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Parte Generale Daniele unione eu

Diritto dell'Unione Europea (Università degli Studi di Padova)

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INTRODUZIONE LE ORIGINI E LO SVILUPPO DEL PROCESSO D'INTEGRAZIONE EUROPEA

1. Le esperienze di integrazione secondo il metodo della cooperazione intergovernativa.


1.1. Fondamentale per la vita delle istituzioni europee è il passaggio dal Trattato di Parigi del 1951, istitutivo della
Comunità europea del carbone e dell’acciaio, al Trattato di riforma firmato a Lisbona nel 2007.
L’ideale di un continente europeo non più diviso in tanti Stati perennemente in lotta tra di loro, si afferma sin dal
XIX sec. L’occasione per passare dai progetti alle realizzazioni concrete si presenta solo alla fine della seconda guerra
mondiale. Le distruzioni e le enormi perdite di vite umane causate dal conflitto, convincono i politici dell’epoca che
dar vita ad un processo d’integrazione europea è l’unico rimedio per evitare il ripetersi di eventi tanto luttuosi. Tale
movimento di idee, inizialmente prende piede solo tra gli Stati dell’Europa occidentale. Gli Stati dell’Europa orientale
danno vita a forme alternative di aggregazione militare (Organizzazione del Patto di Varsavia) ed economica
(Comecon) facenti riferimento all’Unione sovietica. Solo dopo la caduta del muro di Berlino (1989) e lo scioglimento
della stessa unione-sovietica (1991), tali Stati hanno cominciato a partecipare in misura sempre crescente alle forme,
di integrazione di matrice occidentale.
1.2. L’integrazione dell’Europa occidentale segue due metodi distinti: uno tradizionale ed uno più innovativo.
Il metodo tradizionale si fonda su quella che viene spesso definita la cooperazione intergovernativa: gli Stati
partecipanti cooperano tra loro come soggetti sovrani creando apposite strutture per organizzare tale cooperazione.
Le caratteristiche di questo metodo:
1. prevalenza di organi di Stati: negli organi principali dell’organizzazione siedono persone che agiscono quali
rappresentanti dello Stato d’appartenenza e seguono le direttive impartite dal potere politico di tale Stato;
2. prevalenza principio dell’unanimità: le deliberazioni degli organi principali dell’organizzazione vengono assunte
esclusivamente o prevalentemente all’unanimità, cosicché ciascuno Stato ha il potere di opporsi (diritto di veto);
3. assenza o rarità del potere di adottare atti vincolanti: le deliberazioni dell’organizzazione hanno
prevalentemente natura di raccomandazioni; le ipotesi in cui è prevista l’adozione di decisioni vincolanti nei
confronti degli Stati membri costituiscono l’eccezione e sono in genere subordinate al principio dell’unanimità.
Gli Stati dell’Europa occidentale seguono il metodo della cooperazione intergovernativa in diversi settori creando
numerose organizzazioni di tipo regionale.
1.3. In ordine cronologico, il primo settore in cui il metodo della cooperazione intergovernativa trova applicazione è
quello della cooperazione militare. La divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti e il rischio di aggressione da
parte del blocco orientale inducono gli Stati dell’Europa occidentale a costituire o a partecipare a due organizzazioni
di tipo militare, finalizzate a garantire la difesa collettiva in caso di attacco armato: la UEO e la NATO.
L’UEO (Unione dell’Europa Occidentale) viene fondata con il Trattato di Bruxelles del 1948. Ad essa aderiscono come
membri a pieno titolo (in tempi diversi) dieci Stati europei (Belgio, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo,
Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Regno Unito). Altri Stati partecipano ai lavori dell’organizzazione come osservatori e
altri ancora godono dello status di membri associati o di partner assodati, per un totale di 28 Stati. L’organo
principale è il Consiglio, composto, dai rappresentanti permanenti degli Stati o, quando si riunisce a livello
ministeriale, dai Ministri degli esteri e della difesa. Le deliberazioni sono prese all’unanimità. Lasciata a lungo in
quiescenza, la UEO è stata «rivitalizzata» nel 1984 con l’idea di farne lo strumento attraverso cui attuare la
componente relativa alla sicurezza e alla difesa comune della PESC. Tale prospettiva è stata poi abbandonata a
partire dal Trattato di Nizza del 2001.
La NATO (Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico), fondata con il Trattato di Washington del 1949 non è
un’organizzazione europea in senso geografico, posto che ad essa aderiscono anche Stati extra-europei: gli Stati Uniti
d’America e il Canada. Tuttavia, il teatro d’operazione più importante è costituito dal territorio degli Stati dell’Europa
occidentale. L’organo principale è costituito dal Consiglio del Nord Atlantico, composto dai rappresentanti
permanenti degli Stati membri o, quando si riunisce a livello ministeriale, dai Ministri degli esteri, dai Ministri della
difesa o dai capi di Stato e di Governo. Le decisioni sono prese all’unanimità.
1.4. Anche nel settore dell’integrazione economica il metodo della cooperazione intergovernativa trova importanti
applicazioni. L’occasione viene data dall’esigenza di gestire il Piano Marshall: piano di aiuti finanziari accordati dagli
Stati Uniti d’America all’Europa. È volto a favorire la ricostruzione economica ed il conseguente consolidamento
politico degli Stati europei usciti molto indeboliti dal secondo conflitto mondiale. L’erogazione degli aiuti viene
tuttavia subordinata alla condizione che la loro gestione avvenga in maniera coordinata fra tutti gli Stati beneficiari.
Per rispondere a tale condizione, un nutrito gruppo di Stati dell’Europa occidentale (Austria, Belgio, Danimarca,
Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Svezia,
Svizzera e Turchia) danno vita ad un’apposita organizzazione, l’OECE (Organizzazione europea per la Cooperazione
economica), istituita con il Trattato di Parigi del 1948.
L’organo principale dell’OECE è il Consiglio, in cui siede un rappresentante per ogni Stato membro (designato in
funzione della materia da trattare). Le deliberazioni sono adottate all’unanimità, salvo che il Consiglio stesso non
disponga altrimenti. Tra gli atti che il Consiglio può emanare figurano anche le decisioni che sono dotate di carattere
vincolante per gli Stati membri.
Esauritasi la funzione originaria, l’OECE avrebbe dovuto trasformarsi in una zona di libero scambio tra gli Stati
membri. Su questo fronte, tuttavia, si manifestano alcune divergenze. Alcuni Stati membri (Belgio, Germania,
Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) optano per forme d’integrazione economica ancora più avanzate dando
vita alle altre Comunità europee. Altri (Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Regno Unito, Svezia e Svizzera),
restano fedeli all’idea di una semplice zona di libero scambio e istituiscono, con la Convenzione di Stoccolma del
1960, l’Associazione europea di libero scambio (AELE, più nota con l’acronimo inglese EFTA).
Gli Stati membri dell’EFTA (tranne la Svizzera) hanno dato vita insieme alla Comunità europea allo Spazio economico europeo
(SEE), istituito con l’Accordo di Oporto del 1992. Successivamente la maggior parte di essi ha deciso di aderire alle Comunità
europee. Quanto all’OECE essa viene mantenuta in vita, ma il suo campo di attività viene rivolto verso obiettivi di cooperazione
economica globale e non più regionale. L’OECE viene dunque trasformata nell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico) con il Trattato di Parigi del 1960 al quale aderiscono anche gli Stati Uniti d’America e il Canada e
successivamente altri Stati non europei.

1.5. Circa l’integrazione europea nel settore della cooperazione politica, culturale e sociale, va ricordato il
Consiglio d’Europa, il cui Statuto è approvato a Londra nel 1949 da dieci Stati dell’Europa occidentale (Belgio,
Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito e Svezia: attualmente gli Stati
membri sono 46). Compiti ed obiettivi: conseguire un’unione più stretta tra i suoi membri; salvaguardare ed attuare
gli ideali ed i principi che costituiscono il loro patrimonio comune; facilitare il loro progresso economico e sociale.
L’organo principale è il Comitato dei ministri, nel quale siedono i Ministri degli esteri degli Stati membri o i loro
rappresentanti permanenti. Per le decisioni più importanti, è richiesta la presenza della maggioranza semplice dei
componenti e l'unanimità dei votanti.
Lo strumento d’azione principale consiste nel predisporre e favorire la conclusione di convenzioni internazionali tra
gli Stati membri, spesso aperte anche all’adesione di Stati terzi. Si tratta dunque di atti la cui entrata in vigore è
subordinata alla ratifica da parte dei vari Stati. Le convenzioni concluse nell’ambito dei Consiglio d’Europa sono
numerose e toccano i settori più svariati. Lo strumento più rilevante è la Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma nel 1950 (CEDU). Essa comprende, da un lato,
un catalogo dei diritti dell’uomo comune a tutti gli Stati contraenti e dall’altro, un meccanismo di controllo
internazionale del rispetto di tali diritti imperniato sulla Corte europea dei diritti dell’uomo. Pur non essendo
ancora parte contraente di tale convenzione, l’Unione europea dispone ora di una base giuridica che le permetterà di
diventarlo. Inoltre, i diritti garantiti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali.

2. L'integrazione secondo il metodo comunitario: le origini.


2.1 Il metodo della cooperazione intergovernativa permette agli Stati dell’Europa occidentale di conseguire in pochi
anni dalla fine della II guerra mondiale risultati importanti in campo militare, economico e politico-culturale. Gli
strumenti di tale cooperazione, tuttavia, presentano elementi di debolezza. Le organizzazioni europee sorte in quegli
anni, hanno la possibilità di agire efficacemente soltanto attraverso il consenso unanime di tutti gli Stati membri.
La necessità di superare il principio dell’unanimità e di attribuire alle proprie organizzazioni maggiore autonomia
induce taluni Stati europei a sperimentare forme di cooperazione innovative, dando vita a quello che è stato definito
il metodo comunitario. Le caratteristiche del metodo comunitario:
a) prevalenza degli organi di individui: le persone che siedono nella maggior parte delle istituzioni comunitarie
rappresentano se stesse, non lo Stato di cui sono cittadine, e sono portatrici di proprie opinioni e di proprie scelte,
che devono compiere in maniera indipendente;
b) prevalenza del principio maggioritario: il metodo comunitario ridimensiona il principio dell’unanimità anche per
le istituzioni composte da rappresentanti degli Stati membri (Consiglio), dando largo spazio alle deliberazioni a
maggioranza (per lo più qualificata);
c) ampiezza del potere di adottare atti vincolanti: il potere deliberativo dell’organizzazione non si esprime solo in
atti di natura raccomandatoria, bensì attraverso veri e propri atti vincolanti, che creano a carico degli Stati membri
obblighi aggiuntivi rispetto a quelli che gli Stati stessi hanno assunto concludendo i Trattati istitutivi;
d) sottoposizione degli atti delle istituzioni ad un sistema di controllo giurisdizionale di legittimità: proprio
perché le istituzioni sono dotate del potere di adottare atti vincolanti, è necessario che la legittimità di tali atti possa
essere sindacata, da un organo giurisdizionale inserito nella stessa struttura dell’organizzazione.
2.2 Il metodo comunitario nasce il 9 maggio 1950 (“giornata dell’Europa”). Quel giorno l’allora ministro degli esteri
francese Schuman rende un’importante dichiarazione (Dichiarazione Schuman); esprime la convinzione che «il
contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di
relazioni pacifiche», ma che «l’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme»; «essa sorgerà
da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto» (Europa dei piccoli passi).
Come prima tappa di questo percorso di graduale avvicinamento al traguardo di una «Federazione europea» il
Governo francese «propone di mettere l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una
comune Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei». La scelta del
settore carbo-siderurgico viene giustificata anzitutto dalla circostanza che la produzione di tali materie prime si
concentra nella fascia di confine tra i due Paesi, da sempre oggetto di contesa. Mettere in comune tali produzioni
significa quindi rimuovere causa di sanguinosi conflitti del passato.
Dal punto di vista istituzionale, la Dichiarazione contiene alcune importanti indicazioni. Il perno della nuova
organizzazione è costituito dall’Alta Autorità. Di essa si anticipa che sarà “incaricata del funzionamento dell’intero
regime»; che sarà «composta di personalità indipendenti designate su base paritaria dai governi»; che le sue decisioni
“saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno” e “esecutive in Francia, Germania e negli
altri paesi aderenti”; che “disposizioni appropriate, assicureranno i necessari mezzi di ricorso contro le decisioni
dell’Alta Autorità”. La proposta nasce, quindi, come un progetto franco-tedesco, aperto, però, ad altri Stati, primi fra
tutti gli Stati del Benelux (Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo), anch’essi produttori delle suddette materie e
soprattutto strategicamente interessati alla risoluzione dei conflitti franco-tedeschi. Quanto all’Italia, gli uomini di
governo del tempo, ed in particolare De Gasperi, consapevoli dell’arretratezza economica e dell'isolamento politico in
cui si trova l'Italia, vedono nel progetto franco-tedesco l’occasione per reinserire il nostro Paese nel gioco degli affari
europei ed internazionali. La proposta contenuta nella Dichiarazione Schuman viene, quindi, accolta da sei Stati:
Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. Sorge così la Piccola Europa. Altri Stati, tra i quali il
Regno Unito, rifiutano il progetto, ritenendolo non conforme ai rispettivi interessi nazionali. I sei Stati danno, quindi,
vita alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), istituita con il Trattato di Parigi del 1951.
2.3. Tratti originali della CECA. L’istituzione di un mercato comune del carbone e dell’acciaio, comprendente una
zona di libero scambio tra gli Stati membri, il divieto di discriminazioni tra produttori, acquirenti e consumatori, il
divieto di sovvenzioni e di aiuti statali alle imprese e il divieto di pratiche restrittive della concorrenza. Si basa su
quattro istituzioni:
 l’Alta autorità: ruolo centrale. Organo di individui, composto da un numero di persone pari a quello degli Stati
membri, nominate dagli stessi Stati di comune accordo e scelte in funzione della loro competenza professionale. I
membri dell’Alta Autorità devono agire in piena indipendenza. Dispone di poteri deliberativi assai penetranti.
Può emanare, oltre ai pareri, decisioni e raccomandazioni. Entrambi tali tipi di atti hanno effetti vincolanti nei
confronti dei destinatari che possono essere sia gli Stati membri sia le imprese del settore carbo-siderurgico. Le
decisioni vincolano in tutti i loro elementi, mentre le raccomandazioni vincolano solo negli scopi.
 il Consiglio speciale dei Ministri: composto da un rappresentante del governo di ogni Stato membro, ha
funzioni consultive rispetto all’Alta Autorità. Il parere del Consiglio è tuttavia vincolante per quelle materie in cui
è previsto che l’Alta Autorità deliberi su parere conforme del Consiglio.
 l’Assemblea comune: riunisce rappresentanti dei parlamenti nazionali e ha funzioni consultive
 la Corte di giustizia: esercita funzioni di controllo giurisdizionale sulla legittimità degli atti o dei comportamenti
delle istituzioni e, soprattutto, dell’Alta Autorità.
Il termine ente sovranazionale, è forgiato per definire la CECA: essa si presenta come ente detentore di poteri di
governo non riconducibili agli Stati nazionali (essi stessi ne sono soggetti), poteri che possono essere esercitati,
all’interno del territorio nazionale e nei confronti di soggetti ivi operanti.
2.4. La facilità con la quale la CECA entra in funzione e l’importante contributo da essa dato alla riorganizzazione
dell’industria carbo-siderurgica spingono i sei Stati fondatori a immaginare di poterne replicare il metodo in un altro
settore, questa volta molto più importante: la difesa. Viene pertanto rapidamente negoziato e firmato a Parigi nel
1952 il Trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa (CED). Esso prevede un organo indipendente, al quale
spetta il comando unificato delle forze armate di tutti gli Stati membri: il Commissariato. Nominato di comune
accordo dai governi degli Stati, tale organo, è affiancato da un Consiglio dei ministri, da un’Assemblea e da una
Corte di giustizia. Il Trattato CED non entra però mai in vigore a causa del rifiuto dell’Assemblea nazionale francese
di ratificarlo. Il rifiuto è legato soprattutto ad un vizio intrinseco della nuova Comunità. Aderendo alla CED, gli Stati
avrebbero trasferito ad un ente sovranazionale uno degli attributi essenziali della sovranità nazionale: il compito di
difendere il territorio nazionale con la forza armata. Tale trasferimento avrebbe comportato, a carico degli Stati
membri, una perdita radicale e immediata di sovranità, contravvenendo alla filosofia stessa dell’Europa dei piccoli
passi, consacrata nella Dichiarazione Schuman.
2.5 Dopo il fallimento della CED, seguono alcuni anni di stasi. L’iniziativa riprende in occasione della Conferenza di
Messina (1955), in cui si decide di rilanciare il processo di integrazione europea, costituendo un apposito comitato di
studio, presieduto dal ministro degli esteri belga Henri Spaak. Il comitato viene incaricato a formulare proposte per
allargare ad altri settori l’esperienza della CECA. Esso formula un duplice progetto. Da un lato, viene avanzata l’idea
di un mercato comune generale; dall’altra si prospetta la necessità di prevedere un regime speciale per alcuni
settori e in particolare per quello relativo all’uso pacifico dell’energia atomica. Il progetto porta alla firma a Roma, nel
1957, di due diversi trattati: il Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea (TCE) e il Trattato che
istituisce la Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA), detta anche Euratom. Le Comunità europee
diventano così tre. In seguito al Trattato sull’UE firmato a Maastricht nel 1992 (TUE), la denominazione della
maggiore delle tre Comunità è mutata in Comunità Europea (CE).
La struttura istituzionale delle due nuove Comunità rispecchia quella della CECA. Sono previste quattro istituzioni:
la Commissione (che corrisponde all’Alta autorità CECA), il Consiglio, l’assembla parlamentare e la Corte di giustizia.
L’equilibrio istituzionale è, però, molto diverso. L’integrazione comunitaria non riguarda più un singolo settore, bensì
abbraccia tutti i settori dell’economia. Va tenuto inoltre conto della diversa natura dei Trattati istitutivi. Il Trattato
CECA viene definito come un trattato legge, in quanto stabilisce in dettaglio la disciplina del mercato
carbosiderurgico. Il TCE è detto trattato quadro. Considerata l’ampiezza della portata di questo trattato, la
disciplina in esso contenuta è molto meno definita e si limita spesso all’enunciazione di obiettivi e principi che
devono poi essere attuati attraverso l’emanazione di atti normativi. Diversamente dall’Alta autorità, le istituzioni della
CE sono chiamate ad esercitare un vero e proprio potere di tipo legislativo.
Nella CE, come anche nella CEEA, l’organo centrale non è la Commissione equivalente all’Alta autorità, ma è il
Consiglio, al quale spetta l’adozione di quasi tutti gli atti.

3. Lo sviluppo dell'integrazione comunitaria europea: l'unificazione del quadro istituzionale e l'allargamento a


nuovi Stati membri.
All’indomani dei trattati firmati a Roma, il quadro dell’integrazione comunitaria europea comincia a presentare una
certa complessità: esso consta infatti di tre Comunità distinte (CECA, CE e CEEA), ciascuna dotata di proprie
istituzioni e di proprie regole di funzionamento.
I tentativi per semplificare la struttura cominciano subito. L’obiettivo è di pervenire alla fusione delle tre Comunità.
1° tappa: Convenzione su alcune istituzioni comuni delle Comunità europee. Per effetto di essa le tre Comunità
hanno in comune due istituzioni: Assemblea parlamentare e Corte di giustizia. Fin dall’inizio, quindi, queste due
istituzioni agiscono per tutte e tre le Comunità, esercitando, però, i poteri previsti da ciascun trattato istitutivo nelle
forme e nei modi definiti, a seconda che la materia di cui si occupano di volta in volta ricada nel campo
d’applicazione dell’uno o dell’altro trattato.
2° tappa: Trattato che istituisce un Consiglio e una Commissione unici delle Comunità europee, firmato a
Bruxelles nel 1965, grazie al quale viene posto termine alla pluralità di istituzioni esecutive. Anche nel caso del
Consiglio e della Commissione, i nuovi organi unici gestiscono i poteri derivanti dai tre trattati istitutivi, rispettando
le differenti discipline previste.
3° tappa: scadenza del Trattato CECA, avvenuta nel 2002. Il settore carbosiderurgico ormai rientra nel campo del
mercato comune generale disciplinato dal TCE.
L’esperienza comunitaria in senso proprio si conclude con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. La Comunità
Europea cessa di esistere come ente autonomo ed è incorporata nell’UE dalla quale era fino ad allora distinta. Di
conseguenza il TCE cambia titolo e diviene Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
La CEEA invece, sopravvive come ente autonomo.
3.2 Le Comunità hanno mosso i primi passi con sei Stati. Dal 1° gennaio 2007 gli Stati membri sono 27. In ordine
cronologico gli allargamenti sono stati, per ora, sei: il primo (1973) ha riguardato Danimarca, Irlanda e Regno Unito
di Gran Bretagna e d’Irlanda del Nord; il secondo (1981) la Grecia; il terzo (1986) Portogallo e Spagna; il quarto
(1995) Austria, Finlandia e Svezia; il quinto (2004) è stato il maggiore nella storia quanto a numero di Stati coinvolti:
Repubblica Ceca, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Ungheria; l’ultimo (2007)
ha riguardato Bulgaria e Romania. Inoltre il Consiglio europeo di Bruxelles del 2004 ha deciso che possono essere
avviati, i negoziati per l’adesione di Turchia e Croazia. Lo status di paese candidato è stato riconosciuto infine all’ex
Repubblica iugoslava di Macedonia dal Consiglio europeo di Bruxelles del 2005.
Anche l’Albania, la Bosnia-Erzegovina, il Montenegro, la Serbia e il Kosovo sono considerati candidati potenziali e
sono già sottoposti a diversi interventi da parte dell’UE nell'ambito della strategia di pre-adesione.

4. Segue: la riduzione del deficit democratico.


4.1. Grande problema che la struttura istituzionale ancora oggi presenta è costituito dal deficit democratico.
Così come era stata immaginata in origine, la struttura istituzionale non rispondeva ai principi sui quali sono basati
gli Stati moderni. In particolare, non risultava rispettato il principio della democrazia parlamentare o
rappresentativa, dal momento che l’istituzione dotata di maggiori poteri, era il Consiglio, composto dai
rappresentanti dei Governi degli Stati membri. Nel Consiglio pertanto viene rappresentato il potere esecutivo di
ciascun Stato membro e non quello legislativo. Per effetto di ciò, i rappresentanti dei poteri esecutivi degli Stati
membri, riuniti in sede di Consiglio, disponevano collegialmente, a livello comunitario, di poteri che, se esercitati a
livello nazionale, sarebbero stati prerogativa dell’organo parlamentare.
In ciò consisteva il problema del deficit democratico. L’Assemblea parlamentare (con l’Atto unico europeo ha assunto
la denominazione di Parlamento europeo) nasceva infatti con funzioni puramente consultive.
La presenza del Parlamento europeo, tuttavia, offriva una soluzione. Sarebbe, infatti bastato ampliare i poteri di tale
istituzione, in modo da controbilanciare i poteri del Consiglio. Il sistema si sarebbe così avvicinato ad una
configurazione di tipo bicamerale, in cui ad una camera dei rappresentanti degli Stati, costituita dal Consiglio, si
sarebbe contrapposta un’altra camera, costituita dal Parlamento europeo, composta dai rappresentanti eletti dai
popoli. Si è così assistito ad un lento ma inesorabile ampliamento dei poteri dell’istituzione parlamentare europea.
Il carattere duale o bicamerale del sistema appare infatti, necessario per tenere conto della duplice fonte di
legittimazione su cui l’azione dell’Unione si fonda:
- la volontà dei cittadini che si esprime attraverso l’elezione a suffragio universale diretto dei membri del
Parlamento europeo;
- la volontà degli Stati membri, che si esprime attraverso i rappresentanti dei rispettivi governi nel Consiglio.
Il Trattato di Lisbona ribadisce la logica della doppia legittimazione e la esplicita nell’art. 10 TUE: “il funzionamento
dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa” (par. 1). Il par. 2 chiarisce però che tale principio si attua in
due direzioni diverse e complementari. Da un lato «i cittadini sono direttamente rappresentati a livello dell’Unione nel
parlamento europeo» (c.1); dall’altro «gli Stati membri sono rappresentati nel Consiglio europeo dai rispettivi capi di
Stato o di governo e nel Consiglio dai rispettivi governi» (c.2 prima parte). La norma mette in risalto che anche dalla
rappresentanza degli Stati membri discende una forma indiretta di rappresentanza dei cittadini. I Capi di Stato o di
governo e i governi che rappresentano gli Stati membri nel Consiglio europeo e nel Consiglio sono infatti «a loro volta
democraticamente responsabili dinanzi ai loro parlamenti nazionali o dinanzi ai loro cittadini» (par. 2, ultima parte).
4.2 L’ampliamento dei poteri del Parlamento europeo è avvenuto per tappe.
Prima tappa: inizio degli anni ’70, quando vengono approvati ed entrano in vigore il Trattato firmato a Lussemburgo
e poi in rapida successione, il Trattato firmato a Bruxelles, noti come Trattati di bilancio. L’effetto combinato dei
due trattati è di attribuire al Parlamento europeo, che in precedenza svolgeva, anche in questa materia una funzione
puramente consultiva, ampi poteri in merito all’approvazione del bilancio unificato delle tre Comunità: il bilancio
viene infatti adottato congiuntamente dal Consiglio e dal Parlamento europeo.
Il motivo che porta a tale riforma è l’introduzione del sistema delle risorse proprie. Il bilancio comunitario non sarebbe più stato
alimentato mediante contributi versati da ciascuno Stato membro, ma attraverso risorse finanziarie autonome. La necessità di
assicurare che tali risorse fossero comunque soggette al controllo di un organo democratico impone l’ampliamento dei poteri del
Parlamento europeo sul bilancio comunitario.

4.3 Poco dopo si decide di dare attuazione ad una norma del TCE (art. 137) che consentiva il passaggio al suffragio
universale diretto per l’elezione dei membri del Parlamento europeo. In origine i membri erano designati da ciascun
Parlamento nazionale tra i rispettivi componenti. Benché, di per sé, l’attuazione dell’art. 137 non comporti alcuna
modifica di poteri, il Parlamento europeo diventa l’unica istituzione che possa vantare una legittimazione
democratica derivante dal voto popolare.
4.4 Si giunge alla firma dell’Atto Unico europeo (AUE) nel 1986. Circa i poteri del Parlamento europeo, due novità:
a) procedura di parere conforme che impedisce al Consiglio di approvare alcuni atti senza l’approvazione
parlamentare;
b) procedura di cooperazione che offre al Parlamento europeo maggiori opportunità per influire sulle deliberazioni
del Consiglio, essendo questo costretto, in taluni casi, a ricorrere al voto unanime per superare l’opposizione
parlamentare.
Nel 1992 viene firmato a Maastricht il Trattato sull’Unione europea (TUE). Esso aggiunge un’ulteriore procedura
decisionale, nella quale i poteri del Parlamento europeo divengono determinanti: la procedura di codecisione. In
essa può dirsi che si realizzi, in sostanza, un sistema bicamerale: nessuna delle istituzioni coinvolte è in grado di
imporre all’altra la propria volontà, di modo che l’atto eventualmente approvato è ascrivibile ad entrambe.
Il Trattato firmato ad Amsterdam nel 1997 estende il campo d’applicazione della procedura di codecisione a
numerosi altri settori originariamente sottoposti a diverse procedure decisionali. La procedura stessa viene inoltre
modificata e resa più rapida ed efficace.
Il Trattato di Lisbona permette di compiere ulteriori passi in direzione del rafforzamento dei poteri del Parlamento
europeo e, in generale, del carattere democratico dell’Unione. Da un lato si estende il campo d’applicazione della
procedura di codecisione, che viene ribattezzata procedura legislativa ordinaria. In particolare tale procedura viene
parzialmente introdotta anche nel settore della Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. D’altro lato,
per la prima volta i parlamenti nazionali sono chiamati dai trattati a svolgere un ruolo di controllo e di opposizione,
soprattutto per quanto riguarda l’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Tuttavia, anche dopo
il Trattato di Lisbona, per alcune materie di competenza dell’Unione, il Parlamento europeo mantiene funzioni
puramente consultive. Nel settore della Politica estera e di sicurezza comune (PESC) i poteri parlamentari sono poi
ancora più limitati. Il deficit democratico costituisce pertanto un problema non completamente risolto.
Nella sent. del 2009, sulla ratifica del Trattato di Lisbona, la Corte cost. Federale esamina i ricorsi di costituzionalità presentati da
alcuni parlamentari gruppi politici contro la legge di ratifica del trattato di Lisbona, contro la legge cost. che modifica l'art. 23
della legge fondamentale (corrispondente, grosso modo all'art. 11 della Cost. italiana) e contro la legge sulle rafforzamento dei
poteri del parlamento tedesco in relazione ai nuovi compiti previsti dal Trattato di Lisbona. I ricorsi sono accolti solo per quanto
riguarda l'ultima legge. In alcuni passaggi della sentenza, la Corte federale manifesta forti riserve circa il rispetto del principio di
democrazia da parte del sistema istituzionale dell'Unione nonostante le riforme introdotte dal trattato di Lisbona. Secondo la
Corte cost. infatti l'UE non ha ancora assunto "una struttura conforme al livello di legittimazione di una democrazia costituita in
forma statale", mancando di "un organo di decisione politica formato attraverso elezioni e uguali per tutti cittadini dell'Unione capace
di rappresentare in modo unitario la volontà popolare". In particolare la Corte ritiene che l'attuale ripartizione dei membri del
parlamento nazionale in contingenti per ciascuno Stato membro "non garantisce che alla maggioranza dei voti espressi corrisponda
una maggioranza dei cittadini dell'Unione" in quanto "il peso dei voti dei cittadini di uno Stato membro a basso grado di popolazione
può superare di circa 12 volte il peso dei voti dei cittadini di uno Stato membro ad alto grado di popolazione". Una tale situazione
sarebbe tollerabile in una seconda camera parlamentare come il Bundesrat nel sistema costituzionale tedesco, ma non
"nell'organo di rappresentanza del popolo". La ratifica del trattato di Lisbona è tuttavia conforme alla costituzione federale perché
l'Unione non è uno Stato e pertanto "la composizione del Parlamento europeo non deve rendere giustizia all'uguaglianza in modo
tale da rinunciare a ogni differenziazione nel peso del voto dei cittadini in funzione del numero della popolazione degli stati membri".

5. Segue: la riemersione della dimensione intergovernativa.


5.1 La riduzione del deficit democratico può essere vista come l’espressione di una tendenza volta a ravvicinare la
realtà istituzionale dell’Unione a quella di uno Stato moderno. Tale tendenza appare però contraddetta da una
diversa ed importante tendenza manifestatasi con prepotenza negli stessi anni: la riemersione della dimensione
intergovernativa. In effetti, l’ampliamento del campo d’applicazione dell’integrazione europea e l’aumento dei poteri
trasferiti dagli Stati al livello europeo non sono sempre avvenuti seguendo il disegno originale delle Comunità, ma si
è assistito ad un progressivo recupero di forme di cooperazione di tipo più classico, nelle quali i singoli Stati membri
detengono poteri interdittivi più consoni alla cooperazione intergovernativa che a quella comunitaria.
5.2 Un primo segnale in questo senso è stata l’istituzione del Consiglio europeo quale organo distinto dal Consiglio,
istituzione comunitaria.
Viene creato, al di sopra del Consiglio e dell’intera struttura istituzionale, il Consiglio europeo quale suprema istanza
politica incaricata di dare l'impulso necessario allo sviluppo dell’integrazione europea e di definirne gli orientamenti
politici generali. Ciò avviene, inizialmente, senza che il Consiglio europeo sia previsto dai trattati istitutivi, ma in via
di mera prassi. Successivamente nei trattati vengono inserite apposite norme che ne descrivono in maniera
estremamente sintetica la composizione e le funzioni. Dopo il Trattato di Lisbona il Consiglio europeo figura
addirittura tra le istituzioni dell’Unione e ad esso è dedicato l’intero art. 15 TUE.
La composizione: i Capi di Stato e di governo degli Stati membri. L’aggiunta prima del Presidente della Commissione
e poi, in seguito al Trattato di Lisbona, di un Presidente con un mandato di due anni e mezzo rinnovabile una volta
non ha cambiato la realtà delle cose: il potere deliberativo resta infatti riservato ai Capi di Stato e di governo. Le
deliberazioni vengono assunte per consenso (senza opposizione) salvo i casi in cui i trattati prevedano la maggioranza
qualificata. Esse sono estrinsecate soprattutto in atti non formali: le conclusioni della Presidenza.
5.3. Un altro campo in cui si è manifestata la riemersione della dimensione intergovernativa riguarda le deliberazioni
del Consiglio e, in particolare, le votazioni a maggioranza qualificata.
Una delle caratteristiche centrali del metodo comunitario di cooperazione è che le deliberazioni possono essere
assunte a maggioranza (generalmente qualificata) anche da parte dell’organo in cui sono direttamente rappresentati
gli Stati membri: il Consiglio. La possibilità che il Consiglio deliberi a maggioranza diviene essenziale soprattutto, in
seguito agli allargamenti conosciuti dalle Comunità e poi dall’Unione. In un Consiglio composto da ventisette
membri, il principio dell’unanimità porterebbe inevitabilmente ad una situazione di blocco decisionale. I trattati
prevedono infatti che in numerosi casi il Consiglio deliberi a maggioranza (raramente) semplice o (spesso) qualificata.
Tuttavia tale sistema di deliberazione ha sempre suscitato resistenze e profondi contrasti tra gli Stati membri.
Va ricordato il Compromesso di Lussemburgo. È una risoluzione adottata nel corso di una riunione straordinaria dei Ministri
degli esteri tenuta a Lussemburgo nel1966 circa l’applicazione del voto a maggioranza qualificata (evitata fino ad allora perché si
era ancora nel periodo transitorio). La risoluzione stabiliva che, qualora un membro del Consiglio facesse valere «interessi molto
importanti» del loro Stato, la discussione sarebbe proseguita per un «ragionevole lasso di tempo» al fine di pervenire a «soluzioni che
possano essere adottate da tutti i membri del Consiglio». In breve, si decideva che la votazione a maggioranza qualificata dovesse
essere rimandata o, addirittura preclusa, nel caso in cui il rappresentante di uno Stato membro lo richiedesse, facendo valere la
presenza di importanti motivi di interesse nazionale. Col passare degli anni e con l’aumentare del numero di Stati membri, il
compromesso di Lussemburgo sembra ormai caduto in desuetudine. A sorpresa il suo contenuto è stato tuttavia ripreso nell’art.
31 TUE, sulle deliberazioni del Consiglio adottate a maggioranza qualificata nell’ambito PESC.
Un’ulteriore decisione in materia era stata adottata in vista dell’adesione di Austria, Finlandia e Svezia. Si tratta del
Compromesso di Ioannina raggiunto nel1994. In questo caso si stabiliva che di fronte ad una minoranza di poco inferiore ad
una minoranza di blocco (cioè una somma di voti quasi sufficiente ad impedire il raggiungimento della maggioranza qualificata), il
Consiglio non passasse subito al voto, ma proseguisse la discussione, per un «tempo ragionevole» al fine di raggiungere una
soluzione che raccogliesse una maggioranza superiore al minimo necessario. Anche il Compromesso di Ioannina è stato preso a
modello dal Trattato di Lisbona nell’ambito della riforma del modo di calcolo della maggioranza qualificata.

Il principio maggioritario per quanto riguarda le deliberazioni del Consiglio, ha subito nel tempo dei
ridimensionamenti ed è stato circondato da «cautele» a favore degli Stati messi in minoranza.

6. Segue: dalle Comunità europee all'Unione europea


6.1. Anche l’istituzione dell’UE avviene inizialmente nel segno del metodo intergovernativo.
Con il passare degli anni, gli Stati membri avvertono il bisogno di estendere la loro cooperazione in settori
inizialmente non rientranti nel campo d’applicazione dei trattati. In molti casi, ciò si traduce nell’attribuzione di
nuove competenze alla Comunità europea attraverso apposite modifiche apportate al TCE.
Così l’AUE introduce quattro nuovi settori di intervento comunitario: ricerca scientifica e tecnologica, ambiente, ambiente di
lavoro e politica regionale. Il TUE ne aggiunge altri sette: cooperazione allo sviluppo, protezione dei consumatori, reti trans-
europee, sanità pubblica, industria, cultura e, soprattutto, l’Unione Economica e Monetaria. Con il Trattato di Amsterdam l’intero
settore dei visti, diritto di asilo, immigra zione e circolazione dei cittadini di Paesi terzi è ricondotto alla competenza comunitaria,
così come quelli dell’occupazione e della cooperazione doganale. Il Trattato di Nizza aggiunge un’ulteriore competenza comunitaria
in materia di cooperazione economica e finanziaria con i Paesi terzi. Anche il Trattato di Lisbona attribuisce alla competenza
dell’Unione nuovi settori: politica-spaziale, energia, turismo, protezione civile, cooperatone amministrativa.

L’ampliamento delle competenze materiali previste dal TCE comporta l’assoggettamento dei nuovi settori ai principi
del metodo comunitario. Per alcuni di tali settori sono talvolta previste modalità di esercizio particolari, il principio
maggioritario, il ruolo delle istituzioni composte da individui, la possibilità di adottare atti vincolanti e il controllo
giurisdizionale della legittimità degli atti da parte della Corte di giustizia sono in gran parte rispettati.
Non sempre però gli Stati membri hanno accettato di agire nel modo descritto. A partire dagli anni ’70, si assiste
anche all’affermarsi e allo svilupparsi di forme di cooperazione tra Stati membri, in qualche modo collegate con
l’attività delle Comunità, ma svolte secondo il metodo tradizionale della cooperazione intergovernativa, di modo che
gli stessi Stati si trovavano a cooperare tra di loro su due piani differenti, per quanto complementari.
6.2 Il settore più importante in cui ciò si verifica è quello della politica estera generale. Il TCE attribuiva alla
competenza (esclusiva) comunitaria soltanto alcuni aspetti della politica estera: in particolare quello attinente gli
scambi commerciali internazionali. Ciò implicava per gli Stati comunitari la necessità di un certo coordinamento
anche degli aspetti non commerciali della rispettiva politica estera, al fine di evitare contraddizioni e di accrescere
l’efficacia delle loro azioni sul piano internazionale. Questo coordinamento non avviene però in sede comunitaria,
preferendosi invece dar vita a periodiche riunioni dei ministri degli esteri o dei Capi di Stato e di governo, da tenersi,
ove possibile, a latere delle riunioni del Consiglio o, secondo i casi, nell’ambito di quelle del Consiglio europeo.
Seguendo percorsi simili, si dà avvio a forme di cooperazione nei settori della giustizia e affari interni.
6.3 Dopo un lungo periodo di gestazione, il TUE permette finalmente di compiere importanti passi in avanti e di
formalizzare la cooperazione già avviata.
Nel settore degli affari esteri il TUE istituisce la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC).
Alla PESC viene affiancata la cooperazione in materia di Giustizia e Affari Interni (GAI).
La PESC e la GAI, insieme alle (allora) tre Comunità, sono ricondotte ad una realtà comune, l’UE, al cui sviluppo le
varie componenti sono chiamate a contribuire. Tre pilastri dell’Unione:
1- cooperazione comunitaria
2- PESC
3- GAI
Benché distinti, i tre pilastri sono funzionalmente legati l’uno all’altro. Le stesse istituzioni operano nell’ambito di
tutti e tre i pilastri. Tuttavia le modalità d’azione restano molto diverse. In particolare nel secondo e terzo pilastro
inizialmente non vi è spazio per decisioni a maggioranza da parte del Consiglio, il ruolo della Commissione è meno
incisivo di quello del Parlamento europeo estremamente ridotto.
6.4 Ulteriori passi verso l’assimilazione tra i tre pilastri vengono compiuti con il Trattato di Amsterdam e, in minor
misura, con il Trattato di Nizza.
Da un lato, una parte consistente delle materie che fino ad allora rientravano nel pilastro GAI vengono trasferite nel
primo pilastro (visti, diritto d’asilo, immigrazione e circolazione delle persone) e vengono quindi comunitarizzate. Nel
terzo pilastro permane la sola Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Dall'altro, si assiste
all’introduzione parziale nel secondo e nel terzo pilastro di alcuni dei principi caratterizzanti del metodo comunitario.
In talune ipotesi e con determinate cautele a favore degli Stati in minoranza, il Consiglio, può deliberare anche a
maggioranza qualificata. Viene inoltre accentuato il grado di obbligatorietà degli atti che il Consiglio può adottare e,
per quanto riguarda il terzo pilastro, si manifesta una chiara tendenza ad assimilare gli atti che possono essere
adottati in quel contesto a quelli tipici comunitari. Nel terzo pilastro fa anche la sua comparsa (molto limitata) la
Corte di giustizia, che fino ad allora era stata tenuta fuori dalle forme di cooperazione non comunitarie.
6.5 La struttura a pilastri avrebbe dovuto essere soppressa con la riforma dei trattati prevista dal Trattato di
Lisbona. In realtà viene meno soltanto la distinzione tra primo e terzo pilastro. Infatti ciò che resta di quest’ultimo è
stato interamente ricondotto nel Titolo V del TUE, dedicato allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
Permangono invece notevoli differenze per quanto riguarda l'ex secondo pilastro (PESC) la cui disciplina è
interamente riservata al TUE, salvo poche eccezioni. La PESC rimane soggetta ad un regime speciale per quanto
riguarda le procedure decisionali, gli atti da adottare e la quasi totale assenza di competenza della Corte di giustizia.
7. Segue: l'Europa a più velocità
7.1 Sempre più frequente è il ricorso a forme di cooperazione differenziata (applicabile ad un numero ristretto di
Stati membri): fenomeno noto come Europa a più velocità talora definito anche come Europa à la carte, ovvero a
geometria variabile. Il fenomeno nasce come soluzione di ripiego cui ricorrere quando si constata che l'estensione
della competenza comunitaria ad un nuovo settore o la previsione di poteri d’azione comunitari più efficienti
(soluzioni che richiederebbero entrambe la revisione dei trattati e quindi l’accordo di tutti gli Stati membri), rischiano
di essere bloccate per l’opposizione di un numero molto limitato di Stati membri. In questi casi, si preferisce talvolta
rinunciare all’idea di un’integrazione uguale per tutti e permettere agli Stati che lo desiderano di andare avanti senza
gli Stati contrari, nella speranza che, col tempo, anche questi seguiranno.
7.2 Un primo esempio indirettamente riconducibile al fenomeno si realizza in ambito non comunitario, anche perché
riguarda in origine solo cinque Stati membri. Si tratta dell’Accordo relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle
frontiere firmato a Schengen nel 1985 da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi (altri Stati membri
hanno aderito più tardi), noto come Accordo di Schengen. Esso è finalizzato a ridurre drasticamente i controlli fisici
sulle persone alle frontiere, con misure di accompagnamento per coordinare la politica di immigrazione da paesi terzi
e la polizia degli stranieri.
La disciplina dell’Accordo e degli altri atti rientranti nel sistema dell’Accordo (acquis di Schengen) è stata integrata nel sistema
dell’UE a partire dal Trattato di Amsterdam ma sotto forma di Cooperazione rafforzata, in quanto ad essa rimangono estranei il
Regno Unito e l’Irlanda. Ciascuno dei due Stati membri può tuttavia notificare la propria intenzione di partecipare, in tutto o in
parte, all’acquis (opting-in) o di non partecipare a singole decisioni che costituiscano sviluppo di una misura dell'acquis vincolante
nei loro confronti (opting-out). La Danimarca, invece, partecipa all’acquis, ma non è vincolata da misure che sviluppano l’acquis,
salvo che notifichi l’intenzione di accettare tale misura (opting-in). Si precisa tuttavia che, nel, caso in cui tale Stato abbia
esercitato l’opting-in, la misura in questione “creerà un obbligo a norma del diritto internazionale tra Danimarca e gli altri Stati
membri vincolati da detta misura”.

7.3 Un secondo esempio di integrazione differenziata riguarda l’Unione Economica e Monetaria (UEM). Alla terza
fase dell’UEM, quella che comporta l’adozione dell’euro quale unica moneta avente corso legale non partecipano tutti
gli Stati membri. Per alcuni ciò è dovuto al mancato rispetto dei parametri previsti dall’art. 140 par. 1, TFUE. Il
Regno Unito e la Danimarca, grazie ad apposite clausole di opting-in possono decidere se aderire o meno alla moneta
unica, anche se rispettano i parametri citati.
7.4 Esempi simili si moltiplicano con il Trattato di Amsterdam. In particolare, attraverso appositi protocolli allegati al
TUE vengono previste a favore del Regno Unito, dell’Irlanda e della Danimarca clausole che consentono a tali Stati di
non essere vincolati, salvo loro diversa volontà, dalle misure comunitarie adottate in base al nuovo Titolo IV del TCE
nei settori dei visti, diritto d’asilo, immigrazione e circolazione dei cittadini di paesi terzi.
La posizione di estraneità dei tre Stati membri indicati viene confermata dal Trattato di Lisbona rispetto all’intero
Titolo IV del TFUE dedicato allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, che ha ad oggetto anche gli ultimi settori
che erano rimasti nel III pilastro: la cooperazione giudiziaria in materia penale e la cooperazione di polizia. Ciò
comporta, che Regno Unito, Irlanda e Danimarca, sono sottratti all’applicazione di atti dell’Unione anche in settori
per i quali in precedenza non godevano di alcun trattamento differenziato rispetto agli altri Stati membri.
7.5. Il Trattato di Amsterdam addirittura crea un apposito istituto di applicazione generale per permettere l’adozione
di iniziative d’integrazione limitate ad alcuni Stati membri: la cooperazione rafforzata. Ammessa inizialmente solo
nel primo e nel terzo pilastro, la cooperazione rafforzata viene estesa dal Trattato di Nizza anche alla PESC.
Il trattato di Lisbona, lungi dalla limitare il ricorso a forme di cooperazione differenziate, ne moltiplica gli esempi. Di questi, il più
grave appare il protocollo numero 30 sull'applicazione della carta dei diritti fondamentali dell'unione europea alla Polonia e
al regno unito. Attraverso questo strumento è consentito ai due stati membri in questione di accettare il carattere vincolante della
carta con alcune riserve che non si applicano agli altri stati membri.

8. Il Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa.


8.1. Negli ultimi decenni le riforme dei trattati si succedono con ritmo incalzante. Nel 1986 viene concluso l’AUE, nel
1992 il TUE, nel 1997 il Trattato di Amsterdam, nel 2001 il Trattato di Nizza e nel 2007 il Trattato di Lisbona.
La ragione di questo continuo ricorrere alla procedura di revisione è che nessuna delle riforme sono giudicate
sufficienti.
8.2 La genesi dell’ultimo trattato di riforma, quello di Lisbona, è particolarmente complessa. Il Trattato di Lisbona si
ricollega al Trattato di Nizza al quale è allegala in particolare, una Dichiarazione relativa al futuro dell’Europa. In
essa si delinea un percorso per avviare «un dibattito più approfondito e più ampio sul futuro dell’UE».
Il dibattito è chiamato ad affrontare alcune questioni che la dichiarazione stessa specifica e che sono state oggetto delle modifiche
previste dal Trattato di Lisbona: a) le modalità per stabilire e mantenere una più precisa delimitazione delle competenze tra l'UE e
gli Stati membri che rispecchi il principio di sussidiarietà; b) lo status della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, proclamata a
Nizza; c) una semplificazione dei trattati al fine di renderli più chiari e meglio comprensibili senza modificare la sostanza: d) il
ruolo dei parlamenti nazionali nell’architettura europea.

Il Consiglio europeo di Laeken, tenutosi nel 2001, approva un’ulteriore dichiarazione: Dichiarazione di Laeken, la
quale definisce con maggiore precisione le questioni da risolvere, articolandole in una serie di domande puntuali.
L’aspetto più interessante consiste però nell’aver deciso di convocare una Convenzione «composta dai principali
partecipanti al dibattito sul futuro dell’Unione» e con il compito di “esaminare le questioni essenziali che il futuro
dell’Unione comporta e di ricercare le diverse soluzioni possibili».
Oltre al Presidente e a due Vice-Presidenti, la Convenzione è composta da 15 rappresentanti dei Capi di Stato e di Governo degli
Stati membri (1 per Stato membro), 30 membri dei Parlamenti nazionali (2 per Stato membro), 16 membri del Parlamento europeo
e due rappresentanti della Commissione. Gli Stati candidati all’adesione sono rappresentati alle stesse condizioni degli attuali
Stati membri e partecipano alle deliberazioni, ma non possono impedire il consenso che si dovesse delineare fra gli Stati membri.
La dichiarazione prevede che, alla fine dei suoi lavori, la Convenzione redigerà un documento finale che «costituirà il
punto di partenza della Conferenza intergovernativa che prenderà le decisioni finali».

8.3 La Convenzione esegue il mandato ricevuto nel 2003, trasmettendo al Presidente del Consiglio europeo in carica
un progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa.
Nello stesso anno si aprono i lavori della nuova conferenza intergovernativa (CIG), che si trascinano fino a metà del
2004. Il Consiglio europeo tenutosi a Bruxelles nel 2004 approva infatti il testo del Trattato che adotta una
Costituzione per l’Europa che viene poi solennemente firmato a Roma il 29 ottobre 2004. Nonostante il ricorso al
termine Costituzione con il quale è generalmente designato, il testo firmato si presenta come un nuovo trattato di
natura del tutto simile a quella dei trattati precedenti, di cui è peraltro prevista la formale abrogazione.
Il testo è diviso in quattro parti. Nella 1° parte trovano posto norme generali riguardanti le competenze, le istituzioni, gli atti, e la
membership, ma anche norme in materia di cittadinanza, vita democratica e finanze. La 2° riproduce con modifiche minori, la
Carta dei diritti fondamentali dell’UE, diritti che “l’Unione riconosce”. La 3° costituisce un collage delle disposizioni del TCE e del
TUE che non hanno trovato collocazione nella prima parte, talora con rilevanti modifiche. La 4° contiene norme generali e finali
quali in particolare quelle sulla procedura di revisione ordinaria e sull’entrata in vigore.

8.4 Art. IV-447 par. 1, del Trattato cost. (corrisponde all’art. 54, par. 1, TUE), «il presente trattato è ratificato dalle
Alte Parti Contraenti conformemente alle rispettive norme costituzionali». Solo 18 Stati membri provvedono invece alla
ratifica o almeno ottengono l’autorizzazione parlamentare a procedere in questo senso. In Francia e nei Paesi Bassi si
crea invece una situazione di stallo a causa dell’esito negativo dei referendum popolari indetti in questi due paesi.
La scelta di sottoporre o meno a referendum popolare la ratifica del Trattato costituzionale dipende dall’ordinamento interno di
ciascuno Stato membro.

Anche altri Stati membri scelgono allora di sospendere le procedure di ratifica. Lo stesso Consiglio europeo, riunito a
Bruxelles nel 2005, decide una pausa di riflessione fino al secondo semestre del 2006, prolungata ulteriormente dal
Consiglio europeo di Bruxelles del 2006, fino al primo semestre 2007.

9. il Trattato di riforma di Lisbona.


9.1 Dopo aver infruttuosamente esplorato varie soluzioni alternative, gli Stati membri si decidono a riaprire le
trattative per predisporre un nuovo testo di trattato che sia in grado di ottenere l’approvazione, prima dei governi
degli Stati membri e poi dei parlamenti nazionali e degli elettori in caso di referendum. Tale scelta traspare dalla
Dichiarazione solenne che i Capi di Stato e di governo degli Stati membri rendono nel 2007 a Berlino, in occasione
della celebrazione del 50° anniversario della firma del TCE. I Capi di Stato e di Governo proclamano infatti di essere
«uniti nell’obiettivo di dare all’UE entro le elezioni del Parlamento europeo del 2009 una base comune rinnovata».
In seguito il Consiglio europeo di Bruxelles del 2007 decide di convocare una nuova CIG per definire il testo della
riforma. Contrariamente alla prassi, alla CIG viene assegnato un mandato estremamente preciso e dettagliato. Si
tratta soltanto di incorporare nel testo degli attuali TUE e TCE le innovazioni contenute nel Trattato costituzionale,
con le modifiche indicate nel mandato. Si è così giunti all’approvazione del nuovo Trattato che modifica il Trattato
sull’UE e il Trattato che istituisce la Comunità europea, firmato a Lisbona: Trattato di Lisbona.
9.2 Rispetto al Trattato costituzionale, il Trattato di Lisbona presenta vari elementi di continuità ma anche numerose
ed importanti differenze. Circa gli elementi di continuità, occorre ammettere che la maggior parte delle innovazioni
contenute nel Trattato costituzionale sono sopravvissute al passaggio nel Trattato di Lisbona, talvolta con qualche
modifica marginale. Ciò vale in particolare per le principali riforme istituzionali: dalla trasformazione del Consiglio
europeo in un’istituzione vera e propria; alla creazione di un Presidente stabile di questo organismo eletto per due
anni e mezzo; dalla nuova carica di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza; al rafforzamento
del ruolo del Presidente della commissione; dalla riduzione (a termine) della composizione del Parlamento europeo e
della Commissione; alla generalizzazione della procedura legislativa ordinaria, corrispondente alla vecchia procedura
di codecisione. Anche la struttura a tre pilastri su cui l’UE si reggeva è semplificata, se non abolita.
9.3 Numerosi ed importanti sono tuttavia anche gli elementi di discontinuità.
Anzitutto conviene partire dalla scelta di procedere ad una de-costituzionalizzazione della riforma e di privarla di
quelle caratteristiche di eccezionalità e di originalità che nelle intenzioni della Convenzione per il futuro dell’Europa,
avrebbero dovuto distinguerla dalle riforme precedenti. Questa scelta ha avuto numerose manifestazioni.
1- La prima ha carattere formale ma non di meno centrale. Il Consiglio europeo infatti, nell’incipit del mandato per
la CIG dichiara che «il progetto costituzionale che consisteva nell'abrogazione di tutti i trattati esistenti e nella loro
sostituzione con un unico testo denominato “Costituzione”, è stato abbandonalo.». Pertanto non si procede più
all’abrogazione del TUE e del TCE ma ci si limita ad emendarli. I trattati su cui è fondata l’Unione restano, come
adesso, due. Tuttavia, subiscono emendamenti di numero e portata rilevantissimi.
Il TUE è completamente riscritto. Il TCE addirittura cambia nome e natura. La soppressione della Comunità
europea come entità distinta non giustifica più un trattato a sé stante. Il TCE si trasforma perciò in Trattato sul
funzionamento dell’UE (TFUE) e diventa il contenitore di tutte quelle disposizioni che sono giudicate di livello
meno importante rispetto a quelle riservate al TUE.
2- La seconda manifestazione ha carattere terminologico. Non vengono più utilizzati alcuni termini che sembravano
alludere ad una natura superstatuale dell’Unione. Così i vocaboli «costituzione» e «costituzionale» sono banditi da
entrambi i trattati; la nuova figura di Ministro degli esteri dell'Unione assume la più modesta denominazione di
Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza; tra gli atti giuridici dell’Unione non figurano più
le leggi e le leggi quadro.
3- La terza manifestazione è di contenuto, e consiste nell’eliminare o attenuare alcune novità che avvicinavano il
nuovo trattato a una vera e propria «costituzione».
La de-costitutionalizzazione della riforma, costituisce la componente centrale della complessa strategia messa in
atto dal Consiglio europeo per evitare il ripetersi delle difficoltà incontrate dal Trattato cost. in sede di ratifica e di
rassicurare l’opinione pubblica degli Stati membri. Altre differenze rispetto al Trattato cost. sembrano essersi rese
necessarie soprattutto per tener conto dei ripensamenti in senso euro-scettico emersi nelle leadership di alcuni
Stati membri, dopo il fallimento del Trattato costituzionale. Il riferimento è all’inserimento nei trattati e negli
allegati protocolli, di una serie di meccanismi di garanzia a favore degli Stati membri. Tali meccanismi sono di
due tipi: alcuni consentono ad uno o più Stati membri di bloccare o ritardare l’assunzione di decisioni alle quali
siano contrari; altri permettono, ad uno o più Stati membri di sottrarsi all’obbligatorietà di certe parti dei trattati o
di certi atti delle istituzioni o ancora di accettare di esserne vincolati ma in maniera diversa (e meno intensa)
rispetto agli altri Stati (secondo la logica dell’Europa a più velocità).
L’esempio più flagrante di meccanismi di garanzia del primo tipo è dato dal nuovo sistema di calcolo della
maggioranza qualificata in sede di Consiglio. Le nuove regole di calcolo saranno definitivamente in vigore solo a
partire dal 31 marzo 2017. Inoltre tanto per il periodo fino a questa data che per quello successivo è stato
reintrodotto un meccanismo simile al Compromesso di Ioannina: un numero di Stati membri che rappresentano,
secondo il periodo, i 3/4 o il 55% della popolazione dell’Unione o degli Stati membri può chiedere una proroga della
discussione precludendo così al Consiglio la possibilità di passare subito alla votazione.
Quanto ai meccanismi di garanzia del secondo tipo, che permettono ad uno o più Stati membri di non essere
obbligati da certe disposizioni dei trattati o da certi atti delle istituzioni, la tendenza ad ammettere casi di
cooperazione differenziata, già presente nei trattati in vigore e nello stesso Trattato costituzionale, aumenta con il
Trattato di Lisbona e coinvolge anche profili molto importanti del diritto dell’Unione, come quello della tutela dei
diritti fondamentali, oltre che l’intero settore dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
Vanno annoverati, da un lato, la ripetuta affermazione del carattere reversibile del processo d’integrazione europea
e, dall’altro, la previsione di strumenti idonei ad impedire un'espansione incontrollata delle competenze dell’Unione.
Sotto il primo profilo, il Trattato costituzionale aveva già offerto un importante contributo, prevedendo, a favore di
ogni Stato membro il diritto di recesso unilaterale dai trattati.
Il Trattato di Lisbona ha inoltre inserito nei trattati piccole frasi o meri incisi che rivelano la presenza di una volontà
pronta a far compiere dei passi indietro piuttosto che dei progressi, all’Unione.
Circa il rafforzamento degli strumenti per impedire l’espansione della competenza dell’Unione, si fa riferimento
alle novità inserite nel Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità rispetto al testo
dell’analogo Protocollo allegato al Trattato cost.: si rafforza il potere di controllo e, indirettamente, di opposizione dei
parlamenti nazionali rispetto ad atti che, a loro avviso, non siano conformi ai principi di sussidiarietà.

10. Segue: la ritardata entrata in vigore del Trattato di Lisbona.


10.1 Come tutti i trattati che hanno modificato i trattati in vigore, anche il Tratto di Lisbona per entrare in vigore,
necessita della ratifica di tutti gli Stati membri, ratifica che avviene «conformemente alle rispettive norme
costituzionali». All’indomani della firma del Trattato di Lisbona, tutti si interrogano sul se le descritte differenze
rispetto al Trattato costituzionale si sarebbero rivelate in grado di evitare il ripetersi degli stessi problemi in sede di
ratifica. Sorprendentemente, problemi in sede di ratifica si sono avuti in alcuni Stati membri che avevano ratificato
senza difficoltà il Trattato costituzionale: l’Irlanda e la Repubblica ceca.
10.2 In Irlanda, nel 2008, gli elettori votano contro la ratifica in un primo referendum popolare. Successivamente il
Consiglio europeo riunito a Bruxelles, prima nel 2008 e poi, sempre a Bruxelles, nel 2009, adotta alcune misure che
permettono al Governo irlandese di indire un secondo referendum nel 2009: questa volta l’esito è favorevole.
Le misure concordate dal Consiglio europeo sono di due tipi.
1- si è stabilito che “a condizione che il trattato di Lisbona entri in vigore, sia adottata una decisione conformemente alle necessarie
procedure giuridiche affinché la Commissione continui a comprendere un cittadino di ciascuno Stato membro”. In altri termini il
Consiglio europeo si è impegnato a modificare per il periodo successivo al 31 ottobre 2014 l’art. 17, par. 5 TUE che prevede
una composizione ridotta della Commissione.
2- si è deciso di venire incontro a preoccupazioni manifestate dal Governo irlandese in merito a talune materie (politica fiscale,
diritto alla vita, all’istruzione e alla famiglia, politica di neutralità militare), adottando una decisione dei Capi di Stato e di
governo dei 27 Stati membri della UE, riuniti in sede di Consiglio europeo e una dichiarazione solenne sui diritti dei lavoratori,
sulla politica sociale e altre questioni, nonché, prendendo atto di una dichiarazione unilaterale dell’Irlanda, tutte allegate alle
conclusioni della Presidenza. In particolare la decisione si limita a rassicurare l’Irlanda che i trattati e la Carta dei diritti
fondamentali dell'UE non interferiscono con le autonome scelte del Governo irlandese in materia fiscale né con le disposizioni
della Cost. d’Irlanda nelle materie citate.
Analogamente, il Consiglio europeo ha operato, nella riunione di Bruxelles del 2009, di fronte al mancato
perfezionamento dell’atto di ratifica da parte della Repubblica ceca.
In questo caso è stato «convenuto di allegare, all’atto della conclusione del prossimo trattato di adesione e in conformità alle
rispettive norme costituzionali, un protocollo al trattato sull’UE e al trattato sul funzionamento dell’UE». Il protocollo in questione,
intitolato Protocollo sull’applicazione dei diritti fondamentali dell’UE alla Repubblica ceca, estenderà a questo Stato il Protocollo n.
30 e gli permetterà di applicare la Carta con le stesse riserve che sono già ora accordate alla Polonia e al Regno Unito.

10.3. Anche in Germania la ratifica del trattato di Lisbona è stato ritardata da un intervento della Corte
costituzionale federale.

11. La natura dell'Unione europea.


11.1 Definire quale sia la natura dell’UE costituisce senza dubbio una questione molto dibattuta.
La prima domanda che occorre porsi è se, soprattutto dopo le riforme del Trattato di Lisbona e la riconduzione
dell’intero processo di integrazione europea ad un ente unitario (l’Unione), dotato di personalità giuridica autonoma,
si sia formato un vero e proprio Stato europeo in sostituzione degli Stati membri.
La risposta a questa prima domanda è certamente negativa.
L’Unione non è uno Stato e, d’altra parte, gli Stati membri non hanno perso la loro statualità individuale.
Anche da un punto di vista empirico, non potrebbe sostenersi che l’Unione europea eserciti effettivamente un potere
completo di governo su un proprio territorio e su una propria popolazione. Al contrario, è incontestabile che,
nonostante i numerosi e pesanti vincoli imposti, dalla loro appartenenza all’Unione, gli Stati membri, ciascuno per il
proprio territorio e per la popolazione stanziata, continuano anche oggi a svolgere quasi tutte le funzioni essenziali di
controllo e di amministrazione che costituiscono gli attributi tradizionali della sovranità statuale.
11.2 La natura non statuale dell’Unione è legata ad alcune sue caratteristiche riscontrabili anche dopo il Trattato di
Lisbona. Viste in una prospettiva invertita, tali caratteristiche costituiscono limiti massimi di espansione del
processo di integrazione europea che le Costituzioni nazionali attuali possono, tollerare:
- la mancanza del potere di definire autonomamente le proprie competenze;
- la necessità del consenso unanime degli Stati membri per modificare i trattati.
La prima caratteristica è legata al principio d’attribuzione. A differenza di uno Stato, l’UE «agisce esclusivamente
nei limiti delle competenze che le sono attribuiti dai trattati e per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti». L’Unione non
gode pertanto della competenza della competenza, dipendendo l’estensione dei suoi poteri, ma anche gli obiettivi
che attraverso tali poteri deve perseguire, da quanto hanno deciso gli Stati membri nei trattati.
L'importanza di questa caratteristica porta le Corti cost. a guardare con sospetto quelle clausole che consentono un'espansione
delle competenze dell'Unione senza necessità di procedere ad una modifica dei trattati (che richiederebbe l'assenso di tutti gli Stati
membri). In particolare la Corte cost. federale tedesca, nella sentenza sul Trattato di Lisbona, si sofferma con attenzione sulla
nuova versione della clausola di flessibilità che consente all'Unione, entro certi limiti, l'adozione di azioni pur in mancanza di
un'esplicita attribuzione di poteri da parte dei trattati.

La seconda caratteristica attiene alla natura dei trattati. Se l’Unione fosse uno Stato federale, i trattati ne
rappresenterebbero la Costituzione e sarebbero pertanto modificabili attraverso procedure che richiedono
maggioranze particolarmente elevate a garanzia del principio democratico, ma non l’unanimità degli Stati membri. Il
fatto che invece tanto nella procedura di revisione ordinaria disciplinata nell’art. 48, par. 1-5 TUE, quanto in quelle
semplificate ci sia bisogno, seppure in forme diverse, del consenso unanime di tutti gli Stati membri dimostra come i
trattati abbiano ancora la natura di trattati internazionali conclusi da Stati sovrani. Questi rimangono perciò i
padroni dei trattati e ne decidono il destino, fino al punto di riservarsi il diritto di recesso unilaterale.
A questa caratteristica la Corte cost. federale attribuisce importanza determinante nella pronuncia del 1993, nota come
Maastricht Urteil. In una serie di ricorsi costituzionali contro la legge di ratifica della TUE si sostiene che il nuovo trattato
comporta una compressione permanente progressivamente sempre più ampia di poteri del parlamento tedesco; verrebbe così
violato il principio democratico di cui all'art. 38 della Legge fondamentale. La corte respinge i ricorsi proprio facendo leva sulla
constatazione che ciascuna modifica del TUE, sia essa adottata in base all'art. 48 TUE o in base alle procedure speciali
semplificate previste dai trattati, "presuppone tuttavia un'approvazione data dagli stati membri conformemente alle loro rispettive
regole costituzionali". Nella sentenza sul Trattato di Lisbona, il giudizio della Corte cost. federale non muta di fronte alle numerose
clausole previste da questo trattato per rendere più agevole la procedura da seguire per taluni tipi di modifica minoris generis dei
trattati, nella misura in cui tali clausole non prescindono dalla ratifica da parte del Parlamento di tutti gli stati membri. La corte
manifesta invece delle riserve per la procedura semplificata prevista dall'art. 48, par. 7. Tale procedura (passerella) consente al
Consiglio europeo, con delibera unanime, di prevedere che il Consiglio deliberi a maggioranza qualificata invece che all'unanimità
o che l'atto venga approvato secondo la procedura legislativa ordinaria invece che secondo una procedura legislativa speciale. La
procedura prevede che nei casi del genere ciascun Parlamento nazionale possa, entro sei mesi, comunicare la propria opposizione,
impedendo l'entrata in vigore della modifica. Secondo la Corte cost. federale, una modifica del tipo descritto comporterebbe una
perdita di controllo da parte del governo tedesco sul processo decisionale dell'Unione e richiede la ratifica da parte del Parlamento
tedesco ai sensi dell'art. 23 della Legge fondamentale. Il governo tedesco non può perciò votare a favore di una proposta in
applicazione dell'art. 48, par. 7, prima di aver ottenuto la ratifica parlamentare.

11.3. Escluso che l’Unione sia uno Stato, la seconda domanda che occorre porsi è se l’Unione costituisca nient’altro
che una forma, per quanto molto avanzata, di organizzazione internazionale, cioè un ente creato dagli Stati europei
per poter cooperare tra di loro su base stabile in determinati settori e per raggiungere obiettivi comuni, o se invece si
tratti di una figura intermedia che, pur non essendo ancora uno Stato, non è nemmeno più una semplice
organizzazione internazionale. Nella seconda ipotesi, l’Unione sarebbe una realtà originale, estranea agli schemi noti,
e dinamica, perché soggetta ad un continuo ed inesorabile processo di trasformazione e di rafforzamento.
Il quid pluris che sembra distinguere l’Unione (e prima di essa le Comunità) è costituito dal fatto che, in suo favore gli
Stati membri avrebbero trasferito «settori» o «porzioni» della propria sovranità. L’Unione sarebbe un ente titolare di
una sua sovranità, pur trattandosi di una sovranità parziale, perché limitata alle materie previste dai trattati, e
derivata, perché frutto di un conferimento ad opera degli Stati membri e non di un atto o fatto autonomo.
L'idea che già la CE fosse titolare di poteri sovrani traspare per la prima volta nel celebre passaggio della sent. del
1963, causa 26/62, Van Gend & Loos.
Nella causa che dà origine alla sentenza, un giudice olandese desidera sapere se un articolo del TCE (l'art. 12, ora abrogato, che
vietava agli stati membri di aumentare i dazi doganali esistenti al momento dell'entrata in vigore del trattato: clausola di standstill)
può essere invocato da un'impresa di import-export, che lamenta l'applicazione nei suoi confronti di un dazio maggiorato.
Smentendo la tesi del governo olandese, secondo cui l'art. 12, norma che disciplina i rapporti tra gli Stati membri, non può essere
invocata da un soggetto privato come Van Gend & Loos, la Corte di giustizia risponde affermativamente, affermando per la prima
volta l'efficacia diretta di una norma del TCE.

Secondo la corte "La comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto
internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, i loro poteri sovrani,
ordinamento che riconosce come soggetti non solo gli Stati membri ma anche i loro cittadini".
Nella visione della Corte, gli stati membri, concludendo il TCE ed istituendo la comunità non si sarebbero limitati ad
assumere reciprocamente una serie di impegni sul piano internazionale, ma avrebbero attribuito al nuovo ente
alcuni poteri sovrani. Il carattere sovrano di tali poteri deriverebbe dalla circostanza che l'ordinamento del nuovo
ente, come ogni ordinamento di tipo statuale, tocca direttamente anche cittadini ed esprime pertanto un potere di
governo, sia pure parziale di tipo essenzialmente normativo, su di loro.
La visione della Corte viene ribadita nella sent. del 1964, causa 6/64, Costa c. ENEL.
Il giudice conciliatore di Milano interroga la corte sulla compatibilità tra la legge di nazionalizzazione dell'energia elettrica e alcuni
articoli della TCE. Il governo italiano manifesta dubbi quanto all'utilità della questione, partendo dall'assunto che il giudice
nazionale comunque tenuto ad applicare la propria legge, anche se in contrasto con il trattato. La Corte respinge l'argomento,
enunciando per la prima volta il principio della primato delle norme del TCE rispetto alle norme nazionali.

La Corte afferma che "a differenza dei comuni trattati internazionali, il trattato CEE ha istituito un proprio ordinamento
giuridico integrato nell'ordinamento giuridico degli stati membri all'atto dell'entrata in vigore del trattato e che i giudici
nazionali sono tenuti ad osservare". Secondo la Corte, "istituendo una comunità senza limiti di durata, dotata di propri
organi, di personalità, di capacità giuridica, di capacità di rappresentanza sul piano internazionale ed in ispecie di
poteri effettivi provenienti da una limitazione di competenza o da un trasferimento di attribuzione degli Stati alla
comunità, questi hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani creato più di un complesso di diritto
vincolante per i loro cittadini per loro stessi".
11.4 Deve ammettersi che l’idea di una «specialità» della CE prima e dell’Unione ora e di una loro differenza
strutturale rispetto ad altri fenomeni di cooperazione organizzata tra Stati ha finito per essere accettata. Ne sono
testimoni le stesse Costituzioni degli Stati membri, le quali si sono dotate di apposite clausole europee» per
consentire la partecipazione al processo di integrazione; il trasferimento di competenze statali all’Unione. Se la
sottoscrizione dei trattati sulla Comunità/Unione rappresentasse null’altro che l’accettazione di vincoli internazionali
come tanti altri non si spiegherebbe la necessità di clausole del genere e soprattutto delle procedure di approvazione
particolarmente solenni e «aggravate» che quasi sempre tali clausole prescrivono. Nello stesso senso depone la
giurisprudenza delle Corti costituzionali nazionali. Invocando le menzionate clausole europee e quindi il fondamento
costituzionale della partecipazione dello Stato alla Comunità/Unione, le Corti hanno riconosciuto l’efficacia diretta e
il primato del diritto di fonte sovranazionale rispetto a quello di fonte nazionale.
La seconda domanda richiede una risposta positiva: l’Unione non è una semplice organizzazione internazionale,
ma è dotata, nei settori che sono stati attribuiti alla sua competenza o in alcuni di essi, di poteri assimilabili a quello
di un vero e proprio Stato. Ovviamente l’attuale assetto non è definitivo. Gli Stati membri potrebbero scegliere di
proseguire sul cammino di attribuire competenze sempre più numerose all’Unione, in maniera di rinunciare di fatto
o di diritto alla propria sovranità individuale. Viceversa gli Stati potrebbero decidere di sciogliere l’Unione ovvero uno
di essi potrebbe esercitare il diritto di recesso unilaterale. Fino ad allora però la realtà è quella di un’entità in via di
transizione che, senza essere uno Stato vero e proprio, gli somiglia sempre di più.

