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DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA

Il Consiglio d’Europa
Il Consiglio d’Europa, approvato nel 1949, ha l’obiettivo di favorire
l’integrazione tra gli Stati membri e di facilitare il loro progresso
economico e sociale. Il suo organo principale è il Comitato dei ministri,
nel quale siedono i ministri degli Esteri di ogni Stato membro.
Predispongono e favoriscono la conclusione di convenzioni internazionali
fra gli Stati membri, che li subordinano alla ratifica da parte dei Parlamenti
statali. La più importante convenzione conclusa nell’ambito del Consiglio
d’Europa è la CEDU (Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, 1950),
comprendente un catalogo dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ad
ogni Stato (facenti tra l’altro parte del diritto dell’Unione in quanto
principi generali) ed un meccanismo di controllo del rispetto dei diritti, la
Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Il ritorno dell’intergovernatività: Il consiglio Europeo
Pur essendo l’Europa in costante processo di integrazione, gli Stati cercano
di non cedere troppa sovranità ed è in quest’ottica che è nato il Consiglio
Europeo, quale ulteriore organo rappresentativo degli Stati membri. Si
riunì per la prima volta a Parigi nel 1974, quando i Capi di Stato e di
Governo degli Stati membri decisero di riunirsi tre volte l’anno e, in
aggiunta, ogni volta che lo ritenessero necessario al fine di risolvere
questioni di grande rilevanza politica non risolvibili nell’ambito del
Consiglio; a presiedere le riunioni vi è un presidente avente due anni e
mezzo di mandato rinnovabile una volta. Le deliberazioni vengono assunte
per consenso, cioè senza opposizione da parte di alcun soggetto, salvo i
casi in cui i trattati prevedano la maggioranza qualificata.
Dalle Comunità Europee all’Unione Europea
Nell’ambito delle Comunità si sono affermate forme di cooperazione tra
Stati membri svolte secondo il metodo tradizionale della cooperazione
governativa, ed era così per la politica estere generale, attribuita solo in
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parte alle competenze della Comunità, mentre era definita in gran parte da
riunioni periodiche tra ministri degli Esteri e capi di Stato; la situazione
cambiò in seguito all’istituzione, inserita dal TUE, della Politica Estera e
di Sicurezza Comune (PESC), cui è affiancata la cooperazione in materia
di Giustizia e Affari Interni (GAI). In questo quadro istituzionale, formato
dalle Comunità, dalla PESC e dalla GAI, l’Unione Europea si configura
come una realtà comune cui le precedenti componenti sono tutte chiamate
a contribuire; essa è assimilabile ad un tempio greco con un frontone
sorretto da tre pilastri. Il primo tra questi pilastri è rappresentato dalla
collaborazione comunitaria, avente l’obiettivo di garantire il buon
funzionamento del mercato unico e, segnatamente, uno sviluppo
armonioso, equilibrato e sostenibile; il secondo era rappresentato dalla
PESC, avente il compito di stabilire e attuare, con metodi intergovernativi,
una politica estera e di sicurezza comune; infine, il terzo pilastro
corrisponde alla GAI, avente il compito di programmare una politica
comune in base a metodi intergovernativi; i pilastri sono funzionalmente
legati l’un l’altro e gestiti da un unico quadro istituzionale. Nel corso del
tempo si è cercato di eliminare la distinzione dei pilastri, assimilandoli: il
primi passi in tal senso si muovono coi Trattati di Amsterdam e Nizza,
attraverso i quali, gran parte delle materie contenute nel terzo pilastro (tra
cui l’immigrazione e la circolazione delle persone) vengono trasferite nel
primo, venendo pertanto sottoposte al metodo comunitario, che è stato tra
l’altro parzialmente esteso anche al secondo ed al terzo pilastro: in
particolari, vengono introdotti casi in cui il Consiglio può votare a
maggioranza qualificata e vengono accentuati i caratteri di obbligatorietà
degli atti che esso può adottare. Inoltre, con l’introduzione del Trattato di
Lisbona sono venute totalmente meno le differenze tra primo e terzo
pilastro. Accade spesso che degli Stati contestino l’espansione della
competenza comunitaria e che dunque quest’ultima rischi di essere
bloccata per l’opposizione di un numero molto limitato di Stati membri; in
questi casi vengono applicate forme di cooperazione differenziata, dando
vita del fenomeno dell’Europa a più velocita, per il quale si rinuncia
all’idea di un’integrazione uguale per tutti e si permette agli stati che lo
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desiderano di andare avanti senza gli Stati contrari, ed è questo il caso, ad
esempio, dell’Unione Economica Monetaria (UEM).
Il Trattato di Lisbona
Il trattato di Lisbona (2007) si inserisce nel momento seguente al
fallimento del Trattato istituente una Costituzione per l’Europa, non
ratificato dagli Stati poiché timorosi di perdere troppa sovranità. Piuttosto
che introdurre una Costituzione si ritenne dunque opportuno di integrare il
testo dei TUE e TCE con alcune disposizioni della stessa. Si ravvisano
differenti elementi di continuità nei confronti del Trattato costituzionale:
innanzitutto è stata confermata la trasformazione del Consiglio Europeo in
un’istituzione vera e propria avente un proprio Presidente; in secondo
luogo, è stato rafforzato il ruolo del Presidente della Commissione ed è
stata infine generalizzata la procedura di codecisione, rinominata in
processo legislativo ordinario; risulta infine abolita la struttura a pilastri.
Quanto agli elementi di discontinuità, i più evidenti risultano essere quelli
tendenti a de-costituzionalizzare la riforma, privandola della sua carica di
originalità rispetto al passato. La prima manifestazione di questa tendenza
è di carattere formale; non si vuol più abrogare i trattati preesistenti
sostituendoli con una Costituzione, ma emendarli. Inoltre, essendo stata la
Comunità Europea abolita, il TCE cambia nome in TFUE, contenente
disposizioni giudicate meno importanti rispetto al TUE; infine, oltre ad
una manifestazione relativa ad una modifica terminologica, per la quale
non si allude più ad una natura superstatuale dell’Unione, vi è una
modifica di tipo contenutistico consistente nell’eliminazione delle novità
che avvicinavano il trattato ad una Costituzione e cade, ad esempio, il
principio del primato del diritto dell’Unione su quello degli Stati membri.
Sono stati inoltre aggiunti dei meccanismi di garanzia a favore degli Stati:
attraverso un primo gruppo di garanzie è stato reso possibile agli Stati di
bloccare o ritardare l’assunzione di decisioni verso le quali sono contrari;
in altri casi è invece possibile sottrarsi a talune parti dei trattati. E’ stato
infine sottolineato il carattere reversibile del processo d’integrazione

