ai sensi dell’articolo 288 TFUE, vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il
risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali per quanto riguarda la forma
e i mezzi necessari a tale scopo. Nell’ordinamento dell’UE la direttiva è un atto meno invasivo nella
sovranità degli Stati membri rispetto al regolamento, ed è maggiormente in linea con i principi di
sussidiarietà e proporzionalità. Essa, infatti, permette l’esplicazione del momento normativo a livello
dell’UE per la parte che più conta, vale a dire l’identificazione del risultato da raggiungere, con il minor
sacrificio possibile della sovranità degli Stati, che restano liberi di determinare la forma e i mezzi necessari.
Vengono così salvaguardate alcune differenze tra i sistemi giuridici degli Stati membri. Piuttosto, le
direttive possono costituire un atto idoneo ad avvicinare progressivamente le legislazioni degli Stati
membri. Non si deve però pensare che la direttiva sia un atto parzialmente vincolante, non è così, in quando
la direttiva è atto, al pari del regolamento, completamente vincolante per quanto riguarda il suo contenuto,
solo che quest’ultimo ha carattere programmatico perché la direttiva deve formare oggetto di un atto
nazionale di recepimento. La differenza tra i due atti può tendere a sfumare in concreto qualora ci si trovi di
fronte ad una direttiva particolarmente dettagliata. Si è assistito infatti all’emanazione di un numero sempre
crescente di cosiddette “direttive dettagliate”, contenenti una disciplina talmente articolata da lasciare poco
o nessuno spazio all’esercizio del potere discrezionale degli Stati in sede di determinazione delle forme e dei
mezzi per il raggiungimento del risultato voluto.
Le direttive sono indirizzate agli Stati membri, a tutti o solo ad alcuni di essi. Il fatto di porre obblighi di
risultato in capo agli Stati destinatari è una caratteristica che avvicina le direttive ai tipici atti delle
organizzazioni internazionali. Le direttive, in questa prospettiva, necessitano dell’adozione di misure di
attuazione nel diritto nazionale da parte degli Stati. Il termine di attuazione è un elemento fondamentale
della direttiva. Prima della scadenza del termine, gli Stati membri hanno solo l’obbligo di non porre in
essere misure interne tali da pregiudicare gli effetti della direttiva una volta attuata. Entro la scadenza, gli
Stati membri, inoltre, sono obbligati a comunicare alla Commissione sia le proposte di provvedimenti
interni di attuazione, sia i provvedimenti stessi una volta adottati. Quest’obbligo di notifica è stato
anch’esso desunto dall’obbligo di leale cooperazione. Dal momento della scadenza del termine per il
recepimento, in caso di mancata o inesatta attuazione si verifica una violazione da parte dello Stato
dell’obbligo di recepimento, che come vedremo può portare ad un ricorso per infrazione contro lo Stato
inadempiente. È solo dalla scadenza di tale termine, inoltre, che può porsi il problema di valutare

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l’idoneità di alcune norme della direttiva ed avere effetti diretti. All’obbligo di attuazione gli Stati membri
non possono sottrarsi adducendo l’inadempimento da parte di altri Stati, o l’assenza di effetti negativi sul
funzionamento del mercato comune, ovvero richiamandosi al proprio diritto interno. L’omissione delle
misure di attuazione delle direttive espone gli Stati inadempienti al ricorso alla Corte di Giustizia da parte
della Commissione o da parte di un altro Stato membro. L’articolo 260 TFUE prevede, specificamente e solo
per l’ipotesi in cui uno Stato membro non comunichi le misure di attuazione di una direttiva legislativa,
la possibilità che la Corte di Giustizia gli infligga una sanzione pecuniaria sin dalla prima sentenza che
accerti l’infrazione.
Inoltre, proprio a partire da un caso di mancata attuazione di una direttiva la Corte ha elaborato il diritto dei
singoli a richiedere il risarcimento dei danni agli Stati membri inadempienti. La Corte di Giustizia ha
insistito sulla necessità che l’attuazione delle direttive avvenga nel rispetto delle esigenze della chiarezza e
della certezza giuridica.
Nel caso in cui tutti gli Stati membri abbiano compiutamente adempiuto all’obbligo di attuazione di una
direttiva, trovano applicazione nei rispettivi ordinamenti interni le 28 leggi nazionali di recepimento. La
direttiva attuata però non si estingue al raggiungimento di questo risultato; essa resta in vigore e può
essere utilizzata a fini interpretativi dall’operatore giuridico chiamato ad applicare la normativa nazionale
di attuazione.
Le direttive, come i regolamenti, sono atti “legislativi” se adottate con procedura legislativa ordinaria o
speciale. Esse prendono la denominazione di “direttive delegate” se adottate dalla Commissione nell’ambito
della sua funzione normativa delegata, o di “direttive di esecuzione” se adottate dalla Commissione stessa
nell’ambito della sua competenza esecutiva. La direttiva è un atto largamente utilizzato, specie in materia
di ravvicinamento delle legislazioni; a questo riguardo il Consiglio gode di una competenza generale di
emanare direttive, purché le legislazioni da ravvicinare abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione e sul
funzionamento del mercato interno. Essa è anche l’atto tipico attraverso cui sono state realizzate le libertà di
circolazione nel mercato interno.
Nel periodo tra l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, e di quello di Lisbona, l’UE ha adottato delle
decisioni quadro in materia di cooperazione di polizia e di cooperazione giudiziaria in materia penale,
ossia degli atti con caratteristiche fortemente simili alle direttive. Le decisioni quadro non possono avere
effetti diretti, specificazione prevista dagli Stati membri preoccupati di salvaguardare la propria
tradizionale sfera di sovranità in campo penale. Sebbene si tratti di atti di cui non è più prevista l’emanazione
da parte dell’UE, tuttavia è necessario ricordarne l’esistenza: tra di esse, l’esempio più noto è rappresentato
dal mandato di arresto europeo, disciplinato dalla decisione quadro 2002/588/GAI.

39.3. Le decisioni
La decisione, ai sensi dell’articolo 288 TFUE, è caratterizzata dalla obbligatorietà in tutti i suoi elementi.
Se essa designa i destinatari e ha, quindi, portata individuale, è obbligatoria soltanto nei confronti di
questi ultimi. Tradizionalmente le decisioni comunitarie si caratterizzavano proprio per essere atti a portata
individuale, il che valeva a distinguerle dai regolamenti. Nella prassi, però, si è affermato l’uso di
denominare genericamente come “decisioni” determinate delibere di istituzioni dell’UE, giuridicamente
vincolanti, che non hanno portata individuale e sono prive dell’indicazione di precisi destinatari. Per
esempio, questa denominazione è usata per molte decisioni in materia istituzionale, come quelle del
Consiglio europeo sulle formazioni del Consiglio e sulla loro presidenza, nonché per le decisioni nell’ambito
della politica estera e di sicurezza comune. La dottrina talora indicava questi atti come “decisioni sui
generis” per distinguerle dalle decisioni individuali. Con il Trattato di Lisbona, la formulazione dell’articolo
288 TFUE è stata cambiata in modo da ricomprendere anche le decisioni a portata generale, indicando che
le decisioni possono anche non designare il loro destinatario.
Per quanto riguarda le decisioni a portata individuale, queste possono essere dirette a uno o più Stati
membri o a uno o più individui, e hanno sostanzialmente natura di atti amministrativi e non normativi. Le
decisioni individuali rivolte a Stati membri si differenziano dalle direttive in quanto esprimono un precetto
completo, cui lo Stato destinatario si deve semplicemente adeguare. Tra le decisioni rivolte a Stati membri
di maggiore rilevanza ricordiamo quelle che la Commissione emana nell’esercizio della propria funzione di
controllo sugli aiuti che gli Stati membri erogano alle imprese. Queste decisioni possono acconsentire
alla concessione dell’aiuto, o negare tale possibilità, o ammetterla a condizioni ben determinate, o stabilire
che un aiuto illegalmente erogato dallo Stato debba essere restituito dall’impresa che ne abbia indebitamente
beneficiato.

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Le decisioni rivolte ad individui determinati sono normalmente emesse dalla Commissione nell’ambito del
suo potere di vigilanza sull’applicazione dei Trattati. Assumono particolare rilievo, quelle relative
all’applicazione delle regole di concorrenza, le quali possono comportare a carico dei destinatari obblighi
pecuniari. In tali ultimi casi, tali decisioni costituiscono titolo esecutivo negli Stati membri. È il caso di
ricordare ancora una volta che non è al nomen juris che bisogna guardare per distinguere una decisione da un
altro atto, ma alla sua sostanza. In questa prospettiva, come già si è detto, la Corte di Giustizia ha adottato la
tecnica dello “smascheramento” dell’atto dell’UE, sviluppata specie con riferimento a casi in cui dietro la
denominazione di regolamento si cela in sostanza una decisione avente una molteplicità di destinatari, i
quali sono a tal punto legittimati a impugnare l’atto con un ricorso di legittimità. In altre occasioni, la Corte
di Giustizia ha ritenuto che atti emanati dalla Commissione sotto forma di pareri, fossero in effetti delle
decisioni, quindi impugnabili dalle parti dell’intesa stessa.

39.4. Le raccomandazioni e i pareri.


L’articolo 288 TFUE menziona anche altri due atti, le raccomandazioni e i pareri, limitandosi a specificare
che essi non sono vincolanti.
Le raccomandazioni costituiscono un atto di comune utilizzo nelle organizzazioni internazionali, in quanto,
attraverso di esse, gli organi di un’organizzazione internazionale cercano di ottenere un determinato
comportamento da parte degli Stati membri con il minimo sacrificio della sovranità di questi ultimi. È un
atto, quindi, che incontra minori resistenze da parte degli Stati ed è perfettamente coerente con il carattere
volontario del vincolo associativo tra i membri di un’organizzazione internazionale e con il principio di
attribuzione. Per converso, è un atto meno utilizzato all’interno degli Stati. Nel diritto dell’UE, il potere
generale di emanare raccomandazioni è attribuito al Consiglio e alla Commissione, mentre la BCE può
adottare raccomandazioni quando i Trattati lo prevedono. Le raccomandazioni sono in genere volte a
ottenere che il destinatario adotti un determinato comportamento, indirizzandogli indicazioni non
vincolanti. Esse possono essere ammesse sia nei confronti di Stati, che di privati, che, infine, di altre
istituzioni dell’UE. Esempi di raccomandazioni inter-organiche sono quelle indirizzate dal Consiglio al
Parlamento europeo in materia di esecuzione del bilancio, o quelle che la Commissione o l’Alto
rappresentate dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza presentano al Consiglio per essere
autorizzati ad aprire negoziati internazionali. Le raccomandazioni, pur non essendo vincolanti, non sono
prive di conseguenze giuridiche. La principale conseguenza è stata individuata nel cosiddetto “effetto di
liceità”, vale a dire nella legittimazione del comportamento dello Stato che si conformi alla
raccomandazione. Ciò è vero anche in relazione alle raccomandazioni del diritto dell’UE. Anzitutto, la
Corte di Giustizia ha precisato che i giudici nazionali devono prendere in considerazione le raccomandazioni
ai fini dell’interpretazione di norme interne, per la soluzione delle controversie sottoposte al loro
giudizio. Inoltre, a volte la rilevanza giuridica della raccomandazione è indicata nei Trattati stessi. È il caso
delle raccomandazioni che la Commissione può rivolgere allo Stato che intenda emanare una disposizione
suscettibile di creare una distorsione del mercato interno. La mancata osservanza di tale raccomandazione
ha, come effetto di liceità, che lo Stato inadempiente resterà esposto alle misure nazionali degli altri Stati
membri che eventualmente lo pregiudichino.
Mentre le raccomandazioni tendono, in genere, ad ottenere che il destinatario adotti un determinato
comportamento, i pareri sono atti attraverso i quali l’organo che li emette precisa la sua posizione su una
determinata materia. Essi hanno per lo più natura inter-organica, pur con vistose eccezioni. Come già
detto, l’emanazione di un parere è uno dei modi attraverso i quali il Parlamento europeo e altre istituzioni
partecipano al processo decisionale dell’UE nella procedura legislativa speciale. Il Parlamento europeo
gode di un potere generale di emettere pareri. Anche ad altre istituzioni i Trattati riconoscono tale potere in
determinate circostanze. Come per le raccomandazioni, la non vincolatività dei pareri, non implica che essi
siano sprovvisti di rilevanza giuridica. Basti pensare al riguardo che, l’atto emanato dal Consiglio senza
l’acquisizione dei pareri delle istituzioni dell’UE, quando tali pareri siano obbligatoriamente richiesti dai
Trattati, è illegittimo per violazione delle forme sostanziali. Inoltre, i pareri, nella misura in cui esprimono
la posizione dell’istituzione che li emetti, determinano una situazione di legittimo affidamento dei
destinatari circa il comportamento futuro dell’istituzione stessa.

39.5. Gli atti atipici.


A prescindere dagli atti interni o di autoregolamentazione, emanati da ciascuna delle istituzioni dell’UE, atti
diversi sono previsti da altre norme dei Trattati, come le proposte della Commissione. Anche al di là delle
previsioni dei Trattati, la prassi conosce tutta una serie di altri atti delle istituzioni dell’UE variamente

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denominati, quali lettere, comunicazioni, inviti, dichiarazioni, risoluzioni, conclusioni, codici di condotta,
istruzioni pratiche, programmi generali, libri verdi, libri bianchi, ed altri ancora, la cui rilevanza giuridica
va individuata di volta in volta.
Un particolare rilievo hanno assunto le comunicazioni della Commissione in materia di norme sulla
concorrenza e sugli aiuti di Stato, con le quali la Commissione rende anticipatamente noto quale sarà
l’orientamento cui intende attenersi. La Corte di Giustizia ha affermato che il potere discrezionale della
Commissione è sostanzialmente “autolimitato” da tali comunicazioni, per cui essa, nell’emettere decisioni
in casi concreti, è vincolata ad attenersi agli orientamenti resi pubblici ex ante con le sue
comunicazioni. Del resto, come abbiamo detto per i pareri, le comunicazioni possono giustificare il
legittimo affidamento da parte dei terzi in merito al comportamento futuro della Commissione.
Vanno anche in questa sede ricordate le dichiarazioni comuni emanate congiuntamente da più istituzioni.
Se tali dichiarazioni hanno di fatto il valore di una presa di posizione congiunta di carattere sostanzialmente
politico, invece i veri e propri accordi inter-istituzionali possono essere adottati con lo scopo di assumere
degli impegni giuridici reciproci tra le istituzioni coinvolte.
Il criterio guida per individuare la rilevanza giuridica degli atti atipici deve trarsi dalla più volte menzionata
giurisprudenza della Corte di Giustizia, che invita a guardare sempre alla sostanza dell’atto, a prescindere
dal suo nomen juris. Un atto che risulti volto a produrre effetti giuridici non potrà essere sottratto al
sindacato di legittimità della Corte di Giustizia, qualunque sia il suo nomen juris.

39.6. Motivazione, base giuridica e altri requisiti formali degli atti dell’UE.
L’emanazione degli atti dell’UE deve sottostare ad alcuni requisiti formali, perlopiù precisati dagli articoli
296 e 297 TFUE, in mancanza dei quali l’atto risulta viziato sotto il profilo della violazione delle forme
sostanziali ed è quindi passibile di essere dichiarato nullo ai sensi dell’articolo 296 TFUE. Il primo di tali
requisiti è la motivazione, necessaria per tutti gli atti giuridici dell’UE. Per atti giuridici vanno intesi quelli
produttivi di conseguenze giuridiche, con esclusione degli atti a mera rilevanza politica. Essa si esprima
normalmente nel cosiddetto “considerando” costituiti da paragrafi numerati. L’esposizione delle ragioni
alla base delle varie norme, da parte dell’istituzione da cui l’atto promana, costituisce un valido ausilio
interpretativo per i soggetti chiamati ad applicare l’atto medesimo. Anche se non espressamente richiesto
dai Trattati, un elemento fondamentale della motivazione è costituito dall’indicazione della base giuridica
dell’atto, che è costituita da una o più disposizioni dei Trattati che devono essere specificate nel preambolo
di ciascun atto. Questo riferimento normativo è necessario perché dimostra che l’emanazione dell’atto rientra
tra le attribuzioni dell’istituzione stessa e che quindi non sussiste vizio di incompetenza in ordine ad
esso. A conferma della delicatezza della scelta della base giuridica vi sono i numerosi casi in cui tale scelta
da parte del Consiglio è stata contestata dal Parlamento europeo o dalla Commissione. La base giuridica,
come la Corte ha precisato, va determinata secondo criteri obiettivi individuati avendo riguardo allo scopo e
al contenuto dell’atto. Non è rara l’indicazione di una base giuridica plurima, allorché la competenza di
un’istituzione riposi su più di una norma dei Trattai o di altri atti. Nel caso, però, in cui le procedure
previste da tali norme siano tra di loro incompatibili, e quindi, non possano fungere da base giuridica, la
scelta tra le norme pertinenti dovrà fondarsi sulla valutazione delle finalità dell’atto che risultino
preponderanti. È anche necessario che gli atti facciano espresso riferimento alle proposte, iniziative,
raccomandazioni, richieste o pareri previsti da Trattati. Dalla motivazione, in altri termini, deve risultare
tutto l’iter che ha preceduto l’emanazione dell’atto e i contributi di tutte le istituzioni coinvolte.
Limitatamente agli atti legislativi, ricordiamo che essi devono essere dettagliatamente motivati sotto il
profilo del rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. In conformità al principio di
certezza del diritto, la possibilità di avere conoscenza delle norme stabilite negli atti di diritto derivato
dell’UE è un requisito fondamentale a garanzia dei destinatari. In questa prospettiva, l’articolo 297 TFUE
stabilisce l’obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, per gli atti legislativi e
non legislativi, che assumono a forma di regolamenti o direttive rivolti a tutti gli Stati membri. Le
raccomandazioni e i pareri non sono soggetti a tale pubblicazione. Gli atti soggetti a pubblicazione sulla
Gazzetta entrano in vigore, cioè iniziano a produrre i loro effetti giuridici, alla data da essi stabilita, o, in
mancanza, dopo una vacatio legis di venti giorni dalla pubblicazione. Gli atti dell’UE non soggetti a
pubblicazione, cioè le direttive volte a specifici Stati membri e le decisioni di portata individuale, vanno
invece notificati ai destinatari. È escluso che un atto dell’UE possa avere un effetto retroattivo. Le
deroghe al principio della irretroattività degli atti dell’UE sono state ammesse solo in via eccezionale e in
situazioni in cui l’atto non avrebbe potuto altrimenti raggiungere il suo scopo. Quanto alla firma, gli atti
adottati secondo la procedura legislativa ordinaria vanno firmati sia dal Presidente del Parlamento europeo

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che dal Presidente del Consiglio; quelli adottati secondo la procedura speciale e quelli non legislativi
(adottati sotto forma di regolamenti, direttive e decisioni) vanno firmati generalmente del Presidente del
Consiglio. Infine, va ricordato che gli atti dell’UE sono redatti nelle 24 lingue ufficiali. Collegato in
qualche modo agli aspetti formali degli atti dell’UE è il principio di trasparenza del processo decisionale.
Per garantire tale trasparenza, l’articolo 15 TFUE specifica, anzitutto, che ciascuna istituzione, organo e
organismo dell’UE garantisce la trasparenza dei propri lavori e definisce le condizioni riguardanti
l’accesso del pubblico ai propri documenti. Il Parlamento europeo e il Consiglio si riuniscono in sedute
pubbliche. Inoltre, qualsiasi soggetto, cittadino dell’UE ha il diritto di accesso ai documenti delle
istituzioni, organi e organismi dell’UE entro i termini stabiliti.

CAPITOLO VI: CARATTERI ED EFFETTI DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA.