PARTE I
IL QUADRO ISTITUZIONALE

1. Considerazioni generali.
1.1. All’interno dell'UE, vi sono organi denominati istituzioni:
 il Parlamento europeo
 il Consiglio europeo
 il Consiglio
 la Commissione europea (Commissione)
 la Corte di giustizia dell'Unione europea
 la Banca centrale europea (BCE)
 la Corte dei Conti
All’'interno di alcune di queste istituzioni, possono essere qualificati come organi monocratici:
 il Presidente del Consiglio europeo;
 l'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (Alto rappresentante);
 il Presidente della Commissione.
Le istituzioni sono le stesse per l'intera Unione (e per la CEEA). Ne discende che l’insieme del sistema è gestito da un
quadro istituzionale unico, che non varia a seconda dei settori di attività, compresa la PESC, che pure è soggetta a
«norme e procedure specifiche». Tuttavia il ruolo e i poteri delle diverse istituzioni non sono sempre gli stessi ma
mutano notevolmente spostandosi da azione ad azione e da politica a politica.
Ad esempio, nella PESC il Consiglio europeo è l’Istituzione di maggior peso mentre la Corte di giustizia dispone di una competenza
limitata ad una singola ipotesi e la BCE non è affatto coinvolta.

Dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le disposizioni relative alla composizione, ai poteri e al
funzionamento delle istituzioni, che in passato si rinvenivano, per lo più, nel TCE, risultano ora distribuite tra il TUE
e il TFUE.
1.2. Istituzioni politiche = Parlamento europeo, Consiglio europeo, Consiglio e Commissione. Dette istituzioni,
svolgono funzioni di politica attiva, partecipando, seppur in misura diversa all’adozione di diversi tipi di atti, taluni
legislativi, altri di natura amministrativa, che modificano o integrano l’ordinamento dell'Unione.
Istituzioni di controllo = Corte di giustizia e Corte dei conti. La prima ha compiti di controllo giurisdizionale
sull’attività delle istituzioni politiche e, in misura minore, degli Stati membri; la seconda esercita il controllo contabile
sull’entrate e sulle spese delle istituzioni politiche.
La BCE è un'istituzione specializzata, dal momento che agisce solo nell'ambito dell'Unione economica e monetaria
(UEM) ed esercita la competenza esclusiva dell'Unione in materia monetaria per gli Stati che hanno adottato l'euro
come moneta comune.
1.3. Secondo l’art. 13, par. 1, I co., TUE, «l'Unione dispone di un quadro istituzionale che mira a promuoverne i valori,
perseguirne gli obiettivi, servire i suoi interessi, quelli dei suoi cittadini e quelli degli Stati membri, garantire la coerenza
l’efficacia e la continuità delle sue politiche e delle sue azioni». Le azioni svolte dalle istituzioni nell'ambito dei diversi
settori di competenza dell'Unione devono essere tra di loro coordinate secondo il principio di coerenza. Detto
principio assume particolare importanza per quanto riguarda l'azione esterna ed è infatti ribadito dall’art. 21 par. 3,
II co., TUE. L'azione esterna dell’Unione, infatti, si compone, da un lato della politica estera e di sicurezza comune
(PESC), e dall’altro delle altre azioni e politiche aventi livello esterno.
Ciascuna componente è soggetta a procedure e modalità proprie, ma è necessario che tutte contribuiscano al
raggiungimento degli obiettivi dell’azione esterna dell’Unione stabiliti dall’art. 21 TUE, ai sensi del quale la
responsabilità di assicurare il rispetto del principio di coerenza nell’ambito dell’azione esterna e tra questa e le
politiche “interne” dell’Unione è ripartita tra Consiglio e Commissione, con l’assistenza dell’Alto rappresentate.
Una particolare forma di coordinamento tra le attività della PESC e quelle rientranti negli altri aspetti dell’azione esterna
dell’Unione è prevista nel campo misure restrittive di tipo economico e finanziario da assumente nei confronti vuoi di stati
terzi, vuoi di persone o entità non statali. In casi del genere è prevista una sequenza di atti. In caso di interruzione o riduzione
delle relazioni economiche e finanziare con un o più paesi terzi adottata con decisione approvata in sede di PESC, “il consiglio,
deliberando a maggioranza qualificata, su proposta congiunta dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza e
della Commissione, prende le misure necessarie”, informandone il Parlamento europeo. Il par. 2 prevede che, se previsto da una
decisione PESC, il Consiglio possa, secondo la medesima procedura, adottare “misure restrittive nei confronti di persone fisiche o
giuridiche, di gruppi o di entità non statali”.

1.4. L’art. 13, par. 2, TUE, enuncia un altro importante principio: il principio dell’equilibrio istituzionale.
“Ciascuna istituzione agisce nei limiti delle attribuzioni che le sono conferite dai trattati, secondo le procedure,
condizioni e finalità da essi previsti”. Attiene ai rapporti tra le varie istituzioni e impone a ciascuna di esse di
rispettare le competenze attribuite dai Trattati alle altre istituzioni. La sua violazione trova apposita sanzione nel
vizio di incompetenza e comporta l’illegittimità dell'atto adottato da un'istituzione diversa da quella competente.
Significativa è la giurisprudenza in materia di ricorsi d'annullamento presentati dal Parlamento europeo. In origine non si
includeva tale istituzione tra i soggetti legittimati all’impugnazione. Dopo, la Corte ha adottato una soluzione favorevole al
Parlamento nella sent. del 1990, Parlamento europeo c. Consiglio. La Corte nel dichiarare ricevibile il ricorso del Parlamento,
afferma che, “il rispetto dell’equilibrio istituzionale comporta che ogni istituzione eserciti le proprie competenze nel rispetto di quelle
delle altre istituzioni” ed “impone altresì che possa essere sanzionata qualsiasi eventuale violazione di detta regola”. L'assenza nel
TCE di strumenti azionabili direttamente dal Parlamento per contestare un atto del Consiglio o della Commissione emanato in
spregio delle proprie prerogative è considerato dalla Corte alla stregua di una mera “lacuna procedurale che non può prevalere
sull’interesse fondamentale alla conservazione e al rispetto dell’equilibrio istituzionale voluto dai Trattati istitutivi delle Comunità
europee».

1.5. Altro principio enunciato dall’art. 13, par. 2 è dedicata al principio della leale collaborazione: “le istituzioni
attuano tra di loro una leale collaborazione”.
Un caso di applicazione del principio di leale collaborazione nei rapporti tra un'istituzione e un'altra è esaminato dalla Corte di
giustizia nella sent. del 1995, Parlamento europeo c. Consiglio, a proposito del comportamento non collaborativo del primo in
occasione di una richiesta di parere da parte del secondo.

Lo stesso principio è sancito dall’art. 4, par. 3, TUE, per quanto riguarda i rapporti tra l’Unione e gli Stati membri:
“in virtù del principio di leale collaborazione tra l'Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente
nell'adempimento dei compiti derivanti dai trattati”.
Nell’ordinanza del 1990, Zwartveld, la Corte si occupa del rifiuto opposto dalla Commissione di cooperare con il giudice istruttore
di Groningen (Paesi Bassi), in riferimento ad un procedimento penale avente ad oggetto presunte frodi nella gestione di fondi
comunitari.

1.6. Prima del Trattato di Lisbona, si riteneva che per le istituzioni valesse anche il principio del rispetto
dell'acquis.
La nozione (acquis) indica l'insieme di quanto è stato realizzato (acquisito) in un determinato momento storico sul
piano dell’integrazione europea: non solo i trattati e gli atti adottati dalle istituzioni, ma anche i principi generali e la
giurisprudenza della Corte di giustizia, nonché alcuni atti di natura politica quali le conclusioni del Consiglio
europeo e talune risoluzioni adottate congiuntamente o individualmente dalle istituzioni politiche.
Nel tempo si era affermato il principio secondo cui l’acquis deve essere rispettato, nel senso che non sarebbe stato
consentito approvare atti che costituissero un regresso rispetto all’obiettivo di una sempre maggiore integrazione. Il
principio avrebbe riguardato tanto gli Stati membri quanto le istituzioni. Dal primo punto di vista avrebbe
comportato l’impossibilità per gli stessi Stati membri di modificare i trattati in senso peggiorativo. Dal secondo punto
di vista, alle istituzioni non sarebbe stato permesso proporre e approvare atti regressivi. A questo profilo si riferiva
più volte il TUE nella versione precedente il Trattato di Lisbona.
Questo principio veniva applicato anche nel contesto dell'adesione di nuovi Stati membri. L'apertura della fase dei negoziati di
adesione era subordinata alla prova che ciascun stato è in grado, una volta entrato a far parte dell'Unione, di rispettare l’acquis.

È dubbio che il principio del rispetto dell’acquis sia stato confermato dal trattato di Lisbona.
Da un lato, l'art. 48, par. 1, TUE, consente ora che i trattati siano modificati nel senso di ridurre anziché ampliare le
competenze dell'Unione. Il nuovo testo prevede che i progetti intesi a modificare i trattati «possono, tra l’altro, essere
intesi ad accrescere o a ridurre le competenze attribuite all’Unione nei trattati».
D'altro lato, la parte dell'art. 3, I co., TUE che impegnava le istituzioni a rispettare e a sviluppare l’acquis, è stata
soppressa. Invece: l'art. 2, par. 2 seconda frase, TFUE che disciplina l'esercizio delle competenze concorrenti
dell'Unione, chiarisce, che “gli Stati membri esercitano nuovamente la loro competenza nella misura in cui l'Unione ha
deciso di cessare di esercitare la propria”. Sarebbe legittimo un atto dell'Unione che, derogando all’acquis, decidesse
di non esercitare più una competenza di tipo concorrente, con l’effetto di lasciare mano libera agli stati membri per
quanto riguarda la disciplina del settore interessato.
Si suppone che l'Unione potrebbe agire in questo senso solo in ossequio ad esigenze legate al rispetto del principio di
sussidiarietà.

2. Il Parlamento europeo.
2.1. L’istituzione originariamente denominata Assemblea, quindi Assemblea parlamentare, ha assunto la
denominazione di Parlamento europeo.
“Il Parlamento europeo è composto di rappresentanti dei cittadini dell'Unione». I membri sono eletti a suffragio
universale diretto. L'elezione dei membri del Parlamento europeo potrebbe avvenire «secondo una procedura
uniforme in tutti gli Stati membri o secondo principi comuni a tutti gli Stati membri». Le disposizioni necessarie sono
approvate secondo una procedura legislativa speciale che prevede le seguenti tappe:
a) iniziativa del Parlamento europeo;
b) delibera all’unanimità del Consiglio;
c) approvazione del Parlamento europeo;
d) approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali.
La durata del mandato è di cinque anni. Il numero dei membri, “non può essere superiore a 750, più il presidente» e “la
rappresentanza dei cittadini è garantita in modo degressivamente proporzionale, con una soglia minima di sei membri
per Stato membro» e una soglia massima di “novantasei seggi”. Il numero totale e la distribuzione dei seggi tra gli
Stati membri è disposta con una decisione del Consiglio europeo, adottata su iniziativa del Parlamento europeo e con
la sua approvazione.
L'iniziativa del Parlamento europeo prevedeva, in tutto 750 membri. Tuttavia, il Consiglio europeo di Bruxelles del
2007, riunitosi proprio alla vigilia della firma del Trattato di Lisbona, aveva portato il numero complessivo a 751,
stabilendo che il membro in più andasse all’Italia.
La composizione del Parlamento europeo per la legislatura 2009-2014 è stata resa assai complessa dalla circostanza che, al
momento del voto, il Trattato di Lisbona, non era ancora entrato in vigore e restava pertanto applicabile la composizione stabilita
dall'ultimo Atto di adesione. Sono pertanto risultati eletti 736 membri. Dopo l'entrata in vigore del Trattato, è stato necessario
adattare le rappresentanze di alcuni Stati membri. Ciò avrebbe comportato un aumento per le rappresentanze di alcuni Stati
membri (per un totale di 18 nuovi membri) ma una riduzione di quella tedesca. Per evitare che alcuni eletti dovessero cessare
anticipatamente il mandato parlamentare, il Consiglio europeo, ha emanato una dichiarazione in cui ha stabilito di adottare
misure transitorie, secondo le procedure giuridiche necessarie, perché la composizione totale del Parlamento europeo sia di 754
(invece che 751) per la sola legislatura in corso. Ciò richiederà la firma di un protocollo di modifica del Protocollo n. 36 sulle
disposizioni transitorie, secondo la procedura di revisione dell’art. 48, par. 1 TUE. Con risoluzione del 2010, il Parlamento
europeo ha dato parere favorevole al testo di un progetto in questo senso.

2.2. Tra gli organi del Parlamento europeo, particolare importanza assume il Presidente, il quale dirige i lavori del
Parlamento e lo rappresenta nelle relazioni internazionali, nella cerimonie, negli atti amministrativi e giudiziari.
Il Presidente è assistito da 14 vicepresidenti insieme ai quali costituisce l'Ufficio di Presidenza con funzioni consultive. I membri
del Parlamento sono organizzati in Gruppi politici. Il numero minimo di componenti è 25, provenienti da almeno 1/4 degli Stati
membri. I presidenti dei Gruppi con il Presidente dei Parlamento costituiscono la Conferenza dei presidenti, che decide
sull'organizzazione dei lavori e tiene i rapporti con le altre istituzioni e con i parlamenti nazionali.

Il Parlamento europeo lavora in aula (dove possono partecipare tutti i membri) o in commissione. Le commissioni
sono di due tipi: commissioni permanenti, previste in un allegato al regolamento interno e si ripartiscono gli affari
di cui l'istituzione è investita a seconda della materia; commissioni speciali e commissioni temporanee
d'inchiesta.
2.3. «Il Parlamento europeo esercita congiuntamente al Consiglio la funzione legislativa e la funzione di bilancio.
Esercita funzioni di controllo politico e consultive alle condizioni stabilite dai trattati. Elegge il presidente della
Commissione».
Le funzioni più importanti possono essere raggruppate in due categorie: funzioni di controllo politico e funzioni di
partecipazione all'adozione degli atti dell’Unione, in particolare quelli di natura legislativa.
2.4. Per esercitare le funzioni di controllo politico, il Parlamento dispone di numerosi canali attraverso i quali
riceve informazioni sull’operato delle altre istituzioni e, in misura minore, degli Stati membri e dei privati.
L'informazione regolare e periodica del Parlamento è assicurata dalla presentazione allo stesso di relazioni o rapporti
da parte di altre istituzioni e organi, soprattutto della Commissione. La più importante è la relazione generale annuale,
presentata dalla Commissione ed esaminata dal Parlamento.
Il Parlamento deve essere consultato regolarmente dall'Alto rappresentante “sui principali aspetti e sulle scelte
fondamentali della politica estera e di sicurezza comune e della politica di sicurezza e di difesa comune” e informato
“dell'evoluzione di tali politiche”.
Il Parlamento europeo dispone anche del potere di procurarsi autonomamente informazioni attraverso le
interrogazioni e le audizioni della Commissione, del Consiglio e del Consiglio europeo. Oltre questi canali di
informazione, definibili istituzionali, il Parlamento europeo può trarre informazioni e stimoli dall'iniziativa degli
individui. Sotto questo profilo, si segnalano tre strumenti di comunicazione tra il Parlamento e gli elettori:
1- le petizioni: il diritto di presentare petizioni al Parlamento «su una materia che rientra nel campo di attività
dell’Unione» spetta a qualsiasi cittadino dell'Unione, nonché a qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o
abbia la sede sociale in uno stato membro. Occorre tuttavia dimostrare che la materia oggetto della petizione
«concerne direttamente» l’autore.
2- le denunce: è possibile presentare al Parlamento denunce “di infrazione o di cattiva amministrazione
nell’applicazione del diritto dell'Unione » (dunque anche per comportamenti di Stati membri o di privati), riguardo
alle quali il Parlamento può decidere di istituire una commissione temporanea di inchiesta, eccetto «quando i fatti
di cui trattasi siano pendenti dinanzi ad una giurisdizione e fino all’espletamento della procedura giudiziale» (tanto
dinanzi alla Corte di giustizia dell'UE quanto dinanzi ai giudici degli Stati membri).
3- il ricorso al mediatore europeo: qualsiasi cittadino dell'Unione, nonché qualsiasi persona fisica o giuridica che
risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro può rivolgersi per lamentare “casi di cattiva amministrazione
nell'azione delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell'Unione salvo la Corte di giustizia dell'UE nell'esercizio
delle sue funzioni giurisdizionali”.
Il Mediatore europeo è una persona indipendente e autorevole nominata dal Parlamento europeo, che ne ha altresì
stabilito lo statuto. Una volta ricevuto un ricorso, il Mediatore effettua le proprie indagini e se ritiene che sussista
un caso di cattiva amministrazione, si rivolge all'istituzione interessata, che dispone di tre mesi per comunicare il
proprio parere. Sulla base delle risposte fornite, il Mediatore elabora una relazione che trasmette al Parlamento e
all’istituzione interessata. Di questa relazione viene informata anche la persona che aveva presentato il ricorso. Il
mediatore è dunque, privo di un potere coercitivo autonomo, ma può contare sul prestigio morale della propria
funzione per ottenere un intervento dell'istituzione interessata o, in difetto, del Parlamento.
A proposito del Mediatore va segnalata la sent. 2004, Lamberts, nella quale la Corte, confermando, sul punto, la sentenza del
Tribunale di primo grado, ha dichiarato ricevibile un ricorso per risarcimento proposto dal sig. Lamberts contro il Mediatore, per i
danni subiti in conseguenza del trattamento negligente di una denuncia.

2.5. Il Parlamento dispone anche di poteri sanzionatori solo nei confronti della Commissione. Essi si esprimono
nel potere di approvare una mozione di censura. In caso di approvazione, i membri della Commissione “si dimettono
collettivamente dalle loro funzioni”, con la precisazione che per quanto riguarda l'Alto rappresentante le dimissioni
riguardano solo “le funzioni che esercita in seno alla Commissione”.
La mozione di censura comporta, quindi, il dimissionamento d’ufficio dell’intera Commissione senza possibilità di
limitarne la portata a particolari membri.
La procedura per l’approvazione di una mozione di censura è di particolare solennità e complessità, trattandosi di uno strumento
estremamente grave. La mozione di censura, una volta presentata, può essere discussa solo dopo che siano trascorsi tre giorni dal
deposito, deve essere votata con scrutinio pubblico e approvata da 2/3 dei voti espressi e a maggioranza dei membri che
compongono il Parlamento. Nella storia, nessuna mozione di censura è stata mai approvata. In alcuni casi è stata invece
minacciata. Vanno ricollegate al rischio di intercorrere in una mozione del genere le dimissioni della Commissione presieduta da
Jacques Santer, in seguito ai sospetti di irregolarità di cui erano accusati alcuni membri.

2.6. Il controllo del Parlamento sull'operato del Consiglio invece non si traduce in poteri sanzionati e riveste perciò
carattere meramente morale.
In una prospettiva di democrazia parlamentare, questa situazione può apparir paradossale. L'organo parlamentare eletto dai
cittadini non è in grado di imporre il proprio volere all'organo che adotta le decisioni più importanti per l'Unione, ma che non può
vantare una legittimazione democratica diretta. Tuttavia un meccanismo di controllo parlamentare di questo tipo non è nemmeno
concepibile nel sistema dell’UE, dal momento che il Consiglio e i suoi membri non traggono la propria investitura da un voto
parlamentare (semmai sono responsabili di fronte ai rispettivi parlamenti nazionali). Parlamento e Consiglio, sono due istituzioni
tra di loro perfettamente pari-ordinate e perciò destinate a condividere poteri, piuttosto che a dipendere l’una dall’altra.

Considerata l'assenza di poteri nei confronti del Consiglio, il Parlamento, per tutelare le proprie prerogative ed
impedire che possano essere impunemente violate dalle altre istituzioni, è stato costretto a percorrere una via del
tutto inusuale per un'assemblea elettiva: ha dovuto utilizzare il sistema di controllo giurisdizionale previsto dai
trattati, presentando ricorso alla Corte di giustizia contro atti o comportamenti del Consiglio compiuti senza
rispettare i poteri parlamentari.
A partire dalla sent. del 1990, Parlamento europeo c. Consiglio (nota come sentenza Chernobyl), lo strumento più utilizzato dal
Parlamento europeo è il ricorso d'annullamento. Attualmente si include il Parlamento tra i ricorrenti privilegiati e gli viene
riconosciuto un diritto generale di ricorso, esercitabile anche quando non sia in gioco la salvaguardia delle prerogative
parlamentari.

3. Il Consiglio
3.1. Il Consiglio è un organo di Stati, in quanto composto da soggetti che rappresentano direttamente i singoli stati
membri di appartenenza. «Il Consiglio è composto da un rappresentante di ciascun Stato membro a livello ministeriale,
abilitato a impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto».
Non si esclude la possibilità che uno Stato membro si faccia rappresentare da membri di un governo regionale, sempre che in
base alla Costituzione di quello Stato, questi, abbiano «livello ministeriale,» (ciò si verifica in Stati ad ordinamento federale, come la
Germania). Quanto all’Italia, va segnalato l'art. 6, par. 1, della L. 131/ 2003 (Legge La Loggia) ai sensi del quale si prevede che,
nella materie spettanti alla competenza regionale in virtù dell'art. 117 par. 4 Cost. il «Capo delegazione», cioè la persona chiamata
a guidare la delegazione italiana che partecipa ai lavori del Consiglio e ad esprimere il voto a nome dell’Italia «può essere anche un
Presidente di Giunta regionale o di Provincia autonoma». La designazione compete comunque al Governo che opererà «sulla base di
criteri e. procedure determinati con un accordo generale di cooperazione tra Governo, Regioni a statuto ordinario e a statuto Speciale
stipulato in sede di Conferenza Stato-Regioni».
Il processo di formazione della posizione del Governo italiano nel Consiglio è ora oggetto di disposizioni che hanno lo scopo di
favorire un'ampia partecipazione di tutti gli organi e i soggetti interessati e, in particolare, di coinvolgere a) il parlamento, b) le
Regioni e le Province autonome, c) gli altri enti territoriali, nonché d) le parti sociali e le categorie produttive. A carico del
Presidente del Consiglio o del Ministro per il coordinamento delle politiche comunitarie è posto un obbligo di informazione,
soprattutto attraverso la trasmissione ai soggetti di cui sopra e ad organi rappresentativi degli stessi delle proposte di atti e degli
altri documenti preparatori. È previsto poi un obbligo di consultazione la cui portata varia a seconda del soggetto interessato.
Nel caso del Parlamento, l’art. 4 istituisce lo strumento della «riserva di esame parlamentare». Essa è apposta dal Governo in sede
di Consiglio e ha lo scopo di ottenere un rinvio delle deliberazioni, lasciando alle Camere un lasso di tempo (20 giorni) per
formulare osservazioni ed eventuali atti di indirizzo. Il Governo infatti non può procedere alle «attività di propria competenza» in
sede di Consiglio prima del decorso de termine. La riserva deve essere apposta in due casi: a) «qualora le Camere abbiano iniziato
l'esame di un progetto o di un atto»; b ) «in casi dì particolare importanza politica economica e sociale».
Nel primo caso essa è provocata dall’iniziativa del parlamento; nel secondo è il Governo che giudica necessario attivarla. Uno
strumento analogo è previsto dall’art. 5, per quanto riguarda le Regioni e le Province autonome, limitatamente all’ipotesi di “un
progetto di atto normativo comunitario che riguardi una materia attribuita alla competenza legislativa esclusiva” regionale. A
richiesta di una Regione o di una Provincia autonoma, sul progetto è convocata la Conferenza permanente di cui sopra, affinché
in proposito si raggiunga un'intesa. In casi del genere, la Conferenza può chiedere che il Governo apponga una “riserva di esame”,
con effetti e durata (20 giorni) analoghi alla riserva parlamentare.
Si danno alcune ipotesi in cui non tutti i membri del Consiglio hanno diritto di voto. Tali ipotesi corrispondono alla logica
dell’Europa a più velocità, in cui vi sono alcuni Stati membri che non partecipano a determinate azioni o politiche.
È prevista la nomina di un presidente per un periodo di due anni e mezzo, con deliberazione presa a maggioranza degli Stati
membri interessati. Si tratta di una sorta di Consiglio a formazione ridotta, dotato di presidenza stabile ma non chiamato ad
adottare veri e propri atti giuridici.

Diversamente dal Parlamento europeo ma soprattutto dalla Commissione, il Consiglio non è un organo permanente.
Esso si riunisce in formazioni tipizzate dalla prassi che agiscono secondo calendari differenziati e nelle quali gli Stati
membri si fanno rappresentare di volta in volta dal ministro competente per la materia dell'ordine del giorno.
L'art.16, par. 6, TUE, accentua la differenziazione tra le diverse formazioni del Consiglio, introducendo varianti sia
per quanto riguarda la composizione, sia per quanto riguarda le funzioni esercitate. L’articolo prevede direttamente
soltanto il Consiglio «Affari generali» (II co.) e il Consiglio «Affari esteri» (III co.). L'elenco delle «altre informazioni del
Consiglio» è invece stabilito con decisione del Consiglio europeo a maggioranza qualificata.
Funzioni del Consiglio «Affari generali»: «assicura la coerenza dei lavori delle varie formazioni del Consiglio; prepara
le riunioni del Consiglio europeo e ne assicura il seguito in collegamento con il Presidente del Consiglio europeo e la
Commissione». Il Consiglio Affari esteri ha invece il compito di elaborare «l'azione esterna dell’Unione, secondo le
linee strategiche definite dal Consiglio europeo», e di assicurare «la coerenza dell'azione dell’Unione». Esso è presieduto
dall'Alto rappresentante.
3.2. Dopo il Trattato di Lisbona, la disciplina della Presidenza del Consiglio è molto diversa, a seconda che si tratti
del Consiglio «Affari esteri» o di tutte le altre formazioni.
Per quanto riguarda il Consiglio “Affari esteri», nell'intento di assicurare maggiore stabilità e continuità alla
gestione dell'azione esterna dell’Unione, la Presidenza è attribuita in via permanente all'Alto rappresentante.
Per le altre formazioni, compreso il Consiglio “affari generali», è mantenuto invece il sistema precedente: la
Presidenza passa da uno Stato membro all'altro, secondo un sistema di «rotazione paritaria» alle condizioni stabilite
con decisione adottata dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata.
La presidenza “è esercitata da gruppi predeterminati di tre Stati membri per un periodo di 18 mesi». All'interno di tale periodo
«ciascun membro del gruppo esercita a turno la presidenza di tutte le formazioni del Consiglio, ad eccezione della .formazione «Affari
esteri” per un periodo di sei mesi», mentre gli altri membri del gruppo «assistono la presidenza in tutti i suoi compiti sulla base di un
programma comune». I gruppi sono composti «secondo un sistema di rotazione paritaria degli Stati membri, tenendo conto della loro
diversità e degli equilibri geografici nell’Unione».

La Presidenza ha anzitutto il compito di convocare le riunioni del Consiglio e di stabilirne l'ordine del giorno.
Rappresenta l'istituzione nella sua unità, firma gli atti del Consiglio, tiene i rapporti con le altre istituzioni.
Lo Stato membro che detiene la Presidenza in un determinato semestre svolge un ruolo molto importante, in quanto un suo
rappresentante presiede anche tutti i comitati la cui composizione riflette quella del Consiglio, compreso il COREPER. Sono esclusi
i comitati che si occupano di materie rientranti nella PESC, che sono presieduti da un rappresentante dell’Alto rappresentante.

3.3. I modi di deliberazione del Consiglio, sono:


 la maggioranza semplice (o assoluta);
 la maggioranza qualificata;
 l'unanimità.
Tra di essi, il modo normale di deliberazione è la maggioranza qualificata. La maggioranza semplice o l’unanimità
si applicano solo se lo prescrive la norma dei Trattati sui cui il Consiglio si basa per agire.
La definizione di cosa debba intendersi come maggioranza qualificata ha sempre costituito un tema delicato. La
disciplina sul punto ha subito numerose ed importanti modifiche nel tempo. Quella risultante dal Trattato di
Lisbona è il frutto di aspre discussioni tra gli Stati membri, che sono sfociate in una soluzione di compromesso
articolata in due fasi: prima e dopo il 1° novembre 2014.
Prima di questa data, dunque attualmente, si applica la disciplina che era stata già definita con il Trattato di Nizza e
che è stata temporaneamente mantenuta in vigore, essendo stata ripresa nell’art. 3, par. 3, del Prot. n. 36 sulle
disposizioni transitorie (sistema del Trattato di Nizza). Dopo questa data troveranno applicazione le nuove norme
(sistema del Trattato di Lisbona).
Nel sistema del Trattato di Nizza, la formazione della maggioranza qualificata richiede la presenza di 3 condizioni:
a) il raggiungimento di una soglia minima di voti ponderati pari a 255 (su 345), secondo una tabella di
ponderazione.
Si passa dai 29 voti ponderati assegnati a ciascuno, degli Stati membri «grandi» (Francia, Germania, Italia e Regno Unito) ai 3 di
Malta e ai 4 di Cipro, Estonia, Lettonia, Lussemburgo e Slovenia. Sproporzionalmente alto è il numero di voti ponderati assegnati
alla Spagna e alla Polonia nel corso della CIG che ha portato al Trattato di Nizza (27). Ciò ha reso difficile convincere i due Stati ad
accettare di modificare la disciplina in vigore, rinunciando alla loro situazione di privilegio.

b) Il voto favorevole di almeno la maggioranza dei membri, (attualmente 14) qualora le deliberazioni «in virtù del
presente Trattato, debbano essere prese su proposta della Commissione». Negli altri casi occorre il voto
favorevole di almeno 2/3 dei membri (attualmente 18).
c) gli Stati membri che compongono la maggioranza qualificata devono rappresentare almeno il 62% della
popolazione totale dell'Unione (quorum demografico).
La verifica del quorum demografico avviene solo se un membro del Consiglio lo richiede. Si suppone che avvenga
sistematicamente.
Secondo il sistema del Trattato di Lisbona “a decorrere dal 1° novembre 2014 per maggioranza qualificata s’intende
almeno il 55% dei voti dei membri del Consiglio, con un minimo di 15 rappresentanti Stati membri che totalizzano
almeno il 65% della popolazione dell'Unione». Per il raggiungimento della maggioranza qualificata saranno necessarie
due condizioni:
a ) un quorum numerico minimo, calcolato, tuttavia, secondo due parametri, distinti, entrambi obbligatori: i voti
favorevoli devono essere non meno di 15 e non meno del 55% del totale dei membri dei Consiglio (non meno del
72% qualora il Consiglio «non delibera su proposta della Commissione o dell'Alto rappresentante dell'Unione per gli
affari esteri e la politica di sicurezza»);
Attualmente i due parametri coincidono, posto che il 55% dei membri del Consiglio corrisponde a 15.
b ) un quorum demografico minimo: i voti a favore devono essere espressi in nome di Stati membri la cui
popolazione complessiva non sia inferiore al 65% della popolazione totale dell’Unione.
L'importanza del quorum demografico minimo, tuttavia, sarà limitata in materia di minoranza d i blocco. Si
stabilisce infatti che « l a minoranza di blocco deve comprendere almeno quattro membri del Consiglio; in caso
contrario la maggioranza qualificata si considera raggiunta”. Per tanto il mancato raggiungimento del quorum
demografico minimo non impedirà l'approvazione dell'atto qualora a votare contro siano i rappresentanti di non
più di tre Stati membri. Lo scopo è di evitare lo strapotere degli Stati demograficamente più importanti, che
potrebbero altrimenti bloccare le deliberazioni del Consiglio.
«Nel periodo dal 1° novembre 2014 al 31 marzo 2017, quando una deliberazione deve essere adottata a maggioranza qualificata, un
membro del Consiglio può chiedere che la deliberazione sia adottata in base al sistema del Trattato di Nizza. Ciò significa, che fino
al.31 marzo 2017, l'applicazione dei nuovi criteri potrà essere evitata da qualunque Stato membro che ritenga più conveniente per
i propri interessi l'applicazione dei vecchi criteri. È stato inoltre reintrodotto un meccanismo di proroga delle discussioni simile al
Compromesso di Ioannina.

L’altro sistema di deliberazione del Consiglio che ancora oggi è previsto con una certa frequenza è costituito
dall'unanimità. Quando i trattali richiedono l'unanimità, il voto contrario di un solo Stato membro è sufficiente ad
impedire l’approvazione. Al contrario, l’astensione non ha questo effetto. «Le astensioni dei membri presenti o
rappresentati non ostano all’adozione delle deliberazioni dei Consiglio per le quali è richiesta l’unanimità».
L’astensione costruttiva, particolare tipo di astensione, è prevista nell'ambito PESC.
3.4. Il Consiglio deve essere distinto dagli altri organi che hanno una composizione simile, se non identica.
Il TFUE si riferisce talvolta a decisioni che devono essere prese collegialmente dai rappresentanti degli Staiti
membri. Ad esempio, l'art. 253, I co., stabilisce: I giudici e gli avvocati generali della Corte di giustizia sono nominati
di comune accordo per sei anni dai governi degli Stati membri». Ugualmente l'art. 341 dispone: «La sede delle
istituzioni dell’Unione è fissata d’intesa comune dai governi degli Stati membri». Deliberazioni del genere non sono
perciò opera del Consiglio, ma dei governi degli Stati membri, i cui rappresentanti si riuniscono per assumere le
deliberazioni stesse. Nella prassi è invalso l'uso di indicare tali deliberazioni come decisioni dei rappresentanti dei
governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio e di pubblicarle nella GU. Tali atti non sono soggetti al
Controllo giurisdizionale della Corte di giustizia.
3.5. Anche il Comitato dei Rappresentanti Permanenti (COREPER) rispecchia la composizione del Consiglio. Esso
riunisce i rappresentanti diplomatici che ciascuno Stato membro accredita presso l'UE. La composizione è quindi
identica a quella del Consiglio per quanto riguarda la nazionalità dei membri, ma non per quanto riguarda la qualità
degli stessi trattandosi, nel caso del Consiglio, di persone di livello ministeriale, nel caso del COREPER, di
diplomatici.
Accanto alla formazione composta dai rappresentanti permanenti opera anche una seconda formazione cui partecipano i
rappresentanti permanenti aggiunti. Pertanto, a differenza del Consiglio, che costituisce un organo intermittente, il COREPER
assicura una notevole continuità di lavoro. Ciò gli consente di dialogare da pari a pari con la Commissione anch'essa permanente.

La presidenza spetta al rappresentante permanente dello Stato membro che esercita la presidenza di turno del
Consiglio. Il COREPER “è responsabile della preparazione del lavoro del Consiglio e dell'esecuzione dei compiti che
quest’ultimo gli assegna”. Esso può anche adottare «decisioni di procedura nei casi previsti dal regolamento interno del
Consiglio».
Il compito più importante consiste nell'esame preliminare di tutte le proposte che la Commissione vuole sottoporre al Consiglio.
Secondo l'art. 19 del reg. interno del Consiglio, « tutti i punti iscritti all'ordine del giorno di una sessione del Consiglio, formano
oggetto di un esame preliminare del COREPER» il quale «cerca di trovare un accordo al proprio livello che sarà sottoposto all'adozione
del Consiglio». In realtà il COREPER costituisce una sorta di filtro tra Consiglio e Commissione. Quando la Commissione intende
presentare una proposta al Consiglio, deva prima sottoporla all'esame del COREPER. Questo, una volta che la proposta sia stata
esaminata anche dal competente comitato tecnico (composto da un esperto per ciascuno Stato), delibera al riguardo. Se vi è
accordo unanime, la proposta viene inserita tra i punti A dell’ordine del giorno del Consiglio, il quale provvederà alla sua
approvazione senza discussione, a meno che non vi sia una specifica richiesta. Le altre proposte, invece, vengono inserite tra i
punti B, accompagnati da una relazione del COREPER, e necessitano di una preventiva discussione in seno al Consiglio.

3.6. «Il Consiglio è assistito dal segretariato generale, sotto la responsabilità di un segretario generale nominato dal
Consiglio».
3.7. Il Trattato di Lisbona ha istituito inoltre la carica di Alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la
politica di sicurezza (art. 18 TUE).
Attraverso la creazione della carica di Alto rappresentante, si è inteso aumentare la coerenza tra le varie componenti
dell’azione esterna dell'Unione, da un lato, riconoscendo all'Alto rappresentante il compito di guidare la PESC,
dall'altro attribuendogli un ruolo forte nell'ambito dei lavori sia del Consiglio “Affari esteri» che della Commissione. Le
funzioni dell’Alto rappresentante:
a) «guida» la PESC, con il compito di formulare proposte per l'elaborazione di tale politica e di attuarla in qualità
di “mandatario del Consiglio»;
b) presiede il Consiglio «Affari esteri»;
c) è uno dei Vicepresidenti della Commissione, incaricato «delle responsabilità che incombono a tale istituzione nel
settore delle relazioni esterne e del coordinamento degli altri aspetti dell'azione esterna dell'Unione».
Proprio in ragione della sua duplice qualità di organo del Consiglio e di membro della Commissione (doppio cappello),
la procedura di nomina dell'Alto rappresentante coinvolge sia il Consiglio europeo che il Presidente della
Commissione. La nomina spetta infatti al Consiglio europeo «a maggioranza qualificata con l'accordo del Presidente
della Commissione». La durata del mandato, non espressamente indicata, coincide con quella degli altri membri della
Commissione, salva la possibilità per il Consiglio europeo di porre fine anticipatamente al suo mandato, con le stesse
modalità applicabili alla nomina.
3.8. «Il Consiglio esercita, congiuntamente con il Parlamento europeo la funzione legislativa e di bilancio. Esercita
funzioni di definizione, delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite nei trattati».

4. I l Consiglio europeo
4.1. Come il Consiglio, anche il Consiglio europeo è un organo di Stati in quanto è composto da soggetti che
rappresentano direttamente i singoli Stati membri di appartenenza.
4.2 La composizione attuale è la seguente:
 Capi di Stato e di governo degli Stati membri (designati secondo il rispettivo ordinamento costituzionale);
 Presidente;
 Presidente della Commissione.
Inoltre è prevista la partecipazione ai lavori dell’Alto Rappresentante.
L'Alto rappresentante non è un vero e proprio membro del Consiglio europeo. La sua posizione è analoga a quella che, in passato,
spettava ai Ministri degli esteri degli Stati membri e al secondo membro della Commissione che assistevano Capi di Stato e di
governo e il Presidente della Commissione. La sostituzione dei Ministri con un solo Alto rappresentante si spiega in relazione al
fatto che quest'ultimo, presiedendo il Consiglio «Affari esteri», dovrebbe essere in grado di farsi portatore delle opinioni espresse
dai Ministri in quella sede. La partecipazione diretta dei Ministri ai lavori del Consiglio europeo non è però del tutto esclusa,
potendo ciascun membro decidere, «se l'ordine del giorno lo richiede” di farsi assistere da un ministro o, nel caso del Presidente
della Commissione, da un membro della Commissione.

Dal punto di vista del potere deliberativo, occorre distinguere tra componente formata dai Capi di Stato e di
governo, da un lato, e il Presidente e il Presidente della Commissione, dall'altro. In caso di deliberazione a
maggioranza "qualificata", votano soltanto i Capi di Stato e di governo.
4.3. Prima del Trattato di Lisbona, il Presidente del Consiglio europeo era il Capo di Stato o di governo dello Stato
membro che deteneva la presidenza del Consiglio secondo il sistema di rotazione semestrale in vigore in passato.
Per dare maggiore continuità ai lavori del Consiglio europeo è stata prevista un'apposita carica. La nomina è affidata
al Consiglio europeo con deliberazione a maggioranza qualificata. La durata del mandato è di due anni e mezzo,
rinnovabili una sola volta: nel complesso cinque anni, che corrispondono alla durata della legislatura del Parlamento
europeo e al mandato della Commissione.
Con la stessa procedura il Consiglio europeo può porre fine al mandato del Presidente «in caso di impedimento o colpa grave”.

Tra le funzioni si segnala quella consistente nell’assicurare «la preparazione e la continuità dei lavori del Consiglio
europeo, in cooperazione con il presidente della Commissione e in base ai lavori del Consiglio “Affari generali». Degna di
nota è anche la funzione di «rappresentanza esterna dell’Unione per le materie relative alla politica estera e di
sicurezza comune, fatte salve le attribuzioni dell'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di
sicurezza».
4.4. Il modo di deliberazione tipico del Consiglio europeo è il consenso. Esso si forma senza bisogno di votare,
quando nessuno dei membri si oppone al testo presentato dal Presidente. Il Trattato di Lisbona prevede però alcuni
casi in cui il Consiglio europeo può deliberare a maggioranza qualificata (ad es. per nominare il proprio Presidente).
In questi casi vale la stessa definizione applicabile al Consiglio. Il Presidente del Consiglio europeo e il Presidente
della Commissione non partecipano al voto.
4.5. «Il Consiglio europeo dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità
politiche generali ». Il Consiglio europeo “non esercita funzioni legislative».
Il Consiglio europeo è dunque il supremo organo di indirizzo dell'Unione.
Dopo il Trattato di Lisbona, il Consiglio europeo è molto più di un organo di mero indirizzo. I trattati gli assegnano
infatti compiti decisionali veri e propri che incidono direttamente sulla vita e sull'operare dell’Unione.
In alcune ipotesi, il Consiglio europeo si delinea sempre più come una sorta di presidenza collegiale dell’Unione,
interprete dell’interesse di ciascuno Stato membro.
In altre ipotesi, il Consiglio europeo si atteggia come organo dotato di poteri di tipo costituzionale, essendo
chiamato ad assumere decisioni che integrano o danno attuazione a talune disposizioni dei trattati e, in altri casi,
hanno addirittura l'effetto di sostituirsi ad alcune loro disposizioni.
Il Trattato di Lisbona infine moltiplica rispetto alla situazione precedente, le ipotesi in cui il Consiglio europeo opera
come una sorta di istanza d'appello rispetto al Consiglio. In taluni settori il Consiglio europeo può essere adito da
uno Stato membro che non intenda subire una decisione presa a maggioranza qualificata, ottenendo di bloccare o di
rinviare la decisione. Esempi del genere sono previsti del settore della PESC e nel settore della Cooperazione
giudiziaria in materia penale.

5. La Commissione
5.1. La Commissione è un organo di individui, essendo composta da persone che non sono legate da un vincolo di
rappresentanza ad uno Stato membro, ma portano nell'istituzione la propria esperienza professionale e la propria
autonoma facoltà di giudizio.
La composizione dell'istituzione ha subito nel tempo numerosi cambiamenti ed è ancora oggi oggetto di discussioni.
In origine il numero totale era fissato dal TCE. Tale numero era superiore a quello degli Stati membri e la prassi
attribuiva agli Stati maggiori due membri.
La Commissione entrata in funzione il 1° novembre 2004, comprendeva solo un cittadino per ogni Stato membro. In
seguito all'adesione di Bulgaria e Romania, il collegio veniva allargalo a 27 membri, compreso il Presidente.
Il Protocollo cit. stabiliva però che, a partire dal momento in cui l'Unione avesse avuto 27 Stati membri, il numero dei
membri sarebbe stato inferiore a quello degli Stati e che il Consiglio avrebbe fissato all’unanimità tanto il numero
totale quanto il sistema dei seggi disponibili.
Il Trattato di Lisbona conferma l'idea di una riduzione del numero dei membri ma ne differisce l'applicazione alla
Commissione che dovrà entrare in funzione il 1° novembre 2014. L'art 17 TUE stabilisce infatti un regime transitorio
ed uno definitivo.
Il regime transitorio mantiene lo status quo fino al 31 ottobre 2014, prevedendo una Commissione composta da “un
cittadino di ciascuno Stato membro, compreso il Presidente e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la
politica di sicurezza, che è uno dei vicepresidenti». Il regime definitivo, applicabile per la Commissione che entrerà in
funzione dal 1° novembre 2014, prevede che il numero dei membri sia pari ai «due terzi del numero degli Stati membri»
(sempre compresi il presidente e all'Alto rappresentante) «a meno che il Consiglio europeo non decida all'unanimità di
modificare tale numero».
I membri della Commissione devono soddisfare i requisiti relativi alla loro indipendenza e alla loro professionalità.
Il mandato dei membri della Commissione dura 5 anni. La durata è stata armonizzata con quella del mandato dei
membri del Parlamento europeo, di modo che un nuovo Parlamento abbia tra i suoi primi compiti quello di
partecipare alla nomina di una nuova Commissione. Il mandato dei singoli membri o dell'intera Commissione può
terminare anticipatamente. Ciò può avvenire in caso di dimissioni individuali o collettive o pronunciate d'ufficio da
parte della Corte di giustizia per violazione degli obblighi derivanti dalla loro carica. La fine anticipata del mandato
può, altresì, verificarsi in casi di approvazione di una mozione di censura da parte del Parlamento.
5.2. La procedura di nomina è cambiata notevolmente nel corso degli anni.
In passato era dominata dagli Stati membri, i quali di comune accordo, nominavano tutti i membri della Commissione. Nel tempo
il ruolo del Parlamento europeo è diventato altrettanto determinante e la procedura è stata ricondotta nell'ambito istituzionale,
sostituendo il comune accordo degli Stati membri con deliberazioni del Consiglio europeo e del Consiglio a maggioranza
qualificata.

La procedura distingue la posizione del Presidente della Commissione rispetto a quella degli altri membri.
1° fase: ha ad oggetto l’individuazione del solo candidato alla carica Presidente. Tale individuazione viene effettuata
dal Consiglio europeo che decide a maggioranza qualificata, «tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo e dopo
aver effettuato le consultazioni appropriate».
2° fase: consiste nell’elezione del candidato Presidente da parte del Parlamento europeo.
3° fase: ad essa partecipa il Presidente eletto; consiste in una deliberazione del Consiglio (presumibilmente nella
formazione del Consiglio «Affari generali»), «di comune accordo con il Presidente eletto”, con la quale adotta l’elenco
delle altre personalità selezionate in base alle proposte presentate dagli Stati membri, che propone di nominare
membri della Commissione. Per la decisione del Consiglio è richiesta l'unanimità.
4° fase: in essa, il Presidente, l'Alto rappresentante e gli altri membri della Commissione «sono soggetti
collettivamente ad un voto di approvazione da parte del Parlamento europeo».
5° fase: è affidata al Consiglio europeo che, sempre a maggioranza qualificata, nomina la Commissione.
5.3. Il Presidente della Commissione riveste un ruolo centrale.
Ha gli attribuisce il compito di definire, oltre agli orientamenti della Commissione, anche la sua «organizzazione
interna, per assicurare la coerenza, l'efficacia e la collegialità della sua azione». Inoltre al Presidente spetta nominare i
Vicepresidenti, fatta eccezione per l'Alto rappresentante (che è già Vicepresidente). Ha anche il compito di ripartire le
competenze tra i membri della Commissione, salvo per quanto riguarda l'Alto rappresentante. Ancora più signifi-
cativo è il potere del Presidente di obbligare un membro a rassegnare le dimissioni.
Il Presidente inoltre è membro del Consiglio europeo.
Nei confronti dell'Alto rappresentante, il Presidente può soltanto chiederne le dimissioni ma ogni decisione in merito va presa dal
Consiglio europeo. Non è chiaro se il Consiglio europeo è obbligato a dare seguito all'eventuale richiesta del Presidente. Ciò lascia
spazio per possibili conflitti tra le sue cariche.

5.4. Le deliberazioni della Commissione vengono prese a maggioranza del numero dei suoi membri. Si tratta di un
organo collegiale, all’interno del quale esiste un'ampia delega di funzioni ai singoli membri. L'attività della
Commissione è in effetti suddivisa in varie Direzioni generali. Ciascun membro ha la responsabilità di una o più
direzioni generali.
5.5. I compiti della Commissione: «promuove l'Interesse generale dell'Unione e adotta le iniziative appropriate a tal
fine. Vigila sull'applicazione dei trattati e delle misure adottate dalle istituzioni in virtù dei trattati. Vigila
sull’applicazione del diritto dell'Unione sotto il controllo della Corte di Giustizia dell’UE. Dà esecuzione al bilancio e
gestisce i programmi. Esercita funzioni di coordinamento, di esecuzione e di gestione, alle condizioni stabilite dai
trattati. Assicura la rappresentanza eterna dell'Unione fatta eccezione per la politica estera e di sicurezza comune e per
gli altri casi previsti dai trattati. Avvia il processo di programmazione e pluriennale dell'Unione per giungere ad accordi
interistituzionali» .
La Commissione è il vero motore nonché interprete dell'interesse generale dell’Unione. Il potere esclusivo di
proposta spetta alla Commissione: il procedimento legislativo non può nemmeno iniziare senza una sua proposta,
salvo i casi in cui i trattati dispongano diversamente.
Tra i vari compiti, l'attenzione va richiamata su quello che consiste nel vigilare “sull’applicazione dei trattati e delle
misure adottate dalle istituzioni in virtù dei trattati” nonché, in generale, «del diritto dell'Unione sotto il controllo della
Corte di giustizia dell'Unione». La Commissione è infatti considerata la custode della legalità nell'ambito dell'Unione.
Tale compito si esercita nei confronti degli Stati membri, soprattutto attraverso lo strumento del ricorso per
infrazione, nei confronti delle altre istituzioni, soprattutto attraverso lo strumento dei ricorsi d'annullamento o in
carenza e, nella misura in cui ciò sia previsto dai trattati o da atti derivati nei confronti delle persone fisiche e
giuridiche.

6. La Corte di giustizia dell'Unione europea.


6.1. La Corte si articola al suo interno in più rami, dotati di autonomia funzionale (piena) e amministrativa (parziale).
Essa comprende:
 la Corte di giustizia;
 il Tribunale;
 i tribunali specializzati (per ora è presente il solo Tribunale per la funzione pubblica).
Occorre far attenzione alla distinzione tra Corte-istituzione e Corte-giurisdizione.
Le varie componenti della Corte-istituzione sono tutte organi di individui, i cui membri, pur dipendendo da una
nomina di natura politica, perché affidata al comune accordo tra i governi degli Stati membri, svolgono le loro
funzioni «in piena imparzialità e secondo coscienza». Qualora vengano meno agli obblighi derivanti dalla loro carica, sono
rimossi dalle loro funzioni su decisione unanime della stessa Corte di giustizia.
La nomina dei membri del Tribunale della funzione pubblica è invece affidata al Consiglio.

6.2. Le più importanti disposizioni riguardanti la Corte, sono contenute negli stessi trattati, soprattutto nel TFUE
(articoli da 251 a 281). Molte altre disposizioni sono però contenute nel Protocollo n. 3 sullo Statuto della Corte di
giustizia dell'UE.
Infine va ricordato il regolamento di procedura della Corte di giustizia. Esso è stabilito dalla Corte stessa, ma
necessita, dell'approvazione del Consiglio a maggioranza qualificata.
6.3. La Corte di giustizia conta «un giudice per Stato membro» ed « è assistita da avvocati generali».
Il numero dei giudici corrisponde a quello degli Stati membri ed è attualmente di 27. Gli avvocati generali invece
sono solo 8, numero che può essere aumentato con delibera unanime del Consiglio su richiesta della Corte di
giustizia. Tra i giudici viene eletto, per tre anni u n presidente, il cui mandato è rinnovabile.
I giudici fanno parte del collegio giudicante che emette le decisioni. Gli avvocati generali, invece, hanno una funzione
ausiliaria: «l’avvocato generale ha l'ufficio di presentare pubblicamente, con assoluta imparzialità e in piena
indipendenza, conclusioni motivate sulle cause che, conformemente allo statuto della Corte di giustizia, richiedono il suo
intervento».
Non è necessario presentare conclusioni motivate per ogni causa proposta alla Corte, ma la Corte stessa potrà
decidere di farne a meno “ove ritenga, che la causa non sollevi nuove questioni di diritto».
Le conclusioni contengono il parere dell'avvocato generale su come la Corte di giustizia, a suo giudizio, dovrebbe
decidere la causa. Esse non sono vincolanti. La Corte può pronunciare una sentenza difforme, senza nemmeno essere
tenuta a spiegare le ragioni per le quali ritiene di non seguire l'avvocato generale.
Il carattere non vincolante delle conclusioni dell’avvocato generale giustifica il rifiuto finora opposto dalla Corte alle richieste delle
parti di avere la possibilità di replicare alle conclusioni stesse: ordinanza del 2000, Emesa Sugar. Il problema si era posto
nell'ambito di un procedimento relativo all'esame di una questione pregiudiziale sottoposta alla Corte da un giudice dei Paesi
Bassi e vertente sulla validità di una decisione del Consiglio. Sugar aveva chiesto di poter depositare osservazioni scritte in
seguito alla presentazione delle conclusioni da parte dell’avvocato generale, invocando, in appoggio alla sua richiesta, l'art. 6, par.
1 della CEDU. Tale norma dispone: «Ogni persona ha diritto ad un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad
un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge ai fini della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di
carattere civile, sia della fondatezza, di ogni accusa penale che gli venga rivolta». Sugar invoca una sentenza della Corte europea
dei diritti dell'uomo (sent. 1996, Vermeulen c. Belgio), in cui era stata riconosciuta la violazione dell'art. 6, par. 1 da parte del
Belgio, per non aver previsto la possibilità per l'interessato di replicare alle conclusioni del pubblico ministero dinanzi alla Corte di
cassazione. Il caso ha avuto un seguito dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Avendo infatti la Corte confermato la
validità della decisione del Consiglio contestata, Sugar aveva abbandonato l'azione intrapresa dinanzi al giudice a quo e si era
rivolta alla Corte europea per violazione dell’art. 6 della CEDU.
Con decisione del 2005, la Corte europea ha dichiarato il ricorso inammissibile, perché la controversia avviata dinanzi alla
giurisdizione olandese aveva ad oggetto il pagamento di diritti doganali e dunque non riguardava diritti o doveri di carattere civile.

Per quanto riguarda la nazionalità degli avvocati generali, il cui numero è inferiore a quello degli Stati membri, la
prassi vuole che vi siano sempre quattro avvocati generali aventi la nazionalità di ciascuno degli Stati membri mag-
giori (Francia, Germania, Italia, Regno Unito), mentre i posti rimanenti sono ricoperti a rotazione da persone degli
altri Stati.
I giudici e gli avvocati sono «scelti tra personalità che offrano tutte le garanzie di indipendenza e che riuniscano le condizioni
richieste per l’esercizio, nei rispettivi paesi, delle più alte funzioni giurisdizionali, ovvero che siano giureconsulti di notoria
competenza».

La nomina dei giudici e degli avvocati generali è effettuata di comune accordo dai governi degli Stati membri. È
tuttavia prescritto che la nomina avvenga previa consultazione di un apposito comitato.
Il comitato è composto di «sette personalità scelte tra ex membri della Corte di giustizia e del Tribunale, membri dei massimi organi
giurisdizionali nazionali e giuristi di notoria competenza» , designati dal Consiglio, che delibera su iniziativa del presidente della
Corte di giustizia. Uno dei membri tuttavia è proposto dal Parlamento europeo. Tale comitato ha l'incarico di «fornire un parere
sull'adeguatezza dei candidati all'esercizio delle funzioni dì giudice e di avvocato generale della Corte di giustizia e del Tribunale».

La durata del mandato è di sei anni ed è rinnovabile. È previsto un rinnovo parziale, che avviene ogni tre anni e
riguarda metà dei componenti della Corte.
6.4. La Corte opera nelle seguenti formazioni di giudizio:
 sezioni composte da tre o cinque giudici: è la formazione ordinaria (la distribuzione tra le sezioni a tre o a
cinque dipende dall'importanza di ciascuna causa);
 grande sezione formata da undici giudici, tra cui il presidente (che la presiede) e i presidenti delle sezioni a
cinque; è convocata quando lo richiede uno Stato membro o un'istituzione dell'Unione che è parte in giudizio;
 seduta plenaria, con la partecipazione di tutti i giudici: oltre ad ipotesi particolari (giudizi per la rimozione del
Mediatore europeo, di un membro della Commissione o di un membro della Corte dei conti) può essere
convocata ove la Corte «reputi che un giudizio pendente dinanzi ad essa rivesta un'importanza eccezionale».
La procedura dinanzi alla Corte di giustizia si suddivide in due fasi.
1- fase scritta: consiste, a, seconda del tipo di causa, nello scambio o nel deposito di memorie scritte;
2- fase orale (a volte esclusa): consiste in un'udienza con le parti e nella lettura o deposito delle conclusioni dell'avvocato
generale.
Successivamente la Corte di giustizia si riunisce in camera di consiglio per deliberare. La sentenza è letta in pubblica udienza. Il
regolamento di procedura prevede la possibilità per la Corte di giudicare secondo un procedimento accelerato. In caso di questioni
pregiudiziali relative ai settori previsti dal Titolo V della Parte III del TFUE (Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, già III pilastro
prima del Trattato di Amsterdam) è possibile applicare un procedimento d'urgenza.

6.5. Le principali funzioni della Corte di giustizia hanno natura giurisdizionale. Essa «assicura il rispetto del diritto
nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati».
La Corte di giustizia esercita anche funzioni di natura consultiva, in base alle quali non è chiamata a decidere una
controversia, ma ad esprimere un parere. I pareri della Corte, tuttavia, hanno un valore parzialmente vincolante,
dal momento che il loro contenuto condiziona il comportamento delle istituzioni e degli Stati membri.
L'ipotesi più importante è prevista in materia di accordi internazionali dell’Unione. Tale norma dispone: “uno Stato
membro, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della Corte di giustizia circa
la compatibilità di un accordo previsto con i trattari. In caso di parere negativo della Corte, l’accordo previsto non può
entrare in vigore, salvo modifica dello stesso o revisione dei trattati». Il parere negativo della Corte non ha dunque un
effetto ostativo, ma rende necessario ricorrere alla procedura di revisione dei trattati prevista all'art. 48 TUE, salvo
che l'accordo previsto sia modificato in maniera da eliminare ragioni del parere negativo.

7. Il Tribunale dell'Unione europea e i tribunali specializzati.


7.1. Come la Corte di giustizia, anche il Tribunale approva il proprio regolamento di procedura, ma deve farlo «di
concerto con la Corte di giustizia». Il regolamento è poi «sottoposto all'approvazione del Consiglio che delibera a
maggioranza qualificata».
La precedente denominazione era “Tribunale di primo grado”. La modifica appare opportuna in considerazione della funzione di
giudice dell'impugnazione (e dunque di secondo grado) che il Tribunale assume rispetto alle decisioni dei tribunali specializzati.

7.2. La composizione del Tribunale è simile ma non identica a quella della Corte.
Per quanto riguarda il numero di giudici, «il Tribunale di primo grado è composto da almeno un giudice per Stato
membro». Si precisa però che “il numero dei giudici è stabilito dallo Statuto della Corte di giustizia». È possibile
pertanto che nello Statuto si stabilisca di nominare più giudici di quanti sono gli Stati membri. Tale possibilità non è
stata ancora sfruttata. L'art. 48 dello Statuto infatti prevede che i giudici siano solo 27.
Si consente anche che lo Statuto preveda la presenza di avvocati generali. Nemmeno questa possibilità è stata
finora utilizzata.
Anche per i giudici del Tribunale, la nomina avviene di comune accordo dai governi degli Stati membri, previa
consultazione del comitato. I giudici hanno un mandato di sei anni rinnovabile ed eleggono tra di loro un presidente
che resta in carica tre anni. I requisiti di indipendenza sono gli stessi di quelli richiesti per i membri della Corte. I
requisiti di professionalità sono analoghi ma il livello richiesto è meno elevato.
7.3. Circa le formazioni di giudizio, il Tribunale funziona normalmente in sezioni, composte da tre o da cinque
giudici. Il regolamento di procedura disciplina i casi in cui il Tribunale si riunisce in seduta plenaria, in grande
sezione o statuisce nella persona di un giudice unico.
7.4. Come giurisdizione, il Tribunale ha una natura duplice.
In genere è giudice di primo grado, essendo il primo giudice a pronunciarsi sulle cause che rientrano nella sua
competenza. Le pronunce emesse dal Tribunale come giudice di primo grado sono soggette ad impugnazione davanti
alla Corte di Giustizia. Il termine è di due mesi a decorrere dalla notifica della decisione da impugnare.
In questi casi non è possibile parlare di un vero e proprio doppio grado di giudizio. L'impugnazione delle pronunce
del Tribunale come giudice di primo grado dinanzi alla Corte non costituisce infatti un giudizio d’appello, essendo
limitata ai soli “motivi di diritto» o soltanto a “mezzi relativi all'incompetenza del Tribunale, ai vizi della procedura
dinanzi al Tribunale recanti pregiudizio agli interessi della parte ricorrente, nonché alla violazione del diritto
comunitario da parte dei Tribunale». Il giudizio sul fatto si esaurisce dinanzi al Tribunale ed è oggetto di un unico
grado. Si tratta pertanto di un sistema più simile a quello del ricorso per cassazione.
Rispetto alle cause che sono assegnate alla competenza dei tribunali specializzati, il Tribunale è invece giudice di
secondo grado, in quanto conosce delle impugnazioni proposte contro le sentenze di primo grado di questi Tribunali.
La decisione istitutiva di ciascun Tribunale potrebbe scegliere di limitare l'impugnazione ai soli motivi di diritto o di
estenderla anche ai motivi di fatto. Il Tribunale sarebbe giudice d’appello solo nel secondo caso, mentre nel primo
caso sarebbe più simile a un ricorso per cassazione. In ogni caso il Tribunale come giudice di secondo grado emette
decisioni praticamente definitive per le parti. Le sue sentenze sono infatti soggette solo ad un riesame da parte della
Corte in casi eccezionali, su iniziativa del primo avvocato generale.
7.5. La competenza del Tribunale incontra due limiti. Da un lato sussistono ancora oggi azioni riservate alla
competenza esclusiva e in grado unico della Corte di giustizia. Dall’altro, è ormai in funzione il primo dei tribunali
specializzati: il Tribunale della funzione pubblica dell'UE, al quale spetta la competenza di primo grado sul
contenzioso con il personale delle istituzioni e degli organi dell'UE; il Tribunale opera come un giudice di secondo
grado.
Circa la ripartizione di competenza tra Tribunale di primo grado e Corte di giustizia, va ribadito anzitutto che la
competenza del Tribunale non copre tutte le azioni sottoposte al giudizio della Corte. Non vi è infatti completa
coincidenza tra la competenza ratione materiae e ratione personarum della Corte e quella del Tribunale. Alcune cause
restano angora oggi soggette al giudizio di unico grado della prima.
Per quanto riguarda le competenze dirette, l'art 256, par. 1, TFUE attribuisce al Tribunale la competenza «a
conoscere dei ricorsi di cui agli artt. 263, 265, 268, 270 e 272 ad eccezione di quelli attribuiti a un tribunale
specializzato istituito in applicazione dell'art. 257 e di quelli che lo Statuto riserva alla Corte di giustizia». Leggendo
l’art. 51 risulta che attualmente il Tribunale è competente in primo grado:
a ) in generale per i ricorsi proposti dalle persone fisiche o giuridiche contro le istituzioni e gli altri organi (salvo
che per i settori attribuiti alla competenza di primo grado di un tribunale specializzato);
b) per i ricorsi d'annullamento e in carenza proposti da uno Stato membro contro la Commissione (con
l'eccezione degli atti e delle astensioni di quest'ultima, in materia di cooperazioni rafforzate;
c) per i ricorsi d'annullamento proposti da uno Stato membro contro il Consiglio aventi ad oggetto i ) decisioni
adottate ai sensi dell'art. 108, par. 2, III co., TFUE (aiuti di Stato alle imprese); ii) atti adottati in forza di un
regolamento relativo a misure di difesa commerciale (es. anti-dumping) ai sensi dell'art. 207 TFUE; iii) atti di
esercizio da parte del Consiglio di competenze d'esecuzione ai sensi dell'art. 291, par. 2 TFUE.
La competenza del Tribunale è definita in base a criteri personali (solo ricorsi delle persone fisiche o giuridiche e ricorsi degli Stati
membri, mai ricorsi delle istituzioni) ma anche in base a criteri materiali e, in parte, legati al tipo di ricorso. Nel caso di ricorsi
degli Stati membri la competenza del Tribunale è stata prevista solo per ricorsi d’annullamento o in carenza diretti contro la
Commissione e per ricorsi d'annullamento aventi ad oggetto gli specifici atti del Consiglio elencati nell'art. 51, caratterizzati dal
fatto di avere tutti natura prevalentemente esecutiva. Restano invece riservati alla competenza in unico grado della Corte di
giustizia tutti gli altri ricorsi che uno Stato membro potrebbe proporre. In particolare quelli diretti contro il Parlamento, contro il
Consiglio o contro entrambe queste istituzioni nei casi in cui «statuiscono congiuntamente», ma anche i ricorsi per infrazioni rivolti
contro altri Stati membri. Restano inoltre riservati alla competenza della Corte tutti i ricorsi proposti da un’istituzione, siano
essi rivolti contro uno Stato membro (ricorsi per infrazione) o contro un'altra istituzione (ricorsi interistituzionali).

L'art. 256 TFUE, contempla inoltre la possibilità di attribuire al Tribunale anche una competenza pregiudiziale. «Il
Tribunale è competente a conoscere delle questioni pregiudiziali sottoposte ai sensi dell'art. 267, in materie specifiche
determinate dallo statuto». Tuttavia per adesso lo Statuto non prevede alcuna malteria nella quale sia stabilita tale
competenza.
L'attribuzione al giudizio del Tribunale di una competenza pregiudiziale comporterebbe notevoli difficoltà. Le questioni
pregiudiziali vengono sollevate, a titolo incidentale, davanti alla Corte di giustizia da un giudice nazionale di fronte al quale è
pendente una causa che coinvolge questioni di diritto dell'Unione. In un meccanismo del genere la sentenza della Corte di
giustizia dovrebbe essere emessa in unico grado. Se invece la sentenza fosse emessa dal Tribunale, con possibilità di
impugnazione davanti alla Corte di giustizia, la durata della fase pregiudiziale si prolungherebbe di molto e, d’altro canto,
l'autorità della sentenza pregiudiziale rispetto al giudice nazionale che ha effettuato il rinvio verrebbe messa a repentaglio. Per
ovviare a tali difficoltà l'art. 256, par. 2, II co., TFUE prevede che il Tribunale stesso possa rinviare alla Corte di giustizia le
questioni pregiudiziali attribuite, alla sua competenza qualora «la causa richieda una decisione di principio che potrebbe
compromettere l’unità e la coerenza del diritto dell'Unione». L'art. 256, par. 2, prevede inoltre che le decisioni pregiudiziali emesse
dal Tribunale «possano eccezionalmente essere oggetto di riesame da parte della corte di Giustizia, alle condizioni ed entro i limiti
previsti dalla statuto, ove sussistano gravi rischi che l'unità e la coerenza del diritto dell’Unione siano compromesse». Si deduce che
tali decisioni non saranno normalmente impugnabili e che il Tribunale quando eserciterà la propria competenza pregiudiziale, non
sarà giudice di primo grado ma, salvo eccezioni, emetterà sentenze definitive.

7.6. Accanto alla Corte di giustizia e al Tribunale, il Parlamento europeo e il Consiglio, secondo la procedura
legislativa ordinaria, su proposta della Commissione o su richiesta della Corte e previa consultazione, a seconda dei
casi, della Corte o della Commissione, possono istituire tribunali specializzati affiancati al Tribunale e incaricati «di
conoscere in primo grado di talune categorie di ricorsi proposti in materie specifiche».
L’istituzione avviene attraverso un regolamento che stabilisce la composizione e la portata delle competenze. La
nomina dei membri è compito del Consiglio che delibera all'unanimità.
Le sentenze dei tribunali specializzati sono impugnabili davanti al Tribunale per i soli motivi di diritto o, se il
regolamento istitutivo lo prevede, anche per i motivi di fatto. Il «riesame» della decisione del Tribunale davanti alla
Corte di giustizia è invece previsto solo eccezionalmente e alle condizioni e entro i limiti previsti dallo Statuto, «ove
sussistano gravi rischi che l'unità o la coerenza del diritto dell'Unione siano compromesse». Per queste ipotesi
eccezionali si possono avere tre livelli: tribunale specializzato, Tribunale e Corte di giustizia.
Una proposta di riesame può essere formulata solo dal primo avvocato generale. La proposta deve essere formulata entro un
mese dalla data della decisione del Tribunale. La Corte deve anzitutto decidere «sull’opportunità o meno di riesaminare la
decisione». Se, accoglie la proposta, la Corte deve poi decidere sul riesame con procedura d'urgenza sulla base del fascicolo
trasmessole dal Tribunale e, normalmente, sulla base delle sole osservazioni scritte dalle parti. Né la proposta di riesame né la
decisione della Corte di procedere al riesame hanno effetto sospensivo riguardo alla decisione oggetto di riesame. Qualora la Corte
constati che la decisione riesaminata pregiudica effettivamente l'unità e la coerenza del diritto comunitario, «rinvia la causa
dinanzi al Tribunale» il quale “è vincolato ai punti decisi dalla Corte», salvo che la causa possa essere decisa direttamente. In caso
di rinvio, la Corte, “può indicare gli effetti della decisione del tribunale che devono essere considerati definitivi nei riguardi delle parti
in causa». La descritta facoltà conferma il carattere straordinario del riesame. Esso è affidato, non alle parti in causa, ma ad un
organo all’interno della stessa Corte, che agisce nell’interesse del diritto dell'Unione.

Il Tribunale della funzione pubblica dell’Unione europea (TFP), «è competente in primo grado a pronunciarsi in
merito alle controversie tra le Comunità e i loro agenti, comprese le controversie tra gli organi o tra gli organismi e il loro
personale, per le quali la competenza è attribuita alla Corte di giustizia» (contenzioso del personale).
Il TFP è composto di soli sette giudici, numero aumentabile dal Consiglio, a maggioranza qualificata. I giudici del TFP devono
essere scelti tra persone che «offrano tutte le garanzie di indipendenza e possiedono la capacità per l’esercizio di funzioni
giurisdizionali». La nomina è affidata al Consiglio che decide all'unanimità previa “consultazione” di un comitato «composto di sette
personalità scelte tra ex giudici della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado e tra giuristi di notoria competenza». È altresì
previsto che “chiunque abbia la cittadinanza dell’Unione e possieda i requisiti, può presentare la propria candidatura».
Il regime di impugnazione delle decisioni del TFP ricalca in gran parte quello previsto per l'impugnazione delle decisioni del
Tribunale emesse in primo grado. Il termine ordinario è di due mesi dalla notifica della decisione impugnata. L'impugnazione deve
essere limitata ai «motivi di diritto”. Quanto alle decisioni del Tribunale che decidono sull’impugnazione di decisioni del TFP esse
sono soggette al regime eccezionale di riesame.

8. La Corte dei conti, la Banca centrale europea e gli altri organi (cenni).
8.1. La Corte dei conti è un organo di individui. Non rappresenta quindi istanze governative.
La composizione comprende “un cittadino di ciascuno Stato membro». I membri sono nominati dal Consiglio a
maggioranza qualificata, previa consultazione del Parlamento europeo, « conformemente alle proposte, presentate da
ciascuno Stato membro» per un mandato di sei anni. I requisiti di indipendenza e di professionalità che i membri
della Corte devono presentare sono analoghi a quelli previsti per i giudici della Corte di giustizia. In particolare
devono offrire «tutte le garanzie di indipendenza».
Le funzioni della Corte: ha il compito di assicurare «il controllo dei conti dell’Unione », «la Corte dei conti esamina i
conti di tutte le entrate e le spese dell’Unione» nonché quelli «di ogni organo o organismo creato dall’Unione nella
misura in cui l’atto costitutivo non escluda tale esame»; essa «controlla la legittimità e la regolarità delle entrate e delle
spese ed accerta la sana gestione finanziaria » e riferisce «su ogni caso di irregolarità».
L’atto più rilevante in cui si estrinseca la funzione di controllo della Corte è costituito dalla relazione annuale che viene redatta
alla fine di ogni esercizio. Essa è trasmessa alle altre istituzioni ed è pubblicata sulla GU, insieme alle risposte delle istituzioni alle
osservazioni della Corte dei conti.