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europea soprattutto attraverso l’introduzione di una clausola di recesso
unilaterale dall’Unione.
Il quadro istituzionale dell’Unione Europea
Caratteristiche e principi degli organi dell’Unione Europea
All’interno delle varie istituzioni operano alcune figure che possono essere
qualificati come organi monocratici, e questi sono il Presidente del
Consiglio Europeo, l’Alto Rappresentante dell’Unione (PESC) ed il
Presidente della Commissione. Come precedentemente esposto, le
istituzioni sono le stesse per l’intera Unione, avente il proprio sistema
gestito da un quadro istituzionale unico che non varia a seconda dei settori;
tuttavia, sono il ruolo e le competenze a variare in base alla materia di
applicazione. E’ inoltre possibile distinguere le istituzioni politiche
(Parlamento, Consiglio Europeo, Consiglio e Commissioni), svolgenti una
funzione politica attiva, dalle istituzioni di controllo (Corte di Giustizia,
effettuante controllo giurisdizionale sull’attività delle istituzioni, e Corte
dei Conti, esercitante controllo contabile su entrate e uscite delle
istituzioni). Fuoriesce da queste classificazioni la BCE, operante
unicamente nell’ambito dell’Unione Economica e Monetaria. Le azioni
delle istituzioni devono essere svolte seguendo alcuni principi: il primo tra
questi è quello di coerenza, per cui tutte le azioni svolte nell’ambito dei
diversi settori devono essere tra loro coordinate, e tale principio assume
particolare importanza per quanto riguarda l’azione esterna (PESC e
politica commerciale comune). Altro principio è quello dell’equilibrio
istituzionale, per il quale ciascuna istituzione deve rispettare le competenze
attribuite dai trattati alle diverse istituzioni, pena il vizio di incompetenza
con conseguente annullamento dell’atto adottato. Per il principio di leale
collaborazione, invece le istituzioni attuano tra loro una leale
collaborazione. Infine per il principio di rispetto dell’acquis (ossia
l’insieme di quanto è stato realizzato), in linea di massima non è consentito
modificare i trattati in senso peggiorativo in relazione all’integrazione.
Il Parlamento Europeo
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Il Parlamento Europeo è composto dai rappresentanti dei cittadini
dell’Unione, eletti a suffragio universale diretto. Quanto alle modalità di
elezione, essa avviene attraverso una procedura uniforme in tutti gli Stati
membri o secondo alcuni principi comuni; in ogni caso, la procedura è
approvata innanzitutto attraverso una procedura legislativa speciale. Ogni
legislatura ha una durata di cinque anni, mentre è previsto un numero
massimo di 751 seggi (uno occupato dal Presidente) assegnati attraverso
metodo degressivamente proporzionale in base alla demografia di ogni
Paese; il numero minimo di seggi è sei, il numero massimo è di
novantasei. Il primo tra gli organi parlamentari è quello del Presidente, di
natura monocratica, il quale dirige i lavori del Parlamento e lo rappresenta
nelle relazioni internazionali; forma inoltre, insieme a 14 vice presidenti,
l’Ufficio di Presidenza, avente funzioni consultive. I membri del
Parlamento sono organizzati in Gruppi politici, aventi per numero minimo
25 membri provenienti da almeno un quarto degli Stati membri; i
capigruppo, assieme al Presidente, formano la Conferenza dei Presidente,
amministrante l’organizzazione dei lavori. Il Parlamento Europeo lavora in
seduta plenaria o in Commissioni: queste ultime possono essere di natura
temporanea (quando istituite con funzioni temporanee o d’inchiesta) o
permanenti, aventi la funzione di ripartirsi i lavori per materia. Il
Parlamento, oltre ad eleggere il Presidente della Commissione, effettua la
funzione di bilancio e legislativa congiuntamente al Consiglio, e si occupa
di effettuare alcune funzioni di controllo politico: a tal scopo dispone
innanzitutto di alcuni mezzi attraverso i quali ottenere informazioni
sull’operato di delle altre istituzioni, ricevendo innanzitutto relazioni
generali annuali da parte della Commissione; esso può inoltre procurarsi le
informazioni autonomamente attraverso le interrogazioni e le audizioni
della Commissione, del Consiglio e del Consiglio Europeo. Oltre ad essere
consultato dall’Alto Rappresentante sui principali aspetti della politica
estera, può essere sollecitato da parte degli individui attraverso le petizioni,
sporte su argomenti rientranti nell’attività dell’Unione, le denunce,
presentate in caso di infrazioni o di cattiva amministrazione
nell’applicazione del diritto dell’Unione, o dal Mediatore Europeo,
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attraverso il quale qualsiasi persona fisica o giuridica può lamentare casi di
cattiva amministrazione degli organi dell’Unione; egli, dopo aver svolto
una fase di indagini preliminari, si rivolge all’istituzione interessata se
ritiene che sussista un caso di cattiva amministrazione, comunicando il
proprio parere, e sulla base delle risposte ottenute elabora una relazione
che trasmette al Parlamento. Gode inoltre di poteri sanzionatori nei
confronti della Commissione, contro la quale può innanzitutto approvare
una mozione di censura, avente per conseguenza le dimissioni d’ufficio
dell’intero organo.
Il Consiglio
Il Consiglio è un organo di Stati in quanto composto da soggetti
rappresentanti direttamente gli Stati di appartenenza, composto da un
rappresentante ministeriale di ogni Stato abilitato ad impegnare il governo
che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto. Esso non è un organo
permanente poiché si riunisce in formazioni tipizzate dalla prassi nelle
quali gli Stati si fanno rappresentare di volta in volta dal ministro
competente per materia. Sono previste soltanto due formazioni del
Consiglio, gli Affari Generali ed Esteri, mentre le altre formazioni sono
stabilite con decisione del Consiglio Europeo: la prima si occupa di
assicurare la coerenza dei lavori dell’Unione, la seconda di elaborare
l’azione estera dell’Unione ed è presieduta in via permanente, per
assicurare la continuità dei lavori, dall’Alto Rappresentante (responsabile
della PESC, di cui elabora la politica, nominato dal Consiglio Europeo e
dalla Commissione), mentre tutte le altre formazioni hanno un Presidente
passante da uno Stato all’altro per rotazione. Il Consiglio delibera per
maggioranza qualificata (55% dei voti dei membri di Stati la cui
composizione complessiva non sia inferiore al 65% della popolazione
dell’Unione) o, qualora sia disposto diversamente, per maggioranza
semplice o per unanimità. Le funzioni svolte dal Consiglio sono quella di
bilancio e la legislativa, svolte congiuntamente col Parlamento; alle
condizioni stabilite dai trattati, inoltre, definisce le politiche di
coordinamento.
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Il Consiglio Europeo
Il Consiglio Europeo, come il Consiglio dei Ministri, è un organo di Stati
in quanto composto da soggetti rappresentanti direttamente i singoli Stati
di appartenenza. E’ composto dai Capi di Stato e di Governo degli Stati
membri, dal suo Presidente e dal Presidente della Commissione, mentre
partecipa ai lavori l’Alto Rappresentante, tuttavia in caso di deliberazione
hanno potere di voto solo i Capi di Stato o di Governo; queste ultime
avvengono per consenso, che si ottiene senza bisogno di votare quando
nessuno dei membri è contrario al testo presentato dal Presidente, salvo in
alcuni casi in cui è ammessa la maggioranza qualificata (come la nomina
del Presidente). Il Presidente, permanente al fine di conferire maggiore
continuità ai lavori, è eletto a maggioranza qualificata con un mandato di
due anni e mezzo rinnovabile una volta: egli assicura la continuità e la
preparazione dei lavori. Il Consiglio Europeo, definendo gli orientamenti e
le politiche generali dell’Unione, è il supremo organo di indirizzo
dell’Unione e possiede inoltre alcuni poteri decisionali capaci di produrre
effetti nei confronti di terzi; si delinea sempre di più come una presidenza
collegiale dell’Unione, esprimente il più alto interesse politico da parte di
tutti gli Stati membri; inoltre, essendo chiamato a porre in essere decisioni
attuanti alcune disposizioni dei trattati, si comporta come un organo dotato
di poteri costituzionali.
La Commissione
A differenza del Consiglio e del Consiglio Europeo, la Commissione è un
organo di individui poiché composta da soggetti non legati allo Stato di
provenienza da un vincolo di rappresentanza, portando all’organo la
propria capacità di giudizio. Secondo il TUE, è composta da un numero di
membri pari ai due terzi del numero degli Stati membri (compresi il
Presidente e l’Alto Rappresentante) a meno che il Consiglio Europeo non
decida all’unanimità di modificare questo numero; quest’ultimo,
applicando tale clausola, ha stabilito che la Commissione è formata da un
numero di membri pari agli Stati membri. Il mandato dei componenti della
Commissione dura cinque anni, la stessa dei membri del Parlamento
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Europeo, salvo casi di mozione di censura o pronuncia da parte della Corte
di Giustizia sulla violazione degli obblighi derivata dalla carica, provocanti
le dimissioni d’ufficio. La nomina della Commissione consta di 4 fasi. La
prima di queste ha ad oggetto l’individuazione del candidato alla carica di
Presidente, effettuata dal Consiglio Europeo a maggioranza qualificata. La
seconda fase, consistente nell’elezione del candidato da parte del
Parlamento, precede la terza, alla quale partecipa lo stesso Presidente,
consistente in una deliberazione, adottata di comune accordo tra il
Consiglio ed il Presidente, attraverso la quale si adotta l’elenco delle altre
personalità formanti la Commissione, selezionate tra quelle proposte dagli
Stati membri; la decisione richiede la maggioranza qualificata. Nella
quarta fase il Presidente e gli altri membri della commissione sono soggetti
collettivamente ad un voto di approvazione preceduto da audizioni
separate attraverso le quali sarà possibile manifestare opposizione nei
confronti di uno o più membri. Terminata questa fase, si passa alla nomina
da parte del Consiglio Europeo, effettuata a maggioranza qualificata. Il
Presidente della Commissione, altresì membro del Consiglio Europeo,
definisce gli orientamenti della Commissione e la sua organizzazione
interna, nomina i vicepresidenti e ripartisce le competenze tra i membri
della Commissione. E’ un organo collegiale e le deliberazioni sono assunte
a maggioranza del numero dei suoi membri. La Commissione si comporta
da promotore e da interprete dell’interesse generale, che applica attraverso
il proprio potere esclusivo di proposta; inoltre, comportandosi come
custode della legalità e del diritto dell’Unione, vigila sull’appropriata
applicazione dei trattati da parte degli Stati membri (soprattutto attraverso
il ricorso per infrazione) e sulla corretta adozione delle misure da parte
delle istituzioni.
La Corte di Giustizia
La Corte si articola in più rami dotati di autonomia funzionale e di
autonomia amministrativa parziale; ognuno di questi rami è formato da
organi di individui. L’attività della corte è regolata innanzitutto dai trattati,
in particolare il TFUE, dallo Statuto della Corte e dal regolamento di
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procedura. Essa è composta da un giudice per Stato membro (28) ed è
assistita da avvocati generali (attualmente 11), il cui numero è variabile
con delibera unanime del Consiglio, richiesta dalla Corte. Tra i giudici
viene eletto un presidente avente mandato rinnovabile di tre anni; mentre i
giudici, facenti parte del collegio giudicante, emettono le decisioni, gli
avvocati generali hanno una funzione ausiliaria, presentando
pubblicamente ai giudici conclusioni motivate non vincolanti sulle cause
in cui è richiesto il loro intervento. I giudici, aventi mandato rinnovabile di
sei anni, sono nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri.
La Corte opera in sezioni, formazioni ordinarie composte da tre o cinque
giudici, grandi sezioni, formate da quindici giudici e convocate da uno
Stato membro o da un’istituzione dell’Unione quando sono parti in causa,
e in seduta plenaria, con la partecipazione di tutti i giudici, in caso il
giudizio sia di importanza eccezionale. Le principali funzioni della Corte
sono di natura giurisdizionale in quanto verificano la corretta
interpretazione e applicazione dei trattati; tuttavia sono altresì effettuate
funzioni di natura consultiva, in base alle quali è chiamata ad esprimere un
parere (che può essere o meno conforme) su una controversia.
Le procedure decisionali
Le procedure decisionali in generale e la base giuridica
Per procedure decisionali s’intende la sequenza di atti o fatti richiesta dai
trattati affinché la volontà dell’Unione si possa manifestare attraverso
determinati atti giuridici. Essendo composte da atti e fatti provenienti da
svariate istituzioni (Commissione, Parlamento, Consiglio e Consiglio
Europeo), le procedure hanno prevalentemente carattere interistituzionale.
Il ruolo rispettivo delle istituzioni varia a seconda del settore di
applicazione: in alcuni settori prevalgono ancora le istituzioni
rappresentative o viene deciso che deliberino all’unanimità, mentre in altri
settori il Consiglio ed il Parlamento sono posti in parità, mentre l’iniziativa
è generalmente presentata dalla Commissione. La disciplina delle
procedure decisionali è stabilita in maniera tassativa dai trattati ed è
inderogabile per le istituzioni: sono previsti due tipi di procedure, quella
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legislativa ordinaria e quelle legislative speciali. Il primo tipo di procedura
consiste nell’adozione congiunta di un regolamento, di una direttiva o di
una decisione da parte del Parlamento e del Consiglio su proposta della
Commissione ed ha applicazione generale. Le procedure legislative
speciali, invece, si applicano solo in casi specifici previsti dai trattati e
prevedono l’adozione di un regolamento, di una direttiva o di una
decisione da parte del Parlamento Europeo con la partecipazione del
Consiglio e viceversa. Si stabilisce quale procedura vada seguita di volta in
volta attraverso la definizione della corretta base giuridica dell’atto che si
intende adottare, ed è cioè necessario comprendere quale disposizione dei
trattati attribuisca alle istituzioni il potere di adottare un determinato atto, e
affinché ciò sia possibile è necessario analizzare lo scopo e il contenuto
dell’atto o, qualora possibile, una base giuridica più specifica. Qualora
l’atto persegua una pluralità di scopi o presenti contenuti differenziati, sarà
necessario dedurre la base dal “centro di gravità” dell’atto, e qualora non
sia possibile determinarne uno, l’atto avrà base plurima.
La procedura legislativa ordinaria
La procedura di legislativa ordinaria era nota, prima del Trattato di
Lisbona, come procedura di codecisione in quanto le due istituzioni
coinvolte, Parlamento e Consiglio, gestiscono in maniera congiunta il
potere decisionale senza che la volontà dell’una prevalga sull’altra. Essa si
fonda su un sistema di letture ripetute che cominciano in seguito alla
proposta della Commissione, che può essere spontanea o frutto di una
sollecitazione del Parlamento, del Consiglio o di altri organi e addirittura
dei cittadini. Partendo dal presupposto che la Commissione è portatrice
dell’interesse generale dell’Unione mentre il Consiglio degli interessi
particolari di ciascuno Stato, il TFUE concede al Consiglio di emendare la
proposta della Commissione solo all’unanimità, sicché solo con il
consenso dei rappresentanti di tutti gli Stati membri è possibile modificare
il testo proposto, in modo che le modifiche proposte corrispondano altresì
ad un interesse generale; tale criterio si applica nel corso della prima e
nella seconda lettura, mentre non è possibile nel corso della terza lettura e
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durante la fase di conciliazione, durante le quali il Consiglio potrà
deliberare solo a maggioranza qualificata attenendosi alla proposte iniziali.
Inoltre, al fine di evitare situazioni di stallo, la Commissione potrà
modificare la propria proposta in ogni fase della procedura o addirittura
ritirarla, in caso l’emendamento prospettato snaturi la proposta iniziale. In
seguito alla proposta della Commissione, indirizzata simultaneamente al
Consiglio e al Parlamento, ha inizio la prima lettura, che consiste
nell’adozione di una posizione da parte di quest’ultimo organo; se la
posizione del Parlamento è conforme alla proposta della Commissione il
Consiglio può approvarla a maggioranza qualificata, se invece la posizione
parlamentare emenda la proposta, il Consiglio per approvarla dovrà
deliberare all’unanimità. Inoltre, qualora il Consiglio non fosse concorde
alla posizione Parlamentare, potrà adottare, a maggioranza qualificata, una
posizione in prima lettura, aprendo in tal caso la seconda lettura, durante la
quale il Parlamento avrà tre mesi di tempo o per approvare la posizione in
prima lettura del Consiglio (anche omettendo di deliberare entro il
termine), o per respingere la posizione (a maggioranza assoluta degli
aventi diritto) o per proporre emendamenti. Nel primo caso, l’atto si
considererà adottato nella formulazione proposta dal Consiglio; nel
secondo caso, la procedura si arresta poichè l’atto si considera non
adottato; nel terzo caso sarà invece previsto l’intervento del Consiglio, che
potrà approvare tutti gli emendamenti del Parlamento, e qualora non lo
facesse si aprirebbe un comitato di conciliazione, avente il compito di
approvare entro sei settimane un progetto comune con la collaborazione
della Commissione, e l’atto si considererà non adottato se il comitato non
riesce ad approvare un progetto comune; in caso contrario si passerà
all’approvazione in terza lettura, durante la quale il Parlamento ed il
Consiglio dovranno approvare un progetto comune entro sei settimane,
oltre le quali l’atto si considera non adottato.
L’ordinamento dell’Unione Europea
Le fonti dell’Unione

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L’ordinamento dell’Unione si fonda su un sistema di fonti di produzione
del diritto articolate secondo una propria gerarchia ed autonome rispetto al
diritto interno degli Stati membri e rispetto all’ordinamento internazionale
generale. In cima alla gerarchia, in quanto diritto primario, vi sono i
trattati, i principi generali del diritto e la Carta dei Diritti Fondamentali
introdotta dal Trattato di Lisbona, avente lo stesso valore giuridico dei
trattati. Si pongono invece come fonti intermedie (in quanto allo stesso
tempo gerarchicamente sottoposte alle fonti primarie ma sopra ordinate
rispetto agli atti di diritto secondario, dai quali devono essere rispettate) le
norme di diritto internazionale e gli accordi internazionali conclusi
dall’Unione. Sono invece posti tra le fonti secondarie gli atti legislativi di
base adottati dalle istituzioni (regolamenti, direttive e decisioni) e gli atti
d’attuazione o d’esecuzione, sottoposti all’atto di base. Gli atti di
attuazione sono atti delegati di natura non legislativa ma di portata
generale, aventi il compito di modificare o integrare elementi non
essenziali degli atti legislativi. Essi sono adottati dalla Commissione su
delega disposta da un atto legislativo disposto congiuntamente da
Parlamento e Consiglio. Gli atti di esecuzione sono invece adottati dalla
Commissione e talvolta dal Consiglio qualora fosse necessaria
un’applicazione uniforme degli atti giuridicamente vincolanti. Gli atti
adottati dalle istituzioni possono essere distinti in base alla loro natura
come atti legislativi o non legislativi in base alla procedura decisionale
applicabile per l’adozione, a sua volta indicata dalla base giuridica
dell’atto, di cui determina pertanto concretamente la natura; la categoria
degli atti non legislativi, cui non viene applicato il processo legislativo
ordinario, è pertanto determinata per esclusione a partire da quella degli
atti legislativi, necessitanti, al contrario della precedente categoria, di
essere adottati in seduta pubblica. Inoltre, è possibile distinguere gli atti in
base alla loro struttura come atti tipici, elencati dal TFUE e di natura
vincolante (regolamenti, direttive e decisioni) o non vincolante (pareri e
raccomandazioni), ed atti atipici, non elencati dal TFUE.
Parte 1: Le fonti primarie

