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4. Le revisioni dei Trattati e il dibattito che le ha accompagnate: l’esigenza della cooperazione politica
e l’Atto unico europeo.
Le revisioni di tipo generale hanno avuto luogo in cinque occasioni. Le prime quattro revisioni sono quelle
intervenute con l’Atto unico europeo: con il Trattato di Maastricht (1993), il Trattato di Amsterdam (1999),
il Trattato di Nizza (2003) e il Trattato che adotta una costituzione per l’Europa (2004) che però, non è mai
entrato in vigore. Infine, la quinta e ultima revisione è avvenuta con il Trattato di Lisbona (2007).
Dopo solo pochi anni dalla firma dei Trattati di Roma il funzionalismo economico che si era scelto come
metodo per procedere all’integrazione europea, cominciava a mostrare i propri limiti. Risultava infatti
difficile perseguire efficacemente gli obiettivi di integrazione economica senza avere il potere di
coordinare le politiche economiche degli Stati membri, dovuto alla stretta interdipendenza dei vari settori
dell’economia. Diventava necessario anche un coordinamento nel campo della politica estera e di difesa.
Si fece quindi strada la necessità di una cooperazione a livello politico tra gli Stati membri. A questa
esigenza si contrapponeva la riluttanza degli Stati membri ad accettare la perdita di sovranità che
avrebbe comportato. Subentrava un lungo periodo di ricerche di formule, al fine di rispettare gli interessi
degli Stati membri (al mantenimento del loro potere sovrano) e al tempo stesso accogliendo quel minimo di
istanze che l’opinione pubblica potesse interpretare come progresso verso l’integrazione politica. Gli sforzi
si conclusero con la proposta di convocare una conferenza intergovernativa (Rapporto Dooge) che aveva
l’incarico di istituire entro il 1992 un mercato interno e la cooperazione in materia di politica estera e
difesa tra gli Stati membri. Tale proposta su presentata al Consiglio europeo che si tenne a Milano. I lavori
si conclusero con la firma del trattato denominato Atto unico europeo (AUE), che va ricordato soprattutto
per aver posto come obiettivo primario l’instaurazione progressiva di un mercato interno, attribuiva alla
CEE nuove competenze e affiancava alle Comunità europee una cooperazione in materia di politica estera.
5. Il dibattito sul deficit democratico, sull’unione economica e monetaria e sulle modifiche istituzionali
richieste dall’allargamento.
Il dibattito sui temi fondamentali dell’integrazione europea proseguì mettendo a fuoco essenzialmente due
problemi:
- Il difetto di legittimità democratica nel processo decisionale (deficit o gap democratico)
- La improrogabilità di una effettiva unione economica e monetaria, da realizzarsi attraverso la
creazione di una moneta europea unica.
Sotto il primo profilo, quello del deficit democratico si allude al fatto che atti di natura sostanzialmente
legislativa e quindi da applicarsi direttamente ai cittadini, erano emanati da un organo, il Consiglio, da un
lato non eletto dai cittadini stessi e dall’altro, sottratto a un effettivo controllo politico parlamentare.
Quanto al secondo profilo, va ricordato che la costruzione comunitaria si fondava sull’instaurazione del
mercato comune, mentre gli Stati membri restavano liberi di gestire le loro politiche economiche e
monetarie come meglio credevano. Una tale costruzione risultava però squilibrata anzitutto sul piano
economico, in quanto le due dinamiche risultano conciliabili solo in determinati periodi e gli Stati
economicamente più deboli si vedranno costretti ad introdurre misure di tipo protezionistico, ovviamente
incompatibili con l’idea stessa di mercato comune.
I due temi sull’integrazione politica e l’unione economica confluirono nei lavori paralleli che si conclusero
con il Trattato sull’ Unione Europea (TUE) firmato a Maastricht (1992). Esso provvedeva a istituire
l’Unione Europea (UE), strutturata secondo quelli che si chiamarono i tre pilastri: il termine racchiudeva
infatti il complesso:
11. I valori fondanti dell’UE e le sanzioni per la loro violazione; gli obiettivi dell’UE.
L’ Unione Europea è l’organizzazione internazionale che realizza il più elevato livello di integrazione tra i
suoi membri rispetto a qualsiasi altra organizzazione. Tale livello di integrazione è reso possibile dalla
comunanza tra gli Stati membri di alcuni valori fondanti, elencati nell’articolo 2 TUE. Secondo tale
norma, l’UE “si fonda sui valori del rispetto della dignità mana, della libertà, della democrazia,
dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone
appartenenti a minoranze”. Questi divengono valori dell’UE in quanto comuni agli Stati membri. Questi
valori costituiscono il retaggio culturale della civiltà europea e costituiscono per questo la stessa identità
europea. È logico dunque, che per essere ammesso all’UE ogni Stato richiedente debba rispettare tali
valori e impegnarsi a promuoverli, per tutta la durata del vincolo associativo che lega ciascun membro.
Al riguardo, sono previste (all’articolo 7 TUE) delle sanzioni per lo Stato membro che si renda colpevole di
una grave e persistente violazione dei valori. Nello specifico, l’articolo 7 TUE contempla una procedura
d’allarme e una procedura ordinaria.
La procedura d’allarme avviene nel caso in cui il Consiglio, deliberando con la inusuale maggioranza dei
4/5 dei suoi membri, “può constatare che esista un evidente rischio di violazione grave da parte di uno stato
membro” dei valori di cui all’articolo 2 TUE. La delibera del Consiglio può avere luogo solo su proposta di
1/3 degli Stati membri (o del Parlamento europeo o della Commissione). Essa deve anche essere munita
della previa approvazione del Parlamento europeo. Prima di procedere a tale constatazione, il Consiglio
deve ascoltare lo Stato in questione, ed ha l’obbligo di verificare regolarmente se i motivi che hanno
condotto alla constatazione permangono validi. La procedura dall’allarme può essere propedeutica a quella
ordinaria.