40. L’efficacia diretta per i singoli del diritto dell’UE.
La grande rilevanza che il diritto dell’UE ha progressivamente assunto è dovuta anche, in buona misura, a
due caratteristiche fondamentali e peculiari: l’efficacia diretta per i singoli di molte sue norme e il
primato sui diritti nazionali degli Stati membri. Si deve alla giurisprudenza della Corte di Giustizia
l’affermazione di tali caratteri, che si avvicinano molto a caratteristiche proprie dei sistemi costituzionali
degli Stati federali. Le due sentenze di riferimento sono le famose pronunce nei casi Van Gend & Loos e
Costa contro Enel. La Corte ha riconosciuto in primo luogo la possibilità di ricollegare a norme di diritto
dell’UE effetti diretti per i singoli. L’affermazione del primato è di poco successiva, il che si può spiegare
anche considerando che la prevalenza dei diritti interni è un’implicazione necessaria dell’efficacia diretta,
in quanto è funzionale a garantire che le norme di diritto dell’UE possano spiegare i loro effetti nei vari
ordinamenti degli Stati membri e i diritti da queste conferiti possano essere pienamente esercitati.
La produzione di effetti diretti per i singoli si collega strettamente alla qualificazione dell’ordinamento
dell’UE come un ordinamento di nuovo genere, che annovera tra i suoi soggetti non solo gli Stati membri,
ma anche soggetti di diritto interno degli Stati stessi (sentenza Van Gend & Loos). In particolare, la Corte
di Giustizia ha affermato che le norme di diritto dell’UE possono essere idonee a produrre l’effetto di
costituire diritti o obblighi, nonché di produrre la modifica o l’estensione di diritti o di obblighi. Nella
prospettazione della Corte, gli organi degli Stati membri, e in primis i giudici nazionali, devono garantire il
rispetto di questi diritti e obblighi posti da norme di diritto dell’UE di rango primario, secondario, o
intermedio. Dalla partecipazione degli Stati membri dell’UE discende infatti l’obbligo di assicurare
l’effettività del diritto dell’UE negli ordinamenti interni. In concreto, le norme dell’UE possono essere
fatte valere nei rapporti tra il titolare di un diritto e il soggetto obbligato ai sensi delle norme stesse; se non
siano rispettate, le norme stesse possono essere invocate dinanzi ai giudici nazionali. I giudici nazionali
devono accordare una tutela effettiva ai diritti attribuiti dal diritto dell’UE, assicurando una tutela
equivalente rispetto alla tutela offerta ai diritti stabiliti da diritto interno. Accanto ai giudici nazionali, pure
le pubbliche amministrazioni degli Stati membri devono garantire il pieno rispetto delle norme dell’UE
nei confronti dei privati interessati.
La diretta “azionabilità” dei diritti posti da norme del diritto dell’UE vale innanzitutto per quelle norme che
hanno come destinatari i singoli, a beneficio dei quali prevedono determinati diritti. L’efficacia diretta per
i singoli è inoltre stata stabilita dalla Corte di Giustizia anche rispetto a norme dell’ordinamento dell’UE che
hanno come destinatari gli Stati. Va comunque tenuto ben presente che l’idoneità di una norma a produrre
effetti diretti non riguarda un atto considerato per intero. La valutazione che la Corte di Giustizia compie,
infatti, è svolta norma per norma. Questo esame consiste in generale nella valutazione da un lato del
carattere chiaro e preciso della norma di diritto dell’UE in questione, dall’altro del suo carattere
“incondizionato”.
Sotto il primo profilo, la chiarezza e la precisione del precetto contenuto nella norma devono essere tali da
consentire al giudice nazionale di applicare la norma stessa al caso concreto; in particolare, questi requisiti
possono riguardare la completa indicazione degli elementi necessari per individuare:
 I soggetti in capo ai quali la norma intende costituire il diritto
 Il contenuto del diritto
 I soggetti su cui grava l’obbligo corrispondente
Sotto il secondo profilo, il “carattere non condizionato” consiste nella circostanza che l’esecuzione della
norma non richieda l’adozione di ulteriori atti e di ulteriori scelte normative, e quindi che la possibilità che
la norma sia applicata da parte di un organo nazionale non sia per l’appunto “condizionata” ad ulteriori
adempimenti, dell’UE o degli Stati membri: solo in questi casi la norma è applicabile direttamente o, per
usare un’espressione equivalente, “self-executing”, in quanto la norma contiene in sé stessa tutti gli

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elementi necessari a consentirne l’applicazione nei casi singoli. Nella giurisprudenza dell’UE, la Corte ha
usato alternativamente l’espressione “efficacia diretta” accanto a quella di “diretta applicabilità”.
Quest’ultima espressione in realtà è utilizzata testualmente nel TFUE solo con riguardo ai regolamenti.
Più in generale, va ricordato che l’efficacia diretta di una norma dell’ordinamento dell’UE e il suo primato
non giustificano che uno Stato lasci in vigore delle norme interne contrastanti, limitandosi a
disapplicarle. Come sottolineato dalla Corte di Giustizia, con riferimento alle disposizioni italiane che
riservavano ai cittadini italiani l’esercizio delle professioni di agente turistico, giornalista e farmacista: “la
Repubblica italiana non può sottrarsi all’obbligo di adattare la sua legislazione nazionale a quanto
prescritto dal Trattato”, invocando la possibilità di far valere l’effetto diretto delle pertinenti norme del
Trattato sulla libertà di circolazione.

40.1. L’efficacia diretta delle norme di diritto primario.


 Il primo caso in cui la Corte ha affermato che un singolo può avvalersi direttamente di una norma di
diritto dell’UE contro un’amministrazione statale, ha avuto ad oggetto una norma dei Trattati, che
poneva un obbligo in capo agli Stati membri. Come si è detto, ciò è avvenuto nella sentenza van Gend
& Loos. L’impresa olandese si era vista applicare, dalle autorità doganali olandesi, un dazio
all’importazione superiore a quello in vigore alla data di entrata del Trattato CEE. Ciò era in contrasto
con l’allora articolo 12 CEE, che imponeva agli Stati membri l’obbligo di non aumentare i dazi
doganali in vigore tra di essi. Pertanto, quando la ditta van Gend & Loos si rivolse ad un tribunale
olandese contestando l’incremento del dazio, la posizione del Governo olandese fu che l’articolo 12
CEE non conferiva alcun diritto ai singoli, ma appariva rivolto solo agli Stati membri. Il giudice
olandese sospese il procedimento e sottopose alla Corte di Giustizia la questione. La Corte non ebbe
dubbi in proposito: essa affermò che l’ordinamento comunitario “riconosce come soggetti non soltanto
gli Stati membri, ma anche i loro cittadini”. Secondo questa ricostruzione, una norma del Trattato,
come può porre degli obblighi a carico dei privati, così può attribuire loro dei diritti. Successivamente,
una serie di sentenze della Corte ha riconosciuto l’attitudine a produrre effetti diretti per i singoli ad
altre norme dei Trattati, che pure apparivano volte solo a porre divieti in capo agli Stati membri. In tutti i
casi, i singoli hanno potuto fare valere dinnanzi alle autorità nazionali l’inosservanza da parte degli
Stati membri delle relative norme dei Trattati rivolte agli Stati stessi, tra cui il divieto di
discriminazioni basate sulla nazionalità, il divieto di dazi doganali tra gli Stati membri, l’obbligo degli
Stati membri di garantire la libera circolazione delle merci anche in presenza di monopolo commerciali,
la libera circolazione dei lavoratori, la libertà di stabilimento. Dalla suddetta giurisprudenza si rileva che
la Corte ha attribuito diretta efficacia per i singoli sulla base di un esame volto a rilevale i necessari
requisiti di chiarezza e precisione, e il loro carattere incondizionato. La Corte, per corroborare il
giudizio di adeguatezza di norme dei Trattati a produrre effetti diretti, ha spesso richiamato il
principio dell’effetto utile, sostenendo che senza un’efficacia diretta le norme stesse non sarebbero state
in grado di raggiungere il loro scopo. Quando, invece, le norme dei Trattati lasciano alle istituzioni
dell’UE o agli Stati membri un consistente margine di discrezionalità, oppure sono troppo generiche,
tale efficacia diretta è negata alla Corte.
L’efficacia diretta per i singoli, così riconosciuta dalla Corte a norme dei Trattati rivolte agli Stati
membri, è “verticale”, nel senso che conferisce al singolo la possibilità di far valere i diritti nascenti da
tali norme nei confronti della pubblica autorità. In alcuni casi, è stata riconosciuta anche un’efficacia
diretta “orizzontale”, nel senso, cioè, che è stato garantito al singolo il diritto di far valere la norma dei
Trattati dinanzi ad un giudice nazionale anche nei rapporti con altri privati. Come si è detto, infatti, i
Trattati hanno tra i propri destinatari anche i singoli, pertanto, a norme dei Trattati che pongono divieti di
restrizioni sul mercato interno è stata riconosciuta l’attitudine a spiegare effetti anche nei confronti dei
singoli, con la conseguenza che eventuali pattuizioni private che pongano restrizioni di questo genere
non possono avere effetto, e il giudice non può ordinarne l’osservanza. Ciò è avvenuto, ad esempio, per
il contrasto con le regole di concorrenza che sono rivolte alle imprese private. In senso analogo si
possono ricordare altre norme, di per sé dirette agli Stati, ma di cui la Corte aveva già in genere
riconosciuto l’efficacia diretta verticale: si pensi al riguardo alle norme sulla libera circolazione delle
merci; al divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità o sul sesso.
Un’analoga attitudine a produrre effetti diretti negli ordinamenti interni degli Stati membri è stata
riconosciuta dalla Corte di Giustizia anche ai principi generali di diritto dell’UE. Sotto questo profilo,
entrano in considerazione ad esempio due note sentenze nelle quali la Corte ha considerato che dovesse

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essere data piena applicazione a principio di non discriminazione, e ne ha desunto l’applicazione in
rapporti di lavoro tra privati. (sentenza Mangold e sentenza Kücükdeveci)
 Sempre restando nell’ambito del diritto primario, la questione dell’attitudine delle norme della Carta
ad essere invocate in giudizio ai singoli non ha ancora dato luogo ad una cospicua giurisprudenza. La
Carta stessa, però, introduce una distinzione, di cui non è in verità chiarissima la portata, tra le
disposizioni in essa contenute che enunciano diritti e quelle “che contengono dei principi”: a titolo di
esempio, le “spiegazioni annesse alla Carta” indicano come principi le norme sull’inserimento delle
persone con disabilità, sui diritti degli anziani e il principio di tutela dell’ambiente. L’articolo 52
specifica che le norme che contengono principi “possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai
fini dell’interpretazione e del controllo di legalità”. Sembra quindi che, solo quando lo Stato o l’UE
abbia adottato i pertinenti atti di attuazione il giudice potrà essere chiamato anche da un singolo a
controllare la legittimità di tali atti; in assenza di atti di attuazione, invece, le norme della Carta che
contengono principi non potrebbero utilmente essere invocate in giudizio. L’invocabilità è stata
ammessa dalla Corte nei rapporti verticali, nei confronti degli Stati membri. È ragionevole pensare
che non vi siano ostacoli al riconoscimento alla produzione di effetti diretti anche sul piano
orizzontale.
Anche in ordine alla Carta, tuttavia, la Corte valuta norma per norma se la disposizione invocata abbia
le caratteristiche di chiarezza, precisione e incondizionatezza necessarie per produrre effetti diretti. In
assenza di queste caratteristiche, la Corte ha negato che la norma della Carta invocata fosse idonea a
conferire ai singoli un diritto soggettivo autonomamente tutelabile. Un’altra importante sentenza è
quella del 15 gennaio 2014, Association de médiation sociale, nella quale la Corte ha considerato che la
norma della Carta rilevante nel caso di specie non potesse produrre pienamente i suoi effetti finché il
diritto contemplato non fosse stato precisato mediante disposizioni di diritto dell’UE o di diritto
nazionale. Il giudizio sull’esclusione dell’efficacia diretta della norma si è fondato sulla presenza della
formula per cui il diritto previsto deve essere garantito “nei casi e alle condizioni previsti dal diritto
dell’Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali”. Il fatto che ci si possa attendere una limitata
incidenza della Carta a tale riguardo si può del resto leggere tenendo presente che si tratta degli articoli
dedicati per lo più ai diritti sociali, ossia a diritti la cui promozione forma tradizionalmente oggetto di
scelte di politica sociale che in buona parte restano riservate agli Stati membri.

40.2. L’efficacia diretta delle norme dei regolamenti.


Un discorso analogo a quello fatto per l’efficacia diretta per i singoli delle norme dei Trattati vale per
l’efficacia diretta dei regolamenti. L’efficacia diretta di questi atti è prevista dai Trattati. Gli Stati
membri hanno consentito a fare sostituire la disciplina nazionale dalla disciplina dettata dall’UE.
L’applicabilità diretta dei regolamenti implica anche la loro attitudine a costruire direttamente situazioni
giuridiche soggettive in capo ai soggetti degli ordinamenti interni (cioè la loro idoneità ad avere efficacia
diretta). Ciò si verifica in particolare con riguardo alle norme che non richiedano misure attuative o
integrative da parte delle istituzioni dell’UE o da parte degli Stati membri. Comunque, anche qualora un
regolamento nel suo insieme richieda l’adozione di tali misure, quelle specifiche norme del regolamento
stesso che abbiano i caratteri di chiarezza, precisione e incondizionatezza saranno idonee ad avere efficacia
diretta di per sé, e quindi ad esempio ad essere invocate e ad essere applicate direttamente dai giudici
nazionali. Vedi sentenza Leonesio, con la quale veniva riconosciuta ad un singolo la possibilità di far
valere, nei confronti dello Stato italiano, il suo diritto ad un premio disposto da un regolamento. La Corte
rimarca che gli Stati membri non possono condizionare il prodursi degli effetti di un regolamento
all’emanazione di un provvedimento nazionale, o ad una prassi interna. L’attitudine delle norme opera
quindi dal momento della loro entrata in vigore, e determina immediatamente il sorgere dei diritti in esse
previsti, senza che possano essere frapposti ostacoli e condizionamenti di diritto interno. Le norme dei
regolamenti possono essere invocate in un giudizio interno non solo da un privato nei confronti di uno Stato
(rapporti giuridici verticali “ascendenti”), ma anche nelle relazioni tra privati (rapporti giuridici
orizzontali). Dalla loro portata generale deriva infatti che anche i singoli rientrano tra i destinatari dei
regolamenti, e quindi possono essere posti immediatamente in capo ai privati non solo diritti, ma anche
obblighi. Dal momento dell’entrata in vigore di un regolamento, quindi, i singoli possono pretendere il
rispetto dei diritti loro attribuiti, e, qualora si riveli necessario, avvalersi direttamente delle disposizioni
dei regolamenti a loro favore dinanzi alle autorità di ogni Stato membro. La possibilità di invocare una
norma di un regolamento contro un privato, del resto, vale non solo per i privati titolari del diritto
corrispondenti, ma anche per gli Stati (cosiddetta efficacia verticale “discendente”).

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40.3. L’efficacia diretta delle norme delle direttive e i suoi limiti.
Quanto alle direttive, la loro stessa natura di norme che necessitano di disposizioni da attuare da parte
degli Stati membri che ne sono destinatari sembrerebbe, escludere a priori la possibilità che venga loro
riconosciuta efficacia diretta per i singoli. Questa è stata, infatti, l’opinione inizialmente espressa dalla
dottrina e dalle giurisdizioni nazionali. Ben presto, però, la Corte di Giustizia ha ribaltato questo
orientamento, con una serie di sentenze che hanno finito con l’affermare l’attitudine a produrre effetti diretti
per i singoli anche di norme contenute in direttive, seppure a condizioni ben determinate. La premessa
generale di cui la Corte è partita è stata, anche in questi casi, l’applicazione del principio dell’effetto utile,
ai sensi del quale un atto deve essere interpretato in modo da poter raggiungere il suo scopo. Occorre
comunque precisare che l’emanazione delle disposizioni di attuazione resta pur sempre un obbligo per gli
Stati stessi, e proprio per questo sarebbe poco coretto parlare di “diretta applicabilità” per le direttive, posto
che l’accezione riguarda principalmente il fatto che i regolamenti non richiedono atti di esecuzione da parte
degli Stati membri. Per le direttive, invece, il fatto di poter accordare effetti diretti ad alcune disposizione
in esse contenute, è solo un rimedio suppletivo e temporaneo rispetto all’emanazione di atti di completo
ed esatto recepimento. L’efficacia diretta delle norme di una direttiva per i singoli è sempre stata stabilita,
da parte della Corte di giustizia, a seguito di un esame volto ad individuare quali disposizioni in essa
contenute potessero essere fatte valere dai singoli senza la necessità di attendere l’emanazione di
provvedimenti di attuazione. Ai requisiti di chiarezza, precisione e incondizionatezza, si aggiunge
specificamente per le direttive un altro requisito: la previa scadenza del termine previsto per il loro
recepimento, senza che lo Stato abbia adottato i provvedimenti necessari. In questa prospettiva la Corte ha
concretamente riconosciuto ai singoli la possibilità di far valere i precetti di una direttiva non attuata
dagli Stati destinatari. Ciò è concretamente avvenuto nel caso in cui la direttiva imponga agli Stati membri
obblighi stabiliti in precetti completi, che le autorità statali possono applicare senza la necessità di
ulteriori specificazioni da parte degli Stati. La maggioranza delle sentenze riguardano casi che, in
definitiva, rientrano in questa situazione di chiarezza, precisione e incondizionatezza.
Un secondo caso è in effetti una specificazione del precedente e riguarda le direttive che impongono agli
Stati membri obblighi di non facere. Ad esempio, la Corte ha ritenuto che una direttiva, relativa alla libera
circolazione delle persone, avesse efficacia diretta per i singoli per la parte in cui vietava agli Stati di
adottare provvedimenti limitativi di tale libertà, eccetto che i casi determinati. È chiaro infatti che obblighi
(negativi) di questo tipo richiedono agli Stati solo di astenersi da determinati comportamenti (nel caso di
specie, l’obbligo di non impedire l’esercizio delle libertà di circolazione), e quindi che l’esercizio dei
corrispondenti diritti soggettivi non richiede la previa emanazione di atti di esecuzione.
La prima sentenza in cui la Corte ha affermato l’idoneità delle norme di una direttiva non attuata, ad
essere invocate da un privato, ha riguardato una direttiva che si limitava a chiarire la portata di un obbligo
già previsto dai Trattati e dotato di effetti diretti.
L’efficacia diretta riconosciuta alle direttive, nei limiti suddetti, va intesa come una garanzia per i singoli
e, in sostanza, come una sanzione indiretta all’inadempimento dell’obbligo di recepimento degli Stati
membri. Resta ferma, ovviamente, la violazione da parte di questi ultimi dell’obbligo di recepimento, ma i
singoli non possono rivolgersi al riguardo alla Corte di Giustizia, in quanto il ricorso per inadempimento
può essere presentato solo alla Commissione o da un altro Stato membro. Questo sottinteso intento
sanzionatorio da parte della Corte risulta chiaro ad esempio nella sentenza del 5 aprile 1979, Ratti, in cui la
Corte ha affermato che uno Stato inadempiente non può opporre il proprio inadempimento agli individui
che invocano l’efficacia di una direttiva. Il Ratti era imputato in un procedimento penale per aver violato
le norme sull’etichettatura di prodotti che contenevano sostanze pericolose, non avendo indicato la
precisa percentuale di tali sostanze. La difesa del Ratti eccepiva che tale indicazione non era richiesta
dalle direttive. La Corte rispose affermando che uno Stato membro non può opporre ad un suo cittadino
una disposizione interna che lo Stato avrebbe già dovuto modificare se avesse adempiuto al proprio obbligo
di recepimento, perché ciò equivarrebbe ad avvalersi di un proprio inadempimento (“non è consentito far
valere un diritto quando alla base di questo si pone un’immoralità”).
Il rilevante impatto nei diritti interni di questa giurisprudenza della Corte di Giustizia e, più in generale, di
quella relativa a tutte le norme dell’UE dirette agli Stati membri, si può cogliere collocando tale
giurisprudenza nel contesto del rafforzamento del principio del primato del diritto dell’UE sui diritti
interni degli Stati membri. Del resto, la rilevanza delle affermazioni della Corte non è, come si è detto,
limitata all’operato dei giudici nazionali, ma si estende all’attività di ogni organo nazionale, e
segnatamente alla pubblica amministrazione, anche locale, che è tenuta a disapplicare le norme del diritto