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I trattati, la loro natura giuridica, la revisione e la rescissione
Le fonti del diritto primario dell’Unione sono i trattati TUE e TFUE,
emendabili solo da trattati di revisione e di adesione; godono della
medesima natura giuridica, tuttavia il TFUE ha natura strumentale rispetto
al TUE, integrandone e dettagliandone la disciplina. Nel tempo si è
dibattuto sulla natura dei trattati, assimilabili a, seconda delle opinioni, a
semplici trattati internazionali o ad una carta costituzionale: pur essendo
vero che essi siano stati conclusi secondo le stesse modalità di un normale
trattato internazionale, da una prospettiva interna al diritto dell’Unione essi
sono assimilabili ad una carta costituzionale, definendo la struttura
dell’Unione e le procedure per l’adozione degli atti, oltre che i settori
attribuiti alla competenza dell’Unione; inoltre, la Corte di Giustizia
interpreta i trattati come una costituzione. Appunto, al pari di una
costituzione, i trattati possono essere modificati unicamente attraverso le
procedure di revisione previste dall’art. 48 TUE, e la più importante tra
queste è la procedura di revisione ordinaria, avente applicazione generale.
Essa si avvia in seguito alla presentazione di un progetto di modifica da
parte di qualsiasi Stato membro, della Commissione o del Parlamento al
Consiglio, che trasmetterà l’atto al Consiglio Europeo, cui spetterà
approvare l’atto a maggioranza semplice, previa consultazione del
Consiglio o del Parlamento. In seguito, il Presidente del Consiglio Europeo
si occuperà di convocare una convenzione composta dai rappresentanti dei
parlamenti nazionali, dei capi di Stato o di Governo, del Parlamento e della
Commissione avente il compito di esaminare i progetti fornendo una
raccomandazione per la successiva conferenza intergovernativa (CIG)
(qualora l’entità delle modifiche non giustifichi la convocazione di questa
conferenza preliminare, sarà il Consiglio Europeo a decidere la
raccomandazione a maggioranza semplice previa approvazione del
Parlamento); quest’ultima, composta dai rappresentanti dei governi,
stabilisce di comune accordo le modifiche ai trattati, che, una volta
approvate, saranno ratificate dai Parlamenti nazionali. Anche se non
esplicitamente previsto dall’art. 48, si ritiene che non sia consentita
l’introduzione di norme pregiudicanti il sistema giurisdizionale previsto
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dai trattati, né sono modificabili l’art. 2 TUE, che definisce i valori
dell’Unione, l’art. 6 TUE, prescrivente il rispetto dei diritti dell’uomo, e
l’art. 14 TFUE, che stabilisce il principio del mercato interno. E’ altresì
possibile modificare i trattati attraverso la procedura di adesione prevista
dall’art. 49, secondo la quale può presentare domanda di adesione ogni
Stato europeo (condizione geografica) che rispetti i valori definiti dall’art.
2 (condizione politica). La domanda di adesione è presentata al Consiglio,
che la approva all’unanimità previa consultazione della Commissione e
approvazione parlamentare. Infine, attraverso un apposito trattato concluso
tra gli Stati membri e lo Stato candidato, sottoposto alla ratifica di ogni
Stato membro, sono definite le concrete modifiche ai trattati. Sono dunque
il Consiglio ed il Parlamento a decidere l’ammissione di uno Stato, mentre
sono gli Stati membri a definire il trattato. Il Trattato di Lisbona ha
introdotto la possibilità per ogni Stato di esercitare un diritto di recesso
dall’Unione previa notifica al Consiglio Europeo. Il recesso può essere di
natura concordata, se si arriva alla stipula di un accordo sulle modalità di
recesso tra lo Stato recedente e l’Unione, o unilaterale, qualora non sia
possibile raggiungere un accordo sulle modalità di recesso entro due anni
dalla notifica, oltre i quali gli effetti dei trattati cessano automaticamente di
applicarsi.
Principi generali del diritto
Accanto ai trattati ed alla Carta dei Diritti Fondamentali, sono fonti
primarie del diritto i principi generali, comprensivi dei principi relativi alla
tutela dei diritti fondamentali dell’uomo; si distinguono dai principi
generali i valori dell’Unione, aventi valenza sul piano politico e morale.
Una prima categoria di principi generali è costituita dai principi generali
del diritto dell’Unione, che trovano espressione in determinate norme dei
trattati aventi carattere imperativo ed improrogabile. Uno di questi principi
e quello di non discriminazione, vietante le discriminazioni legate alla
nazionalità, tra produttori e consumatori, tra lavoratrici e lavoratori:
essendo norme generali vanno interpretate in maniera ampia, come accade
in merito alla nozione di discriminazione, per la quale alle discriminazioni
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palesi sono state assimilate quelle indirette. Anche l’applicazione
dev’essere interpretata in maniera estensiva, e tale nozione sarà pertanto
applicata ad ipotesi non espressamente contemplate dalle suddette norme.
Ulteriore manifestazione del principio di non discriminazione è quello di
uguaglianza, il quale impone che situazioni simili siano disciplinate in
maniera simile e che situazioni diverse non siano disciplinate in maniera
uguale, vietando distinzioni di trattamento tra situazioni analoghe e
imponendo il diverso trattamento di situazioni non comparabili. E’ tuttavia
frequente che tale principio porti ad una discriminazione alla rovescia,
ossia ad una situazione in cui una norma di uno Stato preveda per i propri
cittadini un comportamento più severo rispetto a quello riservato quello di
altri Stati membri. Sono altresì principi generali dell’Unione il principio di
libera circolazione, della tutela giurisdizionale effettiva, i principi di
attribuzione, di sussidiarietà e di proporzionalità. Un’altra categoria di
principi è quella dei diritti comuni agli ordinamenti degli Stati membri,
desumibili dall’esame parallelo degli ordinamenti nazionali. I principali
principi sono quello di legalità, in base al quale ogni potere esercitato dalle
istituzioni deve trovare legittimazione in una fonte dei trattati, quello di
certezza del diritto, per il quale i soggetti tenuti a rispettare la norma
giuridica devono essere messi in condizione di poterlo fare e di conoscere
il comportamento imposto dalla norma, quello di proporzionalità, per cui
gli interventi della pubblica autorità limitanti la libertà dei singoli devono
perseguire in maniera idonea una finalità di interesse comune e necessari a
tal fine. Infine, una terza categoria di principi generali è quella
comprendente i principi volti alla protezione dei diritti umani, tutelati da
molteplici fonti elencate dall’art. 6 TUE, anche esterne all’Unione. La
prima di queste è la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea,
avente lo stesso valore giuridico dei trattati; l’Unione riconosce poi la
CEDU (Convenzione Europea Diritti dell’Uomo) ed i diritti fondamentali
garantiti da quest’ultima e dalle tradizioni costituzionali degli Stati
membri, che l’Unione ha incorporato in quanto principi generali. L’Unione
è tuttavia attualmente impossibilitata ad aderire formalmente alla CEDU,
in quanto il controllo esterno della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
15
imporrebbe all’Unione Europea un controllo esterno che ne violerebbe
l’autonomia; fino al momento in cui verrà ultimata l’adesione, l’Unione
sarà vincolata in maniera meramente indiretta dalla CEDU, che costituisce
una fonte di ispirazione per la definizione dei principi generali del diritto
applicabili all’Unione insieme alle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri. Tuttavia, non essendo aderente l’Unione alla CEDU, rimane
da definire la responsabilità degli Stati, che sono invece aderenti, rispetto
ad essa. La Corte EDU ha sottolineato che gli Stati non sono sottratti al
rispetto dei diritti tutelati dalla CEDU, ma che tuttavia essa interverrà solo
nei casi in cui per gli Stati membri sussista un margine di discrezionalità
nell’attuazione degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione, in quanto,
qualora mancasse ogni discrezionalità per gli Stati membri, sarebbe la
Corte dell’Unione a controllare gli Stati membri, rendendo inutili ulteriori
controlli.
La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europa
Essendo i diritti fondamentali rientranti nei principi generali del diritto,
spetta alla Corte il compito di individuare i diritti fondamentali e di
indicarne il contenuto. Per conferire una maggiore prevedibilità alle
sentenze della Corte e data l’impossibilità ad aderire in tempi stretti alla
CEDU, si è deciso di porre per iscritto i diritti fondamentali sulla Carta,
cui è stato attribuito dal Trattato di Lisbona lo stesso valore giuridico dei
trattati (attribuendo pertanto alle norme in essa contenute lo stesso
carattere cogente di quelle dei trattati), riconoscendo e sottolineando di
conseguenza tutti i diritti in essa contenuti. La sua funzione non è dunque
di carattere normativo, poiché non crea nuovi diritti, ma si limita a
riassumere in un unico documento l’elenco e le descrizioni dei diritti
fondamentali ricavabili dalla lettura delle differenti fonti di principi
dell’Unione. Per i diritti della Carta non coincidenti con i diritti previsti
dalle fonti cui la Carta si ispira è stabilita una clausola di compatibilità,
dalla quale è previsto che la Carta non impedisce l’applicazione dei diritti
delle altre fonti quando esse prevedano una tutela più ampia di quella
garantita dalla Carta. Qualora invece la Costituzione di uno Stato
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prevedesse una tutela più ampia, quest’ultimo potrà applicare gli standard
nazionali a patto che non danneggi il livello di tutela previsto dalla Carta
né l’efficacia del diritto dell’Unione; ciò non sarà invece possibile qualora
il grado di tutela sia stato previsto in una norma o in un atto di diritto
dell’Unione. E’ invece previsto dalla clausola di equivalenza che qualora
la Carta contenga diritti corrispondenti a quelli previsti dalla CEDU, essi
avranno un livello di tutela almeno equivalente, se non superiore. La Carta
va interpretata tenendo conto le disposizioni del titolo VII della Carta e le
spiegazioni esplicative, che risultano dunque elevate a fonte interpretativa
obbligatoria.
Il ruolo dei principi generali e della Carta
I principi generali e la Carta svolgono una funzione strumentale, influendo
sull’applicazione di norme derivanti da altre fonti. Infatti assumono rilievo
innanzitutto in quanto criteri interpretativi delle altre fonti dell’Unione, le
cui norme (dei trattati e degli atti) devono essere interpretate alla loro luce,
cosicché l’interprete coglierà il corretto significato di ciascuna norma
attraverso la loro lettura. I principi generali fungono inoltre da parametro
di legittimità per gli atti delle istituzioni, che possono essere annullati o
dichiarati invalidi per violazione di un principio. Infine, fungono altresì da
parametro di legittimità per i comportamenti degli Stati membri quando
questi ultimi, attuando un trattato, non osservi uno dei principi; affinché
dunque un comportamento dello Stato possa essere contestato è tuttavia
necessario un collegamento tra il diritto dell’Unione ed il comportamento
stesso.
Parte 2: Le fonti secondarie
I regolamenti
Il regolamento è un atto avente portata generale e obbligatorio in tutti suoi
elementi, direttamente applicabili in ogni Stato membro. Avendo portata
generale, il regolamento, avente natura normativa, è applicato non a
soggetti predeterminati ma alla generalità; è possibile che il regolamento
definisca requisiti di applicazioni tali da restringere il campo di
17
applicazione, ma questa caratteristica non è comunque messa in
discussione. E’ tuttavia possibile che il contenuto di regolamento sia
determinato in base alla decisione individuale di alcuni soggetti ai quali il
regolamento è applicato, e si parla in caso di un regolamento solo di nome
costituito da una decisione individuale o da un fascio di decisioni
individuali. Il regolamento è altresì obbligatorio integralmente, e cioè in
tutti suoi elementi: ne consegue che gli Stati membri non possono lasciare
inapplicate alcune delle sue disposizioni o limitarne il campo di
applicazione introducendo facoltà di deroga non previste. Il regolamento è
infine direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri: tale
caratteristica comporta innanzitutto che gli ordinamenti interni degli Stati
membri si adatteranno immediatamente ed automaticamente al
regolamento, senza che sia necessario subordinare l’applicazione del
regolamento ad una norma interna, cosicché nel momento stesso in cui i
regolamenti entrano in vigore nell’ordinamento d’origine essi sono
applicabili all’interno di ciascuno Stato membro; in secondo luogo
l’applicabilità diretta implica la capacità di produrre effetti diretti
all’interno di ciascuno degli ordinamenti (efficacia diretta).
Le direttive
La direttiva è un atto che vincola lo Stato membro per il risultato da
raggiungere ma non per la forma ed i mezzi che lo Stato deve adottare; ha
l’obiettivo di ottenere il ravvicinamento delle disposizioni legislative degli
Stati membri in determinate materie. Innanzitutto, al contrario del
regolamento, la direttiva ha portata individuale e non generale e vi sono
dei destinatari definiti per ciascuna direttiva; spesso capita che la direttiva
sia rivolta a tutti gli Stati membri, e si parla in tal caso di direttiva
generale. La direttiva, pur non avendo portata generale, assumono questa
caratteristica dopo l’attuazione da parte degli Stati membri, pertanto si
ritiene che la direttiva sia uno strumento di normazione operante in due
fasi, la prima accentrata a livello dell’Unione, nel corso della quale
vengono fissati gli obiettivi ed i principi generali oggetto dell’obbligazione
statale, e la seconda decentrata a livello nazionale, dove ciascuno Stato
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attua tali obiettivi attraverso strumenti normativi completi e dettagliati. La
direttiva non gode della diretta applicabilità richiedendo che gli Stati la
attuino attraverso apposite misure senza le quali essa non è applicabile; gli
Stati sono dunque tenuti a modificare il loro ordinamento interno in modo
assicurare che sia raggiunto il risultato voluto dalla direttiva; si parla
invece di efficacia diretta della direttiva soltanto in caso essa sia
sufficientemente precisa ed incondizionata. La direttiva, al pari del
regolamento, è obbligatoria in tutti i suoi elementi ma si limita a imporre
agli Stati un risultato da raggiungere, comportando dunque un obbligo di
risultato (il regolamento impone invece un obbligo di mezzo), obbligando
gli Stati ad attuare la direttiva scegliendo i mezzi e le forme più
appropriate. Tale obbligo di attuazione è assoluto per ciascuno Stato
membro al quale la direttiva è rivolta, salvo che lo Stato dimostri che
l’ordinamento interno sia già conforme alla direttiva. L’obbligo va
adempiuto entro il termine di attuazione fissato dalla direttiva stessa, entro
il quale non è possibile adottare provvedimenti in contrasto con la direttiva
(obbligo di non aggravamento). Gli Stati membri sono competenti quanto
alla scelta delle forme e dei mezzi di attuazione, che devono essere idonei
a produrre la modificazione degli ordinamenti interni voluti dalla direttiva:
bisognerà dunque che il legislatore nazionale tenga conto della gerarchia
delle fonti di diritto interno, scegliendo un atto normativa che possa
abrogare una norma già esistente regolante la stessa materia; in secondo
luogo, devono essere scelti strumenti che garantiscano trasparenza e
certezza del diritto.
Le decisioni quadro
Le decisioni quadro erano un atto applicabile nell’ambito del Terzo
Pilastro avente una struttura simile a quella delle direttive, con le quali
condividono lo scopo (ravvicinamento delle disposizioni legislative degli
Stati membri) e la struttura implicante un obbligo di risultato; le decisioni
quadri non godono tuttavia di efficacia diretta. Pur non essendo più
possibile adottarli, i loro effetti giuridici rimangono validi finché abrogati,
annullati o modificati in applicazione dei trattati.
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Le decisioni
La decisione è un atto vincolante che obbliga in tutti i suoi elementi i
destinatari designati (decisioni individuali) o la generalità, qualora questi
non siano individuati (decisioni generali). La decisione individuale risulta
da un’unione di due caratteristiche, ossia l’obbligatorietà integrale propria
dei regolamenti e la non- generalità delle direttive, che vincola i soli
destinatari designati; può essere rivolta non solo a Stati membri, ma anche
ad altri soggetti, compresi i singoli. Le decisioni individuali rivolte agli
Stati sono regolate in maniera analoga alle direttive qualora impongano un
obbligo di facere, che viene imposto in modo più preciso; qualora
l’obbligo sia di non facere, lo Stato destinatario sarà invece tenuto ad
astenersi dall’attività vietata. Le decisioni individuali rivolte ai singoli
hanno invece natura prevalentemente amministrativa e vengono
principalmente adottate nella disciplina della concorrenza. Le decisioni
generali sono generalmente adottate dal Consiglio Europeo in attuazione di
specifiche disposizione dei trattati (composizione Parlamento Europeo).
I presupposti dell’efficacia diretta
Non tutte le norme dell’Unione sono dotate di efficacia diretta, pertanto
ogni giudice nazionale che intenda trarre effetti diretti da una norma ha
l’onere di verificare d’ufficio se la norma presenti le caratteristiche
necessarie anche avvalendosi, se necessario, del rinvio pregiudiziale alla
Corte. Sono state individuate dalla Corte differenti caratteristiche
sostanziali che rendono le norme applicabili dal giudice senza che egli
debba sostituirsi al legislatore facendosi carico di un potere indebito, e
queste sono la sufficiente precisione e l’incondizionatezza. Il presupposto
della sufficiente precisione è relativo alla formulazione della norma, che
nel suo testo deve contenere una disciplina abbastanza definita da rendere
la sua portata comprensibile per i soggetti destinatari (secondo il principio
di certezza del diritto), ed in tal senso è necessario che siano specificati il
titolare dell’obbligo, il titolare del diritto ed il loro contenuto. Il
presupposto dell’incondizionatezza è invece relativo all’assenza di