In questo caso il Consiglio europeo (a differenza della procedura d’allarme) può constatare, con delibera da
adottarsi all’unanimità, l’esistenza di una “violazione grave e persistente” da parte di uno Stato membro.
Tutta una serie di cautele procedurali accompagna tale misura, la quale deve essere preceduta:
1) Dalla proposta da parte di 1/3 degli Stati membri o dalla Commissione, come per la procedura
d’allarme, ad esclusione del Parlamento;
2) Dall’invito allo Stato in questione a presentare le sue osservazioni;
3) Dall’approvazione del Parlamento europeo con la stessa maggioranza prevista dalla procedura
d’allarme.
In entrambi i casi, ovviamente, lo Stato in questione non partecipa al voto e non può quindi impedire il
raggiungimento dell’unanimità.
15. Le norme di diritto sostanziale dell’UE che realizzano i suoi obiettivi: spazio di libertà, sicurezza e
giustizia; mercato interno e sviluppo sostenibile dell’Europa; unione economica e monetari; relazioni
esterne (rinvio).
In relazione a ciascuno di tali obiettivi i Trattati prevedono una serie di norme materiali. Quanto
all’obiettivo relativo allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, materia in cui l’UE e gli Stati membri
esercitano una competenza concorrente, esso trova ora la sua realizzazione esclusivamente nelle norme di
cui al Titolo V della Parte Terza del TFUE. Queste norme hanno ad oggetto:
a) Le politiche relative i controlli delle frontiere, all’asilo e all’immigrazione
b) La cooperazione giudiziaria in materia civile
c) La cooperazione giudiziaria in materia penale
d) La cooperazione di polizia
Inoltre, viene notevolmente ampliato il controllo giurisdizionale che può effettuare in materia la Corte di
Giustizia. Tuttavia, alcune decisioni importanti in materia richiedono ancora l’unanimità da parte del
Consiglio. La disciplina prevede anche un significativo coinvolgimento dei Parlamenti nazionali, a livello
di semplice informazione, di controllo e, persino, di veto.
Quanto all’obiettivo del mercato interno, esso comporta uno spazio senza frontiere interne, nel quale è
assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Vale la pena richiamare
il processo che ha portato il mercato comune, originariamente previsto dal Trattato di Roma, ad evolversi nel
1992 in mercato interno, a seguito delle modifiche introdotte dall’Atto unico europeo. Per comprendere
cosa aggiunge il mercato interno al mercato comune, occorre ricordare che le quattro libertà di
circolazione previste dal Trattato di Roma per la realizzazione dell’allora mercato comune erano state
fondamentalmente intese come obbligo per ciascuno Stato membro di ammettere alla libera circolazione al
proprio interno merci, persone, servizi e capitali provenienti da altri Stati membri alle stesse condizioni
valevoli per merci e persone dello Stato in questione. L’integrazione così realizzata avveniva secondo le
regole del Paese di destinazione, nel senso che a persone, merci che volessero uscire dal proprio Paese di
origine, veniva garantita parità di trattamento con persone, merci del Paese di destinazione, in linea con il
divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità. Questa soluzione apparve presto inadeguata, in quanto
di possono celare delle situazioni profondamente discriminatorie. Per ovviare a questi inconvenienti la
Corte di Giustizia ha cominciato a introdurre, sin dalla fine degli anni ’70, il principio secondo cui i
prodotti legalmente fabbricati e venduti in uno Stato membro devono poter liberamente circolare negli
altri Stati membri, così come le persone legittimamente abilitate all’esercizio di una professione in uno
Stato membro devono poterla esercitare anche negli altri Stati membri. Le uniche restrizioni che lo Stato
può imporre devono essere giustificate da motivi attinenti alla salute pubblica, alla correttezza del
17. L’UE e i cittadini: la nozione di cittadinanza dell’UE e i diritti che da essa discendono.
Una delle principali novità introdotte dal Trattato di Maastricht è stata la cittadinanza dell’Unione. Ai sensi
dell’articolo 9 TUE e dell’articolo 20 TFUE, è cittadino dell’UE chiunque abbia la cittadinanza di uno
Stato membro. È da intendersi quindi che la cittadinanza dell’UE si acquista o si perde a seguito
dell’acquisto o della perdita della cittadinanza nazionale ai sensi di tale legislazione. Con la sentenza
Micheletti (luglio 1992), la Corte di Giustizia affermava che la determinazione dei modi di acquisto e di
perdita della cittadinanza nazionale “deve essere esercitata nel rispetto del diritto comunitario”.
L’articolo 9 TUE e l’articolo 20 TFUE precisano anche che la cittadinanza dell’UE “si aggiunge alla
cittadinanza nazionale e non la sostituisce”. Si tratta, quindi, di un concetto di cittadinanza sui generis:
esso non va confuso con la cittadinanza nazionale, la quale implica la soggezione ad uno Stato. L’UE
adotta, in verità, una sua nozione convenzionale di cittadinanza, che non mutua alcuna delle caratteristiche
tipiche di tale status quali previste negli ordinamenti interni, ma che trova la sua definizione solo nei
Trattati. Di fatto, le norme si riferiscono solo ai diritti e non contemplano alcun dovere connesso alla
cittadinanza dell’UE, a conferma della natura sui generis dell’istituto. In buona sostanza, il cittadino
dell’UE gode del diritto:
Di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Per quanto riguarda la
libertà di circolazione e di soggiorno, essa è riconosciuta ai cittadini dell’UE in quanto tali, e
dunque anche se non sono lavoratori, i quali ultimi godono di un regime particolare di libera
circolazione sulla base delle norme relative al mercato interno. La libertà di circolazione e di
soggiorno dei cittadini dell’UE non è senza limiti, in quanto lo stesso articolo 21 TFUE fa salve “le
limitazioni e le condizioni previste dai trattati”. Al riguardo, va menzionata la direttiva del
Parlamento europeo che disciplina in dettaglio il diritto dei cittadini dell’UE di circolare e
soggiornare nel territorio degli Stati membri. Tale direttiva prevede, tra l’altro, che per un soggiorno
superiore a tre mesi nel territorio di uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza,
il cittadino UE che non sia economicamente attivo deve dimostrare di disporre di sufficienti
risorse economiche, così da non rappresentare un onere a carico dell’assistenza sociale dello
Stato ospitante. Inoltre, la direttiva prevede la possibilità per uno Stato membro di adottare
provvedimenti restrittivi della libertà stessa per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza o
sanità pubblica, pur nel rispetto del principio di proporzionalità.