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nazionale non conformi a direttive con efficacia diretta per i singoli. L’efficacia diretta delle direttive è stata
ammessa dalla Corte di Giustizia in modo più limitato rispetto ad altre fonti di diritto dell’UE poiché le
direttive sono norme che hanno come destinatari solo gli Stati membri. La giurisprudenza dell’UE ha
sancito che la loro efficacia diretta può operare solo in senso verticale. In altri termini, ai singoli è
accordata, la possibilità di fare valere solo nei confronti delle autorità statali una pretesa fondata su di una
norma posta da una direttiva non attuata. Si tratta anzi più precisamente di un’efficacia verticale in senso
ascendente, nel senso che il privato può invocare la direttiva nei confronti della (superiore) autorità
statale, perché è solo nei confronti degli Stati destinatari che la direttiva ha natura cogente. La Corte di
Giustizia nega, invece, la possibilità che una pretesa fondata su una direttiva non recepita possa essere volta
nei confronti di un privato da parte di un altro privato. Parallelamente, si nega pure che una direttiva non
attuata possa essere invocata contro un privato da parte di un’autorità statale (cosiddetta “efficacia
verticale discendente”). Il fondamento della posizione adottata dalla Corte risiede nella circostanza, come si
è detto, che una direttiva non è un atto destinato a porre obblighi in capo ai privati. La possibilità di porre
obblighi in capo ai privati spetta alle istituzioni dell’UE solo nei casi in cui i Trattati prevedono
l’emanazione di regolamenti e decisioni, mentre tale potere non spetta nei casi in cui è prevista
l’emanazione di direttive. In definitiva, si può rilevare che anche sotto questo profilo entra in gioco il
principio di attribuzione.
L’atteggiamento di chiusura nei confronti nei confronti del riconoscimento di efficacia diretta orizzontale
alle direttive, seppure giustificabile, non è però privo di inconvenienti. Da un lato per quanto riguarda la
mancanza di uniformità nell’esercizio dei diritti dei singoli che si crea tra i vari Stati membri. Si può
pensare al riguardo alla famosa sentenza Faccini Dori, con cui è stato negato ad un consumatore il diritto di
recesso stabilito da una direttiva a tutela dei consumatori, per il grave ritardo nel recepimento della
direttiva stessa in Italia. Il rifiuto della Corte è stato motivato appunto dal fatto che il venditore fosse un
soggetto privato, contro il quale il diritto previsto dalla direttiva non è stato considerato opponibile. Le
prescrizioni di una direttiva finiscono per avere un ambito soggettivo di applicazione difforme nel
territorio dell’UE a seconda della tempestività con cui i singoli Stati vi diano attuazione. Soprattutto, però,
il diniego di effetti diretti orizzontali introduce un elemento che porta a una distinzione tra i soggetti tenuti
o meno al rispetto delle norme della direttiva. Si pensi ad esempio alle direttive in materia di rapporti di
lavoro: l’efficacia solo verticale consente ai soli dipendenti pubblici di farle valere contro i propri datori
di lavoro (in quanto in questo caso è uno Stato membro ad agire come datore di lavoro); viceversa,
un’analoga possibilità non è data ai dipendenti privati, rispetto ai quali il rapporto è di tipo orizzontale,
proprio perché sia il lavoratore che il datore di lavoro sono soggetti privati. Questo aspetto negativo è
intensificato dalla difficoltà che spesso si presenta di distinguere in concreto la natura pubblica o privata
del soggetto nei cui confronti la direttiva è invocata. Le conseguenze del rifiuto da parte della Corte di
giustizia di riconoscere efficacia diretta orizzontale alle direttive sono state mitigate, parzialmente, dalla
giurisprudenza della Corte stessa da un lato attraverso il principio dell’interpretazione conforme da parte
dei giudici nazionali, e dall’altro con la previsione di una tutela risarcitoria da parte dello Stato il cui
inadempimento abbia causato danno al privato. Questa giurisprudenza è stata sviluppata proprio a partire
da casi di mancata attuazione di direttive. Non a caso parte della dottrina con riguardo a tali obblighi di
interpretazione conforme e di risarcimento parla di “effetti indiretti” del diritto dell’UE.

40.4. L’efficacia diretta delle decisioni.


Per quanto riguarda l’efficacia diretta per i singoli delle decisioni, occorre distinguere a seconda che i
destinatari siano degli individui o degli Stati. Le decisioni rivolte a singoli soggetti sono idonee a produrre
effetti diretti, in relazione alle disposizioni che abbiano gli uguali caratteri della chiarezza, precisione e
incondizionatezza. In ordine alle decisioni rivolte agli Stati, la Corte ha riconosciuto da tempo che esse
possono essere fatte valere direttamente dai singoli di fronte ai giudici nazionali, quando l’obbligo
imposto dalla decisione allo Stato è dotato dei requisiti dell’efficacia diretta, come lo è, ad esempio,
l’obbligo di non facere. La Corte di Giustizia ha di recente precisato che anche le decisioni rivolte agli
Stati possono essere invocate dai privati solo nei confronti degli Stati (sul piano verticale), e non nei
rapporti (orizzontali) tra privati, poiché solo gli Stati membri ne sono i destinatari.
Tra le decisioni rivolte agli Stati che sono gravide di conseguenze negative per gli individui, un rilievo
particolare hanno le “decisioni di recupero” con cui la Commissione ordina ad uno Stato membro di
recuperare determinati aiuti erogati in violazione delle norme dell’UE sugli aiuti di Stato. Lo Stato
destinatario della decisione è tenuto a farsi restituire l’aiuto dalle imprese beneficiarie. Si noti al riguardo
che lo Stato non gode di discrezionalità nel dare esecuzione alla decisione nei confronti del privato. In altri

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termini, ci si trova di fronte ad un caso concreto in cui lo Stato sostanzialmente fa valere nei confronti di un
privato una decisione formalmente a lui destinata, con una sorta di efficacia diretta verticale
“discendente”.

40.5. L’efficacia diretta delle disposizioni degli accordi internazionali dell’UE.


L’efficacia diretta per i singoli, invece, è stata riconosciuta dalla Corte a norme contenute in accordi
internazionali conclusi dall’UE con Paesi terzi, sempre a condizione che tali norme fossero
sufficientemente precise e incondizionate. Come si è detto, tali accordi fanno parte a pieno titolo
dell’ordinamento dell’UE e quindi può porsi il caso in cui soggetti privati intendano avvalersi in giudizio di
alcune clausole in essi contenute. Ciò è avvenuto, per esempio, in relazione alle norme che vietano
l’applicazione di imposte differenti sui prodotti dei Paesi contraenti, contenute negli accordi conclusi tra
UE e, rispettivamente, Grecia e Portogallo, prima della loro ammissione all’UE. Tra le altre norme di
Trattati internazionali dell’UE che sono state considerate dotate di effetti diretti, si possono ricordare le
disposizioni dell’Accordo CEE-Marocco sulla non discriminazione tra cittadini dei Paesi contraenti
nell’accesso all’assistenza sociale.
Vero è, comunque, che la Corte ha manifestato una certa selettività nell’ammettere l’idoneità di norme di
accordi internazionali dell’UE ad essere invocate in giudizio dai privati per contestare la legittimità di
norme nazionali. In alcuni casi, il diniego di effetti diretti si è basato su considerazioni relative non solo ai
caratteri di chiarezza, precisione e incondizionatezza delle norme invocate, ma la Corte impiega come
parametri ulteriori la natura, la struttura e lo spirito dell’accordo.
Queste valutazioni della Corte hanno avuto l’effetto di rendere meno rigidi i vincoli nascenti per l’UE da
alcuni degli accordi in questione. L’approccio della Corte sembra riservare alle autorità dell’UE e degli Stati
membri un margine di discrezionalità nelle scelte relative all’esecuzione degli impegni internazionali, che
viene invece limitato nei diversi casi in cui la Corte riconosce l’attitudine ad avere diretta efficacia.
L’efficacia diretta, se riconosciuta nell’UE, può però creare uno squilibrio rispetto agli Stati terzi
contraenti, nei casi in cui essi non ammettano un analogo controllo giudiziale interno sul rispetto degli
impegni pattizi. Quest’ultima logica di reciprocità pervade la giurisprudenza dell’UE in merito
specificamente agli Accordi internazionali che regolano il commercio su scala globale, di cui l’UE è parte
in ragione della sua competenza esclusiva in materia commerciale, ossia in primo luogo in merito
all’Accordo GATT 1947. Altri Paesi tra i partners commerciali più rilevanti dell’Unione (in primis USA e
Giappone) non riconoscono la diretta efficacia del diritto del GATT-OMC negli ordinamenti interni, il che
preclude in linea di massima la possibilità di invocarne il rispetto innanzi ai giudici interni di tali Stati
anche da parte di imprese dell’UE che operano in questi mercati. Il rifiuto di effetti diretti da parte della
Corte di Giustizia rispetto a questo complesso di Accordi evita quindi che la concessione unilaterale di
effetti diretti nell’UE avvantaggi le imprese straniere nel mercato europeo, in assenza di un’analoga
concessione da parte di altri membri importanti dell’OMC (Organizzazione mondiale del Commercio).
L’efficacia diretta per i singoli è stata, pertanto, negata dalla Corte di Giustizia, anche con riguardo a norme
che pure avrebbero avuto caratteri di chiarezza, precisione e incondizionatezza. Questa giurisprudenza è stata
estesa dalla Corte anche alla fattispecie dell’inottemperanza, da parte dell’UE, ad una decisione “di
condanna” adottata dall’organo di soluzione delle controversie dell’OMC nei confronti dell’UE
medesima: malgrado l’incompatibilità di un atto dell’UE con gli Accordi OMC, l’accertamento della
violazione degli Accordi non è stato considerato di per sé causa di annullamento di atti dell’UE in cui
tale violazione si concretizzava. A motivazione di questa decisione la Corte ha sottolineato che è opportuno
che alle istituzioni dell’UE sia lasciato un margine di scelta, affinché esse possano negoziare in condizioni
di parità con i Paesi terzi le forme di esecuzione delle decisioni di tale organo. Nel margine di scelta rientra
anche la possibilità di decidere di non cessare l’illecito internazionale, e di accettare di essere esposti alle
contromisure adottate dal soggetto leso. Il che si è puntualmente verificato, con la conseguenza che le
contromisure degli USA si sono concretizzate in rappresaglie commerciali (aumenti dei dazi
all’importazione negli USA), in danno delle imprese private europee operanti verso gli USA, le quali
nell’UE sono rimaste senza tutela giudiziaria effettiva.

41. Il primato del diritto dell’UE sui diritti interni degli Stati membri.
Il diritto dell’UE è destinato a spiegare la sua efficacia nell’ambito degli Stati membri accanto ai diritti
interni di questi ultimi. Le norme dell’ordinamento dell’UE, pertanto, sono suscettibili di entrare in
conflitto con i diritti interni, nelle situazioni in cui si riscontri l’incompatibilità tra le rispettive discipline
normative. Questi potenziali conflitti sono stati risolti sulla base dell’affermazione del primato del diritto

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dell’UE, primato stabilito sia nei confronti delle norme interne anteriori che di quelle posteriori alle norme
dell’UE. Il riconoscimento ormai consolidato del primato è opera della giurisprudenza della Corte di
Giustizia, posto che questo principio non è presente nei Trattati.
Il primato del diritto dell’UE sui diritti interni è stato per la prima volta affermato nella Corte di Giustizia
nella fondamentale sentenza Costa contro ENEL. Un avvocato italiano, Flaminio Costa, ritenendo che la
legge italiana con cui veniva nazionalizzata l’energia elettrica e l’istituto ENEL fosse contraria ad alcune
norme dell’allora Trattato CEE sui monopoli nazionali a carattere commerciale, si rifiutò di pagare una
fattura dell’ENEL, con la conseguente instaurazione di un contenzioso davanti al giudice conciliatore di
Milano. Dinanzi a tale Corte, il Governo italiano, oltre a difendere la conformità al Trattato CEE dalla
legge istitutiva dell’ENEL, fece valere il fatto che quest’ultima, in ogni caso, era posteriore alla legge di
ratifica ed esecuzione del Trattato CEE e quindi doveva prevalere sul testo di tale Trattato in base al
principio della successione delle leggi nel tempo. La Corte di Giustizia, che aveva da poco enunciato il
principio dell’efficacia diretta per i singoli di alcune norme dell’ordinamento dell’UE, colse l’occasione
per affiancarvi un altro principio cardine, cioè quello del primato della norma dell’ordinamento dell’UE
su quella interna, anche posteriore. La sentenza Costa contro ENEL della Corte di Giustizia sancisce che
nelle materie oggetto dei Trattati, gli Stati membri “hanno limitato i loro poteri sovrani e creato, quindi,
un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi”. Gli Stati membri non possono
quindi sottrarsi agli obblighi in vigore in un ordinamento giuridico, qual è quello dell’UE, da essi stessi
accettato su base di reciprocità. In quest’ottica, un provvedimento incompatibile con i Trattati non
potrebbe prevalere sulle disposizioni dell’ordinamento comunitario. La sentenza chiarisce anche come il
primato sia indispensabile per garantire l’efficacia diretta del diritto dell’UE: se il diritto di uno Stato
membro rappresentasse un ostacolo all’efficacia di norme dell’UE che dispongono diversamente, questa
situazione rappresenterebbe un grave impedimento non solo alla tutela dei privati, ma anche in generale
all’applicazione uniforme de diritto dell’UE nell’Unione Europea. (Vedi caso Simmenthal)
Dall’affermazione del primato del diritto dell’UE sui diritti interni degli Stati membri, poi, la Corte fece
discendere l’inapplicabilità ipso jure, a partire dall’entrata in vigore dei Trattati, di ogni norma interna
esistente a tale data incompatibile con norme dell’ordinamento dell’UE direttamente applicabili, nonché,
l’impossibilità di “valida formazione” di norme interne successive incompatibili con le norme dell’UE. Ne
discendeva, secondo la Corte, l’obbligo per i giudici competenti di applicare integralmente il diritto
dell’UE e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, “disapplicando all’occorrenza qualsiasi
disposizione contrastante senza doverne chiedere o attenderne la previa rimozione in via legislativa”. Più in
generale, il primato è configurato a partire da quest’ultima sentenza come un carattere intrinseco al diritto
dell’UE che non può essere condizionato da alcun provvedimento legislativo o giudiziario dei vari Stati
membri.
Il primato del diritto dell’UE determina quindi l’immediata inapplicabilità delle norme interne
contrastanti con una norma di diritto dell’UE. Questa prevalenza incondizionata si realizza però solo nel
caso delle norme dell’UE dotate di efficacia diretta, le quale, come precisa la Corte di giustizia “hanno
l’effetto di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore qualsiasi
disposizione contrastante della legislazione nazionale”.
Come ipotesi di disapplicazione della norma nazionale si può pensare, ad esempio, in materia penale che
essa riguardi una norma nazionale incriminatrice, incompatibile con una disposizione di diritto dell’UE
dotata di diretta efficacia: in tal caso la norma penale nazionale dev’essere, per così dire, “neutralizzata”, per
la sua contrarietà al diritto dell’UE, con la conseguente assoluzione dell’imputato sotto tale profilo. In
ordine al diritto processuale interno, la Corte ha sottolineato il dovere di disapplicare norme nazionali che
impediscano una piena efficacia del diritto dell’UE, quindi anche senza che vi sia una contrarietà quanto ai
contenuti, ma solo in considerazione dei loro effetti ostativi: si veda la pronuncia nota come “Factortame I”,
in cui la Corte di Giustizia ha sancito che se per l’attuazione del diritto dell’UE sia necessaria l’emissione di
un provvedimento provvisorio da parte del giudice nazionale, e una norma interna glielo impedisca, il
giudice deve disapplicare quest’ultima norma ed emanare il provvedimento provvisorio. Un certo scalpore
aveva destato la pronuncia con cui la Corte di Giustizia aveva affermato che il giudice nazionale deve
giungere anche a disapplicare le norme nazionali che sanciscono l’autorità di cosa giudicata, e quindi in
sostanza a contraddire una sentenza interna definitiva in contrasto con il diritto dell’UE. Un ulteriore
effetto concreto della disapplicazione può essere la sostituzione della disciplina nazionale con la disciplina
dettata dalla norma dell’UE, qualora quest’ultima abbia le caratteristiche necessarie per potersi applicare.
Questo risultato si verifica in primis per i regolamenti, che per loro natura sono concepiti come strumenti

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volti a dettare una disciplina negli ordinamenti degli Stati membri in sostituzione delle diverse discipline
nazionali.
Qualora, invece, la norma dell’UE difforme dal diritto interno non sia idonea a spigare effetti diretti, e non
si possa quindi dare corso alla diretta disapplicazione della norma interna, il conflitto tra norme richiede
comunque di essere risolto nell’ordinamento nazionale. La prima via che è offerta all’operatore giuridico
interno è quella di ricercare se alla norma statale possa essere dato un significato compatibile con la
norma dell’UE. Se ciò non sia possibile, perché la norma interna è formulata in modo tale da non
presentare alcuna possibilità di interpretazione conforme, nell’ordinamento italiano la rilevazione del
contrasto dovrà essere sottoposta alla Corte Costituzionale, che potrà accertare l’illegittimità costituzionale
delle norme interne contrastanti con le norme dell’UE. Infine, il singolo potrà far valere la responsabilità
civile dello Stato davanti a un giudice nazionale, qualora il mancato rispetto delle prescrizioni del diritto
dell’UE per l’esistenza di norme interne incompatibili gli abbia cagionato direttamente dei danni
risarcibili.
In generale, indipendentemente dall’attitudine o meno a produrre effetti diretti delle norme dell’UE, e a
prescindere dalla concreta disapplicazione delle norme nazionali, gli Stati membri sono comunque tenuti a
rendere conforme il proprio ordinamento al diritto dell’UE, modificando o abrogando le norme interne
contrastanti col diritto dell’UE.
La permanenza in vigore di norme statali contrarie al diritto dell’UE determina di per sé una situazione
di incertezza giuridica che va eliminata da parte del legislatore. Lo Stato membro che non provveda ad
eliminare le norme interne incompatibili con il diritto dell’UE si espone pertanto al rischio che contro di lui
sia presentato un ricorso per inadempimento innanzi alla Corte di Giustizia. Ricordiamo anche che nella
prospettiva della Corte, il principio del primato comporta la prevalenza del diritto dell’UE sulle norme
interne indipendentemente dal rango di queste ultime, e quindi implica anche il primato sulle norme
costituzionali degli Stati membri. Nel concludere, si può osservare che il principio del primato ha
indubbiamente una portata centrale nel regolare i rapporti tra gli ordinamenti degli Stati membri e
dell’UE. Dalle motivazioni della sentenza menzionate emerge comunque con chiarezza una sottostante
concezione della Corte di Giustizia nell’ambito della quale diritto dell’UE e diritto interno vengono concepiti
come una sorta di unicum, con automatica e assoluta prevalenza del primo sul secondo. Nella sentenza
Simmenthal, la Corte si era spinta sino a considerare che il rango superiore del diritto comunitario fosse
addirittura atto ad impedire la valida formazione di norme interne incompatibili; oggi la Corte adotta
una posizione meno estrema e parla solo più di inapplicabilità di queste ultime.
Occorre però segnalare che appare diversa la prospettiva adottata nella giurisprudenza costituzionale degli
Stati membri. La giustificazione di tale obbligo in questa giurisprudenza è da ravvisare in una logica di tipo
“dualista”, o internazionalistica, per cui gli effetti del diritto dell’UE nel diritto nazionale derivano dalla
volontà da parte degli Stati membri di partecipare all’UE e di accettare i vincoli che tale partecipazione
comporta. In questa prospettiva, la cessione volontaria di quote di sovranità nazionale degli Stati membri
all’UE implica anche che sia data applicazione alle norme dell’UE in luogo delle norme interne
incompatibili. Tuttavia, le Corti costituzionali di alcuni Stati membri, tra cui quella italiana, ribadiscono la
possibilità di sindacare in casi eccezionali il livello di protezione offerto dal diritto dell’UE ai diritti
fondamentali previsti. La riserva a proprio favore della possibilità di controllo dimostra che per queste
Corti il diritto dell’UE non è dotato di un primato assoluto sui diritti interni, e che tale primato può invece
incontrare dei limiti. Tali limitazioni sono definite nella giurisprudenza costituzionale italiana “contro
limiti”, perché circoscrivono la portata delle limitazioni di sovranità derivanti dall’appartenenza all’UE.
42. I c.d. “effetti indiretti” del diritto dell’UE.
Come si è visto, l’efficacia diretta delle norme di diritto dell’UE incontra delle limitazioni: da un lato in
quanto deve essere accordata dai giudici e dalle amministrazioni nazionali solo nel caso in cui il precetto
contenuto nelle norme stesse sia sufficientemente preciso e abbia carattere incondizionato; d’altro lato perché
per quanto riguarda specificamente le norme poste dalle direttive non attuate la loro efficacia è circoscritta
sul piano soggettivo, potendo essere invocate solo nei confronti delle autorità degli Stati membri e non nei
rapporti tra i privati.
La Corte di Giustizia nel corso degli anni ha dimostrato una notevole attenzione all’esigenza di dare piena
effettività a quanto stabilito dal diritto dell’UE. In questa prospettiva, i giudici dell’UE hanno elaborato
delle soluzioni volte a favorire la possibilità che negli ordinamenti degli Stati membri sia assicurata una
“tutela giurisdizionale effettiva”, e nello stesso tempo per promuovere il rispetto del diritto dell’UE da
parte degli Stati membri. Va letta in tal senso l’affermazione da un lato dell’obbligo di interpretare il diritto

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interno in conformità al diritto dell’UE, dall’altro dell’obbligo di tutela risarcitoria del singolo per le
violazioni di diritto dell’UE.
Si tratta di sviluppi giurisprudenziali per indicare in quali casi si è diffusa la definizione di “effetti
indiretti”, chiaramente per accostarli agli effetti diretti delle norme di diritto dell’UE e distinguerli da
questi ultimi.