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clausole che subordino l’applicazione della norma ad ulteriori interventi
normativi, e cioè che consentano un margine di discrezionalità allo Stato.
L’obbligo di interpretazione conforme
Qualora la norma non potesse godere di efficacia diretta è possibile
ricorrere ad alcune forme di efficacia indiretta. La prima forma di efficacia
indiretta consiste nell’obbligo di interpretazione conforme (ampiamente
applicato nell’ambito delle direttive) per il quale i giudici nazionali,
interpretando norme interne, sono chiamati a leggerle alla luce del diritto
dell’Unione, facendo il possibile affinché il risultato voluto dalla direttiva
sia raggiunto: la differenza rispetto alla diretta efficacia (per la quale il
giudice è tenuto a disapplicare la norma configgente con la norma
dell’Unione) risiede nel fatto che egli applica la norma interna, ma
interpretandola in modo aderente a quella dell’Unione. L’obbligo di
interpretazione conforme è applicato innanzitutto all’interpretazione delle
disposizioni che uno Stato membro ha adottato per attuare una direttiva: si
riterrà dunque che lo Stato abbia agito per adempiere agli obblighi
derivanti dalla direttiva. L’obbligo è tuttavia sottoposto ad alcuni limiti:
non è innanzitutto applicabile quando l’interprete sia privo di un margine
di discrezionalità, per cui egli abbia a disposizione differenti
interpretazioni tra cui scegliere; se la norma interna è invece
inequivocabilmente contraria al diritto dell’Unione, l’obbligo viene meno
in quanto non può essere posto alla base di un’interpretazione contra
legem del diritto nazionale. Inoltre, non sorge prima della scadenza del
termine di attuazione della direttiva e l’interpretazione risultante non può
porsi contro i principi generali.
Il risarcimento del danno
Anche se la norma è priva di efficacia diretta, è riconosciuto che essa
possa essere fonte di un diritto di risarcimento del danno a carico dello
Stato al fine di fornire un’altra forma di efficacia indiretta. Così, in caso di
mancata attuazione di una direttiva (per sua natura priva di efficacia
diretta), in seguito al comportamento omissivo degli organi statali che
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impedisce il sorgere del diritto garantito dalla direttiva ai singoli, è
riconosciuto un risarcimento qualora siano rispettate tre condizioni: è
innanzitutto necessario che la norma dell’Unione conferisca ai singoli un
diritto individuabile nella norma stessa, che la violazione della norma sia
sufficiente grave e manifesta e che tra il danno causato e la violazione
sussista un nesso di causalità diretto. I principali organi che possono
causare la responsabilità dello Stato con il loro comportamento omissivo o
commissivo sono gli quelli legislativi, gli enti locali ed il potere
giudiziario.
Il primato del diritto dell’Unione
Molto spesso la norma dell’Unione ha per oggetto materi e aspetti che in
precedenza erano disciplinati da norme interne avente contenuto diverso o
che una norma interna sopravvenuta confligga col diritto dell’Unione:
questi conflitti tra norme sono risolti attraverso il principio del primato del
diritto dell’Unione, seconde il quale le norme nazionali non possono in
alcun modo ostacolare l’applicazione del diritto comunitario all’interno
dell’ordinamento degli Stati membri. Pertanto, la norma comunitaria
direttamente efficace prevale sempre sulla norma interna che ne impedisce
parzialmente o totalmente l’applicazione. All’efficacia diretta va affiancato
il principio del primato poiché in sua assenza si creerebbero diritti in capo
ai soggetti solamente negli Stati in cui non esistono norme confliggenti, e
ciò è inammissibile; parimenti, il principio del primato non vale in assenza
di efficacia diretta poiché la norma comunitaria priva di effetti diretti non
può essere applicata dal giudice che pertanto non può disapplicare la
norma interna incompatibile. Cedono dinanzi al diritto dell’Unione le
norme interne di qualsiasi rango e non sarebbe possibile il contrario, ossia
che l’efficacia vari in base al rango della norma confliggente; è possibile
che il diritto interno prevalga solo in caso la norma interna sia essenziale al
fine di tutelare un diritto fondamentale che sia garantito anche dal diritto
dell’Unione. L’organo attraverso il quale far valere la prevalenza del
diritto comunitario è il giudice nazionale, avente il compito di applicare le
disposizioni di diritto comunitario e di garantire la piena efficacia di tali
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norme, disapplicando d’ufficio qualsiasi disposizione contrastante, e non è
pertanto ammesso che sia sottratto al giudice il potere di disapplicare
immediatamente le norme. E’ altresì previsto che il giudice emani
provvedimenti provvisori affinché la materia sia regolata nel periodo in cui
la norma interna è sospesa per accertamento. Lo Stato avrà l’onere di
abrogare la norma incompatibile.
Il ricorso per infrazione
L’oggetto del ricorso per infrazione è la violazione da parte di uno Stato
membro, inteso nella sua accezione unitaria di organizzazione, di uno dei
suoi obblighi definiti dai trattati o degli atti adottati in base ad essi (ad
esempio l’inattuazione delle direttive entro il termine); il ricorso per
infrazione non è esperibile, tuttavia, in alcune materie come quelle
rientranti nella PESC e in caso di violazione dei diritti dell’uomo, caso in
cui la è richiedibile solo se la violazione rientri nell’attuazione del diritto
dell’Unione. La violazione in oggetto è considerata nel suo manifestarsi e
non è pertanto necessario provare un elemento psicologico né lo Stato può
addurre alcun tipo di giustificazione tratta da eventi interni. Il
procedimento per proporre il ricorso varia a seconda che a richiederlo sia
la Commissione o uno Stato (i singoli non potranno chiedere il
procedimento ma potranno al massimo denunciare una violazione ai
suddetti organi abilitati per sollecitarli ad intervenire). In ogni caso, sono
previste due fasi: la prima fase, di natura preliminare, è quella
precontenziosa, avente la finalità di comporre amichevolmente la
controversia, evitando l’intervento della Corte; è inoltre condizione di
rilevabilità del ricorso alla Corte, e assume di conseguenza carattere
procedurale. La fase contenziosa vera e propria prevede invece il ricorso
alla Corte e l’emanazione di una decisione giudiziaria. Nel caso in cui il
provvedimento sia avviato dalla Commissione, questa avrà la facoltà di
portarlo avanti con maggiore o minore velocità e addirittura di fermarlo.
Nel corso della fase precontenziosa, la Commissione invia allo Stato una
lettera di messa in mora con cui intende richiedere le osservazioni di uno
Stato entro un termine congruo riguardanti determinati comportamenti
23
contestati. Lo Stato presenterà o meno le osservazioni (e nel caso non lo
facesse entro il termine la Commissione passerà alla fase successiva), ed in
base ad esse la Commissione emette un parere motivato mediante il quale
intende esporre in via definitiva le azioni attraverso le quali lo Stato possa
conformarsi e fissa un termine entro il quale compierle. Il parere motivato
è tuttavia un atto non obbligatorio attraverso il quale la Commissione si
limita ad esprimere un parere relativo all’infrazione commessa dallo Stato,
che va tuttavia accertata dalla Corte; lo Stato non è dunque obbligato a
conformarsi al parere motivato, ma lo farà se preferisce evitare il ricorso
alla Corte. Il passaggio alla fase contenziosa è possibile solo dopo che il
termine fissato dal parere motivato sia decorso senza mosse da parte dello
Stato; a questo punto la Commissione potrà chiedere il ricorso alla Corte in
qualsiasi momento (potrebbe ad esempio dare più tempo allo Stato
affinché esso si conformi), e una volta presentato l’azione tardiva dello
Stato non comporta alcuna conseguenza sull’esito del giudizio a meno che
la Commissione non ritiri il ricorso. Alla Commissione spetta l’onere di
dimostrare l’inadempimento dello Stato accusato, ed in seguito la Corte
emetterà una sentenza attraverso la quale si limita a riconoscere che lo
Stato ha mancato ad un obbligo derivato dai trattati: si tratta tuttavia di una
sentenza di mero accertamento che non comporta alcuna condanna;
d’altronde, lo Stato è comunque tenuto a prendere i provvedimenti che
l’esecuzione della sentenza comporta, pena la presentazione di un secondo
ricorso per infrazione da parte della Commissione, che terminerà in questo
caso con una sentenza che condanna lo Stato a pagare una sanzione
pecuniaria. Qualora il ricorso sia proposto da uno Stato membro al fine di
risolvere una controversia tra gli Stati, lo Stato proponente dovrà rivolgersi
alla Commissione che dovrà porre lo Stato accusato nelle condizioni di
presentare le proprie osservazioni; la Commissione dovrà emettere entro
tre mesi un parere motivato, e qualora i tre mesi fossero decorsi senza la
presentazione di un parere, lo Stato potrà chiedere direttamente il ricorso
alla Corte, la quale emetterà una sentenza nelle stesse modalità
precedentemente esposte; la richiesta di un’eventuale secondo