8.2. Altri organi dell’Unione: il Comitato economico e sociale e il Comitato delle regioni. Entrambi sono organi di
individui, non essendo i membri vincolati da mandato da parte degli Stati di appartenenza.
Il Comitato economico e sociale è composto da «rappresentanze delle organizzazioni di datori di lavoro, di lavoratori,
dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile, in particolare nei settori socioeconomico, civico,
professionale e culturale». Il numero dei membri, che non può essere superiore a 350, è stabilito dal Consiglio con
delibera all’unanimità su proposta della Commissione. I membri sono nominati dal Consiglio a maggioranza
qualificata «conformemente alle proposte presentate da ciascuno Stato membro» previa consultazione della
Commissione. Il secondo organo a carattere consultivo è il Comitato delle regioni. È composto da «rappresentanti
delle collettività regionali e locali, che siano titolari di un mandato elettorale nell’ambito di una collettività regionale
locale o politicamente responsabili dinanzi ad un'assemblea eletta». Per il numero di membri e la loro nomina valgono
regole corrispondenti a quelle per il Comitato economico e sociale.
Tanto il Comitato economico e sociale quanto il Comitato delle regioni devono essere consultati dal Parlamento
europeo, dal Consiglio o dalla Commissione quando tali istituzioni lo ritengano opportuno. Nel primo caso il parere è
obbligatorio, ma non vincolante. Nel secondo caso il parere è puramente facoltativo.
8.3. Vanno poi menzionati gli organi creati dal TUE nell’ambito dell’UEM. Si tratta della Banca Centrale Europea
(BCE) e del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC).
La BCE gode di personalità giuridica, ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione dell’euro ed «è indipendente
nell’esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze». Essa si articola al suo interno in un Comitato
esecutivo, composto da un Presidente, un Vice-Presidente e altri quattro membri, nominati dal Consiglio europeo
che delibera a maggioranza qualificata, su raccomandazione del Consiglio, previa consultazione del Parlamento
europeo e del Consiglio direttivo, e un Consiglio direttivo, composto dai membri del Comitato esecutivo e dai
Governatori delle Banche centrali nazionali degli Stati membri la cui moneta è l’euro.
Il funzionamento e l’organizzazione della BCE e del SEBC sono oggetto del Protocollo n. 4 sullo Statuto del Sistema
Europeo delle Banche Centrali e della Banca Centrale Europea. La BCE ha il potere, nelle materie di propria
competenza, di stabilire regolamenti, e di prendere decisioni con caratteristiche identiche agli atti corrispondenti
previsti dall’art. 288 TFUE.
8.4. La Banca Europea degli Investimenti (BEI), disciplinata in dettaglio da un apposito Protocollo n. 5. La BEI è
dotata di una propria personalità giuridica, distinta da quella dell'Unione. Di essa sono membri gli Stati membri che
ne sottoscrivono il capitale. Le sue funzioni consistono nel facilitare, mediante concessione di prestiti e garanzie,
senza perseguire scopo di lucro, il finanziamento di progetti indicati all’art. 309 TFUE e finalizzati a contribuire allo
sviluppo equilibrato e senza scosse del mercato interno.
8.5. Va tenuto conto infine, della tendenza affermatesi negli ultimi anni a creare, attraverso atti del Consiglio o,
secondo i casi, del Parlamento e del Consiglio, appositi organi o agenzie indipendenti. La maggior parte di esse sono
state istituite attraverso regolamenti basati su disposizioni dell’allora TCE, ma non mancano esempi, di organi dello
stesso tipo il cui atto istitutivo trova il proprio fondamento in norme del TUE relative all’ex II o III pilastro. Tra questi
si segnalano il Centro satellitare dell’UE; l’Ufficio europeo di polizia; Eurojust.
Le funzioni, la composizione e i poteri di ciascuna agenzia dipendono dal regolamento istitutivo e variano da caso a caso. In alcuni
casi si parla di agenzie di regolamentazione, dal momento che gli organi in questione contribuiscono a definire e ad applicare la
disciplina dell’Unione afferente ad un determinato settore. La categoria così definita si compone, per lo più, di agenzie incaricate
di fornire pareri di carattere tecnico-scientifico di cui le istituzioni, generalmente la Commissione, dovranno tener conto, pur non
essendo vincolate in maniera assoluta e mantenendo un certo margine di discrezionalità. Un esempio è dato dall’Autorità
europea per la sicurezza alimentare (AESA). Vi sono inoltre alcune agenzie che dispongono di veri e propri poteri decisionali nei
confronti degli interessati. L’esempio più rilavante è dato dall’Ufficio armonizzazione a livello di mercato interno. È competente
a decidere circa la registrazione dei marchi comunitari. Le decisioni hanno natura vincolante e sono soggette ad una procedura di
ricorso interno dinanzi ad una commissione di ricorso; le decisioni della commissione di ricorso sono impugnabili dinanzi alla
Corte di giustizia.

PARTE II
LE PROCEDURE DECISIONALI

1. Considerazioni generali
1.1. Procedure decisionali: sequenza di atti o fatti richiesta dai trattati affinché la volontà dell'Unione si possa
manifestare attraverso determinati atti giuridici.
Le procedure decisionali hanno prevalentemente carattere interistituzionale. Si compongono di atti o fatti
provenienti da più di un'istituzione, in particolare delle istituzioni politiche (Parlamento europeo, Consiglio europeo,
Consiglio e Commissione). A seconda della procedura decisionale applicabile nei vari settori di competenza
dell'Unione, il ruolo rispettivo delle istituzioni cambia. In alcuni settori, prevalgono ancora le istituzioni
rappresentative degli Stati membri (Consiglio europeo e Consiglio) o viene ancora richiesto che tali istituzioni
deliberino all'unanimità. In altri settori, le procedure decisionali pongono invece su un piano di parità il Consiglio e il
Parlamento europeo. Molto spesso le procedure decisionali necessitano dell'iniziativa della Commissione. Altre volte,
l'iniziativa può venire anche da altri soggetti istituzionali o addirittura da uno Stato membro o da un gruppo di essi.
Le procedure decisionali si distinguono per la loro varietà. I trattati prevedono numerose procedure decisionali.
Alcune riguardano solo l'approvazione di atti specifici: la procedura di bilancio (art. 314 TFUE) e la procedura per la
conclusione di accordi internazionali (art. 218 TFUE) .
Inoltre nei settori che, prima del trattato di Lisbona, costituivano il II e il III pilastro dell'Unione, le procedure
decisionali applicabili sono in generale caratterizzate dalla sopravvivenza, in misura diversa, di elementi più tipici del
metodo della cooperazione intergovernativa che di quello comunitario. Questo vale soprattutto per il settore PESC,
nel quale si seguono procedure decisionali proprie. Anche nel settore dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, il
TFUE prevede in alcuni casi varianti importanti rispetto alle procedure tipiche applicabili negli altri settori.
La disciplina delle procedure decisionali è stabilita dai trattati ed è inderogabile dalle istituzioni. Un atto adottato
da una di esse non può modificare le procedure previste o istituire procedure diverse da quelle stabilite dai trattati.
1.2. Prima del trattato di Lisbona, le procedure più frequentemente utilizzate non si distinguevano in funzione della
natura del potere esercitato dalle istituzioni coinvolte o in relazione al tipo di atti da adottare.
Il TFUE corregge questo difetto d'origine, riservando all’adozione degli "atti legislativi" alcune procedure specifiche le
quali vengono appunto definite procedure legislative:
- Procedura legislativa ordinaria: consiste "nell'adozione congiunta di un regolamento, di una direttiva o di una
decisione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio su proposta della Commissione";
- Procedure legislative speciali: si applicano solo "nei casi specifici previsti dai trattati" e prevedono "l'adozione di un
regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del Parlamento europeo con la partecipazione del Consiglio o
da parte di quest'ultimo con la partecipazione del Parlamento europeo".
Mentre la procedura legislativa ordinaria è largamente tipizzata (ossia si svolge sempre secondo le modalità previste
dal TFUE), le procedure legislative speciali hanno in comune solo la partecipazione di entrambi, il Parlamento
europeo e il Consiglio. È tuttavia possibile individuare due modelli di gran lunga prevalenti: la procedura di
consultazione e quella di approvazione.
Accanto alle procedure legislative, i trattati ne prevedono altre per l'adozione di atti di natura diversa (procedure non
legislative). La categoria è molto eterogenea, in quanto comprende procedure per l'approvazione di atti molto diversi
tra di loro. La varietà riguarda anche le istituzioni che vi partecipano e il loro ruolo rispettivo.

2. La definizione della corretta base giuridica


2.1. Per stabilire quale procedura vada seguita di volta in volta, occorre definire la base giuridica dell'atto che
s’intende adottare. Dunque, occorre individuare la disposizione dei trattati che attribuisce alle istituzioni il potere di
adottare un determinato atto. Sarà la disposizione così individuata a indicare la procedura decisionale da seguire.
La corretta individuazione della base giuridica di ciascun atto è operazione estremamente importante e delicata. Al
riguardo sono sorti numerosi conflitti tra le istituzioni degli stati membri. Tali conflitti hanno generalmente visto il
Parlamento europeo o la Commissione contestare la base giuridica prescelta dal Consiglio, attraverso un ricorso
d'annullamento proposto dinanzi alla Corte di giustizia.
In alcuni casi, l’istituzione ricorrente è interessata a far valere un diverso articolo del medesimo o addirittura di un diverso
trattato come base giuridica dell'atto del Consiglio impugnato, in quanto la base giuridica invocata in alternativa imporrebbe,
invece della procedura decisionale seguita, una procedura diversa, nella quale l'istituzione ricorrente avrebbe un ruolo più
importante. Altre volte, la contestazione della base giuridica individuata dal consiglio è legata alla volontà di ricondurre l'atto
impugnato in un settore di competenza maggiormente caratterizzato da elementi tipici del metodo comunitario. Un esempio del
primo tipo di conflitto si ha nel caso Chernobyl: il Parlamento europeo contesta la scelta del Consiglio di basare un regolamento
sull'art. 31 del Trattato CEEA, che richiede solo la consultazione parlamentare, e non sull'art. 100A TCE (ora alt. 114 TFUE), che,
nella versione in vigore all'epoca, prescriveva invece la procedura di cooperazione di cui all'art. 252 TCE. Il caso Erasmus
rappresenta invece un esempio di conflitto del secondo tipo: la scelta dell'art. 235 TCE (ora art. 352 TFUE) al posto dell'art. 128
(ora art. 167 TFUE) come base giuridica per l'adozione di una decisione del Consiglio in materia di mobilità degli studenti, viene
contestata dalla Commissione, non perché scegliendo l'art. 128 il ruolo della Commissione sarebbe stato maggiore, ma perché
l'art. 235 richiede che il consiglio deliberi all'unanimità, mentre l'art. 128 prescriveva la procedura di cooperazione. Un conflitto
che presenta aspetti dell'uno e dell'altro tipo si pone nel caso dei Visti di transito aeroportuale: la Commissione impugna un'azione
comune del Consiglio fondata sull'art. K.3 TFUE (ora artt. 82,83 e 85 TFUE), sostenendo che la base giuridica corretta dovesse
essere l'art. 100C TCE (ora abrogato), non solo perché l'art. K.3 riconosce un potere di proposta anche agli Stati membri e non
alla sola Commissione, ma soprattutto perché gli atti adottati ai sensi dell'art. K.3 sono sottoposti al regime degli atti dell'ex III
pilastro. Analogamente in caso più recente, la Corte si è dovuta pronunciare sulla legittimità di una decisione PESC emanata in
base agli artt. 14 e 23, par.2, TUE (ora art. 26 e ss. TUE) non sull'art. 177 TCE (ora art. 208 TFUE), in materia di cooperazione
allo sviluppo: caso ECOWAS. In alcuni casi, l’erroneità della scelta della base giuridica viene invocata da uno Stato membro, sotto
forma di vizio di incompetenza (art. 263, II co., TFUE): ciò si verifica quando, secondo lo Stato ricorrente, né la base giuridica
indicata, né alcun altra norma dei trattati consentirebbe l'adozione dell'atto impugnato.

2.2. La corretta individuazione della base giuridica dipende dall'analisi di alcuni elementi oggettivamente rilevabili,
tra i quali soprattutto lo scopo e il contenuto dell'atto. Secondo la Corte di giustizia "la scelta del fondamento
giuridico di un atto non può dipendere solo dal convincimento di un'istituzione circa lo scopo perseguito, ma deve
basarsi su elementi oggettivi suscettibili di sindacato giurisdizionale".
Può tuttavia accadere che uno stesso atto persegua una pluralità di scopi o presenti contenuti differenziati. In casi
del genere, la base giuridica va dedotta dal centro di gravità dell'atto, mentre non dovrà tenersi conto di scopi o
componenti secondari o accessori.
Conformemente a questo indirizzo, la Corte di giustizia ha giudicato che l'art. 100 A TCE (ora art. 114 TFUE) non è base giuridica
appropriata né per una direttiva sullo smaltimento dei rifiuti, né per un regolamento sulla spedizione dei rifiuti all'interno della
comunità, giacché entrambi gli atti perseguono principalmente fini di tutela ambientale ricadono nell'ambito applicativo dell'art.
130 S (ora art. 192 TFUE). Alla stessa conclusione la Corte è giunta relativamente ad una direttiva sull'orario di lavoro. Secondo
la Corte la direttiva ricade nella previsione dell'art. 118 A (ora art. 153 TFUE), giacché ha come fine principale la sicurezza e la
salute dei lavoratori. Nella recente sent. del 2009, giudica che la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2006/24/CE,
riguardante la conservazione di dati generati o trattati nell'ambito della fornitura di servizi di comunicazione elettronica accessibili
al pubblico o di reti pubbliche di comunicazione e che modifica la direttiva 2002/58/CE, è stata correttamente adottata in base
all'art. 94 TCE (art. 114 TFUE) e non sui vari articoli del titolo VI del TFUE (già III pilastro), in primo luogo perché il suo scopo è di
eliminare gli ostacoli alla libera prestazione di servizi che sarebbe derivato dall'attuale o potenziale divergenza delle legislazioni
nazionali circa l'obbligo per i fornitori di servizi nel settore delle telecomunicazioni di conservare, per motivi di pubblica sicurezza,
i dati delle conversazioni. In secondo luogo, a giudizio della corte, "il contenuto materiale della direttiva 2006/24 ha essenzialmente
come oggetto le attività dei fornitori di servizi nel settore interessato del mercato interno, ad esclusione delle attività statali rientranti
nel titolo VI del trattato UE", il che porta a concludere che "la direttiva 2006/24 concerne in maniera preponderante il
funzionamento del mercato interno".

2.3. Qualora non sia possibile determinare il centro di gravità dell'atto, perché i vari scopi e i vari contenuti hanno
uguale importanza, l'atto dovrà eccezionalmente avere una base giuridica plurima, consistente in tutte le
disposizioni dei trattati corrispondenti ai suoi vari scopi o i vari contenuti.
Il principio è stato affermato dalla Corte di giustizia nella sent. del 1991, causa C-300/89, Commissione c. consiglio, sul caso del
biossido di titanio. La Corte giudica che una direttiva in materia di rifiuti dell'industria del biossido di titanio persegue
"inscindibilmente, tanto la tutela dell'ambiente quanto l'eliminazione delle disparità nelle condizioni di concorrenza" in tale ramo
d'industria e trova pertanto la sua base giuridica tanto nell'art.130S (ora art.192 TFUE) quanto nell'art.100A (ora art.114 TFUE).

Questa soluzione eccezionale non è però sempre ammissibile. In particolare essa non vale se le disposizioni che
dovrebbero fungere da base giuridica plurima prevedono procedure decisionali incompatibili.
Nella sent. biossido di titanio, secondo la Corte, non è possibile adottare la direttiva in questione in base ad entrambe le norme
indicate, perché l'art. 130S prevedeva (all'epoca) che l'atto venisse adottato dal Consiglio su mera consultazione del Parlamento
europeo, mentre la seconda prevedeva la procedura di cooperazione. Non è sempre chiaro quando si è di fronte a procedure
decisionali incompatibili. Nella sent. 2006, causa C-178/03, Commissione c. Parlamento europeo e Consiglio, la Corte ammette il
ricorso ad una base giuridica plurima in un caso di cumulo tra una base che prevede che il Consiglio deliberi senza alcuna
partecipazione del Parlamento e una base che richiede la procedura di codecisione. La Corte infatti annulla l'atto impugnato per
essere stato fondato solo sul art. 175, giudicando che, "contrariamente alla fattispecie oggetto della causa sfociata nella sentenza
biossido di titanio, il cumulo dei fondamenti normativi non comporta nella specie, alcuna lesione dei diritti del Parlamento, dal
momento che il ricorso all'art. 175, n. 1, CE, consente a tale istituzione di adottare l'atto con la procedura di codecisione".

In casi del genere la base giuridica non potrà che essere una sola e andrà preferita la base giuridica che non
pregiudichi poteri di partecipazione del Parlamento europeo alla procedura decisionale.
Nella sent. biossido di titanio, la Corte conclude infatti che la base giuridica appropriata sarebbe stata l'art.100 A (e non nell'art.
130S), anche perché dal par. 3 dell'art.100A si ricava che "gli scopi di tutela dell'ambiente contemplati dall'art.130 R (ora art. 174)
possono essere perseguiti efficacemente mediante misure di armonizzazione adottate in base all'art. 100 A".

2.4. Fino all'entrata in vigore del trattato di Lisbona, la soluzione della base giuridica plurima veniva esclusa, anche
in caso di atti a cavallo tra pilastri diversi.
Si trattava di atti i cui obiettivi e i cui contenuti ricadevano tanto nel campo di applicazione di una competenza prevista dal TCE (I
pilastro) quanto in quello della PESC (II pilastro), senza che si potesse individuare una prevalenza dell’uno o dell'altro.

2.5. Secondo la giurisprudenza, la scelta della corretta base giuridica di ciascun atto adottato dalle istituzioni
"riveste un'importanza di natura costituzionale". Di conseguenza la base giuridica deve essere sempre indicata il
rientra nell'obbligo di motivazione.

3. La procedura legislativa ordinaria


3.1. "La procedura legislativa ordinaria consiste nell'adozione congiunta di un regolamento, di una direttiva o di una
decisione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio su proposta della Commissione".
In passato era nota come procedura di codecisione perché tramite essa le due istituzioni gestiscono insieme il potere
decisionale, senza che l'una possa prevaricare sull'altra. È invalso pertanto l'uso di riferirsi al Parlamento e al
Consiglio, quando agiscono nel quadro della procedura in esame, come ai co-legislatori.
Inizialmente la procedura di codecisione si affianca alla procedura di cooperazione. Successivamente il trattato di Amsterdam ne
estende la portata, provvedendo a sostituirla alla procedura di cooperazione e a modificarne alcuni aspetti per renderla più
efficiente. La differenza principale tra le due procedure consiste nel fatto che nella procedura di cooperazione il Consiglio è in
grado di approvare all'unanimità un atto che sia stato respinto dal Parlamento europeo, mentre nella procedura di codecisione in
questo caso l'atto si considera definitivamente non adottato.
La procedura si fonda su un sistema di ripetute letture della proposta di atto legislativo da parte delle due
istituzioni. L'attuale disciplina contempla fino a tre letture. Non è però detto però che vi si giunga. È infatti possibile
che la procedura si arresti non appena le due istituzioni siano pervenute ad un accordo su un medesimo testo.
3.2. In generale la procedura legislativa ordinaria si apre con la proposta della commissione.
Il TCE riconosceva alla commissione un potere generale ed esclusivo di iniziativa. Si riteneva infatti che tale istituzione fosse la
portatrice dell'interesse generale della comunità. La proposta della commissione faceva così da contrappeso alla deliberazione del
Consiglio, che esprimeva gli interessi particolari dei singoli stati membri. "Un atto legislativo dell'Unione può essere adottato solo su
proposta della commissione salvo che i trattati non dispongano diversamente". Il potere di iniziativa della Commissione non è però
assoluto. Per quanto riguarda la procedura legislativa ordinaria, si prevede infatti che "nei casi specifici previsti dai trattati, gli atti
legislativi possono essere adottati su iniziativa di un gruppo di stati membri o del Parlamento europeo, su raccomandazione della
BCE o su richiesta della Corte di giustizia della Banca europea per gli investimenti". Specifiche basi giuridiche possono attribuire il
potere di iniziativa nell'ambito della procedura legislativa ordinaria a soggetti diversi dalla Commissione. Un es. di procedura
legislativa ordinaria che può aprirsi senza proposta della Commissione: istituzione di un Tribunale specializzato su richiesta della
Corte di giustizia).

Il Parlamento europeo il Consiglio godono però del potere di sollecitare la Commissione a presentare una proposta,
approvando una richiesta in tal senso.
Non è prevista alcuna sanzione per il caso in cui la Commissione non si attivi. Nondimeno la mancata presentazione di una
proposta sollecitata dal Parlamento potrebbe indurlo ad approvare una mozione di censura. In alternativa né il Parlamento né il
Consiglio potrebbero presentare alla Corte di giustizia un ricorso in carenza. Non sarebbe infatti possibile sostenere che
l'astensione della Commissione costituisca una "violazione dei trattati" e mancherebbe pertanto il primo presupposto per la
presentazione di un ricorso del genere.

Le proposte possono essere sollecitate anche da altre istituzioni o organi, in particolare dal Consiglio europeo. Spetta
infatti alla Commissione il compito di sottoporre proposte volte a dare attuazione alle priorità e agli orientamenti
politici generali dell'Unione definite dal Consiglio europeo.
Il trattato di Lisbona introduce inoltre un istituto di democrazia partecipativa, consistente nel diritto dei cittadini
dell'Unione di invitare la commissione "a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali
cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell'Unione, ai sensi dell'attuazione dei trattati" (iniziativa popolare).
3.3. Partendo dal presupposto che la Commissione è portatrice dell'interesse generale della comunità, mentre il
Consiglio rappresenta gli interessi individuali di ciascuno Stato membro, l'art. 293, par.1, TFUE limita il potere del
Consiglio di modifica della proposta della Commissione. Si prevede infatti che "il consiglio può emendare la
proposta solo deliberando all'unanimità". Solo il consenso dei rappresentanti di tutti gli Stati membri consente al
Consiglio di discostarsi dalla proposta della Commissione, perché il consenso unanime garantisce che l'atto adottato
risponda all'interesse generale della comunità.
Il Consiglio, in realtà, non può spingersi fino al punto di stravolgere del tutto la proposta della commissione. L'art. 293, par. 1,
utilizza il verbo "emendare" e che da ciò si può desumere la volontà di limitare il potere del Consiglio, nel senso che questi non
possa allontanarsi in maniera radicale dalla proposta. Qualora ciò dovesse avvenire, si realizzerebbe una "violazione di forme
sostanziali" e l'atto adottato sarebbe annullabile mediante ricorso alla Corte di giustizia.

Per quanto riguarda la procedura legislativa ordinaria, il requisito dell'unanimità perché il Consiglio possa rimandare
la proposta della Commissione non si applica durante la fase del comitato di conciliazione e la terza lettura. Al
contrario, il requisito dell'unanimità vale nella prima e nella seconda lettura. Ciò significa che in queste fasi, il
Consiglio potrà deliberare a maggioranza qualificata solo attenendosi alla proposta della Commissione.
Il fatto che il Consiglio possa emendare la proposta della Commissione solo all'unanimità, se da un lato garantisce
che gli atti del Consiglio perseguano l'interesse generale della comunità, dall'altro può causare una situazione di
stallo. Potrebbe, infatti verificarsi che il Consiglio, da una parte, non sia disposto ad approvare la proposta della
Commissione così come è e, dall'altra, non sia in grado di deliberare all'unanimità gli opportuni emendamenti.
In genere, infatti, il Consiglio non è obbligato a deliberare sulle proposte della Commissione, con la conseguenza che l'omessa
deliberazione non produce alcun effetto giuridico e non può essere oggetto di sindacato da parte della Corte di giustizia.
Diversamente avviene quando il TFUE o un atto di diritto derivato impone al Consiglio di adottare determinate misure entro un
termine preciso. Un caso del genere è stato oggetto della sent. Eurocoton c. Consiglio.

Al fine di evitare il rischio di una situazione di stallo, l'art. 293, par. 2, TFUE prevede che "fintantoché il Consiglio non
ha deliberato, la Commissione può modificare la propria proposta in ogni fase delle procedure che portano all'adozione
di un atto dell'Unione". La Commissione può infatti preferire modificare la propria proposta in maniera da favorirne
l'approvazione da parte del Consiglio a maggioranza qualificata piuttosto che insistere sul testo originale della
proposta e rischiare che essa sia respinta tout court. Ciò può avvenire anche nel corso delle stesse riunioni del
Consiglio, essendo in quella sede presente un membro della Commissione delegato ad apportare modifiche.
Tra i poteri della Commissione, rientra anche il potere di ritirare la proposta. Questa potrebbe essere un'arma da
usare nel caso che il Parlamento europeo il Consiglio, nel corso della procedura legislativa ordinaria, o il Consiglio,
quando delibera da solo, intendano modificare radicalmente la proposta.
3.4. La procedura si apre con la proposta della Commissione, la quale viene indirizzata simultaneamente al
Consiglio e al Parlamento.
La prima lettura consiste nell'adozione da parte del Parlamento europeo della propria "posizione" che viene
trasmessa al Consiglio. Il Consiglio può approvare la posizione del Parlamento: in questo caso l'atto è approvato in
tale formulazione. In caso contrario, il Consiglio adotta, a maggioranza qualificata, un "posizione in prima lettura".
Qualora la posizione Parlamento sia conforme alla proposta della Commissione, il Consiglio può approvarla a maggioranza
qualificata. Se invece la posizione emenda la proposta, per approvarla il Consiglio deve deliberare all'unanimità.
Seconda lettura. Il Parlamento ha tre mesi di tempo per decidere in uno dei seguenti modi:
1- approvare la posizione in prima lettura del Consiglio o omettere di deliberare entro il termine;
2- respingere la posizione (a maggioranza assoluta dei membri che lo compongono);
3- proporre emendamenti (con lo stesso quorum deliberativo).
Nel 1° caso, l'atto si considera adottato "nella formulazione corrispondente alla posizione del Consiglio". Anche nel 2°
caso, la procedura si arresta, perché l'atto si considera non adottato. Il Consiglio interviene solo nel terzo caso. In
questo caso, la Commissione emette un parere sugli emendamenti. Il Consiglio, a maggioranza qualificata, può:
- approvare tutti gli emendamenti del Parlamento (per gli emendamenti con parere contrario della Commissione
occorre l'unanimità);
- non approvare tutti gli emendamenti.
Nel primo caso, l'atto si considera definitivamente approvato. Nel secondo, invece, si apre una fase intermedia è viene
convocato un Comitato di conciliazione. Tale comitato è composto dai membri del Consiglio o loro rappresentanti e
da altrettanti membri del Parlamento europeo ed ha il compito di approvare entro sei settimane un "progetto
comune" con la collaborazione della Commissione. Se il Comitato non riesce ad approvarlo entro il termine, l'atto si
considera non adottato. Se invece il comitato approva un progetto comune l'atto dovrà poi essere definitivamente
approvato in terza lettura dal Parlamento e dal Consiglio (quest'ultimo a maggioranza qualificata) entro ulteriori sei
settimane. In mancanza dell'approvazione dell’una o dell'altra istituzione, l'atto si considera non adottato.
Alcune possibili varianti rispetto allo schema descritto. Il TFUE talvolta prescrive che nel corso della procedura legislativa
ordinaria venga raccolto il parere di alcuni organi consultivi, in particolare del Comitato economico e sociale o del Comitato delle
regioni. Il prot. n. 2 sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità prescrive una fase preliminare nei casi in
cui la maggioranza dei parlamenti nazionali si siano espressi nel senso che la proposta non rispetta il primo principio.

4. Le procedure legislative speciali: la procedura di consultazione e la procedura di approvazione


4.1. Diverse disposizioni del TFUE prevedono procedure legislative speciali, il cui svolgimento è definito di volta in
volta dalle disposizioni che fungono da base giuridica. Nella maggior parte dei casi esse consistono nell'adozione
dell'atto da parte del Consiglio a maggioranza qualificata o all'unanimità, previa consultazione del Parlamento
europeo (procedura di consultazione). In un numero limitato di casi l'atto deliberato dal Consiglio è sottoposto
all'approvazione del Parlamento europeo (procedura di approvazione).
Nelle procedure legislative speciali, il potere di iniziativa è disciplinato come nella procedura legislativa ordinaria.
Salvo eccezioni, l'istituzione competente (Consiglio o Parlamento europeo) non può deliberare in mancanza di una
proposta della commissione.
4.2. Quando il TFUE prevede che il potere di adottare atti legislativi in un certo settore spetti al solo Consiglio, il
potere di questa istituzione è controbilanciato dall'obbligo di consultare il Parlamento europeo. Si parla in questi casi
di procedura di consultazione. Quello che il Parlamento è chiamato ad emettere è un parere consultivo: esso è
obbligatorio, ma non vincolante. Il Consiglio è libero di non seguire il parere.
Prima dell'introduzione delle procedure di cooperazione e di consultazione, la consultazione era l'unica forma che
consentiva al Parlamento di intervenire nella definizione degli atti del Consiglio. La giurisprudenza si è occupata di
questo tema cercando di salvaguardare le prerogative dell'unica istituzione dotata di legittimità democratica diretta.
Nella sent. 1980, Roquette Frères C. Consiglio, la Corte afferma: “la consultazione è lo strumento che consente al
Parlamento l'effettiva partecipazione al processo legislativo della comunità. Questo parere costituisce un elemento
essenziale dell'equilibrio istituzionale voluto dal Trattato. Esso riflette un fondamentale principio della democrazia,
secondo cui i popoli partecipano all'esercizio del potere per il tramite di un'assemblea rappresentativa. La regolare
consultazione del Parlamento nei casi previsti dal Trattato è quindi una formalità sostanziale, la cui inosservanza
implica la nullità dell'atto considerato".
La consultazione del Parlamento, quando richiesta, deve quindi essere una consultazione effettiva e regolare. Ciò
implica anzitutto che la consultazione sia effettivamente avvenuta, cioè che il parere sia stato, non solo richiesto, ma
anche emanato prima dell'adozione dell'atto da parte del consiglio.
Per quanto riguarda le procedure legislative speciali, il TFUE non stabilisce alcun termine per l'emanazione del
parere del Parlamento. Questo non significa che il Parlamento sia del tutto libero di stabilire i tempi per
l'emanazione del parere. Si deve ritenere che, pur in mancanza di un termine previsto dalla TFUE, il Parlamento sia
tenuto all’osservanza del principio di leale collaborazione, ad emanare il parere entro un termine ragionevole a
tener conto delle eventuali richieste avanzate dal Consiglio per ottenere una delibera urgente. In mancanza, al
Parlamento è precluso il diritto di invocare il difetto di consultazione essendosi reso responsabile di un
comportamento sleale verso il Consiglio.
L'esigenza di una consultazione effettiva e regolare si avverte anche qualora il Consiglio intenda deliberare un atto
diverso da quello sul quale il Parlamento è stato chiamato ad esprimere il proprio parere. Il problema riguarda il se
ed in quali casi la consultazione sia sufficiente e quando invece si renda necessaria una seconda consultazione.
Secondo il principio ricavabile dalla sent. 1970, Chemiefarma, il parere del Parlamento deve essere dato sull'atto che
poi sarà effettivamente adottato dal Consiglio. Se dopo la consultazione del Parlamento, il Consiglio decide di
modificare l'atto nella sostanza o la Commissione ritira la proposta e ne presenta un'altra diversa da quella su cui il
Parlamento si è espresso, è necessaria una seconda consultazione.
Nel caso Chemiefarma, un'impresa impugna una decisione della commissione che le commina un'ammenda per violazione delle
norme sulla concorrenza. Chemiefarma fa valere che la decisione è illegittima, in quanto emanata in forza di un regolamento del
Consiglio a sua volta invalido per mancata consultazione del Parlamento. La proposta originaria del regolamento sulla quale il
Parlamento si era pronunciato è diversa dal testo adottato dal Consiglio. La Corte respinge la censura, constatando che il testo
oggetto del parere del Parlamento è "sostanzialmente identico" a quello approvato dal Consiglio. La seconda consultazione non è
richiesta nemmeno quando si tratta di emendamenti corrispondenti alle proposte di modifica formulate nel parere del Parlamento.

4.3. In alcuni casi di particolare importanza il TFUE prevede che l'atto legislativo deliberato dal Consiglio debba
essere approvato dal Parlamento europeo (procedure di approvazione).
Un esempio di tale procedura è contenuto nell'art. 19, par.1, TFUE: “fatte salve le altre disposizioni dei trattati e
nell'ambito delle competenze da essi conferite all'Unione, il Consiglio, deliberando all'unanimità secondo una procedura
legislativa speciale previa approvazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per
combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la
disabilità, l'età o l'orientamento sessuale".
Prima del trattato di Lisbona, si parlava di procedura di parere conforme.
Nell'ipotesi in cui la procedura legislativa speciale richiede l'approvazione del Parlamento europeo in realtà il potere
deliberativo non appartiene al Consiglio, ma è condiviso con il Parlamento, come avviene nella procedura legislativa
ordinaria. Tuttavia, mentre in quest'ultima il Parlamento ha ampio spazio di manovra per contribuire a determinare
il contenuto dell'atto, nella procedura di approvazione il Parlamento si limita ad approvare o respingere l'atto.
4.4. Per alcuni atti legislativi il cui contenuto è destinato a sostituirsi o a integrare la disciplina prevista dal TFUE è
prescritto che l'atto adottato con la procedura di approvazione o, più raramente, di consultazione, per entrare in
vigore debba essere approvato anche "dagli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali".
Esempi del genere sono contenuti nell'art. 25, par. 2 (adozione di disposizioni intese a completare i diritti dei cittadini
dell'Unione), nell'art. 223, par.1, II co., (adozione di disposizioni necessarie per permettere l'elezione dei membri del Parlamento a
suffragio universale diretto) e nell'art. 311, III co., (adozione della decisione che stabilisce il regime delle risorse proprie). Nei primi
due casi l'approvazione degli stati membri segue la procedura di approvazione, nel terzo la procedura di consultazione. La
necessità di integrare la volontà delle istituzioni dell'Unione con quella degli stati membri mostra una notevole analogia con le
procedure di revisione dei trattati di cui all'art. 48.

5. Le procedure legislative nel settore dello spazio di sicurezza, libertà e giustizia


5.1. Nel settore dello spazio di sicurezza, libertà e giustizia, la procedura legislativa ordinaria è ormai molto presente
ma è spesso affiancata da procedure legislative speciali, a seconda dei casi di consultazione o di approvazione.
La procedura legislativa ordinaria è prevista dall'art. 75, I co., circa le misure amministrative concernenti i
movimenti di capitali e i pagamenti, dagli artt. 77, par. 2, 78, par. 2, 79, par. 2 e 4, in materia di controlli alle
frontiere, asilo e immigrazione, dall'art. 81, par. 2, sulla cooperazione giudiziaria in materia civile, dagli artt. 82,
par.1, II co., 83, par. 1, I co., 84, 85, II co., sulla cooperazione giudiziaria in materia penale, dagli art. 87, par. 2, e
88, par. 2, sulla cooperazione di polizia.
In numerosi casi procedure legislative diverse sono richieste per l'adozione di specifiche misure. Ad es. l'art. 81, par.
3, I co., richiede che per le misure riguardanti il diritto di famiglia si segua la procedura di consultazione: è prescritta
una delibera all'unanimità del Consiglio, previa consultazione Parlamento europeo. La procedura d'approvazione è
invece prevista dall'art. 86, par. 1, I co., circa l'istituzione di una procura europea.
Per le materie oggetto dell'art. 81, par. 3, il II co. dell'art. cit. consentirebbe al Consiglio, deliberando all'unanimità,
su proposta della Commissione previa consultazione del Parlamento europeo, di determinare quali aspetti del diritto
di famiglia possono formare oggetto di atti adottati secondo la procedura legislativa ordinaria. I Parlamenti nazionali
sono informati della proposta. Ciascuno di loro, entro sei mesi, può notificare la propria opposizione e impedire
l'adozione dell'atto proposto.
Qualunque sia la procedura legislativa applicabile, nel settore della cooperazione giudiziaria in materia penale, in
quello della cooperazione di polizia in quello della cooperazione amministrativa, il potere di proposta non spetta solo
alla Commissione ma anche all'iniziativa di 1/4 degli Stati membri.
5.2. In numerosi casi sono previsti taluni strumenti procedurali che consentono agli Stati membri contrari a
determinati atti di impedirne o ritardarne l'adozione.
In due casi tali strumenti sono associati alla procedura legislativa ordinaria e si presentano come delle varianti
rispetto al suo normale svolgimento, finalizzate a ridurne le caratteristiche di sovranazionalità.
Si tratta delle ipotesi disciplinate dagli artt. 82, par. 3 (norme minime in materia di riconoscimento delle sentenze e decisioni
giudiziarie penali e la cooperazione di polizia giudiziaria nelle materie penali aventi dimensione transnazionale) e 83, par. 3
(norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente gravi).

Nella versione prevista dagli artt. cit. (Emergency brake), lo stato membro contrario interviene perché ritiene che il
progetto di atto "incida su aspetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico penale". L'intervento avviene prima
della deliberazione dell'atto da parte del Consiglio e comporta la sospensione della procedura legislativa ordinaria.
L'esame dell'atto passa al Consiglio europeo che ha quattro mesi per approvare l'atto. Se ciò avviene, l'atto è rinviato
al Consiglio e la procedura legislativa ordinaria riprende. In caso contrario, "se almeno nove stati membri desiderano
instaurare una cooperazione rafforzata sulla base del progetto di atto, essi ne informano il Parlamento europeo il
Consiglio e la commissione" e l’autorizzazione a procedere alla cooperazione rafforzata, "si considera concessa".
Lo stato membro che provoca il rinvio al Consiglio europeo può ritardare l'adozione del progetto di atto ma corre il rischio che
l'atto sia comunque adottato sotto forma di cooperazione rafforzata.

In altre ipotesi invece lo strumento procedurale è associato a procedure legislative speciali (in un caso la procedura
di approvazione, in un altro quella di consultazione) che richiedono una delibera unanime da parte del Consiglio. In
questi casi lo strumento si presenta come una variante rispetto al normale svolgimento che consente di superare, sia
pur parzialmente, la mancanza di unanimità.
Si tratta delle ipotesi disciplinate dagli artt. 86, par.1, II e III co. (istituzione di una procura europea) e 87, par. 3, II e III co.
(cooperazione operativa tra le autorità di polizia).
Nella versione prevista dagli artt. cit., in mancanza di un’unanimità un gruppo di almeno nove stati membri può
chiedere che del progetto di atto sia investito il Consiglio europeo. Entro quattro mesi, il Consiglio europeo,
decidendo per consenso, rinvia il progetto al Consiglio perché lo adotti. Altrimenti, almeno nove stati membri
possono notificare al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione la loro intenzione di instaurare una
cooperazione rafforzata sulla base del progetto di atto e la necessaria autorizzazione si considera concessa.

6. Le procedure non legislative


6.1. In molti casi i trattati prevedono l'adozione da parte delle istituzioni dell'Unione di atti non legislativi e
stabiliscono di volta in volta la procedura decisionale applicabile. Questa categoria è molto eterogenea.
6.2. Il consiglio europeo, i cui atti non hanno mai natura legislativa, delibera seguendo procedure diverse da caso a
caso. Alcune sono disciplinate in materia originale rispetto alle procedure applicabili al Consiglio e riflettono il ruolo
di suprema autorità che il Consiglio europeo svolge. Altre volte sono articolate in modo simile a quelle del Consiglio.
Al primo tipo appartengono anzitutto le procedure in cui il Consiglio europeo decide in piena autonomia, senza
necessità di alcuna proposta e senza che sia richiesta la consultazione o l'approvazione di altre istituzioni. Esempi
sono costituiti dall'elezione del presidente del Consiglio europeo e dalla decisione che stabilisce l'elenco della
formazione del Consiglio e decisione sulla presidenza del Consiglio.
In questo stesso gruppo possono essere classificate alcune procedure in cui la deliberazione del Consiglio europeo,
benché non condizionata da una proposta proveniente da altri soggetti, è subordinata all'approvazione di un'altra
istituzione o organo. L'approvazione del Parlamento europeo è ad esempio necessaria per la nomina del presidente
della Commissione, che il Consiglio europeo propone, mentre per quella dell'Alto rappresentante, occorre l'accordo
del presidente della Commissione. In tutti questi esempi il Consiglio europeo delibera a maggioranza qualificata.
La seconda categoria è invece costituita da procedure che si ispirano ai modelli della procedura di consultazione o
della procedura di approvazione. In questi casi il Consiglio non agisce di propria iniziativa ma ha bisogno di una
proposta. In genere è poi tenuto a consultare altre istituzioni o deve ottenerne l'approvazione.
Come esempio di una procedura simile alla procedura di consultazione, può farsi riferimento all'art. 48 TUE, sulle
diverse procedure di revisione dei trattati. Nella procedura ordinaria e nella prima delle procedure semplificate, il
Consiglio europeo agisce su proposta del governo di uno Stato membro, del Parlamento europeo o della
Commissione. Nel primo caso, la decisione di convocare una convenzione per l'esame della proposta è presa "previa
consultazione del Parlamento europeo e della Commissione". Nel secondo caso, la decisione di modificare la parte III
del TFUE è presa previa consultazione delle due istituzioni citate, cui si aggiunge la BCE, qualora si tratti di
modifiche istituzionali nel settore monetario. In entrambi i casi le modifiche decise dovranno essere ratificate o
approvate dagli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali.
Come esempio di una procedura simile a quella di approvazione, può citarsi l'art. 7 par. 2, TUE: qui il Consiglio
europeo necessita di una "proposta di 1/3 degli Stati membri, o della Commissione" per constatare, con decisione
all'unanimità, l'esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno stato membro dei valori di cui all'art. 2
TUE. In questo caso è anche necessaria l'approvazione del Parlamento europeo.
6.3. Quando adotta atti non legislativi nel campo d'applicazione del TFUE, il consiglio segue in generale procedure
modellate sulla procedura di consultazione su quella di approvazione.
Un esempio di procedura non legislativa del tutto uguale a quella di consultazione è presente nell'art. 103, par. 1. I
regolamenti e direttive utili all'applicazione delle regole di concorrenza applicabili alle imprese (arte. 101 e 102) "sono
stabiliti dal Consiglio su proposta della Commissione previa consultazione del Parlamento europeo".
La procedura di approvazione è invece applicabile quando il Consiglio adotta disposizioni ai sensi dell'art. 352, par.
1,TFUE, che si tratti o meno di atti legislativi.

7. Le procedure nel settore della PESC


7.1. Il settore della PESC resta separato rispetto a tutti gli altri settori rientranti nella competenza dell'Unione. Ciò è
vero anche per quanto riguarda le procedure decisionali applicabili. La PESC è soggetta a "procedure specifiche".
Differenze rispetto alle procedure decisionali applicabili ai settori che ricadono nel campo d'applicazione del TFUE:
 ruolo dal Consiglio europeo che esercita un proprio potere decisionale, seguendo un'apposita procedura;
 le procedure decisionali consistono per lo più in deliberazioni assunte dal Consiglio all'unanimità, su
iniziativa degli Stati membri o dell'Alto rappresentante;
 il ruolo del Parlamento europeo è molto ridotto, essendo esso oggetto di semplice consultazione.
7.2. Il Consiglio europeo "individua gli interessi strategici dell'Unione, fissa gli obiettivi e definisce gli orientamenti
generali della politica estera e di sicurezza comune, comprese le questioni che hanno implicazioni in materia di difesa" e
"adotta le decisioni necessarie".
Regola di carattere procedurale: il Consiglio europeo delibera sempre all'unanimità, salvo nei casi in cui il TUE
disponga diversamente. Casi del genere non sono al momento previsti.
7.3. Come regola generale, si segue il principio dell'unanimità, salvo che il TUE disponga diversamente.
Posto che le astensioni non escludono l'unanimità, si è cercato di indurre i membri del Consiglio contrari ad una proposta ad
astenersi, piuttosto che a esprimere voto contrario. Istituto noto come astensione costruttiva. Si tratta di una deroga al principio
secondo cui le delibere del Consiglio obbligano tutti gli Stati membri, anche quelli che si sono astenuti. "In caso di astensione dal
voto, ciascun membro del Consiglio può motivare la propria astensione con una dichiarazione formale. In tal caso esso non è
obbligato ad applicare la decisione, ma accetta che essa impegni l'Unione. In uno spirito di mutua solidarietà, lo Stato membro
interessato si astiene da azioni che possano contrastare o impedire l'azione dell'Unione basata su tale decisione, e gli altri stati
membri rispettano la sua posizione". Nel caso descritto, la delibera del Consiglio è validamente assunta, ma l'atto adottato non
vincola lo stato membro astenuto, che rimane esclusa dall'ambito di applicazione personale della delibera. Si tratta di un altro
esempio di Europa a più velocità. Il descritto meccanismo diviene tuttavia inapplicabile allorquando il numero degli Stati membri
che vi fanno ricorso è rilevante "qualora i membri del Consiglio che motivano in tal modo la loro astensione rappresentino almeno
1/3 degli Stati membri che totalizzano almeno 1/3 della popolazione dell'Unione, la decisione non è adottata".

7.4. Alcune deliberazioni vengono assunte dal Consiglio a maggioranza qualificata. Quattro casi:
a) "quando adotta una decisione che definisce un'azione o una posizione dell'Unione, sulla base di una decisione del
Consiglio europeo relativa agli interessi e obiettivi strategici dell'Unione";
b) "quando adotta una decisione che definisce un'azione o una posizione dell'Unione in base a una proposta dell'Alto
rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza presentata in seguito a una richiesta specifica
rivolta quest'ultimo dal Consiglio europeo di una sua iniziativa o su iniziativa dell'Alto rappresentante";
c) "quando adotta decisioni relative all'attuazione di una decisione che definisce un'azione o una posizione dell'Unione";
d) "quando nomina un rappresentante speciale".
Le ipotesi a), b) e c) riguardano casi in cui si tratta di adottare atti che presuppongono un atto adottato all'unanimità: nelle prime
due ipotesi, dal Consiglio europeo, nella terza ipotesi dallo stesso Consiglio ma non basate, a loro volta, su una decisione del
Consiglio europeo e pertanto adottate autonomamente dal Consiglio all'unanimità. La quarta ipotesi si riferisce invece alla nomina
di rappresentanti speciali del Consiglio. Qui non è richiamata la necessità di un atto precedente cui l'atto adottato a maggioranza
qualificata dia attuazione. Tuttavia è più che probabile che la nomina di un rappresentante speciale venga decisa dal Consiglio
come proseguimento di precedenti decisioni prese all'unanimità.
La limitata possibilità di assumere deliberazioni a maggioranza qualificata può essere paralizzata grazie alla clausola
di salvaguardia prevista al II co. del par. 2 dell'art. 31: "se un membro del Consiglio dichiara che, per specificati vitali
motivi di politica nazionale, intende opporsi all'adozione di una decisione che richiede la maggioranza qualificata, non
si procede alla votazione. L'Alto rappresentante cerca, in stretta consultazione con lo Stato membro interessato, una
soluzione accettabile per quest'ultimo. In mancanza di un risultato il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata,
può chiedere che della questione si investa il Consiglio europeo, in vista di una decisione all'unanimità".
La clausola riecheggia il compromesso di Lussemburgo. La dichiarazione di opposizione giustificata da "specificati vitali motivi di
politica nazionale", infatti, impedisce al Consiglio di adottare l'atto a maggioranza qualificata e gli consente solo, con la stessa
maggioranza, di definire la questione del Consiglio europeo, che delibererà all'unanimità. Ci si potrebbe chiedere se il Consiglio
europeo, investito in seguito all'opposizione di uno Stato membro, possa esso stesso approvare l'atto su cui il Consiglio non è
stato in grado di deliberare. La natura del Consiglio europeo come massima istanza politica dell'Unione farebbe propendere per la
soluzione negativa. Considerato però il ruolo più attivo che il Consiglio europeo svolge nell'ambito della PESC, non è escluso che
esso una volta risolto il conflitto insorto in sede di Consiglio, possa spingersi fino all'approvazione formale dell'atto.

Per quanto riguarda il potere di iniziativa, spetta ad ogni Stato, all'Alto rappresentante da solo o con l'appoggio
della Commissione. Tutti questi soggetti possono sottoporre al Consiglio questioni rientranti nella PESC e
"presentare iniziative o proposte". Ciò non sembra escludere che il Consiglio possa agire di propria iniziativa.
Il Parlamento europeo non svolge alcun ruolo attivo nell'elaborazione delle decisioni PESC. L'Alto rappresentante lo
consulta regolarmente "sui principali aspetti sulle scelte fondamentali" della PESC e "provvede affinché le opinioni del
Parlamento europeo siano debitamente prese in considerazione". Da parte sua il Parlamento può rivolgere
interrogazioni o formulare raccomandazioni al Consiglio e all'Alto rappresentante e due volte l'anno dibatte dei
progressi compiuti.
Per quanto riguarda l'Alto rappresentante va segnalato anche il potere di attuazione che gli compete in ambito
PESC. È prevista anche la creazione di un servizio europeo per l'azione esterna di cui l'Alto rappresentante potrà
avvalersi nell'esercizio delle funzioni.

8. La procedura per la conclusione degli accordi internazionali


8.1. La procedura per negoziare e concludere accordi internazionali dell'Uunione con Stati terzi o con altre
organizzazioni internazionali è caratterizzata dal ruolo centrale del Consiglio che decide su tutte le fasi.
In particolare, il negoziato si apre in seguito ad autorizzazione del Consiglio su raccomandazione della Commissione o dell'Alto
rappresentante, se si tratta di accordi che riguardano "esclusivamente o principalmente" la PESC e viene svolto da un negoziatore
designato, in funzione della materia, dal Consiglio. È possibile anche che si preferisca una squadra di negoziato, il cui capo è
designato dal Consiglio. Questo può impartire direttive al negoziatore e designare un comitato speciale che deve essere consultato.
La firma è autorizzata dal Consiglio su proposta del negoziatore con decisione, che potrà disporre anche l'eventuale applicazione
provvisoria dell'accordo, in attesa della sua entrata in vigore. Altrettanto vale per la conclusione e la sospensione dell'accordo.

Nel corso dell'intera procedura il Consiglio delibera normalmente a maggioranza qualificata. Delibera invece
all'unanimità per quanto riguarda:
a) accordi riguardanti un settore per il quale è richiesta l'unanimità per l'adozione di un atto (interno) dell'Unione;
b) accordi di associazione;
c) accordi con gli Stati candidati all'adesione;
d) accordo sull'adesione dell'Unione alla CEDU.
La fase della conclusione segue in generale il modello della procedura di consultazione. Il Parlamento europeo deve
infatti essere sempre previamente consultato salvo nei casi di accordi che riguardino esclusivamente la PESC.
Procedura di approvazione: necessaria nei casi in cui il Consiglio non può decidere la conclusione dell'accordo
senza l’approvazione del Parlamento europeo. Tale procedura è richiesta per:
a) accordi di associazione;
b) accordo sull'adesione dell'Unione alla CEDU;
c) accordi che creano un quadro istituzionale specifico organizzando procedure di cooperazione;
d) accordi che hanno ripercussioni finanziarie considerevoli per l'Unione;
e) accordi che riguardano settori ai quali si applica la procedura legislativa ordinaria oppure la procedura legislativa
speciale qualora sia necessaria l'approvazione del Parlamento europeo.
In caso di mera consultazione, "il Parlamento europeo formula il suo parere nel termine che il Consiglio può fissare in
funzione dell'urgenza. In mancanza di parere entro detto termine il Consiglio può deliberare". Per gli accordi la cui
conclusione richiede l'approvazione del Parlamento invece l'eventuale termine deve essere concordato, in caso
d'urgenza, dal Parlamento del Consiglio.
Una particolarità della procedure in esame è che essa può comprendere la consultazione della Corte di giustizia.
Uno Stato membro, il Parlamento, il Consiglio o la Commissione possono infatti domandare "il parere della Corte di
giustizia sulla compatibilità di un accordo previsto con le disposizioni del presente trattato".

9. Le procedure per l'adozione degli atti d'attuazione e d'esecuzione


9.1. Spesso gli atti del Consiglio o quelli adottati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio (atti di base
o di primo grado) affidano alla Commissione il compito di adottare atti di attuazione/esecuzione o di secondo grado.
In alcuni casi l'atto di base si limita a definire gli elementi essenziali della disciplina o detta una disciplina sulla base
dei dati tecnici scientifici disponibili al momento. In casi del genere l'atto di base delega la Commissione a completare
la disciplina stessa con regole di dettaglio o addirittura autorizza la Commissione a modificare la disciplina di base
su aspetti non centrali, in particolare per tenerla aggiornata ai nuovi dati tecnici scientifici. In questi casi il compito
della Commissione rientra nel concetto di attuazione: si parla infatti di atti di attuazione.
In altri casi invece l'atto di base conferisce alla Commissione solo il compito di applicare la normativa contenuta
nell'atto di base, adottando provvedimenti di carattere generale o individuale a questo fine. In questi casi l'opera della
Commissione attiene piuttosto all'esecuzione dell'atto di base: si parla infatti di atti di esecuzione.
Non mancano incertezze sull'esatta distinzione tra atti di attuazione e atti d'esecuzione. La distinzione è diventata
invece importante dopo il trattato di Lisbona. Gli art. 290 e 291 TFUE stabiliscono procedure e condizioni diverse a
seconda che l'atto di base conferisca alla Commissione poteri dell'uno o dell'altro tipo.
9.2. L'art. 290, par. 1, I co., TFUE, introduce nel sistema dell'Unione l'istituto della delega di attuazione. Esso
prevede che "un atto legislativo può delegare alla Commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata
generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell'atto legislativo".
Contenuto degli atti legislativi di delega:
- "delimitano esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere" (par.1, II co.);
- "fissano esplicitamente le condizioni cui è soggetta la delega" (par.2).
Con questa espressione, devono intendersi le modalità di controllo che le istituzioni autrici dell'atto legislativo di
delega (Consiglio e/o Parlamento europeo) possono esercitare sulla maniera in cui la Commissione da attuazione alla
delega ricevuta. Tali modalità sono stabilite nell'atto legislativo di delega e possono consistere: a) nel potere di
revocare la delega; b) nel potere di impedire l'entrata in vigore dell'atto delegato dalla Commissione sollevando
"obiezioni" entro un termine fissato dall'atto legislativo di delega.
L'aspetto più problematico dell'Istituto consiste nella possibilità che l'atto legislativo di delega autorizzi la Commissione non solo
ad integrare l'atto attraverso norme di dettaglio che non si sarà ritenuto necessario prevedere direttamente nell'atto legislativo, ma
anche di modificare alcuni "elementi non essenziali dell'atto legislativo". Da un lato, infatti, non è agevole distinguere tra elementi
essenziali e elementi che tali non sono, con la conseguente possibilità di controversie interistituzionali ma anche tra istituzioni e
Stati membri. D'altro lato, ammettere che l'atto delegato possa modificare, sia a ciò autorizzato, l'atto legislativo di delega,
introduce una non auspicabile confusione tra le fonti. Il fatto che gli atti delegati dalla Commissione non saranno atti legislativi
induce a classificare l'istituto come una forma di delegificazione piuttosto che come una forma di delega di poteri legislativi ad
organi che normalmente non hanno poteri del genere. La delega consiste infatti nell'autorizzare una fonte sub-legislativa a
modificare norme poste da una fonte legislativa.

9.3. L'art. 291 TFUE si occupa dell'esecuzione degli "atti giuridici vincolanti dell'unione".
L'esecuzione è normalmente affidata agli stati membri, i quali "adottano tutte le misure di diritto interno necessarie per
l'attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell'unione" (par. 1).
L'esecuzione può essere affidata alla Commissione o eccezionalmente al Consiglio, soltanto "allorché sono necessarie
condizioni uniformi di esecuzione degli atti giuridicamente vincolanti dell'unione" (par. 2).
È previsto il controllo da parte degli Stati membri sull'operato della Commissione (e non del Consiglio), stabilendo
che "le regole e i principi generali relativi alle modalità" di tale controllo saranno stabiliti dal Parlamento europeo e dal
Consiglio, "deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria".
Il controllo è affidato agli Stati membri e non all'istituzione autrice dell'atto vincolante della cui esecuzione trattasi. L'istituto
sembra dunque differire dal controllo operato sulla Commissione attraverso la comitologia. Si tratta di forme codificate di
controllo da parte del Consiglio e, in un caso, del Parlamento europeo. Le modalità consistono nella previsione di diversi tipi di
comitati (composti di esperti nazionali), che devono esaminare i progetti di atti d'esecuzione, prima che la Commissione possa
adottarli definitivamente. Il potere di influire sulla Commissione varia a seconda del tipo di comitato prescelto (comitati consultivi,
di gestione, di regolamentazione, di regolamentazione con controllo, comitati per le misure di salvaguardia).

10. La procedura per instaurare una cooperazione rafforzata


10.1. L'istituto della cooperazione rafforzata rappresenta la piena accettazione di quella concezione che è stata
definita Europa a più velocità. Lo scopo della cooperazione rafforzata è di consentire ad un gruppo di Stati membri
di utilizzare le istituzioni, le procedure ed i meccanismi decisionali previsti dai trattati per instaurare tra loro forme
di cooperazione non condivise da tutti gli Stati membri.
Numerosi sono i requisiti materiali necessari: la cooperazione rafforzata deve riguardare una competenza non esclusiva
dell'Unione; essere intesa a promuovere la realizzazione degli obiettivi dell'Unione, proteggere i suoi interessi e rafforzare il suo
processo di integrazione ed essere aperta a qualsiasi Stato membro; deve essere autorizzata in ultima istanza, nel senso che gli
obiettivi non possono essere conseguiti entro un termine ragionevole dall'Unione nel suo insieme; deve rispettare i trattati; il
diritto dell'Unione, non può recare pregiudizio al mercato interno né alla coesione economica, sociale e territoriale, non può
costituire un ostacolo o una discriminazione per gli scambi tra Stati membri; deve rispettare le competenze, i diritti e gli obblighi
degli Stati membri che non vi partecipano. Non è più espressamente previsto che debba rispettare l'acquis.

10.2. La procedura per l'autorizzazione ad instaurare una cooperazione rafforzata diverge a seconda che l'oggetto
della cooperazione riguardi o meno la PESC.
Per la PESC si dispone che la richiesta di instaurare una cooperazione rafforzata è presentata dagli Stati interessati
al Consiglio trasmessa all'Alto rappresentante e alla commissione perché esprimano un parere sulla coerenza con la
PESC e con le altre politiche dell'Unione e al Parlamento europeo per conoscenza. L'autorizzazione è concessa dal
Consiglio con deliberazione all'unanimità.
Per gli altri settori invece gli Stati membri interessati devono trasmettere la loro richiesta alla Commissione. Questa
può presentare al Consiglio una proposta al riguardo ma anche rifiutarsi di farlo, informando gli Stati membri delle
ragioni di tale decisione. L'autorizzazione è concessa secondo una procedura di approvazione: il Consiglio delibera (a
maggioranza qualificata) previa approvazione del Parlamento europeo.
10.3. La composizione delle istituzioni, le modalità deliberative e le procedure decisionali applicabili nell'ambito di
una cooperazione rafforzata sono quelle ordinarie. L'unica particolarità riguarda il Consiglio. I rappresentanti di Stati
membri non partecipanti, non possono votare. Il quorum per raggiungere la maggioranza qualificata è determinato
proporzionalmente rispetto agli Stati partecipanti. L'unanimità è costituita dai soli voti di tali Stati.
10.4. Il trattato di Lisbona ha disposto che nell'ambito della politica europea di sicurezza e difesa (PESD), che costituisce una
componente della PESC, sia applicabile un istituto analogo, detto cooperazione strutturata permanente. Gli Stati membri che
"rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari" e che "hanno sottoscritto impegni più vincolanti in materia ai fini delle
missioni impegnative", possono instaurare tra di loro una cooperazione di tale tipo. La disciplina di tale forma di cooperazione è
simile a quella applicabile alla cooperazione rafforzata. La cooperazione strutturata è detta permanente per distinguerla dalla
cooperazione che può essere instaurata tra alcuni stati membri, per lo svolgimento delle missioni civili o militari. La realizzazione
di una missione del genere può infatti essere affidata "ad un gruppo di Stati membri che lo desiderano e dispongono delle capacità
necessarie".

PARTE III
L’ORDINAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA

1. Considerazioni generali
1.1. Nella sent. del 1963, Van Gend & Loos, la Corte di giustizia conclude che "la comunità costituisce un ordinamento
giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in
settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti non solo gli Stati membri ma anche i loro
cittadini". Tale concezione viene ribadita nella sent. del 1964, Costa C. ENEL, dove la corte afferma che "a differenza
dei comuni trattati internazionali, il trattato CEE ha istituito un proprio ordinamento giuridico integrato nell'ordinamento
giuridico degli Stati membri all'atto dell'entrata in vigore del Trattato e che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare".
Secondo la Corte, gli Stati membri "hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani creato quindi un
complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi".
Preoccupazione della Corte: distinguere il TCE dai trattati internazionali tradizionali. A differenza di questi, il TCE
comporta delle vere e proprie limitazioni di sovranità a carico degli Stati membri, sia pure in settori limitati. Inoltre,
diversamente da quanto si ritiene avvenga per i trattati internazionali, il TCE e il complesso di norme che ne
scaturisce non si limitano a porre obblighi a carico degli Stati membri, ma toccano la sfera giuridica degli stessi
soggetti degli ordinamenti interni degli Stati membri (i cittadini in senso generico), i quali diventano perciò soggetti
anche dell'ordinamento comunitario.
I caratteri che secondo la Corte, distinguono il TCE dai trattati internazionali tradizionali servono anche soprattutto
ad assegnare l'autonomia del diritto comunitario rispetto al diritto interno degli Stati membri.
L'applicazione del diritto comunitario non è subordinata all'adozione da parte di tali Stati di misure interne di
adattamento (principio dell'efficacia diretta). Nemmeno è possibile che l'applicazione del diritto comunitario sia
ostacolata o impedita dalla presenza di provvedimenti preesistenti degli Stati membri o dall’adozione di nuovi
provvedimenti contrari a quanto prevede il diritto comunitario (principio del primato).
Secondo la Corte di giustizia, l'ordinamento comunitario è autonomo tanto rispetto all'ordinamento internazionale
generale, quanto soprattutto rispetto agli ordinamenti interni degli stati membri.
Finora la Corte ha parlato di ordinamento autonomo solo con riferimento al diritto comunitario e non ha avuto
ancora l'occasione di pronunciarsi sul se sia possibile dirsi altrettanto dell'ordinamento dell'Unione nel suo
complesso, comprensivo anche delle disposizioni dei trattati e degli atti delle istituzioni.
1.2. Come ogni ordinamento giuridico, anche l'ordinamento dell'Unione si fonda su un sistema di fonti di
produzione del diritto, articolate secondo la propria gerarchia. L'attuale gerarchia può essere così schematizzata:
- i trattati, i principi generali del diritto, la Carta dei diritti fondamentali dell'UE;
- le norme del diritto internazionale generale degli accordi internazionali conclusi dall'Unione con Stati terzi;
- gli atti base adottati dalle istituzioni;
- gli atti d'attuazione o di esecuzione adottati dalla commissione o dal consiglio.
La distinzione fondamentale resta quella tra:
- diritto primario: si compone dai trattati;
- diritto secondario o derivato: si compone degli atti che le istituzioni possono adottare in attuazione dei trattati.
Circa il diritto primario tuttavia la giurisprudenza è venuta nel tempo riconoscendo l'esistenza di principi generali del
diritto, in particolare di quelli attinenti alla protezione dei diritti fondamentali dell'uomo. Il Trattato di Lisbona ha poi
creato una nuova fonte scritta cui è riconosciuto "lo stesso valore giuridico dei trattati": la Carta dei diritti
fondamentali dell'UE (art. 6 TUE). Tra le fonti di diritto primario, si inseriscono, come fonti intermedie, le norme di
diritto internazionale generale degli accordi internazionali conclusi dall'UE con Stati terzi.
1.3. All'interno del diritto secondario derivato, può stabilirsi una gerarchia tra atti di base e atti d'attuazione o di
esecuzione. L'atto di attuazione o di esecuzione deve rispettare l'atto di base e restare nei limiti della delega
conferita. Il trattato di Lisbona ha introdotto una distinzione netta tra atti di attuazione e atti di esecuzione.
Atti di attuazione: sempre adottati dalla Commissione su delega disposta da un atto legislativo adottato, secondo i
casi, congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio o dall'una o dall'altra di queste istituzioni.
Atti dell'esecuzione: sono emessi dalla Commissione o, "in casi specifici” dal Consiglio.
1.4. Tra gli atti adottati dalle istituzioni, che si tratti di atti di base o di atti d'attuazione di o di esecuzione, figurano
categorie di atti molto diversi quanto alla loro natura e alla loro struttura.
Per quanto riguarda la natura, occorre tener presente la distinzione tra atti legislativi e atti non legislativi.
La distinzione si basa sulla procedura decisionale applicabile per l'adozione. Solo "gli atti giuridici adottati mediante
procedura legislativa sono atti legislativi", al contrario, gli atti adottati mediante una procedura non qualificata come
legislativa saranno atti che, benché recanti la medesima denominazione di un atto legislativo, tali non sono. In
concreto, si possono avere regolamenti, direttive o decisioni legislativi e regolamenti, direttive e decisioni non
legislativi a seconda della procedura decisionale mediante la quale ciascun atto è stato adottato.
È la base giuridica a stabilire se si debba seguire una procedura legislativa (ordinaria o speciale) oppure una
procedura non qualificata come tale, determinando la natura legislativa o meno degli atti adottati.
La categoria degli atti non legislativi è definita per esclusione. Sono tali tutti gli atti delle istituzioni per la cui
adozione non è prevista una procedura legislativa. Le procedure legislative ordinarie o speciali che siano,
contemplano l'adozione di atti da parte del Parlamento europeo e del Consiglio congiuntamente o separatamente. Di
conseguenza gli atti delle altre istituzioni saranno a priori non legislativi.
Il fatto che un atto giuridico sia o meno legislativo comporta alcune conseguenze:
- i lavori del Consiglio per l'adozione di un atto legislativo dovranno svolgersi in seduta pubblica, con la conseguente
necessità di dividere ciascuna sezione "in due parti dedicate, rispettivamente, alle deliberazioni su atti legislativi
dell'Unione e alle attività non legislative”;
- in merito agli atti legislativi saranno esercitati i poteri di controllo dei parlamenti nazionali circa il rispetto del
principio di sussidiarietà;
- le condizioni di irricevibilità dei ricorsi di annullamento delle persone fisiche o giuridiche saranno più severe se
l’atto impugnato ha carattere legislative di quanto lo saranno in caso di impugnazione di "atti regolamentari che non
comportano alcuna misura di esecuzione".
1.5. Anche dal punto di vista della loro struttura gli atti delle istituzioni presentano grandi differenze. L'art. 288
TFUE, contiene l'elencazione e la descrizione degli atti più frequentemente utilizzati dalle istituzioni (atti tipici):
 regolamenti;
 direttive; Sono atti vincolanti
 decisioni;
 pareri; Non sono vincolanti e in quanto tali non possono fungere da fonti del diritto
 raccomandazioni
È possibile che uno Stato membro dia spontaneamente attuazione ad una raccomandazione, attraverso atti interni. In tali casi, il
giudice chiamato ad applicare tali atti, può avere bisogno di conoscere la corretta interpretazione della raccomandazione. Nella
sent. del 1989, causa Grimaldi, la Corte è chiamata dal Tribunale del lavoro di Bruxelles a pronunciarsi sull'interpretazione di
alcune raccomandazioni della commissione in materia di malattie professionali.

Non è prevista alcuna gerarchia tra gli atti vincolanti di tipo diverso. Di conseguenza una direttiva potrebbe
abrogare un regolamento e una decisione potrebbe prevedere una deroga rispetto ad una direttiva.
Normalmente la base giuridica specifica di volta in volta quale tipo di atti le istituzioni possono adottare.
Può capitare che il tipo di atto da adottare non venga affatto precisato. In questo caso, spetta alle Istituzioni
competenti effettuare la scelta "nel rispetto del principio di proporzionalità".
Per la PESC è prevista una tipologia di atti con denominazione struttura diverse (atti atipici). Un esempio è costituito
dal bilancio della comunità.

1.6. Accanto agli atti atipici, ma pur sempre espressamente contemplati dai trattati, vanno annoverati alcuni tipi di
atto affermatisi solo in via di prassi, soprattutto nel settore della disciplina della concorrenza degli aiuti di Stato alle
imprese. In entrambi questi settori la Commissione gode di poteri diretti di controllo e di sanzione, ma anche di un
ampio margine di discrezionalità. Per orientare i comportamenti dei destinatari di tali poteri (imprese e Stati
membri), la Commissione pubblica periodicamente delle comunicazioni (orientamenti, codici, disciplina, linee
direttrici) per rendere noto il modo in cui intende applicare le norme del Trattato con riferimento a determinate
categorie di fattispecie.
Pur non avendo un vero e proprio valore normativo, le comunicazioni sono considerate dalla giurisprudenza come
atti attraverso cui la Commissione definisce i limiti del proprio potere discrezionale. Ne consegue che la Commissione
non può discostarsene nella valutazione dei casi concreti. Una mera prassi, anche se costante e di lunga durata, che
non si sia tradotta in comunicazioni, può essere variata nel tempo dalla Commissione, senza che le imprese
interessate possano vantare un legittimo affidamento circa il mantenimento della prassi anteriore.
Il principio si desume dalla sent. del 2005, Dansk Rorindustri, a proposito del metodo per calcolare le ammende inflitte alle
imprese responsabili di aver violato le regole comunitarie in materia di concorrenza (art. 101 e 102). Il potere di infliggere
ammende del genere era previsto dall'art. 15, par. 2, Reg. N. 17 del Consiglio del 1962. La Commissione godeva, in proposito, di
notevole discrezionalità. Soltanto con la comunicazione intitolata "orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione
dell'art. 15, par. 2, del regolamento n. 17 e dell'art. 65, par. 5, del trattato CECA" la Commissione aveva pubblicato i criteri in base
ai quali intendeva operare. Tuttavia tali criteri si erano rivelati, per alcuni aspetti, diversi, più severi rispetto a quelli seguiti in
precedenza, con la conseguenza che le ammende inflitte raggiungevano un ammontare superiore a quello cui avrebbe dato luogo
l'applicazione dei criteri affermatisi per prassi. Nella fattispecie oggetto della sentenza, la decisione della Commissione veniva
impugnata per avere applicato i nuovi criteri ad un'ipotesi di violazione dell'art. 81 TCE (ora art. 101 TFUE) commessa prima della
pubblicazione degli orientamenti citati.

1.7. Gli artt. 296 e 297 TFUE disciplinano alcuni aspetti comuni a tutti gli atti delle istituzioni: motivazione, firma
e entrata in vigore.
Gli atti delle istituzioni "sono motivati e fanno riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni richieste o pareri previsti dai
trattati". Gli atti legislativi sono firmati dal presidente del Parlamento e o dal presidente del Consiglio, a seconda della procedura
legislativa applicabile. Gli atti non legislativi sono firmati dal presidente dell'Istituzione che li ha adottati. Sono pubblicati nella
GU dell'UE: gli atti legislativi e, tra gli atti non legislativi, i regolamenti, le direttive rivolte a tutti gli Stati membri, le decisioni che
non designano i destinatari. Gli atti pubblicati nella GU entrano in vigore 20 giorni dopo la pubblicazione, salvo che sia disposto
diversamente. Le direttive rivolte a determinati stati membri e le decisioni che designano destinatari sono notificate ai destinatari
ed "hanno efficacia in virtù di tale notificazione".

2. I trattati
2.1. Le fonti di diritto primario dell'Unione sono in massima parte contenute nei trattati (TUE e TFUE).
Il rapporto tra i due trattati è paritetico dal punto di vista della natura giuridica, gerarchico dal punto di vista funzionale. Da un
punto di vista funzionale, il TFUE è strumentale rispetto al TUE. Le disposizioni più importanti sono concentrate nel TUE, mentre
il TFUE è il contenitore di tutte quelle disposizioni che sono state considerate di importanza minore o di dettaglio (con l'eccezione
del settore relativo alla PESC, la cui disciplina è quasi interamente dettata da disposizioni del TUE). Di conseguenza il TFUE,
serve di integrare e dettagliare la disciplina generale contenuta nel TUE, rendendola operativa. Tra i due testi esiste pertanto un
legame funzionale, nel cui ambito il TFUE è servente rispetto al TUE.

Natura di fonti primarie hanno anche i protocolli e gli allegati ai trattati.