42.1. L’obbligo di interpretazione conforme del diritto interno al diritto dell’UE.


La giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di interpretazione conforme ha ricostruito l’esistenza
di un obbligo, in capo principalmente ai giudici degli Stati membri, di interpretare le norme nazionali
secondo il significato il più possibile coerente con il diritto dell’UE. Si tratta di una giurisprudenza che si
colloca appieno nella prospettiva della Corte di impegnare i giudici nazionali a dare prevalenza al diritto
dell’UE. Il ricorso a questa tecnica interpretativa è stato indicato come la prima delle operazioni che il
giudice nazionale è tenuto a svolgere. Secondo quanto prospettato dalla Corte, la prima questione che può
porre in un giudizio interno è quella della possibilità di attribuire ad una norma interna un significato
coerente con il diritto dell’UE. Nella scelta tra più interpretazioni possibili, il giudice nazionale deve dare
applicazione alla norma interna secondo il significato che corrisponde a quanto prescritto dal diritto
dell’UE. Solo se nessun’interpretazione compatibile sia concretamente possibile, il giudice si troverà di
fronte a un caso di contrasto tra norme dell’UE e norme nazionali nel quale si aprirà lo scenario della
disapplicazione del diritto interno: il giudice nazionale è tenuto a non dare applicazione alle norme interne
contrastanti col diritto dell’UE, qualora queste ultime norme siano dotate di efficacia diretta. In caso
contrario, cioè di norme dell’UE che non abbiano efficacia diretta in contrasto con norme nazionali, la via
che si prospetta per il giudice è la enunciazione della questione di legittimità costituzionale in merito alle
norme alle norme nazionali stesse.
In ogni caso, il soggetto eventualmente danneggiato dall’applicazione di una norma interna contrastante con
il diritto dell’UE potrà rivolgersi al giudice interno competente, per chiedere un risarcimento del danno.
Il fondamento normativo di quest’obbligo interpretativo è stato ravvisato dalla Corte di Giustizia nel
generale obbligo di leale cooperazione che grava su ciascuno Stato membro. Si deve quindi precisare che
all’interpretazione conforme sono tenuti in linea di principio tutti gli organi dello Stato. In una sua prima
manifestazione (sentenza Von Colson), la formulazione dell’obbligo di interpretazione conforme non
presentava carattere particolarmente innovativo. L’obbligo era infatti concepito come inerente
all’interpretazione di norme nazionali emanate in presenza di norme dell’UE preesistenti. Ciò corrisponde
in definitiva alla “presunzione di conformità”, cioè ad una tecnica interpretativa ben conosciuta negli
ordinamenti interni per conciliare potenziali contrasti tra diritto interno e norme di trattati
internazionali. Pertanto, nell’interpretazione delle leggi interne successive alla stipulazione di un trattato
reso esecutivo nell’ordinamento interno si deve far prevalere il significato compatibile con le norme del
trattato stesso. L’obbligo di interpretazione conforme ha ad oggetto il diritto nazionale “a prescindere dal
fatto che si tratti di norme precedenti o successive” alle norme dell’UE il cui obiettivo si deve conseguire.
Per le norme nazionali emanate precedentemente a norme dell’UE, è evidente che non si può ammettere in
capo al legislatore alcun intento di conformarsi a norme dell’UE che non erano ancora in vigore (vedi
caso Marleasing). In ogni caso, la Corte si premura costantemente di precisare, nelle sentenze in cui entra in
considerazione quest’obbligo, che la norma interna va interpretata applicando i metodi di interpretazione
ammessi nell’ordinamento interno.
L’obbligo di interpretazione conforme è stato oggetto dell’elaborazione giurisprudenziale essenzialmente
con riguardo alle direttive. Con specifico riguardo a queste ultime, tra l’altro, tale obbligo non sorge per il
giudice nazionale prima della scadenza del termine accordato dalla direttiva agli Stati membri per la sua
trasposizione nel diritto interno. Più in generale, però, l’obbligo in esame si riferisce a tutte le norme
dell’UE. Ad esempio, tale obbligo è stato considerato rilevante anche in ordine alle decisioni quadro.
Inoltre, questo canone interpretativo è stato esteso anche agli accordi internazionali conclusi dall’UE e
perfino alle raccomandazioni dell’UE, sebbene non siano vincolanti. La portata dell’obbligo in esame è
stata però circoscritta con la specificazione di due limiti fondamentali al di là dei quali l’interprete non
può spingersi. Un primo limite è rappresentato, come già si è accennato, dalle situazioni in cui i contrasti
tra norma interna e norma dell’UE siano impossibili da conciliare. Questo si verifica quanto la norma
interna non consenta margini nella sua interpretazione e sia inequivocabilmente contraria ad una norma
di diritto dell’UE: in questo caso l’attribuzione di un significato conforme al diritto dell’UE richiederebbe
un’interpretazione contra legem. Nel caso Kücükdeveci, in particolare, la Corte si è trovata di fronte a tale
limite in ordine a norme di diritto tedesco, incompatibili con le norme di una direttiva in materia di lavoro

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invocata da una lavoratrice subordinata nei confronti di un datore di lavoro privato; non potendo dar luogo
all’interpretazione conforme, né considerare direttamente applicabile al rapporto di lavoro tra privati la
direttiva in questione, la Corte considerò però che la direttiva desse “espressione concreta” al principio di
non discriminazione in base all’età, che è qualificato come un principio generale del diritto dell’UE; su
tale base giunse a considerare che le norme di diritto tedesco dovessero essere disapplicate dalla
controversia in questione. In secondo luogo, la Corte ha considerato che l’attività di interpretazione del
diritto interno deve comunque svolgersi nel rispetto dei principi generali dell’UE, e in particolare di quelli
riguardanti i diritti fondamentali. Ciò si è manifestato chiaramente con riguardo alla materia penale: la
Corte ha precisato che l’esigenza di interpretare una norma nazionale in conformità con il disposto di una
direttiva non può avere luogo se abbia l’effetto di determinare o aggravare la responsabilità penale di un
individuo.

42.2. Il diritto al risarcimento dei singoli per le violazioni del diritto dell’UE da parte degli Stati
membri.
Il principio generale dell’obbligo del risarcimento per le infrazioni al diritto dell’UE non trova
un’esplicita base normativa nei Trattati, e discende dall’opera “creativa” della Corte di Giustizia, a partire
dall’affermazione per cui questo principio è “inerente al sistema del Trattato”. Si tratta di un principio
considerato a pieno titolo tra i più rilevanti nell’ordinamento giuridico dell’Unione Europea. In generale, la
possibilità di agire per ottenere un risarcimento del danno si collega al ruolo chiave che i giudici nazionali
svolgono sia nella protezione delle posizioni dei singoli, sia, nell’assicurare il rispetto degli obblighi che il
diritto dell’UE pone in capo agli Stati membri. Sotto il primo profilo, il rimedio dell’azione che il
danneggiato può proporre contro uno Stato costituisce uno dei principali strumenti a disposizione del
giudice nazionale per garantire la tutela dei diritti nascenti dal diritto dell’UE in capo ai singoli. Sotto il
secondo profilo, ovviamente strettamente interconnesso, la tutela risarcitoria costituisce, insieme
all’efficacia diretta e all’obbligo di interpretazione conforme, uno tra gli strumenti potenzialmente più
efficaci con cui i privati possono concorrere a spingere gli Stati a garantire l’effettività del diritto dell’UE.
La pronuncia di riferimento, la famosa sentenza Francovich, riguardava la mancata trasposizione
nell’ordinamento italiano della direttiva che, a tutela dei lavoratori subordinati, prevedeva che ogni Stato
membro istituisse un fondo di solidarietà per il caso di insolvenza del datore di lavoro nel pagamento
delle retribuzioni. Oggi tale fondo in Italia è istituito presso l’INPS, ma per anni il nostro Paese è rimasto
inadempiente rispetto a questa disposizione di diritto dell’UE. Una serie di lavoratori dipendenti aveva
chiesto l’applicazione diretta delle previsioni della direttiva, e quindi la condanna dello Stato italiano a
pagare le somme in essa previste, anche in assenza della creazione del fondo suddetto. La Corte considerava
che le disposizioni della direttiva non avessero la sufficiente chiarezza e precisione per essere dotata di
efficacia diretta, in quanto non precisavano quale fosse il soggetto obbligato a garantire il pagamento. A
questa prima parte della sentenza, però, la Corte faceva seguire una seconda parte che ha avuto una portata
dirompente, ossia quella in cui ha affermato l’esistenza della responsabilità civile degli Stati membri nel
caso in cui commettano una violazione del diritto dell’UE che cagiona un danno a degli individui privati.
In tale pronuncia, quindi, il risarcimento si prestava ad essere letto come una sorta di compensazione
proprio per i casi in cui fosse inaccessibile il rimedio degli effetti diretti. Tuttavia, successivamente, nella
prima occasione utile, la Corte ha tenuto a precisare che la domanda di risarcimento può utilmente essere
proposta pure per la violazione di norme delle quali si può far valere la diretta efficacia. Particolare interesse
presenta la configurazione della tutela risarcitoria come un rimedio che non ha natura alternativa
rispetto all’efficacia diretta, bensì che si può cumulare ad essa. La tutela risarcitoria concerne infatti il
contenuto patrimoniale della pretesa del privato, e si può aggiungere alla tutela che l’efficacia diretta
offre in ordine alla pretesa sostanziale, nel caso Francovich la differenza tra le due pretese non era
evidente. Ma si possono verificare casi in cui la differenza è rilevante, come ad esempio è risultato chiaro
nella causa Brasserie du pecheur. In quest’ultima, la società attrice chiedeva di poter riprendere le
esportazioni verso la Germania della birra di sua produzione, che erano state sospese per la non conformità
della birra stessa ad una normativa tedesca, di cui era già stata accertata dalla Corte di Giustizia
l’incompatibilità con il divieto di misure restrittive alle importazioni sancito dall’articolo 34 TFUE. Quel
che qui interessa è che accanto a questa pretesa basata sulla disapplicazione della normativa nazionale
incompatibile con tale norma del TFUE dotata di efficacia diretta, l’impresa chiedeva che la Corte
riconoscesse il suo diritto ad essere risarcita per i mancati guadagni negli anni in cui le esportazioni della
birra le erano state impedite. Le azioni per ottenere la condanna dello Stato membro autore della violazione
devono essere proposte innanzi al giudice nazionale competente, che può ovviamente accordare

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direttamente il risarcimento, salvo che sia necessario chiedere alla Corte di Giustizia la soluzione in via
pregiudiziale di dubbi di interpretazione o di validità inerenti al diritto dell’UE. Nell’ordinamento italiano si
riscontrano numerose sentenze emanate da vari Tribunali italiani, che hanno accolto le pretese
risarcitorie presentate contro lo Stato italiano per violazioni di diritto dell’UE. L’ordinamento statale regola
la maggior parte dei profili procedurali e sostanziali della tutela risarcitoria. Alla giurisprudenza dell’UE
si deve invece fare riferimento per l’individuazione delle condizioni in presenza delle quali può sussistere la
responsabilità civile dello Stato membro. Nella giurisprudenza dell’UE si rinvengono infatti non solo
l’origine e la ratio del principio della responsabilità dello Stato, ma anche l’indicazione delle tre
considerazioni necessarie per il sorgere della responsabilità nei singoli casi. Queste condizioni sono state
affinate dalla Corte di Giustizia in due passaggi, fino a giungere a definire in modo stabile i tre criteri
ancora oggi applicati. Nella sentenza Francovich, la Corte aveva considerato sufficienti le seguenti
circostanze “che il risultato prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione dei diritti a favore dei singoli”.
La seconda di tali condizioni, è stata sostanzialmente superata nel 1996 con la sentenza Brasserie du
pecheur. La Corte ha in seguito corretto le condizioni indicate nella sentenza Francovich, ma tale sentenza
resta comunque un caposaldo della giurisprudenza dell’UE, con riguardo al quale sono state fissate delle
condizioni comuni. La Corte espresse in modo più accurato la propria posizione decidendo il caso
Brasserie du pecheur, nel quale era chiamata a pronunciarsi su una violazione imputabile al legislatore.
Sulla base di tale pronuncia, è oggi consolidata l’individuazione di tre condizioni necessarie per il sorgere
del diritto del singolo al risarcimento: “che la norme giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai
singoli, che si tratti di violazione sufficientemente caratterizzata e, infine, che esita un nesso causale diretto
tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito ai soggetti lesi”. Tra le condizioni
individuate in quest’ultima sentenza appare precisato in modo nettamente diverso il secondo requisito,
relativo alla natura “sufficientemente caratterizzata” della violazione del diritto dell’UE. La precisazione
appare ispirata all’esigenza di tenere adeguatamente conto della complessità delle situazioni affrontate
dall’autorità statale, delle difficoltà interpretative o applicative delle norme di diritto dell’UE nei singoli
casi, e del margine di discrezionalità che aveva concretamente a disposizione l’organo cui è imputato l’atto
di violazione del diritto dell’UE. È quindi possibile che lo Stato membro, convenuto in un’azione di
risarcimento per la violazione delle norme dell’UE innanzi al giudice nazionale, avanzi delle eccezioni
rispetto alla pretesa del singolo. Al riguardo dovrebbero entrare in considerazione i fattori che la Corte di
Giustizia considera rilevanti per valutare la gravità della violazione del diritto dell’UE, quali la
complessità delle situazioni che l’autorità statale ha affrontato e le difficoltà interpretative o applicative
nel caso concreto, e quindi la scusabilità o l’inescusabilità di un eventuale errore di diritto. Nella sentenza
Brasserie du pecheur, la Corte considerò che la violazione attribuibile alla Germania non fosse scusabile. In
altri casi, invece, la Corte ha considerato scusabile l’errore a causa del carattere “impreciso” e non
univoco di una norma di diritto dell’UE. Venendo brevemente alle altre due condizioni poste al sorgere
della responsabilità statale, in primo luogo la Corte considera che un’azione risarcitoria contro uno Stato
membro possa essere fondata se chi agisce vanta la lesione di un diritto che la norma dell’UE violata era
preordinata a conferire ai singoli.
Mentre le prime due condizioni della responsabilità degli Stati membri pongono questioni di natura
prettamente giuridica, la terza condizione, ossia il requisito del nesso di causalità diretto tra violazione
del diritto dell’UE e danno lamentato, attiene in misura molto maggiore a questioni di fatto, con possibili
difficoltà di provare che il danno allegato deriva in modo diretto dalla violazione de diritto dell’UE.
Richiedere che il nesso causale sia “sufficientemente diretto” restringe il novero delle persone che possono
vantare un danno risarcibile. Nella determinazione del danno da risarcire il giudice interno deve basarsi sulle
norme nazionali relative alla responsabilità. Infine, occorre precisare che qualunque organo statale può
determinare, con la sua condotta, il sorgere della responsabilità dello Stato membro, inteso nel suo
complesso. Come ha chiarito in varie occasioni la Corte di Giustizia, la violazione del diritto dell’UE
rilevante per far sorgere un obbligo di risarcimento può discendere dalla condotta di un organo che eserciti
poteri di natura legislativa, o di natura esecutiva, o di natura giudiziaria. L’obbligo di risarcimento per
violazione del diritto UE è stato configurato dalla Corte con lo specifico obiettivo di consentire al singolo
di ottenere tutela non nei confronti dell’organo statale, bensì nei confronti dello Stato autore di una
violazione del diritto dell’UE.

CAPITOLO VII: LE COMPETENZE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA


43. La funzione giurisdizionale nell’ordinamento dell’UE.

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L’ordinamento dell’UE contiene un sistema di rimedi giurisdizionali volti a garantire la legittimità delle
condotte delle istituzioni e la tutela effettiva di diritti, prerogative e interessi che il diritto dell’UE
riconosce agli Stati membri, ai privati e alle stesse istituzioni dell’UE. A questo proposito, accanto alle varie
competenze attribuite alla Corte di Giustizia dell’UE, un ruolo di fondamentale importanza è svolto dai
giudici nazionali. Infatti, i giudici nazionali sono chiamati a garantire l’effettiva applicazione del diritto
dell’UE e ad assicurare ai singoli la tutela giudiziaria. Questo è stato più volte ribadito dalla stessa Corte di
Giustizia, la quale, ha affermato che spetta agli Stati membri, attraverso i giudici nazionali, prevedere un
sistema di rimedi giurisdizionali teso a garantire ai singoli il rispetto del diritto ad una tutela
giurisdizionale effettiva, nel quadro del loro obbligo di leale cooperazione. L’articolo 274 TFUE sottolinea
tale carattere speciale delle competenze della Corte, chiarendo che, fatte salve queste ultime, l’UE resta
sottoposta alla giurisdizione dei giudici nazionali, che possono giudicare anche di controversie in cui l’UE
stessa è parte. Per converso, i Trattati attribuiscono alla Corte competenze rispetto alle quali è esclusa la
competenza dei giudici nazionali. A questo riguardo gli Stati membri si impegnano a rispettare questa
esclusività. Le competenze di tipo contenzioso attribuite dai Trattati alla Corte di Giustizia sono quelle
relative ai ricorsi per infrazione (relativi agli inadempimenti degli Stati), ai ricorsi di annullamento degli
atti delle istituzioni dell’UE per vizi di legittimità e ai ricorsi in carenza. Altre competenze di tipo
contenzioso della Corte riguardano le controversie in materia di responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale dell’UE e altre competenze in ipotesi di minore rilevanza. Esistono, nell’ambito dell’UE,
due livelli di funzione giurisdizionale: quella esercitata in via generale dai giudici nazionali e quella
esercitata in specifiche materie della Corte di Giustizia. Tali livelli, però, non sono del tutto distinti e
separati. Infatti, mentre ai giudici nazionali compete in via generale l’applicazione del diritto dell’UE,
tuttavia tali giudici possono necessitare per l’interpretazione di quest’ultimo della collaborazione della
Corte di Giustizia. La collaborazione coi giudici nazionali da parte della Corte di giustizia è fornita
attraverso la sua competenza pregiudiziale, esercitata dinanzi ai giudici nazionali. Si tratta di
un’importantissima competenza della Corte, che è di tipo non contenzioso e che spesso verte sulla
valutazione della compatibilità di determinate normative degli Stati membri con il diritto dell’UE.
Attraverso il rinvio pregiudiziale, i giudici nazionali possono concorrere anche all’accertamento del
rispetto del diritto dell’UE da parte delle istituzioni dell’UE.
Inoltre, al di fuori della funzione giurisdizionale, la Corte svolge una funzione consultiva. Ricordiamo, che
la Corte non ha competenze in materia di politica estera e di sicurezza comune, salvo che per le questioni
relative alle istituzioni nello specifico il quadro della PESC con quello delle disposizioni generali dei
Trattati. Nell’esercizio di funzioni così varie la Corte ha avuto modo di pronunciarsi con sentenze che
hanno fortemente plasmato i caratteri dell’ordinamento giuridico dell’Unione Europea, specie sancendo
i caratteri dell’efficacia diretta e del primato, la rilevanza dei diritti fondamentali, la tutela risarcitoria. In
concreto, il numero più elevato di sentenze è stato ed è tuttora emanato dalla Corte in via pregiudiziale, dato
l’elevato numero di quesiti che pervengono continuativamente ai giudici dell’UE da parte dei giudici
interni degli Stati membri.