24
procedimento, comportante una sanzione pecuniaria, è tuttavia riservato
alla Commissione.
Le competenze dell’Unione Europea
Le competenze dell’Unione Europea
Non tutte le competenze attribuite all’Unione dai trattati hanno pari natura
e si distinguono, di fatto, tre tipi di categorie. Il primo tipo di competenza è
quella di tipo esclusivo, per la quale è riservato alla sola Unione il potere
di adottare atti legislativi o vincolanti; gli Stati non possono adottare atti
del genere nemmeno in caso di inazione dell’Unione se non in caso di
autorizzazione da parte di quest’ultima o per dare attuazione a dei suoi atti.
L’Unione ha competenza esclusiva in una serie tassativa di settori, ossia
l’unione doganale, nella definizione delle regole di concorrenza, nella
politica monetaria e nella politica commerciale comune. Si ha invece
competenza concorrente nei settori in cui sia gli Stati che l’Unione hanno
il potere di adottare atti legislativi e vincolanti; gli Stati hanno la pienezza
dei loro poteri nella misura in cui l’Unione resta inerte, e al contrario
perdono potere in caso di azione dell’Unione, che può decidere di lasciare
più o meno potere agli Stati membri attraverso la sua azione o la sua
inerzia in determinati ambiti. Infatti, attraverso l’azione dell’Unione
diminuisce la possibilità di azione statale, in quanto gli Stati membri non
possono adottare provvedimenti in materie già oggetto di provvedimenti;
tuttavia, gli Stati riprenderebbero il loro potere in caso tali provvedimenti
venissero abrogati. I settori di competenza concorrente non sono disposti
in maniera tassativa, pertanto un settore ricade in questa categoria se non è
classificato come di primo o di secondo tipo. Vi è inoltre un terzo tipo di
competenza, nel cui ambito l’Unione è tenuta a svolgere la sua attività in
parallelo con gli Stati membri, che vengono sostenuti, coordinati o
integrati dalle azioni svolte dall’Unione, che non possono sostituirsi alla
competenza statale.
Il principio di sussidiarietà

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Il principio di sussidiarietà presuppone l’esistenza di una competenza
attribuita all’Unione poiché attiene all’esercizio di tale competenza, che
viene applicata, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva
(secondo e terzo), soltanto se gli obiettivi dell’azione prevista non possono
essere raggiunti in maniera efficace dagli Stati. Proprio poiché nei settori
di competenza concorrente la sopravvivenza della competenza statale
dipende dall’azione dell’Unione, il principio di sussidiarietà consiste in
una garanzia per gli Stati membri che essa non venga limitata o cancellata.
Il rispetto del principio di sussidiarietà nell’approvazione degli atti è
garantito da alcune garanzie procedurali, una di queste è descritta nel
secondo Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di
proporzionalità, che affida ai parlamenti nazionali la facoltà di esercitare il
controllo sulla corretta applicazione di questi principi. In primo luogo è
effettuato un controllo a livello politico: a ciascun parlamento nazionale e
ad ogni sua camera è attribuito il potere di formulare un parere motivato di
non conformità al principio di sussidiarietà entro otto settimane dalla
trasmissione di un progetto legislativo. A ciascuna camera è affidato un
voto (ai parlamenti unicamerali spettano due voti); qualora almeno l’un
terzo dei voti disponibili fosse espresso per la violazione di tale principio,
si procede allora alla procedura del cartellino giallo, per cui il progetto
dovrà essere riesaminato dal suo autore, che potrà decidere di mantenerlo,
modificarlo o ritirarlo con specifica motivazione. E’ invece applicato il
meccanismo del cartellino arancione se per l’adozione dell’atto si deve
seguire la procedura legislativa ordinaria: se sono stati espressi pareri
negativi che rappresentano la maggioranza semplice dei voti la
Commissione, se decide di mantenere il progetto, dovrà emettere un parere
motivato. Prima della prima lettura si aprirà dunque una fase preliminare,
nel corso della quale basta che il 55% dei membri del Consiglio voti che la
legge non rispetta il principio o che faccia altrettanto il Parlamento a
maggioranza dei voti espressi a far sì che la proposta decada. Dopo il
controllo politico effettuato nelle maniere appena descritte, il controllo del
principio di sussidiarietà spetta al giudice dell’Unione, che dovrà verificare
se l’obiettivo dell’azione potesse essere raggiunto più efficacemente a
26
livello comunitario e se l’azione comunitaria non abbia oltrepassato i limiti
imposti.
L’unione doganale
Secondo l’art.28 del TFUE, l’Unione comprende un’unione doganale che
si estende al complesso di scambi di merci. Una definizione di unione
doganale è stata data dall’Accordo Generale sulle Tariffe e del Commercio
(GATT) concluso a Ginevra nel 1947 e ripresa dall’accordo istitutivo
dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), del 1994.
Costituisce unione doganale la sostituzione di un unico territorio doganale
a più territori doganali, avente per conseguenza l’abolizione dei dazi e
delle regolamentazioni commerciali restrittive e che i dazi doganali
applicati nei confronti degli Stati terzi siano identici nella sostanza. Si
delinea così un aspetto interno, consistente nell’abolizione dei dazi
doganali negli scambi di merci nell’ambito dei territori entro i quali
l’unione doganale è prevista, ed un aspetto esterno, consistente
nell’adozione di un unica tariffa doganale nei confronti degli Stati terzi.
Nell’ambito dell’Unione Europea, l’aspetto interno è assicurato dal divieto
assoluto di dazi doganali e di misure d’effetto equivalente (art.30) , mentre
le regolamentazioni commerciali restrittive sono vietate dagli artt. 34 e
seguenti, proibenti restrizioni quantitative sia all’esportazione che
all’importazione; l’aspetto esterno è invece tutelato dall’art. 31, il quale
prescrive che agli scambi con i Paesi terzi si applichino i dazi della tariffa
doganale comune (TDC).
La cittadinanza dell’Unione
Nel sistema del TFUE la titolarità di alcuni diritti (libera circolazione e
soggiorno, libera circolazione dei lavoratori e di stabilimento, libera
prestazione di servizi) è subordinata al possesso della cittadinanza
dell’Unione. E’ cittadino dell’Unione, ai sensi dell’art.9 TFUE, chiunque
abbia la cittadinanza di uno Stato membro; la cittadinanza dell’Unione
deriva pertanto da quella nazionale di uno Stato membro, che stabilisce
attraverso le proprie norme come attribuirla, e si aggiunge alla cittadinanza
27
nazionale senza sostituirla. Ogni Stato membro non è pertanto legittimato
a non riconoscere la cittadinanza di un altro Stato membro; tale problema
si pone soprattutto in caso di effettiva doppia cittadinanza, di cui almeno
una sia di uno Stato membro. In particolare, si ricava dalla sentenza
Micheletti che in caso di doppia cittadinanza, di cui la prima di uno Stato
membro e la seconda di uno Stato terzo, un altro Stato non può
disconoscere la prima cittadinanza e dare rilevanza solo alla seconda. In
particolare, il sig. Micheletti, cittadino italiano e argentino, desiderava
godere del diritto di stabilimento in Spagna, che glielo negò, essendo
rilevante, in caso di doppia cittadinanza, quella dello Stato in cui si è
registrata l’ultima resistenza; la Corte, esprimendosi, negò che uno Stato
potesse limitare gli effetti della cittadinanza di un altro Stato membro,
pretendendo un ulteriore requisito per il riconoscimento della stessa. Ogni
Stato, tuttavia deve determinare le modalità di acquisizione della
cittadinanza nel rispetto del diritto comunitario, e qualora non lo facesse
l’Unione potrebbe interferire con la libertà degli Stati ed imporre dei limiti
alla loro autonomia, poichè quest’ultima inciderebbe negativamente sul
godimento dei diritti comunitari. Ad esempio, nel caso Rottmann,
quest’ultimo divenne cittadino tedesco per naturalizzazione, perdendo la
cittadinanza austriaca; in seguito a degli accertamenti, le autorità tedesche
si accorsero di una sua pendenza in giudizio e decisero di revocare la
cittadinanza. Il sig. Rottman, tuttavia, si oppose e la Corte accolse la sua
impugnazione poichè egli avrebbe rischiato di diventare apolide, avendo
perso la prima cittadinanza.