Elettorato attivo e passivo nello Stato membro di residenza per le elezioni al Parlamento europeo e
per quelle comunali. Circa l’elettorato attivo e passivo nello Stato membro di residenza per le
elezioni comunali, il suo effettivo riconoscimento ha in qualche caso richiesto modifiche
costituzionali. Il Consiglio ha emanato la direttiva che prevede la facoltà per i cittadini dell’UE di
scegliere se votare nel proprio Stato nazionale o in quello di residenza, nonché la possibilità per
gli Stati membri di negare l’eleggibilità di non cittadini alla carica di capo di un ente locale di base
e di introdurre misure derogatorie qualora la percentuale di cittadini dell’UE residenti, ma non
nazionali, superi il 20%.
Di protezione diplomatica e consolare da parte di uno qualunque degli Stati membri nei
confronti di un Paese terzo nel quale egli si trovi. La protezione diplomatica e consolare nei Paesi
Terzi corrisponde a una prassi già radicata nelle relazioni internazionali. Ai fini dell’attuazione di
tale protezione, l’articolo 23 TFUE prevede anzitutto l’avvio di negoziati tra gli Stati membri e gli
Stati terzi, negoziati che hanno in effetti condotto alla previsione di disposizioni apposite
all’interno di molti accordi consolari. La protezione in esame comprende, in particolare, i casi di
decesso, incidente o malattia grave, arresto, atti di violenza, rimpatrio in casi di emergenza.
Di petizione al Parlamento europeo, di ricorso al Mediatore europeo.
L’elenco di tali diritti non è inteso come tassativo e, del resto, nuovi diritti possono essere aggiunti con
delibera unanime del Consiglio.
24. Il Consiglio.
Il Consiglio ha il compito primario di esercitare, congiuntamente al Parlamento europeo, la funzione
legislativa e la funzione di bilancio. In via molto generale, il loro esercizio congiunto implica che occorra
l’accordo di due istituzioni, una (il Consiglio) che rappresenta gli Stati membri nei loro interessi
particolari, l’altra (il Parlamento europeo) che rappresenta i cittadini europei, perché tali funzioni possano
essere esplicate nell’ambito dell’UE. La conseguenza è che il mancato accordo tra le due istituzioni
paralizza l’azione dell’UE, in quanto nessuna delle due può indirizzare tale azione esclusivamente secondo
il suo volere. Altro compito attribuito al Consiglio, è quello di esercitare competenze di esecuzione, ed è
inoltre titolare di un potere generale di emanare raccomandazioni.
Il Consiglio è composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale, quindi i
suoi membri sono di un livello inferiore rispetto a quelli del Consiglio europeo, ma devono pur sempre
essere in grado di impegnare i rispettivi Stati attraverso l’esercizio del diritto di voto. La rappresentanza a
livello ministeriale implica la partecipazione alle riunioni di Ministri, Sottosegretari, o di qualsiasi altra
persona avente rango ministeriale. In realtà, la norma è stata interpretata abbastanza elasticamente, così
che da alcune riunioni del Consiglio, quando i Ministri o i Sottosegretari sono impossibilitati, partecipano
funzionari governativi di rango inferiore.
Il Consiglio è un organo collegiale di Stati, nel senso che abbiamo indicato per il Consiglio europeo e,
assieme a quest’ultimo, costituisce la massima espressione del momento intergovernativo nell’equilibrio
istituzionale dell’UE. In Consiglio si riunisce in varie formazioni in corrispondenza dei settori di attività
dell’UE. Come già accennato, spetta al Consiglio europeo stabilire l’elenco di tali formazioni. Tale elenco
deve comunque comprendere una formazione “Affari generali”, la quale elabora l’azione esterna dell’UE
secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo e assicura la coerenza dell’azione dell’UE nel
settore. Attualmente, le formazioni del Consiglio sono quelle definite dal Consiglio “Affari generali”, con la
decisione del 1° Dicembre 2009. Esse includono le formazioni “Affari economici e finanziari”, “Giustizia e
affari interni”, “Agricoltura e pesca” ecc.… per un totale di dieci formazioni che coprono, nel complesso,
tutti i settori di attività dell’UE.