44. Il controllo sugli inadempimenti degli Stati membri attraverso il ricorso per infrazione.
La Corte di Giustizia esercita innanzitutto un controllo sul rispetto da parte degli Stati membri degli
obblighi derivanti dai Trattati o dagli atti dell’UE, con una competenza esclusiva. L’inadempimento
rispetto a tali obblighi può dare luogo ad una procedura d’infrazione contro lo Stato membro
inadempiente, su ricorso della Commissione o di un altro Stato membro. Questa forma di sindacato
giurisdizionale è un altro elemento che sottolinea quanto avanzata sia l’integrazione realizzata nell’UE
rispetto ad altre forme di organizzazione internazionale.
Nell’ambito dell’UE, la condizione di Stato membro comporta obbligatoriamente la sottoposizione alla
giurisdizione della Corte di Giustizia. In questa prospettiva, in particolare, gli Stati membri sono tenuti a
sottoporre alla Corte le loro controversie sull’interpretazione ed applicazione dei Trattati. Quindi non è
ammessa per gli Stati membri la possibilità “di farsi giustizia da sé” attraverso l’uso di contromisure
previste dal diritto internazionale. Gli articoli 258, 259, 260 TFUE contemplano la procedura generale di
controllo sugli inadempimenti degli Stati attraverso il giudizio sui ricorsi per infrazione. Lo Stato è da
considerarsi inadempiente qualora abbia violato qualsiasi norma del diritto primario o secondario dell’UE.
È attribuibile ad uno Stato membro la violazione commessa da parte di uno qualsiasi dei suoi organi,
nonché di enti locali o enti territoriali autonomi. Motivazioni di carattere interno non possono essere
adottate dagli Stati come scusanti dei loro inadempimenti e nemmeno la circostanza che la violazione non
abbia prodotto alcun danno o sia stata in colpevole e non intenzionale.

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Il controllo sugli Stati membri è affidato in prima battuta alla Commissione, la quale lo esercita nel quadro
del potere di vigilare sull’applicazione del diritto dell’UE sotto il controllo della Corte di Giustizia. Si
ricordi, anche, che la Commissione gode, per l’esecuzione dei suoi compiti, di un potere generale di
“raccogliere tutte le informazioni e procedere a tutte le necessarie verifiche” e che destinatari di tali
richieste sono dal canto loro tenuti ad offrire alla Commissione piena collaborazione al riguardo, nel
quadro del loro obbligo di leale cooperazione. L’articolo 258 TFUE prevede che qualora la Commissione,
nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza, “reputi che uno Stato membro abbia mancato a uno degli
obblighi a lui incombenti” in forza dei Trattati, essa, anzitutto, deve porre lo Stato stesso “in condizioni di
presentare le sue osservazioni” attraverso una lettera di messa in mora o intimazione. Nella prassi questa
fase è preceduta da contatti con rappresentanti del Governo interessato. Con la lettera di messa in mora,
invece, si apre una fase precontenziosa, che persegue una finalità di conciliazione tra la Commissione e lo
Stato in questione: la Commissione accerta e valuta le ragioni addotte eventualmente dallo Stato a
sostegno del proprio comportamento. In caso di insuccesso di questa prima fase della procedura, la
Commissione può indirizzare allo Stato un parere motivato, nel quale essa fa formalmente presente di
considerarlo come inadempiente e gli espone i motivi di tale suo giudizio. Il parere motivato indica anche
il termine entro il quale lo Stato in questione è invitato a conformarsi al parere stesso, eliminando, così la
situazione di contrasto con il diritto dell’UE. La lunghezza di tale termine è a discrezione della
Commissione; in genere è fissato a due mesi. Solo se lo Stato persiste nella sua infrazione oltre la
decorrenza del termine suddetto, la Commissione può adire la Corte di Giustizia, perché questa accerti
l’esistenza dell’infrazione; qualora la Commissione decidesse di non adire la Corte, non sarebbe proponibile
contro di essa un ricorso in carenza.
In ogni caso, grava sulla Commissione l’onere di dimostrare adeguatamente l’inadempimento dello
Stato. Alla Corte di Giustizia, in base all’articolo 259 TFUE, si può anche rivolgere ciascuno degli Stati
membri, qualora reputi che un altro Stato membro abbia mancato ad uno degli obblighi a lui incombenti
in forza dei Trattati. L’iter del ricorso degli Stati membri passa, però, anch’esso attraverso la Commissione,
nel senso che lo Stato si deve rivolgere a quest’ultima prima di adire la Corte di Giustizia. L’opera che la
Commissione svolge in questo caso è un’opera di mediazione tra lo Stato che intende presentare il ricorso e
quello del cui inadempimento si tratta. La Commissione ha un termine di 3 mesi per emettere, in caso di
insuccesso della procedura di mediazione, un parere motivato dello stesso tipo di quello previsto
dall’articolo 258 TFUE.
La Corte, adita dalla Commissione o da uno Stato membro può innanzitutto, sulla base dell’articolo 279
TFUE, emettere dei provvedimenti provvisori, ad esempio, ordinando allo Stato del cui inadempimento si
tratta di sospendere in via cautelare l’applicazione di una legge o di un provvedimento amministrativo
nazionale. Qualora, al termine del procedimento, la Corte consideri fondato il ricorso, emette una sentenza
con la quale riconosce l’esistenza dell’infrazione. È importante notare che si tratta di una sentenza
dichiarativa e non di condanna, in quanto la Corte si limita ad accertare l’inadempimento. Lo Stato
inadempiente è tenuto, sulla base dell’articolo 260 TFUE, a prendere i provvedimenti che l’esecuzione
della sentenza della Corte comporta. L’accertamento dell’infrazione ha rilevanti effetti pure per i giudici
interni, che sono tenuti a disapplicare eventuali norme interne giudicate in contrasto col diritto dell’UE.
In concreto, le misure nazionali da adottare per ottemperare alla sentenza della Corte consistono per lo più
nella modifica o nella revoca di disposizioni legislative o di provvedimenti amministrativi, o nell’adozione
di appositi atti normativi o amministrativi. In difetto, si concretizzerebbe una seconda infrazione,
autonoma rispetto alla prima, costituita dal mancato rispetto della sentenza della Corte. In tal caso, sia la
Commissione che ciascuno Stato membro possono nuovamente adire la Corte. Quando tale secondo
ricorso è proposto dalla Commissione, questa, non deve emettere preventivamente il parere motivato.
Caratteristica di questo secondo ricorso, inoltre, è che la Commissione può precisare l’importo di una
somma forfettaria o di una penalità al cui pagamento può essere condannato lo Stato che non si è
conformato alla precedente sentenza che aveva accertato l’infrazione. La Corte, quando riconosca tale
inadempimento, con una sentenza cosiddetta di “doppia condanna”, può decretare allo Stato
inadempiente la sanzione pecuniaria in questione. La Corte ha talora condannato lo Stato inadempiente al
pagamento di una somma forfettaria sia, cumulativamente, di una penalità di mora, ossia di una somma
destinata ad incrementarsi finché l’adempimento si protrae.
La Commissione ha messo a punto i criteri ai quali intende attenersi in merito alla determinazione delle
sanzioni pecuniarie da proporre alla Corte, che sono relativi in definitiva alla durata e gravità
dell’infrazione, tenendo conto delle capacità finanziaria dello Stato in questione.

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La forma di inadempimento più comune da parte degli Stati membri, consiste, come si è già osservato, nella
mancata attuazione di direttive dell’UE entro il termine del recepimento. Ai sensi dell’articolo 260 TFUE,
qualora la Corte accerti che uno Stato membro non ha adempiuto all’obbligo di comunicare le misure di
recepimento di una direttiva, la Corte può stabilire già a fronte del primo ricorso la somma forfettaria o la
penalità commisurata all’entità del ritardo nell’adempimento. La premessa per tale sanzione è, però, che la
Commissione stessa abbia indicato nel suo ricorso alla Corte, la somma e la penalità. Si badi che non vi è
alcun obbligo per la Commissione di prevedere una sanzione pecuniaria né per la Corte di irrogarla.
I singoli non hanno, nell’ordinamento dell’UE, la possibilità di ricorrere direttamente alla Corte di
Giustizia contro le infrazioni statali. In concreto, sono frequentemente proprio i privati a denunciare alla
Commissione l’inadempimento di uno Stato; sarebbe anzi molto difficile per la Commissione venire a
conoscenza solo con le proprie risorse delle violazioni che si possono verificare in tutte le materie e in tutto
il territorio in via indiretta. Un qualche rimedio è offerto anche ai singoli attraverso la cooperazione tra
giudici nazionali e Corte di Giustizia.
Nel tracciare un consuntivo dell’attività di controllo svolta dalla Corte di Giustizia in merito alle infrazioni
degli Stati membri, occorre innanzitutto rilevare che gli Stati sono spesso intervenuti nei procedimenti
promossi dalla Commissione, mentre sono stati poco numerosi i ricorsi degli Stati membri nei confronti di
altri Stati membri. In genere, gli Stati preferiscono risolvere i propri contrasti in via diplomatica o
sollecitare la Commissione ad agire. Molti sono stati, invece, i ricorsi della Commissione, ma ancora più
numerosi sono stati i casi in cui la Commissione ha ottenuto spontaneamente l’adempimento dello Stato
in questione senza dover ricorrere alla Corte. Quando la Commissione ha adito la Corte, si è trattato spesso
di situazioni in cui vi era una oggettiva divergenza di interpretazione della norma dell’UE, piuttosto che
una deliberata volontà di non adempiere. L’Italia è stata, in passato, frequentemente oggetto di sentenze di
accertamento di infrazioni, ma, ciò è avvenuto sostanzialmente per una certa vischiosità dei procedimenti
nazionali di attuazione delle norme dell’UE. Tali procedimenti sono stati messi a punto con maggiore
precisione, così che la situazione relativa al grado di adempimento da parte dell’Italia può dirsi migliorata.
Volendo infine menzionare brevemente i limiti di applicazione della procedura generale per
inadempimento sopra esaminata, occorre innanzitutto ricordare che anche nel settore della cooperazione di
polizia e della cooperazione giudiziaria in materia penale è prevista la possibilità di un ricorso per
infrazione, tuttavia, l’applicazione del ricorso per infrazione in tali settori risulta limitata dall’articolo 276
TFUE, che esclude specificamente il sindacato della Corte sulla validità di operazioni condotte dalla
polizia degli Stati membri e, in generale, sull’esercizio delle responsabilità relative al mantenimento
dell’ordine pubblico e della sicurezza interna. L’esecuzione degli obblighi degli Stati membri derivanti
dallo statuto della BEI e quelli derivanti per le banche centrali nazionali dalle norme dei Trattati e dallo
statuto del SEBC e della BCE è, poi, soggetta al controllo della Corte di Giustizia, su iniziativa degli
organi, rispettivamente, della BEI e della BCE, invece che dalla Commissione. Da ultimo, in ordine
all’ipotesi in cui le infrazioni di uno Stato membro riguardino i valori fondanti dell’UE previsti dall’articolo
2 TUE, è prevista la possibilità di forme di sanzione politica, che possono essere adottate sul piano
istituzionale da parte delle istituzioni politiche dell’UE.

45. Il controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni dell’UE e il ricorso in carenza.
La funzione di controllo giudiziario nell’ambito dell’UE si esercita anche nei confronti degli atti delle sue
istituzioni, i quali possono essere sottoposti ad un giudizio di legittimità da parte della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, alle condizioni previste dagli articoli 263 e 264 TFUE. Questa funzione della Corte è
una manifestazione concreta ed evidente del rispetto della rule of law nell’ordinamento dell’UE, ossia del
fatto che le attività degli organi dotati dei poteri normativi ed esecutivi devono svolgersi nel pieno rispetto
del diritto dell’UE. Inoltre, questo potere di controllo in capo all’apparato giudiziario è un’altra
particolarità dell’ordinamento dell’UE sulla scena internazionale (nell’ONU, per esempio, non è previsto
un meccanismo per il controllo di legittimità degli atti dell’organizzazione).
La competenza ad annullare gli atti dell’UE è riservata alla Corte ed è preclusa ai giudici nazionali, i quali
non hanno potere di accertare la legittimità di un atto dell’UE che sono chiamati ad applicare, poiché
eventuali divergenze nelle decisioni dei vari giudici comprometterebbero l’unità dell’ordinamento giuridico
dell’UE e la certezza del diritto. Nel caso di un dubbio sulla legittimità di un atto dell’UE, il giudice
nazionale è tenuto a sottoporre alla Corte di Giustizia un quesito pregiudiziale di validità.
 L’oggetto del ricorso alla Corte
Quanto all’oggetto del controllo di legittimità della Corte, ai sensi dell’articolo 263 TFUE esso si esercita
“sugli atti legislativi, sugli atti del Consiglio, della Commissione e della Banca centrale europea che non

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siano raccomandazioni o pareri, nonché sugli atti del Parlamento europeo e del Consiglio europeo destinati
a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi”. La norma specifica che sono soggetti al controllo di
legittimità anche tutti gli atti degli altri organi o organismi dell’UE. Circa la nozione di atto
impugnabile, la Corte ha chiarito che la definizione non deve portare a comprendere solo i regolamenti, le
direttive e le decisioni, ma va intesa nel senso più ampio, in modo da includere “tutte le disposizioni
adottate dalle istituzioni (...) miranti a produrre effetti giuridici”. Quindi, in casi specifici in cui ricorreva la
suddetta condizione, sono stati considerati impugnabili ad esempio: una comunicazione della Commissione
in materia di aiuti degli Stati alle imprese; una dichiarazione del portavoce della Commissione; una semplice
lettera contenente un provvedimento dell’Alto autorità della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Di
recente, il Tribunale dell’UE ha dichiarato l’ammissibilità dell’impugnazione di una comunicazione con
cui la Commissione ha reso noto che non avrebbe dato seguito ad una iniziativa dei cittadini europei
(sentenza del 23 aprile 2018). Impugnabile è stato ritenuto anche il quadro di riferimento della BCE per le
politiche di sorveglianza dell’Eurosistema. Sono, inoltre, impugnabili gli atti di conclusione o di
applicazione di accordi internazionali stipulati dall’UE. Ovviamente la sentenza della Corte non potrà
essere opponibile allo Stato terzo parte dell’accordo internazionale, con il quale l’UE dovrà cercare una
soluzione amichevole attraverso l’apertura di un apposito negoziato. Gli atti diversi da quelli legislativi e di
quelli adottati da Consiglio, Commissione e BCE, ed in particolare del Parlamento europeo e Consiglio
europeo sono soggetti al ricorso della Corte solo se siano produttivi di effetti giuridici nei confronti di
terzi. Prima ancora che tale possibilità fosse specificamente prevista dai Trattati a partire dal Trattato di
Maastricht può risultare utile fare riferimento a due sentenze. Nella prima, la Corte ammise il ricorso
contro una decisione dell’Ufficio di Presidenza del Parlamento europeo che il partito ecologista dei
Verdi considerava dannosa nei suoi confronti, la quale fissava i criteri di rimborso delle spese per la
campagna elettorale. Con la seconda sentenza la Corte, su richiesta del Consiglio, annullò l’atto del
Presidente del Parlamento che dichiarava definitivamente adottato il bilancio 1985, sul quale, invece, il
Consiglio non era d’accordo. In entrambi i casi, la Corte ritenne che l’atto del Parlamento fosse idoneo a
produrre effetti giuridici nei confronti di terzi e quindi impugnabile. Il ricorso alla Corte ex articolo 263
TFUE è anche proponibile sulla base dell’articolo 8 Protocollo 2 sull’applicazione dei principi di
sussidiarietà e di proporzionalità, allegato ai Trattati. Restano, invece, esclusi dalla possibilità di
impugnazione, raccomandazioni e pareri, che sono esenti dal controllo giurisdizionale di legittimità in
quanto non producono effetti giuridici vincolanti. Per le stesse ragioni non sono impugnabili gli atti che,
come le proposte della Commissione, hanno natura essenzialmente preparatoria, né lo sono gli atti
produttivi di effetti solo internamente all’istituzione (ad esempio i regolamenti interni). Non è comunque
escluso che un atto, pur rientrando formalmente tra quelli che hanno effetti vincolanti, in realtà sia volto
nella sostanza a produrre effetti giuridici in considerazione del suo contenuto o del contesto. Sono
parimenti esclusi dalla possibilità di impugnativa, gli atti emessi nel quadro della politica estera e di
sicurezza comune. Il Trattato di Lisbona ha però introdotto in quest’ultimo articolo la previsione espressa
dalla legittimazione dei privati ad impugnare le decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di
persone fisiche o giuridiche, in quanto si tratta di provvedimenti che possono limitare diritti e libertà
individuali. Circa il controllo della Corte sugli atti della BEI, l’articolo 271 TFUE prevede norme
specifiche. Le deliberazioni del Consiglio dei governatori e del Consiglio di amministrazione della BEI
sono sottoposte a tale controllo, ma con alcuni limiti riguardi ai ricorrenti.
 I motivi per cui può essere sottoposto
I motivi per cui gli atti suddetti possono essere impugnati dinanzi alla Corte sono innanzitutto i tre classici
vizi di legittimità caratteristici dei ricorsi amministrativi di diritto interno:
1. L’incompetenza che si ha quando un atto è emanato da un organo che non è competente a farlo,
sia dal punto di vista delle sue competenze territoriali, che di quelle per materia, che, infine, sotto
il profilo temporale o funzionale
2. La violazione delle forme sostanziali che si ha quanto un atto è emanato senza il rispetto di quelle
garanzie procedurali o forme previste come indispensabili per la validità dell’atto stesso, ad
esempio: motivazione dell’atto, firma, pubblicazione, notifica...
3. Lo sviamento di potere il quale si ha quando un organo esercita i propri poteri per fini diversi da
quelli per i quali tali poteri gli sono stati conferiti.
A questi tre vizi di legittimità, l’articolo 263 TFUE ne aggiunge un quarto di carattere generale e
sussidiario, ossia la violazione dei Trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione.
Sono stati considerati dalla Corte come illegittimi atti contrari non solo ai Trattati o ad atti delle istituzioni,
ma anche ai principi generali e alle norme relativi alla protezione dei diritti fondamentali dell’uomo. È,