La libera circolazione delle merci


Quadro normativo
L’art.26 TFUE prescrive che il mercato interno comporta uno spazio senza
frontiere interne nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci,
delle persone, dei servizi e dei capitali. La libera circolazione delle merci è
garantita dagli artt.28 e 30 del TFUE, vietanti rispettivamente i dazi
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doganali e le misure di effetto equivalente; gli viene poi affiancato
l’art.110, vietante l’applicazione ai prodotti importati da altri Stati membri
di imposizioni interne discriminatorie o protezionistiche. Sono invece
vietate le restrizioni quantitative all’esportazione e all’importazione, oltre
che le misure di effetto equivalente, dagli artt. 34 e 35, fatta eccezione per
le disposizione contenute dall’art. 36, che le consente in deroga degli
articoli sopracitati per motivi di interesse generale. L’articolo 37, infine,
regola i monopoli nazionali aventi carattere commerciale. Le norme
contenute negli artt.28, 30, 34 e 35 prescrivono un divieto assoluto in
termini precisi ed incondizionati, così che la norma sia dotata di efficacia
diretta.
Il divieto di dazi doganali e delle tasse d’effetto equivalente
I dazio doganali all’importazione e all’esportazione, assieme alle misure
d’effetto equivalente, sono oggetto di un divieto assoluto ai sensi degli artt.
28 e 30 TFUE. Infatti la riscossione dei dazi comporterebbe un aumento
del costo dei prodotti importati o esportati, che comporterebbe uno
sfavorimento rispetto alle altre merci. Il divieto riguarda gli scambi di
merci originarie negli Stati membri e sono perciò inclusi i prodotti di Stati
terzi immessi in libera pratica in uno Stato membro; ai prodotti provenienti
da Stati terzi è invece applicato il TDC. S’intende per dazio doganale un
tributo calcolato in percentuale rispetto al valore del bene riscosso al
momento dell’attraversamento delle frontiere. Invece, come è stato
affermato nella sentenza Bauhuis, s’intende per misura d’effetto
equivalente qualsiasi onere pecuniario (a prescindere dalla natura che esso
abbia) imposto unilateralmente in seguito all’importazione o
all’esportazione di un prodotto, il cui effetto sarebbe quello di lasciar
percepire agli Stati prelievi fiscali aventi lo stesso effetto di un dazio
doganale; come viene sottolineato nella sentenza Steinike, tale misura
comporterebbe dunque un aumento del prodotto importato. Affinché
dunque una misura sia classificabile come d’effetto equivalente, è
necessario che si tratti di un onere pecuniario, ossia un versamento di
denaro a favore del soggetto autorizzato per legge alla riscossione, mentre
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sono escluse le prestazioni di contenuto differente; deve trattarsi di un
onere imposto alle sole merci che varchino la frontiera nazionale
all’importazione o all’esportazione; il soggetto cui è stato imposto l’onere
dev’essere obbligato al pagamento, e sono dunque esclusi gli oneri che
costituiscano, al passaggio della frontiera, il corrispettivo di un servizio
effettivamente prestato in seguito a richiesta. Tale servizio deve andare ad
esclusivo beneficio del richiedente e non deve rispondere ad un interesse
generale, come accennato dev’essere effettivamente richiesto e l’onere
riscosso dev’essere proporzionato al servizio reso; infine, deve trattarsi di
un onere imposto unilateralmente (e dunque non direttamente previsti da
norme di diritto dell’Unione per favorire gli scambi) dallo Stato membro
d’importazione o d’esportazione. Nella sentenza LigurCarni la Corte ha
precisato, in relazione ad una norma italiana che imponeva la
sottoposizione a controllo sanitario delle carni importate con conseguente
pagamento di un diritto di visita, che le merci già oggetto di controllo in
uno Stato membro non possono essere unilateralmente oggetto di un
secondo controllo in un altro Stato; inoltre, il diritto di visita non può
essere riscosso essendo un servizio svolto nell’interesse generale.
Il divieto di imposizioni interne discriminatorie o protezionistiche
Il divieto di imposizioni interne discriminatorie o protezionistiche è
imposto dall’art.110, il quale prescrive che nessuno Stato può adottare
direttamente o indirettamente per i prodotti provenienti da altri Stati
imposizioni interne superiori a quelle applicate ai prodotti nazionali simili;
è inoltre vietato applicare imposizioni tese, indirettamente, a proteggere
altre produzioni. E’ dunque riconosciuto che ciascuno Stato posta tassare i
prodotti provenienti da altri Stati membri (che altrimenti sarebbero
avvantaggiati, godendo di un’esenzione fiscale), finché le imposizioni non
siano di natura discriminatoria o protezionistica e cioè superiori a quelle
applicate ai prodotto di origine interna; viene dunque garantita la neutralità
dei tributi interni. Il divieto contenuto al primo comma si applica a prodotti
tra loro simili sia in quanto a fabbricazione sia in quanto alla comparabilità
dell’impiego. Le tasse d’effetto equivalente, vietate in ogni caso, vanno
30
distinte dalle imposizioni interne, vietate solo nella misura in cui esse
siano discriminatorie nei confronti dei prodotti importati o protezionistiche
nei confronti di una produzione; inoltre, come viene sottolineato nella
sentenza Schul, la tassa di effetto equivalente colpisce esclusivamente il
prodotto importato, mentre l’imposizione interna grava indistintamente
sulle merci nazionali e su quelle importate. Il caso Schul si riferiva infatti
all’importazione di un’imbarcazione cui era stata applicata l’IVA;
interrogata la Corte, essa ha riconosciuto l’IVA come un’imposizione
applicabile ad ogni prodotto e pertanto non discriminatoria. Il secondo
comma vieta invece agli Stati di applicare ai prodotti importati da altri
Stati imposizioni interne intese a proteggere indirettamente altre
produzioni. Perchè risulti applicabile è sufficiente che il prodotto
importato si trovi in concorrenza col prodotto nazionale protetto e non è
necessario che sia un prodotto simile. Un tale rapporto di concorrenza si
ha, secondo la giurisprudenza, quando tra i prodotti esiste una certa
sostituibilità; il prodotto importato deve dunque risultare una scelta
alternativa per il consumo quantomeno in determinati casi, e si deve tener
conto di tale rapporto non solo allo stato attuale del mercato, ma anche
tenendo conto dell’evoluzione del conteso. In particolare, il Regno Unito,
reputando vino e birra non in concorrenza a causa delle abitudini di
consumo, applicava al primo un’accisa superiore; in seguito la Corte è
intervenuta sostenendo che lo Stato non possa cristallizzare tali abitudini
attraverso la propria politica fiscale. Una volta accertato il rapporto di
concorrenzialità, occorre osservare se la maggiore tassazione si traduca in
una protezione del prodotto nazionale, ed a tal fine occorrerà osservare
l’incidenza dell’onere sui prodotti concorrenti, valutando se l’imposizione
possa influenzare il mercato diminuendo il consumo potenziale. Ad
esempio, veniva contestato al Belgio di aver imposto alle birre un’aliquota
IVA inferiore a quella del vino, prodotto concorrente, del 6%; tuttavia, la
differenza tra i prezzi dei due prodotti non rendeva rilevante la differenza
di aliquota, non dando origine ad un effetto protezionistico.
Il divieto di restrizioni quantitative e di misure d’effetto equivalente
all’importazione
31
Il divieto di restrizioni quantitative e di misure d’effetto equivalente è
imposto dall’art.34 nell’ambito delle importazioni, mentre è imposto
dall’art.35 per le esportazioni; il contenuto del divieto è perfettamente
identico per la nozione di restrizione quantitativa e di misura, mentre è più
ampia nel campo delle importazioni la nozione delle misure d’effetto
equivalente; la portata dei divieti riguarda gli scambi intracomunitari e non
quelli con gli Stati terzi. Si definisce restrizione quantitativa ogni misura
avente il carattere di proibizione totale o parziale d’importare o esportare
la merce. Per definire la nozione di misura d’effetto equivalente è
innanzitutto necessario definire la nozione di misura, ossia ogni atto e
comportamento riferibile ai pubblici poteri e non a semplici privati;
costituiscono dunque una misura le disposizioni legislative e regolamentari
di uno Stato, oltre che le prassi amministrative. E’ poi necessario definire
la nozione di effetto equivalente alle restrizioni quantitative: consistendo
l’effetto di una restrizione quantitativa in una diminuzione delle
importazioni o delle esportazioni che potrebbero essere effettuate, vanno
considerate misure d’effetto equivalente i provvedimenti di ogni tipo
intrapresi dagli Stati producenti il medesimo risultato. Sarà dunque
necessario chiedersi se la importazioni o le esportazioni sarebbero
maggiori in assenza della norma, e qualora fosse così la norma sarebbe
d’effetto equivalente ad una restrizione quantitativa. Come evidenziato
dalla Corte nella sentenza Dassonville, costituisce una misura d’effetto
equivalente ad una restrizione quantitativa all’importazione ogni
normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare,
direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi
intracomunitari. Il caso Dassonville si riferiva ad un venditore di whiskey
scozzese, che lo importava dalla Francia al Belgio, che per l’importazione
di prodotti aventi denominazione controllata pretendeva un’attestazione
d’origine rilasciata dallo Stato di provenienza; l’importatore era
impossibilitato ad ottenerla pertanto la misura belga, limitando il
commercio possibile, costituiva una misura d’effetto equivalente. Affinché
una misura risulti tale è dunque necessario che essa possa provocare un
ostacolo agli scambi, e si ha dunque ogni volta una determinata normativa
32
nazionale renda meno agevole la commercializzazione. E’ irrilevante quale
sia il tipo di misura e quale sia l’entità dell’effetto restrittivo, e non occorre
dimostrare che la normativa riguardi espressamente le importazioni o gli
scambi transfrontalieri, potendo essere l’ostacolo indiretto o potenziale;
inoltre la qualificazione si applica, oltre che alle misure discriminatorie
(che sottopongono le merci provenienti da altri Stati a requisiti non previsti
per quelle nazionali), altresì a quelle indistintamente applicabili (previste
per qualsiasi merce indipendentemente dall’origine). Sono misure d’effetto
equivalente indistintamente applicabili quelle relative agli ostacoli tecnici
agli scambi, ossia gli ostacoli alla libera circolazione provocati dalla
diversità delle normative tecniche imposte da ogni Stato nel campo dei
prodotti industriali o agroindustriali, applicate a tutti i prodotti, nazionali o
stranieri, posti in commercio in un determinato Stato. La diversità tra le
normative nazionali comporta che il prodotto fabbricato e confezionato in
un determinato Stato secondo le norme tecniche di quest’ultimo non possa
essere commerciato in un altro Stato se non adattandosi alle sue norme. La
Corte è intervenuto a riguardo di queste normative con la sentenza Cassis
de Dijon, nella quale si trattava dell’importazione di un liquore francese
(regolarmente in commercio nello Stato di produzione) in Germania, dove
le operazioni di produzione e vendita erano impedite dalla sua non
conformità alla legislazione tedesca sul contenuto alcolico minimo delle
bevande. Essa affermò che gli Stati possono imporre le normative tecniche
nazionali ai prodotti provenienti da un altro Stato solamente se le
prescrizioni adottate siano necessarie per rispondere ad esigenze
imperative attinenti all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della
salute pubblica, alla lealtà dei negozi commerciali e alla difesa dei
consumatori; nel caso Cassis, la normativa non era necessaria a nessuna
delle dette esigenze. La normativa deve inoltre rispettare il principio di
proporzionalità ed essere pertanto idonea allo scopo di interesse generale
perseguito e non comportare restrizioni eccessive. Qualora una delle due
condizioni non sia rispettata, lo Stato membro d’importazione è tenuto a
consentire la commercializzazione di prodotti non conformi alla propria
normativa che siano legittimamente fabbricati e venduti in un altro Stato;
33
lo Stato d’importazione non potrà pertanto imporre anche il rispetto della
propria normativa e, pertanto, non sarà ammesso il doppio onere
normativo, tuttavia potrà verificare che lo Stato d’origine offra garanzie
analoghe in termini di normative tecniche. Si parla dunque di un obbligo di
mutuo riconoscimento delle legislazioni nazionali, per il quale gli Stati
d’importazione, per il divieto imposto dall’art.34, sono tenuti a permettere
la commercializzazione dei prodotti legalmente in commercio negli altri
Stati perché conformi alla normativa in vigore in quest’ultimo, salvo che
dimostrino che non sia assicurata una protezione equivalente a quella
assicurata dalla propria normativa tecnica. In seguito la giurisprudenza
arrivò a considerare le norme sulle modalità di vendita (concernenti i
metodi di promozione delle vendite, vietanti o sottoponenti ad alcune
limitazioni alcune modalità di vendita) allo stesso modo delle normative
tecniche, e cioè capaci di produrre un effetto restrittivo sulle importazioni.
In un primo momento, queste normative erano sottoposte al test Cassis; nel
corso della sentenza Keck, invece, la Corte ha precisato che non sempre le
norme sulla modalità di vendita producono un effetto restrittivo, e ciò
accade quando una delle la norme in questione non sia applicabile a tutti
gli operatori interessati e quando renda bloccato ai prodotti importati
l’accesso al mercato nazionale. Il concetto di effetto equivalente alle
misure restrittive all’esportazione è più ristretto rispetto a quello che si ha
nel caso delle importazioni: una misura non deve infatti produrre
solamente effetti restrittivi, ma deve altresì avere carattere discriminatorio
ed applicarsi, pertanto, ai soli prodotti destinati all’esportazioni e non a
quelli destinati al mercato nazionale, e sfuggono dunque al divieto le
misure indistintamente applicabili. Dalla sentenza Groenveld la Corte ha
cominciato a distinguere tra misure analoghe alle normative tecniche e
misure analoghe alle normative sulle modalità di vendita dei prodotti. Il
primo tipo di normativa non può costituire una misura d’effetto
equivalente all’esportazione, essendo imposta ad ogni prodotto fabbricato
nello Stato membro; nel secondo caso, invece, un prodotto d’esportazione
può risultare pregiudicato dalla normativa che vieti o limiti determinate
modalità di vendita o di promozione delle vendite. Ad esempio, nel caso
34
Gysbrechts la Corte ha dichiarato incompatibile con l’art.35 una normativa
belga che vietava al venditore di chiedere all’acquirente un acconto o il
numero della carta di credito prima dell’acquisto, producendo questo
divieto una restrizione sulle vendite transfrontaliere concluse via internet.
Le deroghe al divieto di restrizioni quantitative
Il TFUE ha previsto una clausola che consente di considerare ammissibile
un provvedimento nazionale qualificabile come restrizione quantitativa o
misura d’effetto equivalente nell’art.36, il quale prescrive che le
disposizioni degli artt.34 e 35 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni
all’importazione e all’esportazione giustificati da motivi di moralità
pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e
della vita di persone e animali, della proprietà industriale e commerciale;
tuttavia tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di
discriminazione arbitraria né una restrizione dissimulata al commercio tra
gli Stati membri. Essendo un’eccezione al principio della libera
circolazione, l’art.36 dev’essere interpretato in maniera restrittiva e non
può essere pertanto applicata a misure di tipo diverso da quelle
espressamente contemplate. Nella sentenza Bauhuis, ad esempio, la Corte
ritiene inammissibile giustificare la pretesa di diritti di controlli sanitari su
carni importate (effetto equivalente ad un dazio) giustificata alla luce
dell’art.36; l’elencazione degli interessi generali va inoltre considerata
tassativa, ed è proprio per il rifiuto di estendere l’art.36 che è stato
elaborato il test Cassis, il quale si applica ad un’ampia lista di interessi di
ordine generale idonei a rendere necessaria l’applicazione della norma
tecnica statale. Particolarmente ampia è la nozione di proprietà industriale
e commerciale, includente i diritti di brevetto per invenzioni industriali,
marchi d’impresa e diritti d’autore, aventi carattere territoriale con
ciascuno Stato che accorda i diritti per quanto riguarda il rispettivo
territorio nazionale; il titolare del diritto di proprietà industriale avrà il
potere esclusivo di sfruttarlo economicamente sul territorio dello Stato
membro dalla cui legislazione è stato accordato. Il titolare del diritto potrà
opporsi all’importazione di prodotti provenienti da altri Stati membri che
35
violino il suo diritto esclusivo, in deroga (restrittiva) all’art.34. Non si
vuole tuttavia tutelare i diritti attribuiti in maniera abusiva, creando
suddivisioni artificiali nell’ambito del mercato comune; per distinguere tra
forme di esercizio legittime ed abusive la giurisprudenza tende ad
identificare l’oggetto specifico del diritto di proprietà, e qualora il diritto di
privativa lo travalichi non potrebbe essere più invocato. Ad esempio, il
diritto di privativa viene esaurito in seguito alla prima immissione del
prodotto brevettato o munito di marchio nel territorio di uno degli Stati
membri, quando l’immissione sia stata fatta dal titolare o col suo consenso.
Libera circolazione delle merci e dei monopoli pubblici
L’art.37 si occupa della possibilità degli Stati di mantenere alcuni
monopoli pubblici a carattere commerciali in quanto strumenti per il
perseguimento di obiettivi di interesse pubblico, intesi come qualsiasi
organismo per mezzo del quale uno Stato membro controlla, dirige o
influenza direttamente o indirettamente le importazioni o le esportazioni
tra gli stati membri. E’ da considerarsi incompatibile qualsiasi misura
adottata nel quadro di un monopoli di carattere commerciale che abbia per
effetto di svantaggiare, in diritto o in fatto, lo scambio di merci in
provenienza da altri Stati membri rispetto a quelle nazionali.
Il diritto di stabilimento e la libera prestazione di servizi
Quadro normativo
I trattati prevedono la libera circolazione dei servizi e dunque il libero
svolgimento delle attività autonome attraverso gli artt.49-55, i stabiliscono
il diritto di stabilimento, e attraverso gli artt.56-62, che prevedono invece
la libera prestazione di servizi: essi si applicano a seconda che l’attività
venga svolta in uno Stato membro in maniera permanente o temporanea.
L’art.49 e l’art.56 vietano le restrizioni rispettivamente della libertà di
stabilimento e della libera prestazione di servizi; gli artt.49 e 57 estendono
poi ai soggetti che esercitano tali libertà il diritto di trattamento nazionale;
gli art.50 e 53 (per il diritto di stabilimento) e l’art.59 (per la libera
prestazione di servizi) stabiliscono poi apposite basi giuridiche per
36
l’adozione di direttive volte a facilitare l’esercizio delle libertà, e tra queste
vanno ricordate la direttiva servizi 2006/123 e la direttiva qualifiche
professionali 2005/36; dagli artt.50 e 52 sono poi stabilite alcune deroghe
applicabili anche in campo di libera prestazione grazie ad un richiamo
dell’art.62, che si collega altresì all’art.54, che estende entrambe le libertà
alle società commerciali.
I beneficiari
Rientrano nel campo di applicazione degli artt.49 e 56 i soggetti che
prestano un’attività autonoma (esercitata senza vincolo di subordinazione
rispetto al destinatario della prestazione) di tipo economico, che preveda
cioè una retribuzione; non è invece definito l’oggetto dell’attività.
Rientrano nel campo di applicazione di questi diritti altresì le società
aventi l’amministrazione centrale o il centro di attività principale
all’interno dell’Unione. Tuttavia, le società di cui all’art.54 godono solo
del diritto di stabilimento secondario, potendo esse aprire agenzie,
succursali o filiali in uno Stato diverso da quello della sede, ma non
potendo trasferire quest’ultima da uno Stato all’altro se non previa
autorizzazione di entrambi gli Stati interessati. Si è avuta una simile
fattispecie nella causa Daily Mail, nel corso della quale questa società
voleva trasferire nei Paesi Bassi la propria direzione ma fu bloccata dalle
autorità del Regno Unito; interrogata la Corte, essa affermò che le società
non dispongono ancora di tale diritto. Sono inoltre rientranti tra i
beneficiari della libera prestazione di servizi altresì i destinatari della
prestazione, e così è stata considerata la signora Luisi, nella cui causa
veniva contestata una normativa italiana che imponeva un limite massimo
di valuta straniera da acquisire; la signora necessitava tuttavia di somme
maggiori, e la Corte ha ritenuto incompatibili tali limitazioni con l’art.56,
considerandovi altresì rientrante tra i beneficiari il destinatario di un
servizio che si rechi in un altro Stato per usufruire della prestazione. Sono
inoltre ritenuti meritevoli di tutela altresì le fattispecie relative a soggetti
stabiliti nel proprio Stato membro che, senza spostarsi fisicamente in altri