La presidenza del Consiglio è esercitata dai suoi membri secondo un sistema di rotazione paritaria, con la
sola eccezione della presidenza della formazione “Affari esteri”, che spetta di diritto all’Alto
rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Anche in questo caso è demandato
al Consiglio europeo il compito di stabilire il suddetto sistema di rotazione prioritaria. La decisione del 1°
Dicembre 2009 prevede che la presidenza del Consiglio e delle sue formazioni venga esercitata da gruppi
predeterminati di tre Stati membri per un periodo di diciotto mesi, nell’arco del quale ciascuno di tali
Stati esercita a turno la presidenza per sei mesi e gli altri due lo assistono in tale compito sulla base di un
25. La Commissione e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
La Commissione è considerata la “guardiana” dei Trattati. I suoi compiti essenziali sono di promozione
dell’interesse generale dell’UE e di vigilanza sull’applicazione del diritto dell’’UE. In questo contesto
essa esercita i poteri di iniziativa, decisionali e di controllo. Essa, inoltre, è titolare di un potere generale di
emanare raccomandazioni e gode altresì di un potere generale di “raccogliere tutte le informazioni e
procedere a tutte le necessarie verifiche” nei limiti e alle condizioni fissati dal Consiglio. La Commissione è
composta da un cittadino di ciascuno Stato membro, compresi il suo Presidente e l’Alto rappresentante
dell’Unione per gli affari esteri, che, come vedremo, è uno dei suoi Vicepresidenti. In verità, dal 1°
novembre 2014 la Commissione avrebbe dovuto avere un numero di membri pari ai 2/3 del numero degli
Stati membri, a meno che il Consiglio europeo non avesse deciso di modificare tale numero: questo di fatto
è avvenuto con la decisione di comprendere un numero di membri pari a quello degli Stati membri. I
membri della Commissione sono scelti “in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo”.
Essendo, quindi, i Commissari nominati a titolo individuale, la Commissione, a differenza del Consiglio, è
un organo collegiale di individui. L’articolo 17 TUE infatti, specifica i contenuti del requisito della piena
indipendenza dei Commissari e i loro obblighi. Tali norme prevedono che i membri della Commissione
non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo, istituzione, organo ed organismo, e che,
correlativamente, gli Stati membri si impegnano a rispettare l’indipendenza dei Commissari e a non
cercare di influenzarli nell’esecuzione dei loro compiti. La sola eccezione è costituita dall’Alto
rappresentante il quale agisce, non solo come membro e Vicepresidente della Commissione, ma anche
come “mandatario” del Consiglio, in rappresentanza degli interessi degli Stati membri. I Commissari:
28. Gli altri organi e organismi: Comitato economico e sociale, Comitato delle regioni, altri comitati e
agenzie europee.
A parte le istituzioni sopra menzionate, esiste nell’UE una grande varietà di altri organi e organismi, alcuni
già previsti nei Trattati originari, altri aggiunti successivamente. Vengono innanzitutto in rilievo due organi
i quali, attraverso le loro funzioni consultive, assistono il Parlamento europeo, il Consiglio e la
Commissione. Si tratta del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni.
Il Comitato economico e sociale è composto da rappresentanti delle organizzazioni di datori di lavoro, di
lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile. Il Comitato economico e sociale è,
quindi, la sede di rappresentanza della società civile ed organizzata, a ulteriore conferma del fatto che
l’UE non si limita a realizzare una cooperazione tra Stati, ma coinvolge in maniera immediata i loro
cittadini.
Il Comitato delle regioni è composto da rappresentanti delle collettività regionali e locali, i quali devono
essere titolari di un mandato elettorale nell’ambito di una di tali collettività o comunque responsabili
politicamente verso un’assemblea eletta. L’introduzione di questo comitato testimonia l’accresciuta presa di
coscienza della realtà regionale da parte dell’UE. Tuttavia, non vi è alcun rapporto tra il numero dei
membri attribuiti ai vari Stati e le ripartizioni interne di questi ultimi.
Sono molti però i tratti comuni tra Comitato economico e sociale e Comitato delle regioni. Anzitutto,
entrambi sono organi collegiali di individui, in quanto i loro membri non sono vincolati da alcun mandato
imperativo ed esercitano le loro funzioni consultive in piena indipendenza. Il numero dei loro componenti,
che non può essere superiore a 350, e la sua ripartizione tra gli Stati membri sono fissati con decisione che
il Consiglio deve adottare all’unanimità su proposta della Commissione. In entrambi i casi, all’Italia sono
attribuiti 24 membri. L’elenco dei componenti dei due comitati è adottato dal Consiglio, previa
consultazione della Commissione. Per il solo Comitato delle regioni viene anche nominato un numero di
supplenti uguale a quello dei suoi componenti.
I pareri emessi dai due Comitati nell’ambito della loro funzione consultiva, e indirizzati al Parlamento
europeo, al Consiglio e alla Commissione, possono essere, come tutti i pareri, obbligatori (quando i Trattati
prevedono che un determinato atto non possa essere adottato senza averli preventivamente ottenuti),
facoltativi (hanno la facoltà, ma non l’obbligo di richiederli) e infine, possono essere formulati di propria
iniziativa da entrambi i Comitati.
Inoltre, il Comitato delle regioni può proporre ricorso alla Corte di Giustizia per violazione del principio di
sussidiarietà relativamente ad atti legislativi per la cui adozione sia richiesta la sua consultazione.
37.2.1. L’affermazione giurisprudenziale dei principi generali di diritto dell’UE relativi alla protezione
dei diritti umani.
Si deve alla Corte di Giustizia l’avvio dell’evoluzione sopra ricordata, con una serie di pronunce in cui essa
ha affermato che i diritti fondamentali costituiscono principi generali facenti parte dell’ordinamento
comunitario. La ricostruzione dei diritti da proteggere è stata operata dalla Corte, a partire dagli anni ‘70,
richiamando le convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo, e in particolare la CEDU, oltre
alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri. Riferimenti ai diritti fondamentali erano stati poi
inseriti anche in dichiarazioni e risoluzioni delle altre istituzioni dell’UE.
Alle affermazioni della Corte di Giustizia ha fatto poi seguito il riconoscimento dei diritti fondamentali
come principi generali con il TUE nel 1992, con una formula di chiara derivazione giurisprudenziale: “i
diritti fondamentali... fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. La qualifica dei diritti
39.1. I regolamenti.
L’articolo 288 TFUE individue tre caratteristiche generali dei regolamenti: essi hanno portata generale,
sono obbligatori in tutti i loro elementi e sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri.