L'atto finale delle CIG, convocate per approvare trattati di revisione o adesione, reca in allegato alcune dichiarazioni,
aventi ad oggetto una o più disposizioni dei trattati o questioni attinenti alla loro applicazione. Ne esistono due tipi:
a) dichiarazioni della conferenza, cioè di tutti gli Stati membri: ad esse può riconoscersi un ruolo importante per
quanto riguarda l’interpretazione delle disposizioni alle quali si riferiscono. Esse tuttavia non hanno la stessa natura
giuridica di tali disposizioni (non sono infatti sottoposte a ratifica dei parlamenti nazionali e non costituiscono per
l'interprete un vero e proprio vincolo.
b) dichiarazioni di uno o più Stati membri: hanno rilevanza minore rispetto alle prime, purché non emanano da
coloro (o almeno da tutti coloro) che detengono collettivamente il potere di revisione. Ciò non esclude, però, che
anche queste possono essere prese in considerazione dall'interprete ed in particolare dalla Corte di giustizia.
2.2. Questione molto dibattuta: natura giuridica dei trattati. Tradizionalmente, l'alternativa si pone tra due possibili
soluzioni: trattati come semplici trattati internazionali o, nel loro insieme, come una carta costituzionale.
A sostegno della prima soluzione, può invocarsi la circostanza che il TCE, il TUE e tutti i trattati che nel tempo li
hanno modificati, sono stati conclusi nelle forme secondo i procedimenti propri di un normale trattato
internazionale. In particolare viene in rilievo quella particolare categoria di trattati internazionali che rappresentano
"l'atto costitutivo di un'organizzazione internazionale".
Ponendoci invece in una prospettiva interna al sistema giuridico dell'Unione, sembra invece possibile ammettere che
i trattati assolvano ad una funzione di natura costituzionale. Essi infatti, da un lato, definiscono la struttura
istituzionale dell'Unione, le procedure per l'adozione degli atti di diritto derivato e le caratteristiche di tali atti;
dall'altro, prevedono una serie di norme materiali che dettano i principi e le regole di base applicabili ai vari settori
sottoposti alla competenza dell'Unione. La disciplina contenuta nei trattati, inoltre, è inderogabile dalle istituzioni
dagli Stati membri, se non seguendo la procedura di revisione dell'art. 48 TUE. All'interno dell'Unione infine opera
una Corte di giustizia che assicura il rispetto dei trattati e del diritto in generale ed è accessibile, secondo modelli
differenti, da tutti i soggetti interessati: Istituzioni, Stati membri, soggetti degli ordinamenti interni.
Certo non si tratta di una costituzione di tipo statuale. Alla nascita di uno Stato europeo, di cui i trattati
rappresenterebbero la carta fondamentale, non è, al giorno d'oggi, che uno dei possibili esiti di un processo ancora in
corso. Tuttavia la tesi che il TCE sia null'altro che un trattato internazionale non soddisfa.
2.3. La Corte di giustizia considera e adopera i trattati come una costituzione, piuttosto che come trattati
internazionali. Tale concezione si riflette nei criteri interpretativi seguiti dalla Corte, che infatti si discostano dai
criteri utilizzati per i trattati internazionali, compresi quelli sostitutivi di organizzazioni internazionali. In particolare
la Corte di giustizia tende a dare un rilievo non decisivo al dato testuale delle norme da interpretare e ricorre invece
con grande libertà a criteri di tipo contestuale teologico. Le norme del TFUE sulle quattro libertà di circolazione
(merci, persone, servizi capitali) sono sempre interpretate estensivamente, così come lo sono le norme che
definiscono le competenze dell'Unione. Al contrario, le norme che consentono agli Stati membri di adottare o
mantenere provvedimenti derogatori rispetto alle regole generali sono oggetto di interpretazione restrittiva, come
anche le norme che mirano a consentire agli Stati membri di continuare ad utilizzare le loro competenze
parallelamente a quelle comunitarie. Risulta perciò rovesciato il criterio normalmente seguito dai giudici
internazionali, secondo cui le limitazioni della sovranità degli Stati non si presumono.
Uno dei primi esempi di interpretazioni restrittive è contenuto nella sent. del 1971, Deutsche Gammophon. Un fabbricante di
dischi tenta di opporsi all'importazione in Germania di dischi da lui stesso precedentemente venduti in un altro Stato membro,
invocando il proprio diritto esclusivo di distribuzione nel territorio tedesco.

Un altro criterio interpretativo applicato alle norme del trattato è quello detto dell'effetto utile. Tra le varie
interpretazioni possibili, la Corte preferisce quella che consente di riconoscere alla norma la maggiore effettività
possibile, in maniera che gli scopi a cui la norma è rivolta possano essere raggiunti più compiutamente.
La Corte è ricorsa al criterio dell'effetto utile per giustificare l'affermazione di importanti principi giurisprudenziali. Un esempio è
offerto dalla giurisprudenza che riconosce l'efficacia diretta delle direttive. Nella sent. 1979, Ratti, la Corte è chiamata a
pronunciarsi sul se un produttore di vernici possa invocare, a giustificazione della mancata osservanza della normativa nazionale,
la circostanza che tale normativa non è conforme ad una direttiva adottata in materia. Nel dare risposta affermativa al quesito, la
corte afferma: “particolarmente nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante direttiva, imposto agli Stati membri di
adottare un determinato comportamento, l'effetto utile dell'atto sarebbe attenuato se agli amministrati fosse precluso di valersene in
giudizio e ai giudici nazionali di prenderlo in considerazione in quanto elemento del diritto comunitario".

2.4. I trattati possono essere modificati solo ricorrendo alle procedure previste a questo scopo dagli stessi trattati, in
particolare dall'art. 48 TUE, che disciplina le procedure di revisione. La più importante è la procedura di revisione
ordinaria, che è anche la sola ad avere un campo di applicazione generale. Sono poi previste due procedure di
revisione semplificate, che si applicano, la prima, solo a determinate parti dei trattati, la seconda, solo per modificare
le procedure decisionali. Inoltre nel testo dei trattati s'incontrano altre clausole di revisione di portata specifica.
La procedura di revisione ordinaria si suddivide in numerose fasi, di cui le prime, aventi carattere preparatorio, si
svolgono all'interno del circuito istituzionale dell'Unione, mentre le fasi finali, nel corso delle quali vengono assunte le
deliberazioni vere e proprie, si svolgono all'esterno di tale circuito e vedono come protagonisti gli stati membri e i loro
parlamenti nazionali. Articolazione procedura:
1. presentazione al Consiglio di un progetto di modifica da parte del governo di qualsiasi Stato membro, del
Parlamento europeo o della Commissione;
2. decisione del Consiglio europeo, a maggioranza semplice, favorevole all'esame delle modifiche trasmesse dal
Consiglio al Consiglio europeo;
3. convocazione da parte del presidente del Consiglio europeo di "una convenzione composta da rappresentanti
dei parlamenti nazionali, dei capi di Stato e di governo degli stati membri, del Parlamento europeo e della
Commissione" con lo scopo di esaminare i progetti di modifiche di adottare per consenso una
raccomandazione per la conferenza intergovernativa (CIG); in caso di modifiche istituzionali nel settore
monetario, è consultata anche la BCE;
4. in alternativa, qualora "l'entità delle modifiche" non giustifichi la convocazione della convenzione di cui al
punto precedente, decisione del Consiglio europeo a maggioranza semplice, previa approvazione del
Parlamento europeo, che definisce il mandato per la CIG;
5. convocazione di una CIG formata dai rappresentanti dei governi degli Stati membri per "stabilire di comune
accordo le modifiche da apportare ai trattati";
6. ratifica delle modifiche approvate da parte di tutti gli Stati membri "conformemente alle rispettive norme
costituzionali" e loro entrata in vigore.
L'avvio della procedura è agevolato dalla circostanza che il Consiglio europeo può deliberare a maggioranza semplice.
Tuttavia, che si passi attraverso la convocazione di una convenzione o si vada alla CIG, in quella sede è necessario
l'accordo unanime degli stati membri sul trattato di revisione. Tale accordo, tuttavia, non è sufficiente perché
l'entrata in vigore è subordinata alla ratifica da parte di tutti gli Stati membri, secondo le norme costituzionali.
Essendo rimessa a ciascuna costituzione nazionale la definizione delle forme necessarie per la ratifica, è a queste che spetta
stabilire se la ratifica debba avvenire come per qualsiasi trattato internazionale o se invece sia necessario seguire procedure
speciali. In particolare, sono le costituzioni nazionali che definiscono se e in quali casi la ratifica debba essere sottoposta a
referendum popolare o anche se sia possibile esperire un ricorso costituzionale contro il provvedimento di ratifica. Per quanto
riguarda la sottoposizione della ratifica a referendum popolare, le costituzioni di alcuni Stati membri lo richiedono per i trattati
che attribuiscono all'UE nuove competenze. Altre volte la necessità del referendum dipende dal se la ratifica necessiti o meno una
modifica della costituzione. In altri Stati membri il referendum, pur non essendo costituzionalmente prescritto, può essere deciso
dal governo nazionale per ragioni politiche.
L'esperienza passata ha indotto a introdurre nell'art. 48 un apposito comma che dovrebbe facilitare l'entrata in
vigore del trattato di revisione. Il par. 5 prevede: “qualora al termine di un periodo di due anni a decorrere dalla data
della firma di un trattato che modifica i trattati, i 4/5 degli Stati membri abbiano ratificato detto trattato in uno o più
Stati membri abbiano incontrato difficoltà nelle procedure di ratifica, la questione è deferita al Consiglio europeo". La
norma evoca la possibilità che il Consiglio europeo decida misure che favoriscano l'entrata in vigore del trattato di
revisione nonostante la mancata ratifica da parte di uno stato membro o da parte di un numero limitato di Stati.
2.5. Accanto alla procedura ordinaria, il trattato di Lisbona ha previsto due procedure semplificate di revisione.
La procedura disciplinata dall'art. 48, par. 6, TUE, può avere ad oggetto modifiche parziali ma anche totali, delle
"disposizioni della parte III del TFUE relative alle politiche e azioni interne dell'Unione", senza però che ciò comporta
alcuna estensione delle "competenze attribuite all'Unione trattati".
È escluso dall'ambito di applicazione del par. 6 tutto ciò che riguarda l'azione esterna. Altrettanto deve dirsi per le disposizioni di
carattere istituzionale comprese nella parte III riguardanti le modalità di voto del Consiglio alla scelta tra procedura legislativa
ordinaria e procedure legislative speciali. Modifiche del genere sono soggette alla procedura semplificata di revisione (par. 7).
Fasi procedura:
1. Presentazione al Consiglio europeo da parte del governo di qualsiasi Stato membro, del Parlamento europeo,
della Commissione, dei progetti di modifica nei limiti stabiliti;
2. Adozione delle modifiche da parte del Consiglio europeo con decisione approvata all'unanimità, previa
consultazione del Parlamento europeo, della Commissione e, se le modifiche riguardano le disposizioni
istituzionali nel settore monetario, della BCE;
3. Entrata in vigore della decisione del Consiglio europeo "previa approvazione degli Stati membri conformemente
alle rispettive norme costituzionali”.
Unica differenza rispetto alla procedura ordinaria: si evita la convocazione della convenzione e della CIG, essendo
affidato direttamente al Consiglio europeo il compito di definire le modifiche attraverso una propria decisione.
La procedura disciplinata dall'art. 48, par. 7, TUE, invece, può avere ad oggetto solo quelle disposizioni del TFUE o
del titolo V del TUE (PESC) che prevedono che:
- "il consiglio deliberi all'unanimità in un settore o in un caso determinato" (I co.) o che;
- "il consiglio adotti atti legislativi secondo una procedura legislativa speciale" (II co.).
Nel primo caso è possibile stabilire che il Consiglio deliberi a maggioranza qualificata, nel secondo che si passi alla
procedura legislativa ordinaria. La procedura in esame è nota come procedura passerella. Fasi:
1. Iniziativa del Consiglio europeo;
2. Trasmissione dell'iniziativa ai parlamenti nazionali, ciascuno dei quali può, entro sei mesi, opporsi all'iniziativa,
impedendo che la procedura prosegua;
3. In assenza di opposizione da parte dei parlamenti nazionali, deliberazione del Consiglio europeo con decisione
adottata all'unanimità, previa approvazione del Parlamento europeo.
Le differenze rispetto alla procedura di revisione ordinaria sono di notevole importanza. Al posto della ratifica da
parte degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali, è sufficiente la delibera unanime del
Consiglio europeo con l'approvazione del Parlamento europeo. Non è dunque prevista una fase che si svolge al di
fuori del circuito istituzionale ma sono le stesse istituzioni menzionate che dispongono del potere deliberativo.
L'assenza di intervento diretto da parte degli Stati membri dei rispettivi apparati costituzionali è però compensata
dall'obbligo di notificare ogni iniziativa del Consiglio europeo (prima che deliberi) ai parlamenti nazionali e dal potere
di ciascuno di questi di porre il veto, opponendosi.
I trattati prevedono infine alcune procedure speciali che permettono di modificare solo taluni articoli o aspetti
specifici. In generale l'elaborazione e l'approvazione delle modifiche affidato ad una delibera unanime del Consiglio
europeo o del Consiglio, ma l'entrata in vigore, come nella procedura semplificata dell'art. 48, par. 6, TUE, è
subordinata all'approvazione da parte degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali.
2.6. L'art. 48 non prevede nulla con riferimento ai limiti del potere di revisione.
Sembrerebbe che l'introduzione di norme che pregiudichino il sistema giurisdizionale previsto dai trattati,
alterando la funzione giurisdizionale della Corte o restringendo la portata della competenza della stessa, non sarebbe
consentita, nemmeno ricorrendo alla procedura di revisione di cui all'art. 48 TUE. Si può ritenere che siano del pari
immodificabili le norme che costituiscono il nocciolo duro dell'ordinamento dell'UE quali l'art. 2 TUE, che definisce i
valori dell'Unione, l'art. 6, almeno nel par. 3, che impone all'Unione il rispetto dei diritti dell'uomo come principi
generali del diritto, e l'art. 14 TFUE, che stabilisce il principio del mercato interno. Possono invece essere previste
talune riduzioni delle competenze dell'Unione.
2.7. Un altro modo per modificare i trattati è previsto dall'art. 49 TUE, che disciplina la procedura di adesione
all'Unione da parte di nuovi Stati. Può presentare domanda di adesione all'Unione: "ogni stato membro" (condizione
geografica) "che rispetti i valori di cui all'art. 2 e si impegni a promuoverli" (condizione politica).
Anche la procedura di adesione si articola in due fasi: la prima si svolge all'interno dell'apparato istituzionale, mentre
la seconda è esterna, in quanto è affidata agli Stati membri. Svolgimento della procedura:
- la domanda di adesione è presentata al Consiglio; ne sono informati il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali;
- la domanda è approvata all'unanimità dal Consiglio, previa consultazione della Commissione e approvazione del
Parlamento europeo, tenuto conto dei "criteri di ammissibilità convenuti dal Consiglio europeo";
- le "condizioni per l'ammissione" e "gli adattamenti dei trattati da essa determinati" sono oggetto di un trattato
concluso tra gli Stati membri e lo stato candidato, che deve essere ratificato da tutti gli Stati contraenti secondo le
rispettive norme costituzionali.
Sono quindi il Consiglio e il Parlamento europeo (che deve dare la propria approvazione) a decidere circa
l'ammissione o meno di un nuovo stato membro. Il trattato (nella forma di trattato con allegato un atto di adesione)
è invece definito dagli Stati, che devono poi sottoporre a ratifica secondo quanto prescrive la propria costituzione
nazionale. L'atto d'adesione ha il solo scopo di stabilire le condizioni di adesione e gli "adattamenti" da apportare ai
trattati che siano determinati dall'adesione. Si tratterà quindi di modifiche minori sui generis rispetto a quelle che
possono essere approvate attraverso la procedura di revisione. Essi normalmente consistono in un ampliamento
della composizione delle istituzioni e degli organi per assicurare la rappresentanza del nuovo stato membro.
La prassi ha dato vita ad una procedura diversa da quanto previsto dall'art. 49. In particolare il negoziato sull'adesione e quello
sulla definizione delle condizioni di adesione e sugli adattamenti dei trattati si svolgono contemporaneamente, di modo che la
decisione di ammissione del trattato con allegato l'atto di adesione, portano alla stessa data. Inoltre la procedura si svolge sotto il
controllo diretto del Consiglio europeo, che ne determina i tempi e le modalità di svolgimento.
Gli ultimi due allargamenti, nel 2004 e nel 2007, hanno visto l'affermarsi di una fase preliminare, detta di pre-adesione, nel corso
della quale lo stato candidato deve dimostrare di rispondere ad alcuni criteri. Solo quando la Commissione attesta il rispetto dei
criteri, il Consiglio europeo autorizza l'apertura dei veri propri negoziati di adesione. Per assistere gli Stati candidati nel loro sforzo
per arrivare a soddisfare i criteri di cui sopra, l'Unione conclude con tali stati appositi accordi di pre-adesione.
L'introduzione della fase preliminare si è resa necessaria per l'ampio numero di paesi candidati e dell’arretratezza economica,
politica e amministrativa che li caratterizzava rispetto agli altri Stati membri. I criteri da verificare: si "richiede che il paese
candidato abbia raggiunto una stabilità istituzionale che garantisca la democrazia, il principio di legalità, i diritti umani, il rispetto e
la protezione delle minoranze" (criteri politici). Inoltre è necessario dimostrare “l'esistenza di un'economia di mercato funzionante
nonché la capacità di rispondere alle pressioni concorrenziali alle forze di mercato all'interno dell'Unione" (criteri economici). È
richiesta "la capacità di assumersi gli obblighi di tale appartenenza, inclusa l'adesione agli obiettivi di un'Unione economica e
monetaria" (criteri relativi all’acquis comunitario).

È prevista la possibilità di recesso dall'Unione. Lo Stato membro che intende ritirarsi notifica tale intenzione al
Consiglio europeo. Ne segue la conclusione di un accordo tra l'Unione e lo Stato interessato "volto a definire le
modalità di recesso". Tuttavia il recesso ha luogo anche in mancanza di tale accordo. Decorsi due anni dalla notifica
dell'intenzione di ritirarsi, i trattati cessano comunque di applicarsi allo Stato interessato. Si tratta di un vero e
proprio diritto di recesso unilaterale, non subordinato all’assenso dell'Unione o di tutti gli altri Stati membri.
2.8. Qualora si considerassero i trattati solo nella veste di trattati internazionali, la presenza di un'apposita
procedura di revisione avrebbe un'importanza ridotta. Il diritto internazionale non esclude infatti che gli Stati
contraenti di un trattato possano decidere di modificarlo senza seguire la procedura prevista per a tale fine, a
condizione che vi sia accordo in tal senso da parte di tutti gli Stati contraenti. Se invece tiene conto della funzione
costituzionale svolta dai trattati, deve concludersi che le procedure previste dall'art. 48 TUE o da altre disposizioni
specifiche non possono essere considerate obbligatorie. Eventuali modifiche che si tentasse di introdurre senza
rispettarle sarebbero prive di qualsiasi valore giuridico.
La Corte di giustizia non ha mai avuto occasione di pronunciarsi espressamente sulla possibilità che gli Stati membri
modifichino i trattati senza osservare una delle procedure previste dai trattati a questo fine. È però da presumersi
che, se una tale occasione dovesse presentarsi, la risposta della Corte sarebbe negativa.
Nel caso esaminato nella sent. 1976, Defrenne c. Sabena, la Corte è chiamata a pronunciarsi, su rinvio pregiudiziale di un giudice
belga, sulla possibilità di applicare in un giudizio instaurato da un’hostess contro la compagnia di bandiera belga, il principio
della parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici. La Corte risponde affermativamente al quesito, negando che si possano
trarre argomenti in senso contrario "dalla circostanza che l'obbligo imposto dal trattato non è stato osservato in determinati casi e
che le istituzioni non hanno adeguatamente reagito a tale inadempimento". Ugualmente irrilevante viene giudicato il fatto che gli
Stati membri abbiano adottato una risoluzione relativa all'applicazione del principio in questione, "rinviandone l'attuazione
secondo un programma scaglionato nel tempo".

Occorre tener conto della prassi del Consiglio europeo di fronte alle difficoltà verificatesi negli ultimi anni in alcuni
Stati membri quanto alla ratifica dei trattati di revisione. La prassi è consistita nell'inserimento nelle conclusioni
della presidenza relative a riunioni del Consiglio europeo o in allegato alle stesse di alcune prese di posizioni
finalizzate a dare assicurazioni allo stato membro che non aveva ancora proceduto alla ratifica e a consentire di
superare l'impasse. Per il loro contenuto tali prese di posizione possono suddividersi in due tipologie. Alcune
contengono l'impegno degli Stati membri riuniti nel Consiglio europeo a modificare in futuro talune disposizioni dei
trattati. Altre esprimono il punto di vista degli Stati membri riuniti nella stessa sede circa il modo in cui talune
disposizioni dei trattati vanno intese ed applicate. Nel primo caso, le prese di posizione del Consiglio europeo
possono essere intese tutt'al più come un pactum de contrahendo di natura politica. Gli Stati membri non potrebbero
infatti assumere impegni giuridici del genere senza sottoporli alle procedure costituzionali di ratifica. Nel secondo
caso, si tratta di riserve interpretative il cui valore risulterebbe vincolante per l'interprete, essendo state approvate da
tutte le parti contraenti.

3. I principi generali del diritto


3.1. Tra le fonti assimilabili a quelle di diritto primario si segnalano anzitutto i principi generali del diritto,
comprensivi dei principi relativi alla tutela dei diritti fondamentali dell'uomo.
Negli ordinamenti giuridici pienamente sviluppati, i principi generali del diritto hanno normalmente poco spazio.
Negli ordinamenti di più recente formazione o in quelli nei quali il sistema di produzione di norme è poco efficiente, i
principi generali assumono invece un ruolo più importante. La tipologia dei principi generali è ampia.
3.2. Prima categoria: i principi generali del diritto dell'Unione. Essi trovano espressione in determinate norme dei
trattati, alle quali, proprio perché considerate come corrispondenti a un principio generale, vengono assegnati grande
importanza e carattere assolutamente imperativo inderogabile.
Un esempio è dato dal principio di non discriminazione, il quale trova specifica applicazione in diverse disposizioni
del TFUE: l'art. 18, che vieta le discriminazioni legate alla nazionalità; l'art. 19, che prevede l'adozione di
provvedimenti "per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le
convinzioni personali, gli handicap, l'età o l'orientamento sessuale"; l’art. 40, che vieta le discriminazioni tra produttori
e consumatori nell'ambito dell'organizzazione comune dei mercati agricoli; l’art. 157, che vieta le discriminazioni
materia salariale tra lavoratrici e lavoratori.
Secondo la Corte di giustizia le disposizioni cit. sono specifiche applicazioni del principio generale di non
discriminazione e vanno interpretate in maniera ampia. Un esempio è fornito dalla maniera in cui è stata definita la
portata della nozione di discriminazione. Alle discriminazioni palesi o dirette (in quanto direttamente basate, a
seconda dei casi, sulla cittadinanza o sul sesso) sono state infatti assimilate le discriminazioni occulte o indirette (in
quanto, sebbene basate su altri criteri, hanno lo stesso effetto delle prime).
Nel caso esaminato nella sent. 1974, Sotgiu, la Corte è chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con l'art. 39 TCE (ora art. 45
TFUE) di una normativa tedesca che subordina la concessione ai lavoratori di un'indennità di separazione alla condizione che il
loro luogo di residenza, prima dell'assunzione, fosse compreso nel territorio tedesco. Di fatto, si impediva che di tale indennità
potessero beneficiare i lavoratori provenienti da altri Stati membri. La Corte afferma: "il principio di parità di trattamento, vieta non
solo le discriminazioni palesi in base alla cittadinanza, ma altresì qualsiasi discriminazione dissimulata che, pur fondandosi su altri
criteri, pervenga al medesimo risultato.

Anche il campo d'applicazione del principio di non discriminazione è stato interpretato in senso estensivo. Ciò è
evidente per quanto riguarda il divieto di discriminazione in base alla nazionalità che è oggetto dell'art. 18 TFUE ed è
ribadito anche dalle disposizioni in materia di libera circolazione delle persone e dei servizi. La Corte ha sottoposto al
rispetto di tale articolo fattispecie rientranti solo marginalmente nel campo d'applicazione dei trattati.
Nella sent. del 1989, Cowan, la Corte affronta il caso di un cittadino britannico, il quale, durante un soggiorno turistico in
Francia, è stato oggetto di aggressione e al quale viene negato un indennizzo previsto per casi del genere dalla legislazione
francese a favore dei soli cittadini nazionali. Dopo aver qualificato la posizione del signor Cowan come quella di un destinatario di
servizi, la Corte statuisce: "il principio di non discriminazione va applicato al destinatario di servizi ai sensi del trattato quanto alla
protezione contro i rischi di aggressione ed il diritto di ottenere una riparazione pecuniaria contemplata dal diritto nazionale allorché
un'aggressione si sia verificata". Avendo lo Stato francese obiettato che la legislazione in causa appartiene all'ordinamento
processuale penale e che tale materia non rientra nel campo d'applicazione del trattato, la Corte risponde: "se la legislazione
penale e le norme di procedura penale, nel novero delle quali rientra la controversa disposizione nazionale, sono in linea di principio
riservate alla competenza gli stati membri, tuttavia dalla giurisprudenza costante della Corte risulta che il diritto comunitario pone
dei limiti a tale competenza. Le norme non possono infatti porre in essere discriminazioni nei confronti di soggetti cui il diritto
comunitario attribuisce il diritto alla parità di trattamento, né limitare la libertà fondamentale garantita dal diritto comunitario". Si
veda anche la sent. 2003, Garcia Avello, in cui la Corte giudica contraria all'art. 18 TFUE (e all'art. 20 TFUE, che istituisce una
cittadinanza dell'Unione) la prassi seguita dall'amministrazione belga di registrare le persone nate in Belgio e aventi cittadinanza
belga e spagnola, col solo cognome del padre, nonostante che in Spagna la registrazione delle stesse persone avverrebbe col
cognome di entrambi i genitori. La Corte, pur riconoscendo che "allo stato attuale del diritto comunitario, le norme che disciplinano
il cognome di una persona rientrino nella competenza degli Stati membri", ricorda che "questi ultimi, nell'esercizio di tale competenza,
devono tuttavia rispettare il diritto comunitario". Si afferma che le persone in questione sono vittime di una discriminazione vietata
dall'art. 18. Infatti "i cittadini belgi titolari di cognomi diversi a causa delle diverse legislazioni cui sono collegati in forza della
propria cittadinanza possono invocare difficoltà peculiari della loro situazione e che li contraddistinguono dalle persone che abbiano
soltanto la cittadinanza belga, le quali sono designate da un solo cognome".

Il principio di non discriminazione è autonomo.


Particolarmente significativa per l'affermazione del valore autonomo del principio di non discriminazione è la sent. del 2005,
Mangold. La legislazione tedesca in materia di contratti di lavoro a tempo determinato era stata più volte modificata nel senso di
ampliare la possibilità di concludere contratti del genere con lavoratori anziani. In particolare la soglia di età che consentiva di
concludere contratti a tempo determinato senza particolari restrizioni era stata abbassata da 60 a 58 anni successivamente a 52
anni. Lo scopo perseguito dal legislatore era di favorire i lavoratori che in ragione della loro età, incontravano particolari difficoltà
ad essere assunti. Grazie a tale legislazione, il signor Mangold, 56 anni, aveva concluso un contratto di lavoro a tempo
determinato. Successivamente chiedeva che il termine finale del contratto fosse dichiarato nullo, invocando la contrarietà della
normativa tedesca in particolare all'art. 6 della direttiva 1000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Interrogata in proposito la Corte giunge alla conclusione che la
disciplina tedesca costituisce un mezzo non idoneo e sproporzionato per favorire l'inserimento professionale dei lavoratori anziani.
Essa non può essere giustificata alla luce dell'art.6 sei cit. Veniva obiettato che il termine concesso alla Germania per l'attuazione
della direttiva non è ancora scaduto né al momento della conclusione del contratto del signor Mangold, né al momento della
decisione della causa. La Corte considera non determinante tale circostanza. Infatti il principio di non discriminazione in ragione
dell'età preesiste rispetto alla direttiva e "trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni
agli Stati membri". Esso "deve essere considerato un principio generale del diritto comunitario". La Corte prosegue: "quando una
normativa nazionale rientra nella sfera d'applicazione di quest'ultimo" come è il caso della normativa tedesca in questione, "la Corte,
adita in via pregiudiziale, deve fornire tutti gli elementi di interpretazione necessari alla valutazione, da parte del giudice nazionale,
della conformità di detta normativa con tale principio". La Corte sembra così richiedere al giudice nazionale di non applicare la
normativa nazionale per il solo fatto della sua contrarietà al principio generale di non discriminazione.

La Corte non ritiene che rientrino nel campo d'applicazione del principio generale di non discriminazione, le
discriminazioni alla rovescia. Si tratta di situazioni che si creano quando norme di uno Stato membro prevedono
per i propri cittadini un trattamento deteriore rispetto a quello riservato ai cittadini di altri Stati membri. Talvolta
una situazione del genere si produce in conseguenza dell'impatto del diritto dell'Unione sulle norme interne. Ad
esempio, l'ordinamento dell'Unione potrebbe imporre la disapplicazione di una norma interna indistintamente
applicabile ai cittadini e ai lavoratori di altri Stati membri in quanto limitativa della libertà di circolazione dei
lavoratori di cui all'art. 45 TFUE. Tuttavia della disapplicazione potrebbero avvantaggiarsi solo quei soggetti che
fruiscono o hanno fruito in passato della libertà di circolazione. Il diritto dell'Unione, invece, non si oppone a che la
stessa norma interna continua ad applicarsi a situazioni puramente interne e perciò estranee al campo
d'applicazione della libera circolazione. In questi casi, la discriminazione alla rovescia deriva dalla combinazione tra
ordinamento interno e ordinamento dell'Unione.
Un esempio di discriminazione alla rovescia si produce nel caso esaminato nella sent. del 1992, Steen. Il signor Steen, cittadino
tedesco, impiegato di ruolo di una società tedesca, lamenta di subire una discriminazione rispetto ai cittadini di altri Stati
membri, i quali, a differenza dei cittadini tedeschi, possono essere assunti con contratti di diritto privato a condizioni più
favorevoli. La Corte si limita ad affermare che, non avendo il signor Steen mai esercitato la libera circolazione all'interno della
comunità, egli "non ha veste per invocare gli art. 7 e 48 del trattato CEE (ora art. 18 e 45 TFUE) con riguardo ad una situazione
puramente interna". La "indifferenza" dell'ordinamento dell'Unione rispetto a situazioni di discriminazione alla rovescia comporta
che le stesse vanno risolte nell'ambito del sistema giuridico nazionale dello stato membro in questione, eventualmente ricorrendo
al principio costituzionale di uguaglianza dinanzi alla legge. L'indicazione proveniente dalla giurisprudenza della corte di giustizia
sarà accolta dalla corte costituzione italiana, nella sentenza del 1997, Pastificio Volpato.

Altri principi generali del diritto comunitario: di libera circolazione, della tutela giurisdizionale effettiva.
Sono talvolta considerati tali anche il principio d'attribuzione; il principio di sussidiarietà; il principio di proporzionalità.
Trattandosi tuttavia dei principi che sono espressamente previsti da una norma del trattato e attengono ad un oggetto specifico (la
ripartizione di competenze tra l'unione degli Stati membri e le condizioni di esercizio delle competenze dell'unione), l'attributo
"generale" serve a sottolinearne l'importanza dell'inderogabilità, ma non che possano trovare applicazione in contesti diversi.

3.3. I principi generali del diritto comune agli ordinamenti degli Stati membri, vengono desunti non dal diritto
dell'Unione, ma dall'esame parallelo dei vari ordinamenti nazionali.
I principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri assumono rilevanza nell'intero campo d'applicazione
dei trattati e vengono utilizzati soprattutto quando si tratta di verificare la legittimità del comportamento delle
Istituzioni o degli Stati membri in relazione alla posizione dei singoli. Tra questi si segnalano soprattutto alcuni
principi inerenti all'idea stessa di Stato di diritto, che costituisce uno dei valori su cui l'Unione si fonda:
- principio di legalità, in base al quale ogni potere esercitato dalle istituzioni deve trovare la sua fonte legittimante
in una norma dei trattati che fissi le condizioni di esercizio;
- principio della certezza del diritto, secondo cui chi è tenuto al rispetto di una norma giuridica deve essere
messo in condizione di poterlo fare e di conoscere il comportamento che la norma gli impone;
- principio di legittimo affidamento, può essere invocato in caso di modifica normativa imprevedibile e
improvvisa da parte degli operatori giuridici, senza che sia giustificato da ragioni imperative di interesse generale;
- principio del contraddittorio, secondo cui le istituzioni e gli organi dell'Unione, quando intendono assumere un
provvedimento sfavorevole a carico di un singolo, devono consentire a quest'ultimo di far valere il proprio punto di
vista prima che il provvedimento stesso venga adottato.
- principio di proporzionalità: implica che gli interventi della pubblica autorità limitativi della libertà o dei diritti
dei singoli, per essere legittimi, a) devono essere idonei a raggiungere l'obiettivo di interesse pubblico perseguito e
b) devono essere necessari a questo fine, evitando di imporre ai privati sacrifici superflui.
Un caso di mancato rispetto del principio di proporzionalità è stato accertato nella sentenza Man (Sugar). In base ad un
regolamento della Commissione, Man (Sugar), società britannica di vendita e di mediazione nel settore dello zucchero, aveva
presentato offerta di esportazione di alcuni quantitativi di zucchero, costituendo la prescritta cauzione sotto forma di fideiussione
bancaria. Essendo stata accolta l'offerta, Man (Sugar) avrebbe dovuto: a) cedere il corrispondente titolo di esportazione entro
quattro giorni; b) effettuare l'operazione di esportazione entro cinque mesi. Il regolamento della Commissione prescriveva
l’incameramento integrale della cauzione per la violazione dell’uno come nell'altro obbligo. Man (Sugar) aveva correttamente
adempiuto all'obbligo sub b), ma aveva richiesto in ritardo i titoli di esportazione. Interrogata sulla validità del regolamento nella
misura in cui prescrive l'incameramento integrale della cauzione, la Corte ricorda che "per stabilire se una disposizione di diritto
comunitario sia conforme al principio di proporzionalità è necessario verificare se i mezzi da essa usati siano appropriati e necessari
per il raggiungimento dello scopo prefisso". La Corte afferma in particolare che "una disciplina comunitaria che opera una
differenziazione tra un obbligo principale, il cui adempimento è necessario per il raggiungimento dello scopo perseguito, ed un obbligo
secondario, avente natura essenzialmente amministrativa, non può sanzionare con pari rigore l'inosservanza dell'obbligo secondario
e l'inosservanza dell'obbligo principale senza violare il principio di proporzionalità". Avendo concluso che l'obbligo di richiedere titoli
di esportazione entro un termine così breve presenta un'utilità amministrativa della Commissione, ma non ha la stessa
importanza dell'obbligo di effettuare l'esportazione, la Corte dichiara l'invalidità delle regolamento in causa.

4. Segue: la protezione dei diritti fondamentali


4.1. Dopo l'entrata in vigore del trattato di Lisbona, la protezione dei diritti fondamentali dell'uomo è oggetto dell'art.
6 TUE. "1. L'Unione riconosce i diritti, le libertà i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'UE del 7
dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni
della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite dai trattati.
I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della
Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento
nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni. 2. L'Unione aderisce alla CEDU. Tale visione non modifica le
competenze dell'Unione definite nei trattati. 3. I diritti fondamentali, garantiti dalla CEDU e risultanti delle tradizioni
costituzionali comuni negli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali".
Dal testo risulta che la protezione dei diritti umani nell'ordinamento dell'Unione trova la sua fonte e la sua disciplina
in una pluralità di strumenti normativi: la Carta dei diritti fondamentali dell'UE (par.1); la CEDU (par.2); i principi
generali di cui fanno parte i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali
comuni agli stati membri (par.3). Di detti strumenti normativi, la Carta dei diritti fondamentali e principi generali
sono sin d'ora vincolanti per l'UE. La CEDU invece lo diverrà solo quando sarà perfezionata l'adesione ad essa
dell'Unione. Per il momento la CEDU non vincola direttamente l'Unione.
4.2. Nell'art. 6 sono confluiti i risultati di un lungo e tormentato processo.
Inizialmente, la completa assenza di qualsiasi riferimento alla tutela dei diritti fondamentali nel TCE aveva condotto
la giurisprudenza della Corte di giustizia a teorizzare l'esistenza di principi generali che assicuravano la protezione di
tali diritti e per la cui costruzione occorreva trarre ispirazione dai trattati internazionali in materia, in particolare la
CEDU, e dalle tradizioni costituzionali comuni negli Stati membri. Successivamente il TUE, nella sua versione
originale, aveva recepito l'impostazione data alla questione dalla giurisprudenza. Ben presto si era tuttavia avvertita
la necessità di conferire una fonte più precisa ed articolata alla tutela dei diritti fondamentali da parte della CE e poi
dell'Unione. Inizialmente si era immaginato che la CE potesse aderire formalmente alla CEDU, diventandone parte
contraente come lo erano già tutti gli Stati membri. La CEDU infatti, costituiva già una fonte di ispirazione per la
ricostruzione dei principi generali in materia. Tale progetto si era però arenato di fronte al parere del 1996 della
Corte di giustizia. Nel parere la Corte aveva escluso che la CE avesse la competenza necessaria.
La volontà di assicurare l'adesione dell'Unione alla CEDU non è venuta meno.
Nell'impossibilità di pervenire rapidamente all'adesione dell'Unione alla CEDU, si è deciso di redigere un autonomo
catalogo dei diritti fondamentali. Questo ha preso la forma della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, proclamata
una prima volta nel 2000, da cui l'appellativo di Carta di Nizza invalso nell'uso.
4.3. L'affermazione della giurisprudenza della Corte di giustizia secondo cui esistono principi generali del diritto che
proteggono i diritti fondamentali che vincolano le Istituzioni è strettamente collegata alla presa di posizione assunta
negli stessi anni dalle Corti cost. italiana e tedesco-federale in due pronunce del 1973 e del 1974. Entrambe le Corti
partono dal presupposto che le norme costituzionali che hanno permesso all'Italia e alla Germania federale di aderire
alla CE non consentono di derogare a quelle altre norme costituzionali che definiscono e proteggono i diritti
fondamentali della persona umana. Ne consegue che tali norme costituzionali devono essere rispettate anche dagli
atti adottati dalle Istituzioni comunitarie. In caso contrario, le due corti si riservano il potere di assicurare la
prevalenza delle norme costituzionali, impedendo che l'atto comunitario trovi applicazione nell'ordinamento interno.
Nella sent. del 1973, Frontini, la Corte cost. italiana ritiene che nel caso di atti delle Istituzioni che violassero "i principi
fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana sarebbe sempre assicurata la
garanzia del sindacato di questa Corte sulla perdurante compatibilità del trattato con i predetti principi fondamentali". La Corte
allude alla possibilità di dichiarare l'illegittimità costituzionale della legge recante l'autorizzazione alla ratifica e l'ordine di
esecuzione del TCE, nella misura in cui tale legge permette l'ingresso nell'ordinamento italiano di un atto comunitario lesivo dei
principi fondamentali dell'ordinamento dei diritti fondamentali della persona umana. La Corte esclude, invece, di poter operare il
proprio controllo direttamente sugli atti comunitari in questione, in quanto essi non rientrano nel novero degli atti contemplati
dall'art. 134 Cost. Per una soluzione diversa vedi ordinanza del 1974 nota come Solange I. In essa la Corte tedesca allude ad un
possibile controllo diretto da parte sua sull’atto comunitario in causa, imponendo tuttavia al giudice che volesse rimettere una
questione di costituzionalità del genere, di interrogare preventivamente la Corte di giustizia. L'ordinanza sottolinea tuttavia il
carattere provvisorio della soluzione, in attesa che la CE si doti di un catalogo dei diritti fondamentali analogo a quello previsto
dalla legge fondamentale tedesca che sia adottato da un'assemblea parlamentare.
La soluzione prospettata dalle due corti costituzionali per quanto ragionevole e forse inevitabile, comportava un grave
attentato al carattere unitario del diritto comunitario: un atto delle Istituzioni, se giudicato in contrasto con i diritti
fondamentali protetti dalla Cost. italiana o tedesco-federale, non avrebbe trovato più applicazione nell'ordinamento
italiano o tedesco, pur restando applicabile negli altri Stati membri della comunità. Si evidenziava una grave lacuna
dell'ordinamento comunitario che giustificava una sua non piena accettazione da parte dei giudici degli stati membri.
Negli stessi anni, la Corte di giustizia elabora in via giurisprudenziale una forma "comunitaria" di tutela dei diritti
fondamentali. In una serie di sentenze (1969 Stauder; 1974 Nold) tale tutela viene ricondotta ai principi generali del
diritto che le istituzioni devono rispettare e la cui osservanza è sottoposta al controllo della Corte.
L'impresa Nold contesta una nuova disciplina introdotta dalla Commissione in materia di commercio di carbone, che le impedisce
di continuare a rifornirsi direttamente di tale materia prima. Secondo Nold, la nuova disciplina danneggerebbe la redditività
dell'impresa. Verrebbe così leso il suo diritto di proprietà, nonché il diritto al libero espletamento dell'attività commerciale. La
Corte ribadisce che "i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto, di cui essa garantisce l'osservanza".
Precisa inoltre che, nel garantire la tutela di tali diritti, la Corte "è tenuta ad ispirarsi alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri" nonché ai "trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti dell'uomo, cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito".

Secondo l'impostazione della Corte: a) i diritti fondamentali vanno tutelati nell'ordinamento comunitario in quanto
rientranti nei principi generali del diritto; b) al fine di definire il contenuto di tali diritti della portata della tutela
che deve essere accordata di essi, la corte utilizza, quale fonte di ispirazione
I) le tradizioni costituzionali comuni agli stati membri e
II) i trattati internazionali in materia di tutela dei diritti dell'uomo.
La soluzione elaborata dalla giurisprudenza è stata recepita e consacrata dall'art. 6 TUE, nella sua versione originale.
4.4. Quando sarà portato a termine il processo di adesione, la CEDU avrà forza vincolante diretta anche nei
confronti dell'Unione, così come già lo ha nei confronti degli Stati membri in quanto parti contraenti della
convenzione. Fino a quando l'adesione non sarà perfezionata, tuttavia, la CEDU continuerà a costituire per l'Unione
una fonte non direttamente vincolante.
Secondo l'impostazione della giurisprudenza, le tradizioni costituzionali comuni nei trattati internazionali in materia
di diritti fondamentali sono utilizzati in quanto fonte di ispirazione per ricostruire i principi generali del diritto
applicabili all'Unione. Le une e gli altri non hanno valore normativo immediato nell'ordinamento dell'Unione pertanto
non vincolano direttamente la Corte. Questa soluzione vale ora anche per la CEDU. Nonostante ciò va dato atto che
la Corte, a partire dalla sent. del 1979, Hauer, ha eletto la CEDU a riferimento privilegiato e quasi inevitabile per
effettuare il proprio controllo sul rispetto dei diritti fondamentali. Negli ultimi anni, la Corte si è spinta fino ad
includere nelle proprie sentenze ampie e precisi riferimenti alla giurisprudenza della CEDU (es. sent. del 1997,
Familiapress), dando così l'impressione di considerare la CEDU vincolante in quanto tale per l’Unione e per la Corte
stessa. Si tratta tuttavia di un'impressione che non risponde alla situazione giuridica attuale, in attesa dell'adesione
formale dell'Unione alla CEDU.
Il caso esaminato nella sent. Hauer, costituisce il primo esempio in cui la Corte si riferisce espressamente alla CEDU per verificare
se un atto delle istituzioni sia contrario ad un diritto fondamentale. Un regolamento del Consiglio che vietava l'impianto di nuovi
vigneti, viene contestato dalla proprietaria di un terreno agricolo, in quanto lesivo del proprio diritto di proprietà. Dopo aver
escluso che il regolamento costituisca una privazione di proprietà, la Corte esamina il divieto di impianto di nuovi vigneti, che
consente agli Stati di "regolare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale". Secondo la Corte, il regolamento è
giustificato, in quanto mira ad evitare la sovrapproduzione di vino. Esso non costituisce nemmeno un intervento sproporzionato
tenuto conto che il divieto di impianto di nuovi vigneti è "stabilito per un periodo limitato".
4.5. La mancata adesione formale della comunità e ora dell'Unione alla CEDU solleva il problema della
responsabilità degli Stati membri di fronte agli organi della convenzione in conseguenza di attività delle
istituzioni o di attività posta in essere dagli Stati membri in esecuzione di atti delle istituzioni.
Il problema è stato affrontato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo in numerose pronunce e sembra aver
trovato nella sent. del 2005 della Grande Camera, sul caso Bosphorus c. Irlanda, una sistemazione organica che
mancava. La Corte ha anzitutto ribadito che gli Stati quali abbiano trasferito ad un'organizzazione sovranazionale
come la CE (e ora l'Unione) taluni poteri sovrani non sono sottratti, per quanto riguarda l'esercizio dei poteri sovrani
oggetto del trasferimento, all’obbligo di rispettare i diritti tutelati dalla CEDU. La Corte europea non intende
esercitare il proprio controllo riguardo ad ogni e qualsiasi attività intrapresa da uno stato in attuazione degli obblighi
derivanti dalla sua appartenenza a tale organizzazione. In proposito la Corte europea distingue tra:
a) casi in cui gli Stati membri si limitano ad attuare atti dell'Unione e
b) casi in cui gli stessi godono di un certo margine di discrezionalità.
Per quanto riguarda i casi in cui manca ogni discrezionalità in capo agli Stati membri, la Corte europea
considera che il suo intervento non è necessario. Infatti, secondo la sentenza, l'Unione tutela i diritti fondamentali in
un modo che tanto dal punto di vista sostanziale, quanto da quello del meccanismo di controllo, è almeno
equivalente a quello della convenzione. Si tratta però di una presunzione passibile di prova contraria. Per quanto
riguarda invece i casi in cui sussiste un margine di discrezionalità in capo agli Stati membri nel dare attuazione
agli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione, la Corte giudica che "uno Stato sarebbe pienamente responsabile ai
sensi delle convenzioni" trattandosi di "atti che rientrano nei suoi rigorosi obblighi legali internazionali".
Il caso oggetto della sent. Bosphorus riguardava una società di nazionalità turca che aveva preso in affitto per quattro anni un
aereo di proprietà della società di bandiera Jugoslavia JAL. In occasione di uno scalo a Dublino, le autorità irlandesi avevano
sottoposto l'aereo a sequestro, in attuazione di un regolamento comunitario, che, sua volta, dava attuazione ad una risoluzione
del Consiglio di sicurezza Onu, istitutiva di sanzioni economiche nei confronti della Jugoslavia. Circa la legittimità del sequestro
sorgeva la controversia tra Bosphorus e le autorità irlandesi. In particolare veniva fatta valere la violazione del diritto di proprietà.
La suprema Corte irlandese, di fronte alla quale la controversia era arrivata in grado di appello si rivolgeva la Corte di giustizia,
chiedendo (tra l'altro) una pronuncia pregiudiziale in merito alla validità del regolamento. La validità del regolamento veniva
confermata con sentenza della Corte di giustizia del 1996. Di conseguenza la Suprema Corte respingeva le domande di
dissequestro e di risarcimento proposte da Bosphorus. Questa proponeva allora ricorso alla Corte europea contro l'Irlanda. La
Corte respinge il ricorso. Quanto al tentativo di dimostrare che nel caso di specie la tutela offerta dal sistema comunitario sarebbe
stata insufficiente, la Corte fa riferimento alla possibilità per le parti che lamentino la violazione dei propri diritti fondamentali da
parte di un atto dell'Unione di provocare un rinvio pregiudiziale da parte del giudice nazionale alla Corte di giustizia, in maniera
che la questione di validità dell'atto sia verificata (possibilità di cui Bosphorus aveva effettivamente goduto).
Un caso diverso è oggetto della sent. del 1999 nel caso Matthews c. Regno unito. Qui la violazione dei diritti fondamentali deriva
direttamente dalle norme contenute in un atto avente la stessa natura dei trattati, e non da un atto di diritto derivato. La sig.
Matthews, residente a Gibilterra, lamenta una violazione da parte del Regno Unito: non aver previsto la partecipazione dei
cittadini residenti a Gibilterra alle elezioni per il Parlamento europeo. In realtà la violazione lamentata non dipendeva da
un'autonoma scelta del Regno Unito. La Corte, dopo per affermato che il Parlamento europeo costituisce un "corpo legislativo",
conclude che, avendo negato ai residenti a Gibilterra il diritto a partecipare alle elezioni europee, il regno unito ha violato
"l'essenza stessa del diritto al voto". Secondo la Corte, il regno unito non può invocare, a propria discolpa, che il comportamento
oggetto del ricorso gli era imposto da un da una norma di diritto dell'Unione avente la stessa natura dei trattati. La Corte afferma
che gli Stati membri possono essere chiamati a rispondere delle violazioni dei diritti garantiti dalla CEDU, quando la violazione
deriva direttamente dall'applicazione di norme dell'Unione di diritto primario. In casi del genere, a differenza di quanto è stato
affermato dalla sentenza Bosphorus, non è necessario dimostrare che gli Stati dispongano di un margine di discrezionalità
nell'applicazione delle norme in questione.

4.6. L'impostazione data dalla giurisprudenza della Corte di giustizia al problema della tutela dei diritti fondamentali
nell'ordinamento dell'Unione non ha del tutto soddisfatto le Corti cost. italiana e tedesco-federale e non le ha indotte
a rinunciare alla pretesa di assicurare un autonomo controllo sul rispetto di tali diritti da parte delle istituzioni.
Nella sent. 1984, Granital, la Corte italiana ha ribadito quanto affermato nella sent. del 1973, Frontini, circa la sua competenza a
controllare la persistente compatibilità con i principi fondamentali del nostro ordinamento della legge di esecuzione del TCE. La
Corte, è andata molto vicina ad utilizzare in concreto questa riserva nella sent. del 1989, FRAGD.
La possibilità di considerare ammissibili ricorsi o rinvii costituzionali aventi ad oggetto atti delle istituzioni accusati di ledere i
diritti fondamentali garantiti dalla legge fondamentale era stata nuovamente evocata nel Maastricht Urteil e ribadita nella sentenza
sul trattato di Lisbona. Tuttavia, in un'altra pronuncia, la Corte cost. federale ha chiarito che le condizioni perché ciò possa
avvenire sono estremamente restrittive. Non basta, infatti, che il ricorrente o il giudice emittente sostengano che, in un caso
specifico, il livello di protezione degli umani assicurato dall'ordinamento dell'Unione è inferiore a quello garantito dalla legge
fondamentale, ma è necessario altresì sostenere che "la protezione dei diritti fondamentali di volta in volta indispensabile non era
giunta in termini generali", ponendo a confronto "il livello nazionale di protezione e quello comunitario".

5. La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea


5.1. Il fatto di considerare i diritti fondamentali come rientranti nei principi generali del diritto comporta che alla
Corte di giustizia è riservato un ruolo determinante. Ad essa spetta il compito di individuare quali diritti siano da
considerare fondamentali alla luce delle tradizioni costituzionali comuni e dei trattati internazionali, ma anche di
delineare il contenuto della portata dei diritti così individuati. La circostanza che la Corte non sia tenuta ad applicare
un testo scritto, attribuisce un elevato grado di flessibilità ai suoi interventi in materia di diritti umani. Se da un lato
ciò le consente di adattare alla realtà di un ente sopranazionale come la comunità e ora l'Unione, norme che sono
state redatte per essere applicate all'azione di Stati, dall'altro accresce l'imprevedibilità dei risultati cui perviene di
volta in volta e rende perciò poco trasparente il sistema. Proprio per ovviare a questo difetto dell'impossibilità di una
rapida adesione alla CEDU, si è deciso di predisporre la Carta dei diritti fondamentali dell'UE (la Carta).
5.2. Fino al trattato di Lisbona, il valore giuridico della Carta è rimasto incerto. La mera "proclamazione" da parte
delle istituzioni politiche dell'Unione infatti non era in grado di farne un'autonoma fonte del diritto. La solennità del
processo di elaborazione e l'ampiezza di consensi che il suo testo ha riscosso tuttavia ne hanno favorito l'utilizzazione
come strumento interpretativo privilegiato per ricostruire la portata dei diritti fondamentali protetti nell'ambito
dell'ordinamento dell'Unione.
La giurisprudenza si è mantenuta fedele a questa impostazione. La via è stata aperta dal Tribunale, che ha più volte evocato
alcuni articoli della carta. Successivamente anche la Corte di giustizia ha cominciato a far riferimento, nelle proprie pronunce, a
specifici articoli della Carta, considerati espressivi di diritti fondamentali dell'ordinamento comunitario in quanto principi
generali. Ciò è avvento talvolta in congiunzione con le disposizioni della CEDU relative al medesimo diritto. Altre volte, quando si
trattava di diritti non tutelati dalla CEDU, la Corte si riferisce al solo articolo pertinente della Carta. Un esempio è costituito dalla
sent. del 2007, Laval, relativa al diritto di intraprendere azioni collettive sindacali. Il sindacato svedese aveva dato vita ad
un'azione collettiva contro un'impresa con sede in Lettonia che eseguiva lavori edili in territorio svedese con operai distaccati dalla
propria sede. L'obiettivo dell'azione era di costringere l'impresa lettone ad applicare ai propri operai il contratto collettivo svedese e
non le condizioni contrattuali meno favorevoli vigenti in Lettonia. Il sindacato svedese opponeva che il diritto di sciopero
costituisce un diritto fondamentale e deve prevalere sul diritto alla libera prestazione dei servizi. La Corte di giustizia riconosce al
diritto di intraprendere un'azione collettiva il carattere di "diritto fondamentale facente parte integrante dei principi generali del
diritto comunitario di cui la Corte garantisce il rispetto". Essa precisa che "il suo esercizio può essere sottoposto a talune restrizioni.
Infatti, esso è tutelato conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali". Da ciò la Corte evince la necessità
di verificare se l'azione intrapresa dal sindacato non costituisca una restrizione alla libera prestazione di servizi e se questa
restrizione è giustificata.
Diverso è invece l'uso della Carta da parte della giurisprudenza quando essa è espressamente richiamata nel preambolo dell'atto
della cui legittimità si discute.

5.3. La Carta risulta ora posta sullo stesso piano delle altre fonti di diritto primario, in particolare del TUE e del
TFUE. Le sue disposizioni hanno acquisito lo stesso carattere cogente delle norme dei trattati.
Il Protocollo n. 30 sull'applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell'UE alla Polonia e al Regno Unito, ha tuttavia concesso
agli Stati membri cit. di essere vincolati dalla Carta in maniera diversa da tutti gli altri Stati. In particolare, secondo l'art. 1, par.
1, "la Carta non estende la competenza della Corte di giustizia dell'UE o di qualunque altro organo giurisdizionale della Polonia o del
Regno Unito a ritenere che le leggi, i regolamenti o le disposizioni, le pratiche o l'azione amministrativa della Polonia o del Regno
Unito non siano conformi ai diritti, alle libertà e ai principi fondamentali che essa riafferma", mentre il par. 2 esclude che il titolo IV
della Carta (relativo ai diritti sociali e sindacali) che i "diritti azionabili dinanzi a un organo giurisdizionale applicabili alla Polonia o
al Regno Unito, salvo nella misura in cui la Polonia o il Regno Unito abbiano previsto tali diritti nel rispettivo diritto interno". L'art. 2,
poi, stabilisce che "ove una disposizione della Carta faccia riferimento alle leggi e pratiche nazionali, detta disposizione si applica
alla Polonia o al Regno Unito solo nella misura in cui i diritti o i principi contenuti sono riconosciuti nel diritto o nelle pratiche della
Polonia o del Regno Unito". Le norme del Protocollo mirano a far sì che la Carta non abbia nei confronti di Polonia e del Regno
Unito alcun contenuto innovativo in termini di diritti rispetto a quanto già previsto dagli ordinamenti interni dei due Stati. Nella
riunione di Bruxelles del 2010, il Consiglio europeo ha approvato il testo di un protocollo che estende alla Repubblica Ceca il Prot.
n. 30, impegnandosi ad allegarlo al prossimo trattato di adesione.

Non è chiaro se per modificare la Carta sia necessario seguire la procedura di revisione dell'art. 48, par. 1-5 o se
l'eventuale violazione della Carta da parte di uno Stato membro possa dar vita ad un procedimento di infrazione ai
sensi dell'art. 258 e ss. TFUE.
5.4. La funzione della Carta risulta dal preambolo. In esso si precisa che "è necessario rafforzare la tutela dei diritti
fondamentali, alla luce dell'evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici,
rendendo tali diritti più visibili in una Carta" e che la Carta "riafferma, nel rispetto delle competenze dei compiti
dell'Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi
internazionali comuni agli Stati membri, dalla CEDU, dalle carte sociali adottate dall'Unione e dal Consiglio d'Europa,
nonché dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell'UE e da quella della Corte europea dei diritti dell'uomo".
Sembrerebbe che la Carta non abbia carattere normativo, nel senso che non crea diritti che non siano già ricavabili
dalle fonti richiamate: tradizioni costituzionali comuni, trattati internazionali, in particolare la CEDU, le quali, a loro
volta, corrispondono alle fonti di ispirazione da tempo individuate dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e ora
richiamate nel par. 3 dell'art. 6 TUE. La Carta avrebbe invece più che altro carattere documentale, perché li
assumerebbe in un unico documento, facilmente leggibile, l'elenco è la descrizione dei diritti fondamentali ricavabili
dalle suddette fonti e già facenti parte, in quanto tali, dei principi generali del diritto vincolanti per l'Unione.
Il rapporto tra le fonti richiamate e la Carta sollevò alcune difficoltà. Si pone infatti il problema di stabilire come
regolarsi nel caso di non coincidenza tra i diritti previsti dalla Carta e quelli ricavabili dalle altre fonti citate nel
preambolo. La soluzione si trova negli artt. 52, par. 3, e 53 della Carta. L'art. 53 stabilisce quella che può essere
qualificata una clausola di compatibilità. Dall'art. 53 si evince che la Carta non impedisce l'applicazione della
CEDU o delle altre fonti richiamate nella misura in cui queste prevedano una tutela più ampia di quella garantita
dalla Carta. L'art. 52, par. 3, si occupa invece solo della CEDU, introducendo quella che può dirsi una clausola di
equivalenza. In base all'art. 52, par. 3, la stessa Carta deve essere applicata in maniera che il livello di protezione
assicurato dalla Carta ai diritti tutelati anche dalla CEDU sia almeno equivalente a quello garantito da quest'ultimo
strumento. Resta invece salva la possibilità che il diritto dell'Unione preveda un livello di tutela addirittura superiore.
Ugualmente resta salva la possibilità che la Corte protegga i diritti non coperti affatto dalla convenzione.
In conclusione la Carta può solo estendere la portata della tutela dei diritti fondamentali rispetto a quanto già
previsto da altre fonti e mai restringerla.
5.5. Ci si potrebbe domandare perché l'art. 6 abbia mantenuto una struttura così complessa, che utilizza una
pluralità di fonti diverse per la protezione dei diritti fondamentali. In particolare sarebbe lecito chiedersi se non
sarebbe stato sufficiente limitarsi a sancire il valore giuridico della Carta stessa (par. 1) senza bisogno, da un lato, di
prevedere l'adesione formale dell'Unione alla CEDU (par. 2) e, dall'altro, di mantenere il richiamo ai principi generali
tratti dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (par. 3).
Quanto all'adesione dell'Unione alla CEDU, la sua previsione è giustificata. Si tratta di sottoporre l'Unione al
controllo "esterno" degli organi della CEDU e in particolare della Corte europea dei diritti dell'uomo. Tale controllo, in
mancanza di adesione formale, non può essere esercitato direttamente sull'Unione.
Meno pacifica è la scelta di reiterare il richiamo ai principi generali tratti dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali
comuni agli Stati membri in presenza di una Carta dal valore giuridico finalmente certo che proprio tali principi
dovrebbe incorporare.
Il par. 3 si spiega probabilmente per due diverse ragioni. Da un lato, è frutto dell'idea che la Carta costituisce solo un
minimum standard per la protezione dei diritti fondamentali e che dunque non bisogna in alcun modo impedire
l'applicazione di standard di protezione maggiori previste da altre fonti. Dall'altro occorre tener presente che grazie al
Prot. n. 30, la Carta non costituisce uno standard di protezione interamente comune a tutti gli Stati membri, avendo
la Polonia, il Regno Unito e, in futuro, la Repubblica Ceca ottenuto di applicarlo in maniera parzialmente differente..

6. Il ruolo dei principi generali della carta dei diritti fondamentali


6.1. Si può dire che i principi generali del diritto e la Carta assolvono ad una funzione strumentale, in quanto
influiscono sull'applicazione di norme materiali derivanti da altre fonti.
I principi generali del diritto vengono in rilievo in primo luogo come criteri interpretativi delle altre fonti del diritto
dell'Unione: tanto le norme dei trattati, quanto le norme contenute negli atti delle istituzioni devono essere
interpretate alla luce dei principi generali. L'interprete deve ispirarsi ad essi per individuare il corretto significato di
ciascuna norma rientrante nell'ordinamento dell'Unione. In presenza di più interpretazioni possibili, dovrà scegliere
la soluzione più coerente con i principi generali con il rispetto dei diritti fondamentali.
Un caso in cui l'esigenza di rispettare i diritti fondamentali "condiziona" l'interpretazione di un regolamento è oggetto della sent.
1989, Wachauf. Il signor Wachauf aveva preso in affitto un terreno agricolo e vi aveva avviato un'attività di produzione di latte.
Alla scadenza del contratto, aveva chiesto alle competenti autorità tedesche di beneficiare dell'indennità per cessazione della
produzione, come previsto da un regolamento diretto a favorire la diminuzione della produzione di latte. La domanda era stata
rigettata perché una disposizione del regolamento prescriveva, nel caso di domanda presentata da un "affittuario di azienda", il
consenso del proprietario. La Corte concorda con il giudice l'emittente che "una disciplina comunitaria che avesse per effetto di
spogliare l'affittuario alla scadenza del contratto di affitto del frutto del proprio lavoro e degli investimenti effettuati nell'azienda
affittata, senza indennizzo, sarebbe in contrasto con le esigenze inerenti alla tutela dei diritti fondamentali nell'ordinamento giuridico
comunitario". Tuttavia, secondo la Corte, "la disciplina comunitaria di cui è causa riserva alle autorità nazionali un margine di
valutazione sufficientemente ampio, tale da consentire loro di applicare detta disciplina in maniera conforme alle esigenze di tutela
dei diritti fondamentali, garantendo all'affittuario un indennizzo se si impegna ad abbandonare definitivamente la produzione". Per
due casi recenti in cui la Corte ha affermato la necessità di interpretare due direttive nel rispetto della Carta vedi sent. 2010,
Abdulla, e Chakroun. Nella sent. Kadi, l'esigenza di rispettare i diritti fondamentali ha indotto la Corte a interpretare una
risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU, cioè una fonte di diritto internazionale, in senso conforme a tali diritti: si trattava di
una si risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU che è stata interpretata dalla Corte nel senso che essa non escludesse la
possibilità per gli interessati di ottenere un'adeguata tutela giurisdizionale contro gli atti dell'Unione attuativi della risoluzione.

6.2. I principi generali fungono da parametro di legittimità per gli atti delle istituzioni. Questi possono essere
annullati o dichiarati invalidi per violazione dei principi indicati o per contrarietà ai diritti sanciti dalla carta.
6.3. I principi generali operano indirettamente da parametro di legittimità per alcuni comportamenti degli Stati
membri. Ciò avviene quando il comportamento o l'atto in causa è stato adottato dallo stato membro in attuazione di
una norma dei trattati o di un atto delle istituzioni che ne autorizzi o addirittura ne richiede l'adozione. La funzione
ermeneutica dei principi generali della Carta agisce anche nei casi del genere. Pertanto gli interventi degli Stati
membri in attuazione del diritto dell'Unione devono conformarsi ai principi generali del diritto comunitario e in
particolare a quelli attinenti al rispetto dei diritti fondamentali. Qualora ciò non avvenisse, tali interventi sarebbero
incompatibili rispetto alla norma dell'Unione che li autorizza o li prescrive e andrebbero disapplicati.
Nella sent. del 1975, Rutili, la Corte è chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con l'art. 39, par. 3, TCE (ora art. 45, TFUE) di
un provvedimento di divieto di soggiornare in determinate aree imposto dalle autorità francesi al signor Rutili, cittadino italiano.
La Corte richiama gli artt. 8, 9, 10 e 11 della CEDU e l'art. 2 del Prot. n. 4 della stessa per affermare che provvedimenti restrittivi
della libertà di circolazione adottati per motivi di ordine pubblico ai sensi dell'art. 39, par. 3, debbano essere limitati a ciò che è
necessario per il soddisfacimento delle esigenze di ordine pubblico in una società democratica e non possono consistere in divieti
di soggiornare in determinate zone del territorio nazionale, qualora provvedimenti del genere non siano previsti anche per i
cittadini dello stato membro in questione.

In genere, i diritti fondamentali, intesi come principi generali del diritto dell'Unione, vengono invocati dai singoli per
opporsi ai provvedimenti assunti dagli Stati membri in violazione di tali diritti e dunque, indirettamente, anche dalla
norma dell'Unione che si occupa di provvedimenti statali del genere. Non è però escluso che talvolta i ruoli si
invertono e siano gli Stati membri ad invocare i diritti fondamentali per giustificare i propri provvedimenti.
È quanto si verifica nel caso esaminato dalla sentenza del 2004, Omega. Omega gestisce a Bonn un "laserdromo", dove si
praticano giochi a base di raggi laser. Il gioco viene sfruttato da Omega in regime di franchising su concessione di un'impresa
britannica, la Pulsar, che lo aveva ideato. Omega è oggetto di un provvedimento di divieto dell'uso del gioco da parte delle autorità
locali, che lo considerano contrario all'ordine pubblico. Sostenendo che il provvedimento di divieto limita il suo diritto alla libera
prestazione dei servizi, Omega impugna il provvedimento di divieto d'innanzi al competente Tribunale amministrativo, giungendo
fino all'organo supremo di giustizia amministrativa. Sul rinvio pregiudiziale di quest'ultimo, la Corte constata che effettivamente il
provvedimento comporta una limitazione alla libera prestazione di servizi ma si domanda se si tratti di una limitazione giustificata
da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza. La Corte ammette che uno Stato membro possa giustificare un
provvedimento limitativo della libera prestazione di servizi invocando esigenze legate alla necessità di tutelare un diritto
fondamentale previsto dalla propria costituzione nazionale condiviso dall'ordinamento dell'Unione.

Perché ad uno stato membro possa essere contestata la violazione di un principio generale o la violazione di uno dei
diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta, è necessario che sussista un collegamento tra il comportamento
dello Stato membro e il diritto dell'Unione. Occorre, in altri termini, che lo Stato membro abbia agito per attuare
una norma dei trattati o un atto delle istituzioni o almeno che il comportamento contestato venga assunto in un
settore rientrante nel campo d'applicazione dei trattati. In mancanza, l'obbligo per lo Stato membro di rispettare i
diritti fondamentali non è ricollegabile al diritto dell'Unione e la Corte di giustizia non può esercitare la propria
competenza per assicurare l'osservanza di tali diritti.
Nella sent. 1991, Grogan, la Corte è chiamata a pronunciarsi su una legislazione irlandese che vieta ogni forma di pubblicità a
favore delle pratiche di aborto. Tale legislazione viene contestata da alcune associazioni studentesche che pubblicizzano cliniche
britanniche dove vengono eseguite tali pratiche. Le associazioni ritengono che il divieto costituisca un ostacolo alla libera
prestazione di servizi e violi la libertà di espressione d'informazione. Secondo la Corte è suo compito fornire al giudice nazionale
tutti gli elementi di interpretazione necessari per valutare la conformità di una normativa nazionale con i diritti fondamentali solo
"dal momento che una normativa nazionale entra nel campo di applicazione del diritto comunitario".

Anche l'art. 51, par. 1, della Carta conferma che il dovere degli Stati membri di rispettare i diritti fondamentali
previsti è limitato ai casi in cui essi agiscono nell'attuazione del diritto dell'Unione
I comportamenti degli Stati membri confliggenti con i diritti dell'uomo, anche se privi di collegamento con il campo
d'applicazione dei trattati, possono essere oggetto della procedura di controllo e sanzione prevista dall'art. 7 TUE, in
caso di "rischio di violazione grave" o di "violazione grave persistente" dei valori di cui all'art. 2 TUE, tra i quali figura
il "rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze".
6.4. L'obbligo di rispettare i principi generali del diritto e i diritti fondamentali vale per tutto il campo di attività
dell'Unione, comprese le materie che, prima del trattato di Lisbona, rientravano nei pilastri non comunitari.

7. Il diritto internazionale generale e gli accordi internazionali


7.1. L'Unione, come prima di essa la CE, costituisce un soggetto di diritto internazionale autonomo rispetto agli
Stati membri. In quanto tale, essa gode delle prerogative delle persone giuridiche internazionali, compreso il diritto di
legazione attivo e passivo, la capacità di concludere accordi internazionali con Stati terzi o con altre organizzazioni
internazionali, nonché quella di acquisire la qualità di membro di una tale organizzazione.
7.2. In quanto soggetto di diritto internazionale, l'Unione è tenuto a rispettare le norme di diritto internazionale
generale. Un comportamento delle istituzioni assunto in violazione di una tale norma costituirebbe un illecito
internazionale. Uno Stato terzo i cui interessi siano stati lesi dal comportamento dell'Unione potrebbe farne valere il
carattere illecito ai fini previsti dall'ordinamento internazionale.
Le norme di diritto internazionale generale vincolano l'Unione solo nei confronti di soggetti terzi. Gli Stati membri
non possono invece invocare tali principi nei loro rapporti reciproci, quando agiscono nel campo di applicazione dei
trattati. Per gli Stati membri, infatti, queste costituiscono una lex specialis che prevale sul diritto generale. È questo
il caso del principio inademplenti non est adimpledum. La Corte ha più volte affermato che uno stato membro non
può invocare la violazione di un obbligo derivante dai trattati da parte di un altro Stato membro per giustificare, a
sua volta, la violazione dello stesso di altri obblighi aventi pari fonte.
Le norme di diritto internazionale generale applicabili all'Unione fanno parte del suo ordinamento giuridico (sent.
1998, Racke). Ne consegue che "le competenze della comunità (ora dell'Unione) devono essere esercitate nel rispetto del
diritto internazionale”. Le norme del diritto internazionale svolgono anzitutto una funzione ermeneutica analoga a
quella dei principi generali del diritto e vanno utilizzate per l'interpretazione delle norme dell'Unione, comprese quelle
dei trattati (sent. 1974, Van Duyn). Ad esempio, la disposizione di un regolamento del Consiglio in materia di pesca
"va interpretata, e la sua sfera d'applicazione circoscritta, alla luce delle norme pertinenti del diritto marittimo
internazionale" (sent. 1992, Poulse).
Inoltre il diritto internazionale costituisce un parametro di legittimità degli atti delle istituzioni.
In questa duplice funzione, le norme di diritto internazionale generale possono essere invocate tanto dalle istituzioni
e dagli Stati membri quanto dai soggetti degli ordinamenti interni, i quali possono avvalersene nelle azioni proposte
dinanzi ai giudici degli Stati membri.
Un'ipotesi in cui la Corte utilizza una norma di diritto internazionale generale ai fini interpretativi è data dalla sent. Van Duyn.
Alla signora Van Duyn, cittadino olandese, viene impedito l'ingresso nel territorio del Regno Unito a causa della sua appartenenza
alla Chiesa di Scientologia, movimento religioso considerato pericoloso dalle autorità britanniche. Ad avviso del Regno Unito, il
provvedimento adottato contro la signora, benché limitativo della libera circolazione, era consentito in quanto giustificato "da
motivi di ordine pubblico". Veniva opposto che l'appartenenza alla Chiesa di Scientologia non era vietata per i cittadini britannici e
che il divieto d'ingresso opposto ad un cittadino di altro Stato membro a motivo di tale appartenenza aveva carattere
discriminatorio. La Corte respinge l'obiezione affermando che l'art. 39 permette ad uno stato membro di adottare a carico del
cittadino di un altro Stato membro provvedimenti restrittivi giustificati da comportamenti non vietati nei confronti dei propri
cittadini. La Corte ricorda che "un principio di diritto internazionale, che il trattato non ha certamente reso inoperante nei rapporti tra
gli Stati membri, impedisce ai soli singoli Stati membri di negare ai propri cittadini l'ingresso e il soggiorno nel proprio territorio".
Nel caso della sent. Racke, la Corte, invece, utilizza una norma di diritto internazionale generale come parametro di legittimità.

7.3. Gli accordi internazionali con Stati terzi che vengono in rilievo rispetto all'ordinamento dell'Unione sono tre tipi:
a) accordi internazionali conclusi dagli Stati membri;
b) accordi internazionali conclusi dalla CE/Unione;
c) accordi internazionali conclusi dalla CE/Unione e dagli Stati membri (accordi misti).
Gli accordi internazionali conclusi da Stati membri con Stati terzi non fanno parte dell'ordinamento dell'Unione,
ma assumono rilevanza solo nella misura in cui un accordo del genere, a determinate condizioni, può essere invocato
dallo Stato membro contraente come causa di giustificazione per il mancato rispetto di obblighi derivanti dai trattati.
Tale possibilità vale anzitutto per quanto riguarda gli accordi conclusi da uno Stato membro con uno stato terzo
prima della data in cui il TCE è entrato in vigore rispetto allo Stato membro in questione. Ciò risulta dal principio
di diritto internazionale generale secondo cui il trattato concluso da due stati non può essere emendato, né abrogato
per effetto della successiva conclusione di altro trattato tra due stati, di cui uno soltanto sia parte anche del primo. Il
principio comporta che lo Stato che ha concluso tanto il primo quanto il secondo trattato resta tenuto a rispettarli
entrambi. Riconoscendo l'esistenza di tale principio, l'art. 351 TFUE contiene un'apposita clausola di compatibilità.
La clausola di compatibilità consente allo Stato membro interessato di sottrarsi agli obblighi derivanti dai trattati
solo nella misura strettamente necessaria per permettergli di rispettare gli obblighi assunti nei confronti dello Stato
terzo. Uno Stato membro non potrebbe invocare un accordo con uno Stato terzo per giustificare comportamenti che
non sono imposti dall'accordo stesso.
Nel caso esaminato nella sent. 2002, Gottardo. La sig. Gottardo invoca nei confronti dell'ente italiano di previdenza (Inps) le
disposizioni di una convenzione italo-svizzera in materia di previdenza sociale che consentono ai lavoratori nazionali di entrambe
le parti di totalizzare i periodi lavorativi compiuti nei due Stati ai fini della maturazione del diritto ad ottenere una pensione di
vecchiaia. L'Inps respinge la domanda della sig. Gottardo facendo valere che la convenzione non le si applica, essendo la stessa
divenuta cittadina francese, in seguito al matrimonio. Il tribunale di Roma, ritenendo che il rifiuto dell'Inps possa costituire
un'ipotesi di discriminazione sulla base della nazionalità, si rivolge alla Corte di giustizia. Senza mettere in discussione il diritto
dell'Italia di continuare ad osservare la convenzione, la Corte risponde: "quando uno stato membro conclude con un paese terzo una
convenzione internazionale bilaterale sulla previdenza sociale, ai sensi della quale i periodi contributivi maturati nel detto paese sono
presi in considerazione ai fini dell'acquisizione del diritto a prestazioni di vecchiaia, il principio fondamentale della parità di
trattamento impone a tale stato membro di concedere ai cittadini degli altri Stati membri gli stessi vantaggi di cui godono i suoi stessi
cittadini grazie alla detta convenzione, a meno che esso non sia in grado di addurre una giustificazione oggettiva del rifiuto".