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parimenti, illegittimo un atto dell’UE che sia contrario agli accordi internazionali stipulati dall’UE o
alle norme di diritto internazionale generale. Il controllo della Corte è, quindi, un controllo di legittimità e
non di merito, nel senso che esso non riguarda l’opportunità dell’atto alla luce delle situazioni di fatto
sottostanti, ma solo l’assenza dei vizi descritti. Tuttavia, in alcuni casi, la Corte dispone di una competenza
giurisdizionale anche di merito, quando questa le viene conferita da un regolamento. Ciò è avvenuto, ad
esempio, in materia di soppressione delle discriminazioni in tema di prezzi e di condizioni di trasporto, di
regole di concorrenza. Nel caso in cui l’atto impugnato comporti valutazioni tecnico-economiche di
particolare complessità, la Corte tende a limitare il proprio sindacato solo alla verifica che l’atto non sia
viziato da inesattezza nella ricostruzione dei fatti, da errore manifesto o da sviamenti di potere, o da errori
procedurali.
 I soggetti legittimati a proporlo
I soggetti legittimati a proporre il ricorso, di cui all’articolo 263 TFUE, sono, anzitutto, gli Stati membri, il
Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione, i quali sono detti ricorrenti privilegiati, in quanto il
loro ricorso non è soggetto ad alcun limite. L’unico limite è, ovviamente, quello della inammissibilità di
ricorso contro atti propri. Anche la Corte dei Conti, la BCE e il Comitato delle regioni (cosiddetti
ricorrenti semi-privilegiati) possono proporre i ricorsi in questione, ma solo per “salvaguardare le proprie
prerogative”, cioè, ad esempio, nei casi in cui uno di tali organi non sia stato consultato su un atto, quando
tale consultazione è obbligatoria ai sensi dei Trattati. Il ricorso di legittimità è anche consentito a qualsiasi
persona fisica o giuridica. In questa categoria rientrano, in qualità di persone giuridiche, anche gli enti di
diritto pubblico interno deli Stati membri. La possibilità conferita ai singoli di ricorrere alla Corte è stato
uno dei primi casi sulla scena internazionale, di forma di democraticità “ascendente” attraverso la quale i
singoli hanno potuto sin dalla nascita dell’orientamento comunitario far valere in sede giudiziaria la
subordinazione delle istituzioni al diritto proprio di tale ordinamento. La legittimazione a ricorrere dei
privati incontra però dei limiti, e difatti essi sono definiti “ricorrenti non privilegiati”, in quanto
l’impugnazione può essere proposta da una persona rientrante in questa categoria solo “contro gli atti
adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente ed individualmente...”. L’atto è quindi
impugnabile da un ricorrente individuale da un lato se ha prodotto “direttamente” effetti nella sua sfera
giuridica; d’altro lato, la condizione che l’atto impugnato riguardi il ricorrente “individualmente” si
verifica invece quando “il provvedimento lo tocchi a causa di determinate qualità personali, ovvero di
particolari circostanze atte a distinguerlo dalla generalità...”. Si tratterà, in genere, di decisioni con portata
individuale. Si potrà anche trattare, però, di atti qualificati diversamente, purché ricorrano i suddetti
requisiti. Con questo approccio la Corte può giungere allo “smascheramento” di un atto dell’UE, anche
apparentemente di portata generale o rivolto ad uno o più Stati membri. Ad esempio, la Corte ha
riconosciuto che avessero in sostanza dei destinatari individuali delle decisioni della Commissione dirette
ad uno Stato membro per autorizzarlo a rifiutare certe licenze di importazione. In questi casi la Corte ha
individuato i singoli importatori come i soggetti riguardati direttamente e individualmente dagli atti
aventi formalmente gli Stati come destinatari, e li ha, quindi, legittimati a impugnare tali atti. In materia di
regole di concorrenza, è stato ammesso il ricorso di un terzo concorrente contro una decisione della
Commissione diretta a un diverso operatore dello stesso settore e volta ad autorizzare un’operazione di
concentrazione. In questi casi la Corte ha ritenuto che il terzo, seppure non destinatario delle decisioni della
Commissione, ne fosse riguardato direttamente ed individualmente. Anche regolamenti della
Commissione, rivolti, però, a un numero definito di soggetti, sono stati interpretati dalla Corte alla stessa
maniera. Infine, è stato persino ammesso il ricorso di privati contro direttive, nella misura in cui esse
contenevano provvedimenti che riguardavano direttamente e individualmente i ricorrenti. L’articolo 263
TFUE, dopo le modifiche del Trattato di Lisbona, ora prevede la possibilità per la persona fisica o
giuridica di ricorrere anche “contro gli atti regolamentari che la riguardano direttamente e che non
comportano alcuna misura d’esecuzione”. Per questi atti, quindi, la legittimazione a ricorrere dei privati
risulta agevolata, essendo subordinata solo al requisito che l’atto riguardi “direttamente” e non anche
“individualmente” il ricorrente. La nozione di “atti regolamentari” è tutt’altro che scontata. I giudici hanno
evidenziato che la nozione di “atto regolamentare” ai sensi dell’articolo 263 TFUE deve essere interpretata
nel senso che include qualsiasi atto di portata generale ad eccezione degli atti legislativi. La nozione di
“atto regolamentare” è estesa anche alle decisioni, purché di portata generale e non adottate secondo una
procedura legislativa ordinaria o speciale.
 I termini per la sua proposizione
Tutti i ricordi di cui all’articolo 263 TFUE vanno proposti entro il termine dei due mesi dalla
pubblicazione dell’atto, dalla sua notifica al ricorrente, ovvero, in mancanza, dal giorno in cui il ricorrente

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ne ha avuto conoscenza. Nei casi, però, di atti a portata generale adottati da un’istituzione, organo o
organismo dell’UE, i ricorrenti, sono rimessi in termini per eccepire il vizio di legittimità, qualora vi sia,
successivamente alla scadenza dei due mesi, una controversia che metta in causa l’atto stesso (cosiddetta
eccezione di validità). Questa norma ha una particolare importanza per i singoli, perché dà loro la
possibilità di eccepire la illegittimità di un atto dell’UE, nel corso di un qualsiasi procedimento dinanzi
alla Corte.
 Le sue conseguenze
Quanto alle conseguenze del ricorso alla Corte, esso non ha effetto sospensivo dell’atto impugnato; è
facoltà della Corte, tuttavia ordinare la sospensione dell’esecuzione di tale atto, nonché disporre
provvedimenti provvisori. Se la Corte ritiene fondati i motivi del ricorso, essa dichiara l’atto nullo e non
avvenuto fin dall’emanazione. La sua decisione, quindi, ha effetti erga omnes per gli atti a portata
generale e non soltanto inter partes. Va ricordato, peraltro, che la sentenza di annullamento della Corte non
sempre comporta la caducazione dell’atto impugnato nella sua interezza, ma può avere anche ad oggetto
alcune specifiche disposizioni giudicate illegittime e quindi comportarne l’annullamento parziale. Ciò si
può verificare nel caso in cui i vizi riscontrati riguardino parti dell’atto che siano “separabili” dal resto
dell’atto medesimo.
 L’esame del ricorso in carenza
Collegato con il ricorso di legittimità è il ricorso in carenza previsto dall’articolo 263 TFUE. Esso è
espressione del potere della Corte di controllare il comportamento delle istituzioni, organi ed organismi
dell’UE, sanzionandone la inattività, quando i Trattati prevedono un obbligo a loro carico di emanare
determinati provvedimenti. Tale ricorso può essere presentato contro il Parlamento, il Consiglio europeo, il
Consiglio, la Commissione, la BCE e gli altri organi o organismi dell’UE qualora essi, in violazione dei
Trattati, “si astengano dal pronunciarsi”. Può trattarsi anche di una raccomandazione o di un parere, se la
loro emanazione è prevista obbligatoriamente dai Trattati. La legittimazione attiva per la presentazione
del ricorso alla Corte spetta gli Stati membri, alle altre istituzioni dell’UE ed ai singoli. I ricorsi delle
persone fisiche o giuridiche, però, sono ammessi soltanto per la mancata emanazione nei loro confronti di
un atto che non sia una raccomandazione o un parere. In definitiva, i singoli potranno ricorrere per la
mancata emanazione di qualsiasi atto vincolanti destinato a produrre effetti giuridici nei loro confronti.
È chiaro che il ricorso è ammesso solo per la mancata emanazione di un atto dovuto.
Il ricorso deve essere preceduto da una messa in mora, cioè da una formale richiesta di agire, rivolta
all’istituzione, organo o organismo la cui inattività viene lamentata. Il ricorso in carenza può essere
presentato alla Corte solo trascorsi due mesi da tale richiesta senza che l’istituzione, organo o organismo
interpellato abbia adottato l’atto di cui si lamenta la mancata emanazione, purché il ricorso sia presentato
entro il termine di decadenza di ulteriori due mesi da tale precedente scadenza. Se invece l’istituzione
interpellata provvede ad adottare l’atto di cui si parla, non è più aperta ovviamente la via del ricorso in
carenza. Il ricorso in carenza ha avuto minore rilevanza nella pratica rispetto al ricorso di legittimità.
Ricordiamo l’impossibilità in linea di principio di presentare ricorsi in carenza alla Corte nell’ambito della
politica estera e di sicurezza comune.
 Gli effetti delle sentenze che fanno seguito ai due ricorsi
Occorre infine precisare gli effetti delle sentenze che accolgano un ricorso di legittimità o un ricorso in
carenza. Sia nel caso di annullamento di un atto, che nel caso di constatazione del verificarsi di un caso in
carenza in violazione dei Trattati, la Corte non può sostituirsi all’istituzione interessata emanando essa stessa
un atto diverso da quello nullo o avete il contenuto di quello la cui omissione era stata invocata. È, invece,
l’istituzione o organo o organismo interessato che, ai sensi dell’articolo 266 TFUE, è tenuto a prendere i
provvedimenti che l’esecuzione della sentenza comporta, cioè, eventualmente, ad emettere un nuovo atto
o a rimediare alla propria inattività. Va infine evidenziato che la proponibilità del ricorso d’annullamento o
in carenza dipende esclusivamente dal comportamento adottato dall’istituzione.

46. La competenza in via pregiudiziale.


Una delle competenze più importanti della Corte di Giustizia, e anzi quella che dà costantemente luogo al
maggior numero di pronunce della Corte stessa, è costituita da una forma estremamente importante di
cooperazione con i giudici degli Stati membri. Questi ultimi possono infatti, e talora devono, rivolgersi
alla Corte dell’UE perché risponda a questioni di interpretazioni di diritto dell’UE. Ai sensi dell’articolo
267 TFUE, i Trattati affidano alla Corte di Giustizia innanzitutto la competenza esclusiva per risolvere le
questioni di interpretazione del diritto dell’UE. In tal modo si è evitato che tale diritto, calandosi nei vari
ordinamenti interni, venisse interpretato in maniera difforme da giudici nazionali provenienti da tradizioni

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giuridiche diverse. La Corte, attraverso l’esercizio di tale competenza interpretativa, ha finito con lo
svolgere un ruolo di “supplenza normativa nei casi di inattività o lentezza” delle istituzioni dell’UE,
influendo in maniera decisiva sul processo di integrazione europea. Al contempo, essa ha spesso colto
l’occasione dell’esercizio di tale su competenza per affermare alcuni principi cardine dell’ordinamento
dell’UE, quali l’efficacia diretta per i singoli e il loro primato sui diritti interni.
La competenza pregiudiziale spetta esclusivamente alla Corte di Giustizia come unico giudice. Tuttavia,
come ricordato, anche il Tribunale potrebbe avere in futuro la competenza pregiudiziale di cui all’articolo
267 TFUE, pur se solo in determinate materie da specificarsi nello statuto della Corte. Nelle ipotesi in cui
sia eventualmente introdotta la competenza del Tribunale, quest’ultimo potrà reputare che la soluzione di
una questione ad esso sottoposta vada invece più opportunamente rinviata alla Corte.
Occorre esaminare separatamente:
 L’oggetto del rinvio pregiudiziale
L’oggetto del rinvio può essere, anzitutto, una questione relativa all’interpretazione dei Trattati, o
all’interpretazione di un atto compiuto dalle istituzioni, organi ed organismi dell’UE. Per “atto” deve
intendersi qualsiasi atto emanato dalle istituzioni, organi ed organismi suddetti, indipendentemente dalla
sua denominazione, dal suo carattere vincolante o meno e anche a prescindere dall’eventuale efficacia
diretta delle norme della cui interpretazione si tratta.
L’interpretazione da parte della Corte non può essere, però, richiesta in via astratta, ma solo con riferimento
ad un giudizio pendente davanti ad una giurisdizione nazionale. In altri termini, il presupposto è che vi sia
un procedimento giudiziario in corso davanti ad un giudice nazionale e che tale giudice ritenga utile o
necessaria per la sua decisione l’interpretazione da parte della Corte di Giustizia della norma dell’UE.
Due sono, quindi, le valutazioni di competenza del giudice a quo prima di effettuare il rinvio
pregiudiziale alla Corte, che riguardano l’esistenza di dubbi interpretativi e la rilevanza o meno
dell’interpretazione della norma dell’UE per la decisione della causa pendente.
Quanto alla prima valutazione, essa può indurre il giudice nazionale a non sollevare la questione
pregiudiziale, allorché la norma dell’UE sia talmente chiara da non lasciare adito ad alcun dubbio
interpretativo. È questa la teoria dell’acte clair.
Quanto alla seconda valutazione, la Corte ha precisato di non poter statuire su una questione pregiudiziale
qualora appaia in modo manifesto l’assenza di un’adeguata rilevanza della questione stessa nella causa
pendente dinanzi al giudice nazionale. Benché il rinvio di interpretazione debba avere ad oggetto questioni
relative a norme di diritto dell’UE, in concreto i giudici nazionali lo impiegano molto di frequente per
sottoporre alla Corte quesiti relativi alla conformità o meno al diritto dell’UE di una norma statale. La
Corte si astiene formalmente dal fornire un’interpretazione relativa a norma di diritto interno, operazione
che non rientra tra le sue attribuzioni; essa supera questo limite, in sostanza, chiarendo al giudice
nazionale se determinate norme interne debbano essere considerate incompatibili con le norme di diritto
dell’UE di cui fornisce l’interpretazione. Tale evoluzione è conseguenza dell’uso che dell’articolo 267
TFUE hanno fatto specialmente i singoli, i quali, nel corso di procedimenti interni, hanno cominciato a
porre dubbi ai giudici interni in ordine al contrasto tra le norme nazionali rilevanti nei casi di specie e
norme dell’UE. Ciò è avvenuto già nel notissimo caso van Gend & Loos.
A volte i privati hanno montato opportunisticamente un giudizio interno, per poter ottenere che il giudice
sollevasse la questione pregiudiziale relativa all’interpretazione di una norma dell’UE e farne così emergere
il conflitto con la norma interna. Il caso Costa Enel è un tipico esempio di questa evoluzione.
Il caso di un giudizio montato appositamente da privati per far risultare la contrarietà al diritto dell’UE
di norme interne non era destinato a rimanere isolato. Di conseguenza, il rinvio pregiudiziale per
l’interpretazione delle norme dell’UE ha finito con il divenire anche uno strumento di controllo su
infrazioni al diritto dell’UE imputabili ai legislatori degli Stati membri. Inoltre, il rinvio pregiudiziale è
divenuto un efficace mezzo per riaffermare il primato del diritto dell’UE sul diritto interno. Qualora
infatti sulla scorta della sentenza della Corte la norma interna fosse considerata non conforme alla norma
dell’UE, il giudice interno non avrebbe altra scelta che disapplicare la prima ed applicare la seconda,
sulla base, appunto, di tale primato, nel caso in cui la norma dell’UE, sia self-executing, cioè sia provvista di
tutti gli elementi per potersi applicare al posto di quella interna contrastante. Qualora, invece, la norma
dell’UE non sia provvista di efficacia diretta, il giudice interno potrebbe porre alla Corte Costituzionale la
questione di costituzionalità sulla norma, con la conseguente necessità per il legislatore di riempire il
vuoto legislativo. D’altro lato, dalla mancata o inesatta attuazione da parte dello Stato di una norma del
diritto dell’UE, accertata dalla Corte di Giustizia, potrebbe derivare per lo Stato stesso un obbligo di
risarcimento dei danni ai singoli che agiscano in giudizio. L’oggetto del rinvio può anche essere una

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questione relativa alla validità di un atto dell’UE. Per “atto”, sul quale può verter la questione di validità,
si intende un atto adottato da un’istituzione, organo o organismo, anche se sprovvisto di efficacia diretta.
Mentre le questioni pregiudiziali di interpretazione sopra esaminate possono avere ad oggetto norme
contenute sia in atti dell’UE di diritto derivato sia nel diritto primario, viceversa le questioni pregiudiziali
di validità non possono riguardare i Trattati. Il rinvio pregiudiziale di validità opera nel caso in cui il
giudice interno si ponga il problema dell’eventuale presenza di vizi di legittimità nell’atto dell’UE che è
chiamato ad applicare. Sotto tale profilo, il rinvio pregiudiziale di validità costituisce un rimedio aggiuntivo
a disposizione dei singoli. Tale rinvio, inoltre, può risultare utile una volta che sia scaduto il termine di
due mesi per effettuare un ricorso di legittimità e in tal senso si può considerare che l’articolo 267 TFUE
possa offrire ai singoli una forma aggiuntiva di protezione. La Corte ha tuttavia circoscritto questa
possibilità, rifiutando di esaminare in via pregiudiziale questioni di validità di atti dell’UE che i singoli
interessati avrebbero potuto concretamente impugnare nel termine stabilito. L’importanza del rinvio
pregiudiziale di validità si coglie considerando ad esempio che l’affermazione dell’importanza dei diritti
fondamentali della persona nell’ordinamento dell’UE si è avuto proprio con le soluzioni date dalla Corte
a questioni di validità. È infatti su quesiti relativi al contrasto di atti di diritto secondario dell’UE con
principi gerarchicamente superiori che si è pronunciata la Corte nelle prime sentenze che hanno collocato
i diritti fondamentali tra i principi generali dell’ordinamento comunitario.
 La nozione di organo giurisdizionale legittimato ad effettuarlo
Legittimate a rivolgersi alla Corte di Giustizia sono le giurisdizioni nazionali, intese nel senso più ampio,
comprendente, quindi, qualsiasi grado e tipo di giurisdizione, sia civile che penale, amministrativa o
costituzionale, ordinaria o speciale. La Corte richiede che il procedimento abbia natura contraddittoria e
che in esso l’organo si pronunci applicando norme giuridiche. Caratteristica fondamentale per la Corte è
comunque che il procedimento nazionale pendente sia destinato a risolversi con una pronuncia a
carattere giurisdizionale; questo requisito difetta secondo la Corte in capo agli organi incaricati di
svolgere attività di giurisdizione o di controllo di tipo amministrativo, quale l’omologazione di un atto
costitutivo di società. La Corte Costituzionale italiana ha esitato a lungo prima di rivolgersi alla Corte di
Giustizia ex articolo 267 TFUE, e infine ha intrapreso questa via sia nell’ambito di giudizi di legittimità
costituzionale in via principale, sia nel quadro di giudizi di costituzionalità in via incidentale. In
generale, i giudici nazionali possono rivolgersi alla Corte di Giustizia sia di propria iniziativa, che su
richiesta di una delle parti del procedimento pendente dinanzi ad essi; in quest’ultimo caso spetta
comunque al giudice il compito di valutare l’esistenza del dubbio interpretativo o di validità, e la rilevanza o
meno, per la decisione della causa, della soluzione in questione.
È di fondamentale importanza la distinzione tra giurisdizioni nazionali di ultima istanza, cioè quelle
attraverso le cui decisioni non è ammesso ulteriore ricorso interno, e le altre. Solo le prime, infatti, sono
obbligate a sottoporre alla Corte di Giustizia le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’UE. Nel
quadro dell’ordinamento italiano, sono giudici di ultima istanza la Corte di Cassazione, il Consiglio di Stato
e la Corte Costituzionale. Quanto alle altre istanze giurisdizionali, esse hanno la facoltà di effettuare il
rinvio per interpretazione, ma non vi sono obbligate.
Alquanto diverso è il discorso per le questioni sulla validità di un atto dell’UE. Ogni giudice nazionale può
respingere gli argomenti dedotti dalle parti della controversia in ordine all’invalidità di atti dell’UE e,
quindi, considerare valido l’atto. Se, però, il giudice nazionale dubita della validità dell’atto dell’UE, esso
non può dichiararlo invalido ma deve effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Inoltre, il
giudice nazionale, ove nutra gravi perplessità, può in via eccezionale sospendere temporaneamente
l’applicazione di tale atto interno. All’atto del rinvio pregiudiziale il giudice nazionale deve formulare il
quesito su cui desidera che la Corte si pronunci. Altre volte la Corte si è accontentata dal fatto che il giudice
nazionale avesse almeno esposto i motivi per cui la pronuncia pregiudiziale era ritenuta necessaria.
 Il procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia
Quanto al procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia, va detto che il provvedimento con cui il giudice
nazionale sospende la procedura interna e si rivolge alla Corte è notificato al cancelliere della Corte
stessa alle parti in causa, agli Stati membri, alla Commissione, nonché all’istituzione, all’organo o
all’organismo dell’UE che ha adottato l’atto che forma oggetto della questione. La notifica agli Stati
membri e alle istituzioni dell’UE è disposta per dar loro la possibilità di depositare, entro il termine di due
mesi, memorie o osservazioni scritte. La sottoposizione del quesito alla Corte non determina l’estinzione,
ma solo la sospensione del procedimento davanti al giudice nazionale. In altre parole, il rinvio
pregiudiziale non comporta la devoluzione della controversia alla Corte, alla quale è richiesto di fornire una
soluzione vincolante solo in ordine alla specifica questione ad essa sottoposta. La sentenza della Corte è