Il requisito della portata generale implica che i destinatari dei regolamenti debbano essere una o più
categorie di soggetti.
La qualifica di destinatari del regolamento deve dipendere da circostanze obiettive e la norma
regolamentare deve avere il carattere dell’astrattezza, e quindi deve prescindere da singoli casi concreti. Per
fare un esempio, è stato affermato che un provvedimento dell’UE che fissi il prezzo dello zucchero in un
determinato periodo, o che sottoponga a determinate condizioni la concessione di aiuti ai produttori di pere,
rimane un regolamento anche se in quel determinato periodo i produttori di zucchero o di pere siano
singolarmente individuabili. Se, invece, i destinatari di un atto dell’UE, oltre che individuabili, sono tali in
virtù di una loro specifica situazione soggettiva e, quindi, il provvedimento li concerne direttamente e
individualmente, il procedimento stesso è in effetti una decisione aventi una molteplicità di destinatari
individuali. Questo “smascheramento” è rilevante in concreto, in quanto può consentire ad una persona
fisica o giuridica di dimostrare di essere dotata di legittimazione attiva ad impugnare il regolamento stesso
con un ricorso di legittimità.
La seconda caratteristica dei regolamenti è che essi sono obbligatori in tutti i loro elementi. Gli Stati
membri non possono quindi applicare un regolamento in modo incompleto o selettivo, o porre condizioni
alla sua applicazione o introdurre limitazioni alla portata delle sue norme. Con questa precisazione
nell’articolo 288 TFUE si distingue il regolamento dalla direttiva, che invece, obbliga gli Stati membri solo
quanto ai fini da raggiungere, lasciandoli liberi di scegliere i mezzi di esecuzione che ritengono più
adeguati. Sotto questo profilo si coglie l’importanza della terza caratteristica dei regolamenti, quella della
diretta applicabilità in ciascuno degli Stati membri la quale consente ad atti proprio dell’ordinamento
dell’UE di esplicare i loro effetti nell’ambito di ordinamenti diversi, quali sono quelli degli Stati membri.
Questi ultimi hanno consentito ad attribuire ai regolamenti forza obbligatoria e diretta applicabilità in
ordine ai soggetti di diritto interno, attraverso la previsione dell’articolo 288 TFUE, cui hanno dato
esecuzione nel proprio ordinamento attraverso le rispettive procedure interne.
Gli Stati membri hanno cioè introdotto al loro interno un meccanismo di adattamento automatico del loro
ordinamento a quello dell’UE, senza la possibilità di modificarne in alcun modo o precetti, ma anche senza
bisogno di un atto di esecuzione ad hoc per ogni singolo regolamento. È questa la caratteristica in fondo
più importante dei regolamenti, che ha rappresentato un’innovazione di grande rilevanza nella storia delle
forme di cooperazione istituzionali tra Stati. Dal momento della loro entrata in vigore, che avviene con
39.2. Le direttive.
La direttiva, ai sensi dell’articolo 288 TFUE, vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il
risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali per quanto riguarda la forma
e i mezzi necessari a tale scopo. Nell’ordinamento dell’UE la direttiva è un atto meno invasivo nella
sovranità degli Stati membri rispetto al regolamento, ed è maggiormente in linea con i principi di
sussidiarietà e proporzionalità. Essa, infatti, permette l’esplicazione del momento normativo a livello
dell’UE per la parte che più conta, vale a dire l’identificazione del risultato da raggiungere, con il minor
sacrificio possibile della sovranità degli Stati, che restano liberi di determinare la forma e i mezzi necessari.
Vengono così salvaguardate alcune differenze tra i sistemi giuridici degli Stati membri. Piuttosto, le
direttive possono costituire un atto idoneo ad avvicinare progressivamente le legislazioni degli Stati
membri. Non si deve però pensare che la direttiva sia un atto parzialmente vincolante, non è così, in quando
la direttiva è atto, al pari del regolamento, completamente vincolante per quanto riguarda il suo contenuto,
solo che quest’ultimo ha carattere programmatico perché la direttiva deve formare oggetto di un atto
nazionale di recepimento. La differenza tra i due atti può tendere a sfumare in concreto qualora ci si trovi di
fronte ad una direttiva particolarmente dettagliata. Si è assistito infatti all’emanazione di un numero sempre
crescente di cosiddette “direttive dettagliate”, contenenti una disciplina talmente articolata da lasciare poco
o nessuno spazio all’esercizio del potere discrezionale degli Stati in sede di determinazione delle forme e dei
mezzi per il raggiungimento del risultato voluto.
Le direttive sono indirizzate agli Stati membri, a tutti o solo ad alcuni di essi. Il fatto di porre obblighi di
risultato in capo agli Stati destinatari è una caratteristica che avvicina le direttive ai tipici atti delle
organizzazioni internazionali. Le direttive, in questa prospettiva, necessitano dell’adozione di misure di
attuazione nel diritto nazionale da parte degli Stati. Il termine di attuazione è un elemento fondamentale
della direttiva. Prima della scadenza del termine, gli Stati membri hanno solo l’obbligo di non porre in
essere misure interne tali da pregiudicare gli effetti della direttiva una volta attuata. Entro la scadenza, gli
Stati membri, inoltre, sono obbligati a comunicare alla Commissione sia le proposte di provvedimenti
interni di attuazione, sia i provvedimenti stessi una volta adottati. Quest’obbligo di notifica è stato
anch’esso desunto dall’obbligo di leale cooperazione. Dal momento della scadenza del termine per il
recepimento, in caso di mancata o inesatta attuazione si verifica una violazione da parte dello Stato
dell’obbligo di recepimento, che come vedremo può portare ad un ricorso per infrazione contro lo Stato
inadempiente. È solo dalla scadenza di tale termine, inoltre, che può porsi il problema di valutare
39.3. Le decisioni
La decisione, ai sensi dell’articolo 288 TFUE, è caratterizzata dalla obbligatorietà in tutti i suoi elementi.