La clausola di compatibilità dell'art. 351 TFUE incontra un limite nel rispetto dei diritti fondamentali. Secondo la
sent. 2008, Kadi, l'art. 351 potrebbe giustificare delle deroghe anche a norme di rango primario, quali le disposizioni
dei trattati, ma non a "i principi che fanno parte dei fondamenti stessi dell'ordinamento giuridico comunitario, tra i quali
quello della tutela dei diritti fondamentali, che include il controllo, ad opera del giudice comunitario, della legittimità
degli atti comunitari quanto la loro conformità a tali diritti fondamentali".
Una soluzione particolare è stata delineata per quegli accordi con Stati terzi conclusi anteriormente alla data indicata
nell'art. 351 TFUE da tutti gli Stati membri, che abbiano ad oggetto materie comprese nella competenza esclusiva
dell'Unione. In casi del genere è stata ipotizzata una sorta di successione di questa nei diritti e negli obblighi che gli
Stati membri contraenti traevano dagli accordi in questione e pertanto in casi del genere, l'Unione non è solo tenuta
a consentire agli Stati membri contraenti di continuare a rispettare l'accordo, ma è essa stessa tenuta a rispettarlo
nell'esercizio della propria competenza.
Un fenomeno di successione si era verificato rispetto al GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) concluso nel 1947 avente
per oggetto materie pienamente rientranti nella politica commerciale comune di cui all'art. 207 TFUE. Nella sent. del 1972,
International Fruit, la Corte di giustizia è chiamata a pronunciarsi sulla validità di alcuni regolamenti della Commissione
contestati in quanto incompatibili con talune disposizioni del GATT. Secondo la corte "in tutti i casi in cui, in forza del trattato CE,
la comunità ha assunto dei poteri, già spettanti agli Stati membri, nell'ambito di applicazione del Gatt, le disposizioni di questo sono
vincolanti per la comunità stessa". La necessità di configurare una successione del genere è stata superata dalla rinegoziazione del
Gatt nell'ambito dell'accordo istitutivo dell'organizzazione mondiale del commercio (OMC), concluso a Marrakech nel 1994,
rispetto al quale la CE e ora l'Unione è essa stessa parte contraente. Vedi, per l'opposta soluzione, la sent. del 2008, Intertanko,
dove la Corte ha negato che si fosse prodotto un fenomeno di successione a carico dell'Unione per quanto riguarda la convenzione
internazionale per la prevenzione dell'inquinamento causato da navi, firmata a Londra nel 1973, nota come convenzione MARPOL.
Ci si è domandati se un fenomeno analogo o di successione si sia avuto con riferimento alla Carta delle Nazioni Unite. La
questione è venuta in rilievo nell'ambito di una serie di ricorsi proposti contro un regolamento del Consiglio collegato ad una
risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu. Si trattava di una risoluzione adottata a norma del cap. 7 della Carta e perciò
obbligatoria ai sensi dell'art. 25. Con essa veniva imposto agli Stati di istituire un blocco dei beni a carico di determinate persone
sospettate di terrorismo. Una posizione comune PESC aveva poi stabilito che l'attuazione della risoluzione dovesse essere
effettuata dalla CE. Era così stato emanato un regolamento che alcune delle persone fisiche e giuridiche oggetto del blocco
avevano impugnato, sostenendo che esso violava taluni loro diritti fondamentali. Nella sentenza di primo grado (sent. del 2005,
Yusuf), il tribunale UE osserva che "la comunità deve essere considerata vincolata agli obblighi derivanti dalla Carta delle Nazioni
Unite, alla stessa stregua dei suoi Stati membri, in base allo stesso trattato che la istituisce". Riecheggiando le parole della sent.
International Fruit, il tribunale afferma che "in tutti i casi in cui, in forza del trattato CE, la comunità ha assunto dei poteri, già
spettanti agli Stati membri nell'ambito di applicazione della Carta delle Nazioni Unite, le disposizioni di questa sono vincolanti per la
comunità". Meno netta appare la posizione assunta dalla Corte di giustizia nella sentenza resa nel giudizio di impugnazione (sent.
del 2008, Kadi). Sembra che, secondo la Corte, l'obbligo dell'Unione di dare attuazione alle risoluzione del Consiglio di sicurezza e
di tenerne in debito conto i termini e gli obiettivi non sorga immediatamente ma solo in seguito all'adozione di una decisione PESC
che preveda un’attuazione al livello di Unione.

7.4. Quanto agli accordi conclusi dall'Unione con stati terzi o con altre organizzazioni internazionali essi fanno
parte dell'ordinamento dell'Unione a partire dalla data della loro entrata in vigore. Art. 216, par. 2, TFUE: "gli accordi
conclusi dall'Unione vincolano le istituzioni dell'Unione e gli Stati membri".
7.5. Molto diffusa è la prassi consistente nel concludere accordi misti a nome dell'Unione e dei suoi Stati membri,
nella loro qualità di soggetti autonomi diritto internazionale. Inizialmente la pratica degli accordi misti era imposta
dal rifiuto di taluni Stati terzi di riconoscere la competenza della CE. Successivamente lo strumento dell'accordo
misto si è rivelato utile di fronte ad ipotesi di accordi riguardanti anche materie che non rientravano affatto nella
competenza dell'Unione o materie sottoposte alla competenza concorrente dell'Unione e degli Stati membri e questi
non intendevano affidare la conclusione alla sola Unione.
La Corte considera che gli accordi misti hanno la stessa disciplina giuridica degli accordi conclusi senza la
partecipazione degli Stati membri per quanto riguarda le disposizioni che rientrano nella competenza della comunità.
In teoria invece non appartengono all'ordinamento dell'Unione quelle parti dell'accordo misto che hanno ad oggetto materie
rientranti nella competenza dei soli Stati membri. Tuttavia una distinzione del genere è molto difficile da tracciare. Talvolta,
all'atto della conclusione, l'Unione e gli Stati membri indicano, in un'apposita dichiarazione, le parti dell'accordo di competenza
dell'una o degli altri. Tuttavia una tale dichiarazione avrebbe solo effetti nei confronti delle altre parti contraenti e non potrebbe
certo modificare la ripartizione delle competenze come stabilita dai trattati. La Corte infatti ha più volte dichiarato che un accordo
internazionale non può pregiudicare il sistema delle competenze definito dai trattati. Tantomeno lo potrebbe fare una
dichiarazione della stessa Unione con Stati membri.

7.6. Quanto alla valore giuridico degli accordi internazionali e al loro rango nel sistema delle fonti dell'ordinamento
dell'unione, occorre distingue i rapporti di tali accordi con le fonti di diritto primario e assimilate, da un lato, e i
rapporti con gli atti delle istituzioni, dall'altro.
Per quanto riguarda i trattati, gli accordi internazionali sono ad essi subordinati e devono rispettarli. In caso
contrario, l'accordo internazionale o, più precisamente, l'atto delle istituzioni con cui è stata decisa la conclusione, è
illegittimo e può essere annullato. Recentemente si è riconosciuto che gli accordi internazionali sono anche
subordinati ai principi generali, in particolare quelli che tutelano i diritti fondamentali.
L'occasione è stata fornita dai ricorsi presentati contro il regolamento del Consiglio che, in attuazione di una risoluzione del
Consiglio di sicurezza Onu, aveva disposto il blocco dei beni di alcune persone sospettate di terrorismo. Tra i motivi di illegittimità
veniva invocata la violazione di alcuni diritti fondamentali. Nel giudizio di primo grado, il tribunale si era rifiutato di procedere ad
una verifica di legittimità del regolamento impugnato. Secondo il Tribunale l'Unione avrebbe agito nell'ambito di una competenza
vincolata e, sindacando la legittimità del regolamento, si metterebbe in discussione la validità della stessa risoluzione del
Consiglio di sicurezza. Ciò non sarebbe consentito in ragione degli obblighi derivanti per l'Unione dalla Carta delle Nazioni Unite.
Nella sentenza sul giudizio di impugnazione, la Corte di giustizia annulla la sentenza di primo grado. La Corte giudica infatti che
"gli obblighi imposti da un accordo internazionale non possono avere l'effetto di compromettere i principi costituzionali del trattato CE,
tra i quali il principio secondo cui tutti gli atti comunitari devono rispettare i diritti fondamentali, atteso che tale rispetto costituisce il
presupposto della loro legittimità, che spetta alla Corte controllare nell'ambito del sistema completo di mezzi di corso istituito dal
trattato stesso".

Per quanto riguarda i rapporti tra gli accordi internazionali e gli atti delle istituzioni, i primi prevalgono. Le istituzioni
non possono adottare atti che non rispettino un accordo concluso dall'Unione. In caso contrario l'atto confliggente
può essere annullato o essere dichiarato invalido. In generale gli accordi internazionali fungono da parametro di
legittimità degli atti delle istituzioni. Esistono però delle eccezioni: alcuni accordi internazionali non possono
essere utilizzati a questo fine. L'esempio più importante è dato dagli accordi allegati all'accordo istitutivo
dell'organizzazione mondiale del commercio (OMC), firmata a Marrakech nel 1994. Riguardo a tali accordi, la
Corte ha confermato la giurisprudenza maturata con riferimento al GATT del 1947. Essa considera che, a causa
della loro natura flessibile, "gli accordi OMC non figurano in linea di principio tra le normative alla luce delle quali la
Corte controlla la legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie".
Questa soluzione è stata ribadita anche in presenza di una decisione del Dispute Settlement Body (DSB, organo di soluzione delle
controversie istituito nell'ambito dell'OMC) che riconosca la violazione da parte dell'Unione dei propri obblighi e il cui termine
d'esecuzione sia scaduto. Nella sent. 2005, Van Parys, relativa ad una lunga controversia tra la comunità europea e alcuni paesi
produttori di banane, la Corte ha ritenuto di non poter essere chiamata a sindacare la legittimità di alcuni regolamenti comunitari
alla luce dell'accordo GATT e della richiamata decisione del DSB. Essa così argomenta: la scadenza del termine concesso
all'Unione per conformarsi alla decisione del DSB e all'intesa raggiunta dalle parti in proposito "non implica che la comunità abbia
esaurito le possibilità prospettate dall'intesa di comporre la controversia che la vede parte. Ciò considerato, imporre al giudice
comunitario, per il solo fatto della scadenza del termine, di controllare la legittimità delle misure comunitarie in questione alla luce
delle norme dell'OMC potrebbe avere l'effetto di indebolire la posizione della comunità nella ricerca di una soluzione reciprocamente
accettabile della controversia conforme con le dette regole".

La Corte ammette due eccezioni alla eccezione, in cui l'utilizzabilità degli accordi OMC come parametri di
legittimità di atti comunitari viene ammessa:
- la prima è che l'atto impugnato sia stato adottato proprio per dare esecuzione agli obblighi derivanti da tali accordi
(sent. 1989, Fediol; sent. 2005, Chiquita per un recente caso in cui tale ipotesi è stata negata);
- la seconda si realizza quando l'atto impugnato richiama espressamente specifiche disposizioni degli accordi (sent.
1991, Nakajima).
Un ulteriore caso di accordo internazionale non utilizzabile come parametro di legittimità degli atti delle istituzioni è
stato individuato dalla sent. 2008, Intertanko, nella convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, firmata
a Montego Bay nel 1982 (nota come UNCLOS), di cui, oltre agli Stati membri, è parte anche la CE.
Secondo la corte, la convenzione "non stabilisce norme destinate ad applicarsi direttamente ed immediatamente ai singoli né a
conferire a questi ultimi diritti o libertà che possono essere invocati nei confronti degli stati, indipendentemente dal comportamento
dello stato di bandiera della nave" e che pertanto "la natura e la struttura della convenzione di Montego Bay ostano a che la Corte
possa valutare la validità di un atto comunitario alla luce di tale convenzione".

Tanto la giurisprudenza sugli accordi OMC, quanto la pronuncia sul caso Intertanko appaiono come delle variazioni
rispetto ad un costante orientamento della Corte rivolto a favorire un controllo più ampio possibile della legittimità
degli atti delle istituzioni. Le critiche rivolte in proposito alla Corte sono numerose e articolatamente motivate.

8. I regolamenti
8.1 Art. 288 TFUE: "il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente
applicabile in ciascuno degli Stati membri".
8.2. La caratteristica della portata generale indica che il regolamento ha natura normativa. Esso pone regole di
comportamento rivolte alla generalità dei soggetti. Può accadere che un regolamento definisca i requisiti di fatto e di
diritto richiesti per la sua applicazione in maniera che solo un numero relativamente ristretto di persone li soddisfi.
Può anche darsi che il campo di applicazione sia talmente esiguo che si possa individuare a priori coloro ai quali il
regolamento, una volta entrato in vigore, si applicherà. Non per ciò potrà dirsi che il regolamento è privo di portata
generale. Solo qualora il contenuto di un regolamento si è determinato in considerazione della situazione individuale
in cui versa ciascuno dei soggetti ai quali il regolamento stesso sarà applicato, si dovrà parlare di un regolamento
solo di norme, che costituisce, in realtà, una decisione individuale o un fascio di decisioni individuali.
Nella sent. del 1985, Binderer, la Corte esamina un articolo di un regolamento relativo alla designazione alla presentazione dei
vini, che vieta di usare alcuni termini per la traduzione di indicazioni di vini di qualità superiore. Secondo la società Binderer, la
norma ha solo l'effetto di proibire l'uso di questi termini nelle etichette di alcuni specifici vini provenienti dall'Ungheria e dalla
Jugoslavia e importati in esclusiva in Germania da Binderer e da due altre società. Secondo la Corte, invece, la norma "stabilisce
il divieto di usare determinate traduzioni per tutti gli operatori economici che importano o importeranno in futuro vini del genere dai
paesi terzi nella comunità" ed ha pertanto "nei confronti degli importatori portata generale ai sensi dell'articolo 189, II co. del trattato
(ora art. 288, II co., TFUE), in quanto si applica a situazioni obiettivamente determinate e produce effetti giuridici nei confronti di
categorie di persone designate in modo generale e astratto".
Un caso particolare si è presentato nella sent. 2005, Yusuf. Il regolamento impugnato ordinava il blocco dei beni di determinati
soggetti, i cui nominativi erano indicati nell'elenco allegato. I ricorrenti contestavano, per tale motivo, la portata generale dell'atto.
Secondo il Tribunale, invece, "il regolamento impugnato ha incontestabilmente portata generale, poiché vieta a chiunque di mettere a
disposizione di determinate persone capitali o risorse economiche". Il Tribunale osserva che "l'argomentazione dei ricorrenti deriva
da una confusione tra il concetto di destinatario di un atto e quello oggetto di tale atto" e che la portata generale di cui parla l'art.
288, II co., "riguarda solo il primo di questi due concetti".
Qualora riesca a "smascherare" un regolamento e ad affermarne la portata individuale e non generale, una persona fisica o
giuridica che risulti pregiudicata dall'atto sarà ammessa ad impugnarlo attraverso un ricorso di annullamento ai sensi dell'art.
263, IV co., TFUE in quanto avrà provato che il regolamento la "riguarda direttamente ed individualmente".

8.3. Altra caratteristica è l'obbligatorietà integrale: il regolamento deve essere rispettato in tutti i suoi elementi,
ossia nella sua interezza. Gli Stati membri, non possono lasciare inapplicate talune disposizioni del regolamento,
limitarne il campo di applicazione dal punto di vista temporale, o personale, subordinarle a condizioni d'applicazione
non previste o introdurre facoltà di deroga non contemplate dalla regolamento stesso.
8.4. L'ultima caratteristica del regolamento è la diretta applicabilità "in ciascuno degli Stati membri". Tale
caratteristica presenta due profili distinti ma complementari.
In primo luogo, la diretta applicabilità riguarda l'adattamento degli ordinamenti interni degli Stati membri o
meglio i modi attraverso cui l'adattamento deve avvenire. In genere, i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali
non si preoccupano di stabilire come gli Stati membri dovranno dare applicazione agli atti obbligatori che gli organi
dell'organizzazione adottano, lasciando ciascuno Stato libero di agire come meglio ritenga. L'adattamento degli
ordinamenti interni al regolamento avviene "direttamente", cioè immediatamente e automaticamente, senza che sia
necessario e nemmeno consentito agli Stati membri subordinare l'applicazione del regolamento ad uno specifico atto
interno di adattamento di attuazione. Nello stesso momento in cui entrano in vigore nell'ordinamento d'origine, i
regolamenti sono applicabili anche all'interno di ciascuno Stato membro. L'eventuale atto nazionale di recepimento,
avrebbe l'effetto di trasformare il regolamento in un provvedimento interno e ne occulterebbe la natura comunitaria.
Nella sent. 1973, Variola, la Corte è chiamata a pronunciarsi sulla prassi italiana di dare esecuzione regolamenti "incorporandoli"
in altrettanti decreti legislativi. Il presidente del tribunale di Trieste si trova a dover interpretare alcuni regolamenti del Consiglio,
il cui contenuto era stato riprodotto secondo l’esposta prassi, e si domanda se la prassi stessa escluda la competenza
pregiudiziale della Corte. La Corte afferma perentoriamente che "l'efficacia diretta del regolamento implica che la sua entrata in
vigore e la sua applicazione nei confronti degli amministrati non abbisognano di alcun atto di ricezione del diritto interno" e che gli
Stati membri sono obbligati a rispettare tale principio, che rappresenta "una condizione indispensabile per l'applicazione
simultanea ed uniforme dei regolamenti comunitari nell'intera comunità".
I principi desumibili da questa sentenza sono stati accolti dalla Corte cost., nella sent. 1975, I.C.I.C. I decreti riproduttivi di
regolamenti sono incostituzionali, in quanto violano indirettamente l'art. 11 Cost.
La diretta applicabilità non esclude però che gli Stati membri siano chiamati ad adottare provvedimenti nazionali integrativi.
Talvolta è il regolamento stesso che richiede gli Stati membri l'adozione di misure di questo tipo. Può trattarsi di provvedimenti
specifici o di provvedimenti genericamente descritti. In altri casi, la necessità di provvedimenti nazionali integrativi è implicita e
discende dal principio di leale collaborazione previsto dall'art. 4, par. 3, TUE.

In secondo luogo, l'applicabilità diretta dei regolamenti implica la loro capacità di produrre effetti diretti all'interno
degli ordinamenti degli Stati membri (efficacia diretta). Considerato che il regolamento assume valore normativo
non solo nell'ordinamento dell'Unione, ma anche in quello degli Stati membri, ne discende che il regolamento, alla
stessa stregua di qualsiasi fonte normativa di diritto interno, è "atto ad attribuire ai singoli dei diritti che i giudici
nazionali devono tutelare" (sent. del 1972, Leonesio).

9. Le direttive e le decisioni quadro dell'ex III pilastro


9.1. Art. 288, III co. TFUE prevede che "la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato
da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi".
9.2. La direttiva, pur essendo atto vincolante, ha portata individuale e non generale. Essa ha infatti dei destinatari
definiti in ciascuna direttiva che possono consistere in uno o più Stati membri.
Spesso la direttiva è rivolta a tutti gli Stati membri: in questo caso si parla, impropriamente, di direttive generali. A tale tipologia
appartengono le direttive legislative (adottate con procedura legislativa). Anche direttive non legislative potrebbero essere generali.

Occorre tuttavia tener presente che, in prevalenza, le direttive mirano ad ottenere il ravvicinamento delle disposizioni
legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri in determinate materie. Anche se le direttive mancano
di portata generale, tale portata hanno le misure di attuazione adottate dagli Stati membri. In questo senso si usa
dire che le direttive rappresentano uno strumento di normazione in due fasi: la prima accentrata al livello
dell'Unione, dove vengono fissati gli obiettivi e i principi generali, e la seconda decentrata a livello nazionale, dove
ciascuno Stato membro attua, attraverso strumenti normativi completi e dettagliati, gli obiettivi e i principi generali
fissati dalla direttiva.
9.3. Come il regolamento, la direttiva è obbligatoria in tutti i suoi elementi (obbligatorietà integrale). Gli Stati
membri non possono infatti applicarla selettivamente o parzialmente. Tuttavia occorre tener conto che, differenza del
regolamento, la direttiva si limita ad imporre agli Stati membri un risultato da raggiungere, lasciandoli liberi di
scegliere le misure di adattamento necessarie per realizzare il risultato prescritto. La direttiva comporta un obbligo di
risultato, mentre il regolamento impone un obbligo di mezzi. La direttiva non è diretta ad imporre agli Stati membri
un semplice obbligo di applicare la direttiva e di farla rispettare nel proprio territorio, ma richiede dagli Stati membri
un'attività di tipo diverso e più complessa: attuare la direttiva, scegliendo i mezzi e le forme appropriate.
9.4. Quanto alla diretta applicabilità, occorre distinguere tra i due profili individuati a proposito dei regolamenti.
Con riferimento al primo e cioè alla non necessità di misure di adattamento, deve affermarsi che la direttiva non gode
della diretta applicabilità. Infatti, si richiede che la direttiva riceva attuazione da parte degli Stati membri attraverso
apposite misure. A differenza di quanto avviene a proposito dei regolamenti, gli Stati membri sono tenuti ad adattare,
cioè a modificare l'ordinamento interno in modo da assicurare che il risultato voluto dalla direttiva sia raggiunto. In
mancanza, la direttiva non è in grado, da sola, di ottenere il risultato voluto. Si tratta quindi di uno strumento che
risponde ad una visione internazionalistica dei rapporti tra ordinamenti. Come nel caso delle fonti di diritto
internazionale, la direttiva richiede agli Stati membri un'attività di adattamento degli ordinamenti interni, attività che
invece si è voluto "saltare" con riferimento ai soli regolamenti.
Quanto al secondo profilo della diretta applicabilità (efficacia diretta), certamente la direttiva non gode di efficacia
diretta nella stessa misura in cui ne godono i regolamenti. Mentre per questi l'efficacia diretta è presunta, perché
possa parlarsi di efficacia diretta di una direttiva è necessario che siano soddisfatte alcune condizioni temporali
sostanziali individuate dalla giurisprudenza della Corte. Inoltre l'efficacia diretta delle direttive ha una ridotta portata
ratione personarum.
9.5. L'obbligo di attuazione di una direttiva è assoluto per ciascuno Stato membro al quale la direttiva è rivolta.
L'unica ipotesi in cui è possibile omettere di attivarsi si ha quando lo Stato membro è in grado di dimostrare che il
proprio ordinamento interno è già perfettamente conforme alla direttiva.
L'obbligo va adempiuto entro il termine di attuazione fissato dalla direttiva stessa. Tale termine può variare da
pochi mesi ad uno o più anni, a seconda dell'importanza della materia oggetto della direttiva e delle difficoltà che gli
Stati membri possono incontrare nell'attuazione. Il termine è imperativo e perentorio: non è possibile addurre
giustificazioni di sorta per il mancato rispetto.
Il fatto che agli Stati membri sia concesso un termine per l'attuazione non deve far dimenticare che l'obbligo di
attuazione sorge nel momento in cui la direttiva entra in vigore. Essendo il termine previsto in suo favore, lo stato
membro può attuare la direttiva anche prima della scadenza. È altresì possibile procedere ad un’attuazione per
tappe, purché questa sia completata entro il termine previsto. Viceversa, in pendenza del termine, lo Stato membro
non può adottare provvedimenti in contrasto con la direttiva o comunque tali da compromettere gravemente la
realizzazione del risultato che la direttiva prescrive (obbligo di standstill o di non aggravamento).
9.6. Gli Stati membri sono competenti quanto alla scelta delle forme e dei mezzi di attuazione. La scelta non è
del tutto libera. È infatti anzitutto necessario che gli strumenti scelti dal legislatore nazionale siano idonei a produrre
la modificazione degli ordinamenti interni voluta dalla direttiva. Nella scelta della forma e dei mezzi si deve quindi
tener conto della gerarchia delle fonti di diritto interno. Se, ad esempio, la direttiva interviene su una materia già
disciplinata da norme di legge, l'attuazione dovrà avvenire attraverso norme aventi almeno pari rango rispetto quelle
da modificare o abrogare. In caso contrario, le norme di attuazione sarebbero inefficaci e lo scopo voluto dalla
direttiva non sarebbe raggiunto. In secondo luogo, devono essere scelti strumenti di attuazione che garantiscano
trasparenza e certezza del diritto. La Corte ha sistematicamente giudicato insufficiente modi o procedure agevolate di
attuazione, consistenti nell'approvazione di misure di carattere amministrativo, circolari o semplici istruzioni rivolte
agli uffici amministrativi, in quanto modificabili liberamente dall'amministrazione sprovviste di adeguata pubblicità.
9.7. Circa il contenuto delle direttive, il meccanismo previsto dal III co. dell'art. 288 si articola intorno al binomio
risultato/forme e mezzi. Il primo viene definito dalla direttiva. Le forme e i mezzi sono scelti dalle autorità competenti
degli Stati membri. Nella prassi, la distinzione tra risultato/forme e mezzi si è rilevata difficile da tracciare.
Determinati risultati non possono essere definiti limitandosi ad indicare obiettivi e principi generali, ma richiedono
l'elaborazione di un quadro normativo alquanto dettagliato, che lascia alla libera determinazione degli Stati membri
solo interventi limitati ad aspetti di secondaria importanza. Non è possibile individuare in via generale uno spazio di
competenza riservato agli Stati membri, oltre il quale la direttiva non può mai intervenire. Viceversa la frontiera tra il
livello di intervento dell'Unione e quello nazionale è frutto di valutazioni d'indole politica che vengono operate dalle
istituzioni, in funzione dell'obiettivo voluto dalla direttiva e del principio di sussidiarietà. Non sono perciò fondate le
accuse di illegittimità rivolte alle direttive adottate fino agli anni ‘80 del sec. scorso (direttive dettagliate). Tali
direttive non solo mantengono la struttura di qualsiasi direttiva, ma si giustificano in base al risultato voluto, che in
quegli anni era un'armonizzazione molto avanzata delle legislazioni nazionali. Una volta abbandonato tale obiettivo,
in favore di una politica di armonizzazione minima, il problema posto dalle direttive dettagliate si è risolto da solo.
9.8. Nell'ambito di quello che, fino al trattato di Lisbona, era noto come il III pilastro (cooperazione di polizia
giudiziaria in materia penale), le istituzioni potevano adottare una serie di atti che rispondevano ad una tipologia
diversa rispetto a quella prevista per il pilastro comunitario. L'art. 34, par. 2, TUE elencava infatti quattro tipi di atti
(tutti del Consiglio): le posizioni comuni, le decisioni quadro, le decisioni e le convenzioni. Il modello delle decisioni
quadro ha avuto grande successo ed è stato utilizzato di frequente per l'adozione di misure molto importanti.
L'esempio più noto è la decisione quadro n. 2002/584/GAI del Consiglio 2002, sul mandato di arresto europeo.
Si tratta di un tipo di atto che si ispira al modello delle direttive. Con queste condivide anzitutto lo scopo che la
maggior parte delle direttive persegue: il "ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati
membri". Come le direttive poi "le decisioni quadro sono vincolanti per gli Stati membri quanto al risultato da ottenere,
salva restando la competenza delle autorità nazionali in merito alla forma e ai mezzi". Gli Stati membri sono perciò
tenuti a dare attuazione alla decisione quadro entro il termine della stessa indicato.
Sussiste però un'importante differenza: le decisioni quadro "non hanno efficacia diretta".
Dopo il trattato di Lisbona, "gli effetti giuridici" delle decisioni quadro, così come degli altri atti adottati dall'istituzione, cioè dei
pilastri non comunitari, "sono mantenuti finché tali atti non saranno stati abrogati, annullati o modificati in applicazione dei trattati"
(art. 9 del Prot. n. 36 sulle disposizioni transitorie).
Gli altri tipi di atti previsti dall'art. 34, sono descritti come atti che "definiscono l'orientamento dell’Unione in merito ad una
questione specifica". Si tratta di atti tipici della cooperazione intergovernativa e quindi completamente estranei alla tipologia
comunitaria. Quanto alle decisioni, si limita a stabilire che "sono vincolanti e non hanno efficacia diretta" e che attraverso di esse
può essere perseguito "qualsiasi altro scopo coerente con gli obiettivi del presente titolo". Sono infine previste le convenzioni di cui il
Consiglio "raccomanda l'adozione agli Stati membri secondo le rispettive norme costituzionali" con l'obbligo per gli Stati membri di
avviare "le procedure applicabili entro un termine previsto dal Consiglio".

10. Le decisioni.
10.1. Sono individuabili due tipi di decisioni:
 decisioni individuali, dotate di destinatari individuati nell'atto, che sono i soli soggetti alla sua portata obbligatoria;
 decisioni generali, prive di destinatari individuati, che ha pertanto portata obbligatoria generale.
10.2. Decisione individuale due caratteristiche: una propria dei regolamenti e l'altra delle direttive. Come il
regolamento, è obbligatoria in tutti i suoi elementi e deve quindi essere rispettata nella sua interezza. D'altra parte
però, come la direttiva, non ha portata generale, vincolando i soli destinatari da essa designati. A differenza della
direttiva però la decisione può essere rivolta non solo a Stati membri, ma anche ad altri soggetti, compresi i singoli.
Le decisioni individuali rivolte agli Stati membri sono nella sostanza simili alle direttive, qualora impongano un
obbligo di facere. In questo caso, l'attuazione è disciplinata in maniera analoga a quanto visto per le direttive.
Tuttavia l'obbligo di facere imposto dalle decisioni è spesso molto più specifico dell'obbligo di attuare una direttiva e
lascia quindi allo Stato membro un margine di discrezionalità molto più ristretto. Esistono anche decisioni che si
limitano a prescrivere un obbligo di non facere. In questo caso lo Stato è tenuto ad astenersi dall'attività vietata.
10.3. Le decisioni individuali rivolte ai singoli hanno natura amministrativa. I casi più importanti sono
rappresentati dalle decisioni che la Commissione adotta nell'ambito della disciplina della concorrenza, che possono
prevedere anche la comminazione di sanzioni pecuniarie a carico delle imprese. In questo ultimo caso, le decisioni
costituiscono titolo esecutivo. Previa apposizione della formula esecutiva da parte dell'autorità designata dallo Stato
membro in cui si intende ottenere l'esecuzione, è quindi possibile procedere alla loro esecuzione forzata.
10.3. Le decisioni generali hanno natura varia. Gli esempi più importanti sono costituiti da alcune decisioni che il
Consiglio europeo adotta nell'ambito delle procedure di revisione dei trattati, in particolare quelle che riguardano
alcune procedure semplificate. Di importanza analoga sono alcune decisioni sempre del Consiglio europeo che danno
attuazione a specifiche disposizioni dei trattati: es. le decisioni con cui il Consiglio europeo stabilisce la composizione
del Parlamento europeo, l'elenco delle formazioni del Consiglio diverse da quella «Affari generali» e «Affari esteri» e la
presidenza della formazioni diverse da quella «Affari esteri».
Alcune decisioni generali sono prese dal Consiglio: es. quelle in cui è constata l'esistenza di «un evidente rischio di
violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'art. 2», oppure quelle con cui autorizza una
cooperazione rafforzata. Vanno altresì ricordate le decisioni, in genere del Consiglio, adottate nel quadro della PESC.

11. Gli atti nel settore PESC.


11.1. Gli atti giuridici attraverso i quali l'Unione conduce la PESC sono di due tipi:
a) gli orientamenti generali: atti del Consiglio europeo, corrispondenti alle strategie comuni previste in
passato. Si configurano come atti di altissima politica, che definiscono le linee guida su cui l'Unione deve
muoversi nel settore della politica estera e sicurezza comune, «comprese le questioni che hanno implicazioni in
materia di difesa». Sembrerebbe che gli orientamenti generali debbano assumere la forma di decisioni.
b) le decisioni: atti del Consiglio. Possono assumere vari contenuti, potendo definire: le azioni che l'Unione deve
intraprendere; le posizioni che l'Unione deve assumere; le modalità di attuazione delle decisioni».
Le decisioni PESC possono quindi essere adottate «quando una situazione internazionale richieda l'intervento operativo dell'Unione»,
definendone «gli obiettivi, la portata e i mezzi di cui l'Unione deve disporre» o quando occorra definire «la posizione dell'Unione su
una questione particolare di natura geografica o tematica» o costituire atti di esecuzione (di secondo grado) di altre decisioni.

11.2. Gli atti che possono essere adottati nell'ambito PESC non hanno mai carattere legislativo. Le decisioni però
vincolano gli Stati membri.

12. L'adattamento dell'ordinamento italiano al diritto dell'Unione europea.


12.1. I trattati (quelli istitutivi delle CE, quelli che li hanno modificati nel tempo, il TUE, il Trattato di Amsterdam,
quello di Nizza e il Trattato di Lisbona) si presentano nella forma di normali trattati internazionali.
L'ordine di esecuzione di ciascun trattato è stato dato con la medesima legge con cui il Parlamento italiano ha
autorizzato la ratifica del trattato stesso da parte del Capo dello Stato.
Il ricorso ad una legge ordinaria per eseguire trattati così importanti come quelli europei ha dato luogo a difficoltà.
Molti ritenevano necessaria una norma costituzionale ad hoc, che autorizzasse l'accettazione delle limitazioni di
sovranità nazionale legate all'appartenenza alla Comunità, e poi all'Unione, e conferisse alla Comunità/Unione ed al
suo diritto uno status costituzionale definito. Una norma del genere non è mai stata adottata. Nemmeno la L. cost.
3/2001 contiene nulla di simile, ma si limita a dare già per acquisita la partecipazione italiana alla Comunità
(l'Unione non è invece espressamente menzionata). Il nuovo art. 117 infatti stabilisce, al I co., che «la potestà
legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
In assenza di una norma costituzionale specifica, si è ritenuto di poter ricondurre l'adesione italiana alla Comunità e
poi all'Unione all'art. 11 Cost. La seconda parte di questa norma prevede che l'Italia «consente in condizioni di parità
con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
La possibilità di far rientrare nell'art. 11 anche la partecipazione alla Comunità/Unione ha trovato conferma nella
giurisprudenza della Corte cost. Secondo quanto affermato, in particolare nella sent. del 1964 n. 14, Costa c. Enel,
l'art. 11 non è solo una norma «permissiva», che abilita ad accettare le limitazioni di sovranità, ma è una norma
procedurale: consente di accettare limitazioni di sovranità, senza necessità di procedere a revisione costituzionale.
La sentenza trae origine da una vertenza parallela a quella che aveva portato alla sent. della Corte di giustizia del 1964, Costa c.
Enel. Il Giudice conciliatore di Milano aveva sollevato eccezione di costituzionalità, per violazione dell'art. 11, della legge di
nazionalizzazione dell'energia elettrica, ritenendola in contrasto con alcune norme del TCE e quindi, indirettamente, con l’art. 11.
Nel decidere su tale eccezione, la Corte cost. prende posizione sul valore dell'art. 11 in relazione all'adesione italiana alla
Comunità". Secondo la Corte l'art. 11 «significa che, quando ricorrono i presupposti, è possibile stipulare trattati con cui si assumono
limitazioni di sovranità ed è consentito di darvi esecuzione con legge ordinaria».
La circostanza che l'esecuzione dei trattati sia avvenuta con legge ordinaria ha tuttavia inizialmente costituito un ostacolo al
riconoscimento da parte della Corte cost. del principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno incompatibile.
Le leggi ordinarie con cui si è data esecuzione ai trattati si sono per lo più limitate ad impartire l'ordine di esecuzione, secondo il
metodo speciale di adattamento o mediante rinvio. La legge si limita a prescrivere l'osservanza del trattato, il cui testo viene
allegato alla legge stessa. In alcuni casi, però, le leggi d'esecuzione hanno previsto anche norme di adattamento ordinario, che
integravano e modificavano l'ordinamento interno per rendere possibile l'applicazione concreta del trattato in Italia.

12.2. Più difficile è risultato il compito di assicurare l'attuazione in Italia del diritto secondario o derivato. Le
maggiori difficoltà si sono avute riguardo alle direttive, richiedendo ciascuna di esse un'attività di attuazione, che il
legislatore nazionale è tenuto ad effettuare entro un termine perentorio, talvolta breve.
In Italia inizialmente si ricorreva allo strumento della delega legislativa al Governo: il Parlamento, con legge, delegava
al Governo il compito di emanare decreti legislativi per l'attuazione di un certo numero di atti delle istituzioni. Tale
sistema comportava problemi di ordine giuridico, ma anche di ordine pratico.
Un nuovo e più efficiente meccanismo di attuazione degli atti comunitari è stato adottato con la L. 86/1989, nota
come Legge La Pergola. Essa è stata ora sostituita dalla L. 11/2005.
Tanto la Legge La Pergola quanto la L. 11/2005 sono leggi ordinarie: in ciò sta il loro limite, atteso che ogni legge
ordinaria successiva le può abrogare e modificare, senza incorrere in alcun vizio di incostituzionalità.
La maggiore novità introdotta dalla Legge La Pergola è l'introduzione di un meccanismo legislativo annuale: ogni
anno, il Parlamento approva una legge comunitaria, che contiene provvedimenti volti a rendere conforme
l'ordinamento italiano a tutti gli obblighi comunitari, che vengono a maturazione entro l'anno di riferimento. In
particolare si tratta degli obblighi che conseguono: a) «all'emanazione di ogni atto comunitario e dell'UE che vincoli la
Repubblica italiana ad adottare provvedimenti di attuazione» (art. 1, par. 2, lett. a); b ) «all'accertamento
giurisdizionale, con sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, della incompatibilità di norme legislative e
regolamentari dell'ordinamento giuridico nazionale con le disposizioni dell'ordinamento comunitario» (art. 1, par. 2, lett.
b); c) «all'emanazione di decisioni-quadro e di decisioni adottate nell'ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in
materia penale» (art. 1, par. 2, lett. e). La legge comunitaria può dunque operare tanto riguardo agli obblighi derivanti
da veri e propri atti delle istituzioni «politiche», quanto da sentenze di incompatibilità di norme interne con il diritto
dell'Unione, pronunciate dalla Corte di giustizia. Tre metodi principali attraverso i quali la legge comunitaria opera
per rendere l'ordinamento italiano conforme agli obblighi indicati.
1- Attuazione diretta: la stessa legge comunitaria abroga o modifica disposizioni statali vigenti. Esso può
essere seguito in due casi: a ) disposizioni statali vigenti «in contrasto con gli obblighi specificati dall'art. 1» cit.;
b ) disposizioni statali vigenti «oggetto di procedure di infrazione avviate dalla Commissione delle. Comunità
europee nei confronti della Repubblica italiana». Si tratta del procedimento più dispendioso, che implica
l'approvazione da parte del Parlamento della specifica modifica legislativa da apportare all'ordinamento
vigente. Esso viene quindi utilizzato per adempimenti puntuali e di semplice definizione oppure quando vi
sono motivi di urgenza.
2- Delega legislativa al Governo. La legge comunitaria, può avere (in parte) il contenuto di una legge delega. In
questo caso essa prevede i criteri per l'attuazione delle norme comunitarie da parte del Governo, mediante
decreti legislativi.
3- Attuazione in via regolamentare e amministrativa, che rappresenta forse l'elemento di maggior rilievo
introdotto dalla Legge La Pergola. La legge comunitaria può contenere «disposizioni che autorizzano il Governo
ad attuare in via regolamentare le direttive a norma dell'art. 11». Ciò può avvenire per direttive che riguardano
«materie di cui all'art. 117, II co. Cost.» (materie di competenza esclusiva statale), anche se si tratta di «materie
già disciplinate con legge, ma non riservate alla legge». Il regolamento emanato in forza della cit. disposizione è
perciò in grado di modificare norme di legge preesistenti, grazie all'espressa autorizzazione data dal
Parlamento nella legge comunitaria. Si opera pertanto la delegificazione delle materie interessate.
12.3. La Legge La Pergola e ora la L. 11/2005, si occupano anche dell'attuazione del diritto comunitario da parte
delle Regioni. L'attuale sistemazione della materia è frutto di una lunga evoluzione normativa e giurisprudenziale,
che ha condotto a riconoscere un ruolo sempre più ampio alle Regioni, salvo restando il principio della responsabilità
del solo Stato nei confronti delle istituzioni comunitarie. Si prevede ormai che le Regioni e le Province autonome di
Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza «provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli atti dell'UE, nel
rispetto delle norme di procedura stabilite con legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere
sostitutivo in caso di inadempienza».
Le regioni e le province autonome, nelle materie di loro competenza, possono dare immediata attuazione alle
direttive. Le regioni e le province autonome non debbono attendere un preventivo intervento da parte dello Stato, ma
possono provvedere non appena la direttiva entra in vigore e diventa pertanto obbligatoria per lo Stato.
Ciò non esclude del tutto l'intervento dello Stato. In primo luogo, nelle materie di competenza concorrente, è compito dello Stato la
determinazione dei principi fondamentali. Ciò vale anche quando si tratta di attuare atti dell'Unione. In secondo luogo è previsto
a favore dello Stato un potere sostitutivo nel caso di inadempimento regionale riguardante la normativa dell'Unione. Per quanto
riguarda l'attuazione di atti normativi comunitari, la L. 11/2005 ribadisce il sistema precedente, consistente in un meccanismo di
sostituzione preventiva. In pratica, lo Stato adotta decreti legislativi o regolamenti di attuazione anche riguardo a direttive che
ricadono nelle materie di competenza regolamentare o legislativa (tanto concorrente quanto esclusiva) delle regioni o delle
province autonome. Tali provvedimenti, tuttavia, si applicano solo a partire dalla data di scadenza dell'obbligo di attuazione di
ciascuna direttiva e solo nel territorio delle regioni che non abbiano già provveduto autonomamente all'attuazione e fino a quando
non lo avranno fatto. Essi hanno infatti natura cedevole. Una procedura di sostituzione successiva è disciplinata invece dall'art.
8 della L. 131/2003 (Legge La Loggia). Essa prevede la messa in mora preventiva della Regione che versi in situazione di mancato
rispetto della normativa comunitaria, con l'assegnazione di «un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari».
Decorso invano detto termine, il Consiglio dei ministri provvederà direttamente o nominando un’apposita Commissione.

PARTE IV
DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA E SOGGETTI DEGLI ORDINAMENTI INTERNI

1. Considerazioni generali.
1.1. L'ordinamento dell'Unione riconosce come titolari di soggettività giuridica non solo gli Stati membri, ma
anche coloro ai quali tale soggettività spetta nell'ambito degli ordinamenti interni degli Stati membri.
Tali norme presentano due dimensioni distinte:
- dimensione internazionale,
- dimensione interna.
Di tipo internazionalistico sono i rapporti giuridici che il diritto dell'Unione fa sorgere in capo agli Stati membri e
all'Unione stessa. Il contenuto di tali rapporti è costituito da una serie di diritti e obblighi che, secondo i casi,
l'Unione, attraverso le sue istituzioni, o uno Stato membro può far valere nei confronti di un altro Stato membro o di
un'istituzione. Nell'ambito di tali rapporti, lo Stato membro interessato si presenta in maniera unitaria,
analogamente a quanto avviene nell'ordinamento internazionale. Lo Stato membro, infatti, è espressione
comprensiva di tutte le componenti in cui si articola la propria organizzazione interna: organi dipendenti dal potere
esecutivo dello Stato centrale, organi dotati di autonomia costituzionale (es. la magistratura), enti territoriali e
regionali e persino, in qualche caso, individui. I rapporti di tipo internazionalistico sfociano, in caso di controversia,
in procedimenti giudiziari di soluzione anch'essi di stampo internazionalistico, il più importante dei quali è
disciplinato dagli artt. 258 e 259 TFUE.
1.2. Appartengono, invece, ad una dimensione interna all'ordinamento di ciascuno Stato membro, i rapporti giuridici
interessati dal diritto dell'Unione che coinvolgono soggetti di tali ordinamenti. Talvolta, si tratta di rapporti che
vedono contrapposti un soggetto privato ad un altro (rapporti orizzontali). Più spesso, essi sorgono tra un soggetto
privato e un soggetto pubblico, in quanto riconducibile, in maniera diretta o indiretta, ad un'autorità statale o pub-
blica (rapporti verticali). Il diritto dell'Unione può intervenire su tali rapporti con intensità variabile.
In primo luogo, può darsi che il diritto dell'Unione fornisca, in tutto o in parte, la disciplina di tali rapporti. Ciò
avviene, in particolare, nel campo d'applicazione dei regolamenti, quali, essendo direttamente applicabili,
costituiscono una fonte che assume valore normativo anche all'interno degli ordinamenti nazionali, disciplinando
un'intera materia e sostituendosi alle eventuali norme interne preesistenti (effetto di sostituzione). Un siffatto
effetto, benché su scala più limitata, può derivare anche da altre fonti di diritto dell'Unione, comprese le norme dei
trattati.
Come esempio dell'effetto di sostituzione si può citare il caso esaminato nella sent. del 1973, Variola. L'Italia aveva dato
applicazione ad un regolamento comunitario, trasfondendolo in un decreto legislativo. Il regolamento prescriveva l'abolizione, a
partire dalla sua entrata in vigore, delle tasse d'effetto equivalente all'importazione (sui cereali). Il decreto legislativo, invece,
stabiliva che l'abolizione dei diritti di statistica (già qualificati come tasse d'effetto equivalente in una precedente sentenza della
Corte) aveva effetto a partire dall'entrata in vigore dello stesso decreto. Questa data era successiva a quella d'entrata in vigore del
regolamento. La Corte giudica che «l'efficacia diretta negli ordinamenti giuridici degli Stati membri dei regolamenti non potrebbe
essere contrastata in giudizio da una legge interna» e che «ciò vale in particolare per la data a partire dalla quale la norma
comunitaria ha efficacia e attribuisce ai singoli dei diritti soggettivi». La disposizione regolamentare da cui si ricava la data a partire
dalla quale i diritti di statistica sono aboliti si sostituisce alla previsione del decreto legislativo.
In secondo luogo il diritto dell'Unione può interessare la disciplina di un rapporto giuridico dettando principi generali
o anche regole particolari che si limitano ad impedire l'applicazione di norme interne ad esse contrarie (effetto di
opposizione). In casi del genere, la disciplina del rapporto resta soggetta al diritto interno, dal quale vengono
espunte soltanto le norme incompatibili con il diritto dell'Unione.
Un esempio del genere è riscontrabile nel caso esaminato dalla sent. 1989, Cowan. Il principio della parità di trattamento per i
destinatari di servizi previsto dall'art. 57, par. 2, TFUE, ha l'effetto di rendere non opponibile al sig. Cowan la norma francese che
limita ai cittadini nazionali la possibilità di ricevere l'indennità in causa. Per il resto il diritto francese resta applicabile.

1.3. Tanto nel caso di effetto di sostituzione, quanto nel caso di mero effetto di opposizione si suole dire che la norma
comunitaria produce effetti diretti o gode di efficacia diretta negli ordinamenti interni e quindi nei confronti dei
soggetti riconosciuti da tali ordinamenti.
Non è possibile definire a priori il contenuto degli effetti diretti che una norma dell'Unione può produrre, essendo questi
strettamente legati al contenuto della norma stessa e al contesto in cui la norma è invocata. Ad esempio una norma come l'art. 30
TFUE, che vieta la riscossione di determinate tasse o di determinati importi, crea a favore del soggetto interessato non solo il
diritto di opporsi al pagamento, ma, ove il pagamento sia già avvenuto, il diritto ad ottenerne la restituzione (sent. 1983, San
Giorgio). L'articolo di una direttiva relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici, che
impone agli Stati membri di adottare i provvedimenti necessari a permettere a tutti coloro che si ritengono lesi da una
discriminazione di far valere in giudizio i propri diritti, può essere invocato per ottenere il risarcimento integrale del danno subito
e il pagamento di interessi fino al momento dell'effettivo versamento della somma liquidata a titolo di risarcimento (sent. 1993,
Marshall II). L'art. 45, par. 1, TFUE che conferisce ai lavoratori degli Stati membri il diritto alla libera circolazione negli altri Stati
membri, comporta a favore del lavoratore oggetto di provvedimenti di espulsione o di non ammissione non giustificati da alcuna
delle eccezioni previste dallo stesso art. 45, al par. 3, il diritto ad ottenere la revoca dei provvedimenti illegittimi (sent. 1974, Van
Duyn). In tutti i casi citati, inoltre, il soggetto interessato ha diritto a chiedere il risarcimento degli ulteriori danni.

L'efficacia diretta di una norma dell'Unione implica che il soggetto nei cui confronti la norma produce effetti
favorevoli può pretenderne il rispetto da parte dell'altro soggetto del rapporto (efficacia diretta in senso
sostanziale). In caso di mancato rispetto, l'efficacia diretta comporta anche l'invocabilità in giudizio: i soggetti
favoriti dalla norma dell'Unione possono chiedere al giudice nazionale l'applicazione in giudizio della norma stessa,
ottenendone la corrispondente tutela giurisdizionale.
La distinzione tra la portata sostanziale dell'efficacia diretta di una norma dell'Unione e il diritto alla tutela processuale delle
posizioni soggettive create dalla norma stessa risulta con evidenza dalla sent. 1989, Fratelli Costanzo. In violazione di una
direttiva in materia di appalti di lavori pubblici, la normativa italiana continuava a prevedere l'esclusione automatica dalle gare
delle offerte che risultassero anormalmente basse. Applicando la normativa italiana, il Comune di Milano aveva escluso l'offerta
dell'impresa Costanzo. Il TAR della Lombardia chiede alla Corte di sapere se l'amministrazione comunale avesse il potere-dovere
di disapplicare le norme interne contrastanti con la direttiva o se tale potere-dovere spettasse solo ai giudici nazionali. La Corte
risponde che «qualora sussistano i presupposti necessari, secondo la giurisprudenza della Corte, affinché le disposizioni di una
direttiva siano invocabili dai singoli dinanzi ai giudici nazionali, tutti gli organi dell'amministrazione, compresi quelli degli enti
territoriali, come i comuni, sono tenuti ad applicare le suddette disposizioni e a disapplicare le norme del diritto nazionale non
conformi».

La Corte usava indistintamente i termini efficacia diretta e applicabilità diretta. In realtà, l'applicabilità diretta in
senso stretto (non necessità di misure di attuazione da parte degli Stati membri) è riservata dall'art. 288 TFUE ai soli
regolamenti. L'efficacia diretta è, invece, una caratteristica che può essere presente anche in altre fonti del diritto
dell'Unione, comprese le direttive e le decisioni.
1.4. Non sempre le norme dell'Unione presentano le caratteristiche necessarie per produrre effetti diretti. Persino i
regolamenti, possono difettare di tali caratteristiche. Per le direttive, poi, le condizioni e la portata dell'efficacia
diretta sono definite in maniera particolarmente restrittiva.
1.5. L'efficacia diretta non costituisce tuttavia l'unica forma attraverso cui le norme dell'Unione assumono rilevanza
normativa interna. In presenza di norme prive della capacità di produrre effetti diretti, la giurisprudenza ha
individuato almeno due forme di efficacia indiretta.
- La prima si concreta nel riconoscere che il diritto dell'Unione, anche non direttamente efficace, ha un valore
interpretativo cogente rispetto alle norme interne. I giudici nazionali sono infatti soggetti ad un obbligo di
interpretazione conforme, capace di ovviare a situazioni di apparente conflitto tra norme interne e dell'Unione.
- La seconda consiste nel riconoscere che la mancata attuazione di una norma dell'Unione anche se non
direttamente efficace fa sorgere, in capo a coloro che sono stati danneggiati dalla mancata attuazione, il diritto al
risarcimento del danno a carico dello Stato membro responsabile.

2. I presupposti dell'efficacia diretta.


2.1. Il giudice nazionale, qualora intenda trarre da una norma effetti diretti al fine di risolvere una controversia, ha
l'onere di verificare d'ufficio se la norma presenti le caratteristiche necessarie, avvalendosi, se del caso, del rinvio
pregiudiziale di cui all'art. 267 TFUE. La capacità della norma dell'Unione di produrre effetti diretti costituisce
questione che attiene all'interpretazione della norma e rientra nella competenza pregiudiziale della Corte di giustizia.
2.2. Nell'indagine volta a stabilire se una norma dell'Unione abbia o meno efficacia diretta, la Corte mira ad
individuare nella norma in questione alcune caratteristiche sostanziali che la rendano suscettibile di essere
applicata dal giudice, senza che questo debba sostituirsi al legislatore ed assumere compiti che, in base al principio
della separazione dei poteri, non gli spetterebbero. Le caratteristiche richieste dalla Corte sono espresse con formule
variabili ma che ruotano sempre intorno al concetto di sufficiente precisione e incondizionatezza della norma.
Nella sent. Van Gend & Loos, la Corte si esprime così a proposito della clausola di standstill in materia di dazi doganali contenuta
nell'allora art. 12 TCE. Ne consegue che Van Gend & Loos ha diritto ad opporsi alla richiesta avanzata dall'amministrazione
doganale dei Paesi Bassi di pagare un dazio doganale superiore a quello applicabile al momento dell'entrata in vigore del Trattato.
2.3. Il presupposto della sufficiente precisione ha riguardo alla formulazione della norma: considerata alla luce del
suo scopo e del contesto in cui si inserisce, la norma deve contenere un precetto sufficientemente definito perché i
soggetti destinatari possano comprenderne la portata (principio della certezza del diritto) e il giudice possa applicarlo
nei giudizi di propria competenza. Esso richiede che la norma comunitaria specifichi almeno i seguenti tre aspetti:
a) il titolare dell'obbligo;
b) il titolare del diritto;
c) il contenuto del diritto-obbligo creato dalla norma stessa.
Il test basato sui tre aspetti è stato elaborato dalla Corte nella sent. del 1991, Francovich. Il sig. Francovich aveva proposto
dinanzi al Pretore di Bassano del Grappa un'azione contro lo Stato italiano per ottenere il pagamento dell'indennità istituita da
una direttiva a vantaggio dei lavoratori, in caso di insolvenza del datore di lavoro. Malgrado la scadenza del termine, l'Italia non
aveva assunto alcuna misura per l'attuazione della direttiva. L'inadempimento era stato persino accertato con sentenza della
Corte ai sensi dell'art. 258 e ss. TFUE. In forza dell'art. 267 TFUE, il Pretore chiede se la direttiva debba essere interpretata nel
senso che gli interessati possono far valere il diritto all'indennità nei confronti dello Stato, pur in mancanza di provvedimenti di
attuazione. Secondo la Corte, per rispondere a tale questione pregiudiziale è necessario chiedersi se la direttiva contiene
disposizioni sufficientemente precise sotto tre aspetti: «la determinazione dei beneficiari della garanzia stabilita da detta
disposizione, il contenuto di tale garanzia e l'identità del soggetto tenuto alla garanzia». La Corte perviene ad una soluzione negativa
solo per quanto riguarda il terzo aspetto. La direttiva, infatti, lascia aperta la possibilità di mettere la garanzia a carico del bilancio
dello Stato o di un fondo costituito con contributi dei datori di lavoro. Quindi viene negato che la direttiva abbia efficacia diretta.
Il test è utilizzato quando i soggetti interessati chiedono al giudice la tutela giurisdizionale di un diritto sostanziale che la norma
dell'Unione intende loro attribuire. Il test è invece più generico e meno esigente qualora la norma sia rivolta ad imporre agli Stati
membri determinati adempimenti procedurali e viene invocata da un soggetto solo per opporsi all'applicazione del provvedimento
di uno Stato membro adottato senza il rispetto della prescritta procedura (effetto di opposizione).

Può accadere che una stessa norma dell'Unione sia considerata sufficientemente precisa per determinati fini e non
per altri. Dunque, la diretta efficacia si determina anche in funzione del contenuto del diritto che s’intende azionare.
Ad esempio, l'art. 6 della dir. 76/207 del Consiglio del 1976, in materia di parità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici, impone
agli Stati membri di adottare nel loro ordinamento giuridico interno i provvedimenti necessari per consentire a chiunque si
consideri leso da una discriminazione «di far valere i propri diritti per via giudiziaria». Tale norma è stata considerata direttamente
efficace nella sent. Johnston, dove veniva invocata per consentire ad una donna membro della polizia nord-irlandese di contestare
in giudizio un provvedimento (a suo avviso) discriminatorio, riguardo al quale l'ordinamento interno escludeva ogni possibilità di
judicial review. La stessa norma non è stata giudicata direttamente efficace nella sent. del 1984, von Colson, dove veniva invocata
da una donna esclusa dalla selezione per un posto di direttore di stabilimento penitenziario per ragioni legate al suo sesso, a
sostegno di una domanda tendente ad ottenere l'assunzione negata. La Corte riconosce, infatti, che gli Stati membri hanno la
possibilità di scegliere il tipo di rimedio da assicurare in casi del genere e possono optare per l'imposizione al soggetto responsa-
bile della discriminazione di un obbligo di risarcimento.

2.4. Il presupposto della incondizionatezza, attiene all'assenza di clausole che subordinino l'applicazione della
norma ad ulteriori interventi normativi da parte degli Stati membri o delle istituzioni dell'Unione, ovvero consentano
agli Stati membri un certo margine di discrezionalità nell'applicazione.
Un caso in cui la Corte si è trovata a verificare la presenza di tale presupposto è offerto dalla sent. 1982, Becker. L'art. 13 di una
direttiva in materia di IVA obbliga gli Stati membri ad esonerare da tale imposta varie categorie di operazioni, tra le quali la
concessione e la negoziazione di crediti. La signora Becker invocava l'esonero per operazioni di questo tipo, compiute tra la
scadenza del termine di attuazione ed il momento in cui la direttiva era stata attuata (in ritardo) dalla Germania. Secondo
l'amministrazione tedesca, l'art. 13 non sarebbe incondizionato, perché prevede che gli Stati membri esonerano queste operazioni
«alle condizioni da essi stabilite», per «assicurare la corretta e semplice applicazione delle esenzioni» e per «prevenire ogni possibile
frode, evasione ed abuso». In assenza di tali disposizioni, la norma resterebbe condizionata e quindi priva di effetti diretti. La Corte
osserva che le condizioni che gli Stati membri avrebbero dovuto specificare «non riguardano in alcun modo la definizione del
contenuto del previsto esonero». Ne deriva che «uno Stato membro non può opporre ad un contribuente, che sia in grado di provare
che la propria situazione fiscale rientra in una delle categorie di esonero definite dalla direttiva, la mancata adozione delle
disposizioni destinate ad agevolare l'applicazione di tale esonero». L'art. 13 può essere fatto valere da un soggetto nella situazione
della sig.ra Becker, senza che lo Stato membro interessato possa opporre la mancata attuazione della direttiva.

L'esistenza di norme che consentono agli Stati membri di derogare all'applicazione di un'altra norma per determinati
motivi non esclude di per sé l'efficacia diretta di quest'ultima.
Nella sent Van Duyn, la Corte esamina l'art. 39 TCE (ora art. 45 TFUE), che garantisce la libera circolazione dei lavoratori, ma fa
salve, al par. 3, «le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica». Avendo accertato che
l'art. 39 impone «agli Stati membri un obbligo preciso, che non richiede l'emanazione di alcun ulteriore provvedimento da parte delle
istituzioni comunitarie o degli Stati membri e che non lascia alcuna discrezionalità nella sua attuazione», la Corte afferma che i
provvedimenti che uno Stato membro potrebbe adottare in forza del par. 3 «sono tuttavia soggetti a controllo giurisdizionale. Di
conseguenza, la facoltà degli Stati membri di richiamarsi alla riserva contenuta nell'art. 48 non impedisce che le norme dello stesso
articolo con cui si afferma il principio della libera circolazione dei lavoratori attribuiscano ai singoli diritti soggettivi ch'essi possono
far valere in giudizio e che i giudici devono tutelare». La sig.ra Van Duyn può pertanto invocare dinanzi ai giudici inglesi la
violazione dell'art. 48 commessa nei suoi confronti dalle autorità inglesi, che le avevano negato l'ingresso nel Paese.

Ai fini della verifica dell'efficacia diretta, la destinatarietà formale della norma non ha rilievo. La circostanza che la
norma si rivolga agli Stati membri o alle istituzioni non comporta necessariamente che sia priva di efficacia diretta.
Nel caso esaminato dalla Corte nella sent. 1976, Defrenne, la sig. Defrenne invocava la violazione da parte del proprio datore di
lavoro del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di entrambi i sessi previsto dall'art. 157 TFUE. Tale articolo stabilisce
che «ciascuno Stato membro assicura l'applicazione del principio della parità di retribuzione». Interrogata dalla Court du travail di
Bruxelles sulla diretta efficacia della norma, la Corte afferma che non si può trarre argomento contro il riconoscimento dell'ef-
ficacia diretta dalla circostanza che essa menzioni solo gli Stati membri. Secondo la Corte, tale circostanza «non esclude affatto
che, al tempo stesso, vengano attribuiti dei diritti ai singoli interessati all'osservanza degli obblighi» precisati dalla norma.

2.5. In linea di massima, i presupposti dell'efficacia diretta sono gli stessi qualunque sia il tipo di norma dell'Unione
rispetto alla quale il problema si pone.
Riguardo le disposizioni dei trattati, alcune di esse si riferiscono espressamente ai singoli. Un esempio è dato dalle
norme in materia di concorrenza, in particolare gli artt. 101 e 102 TFUE, che vietano alcuni comportamenti delle
imprese. Queste norme sono direttamente efficaci, cioè direttamente opponibili alle imprese interessate.
Nel caso esaminato dalla Corte nella sent. del 1986, Pronuptia, un'impresa (concessionaria), legata ad un'altra impresa
(concedente) da un contratto di franchising, invoca la contrarietà di alcune clausole del contratto rispetto all'art. 101, per resistere
alla richiesta di pagamento di compensi dovuti in forza del contratto medesimo. Nel caso esaminato nella sent. del 2006,
Manfredi, alcuni assicurati per la responsabilità civile derivante dalla circolazione di autoveicoli avevano proposto azione di
risarcimento nei confronti delle rispettive compagnie assicuratrici, sostenendo che i premi assicurativi erano stati fissati ad un
livello eccessivo, in quanto le compagnie stesse avrebbero dato vita ad un'intesa vietata ai sensi dell'art. 101. La Corte, ricordato
che «qualsiasi singolo è legittimato a far valere in giudizio la violazione dell'art. 81, n. 1, CE [ora art. 101 TFUE] e, di conseguenza, a
invocare la nullità di un'intesa o di una pratica vietata da tale articolo», ne ha tratto che «chiunque ha il diritto di chiedere il
risarcimento del danno subito quando esiste un nesso di causalità tra tale danno e un'intesa o pratica vietata dall'art. 81 C E ».
Anche norme dei trattati formalmente rivolte agli Stati membri possono produrre effetti diretti qualora siano dotate
delle caratteristiche della sufficiente precisione e della incondizionatezza.
Si vedano le sentenze sui casi Van Gend & Loos, Defrenne e Van Duyn. Un problema particolare si poneva per quelle norme del
TCE la cui applicazione era subordinata, nella loro formulazione originaria, alla scadenza del periodo transitorio o della sua prima
tappa. Talvolta era previsto che, durante il periodo transitorio, le istituzioni o gli Stati membri dessero corso a determinati
adempimenti a scopo preparatorio. Ad esempio, l'art. 52 TCE [ora art. 49 TFUE] prevedeva che la libertà di stabilimento dovesse
essere assicurata entro la fine del periodo transitorio. L'art. 54 TCE stabiliva che, al fine della graduale realizzazione di tale
obiettivo, il Consiglio avrebbe dovuto adottare un «programma generale» e, successivamente, direttive relative alle varie attività.
Alla scadenza prevista, tuttavia, risultava adottato il programma generale, ma non le direttive d'attuazione relative, in particolare,
alla professione di avvocato. Il sig. Reyners, di nazionalità olandese ma titolare di una laurea in diritto rilasciata da un'università
belga, chiedeva invano l'iscrizione all'albo degli avvocati del Belgio. L'iscrizione veniva rifiutata per mancanza del requisito
indispensabile della cittadinanza belga. Interrogata dal Conseil d'Etat sulla possibilità di invocare il principio del trattamento
nazionale previsto dall’art. 52, nonostante l'assenza di direttive di attuazione, la Corte risponde affermativamente. Nella sent.
1974, caso Reyners, la Corte afferma: «la norma sul trattamento nazionale è, per eccellenza, atta ad essere fatta valere direttamente
dai cittadini di tutti gli altri Stati membri. Stabilendo alla fine del periodo transitorio la realizzazione della libertà di stabilimento,
l'art. 52 prescrive un obbligo di risultato preciso, il cui adempimento doveva essere facilitato, ma non condizionato dall'attuazione di
un programma di misure graduali; il fatto che questa gradualità non sia stata osservata, lascia intatto l'obbligo stesso, una volta
scaduto il termine stabilito per il suo adempimento». La scadenza del periodo concesso per adottare provvedimenti di attuazione è
considerata circostanza tale da rendere incondizionata una norma comunitaria che inizialmente non lo era. Ragionamento
analogo verrà svolto dalla Corte riguardo alle direttive.

Le norme dei trattati producono effetti diretti tanto nei rapporti verticali, quanto nei rapporti orizzontali. È dunque
possibile invocarne il disposto non solo nei confronti di un'autorità pubblica, ma anche nei confronti di un privato. Si
parla di efficacia diretta verticale e di efficacia diretta orizzontale.
Nella sent. del 2000, caso Angonese. Il sig. Angonese contestava l'esclusione da un concorso per un posto presso la Cassa di
Risparmio di Bolzano, dovuta al mancato possesso del «patentino» di bilinguismo (italiano-tedesco). Invocando le conoscenze
linguistiche acquisite durante soggiorni in altri Stati membri, il sig. Angonese sosteneva che il requisito del patentino comportava
una discriminazione nei suoi confronti, vietata dall'art. 45 TFUE. Il Pretore di Bolzano si rivolge alla Corte di giustizia per sapere
se l'art. 45 possa essere invocato nei confronti di un soggetto privato come la Cassa di Risparmio. La Corte rileva che il divieto in
esame «si applica anche ai privati».

2.6. Il problema dell'efficacia diretta si pone anche riguardo agli accordi internazionali conclusi dalla
Comunità/Unione con Stati terzi. È possibile che soggetti privati siano interessati a far valere la disciplina contenuta
in tali accordi, per contestare la legittimità di comportamenti o di provvedimenti degli Stati membri o delle istituzioni.
Si pensi, in particolare, agli accordi che prevedono per le merci provenienti dallo Stato terzo contraente un regime
d'importazione di particolare favore, o estendono ai cittadini di quello Stato il principio della libera circolazione.
Un esempio del primo caso è esaminato dalla sent. del 1982, caso Kupferberg, relativo all'interpretazione dell'art. 21, I co.,
dell'accordo di libero scambio tra CE e Portogallo. Kupferberg, importatrice di vino liquoroso dal Portogallo, si oppone
all'applicazione di un conguaglio fiscale operato dall'amministrazione del monopolio tedesco dell'alcol, sostenendo che tale
conguaglio è discriminatorio e dunque contrario all’art. 21, I co. Come esempio del secondo tipo può citarsi il caso esaminato nella
sent. del 1990, caso Sevince, in cui il sig. Sevince, di cittadinanza turca, invoca l'Accordo di associazione tra CE e Turchia e
alcune decisioni d'applicazione adottate dal Consiglio d'associazione (organo istituito dall'accordo stesso) che introducono
gradualmente la libera circolazione dei lavoratori delle due parti contraenti, per opporsi al provvedimento di allontanamento
adottato nei suoi confronti dalle autorità tedesche.

Rispetto all'analisi effettuata riguardo ad altre fonti dell'Unione, la verifica svolta dalla Corte per decidere circa
l'efficacia diretta delle disposizioni contenute in accordi internazionali si caratterizza per una particolare attenzione
rivolta al contesto. L'analisi si svolge in due tempi:
a) dimostrare che la natura e la struttura dell'accordo permettono di riconoscere effetti diretti alle sue di-
sposizioni in generale (v., invece, l'approccio seguito nella sent. del 1982, caso Becker);
b ) successivamente, è necessario provare che la specifica disposizione invocata presenti le caratteristiche della
sufficiente precisione e della incondizionatezza.
Così nella sent. Kupferberg, la Corte dapprima passa in esame l'accordo in causa, concludendo che «né la natura, né la struttura
dell'accordo concluso con il Portogallo possono ostare a che un operatore economico invochi una disposizione di tale accordo dinanzi
a un giudice nella Comunità». Successivamente, esaminando il solo art. 21, I co., la Corte stabilisce che tale norma «impone alle
parti contraenti un obbligo incondizionato di non discriminazione fiscale, che è subordinato al solo accertamento dell'analogia dei
prodotti soggetti ad un determinato regime tributario e i cui limiti risultano direttamente dallo scopo dell'accordo». La Corte conclude
«come tale la suddetta disposizione può essere applicata da un giudice e quindi produrre direttamente e f f e tti nell'intera Comunità».
Nel caso dell'Accordo istitutivo dell'Organizzazione mondiale del Commercio e degli accordi allegati (Accordi OMC), la Corte ha
sempre sostenuto che, tenuto conto della natura e dell’economia di tali accordi, le disposizioni in essi contenute «non sono idonee
a creare in capo ai singoli diritti che questi possano invocare direttamente dinanzi al giudice ai sensi del diritto comunitario»
(sentenza Dior). Resta invece salva la possibilità che effetti diretti possano essere riconosciuti in forza del diritto nazionale del
giudice adito per gli aspetti coperti dagli accordi OMC che rientrano nella competenza degli Stati membri e non dell'Unione o
rientrano nella competenza ripartita tra l'Unione gli Stati membri e relativamente ai quali l'Unione non ha ancora adottato una
propria disciplina.

2.7. Riguardo ai regolamenti, il problema dell'efficacia diretta ha scarsa consistenza. Infatti la caratteristica della
diretta applicabilità implica che, normalmente, le disposizioni dei regolamenti siano anche capaci di produrre effetti
diretti. Il principio subisce una certa attenuazione nel caso di regolamenti che richiedono l'emanazione da parte degli
Stati membri di provvedimenti di integrazione o di esecuzione. In questi casi, in mancanza dei provvedimenti
nazionali, non si può fare a meno di verificare che la disposizione regolamentare in questione presenti i presupposti
della sufficiente precisione e della incondizionatezza.
Nel caso esaminato nella sentenza Leonesio, la signora Leonesio esigeva dal Ministero italiano dell'agricoltura il pagamento del
premio per l'abbattimento delle mucche da latte previsto da un regolamento. Il Ministero si opponeva alla richiesta sostenendo
che il regolamento poneva a carico degli Stati il pagamento del premio e che, in mancanza dello stanziamento dei fondi necessari
da parte delle competenti autorità nazionali, le disposizioni relative al premio non sarebbero state direttamente efficaci. Secondo
la Corte questa tesi sarebbe contraria al «principio fondamentale che prescrive l'applicazione uniforme dei regolamenti all'interno
dell'intera Comunità». La Corte ricorda che le disposizioni del regolamento in questione, «nell'enumerare in modo tassativo le
condizioni alle quali è subordinato il sorgere dei diritti soggettivi di cui è causa, non v'includono considerazioni di bilancio». La Corte
sembra ritenere che il contenuto del regolamento fosse sufficientemente preciso e incondizionato. A diversa soluzione la Corte
perviene nel caso esaminato nella sentenza Azienda Agricola Monte Arcosu. La società Monte Arcosu chiedeva di essere iscritta nel
registro tenuto dalla Regione Sardegna come imprenditore agricolo, invocando a tal fine l'art. 2, par. 5, del reg. 2328/1991,
relativo al miglioramento dell'efficienza delle strutture agricole, che dispone: «gli Stati membri definiscono la nozione di imprenditore
a titolo principale ai sensi del regolamento. Per le persone diverse dalle persone fisiche gli Stati membri definiscono tale nozione alla
luce dei criteri di cui al comma precedente. Gli Stati membri sono tenuti a adottare tali misure entro il termine del 1° aprile 1985». La
Regione Sardegna non aveva adottato alcun provvedimento in proposito. Interpellata dal Tribunale di Cagliari per sapere se la
Monte Arcosu potesse pretendere l'iscrizione anche in mancanza di tali provvedimenti, la Corte risponde negativamente.