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preceduta da un procedimento nel quale, come si è detto, i vari interventi possono presentare memorie e
osservazioni e partecipare all’udienza. Tuttavia, un’espressa previsione è stata inserita con il Trattato di
Lisbona nell’articolo 267 TFUE, con particolare riguardo al caso in cui la Corte debba decidere su questioni
che riguardano una persona in stato di detenzione. Si tratta di un’ipotesi che può ricorrere oggi più
frequentemente che in passato. In questo specifico caso, la Corte è tenuta a decidere “il più rapidamente
possibile”: si apprezza in particolare in questo contesto lo speciale procedimento pregiudiziale d’urgenza.
 Gli effetti della sentenza di quest’ultima
Gli effetti delle sentenze della Corte di Giustizia, non sono erga omnes, ma operano solo con riferimento
al procedimento pendente dinanzi al giudice a quo, vincolandolo ad attenersi all’interpretazione, o al
giudizio sulla validità dell’atto dell’UE. Ciò significa che la medesima questione può essere in teoria
rappresentata dallo stesso giudice, o da altri giudici, in relazione ad ulteriori procedimenti. Il tema degli
effetti delle sentenze pronunciate in via pregiudiziale richiede però alcune precisazioni in relazione alle
pronunce relative a quesiti di interpretazione. Per quanto riguarda le sentenze con cui viene accertata la
invalidità di un atto dell’UE, anche se sul piano teorico l’atto resta valido, si determinano sul piano
pratico due conseguenze. Anzitutto, altri giudici di fronte ai quali si riproponga la questione della validità
non potranno non tenere conto della pronuncia della Corte di Giustizia: la stessa Corte ha affermato che tutti
i giudici nazionali sono tenuti a disapplicare l’atto dell’UE; la Corte, però, in tale occasione, si è
preoccupata di salvaguardare il diritto di ogni giudice a sollevare nuovamente la questione. In secondo
luogo, l’istituzione da cui promana l’atto è tenuta a prendere i provvedimenti necessari, ovvero a
modificare l’atto stesso, eliminando le cause di illegittimità. Va, infine, ricordato che la sentenza che
accerta l’invalidità di un atto ha effetti ex tunc, salvo alcuni casi in cui gli effetti sono stati riconosciuti solo
ex nunc; in altri termini, la Corte può stabilire che determinati effetti che l’atto ha prodotto prima della
dichiarazione di invalidità debbono considerarsi definitivi, per non rimettere in discussione situazioni
ormai consolidate.
Per quanto riguarda le sentenze interpretative del diritto dell’UE, l’efficacia solo inter partes è
formalmente la regola. Tuttavia, la Corte di Giustizia ha affermato che il giudice nazionale dinanzi al quale
venga sollevata una questione interpretativa materialmente identica ad una sulla quale la Corte abbia
fornito un’interpretazione in via pregiudiziale, può non sollevare la questione pregiudiziale e attenersi a
quest’ultima interpretazione. Sul piano teorico, si potrebbe ritenere che nessun caso è uguale ad un altro,
tuttavia sul piano pratico è innegabile che il giudice nazionale non possa non tenere conto di una
precedente interpretazione di una norma da parte della Corte. In generale, infatti le sentenze pregiudiziali
interpretative chiariscono il significato e la portata di una norma di diritto dell’UE sin dal momento della
sua entrata in vigore (efficacia ex tunc), vincolando i giudici nazionali all’applicazione della norma
dell’UE, così come interpretata dalla Corte.
In definitiva, dicendo che le sentenze della Corte hanno solo efficacia inter partes, si fa un’affermazione
teoricamente esatta, ma che, in pratica, risulta riduttiva rispetto all’effetto che tali sentenze in concreto
dispiegano e che le ha fatte avvicinare a degli arrets régulateurs, aventi, cioè, un valore generale. Per
concludere, meritano di essere ricordati i limiti materiali entro i quali può operare l’istituto del rinvio
pregiudiziale. Al riguardo, in via di principio, la competenza pregiudiziale della Corte non può esercitarsi
per quanto riguarda le disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune; la Corte di Giustizia
ha tuttavia sottolineato, da un lato, la propria riserva di sindacato pregiudiziale sulla validità di decisioni
PESC; dall’altro lato, ha riconosciuto il rinvio pregiudiziale di validità all’interno della competenza già
prevista dall’articolo 275 TFUE e relativa al controllo della legittimità delle misure restrittive assunte nei
confronti delle persone fisiche e giuridiche. Per quanto riguarda lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, gli
unici limiti riguardano il Regno Unito e la Danimarca.

47. Le controversie in materia di responsabilità dell’UE.


La responsabilità extracontrattuale e contrattuale dell’UE è regolata dall’articolo 340 TFUE. Ricordiamo
che, ai sensi dell’articolo 256 TFUE, è il Tribunale ad essere competente a conoscere in prima istanza delle
controversie relative a tale responsabilità e che le sue decisioni sono impugnabili dinanzi alla Corte di
Giustizia. La Corte è competente a giudicare delle controversie relative alla responsabilità
extracontrattuale dell’UE ai sensi dell’articolo 268 TFUE. Ai sensi di quest’ultima norma “in materia di
responsabilità extracontrattuale, l’Unione deve risarcire ... i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi
agenti nell’esercizio delle loro funzioni”. Analogo obbligo è posto a carico della BCE dall’articolo 340
TFUE. Si tratta, al riguardo, di competenza non solo esclusiva, ma anche di piena giurisdizione, nel senso,
cioè, che la Corte ha ampia discrezionalità quanto alla determinazione della responsabilità delle

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istituzioni dell’UE o dei suoi agenti, nonché dell’ammontare del danno risarcibile. Nulla dice, invece, circa
i criteri per l’imputabilità del danno all’UE. Soccorrono, al riguardo, come fonte di diritto per la Corte, i
“principi generali comuni ai diritti degli Stati membri”, dai quali essa dovrà trarre di volta in volta la
norma applicabile. Essa è chiamata a ricostruire la norma applicabile al caso specifico, cercando un
comune denominatore tra le esperienze giuridiche dei vari Stati membri in materia di responsabilità
extracontrattuale e forse anche al di là di tale campo specifico. Per quanto riguarda gli atti delle istituzioni
da cui può discendere la responsabilità dell’UE, va subito detto che il termine “istituzioni” è restrittivo, in
quanto non solo tale responsabilità sussiste, alle stesse condizioni, per i danni cagionati dalla BEI e dal
Mediatore europeo, ma anche da qualsiasi organo o organismo la cui attività sia imputabile all’UE.
Nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune, invece, come già detto, è esclusa la competenza
della Corte anche in relazione alla responsabilità dell’Unione. L’azione può essere promossa da qualsiasi
Stato membro, nonché da qualsiasi persona fisica o giuridica. La responsabilità dell’UE sorge, in genere,
come conseguenza dell’emanazione di atti dichiarati illegittimi sulla base di un ricorso o
dell’accoglimento di un ricorso in carenza. Dalla dichiarazione di nullità dell’atto o della colpevole
omissione della sua emanazione non discende automaticamente l’obbligo risarcitorio a carico dell’UE.
Anzitutto, l’illegittimità dell’atto o dell’omissione non è requisito indispensabile perché sorga la
responsabilità extracontrattuale dell’UE. In secondo luogo, l’articolo 268 TFUE dispone solo del
risarcimento dei danni nei confronti di chi chiede il risarcimento stesso e non dell’annullamento di un
determinato atto con efficacia erga omnes. La Corte ha peraltro respinto la tesi della cosiddetta
responsabilità da attività lecita con riguardo all’UE, considerando che la responsabilità in capo all’UE
sussiste solo in presenza dell’illegittimità della condotta che ha causato il danno.
Per quanto riguarda la responsabilità dell’UE per gli atti dei suoi agenti, ricordiamo, anzitutto, che solo gli
atto compiuti nell’esercizio delle loro funzioni possono venire in considerazione per attribuire la
responsabilità dell’UE. La Corte ha, inoltre, precisato che l’UE è responsabile per il comportamento dei
suoi agenti, anche se questi agiscono oltre i limiti del mandato loro affidato. La Corte, in materia di
responsabilità extracontrattuale dell’UE, si è attenuta, tra l’altro, ai seguenti principi:
 Innanzitutto, la Corte ha adottato il principio secondo cui la responsabilità dei pubblici poteri per i
danni arrecati ai privati da atti normativi “sussiste solo eccezionalmente ed in casi particolari”.
Pertanto, anche se un regolamento dell’UE viene dichiarato nullo, per la Corte è accettabile che il
singolo, entro i limiti ragionevoli, ne sopporti le conseguenze, mentre la responsabilità dell’UE
sussiste “unicamente in caso di violazione grave e manifesta di una norma superiore intesa a
tutelare i singoli”. La Corte ha adottato dei criteri restrittivi, richiedendo, perché si generi la
responsabilità per danni dell’UE, dei comportamenti particolarmente gravi.
 Quanto al danno risarcibile, la Corte ha considerato che questo comprende danno emergente,
lucro cessante, danno morale e interessi. Per essere considerato risarcibile il danno deve essere
certo e attuale e può essere ridotto se il danneggiato ha contribuito con il suo comportamento a
determinarlo. Tra il comportamento illegittimo dell’istituzione e il danno subito del singolo deve
inoltre ricorrere un nesso causale.
In ogni caso, la responsabilità dell’UE sussiste solo in relazione al comportamento delle sue istituzioni o
dei suoi agenti e non quando il danno derivi da atti emanati da organi degli Stati membri, sia pure in
adempimento di un atto UE rivelatosi illegittimo. Ciò è stato ribadito dalla Corte non solo con riferimento a
situazioni in cui all’emanazione dell’atto interno le autorità nazionali godevano di un certo margine di
discrezionalità, ma anche allorché l’atto interno era stato emanato in applicazione di un regolamento
dell’UE, successivamente dichiarato illegittimo, che non lasciava alcuna discrezionalità alle autorità
nazionali. Possono, naturalmente, verificarsi casi in cui l’obbligo risarcitorio compete sia agli Stati
nazionali che all’UE; in tali casi la Corte ha chiarito che la responsabilità dell’UE ha carattere parziale e
sussidiario rispetto a quella degli Stati membri. In conclusione, va rilevato in via generale che la Corte è
stata, specie agli inizi, molto cauta nell’individuare una responsabilità extracontrattuale dell’UE e ha
applicato al riguardo criteri estremamente rigorosi. Circa la responsabilità contrattuale dell’UE, la Corte
non ha alcuna competenza esclusiva. Anzi, sono i giudici nazionali ad essere competenti in via generale a
giudicare delle controversie relative a contratti di cui l’UE è parte. Pur tuttavia, in determinati casi, i Trattati
attribuiscono competenza alla Corte relativamente alla responsabilità dell’UE. Ciò avviene quanto il
contratto di cui è parte l’UE contenga una clausola compromissoria che sottoponga alla Corte stessa la
risoluzione delle controversie nascenti da tale contratto (specie con riferimento ai contratti di prestito o
di finanziamento dell’UE, o ad esempio la BEI o i vari fondi strutturali, che stipulano con enti pubblici o
privati). L’articolo 340 TFUE dispone, al riguardo, che la responsabilità contrattuale dell’UE è regolata dalla

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legge applicabile al contratto in causa. Non è escluso, però, che entrino in considerazione per la decisione
nel merito anche i principi generali del diritto dell’UE.

48. Cenni sulle altre competenze della Corte di giustizia.


Tra le altre competenze della Corte di Giustizia dell’UE, si può innanzitutto ricordare la competenza di tipo
contenzioso in ordine alle controversie tra l’UE e i suoi agenti e alle controversie tra gli Stati membri. Sulla
base dell’articolo 270 TFUE, la Corte è competente in via esclusiva a conoscere delle controversie tra
l’UE e i suoi agenti, cioè di tutte le questioni concernenti la disciplina delle carriere, le condizioni di lavoro,
il trattamento economico e di tutte le persone che sono alle dipendenze dell’UE. Il ricorrente deve avere un
interesse personale, certo e attuale, ad agire. Ciò risponde all’esigenza di sottrarre i funzionari
internazionali ai possibili condizionamenti derivanti dalla sottomissione alla giurisdizione di un giudice
nazionale del loro Stato di appartenenza. Sotto un profilo completamente diverso, in base all’articolo 273
TFUE, la Corte di Giustizia può fungere da giudice internazionale e conoscere di controversie tra gli Stati
membri, purché connesse con l’oggetto dei Trattati.
Resta da dire della funzione consultiva della Corte di Giustizia, che si esplica essenzialmente con
riferimento alla stipulazione di accordi internazionali da parte dell’UE. Dispone l’articolo 218 TFUE che
uno Stato membro, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della
Corte di Giustizia circa la compatibilità con i Trattati di un accordo internazionale che l’UE intende
stipulare. Qualora, nel suo parere, la Corte esprima parere negativo, l’accordo può entrare in vigore solo
dopo la modifica dello stesso. Di conseguenza, il parere della Corte ha un’efficacia più che “consultiva”,
dato che esso non può essere ignorato dagli Stati membri e dalle istituzioni dell’UE ed è produttivo di
specifici effetti giuridici.
Un’altra questione di grande rilevanza ha riguardato la compatibilità con i Trattati delle proposte per
l’adesione dell’UE alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del
4 novembre 1950 (CEDU). La questione è stata oggetto di un primo parere della Corte che si è pronunciata
nel senso dell’incompatibilità. Nonostante le modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona in merito alla
base giuridica dell’adesione dell’UE, la Corte si è infatti nuovamente espressa in senso negativo,
ritenendo che il progetto sottoposto al suo esame comportasse condizioni di adesione idonee ad incidere
sulle caratteristiche specifiche dell’ordinamento dell’Unione Europea.

CAPITOLO VIII: I RAPPORTI TRA L’ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA E L’ORDINAMENTO


ITALIANO
49. L’adattamento dell’ordinamento italiano al diritto dell’UE.
La questione dei rapporti tra l’ordinamento italiano e quello dell’Unione Europea è stata affrontata dalla
nostra Corte Costituzionale con un approccio diverso da quello della Corte di Giustizia. Al pari di altri
omologhi organi nazionali, la Corte Costituzionale italiana inquadra la questione dei rapporti tra due
ordinamenti secondo una logica di tipo “dualista”, o internazionalista: in questa prospettiva, l’efficacia del
diritto dell’Unione Europea nell’ordinamento interno dello Stato italiano si fonda sull’accettazione
volontaria da parte di quest’ultimo. La Corte di Giustizia, invece, si è mossa nel quadro di una concezione
unitaria circa i rapporti tra diritto dell’UE e diritto interno, in una logica che si può definire di stampo
“monista” e in una prospettiva sostanzialmente “pre-federalista”. L’iter seguito dalla nostra giurisprudenza
costituzionale, ha comunque portato ad una sistemazione soddisfacente della questione. La questione
merita di essere ripercorsa, perché consente di comprendere e inquadrare anche i rapporti attuali tra i due
ordinamenti e i rischi di contrasti che pure possono ancora porsi, come ha dimostrato la recentissima
vicenda nel “caso Taricco”. I problemi che si sono posti per lungo tempo sono discesi in definitiva dalla
circostanza che l’adeguamento dell’ordinamento italiano ai Trattati è avvenuto con leggi ordinarie.
Seguendo la prassi corrente, il nostro legislatore ha infatti provveduto a tale adattamento con l’emanazione
di un ordine di esecuzione per ciascuno dei Trattati. Questa soluzione ha avuto ricadute problematiche,
anche se corrispondeva alla prassi comunemente usata nell’ordinamento italiano per procedere
all’adattamento ai trattati nazionali. Come chiariva la dottrina nazionale, infatti, una volta che un trattato
fosse stato immesso nel nostro ordinamento, il rango delle sue norme su di un piano formale sarebbe stato
coincidente con quello del provvedimento che vi aveva dato esecuzione, ossia in genere con quello di
legge ordinaria. Su questa base sarebbero stati regolati i rapporti tra le norme, quindi secondo i principi
di gerarchia tra le norme, di prevalenza della norma posteriore su quella anteriore e di prevalenza della
norma speciale su quella generale. Infatti, se il trattato fosse stato immesso nel nostro ordinamento con
ordine di esecuzione contenuto in una legge ordinaria, esso avrebbe potuto prevalere solo su norme di

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rango inferiore o su leggi ordinarie anteriori; avrebbe dovuto cedere il passo, invece, di fronte a norme
costituzionali contrastanti o a leggi ordinarie successive. La giurisprudenza italiana negli anni aveva usato
diverse tecniche interpretative per attenuare queste conseguenze. La situazione ora è mutata a seguito
della modifica dell’articolo 117 della Costituzione, che vincola l’attività del legislatore al rispetto degli
obblighi internazionali dello Stato italiano. L’avere seguito, anche in ordine ai Trattati istitutivi delle
Comunità europee, la prassi dell’esecuzione mediante legge ordinaria ha comportato due conseguenze
negli anni immediatamente successivi. Da una parte, le norme dei Trattati comunitari non avrebbero potuto
aver efficacia se contrastanti con la Costituzione. Dall’altra, una legge ordinaria, successiva ai Trattati e
in contrasto con essi, sarebbe stata pienamente efficace, sulla base del principio lex posterior derogat prori.
Entrambe queste conseguenze si ponevano in diretta antitesi con l’orientamento che la Corte di Giustizia
veniva assumendo in tema di primato del diritto comunitario sul diritto interno. La composizione
definitiva di tale divergenza poteva essere trovata adeguatamente con un intervento legislativo a livello
costituzionale; in mancanza di esso, la dottrina suggerì una serie di soluzioni, tutte di ripiego, volte ad
evitare le conseguenze di cui sopra. Tra tali soluzioni prospettate dalla dottrina fu accolta da parte della
Corte Costituzionale quella che faceva leva sull’articolo 11 della Costituzione, in particolare nella parte in
cui recita: “L’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le
organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Questa norma era stata concepita per preparare
l’entrata dell’Italia nell’ONU, la cui Carta contiene un gruppo di norme, le quali prevedono la messa a
disposizione, da parte degli Stati membri, di contingenti militari da porre sotto il comando dell’ONU. Le
limitazioni di sovranità, cui all’articolo 11 della Costituzione, erano, quindi, da intendersi come
essenzialmente relative ad operazioni a carattere militare, in un contesto in cui l’Italia rinunciava
formalmente all’uso della forza bellica. Nonostante questa fosse la ratio legis dell’articolo 11 della
Costituzione, si ritenne che il suo ambito di applicazione potesse essere esteso a un diverso tipo di
sovranità, la quale si manifesta, ad esempio, nell’esercizio della funzione legislativa. Secondo tale
interpretazione, l’articolo 11 della Costituzione avrebbe potuto consentire delle limitazioni anche di questo
tipo di sovranità. Si trattava, ovviamente, di un uso estensivo del termine “limitazioni di sovranità”, la cui
interpretazione veniva, quindi, forzata al di là di quanto non fosse nelle intenzioni dell’Assemblea
costituente. L’articolo 11 della Costituzione è divenuto nel corso degli anni, nella giurisprudenza
costituzionale italiana, la norma di riferimento per la definizione dei rapporti tra l’ordinamento interno e
l’ordinamento dell’UE.