Se essa designa i destinatari e ha, quindi, portata individuale, è obbligatoria soltanto nei confronti di
questi ultimi. Tradizionalmente le decisioni comunitarie si caratterizzavano proprio per essere atti a portata
individuale, il che valeva a distinguerle dai regolamenti. Nella prassi, però, si è affermato l’uso di
denominare genericamente come “decisioni” determinate delibere di istituzioni dell’UE, giuridicamente
vincolanti, che non hanno portata individuale e sono prive dell’indicazione di precisi destinatari. Per
esempio, questa denominazione è usata per molte decisioni in materia istituzionale, come quelle del
Consiglio europeo sulle formazioni del Consiglio e sulla loro presidenza, nonché per le decisioni nell’ambito
della politica estera e di sicurezza comune. La dottrina talora indicava questi atti come “decisioni sui
generis” per distinguerle dalle decisioni individuali. Con il Trattato di Lisbona, la formulazione dell’articolo
288 TFUE è stata cambiata in modo da ricomprendere anche le decisioni a portata generale, indicando che
le decisioni possono anche non designare il loro destinatario.
Per quanto riguarda le decisioni a portata individuale, queste possono essere dirette a uno o più Stati
membri o a uno o più individui, e hanno sostanzialmente natura di atti amministrativi e non normativi. Le
decisioni individuali rivolte a Stati membri si differenziano dalle direttive in quanto esprimono un precetto
completo, cui lo Stato destinatario si deve semplicemente adeguare. Tra le decisioni rivolte a Stati membri
di maggiore rilevanza ricordiamo quelle che la Commissione emana nell’esercizio della propria funzione di
controllo sugli aiuti che gli Stati membri erogano alle imprese. Queste decisioni possono acconsentire
alla concessione dell’aiuto, o negare tale possibilità, o ammetterla a condizioni ben determinate, o stabilire
che un aiuto illegalmente erogato dallo Stato debba essere restituito dall’impresa che ne abbia indebitamente
beneficiato.
39.6. Motivazione, base giuridica e altri requisiti formali degli atti dell’UE.
L’emanazione degli atti dell’UE deve sottostare ad alcuni requisiti formali, perlopiù precisati dagli articoli
296 e 297 TFUE, in mancanza dei quali l’atto risulta viziato sotto il profilo della violazione delle forme
sostanziali ed è quindi passibile di essere dichiarato nullo ai sensi dell’articolo 296 TFUE. Il primo di tali
requisiti è la motivazione, necessaria per tutti gli atti giuridici dell’UE. Per atti giuridici vanno intesi quelli
produttivi di conseguenze giuridiche, con esclusione degli atti a mera rilevanza politica. Essa si esprima
normalmente nel cosiddetto “considerando” costituiti da paragrafi numerati. L’esposizione delle ragioni
alla base delle varie norme, da parte dell’istituzione da cui l’atto promana, costituisce un valido ausilio
interpretativo per i soggetti chiamati ad applicare l’atto medesimo. Anche se non espressamente richiesto
dai Trattati, un elemento fondamentale della motivazione è costituito dall’indicazione della base giuridica
dell’atto, che è costituita da una o più disposizioni dei Trattati che devono essere specificate nel preambolo
di ciascun atto. Questo riferimento normativo è necessario perché dimostra che l’emanazione dell’atto rientra
tra le attribuzioni dell’istituzione stessa e che quindi non sussiste vizio di incompetenza in ordine ad
esso. A conferma della delicatezza della scelta della base giuridica vi sono i numerosi casi in cui tale scelta
da parte del Consiglio è stata contestata dal Parlamento europeo o dalla Commissione. La base giuridica,
come la Corte ha precisato, va determinata secondo criteri obiettivi individuati avendo riguardo allo scopo e
al contenuto dell’atto. Non è rara l’indicazione di una base giuridica plurima, allorché la competenza di
un’istituzione riposi su più di una norma dei Trattai o di altri atti. Nel caso, però, in cui le procedure
previste da tali norme siano tra di loro incompatibili, e quindi, non possano fungere da base giuridica, la
scelta tra le norme pertinenti dovrà fondarsi sulla valutazione delle finalità dell’atto che risultino
preponderanti. È anche necessario che gli atti facciano espresso riferimento alle proposte, iniziative,
raccomandazioni, richieste o pareri previsti da Trattati. Dalla motivazione, in altri termini, deve risultare
tutto l’iter che ha preceduto l’emanazione dell’atto e i contributi di tutte le istituzioni coinvolte.
Limitatamente agli atti legislativi, ricordiamo che essi devono essere dettagliatamente motivati sotto il
profilo del rispetto dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. In conformità al principio di
certezza del diritto, la possibilità di avere conoscenza delle norme stabilite negli atti di diritto derivato
dell’UE è un requisito fondamentale a garanzia dei destinatari. In questa prospettiva, l’articolo 297 TFUE
stabilisce l’obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, per gli atti legislativi e
non legislativi, che assumono a forma di regolamenti o direttive rivolti a tutti gli Stati membri. Le
raccomandazioni e i pareri non sono soggetti a tale pubblicazione. Gli atti soggetti a pubblicazione sulla
Gazzetta entrano in vigore, cioè iniziano a produrre i loro effetti giuridici, alla data da essi stabilita, o, in
mancanza, dopo una vacatio legis di venti giorni dalla pubblicazione. Gli atti dell’UE non soggetti a
pubblicazione, cioè le direttive volte a specifici Stati membri e le decisioni di portata individuale, vanno
invece notificati ai destinatari. È escluso che un atto dell’UE possa avere un effetto retroattivo. Le
deroghe al principio della irretroattività degli atti dell’UE sono state ammesse solo in via eccezionale e in
situazioni in cui l’atto non avrebbe potuto altrimenti raggiungere il suo scopo. Quanto alla firma, gli atti
adottati secondo la procedura legislativa ordinaria vanno firmati sia dal Presidente del Parlamento europeo