Anche i regolamenti producono effetti diretti tanto nei rapporti verticali quanto in quelli orizzontali. Pertanto è
possibile parlare di efficacia diretta verticale e di efficacia diretta orizzontale.

3. Segue: casi particolari (direttive, decisioni, atti degli ex pilastri non comunitari).
3.1. Anche le direttive, per essere direttamente efficaci, devono presentare le caratteristiche delle altre fonti:
sufficiente precisione ed incondizionatezza.
Nel caso esaminato nella sent. 1986, Marshall, la sig. Marshall contestava al proprio datore di lavoro la violazione dell'art. 5, par.
3, della dir. 76/207, avendo applicato nei suoi confronti condizioni di licenziamento meno favorevoli di quelle applicate ai
lavoratori di sesso maschile. Malgrado la scadenza del termine, la direttiva non era stata attuata dalle autorità britanniche. La
Corte ricorda la sua precedente giurisprudenza, secondo cui «in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiono, dal punto
di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere nei confronti dello Stato, tanto se questo
non ha trasposto tempestivamente la direttiva nel diritto nazionale, quanto se esso l'ha trasposta in modo inadeguato». Quanto
all'art. 5, par. 3, secondo la Corte, «considerata in se stessa, detta disposizione esclude qualsiasi discriminazione basata sul sesso
per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le ipotesi di licenziamento, in via generale e in termini non equivoci. La
disposizione è quindi adeguatamente precisa per essere fatta valere da un amministrato e applicata dal giudice». La disposizione è
altresì incondizionata considerato che «l'art. 5 della direttiva non attribuisce affatto agli Stati membri la facoltà di condizionare o di
restringere l'applicazione del principio della parità di trattamento nel proprio campo d'applicazione».

Le differenze riguardano invece il momento a partire dal quale l'efficacia diretta si produce e i soggetti nei cui
confronti può essere fatta valere.
3.2. Circa la portata temporale, occorre tener presente che la direttiva non è concepita come fonte di effetti diretti.
La disciplina dei rapporti giuridici interni rientranti nel suo oggetto non viene posta dalla direttiva stessa, ma dalle
norme di attuazione emanate da ciascuno Stato membro. Di regola, le direttive hanno un'efficacia normativa interna
meramente indiretta o mediata. Capita spesso che gli Stati membri attuino le direttive in ritardo o in forme non
corrette o sufficienti, in modo da impedire (totalmente o parzialmente) il raggiungimento del risultato voluto. Solo in
casi del genere (che appartengono alla patologia del meccanismo delle direttive), si pone il problema di stabilire se,
nonostante la mancanza o l'insufficienza delle misure nazionali d'attuazione, la direttiva possa produrre effetti
diretti.
Di effetti diretti di una direttiva non può parlarsi se non dopo la scadenza del termine per l'attuazione concesso agli
Stati membri. Prima di questo momento la direttiva non può, né intende, produrre altri effetti giuridici che quello di
obbligare gli Stati membri ad attuarla.
L'unico caso di efficacia diretta anticipata potrebbe darsi nell'ipotesi di attuazione completa effettuata prima della scadenza del
termine. In questo caso, lo Stato membro in questione rinuncia al termine concesso in suo favore e, qualora le misure
d'attuazione si rivelino inadeguate, potrebbe soggiacere anticipatamente agli eventuali effetti diretti della direttiva. La
giurisprudenza non si è ancora pronunciata esplicitamente. Argomenti in favore della tesi si rinvengono nella sentenza 1997,
Inter-Environnement Wallonie.

3.3. La seconda differenza riguarda la portata soggettiva dell'efficacia diretta di una direttiva. La giurisprudenza
che ha riconosciuto anche alle direttive non attuate la possibilità di produrre effetti diretti, ha seguito un percorso
argomentativo vario, ma coerente nel sottolineare il nesso tra efficacia diretta e violazione dell'obbligo d'attuazione
che grava sugli Stati membri.
Inizialmente, la Corte ha «puntato» sul carattere obbligatorio della direttiva, avvicinandola in tal modo al regolamento, ma anche
sulla teoria dell'effetto utile, che porta ad interpretare le norme comunitarie in maniera da consentire che esse esplichino i loro
effetti nella maggiore misura possibile. Tale linea argomentativa è presente nella sent. Van Duyn. La sig.ra Van Duyn, infatti, per
contestare il mancato rilascio del permesso di soggiorno, sosteneva che tale provvedimento era basato su comportamenti
addebitati alla Chiesa di Scientologia, presso la quale ella intendeva lavorare. Il provvedimento non era giustificato dal suo
comportamento personale, come invece prescriveva l'art. 3, par. 1, della dir. 64/221 del Consiglio del 1964. Il Regno Unito si
difendeva sostenendo che alla norma in questione, in quanto contenuta in una direttiva, non potevano essere riconosciuti effetti
diretti. La Corte, invece, afferma quanto segue: «sarebbe in contrasto con la forza obbligatoria attribuita dall'art. 189 [ora art. 288
TFUE] alla direttiva d'escludere, in generale, la possibilità che l'obbligo da essa imposto sia fatto valere dagli eventuali interessati.
Successivamente la Corte introduce un nuovo argomento che sembra assimilare l'efficacia diretta ad una sorta di sanzione a
carico dello Stato membro inadempiente. Tale nuovo argomento appare per la prima volta nella sentenza Ratti. Al sig. Ratti le
autorità italiane contestavano la violazione delle norme interne relative all'etichettaggio delle vernici. Il sig. Ratti si difendeva
affermando che tali norme erano incompatibili con una direttiva comunitaria adottata in materia, alla quale le autorità italiane
non avevano dato tempestiva attuazione, e sostenendo che le etichette dei propri prodotti erano conformi alla citata direttiva.
Quindi, secondo la Corte, lo Stato membro che non ha recepito la direttiva, deve subire le conseguenze del proprio inadempimento
e non può impedire ai singoli di avvalersi dei diritti ad essi riconosciuti dalla direttiva inattuata (principio dell'estoppel).

Dal momento che l'efficacia interna della direttiva inattuata è conseguenza dell'obbligatorietà della stessa nei
confronti degli Stati membri, si comprende perché la Corte abbia limitato tale efficacia ai soli rapporti verticali e, più
specificamente, ai rapporti in cui la direttiva è invocata contro un'autorità pubblica. Ogni autorità pubblica, infatti, è
tenuta, nel proprio ambito di competenza, ad attuare la direttiva ai sensi dell'art. 288, II co., TFUE. Ad essa è perciò
possibile rimproverare di non averlo fatto.
La direttiva ha soltanto efficacia diretta verticale, mentre è priva di efficacia nelle seguenti situazioni:
a ) quando la direttiva è invocata da un soggetto pubblico contro un soggetto privato (rapporti verticali invertiti:
es. sentenza 2005, Berlusconi);
b ) quando la direttiva è invocata da un soggetto privato contro un altro soggetto privato (rapporti orizzontali).
Si dice pertanto che le direttive inattuate non hanno efficacia diretta orizzontale.
Il rifiuto di riconoscere alle direttive inattuate qualunque efficacia diretta orizzontale è stato esplicitato dalla Corte solo nella
sentenza Marshall. La Corte pone in rilievo che, secondo l'art. 288, III co., «la natura cogente della direttiva sulla quale è basata la
possibilità di farla valere dinanzi al giudice nazionale, esiste solo nei confronti dello Stato membro cui è rivolta. Ne consegue che la
direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e che una disposizione d'una direttiva non può quindi essere fatta
valere in quanto tale nei confronti dello stesso». Nella successiva sentenza Faccini Dori, la Corte si occupa dell'efficacia diretta di
una direttiva per la tutela dei consumatori in caso di contratti negoziati fuori dai locali commerciali. L'art. 4 della direttiva
attribuisce al consumatore un diritto di recesso da esercitare entro un determinato termine. La direttiva non era stata attuata
tempestivamente dall'Italia. Si trattava perciò di stabilire se la sig. Faccini Dori, che aveva concluso un contratto rientrante nel
campo d'applicazione della direttiva, potesse esercitare il diritto di recesso nei confronti dell'altra parte, in mancanza di misure
d'attuazione. Al Giudice conciliatore di Firenze che aveva sollevato questione pregiudiziale di interpretazione, la Corte risponde
negativamente: estendere la giurisprudenza relativa all'efficacia diretta delle direttive inattuate «all'ambito dei rapporti tra singoli,
significherebbe riconoscere in capo alla Comunità il potere di emanare norme che facciano sorgere con effetto immediato obblighi a
carico di questi ultimi, mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di adottare regolamenti».

3.4. Di fronte ad una direttiva inattuata, risulta determinante stabilire se il soggetto nei cui confronti s’intende
invocare la direttiva è un soggetto pubblico o un soggetto privato. Per rispondere a tale quesito, la Corte applica,
rovesciandola, quella visione unitaria di Stato che è caratteristica dei rapporti (di tipo internazionalistico) tra Stati
membri e tra Stati membri e Comunità. La Corte considera che l'obbligo di attuare la direttiva non incombe solo
sugli organi dello Stato centrale, ma anche su qualsiasi articolazione della struttura pubblica, indipendentemente
dal se si tratti di entità dotate di poteri autoritativi o di entità che agiscano con gli strumenti dell'autonomia privata.
Nella sentenza Marshall la Corte afferma che «gli amministrati qualora siano in grado di far valere una direttiva nei confronti dello
Stato, possono farlo indipendentemente dalla qualità nella quale questo agisce come datore di lavoro o come pubblica autorità».
Pertanto la South-West Hampshire Area Health Authority, che appartiene al servizio sanitario pubblico, è un soggetto pubblico
nei cui confronti la signora Marshall può invocare una direttiva inattuata, anche se i rapporti di lavoro tra l'Autorità e i dipendenti
sono soggetti alle medesime disposizioni dei rapporti di lavoro instaurati da un datore di lavoro privato. Un caso estremo è
rappresentato da quello esaminato nella sentenza Foster. La signora Foster invocava la stessa direttiva contro il proprio datore di
lavoro, la British Gas pie. Questa era un'impresa privata che aveva rilevato il servizio pubblico di distribuzione del gas (oggetto di
privatizzazione) e lo gestiva in regime di monopolio. La Corte ha concluso che la direttiva può essere fatta valere nei confronti di
British Gas, osservando che si tratta di un organismo «incaricato, con atto della pubblica autorità, di prestare, sotto il controllo di
quest'ultima, un servizio di interesse pubblico e che dispone, a questo scopo, di poteri che eccedono i limiti di quelli risultanti dalle
norme che si applicano nei rapporti tra i singoli». È invece pacifico che una direttiva inattuata possa essere invocata nei confronti di
autorità fiscali (v. la sentenza Becker), delle autorità di polizia (v. la sentenza Johnston) e della magistratura (v. la sentenza Ratti),
delle autorità competenti in materia di immigrazione (v. la sentenza Van Duyn).

3.5. Il rifiuto di riconoscere l'efficacia diretta orizzontale di una direttiva inattuata è oggetto di critiche da parte della
dottrina. La giurisprudenza della Corte, postulando che una stessa norma di direttiva possa o non possa produrre
effetti diretti a seconda del contesto in cui viene invocata (rapporto verticale, rapporto verticale invertito, rapporto
orizzontale), nega che l'efficacia diretta sia una qualità obiettiva della norma stessa ma le attribuisce un carattere
variabile legato, per di più, a fattori casuali. Ad esempio, una direttiva in materia di lavoro potrebbe essere
considerata, a parità di tutte le altre circostanze, direttamente efficace o meno a seconda che sia invocata da un
dipendente pubblico o da un dipendente privato. Si dà così vita a una forma di discriminazione, la cui inaccettabilità
non è attenuata dalla constatazione che la responsabilità ricade sullo Stato membro e sulla sua mancata attuazione
della direttiva.
La sent. Marshall avrebbe creato una discriminazione rispetto ai dipendenti da un datore di lavoro privato. La Corte risponde che
lo Stato membro inadempiente è responsabile di situazioni del genere, le quali potrebbero essere agevolmente evitate «se lo Stato
membro interessato avesse correttamente trasposto la direttiva nel suo diritto nazionale».

La Corte è ben cosciente delle difficoltà che la sua giurisprudenza in materia solleva e cerca infatti di limitare i casi
in cui essa trova applicazione. Un atteggiamento che di fatto potrebbe ridurre la rilevanza della distinzione tra
efficacia diretta verticale e orizzontale consiste nel non sollevare d'ufficio la questione anche qualora la situazione
che ha indotto il giudice nazionale ad adire la Corte in via pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 TFUE appare riguardare
unicamente rapporti orizzontali o verticali invertiti. In assenza di un'apposita questione pregiudiziale sul punto da
parte del giudice nazionale, la Corte ritiene di doversi comunque pronunciare sull'interpretazione della direttiva e
sulla sua idoneità in abstracto a produrre effetti diretti, senza porsi il problema del se tali effetti possano essere fatti
valere nel contesto del giudizio a quo.
Un esempio è dato dalla sentenza Bellone, relativa all'interpretazione di una direttiva in materia di agenti di commercio
indipendenti. Tra la sig.ra Bellone e la Yokohama s.p.a. era stato concluso un contratto di rappresentanza commerciale. Essendo
insorta controversia tra le parti, Yokohama aveva eccepito la nullità del contratto, non risultando la Bellone iscritta all'apposito
albo degli agenti di commercio presso la locale Camera di commercio, contrariamente a quanto prescriveva la legislazione
nazionale. Su rinvio del Tribunale di Bologna, la Corte giudica che la direttiva «osta ad una normativa nazionale che subordini la
validità di un contratto di agenzia all'iscrizione dell'agente di commercio in un apposito albo». L'atteggiamento della Corte appare
giustificabile; l'interpretazione di una direttiva, anche se non direttamente efficace nel caso di specie, potrebbe comunque essere
utile al giudice a quo per ricostruire il significato della normativa 'nazionale di attuazione. Esso può tuttavia dare vita ad equivoci.
Non sono infatti mancate pronunce di giudici nazionali che non hanno affatto tenuto conto della differenza tra effetti diretti
orizzontali e effetti diretti verticali e hanno considerato senz'altro direttamente efficace una direttiva nel contesto di un rapporto
inter-individuale.

La Corte stessa poi ha ammesso la produzione di effetti diretti da parte di norme di una direttiva inattuate in almeno
due tipi di situazioni che sembrano configurarsi come aventi ad oggetto rapporti verticali inversi o addirittura
rapporti orizzontali. Si tratta di eccezioni al principio giurisprudenziale che nega l'efficacia diretta orizzontale di una
direttiva.
Una prima eccezione riguarda situazioni che si potrebbero definire rapporti triangolari. Questi sono rapporti in cui
un privato invoca l'applicazione di una direttiva inattuata nei confronti di un organo pubblico, a titolo principale, ma
anche nei confronti di altri soggetti privati, la cui posizione verrebbe compromessa dall'applicazione della direttiva
(controinteressati). In casi del genere, la Corte non sembra considerare l'effetto pregiudizievole indiretto subito dai
soggetti privati controinteressati come circostanza preclusiva alla produzione di effetti diretti da parte della direttiva.
Si pensi al caso esaminato nella sentenza Fratelli Costanzo. La pretesa dell'impresa Costanzo che la propria offerta non venga
esclusa dalla gara d'appalto, avrebbe dovuto portare alla riapertura della gara, con eventuale rischio di perdita dell'aggiudicazione
da parte dell'impresa cui l'appalto era stato originariamente assegnato. Secondo la Corte in casi del genere non può dirsi che la
direttiva imponga degli obblighi ai privati controinteressati (effetti diretti orizzontali) ma si tratta di «mere ripercussioni negative».

Una seconda eccezione riguarda un tipo particolare di direttive: quelle che sottopongono le misure degli Stati membri
ad una procedura di controllo. Tali direttive, non sono dirette ad attribuire diritti a soggetti privati o a definire la
disciplina delle loro relazioni contrattuali, ma riguardano adempimenti prescritti a carico dei soli Stati membri. In
questi casi, la direttiva inattuata non influisce sulla disciplina di rapporti interprivati, se non indirettamente, nel
senso di precludere l'applicazione di una normativa o di un provvedimento interno emanato in violazione delle
procedure di controllo. La Corte ritiene che la direttiva «non crea né diritti né obblighi per i singoli» e può dunque
essere applicata dal giudice, senza che si possa parlare di efficacia diretta orizzontale (sent. 2000, Unilever).
Nel caso esaminato dalla sentenza cit., Central Food rifiutava di pagare a Unilever una fornitura di olio d'oliva, la cui etichetta non
era conforme a una normativa italiana. Era assodato che tale normativa non era stata notificata alla Commissione come prescritto
dalla stessa direttiva esaminata nella sentenza CIA Security International. Unilever invocava la direttiva per sostenere che Central
Food non poteva opporre nei suoi confronti la normativa italiana. Interrogata dal Pretore di Milano, la Corte distingue il presente
caso da quelli in relazione ai quali è stata sviluppata la differenza tra effetti verticali e orizzontali. Secondo la Corte, la violazione
della direttiva «costituisce un vizio procedurale sostanziale» della normativa italiana, che ne comporta l'inapplicabilità; d'altra parte
la direttiva «non definisce in alcun modo il contenuto sostanziale della norma giuridica sulla base della quale il giudice nazionale
deve risolvere la controversia dinanzi ad esso pendente». Ne consegue che il Pretore di Milano ha il potere di disapplicare la
normativa italiana adottata in violazione della direttiva.

Una terza eccezione è stata prospettata (ma non accettata finora dalla Corte) per i casi di successione di norme
interne, di cui la più recente, a differenza della più antica, sia incompatibile con una direttiva. Si è sostenuto che in
casi del genere la direttiva non comporterebbe di per sé effetti negativi a carico di privati, dal momento che essa si
limiterebbe ad impedire l'applicazione della disposizione interna più recente; sarebbe invece lo stesso ordinamento
interno, attraverso la norma più antica tornata in vigore, che produrrebbe effetti del genere. La tesi è stata respinta
dalla Corte nella sentenza Berlusconi. Occorre tuttavia sottolineare che la sentenza è stata resa con riferimento a casi
in cui il riconoscimento di effetti diretti (seppure di tipo oppositivo) avrebbe comportato un aggravamento della
responsabilità penale degli imputati. Tenendo conto che la Corte si è sempre mostrata restia ad attribuire alle norme
comunitarie effetti del genere, non è escluso che la Corte possa accogliere la tesi sopra descritta.
La sentenza Berlusconi riguardava alcuni processi penali in cui alcuni individui erano stati rinviati a giudizio per violazione degli
artt. 2621 e 2622. Tali disposizioni sanzionano penalmente alcuni comportamenti illeciti in materia societaria e, in particolare, il
falso in bilancio. Il regime sanzionatorio era stato modificato nel 2002 nel senso di renderlo meno severo sotto vari aspetti. I fatti
oggetto dei processi penali dai quali la sentenza ha avuto origine erano stati commessi quando era ancora in vigore il vecchio testo
degli artt. 2621 e 2622. Tuttavia, l'art. 2, II co., c.p. (principio dell'applicazione retroattiva della legge penale più mite), avrebbe
imposto l'applicazione del nuovo testo degli stessi articoli, ciò che avrebbe escluso una sentenza di condanna a carico dei soggetti
rinviati a giudizio. Il Tribunale di Milano e la Corte d'appello di Lecce sospettavano invece che la nuova normativa fosse in
contrasto con alcune direttive comunitarie in materia societaria e, in particolare, con l'obbligo imposto agli Stati membri dall'art. 6
della prima di tali direttive, di prevedere sanzioni adeguate in caso di violazione degli obblighi di pubblicità dei conti sociali.
Interrogata sul se fosse possibile invocare la violazione dell’art. 6 al fine di evitare l'applicazione del nuovo testo degli artt. 2621 e
2622, la Corte ha ritenuto che « f a r valere nel caso di specie l'art. 6 della prima direttiva sul diritto societario al fine dì far
controllare la compatibilità con tale disposizione dei nuovi artt. 2621 e 2622 del c.c. potrebbe avere l'effetto di escludere
l'applicazione del regime sanzionatorio più mite previsto dai detti articoli» e ha concluso che «in circostanze come quelle in questione
nelle cause principali, la prima direttiva sul diritto societario non può essere invocata in quanto tale dalle autorità di uno Stato
membro nei confronti degli imputati nell'ambito di procedimenti penali, poiché una direttiva non può avere come effetto, di per sé e
indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la
responsabilità penale degli imputati».
3.6. Raramente la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sull'efficacia diretta delle decisioni.
I dubbi riguardano soprattutto le decisioni che hanno gli Stati membri come destinatari. Nella sent. del 1970, Grad,
la Corte, occupandosi di una decisione del Consiglio rivolta agli Stati membri, ha riconosciuto la possibilità che tale
decisione possa essere invocata non solo dalle istituzioni dell'Unione, ma anche «da qualsiasi soggetto interessato al
suo adempimento», anticipando in gran parte gli argomenti che sono stati poi utilizzati a proposito delle direttive nella
sent. Van Duyn. La Corte non ha però mai avuto occasione di precisare se le decisioni inadempiute possono avere
efficacia diretta anche orizzontale o se anche a questi atti si applicano le stesse limitazioni delle direttive.
Essendo l'efficacia diretta delle decisioni una conseguenza dal loro carattere obbligatorio nei confronti degli Stati membri cui sono
rivolte, dovrebbe dedursi che anche le decisioni sono prive di efficacia orizzontale. A qualche incertezza può dar luogo tuttavia la
giurisprudenza relativa alle decisioni in materia di aiuti statali alle imprese. Molto spesso, tali decisioni prescrivono allo Stato
membro destinatario l'obbligo di pretendere dalle imprese beneficiarie la restituzione degli aiuti già erogati. L'obbligo di re-
stituzione è collegato all'art. 108, par. 3, TFUE, dal quale si evince il divieto di erogare aiuti non previamente autorizzati dalla
Commissione. In situazioni del genere, lo Stato membro interessato può opporre alle imprese l'obbligo di recupero derivante dalla
decisione, creando apparentemente una situazione di effetto verticale inverso, visto che le imprese ricavano uno svantaggio
dalla decisione rivolta allo Stato. Tuttavia, l'effetto sfavorevole per le imprese non deriva dalla decisione in quanto tale ma dai
provvedimenti di attuazione che lo Stato membro è tenuto ad assumere. Si tratta di un effetto sfavorevole solo indirettamente
collegabile alla decisione.

3.7. Per quanto riguarda gli atti delle istituzioni emanati nell'ambito di quello che, prima del Trattato di Lisbona,
veniva considerato il III pilastro (Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale), si ricordi che l'art. 34, par.
2, TUE escludeva espressamente che le decisioni quadro e le decisioni avessero efficacia diretta. Verosimilmente
nemmeno gli atti appartenenti alle altre categorie di cui all'art. 34 TUE o gli atti PESC erano idonei a produrre effetti
diretti.
Ai sensi dell'art. 9 del Prot. n. 36 sulle disposizioni transitorie, anche dopo il Trattato di Lisbona «gli effetti giuridici»
degli atti adottati dalle istituzione ai sensi del TUE, cioè dei pilastri non comunitari «sono mantenuti finché tali atti
non saranno stati abrogati, annullati o modificati in applicazione dei trattali». È verosimile pensare che con tale
formula si sia inteso preservare anche la mancanza di effetti diretti di cui parlava l'art. 34, par. 2.

4. L'obbligo di interpretazione conforme.


4.1. Esistono numerosi motivi che possono escludere l'efficacia diretta di una norma dell'Unione. La norma potrebbe
mancare delle caratteristiche della sufficiente precisione e della incondizionatezza. Qualora la norma sia contenuta
in una direttiva inattuata, essa inoltre potrebbe non essere invocabile perché il soggetto che ne trarrebbe svantaggio
è un privato. In ipotesi del genere, occorre domandarsi se la norma dell'Unione possa assumere un valore normativo
indiretto nell'ordinamento degli Stati membri e debba perciò essere presa in considerazione dal giudice nel risolvere
una controversia.
L'individuazione di forme di efficacia indiretta del diritto dell'Unione è stata valorizzata in particolare rispetto alle
direttive, considerati i limiti temporali e soggettivi degli effetti diretti che tali atti possono conseguire. Può anzi dirsi
che il ricorso alle forme di efficacia indiretta è un ulteriore modo utilizzato dalla Corte per attenuare gli inconvenienti
evidenziati derivanti dalla giurisprudenza sulla mancanza di effetti diretti orizzontali.
4.2. La prima forma di efficacia indiretta consiste nell’obbligo di interpretazione conforme: quando sono chiamati
ad applicare norme interne, gli operatori giuridici e soprattutto i giudici sono tenuti ad interpretarle, ove possibile, in
conformità con il diritto dell'Unione, anche se questo non è direttamente efficace. Tale obbligo si ricollega all'obbligo
di leale collaborazione (art. 4, par. 3, TUE), di cui costituisce un'applicazione specifica. In quanto organi dello Stato
membro, i giudici sono tenuti a fare il possibile perché il risultato voluto dalla direttiva sia raggiunto.
La differenza tra diretta efficacia e interpretazione conforme risiede nel fatto che, mentre nel primo caso il giudice
disapplica la norma interna confliggente con la norma dell'Unione, nel secondo egli applica pur sempre la norma
interna ma interpretandola in modo aderente a quella dell'Unione.
Secondo la giurisprudenza, l'interpretazione conforme delle norme interne non può giungere fino al punto «che ad un singolo
venga opposto un obbligo previsto da una direttiva non trasposta» (sent. 1996, Arcaro). In caso contrario si avrebbe la produzione di
effetti diretti orizzontali da parte della direttiva.

L'obbligo di interpretazione conforme è stato affermato anzitutto quando il giudice nazionale si trova a dover
interpretare e applicare le disposizioni che uno Stato membro ha specificamente adottato per attuare una direttiva.
In casi del genere, deve presumersi che lo Stato membro abbia avuto l'intenzione di adempiere pienamente agli
obblighi derivanti dalla direttiva.
Nel caso esaminato nella sent. 1984, von Colson, la signora von Colson, in alternativa ad una sentenza che condannasse il datore
di lavoro all'assunzione, chiedeva il risarcimento dei danni. La norma adottata dalla Germania per dare attuazione all'art. 6 della
direttiva era stata fino ad allora interpretata dalla giurisprudenza tedesca nel senso di limitare il risarcimento al rimborso delle
spese incorse per presentare la candidatura. Avendo riconosciuto che una tale norma, così interpretata, «non è conforme alle
esigenze di efficace trasposizione della direttiva», la Corte statuisce che, in forza dell'art. 10 TCE (ora art. 4, par. 2, TUE),
applicabile anche agli organi giurisdizionali, «nell'applicare il diritto nazionale, in particolare la legge nazionale espressamente
adottata per l'attuazione della direttiva 76/207, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della
lettera e dello scopo della direttiva, onde conseguire il risultato contemplato dall'art. 189, III co. [ora art. 288, III co., TFUE]». La
Corte conclude che «spetta al giudice nazionale dare alla legge adottata per l'attuazione della direttiva, in tutti i casi in cui il diritto
nazionale gli attribuisce un margine discrezionale, un'interpretazione ed un'applicazione conformi alle esigenze del diritto
comunitario».

Successivamente, l'obbligo di interpretazione conforme è stato esteso anche a disposizioni nazionali più antiche
rispetto alla direttiva e prive di legame funzionale con la direttiva stessa (sent. 1990, Marleasing). Poi la Corte ha
chiarito che l'obbligo in questione riguarda «tutto il diritto nazionale», senza alcuna distinzione (sent. 2004, Pfeiffer).
In tale sentenza, si trattava di una controversia tra alcuni dipendenti della Croce Rossa tedesca, addetti ai servizi di soccorso
medico, e la suddetta istituzione, circa il fatto che il contratto di lavoro prevedeva un orario settimanale superiore alle 48 ore e
risultava per questo in contrasto con alcune direttive in materia di lavoro. Adita in via pregiudiziale, la Corte conferma anzitutto la
non conformità del contratto con l'orario massimo di lavoro stabilito dalle direttive, ma ribadisce che tale orario, per quanto
contenuto in «una disposizione chiara, precisa ed incondizionata di una direttiva volta a conferire diritti o a imporre obblighi ai
privati, non può essere applicata come tale nell'ambito di una controversia che ha luogo esclusivamente tra privati».
L'interpretazione conforme è considerata anche dalla Corte cost. italiana come un metodo per la soluzione dei conflitti tra norma
interna e norma dell'Unione: v. sent. 170/1984, Granital, dove la Corte parla di «presunzione di conformità della legge interna al
regolamento comunitario» che il giudice deve applicare ancor prima di valutare se il regolamento debba essere applicato
direttamente.

4.3. L'obbligo di interpretazione conforme incontra alcuni limiti. In primo luogo, l'obbligo resta subordinato
all'esistenza di un margine di discrezionalità che consenta all'interprete di scegliere tra più interpretazioni
possibili della norma interna. Solo in questo caso, sorge l'obbligo di scegliere l'interpretazione maggiormente
conforme alle esigenze del diritto dell'Unione. Se, invece, la norma interna è contraria alla norma dell'Unione e
questa è priva di efficacia diretta, l'obbligo in esame viene meno. In altre parole, l'obbligo di interpretazione conforme
«non può servire da fondamento ad un'interpretazione contra legem del diritto nazionale» (sent. 2006, Adeneler).
Nella sent. 2008, Impact, la Corte si occupa di una legislazione irlandese che dà attuazione tardiva ad una direttiva in materia di
lavoro a tempo determinato, senza prevedere l'applicazione retroattiva della nuova disciplina a situazioni sorte nell'intervallo tra la
data di entrata in vigore di tale legislazione e la scadenza del termine di attuazione della direttiva. Nell'ordinamento irlandese
esiste un principio che esclude la portata retroattiva di una nuova legge «salvo indicazione chiara ed univoca in senso contrario».
Alla Corte si chiede se tale principio debba essere superato in rispetto all'obbligo di interpretazione conforme. La Corte risponde
negativamente. Secondo la Corte «in assenza di una disposizione siffatta, il diritto comunitario, in particolare l'esigenza di
interpretazione conforme, non potrebbe interpretarsi, salvo costringere il giudice nazionale ad interpretare il diritto nazionale contra
legem, come un diritto che gli impone di conferire» alla legge irlandese «una portata retroattiva alla data di scadenza del termine di
trasposizione della direttiva». Nel caso che un'interpretazione conforme del diritto interno alla norma dell'Unione (nella specie il
principio di non discriminazione in base all'età) non sia possibile ma la norma è direttamente efficace, il giudice nazionale ha
invece l'obbligo di disapplicare la norma interna in forza del principio del primato (sent. 2010, Kuciikdeveci)

La sentenza Adeneler è importante anche perché fornisce l'occasione alla Corte di precisare un secondo limite, di
carattere temporale, all'obbligo di interpretazione conforme: l'obbligo non sorge prima della scadenza del termine di
attuazione della direttiva in questione.
Il sig. Adeneler e diversi suoi colleghi erano stati assunti nella p.a. greca con numerosi, successivi contratti a tempo determinato.
Tale prassi era contraria ad una direttiva in materia di contratto di lavoro a tempo determinato. Gli attori chiedevano quindi che
l'amministrazione greca fosse condannata ad assumerli a tempo indeterminato. La direttiva, tuttavia, pur imponendo agli Stati
membri di prevedere delle sanzioni in caso di abuso dei contratti a tempo determinato, non prescriveva agli Stati membri l'obbligo
di riconoscere ai lavoratori interessati il diritto ad ottenere la trasformazione del contratto di questo tipo in un contratto a tempo
indeterminato. Se ne deduce che la direttiva non era sufficientemente precisa e dunque direttamente efficace.
La giurisprudenza ha precisato infine che, nel riferirsi al contenuto delle direttive quando interpreta le norme di
diritto interno, il giudice deve rispettare i «principi generali che fanno parte del diritto comunitario ed in particolare
quelli della certezza del diritto e dell'irretroattività» e tenere conto che «una direttiva non può avere l'effetto dì per sé e
indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o
aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscano in violazione delle sue disposizioni» (sent. 1987, Kolpinghuis
Nijmegen). La Corte afferma che, nell'adempiere al proprio obbligo di interpretazione conforme, il giudice deve
osservare i principi generali del diritto: dunque, l'interpretazione conforme non può condurre a risultati normativi
che si pongano in conflitto con i principi generali.
Tra i principi generali rilevanti in questo contesto, la Corte menziona quello della certezza del diritto e
dell'irretroattività. Tali principi trovano in particolare applicazione nel campo penale e si oppongono a che
l'interpretazione conforme porti ad un aggravamento della responsabilità penale degli individui, creando nuove
ipotesi di reato o estendendo il campo d'applicazione di quelle già previste dall'ordinamento interno.
Le sentenze Arcaro e Kolpinghuis Nijmegen, riguardavano azioni penali intentate contro privati responsabili di comportamenti che
si assumevano in violazione di direttive inattuate (nel caso Arcaro, in materia di inquinamento da scarico di sostanze pericolose in
ambiente idrico; nel caso Kolpinghuis Nijmegen, in materia di acque minerali naturali). Siffatti comportamenti non avrebbero
integrato alcuna ipotesi di illecito penale in base al solo diritto nazionale in vigore al momento della commissione dei fatti.
4.4. La distinzione tra obbligo di interpretazione conforme e efficacia diretta è risultata ulteriormente valorizzata
dalla sent. 2005, Pupino. La Corte ha affermato che tale obbligo sussiste anche riguardo alle decisioni quadro
adottate nell'ambito dell'allora III pilastro, nonostante che l'art. 34, par. 2, lett. b), TUE specifichi che tali atti «non
hanno efficacia diretta». L'affermazione mantiene la sua importanza anche dopo che il Trattato di Lisbona ha
soppresso la categoria delle decisioni quadro. Infatti, gli effetti giuridici di tali atti permangono fino alla loro
abrogazione o modifica.
La sig.ra Pupino era indagata dinanzi al Tribunale di Firenze per i reati di abuso di mezzi di disciplina e lesioni personali
commessi nei confronti di alcuni suoi alunni minorenni. Il pubblico ministero aveva chiesto, nell'interesse delle vittime, che
l'assunzione delle loro testimonianze avvenisse anticipatamente rispetto al dibattimento, applicando le modalità dell'incidente
probatorio. Il giudice delle indagini preliminari, ritenendo che tale norma avesse portata eccezionale e fosse applicabile solo ai
reati indicati, tra i quali non figurano quelli contestati alla sig.ra Pupino, interroga in via preliminare la Corte, circa
l'interpretazione della decisione quadro 2001/220/GAI, relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale. L'art. 8, par.
4, prevede: «Ove sia necessario proteggere le vittime, in particolare le più vulnerabili, dalle conseguenze della loro deposizione in
udienza pubblica, ciascuno Stato membro garantisce alla vittima la facoltà, in base ad una decisione del giudice, di rendere
testimonianza in condizioni che consentano dì conseguire tale obiettivo e che siano compatibili con i principi fondamentali del proprio
ordinamento». Il giudice a quo si chiede se la decisione quadro gli imponga di consentire l'assunzione anticipata della prova
testimoniale in un caso come quello di specie. Secondo la Corte, la questione pregiudiziale mira ad accertare se «l'obbligo che
incombe alle autorità nazionali di interpretare il loro diritto nazionale per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo delle
direttive comunitarie si applichi con gli stessi effetti e limiti qualora l'atto interessato sia una decisione quadro presa sul fondamento
del titolo VI del TUE». La Corte dà alla questione una risposta affermativa. Essa si basa su tre argomenti. Il primo trae spunto dalla
circostanza che il vecchio art. 34, par. 2, lett. b), riconosce alle decisioni quadro carattere vincolante negli stessi termini delle
direttive. Il secondo argomento si collega alla previsione di una competenza pregiudiziale della Corte di giustizia analoga a quella
prevista dall'art. 267 TFUE. Il terzo argomento ruota intorno all'esistenza di un obbligo di leale collaborazione a carico degli Stati
membri anche nell'ambito dell'allora III pilastro nonostante l'assenza di una disposizione specifica al riguardo.

5. Il risarcimento del danno.


5.1. Un'altra forma di efficacia indiretta consiste nel riconoscere che la norma dell'Unione, anche se non
direttamente efficace, può essere fonte di un diritto al risarcimento del danno.
Secondo la Corte, «il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli in violazione del diritto
comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato» (sent. 1996, Brasserie du Pècheur).
5.2. Non v'è dubbio che, qualora gli organi di uno Stato membro ledano il diritto attribuito ad un singolo da una
norma dell'Unione direttamente efficace, provocando un danno, tali organi siano tenuti al risarcimento. In questi
casi, il diritto al risarcimento «costituisce un corollario necessario dell'effetto diretto riconosciuto alle norme comunitarie
la cui violazione ha dato origine al danno subito» (sentenza Brasserie du Pècheur).
Nella sent. cit., il danno lamentato derivava dall’applicazione da parte delle autorità tedesche di una legislazione in materia di
birra, che impediva l'importazione in Germania di birre prodotte in altri Stati membri e costituiva una misura d'effetto equivalente
ad una restrizione quantitativa vietata dall'art. 34 TFUE. La Brasserie du Pècheur affermava di aver subito danni in conseguenza
degli ostacoli frapposti dalle autorità tedesche all'importazione delle birre di sua fabbricazione e ne chiedeva il risarcimento.

5.3 Più problematica è l'ipotesi di mancata attuazione di una direttiva priva di efficacia diretta. In questi casi, il
comportamento omissivo degli organi statali impedisce il sorgere stesso del diritto che la direttiva intendeva garantire
ai singoli, per cui il pregiudizio subito non si rapporta alla lesione di un diritto già sorto, ma ne precede il sorgere. In
casi del genere si può perciò parlare di efficacia indiretta della direttiva, posto che il diritto al risarcimento costituisce
non già un'integrazione o un'alternativa rispetto ad un diritto principale, ma un diritto a sé stante.
Il diritto ad ottenere il risarcimento del danno subito in conseguenza della mancata attuazione di una direttiva non direttamente
efficace è stato affermato per la prima volta nella sent. 1991, Francovich.

5.4. Le condizioni definite dalla giurisprudenza perché il diritto al risarcimento sorga sono tre:
 la norma dell'Unione violata deve essere diretta a conferire diritti ai singoli danneggiati, il cui contenuto possa
essere individuato in base alla norma stessa;
 la violazione della norma deve essere sufficientemente grave e manifesta;
 tra la violazione e il danno deve esistere un nesso di causalità diretto.
Quanto alla prima condizione, nella sentenza Francovich, la Corte ha affermato che «il risultato prescritto da tale direttiva
comporta l'attribuzione ai lavoratori subordinati del diritto ad una garanzia per il pagamento di loro crediti non pagati relativi alla
retribuzione», mentre, per quanto riguarda il contenuto di tale garanzia, esso era individuabile in un importo minimo inderogabile.
Circa la seconda condizione, la Corte la ritiene automaticamente soddisfatta in casi in cui la norma dell'Unione non lascia allo
Stato membro alcun apprezzabile margine di discrezionalità. Tale ipotesi si realizza soprattutto qualora lo Stato-membro non
abbia dato alcuna attuazione ad una direttiva. Si veda, ad es., il caso esaminato nella sent. 1996, Dillenkofer, dove si trattava di
danni subiti da turisti nel periodo in cui la Germania non aveva ancora dato attuazione ad una direttiva concernente i viaggi, le
vacanze ed i circuiti «tutto compreso» e non aveva perciò istituito alcun sistema di garanzia, come invece previsto dalla direttiva.
Al di fuori di queste ipotesi, si può parlare di «violazione grave e manifesta» quando «uno Stato membro, nell'esercizio del suo potere
normativo, ha violato in modo grave e manifesto i limiti del suo potere discrezionale» (sent. Dillenkofer). Non è richiesta la presenza
di un particolare elemento psicologico (dolo o colpa) da parte degli organi statali responsabili del danno.
La presenza di una violazione sufficientemente grave e manifesta è stata negata nel caso esaminato dalla sent. 1998, Brinkmann.
Le autorità fiscali danesi avevano erroneamente qualificato un prodotto da fumo ai fini dell'applicazione di una direttiva in
materia di imposte su prodotti del genere. La Corte giudica tuttavia che «l'interpretazione che le autorità danesi hanno dato delle
definizioni pertinenti non era manifestamente incompatibile col testo della seconda direttiva ed in particolare con l'obiettivo da essa
perseguito, tanto più che il governo finlandese e la Commissione hanno sostenuto una simile interpretazione». Nel caso esaminato
dalla sent. 1996, Lomas, invece, un esportatore di bovini chiedeva il risarcimento del danno subito in conseguenza del divieto
previsto dalla normativa britannica di esportare animali vivi da macello verso la Spagna. Avendo costatato che tale divieto violava
tanto l'art. 35 TFUE, quanto alcune direttive specifiche, la Corte ha riconosciuto la responsabilità del Regno Unito.

Quanto agli organi che, con il loro comportamento commissivo o omissivo, possono mettere in gioco la responsabilità
per danni dello Stato membro, la Corte ha riconosciuto che può trattarsi degli organi legislativi di uno Stato (sent.
Dillinkofer), di autorità fiscali (sent. Brinkmann), di una cassa di previdenza per dentisti (sent. 2000, Haim), di un
ente locale (sent. 1999, Konle, relativa ad un Land austriaco) ma anche del potere giudiziario. Questa ultima
possibilità è stata affermata nella sent. 2003, Kòbler.
Nella specie, un professore universitario austriaco, che aveva insegnato per un certo periodo in Germania, chiedeva che tale
periodo fosse preso in considerazione ai fini del riconoscimento di un'indennità accordata ai docenti universitari che potevano
vantare una determinata anzianità di servizio. Le autorità austriache rigettavano la richiesta del sig. Kobler, sostenendo che
l'anzianità di servizio di cui si doveva tener conto, ai sensi della legislazione nazionale applicabile, era soltanto quella maturata
presso università austriache. Kobler affermava che il rifiuto costituiva una discriminazione nei confronti dei lavoratori che
avevano esercitato il diritto alla libera circolazione di cui all'art. 45 TFUE. Il Tribunale amministrativo, che conosceva della causa
in ultima istanza, fraintendendo la portata di alcune precedenti pronunce della Corte di giustizia, rigettava la domanda di Kobler,
senza sollevare nuove questioni pregiudiziali. Interrogata dalla Corte distrettuale in materia civile di Vienna, di fronte alla quale
Kobler aveva proposto un'azione di risarcimento, la Corte ammette che la responsabilità di uno Stato possa discendere da
comportamenti addebitabili al potere giudiziario. Nella specie, tuttavia, la Corte ritiene che il comportamento della Corte suprema
austriaca non sia stato arbitrario e che quindi non si possa parlare di violazione grave e manifesta di una norma comunitaria.

Le condizioni formali e sostanziali per l'esercizio del diritto al risarcimento, compresa la definizione del giudice
competente, dipendono dalle varie legislazioni nazionali, salvo il rispetto dei limiti che tali legislazioni devono
osservare quando si applicano ad azioni aventi ad oggetto diritti che trovano la loro fonte in norme dell'Unione.
6. La tutela processuale dei diritti derivanti da norme dell'Unione.
6.1. Le norme dell'Unione possono essere invocate, direttamente o indirettamente, di fronte ai giudici degli Stati
membri, per ottenere la tutela giurisdizionale delle posizioni create in loro favore da tali norme. Ci si deve ora
chiedere quali siano le forme ed i modi attraverso cui ciò possa avvenire. In particolare occorre stabilire quale fonte
regoli gli aspetti attinenti all'esercizio in giudizio del diritto dell'Unione (aspetti processuali): termini di prescrizione
o decadenza, giudice competente, domande proponibili, oneri processuali da soddisfare, ripartizione dell'onere della
prova e così via. In linea di massima può dirsi che, salvo eventuali interventi d'armonizzazione da parte delle
istituzioni dell'Unione, la definizione degli aspetti processuali spetta all'ordinamento nazionale dello Stato membro
nel cui ambito la norma dell'Unione è azionata. Secondo il principio affermato nella sent. 1976, Rewe, «in mancanza
di una specifica disciplina comunitaria, è l'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro che designa il
giudice competente e stabilisce le modalità procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire la tutela dei diritti
spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie aventi efficacia diretta».
6.2. Tale principio è noto come principio dell'autonomia processuale degli Stati membri. Esso tuttavia non è
assoluto. Non sempre le norme processuali nazionali possono essere applicate alle azioni esercitate per la tutela di
diritti originati da una fonte dell'Unione. Le condizioni perché il principio in discussione possa valere sono due:
- le modalità definite dal diritto nazionale per l'esercizio di posizioni che derivano dal diritto dell'Unione non
possono essere meno favorevoli di quelle applicate per la protezione in via giudiziaria di posizioni analoghe, di
origine puramente interna (principio di equivalenza);
- le modalità non possono essere tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei
diritti derivanti da norme dell'Unione (principio di effettività).
Le due condizioni sono cumulative. Di conseguenza, il solo fatto che una determinata modalità processuale sia
applicabile senza distinzioni a posizioni tanto di derivazione comunitaria quanto fondate su norme interne, non
esime il giudice dall'esaminare se la modalità stessa non violi il principio dell'effettività.
Il principio di equivalenza può essere considerato come una manifestazione del principio generale di non discriminazione. Il
principio di effettività invece si ricollega al diritto fondamentale ad una tutela giurisdizionale effettiva.
Nella sentenza Rewe si trattava di un'azione di restituzione di diritti corrisposti da Rewe alle dogane tedesche per controlli fito-
sanitari su una partita di mele di origine francese. Tali diritti costituivano tasse d'effetto equivalente ad un dazio doganale ed
erano vietati in forza dell'art. 25 TCE [ora art. 30 TFUE]. L'azione di restituzione era stata tuttavia proposta quando il termine
previsto dal diritto tedesco per impugnare il provvedimento di riscossione era già scaduto. La Corte, interrogata in proposito dal
Tribunale amministrativo federale, statuisce che il diritto dell'Unione non si oppone all'applicazione ad un'azione del genere di
«ragionevoli termini d'impugnazione, a pena di decadenza» fissati dal legislatore nazionale.
Col passare del tempo, l'atteggiamento della Corte è apparso sempre più severo nei confronti delle legislazioni nazionali. Ad es.
nella sent. 1995, Peterbroeck, la Corte si è occupata delle norme nazionali che limitano il potere del giudice di sollevare
d'ufficio argomenti tratti dal diritto dell'Unione. La Corte ha giudicato inapplicabile ad un'azione in cui veniva in rilievo l'art.
43 TCE (ora art. 49 TFUE), la norma belga che impediva al giudice di esaminare d'ufficio motivi non sollevati dalle parti. Nella
specie, benché il termine assegnato alle parti per sollevare i propri motivi (compresi quelli tratti dal diritto dell'Unione) non fosse
di per sé irragionevole (60 giorni dalla data del deposito da parte dell'Amministrazione fiscale del provvedimento impugnato), la
Corte ha ritenuto che privare il giudice adito della possibilità di esaminare d'ufficio l'argomento fondato sulla violazione dal diritto
dell'Unione, quando non vi sia nessun altro giudice che possa esaminare tale argomento nell'ambito di un ulteriore procedimento,
non soddisfa il principio dell'effettività, rendendo praticamente impossibile o eccessivamente difficile invocare la norma
dell'Unione.
Una questione rimasta aperta è quella di stabilire se, nel caso di un diritto attribuito da una direttiva inattuata, i termini di
prescrizione o di decadenza previsti dal diritto nazionale comincino a decorrere prima che lo Stato membro interessato abbia
provveduto all'attuazione della direttiva stessa. Nel caso esaminato nella sent. 1991, Emmott, la signora Emmott, invocando una
direttiva in materia di parità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici e una precedente sentenza della Corte resa a titolo
pregiudiziale, si era rivolta alle competenti autorità irlandesi per ottenere retroattivamente alcune prestazioni sociali da cui era
stata esclusa in violazione della direttiva. La risposta delle autorità era stata interlocutoria. Successivamente, la signora Emmott
iniziava un'azione di judicial review ai fini del recupero di quanto dovuto. L'azione, tuttavia, veniva iniziata dopo la scadenza del
termine di decadenza previsto per questi casi dal diritto irlandese. Interrogata dalla High Court irlandese, la Corte afferma che
«finché la direttiva non è correttamente trasposta nel diritto nazionale, i singoli non sono posti in grado dì avere piena conoscenza dei
loro diritti» e che solo al momento della corretta trasposizione «si è creata la certezza giuridica necessaria per pretendere dai singoli
che essi facciano valere i loro diritti». Ne discende che «fino al momento della corretta trasposizione della direttiva, lo Stato membro
inadempiente non può eccepire la tardività di un'azione giudiziaria avviata nei suoi confronti da un singolo al fine della tutela dei
diritti che ad esso riconoscono le disposizioni della direttiva e che un termine di ricorso può cominciare a decorrere solo da tale
momento». Tale precedente, è stato successivamente smentito da numerose sentenze che hanno collegato la soluzione della
sentenza Emmott «alle circostanze tipiche di detta causa, nelle quali la decadenza dei termini arrivava a privare totalmente la
ricorrente nella causa principale della possibilità di far valere il suo diritto alla parità di trattamento» (sent. 1997, Fantasie).
Il principio di effettività è stato preso in considerazione anche nella sent. 2006, Manfredi, per verificare la compatibilità con tale
principio di alcuni aspetti della normativa italiana applicabile alle azioni di risarcimento per violazione dell'art. 81, par. 1, TCE
[ora art. 101, par. 1, TFUE]. La Corte esprime dubbi riguardo al fatto che il termine di prescrizione, in casi del genere, decorre dal
giorno in cui l'intesa è stata posta in essere. Infatti, secondo la Corte, «nel caso di infrazioni continuate o ripetute, non è escluso che
il termine di prescrizione si estingua addirittura prima che sia cessata l'infrazione e in tal caso chiunque abbia subito danni dopo la
scadenza del termine di prescrizione si trova nell'impossibilità di presentare un ricorso». Parimenti la Corte giudica non rispondente
al criterio di effettività che il danno risarcibile venga limitato al solo danno emergente e non anche al lucro cessante.
Nel caso esaminato dalla sent. 2007, Unibet, la Corte è chiamata ad applicare la descritta giurisprudenza e i principi gemelli
dell'equivalenza e dell'effettività con riferimento all'ordinamento svedese. Nella specie Unibet lamenta che la normativa svedese in
materia di scommesse le impedisce di vendere i propri servizi di scommesse via internet e viola pertanto il diritto ad esercitare tale
attività in regime di libera prestazione di servizi. Propone pertanto un'azione diretta ad ottenere in via principale l'accertamento
dell'incompatibilità delle norme svedesi con il diritto dell'Unione. Tale azione viene tuttavia respinta in primo grado e in appello
perché l'ordinamento svedese non contempla un'azione attraverso cui i soggetti interessati possano ottenere in via principale una
sentenza come quella richiesta da Unibet. La Corte suprema, di fronte alla quale Unibet impugna la sentenza d'appello, interroga
la Corte sul se l'indisponibilità di un'azione dichiarativa del tipo proposto da Unibet violi i principi di equivalenza e di effettività.
La Corte parte dalla constatazione che Unibet avrebbe potuto ottenere una dichiarazione di incompatibilità in via incidentale
nell'ambito di un giudizio per l'annullamento dei provvedimenti adottati contro Unibet o nel quadro di un'azione di risarcimento
dei danni. Ciò premesso, la Corte risponde come segue: «il principio di tutela giurisdizionale effettiva dei diritti conferiti ai singoli dal
diritto comunitario deve essere interpretato nel senso che esso non richiede, nell'ordinamento giuridico di uno Stato membro,
l'esistenza di un ricorso autonomo diretto, in via principale, ad esaminare la conformità di disposizioni nazionali dell'art. 49 CE,
qualora altri rimedi giurisdizionali effettivi, non meno favorevoli dì quelli che disciplinano azioni nazionali simili, consentano di
valutare in via incidentale una tale conformità, cosa che spetta al giudice nazionale verificare».

6.3. Il principio dell'autonomia processuale degli Stati membri e i limiti a tale principio si applicano anche nel caso
di azioni per ottenere il risarcimento del danno imputabile agli organi statali per violazione del diritto dell'Unione.
Nella sent. 2006, Traghetti del Mediterraneo, la Corte ha negato che la disciplina italiana della responsabilità dei magistrati
risponda al principio dell'effettività. Traghetti del Mediterraneo (TDM) aveva proposto azione di risarcimento nei confronti di
Tirrenia, sua concorrente nel campo dei collegamenti marittimi con le isole maggiori, accusandola di aver ricevuto dallo Stato
italiano aiuti pubblici vietati dagli artt. 87 e 88 TCE (ora artt. 107 e 108 TFUE). L'azione veniva rigettata in primo grado, in appello
e dalla Corte di cassazione. Quest'ultima aveva ritenuto che non si trattasse di aiuti incompatibili con i cit. articoli, ritenendo che
tale soluzione risultava da una costante giurisprudenza della Corte di giustizia e rifiutando così di effettuare un rinvio
pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 TFUE, nonostante l'obbligo di rinvio previsto per i giudici di ultima istanza. Convinto che la
sentenza della Corte di cassazione fosse contraria al diritto dell'Unione, TDM proponeva azione di risarcimento ai sensi della L.
117/88. Tale legge, tuttavia, impone condizioni estremamente restrittive per potere ottenere un risarcimento.
Per un caso in cui la Corte non ritiene invece soddisfatto il principio dell'equivalenza circa l'applicazione di una regola del previo
esaurimento dei ricorsi interni ad azioni di risarcimento basate sulla violazione di norme dell'Unione v. sent. Transportes urbanos.

7. Il primato del diritto dell'Unione.


7.1. La capacità del diritto dell'Unione di produrre effetti diretti all'interno degli ordinamenti degli Stati membri pone
il problema dei conflitti che possono sorgere tra norma dell'Unione e norme interne incompatibili. Molto spesso, la
norma dell'Unione ha per oggetto materie e aspetti che, in precedenza, erano disciplinati da norme interne di
contenuto diverso. Può anche accadere che il conflitto sorga tra una norma dell'Unione e una norma interna
sopravvenuta. Conflitti del genere sono risolti in base al principio del primato del diritto dell'Unione, secondo il
quale le norme nazionali non possono in alcuna maniera ostacolare l'applicazione del diritto dell'Unione all'interno
degli ordinamenti degli Stati membri. Quando la norma dell'Unione direttamente efficace incontra una norma interna
incompatibile, perché ne impedisce l'applicazione, il principio del primato impone che la prima prevalga sulla
seconda.
7.2. Da un punto di vista logico, il principio del primato si salda con quello dell'efficacia diretta: se l'efficacia diretta
non si accompagnasse al primato, la norma dell'Unione non potrebbe concretamente creare diritti in capo ai soggetti
di quegli ordinamenti degli Stati membri in cui fossero presenti norme interne incompatibili. L'efficacia della norma
dell'Unione varierebbe così da uno Stato membro all'altro. La medesima norma potrebbe applicarsi direttamente in
un primo Stato, nel quale non vi sia alcuna norma interna contrastante, ma non verrebbe applicata affatto o solo
parzialmente in un secondo Stato, nel quale siano presenti norme incompatibili. Una situazione del genere sarebbe
inaccettabile. È infatti un'esigenza fondamentale dell'ordinamento dell'Unione che le sue norme siano applicate
uniformemente in tutti gli Stati membri.
Il principio del primato, non vale in assenza di efficacia diretta; la norma dell'Unione che sia priva di effetti diretti
non può essere applicata direttamente dal giudice e non può comportare disapplicazione della norma interna
incompatibile.
Ciò non vuol dire che la norma dell'Unione priva di effetti diretti abbia una minore forza obbligatoria nei confronti degli Stati
membri. Anche la violazione di una norma del genere può essere oggetto di un ricorso per infrazione. Si deduce inoltre dalla
giurisprudenza della Corte cost. che una norma dell'Unione priva di effetti diretti rientra nella nozione di «vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario» che, a norma dell'art. 117, par. 1, Cost, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e
delle Regioni.

7.3. A cedere di fronte al diritto dell'Unione sono le norme interne di qualunque rango. Non si può, infatti,
distinguere tra norme di carattere amministrativo, legislativo o costituzionale. In caso contrario, l'efficacia della
norma dell'Unione varierebbe in ragione del diverso rango delle norme interne che regolano, nei vari Stati, la stessa
materia oggetto della norma dell'Unione.
Il principio del primato si è affermato in via giurisprudenziale. Esso è stato esplicitato per la prima volta dalla Corte
nella sent. 1964, Costa c. Enel. La legge italiana di nazionalizzazione dell'energia elettrica, di cui il sig. Costa
contestava la compatibilità con alcuni articoli del TCE, era infatti successiva alla legge contenente l'ordine
d'esecuzione del trattato stesso. Il Governo italiano sosteneva l'inammissibilità assoluta della questione pregiudiziale
del Giudice conciliatore di Milano, affermando che il giudice nazionale è tenuto ad applicare la legge interna.
Secondo la Corte l'integrazione del diritto dell'Unione nell'ordinamento interno di ciascuno Stato membro «ha per
corollario l'impossibilità per gli Stati di far prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di
reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale non potrà essere opponibile all'ordine comune. Se l'efficacia
del diritto comunitario variasse da uno Stato all'altro, in funzione delle leggi interne posteriori, ciò metterebbe in pericolo
l'attuazione degli scopi del Trattato. Scaturito da una fonte autonoma, il diritto originato dal Trattato non potrebbe, in
ragione della sua natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere
comunitario e senza che ne risulti scosso il fondamento stesso della Comunità». Un atto statale successivo al TCE con
esso incompatibile «sarebbe del tutto privo di efficacia».
Una recente manifestazione del principio del primato con riferimento ad una norma interna di tipo processuale è contenuta nella
sent. 2007, Lucchini. La norma interna in esame era l'art. 2909 c.c. ai sensi del quale: «l’accertamento contenuto nella sentenza
passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, ì loro eredi o aventi causa». Nella specie Lucchini aveva ottenuto una
sentenza d'appello non impugnata e divenuta definitiva, con la quale era stato riconosciuto il suo diritto ad ottenere una
sovvenzione da parte del Ministero italiano dell'industria, sovvenzione che le era stata effettivamente versata. Nel frattempo però
era intervenuta una decisione della Commissione, con la quale veniva stabilito che la sovvenzione percepita da Lucchini costituiva
un aiuto di Stato vietato dall'art. 107 TFUE. La decisione, benché già emanata, non veniva invocata dalla difesa del Ministero né
era altrimenti presa in considerazione nella sentenza d'appello. Successivamente il Ministero adottava un provvedimento con il
quale si richiedeva a Lucchini il rimborso della sovvenzione percepita. Lucchini si opponeva, invocando la sentenza d'appello.
Adita dal Consiglio di Stato, la Corte di giustizia ricorda anzitutto che, come risulta da una giurisprudenza costante «il giudice
nazionale incaricato di applicare, nell'ambito della propria competenza, le norme di diritto comunitario ha l'obbligo di garantire la
piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione
nazionale». Da tale principio la Corte deduce che «il diritto comunitario osta all'applicazione di una disposizione del diritto nazionale,
come l'art. 2909 del c.c. italiano, volta a sancire il principio dell'autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l'applicazione dì tale
disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il
mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva».
Il Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa riprendeva il principio del primato in una norma della Parte I: l'art. I-6 infatti,
stabiliva che «la Costituzione e il diritto adottato dalle istituzioni dell'Unione nell'esercizio della competenza a questa attribuita,
prevalgono sul diritto degli Stati membri». Il Trattato di Lisbona invece ha escluso l'inserimento nei trattati di una norma
corrispondente. La rinuncia a sancire normativamente il principio del primato del diritto dell'Unione su quello degli Stati membri
rientrava nella strategia volta a decostituzionalizzare la riforma. Al suo posto, la Dichiarazione n. 17 relativa al primato, allegata
all'Atto finale del Trattato di Lisbona, recita: «La conferenza ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell'UE,
i trattati e il diritto adottato dall'Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla
summenzionata giurisprudenza». Il II co. della Dichiarazione riferisce della decisione della CIG di allegare all'Atto finale un parere
del servizio giuridico del Consiglio secondo il quale «il fatto che il principio della preminenza non sarà incluso nel futuro trattato non
altera in alcun modo l'esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia». A prescindere dalla
irritualità del fatto di allegare all'atto finale di una conferenza diplomatica un parere che emana da un servizio di un'istituzione, il
complesso formato dalla Dichiarazione e dal parere sembrano avere lo scopo di sminuire l'importanza della scelta di non includere
nei trattati una norma sul primato e di ribadire che nulla cambia rispetto a quanto è già ricavabile della giurisprudenza della
Corte di giustizia in materia. Proprio per questo la Dichiarazione è equivoca. Ancorando il primato all'attuale giurisprudenza, la
Dichiarazione potrebbe essere letta come la volontà di cristallizzare i risultati raggiunti dalla giurisprudenza e di non consentire
alcuna estensione della portata del principio del primato a settori rispetto ai quali il principio non era stato ancora riconosciuto:
in particolare al settore PESC, ma anche a quello dell'ex III pilastro. Il vecchio art. 34 TUE esclude normativamente che le
decisioni quadro e le decisioni abbiano effetti diretti. Di conseguenza manca al giorno d'oggi una giurisprudenza che riconosca
anche ad atti del genere il primato sul diritto interno incompatibile. Il Prot. n. 36 sulle disposizioni transitorie, che sancisce il
mantenimento degli effetti giuridici degli atti emanati prima del Trattato di Lisbona ai sensi del II e del III pilastro potrebbe
deporre nel senso che la situazione di questi atti non muta nemmeno dal punto di vista dell'assenza di primato.
7.4. Di fronte alle incertezze manifestate dalla giurisprudenza di alcuni giudici nazionali, in particolare della Corte
cost. italiana, la Corte di giustizia è intervenuta per precisare meglio la portata dei principi affermati nella sentenza
Costa c. Enel. Secondo la Corte, l'ordinamento dell'Unione non solo impone la prevalenza della norma di questo
ordinamento sulla norma interna incompatibile, ma determina altresì le modalità attraverso cui tale prevalenza deve
trovare applicazione e in particolare l'organo competente a farla valere. Se si ammettesse che ciascun ordinamento
nazionale è libero di determinare in quali modi e attraverso quali procedimenti applicare il principio del primato, il
carattere uniforme della norma dell'Unione verrebbe meno, in quanto i suoi effetti si produrrebbero in tempi e
secondo modalità variabili da uno Stato membro ad un altro.
La Corte riconosce, in particolare, che «il giudice nazionale, incaricato di applicare nell'ambito della propria
competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando
all'occorrenza di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore,
senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento
costituzionale» (sent. 1978, Simmenthal). Non possono essere ammesse le costruzioni normative o le prassi
giurisprudenziali affermatesi in alcuni Stati membri che hanno per effetto di sottrarre al giudice ordinario il potere di
disapplicare immediatamente le norme interne incompatibili con il diritto dell'Unione e di riservarlo ad organi diversi.
Nel caso esaminato dalla sent. Simmenthal chiedeva la restituzione di alcuni diritti di visita sanitaria riscossi
dall'amministrazione italiana in relazione all'importazione di carni bovine originarie dell'Unione. Da una precedente sentenza della
Corte risultava che i diritti in questione costituivano delle tasse d'effetto equivalente a un dazio doganale ed erano vietati da un
regolamento del Consiglio. Tuttavia, per accogliere la domanda di Simmenthal, il Pretore di Susa avrebbe dovuto preliminarmente
disapplicare le disposizioni di legge italiane che prevedevano la riscossione dei diritti e che erano successive rispetto al
regolamento. Considerata la giurisprudenza della Corte cost., in particolare dalla sent. 232/75, il Pretore chiede alla Corte di
giustizia se la diretta applicabilità delle norme comunitarie vada intesa «nel senso che eventuali disposizioni nazionali successive
con esse contrastanti vanno immediatamente disapplicate senza che si debba attendere la loro rimozione ad opera dello stesso
legislatore nazionale (abrogazione) o di altri organi costituzionali (dichiarazione di incostituzionalità)». La Corte risponde
affermativamente a tale quesito.

Nemmeno è compatibile con il principio del primato la prassi giurisprudenziale sviluppatasi in uno Stato membro
che, per ragioni di tutela del legittimo affidamento dei soggetti coinvolti, preveda che, nei giudizi tra privati, la
disapplicazione della norma avvenga solo dopo che sia stato effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia
ai sensi dell'art. 267 TFUE in merito all'interpretazione della norma dell'Unione in discussione (sent. 2010,
Kucukdeveci.)
La Corte di giustizia era stata investita del conflitto tra una norma di legge tedesca che prevedeva la non computabilità dei periodi
lavorativi compiuti prima dei 25 anni d'età ai fini del calcolo del periodo di preavviso di licenziamento e il principio generale di non
discriminazione per ragioni di età. Avendo confermato che il principio generale doveva prevalere e portare alla disapplicazione
della norma interna incompatibile, la Corte ritiene che a tale disapplicazione non può ostare il rilievo che, nell'ordinamento
tedesco, per disapplicare una norma di legge incostituzionale, il giudice sia obbligato a chiederne la dichiarazione di
incostituzionalità da parte della Corte Cost. federale. Essa afferma invece che prima di procedere alla disapplicazione di una
norma per contrarietà ad una norma dell'Unione, «il giudice nazionale, investito di una controversia tra privati, non è tenuto, ma ha
la facoltà di sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale sull'interpretazione» della norma in questione.

La Corte è stata spesso interrogata sullo status della norma interna incompatibile con quella dell'Unione e
pertanto destinata ad essere disapplicata.
Nella sentenza Simmenthal è presente un passaggio, in cui la Corte sembra voler delineare l'esistenza di un rapporto gerarchico
tra ordinamento dell'Unione e ordinamenti degli Stati membri, tale da provocare l'invalidità della norma interna incompatibile: «le
disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l'effetto nei loro rapporti col diritto
interno degli Stati membri, non solo di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi
disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche -in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte
integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell'ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri- di
impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie».

L'orientamento attuale della Corte è però che il fenomeno della disapplicazione quale conseguenza del primato non
postula che la norma interna incompatibile debba essere considerata invalida. Le eventuali conseguenze sul piano
della costituzionalità della norma interna e pertanto la necessità o almeno la possibilità di farne dichiarare la
incostituzionalità secondo le procedure previste da ciascun ordinamento nazionale non sono questioni disciplinate
dal diritto dell'Unione ma dal diritto interno applicabile.
L'orientamento risulta con particolare chiarezza dalla sent. 2009, Filipiak. La vertenza riguardava un cittadino polacco che
subisce una tassazione discriminatoria nel proprio paese per un'attività lavorativa svolta nei Paesi Bassi. La legislazione polacca
non gli consente di dedurre fiscalmente i contributi sociali versati in quello Stato (mentre ciò sarebbe stato consentito per i
contributi versati in Polonia). Il carattere discriminatorio della legislazione aveva già provocato la sua dichiarazione di incostituzio-
nalità da parte della Corte cost. polacca che però nella sua pronuncia aveva fissato il momento in cui la legislazione cessa di
essere applicabile ad una data successiva a quella della pronuncia stessa. Essendo il caso del sig. Filipiak precedente rispetto a
tale data, il giudice polacco non può fare applicazione della pronuncia di incostituzionalità; interroga allora la Corte per sapere se
può comunque disapplicare la legislazione interna in forza del principio del primato. La Corte chiarisce che «il conflitto tra una
disposizione normativa nazionale e una disposizione del Trattato direttamente applicabile si risolve, per un giudice nazionale, con
l'applicazione del diritto comunitario, disapplicando, se necessario, la disposizione nazionale confliggente, e non dichiarando la
nullità della disposizione nazionale, in quanto la competenza al riguardo degli organi e dei giudici è riservata a ciascuno Stato
membro». L'obbligo di disapplicare la norma interna incompatibile tuttavia «non limita il potere dei giudici nazionali competenti dì
applicare, tra i vari mezzi offerti dall'ordinamento interno, quelli che appaiono loro più appropriati per tutelare i diritti attribuiti agli
individui dal diritto comunitario».

7.5. L'esigenza di assicurare la tutela giurisdizionale immediata delle norme dell'Unione produttive di effetti diretti
implica altresì il potere per il giudice nazionale di emanare provvedimenti provvisori, che comportino la sospensione
dell'applicazione di una norma interna, in attesa che sia definitivamente accertata (con rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia) l'incompatibilità della norma interna con il diritto dell'Unione.
Nel caso esaminato dalla sent. 1990, Factortame I, le norme in vigore in Gran Bretagna non consentivano l'iscrizione nel registro di
navi da pesca, la cui proprietà fosse indirettamente riconducibile a soggetti di nazionalità non britannica e la cui gestione
avvenisse a partire da porti non situati nel territorio del Regno Unito. Le norme avevano l'obiettivo di escludere navi soltanto
apparentemente britanniche dalla ripartizione delle quote di pesca riservate al Regno Unito, nell'ambito delle misure adottate
dall'Unione per la protezione delle risorse marine. Sospettando che le norme britanniche non fossero compatibili con il diritto
dell'Unione, la House of Lords domanda alla Corte se, in attesa di ricevere risposta ai quesiti pregiudiziali sollevati, possa
concedere dei provvedimenti provvisori di tutela comportanti la sospensione delle norme contestate, nonostante che, in base al
proprio diritto nazionale, un giudice britannico non ha il potere di emettere ingiunzioni nei confronti delle autorità statali.
Secondo la Corte «la piena efficacia del diritto comunitario sarebbe del pari ridotta se una norma di diritto nazionale potesse
impedire al giudice nazionale chiamato a dirimere una controversia disciplinata dal diritto comunitario di concedere provvedimenti
provvisori allo scopo di garantire la piena efficacia della pronuncia giurisdizionale sull'esistenza dei diritti invocati in forza del diritto
comunitario». La House of Lords può pertanto concedere provvedimenti del genere, disapplicando la norma interna che lo
impedirebbe.

7.6. La circostanza che una norma interna sia incompatibile con il diritto dell'Unione e vada pertanto disapplicata
dal giudice nazionale in forza del principio del primato, non esime lo Stato membro interessato dal provvedere alla
abrogazione della norma incompatibile o alla sua modifica. In mancanza, la permanenza della norma
nell'ordinamento dello Stato membro «mantiene gli interessati in uno stato di incertezza circa la possibilità loro
garantita di fare appello al diritto comunitario» (sent. 1988, Commissione c. Italia).
Nella sentenza cit. la Corte accoglie il ricorso presentato dalla Commissione, tendente a far constatare la violazione da parte
italiana dei propri obblighi comunitari per il fatto di non aver abrogato alcune norme di legge già giudicate dalla Corte di giustizia
incompatibili con il Trattato. Le norme incriminate imponevano requisiti di prova estremamente restrittivi perché gli interessati
potessero ottenere la restituzione di somme riscosse dall'amministrazione in violazione del diritto dell'Unione, requisiti che la
Corte aveva ritenuto non conformi al principio di effettività. Anche la Corte cost. considera che lo Stato italiano è tenuto ad
apportare «le necessarie modificazioni o abrogazioni del proprio diritto interno al fine di depurarlo da eventuali incompatibilità o
disarmonie con le prevalenti norme comunitarie»: sent. 1989 Provincia autonoma di Bolzano.

8. Segue: la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana.


8.1. La piena accettazione del principio del primato da parte della Corte cost. italiana è risultata particolarmente
difficoltosa. Inizialmente la Corte parte dall'assunto che, secondo l'ordinamento cost. italiano, l'unico procedimento
attraverso cui una legge in vigore può essere resa inapplicabile è la dichiarazione d'incostituzionalità ai sensi dell'art.
134 Cost. Essa si preoccupa perciò di individuare un «aggancio» che le consenta di riconoscere valenza costituzionale
al diritto dell'Unione e comporti, come conseguenza, l'incostituzionalità della norma di legge contraria.
Nella sent. 1964, Costa c. Enel, tale aggancio costituzionale non viene rinvenuto. L'attenzione della Corte si focalizza
sulla legge di esecuzione del TCE, la quale è una legge ordinaria. Da ciò la Corte cost. deduce che anche le norme del
TCE hanno il rango di legge ordinaria e sono destinate a cedere di fronte ad una norma di legge successiva.
La Corte, infatti, esclude che la legge contenente disposizioni difformi dal trattato sia «incostituzionale per violazione indiretta
dell'art. 11 Cost. attraverso il contrasto con la legge esecutiva del Trattato». Secondo la Corte, l'art. 11 «non attribuisce un particolare
valore, nei confronti delle altre leggi, a quella esecutiva del Trattato». Ne consegue che, ferma restando la responsabilità dello Stato
per violazione dei propri obblighi derivanti dal TCE, «deve rimanere saldo l'impero delle leggi posteriori» alla legge esecutiva e «ogni
ipotesi di conflitto fra l'una e le altre non può dar luogo a questioni di costituzionalità». In conclusione, in caso di legge incompatibile
con il TCE, si pone una mera questione di successione di leggi nel tempo, che deve essere risolta dal giudice di merito e non dalla
Corte costituzionale.