37
Stati membri per svolgere la loro attività, abbiano tra i loro clienti anche
soggetti stabiliti in altri Stati membri.
La distinzione tra stabilimento e prestazione di servizi
Il diritto di stabilimento si riferisce ai soggetti che intendano stabilirsi ed
esercitare stabilmente un’attività autonoma di carattere economico in uno
Stato membro nel quale non era precedentemente stabilito; la libera
prestazione, invece, è riferita ai soggetti che vogliano prestare la propria
attività in uno Stato membro diverso da quello in cui è stabilito senza
stabilirsi in quest’ultimo. I primi sono soggetti ad un controllo più stresso
da parte dello Stato membro ospitante, il quale può imporre condizioni
d’accesso e d’esercizio che non sarebbero invece richiedibili a coloro i
quali agiscono in regime di libera prestazione. In linea di principio, si ha
che l’attività effettuata in regime di stabilimento sia assoggettata alla legge
dello Stato membro ospitante, mentre quella effettuata in libera prestazione
è assoggettata alla legge dello Stato membro d’origine (home country).
Tuttavia, la differenza tra l’uno e l’altro regime risiede nel carattere stabile
o temporaneo dell’attività svolta: infatti, se da un lato dall’art.57 si legge
che il prestatore può esercitare a titolo temporaneo la sua attività nello
Stato membro, nel corso della sentenza Gebhard è stato affermato che il
diritto di stabilimento implica la possibilità di partecipare in maniera
stabile e continuativa alla vita economica di uno Stato membro. Per
stabilire se l’attività sia stabile o temporanea non possono tuttavia essere
applicati criteri quantitativi (cosicchè un libero prestatore operante in una
pluralità di prestazioni non abbia necessariamente l’obbligo di stabilirsi)
ed è invece in alcuni casi applicabile il principio di prevalenza: qualora
l’attività svolta nello Stato ospite sia prevalente rispetto a quella svolta
nello Stato d’origine sarebbe possibile escludere il regime di libera
prestazione (e viceversa). Nemmeno è possibile utilizzare criteri circa la
durata dell’attività o la frequenza della presenza del prestatore nello Stato
della prestazione, rientrando nel campo di applicazione dell’art.56 anche
servizi la cui prestazione si estende per un periodo prolungato, salvo che
un prestatore si trattenga a lungo in uno Stato ospite accettando di svolgere
38
numerose operazioni solo nell’ambito di tale Stato, com’è accaduto nel
caso Gebhard, avvocato tedesco operante in Italia. La disponibilità di una
sede da parte del prestatore, inoltre potrebbe costituire la prova del
carattere non temporaneo di un’attività autonoma nel caso in cui essa non
sia proporzionata ad un’attività di natura temporanea.
Il diritto di stabilimento
Il diritto di stabilimento è previsto dall’art.49, che vieta le restrizioni alla
libertà di stabilimento. Tale diritto si articola in due forme,
a) la prima è riferita ai cittadini di Stati membri che si stabiliscono nel
territorio di un altro Stato, insediandovi il proprio unico centro di attività
(libertà di stabilimento primario);
b) vi è poi il diritto da parte dei soggetti di aprire agenzie, succursali o
filiali, ossia centri di attività subordinati a quello principale, in uno Stato
membro diverso da quest’ultimo (diritto di stabilimento secondario).
Il diritto di stabilimento primario
Il diritto di stabilimento primario ha un doppio contenuto. Da un lato
conferisce ai cittadini di uno Stato membro il diritto di accesso e di
esercizio di attività autonome in un altro Stato membro (che può avvenire
anche attraverso la costituzione e la gestione di imprese controllate dal
soggetto interessato). In tal senso, è vietata qualsiasi normativa che
impedisca ai cittadini di altri Stati membri di svolgere determinate attività
che sarebbero invece consentite ai soli cittadini nazionali (clausole di
nazionalità). Dall’altro lato è vietato imporre ai cittadini di altri Stati
membri che intendano insediarsi condizioni diverse da quelle imposte ai
cittadini degli altri Stati membri, secondo il principio del trattamento
nazionale; tale principio è violato quando, pur essendo concesso lo
stabilimento di attività autonome, vi sono disposizioni che assoggettano i
cittadini di altri Stati membri a condizioni meno favorevoli, dando luogo a
discriminazioni dirette; il principio del trattamento nazionale è altresì
violato quando, pur applicandosi la norma in base a criteri diversi dalla
39
nazionalità, discrimini di fatto i cittadini di altri Stati membri, per i quali
risulterebbe più difficile soddisfare i criteri d’applicazione della norma,
dando luogo ad una discriminazione indiretta (possibilità di esercitare
talune attività subordinata a requisiti di residenza). Vi sarebbe inoltre una
discriminazione materiale una normativa indistintamente applicabile
sfavorisca di fatto i cittadini di altri Stati membri.
Il diritto di stabilimento secondario
Il diritto di stabilimento secondario consente ai soggetti già stabiliti in uno
Stato membro di aprire e gestire in un diverso territorio un secondo centro
d’attività subordinato al principale (agenzie, succursali o filiali), senza
rinunciare allo stabilimento nel primo Stato. Il diritto di stabilimento
secodario, così come il primario, ha un doppio contenuto: da un lato è
affermato il diritto di apertura di una filiale, come prima esposto, che
spetta anche quando quest’ultima rappresenta l’unico o il principale centro
di attività di una società, com’è stato affermato nella sentenza Centros,
nella quale una società registrata nel Regno Unito, dove non aveva tuttavia
mai svolto attività commerciale, potesse godere di tale diritto in
Danimarca. Dall’altro lato è esteso il principio di trattamento nazionale
altresì a questo campo: per stabilire se vi sia o meno discriminazione si fa
riferimento ai soggetti che nel territorio dello Stato membro hanno lo
stabilimento principale, il cui trattamento dev’essere corrispondente a
quello riservato a coloro che godono del diritto di stabilimento secondario.
La libera prestazione di servizi
Come per il diritto di stabilimento, il diritto di libera prestazione di servizi
ha un doppio contenuto stabilito dagli artt.56 e 57: Da un lato è attribuito
al prestatore stabilito in uno Stato membro (home country) il diritto di
esercizio temporaneo della propria attività in uno Stato membro diverso
(host country). In tal senso sono vietate le clausole di nazionalità e quelle
di residenza, che escludono da una determinata attività i soggetti stabiliti
all’estero (caso Transporoute, legislazione lussemburghese che esigeva un
permesso di stabilimento dalle imprese che intendessero partecipare alle
40
gare d’appalto), salvo che che sia provato che siano necessarie a
raggiungere uno scopo d’interesse generale. Dall’altro lato è imposto il
principio del trattamento nazionale, ferma restando la possibilità di uno
Stato di disciplinare l’esercizio delle attività autonome a determinate
condizioni come il possesso di una qualifica professionale, purché siano le
stesse condizioni applicabili ai cittadini dello Stato in questione. Accanto
alle discriminazioni dirette basate sulla nazionalità sono state riconosciute
come discriminazioni indirette tutte le forme di discriminazioni
dissimulate che, sebbene basate su criteri in apparenza neutri, producano il
medesimo risultato discriminatorio. Tra di esse si inseriscono innanzitutto
le discriminazioni in base al luogo di stabilimento del prestatore, causate
da normative che prevedono un trattamento diverso e meno favorevole per
i liberi prestatori rispetto ai soggetti stabiliti (normativa francese che
vietava ai soli medici stabiliti in altri Stati di visitare più di un paziente per
un periodo complessivo di due giorni); vi sono poi normative che
contengono discriminazioni in base al luogo in cui è stata effettuata la
prestazione, subordinanti la concessione di un determinato trattamento di
favore alla condizione che la prestazione sia avvenuta nello Stato membro
che concede il trattamento e non in Stati diversi (causa Laboratoires
Fournier, nella quale è contestata una normativa francese che prevedeva un
credito per le sole attività di ricerca svolte su territorio nazionale). Tali
discriminazioni (in base al luogo di stabilimento o di svolgimento della
prestazione) non sono vietate se è possibile invocare una giustificazione
basata su considerazioni obiettive estranee alla nazionalità e che rispetti il
principio di proporzionalità (salvaguardia del sistema fiscale invocata nella
causa Bachmann, giustificante la distinzione di trattamento fiscale tra
polizze stipulate da compagnie belga e quelle stipulate da compagnie
stabilite altrove).