41. Il primato del diritto dell’UE sui diritti interni degli Stati membri.
Il diritto dell’UE è destinato a spiegare la sua efficacia nell’ambito degli Stati membri accanto ai diritti
interni di questi ultimi. Le norme dell’ordinamento dell’UE, pertanto, sono suscettibili di entrare in
conflitto con i diritti interni, nelle situazioni in cui si riscontri l’incompatibilità tra le rispettive discipline
normative. Questi potenziali conflitti sono stati risolti sulla base dell’affermazione del primato del diritto
42.2. Il diritto al risarcimento dei singoli per le violazioni del diritto dell’UE da parte degli Stati
membri.
Il principio generale dell’obbligo del risarcimento per le infrazioni al diritto dell’UE non trova
un’esplicita base normativa nei Trattati, e discende dall’opera “creativa” della Corte di Giustizia, a partire
dall’affermazione per cui questo principio è “inerente al sistema del Trattato”. Si tratta di un principio
considerato a pieno titolo tra i più rilevanti nell’ordinamento giuridico dell’Unione Europea. In generale, la
possibilità di agire per ottenere un risarcimento del danno si collega al ruolo chiave che i giudici nazionali
svolgono sia nella protezione delle posizioni dei singoli, sia, nell’assicurare il rispetto degli obblighi che il
diritto dell’UE pone in capo agli Stati membri. Sotto il primo profilo, il rimedio dell’azione che il
danneggiato può proporre contro uno Stato costituisce uno dei principali strumenti a disposizione del
giudice nazionale per garantire la tutela dei diritti nascenti dal diritto dell’UE in capo ai singoli. Sotto il
secondo profilo, ovviamente strettamente interconnesso, la tutela risarcitoria costituisce, insieme
all’efficacia diretta e all’obbligo di interpretazione conforme, uno tra gli strumenti potenzialmente più
efficaci con cui i privati possono concorrere a spingere gli Stati a garantire l’effettività del diritto dell’UE.
La pronuncia di riferimento, la famosa sentenza Francovich, riguardava la mancata trasposizione
nell’ordinamento italiano della direttiva che, a tutela dei lavoratori subordinati, prevedeva che ogni Stato
membro istituisse un fondo di solidarietà per il caso di insolvenza del datore di lavoro nel pagamento
delle retribuzioni. Oggi tale fondo in Italia è istituito presso l’INPS, ma per anni il nostro Paese è rimasto
inadempiente rispetto a questa disposizione di diritto dell’UE. Una serie di lavoratori dipendenti aveva
chiesto l’applicazione diretta delle previsioni della direttiva, e quindi la condanna dello Stato italiano a
pagare le somme in essa previste, anche in assenza della creazione del fondo suddetto. La Corte considerava
che le disposizioni della direttiva non avessero la sufficiente chiarezza e precisione per essere dotata di
efficacia diretta, in quanto non precisavano quale fosse il soggetto obbligato a garantire il pagamento. A
questa prima parte della sentenza, però, la Corte faceva seguire una seconda parte che ha avuto una portata
dirompente, ossia quella in cui ha affermato l’esistenza della responsabilità civile degli Stati membri nel
caso in cui commettano una violazione del diritto dell’UE che cagiona un danno a degli individui privati.
In tale pronuncia, quindi, il risarcimento si prestava ad essere letto come una sorta di compensazione
proprio per i casi in cui fosse inaccessibile il rimedio degli effetti diretti. Tuttavia, successivamente, nella
prima occasione utile, la Corte ha tenuto a precisare che la domanda di risarcimento può utilmente essere
proposta pure per la violazione di norme delle quali si può far valere la diretta efficacia. Particolare interesse
presenta la configurazione della tutela risarcitoria come un rimedio che non ha natura alternativa
rispetto all’efficacia diretta, bensì che si può cumulare ad essa. La tutela risarcitoria concerne infatti il
contenuto patrimoniale della pretesa del privato, e si può aggiungere alla tutela che l’efficacia diretta
offre in ordine alla pretesa sostanziale, nel caso Francovich la differenza tra le due pretese non era
evidente. Ma si possono verificare casi in cui la differenza è rilevante, come ad esempio è risultato chiaro
nella causa Brasserie du pecheur. In quest’ultima, la società attrice chiedeva di poter riprendere le
esportazioni verso la Germania della birra di sua produzione, che erano state sospese per la non conformità
della birra stessa ad una normativa tedesca, di cui era già stata accertata dalla Corte di Giustizia
l’incompatibilità con il divieto di misure restrittive alle importazioni sancito dall’articolo 34 TFUE. Quel
che qui interessa è che accanto a questa pretesa basata sulla disapplicazione della normativa nazionale
incompatibile con tale norma del TFUE dotata di efficacia diretta, l’impresa chiedeva che la Corte
riconoscesse il suo diritto ad essere risarcita per i mancati guadagni negli anni in cui le esportazioni della
birra le erano state impedite. Le azioni per ottenere la condanna dello Stato membro autore della violazione
devono essere proposte innanzi al giudice nazionale competente, che può ovviamente accordare
44. Il controllo sugli inadempimenti degli Stati membri attraverso il ricorso per infrazione.
La Corte di Giustizia esercita innanzitutto un controllo sul rispetto da parte degli Stati membri degli
obblighi derivanti dai Trattati o dagli atti dell’UE, con una competenza esclusiva. L’inadempimento
rispetto a tali obblighi può dare luogo ad una procedura d’infrazione contro lo Stato membro
inadempiente, su ricorso della Commissione o di un altro Stato membro. Questa forma di sindacato
giurisdizionale è un altro elemento che sottolinea quanto avanzata sia l’integrazione realizzata nell’UE
rispetto ad altre forme di organizzazione internazionale.