Il contrasto tra questa posizione e quella assunta dalla Corte di giustizia è netto: secondo la Corte di giustizia il
giudice nazionale deve sempre applicare le norme dei trattati (così come quelle contenute in atti di diritto derivato
direttamente efficaci), disapplicando qualsiasi norma interna contraria; secondo la Corte cost. il giudice italiano può
applicare le norme dei trattati (e degli atti di diritto derivato) solo se non sia intervenuta una legge interna successiva
incompatibile.
8.2. Un primo avvicinamento della posizione della Corte cost. rispetto a quella della Corte di giustizia avviene con la
sent. 232/1975, I.C.I.C.. La Corte cost., valorizzando maggiormente l'art. 11 Cost., ne deduce che tale norma non
solo consente all'Italia di accettare limitazioni di sovranità con legge ordinaria, ma esige altresì che il legislatore
rispetti le limitazioni di sovranità così accettate e, in particolare, non ostacoli, attraverso l'emanazione di leggi
successive incompatibili o anche meramente riproduttive, la diretta applicabilità dei regolamenti prescritta dall'art.
249, II co., TCE (ora art. 288, II co., TFUE). In simili evenienze, la norma di legge è incostituzionale per violazione
dell'art. 11. Tuttavia, secondo la Corte cost., tale vizio non può portare alla disapplicazione della norma di legge
direttamente da parte del giudice ordinario, rendendosi invece sempre necessario il ricorso alla Corte cost. ai sensi
dell'art. 134 Cost.
Nella sentenza cit., la Corte cost. esamina una questione di costituzionalità sollevata dalla Corte di cassazione in merito ad un
decreto legislativo riproduttivo di un regolamento del Consiglio. La Corte ritiene che, per quanto riguarda le norme interne
successive emanate con legge o con atti aventi valore di legge «il vigente ordinamento non conferisce al giudice italiano il potere di
disapplicarle, nel presupposto di una generale prevalenza del diritto comunitario sul diritto dello Stato». Né si può prospettare che
tali norme siano radicalmente nulle. Secondo la Corte, deve escludersi che «il trasferimento agli organi delle Comunità del potere di
emanare norme giuridiche, sulla base di un preciso criterio di ripartizione di competenze per determinate materie, per l'assolvimento
dei loro compiti e alle condizioni contemplate dai trattati comporti come conseguenza una radicale privazione di efficacia della volontà
sovrana degli organi legislativi degli Stati membri». Pertanto «di fronte alla situazione determinata dall’emanazione di norme
legislative italiane, le quali abbiano recepito e trasformato in legge interna regolamenti comunitari direttamente applicabili, il giudice
è tenuto a sollevare la questione della loro legittimità costituzionale».

Riassumendo, per effetto del principio della successione delle leggi nel tempo, il giudice italiano ha il potere di
disapplicare una norma di legge interna contraria al diritto dell'Unione qualora la legge preceda nel tempo la norma
dell'UE ma non ha il potere di fare altrettanto qualora il rapporto temporale sia inverso: in questo caso il giudice può
solo sollevare la questione di legittimità costituzionale e attendere la decisione della Corte costituzionale.
La soluzione elaborata dalla Corte cost. presentava il vantaggio che le sentenze di incostituzionalità, a partire dal giorno
successivo a quello della pubblicazione sulla GU, hanno valore generale e privano la norma incostituzionale di efficacia,
rimuovendola dall'ordinamento. Essa, però, presentava anche rilevanti difetti. In primo luogo, il ruolo della Corte cost. era ridotto
a una funzione puramente «notarile», perché, in numerose ipotesi, il conflitto tra norma comunitaria e norma interna era talmente
evidente che la Corte si limitava a prenderne atto. Ciò si è verificato nel caso esaminato dei decreti legislativi riproduttivi di
regolamenti. In secondo luogo, l'intervento della Corte cost. ritardava il momento a partire dal quale il giudice poteva applicare
direttamente la norma dell'Unione, che restava quindi «paralizzata» sino alla pronuncia di incostituzionalità della norma interna.

8.3. Il sopravvenire della sentenza Simmenthal, nella quale la Corte di giustizia aveva preso posizione proprio contro
la soluzione contenuta nella sent. I.C.I.C., costringe la Corte cost. a modificare nuovamente il proprio orientamento.
Dopo una lunga pausa di riflessione, l'occasione viene fornita dalla sent. 170/1984, Granital.
La sentenza è originata da una controversia in materia di prelievi agricoli all'importazione. Alcuni regolamenti, così come
interpretati dalla Corte di giustizia, imponevano di calcolare il prelievo secondo il tasso in vigore alla data della accettazione della
dichiarazione d'importazione. In applicazione di alcune norme italiane successive rispetto ai regolamenti, Granital aveva invece
corrisposto prelievi calcolati secondo il tasso più favorevole intervenuto prima dell'immissione in libera pratica. Di fronte alla
opposizione di Granital contro il provvedimento che le ingiungeva di versare la differenza, il Tribunale di Genova, ritenendo di
essere in presenza di un'ipotesi di conflitto tra un regolamento e norme di legge successive, solleva questione di costituzionalità
delle norme stesse per violazione dell'art. 11 Cost. Sorprendentemente la Corte dichiara inammissibile la questione.

L'aspetto di maggiore novità del ragionamento della Corte cost. rispetto alle pronunce precedenti consiste nel rifiuto
di assimilare le norme dell'Unione a norme nazionali di legge. Da ciò discende l'impossibilità di applicare ai conflitti
tra le une e le altre i metodi di risoluzione previsti per l'ipotesi di conflitto tra norme entrambe appartenenti
all'ordinamento italiano, compresa la dichiarazione di incostituzionalità ai sensi dell'art. 134 Cost. Trattandosi di
norme di ordinamenti diversi, gli eventuali conflitti vanno risolti in base ad un diverso criterio: il criterio della
competenza.
Secondo la Corte «l'ordinamento della C.e.e. e quello dello Stato, pur distinti ed autonomi sono, come esige il Trattato di Roma,
necessariamente coordinati; il coordinamento discende dall'avere la legge d'esecuzione del Trattato trasferito agli organi comunitari,
in conformità dell'art. 11 Cost, le competenze che questi esercitano, beninteso nelle materie loro riservate».

Occorrerà stabilire se la materia rientri tra quelle in relazione alle quali l'Italia ha accettato, in conformità con l'art.
11 Cost, di limitare la propria sovranità in favore dell'Unione. Tale compito va svolto dal giudice ordinario e non
richiede l'intervento della Corte cost. Qualora risulti che la materia rientra effettivamente nella competenza che i
trattati attribuiscono alle istituzioni dell'Unione, il giudice italiano, senza dare importanza all'aspetto cronologico (se
la norma dell'Unione sia successiva a quella di legge o viceversa), «accerta che la normativa scaturente da tale fonte
regola il caso sottoposto al suo esame e ne applica di conseguenza il disposto, con esclusivo riferimento al sistema
dell'ente sopranazionale, cioè al solo sistema che governa l'atto da applicare e di esso determina la capacità
produttiva». La soluzione prospettata, tuttavia, vale solo «se e quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca in
una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno», come nel caso dei regolamenti.
La giurisprudenza successiva ha riconosciuto che il potere del giudice di applicare direttamente le norme dell'Unione, lasciando
inapplicate le leggi interne incompatibili va esteso a tutte le fonti comunitarie capaci di produrre effetti diretti.

8.4. La soluzione elaborata dalla Corte cost. nella sentenza Granital, benché molto vicina, nel risultato pratico, a
quanto richiesto dalla Corte di giustizia nella sentenza Simmenthal, lascia sopravvivere alcune differenze.
Da un punto di vista teorico, la separatezza dell'ordinamento statale rispetto a quello dell'Unione su cui insiste la Corte cost. non
corrisponde alla visione integrazionista fatta propria dalla Corte di giustizia nella sentenza Simmenthal. Secondo la Corte cost.,
d'altronde, la norma di legge configgente con la norma dell'Unione non è invalida come sembrava sostenere allora la Corte di
giustizia. Poiché il regolamento comunitario «non può abrogare, modificare o derogare le confliggenti norme nazionali, né invalidarne
le statuizioni», secondo la Corte cost., la legge interna resta in vigore «ma non interferisce nella sfera occupata da tale atto». La
separatezza degli ordinamenti è stata invocata recentemente dalla Corte cost. nella sent. 125/2009, Medcenter, per negare che
una norma di un regolamento e una norma di legge interna potessero dar vita ad un «combinato disposto». Secondo la Corte «il
"combinato disposto" realizzato dal rimettente non è consentito perché si risolve nella fusione di due norme destinate invece a restare
distinte, in quanto appartenenti ad ordinamenti diversi, pur se coordinati, e che non sono suscettibili di essere lette in combinazione
appunto perché tra loro contrastanti».

La Corte cost., inoltre, esclude in due ipotesi il potere del giudice di applicare immediatamente la norma dell'Unione
e di disapplicare l'eventuale legge interna confliggente, esigendo invece che sia sollevata questione di costituzionalità.
Si tratta di casi ancora oggi riservati alla competenza residua della Corte costituzionale.
8.5. La prima ipotesi riguarda l'eventualità di una norma dell'Unione contraria ai principi fondamentali
dell'ordinamento costituzionale e ai diritti dell'uomo.
Nella sent. 183/1973, Frontini, la Corte afferma che è da escludersi che le limitazioni di sovranità accettate in
conformità dell'art. 11 Cost. «possano comunque comportare per gli organi della CE.E. un inammissibile potere di
violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana». Di
conseguenza, «qualora dovesse darsi all'art. 189 [ora art. 288 TFUE] una sì aberrante interpretazione sarebbe sempre
assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità con i predetti
princìpi fondamentali». Il giudice nazionale che fosse chiamato ad applicare una norma dell'Unione sospettata di
violare i predetti principi, sarebbe tenuto a sollevare questione di costituzionalità relativamente alla legge
d'esecuzione dei trattati, in quanto da tale legge deriverebbe l'applicazione in Italia di una norma del genere.
La competenza rivendicata dalla Corte cost. confligge con la competenza esclusiva della Corte di giustizia a giudicare della
violazione dei diritti dell'uomo da parte di atti delle istituzioni. La Corte non esclude (ma neppure impone) che il giudice a quo si
rivolga prima alla Corte di giustizia, interrogandola sulla validità dell'atto in questione per violazione dei diritti umani protetti
dall'ordinamento dell'Unione, e sollevi questione di costituzionalità solo in caso di risposta insoddisfacente a tale questione. La
descritta soluzione non è molto diversa da quella che si è realizzata nell'unico caso in cui la Corte cost. è andata vicina ad
utilizzare la descritta riserva di competenza. Nel caso esaminato nella sent. 232/1989, FRAGD, infatti, la questione dì
costituzionalità sollevata dal Tribunale di Venezia era stata preceduta da una questione pregiudiziale di validità, oggetto della
sent. Corte di giustizia 1985, FRAGD.

8.6. La seconda ipotesi in cui la Corte Cost. si riserva il potere di intervenire, si ha in presenza di norme di legge
dirette ad impedire il rispetto dei principi fondamentali dei trattati.
L'ipotesi descritta si porrebbe per «quelle statuizioni di legge statale, che si assumono costituzionalmente illegittime, in
quanto dirette ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato, in relazione al sistema e al nucleo
essenziale dei suoi principi» (sent. Granital). Dovrebbe perciò trattarsi di casi caratterizzati da particolare gravità e da
una comprovata intenzione di impedire l'applicazione in Italia di interi settori del diritto dell'Unione. In casi del
genere (che non si sono finora posti) «la Corte sarebbe quindi chiamata ad accertare se il legislatore ordinario abbia
ingiustificatamente rimosso alcuni dei limiti della sovranità statale, da esso medesimo posti, mediante la legge
d'esecuzione del Trattato in diretto e puntuale adempimento dell'art. 11 Cost.».
8.7. La competenza della Corte cost. a conoscere di conflitti tra norma dell'Unione e norme interne sussiste anche in tutte quelle
ipotesi che si pongano al di fuori del giudizio di costituzionalità in via incidentale. Qualora infatti un conflitto del genere venga in
rilievo nell'ambito di una delle sue competenze dirette (giudizio di costituzionalità in via principale, sui conflitti d'attribuzione,
sull'ammissibilità dei referendum), la Corte cost. è chiamata a risolverlo, rispettando il principio del primato.

8.8. Con la riforma del Titolo V della Cost., il principio del primato del diritto dell'Unione su quello interno ha trovato
un'esplicita consacrazione nel nuovo testo dell'art. 117, I co.: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario».
La previsione di una norma cost. che espressamente impone al legislatore statale e regionale il rispetto dell' «ordinamento
comunitario» non ha rimesso in discussione la soluzione data in precedenza dalla Corte cost. al problema dei conflitti tra norma
dell'Unione e norma di legge incompatibile. Resta salvo pertanto il potere-dovere del giudice ordinario di disapplicare direttamente
la norma interna incompatibile secondo la soluzione delineata a partire dalla sent. Granital, senza dover ricorrere al giudizio di
costituzionalità in via incidentale. Per quanto riguarda invece le competenze dirette della Corte cost. e, in particolare, il giudizio di
costituzionalità in via d'azione riguardo a leggi statali o regionali impugnate per mancato rispetto del diritto dell'Unione, l'art. 117,
I co., Cost. costituisce ormai il parametro di costituzionalità naturale. Come esempio può citarsi la sent. 406/2005, Presidente del
Consiglio c. Regione Abruzzo, relativa all'impugnazione di una legge regionale sulla zootecnia che introduceva una deroga (non
prevista) ad una direttiva in materia di lotta contro la malattia degli ovini, detta della «blue tongue».

8.9. Nel caso di contrasto rispetto ad una norma dell'Unione priva di efficacia diretta, non potendo il giudice
procedere alla disapplicazione della legge interna, il giudice deve sollevare davanti alla Corte cost. eccezione di
costituzionalità per violazione degli artt. 11 e 117, par. 1, Cost. Il principio è stato affermato dalla Corte cost. nella
sent. 227/2010, M. K. P. La Corte era investita di numerose eccezioni di costituzionalità relative alla legge di
attuazione della decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio del 2002, sul mandato di arresto europeo. In
particolare l'art. 18 della l. 69/2005, veniva denunciato come contrastante con l'art. 4, par. 6, della decisione
quadro. La norma italiana limitava ai cittadini italiani la causa di rifiuto di consegna della persona oggetto del
mandato d'arresto prevista dall'art. 4, par. 6 (decisione del giudice dello Stato richiesto che la persona sconti la pena
nello stesso Stato richiesto). Secondo la Corte la causa di rifiuto deve valere anche per i cittadini di altri Stati membri
effettivamente e legittimamente residenti o dimoranti in Italia, altrimenti si produrrebbe una violazione del principio
di non discriminazione sulla base della nazionalità previsto dall'art. 18 TFUE.
PARTE V
IL SISTEMA DI TUTELA GIURISDIZIONALE

1. Considerazioni generali.
1.1. L'ordinamento dell'Unione comprende un sistema di tutela giurisdizionale che assicura la protezione delle
posizioni giuridiche sorte per effetto del diritto dell'Unione. Tale sistema è ripartito su due livelli:
 la Corte di giustizia dell'UE (articolata al suo interno in Corte di giustizia, Tribunale e Tribunale della
Funzione pubblica - TFP);
 gli organi giurisdizionali degli Stati membri.
Al primo livello spettano in via esclusiva alcune azioni tassativamente enumerate dai trattati, che i soggetti
interessati possono proporre davanti ad una delle articolazioni della Corte di giustizia (competenze dirette):
a) ricorsi per infrazione, che vengono proposti nei confronti di uno Stato membro accusato di aver violato gli
obblighi derivanti dai trattati (258 e 259 TFUE);
b ) ricorsi d'annullamento, attraverso i quali viene contestata la legittimità di atti delle istituzioni (263 TFUE);
c ) ricorsi in carenza, attraverso i quali si vuole far constatare l'illegittimità delle omissioni addebitabili alle
istituzioni (265 TFUE);
d ) ricorsi per risarcimento, che hanno ad oggetto la responsabilità extracontrattuale delle istituzioni (268 TFUE).
Il TFUE attribuisce alla competenza diretta della Corte di giustizia anche altre azioni minoris generis:
a ) le controversie tra le istituzioni e i propri dipendenti (art. 270: questa competenza è ora attribuita, in primo grado, al TFP);
b ) le controversie riguardanti la Banca europea degli investimenti (art. 271);
c) le controversie derivanti da contratti di diritto privato stipulati dall'Unione, qualora il contratto contenga una clausola
compromissoria che preveda la competenza della Corte di giustizia (art. 272);
d ) le controversie tra Stati membri connesse con l'oggetto dei trattati, qualora le parti concludano un compromesso che le
sottoponga alla Corte di giustizia (art. 273).
Va poi menzionato l'art. 277, ai sensi del quale «nell'eventualità di una controversia che metta in causa un atto di portata generale
adottato da un'istituzione, organo o organismo dell'Unione, ciascuna parte può, anche dopo lo spirare del termine previsto dall'art.
263, VI co., valersi dei motivi previsti dall'art. 263, II co., per invocare dinanzi alla Corte di giustizia l'inapplicabilità dell'atto stesso»
(eccezione d'invalidità). L'invalidità di un atto di portata generale può essere fatta valere, non solo in via diretta, attraverso un
ricorso d'annullamento, ma anche in via d'eccezione, nell'ambito di un'altra controversia di competenza della Corte di giustizia in
cui venga in rilievo l'applicazione dell'atto stesso. A queste competenze contenziose, si aggiungono competenze consultive: la più
importante riguarda la compatibilità con i trattati degli accordi internazionali la cui conclusione è prevista dalle istituzioni.

Al di fuori di tali azioni, vige la competenza dei giudici nazionali. I soggetti interessati all'applicazione di una norma
dell'Unione possono infatti rivolgersi ai giudici nazionali e chiedere loro di assicurare la tutela giurisdizionale delle
posizioni giuridiche loro spettanti. Secondo l'art. 19, par. 1, II co., TUE, infatti, «gli Stati membri stabiliscono i rimedi
giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione».
1.2. I due livelli di tutela giurisdizionale (quello dinanzi alla Corte di giustizia e quello dinanzi alle giurisdizioni
nazionali) non operano in maniera del tutto distinta. Per evitare che, nell’applicare il diritto dell'Unione, i giudici degli
Stati membri possano pregiudicare l'uniformità delle disposizioni di tale diritto, interpretandole come se si trattasse
di norme appartenenti al rispettivo ordinamento nazionale, i trattati hanno previsto uno strumento di raccordo con
la Corte di giustizia: la procedura del rinvio pregiudiziale menzionata dall'art. 19, par. 3, lett. b, TUE e disciplinata
dall'art. 267 TFUE. Attraverso di essa il giudice nazionale ha la facoltà o, in taluni casi, l'obbligo di deferire alla Corte
di giustizia le questioni riguardanti il diritto dell'Unione. In questo modo si instaura una collaborazione tra livello
dell'Unione e livello nazionale di tutela giurisdizionale.
Quando si pronuncia su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale ai sensi dell'art. 267 TFUE, la Corte
esercita una competenza meramente indiretta; infatti, conosce solo delle questioni di diritto dell'Unione deferite dal giudice
nazionale, al quale spetta il potere di decidere l'intera controversia, dopo che la Corte si sia pronunciata. L'articolazione su due
livelli del sistema di tutela giurisdizionale dell'Unione provoca alcune ipotesi di interferenza, soprattutto per quanto riguarda il
controllo della legittimità degli atti delle istituzioni.

1.3. Secondo la Corte di giustizia, tale sistema di tutela giurisdizionale è, in linea di principio, completo.
L'ordinamento dell'Unione, infatti, rispetta il principio generale del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva,
espresso negli artt. 6 e 13 della CEDU e dall'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE.
Ne consegue, da un lato, che il titolare di una posizione soggettiva derivante da norme dell'UE deve avere la
possibilità di esperire un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice competente contro gli atti delle autorità pubbliche di
uno Stato membro che violino tale sua posizione (v. sent. 1986, Johnston). Dall'altro un soggetto che venga
pregiudicato da un atto delle istituzioni deve poter ottenere il controllo giurisdizionale della validità di tale atto. Nella
celebre sent. 1986, Parti ecologiste Les Verts c. Parlamento europeo, la Corte, riferendosi alla CE afferma inoltre che
essa «è una comunità di diritto, nel senso che né gli Stati membri che ne fanno parte, né le sue istituzioni sono sottratti
al controllo della conformità dei loro atti alla carta costituzionale di base costituita dal trattato».
Qualora dovessero darsi delle lacune, nel senso che manchi un rimedio giurisdizionale utilizzabile per ottenere la
protezione di determinate posizioni soggettive, la lacuna dovrebbe essere colmata attraverso un'interpretazione
evolutiva delle norme applicabili. Perché si possa parlare di lacune è tuttavia necessario prendere in considerazione i
rimedi esistenti tanto a livello dell'Unione, quanto a livello nazionale. Il sistema di tutela giurisdizionale va infatti
esaminato nella sua unità: l'insufficienza dei rimedi esperibili dinanzi alla Corte di giustizia non comporta violazione
del diritto ad un rimedio giurisdizionale effettivo, qualora esista un rimedio adeguato che possa essere azionato
davanti ai giudici nazionali. Nell'ipotesi che nessun rimedio giurisdizionale effettivo esista né a livello di Corte di
giustizia né a livello nazionale, sorge la necessità di colmare la lacuna in via interpretativa. Ciò può portare ad
interpretazioni particolarmente estensive tanto di norme dei trattati, quanto di norme degli Stati membri.
Un caso del primo tipo si ha nella sentenza Parti écologiste Les Verts. Oggetto della sentenza è l'impugnazione di una decisione del
Parlamento europeo relativa ai fondi stanziati per il rimborso delle spese sostenute dalle formazioni politiche che avevano
partecipato alle elezioni europee del 1984. Contestando la legittimità dei criteri di distribuzione previsti, il partito ricorrente
chiedeva l'annullamento della decisione impugnata, nonostante che la disciplina allora vigente del ricorso d'annullamento
contemplasse solo la possibilità di ricorrere contro atti del Consiglio e della Commissione. Ciononostante, la Corte dichiara il
ricorso ricevibile considerando che «con gli arti 173 e 184 [ora artt. 263 e 277 TFUE], da un lato, e con l'art. 177 [ora art. 267
TFUE], dall'altro, il trattato ha istituito un sistema completo di rimedi giuridici e di procedimenti intesi ad affidare alla Corte di
giustizia il controllo della legittimità degli atti delle istituzioni».
Un caso del secondo tipo è evocato nella sent. 2002, Union de Pequenos agricultores. L'associazione ricorrente impugnava un
regolamento del Consiglio che aboliva alcune misure di sostegno comunitario a favore della produzione di olio di oliva. La Corte
applica alla fattispecie la giurisprudenza tradizionale e dichiara il ricorso irricevibile, non essendo in grado la ricorrente di
dimostrare che il regolamento la riguarda direttamente ed individualmente. La ricorrente obiettava che una soluzione del genere
avrebbe violato il suo diritto ad un rimedio giurisdizionale effettivo. Il regolamento impugnato, infatti, avendo un contenuto
meramente negativo, non richiede l'emanazione da parte degli Stati membri di provvedimenti di attuazione, contro i quali si possa
esperire un rimedio giurisdizionale di fronte al giudice nazionale. La Corte ritiene che non sia suo compito riformulare l'art. 267,
IV co., e modificare i requisiti di ricevibilità previsti. Essa afferma invece che «spetta agli Stati membri prevedere un sistema di
rimedi giurisdizionali e di procedimenti inteso a garantire il rispetto del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva» e che «in tale
contesto, in conformità al principio di leale collaborazione sancito dall'art. 5 del Trattato [ora art. 4, par. 3, TUE], i giudici nazionali
sono tenuti, per quanto possibile, ad interpretare e applicare le norme procedurali nazionali che disciplinano l'esercizio delle azioni in
maniera da consentire alle persone fisiche e giuridiche di contestare in sede giudiziale la legittimità di ogni decisione o di qualsiasi
altro provvedimento nazionale relativo all'applicazione nei loro confronti di un atto comunitario di portata generale, eccependo
l'invalidità di quest'ultimo». La soluzione contenuta nella sent. Union de Pequenos agricultores è stata codificata nell'art. 19, par. 1,
II co. TUE, introdotto dal Trattato di Lisbona. La norma dispone: «Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per
assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione».

1.4. Prima del Trattato di Lisbona, né il II, né il III pilastro dell'Unione disponevano di un sistema di tutela
giurisdizionale analogo a quello stabilito per il pilastro comunitario. La disciplina del Titolo V relativo alla PESC, non
contemplava alcun tipo di rimedio giurisdizionale. Gli atti adottati in tale ambito, erano sottratti a qualunque tipo di
controllo di legittimità da parte della Corte di giustizia. Per quanto riguarda il Titolo VI, relativo alla Cooperazione di
polizia e giudiziaria in materia penale, l'art. 35 TUE attribuiva alla Corte di giustizia talune competenze dirette e in
via pregiudiziale molto ridotte rispetto alle analoghe competenze previste dal TCE. La soppressione della distinzione
tra pilastri dovuta al Trattato di Lisbona non ha comportato il venir meno di tale situazione.
L'art. 24, par. 1, II co., TUE, e l'art. 275, I co., TFUE continuano ad escludere ogni competenza della Corte circa le
disposizioni dei trattati relative alla PESC e gli atti adottati in virtù di tali disposizioni. Unica eccezione: il ricorso
d'annullamento speciale previsto dal II co. dell'art. 275 avente ad oggetto le «decisioni che prevedono misure restrittive
nei confronti di persone fisiche o giuridiche adottate dal Consiglio in base al titolo V, capo 2 del TUE. Circa gli atti
adottati nell'ambito dell'ex III pilastro, l'art. 10 del Prot. n. 36 sulle disposizioni transitorie ha previsto un periodo
transitorio di 5 anni in cui continuano ad applicarsi le norme precedenti, salvo per gli atti che subiscono modifica nel
corso di tale periodo. La modifica fa scattare l'applicazione immediata della disciplina ordinaria.
L'art. 10 cit. prevede al par. 3 un complesso meccanismo di opting out a favore del solo Regno Unito, da esercitare al più tardi alla
fine del periodo transitorio.

In considerazione del carattere ancora oggi limitato delle competenze della Corte nel settore PESC e nel settore della
Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale ci si potrebbe domandare se il principio generale del diritto ad
una tutela giurisdizionale effettiva sia rispettato in tali settori. Nella sent. del 2007, Gestoras pro Amnistia, la Corte
ha preso posizione. Chiedendosi di quale tutela giurisdizionale un'associazione potesse godere contro una posizione
comune PESC che la include in un elenco di organizzazioni terroristiche, la Corte ribadisce che «come risulta dall'art.
6 UE [ora art. 2 TUE], l'Unione è fondata sul principio dello Stato di diritto e rispetta i diritti fondamentali quali principi
generali del diritto comunitario. Ne consegue che le istituzioni sono soggette al controllo della conformità dei loro atti ai
Trattati e ai principi generali di diritto, al pari degli Stati membri quando danno attuazione al diritto dell'Unione».
Qualora non esistesse un rimedio giurisdizionale azionabile dinanzi alla Corte di giustizia, sarebbero i giudici
nazionali a dover farsi carico di offrire rimedio attraverso un'interpretazione ampia delle norme del diritto interno.

2. Il ricorso per infrazione.


2.1. Il ricorso per infrazione è disciplinato dagli artt. 258 e 259 TFUE. L'oggetto del ricorso è la violazione da parte di
uno Stato membro di «uno degli obblighi a lui incombenti in virtù dei trattati».
2.2. Per Stato membro va inteso lo Stato-organizzazione, comprensivo di tutte le articolazioni in cui è organizzato
l'esercizio del potere pubblico sul territorio statale. Nel quadro di un ricorso per infrazione, uno Stato membro può
pertanto essere chiamato a rispondere non solo di comportamenti di organi facenti capo al Governo nazionale (es.
amministrazione doganale, uffici fiscali, forze di polizia, enti previdenziali), ma anche di comportamenti imputabili a
poteri indipendenti rispetto a quello esecutivo (es. Parlamento, Magistratura) o ad enti territoriali dotati di autonomia
e di competenze esclusive (Regioni, Comuni).
Nella sent. 2003, Commissione c. Italia, viene accolto un ricorso in cui l'infrazione contestata è imputabile alla giurisprudenza
interna. Secondo la Commissione la legislazione italiana applicabile alle domande di rimborso di tributi riscossi in violazione del
diritto dell'Unione, viene interpretata e applicata dai giudici italiani, compresa la Corte di cassazione, in senso incompatibile con il
diritto dell'Unione. La Corte ricorda che «l'inadempimento di uno Stato membro può essere in via di principio dichiarato ai sensi
dell'art. 226 CE [ora art. 258 TFUE] indipendentemente dall'organo dello Stato la cui azione o inerzia ha dato luogo alla
trasgressione, anche se si tratta di un'istituzione costituzionalmente indipendente» e che, d'altro canto, «la portata delle disposizioni
legislative, regolamentari o amministrative nazionali si deve valutare tenendo conto dell'interpretazione che ne danno i giudici
nazionali». Passando all'esame del caso di specie, la Corte constata che «quando una normativa nazionale forma oggetto di
divergenti interpretazioni giurisprudenziali che siano plausibili e che conducano, alcune, ad un'applicazione della detta normativa
compatibile con il diritto comunitario, altre, ad un'applicazione incompatibile con esso, occorre dichiarare che, per lo meno, tale
normativa non è sufficientemente chiara per garantire un'applicazione compatibile con il diritto comunitario». Essendo provato che
l'interpretazione della legislazione fornita dalla costante giurisprudenza porta ad una sua applicazione incompatibile con il diritto
dell'Unione, la Corte accoglie il ricorso della Commissione: il Governo italiano avrebbe dovuto modificare tale legislazione.
Nell’altra sent. del 2003, Commissione c. Italia, invece, l'infrazione contestata deriva da un comportamento di un ente locale. La
Commissione lamenta che le tariffe per l'ingresso nel Palazzo dei Dogi in Venezia violano il divieto di discriminazione in base alla
nazionalità, in quanto riservano una riduzione ai soli cittadini italiani ultrasessantenni. Il Governo italiano si difende sostenendo
che la fissazione delle tariffe per l'ingresso nei musei ed altri monumenti di carattere regionale non è di competenza statale, ma
rientra in quella esclusiva delle Regioni. La Corte respinge la difesa. La possibilità che allo Stato membro possano essere imputati
comportamenti degli enti territoriali spiega le resistenze che si sono manifestate in Italia circa il riconoscimento alle Regioni del
potere di applicare i regolamenti e di attuare le direttive nelle materie di loro competenza e la previsione di meccanismi di
sostituzione atti ad evitare che l'inerzia di una Regione possa comportare la responsabilità dello Stato.

2.3. L'oggetto del ricorso può riguardare la violazione di qualsiasi obbligo derivante direttamente dai trattati o dagli
atti adottati in base ad essi. Frequenti sono i ricorsi per mancata o non corretta attuazione delle direttive entro il
termine.
Sono previste tuttavia alcune eccezioni. Una prima eccezione riguarda il rispetto del divieto di disavanzi eccessivi (art. 126
TFUE), la cui violazione è sottratta all'applicazione degli artt. 258 e 259. In alternativa è prevista una procedura sanzionatoria di
carattere politico, affidata al Consiglio (sent. 2004, Commissione c. Consiglio, relativa ad un ricorso d'annullamento proposto dalla
Commissione contro la mancata decisione di apertura del procedimento da parte del Consiglio). Il ricorso per infrazione non è
esercitabile nemmeno per violazioni commesse dagli Stati membri nell'ambito della PESC e neppure, per un periodo di cinque
anni dall'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, per violazioni collegate agli atti adottati prima di questa data nel settore della
Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Un ricorso per infrazione non è esperibile nemmeno riguardo al
comportamento di uno Stato membro che comporti violazione dei diritti dell'uomo tutelati in quanto principi generali del diritto
comunitario, salvo che il comportamento stesso sia stato adottato dallo Stato membro in attuazione di una norma contenuta nei
trattati o di un atto delle istituzioni che ne autorizzi o ne richieda l'adozione. Tuttavia per le ipotesi di «violazione grave e
persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'art. 2» (rispetto della dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza,
Stato di diritto, rispetto dei diritti umani, compresi quelli delle persone appartenenti a minoranze), l'art. 7, par. 2 e ss., TUE
prevede una procedura di constatazione affidata ad una delibera unanime del Consiglio europeo, previa approvazione del
Parlamento europeo, cui può far seguito una decisione del Consiglio, a maggioranza qualificata che fisserà delle sanzioni a carico
dello Stato membro interessato. Le sanzioni possono consistere nella sospensione «di alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro
in questione dall'applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante di tale Stato membro in seno al Consiglio». Il
par. 1 prevede inoltre una procedura di pre-allarme in caso di «evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro di
uno o più dei valori di cui all'art. 2».
Un limite indiretto al campo d'applicazione del ricorso per infrazione valido però soltanto nei settori della Cooperazione giudiziaria
in materia penale e della Cooperazione di polizia si deduce dall'art. 276 TFUE: «Nell'esercizio delle attribuzioni relative alle
disposizioni dei capi 4 e 5 della parte III, titolo V concernenti lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, la Corte di giustizia dell'UE non
è competente a esaminare la validità o la proporzionalità di operazioni condotte dalla polizia o da altri servizi incaricati
dell'applicazione della legge di uno Stato membro o l'esercizio delle responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento
dell'ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna».

La violazione che può costituire l'oggetto di un ricorso per infrazione è presa in considerazione nel suo obiettivo
manifestarsi. Non è necessario dimostrare la presenza di un atteggiamento psicologico di colpa o di dolo da parte
dello Stato membro o dei suoi organi. D'altro canto, lo Stato membro non può addurre giustificazioni tratte da eventi
interni quali lo scioglimento anticipato del Parlamento nazionale o una crisi di governo, né può invocare particolari
difficoltà. Nemmeno è possibile trarre giustificazioni dal comportamento tenuto da altri Stati membri.
2.4. Il procedimento per proporre un ricorso per infrazione varia a seconda del soggetto che ne assume l'iniziativa.
L'art. 258 TFUE disciplina l'ipotesi più frequente: la Commissione, in quanto custode della legalità comunitaria, che
apre il procedimento. L'art. 259, invece, contempla la possibilità che ad agire sia uno Stato membro.
Non è consentito ad altri soggetti, in particolare ai singoli, aprire il procedimento e, in generale, rivolgersi direttamente alla Corte
per far valere la violazione un obbligo derivante dai trattati da parte di uno Stato membro. Essi potranno semmai denunciare la
violazione alla Commissione o al proprio Stato membro per sollecitarli ad intervenire.

In entrambi i casi sono previste due fasi:


- fase precontenziosa preliminare: ha due scopi. 1) favorisce la composizione amichevole della controversia
riguardante il rispetto degli obblighi dei trattati. Imponendo alle parti di discutere tra di loro e di confrontare
le posizioni rispettive, si può evitare l'intervento della Corte. 2) scopo processuale: il suo svolgimento è
condizione di ricevibilità del ricorso alla Corte. Non solo un ricorso non preceduto da alcuna fase
precontenziosa sarebbe irricevibile, ma anche l'inserimento nell'oggetto del ricorso di contestazioni diverse da
quelle sollevate nella fase precontenziosa provocherebbe l'irricevibilità parziale del ricorso, salvo che si tratti
della semplice continuazione di comportamenti già contestati.
- fase contenziosa vera e propria, che si svolge dinanzi alla Corte: prevede il ricorso alla Corte di giustizia e
l'emanazione di una decisione giudiziaria.
2.5. Nel caso disciplinato dall'art. 258 (più frequente), la scelta di dare avvio al procedimento, quella di portarlo
avanti con maggiore o minore celerità e persino quella di porvi termine spettano alla Commissione, che gode in
proposito di un ampio potere discrezionale.
Non è dunque possibile proporre un ricorso in carenza ai sensi dell'art. 265 TFUE contro l'omessa o ritardata apertura o
conclusione del procedimento. Nella sent. del 1989, Star Fruit, veniva contestata la legittimità del rifiuto della Commissione di
aprire un procedimento ai sensi dell'art. 258 contro la Francia, responsabile di comportamenti che ostacolavano il commercio di
banane fresche. La Corte respinge il ricorso in carenza. Nemmeno è possibile a colui che abbia denunciato alla Commissione il
comportamento di uno Stato membro, chiedere l'annullamento ai sensi dell'art. 263, IV co., TFUE della lettera con cui la
Commissione respinga tale denuncia. Il principio è stato affermato dalla Corte nella sent. 2005, Commissione c. Max.mobil.

A norma dell'art. 258, I co., «la Commissione, quando reputi che uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi
a lui incombenti in virtù dei trattati, emette un parere motivato al riguardo, dopo aver posto lo Stato in condizioni di
presentare le sue osservazioni». In pratica, la fase precontenziosa si articola nei seguenti momenti:
a ) invio allo Stato membro di un atto non formale, noto come lettera di messa in mora, con cui la Commissione,
dopo aver contestato allo Stato membro determinati comportamenti, gli assegna un termine entro il quale
presentare le proprie osservazioni;
b ) presentazione delle osservazioni da parte dello Stato membro (in mancanza la Commissione può passare alla
fase successiva);
c) emissione di un parere motivato, mediante il quale la Commissione espone in via definitiva gli addebiti mossi
allo Stato e lo invita a conformarsi entro il termine fissato.
L'atto finale della fase precontenziosa è costituito da un atto non obbligatorio, con il quale la Commissione si limita
ad esprimere la propria opinione. Nel sistema del TFUE, infatti, il potere di constatare l'infrazione commessa da uno
Stato membro spetta alla Corte. Ne consegue che lo Stato membro non è obbligato a conformarsi al parere motivato,
ma lo farà solo se preferisce evitare il ricorso alla Corte di giustizia. La circostanza che il parere motivato non sia atto
obbligatorio, ne esclude l'impugnabilità ai sensi dell'art. 263 TFUE (v. sent. 1966, Lutticke c. Commissione).
Nella prassi, tuttavia, il dialogo tra la Commissione e lo Stato membro è molto più articolato e passa attraverso lo scambio di
numerose lettere e la tenuta di uno o più incontri tra funzionari dello Stato e della Commissione. La durata del procedimento
dipende da quest'ultima, alla cui discrezionalità è rimessa la scelta di porvi fine, emanando il parere motivato. Per alcune materie
si applica un procedimento speciale, in cui non è necessario esperire la fase precontenziosa. Il caso più importante è previsto
dall'art. 108, par. 2, TFUE in materia di controllo sugli aiuti di Stato alle imprese. In tale ambito la Commissione, «dopo aver
intimato agli interessati di presentare le loro osservazioni», assume una vera e propria decisione, con cui obbliga lo Stato che abbia
concesso un aiuto non permesso, a «sopprimerlo o modificarlo nel termine da essa fissato». Se lo Stato membro non vi provvede, la
Commissione «può adire direttamente la Corte di giustizia dell'UE in deroga agli artt. 258 e 259».

2.6. Il passaggio alla fase contenziosa è possibile solo una volta che il termine fissato nel parere motivato sia
decorso invano. Ai sensi del II co. dell'art. 258 «qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine
fissato dalla Commissione, questa può adire la Corte di giustizia dell'UE». La Commissione non è obbligata a ricorrere
alla Corte, né a farlo entro un termine predeterminato. La Commissione, ad esempio, potrebbe omettere del tutto il
ricorso qualora lo Stato membro si sia conformato al parere motivato, seppure con leggero ritardo rispetto al termine
previsto. In alternativa, potrebbe lasciare trascorrere molto tempo prima di adire la Corte, qualora siano in corso
trattative che appaiano in grado di portare ad una rapida soluzione in via amichevole. Una volta presentato il ricorso
alla Corte, invece, l'eventuale eliminazione da parte dello Stato membro della violazione contestata non comporta
alcuna conseguenza sull'esito del giudizio (a meno che la stessa Commissione non accetti di rinunciare al ricorso): la
situazione di infrazione si cristallizza al momento della presentazione del ricorso; eventi successivi restano irrilevanti.
2.7. La fase contenziosa termina con una sentenza della Corte. In caso di accoglimento del ricorso, la Corte si limita
a riconoscere che lo Stato membro ha mancato ad un obbligo derivante dai trattati (art. 260 TFUE). Si tratta di una
sentenza di mero accertamento e non di una sentenza di accertamento costitutivo, né, tanto meno, di condanna.
È inoltre previsto (art. 260 TFUE) che lo Stato membro «è tenuto a prendere i provvedimenti che l'esecuzione della
sentenza della Corte comporta». La sentenza non indica a quali adempimenti lo Stato membro dovrà dar corso e
neppure il termine entro cui dovrà provvedere.
Per quanto riguarda la portata dell'obbligo cui soggiace lo Stato membro in seguito alla sentenza della Corte, un interessante
esempio è contenuto nella sent. 1972, Commissione c. Italia. La Commissione contesta all'Italia di non aver rispettato gli obblighi
di cui all'art. 260 in relazione ad una precedente sentenza della Corte, con la quale era stata dichiarata l'incompatibilità con l'art.
30 TFUE (divieto di tasse d'effetto equivalente a un dazio doganale) di una tassa sugli oggetti di interesse storico, artistico ed
archeologico, avendo continuato a riscuotere la predetta tassa anche dopo la data della sentenza. Il Governo italiano si difende
adducendo la necessità di abrogare la tassa in via legislativa. Secondo la Corte, invece, il ricorso della Commissione è fondato.
Dalla sentenza si evince che lo Stato membro deve a ) cessare immediatamente di applicare i provvedimenti nazionali in cui si
concreta la violazione dell'obbligo derivante dai trattati e b ) adottare nel minor tempo possibile tutti i provvedimenti necessari per
eliminare completamente la situazione che aveva dato vita all'infrazione constatata dalla sentenza della Corte. L'obbligo di
abrogazione o di modificazione vale anche quando la norma dell'Unione violata è idonea a produrre effetti diretti.

La mancata (o ritardata) adozione dei provvedimenti necessari a conformarsi alla sentenza può indurre la
Commissione ad avviare nei confronti dello Stato membro un secondo procedimento di infrazione per violazione
dell'art. 260. È prevista la possibilità che il secondo procedimento possa condurre all’emanazione, a carico dello
Stato membro, di una vera e propria sentenza di condanna al pagamento di una sanzione pecuniaria.
Nel caso ritenga che uno Stato membro non abbia preso i provvedimenti imposti da una precedente sentenza della
Corte, la Commissione, dopo aver posto lo Stato in condizioni di presentare osservazioni (ma senza necessità di
esperire l'intera fase precontenziosa), può adire la Corte precisando «l'importo della somma forfettaria o della penalità
da versare da parte dello Stato membro in questione, che essa consideri adeguato alle circostanze». La Corte, se
riconosce che lo Stato membro non si è conformato alla precedente sentenza, «può comminargli il pagamento di una
somma forfettaria o di una penalità ».
Una disciplina speciale è prevista dal par. 3 dell'art. 260 per le infrazioni consistenti nel non avere comunicato «le misure di
attuazione di una direttiva adottata secondo una procedura legislativa». In casi del genere, tanto l'indicazione da parte della
Commissione della sanzione da comminare, quanto la sentenza della Corte con cui la sanzione è comminata «entro i limiti
dell'importo indicato dalla Commissione» possono intervenire già all'esito del primo procedimento d'infrazione.

2.8. L'art. 259 TFUE disciplina il procedimento di infrazione avviato su iniziativa di uno Stato membro. Lo Stato
«deve rivolgersi alla Commissione», chiedendole di agire nei confronti dell'altro Stato membro. La Commissione deve
porre in condizione gli Stati interessati «di presentare in contraddittorio le loro osservazioni scritte ». Successivamente
la Commissione emette un parere motivato. Se però il parere non è stato formulato «nel termine di tre mesi dalla
domanda», lo Stato può presentare ricorso direttamente alla Corte. Come si vede, nel caso in cui la Commissione
scelga di prendere su di sé il caso, il procedimento proseguirà nelle forme previste dall'art. 258. In caso di inerzia
della Commissione, invece, lo Stato membro riacquista la propria libertà di agire e può adire la Corte di giustizia. In
caso di accoglimento del ricorso, la sentenza della Corte avrà le stesse caratteristiche di una sentenza emanata a
seguito di ricorso della Commissione.
Il potere di chiedere la comminazione di una sanzione pecuniaria a carico dello Stato membro in occasione di un secondo
procedimento di infrazione è tuttavia riservato alla Commissione. Per gli Stati membri, il ricorso per infrazione ex art. 259 è
l'unico mezzo per risolvere una controversia tra di loro circa il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati, essendosi essi
impegnati, ai sensi dell'art. 344 TFUE, «a non sottoporre una controversia relativa all'interpretazione e all'applicazione dei trattati a
un modo di soluzione diverso da quelli previsti dal trattato stesso».

3. Il ricorso d'annullamento.
3.1. Il ricorso d'annullamento (art. 263 e ss. TFUE) è la forma principale di controllo giurisdizionale di legittimità
prevista per gli atti delle istituzioni. Mira ad ottenere l'annullamento degli atti che risultino viziati.
Il sistema di tutela giurisdizionale dell'Unione prevede altre procedure che consentono alla Corte di effettuare un controllo sulla
legittimità degli atti delle istituzioni: a ) l'eccezione di invalidità; b ) le questioni pregiudiziali di validità. Un controllo di legittimità
può essere esercitato a titolo incidentale nell'ambito di un ricorso per risarcimento dei danni extracontrattuali, dal momento che
la responsabilità extracontrattuale dell'Unione presuppone l'invalidità dell'atto che ha causato il danno. La pluralità delle
procedure attraverso cui può essere contestata la legittimità di un atto delle istituzioni impone il mantenimento di una certa
coerenza tra le stesse (la Corte, nella sent. 1987, Foto-Frost, parla di «necessaria coerenza del sistema di tutela giurisdizionale
istituito dal Trattato»). Ciò si traduce nell'introduzione di elementi di armonizzazione della disciplina relativa alle varie procedure.

Secondo la Corte, essa è l'unico organo competente a controllare la legittimità degli atti delle istituzioni e, se del caso,
a dichiararne l'illegittimità o l'annullamento. La Corte ritiene di essere investita del monopolio sul controllo di
legittimità del diritto derivato dell'Unione. Invece i giudici nazionali (comprese le Corti cost. degli Stati membri), non
dispongono del potere di dichiarare invalido o anche soltanto di disapplicare un atto delle istituzioni che non sia già
stato dichiarato invalido dalla Corte.
La teorizzazione vera e propria del monopolio della Corte di giustizia è dovuta alla sent. 1987, Foto-Frost.
Foto-Frost è un'impresa di importazione, esportazione e commercio di prodotti fotografici stabilita in Germania. Essa ha importato
alcuni binocoli originari dell'ex Repubblica democratica tedesca, acquistandoli in altri Stati membri. Ritenendo applicabile a tali
operazioni il Protocollo sul commercio interno tedesco, le autorità doganali tedesche non applicano alcun dazio doganale.
Successivamente emerge che i dazi sono invece dovuti. È stato, tuttavia, ritenuto, dall’ufficio doganale centrale, che si possa
omettere di procedere ad un recupero a posteriori a carico di Foto-Frost, essendo la mancata riscossione dovuta ad un errore delle
autorità doganali. Un regolamento del Consiglio richiede, in questi casi, l'autorizzazione della Commissione. Avendo la
Commissione emesso decisione negativa, l'ufficio doganale centrale adotta un provvedimento di recupero, che Foto-Frost impugna
dinanzi all’ufficio giudiziario competente in materia di tributi di Amburgo. Sostiene che la decisione negativa della Commissione è
invalida. L’ufficio competente in materia di tributi chiede alla Corte se un giudice nazionale possa sindacare la validità della
decisione della Commissione e dedurne che il provvedimento di recupero è invalido. La Corte risponde negativamente.
Per escludere che un giudice nazionale possa autonomamente valutare la validità di un atto delle istituzioni, la Corte
fa valere che, se ogni giudice nazionale potesse procedere in questo senso, si minerebbe l'uniforme applicazione del
diritto dell'Unione: ciascun giudice nazionale potrebbe giungere a conclusioni diverse. La Corte ricorda che l'art. 263
attribuisce alla Corte una competenza esclusiva ad annullare un atto delle istituzioni. Pertanto «la coerenza del
sistema esige che sia parimenti riservato alla Corte il potere di dichiarare l'invalidità dello stesso atto, qualora questa
sia fatta valere dinanzi ad un giudice nazionale». Il giudice nazionale che nutra dei dubbi sulla validità di un atto
delle istituzioni, non ha altra scelta che sottoporre una questione pregiudiziale di validità alla Corte.
In questi casi, il rinvio diviene obbligatorio, anche se il giudice non è di ultima istanza. Viceversa, secondo la Corte, i giudici
nazionali «possono esaminare la validità di un atto comunitario e, se ritengono infondati i motivi d'invalidità addotti dalle parti,
respingerli, concludendo per la piena validità dell'atto».

3.2. Il I co. dell'art 263 definisce gli atti impugnabili facendo riferimento a tre criteri:
 l'autore
 il tipo
 gli effetti.
Circa l'autore, possono essere impugnati gli atti di tutte le istituzioni eccetto la Corte di giustizia e la Corte dei conti,
nonché gli atti degli organi o organismi dell'Unione. Tutti questi soggetti sono dotati di legittimazione passiva
nell'ambito del ricorso d'annullamento.
Quanto al tipo di atti impugnabili, l'art. 263, I co., distingue anzitutto gli atti legislativi dagli atti che tali non sono.
Gli atti legislativi sono sempre impugnabili. Per gli altri, che vengono designati genericamente come «atti»,
l'impugnabilità dipende dal terzo criterio, quello degli effetti. L'art. 263, infatti, mira a limitare l'impugnazione agli
atti non legislativi che sono atti a produrre «effetti giuridici nei confronti di terzi».
Per il Consiglio, la Commissione e la BCE questo scopo è raggiunto implicitamente, escludendo l'impugnabilità di
«raccomandazioni o pareri» e ammettendo, a contrario, l'impugnabilità di qualsiasi altro atto di tali istituzioni
appartenente alle altre categorie dell'art. 288 TFUE (regolamenti, direttive e decisioni). Per le altre istituzioni
(Parlamento europeo e Consiglio europeo) e per gli organi e organismi dell'Unione invece, considerata la natura per lo
più atipica degli atti che adottano, l'art. 263 stabilisce espressamente che deve trattarsi di atti «destinati a produrre
effetti giuridici nei confronti dei terzi».
I dubbi sul se l'atto sia destinato a produrre effetti giuridici obbligatori si pongono, in realtà, solo nei confronti degli atti atipici.
Mancando una definizione normativa degli stessi, è necessario valutarne, di volta in volta, la natura per dare una risposta.
Un caso particolare è dato dagli atti preparatori (o endo-procedimentali). Sono atti che esauriscono le varie fasi di un
procedimento complesso, destinato a sfociare in un provvedimento finale. In linea di principio, l'atto preparatorio, in quanto non
definitivo, non è autonomamente impugnabile. Pertanto, i suoi vizi vanno fatti valere impugnando l'atto finale (illegittimità
derivata). La soluzione è diversa solo qualora l'atto preparatorio sia in grado, già di per sé, di modificare la posizione giuridica
degli interessati. Un esempio di ciò è costituito dalla decisione della Commissione di dare avvio alla procedura di controllo degli
aiuti di Stato alle imprese, prevista dall'art. 108, par. 3, TFUE.
3.3. I soggetti legittimati a proporre il ricorso d'annullamento (legittimazione attiva) sono individuati dall'art.
263. Esso prevede condizioni diverse di ricevibilità. Può parlarsi di tre categorie di ricorrenti.
1° categoria: ricorrenti privilegiati. Comprende: Stati membri, Parlamento europeo, Consiglio, Commissione.
Si parla di ricorrenti privilegiati dal momento che il loro diritto di ricorso ha portata generale. In particolare essi
possono proporre ricorso contro qualunque atto che rientri nella definizione di atto impugnabile e non devono
dimostrare alcuno specifico interesse a ricorrere, essendo considerati portatori di un interesse generale alla
legittimità degli atti delle istituzioni.
Per Stati membri ai sensi dell'art. 263, II co., s’intendono «le sole autorità di Governo degli Stati membri delle Comunità europee» e
non anche gli «esecutivi di regioni e di comunità autonome, indipendentemente dalla portata delle competenze attribuite a questi
ultimi». Di conseguenza una regione che voglia impugnare un atto delle istituzioni deve rispettare le condizioni previste dal IV co.
per le persone fisiche o giuridiche.
A norma dell'art. 5, par. 2, L. 131/2003, (Legge La Loggia), «nelle materie di competenza legislativa delle Regioni e delle Province
autonome di Trento e di Bolzano, il Governo può proporre ricorso dinanzi alla Corte di giustizia delle Comunità europee avverso gli
atti normativi comunitari ritenuti illegittimi anche su richiesta di una delle Regioni o delle Province autonome” mentre il Governo «è
tenuto a proporre tale ricorso qualora esso sia stato richiesto dalla Conferenza Stato-Regioni a maggioranza assoluta delle Regioni e
delle Province autonome». La norma attribuisce alle Regioni o Province autonome, agendo individualmente, un mero potere di
sollecitare il ricorso, mentre, attraverso la citata Conferenza, con deliberazione a maggioranza assoluta, tali soggetti possono
addirittura obbligare il Governo al ricorso. Si tratterà comunque di un ricorso del Governo e dunque di ricorso di uno Stato
membro ai sensi del II co. dell'art. 263, quantunque sollecitato o imposto dalle Regioni.
Il Prot. n. 2 sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità prevede all'art. 8 un apposito tipo di ricorso
d'annullamento ai sensi dell'art. 263 TFUE in caso di violazione del principio di sussidiarietà. Il ricorso potrà essere proposto da
uno Stato membro o «trasmesso da quest'ultimo in conformità con il rispettivo ordinamento giuridico a nome del suo parlamento
nazionale o di una camera di detto parlamento nazionale». Anche il Comitato delle regioni può proporre un ricorso del genere
«avverso atti legislativi per l'adozione dei quali il trattato sul funzionamento dell'Unione europea richiede la sua consultazione».
2° categoria: Corte dei conti, BCE, Comitato delle regioni. La loro posizione può essere definita come quella di
ricorrenti intermedi. La legittimazione a ricorrere di tali soggetti non è generale, ma specificamente finalizzata a
«salvaguardare le proprie prerogative». Esse possono quindi ricorrere solo sostenendo che l'atto impugnato invade la
sfera riservata alle loro competenze o ne pregiudica l'esercizio.
3.4. 3° categoria: persone fisiche e giuridiche, note anche come ricorrenti non privilegiati. Le condizioni alle quali è
sottoposto il diritto di ricorso spettante a tali soggetti sono definite in maniera particolarmente restrittiva. Il IV co.
dell'art. 263 dispone: «qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre alle condizioni previste al I e II co., un ricorso
contro gli atti adottati nei suoi confronti o che lo riguardano direttamente ed individualmente e contro gli atti regola-
mentari che la riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura d'esecuzione».
Rispetto alla corrispondente norma del TCE, l'art. 230, IV co., che non era mai stato modificato, la norma attuale contiene alcune
novità. Non si parla più di decisioni e si è rinunciato all'immagine alquanto equivoca di una decisione che, pur riguardando la
persona del ricorrente direttamente ed individualmente, appare come un regolamento o come una decisione presa nei confronti di
altre persone. La nuova norma si riferisce ora ad «atti» adottati nei confronti del ricorrente o che «lo riguardano direttamente ed
individualmente». La parte finale dell'articolo è poi del tutto nuova e introduce una terza ipotesi («atti regolamentari che non
comportano alcuna misura d'esecuzione») che l'art. 230, IV co., TCE, non prevedeva affatto.

La norma disciplina tre ipotesi distinte.


La prima ipotesi è quella in cui una persona fisica o giuridica impugna un atto adottato «nei suoi confronti», cioè un
atto di cui il ricorrente sia il destinatario. In questo caso, occorre solo dimostrare di avere interesse a ricorrere (cioè
che la posizione giuridica del ricorrente è pregiudicata dalla permanenza dell'atto impugnato).
La seconda ipotesi è quella in cui una persona fisica o giuridica impugna un atto di cui formalmente non è il
destinatario. Per ricorrere contro un atto del genere il ricorrente deve dimostrare che l'atto «lo riguarda direttamente e
individualmente».
La terza ipotesi costituisce in realtà una deroga rispetto alla seconda. La persona fisica o giuridica anche in questo
caso non è il destinatario formale dell'atto impugnato. L'atto però deve a ) essere un atto regolamentare e b) non
comportare alcuna misura d'esecuzione. Per impugnare atti del genere al ricorrente basterà dimostrare che l'atto lo
riguarda direttamente (e non anche individualmente come nella seconda ipotesi).
In passato, l'identificazione di quando il doppio requisito dell'interesse diretto e dell'interesse individuale potesse
dirsi soddisfatto perché una persona fisica o giuridica fosse legittimata ad impugnare un atto di cui non era il
destinatario formale ha costituito un problema interpretativo dei più difficili e delicati dell'intero diritto dell'Unione.
L'introduzione nell'art. 263, IV co., TFUE della terza ipotesi relativa all'impugnazione degli atti regolamentari
rappresenta un tentativo, sia pure limitato, se non di superare, almeno di attenuare il rigore che la giurisprudenza
aveva sinora mostrato in proposito.
Al di fuori del ristretto campo d'applicazione della terza ipotesi, tuttavia, l'abbondante giurisprudenza relativa al
vecchio art. 230, IV co., TCE, resta valida ancora oggi.
3.5. Perché una persona fisica o giuridica possa impugnare una decisione rivolta ad un'altra persona fisica o
giuridica (che non sia uno Stato membro), basta dimostrare che il ricorrente è portatore di un interesse qualificato
all'annullamento dell'atto. Un siffatto interesse è spesso ritenuto implicito nel fatto di aver provocato l'avvio del
procedimento che ha portato all'adozione dell'atto impugnato o nell'avervi partecipato, presentando osservazioni che
sono state prese in considerazione nell'atto impugnato. In casi del genere, la ricevibilità del ricorso viene ammessa,
senza procedere ad un esame differenziato dell'interesse diretto rispetto a quello individuale.
La descritta soluzione è seguita riguardo all'impugnazione delle decisioni in materia di concorrenza. Nella sent. 1977, Metro, la
ricorrente, un'impresa di grande distribuzione, aveva presentato alla Commissione una denuncia contro un produttore di
apparecchi elettronici, SABA, che si rifiutava di ammettere Metro nella sua rete di distribuzione. Metro accusa SABA di violare gli
artt. 101 e 102 TFUE e invita la Commissione a far cessare il comportamento in questione. Dopo aver esperito il procedimento di
esame allora previsto, la Commissione emana invece una decisione nei confronti di SABA, in cui viene concessa un'esenzione ai
sensi dell'art. 101, par. 3. Non soddisfatta dell'esito della sua denuncia, Metro propone ricorso d'annullamento nei confronti della
decisione della Commissione. Senza mettere in dubbio che la decisione fosse correttamente indirizzata a SABA, la Corte dichiara il
ricorso ricevibile. La Corte motiva come segue: «nell'interesse e di una sana amministrazione della giustizia e di una corretta
applicazione degli artt. 85 e 86 [ora artt. 101 e 102 TFUE], è opportuno che le persone fisiche e giuridiche che, in forza dell'art. 3, n.
2, lett. b, del reg. n. 17, hanno facoltà di adire la Commissione per far rilevare le infrazioni dei suddetti artt. 85 e 86, siano
legittimate, se la loro domanda viene respinta, totalmente o parzialmente, ad esperire un'azione a tutela dei loro legittimi interessi».

3.6. Qualora l'atto impugnato sia costituito da un regolamento o anche da una decisione rivolta a uno o più Stati
membri, l'onere probatorio che il ricorrente non privilegiato deve superare è senz'altro maggiore.
Le difficoltà non riguardano tanto l'interesse diretto, inteso come dimostrazione che il ricorrente è pregiudicato
direttamente dall'atto impugnato e non da successivi provvedimenti di esecuzione o di attuazione adottati dalle
istituzioni o dagli Stati membri. Per i regolamenti, direttamente applicabili negli Stati membri, l'interesse diretto è in
re ipsa. Quanto alle decisioni rivolte a Stati membri, si tratta di provare che le autorità nazionali non dispongono di
alcun potere discrezionale riguardo all'applicazione della decisione o che, pur godendo della facoltà di non applicare
la decisione o di applicarla parzialmente, hanno già manifestato la loro volontà di dare all'atto piena applicazione.
Nel caso esaminato dalla sent. 1985, Piraiki-Patraiki, alcune imprese greche del settore del cotone impugnano una decisione della
Commissione rivolta alla Francia, con la quale viene concessa, in base ad una disposizione transitoria dell'Atto di adesione della
Grecia, l'autorizzazione ad applicare un regime di quote all'importazione in Francia di filati di origine greca. La Commissione
contesta l'interesse diretto delle ricorrenti, sostenendo che il pregiudizio per le ricorrenti non deriverebbe dalla decisione
impugnata, ma dai provvedimenti francesi adottati in base all'autorizzazione nella decisione. La Corte respinge l'argomento.

3.7. Il vero «scoglio» è costituito dall'interesse individuale. In proposito, la giurisprudenza applica una formula
particolarmente rigorosa, risalente alla sent. 1963, Plaumann. Trattando dell'impugnazione da parte di un'impresa di
una decisione della Commissione rivolta ad uno Stato membro, la Corte afferma: «chi non sia destinatario di una
decisione può sostenere che questa lo riguarda individualmente soltanto qualora il provvedimento lo tocchi a causa dì
determinate qualità personali, o di particolari circostanze atte a distinguerlo dalla generalità, e quindi lo identifichi alla
stessa stregua dei destinatari».
Nel caso Plaumann, una società tedesca impugna una decisione della Commissione rivolta alla Germania, con la quale tale Stato
veniva autorizzato a sospendere la riscossione del dazio doganale sui mandarini e sulle clementine importati da paesi terzi.
Plaumann sostiene di essere individualmente pregiudicata dalla decisione nella sua qualità di importatore in Germania di tali
prodotti. La Corte respinge l'argomento motivando così: «nel caso in esame, il provvedimento impugnato colpisce la ricorrente nella
sua qualità di importatore di clementine, cioè a causa di un'attività commerciale che può essere sempre esercitata da chiunque e non
è quindi atta ad identificare la ricorrente agli effetti delle decisione impugnata, nello stesso modo dei destinatari».

Dalla formula Plaumann e dalla giurisprudenza ad essa ispirata si evince che ciò che rileva non è che l'atto
impugnato colpisca il ricorrente, ma a quale titolo il ricorrente sia colpito. Non basta che ciò avvenga in quanto il
ricorrente appartiene ad una categoria (anche ristretta) di soggetti astrattamente individuata (es. importatori di
clementine). In casi del genere il ricorrente è colpito alla stessa stregua di ogni altro appartenente (attuale o
potenziale) alla medesima categoria e non «alla stessa stregua dei destinatari». Occorre invece dimostrare che l'atto
ha preso (o avrebbe dovuto prendere) in considerazione proprio la posizione individuale del ricorrente e pertanto a)
produce effetti giuridici soltanto sulla sua posizione individuale o b ) produce sul ricorrente effetti giuridici diversi
(presumibilmente più gravi) rispetto a quelli che si producono a carico di tutti gli altri soggetti.
Talvolta è necessario ricorrere allo smascheramento dell'atto: il ricorrente deve fornire la dimostrazione che l'atto
non è quel che appare, ma, in sostanza, è una decisione individuale nei suoi confronti.
Allo smascheramento si è talvolta pervenuti in casi di impugnazione di regolamenti. Nella sent. 1971, International Fruit, la Corte
esamina un ricorso avente ad oggetto un regolamento della Commissione, con il quale erano state prorogate, per un determinato
periodo, talune misure di salvaguardia riguardanti l'importazione da paesi terzi di mele. Le importazioni erano soggette ad un
regime di licenze, che sarebbero state rilasciate mediante regolamento della Commissione, a concorrenza dell'80% delle richieste. I
ricorrenti avevano presentato richiesta di licenza, che il regolamento impugnato aveva loro concesso solo nella misura indicata. La
Corte considera ricevibile il ricorso. Essa rileva che il regolamento impugnato «è stato adottato tenendo conto della situazione del
mercato e, inoltre, dei quantitativi di mele da tavola per i quali erano state presentate domande di licenze d'importazione durante la
settimana che finiva il 22 maggio 1970. Al momento dell'adozione del suddetto regolamento, il numero delle domande cui esso
poteva applicarsi era quindi determinato, né poteva essere aumentato. La percentuale in cui dette domande potevano essere
soddisfatte veniva determinata in base al quantitativo globale cui esse si riferivano». La Corte conclude che il regolamento «non
costituisce una disposizione avente portata generale ai sensi dell'art. 189, 2° co. del trattato [ora art. 288, 2° co. TFUE], ma
dev'essere considerato come una pluralità di decisioni individuali adottata dalla Commissione, decisioni che modificano la situazione
giuridica dei singoli richiedenti» e pertanto «riguardano individualmente i ricorrenti».

In altri casi, senza bisogno di contestare la natura normativa dell'atto impugnato, è sufficiente dimostrare che l'atto
contiene disposizioni che riguardano in maniera individuale determinati operatori economici.
Nella sent. 1991, Extramet, la principale importatrice nella Comunità di calcio metallico originario della Cina e dell'Unione
sovietica impugna un regolamento che istituisce un dazio antidumping sull'importazione dei prodotti in questione. I dazi
antidumping costituiscono una misura di difesa commerciale contro le importazioni originarie di Stati terzi effettuate in dumping,
cioè ad un prezzo inferiore al valore normale. Nella sentenza, la Corte, senza mette in discussione il carattere normativo dei
regolamenti istitutivi di dazi antidumping, ricorda che «non è escluso che le loro disposizioni possano riguardare individualmente
determinati operatori economici». Secondo la Corte, la circostanza che Extramet sia la principale importatrice del prodotto colpito
dal dazio e, nel contempo, l'utilizzatrice finale del prodotto stesso, nonché la considerazione delle gravi ripercussioni che le sue
attività economiche subiscono in conseguenza del dazio permettono di concludere che «la ricorrente ha fornito la prova
dell'esistenza di un complesso di elementi atti a dimostrare il ricorrere di una situazione particolare che, in relazione al procedimento
di cui trattasi, la contraddistingue rispetto a qualsiasi altro operatore economico».

La presenza di un interesse individuale è inoltre dimostrata dalla circostanza che l'atto impugnato contenga un
espresso riferimento a determinati soggetti, o dalla circostanza che il comportamento di determinati soggetti sia
stato preso in considerazione nel corso del procedimento per l'emanazione dell'atto impugnato.
Nel caso di impugnazione di regolamenti istitutivi di dazi antidumping, la Corte ammette la ricevibilità delle impugnazioni
proposte dalle imprese produttrici e esportatrici del prodotto colpito dal dazio.

L'interesse individuale può ancora derivare dalle caratteristiche del procedimento che conduce all'atto impugnato.
Qualora, infatti, sia prescritto che il procedimento coinvolga obbligatoriamente determinati soggetti o sia garantita la
partecipazione di altri soggetti interessati, si presume che tutti questi soggetti siano portatori di un interesse
qualificato che consente loro l'impugnazione dell'atto finale, indipendentemente dalla sua natura.
Un esempio è dato dalle decisioni in materia di aiuti statali alle imprese. Il procedimento è regolato dall'art. 108 TFUE e, ora,
dal reg. 659/1999. Lo stesso art. 108, par. 2, prevede che, prima di rivolgere allo Stato membro interessato una decisione in
materia di aiuti, la Commissione debba «intimare agli interessati di presentare le loro osservazioni».

In maniera analoga, l'interesse individuale è provato se l'istituzione autrice dell'atto impugnato è soggetta all'obbligo
di prendere in considerazione la posizione giuridica di determinati soggetti (anche se ciò non sia avvenuto).
Nella sent. 1990, Sofrimport, la ricorrente impugna un regolamento della Commissione che sospende il rilascio di titoli di
importazione per mele da tavola originarie del Cile. Sofrimport sostiene che il regolamento le impedisce l'importazione di una
partita già in corso di spedizione alla data di adozione del regolamento e per la quale era già stato richiesto il rilascio dei relativi
titoli d'importazione. La Corte constata che un articolo del regolamento di base del Consiglio impone alla Commissione di tenere
conto della situazione particolare dei prodotti già avviati verso la Comunità. Secondo la Corte, tale articolo «conferisce una
protezione specifica» agli importatori che, come Sofrimport, si trovavano nella descritta situazione alla data di adozione del
regolamento impugnato, «i quali, pertanto, debbono poter esigere che detta protezione sia rispettata ed essere in grado di proporre a
tal fine un ricorso giurisdizionale».

3.8. Le notevoli difficoltà che le persone fisiche o giuridiche incontrano per dimostrare l'esistenza delle condizioni
previste dall'art. 230, IV co. TCE aveva spinto molti a chiedere un'attenuazione del rigore mostrato finora dalla
giurisprudenza. In particolare era stato evidenziato il rischio che si potessero produrre lacune nel sistema di tutela
giurisdizionale in situazioni in cui i soggetti pregiudicati non dispongano di alcun rimedio giurisdizionale effettivo in
alternativa al ricorso diretto ai sensi dell'art. 230, IV co., TCE. Lacune si sarebbero potute avere, in particolare, nel
caso di regolamenti che non richiedono alcun provvedimento d'esecuzione da parte delle autorità nazionali. In casi
del genere, sarebbe infatti venuta meno anche la possibilità per gli interessati di rimettere in discussione la
legittimità del regolamento, impugnando il provvedimento nazionale d'esecuzione e inducendo il giudice nazionale
competente a sollevare questione pregiudiziale ai sensi dell'art. 234 TCE (ora art. 267 TFUE) circa la validità del
regolamento cui il provvedimento nazionale dà esecuzione. Ciò avrebbe comportato una violazione del diritto
fondamentale ad un rimedio giurisdizionale effettivo.
Facendosi carico di tali preoccupazioni, l'avv. gen. Jacobs, nelle conclusioni presentate nel 2002 nella causa Union de Pequenos
agricultores, sostiene che, nel caso di regolamenti non richiedenti provvedimenti nazionali di esecuzione, s’impone
un'interpretazione meno restrittiva dei requisiti di ricevibilità previsti dall'art. 230, IV co., TCE e propone di considerare un
soggetto «individualmente riguardato da un atto comunitario nel caso in cui, in ragione delle circostanze di fatto a lui particolari, tale
atto pregiudichi o possa pregiudicare in modo sostanziale i suoi interessi». Nella successiva sent. 2002, Jégo-Quéré, il Tribunale di
primo grado, occupandosi dell'impugnazione di un regolamento dello stesso tipo, condivide la necessità evidenziata dall'avv. gen.
Jacobs di attenuare il rigore della giurisprudenza relativa all'art. 230, IV co., TCE.
L'avv. gen. Jacobs suggerisce di dare rilievo all'importanza del pregiudizio subito (attualmente o potenzialmente) dal ricorrente,
mentre il Tribunale propone di concentrarsi sul carattere certo ed attuale del pregiudizio. Nessuno di tali suggerimenti è stato
accolto dalla Corte. Nella sent. Union de Pequenos agricultores, la Corte rifiuta l'idea stessa che l'interpretazione dei requisiti di
ricevibilità di cui all'art. 230, IV co., TCE possa variare a seconda che, in ciascun caso di specie, il ricorrente disponga o meno di
un rimedio giudiziario effettivo a livello nazionale. Un sistema del genere comporterebbe infatti «che, per ogni caso specifico, il
giudice comunitario esamini e interpreti il diritto processuale nazionale, il che esulerebbe dalla sua competenza nell'ambito del
controllo della legittimità degli atti comunitari». Esulerebbe inoltre dai compiti della Corte di giustizia adottare un'interpretazione del
requisito dell'interesse individuale che conduca «ad escludere il requisito di cui trattasi». In conclusione, la Corte pone sui giudici
nazionali l'onere di interpretare le norme processuali del loro ordinamento, in maniera da consentire ai soggetti interessati di
esperire rimedi giudiziari effettivi contro atti comunitari invalidi, in attesa che siano gli Stati membri, in conformità all'art. 48
TUE, a «riformare il sistema attualmente in vigore». Tale soluzione è stata poi ribadita nella sentenza Jégo-Quéré.