50. Il difficoltoso percorso della giurisprudenza costituzionale; l’art. 11 e l’art. 117, comma 1, della
Costituzione.
Venendo alla giurisprudenza, il percorso dei nostri giudici costituzionali nell’affrontare il problema è stato
quantomeno travagliato. La Corte Costituzionale ebbe ad occuparsi per la prima volta della questione con la
sentenza del 1964, Costa contro ENEL, sulla questione di legittimità costituzionale cui si riferiva anche il
rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Con questa sentenza la Corte Costituzionale affermò che,
essendo stata data al Trattato CEE esecuzione con legge ordinaria, una legge ordinaria successiva, quale
era appunto quella sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica, poteva derogare al Trattato stesso in
ossequio al principio della successione nel tempo delle leggi. Tale sentenza, sebbene in quel momento
apparisse formalmente ineccepibile, era però inaccettabile per la Corte di Giustizia e per i nostri partners
comunitari, poiché erano leggi in contrasto con i Trattati.
Un’altra tappa di questo travaglio fu costituita dalla sentenza emanata dalla Corte Costituzionale, nel caso
Frontini. In questi casi, la Corte Costituzionale adottò la soluzione basata sull’interpretazione estensiva del
termine “limitazioni di sovranità” contenuto nell’articolo 11 della Costituzione. La Corte sostenne, infatti,
che il Trattato CEE fa parte di quelle forme di collaborazione internazionale cui si riferisce l’articolo 11
della Costituzione. Tuttavia, la Corte Costituzionale aggiungeva che la rilevazione di tale conflitto era
riservata ad essa; di conseguenza, la norma interna avrebbe continuato a spiegare tutta la sua efficacia fin
tanto che qualcuno avesse eccepito la sua incostituzionalità ed essa si fosse pronunciata in merito. La Corte
di Giustizia non poteva certo accettare che l’applicabilità del diritto comunitario in Italia restasse
condizionata ad un atto interno, quale era appunto la pronuncia della Corte Costituzionale. La sentenza
Frontini ebbe comunque il pregio di ravvisare nell’articolo 11 della Costituzione la disposizione centrale
per inquadrare le questioni del rango e dell’efficacia del diritto comunitario nell’ordinamento interno.
Dopo diversi anni dalla sentenza Frontini, con la sentenza del 1984 Granital, fece un deciso passo avanti,
riconoscendo la possibilità per il giudice nazionale, in base all’articolo 11 della Costituzione, di non

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applicare la norma interna contraria a quella comunitaria, senza dover attendere una dichiarazione di
incostituzionalità. La Corte Costituzionale, infatti, mantenendo il suo approccio basato sulla separazione
tra l’ordinamento statale e l’ordinamento comunitario, giustificava il potere del giudice di non applicare
la norma italiana contrastante con il diritto comunitario facendo leva sulla ripartizione di competenze cui il
nostro Stato ha volontariamente consentito. Successive sentenze della Corte Costituzionale parlano
espressamente di “ritrazione” dell’ordinamento interno nei confronti dell’ordinamento dell’UE. La
complessità delle questioni che si sono descritte si sarebbe potuta evitare se il legislatore italiano avesse
compreso a pieno la dimensione del fenomeno dell’integrazione comunitaria e avesse provveduto a
modificare la Costituzione, introducendovi, come del resto si veniva facendo in altri Stati membri, una
cosiddetta “clausola europea”, consistente in un esplicito riconoscimento a livello costituzionale
dell’adesione dell’Italia all’UE. Ciò è quanto, ad esempio, hanno fatto Francia, Germania e Spagna. Il
diritto dell’UE si sarebbe visto riconosciuto automaticamente rango costituzionale e sarebbe stato al
riparo dal rischio di conflitto con norme interne contrastanti. All’esigenza di tale clausola, ha in buona parte
sopperito l’interpretazione accolta dall’articolo 11 della Costituzione, che rimane tuttora centrale nella
giurisprudenza costituzionale. Una conferma (parziale) di quanto già assodato in via giurisprudenziale è
oggi presente nella norma dell’articolo 117.1 della Costituzione, il quale dispone che “la potestà legislativa è
esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. La portata si quest’ultimo articolo , con
specifico riguardo alle norme contenute in trattati internazionali diversi dai Trattati UE, è stata chiarita con
le due sentenze “gemelle” della Corte Costituzionale, relative alla CEDU, quindi in ordine a norme pattizie
non facenti parte dell’ordinamento dell’UE: come afferma la Corte, il rispetto delle norme contenute nella
CEDU costituisce un vincolo per il legislatore italiano, sicché eventuali leggi ordinarie contrastanti con le
norme poste da trattati possono essere dichiarate incostituzionali. Le norme contenute nei Trattati
internazionali non acquisiscono però rango costituzionale; si tratta invece di “norme interposte”: esse
hanno “rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria”. Inoltre, a
differenza di quanto accade per il diritto dell’UE, la contrarietà ad una norma interna non determina la
possibilità per gli operatori interni di non applicare la norma interna contrastante. Nelle due sentenze da
ultimo menzionate, la Corte Costituzionale ha colto l’occasione per distinguere la posizione delle norme
dell’UE nell’ordinamento italiano rispetto a quella delle norme poste dai trattati internazionali diversi
dai trattati dell’UE. Solo per il diritto dell’UE si configurano le limitazioni di sovranità previste
dall’articolo 11 della Costituzione, che hanno una portata più ampia rispetto a quella dell’articolo 117 della
Costituzione. In altri termini, il riferimento nell’articolo 117 della Costituzione ai “vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario” si limita a confermare che il legislatore nazionale e regionale non può
legiferare liberamente (anche) in materie regolate dal diritto dell’UE.
Si noti che mentre l’articolo 117 della Costituzione si rivolge solo al legislatore nazionale, l’articolo 11
della Costituzione è una norma generale, che si riflette su tutte le norme dell’ordinamento e deve guidare
non solo l’autorità legislativa, ma anche gli altri organi nazionali.
Le limitazioni di sovranità legittimate a livello costituzionale dall’articolo 11 si concretizzano da un lato
nella possibilità di attribuire all’UE competenze anche esclusive in determinate materie; d’altro lato nel
“potere-dovere” in capo agli organi dello Stato italiano di “dare immediata applicazione alle norme
comunitarie provviste di effetto diretto in luogo di norme nazionali che siano con esse in contrasto
insanabile; ovvero di sollevare questione di legittimità costituzionale... quando il contrasto fosse con norme
comunitarie prive di effetto diretto”. Infine, è proprio in forza di tali limitazioni di sovranità, che la Corte
Costituzionale “ha riconosciuto la portata e le diverse implicazioni della prevalenza del diritto comunitario
anche rispetto a norme costituzionali individuandone solo il limite nel contrasto con i principi fondamentali
dell’assetto costituzionale dello tato ovvero dei diritti inalienabili della persona”.

51. I c.d. “contro limiti; il caso “Taricco”.


La Corte Costituzionale italiana ha precisato in una giurisprudenza costante che la prevalenza del diritto
dell’UE sul diritto interno incontra alcuni limiti, in quanto non opera per quelle norme di diritto dell’UE
che si rivelino contrarie ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o ai diritti
inalienabili della persona umana. Ricordiamo a questo riguardo che l’articolo 11 non è neutro, sul piano
valoriale: le cessioni di sovranità che la norma consente sono ammesse solo a favore di organizzazioni
che tendano alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. La Corte Costituzionale si è quindi sempre
espressamente riservata un controllo di costituzionalità con riferimento all’eventuale contrasto di norme
dell’UE con principi fondamentali o diritti inalienabili. Già la sentenza Frontini, nel sancire l’ingresso del

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diritto dell’UE nel nostro ordinamento a livello costituzionale, faceva salve quelle norme della Costituzione
che riguardano i principi fondamentali o i diritti inalienabili della persona umana. I giudici costituzionali,
però, precisavano subito che il problema, a loro avviso, era comunque solo teorico, in quanto “appare
difficile configurare anche in astratto l’ipotesi che un regolamento comunitario possa incidere in materia di
rapporti civili, etico-sociali, politici...”.
Ricordiamo che la giurisprudenza costituzionale italiana non è l’unica nella quale rinvengono queste riserve,
che sono condivise nella giurisprudenza di altri Stati membri. Il riferimento principale va alle analoghe
posizioni espresse dalla Corte Costituzionale tedesca, la quale ha ribadito in più occasioni l’esistenza di
contro limiti rispetto alle cessioni di sovranità dell’UE. Questi sono stati legati inizialmente al livello di
protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario, e in seguito sono stati declinati con più
ampio riferimento al rispetto dell’identità costituzionale tedesca, comprensiva sia della protezione dei
diritti fondamentali che dei principi della democrazia e dello stato di diritto. Su posizioni analoghe si
può citare la decisione della Corte costituzionale della Repubblica Ceca.
Un rischio imminente di una dichiarazione di incostituzionalità inerente al diritto dell’UE si è verificato in
una vicenda recente, nota come “caso Taricco”, che avrebbe potuto riprodurre ripercussioni di notevole
portata, anche nei rapporti tra Corte Costituzionale e Corte di Giustizia. Come vedremo, il possibile contrasto
è stato “disinnescato” grazie all’approccio adottato dalle due Corti. La sentenza Taricco della Corte di
Giustizia sanciva l’obbligo di disapplicare la legge italiana che prevedeva per determinati reati una
riduzione dei termini di prescrizione tale da rischiare di impedire di unire le frodi contro gli interessi
finanziari dell’UE (si trattava del diffuso reato noto come “frode carosello”, che realizza evasioni dell’IVA
e conseguenti danni per le entrate dell’UE). La Corte di Giustizia considerava che, se il giudice italiano
avesse ravvisato una situazione di “impunità di fatto”, le norme nazionali in questione sarebbero state in
contrasto con l’articolo 325 TFUE, articolo che la Corte considerava dotato dei requisiti per produrre effetti
diretti e quindi per determinare l’immediata inapplicabilità delle disposizioni della legge italiana. Si
trattava di un caso di applicazione retroattiva di regole che incidevano sulla punibilità delle persone, in
contrasto con il principio di legalità (articolo 25 della Costituzione). La Corte Costituzionale fu quindi
investita di due rinvii di costituzionalità in via incidentale, volti a fare accertare la contrarietà a principi
fondamentali della Costituzione, in sostanza, dell’interpretazione della Corte di Giustizia. La nostra Corte a
quel punto adottò una decisione di grande rilievo: scelse di non emanare immediatamente una sentenza
nella quale avrebbe potuto accertare l’esistenza di un contrasto con un principio fondamentale della
Costituzione; decise invece di rimettere la questione alla stessa Corte di Giustizia, perché quest’ultima
chiarisse la portata della propria interpretazione dell’articolo 325 TFUE contenuta nella sentenza Taricco.
Pur con quest’apertura di fondo, nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale la Corte Costituzionale rimarcò in
modo molto netto la possibilità di ricorrere ai contro limiti, sottolineando il carattere supremo e
irrinunciabile nel nostro ordinamento del principio di legalità in materia penale. Inoltre, essa affermò pure
che tale principio rappresenta un aspetto dell’identità nazionale dello Stato italiano che l’UE è tenuta a
rispettare ai sensi dell’articolo 4 TUE. Nella sentenza resa in via pregiudiziale in risposta a tale
ordinamento (nota anche come “Taricco bis”), la Corte di Giustizia ha evitato di affrontare il problema sotto
l’angolazione della clausola sul rispetto dell’identità nazionale. La risposta è stata invece imperniata sul
riparto di competenze, considerando che la materia in questione rientra nelle competenze concorrenti, e
che all’epoca dei fatti non erano state ancora realizzate forme di armonizzazione nella materia stessa;
pertanto, la Corte ha concluso, che l’Italia era libera a quell’epoca di prevedere che nel suo sistema giuridico
le norme sulla prescrizione formassero parte del diritto penale sostanziale e fossero quindi soggette al
principio di legalità. In altri termini si accetta in questo modo la qualificazione data nel sistema italiano
alle norme sulla prescrizione e conseguentemente la possibilità che i giudici italiani considerino la
disapplicazione in contrasto con il principio di legalità. La Corte ha anche aggiunto che gli Stati membri
sono liberi di determinare i livelli di protezione dei diritti fondamentali. La sentenza è chiaramente
mossa dall’intento di scongiurare una dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte
Costituzionale italiana.
La Corte Costituzionale ha posto fine alla vicenda con una sentenza di rigetto. In questa sentenza essa ha
considerato infondate le questioni di costituzionalità, in ragione del fatto che a suo giudizio la “regola
Taricco” si rivela inapplicabile senza eccezioni nel nostro ordinamento. Con questa pronuncia la Corte
Costituzionale ha colto anche l’occasione per ribadire il proprio ruolo esclusivo nella scelta di opporre i
contro limiti rispetto al diritto dell’UE.

52. L’attuazione del diritto dell’UE nell’ordinamento italiano; il ruolo delle Regioni.

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o Il diritto derivato dell’UE, quando abbia i requisiti per poter essere applicato direttamente dagli
organi degli Stati membri, non necessita di appositi atti interni di esecuzione. Le norme degli atti
dell’UE che abbiano invece un contenuto con carattere programmatico o generico necessitano, invece,
di misure interne di attuazione. Ciò si può verificare non solo per le direttive, ma anche per alcuni
regolamenti o decisioni, a seconda appunto del loro contenuto. Al riguardo, il nostro legislatore ha più
volte manifestato un’eccessiva lentezza, che ha esposto spesso l’Italia a procedimenti per infrazione ai
sensi dell’articolo 258 TFUE. Inoltre, il legislatore nazionale è chiamato ad intervenire anche per
rimuovere norme interne che la Corte di Giustizia abbia eventualmente dichiarato contrarie ad
obblighi assunti dall’Italia nell’ambito dell’UE.
Per porre rimedio a questa situazione si è giunti alla legge del 1989 cosiddetta (“legge La Pergola”), poi
sostituita nel 2005 dalla cosiddetta “legge Buttiglione”, e oggi dalla legge 24 dicembre 2012, n.234
aventi lo scopo di disciplinare la partecipazione dell’Italia al processo di formazione delle norme
dell’UE e di garantire l’adempimento degli obblighi derivanti in capo all’Italia dall’appartenenza
all’UE. Il sistema di attuazione introdotto nell’ordinamento italiano con la legge La Pergola,
corrispondente a quello tutt’ora in vigore, era rappresentato da un meccanismo annuale per
l’attuazione del diritto dell’UE, con l’emanazione ogni anno di un’apposita legge contenente tutte le
disposizioni necessarie per dare attuazione agli obblighi nascenti dalla partecipazione dell’Italia
all’UE. Questa legge mantiene il meccanismo incentrato sull’emanazione della legge annuale e lo
disciplina più a fondo, ma colloca accanto a tale legge un’altra categoria di leggi con finalità analoga
(la “legge europea”).
La legge di delegazione europea corrisponde sotto molti profili alla vecchia legge comunitaria;
principalmente contiene disposizioni per conferire deleghe al Governo perché provveda
all’emanazione di decreti legislativi, volti al recepimento di direttive dell’UE, o anche volti a dare
attuazione a regolamenti dell’UE.
Le deleghe al Governo possono riguardare anche l’emanazione di decreti legislativi diretti a
modificare o abrogare disposizioni legislative in vigore.
La legge europea contiene invece disposizioni attraverso le quali il Parlamento italiano provvede
direttamente all’attuazione di obblighi nascenti dal diritto dell’UE. Ad esempio, ciò che si può realizzare
con la modifica o l’abrogazione di norme interne in vigore, anche nel caso della legge europea
l’iniziativa spetta al Governo.
La legge 234/2012 è volta anche a garantire un maggiore coinvolgimento del Parlamento italiano nella
“fase ascendente del diritto dell’UE”. Ciascuna Camera, a questo fine, è chiamata ad esprimere un
parere motivato sulle proposte di atti legislativi che la Commissione invia ai Parlamenti nazionali.
Inoltre, la legge 234/2012 definisce in modo dettagliato la disciplina degli obblighi di informazione e
consultazione delle Camere da parte del Governo, con la possibilità che il Parlamento esprima degli
atti di indirizzo, di cui l’atto esecutivo è obbligato a tenere conto nel definire la propria posizione in
seno alle istituzioni dell’UE.
o A seguito del decentramento regionale è sorto il problema di quale ruolo dovessero svolgere le
Regioni stesse nell’elaborazione e nell’attuazione del diritto derivato dell’UE. La soluzione del
problema non appariva semplice, in quanto dovevano contemperarsi due opposte esigenze. Da una
parte, infatti, nonostante il decentramento regionale, lo Stato rimane unitario e, come tale,
esclusivamente responsabile sul piano internazionale. D’altra parte, nelle materie di loro
competenza, le Regioni hanno sempre rivendicato un ruolo attivo per quanto riguarda la partecipazione
all’elaborazione e all’attuazione del diritto dell’UE.
La legge 234/2012 prevede quindi un meccanismo, la cui attivazione compete al governo, perché i
progetti di atti dell’UE siano fatti pervenire alle Giunte e ai Consigli delle Regioni e delle Province
autonome. Quando i progetti riguardino materie di competenza delle Regioni e delle Province
autonome, quest’ultime possono comunicare le loro osservazioni sul progetto stesso. Inoltre, su
richiesta di almeno una Regione o Provincia autonoma, il Governo è tenuto a convocare la Conferenza
Stato-Regioni con il fino di raggiungere un’intesa su tale progetto. Le competenze di tale Conferenza
sono di natura essenzialmente consultiva e, pertanto, non offrono in realtà alle Regioni la possibilità di
influire in misura determinante sul processo di elaborazione degli atti dell’UE. Quanto all’attuazione
degli atti dell’UE da parte delle Regioni nelle materie di loro competenza, l’articolo 40 della l. 234/2012
prevede che le Regioni provvedono al recepimento delle direttive dell’UE nelle materie di loro
competenza. Per il caso di inadempimento da parte di tali enti territoriali, l’articolo 120 della
Costituzione prevede che lo Stato sia dotato di poteri sostitutivi, “al fine di porre rimedio all’eventuale

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inerzia dei suddetti enti”. Si tratta di atti, emanati in via sostitutiva, che sono destinati a trovare
applicazione solo per le regioni che non abbiano provveduto tempestivamente ad emanare la normativa
di loro competenza. La finalità dei provvedimenti sostitutivi, come si è detto, è infatti solo di impedire
che lo Stato italiano sia chiamato a rispondere per il mancato adempimento ad obblighi che derivano
per lo Stato stesso dalla sua partecipazione all’Unione Europea.

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