Nell’ambito dell’UE, la condizione di Stato membro comporta obbligatoriamente la sottoposizione alla
giurisdizione della Corte di Giustizia. In questa prospettiva, in particolare, gli Stati membri sono tenuti a
sottoporre alla Corte le loro controversie sull’interpretazione ed applicazione dei Trattati. Quindi non è
ammessa per gli Stati membri la possibilità “di farsi giustizia da sé” attraverso l’uso di contromisure
previste dal diritto internazionale. Gli articoli 258, 259, 260 TFUE contemplano la procedura generale di
controllo sugli inadempimenti degli Stati attraverso il giudizio sui ricorsi per infrazione. Lo Stato è da
considerarsi inadempiente qualora abbia violato qualsiasi norma del diritto primario o secondario dell’UE.
È attribuibile ad uno Stato membro la violazione commessa da parte di uno qualsiasi dei suoi organi,
nonché di enti locali o enti territoriali autonomi. Motivazioni di carattere interno non possono essere
adottate dagli Stati come scusanti dei loro inadempimenti e nemmeno la circostanza che la violazione non
abbia prodotto alcun danno o sia stata in colpevole e non intenzionale.
45. Il controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni dell’UE e il ricorso in carenza.
La funzione di controllo giudiziario nell’ambito dell’UE si esercita anche nei confronti degli atti delle sue
istituzioni, i quali possono essere sottoposti ad un giudizio di legittimità da parte della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, alle condizioni previste dagli articoli 263 e 264 TFUE. Questa funzione della Corte è
una manifestazione concreta ed evidente del rispetto della rule of law nell’ordinamento dell’UE, ossia del
fatto che le attività degli organi dotati dei poteri normativi ed esecutivi devono svolgersi nel pieno rispetto
del diritto dell’UE. Inoltre, questo potere di controllo in capo all’apparato giudiziario è un’altra
particolarità dell’ordinamento dell’UE sulla scena internazionale (nell’ONU, per esempio, non è previsto
un meccanismo per il controllo di legittimità degli atti dell’organizzazione).
La competenza ad annullare gli atti dell’UE è riservata alla Corte ed è preclusa ai giudici nazionali, i quali
non hanno potere di accertare la legittimità di un atto dell’UE che sono chiamati ad applicare, poiché
eventuali divergenze nelle decisioni dei vari giudici comprometterebbero l’unità dell’ordinamento giuridico
dell’UE e la certezza del diritto. Nel caso di un dubbio sulla legittimità di un atto dell’UE, il giudice
nazionale è tenuto a sottoporre alla Corte di Giustizia un quesito pregiudiziale di validità.
L’oggetto del ricorso alla Corte
Quanto all’oggetto del controllo di legittimità della Corte, ai sensi dell’articolo 263 TFUE esso si esercita
“sugli atti legislativi, sugli atti del Consiglio, della Commissione e della Banca centrale europea che non
50. Il difficoltoso percorso della giurisprudenza costituzionale; l’art. 11 e l’art. 117, comma 1, della
Costituzione.
Venendo alla giurisprudenza, il percorso dei nostri giudici costituzionali nell’affrontare il problema è stato
quantomeno travagliato. La Corte Costituzionale ebbe ad occuparsi per la prima volta della questione con la
sentenza del 1964, Costa contro ENEL, sulla questione di legittimità costituzionale cui si riferiva anche il
rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Con questa sentenza la Corte Costituzionale affermò che,
essendo stata data al Trattato CEE esecuzione con legge ordinaria, una legge ordinaria successiva, quale
era appunto quella sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica, poteva derogare al Trattato stesso in
ossequio al principio della successione nel tempo delle leggi. Tale sentenza, sebbene in quel momento
apparisse formalmente ineccepibile, era però inaccettabile per la Corte di Giustizia e per i nostri partners
comunitari, poiché erano leggi in contrasto con i Trattati.
Un’altra tappa di questo travaglio fu costituita dalla sentenza emanata dalla Corte Costituzionale, nel caso
Frontini. In questi casi, la Corte Costituzionale adottò la soluzione basata sull’interpretazione estensiva del
termine “limitazioni di sovranità” contenuto nell’articolo 11 della Costituzione. La Corte sostenne, infatti,
che il Trattato CEE fa parte di quelle forme di collaborazione internazionale cui si riferisce l’articolo 11
della Costituzione. Tuttavia, la Corte Costituzionale aggiungeva che la rilevazione di tale conflitto era
riservata ad essa; di conseguenza, la norma interna avrebbe continuato a spiegare tutta la sua efficacia fin
tanto che qualcuno avesse eccepito la sua incostituzionalità ed essa si fosse pronunciata in merito. La Corte
di Giustizia non poteva certo accettare che l’applicabilità del diritto comunitario in Italia restasse
condizionata ad un atto interno, quale era appunto la pronuncia della Corte Costituzionale. La sentenza
Frontini ebbe comunque il pregio di ravvisare nell’articolo 11 della Costituzione la disposizione centrale
per inquadrare le questioni del rango e dell’efficacia del diritto comunitario nell’ordinamento interno.
Dopo diversi anni dalla sentenza Frontini, con la sentenza del 1984 Granital, fece un deciso passo avanti,
riconoscendo la possibilità per il giudice nazionale, in base all’articolo 11 della Costituzione, di non
52. L’attuazione del diritto dell’UE nell’ordinamento italiano; il ruolo delle Regioni.