La terza ipotesi ora prevista dall'art. 263, IV co., TFUE, sembra prendere in considerazione proprio casi del tipo di
quelli oggetto delle sentenze Union de Pequenos agricultores e Jégo-Quéré.
La nuova frase finale del IV co. infatti stabilisce condizioni di ricevibilità dei ricorsi individuali meno severe (basta
dimostrare soltanto che l'atto riguarda il ricorrente «direttamente»). Tali condizioni però valgono soltanto se oggetto
d'impugnazione sono: «atti regolamentari» «che non comportano alcuna misura di esecuzione».
La nozione di «atti regolamentari che non comportano alcuna misura d'esecuzione» sembra alludere ad una particolare categoria di
atti probabilmente non legislativi ma di portata generale, non menzionata altrove nei trattati, e perciò stesso di incerta definizione.
Ci si domanda, ad esempio, se l'uso del termine «regolamentari» escluda a priori dalla categoria atti che formalmente non siano
regolamenti ai sensi dell'art. 288, II co., TFUE, in particolare le decisioni generali che non designano i destinatari. Non è chiaro
inoltre se il termine «misure d'esecuzione» vada inteso in senso restrittivo, come se si riferisse alle sole misure di cui all'art. 291,
par. 2 e ss. TFUE, o se vi possano essere incluse anche le misure d'attuazione adottate dagli Stati membri ai sensi del par.
dello stesso articolo o gli atti delegati di attuazione di cui all'art. 290.

3.9. L'art. 263, II co., elenca i vizi di legittimità, che possono essere fatti valere in un ricorso d'annullamento:
a) incompetenza: può essere
- Interna: si ha nel caso in cui l'istituzione che emette l'atto non ha il potere di farlo, perché tale potere spetta
ad altra istituzione (principio dell'equilibrio istituzionale).
- Esterna: si ha quando nessuna istituzione ha il potere di emanare l'atto in questione, che non rientra affatto
nella competenza dell'Unione ma, semmai, in quella degli Stati membri (principio d'attribuzione).
b) violazione delle forme sostanziali: sussiste quando non sono rispettati quei requisiti formali di tale importanza
da influire sul contenuto dell'atto. Può trattarsi, anzitutto, di forme relative al procedimento da seguire per
l'emanazione dell'atto, quali ad esempio l'obbligo di consultazione del Parlamento o del Comitato economico e sociale
o, in materia di concorrenza, l'audizione delle imprese interessate prima dell'adozione della decisione finale.
Un atto adottato senza osservare tali formalità è viziato e deve essere annullato.
Altre ipotesi di forme sostanziali attengono all'atto in quanto tale. La più importante è costituita dalla violazione
dell'obbligo di motivazione. Il difetto di motivazione è considerato d'ordine pubblico, rilevabile, in quanto tale,
d'ufficio. Secondo la Corte, l'obbligo di motivazione «mira, per un verso, a consentire agli interessati di conoscere le
ragioni del provvedimento adottato per poterne valutare la fondatezza e, per altro verso, a permettere al giudice
competente di esercitare il proprio controllo» (sent. 2010, E e F). La sentenza riguarda la validità di un regolamento del
Consiglio che, in forza di una posizione comune PESC, dà attuazione per quanto riguarda l'Unione ad una risoluzione del
Consiglio di sicurezza ONU, avente ad oggetto la lotta al terrorismo. Il regolamento contiene in allegato un elenco di persone
fisiche o giuridiche sospette. L'elenco è periodicamente aggiornato. L'iscrizione nell'elenco avviene in seguito alla segnalazione che
contro una determinata persona l'autorità giudiziaria o equivalente di uno Stato membro ha aperto un'indagine o iniziato
un'azione penale per atti di terrorismo. I capitali e i beni delle persone iscritte nell'elenco sono congelati. Gli Stati membri
sanzionano coloro che violano il blocco.
L'obbligo di motivazione risulta violato quando la motivazione è del tutto assente o quando è insufficiente.
L'estensione che la motivazione deve assumere varia in ragione della natura dell'atto in questione: se l'atto è
destinato ad avere effetti individuali, come accade in genere per le decisioni, la motivazione dovrà essere più precisa
e dettagliata che per un atto destinato ad operare con efficacia generale, come un regolamento o una direttiva. Si
deve inoltre tener conto del contesto in cui l'atto è stato adottato.
c) violazione dei trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione: vizio più frequentemente
invocato, dal momento che, da un punto di vista logico, esso ingloba anche l'incompetenza e la violazione di forme
sostanziali. Il vizio è espressione del principio della gerarchia delle fonti dell'Unione e può riguardare la violazione di
qualunque norma giuridica che sia da considerare superiore rispetto all'atto impugnato, compresi i principi generali,
i diritti fondamentali, i principi del diritto internazionale generale e gli accordi internazionali.
d) sviamento di potere: si ha quando un'istituzione emana un atto che ha il potere di adottare, perseguendo però
scopi diversi da quelli per i quali il potere le è stato attribuito. Tale vizio è riscontrabile in casi molto rari.
3.10. A norma dell'art. 263, IV co., TFUE, il termine di ricorso è di due mesi. Esso decorre:
 dalla pubblicazione sulla GU, se l'atto è stato pubblicato;
 dalla notificazione, se l'atto è stato notificato (solo per il destinatario della notificazione);
 in mancanza di pubblicazione o notifica, dal giorno in cui il ricorrente ha avuto conoscenza dell'atto.
3.11. L'art. 264 TFUE disciplina l'efficacia delle sentenze di annullamento.
I co.: pone la regola generale, disponendo: «se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia dichiara nullo e non avvenuto
l'atto impugnato». La sentenza ha quindi portata generale e retroattiva: l'atto è nullo erga omnes, e la nullità
retroagisce al momento in cui l'atto è stato emanato. II co.: prevede un'eccezione alla regola generale: «Tuttavia la
Corte, ove lo reputi necessario, precisa gli effetti dell'atto annullato che devono essere considerati definitivi». L'eccezione
è dunque affidata alla Corte, la quale può limitare discrezionalmente gli effetti della sentenza che annulla l'atto.
Ai sensi dell'art. 266, I co., TFUE «l'istituzione, l'organo o l'organismo da cui emana l'atto annullato sono
tenuti a prendere i provvedimenti che l'esecuzione della sentenza della Corte di giustizia dell'Unione comporta». Tale
obbligo vale, in particolare, nel caso in cui il mero annullamento per effetto della sentenza della Corte si riveli
insufficiente. È comunque fatto salvo il diritto degli interessati a far valere la responsabilità extracontrattuale
dell'autore dell'atto annullato.
3.12. Il controllo sugli atti delle istituzioni esercitato dalla Corte di giustizia in base all'art. 263 è un controllo di
mera legittimità. La sentenza pertanto si limita ad annullare l'atto, qualora sia riscontrata l'esistenza di un vizio di
legittimità e il ricorso venga accolto. L'art. 261 TFUE prevede tuttavia che regolamenti adottati congiuntamente dal
Parlamento e dal Consiglio o dal solo Consiglio possano attribuire alla Corte di giustizia anche una competenza di
merito, limitata al riesame delle sanzioni previste nel regolamento stesso. In casi del genere, la Corte dispone del
potere di modificare l'ammontare della sanzione.
3.13. Prima del Trattato di Lisbona, l'art. 35, par. 6, TUE prevedeva che la Corte di giustizia esercitasse un controllo
di legittimità analogo al ricorso d'annullamento di cui all'art. 263 TFUE riguardo alle decisioni quadro o alle decisioni
adottate nell'ambito del III pilastro. Il ricorso poteva essere promosso da uno Stato membro o dalla Commissione,
entro due mesi dalla pubblicazione dell'atto. Per effetto dell'art. 10 del Prot. n. 36 sulle disposizioni transitorie, per
un periodo di cinque anni, la competenza della Corte di giustizia resterà limitata in merito tanto agli atti impugnabili
quanto ai soggetti legittimati a presentare il ricorso, salvo per gli atti che subiranno modifiche in questo periodo.

4. Il ricorso in carenza.
4.1. Il ricorso in carenza è disciplinato dall'art. 265 TFUE. Esso costituisce un'altra forma di controllo giurisdizionale
della legittimità del comportamento delle istituzioni. L'oggetto del controllo in questi casi è un comportamento
omissivo (per definire il quale è invalso l'uso del termine carenza) che si assume illegittimo, perché tenuto in
violazione di un obbligo di agire previsto dai trattati. I presupposti del ricorso sono perciò:
 l'esistenza di un obbligo di agire a carico dell'istituzione in causa;
 la violazione dell'obbligo stesso.
4.2. Essendo necessaria la presenza di un obbligo di agire, è escluso che si possa ricorrere in carenza contro
l'omissione di atti la cui adozione è affidata alla discrezionalità delle istituzioni.
Non può, ad esempio, esperirsi ricorso in carenza contro l'omessa emanazione di un parere motivato ai sensi dell'art. 258 TFUE:
sent. 1989, Star Fruit. Dopo alcuni tentennamenti, la giurisprudenza ha finito invece per ammettere la possibilità di ricorrere ai
sensi dell'art. 265 da parte di colui il quale ha presentato alla Commissione una denuncia contro alcune imprese, per violazione
delle regole di concorrenza (artt. 101 o 102 TFUE) o una denuncia contro uno Stato membro, per violazione delle regole relative
agli aiuti di stato (artt. 107 e 108 TFUE). Nel primo caso, è stato riconosciuto che un ricorso in carenza può essere proposto in
caso di mancato avvio del procedimento di indagine ovvero di mancata adozione di una decisione definitiva di rigetto della
denuncia entro un termine ragionevole. Per il caso di denuncia per violazione delle regole in materia di aiuti di stato, si veda la
sent. 1998, causa T-95/96, Telecinco, nella quale il Tribunale ammette la ricevibilità di un ricorso presentato da un denunciante e
riconosce implicitamente l'esistenza, in casi del genere, di un obbligo di agire a carico della Commissione.

4.3. La violazione di un obbligo di agire può essere fatta valere tramite un ricorso ai sensi dell'art. 265 a condizione
che a) «l'istituzione, l'organo o l'organismo in causa siano stati previamente richiesti di agire» e b) sia scaduto «un
termine di due mesi da tale richiesta » senza che l'istituzione abbia «preso posizione» (art. 232, II co.).
In mancanza, il ricorso non è ricevibile. Anche l'art. 265 prevede una fase precontenziosa obbligatoria.
La richiesta di agire (messa in mora o diffida) deve essere formulata in maniera tale che l'istituzione comprenda che,
in caso di inerzia, rischia di subire la presentazione di un ricorso. Inoltre, deve indicare con chiarezza e precisione i
provvedimenti che l'istituzione è richiesta di adottare.
Per interrompere la mora, è sufficiente che l’istituzione essa prenda posizione. Anche un atto di contenuto negativo
(il rifiuto espresso e motivato di emanare l'atto richiesto), o l'adozione di un atto di contenuto non coincidente con la
richiesta costituiscono prese di posizione ai sensi del II co. dell'art. 265 e rendono un eventuale ricorso privo di
oggetto. Resta salva la possibilità di impugnare tali atti ai sensi dell'art. 263 TFUE. La presa di posizione, tuttavia,
deve essere definitiva. Una comunicazione di carattere meramente interlocutorio lascerebbe sussistere la mora.
Particolarmente delicata e sofferta è la soluzione raggiunta riguardo alle comunicazioni della Commissione, previste dall'art. 6 del
reg. 99/63/CEE della Commissione relativo alle audizioni previste all'art. 19, par. 1 e 2, del reg. 17. Tali comunicazioni sono
rivolte a chi abbia presentato una denuncia relativa a comportamenti contrari agli artt. 101 o 102 TFUE. Tramite esse, la
Commissione informa il denunciante di non ritenere di poter accogliere la denuncia, ne indica i motivi e fissa un termine per
eventuali osservazioni scritte. Nel caso esaminato nella sent. 1997, Guérin, la ricorrente aveva presentato una denuncia alla
Commissione contro il comportamento di Volvo France, accusata di aver violato l'art. 102 per averla esclusa dalla sua rete di
distribuzione. La Commissione aveva inviato alla denunciante una comunicazione ai sensi dell'art. 6 cit. Guérin aveva presentato
le proprie osservazioni, ma la Commissione non aveva poi adottato alcuna ulteriore decisione. La ricorrente sostiene che la
comunicazione non costituisce una presa di posizione ai sensi dell'art. 265, II co.: essa non interromperebbe la mora, dal
momento che ha carattere meramente interlocutorio e potrebbe non essere seguita (come era avvenuto nella specie) da alcuna
decisione definitiva. La Corte, confermando la sentenza di primo grado del Tribunale, respinge la tesi della ricorrente, dichiarando
che la carenza era stata interrotta dalla comunicazione di cui all'art. 6. Essa afferma, tuttavia, che, qualora la Commissione, dopo
la presentazione delle osservazioni in risposta alla comunicazione, si astenga dall'adottare una decisione definitiva in un tempo
ragionevole, si formerà una nuova carenza contro la quale il denunciante avrà il diritto di presentare ricorso ai sensi dell'art. 265.

Se l'istituzione non prende posizione entro due mesi dalla richiesta, il soggetto che l'ha formulata può presentare
ricorso alla Corte di Giustizia entro ulteriori due mesi (fase contenziosa).
Qualora la presa di posizione intervenga decorsi i due mesi dalla richiesta o addirittura dopo la presentazione del ricorso (ma
prima che la Corte di giustizia abbia statuito), il ricorso diviene privo di oggetto, salva la possibilità della condanna dell'istituzione
alle spese processuali.

4.4. I soggetti, contro i quali può essere proposto il ricorso in carenza (legittimazione passiva):
- Parlamento europeo, Consiglio europeo, Consiglio, Commissione e la BCE;
- gli organi e organismi dell'Unione.
I soggetti che possono adire il giudice comunitario (legittimazione attiva) sono distinti in due categorie.
I soggetti appartenenti alla prima categoria possono essere definiti ricorrenti privilegiati, disponendo di un diritto
di ricorso particolarmente ampio e non soggetto a limitazioni attinenti all'interesse a ricorrere o al tipo di carenza
contestata. Essi sono «gli Stati membri e le altre istituzioni».
4.5. La seconda categoria include «ogni persona fisica o giuridica». Si parla di ricorrenti non privilegiati, in quanto
tali soggetti dispongono solo di un diritto di ricorso limitato. Art. 265 III co.: «Ogni persona fisica e giuridica può adire
la Corte alle condizioni stabilite dai commi precedenti per contestare ad un'istituzione, organo o organismo dell'Unione
di avere omesso di emanare nei suoi confronti un atto che non sia una raccomandazione o un parere».
Alla disposizione potrebbero essere date due interpretazioni differenti.
1- Secondo la prima, posto che solo le decisioni possono essere emanate nei confronti di una persona fisica o
giuridica, la norma legittimerebbe tali persone a ricorrere esclusivamente contro l'omissione di una decisione
della quale sarebbero i destinatari formali.
2- Secondo la seconda, andrebbe letto alla luce dell'art. 263, IV co. La norma dovrebbe consentire alle persone
fisiche e giuridiche di ricorrere anche contro l'omissione di un regolamento o di una decisione da rivolgere ad
altre persone, a condizione di dimostrare che l'atto omesso, se emanato, riguarderebbe direttamente ed
individualmente il ricorrente.
La seconda interpretazione ha prevalso in giurisprudenza. Nella sent. 1996, T. Port, la Corte ha ammesso che «l'art.
175 [ora art. 265], III co., dev'essere interpretato nel senso che conferisce loro [alle persone fisiche o giuridiche] anche
la facoltà di proporre il ricorso per carenza contro un'istituzione che abbia omesso di adottare un atto che li
riguarderebbe allo stesso modo [direttamente e individualmente]. La possibilità per i singoli di far valere i propri diritti
non può infatti dipendere dall'azione o dall'inerzia dell'istituzione considerata».
Nella sent. 1998, Telecinco, il Tribunale ha fatto applicazione del principio stabilito dalla Corte nel caso di un ricorso in carenza
presentato contro la Commissione, per mancata apertura del procedimento di esame ai sensi dell'art. 108 TFUE per aiuti di
Stato.

4.6. Se il ricorso viene accolto, il giudice comunitario emana una sentenza di accertamento. Non spetta alla Corte
colmare la carenza, adottando l'atto omesso, e nemmeno condannare l'istituzione responsabile ad un obbligo di
facere specifico. La sentenza fa però sorgere a carico dell'istituzione un obbligo di agire. Anche in questo caso si
applica l'art. 266, I co. All'istituzione, organo o organismo «la cui astensione sia stata dichiarata contraria ai trattati»
viene imposto il dovere di «prendere i provvedimenti che l'esecuzione della sentenza della Corte di giustizia comporta».
5. Il ricorso per risarcimento di danni.
5.1. Ai sensi dell'art. 268 TFUE, « l a Corte di giustizia dell'Unione è competente a conoscere delle controversie relative
al risarcimento dei danni di cui all'art. 340, II e III comma». A sua volta l'art. 340, II co., recita: « I n materia di
responsabilità extracontrattuale, l'Unione deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati
membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell'esercizio delle loro funzioni».
Il III co. si riferisce alla BCE e ha un contenuto identico al II. L'unica differenza è che non l'intera Unione ma la sola BCE è
chiamata a risarcire i danni da essa cagionati o dai suoi agenti.
La competenza della Corte di giustizia è limitata a danni derivanti da responsabilità extracontrattuale.
Riguardo alla responsabilità contrattuale dell'Unione, la competenza della Corte di giustizia può essere prevista da una clausola
compromissoria inserita nel contratto.

5.2. Nel contesto delle varie competenze della Corte, la definizione di ciò che debba intendersi per «controversie
relative al risarcimento dei danni di cui all'art. 340, II e III comma» ha dato luogo a notevoli difficoltà.
Anzitutto, si è tentato di assimilare il ricorso per risarcimento al ricorso d'annullamento e a quello in carenza,
sostenendo che, in pratica, esso mira a conseguire risultati analoghi: eliminazione degli effetti giuridici di un atto o di
un comportamento omissivo delle istituzioni. L'obiettivo era quello di estendere anche al ricorso per risarcimento le
condizioni di ricevibilità molto restrittive previste dagli artt. 263, IV co. e 265, III co. La Corte non si è prestata a tale
manovra. Essa ha invece insistito sul fatto che il ricorso per risarcimento «è concepito dal Trattato come un rimedio
autonomo, dotato di una propria funzione che lo distingue dalle altre azioni esperibili e sottoposto a condizioni di
esercizio che tengono conto del suo oggetto specifico». Ne consegue che «sarebbe in contrasto con tale autonomia, come
pure con l'intero sistema dei rimedi giuridici istituiti dal Trattato, il considerare come causa di irricevibilità il fatto che, in
determinate circostanze, l'esercizio dell'azione di danni può avere conseguenze analoghe a quelle dell'azione in carenza
contemplata dall'art. 175 [ora art. 268 TFUE]» (sent. 1971, Lutticke). Nella sent.1971, Zuckerfabrik Schóppenstedt, a
proposito della differenza tra ricorso per risarcimento e ricorso d'annullamento, la Corte precisa che il ricorso per
risarcimento «differisce dall'azione di annullamento in quanto tende ad ottenere, non l'eliminazione di un atto
determinato, bensì il risarcimento del danno causato da un'istituzione nell'esercizio dei suoi Compiti».
Nella sent. Zuckerfabrik Schóppenstedt, un produttore tedesco di zucchero grezzo chiede il risarcimento del danno subito per la
fissazione di criteri (a suo dire) discriminatori di misure di integrazione dei prezzi in occasione dell'instaurazione della
organizzazione comune dei mercati agricoli nel settore dello zucchero. Le misure in questione erano state fissate da un
regolamento del Consiglio e avevano provocato, secondo la ricorrente, un abbassamento dei prezzi in Germania, con conseguenti
danni. Il Consiglio sostiene che il ricorso è irricevibile in quanto diretto contro un regolamento senza che siano soddisfatte dal
ricorrente le condizioni relative all'interesse diretto e individuale previste dall'art. 263, IV co. La Corte respinge l'eccezione.

5.3. È stato inoltre necessario distinguere il ricorso per risarcimento dalle azioni che i soggetti interessati possono
esperire dinanzi ai giudici degli Stati membri. Il criterio distintivo è legato, oltre che all'oggetto della pretesa del
singolo, anche alla disponibilità di un'azione da proporre dinanzi ai giudici nazionali, che sia in grado di soddisfare
pienamente la pretesa stessa. Se un'azione del genere è possibile, la competenza della Corte ai sensi dell'art. 268 è
esclusa. Il ricorso per risarcimento si configura pertanto come un rimedio residuale rispetto alla tutela che possono
offrire i giudici nazionali.
Nella sent. 1979, Wagner, un operatore aveva chiesto all'ente tedesco incaricato dell'applicazione della politica agricola comune
(BALM), l'annullamento di una licenza di esportazione di zucchero e lo svincolo della cauzione costituita a garanzia
dell'effettuazione dell'operazione. Il BALM respingeva la richiesta, applicando all'operazione un regolamento della Commissione
che escludeva, a partire da una certa data, la possibilità di ottenere l'annullamento delle licenze d'esportazione. Tuttavia, come
era risultato da una successiva sentenza della Corte, il regolamento della Commissione non era applicabile ratione temporis alla
richiesta di Wagner. Wagner presenta ricorso per risarcimento contro la Commissione, ritenendola responsabile dei danni subiti.
La Commissione eccepisce l'irricevibilità del ricorso, sostenendo che esso mette in discussione la legittimità di provvedimenti
adottati dal BALM. La Corte accoglie l'eccezione.

5.4. I presupposti della responsabilità extracontrattuale della Comunità vanno tratti dai «principi generali comuni ai
diritti degli Stati membri» (art. 340, II co.), principi che spetta alla giurisprudenza individuare.
Secondo la Corte, «presupposti della responsabilità della Comunità sono un danno effettivo, un nesso causale tra
danno e comportamento delle istituzioni e l'illegittimità di questo comportamento» (sent. Lutticke cit.).
I presupposti della responsabilità dell'Unione sono normalmente tre:
 Danno
 illegittimità del comportamento delle istituzioni
 nesso di causalità tra il danno e il comportamento.
A questi presupposti che sono sempre necessari, se ne aggiungono altri due qualora il comportamento delle
istituzioni consista nell'esercizio di poteri caratterizzati da un ampio margine di discrezionalità e, in particolare,
nell'adozione di atti normativi (es. regolamenti) implicanti scelte di politica economica (es. nell'ambito della politica
agricola comune). In questi casi non basta dimostrare la mera illegittimità del comportamento e, in particolare,
dell'atto dal quale il danno è derivato, ma è altresì necessario che:
a ) la norma violata dalle istituzioni sia preordinata a conferire diritti ai singoli;
b ) la violazione di tale norma sia sufficientemente caratterizzata, cioè che si tratti di violazione grave e manifesta.
Originariamente la giurisprudenza richiedeva anche che la norma violata fosse una norma superiore. Tale requisito sembra
essere stato abbandonato, avendo la Corte ritenuto di allineare i presupposti della responsabilità delle istituzioni a quelli cui è
subordinata la responsabilità degli Stati membri per danni derivanti dalla violazione di norme dell'Unione.

La scelta di subordinare la responsabilità delle istituzioni in caso di esercizio di poteri discrezionali e, in particolare,
normativi a specifici presupposti aggiuntivi discende dalla necessità di evitare che l'istituzione in questione sia
«ostacolata nelle sue decisioni dalla prospettiva di azioni di danni ogni volta che debba adottare, nell'interesse
generale, provvedimenti normativi che possono ledere interessi di singoli», potendosi invece pretendere dal singolo che
«sopporti, senza poter farsi risarcire col denaro pubblico, determinati effetti, dannosi per i suoi interessi economici,
prodotti da un atto normativo, anche se questo viene dichiarato invalido» (sent. 1978, Bayerische HNL).
Uno dei pochi casi in cui la Corte ha affermato la responsabilità della Comunità per danni provocati da atti normativi è quello
esaminato nella sent. 1992, Mulder. Nel contesto della normativa comunitaria mirante a scoraggiare la produzione eccedentaria di
latte, un regolamento del Consiglio aveva previsto che, in cambio di un premio, i produttori potevano sottoscrivere un impegno di
non commercializzazione di durata quinquennale. Il sig. Mulder, produttore dei Paesi Bassi, aveva sottoscritto questo impegno.
Successivamente un regolamento del Consiglio aveva introdotto un sistema di quote di produzione (quantitativi di riferimento) il
cui calcolo era basato sui quantitativi di prodotto consegnato alla commercializzazione da ciascun produttore durante l'anno di
riferimento. Tale anno cadeva all'interno del quinquennio in cui era in vigore l'impegno di non commercializzazione. Alla scadenza
dell'impegno, al sig. Mulder veniva negata l'assegnazione di un quantitativo di riferimento, dal momento che, durante l'anno di
riferimento, egli non aveva commercializzato alcun quantitativo di prodotto. Il regolamento del Consiglio, infatti, non prevedeva
nessuna eccezione in favore dei produttori che avevano sottoscritto un impegno di non commercializzazione. Il regolamento era
stato dichiarato invalido dalla Corte per violazione del principio generale del legittimo affidamento. In seguito il sig. Mulder
presenta ricorso ai sensi dell'art. 268 per ottenere il risarcimento dei danni. La Corte accoglie il ricorso. La norma violata dal
regolamento (il principio del legittimo affidamento) costituisce infatti una norma «di rango superiore, diretta alla tutela dei singoli».
Un caso in cui la Corte ha negato la sussistenza dei presupposti per la responsabilità comunitaria per il pregiudizio provocato da
regolamento invalido è oggetto della sent. 1985, Asteris. Un regolamento della Commissione aveva fissato l'ammontare dell'aiuto
comunitario ai concentrati di pomodoro per la stagione 1982/83. Su ricorso della Grecia, il regolamento era stato annullato dalla
Corte perché l'aiuto era stato fissato a livello troppo basso per i produttori greci: vi era stata un'inadeguata compensazione per
alcuni costi supplementari di confezionamento da questi sopportato in forza di altro regolamento. Tuttavia la Corte rigetta il
ricorso per risarcimento presentato da alcuni produttori greci.

5.5. Recentemente la giurisprudenza è stata chiamata a decidere se in taluni casi sia possibile prescindere dal
presupposto dell'illegittimità del comportamento che ha provocato il danno: se alle istituzioni possa essere
eccezionalmente imputata una responsabilità da attività lecita (responsabilità senza colpa).
Il presupposto di questo tipo di responsabilità sarebbe l'eccezionalità del danno subito da un determinato soggetto come effetto di
un'attività svolta nell'interesse generale.

Nella sent. 2008, FIAMM, la Corte nega la stessa possibilità di una responsabilità delle istituzioni per fatto lecito.
Secondo la Corte non sussiste alcuna convergenza tra gli ordinamenti degli Stati membri «per quanto riguarda
l'esistenza eventuale di un principio di responsabilità in presenza di un atto o di un'omissione leciti della pubblica
autorità, in particolare quando essi sono di ordine normativo».
5.6. Il diritto al risarcimento dei danni è soggetto ad un termine di prescrizione di cinque anni, a decorrere «dal
momento in cui avviene il fatto che dà loro origine». Il termine s’interrompe se viene rivolta istanza (non obbligatoria) di
risarcimento all'istituzione responsabile. In casi di rigetto dell'istanza, il ricorso assumerà le forme di un ricorso
d'annullamento e andrà proposto entro due mesi. In caso di silenzio dell'istituzione, andrà presentato un ricorso in
carenza ai sensi dell'art. 265.

6. La competenza pregiudiziale: concetti generali.


6.1. A norma dell'art. 267 TFUE, la Corte di giustizia può o, secondo i casi, deve essere chiamata a pronunciarsi in
via pregiudiziale sulle questioni riguardanti il diritto dell'Unione che si pongono nell'ambito di un giudizio instaurato
davanti ad «un organo giurisdizionale di uno degli Stati membri».
In base alla competenza pregiudiziale, la Corte conosce di determinate questioni di diritto dell'Unione solo in seguito
al rinvio operato da un giudice nazionale, nell'ambito di un giudizio iniziato e destinato a concludersi dinanzi allo
stesso giudice nazionale. Questi richiede alla Corte di pronunciarsi su determinate questioni perché «reputa
necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto» (art. 267, II co.). La pronuncia della Corte ha
quindi natura pregiudiziale, sia in senso temporale, perché precede la sentenza del giudice nazionale, sia in senso
funzionale, perché è strumentale rispetto alla emanazione di tale sentenza. La competenza di cui all'art. 267 è:
- indiretta, in quanto l'iniziativa di rivolgersi alla Corte non è assunta dalle parti ma dal giudice nazionale;
- limitata, potendo la Corte esaminare solo le questioni di diritto dell’Unione sollevate dal giudice nazionale. Questi
rimane competente a pronunciarsi su tutti gli altri profili della controversia.
6.2. Le ragioni che hanno condotto ad inserire, tra le altre competenze della Corte di giustizia, una competenza di
tipo pregiudiziale sono legate ad alcune caratteristiche tipiche dell'ordinamento dell'Unione:
1- il sistema decentralizzato di applicazione del diritto dell'Unione, per cui il compito di applicare tale
normativa ai soggetti degli ordinamenti interni è, in genere, affidato alle autorità di ciascuno Stato membro;
2- la maggiore parte delle norme dell'Unione sono dotate di efficacia diretta.
Entrambe queste caratteristiche rendono frequente l'insorgere di controversie tra privati o tra privati e autorità
pubblica intorno all'applicazione del diritto dell'Unione. Tali controversie vanno instaurate dinanzi ai giudici degli
Stati membri.
6.3. Lo scopo del meccanismo disciplinato dall'art. 267 è duplice.
1. Tende a evitare che ciascun giudice nazionale interpreti e verifichi la validità delle norme dell'Unione in
maniera autonoma, come se si trattasse di norme appartenenti all'ordinamento del proprio Stato membro, col
rischio di infrangere l'unitarietà del diritto dell'Unione.
2. Mira ad offrire ai giudici nazionali uno strumento di collaborazione per superare le difficoltà interpretative che
il diritto dell'Unione può sollevare, trattandosi di un ordinamento con caratteristiche e finalità proprie.
La competenza pregiudiziale perciò non è finalizzata solo «ad evitare divergenze nell'interpretazione del diritto
comunitario che i tribunali nazionali devono applicare» ma anche e soprattutto «a garantire tale applicazione, offrendo
al giudice il mezzo per sormontare le difficoltà che possono insorgere dall'imperativo di conferire al diritto comunitario
piena efficacia nell'ambito degli ordinamenti giuridici degli Stati membri» (sent. 1974, Rheinmiihlen).
In quanto garanzia della corretta applicazione e dell'uniforme interpretazione del diritto dell'Unione, la competenza
pregiudiziale ha dato un contributo di inestimabile importanza allo sviluppo di tale diritto.
Nella sent. Van Gend & Loos, la Corte afferma: «la vigilanza dei singoli interessati alla salvaguardia dei loro diritti, costituisce un
efficace controllo che si aggiunge a quello che gli articoli 169 e 170 [ora artt. 258 e 259 TFUE] affidano alla diligenza della
Commissione e degli Stati membri».

6.4. L'importanza della competenza pregiudiziale è riconosciuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza della Corte di
giustizia. Ne è testimonianza la fermezza con cui la Corte stessa ha preso posizione contro ogni disposizione
nazionale che ostacoli o limiti la facoltà dei giudici di operare un rinvio ai sensi dell'art. 267 (v. sent. Simmenthal).
6.5. Per quanto riguarda il settore della PESC prima del Trattato di Lisbona, il Titolo V del TUE non prevedeva alcuna
competenza analoga a quella disciplinata dall'art. 267.
La situazione non è cambiata con il Trattato di Lisbona: a norma degli artt. 24, par. 1, II co., TUE e 275, I co., TFUE, infatti la
Corte non è competente per quanto riguarda le disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune e gli atti adottati in
base a dette disposizioni. Considerata la loro generalità, le due norme sembrano precludere alla Corte anche l'esercizio della
competenza pregiudiziale in merito alle parti dei trattati relative alla PESC e agli atti delle istituzioni rientranti nel medesimo
settore. Tuttavia nella sent. Gestoras pro Amnistia, la Corte sembra ammettere che la competenza pregiudiziale prevista dall'art.
35, par. 1, TUE possa essere attivata dal giudice nazionale riguardo ad una posizione comune anche se avente parzialmente base
giuridica nelle disposizioni PESC, qualora si tratti di atto che produca effetti giuridici nei confronti di terzi e che pertanto «in forza
del suo contenuto, abbia una portata che supera quella attribuita dal Trattato UE a questo genere di atti».
Per i settori della Cooperazione giudiziaria in materia penale e della Cooperazione di polizia, già rientranti nell'ex III pilastro, in
passato la competenza pregiudiziale era disciplinata dal vecchio art. 35, par. 1-4, TUE. Tale norma prevedeva la possibilità per
ciascuno Stato membro di depositare una dichiarazione di accettazione della competenza pregiudiziale della Corte e di scegliere se
limitare il rinvio alle sole giurisdizioni di ultima istanza o estenderlo ad «ogni giurisdizione».
Nella sent. Pupino, la Corte ha avuto modo di affermare che «il regime previsto all'art. 234 CE è destinato ad applicarsi alla
competenza pregiudiziale della Corte ai sensi dell'art. 35 UE, fatte salve le condizioni previste da tale disposizione». Ne discende che,
nell'ambito dell'art. 35 TUE, la nozione di organo giurisdizionale e le condizioni di ricevibilità delle questioni pregiudiziali erano le
stesse di quelle elaborate dalla giurisprudenza con riferimento alla norma generale dell'allora art. 234 TCE.
In forza dell'art. 10 del Prot. n. 36 sulle disposizioni transitorie, per un periodo di cinque anni la disciplina della competenza
pregiudiziale resta per i settori dell'ex III pilastro quella contenuta nel vecchio art. 35. Di conseguenza, la competenza
pregiudiziale della Corte e la sua portata (se limitata ai soli giudici di ultima istanza o estesa anche a quelli delle istanze inferiori,
se sempre facoltativa o, in ultimo grado, obbligatoria) dipenderà dalle dichiarazioni di accettazione effettuate da ciascuno Stato
membro. In caso di modifica di un siffatto atto, si applicherà invece l'art. 267 TFUE.

6.6. La competenza pregiudiziale viene in rilievo anche sotto il profilo del diritto fondamentale ad una tutela
giurisdizionale effettiva, tutelato dall'art. 6, par. 1, della CEDU, e dall'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali
dell'UE. Se si considera, infatti, che lo scopo del rinvio pregiudiziale è anche di aiutare il giudice nazionale a superare
le difficoltà interpretative che il diritto dell'Unione può porre, ne risulta che, omettendo di sollevare una questione
pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia quando invece le circostanze lo richiederebbero, il giudice, soprattutto se
di ultima istanza, pregiudica il diritto dei soggetti interessati ad un rimedio giurisdizionale effettivo o addirittura li
distoglie dal loro giudice naturale.

7. Segue: ammissibilità e rilevanza della questione pregiudiziale.


7.1. Il meccanismo della competenza pregiudiziale costituisce uno strumento di cooperazione fra i giudici nazionali e
la Corte di giustizia. Si può dire che i primi e la seconda svolgono un ruolo complementare al fine di individuare una
soluzione al caso concreto che sia conforme al diritto dell'Unione. Non può invece dirsi che esista una gerarchia, per
cui i giudici nazionali sarebbero, in qualche modo, subordinati alla Corte.
L'assenza di un rapporto di tipo gerarchico spiega perché la Corte non eserciti alcun tipo di controllo sulla
competenza del giudice nazionale a conoscere del giudizio nel cui ambito le questioni pregiudiziali sono state
sollevate (es. sent. 1999, World Wildlife Fund) o sulla regolarità del giudizio stesso e, in particolare, del
provvedimento di rinvio (es. sent. 1995, Luigi Spano). Si tratta di aspetti che non sono disciplinati dal diritto
dell'Unione, ma dal diritto interno del giudice nazionale e non possono essere risolti dalla Corte.
La Corte ha invece posto dei requisiti riguardanti il contenuto del provvedimento di rinvio. Essa richiede che,
soprattutto quando le questioni si riferiscono al «settore della concorrenza, caratterizzato da situazioni di fatto e di
diritto complesse», il giudice nazionale «definisca l'ambito di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate o
che esso spieghi almeno le ipotesi di fatto su cui tali questioni sono sollevate». In mancanza di sufficienti indicazioni, la
Corte non potrebbe «giungere ad un'interpretazione del diritto comunitario che sia utile per il giudice nazionale» (sent.
1993, Telemarsicabruzzo) e si riserva quindi la possibilità di non rispondere alle questioni pregiudiziali.
Nel caso esaminato nella sent. Telemarsicabruzzo, il Vice-Pretore di Frascati aveva sollevato, nell'ambito di alcune controversie
che opponevano alcune emittenti televisive private ad altri soggetti, tra cui il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni, due
questioni pregiudiziali così formulate: «1) Se il fatto che il governo italiano si sia riservato l'uso di vari canali per la radiodiffusione
televisiva, impedendo che il privato potesse disporre degli stessi canali dal 67 al 99 UHF ed in particolare dei canali 67, 68 e 69,
senza emanare norme di coordinamento sull'uso di detti canali, costituisca violazione degli artt. 85, n. 3 e 86 del Trattato di Roma
[ora artt. 101, par. 3, e 102 TFUE]. 2) Se tale comportamento sia compatibile col Trattato di Roma e con le sue regole sulla
concorrenza». La Corte osserva che «l'esigenza di giungere ad un'interpretazione del diritto comunitario che sia utile per il giudice
nazionale impone che quest'ultimo definisca l'ambito di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate o che esso spieghi
almeno le ipotesi di fatto su cui tali questioni sono fondate. Tali esigenze valgono in modo del tutto particolare nel settore della
concorrenza, caratterizzato da situazioni di fatto e di diritto complesse». Constatato che l'ordinanza del Vice-Pretore non contiene
alcuna indicazione al riguardo e che le informazioni contenute negli atti di causa trasmessi dal giudice nazionale e nelle
osservazioni delle parti «non consentono alla Corte, in mancanza di una sufficiente conoscenza dei fatti all'origine della causa
principale, dì interpretare le regole comunitarie di concorrenza alla luce della situazione che forma oggetto della controversia», la
Corte decide che « non occorre statuire sulle questioni proposte dal Vicepretore di Frascati».

7.2. Normalmente, la Corte non verifica la necessità del rinvio e la rilevanza delle questioni di diritto dell'Unione
rispetto alla soluzione del caso pendente davanti al giudice nazionale. Secondo il sistema dell'art. 267, infatti, il
giudice nazionale si rivolge alla Corte «qualora reputi necessario per emanare la sua sentenza una decisione sul
punto». La stessa soluzione vale anche per i giudici di ultima istanza, i quali, secondo la Corte, «dispongono dello
stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia sul punto di
diritto comunitario onde consentire loro di decidere» (sent. 1982, CILFIT). Di conseguenza, in una prima fase, la Corte
riteneva che spettasse al solo giudice nazionale valutare la necessità del rinvio e, in particolare, la rilevanza o la
pertinenza delle questioni pregiudiziali. Successivamente un uso talvolta improprio e persino abusivo del rinvio
pregiudiziale ad opera delle parti e degli stessi giudici nazionali ha indotto la Corte a mutare atteggiamento. La Corte
si è così riservata il potere di verificare la rilevanza delle questioni pregiudiziali al fine di controllare se essa sia
competente a rispondere e se non sussista alcuna delle ipotesi patologiche individuate (con non poca
approssimazione e confusione) dalla giurisprudenza. Tali ipotesi sono:
a) questioni poste nell'ambito di controversie fittizie, così definite perché le parti sono d'accordo tra di loro
sull'interpretazione da dare alle norme dell'Unione e vogliono solo ottenere una pronuncia della Corte sul punto
che, come tutte le sentenze pregiudiziali, abbia efficacia erga omnes (sent. 1980, Foglia);
b) questioni manifestamente irrilevanti, in cui la norma dell'Unione oggetto della questione pregiudiziale è
manifestamente inapplicabile alla fattispecie oggetto del giudizio nazionale (es. sent. 1968, Salgoil);
c) questioni puramente ipotetiche, così definite in ragione della loro genericità o del fatto che non rispondono ad
un effettivo bisogno del giudice nazionale, in vista della soluzione della controversia (es. sent. 1992, Meilicke).
La sent. Foglia, trae origine da una controversia tra Foglia, commerciante di vini, e Novello, in merito al rimborso di alcune tasse
versate da Foglia alle autorità doganali francesi su un cartone di vini liquorosi spedito in Francia per conto di Novello. Il contratto
tra Foglia e Novello prevede che il secondo rimborsi al primo solo le tasse compatibili con il diritto dell'Unione. Assumendo che la
tassa versata da Foglia sarebbe invece vietata, Novello ne rifiuta il rimborso. Foglia si rivolge al Pretore di Bra, che solleva cinque
questioni pregiudiziali. La Corte dichiara la propria incompetenza a rispondere. Il carattere artificioso, per la Corte, sarebbe
dimostrato dal fatto che lo spedizioniere incaricato da Foglia ha pagato la tassa in questione senza alcuna obiezione e che
altrettanto ha fatto Foglia, nel pagare la fattura dello spedizioniere.

7.3. Nella fase attuale, l'atteggiamento della Corte è nuovamente orientato verso maggiore prudenza. La Corte infatti,
pur ribadendo il suo potere di rifiutarsi di rispondere a questioni pregiudiziali in casi eccezionali, parte da una sorta
di presunzione di rilevanza. Essa considera che «qualora le questioni sollevate dal giudice nazionale vertano
sull'interpretazione di una norma comunitaria, in via di principio la Corte è tenuta a statuire» (sent. 1992, Laurenco
Diàs), la Corte si accontenta in genere che il giudice nazionale abbia indicato i motivi che lo inducono a ritenere
necessaria la risposta alle questioni pregiudiziali.
Un caso del genere si verifica nella sent. 2008, Cartesio. Una società di diritto ungherese aveva chiesto l'iscrizione nel registro
delle imprese del trasferimento della sede sociale in Italia. Di fronte al rifiuto di iscrizione da parte del giudice del registro,
Cartesio propone reclamo dinanzi alla Corte d'appello di Szeged, la quale solleva numerose questioni pregiudiziali. Con la terza si
prospetta una possibile incompatibilità con l'art. 267 delle norme del c.p.c. ungherese che consentono un ricorso in cassazione
contro la decisione di rinvio pregiudiziale, con l'effetto che il giudice a quo, anziché sospendere la causa in attesa delle sentenza
della Corte, deve proseguirne l'esame. L'Irlanda e la Commissione, nelle loro osservazioni, sostengono che la questione è
puramente ipotetica: in realtà la decisione di rinvio non è stata impugnata e i termini per un ricorso in cassazione sarebbero
addirittura scaduti. La Corte nondimeno rigetta questi argomenti e accetta di rispondere alla questione pregiudiziale, rilevando
che né la decisione di rinvio «né il fascicolo trasmesso alla Corte consentono di constatare che contro detta decisione non è stato o
non può più essere proposto alcun gravame» e che « in una tale situazione di incertezza, dal momento che la responsabilità per
quanto riguarda l'esattezza della definizione del contesto di diritto e di fatto nel quale rientra la questione pregiudiziale incombe al
giudice nazionale, la presunzione di rilevanza di cui gode la presente questione pregiudiziale non è superata».

8. Segue: la nozione di giurisdizione.


8.1. La competenza pregiudiziale può essere attivata solo da un organo che possa essere definito come un «organo
giurisdizionale di uno degli Stati membri». La Corte si riserva il potere di verificare che l'organo autore del rinvio
pregiudiziale rientri effettivamente in tale nozione, considerandola come una nozione autonoma e perciò non
necessariamente coincidente con le definizioni ricavabili dagli ordinamenti degli Stati membri.
8.2. Il primo requisito che un organo nazionale deve soddisfare, perché possa operare un rinvio pregiudiziale ai sensi
dell'art. 267, è che svolga una funzione giurisdizionale, cioè che sia chiamato «a statuire nell'ambito di un
procedimento destinato a risolversi in una pronuncia di carattere giurisdizionale» (sent. 1995, Job Centre). Il giudizio va
effettuato con riferimento alle funzioni svolte dall'organo nello specifico caso che ha dato origine' al rinvio.
Nella sent. Job Centre, viene negata la funzione giurisdizionale del Tribunale di Milano, in quanto le questioni pregiudiziali
vengono sollevate dal Tribunale in funzione di giudice del registro delle imprese. La Corte ritiene che il Tribunale «allorché
statuisce secondo le disposizioni nazionali vigenti nell'ambito di un procedimento di giurisdizione volontaria su una domanda di
omologazione dell'atto costitutivo di una società, ai fini dell'iscrizione di questa nel registro, esercita una funzione non giurisdizionale,
che è tra l'altro affidata, in altri Stati membri, ad autorità amministrative». La Corte si ritiene invece regolarmente investita da
questioni pregiudiziali poste nell'ambito del giudizio relativo al reclamo contro il decreto del Tribunale che rifiuti l'omologazione.
Per limitarci ad altri esempi di organi italiani, la Corte ha negato che la Corte dei conti svolga una funzione giurisdizionale
quando esercita il controllo a posteriori sulla regolarità dell'attività amministrativa (ordinanza 1999, RAI), mentre ha
sorprendentemente accolto l'opposta soluzione riguardo al Consiglio di Stato, quando agisce nell'ambito di un procedimento di
ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, valorizzando la considerazione che il parere del Consiglio di Stato è
vincolante, salva deliberazione contraria del Consiglio dei Ministri (sent. 1997, Garofalo). Per quanto riguarda la Corte
costituzionale, occorre distinguere la posizione della Corte di giustizia rispetto a quella della stessa Corte costituzionale. La Corte
di giustizia ha risposto ad alcune questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte cost. nell'ambito di un giudizio di costituzionalità in
via principale avente ad oggetto alcune leggi della Regione Sardegna senza che la natura di organo giurisdizionale fosse messa in
discussione (sent. 2009, Presidenza del Consiglio). La Corte cost. invece ritiene di essere legittimata al rinvio pregiudiziale solo
nell'ambito del giudizio di costituzionalità in via principale ma non in quello in via incidentale. Per quanto riguarda il giudizio in
via principale, la Corte cost., nella sua ordinanza 103/2008, Presidenza del Consiglio c. Regione Sardegna di rimessione alla Corte
di giustizia, ha giudicato che, quando una questione d'interpretazione di norme dell'Unione si pone nel quadro di un giudizio del
genere per violazione dei «vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario» richiamati dall'art. 117, I co., Cost., la Corte «pur nella sua
peculiare posizione di supremo organo di garanzia costituzionale nell'ordinamento interno costituisce una giurisdizione nazionale ai
sensi dell'art. 234, par.3, del Trattato CE [ora art. 267, III co. TFUE] e, in particolare, una giurisdizione di unica istanza legittimata a
proporre questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia CE». Opposta soluzione la Corte invece segue (per il momento) per il
caso che una questione di interpretazione del diritto dell'Unione si ponga «nei giudizi pendenti davanti al giudice comune»
(ordinanza cit.). Per i giudizi di costituzionalità in via incidentale, la Corte conferma la posizione negativa accolta nell'ord.
536/1995 Messaggero, in cui aveva negato che in essa fosse «ravvisabile quella giurisdizione nazionale alla quale fa riferimento
l'art. 177 del trattato [ora art. 267 TFUE]». Resta rimesso al giudice comune il compito di rivolgersi dapprima alla Corte di giustizia
e solo successivamente, se necessario, alla Corte cost. (sistema della doppia pregiudizialità).
Quanto all'Autorità garante della concorrenza e del mercato è da ritenersi che non sia da considerarsi giurisdizione ai sensi
dell'art. 267, mentre è ben possibile che una questione pregiudiziale venga sollevata nell'ambito del giudizio di impugnazione dei
provvedimenti dell'AGCM dinanzi al T.A.R Lazio (sent. 2003, Consorzio italiano fiammiferi).

8.3. Nei casi dubbi, debbono essere verificati altri requisiti. Secondo una formula spesso ripresa dalla Corte, la
possibilità che un determinato organo effettui un rinvio pregiudiziale dipende da «una serie dì elementi quali l'origine
legale dell'organo, il suo carattere permanente, l'obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del
procedimento, il fatto che l'organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente» (sent. 1997, Dorsch Consult).
Nella sent. Dorsch Consult, il requisito dell'indipendenza è valutato con notevole ampiezza. Alcune questioni pregiudiziali relative
all'interpretazione di una direttiva in materia di appalti pubblici di servizi sono sollevate dalla Commissione federale per la
sorveglianza sulle aggiudicazioni di appalti (Germania). Il carattere di giurisdizione della Commissione viene contestato sotto più
profili. Tra l'altro si sostiene che essa mancherebbe di indipendenza, in quanto legata alla struttura del Ministero dell'Economia e
composta da funzionari pubblici. La Corte respinge l'argomento. Essa ricorda che, in base alla legge istitutiva, la Commissione
«assolve al suo compito in modo indipendente e responsabile». Ai componenti sono applicabili per analogia le stesse norme
applicabili ai magistrati per quanto riguarda l'annullamento della nomina e la rimozione. Inoltre la loro imparzialità è garantita
dalla legge istitutiva.

8.4. Più rigoroso è apparso l'atteggiamento della Corte con riferimento al requisito dell'origine legale dell'organo,
con particolare riferimento al caso degli arbitri, ai quali ha costantemente negato il potere di sollevare questioni
pregiudiziali (sent. 1982, Nordseé). L'unica eccezione ammessa riguarda i casi di arbitrato obbligatorio, quando le
parti sono tenute per legge a sottoporre ad arbitrato le proprie controversie in una determinata materia.
Nel caso Nordsee, le parti avevano concluso un contratto relativo alla ripartizione tra di loro dei contributi che sarebbero stati
ottenuti dal FEAOG (Fondo europeo agricolo di orientamento e gestione) per la costruzione di alcuni pescherecci. Il contratto
conteneva una clausola, che deferiva al giudizio di un arbitro le eventuali controversie che dovessero insorgere tra le parti.
Essendo stato instaurato il procedimento arbitrale, l'arbitro, trovandosi nella necessità di interpretare alcuni regolamenti, solleva
questione pregiudiziale dinanzi alla Corte. Questa dichiara la propria incompetenza. Constatato che il ricorso all'arbitro era il
frutto di una scelta delle parti, la Corte conclude che «il nesso tra il presente arbitrato e l'organizzazione dei mezzi d'impugnazione
ordinari nello Stato membro interessato, non è abbastanza stretto perché l'arbitro possa qualificarsi come giurisdizione di uno Stato
membro ai sensi dell'art. 177 [ora art. 267 TFUE]». La Corte afferma, tuttavia, che il rinvio pregiudiziale può essere azionato dal
giudice nazionale, in particolare «nell'ambito del controllo del lodo arbitrale, più o meno ampio a seconda dei casi, che spetta ad esso
in caso di appello, di opposizione, di exequatur o di qualsiasi altra impugnazione contemplata dalla normativa nazionale di cui
trattasi».

9. Segue: facoltà e obbligo di rinvio.


9.1. Rispetto al rinvio pregiudiziale, la posizione dei giudici nazionali varia secondo che essi emettano decisioni
contro le quali sia possibile proporre un ricorso giurisdizionale di diritto interno oppure no. Nel primo caso, il rinvio è
oggetto di una semplice facoltà, mentre nel secondo caso, il giudice è sottoposto ad un obbligo di rinvio.
La ratio della distinzione è duplice.
- Nel caso di un giudizio di ultima istanza, un errore del giudice nel risolvere questioni di diritto dell'Unione
resterebbe, per definizione, senza ulteriore rimedio. Sotto questo profilo, l'obbligo di rinvio da parte del
giudice di ultima istanza costituisce l'estrema forma di tutela offerta ai soggetti interessati alla corretta
applicazione giudiziaria del diritto dell'Unione (v. sent. 2003, Kobler).
- L'erronea soluzione data da un giudice di ultima istanza a questioni di diritto dell'Unione rischia di essere
accolta in numerose altre pronunce giudiziarie e dunque di «consolidarsi», nonostante la sua non correttezza,
per effetto del principio dello stare decisis proprio degli ordinamenti di common law o soltanto come
conseguenza del prestigio e della diffusione di cui godono le sentenze di tali giudici.
9.2. La nozione di giudice di ultima istanza, dipende dalla possibilità di proporre un'impugnazione contro le
decisioni del giudice e non solo dal rango che occupa nell'ordinamento giudiziario nazionale; per stabilirlo vanno
presi in considerazione solo i rimedi ordinari.
In Italia, sono giudici di ultima istanza, oltre alla Corte di cassazione, anche il Consiglio di Stato e la Corte cost. almeno nel
giudizio di costituzionalità in via principale.

9.3. La facoltà di rinvio che spetta ai giudici non di ultima istanza implica che questi sono liberi di scegliere se
sollevare o meno le questioni di diritto dell'Unione davanti alla Corte di giustizia, indipendentemente dalla richiesta
delle parti, e cioè anche d'ufficio (es. sent. 1981, Salonia). Tale libertà si estende inoltre alla scelta del momento in
cui effettuare il rinvio, anche se, secondo la Corte, potrebbe essere opportuno che, prima di rinviare, siano già stati
accertati i fatti e siano già state risolte le questioni di diritto interno (sent. 1981, Irish Creamery).
9.4. Nell'interpretare la portata dell'obbligo di rinvio a carico dei giudici di ultima istanza, la Corte ha introdotto
alcuni elementi di flessibilità, tali da rendere meno netta la distinzione rispetto agli altri giudici. Anzitutto la Corte
ha affermato che anche i giudici di ultima istanza «dispongono dello stesso potere dì valutazione di tutti gli altri giudici
nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia sul punto di diritto comunitario onde consentire loro di
decidere» (sent. 1982, CILFIT). La sola circostanza che le parti abbiano sollevato questioni di diritto dell'Unione non
comporta perciò obbligo di rinvio. Inoltre la Corte ha individuato alcune ipotesi in cui, pur in presenza di questioni
rilevanti, il rinvio può essere omesso (ma può anche essere effettuato). In casi del genere si può parlare di facoltà di
rinvio anche per i giudici di ultima istanza:
• quando la questione «sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie,
che sia stata già decisa in via pregiudiziale» (sent. 1963, Da Costa);
• quando la risposta da dare alle questioni risulti «da una giurisprudenza costante della Corte che,
indipendentemente dalla natura del procedimento in cui sia stata prodotta, risolva il punto di diritto litigioso, anche
in mancanza di una stretta identità fra le materie del contendere» (sent. 1982, CILFIT);
• quando la corretta applicazione del diritto dell'Unione si imponga «con tale evidenza da non lasciare adito ad
alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata» (ipotesi detta dell'atto chiaro, con
riferimento al brocardo in claris non fit interpretatio).
Delle tre ipotesi in cui l'obbligo di rinvio viene meno, quella dell'atto chiaro è la più delicata e si presta a maggiori
abusi. Per cercare di definirne bene il campo d'applicazione la Corte precisa che, prima di concludere nel senso che
la questione è chiara e il rinvio alla Corte non è dovuto, il giudice di ultima istanza deve procedere a delle verifiche:
 convincersi che la stessa soluzione si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati membri e alla Corte di giustizia;
 raffrontare le diverse versioni linguistiche delle norme dell'Unione;
 tener conto della non necessaria coincidenza tra il significato di una medesima nozione giuridica nel diritto
dell'Unione e nel diritto interno;
 ricollocare la norma dell'Unione nel suo contesto e alia luce delle sue finalità.
Nella sentenza Da Costa, un giudice olandese aveva sollevato questioni pregiudiziali identiche a quelle già risolte dalla Corte nella
sentenza Van Gend & Loos. Nella causa che ha dato vita alla sentenza CILFIT, un'impresa importatrice di lana originaria di paesi
terzi chiedeva al Ministero italiano della Sanità il rimborso delle somme pagate a titolo di diritti sanitari, ritenendo che tali diritti,
costituendo una tassa d'effetto equivalente ad un dazio doganale, erano vietati dal regolamento del Consiglio relativo
all'organizzazione comune dei mercati agricoli per alcuni prodotti di cui all'Allegato II del TCE. Il Ministero contestava che la lana
figurasse tra i prodotti soggetti al regolamento, non trattandosi di prodotto di origine animale ai sensi del regolamento stesso. La
causa era giunta sino alla Corte di cassazione, che, in un primo tempo, aveva sollevato una questione pregiudiziale riguardante
l'art. 267 TCE, per sapere in quali casi un giudice di ultima istanza può omettere di rinviare alla Corte. Ricevuta la risposta, la
Corte di cassazione sente comunque il bisogno di ottenere dalla Corte di giustizia l'interpretazione del regolamento cit. e sottopone
una nuova questione pregiudiziale, risolta con sent. 1984, CILFIT.

La distinzione tra giudici di ultima istanza e delle istanze inferiori è stata ulteriormente attenuata, introducendo
un'ipotesi di obbligo di rinvio anche per giudici non di ultima istanza. Essa riguarda le sole questioni
pregiudiziali di validità. La Corte ha negato che un giudice possa autonomamente (senza attivare il meccanismo del
rinvio pregiudiziale) accertare l'invalidità di un atto delle istituzioni (sent. Foto-Frost). Da ciò discende che, qualora
ritenga fondati i motivi d'invalidità addotti dalle parti riguardo ad un atto delle istituzioni, il giudice, anche se non di
ultima istanza, è tenuto a rinviare alla Corte la relativa questione pregiudiziale. Perché l'obbligo di rinvio scatti, non
basta che le parti abbiano sollevato dei motivi di invalidità ma occorre anche che il giudice adito li consideri fondati.
9.5. L'art. 68, par. 1, TCE, che limitava ai soli giudici di ultima istanza il potere di rinviare questioni pregiudiziali alla
Corte di giustizia per i settori del Titolo IV (« visti, asilo, immigrazione e altre politiche connesse con la libera
circolazione delle persone») è stato soppresso. Di conseguenza anche per queste materie vale ora la disciplina
generale dell'art. 267 TFUE, compresa l'articolazione tra giudici di ultima istanza e non.
Per i settori della Cooperazione giudiziaria in materia penale e della Cooperazione di polizia invece sopravvive per un
periodo di cinque anni la disciplina speciale del rinvio pregiudiziale prevista dal vecchio art. 35 TUE.

10. Segue: l'oggetto delle questioni pregiudiziali.


10.1. La competenza pregiudiziale della Corte può riguardare questioni di interpretazione e questioni di validità.
10.2. Le questioni pregiudiziali d'interpretazione possono avere ad oggetto:
a) «i trattati»
b) «gli atti compiuti dalle istituzioni dagli organi e dagli organismi dell'Unione».
Per trattati si deve intendere il testo del TUE e del TFUE nella versione applicabile ratione temporis ai fatti della
causa pendente davanti al giudice nazionale, compresi i protocolli e gli allegati (art. 51 TUE), tenendo conto degli
emendamenti intervenuti ai sensi dell'art. 48 TUE o degli adattamenti apportati in occasione dell'adesione di nuovi
Stati membri ai sensi dell'art. 49 TUE, e gli stessi atti di adesione.
La nozione di atti compiuti dalle istituzioni è molto ampia e comprende anzitutto gli atti appartenenti alle
categorie di cui all'art. 288 TFUE, incluse le raccomandazioni e i pareri, ma anche gli atti atipici, gli accordi
internazionali e gli atti privi di efficacia diretta.
Non rientrano invece nella competenza pregiudiziale della Corte gli accordi o le convenzioni concluse tra gli Stati membri,
nemmeno quelle stipulate in attuazione dell'art. 293 TCE (ora abrogato). Per consentire alla Corte di esercitare una competenza di
tipo pregiudiziale riguardo a tali convenzioni, è stato necessario che tale competenza fosse istituita direttamente da ciascuna di
tali convenzioni o da appositi protocolli. Si veda il Prot. relativo all'interpretazione della Convenzione di Bruxelles del 1968 sulla
competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle sentenze in materia civile e commerciale, del 1971, e il Prot. relativo
all'interpretazione della Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, del 1988.
10.3. L'art. 267 esclude che, nell'ambito di una questione di interpretazione, la Corte possa essa stessa procedere
all'applicazione di norme dell'Unione alla fattispecie oggetto del giudizio pendente davanti al giudice nazionale.
L'art. 267 implicitamente contrappone l'interpretazione all'applicazione del diritto dell'Unione ed attribuisce alla
Corte solo la prima funzione, riservando la seconda al giudice nazionale. Nondimeno, le risposte fornite dalla Corte
vanno spesso al di là di un'interpretazione meramente astratta della norma dell'Unione.
Nel settore della tariffa doganale comune (art. 31 TFUE), ad esempio, la Corte sembra in realtà procedere direttamente alla
classificazione in questa o in quella voce tariffaria del prodotto esaminato dal giudice nazionale.

10.4. Parimenti non è previsto che la Corte possa procedere all'interpretazione di norme degli Stati membri o
pronunciarsi sull'incompatibilità di una norma nazionale con norme dell'Unione.
Entrambi i compiti spettano al giudice nazionale che ha operato il rinvio. Occorre tuttavia osservare che qualora il
giudice nazionale, come spesso avviene, chieda alla Corte un giudizio sulla compatibilità con il diritto dell'Unione di
specifiche norme interne, la Corte, pur mantenendo il principio della sua incompetenza a rispondere a questioni del
genere, non le dichiara ammissibili, ma le riformula, in modo da fornire al giudice nazionale tutti gli elementi di
interpretazione che gli consentano di valutare tale compatibilità ai fini della soluzione della causa. In questo modo, si
permette che il rinvio pregiudiziale sia utilizzato dai giudici nazionali (e dai privati che a tali giudici si rivolgono) per
ottenere dalla Corte un giudizio, sia pure indiretto, sulla compatibilità della norma interna con il diritto dell'Unione,
con effetti non molto diversi da quelli di una sentenza emessa contro lo Stato membro in questione all'esito di un
ricorso per infrazione ai sensi degli artt. 258 e ss. TFUE (uso alternativo del rinvio pregiudiziale).
10.5. La Corte accetta di pronunciarsi su questioni interpretative anche se le norme dell'Unione oggetto della
questione non sono applicabili al caso di specie in quanto tale, ma in virtù di un richiamo operato da norme interne
(sent. 1990, Dzodzi e, più recentemente, sent. 2010, Abdulla). La Corte segue la soluzione opposta qualora si tratti di
norme comunitarie la cui formulazione è solo parzialmente riprodotta in norme interne (sent. 1995, Kleinwort
Benson, avente ad oggetto disposizioni della Convenzione di Bruxelles cit.).
10.6. Le questioni pregiudiziali di validità possono avere ad oggetto solo gli «atti compiuti dalle istituzioni dagli
organi e dagli organismi dell'Unione». Tali questioni consentono alla Corte di effettuare un controllo sulla validità di
tali atti ad integrazione del controllo che la Corte esercita attraverso il ricorso di legittimità di cui all'art. 263,
l'eccezione di invalidità di cui all'art. 277 e, indirettamente, l'azione di danni da responsabilità extracontrattuale di
cui all'art. 268.
L'analogia con il ricorso d'annullamento comporta che oggetto di una questione pregiudiziale di validità possano
essere tutti gli atti contro i quali si può proporre un ricorso ai sensi dell'art. 263. Tuttavia la questione di validità che
riguardi un regolamento o una decisione rivolta a terzi non è sottoposta alle condizioni restrittive previste dall’art.
263. Parimenti non trova applicazione il termine di due mesi. Ne consegue che una questione di validità può essere
proposta anche a distanza di anni dall'entrata in vigore dell'atto in causa. Tuttavia, qualora sia pacifico che il sog-
getto che si rivolge al giudice nazionale avrebbe potuto proporre ricorso di annullamento contro l'atto comunitario in
questione e non lo ha fatto, lasciando decorrere il termine di all'art. 263, il giudice nazionale non può più sollevare
questione pregiudiziale di validità (sent. 1994, TWD Texilwerke Deggendorf; v. anche sent. 1997, Wiljo).
Nel caso TWD, una società tedesca aveva ricevuto un aiuto statale, che non era stato notificato alla Commissione ai sensi dell'art.
108, par. 3, TFUE. Venuta a conoscenza dell'aiuto, la Commissione apre un procedimento d'esame. Al termine, adotta una
decisione nei confronti della Germania, con cui si dichiara l'aiuto incompatibile con l'art. 107 TFUE e se ne dispone il recupero nei
confronti del beneficiario. La decisione viene comunicata dalle autorità tedesche a TWD, con l'avvertenza che essa è impugnabile
ai sensi dell'art. 263. Successivamente, in esecuzione della decisione, a TWD viene ingiunto di restituire l'aiuto ricevuto. TWD si
rivolge al Tribunale amministrativo di Colonia, per chiedere l'annullamento dell'ingiunzione. Il Tribunale solleva questione
pregiudiziale riguardante la validità della decisone della Commissione. Appellandosi al principio secondo cui «una decisione che
non sia stata impugnata dal destinatario entro il termine stabilito dall'art. 173 del Trattato [ora art. 263 TFUE] diviene definitiva nei
suoi confronti», la Corte afferma che «le stesse esigenze dì certezza del diritto inducono ad escludere che il beneficiario di un aiuto
oggetto di una decisione della Commissione adottata in forza dell'art. 93 del Trattato [ora art. 108 TFUE], che avrebbe potuto
impugnare tale decisione e che ha lasciato decorrere il termine imperativo all'uopo previsto dall'art. 173, III co., del Trattato [ora art.
263, V co., TFUE], possa contestare la legittimità della medesima decisione dinanzi ai giudici nazionali nell'ambito di un ricorso
proposto avverso i provvedimenti presi dalle autorità nazionali in esecuzione di questa decisione».
La recente giurisprudenza applica restrittivamente la giurisprudenza TWD, richiedendo perché la questione pregiudiziale di
validità sia dichiarata irricevibile, che la persona che contesta la validità dell'atto fosse senz'altro legittimato ad impugnarlo.

Il rinvio di questioni di validità diventa obbligatorio anche per i giudici non di ultima istanza, qualora essi ritengano
non infondati i motivi di invalidità fatti valere dalle parti.

11. Segue: il valore delle sentenze pregiudiziali.


11.1. Le sentenze rese dalla Corte in un procedimento a norma dell'art. 267 TFUE vincolano anzitutto il giudice che
aveva effettuato il rinvio (sent. 1977, Benedetti). Questi non può discostarsene, ma può soltanto, qualora lo ritenga
necessario, adire nuovamente la Corte per chiedere ulteriori chiarimenti. Tuttavia, tenuto conto del carattere
obiettivo della competenza esercitata in questi casi, la sentenza della Corte assume un valore generale, che travalica
i confini del giudizio nel cui ambito le questioni pregiudiziali sono state sollevate. Qualunque giudice nazionale, il
quale si trovi a dover risolvere questioni in merito alle quali la Corte si è già pronunciata mediante sentenza
pregiudiziale, deve adeguarsi a tale sentenza, salva la possibilità di rivolgersi nuovamente alla Corte.
11.2. L'esistenza di una sentenza emessa dalla Corte nel quadro di un procedimento pregiudiziale, rende superflua
la proposizione di un nuovo rinvio sulle stesse questioni o su questioni simili da parte di altro giudice e lo esenta, se
di ultima istanza, dall'obbligo di rinvio previsto dal III co. dell'art. 267.
In questo senso si esprime anche la Corte cost., nella sent. 113/1985, BECA. La Corte è investita di una questione di
costituzionalità relativa ad una legge del 1982 che, nel disciplinare le condizioni per ottenere dall’amministrazione il rimborso
delle imposte o tasse riscosse in violazione di norme comunitarie, pone a carico del richiedente l'onere di provare di non aver
ripercosso a valle l'imposta o la tassa, mediante un aumento dei prezzi di vendita al consumo. Tali condizioni erano state
giudicate dalla Corte di giustizia incompatibili con il diritto comunitario.

11.3. Il principio è stato affermato con particolare chiarezza nel caso di sentenze pregiudiziali di validità che
dichiarano l'invalidità di un atto delle istituzioni (sent. 1981, International Chemical Corporation).
International Chemical Corporation propone azione dinanzi al Tribunale di Roma per ottenere la condanna dell'amministrazione
italiana al rimborso di alcune cauzioni che erano state costituite a norma di un regolamento del Consiglio, dichiarato
successivamente invalido dalla Corte con sent. 1977, Bela Muhle. Il Tribunale di Roma chiede alla Corte se «ai sensi dell'art. 177
[ora art. 267 TFUE], la dichiarazione di invalidità di un regolamento comunitario abbia efficacia erga omnes o sia vincolante solo nei
confronti del giudice a quo». La Corte risponde che «la sentenza della Corte che accerti in forza dell'art. 177 del Trattato, l'invalidità
di un atto di un'istituzione, in particolare di un regolamento del Consiglio o della Commissione, sebbene abbia come diretto
destinatario solo il giudice che si è rivolto alla Corte, costituisce per qualsiasi altro giudice un motivo sufficiente per considerare
tale atto non valido ai fini di una decisione ch'esso debba emettere».

11.4. In linea di principio tutte le sentenze pregiudiziali hanno valore retroattivo. L'interpretazione contenuta in
una sentenza pregiudiziale, infatti, «chiarisce il significato e la portata della norma quale deve o avrebbe dovuto essere
intesa ed applicata dal momento della sua entrata in vigore» e la norma così interpretata «può e deve essere applicata
dal giudice anche a rapporti giuridici sorti o costituiti prima della sentenza interpretativa se, per il resto, sono
soddisfatte le condizioni che consentono di portare alla cognizione dei giudici competenti una controversia relativa
all'applicazione di detta norma» (sent. 1980, Denkavit italiana).
Il valore retroattivo delle sentenze della Corte rese a titolo pregiudiziale va tuttavia conciliato con il principio
generale della certezza del diritto. Di conseguenza un soggetto che non abbia agito in giudizio entro il termine
previsto dall'ordinamento a tal fine, non può, scaduto tale termine, invocare una sentenza pregiudiziale emessa dalla
Corte, a meno che il termine in questione non sia irragionevole.
Tale principio è stato applicato nella sent. 2005, Kiìhne & Heitz. La ricorrente aveva dovuto rimborsare l'importo di alcune
restituzioni all'esportazione in base all'errata classificazione delle merci in questione seguita dalle autorità dei Paesi Bassi.
L'errore era risultato da una sentenza interpretativa della Corte di giustizia intervenuta quando la decisione che aveva imposto il
rimborso era ormai divenuta definitiva in seguito al rigetto del ricorso giurisdizionale presentato da Kuhne & Heitz. Nonostante il
carattere definitivo della decisione, la ricorrente ne aveva chiesto la revoca per incompatibilità con la successiva sentenza della
Corte. Il College van Beroep, investito della questione, chiede alla Corte se il principio di leale collaborazione imponga, in queste
circostanze, di accogliere la richiesta della ricorrente. La Corte ricorda che «la certezza del diritto è inclusa tra i principi generali
riconosciuti nel diritto comunitario» e che «il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza di termini
ragionevoli di ricorso o in seguito all'esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a tale certezza». Pertanto «il diritto
comunitario non esige che un organo amministrativo sia, in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa
che ha acquisito tale carattere definitivo». Tuttavia, se l'ordinamento nazionale interessato (in questo caso quello dei Paesi Bassi)
prevede in casi del genere la possibilità di disporre la revoca di una decisione amministrativa definitiva, tale possibilità deve
essere applicata anche nel caso di specie.

Inoltre la Corte si riserva il potere di limitare nel tempo la portata delle proprie sentenze pregiudiziali tanto
interpretative (es. sentenza Defrenne) quanto di validità (es. sentenza Roquette Frères: in casi del genere può essere
invocato, per analogia, l'art. 264 TFUE, applicabile alle sentenze che accolgono un ricorso d'annullamento).
L'esercizio di tale potere viene in genere motivato da esigenze di certezza del diritto e di tutela dell'affidamento. La
Corte tuttavia, anche in seguito ad alcune decise prese di posizione assunte da giudici nazionali (tra i quali v. la sent.
della Corte cost. 232/1989, FRAGD), fa generalmente salva la possibilità di invocare la sentenza pregiudiziale da
parte di coloro che abbiano proposto un'azione giudiziaria o un reclamo equivalente prima della sentenza stessa
(sent. 1986, Pinna; sent. 1994, Roquette Frères).
Nella causa FRAGD, una società aveva versato importi compensativi monetari calcolati in base ad un regolamento dichiarato
invalido dalla Corte di giustizia, in una serie di sentenze, nelle quali, tuttavia, la Corte specificava che «l'invalidità delle
disposizioni regolamentari non consente di rimettere in discussione la riscossione o il pagamento degli importi compensativi monetari
effettuati dalle autorità nazionali in base a dette disposizioni, per il periodo anteriore alla data della presente sentenza». Il Tribunale
di Venezia, al quale FRAGD si era rivolta, solleva in un primo tempo questione pregiudiziale di validità dinanzi alla Corte di
giustizia, ricevendone una risposta del tutto analoga a quella contenuta nella sentenza Roquette. Insoddisfatto, il Tribunale di
Venezia propone allora questione di costituzionalità della legge d'esecuzione del Trattato, per violazione degli artt. 24 e 23 Cost. da
parte dell'art. 234 TCE (ora art. 267 TFUE), così come interpretato dalla Corte di giustizia.
La Corte cost. dichiara inammissibile la questione per mancanza di rilevanza. La sentenza tuttavia contiene un giudizio
chiaramente negativo nei confronti della giurisprudenza della Corte di giustizia.

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