Ostacoli non discriminatori al diritto di stabilimento e della


prestazione di servizi
41
Una restrizione al diritto di stabilimento o alla libera prestazione di servizi
può derivare da norme indistintamente applicabili a tutti coloro i quali
svolgano una determinata attività autonoma: in tal senso, una normativa
applicabile sia ai prestatori stabiliti sia a quelli operanti in libera
prestazione può comportare una restrizione alla libera prestazione ed è
pertanto oggetto del divieto ai sensi dell’art.56, prescrivente inoltre il
divieto di qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità. Tale
orientamento si è manifestato per la prima volta nella sentenza Webb, nella
quale la Corte era chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con gli
artt.56-57 della legislazione olandese, in base alla quale l’impresa in
questione, operante già nel Regno Unito sulla fornitura di manodopera,
volendo operare in regime di libera prestazione nei Paesi Bassi
necessitasse di un’ulteriore autorizzazione come qualsiasi altra impresa. La
Corte, facendo salvo il diritto da parte dello Stato di subordinare un’attività
ad un regime di licenze per la difesa del pubblico interesse, ritiene che la
normativa imposta dallo Stato vada oltre l’obiettivo perseguito qualora lo
Stato membro richieda le medesime documentazioni per il rilascio del
documento: il prestatore sarebbe in questo modo sottoposto ad una doppia
imposizione normativa, dando luogo ad una discriminazione materiale.
Nella sentenza Webb la Corte ha dunque chiarito che:
a) la normativa che disciplina in uno Stato membro l’accesso e l’esercizio
di una determinata attività e si applica indistintamente a tutti coloro che la
vogliono svolgere può costituire un ostacolo alla libera prestazione dei
servizi;
b) questo ostacolo sfugge tuttavia al divieto se è giustificato da motivi di
pubblico interesse;
c) bisogna, in ultima analisi, verificare che il pubblico interesse non sia già
difeso dalla normativa cui è sottoposto il prestatore nel proprio Stato.
Si è articolato dunque il test Webb, cui sono sottoposte le normative
nazionali indistintamente applicabili a prestatori stabiliti e non. Affinché

42
possa essere applicata ai prestatori non stabiliti senza creare restrizione alla
libera prestazione, essa deve:
a) applicarsi in modo non discriminatorio;
b) essere giustificata da motivi di interesse pubblico;
c) essere idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito;
d) non andare oltre quanto necessario per il suo conseguimento.
La Corte ha esteso tale orientamento altresì al diritto di stabilimento: tale
libertà può essere ostacolata dall’applicazione di norme indistintamente
applicabili a tutti coloro che esercitano una determinata attività in tale
Stato membro. Tale orientamento è stato espresso nella sentenza Gebhard,
nella quale la Corte ha ritenuto una restrizione alla libertà di stabilimento
l’obbligo di iscrizione al competente ordine professionale imposto a tutti
gli avvocati, e per verificarlo è stato applicato un test del tutto analogo a
quello visto per la sentenza Webb; va tuttavia sottolineato che nell’ambito
di alcune sentenze sia stato verificato se la normativa oggetto d’esame
pregiudicasse l’accesso al mercato per gli operatori economici di altri Stati
membri. Essendo i due test uguali, la Corte non ritiene necessario accertare
di volta in volta se il caso in esame riguardi una restrizione all’una o
all’altra libertà, sebbene sia stato criticato che la pretesa dello Stato di
stabilimento affinché la propria normativa sia rispettata dovrebbe essere
ammessa in più casi, non essendo il soggetto stabilito sottoposto ad
alcun’altra disciplina che non sia quella dello Stato ospitante. Tale
soluzione è stata ampliata finanche all’art.45, sulla quale la giurisprudenza
ha concluso che vieti anche le disposizioni di uno Stato membro che, pur
applicandosi indistintamente, ostacolino l’esercizio della libera
circolazione dei lavoratori. Tale orientamento è stato evidenziato nella
sentenza Bosman, nel corso della quale la Corte ha ritenuto inammissibile
che vada versata un’indennità anche qualora l’acquirente del calciatore in
questione non sia belga, in quanto vi sarebbe un impedimento al giocatore
che voglia svolgere la propria attività in uno Stato differente dal suo.

43
La direttiva servizi 2006/123
La direttiva servizi è rivolta a disciplinare il diritto di stabilimento e la
libera prestazione di servizi prevedendo una disciplina applicabile a tutti i
settori di attività salvo quelli espressamente esclusi dall’art.2; riprendendo
e sviluppando molti dei principi affermati in giurisprudenza, si tratta di una
direttiva di codificazione, che ha tra l’altro consentito il raggiungimento di
un grado di liberalizzazione maggiore. Il tema del diritto di stabilimento è
affrontato nel Capo III, rivolto a facilitarne l’esercizio attraverso
l’introduzione di norme sui regimi di autorizzazione (qualsiasi procedura
che obbliga un prestatore o un destinatario a rivolgersi ad un’autorità
competente allo scopo di ottenere una decisione formale relativa
all’esercizio di un’attività) e sui requisiti (qualsiasi obbligo, divieto o
condizione imposto a chi voglia esercitare una determinata attività),
limitanti il potere degli Stati a favore dei prestatori che intendano stabilirsi
in uno Stato membro diverso dal proprio e dei prestatori che vogliano
esercitare un’attività di servizi nel proprio Stato membro. A favore di
coloro i quali rientrano nella prima categoria, la direttiva ha il merito di
aver codificato i principi espressi dalla giurisprudenza; ai soggetti
appartenenti alla seconda categoria, i quali ricadono in situazioni interne
cui non sarebbe applicabile l’art. 49, è stato conferito il diritto di opporsi al
regime di autorizzazioni o alle condizioni imposte allo Stato membro,
salvo che questi siano giustificati da un motivo imperativo. Il Capo IV si
occupa invece della libera prestazione dei servizi e si applica alle
situazione transfrontaliere: nella sezione 1, destinata ai prestatori, in
particolare nell’art.16 vengono innanzitutto ribaditi gli obblighi a carico
degli Stati membri in relazione all’art.56 (obbligo di rispettare il diritto dei
soggetti stabiliti in un altro Stato membro di esercitare un’attività di servizi
e l’obbligo di permettere il libero accesso a tali attività); in seguito è
ammesso che gli Stati membri possano subordinare l’accesso di un’attività
di servizi a requisiti purché siano rispettate le condizioni di a) non
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discriminazione, b) necessità e c) proporzionalità, e solo se sussistono
ragioni relative all’ordine pubblico, alla pubblica amministrazione, alla
salute pubblica o alla tutela dell’ambiente. Nella sezione 2 viene invece
affrontata la situazione dei destinatari dei servizi: nell’art.19 viene
affermata la protezione del destinatario che voglia utilizzare un servizio
fornito da un altro Stato membro da ostacoli discriminatori apposti dal suo
Stato, cui è vietato imporre norme che richiedano un’autorizzazione delle
autorità competenti; nell’art.20 al destinatario viene offerta protezione
dalle discriminazioni dello Stato membro in cui si svolge la prestazione, al
quale sono vietate discriminazioni sulla nazionalità o sulla residenza.
Il riconoscimento delle qualifiche personali
Ai fini dell’esercizio del diritto di libero stabilimento e della prestazione di
servizi è necessario che le qualifiche professionali in possesso di un
soggetto possano valere in tutti gli Stati membri; se così non fosse, il
prestatore potrebbe esercitare l’attività esclusivamente nel territorio del
proprio Stato. In particolare, l’art.53 prevedeva che le istituzioni
approvassero, secondo la procedura legislativa ordinaria, direttive che si
occupassero di questo tema; il ritardo con cui sono state adottate ha spinto
la Corte a chiedersi se il riconoscimento delle qualifiche possa derivare
direttamente dagli art.45, 49, 56 del TFUE. In un primo momento è stato
affermato che in mancanza di direttive applicabili gli Stati membri sono
tenuti a concedere il riconoscimento dei diplomi ai cittadini che intendano
esercitare uno dei loro diritti tutte le volte che ciò risulti possibile in
applicazione delle norme nazionali, che devono essere interpretate ed
applicate in conformità con gli obiettivi del TFUE (causa Thieffry). In
seguito venne affermato, nel corso della causa Vlassopoulou, che lo Stato
membro è tenuto a prendere in considerazione i certificati che l’interessato
ha acquisito e raffrontarli con quelli richiesti per l’accesso ad una
determinata professione nello Stato in questione.
Direttiva qualifiche professionali 2005/36

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Nel corso degli anni sono state emanate numerose direttive, le quali sono
state poi raccolte nel testo della 2005/36.
La direttiva distingue due casi:
a) la persona in possesso della qualifica professionale ottenuta nello Stato
membro intenda avvalersi della stessa per operare in regime di libera
prestazione: in tal caso non è riconosciuto più un vero e proprio
riconoscimento, non potendo gli Stati limitare la libera prestazione del
servizio se il prestatore è legalmente stabilito in uno Stato membro per
esercitare la stessa professione. Il prestatore dovrà inviare tuttavia alle
autorità competenti una dichiarazione preventiva con allegati i documenti
che provino il suo diritto e gli saranno inoltre imposti alcuni obblighi di
informazione per i destinatari dei servizi; non sarà tuttavia consentito allo
Stato richiedere l’iscrizione ad un’organizzazione professionale di settore.
b) La persona in possesso della qualifica intende di avvalersi della stessa in
regime di stabilimento come lavoratore subordinato o autonomo. La
direttiva prevede in tal caso tre diversi regimi di riconoscimento.

 Il primo tra questi è il regime generale, avente portata generale in


quanto applicabile a tutti i diplomi per i quali non sia applicabile un
altro sistema di riconoscimento disciplinato dalla direttiva. Questo
sistema si basa sull’idea che il livello e la durata della formazione
necessaria all’accesso a determinate professioni è omogenea in tutti i
vari Stati membri, di conseguenza (salvo le eccezioni indicate dalla
direttiva) lo Stato che subordini al possesso di tali qualifiche
l’accesso a determinate professioni, deve permettere l’accesso a
queste ultime al cittadino in possesso dell’attestato di competenza. Il
riconoscimento non è tuttavia automatico, bensì sottoposto ad una
verifica da parte dell’autorità, la quale mira a verificare che il livello
di qualifica conseguito sia equivalente; la verifica può portare a
provvedimenti di compensazione che colmino le differenze tra le
qualifiche o ad un accesso parziale alla professione, ossia solo ad
alcune delle attività rientranti nella qualifica professionale.
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 Il secondo regime è quello del riconoscimento dell’esperienza
professionale, riguardante le attività di carattere industriale,
artigianale e commerciale. Si tratta di attività per cui l’accesso è
subordinato al possesso di conoscenze e competenze, per il cui
riconoscimento lo Stato riconosce come prova sufficiente l’attività
nell’altro Stato.
 Il terzo regime è il riconoscimento in base al coordinamento delle
condizioni minime di formazione, applicabile per un numero ristretto
di professioni, per le quali in passato erano state emanate direttive
settoriali volte ad armonizzare le disposizioni legislative in merito
all’accesso alla professione. Ogni Stato membro riconosci i titoli di
formazione che danno accesso a tali professioni, riconoscendogli gli
stessi effetti che il titolo avrebbe se rilasciato sul territorio dello Stato
stesso.
La persona interessata, in ognuno di questi casi, dovrà sottoporsi ad una
procedura di riconoscimento delle proprie qualifiche: l’autorità competente
dovrà completare la procedura di riconoscimento entro tre mesi, ed il
titolare della qualifica riconosciuta avrà il diritto di usare il medesimo
titolo utilizzato nello Stato membro di stabilimento. Va infine sottolineato
che sarà necessaria, ai fini dell’esercizio, la conoscenza delle lingue dello
Stato ospitante. La situazione, per il riconoscimento delle qualifiche
professionali degli avvocati, è regolata in maniera particolare. Può
avvenire o attraverso il regime generale precedentemente descritto o
attraverso una strada semplificata, regolata dalla direttiva 1998/5. Secondo
tale direttiva, l’avvocato può esercitare la propria professione in un altro
Stato in maniera stabile a condizione che usi il proprio titolo professionale
espresso nella lingua dello Stato membro d’origine; il professionista
acquisirà il titolo dello Stato membro dopo un’attività effettiva e
permanente riguardante il diritto dello Stato in questione.

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